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Italian Pages 384 [261] Year 2022
Mirella Zanobini, Maria Carmen Usai
Psicologia della disabilità e dei disturbi dello sviluppo Elementi di riabilitazione e d'intervento Nuova edizione aggiornata e ampliata
n RIO
LIBRO NON
SOTTOLINEATO
Indice
Presentazione della nuova edizione, di Mirella Zanobini, Maria Carmen Usai pag. 11
1. Disabilità: definizione, diagnosi, intervento, di Mirella Zanobini 1. Disabilità: l'evoluzione delle definizioni 2. Disabilità: il problema della diagnosi 2.1. Profilo di funzionamento e ICF 2.2. Profilo di funzionamento e diagnosi di sviluppo 3. Disabilità: il problema dell'intervento
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Parte I - Le tipologie 2. Disabilità uditiva, di Mirella Zanobini 1. Premessa
2. Tipo di sordità e cause 3. Lo sviluppo dei bambini sordi 3.1. Sviluppo affettivo e sociale 3.2. Sviluppo cognitivo e della memoria 3.3. Sviluppo linguistico
4. I metodi riabilitativi
4.1. Metodo bimodale 4.2. Educazione bilingue 4.3. Metodo orale classico 4.4. Metodo verbo-tonale 4.5. Uso delle tecnologie informatiche
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4.6. Il metodo creativo, stimolativo, riabilitativo della
comunicazione orale e scritta con le strutture musicali di Zora Drezancié
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4.6.1. I principi
4.6.2. I programmi
4.6.3. I procedimenti pedagogici (canali) 5. Conclusioni
3. Disabilità visiva, di Maria Carmen Usai, Elena Cocchi, Elisabetta Capris 1. Cecità e ipovisione 2. Lo sviluppo nel bambino non vedente 2.1. Sviluppo motorio 2.2. Sviluppo cognitivo 2.3. Sviluppo affettivo e sociale 2.4. Sviluppo linguistico 3. Le disabilità multiple 4. Interventi riabilitativi ed educativi 4.1. Training e strumenti per il potenziamento dell'efficienza visiva 4.2. Strumenti per vicariare la funzione visiva 4.3. Strumenti di orientamento e mobilità 4.4. Interventi educativi
4. Disabilità motoria, di Maria Carmen Usai, Valentina De Franchis 1. Introduzione 2. La paralisi cerebrale infantile 2.1. Cause 2.2. Classificazione delle PCI 2.3. I deficit associati 3. Lo sviluppo della conoscenza 4. L'apprendimento e il controllo motorio nel bambino con
PCI
5. La valutazione 6. La spina bifida 7. Lo sviluppo psicologico 8. Gli aspetti relazionali
8.1. I genitori
8.2. L'interazione con i pari 8.3. La qualità della vita
9. Interventi
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5. Disabilità intellettiva, di Mirella Zanobini 1. Inquadramento storico delle definizioni
2. Cause 3. La valutazione
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3.1. La diagnosi medica
3.2. La diagnosi psicometrica e psicologica
3.3. La valutazione clinica 4. Disabilità intellettiva e sviluppo 4.1. Sviluppo cognitivo e linguistico 4.2. Sviluppo sociale e della personalità 5. L'intervento 5.1. L'approccio comportamentale 5.2. La riabilitazione della metamemoria, della metacognizione e della memoria di lavoro 6. Problematiche connesse alle situazioni di gravità
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6. Disturbi dell'apprendimento, di Maria Carmen Usai
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1. Introduzione 2. Gli aspetti generali 2.1. La definizione
2.2. Cause e fattori associati
2.2.1. Le cause 2.2.2. L'ambiente 2.3. La prevalenza 3. I DSA: l'importanza della cornice teorica
3.1. L'apprendimento della lettura e della scrittura 3.1.1. La dislessia e la disortografia 3.1.2. I problemi di comprensione del testo 3.2. Il calcolo e la discalculia 3.3. Aspetti emotivo-motivazionali associati ai DSA 4. Indicatori precoci, diagnosi e intervento 4.1. Segnali precoci e fattori di rischio 4.2. La diagnosi 4.2.1. Il concetto di discrepanza
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7. Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, di Maria Carmen Usai 1. Introduzione
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4.3. Intervento
2. Il disturbo da deficit dell'attenzione/iperattività: le caratteristiche 2.1. Le caratteristiche primarie
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2.2. Le manifestazioni associate
2.2.1. Difficoltà attentive 2.2.2. Difficoltà nelle funzioni esecutive 2.2.3. Deficit motivazionale 2.2.4. Difficoltà nell'elaborazione temporale 2.2.5. Difficoltà nel controllo motorio 2.2.6. Altre difficoltà 2.2.7. Le manifestazioni in età precoce 3. La prevalenza del disturbo
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4. Le cause 5. La diagnosi 6. L'intervento 6.1. Il parent training
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6.2. L'intervento in classe 6.3. La terapia cognitiva 6.4. Il trattamento farmacologico
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7. Conclusioni
8. Disturbi dello spettro autistico, di Mirella Zanobini, Maria Carmen Usai 1. Premessa 2. L'autismo: verso le attuali definizioni 3. Lo sviluppo nel bambino autistico 4. Interpretazioni dell'autismo 4.1. Carenze nella teoria della mente
4.2. Coerenza centrale debole 4.3. Deficit nelle funzioni esecutive 4.4. Deficit socio affettivo primario 4.5. Verso un superamento dei modelli mono causali 5. Le basi biologiche dell'autismo 5.1. Compromissione del sistema dei neuroni specchio
6. Trattamento
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Parte II - Il contesto 9. Disabilità e famiglia, di Mirella Zanobini 1. Premessa 2. Le famiglie di fronte alla disabilità 3. I ruoli all'interno della famiglia
4. Fasi di sviluppo del bambino e della famiglia 5. La famiglia e il trattamento
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10. Gli alunni con disabilità nella scuola di tutti. Il tortuoso percorso dall'integrazione all'inclusione, di Carla Maria Barzaghi pag. 268 1. Premessa » 268 2. Integrazione o inclusione? 2.1. Il ruolo della scuola nel progetto di inclusione 3. Dall'integrazione all'inclusione: aspetti istituzionali. La legislazione scolastica, linee di sviluppo 3.1. Dalla Costituzione alla legge 517/77 3.2. La legge quadro 104/92. L'integrazione come processo interistituzionale 3.3. L'autonomia scolastica e la stagione delle riforme
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5.3. Alunni di cittadinanza non italiana in situazione di disabilità
5.4. BES e dispersione scolastica 5.5. La situazione dell'inclusione scolastica nell'area
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6. Conclusioni
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4.6. Tecnologie e ambiente digitale per l'inclusione
scolastica 4.7. La valutazione come diritto 4.8. La valutazione come procedura 5. Scenari per l'inclusione a scuola 5.1. Il contesto: facilitatore o barriera? 5.2. L'inclusione scolastica in cifre
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organizzativi 4.1. Il Patto formativo. La famiglia come risorsa e co-
me partner del progetto inclusivo 4.2. Individualizzazione e personalizzazione 4.3. Il Piano educativo individualizzato 4.4. Costruire il Pei nella progettazione della classe. Il principio di adattamento 4.5. Il docente specializzato. Ruolo di sostegno e funzione di sostegno
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3.4. La convenzione ONU 2006, le linee guida per
l'integrazione del 2009 e l'ICF 3.5. Legge 170/2010 sui DSA e normativa relativa ai Bisogni educativi speciali 3.6. La legge 107/2015 e il decreto 66/2017 3.7. Piano per l'inclusione e Index per l'inclusione 4. Dall'integrazione all'inclusione. Aspetti pedagogici e
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11. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo, di Carlo Lepri
1. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo: alcune considerazioni introduttive 1.1. L'errore della natura 1.2. Il figlio del peccato 1.3. Il selvaggio
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1.5. L'eterno bambino 1.6. La persona 2. La persona e i suoi "bisogni di normalità" 2.1. La normalità di immaginario 2.2. La normalità di progetto 2.3. La normalità educativa 2.4. La normalità di ruolo
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3. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo: alcuni aspetti metodologici 3.2. L'alternanza scuola-lavoro 3.3. Operatori e strumenti di mediazione
3.4. Gli strumenti 3.5. Il sistema
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1.4. Il malato
3.1. I tempi
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Appendice. Provvedimenti su disabilità/integrazione/ inclusione. Cronologia dal 1947 al 2019
Riferimenti bibliografici
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Presentazione della nuova edizione di Mirella Zanobini, Maria Carmen Usai
õğ OTECA DI
© TIRABOSCHI? BERGAMO
La nuova edizione del volume Psicologia della disabilità e dei disturbi dello sviluppo risponde all'esigenza di fornire al lettore una panoramica aggiornata, ancorché ancorata storicamente, delle tematiche trattate. Il volume ha radici lontane e molte cose sono cambiate nel campo della disabilità dalla sua prima edizione, che risale al 1995: dalla terminologia utilizzata, alle classificazioni in uso, alla normativa nazionale e internazionale, ai modelli teorici sottostanti le diverse interpretazioni dei disturbi. Come evidenziato soprattutto nel capitolo sull'inclusione scolastica, un continuo rinnovamento legislativo accompagna i cambiamenti che a livello nazionale e internazionale sono avvenuti nella cultura dell'inclusione: basti pensare a come il termine inclusion, adottato a livello mondiale, ha sostituito anche nel nostro Paese i precedenti riferimenti all'integrazione. Inoltre, l'affermarsi di una concezione della persona vista nella sua complessità e l'abbandono definitivo di una prospettiva centrata sul deficit anziché sulle risorse, ha reso necessaria una revisione complessiva della terminologia, dove sempre meno si usano etichette totalizzanti (disabili, ciechi, iperattivi, DSA) e si fa invece riferimento a individui che, tra le numerose caratteristiche che li distinguono gli uni dagli altri, hanno anche un disturbo o delle specifiche difficoltà. Dal punto di vista scientifico, nell'ultimo decennio, dopo l'edizione del 2011, si è assistito al consolidamento di una prospettiva neurocostruttivista come chiave di lettura delle profonde differenze tra individui che presentano la stessa "condizione di salute": le traiettorie evolutive sono il risultato di una continua interazione tra fattori genetici, substrato neurale e fattori contestuali intesi come condizioni ambientali, caratteristiche della persona ed esperienze di vita. In quest'ottica, all'attitudine a suddividere in categorie rigide i singoli disturbi si è sostituita una prospettiva dimensionale, che interpreta la diversa espressività dei sintomi come un continuum e riconosce i livelli di gravità come frutto non solo delle differenze individuali, ma
della qualità e quantità di supporto. La quinta edizione del DSM applica tale prospettiva alla descrizione dei cosiddetti Disturbi del neurosviluppo, macrocategoria in cui, come si evidenzia nel corso del volume, ricadono molte delle condizioni descritte. In continuità con le edizioni precedenti, il volume descrive percorsi di sviluppo e prospettive di intervento centrati sulla persona, nella sua complessa interdipendenza con i contesti storici, culturali e familiari. Il contesto, che
con l'ICF è diventato parte integrante del profilo funzionale, entra in molti dei capitoli di questa edizione in modo ancora più pervasivo e diventa un elemento chiave per l'interpretazione dei disturbi e un fattore indispensabile a garantire il pieno sviluppo delle potenzialità individuali e il raggiungimento di un livello ottimale di qualità della vita.
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1. Disabilità: definizione, diagnosi, intervento di Mirella Zanobini
1. Disabilità: l'evoluzione delle definizioni Nel campo della disabilità e più in generale dei disturbi dello sviluppo, di cui ci occupiamo in questo volume, l'evoluzione della terminologia va di pari passo con l'evoluzione delle definizioni e dei significati delle parole utilizzate. È quindi importante leggere questi cambiamenti alla luce del continuo rinnovamento delle conoscenze scientifiche. Non bisogna inoltre sottovalutare l'impatto che le espressioni utilizzate dagli addetti ai lavori possono avere sul radicarsi nel senso comune di approcci culturali talvolta antitetici: come vedremo, alcune espressioni ritenute stigmatizzanti e con connotazione negativa sono state progressivamente abolite e sostituite
nel linguaggio degli addetti ai lavori. Come sottolinea Carofiglio (2010, p. 19) nel suo saggio La manomissione delle parole ". . il numero delle parole conosciute non ne esaurisce lo straordinario potere sugli uomini e sulle cose. Un ulteriore segnale del grado di sviluppo della democrazia e, in generale, della qualità della vita pubblica si può desumere dalla qualità delle parole: dal loro stato di salute, da come sono utilizzate, da quello che 99 riescono a significare. Per inquadrare storicamente l'evoluzione del lessico utilizzato in questo campo, ci sembra utile partire dalla distinzione proposta dall'OMS negli anni '80 del secolo scorso fra i tre concetti di impairment (menomazione o danno), disability (disabilità) e handicap, alla base della prima Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap
(ICIDH, OMS, 1981): - la menomazione è qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Essa può avere carattere permanente o transitorio; - la disabilità è interpretata come riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un'attività nei tempi e nei modi considerati come normali.
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Essa può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva; può essere inoltre una conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a una menomazione fisica, sensoriale o di altro tipo;
- l'handicap è una condizione di svantaggio vissuto, risultante da un
danno o da una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in rapporto all'età, al sesso, ai fattori sociali e culturali. E quindi una condizione soggetta a possibili cambiamenti migliorativi o peggiorativi nell'arco di vita della persona con disabilità. Già da questa prima definizione emergeva l'esigenza, sottolineata dalla comunità scientifica, dagli operatori e dalle famiglie, di considerare l'handicap "un fenomeno sociale, in quanto definisce le conseguenze sociali e ambientali che hanno per origine le menomazioni e disabilità di un individuo di fronte alle esigenze e attese dell'ambiente" (Brunati, 1992, p. 49). Per fare un esempio, una lieve disabilità motoria in una società tecnologicamente avanzata non ha lo stesso peso che potrebbe avere in una società fondata sul lavoro agricolo, nella quale un lieve ritardo intellettivo potrebbe al contrario passare quasi totalmente inosservato. In questa prima fase sembrava soprattutto importante affermare alcuni principi, utili a superare pregiudizi e luoghi comuni: 1. la persona disabile non doveva essere identificata con i suoi problemi: da qui la scelta di privilegiare l'espressione portatore di handicap piut tosto che handicappato; 2. l'handicap non andava confuso con la malattia, anche se poteva rappresentare la ripercussione dei danni provocati da un evento morboso sulla vita di un individuo in relazione al suo contesto sociale; 3. l'handicap, d'altra parte, non veniva confuso con una più generica condizione di svantaggio socio-culturale o di disadattamento, cioè con una situazione derivante prettamente da fattori sociali. Emergeva con chiarezza, quindi, la doppia connotazione, biologica e sociale, dell'handicap. In questa prospettiva, la disabilità si traduce in handicap in relazione alle barriere che la persona incontra nella sua vita quotidiana. Abitualmente parlando di barriere si è soliti pensare a ostacoli di tipo fisico (le cosiddette barriere architettoniche); a tali ostacoli più facilmente evidenziabili se ne aggiungono altri, che possono sfuggire a una prima valutazione, ossia le
barriere psicologiche e le barriere sociali. Le prime hanno a che fare con l'impatto che la disabilità ha sull'individuo e sulle persone che lo circondano. Le limitazioni che la menomazione di partenza comporta possono essere accettate in diversa misura da persone differenti, ma anche dalla stessa persona in momenti successivi della propria esistenza Le risposte psicologiche delle singole persone coinvolte
sono inoltre da collegare, oltre che alla tolleranza individuale di fronte
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alla diversità, al contesto socio-culturale di appartenenza e alle condizio-
ni generali di vita, intese in termini di qualità e di benessere. Eventuali barriere sociali, frutto del clima culturale prevalente in una data epoca o in un determinato contesto, concorrono infatti a determinare esiti diversi in situazioni di partenza potenzialmente identiche; per fare un esempio,
quando a un deficit intellettivo di base si aggiunge una situazione di grave deprivazione culturale, possono mancare le stimolazioni essenziali e quindi le opportunità per far evolvere positivamente le potenzialità di sviluppo presenti nella persona con disabilità. Già negli anni '80 si affermava come nel determinare l'entità e la gravità di una disabilità intervengano fattori che non sono desumibili direttamente dal tipo e dalla gravità della menomazione di partenza, ma dall'insieme di elementi personali e contestuali che gravitano intorno alla persona
disabile.
Tuttavia, il modello proposto nel 1981 presenta alcuni limiti.
Innanzitutto, si tratta sostanzialmente di un modello lineare, che rimanda a rapporti unidirezionali di causa effetto tra evento morboso o
traumatico, menomazione, disabilità e handicap. Come sottolineano Dixon, Johnston; Rowley e Pollard (2008), nell'ICIDH la disabilità era considerata il risultato diretto di una menomazione che interessa un organo o una parte del corpo e l'handicap era il risultato diretto della disabilità (fig. 1). Fig. 1 - Modello dell'ICIDH evento morboso
menomazione
disabilità
handicap
Inoltre, in anni più recenti, si è acuita la consapevolezza della inadeguatezza del termine handicap, sia per la sua genericità, ma soprattutto per la connotazione negativa implicita nella sua etimologia. A questo proposito vedremo nei prossimi paragrafi e nel corso del volume come nel tempo si sia andata affermando la necessità di valorizzare, a livello diagnostico e di progettazione degli interventi, le abilità e non solo le disabilità, le poten-
zialità e non solo i limiti. Nelle classificazioni dell'OMS attualmente in uso (ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health, OMS, 2001 e la più
recente versione per bambini e ragazzi ICF-CY (OMS, 2007)), il riferimento principale non è più alle menomazioni e alle disabilità, ma alle funzioni/ strutture corporee e alle attività. Il termine handicap poi è stato del tutto eliminato da qualsiasi livello di descrizione e di definizione (si parla piuttosto di restrizioni alla partecipazione) ed è quindi caduto completamente in disuso.
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Nella maggior parte dei casi si tende a usare il termine ombrello disabilità, inteso non in senso globale, a connotare una categoria di disturbo né tanto meno una persona nel suo insieme, ma come reciproco del termine funzionamento. Sono infatti proprio il funzionamento e le sue eventuali limitazioni in specifici ambiti di attività che il nuovo sistema di classificazione si propone di descrivere, sulla base di parametri e di definizioni condivisi a livello internazionale. Riportiamo di seguito le componenti dell'ICF e le rispettive definizioni, che hanno soppiantato le dimensioni precedenti (OMS, 2001: p. 16 dell'edizione italiana). Le funzioni corporee: sono le funzioni fisiologiche o psicologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche).
Le strutture corporee: sono le parti anatomiche del corpo, come gli organi, gli arti e i loro componenti. Le menomazioni: sono problemi nelle funzioni o nelle strutture del
corpo (deviazione o perdita significative).
L'attività: è l'esecuzione di un compito o di un'azione da parte di un individuo. Le limitazioni dell'attività: sono le difficoltà che un individuo può in-
contrare nello svolgimento di un'attività. Le partecipazione è il coinvolgimento dell'individuo nelle situazioni di
vita.
Le restrizioni della partecipazione: sono i problemi che un individuo può avere nel tipo o nel grado di coinvolgimento nelle situazioni di vita. I fattori ambientali costituiscono gli atteggiamenti, l'ambiente fisico e sociale in cui le persone vivono e conducono la loro esistenza.
Analizziamo brevemente i principali elementi di discontinuità delle
nuove definizioni rispetto a quelle illustrate in precedenza: - L'ICF ha un'applicazione universale: riguarda tutte le persone, non solo quelle con disabilità, poiché prende in considerazione il funzionamen-
to umano e le sue restrizioni. La classificazione si riferisce a tutti gli
aspetti della salute dell'uomo, ma, come accadeva anche in precedenza, non comprende situazioni di limitazione collegate esclusivamente a cause diverse, quali fattori socio-economici, razza, sesso, religione o altro.
Le diverse dimensioni sopra illustrate sono considerate nella loro interazione reciproca e non più collegate in modo unidirezionale come accadeva per le definizioni precedenti: Negli anni infatti si è andata consolidando la consapevolezza di come non solo il livello di funzionamento incida nel limitare l'attività e la partecipazione, ma tali limiti possano influenzarsi reciprocamente e a loro volta incidere sul livello base di salute e di funzionamento. Inoltre, in una visione dinamica delle interazioni fra dimensioni diverse, non si può escludere che si possano
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verificare menomazioni che non comportano limitazioni nelle attività; o limitazioni delle attività che non comportino restrizioni alla partecipazione e così via'. Il contesto, inteso come insieme di fattori ambientali (ambiente domestico, strutture sociali formali e informali, sistemi culturali) e personali (background personale degli individui), interagisce a tutti i livelli, e non solo nel determinare i problemi di partecipazione alla vita sociale. Per esemplificare il concetto, se è vero che una carenza nelle abilità relazionali può comportare situazioni di isolamento rispetto alla vita sociale, è altrettanto assodato che situazioni di allontanamento forzato, quale era un tempo l'istituzionalizzazione, comportano perdite nelle abilità sociali di base. Ripor-
tiamo, per illustrare la molteplicità e la multidirezionalità delle influenze, il modello del funzionamento e delle disabilità tratto dall'ICF (fig. 2).
Fig. 2 - Modello di funzionamento della disabilità (OMS 2001, p. 23 dell'edizione italiana)
Condizione di salute (disturbo o malattia)
Funzione e Struttura
Attività
Fattori ambientali
Partecipazione
Fattori personali
2. Disabilità: il problema della diagnosi Come si è visto nelle pagine precedenti, alla fine del XX secolo si è
pienamente affermata una nuova concezione della disabilità e il modello medico, già in parte criticato nelle definizioni degli anni '80, è stato definitivamente soppiantato. Da un lato si è consolidata l'idea che la disabilità costituisca un fenomeno biopsicosociale; dall'altro, soprattutto per le menomazioni che insorgono in età precoce e per i cosiddetti disturbi dello sviluppo, si riconosce l'influenza dinamica del contesto nella definizione stessa della disabilità e nella sua evoluzione. 1. Esempi tratti dalla edizione italiana dell'ICF sono rispettivamente: 1. una deturpazione dovuta a una malattia può non accompagnarsi a limitazioni nell'atti-
vità; 2. la società può fornire a chi presenta limitazioni motorie dei modi alternativi di spostarsi in modo da permettergli di partecipare alle situazioni sociali.
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Fare diagnosi nel campo della disabilità è dunque profondamente diver. so dal diagnosticare una malattia.
Da tempo è in uso riferirsi a tale approccio diagnostico con i termini diagnosi funzionale, valutazione funzionale e, in ambito didattico, profilo dinamico funzionale. Pesci (1990) rintraccia le radici storiche di tale modalità diagnostica risalendo all'intesa fra medici e insegnanti stipulata nel lontano 1910 dall'Amministrazione comunale di Genova per favorire l'istruzione dei soggetti ritardati: quell'intesa prevedeva la compilazione di una "Carta Biografica", frutto della collaborazione di diverse figure professionali, che doveva costituire la base di ogni progetto di intervento sul bambino. Caracciolo (1990) attribuisce la sistematizzazione del metodo a Sidney Bijou, "il quale, per ogni singolo bambino, ha proposto un sistema
di regole di osservazione che permettessero un'elencazione di conoscenze
e di operazioni cognitive e all'insieme di tali procedure ha dato il nome di analisi funzionale del comportamento o semplicemente di analisi funzio-
nale" (p. 90).
Secondo l'autore, l'attributo funzionale indica che tale tipo di diagnosi deve evidenziare quei fattori che nel passato hanno favorito l'acquisizione di competenze sul piano cognitivo e sociale, interpretando quindi la situazione attuale del soggetto in funzione della sua storia. Successivamente tuttavia, tale attributo ha assunto principalmente valore prospettico: per diagnosi funzionale si intende oggi una valutazione che descriva il funzionamento dell'individuo sia in termini di limitazioni sia di potenzialità e punti di forza e che sia utile a predisporre un piano di intervento.
In Italia, ormai da molti anni l'idea che una diagnosi efficace della
situazione di disabilità debba essere strettamente collegata al tipo di intervento, anche in campo educativo, si è tradotta in precise disposizioni nella legislazione scolastica, per arrivare, all'interno della legge quadro sull'handicap del 5/2/1992, a essere inserita come anello ineliminabile per una corretta integrazione dell'individuo. In base alle direttive della legge quadro e del decreto applicativo del 24 febbraio 1994 - atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle
unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap (così definiti a quel tempo), la formulazione della diagnosi funzionale, denominata successivamente profilo di funzionamento in base al decreto legislativo 66/2017 (cfr. cap. 10), avviene a partire da una diagnosi medica, la cosiddetta "certificazione di handicap", che costituisce l'avvio del processo
legislativo e operativo di integrazione nelle strutture educative e di accesso ai servizi e ai supporti previsti. Tali provvedimenti nel loro insieme costituiscono dunque una sistematizzazione importante dei passi necessari per
una corretta valutazione funzionale e per la formulazione di un piano di intervento. 18
Sintetizzando quanto riportato da lanes (2004), alla formulazione della diagnosi funzionale concorrono elementi clinici (ricavati da visite mediche e relativa documentazione) e psico-sociali (dati anagrafici e caratteristiche del nucleo familiare). Inoltre è necessario riportare nella diagnosi funzionale la descrizione delle difficoltà e potenzialità relative a diverse aree di sviluppo. Infine sulla base di tali elementi viene redatta una scheda riepilogativa che contiene: diagnosi, eziologia, conseguenze funzionali, previsione dell'evoluzione naturale, formulazione sintetica delle principali difficoltà e delle potenzialità, descrizione delle stesse su una tabella a tre colonne (aree, potenzialità, difficoltà). Rimandiamo al capitolo sull'inclusione scolastica la spiegazione dettagliata delle varie tappe previste per legge ai fini di predisporre una documentazione di accompagnamento dell'alunno in difficoltà il più possibile completa e funzionale al progetto di integrazione.
2.1. Profilo di funzionamento e ICF I modelli sopra citati hanno rappresentato punti di riferimento legislativi, teorici e pratici per gli operatori coinvolti a diverso titolo nella stesura o nell'utilizzo della diagnosi funzionale. L'entrata in vigore dell'ICF, ha imposto tuttavia una revisione e un aggiornamento di tali modelli. Da un lato il processo diventa più complesso e articolato perché, come si è visto, l'ICF esplicita meglio rispetto alle precedenti definizioni le dimensioni che concorrono a delineare il profilo globale della persona. In questa prospettiva, la diagnosi funzionale deve fornire informazioni su: condizioni fisiche/di salute; funzioni corporee; strutture corporee; attività personali; partecipazione sociale; fattori contestuali ambientali; fattori contestuali personali. Ciascuna di queste dimensioni è a sua volta articolata al
suo interno. Esaminando la figura 2, troviamo innanzitutto la condizione di salute, che costituisce il punto di partenza e la cornice di riferimento dell'intera classificazione. Nelle classificazioni dell'OMS, le condizioni di salute in quanto tali, ossia le eventuali malattie, lesioni ecc., vengono classificate con l'ICD (International Classification of Diseases and Related Health Problems), attualmente alla sua decima edizione?. L'ICD 10 costituisce il modello di riferimento eziologico, che consente di diagnosticare una certa malattia o un certo disturbo, l'ICF invece classifica il funzionamento e la disabilità associati alla condizione di salute e consente quindi di arricchire 2. Nel giugno 2018 l'OMS ha terminato l'undicesima edizione dell'ICD. L'ICD 11 verrà presentata all'assemblea degli stati membri nel maggio 2019 ed entrerà in vigore il 1° gennaio 2022.
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la diagnosi di partenza. Non è questa la sede per approfondire i possibili livelli di integrazione tra i codici dell'ICD e quelli dell'ICF. Basta sottolineare come in alcuni casi una descrizione del funzionamento possa anche
non richiedere il riferimento alle categorie dell'ICD, che sono tuttavia
indispensabili in fase diagnostica. In nessun caso inoltre l'ICF può essere ricondotto a una semplice descrizione delle conseguenze di un evento morboso, come avveniva nelle classificazioni del 1980.
Come si osserva in figura 2, l'ICF organizza le informazioni in due
parti, ciascuna delle quali suddivisa in due componenti:
1. funzionamento e disabilità a) strutture e funzioni corporee b) attività e partecipazione 2. fattori contestuali a) fattori ambientali b) fattori personali Ogni componente può essere espressa in termini positivi o negativi e comprende una serie di domini e categorie organizzati gerarchicamente: ad esempio, nel dominio delle funzioni mentali possiamo avere funzioni mentali globali o specifiche e all'interno di queste ultime troviamo le funzioni della memoria, dell'attenzione ecc.). Ai fini di esprimere una va-
lutazione, per ciascum dominio o categoria di interesse vanno applicati dei qualificatori, che servono a esprimere l'estensione o la qualità di un livello di salute o di una condizione problematica. Per tradurre la valutazione in uno o più codici condivisibili a livello internazionale si utilizza un sistema alfanumerico, con le lettere che corrispondono alle componenti' e i numeri, organizzati gerarchicamente, che si riferiscono a ciascun dominio e alle categorie sottostanti. In tal modo è possibile scegliere il livello di dettaglio da utilizzare nella valutazione. Infine i codici vanno completati attraverso almeno un qualificatore, anch'esso espresso in cifre e distinto dai codici con un separatore. Analizziamo brevemente il significato delle diverse componenti. Per quanto riguarda le strutture e le funzioni corporee, esse sono definibili come sistemi corporei, e non sono identificabili strettamente come
organi come avveniva invece nell'ICIDH. Parimenti, come si è già detto, le menomazioni non si identificano con l'eziologia che le ha generate, né
con la malattia. Possono derivare da una patologia sottostante, ma non necessariamente tale patologia spiega in too la presenza di menomazioni. I concetto di menomazione è più esteso e comprensivo di quello di disturbo
o di malattia. Inoltre il termine corpo si riferisce all'organismo nella sua
3. B = Body functions; S = body Structures; D = Domains of activity and participation; E = Environmental factors.
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interezza: per fare qualche esempio, parlando di funzioni corporee ci si riferisce tanto a funzioni neuro muscolo-scheletriche e correlate al movimento, quanto a funzioni mentali, a funzioni dei sistemi cardiovascolare, ematologico, immunologico e dell'apparato respiratorio e così via. Vi è naturalmente corrispondenza tra i domini delle due componenti: ad esempio, la funzione della vista fa riferimento alla struttura dell'occhio e ai suoi
correlati. Per quanto concerne attività e partecipazione, esse comprendono gli stessi domini, ossia le stesse aree attraverso le quali si concretizza il funzionamento dell'individuo nella vita quotidiana: possono riguardare
dall'apprendimento e applicazione delle conoscenze, alla mobilità, alla vita sociale, civile e di comunità. Nel descrivere tali componenti è cruciale la distinzione tra i due qualificatori performance e capacità. Il qualificatore performance descrive quello che l'individuo fa nel suo ambiente attuale, la performance della persona rispetto a un compito nel suo contesto di vita reale. Indica perciò le restrizioni alla partecipazione nell'ambiente attuale,
le difficoltà che una persona incontra nel fare le cose, quando vorrebbe farle. Il qualificatore capacità descrive l'abilità di una persona nell'eseguire un compito o un'azione in una situazione standard e focalizza l'attenzione
sulle limitazioni che costituiscono caratteristiche intrinseche dell'individuo. Queste caratteristiche sono descritte come manifestazione diretta dello stato di salute, quando non vi è assistenza esterna. Naturalmente, per qualificare correttamente performance e capacità occorre valutare i fattori ambientali, sia sul versante positivo (facilitatori), sia su quello negativo (barriere). I fattori ambientali possono essere prodotti
materiali e tecnologici, relazioni sociali e di supporto, servizi e politiche della comunità ecc. Come si è detto, la valutazione per ogni area elencata prevede più qualificatori. Riportiamo a questo proposito la tabella dell'ICF (OMS, 2001, p. 26 dell'edizione italiana), modificata e completata (tab. 1) in base alle descrizioni presenti nelle Checklist ICF (OMS, 2003).
La struttura dell'ICF se applicata nella sua interezza risulta piuttosto complessa, in quanto prevede una mole di informazioni molto vasta e articolata su più livelli: al secondo livello vi sono 362 codici, che diventano 1424 al terzo e quarto livello; risulta quindi poco maneggevole per gestire i dati nella pratica clinica, sociale ed educativa. L'utilizzo di checklist basate sull'ICF dovrebbe consentire di condividere un linguaggio standard e unificato a livello internazionale e nello stesso tempo costituire uno strumento agile per la pratica professionale. La versione italiana della checklist ICF, tradotta e adattata dal Disability Italian Network (2003), è composta da più parti:
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Tab. 1 - Componenti dell'ICF Componenti
Funzioni corporee
Secondo qualificatore Terzo qualificatore Primo qualificatore Nessuno Nessuno Estensione delle menomazioni (da 0 nessuna menomazione a 4 menomazione
completa, più 8
Strutture corporee
e 9, non specificato o non applicabile) Estensione delle menomazioni
Natura del
cambiamento 0 Nessun cambiamento
(da O nessuna
menomazione a 4 menomazione
nella struttura 1 Assenza totale completa, più 8 3 Assenza parziale e 9, non specificato 4 Dimensioni o non applicabile) anormali
Localizzazione 0 Più di una regione
1 Destra 2 Sinistra 3 Entrambi i lati 4 Frontale 5 Dorsale 6 Prossimale
7 Distale
8/9 Non specificato
5 Discontinuità 6 Posizione deviante o non applicabile 7 Cambiamenti
qualitativi
nella struttura 8/9 Non specificato o non applicabile
Attività e partecipazione
Nessuno Capacità: descrive Performance: l'abilità nell'eseguire descrive quello un compito che l'individuo fa nel suo ambiente e l'estensione e l'estensione della della limitazione nell'attività, senza restrizione alla assistenza partecipazione (da 0 nessuna
difficoltà a 4
Fattori ambientali
(da O nessuna
difficoltà a 4 difficoltà completa, pù 8 e 9,
difficoltà completa, più 8 e 9, non specificato non specificato o non applicabile) o non applicabile) Nessuno Estensione delle barriere (aspetto negativo) e/o
dei facilitatori
(aspetto positivo (come sopra scala da 0 a 4, più 8 e 9, non specificato o non applicabile)
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Nessuno
1. una sezione introduttiva che contiene le informazioni anagrafiche, la diagnosi medica accompagnata dal codice ICD 10 e le fonti da cui sono
tratte le informazioni; 2. la prima parte, che contiene i codici relativi alle funzioni e alle strutture corporee; 3. la seconda parte, che contiene i codici selezionati per attività e parteci-
pazione;
4. la terza parte, che contiene i codici relativi ai fattori ambientali; 5. infine si prevede uno spazio aperto per descrivere i fattori personali che come si è detto sono parte integrante della descrizione del contesto, ma non prevedono una vera e propria codificazione. L'applicazione di tali checklist presenta tuttavia alcuni limiti. Innanzitutto, nonostante le dichiarazioni di intenti vadano in direzione opposta, porre in stretto collegamento il funzionamento e lo stato di salute degli
individui rischia di accomunare la disabilità alla malattia, finendo per trattare in modo analogo situazioni in realtà molto diverse. E importante
domandarsi a questo proposito se una situazione di malattia cronica, con potenziali effetti sul funzionamento, richieda nella scuola o in ambito la-
vorativo interventi assimilabili a quelli previsti per la disabilità. Inoltre, il linguaggio utilizzato nelle checklist appare talvolta un po' contorto e le classificazioni poco chiare: da un lato infatti i qualificatori utilizzati sono scale Likert a più punti, di natura ordinale. In altri casi invece, come per il secondo qualificatore delle strutture corporee, fondono in modo discutibile una valutazione ordinata gerarchicamente per livelli di gravità e una classificazione in categorie mutuamente esclusive (come nel caso delle voci
"dimensioni anormali" e "posizione deviante" in relazione alla natura del cambiamento).
Un primo passo per il superamento di tali limiti può consistere nel
tentativo di tradurre operativamente le indicazioni dell'ICF. In questa direzione, il testo già citato di lanes (2004) si propone di descrivere le diverse
aree dell'ICF, esplicitando anche i possibili collegamenti. Per esempio,
l'autore chiarisce efficacemente come la presenza di facilitatori o barriere a livello ambientale possa tradurre le capacità personali in livelli di performance differenti. Riportiamo in tabella 2 gli schemi esemplificativi proposti nel testo (p. 72).
Inoltre, tra gli strumenti realizzati per facilitare l'utilizzo dell'ICF nella pratica clinica, bisogna citare i core set: si tratta di protocolli standardizzati a livello internazionale, "composti da una lista di categorie dell'ICF che sono comuni o rilevanti per la maggior parte di pazienti con quella
condizione di salute specifica o che utilizzano una medesima offerta riabilitativa" (Bedin, 2015, p. 13). I core set esistono in forma breve o completa e sono attualmente reperibili online (www.icf-core-sets.org); la selezione
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Tab. 2 Capacità Capacità articolatorie verbali non presenti Linguaggio espressivo assente
Performance Facilitatore - Tavola di comunicazione - Performance comunicati
-
espressiva adeguata
con simboli Persona in grado di decodificare i simboli
sui bisogni di base
- Capacità nulla Capacità
Capacità verbali buone Linguaggio espressivo adeguato - Buone capacità
Performance
Barriere Fattore contestuale personale negativo: forte ansia sociale in presenza di estranei
- Performance comunicati espressiva deficitaria sul versante della
partecipazione sociale con estranei o persone poco
familiari
delle categorie pertinenti per ciascuna condizione di salute è frutto di u procedimento scientifico, basato su studi preparatori, che si è avvalso di u gruppo multidisciplinare di esperti.
Nella pratica clinica, una volta selezionato il core set appropriato,
procede a compilare un modulo di documentazione che include le catego rie da utilizzare per le diverse componenti. Per ciascuna categoria, oltri
a esplicitare il livello di funzionamento attraverso i qualificatori sopra citati (estensione della menomazione, livello di capacità, di performance presenza di barriere o facilitatori, cfr. tab. 1), si provvede a specificare le fonti di informazione disponibili (anamnesi, questionari, test, ecc.) ed è previsto uno spazio aperto per la descrizione del problema. L'obiettive finale è creare un profilo di funzionamento che rappresenta l'esperienza complessiva vissuta dalla persona in relazione alla sua condizione di salute (Bickenbach, Cieza, Rauch e Stucki, 2012) e che può rappresentare un punto di partenza per la programmazione e/o la valutazione degli interventi.
2.2. Profilo di funzionamento e diagnosi di sviluppo
Sicuramente utile ai fini di una diagnosi funzionale in età evolutiva
risulta la cosiddetta diagnosi di sviluppo: essa consiste in una valutazione sistematica delle caratteristiche della persona e della loro reciproca inte
grazione, con l'obiettivo di descrivere la situazione attuale e valutare il potenziale evolutivo. La diagnosi di sviluppo fa riferimento a strumenti e concetti della psicologia dello sviluppo, ma anche della psicologia clinica
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infantile, della neuropsicologia dello sviluppo e della psichiatria dell'infanzia (Petermann e Macha, 2008). Si propone nello specifico di descrivere aree di stabilità e di cambiamento e di identificare gli strumenti adatti a valutare diverse caratteristiche e attitudini individuali lungo tutto il corso della vita. Attraverso tali strumenti è possibile, a seconda dei casi, effettuare uno screening sulle abilità di base per individuare indicatori di rischio per lo sviluppo successivo; definire il livello di sviluppo individuale in una certa area (ad esempio dire che un bambino ha una ricchezza di vocabolario corrispondente a una certa età lessicale), oppure descrivere un profilo evolutivo (per esempio evidenziare differenze anche notevoli nei punteggi ottenuti da un individuo a diverse sottoscale di uno stesso test) o anche esprimere un giudizio clinico, con riferimento a una diagnosi di disturbo dello sviluppo. Come sottolineano Petermann e Macha (2008), una diagnosi di sviluppo spesso fa riferimento al raggiungimento di certe pietre miliari, ossia di abilità che tipicamente si presentano in determinati periodi. Occorre tuttavia tener presente che in molti casi un'estrema variabilità interindividuale rappresenta la norma e che il mancato conseguimento di determinate abilità non è per forza segno di uno sviluppo deficitario. Per esempio, oggi non si ritiene più, sulla base di numerose evidenze empiriche, che il camminare gattoni sia una pietra miliare dello sviluppo motorio. Un altro accorgimento, che aumenta la validità e l'utilità della diagnosi di sviluppo, è accompagnare sempre le valutazioni standardizzate con osservazioni attente alla complessità del comportamento infantile, che met-
tano in luce non solo i risultati in termini di fallimento o riuscita in una prova, ma il processo con cui il bambino arriva alla soluzione (corretta o
meno) di un problema. Alcuni autori tendono a integrare (e talvolta a sostituire) la diagnosi di sviluppo facendo riferimento al comportamento adattivo ossia alle "abilità richieste dai diversi ambienti di vita e di relazione per un soddisfacente
adattamento" (lanes, 1984, p. 20): il criterio di riferimento è allora quel complesso di competenze indispensabili all'interno dei diversi contesti,
con particolare attenzione al raggiungimento di una sufficiente autonomia personale e sociale e di un adattamento funzionale a migliorare la qualità della vita (lanes, 2004). Tale integrazione è indispensabile quando i parametri evolutivi non sono certi e quando costituiscono un riferimento poco efficace (ad esempio in situazioni di gravità o in età adolescenziale e nei giovani adulti). Tuttavia, pur con i limiti considerati, considerare la disabilità come un processo evolutivo permette di comprendere l'influenza che lo sviluppo stesso ha sull'esito del disturbo (Karmiloff-Smith, 1998) e di impostare un intervento più precocemente possibile ai fini di prevenire o ridurre la disabilità (Simeonsson, 2009). Infatti, l'insieme delle concrete modalità con cui
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un disturbo si manifesta "si forma a partire dalle caratteristiche iniziali di una sindrome e dalle reazioni che queste innescano nell'individuo e nel suo ambiente di vita" (Morra e Zanobini, 2009). L'ICF-CY nasce appunto con l'intento di documentare e descrivere con un linguaggio internazionale le limitazioni e il funzionamento in età evolutiva. Esso tenta così di costituire un superamento delle classificazioni tradizionali, basate sulle categorie di minorazione fisica, psichica, sensoriale, comportamentale e motoria, che spesso risentiva di un'estrema variabilità
negli approcci dei singoli servizi. L'adattamento dell'ICF all'età evolutiva parte soprattutto dalla considerazione che "le manifestazioni del funzionamento, della disabilità e delle condizioni di salute nell'infanzia e nell'adolescenza hanno natura, impatto, intensità e conseguenze diversi da quelle degli adulti" (OMS, 2007, p. 17 dell'edizione italiana). L'ICF-CY innanzitutto contestualizza lo sviluppo del bambino nel contesto familiare; inoltre integra i qualificatori dell'ICF ricorrendo al concetto di ritardo o sfasamento nella comparsa di funzioni, nell'esecuzione di attività ecc., mettendo dunque l'accento sulla natura dinamica e in fieri dei cambiamenti. Particolare enfasi, oltre che sull'ambiente, viene posta sugli strumenti che si utilizzano per la diagnosi, che vanno scelti accuratamente e sempre menzionati. L'ICF-CY si propone infatti come riassunto dei risultati dell'assessment e vuole essere la base della pianificazione degli interventi. Infine l'ICF si era dimostrato inadeguato a descrivere il profilo funzionale degli individui in età evolutiva in quanto poche categorie di tale classificazione rappresentavano le caratteristiche di sviluppo tipiche dei bambini e dei ragazzi, in particolare per quanto riguarda le funzioni cognitive, il linguaggio, il gioco, l'apprendimento e il funzionamento a casa, a scuola e nella comunità (Pradal, 2011).
3. Disabilità: il problema dell'intervento La complessità, evidenziata nei paragrafi precedenti a proposito della definizione di disabilità e della diagnosi si riflette naturalmente anche sul problema dell'intervento. Occorre innanzitutto specificare che situazioni diverse per tipologia e per gravità della menomazione o per caratteristiche individuali possono richiedere interventi in vari ambiti: un intervento medico è per esempio necessario nei casi in cui sia possibile prevenire un'estensione della menomazione iniziale (pensiamo all'uso degli antibiotici in un caso di perdita uditiva provocata da una grave infezione all'orecchio medio) o la formazio-
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ne di danni secondari (per esempio danni fisici ulteriori derivati dall'essere parzialmente o completamente immobilizzato); l'intervento medico è ovviamente indispensabile in presenza di forme morbose croniche che necessitano l'uso di farmaci (ad esempio l'epilessia).
Un intervento psicologico è premessa indispensabile per un legame forte fra momento diagnostico, progettazione, intervento e verifiche. Le
competenze relative ai processi di sviluppo e di apprendimento sono infatti necessarie per individualizzare le proposte e valutarne l'efficacia. Un intervento dello psicologo clinico è inoltre importante nei casi in cui problemi relazionali e/o comportamentali di una certa entità si associno alla situazione di disabilità. Abbiamo già fatto cenno a come le barriere psicologiche possano ostacolare un pieno utilizzo delle potenzialità presenti: possono sortire tale effetto una bassa autostima, una scarsa consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, nonché ovviamente la presenza di vere e proprie forme psico-patologiche. Un intervento psicologico sarebbe sempre auspicabile per prevenire l'insorgere di tali problematiche e per supportare le famiglie nella fase iniziale e nei momenti più critici dell'evoluzione
propria e del ragazzo. Infatti, come sottolineano Harris, Boyle, Fong, Gill e Stanger (1987), un intervento efficace richiede un'attenzione sia alle domande specifiche legate alla disabilità del bambino, sia alla situazione evolutiva della famiglia come unità. Infine, lo stesso funzionamento del gruppo di lavoro nel suo insieme richiede la messa in atto di competenze in psicologia dei gruppi: la figura dello psicologo sembra dunque un supporto fondamentale per lo stesso lavoro di équipe.
Altrettanto indispensabile è in ogni caso un intervento educativo: le istituzioni educative di vario tipo (la scuola innanzitutto, ma anche i corsi professionalizzanti, i centri socio-educativi, i centri per disabili gravissimi ecc.) assolvono funzioni imprescindibili nel campo della socializzazione, dell'acquisizione dei comportamenti adattivi, dell'apprendimento. Si può
parlare inoltre di un intervento sociale, del quale spesso si fanno promotori gruppi istituzionali, nonché associazioni delle famiglie o delle stesse persone disabili. La Convenzione delle Nazioni unite (ONU, 2006) sancisce per l'appunto i diritti all'uguaglianza dei bambini con disabilità. Un intervento sociale è indispensabile per eliminare barriere di varia natura che ostacolino il godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali Un intervento della comunità e sulla comunità è inoltre importante per garantire il diritto a giocare, svolgere attività sportive e partecipare alla vita
culturale. È bene ricordare che in molti casi gli interventi psicologici, sociali ed educativi non vanno pensati solo nei confronti della persona con disabilità, ma vanno indirizzati a migliorare le caratteristiche degli ambienti di vita. Come sottolineato nell'ICF-CY, un primo livello di adeguamento dell'am-
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biente prevede la garanzia di cibo, riparo e sicurezza. La presenza di ausili e tecnologie può in molti casi costituire un elemento che facilita il funzionamento. Agire sull'ambiente in altri casi può significare offrire supporto psicologico e sociale alle famiglie.
Infine, tipicamente collegato alle situazioni di disabilità è l'intervento riabilitativo: esso ha la funzione di attivare o migliorare funzioni e/o competenze in modo da consentire all'individuo di utilizzare al meglio le
proprie potenzialità all'interno di un contesto sociale il più ampio possibile. La riabilitazione può essere centrata principalmente sulle funzioni motorie, sul linguaggio, sull'acquisizione di strategie ecc., in base sia alle tipologie di deficit prevalenti sia a un bilancio dei punti di forza e a una lettura attenta dei bisogni della persona. Se si prescinde da questi ultimi infatti, qualsiasi intervento può ottenere una riduzione del problema solo apparente o rischiare al limite di creare esso stesso nuovi deficit: per esempio, una riabilitazione che richieda un lavoro individualizzato quotidiano di molte ore per molti anni rischia di ostacolare i normali processi di socializzazione, nonché di creare situazioni di isolamento sociale per gli individui e per le
famiglie.
Rimandiamo ai capitoli che seguono la descrizione di alcuni metodi di intervento; in questa sede ci limitiamo a evidenziare gli "ingredienti" che ci sembrano indispensabili per qualsiasi progetto in questo campo:
1. la storicità: un intervento deve essere strettamente collegato alla diagnosi e tener conto di eventuali percorsi riabilitativi, educativi o terapeutici precedenti; è importante inoltre che di ciascun progetto realizzato rimanga una traccia leggibile che serva come base per le scelte future; 2. la globalità: la presa in carico coinvolge sempre sia il versante affettivo sia quello cognitivo, anche se l'obiettivo principale può riguardare più da vicino l'uno o l'altro aspetto. Come sottolinea Bedin (2011), esiste una stretta relazione tra vita emotiva, stati d'animo, qualità delle relazioni interpersonali, prestazioni e funzionamento dell'individuo e successo dei percorsi riabilitativi. Gli studi sui disturbi dell'apprendimento per esempio hanno messo in luce come in molti casi si associno a tali difficoltà vere e proprie forme di depressione; inoltre, ancora più frequentemente, gli individui manifestano un generale senso di inadegua-
tezza accompagnato da un disinvestimento sulle proprie attività mentali, con conseguente sottostima del ruolo dell'impegno: è chiaro come, con queste premesse, anche una riabilitazione tecnicamente ineccepibile sia destinata a produrre scarsi risultati;
3. la partecipazione attiva del bambino e/o della sua famiglia al progetto. E un'esperienza quotidiana per ciascun individuo constatare quanto i successi o i fallimenti in vari ambiti siano fortemente connessi alla mo-
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tivazione e al grado di adesione al compito. Non si può quindi pensare che un intervento educativo, riabilitativo, terapeutico, che spesso dura molti anni e richiede un certo grado di impegno e fatica possa essere semplicemente imposto al soggetto con disabilità e alla sua famiglia
come una realtà necessariamente connessa alla situazione stessa di disabilità. Vianello (1994) ha efficacemente sintetizzato tale concetto, pun-
tualizzando la necessità di restituire al bambino la diagnosi affinché
egli possa essere soggetto attivo del suo apprendimento. In alcune situa-
zioni, con bambini molto piccoli o con casi molto gravi, non è possibile né auspicabile far leva su una presa in carico consapevole da parte del diretto interessato; è tuttavia possibile lavorare cercando un'adesione emotiva anche inconsapevole e soprattutto non trascurando i momenti
di rifiuto come sintomi di "cattiva volontà", ma cercando di leggerli
come segnali di disagio. Per quanto riguarda il coinvolgimento della famiglia, rimandiamo per una trattazione più dettagliata alle parti del volume riguardanti i contesti. Anticipiamo tuttavia come diverse ricerche abbiano evidenziato il ruolo di primo piano della famiglia nella riuscita dell'intervento (cfr. rassegna di Marin, 1993 sui bambini Down; Harris et al., 1987), pur sottolineando come talvolta sia difficile conciliare questo ruolo con quello più semplicemente educativo proprio di qualunque genitore. Le ricerche sugli esiti della partecipazione a gruppi di genitori, ad esempio, hanno evidenziato come da essa traggano beneficio solo alcuni partecipanti, in particolare quelli che avvertono un bisogno di supporto e hanno la capacità di interagire efficacemente in un gruppo;
in altri casi tale partecipazione può risultare addirittura negativa, in
quanto collegata a un aumento di tensione personale e a un peggioramento dei rapporti personali e sociali (Krauss, Upshur, Shonkoff e Hauser-Cram, 1993). Un rischio da evitare inoltre nel progettare modalità di coinvolgimento dei genitori è quello che la vita di tutta la famiglia si strutturi al servizio della disabilità;
4. la finalità principale di migliorare la qualità della vita, in una prospettiva che ritenga potenzialmente evolutivo tutto l'arco di vita (Baltes e Reese, 1986; Fornasa e Vanni, 1990). A tale scopo il punto di partenza è costituito, come si è detto, da un bilancio dei deficit e delle potenzialità, ma anche da un'analisi psicologica dei bisogni della persona e da una valutazione delle risorse presenti nel contesto. Nella valutazione della qualità della vita l'attenzione si sposta dalla misurazione oggettiva
del funzionamento alla percezione soggettiva degli eventi di vita e al livello di soddisfazione personale. Gli indicatori di tale costrutto sono culturalmente determinati e riguardano diversi fattori: innanzitutto l'indipendenza, legata allo sviluppo delle potenzialità e all'autodeterminazione; la partecipazione sociale, intesa come qualità delle relazioni in29
terpersonali, inclusione e integrazione nella comunità e pieno esercizio dei diritti, infine benessere a livello emotivo, fisico e materiale (Bunti e Schalock, 2010);
5. la programmazione puntuale: perché un intervento sia efficace è
importante che esso si ispiri a un modello teorico scientificamente fon. dato, sulla base del quale stabilire obiettivi a lungo e a breve termine realisticamente raggiungibili, metodologie e strumenti di lavoro adegua ti e modalità di verifica dei risultati raggiunti. Come sottolinea Marin (1993), i programmi di educazione individuale "mostrano spesso mancanza di obiettivi specifici, di criteri univoci e di materiali" (p. 124): gli effetti di un'impostazione poco rigorosa degli interventi e di una conse.
guente scarsa efficacia degli stessi possono essere catastrofici, in quanto rafforzano e consolidano nelle persone con disabilità l'idea di immodifi.
cabilità dei processi mentali e la sottostima del ruolo dell'impegno.
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Parte I Le tipologie
2. Disabilità uditiva di Mirella Zanobini
1. Premessa Nell'affrontare le problematiche connesse al deficit uditivo ci si trova a descrivere una situazione connotata da estrema variabilità. Chi è dunque il sordo? Le risposte possono essere molto diverse sia in base alle caratteristiche delle persone colpite da tale disabilità, sia in base alle teorie di riferimento di chi tratta l'argomento. Basti per esempio pensare a come la terminologia utilizzata storicamente sottenda visioni diverse del problema. Con il termine sordomuto - ormai desueto - ci si riferisce a persone che costituzionalmente non possono né sentire né accedere al linguaggio, confondendo, come sottolineano Caselli, Maragna, Pagliari Rampelli e Volterra (1994), la conseguenza con la causa. L'art. 1 della legge 95/2006 (in vigore dal 31 marzo 2006) ha finalmente sostituito, in tutte le disposizioni legislative, il termine "sordomuto" con il termine "sordo". In particolare si utilizza la dicitura sordo perlinguale per indicare una condizione che, insorgendo prima della padronanza del linguaggio parlato, ne compromette l'acquisizione. Da sottolineare come la legge citata sostituisca il precedente concetto di impedimento nell'acquisizione del linguaggio verbale con quello appunto di compromissione, vale a dire che l'apprendimento del linguaggio non deve essere considerato impossibile, ma soltanto difficoltoso e quindi può realizzarsi, grazie a una corretta protesizzazione e a percorsi abilitativi precoci.
Per effetto di suddetta legge anche la storica associazione, l'Ente Nazionale Sordomuti, ha subito un'importante trasformazione giuridica, diventando Ente Nazionale per la protezione e l'assistenza dei Sordi -
Onlus.
La parola sordo dunque, che si è sostituita nell'uso comune e nelle disposizioni legislative alla precedente, fa più correttamente riferimento al solo deficit uditivo, sottendendo quindi l'idea che chi non sente non ha per 33
questo perduto la facola di apprendere non alo. Tutarch se lac 0дь parola e ostacolao dalla limitationese artavo e maio tale termine a
parola d non sostolineare che il deficit udivo on seeto na ramente cosa!
limi alla quantia e qualità dei residui udita onestono quadri deficien cheemamente differenziati. Alla luce di tali considerazioni moli ries.
estrema operatori del settore preferiscono parlare di persone audiolese con ipoacusia, cioè di persone che, per ano pittavesse dalvolta gravemend nel accesso al mondo dei suoni, conservano tuttavia anche in questambino
potenzialità e risorse. lecome sottolineano fra altri Marschark (1993) e Moeller, Tomblin, Ioshinaga-Itano, McDonald Connor e Jerger (2007), molti sono i fattori che determinano la variabilità evidenziabile fra persone con deficit uditivo: la
causa della sordità (ereditaria o acquisita), la qualità e il grado della per. dita uditiva, l'eventuale presenza di altri danni associati, l'appartenenza i famiglie di sordi o di udenti, l'estensione dell'esperienza interpersonale linguistica e non, la qualità e il tipo di educazione la qualità dell'utilizzo di apparecchi acustici o impianti cocleari. Ad essi se ne potrebbero aggiunge. re molti altri: oltre all'importanza concordemente attribuita a una precoce individuazione del deficit e alla tempestività dell'intervento protesico e riabilitativo, rivestono per noi particolare interesse l'impatto della disabilità sulle famiglie (non riconducibile alla sola variabile presenza della sordità in uno o entrambi i genitori), nonché la capacità di una rete sociale più allargata (dai parenti, agli amici, agli operatori dei servizi) di fornire un supporto psicologico, materiale e tecnico ai bambini ipoacusici e alle loro famiglie. Si tratteranno così molto sinteticamente le principali tematiche relative all'incidenza del danno sulla variabilità individuale: tipi di sordità, cause, gravità del danno, epoca di insorgenza. Si passerà quindi ad analizzare le problematiche relative ad alcune aree di sviluppo (soprattutto sviluppo socio-emotivo, cognitivo, della memoria, del linguaggio e della comunicazione), alla luce delle limitazioni connesse al deficit, nonché delle variabili ambientali e psicologiche sopra menzionate. Infine si farà una breve rassegna dei principali approcci educativi e riabilitativi, presentando più estesamente un metodo pedagogico e riabilitativo (Drezandié, 1988) che sembra rispondere in modo ottimale, allo stato attuale delle conoscenze, sia alle istanze di rispetto delle caratteristiche peculiari delle persone sorde, sia alle istanze di inclusione ormai consolidate nella realtà italiana per questo come per tutti gli altri tipi di disabilità.
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2. Tipo di sordità e cause Tratteremo molto sinteticamente questa parte, poiché una conoscenza accurata degli aspetti clinici del danno uditivo non è di stretta pertinenza
di questo volume; una breve panoramica di tali aspetti si rende tuttavia necessaria alla luce del fatto che la gravità della perdita sensoriale, l'epoca d'insorgenza della stessa e il fatto di costituire un evento più o meno prevedibile per la famiglia hanno importanti ripercussioni sulle dimensioni psicologiche del problema, nonché sull'impostazione del trattamento: come in altri casi, una corretta e precoce diagnosi eziopatogenetica è il primo passo di un approccio efficace al problema nel suo complesso. Per approfondimenti sull'anatomia e fisiologia dell'apparato
uditivo si consiglia Chacun-Desbois (1964) e Cervetto, Marzi e Tassinari (1987); per la trattazione degli aspetti clinici della patologia infantile Del Bo e Cippone De Filippis (1981), Schindler (1987), Bickel (1989), Roizen (1990), Bubbico (2006). Secondo quanto riportato da Bubbico, Rosano e Spagnolo (2006), la sordità non sindromica - ossia non associata ad altre anomalie - prelinguale neonatale rappresenta il difetto sensoriale ereditario più frequente nei neonati, con una incidenza intorno a 200/100.000.
Una prima fondamentale suddivisione dei tipi di sordità riguarda la
localizzazione del danno (cfr. fig. 1) che comporta la conseguente perdita uditiva; in quest'ottica si distinguono: - sordità trasmissive (3-4% dei bambini'), che interessano le parti dell'apparato uditivo deputate alla trasmissione del suono (orecchio esterno e orecchio medio): in questo caso le onde sonore non arrivano o arrivano parzialmente distorte all'orecchio interno. Si tratta di solito di sordità
lievi;
- sordità percettive (0,05% dei bambini), suddivise a loro volta in neurosensoriali, quando l'anomalia riguarda l'orecchio interno e le connessioni nervose ad esso prossime, e centrali, quando l'anomalia riguarda i centri uditivi del cervello e le connessioni distali del nervo acustico: in tali casi la trasmissione delle onde sonore avviene normalmente, mentre è compromessa la trasformazione di tali vibrazioni in percezione uditiva. La perdita uditiva può essere da lieve a gravissima; sordità miste, nelle quali si sommano anomalie nella conduzione e nella percezione del suono, poiché interessano sia zone periferiche che centrali dell'apparato uditivo. Diversi esami clinici hanno la funzione di discriminare sordità di percezione e di trasmissione:
1. Le percentuali sono riprese da Schindler, 1987.
35
Fis. 1L'arechio esterno è cortineso da lesterno dal orecchio ed onda udir Fie. - liore timpano separa l'orecchio esterno dall'orecchio medio, cavia che canea, membrana dei ossicini, depurata alla trasmissione del suono Nell orecchio intero in la catena de, che contiene l'organo dell'udito. La tromba di Eustachio collega orcio va la cola gola: i canali semicircolari. che si trovano nell'orecchio interno fanno pano dell'apparato vestibolare (da Milner, 1970)
OssO Detroso
canali semicircolari
incudine
nervo diretto al cervello
coclea
(orecchio interno)
mesto uditivo esterno
timpano
cellule sensoriali / tromba di Eustachio della coclea orecchio medio (al retro della bocca)stimolate dalle onde sonore
stalla
- l'impedenziometria, che fornisce una serie di misure oggettive sul funzionamento dell'orecchio medio; i metodi elettrofisiologici, che registrano i potenziali uditivi suscitati da stimoli sonori lungo le vie uditive: il metodo più usato è "la registrazione dei potenziali evocati dal tronco cerebrale in corrispondenza del passaggio dello stimolo nervoso dalla coclea fino alla corteccia temporale" (Bickel, 1989, p. 225); - l'audiometria soggettiva, che può essere effettuata con diverse modalia in base all'età e al grado di collaborazione del soggetto e che consiste nel verificare la possibilità di percepire suoni a diverse frequenze e in tensità. Essa "comprende l'audiometria tonale? e l'audiometria vocale e si basa sulle risposte date dal paziente che quindi partecipa attivamente all'esame" (Marcotullio, 1992, p. 36): il tipo di audiogramma ottenuto da informazioni preziose sul tipo di sordità, ma sopratutto sulla gravi del deficit. Un'importante classificazione dei tipi di sordità è infatti centrata sul fattore gravità della perdita uditiva. Tale gravita può essere definita in bus al sondiomneria tonale si effetua attraverso un apparechio, l'audiometro, die int in ali sonori puri di diverse frequenze con verse un apparecchio. laudiare gradanant in base alle presunte capacila percettive del solereta, che viene fatoa e puo essere cliente
de straverso la via aereo-timpanica, ossia soggetto. Tale operazione i pe 1а ісив
de і - а verso la via овіса с пе: а ашеіа погтавтеле цініаля роте сітронов
pecchio medio), indaga diretamente la Cicladendo il sistema di raseis o di appare
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alla quantità e alla qualità del deficit; parametri di riferimento sono rispettivamente l'intensità e l'altezza dei suoni percepiti. L'intensità è data dall'ampiezza di pressione dell'onda sonora e si misura in decibel (dB); essa corrisponde alla sensazione soggettiva di sentire un suono più o meno forte. L'altezza (che consente di distinguere suoni acuti e gravi) è data dalla frequenza di tale pressione e si misura in hertz (Hz: numero di cicli al secondo); l'orecchio umano non patologico percepisce frequenze comprese all'incirca fra 20 e 20.000 Hz. Le risposte della persona con ipoacusia possono variare molto: il deficit uditivo può interessare una gamma più o meno ampia di frequenze, la perdita può essere uniforme o viceversa colpire maggiormente i suoni acuti o quelli gravi. Nelle sordità neurosensoriali, di insorgenza precoce e che generalmente presentano i quadri di maggiore gravità, è più spesso deficitaria la ricezione delle frequenze acute. Tali risposte, come si è detto, vengono segnate su un grafico dove in ascissa sono riportate le frequenze e in ordinata le intensità soglia per ogni frequenza (audiogramma). La sordità è tanto più grave quanto più alta è l'intensità necessaria perché i suoni vengano ricevuti e quanto minore è la gamma di frequenze che l'orecchio percepisce. L'entità del deficit uditivo viene solitamente calcolata facendo la media delle intensità soglia necessarie per sentire i suoni alle frequenze 500, 1000, 2000 e 4000° Hz. Esistono molte classificazioni, che differiscono principalmente nella definizione del livello di intensità a partire dal quale si parla di ipoacusia, ma anche nell'articolazione interna alla classificazione e nello stabilire le soglie della sordità più gravi, solitamente definite come profonde. Esemplifichiamo tale concetto in tabella 1, riportando tre classificazioni che differiscono per i diversi aspetti citati. Olusanya, Somefun e Swanepoel (2008) evidenziano come generalmente una menomazione uditiva nella prima infanzia sia considerata significativa quando il grado della perdita e la durata di tale carenza siano tali da inter-
ferire con il normale sviluppo del linguaggio. Vengono quindi escluse le
ipoacusie trasmissive a carattere transitorio, che si possono presentare nei bambini in seguito a otiti dell'orecchio medio, ma che difficilmente danno luogo a un deficit rilevante e permanente. Tuttavia, le linee guida dell'OMS (2010) sugli screening neonatali sottolineano come occorra non trascurare le conseguenze talvolta severe delle otiti croniche, anche se queste non vengono prese in considerazione nei programmi di screening (Zanobini, 2015). 3. Tradizionalmente per valutare la gravità si consideravano solo le frequenze fino a 2000 Hz, considerate cruciali per la percezione del linguaggio. La considerazione, nel computo, di una frequenza (4000 Hz) raramente evidenziabile nei bambini con ipoacusie neurosensoriali profonde può aumentare il rischio di indicare in modo improprio come totali un elevato numero di sordità.
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-
Tab. 1 - Classificazioni della ipoacusia in base alla gravità Bureau International
d'Audiophonologie (1997) lieve (da 21 a 40 dB)
Northern e Downs (2002)
perdita uditiva molto lieve (da 16 a 25 dB)
OMS
(2010) perdita uditiva lieve
(da 26 a 30 dB)
perdita uditiva lieve (da 26 a 40 dB)
perdita uditiva moderata
media di 1° grado (da 41 a 55 dB) (da 41 a 65 dB)
media di 2° grado (da 56 a 70 dB) perdita uditiva severa severa o grave di 1° grado (da 66 a 95 dB) (da 71 a 80 dB)
(da 31 a 60 dB) perdita uditiva severa
(da 61 a 80 dB) perdita uditiva profonda
severa o grave di 2° grado (da 81 a 90 dB)
profonda di 1° grado (da 91 a 100 dB)
perdita uditiva moderata
(oltre gli 81 dB) perdita uditiva profonda (oltre i 96 dB)
profonda di 2° grado (da 101 a 110 dB) profonda di 3° grado (da 111 a 119 dB
totale (oltre i 120 db)
Infine, un'ulteriore modalità di classificazione può essere operata a partire dalle cause (sordità ereditarie e acquisite) e dall'epoca di insorgenza del deficit (prenatale, perinatale, postatale). La tabella 2 sintetizza ed esemplifica i principali fattori eziologici individuabili a partire da tale classificazione (Del Bo e Cippone De Filippis, 1981). Secondo l'American
Speech Language Hearing Association, si stima che circa il 50% delle sordità acquisite sia di origine genetica e che circa il 20% non sia attribuibile a cause note. Fino ad oggi sono stati identificati circa 30 geni responsabili
di diverse forme di sordità ereditaria. Ad esempio, negli anni 90 del
secolo scorso la ricerca in campo genetico ha consentito di individuare il gene (Connexina26) responsabile della maggior parte delle sordità aut tosomiche recessive. Non è questa la sede per approfondire la natura di tali scoperte; ci preme tuttavia sottolineare l'importanza che l'evoluzione della ricerca genetica può avere ai fini della prevenzione e della diagnosi precoce. Occorre inoltre precisare che, negli ultimi anni, anche la cor noscenza delle malattie, materne e infantili, che possono causare perle uditive, ha messo in moto un'attività di prevenzione primaria che fende 8 far decrescere il numero di ipoacusie in genere e in particolare di quel causate da tali eventi.
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Tab. 2 - Cause della sordità
Ereditarie Recessive Dominanti (circa il 75% (circa il 20% delle sordità delle sordità ereditarie) ereditarie) La sordità La sordità interessa uno interessa molti individui in ogni scarso numero generazione. di individui distribuiti Si può manifestare in varie generazioni. in periodi Si manifesta successivi alla nascita. alla nascita. Tale forma Tale forma è responsabile
è responsabile
Acquisite
Prenatali
cause virali (es.: rosolia); cause microbiche (es.: sifilide);
cause parassitarie (es.:
toxoplasmosi); cause tossiche
Neonatali traumatismo ostetrico; prematurità; anossia; grave emolisi e secondario
Postnatali traumatismi; malattie infettive
(es.: meningite, encefalite); intossicazioni.
ittero
neonatale.
(es.:
streptomicina,
alcool).
di sordità meno di sordità molto gravi. gravi.
Attualmente riveste moltissima importanza la possibilità di effettuare una diagnosi precoce e corretta, in quanto negli ultimi decenni gli ausili che consentono anche a bambini con sordità profonda di accedere al mondo dei suoni hanno conosciuto una notevole evoluzione. La rilevazione precoce della sordità è quindi importante, perché consente una presa in carico nel periodo ottimale per lo sviluppo del linguaggio. Dal confronto fra bambini sottoposti a uno screening neonatale e bambini con diagnosi più tardiva emerge come la diagnosi prima dei 9 mesi sia associata a punteggi nel linguaggio recettivo ed espressivo significativamente più alti (Kennedy et al., 2006). Non è questa la sede per fornire una conoscenza dettagliata delle tecnologie attualmente disponibili. Faremo solo un cenno ai principali sviluppi in due settori: quello più tradizionale degli apparecchi acustici e quello dell'impianto cocleare.
Il primo cambiamento di rilievo nella predisposizione e nell'utilizzo
delle protesi acustiche è avvenuto con il superamento dell'idea che soltanto le alte frequenze fossero utili alla comunicazione orale e del conseguente rifiuto di protesizzare i sordi profondi, che spesso presentano residui uditivi proprio sulle frequenze basse (Drezandió, 1988); inoltre, le protesi acustiche di nuova generazione si basano su processori non lineari e utilizzano amplificatori multicanale, che consentono di privilegiare le frequenze del parlato, anche in ambienti rumorosi e di garantire un basso grado di distorsione nell'ascolto (Riccardi Ripamonti, Ricchetti, Scotti e Truzoli, 2001). 39
L'impianto cocleare invece *è uno stimolatore del nervo acustico, de utilizzarsi quando la coclea è completamente o gravemente deficitaria. Es so non è una protesi acustica, bensi un vero organo di senso elettronico in grado di stimolare direttamente, mediante energia elettrica, le fibre reside del nervo acustico" (Ambrosetti e Ugazio, 2006, p. 89). Come sottolineano Schery e Peters nella loro rassegna (2003), a patire dal 1990 si è assistito a un rapido incremento dell'utilizzo dell'impiano cocleare in bambini con perdite uditive severe e profonde, stimolando un gran numero di ricerche sugli effetti di tali dispositivi nel migliorare le ca. pacità percettive, nonché le capacità di comprensione e produzione lingui
stica. Sintetizzando i risultati di alcune tra le principali ricerche, i bambini con impianto sembrano mostrare maggiori vantaggi rispetto a quelli con apparecchi acustici, soprattutto nel padroneggiare gli aspetti fonologici e prosodici del linguaggio, con minori risultati nelle competenze sintatiche
Dagli studi di Pisoni e collaboratori Pisoni, Svirsky, Kirk e Miyamoto
1997; Pisoni e Cleary, 2002) sembra che i bambini che traggono vantaggi
cospicui dagli impianti abbiano migliori esiti in misure di percezione e comprensione linguistica, nel riconoscimento di parole, nell'intelligibilita dell'espressione linguistica, mentre non si differenziano dalla media de bambini impiantati per quanto riguarda il vocabolario recettivo, l'intelligenza non verbale e i compiti di attenzione visiva. Tali esiti tuttavia sono da collegare strettamente ai metodi utilizzati: i
bambini che seguono un programma intensivo di comunicazione orale han-
no maggiori vantaggi nella percezione uditiva e nell'intelligibilità dell'eloquio di quelli esposti a un metodo misto (linguaggio orale e lingua dei segni). Inoltre, bambini sordi che utilizzano protesi acustiche o impianti cocleari sembrano beneficiare di esperienze uditive simili a quelle dei coetanei udenti quando frequentano istituzioni prescolari caratterizzate dall'insegnamento del linguaggio parlato (Rufsvolt, Wang, Hartman, Arora, Smolen, 2018). Tuttavia, è importante non cadere nell'abbaglio di credere che di per sé l'impianto cocleare consenta ai bambini con sordità profonde di
accedere al linguaggio. In ogni caso i vantaggi di tale dispositivo sono accessibili solo grazie a una educazione formale intensiva e strutturata.
L'impianto cocleare è un organo di senso artificiale e non ripristina l'apparato uditivo come nel bambino udente, conseguentemente la sua efficacia è estremamente variabile (Gitti, 2008). Tale considerazione invita ad accogliere con estrema prudenza la tendenza attuale ad anticipare, addirittura al di sotto dell'anno di vita, la candidatura all'impianto (Ambrosetti e Ugazio, 2006): a fronte di una scarsa
evidenza che bambini così piccoli abbiano risultati migliori di quelli in-
piantati tra i 18 e i 24 mesi, si rischia di sottoporli a un intervento complessO, anche dal punto di vista chirurgico, prima ancora di conoscere la reale entità della loro perdita uditiva. 40
3. Lo sviluppo dei bambini sordi In questa parte affronteremo il problema, delicato e controverso, degli effetti della sordità sullo sviluppo dell'individuo. Gli autori che nel tempo hanno cercato di capire la natura e l'entità di tali conseguenze si sono imbattuti in questioni di metodo da un lato e di inquadramento teorico dei risultati dall'altro, cosicché ancora oggi diversi aspetti rimangono poco chiari. Già Oléron (1950) metteva in luce la difficoltà di studiare campioni di soggetti audiolesi sufficientemente ampi da consentire, tramite un confronto con un corrispondente campione di udenti, una generalizzazione plausibile dei risultati ottenuti. Tale problema è ulteriormente aggravato dall'estrema variabilità che, come si è detto, si registra all'interno della popolazione dei sordi (Rey, 1989). Per esempio Kyle e Harris (2010), analizzando le ricerche sulle capacità di lettura, mettono in guardia dal generalizzare le scarse abilità dei bambini con disabilità uditiva rispetto agli udenti, in quanto gli studi trasversali su larga scala tendono a mascherare l'enorme variabilità interindividuale, oscurando il fatto che alcuni bambini imparano a leggere molto bene. Non ci proponiamo quindi in questa parte di offrire un quadro generale della vita psichica dei sordi e della sua evoluzione; cercheremo invece di capire, alla luce di alcune ricerche, come la condizione deficitaria possa interagire con diverse variabili ambientali, in modo tale da sortire effetti anche molto differenziati in vari campi dello sviluppo. La scelta di tale impostazione consegue direttamente dall'idea che in questo, come e for-
se più che in altri tipi di disturbo, il peso delle risorse o viceversa delle barriere psicologiche, fisiche, sociali ed educative sia determinante nello stimolare o nell'offuscare le potenzialità dei singoli individui. E importante per un operatore conoscere quali possono essere aspetti critici nello
sviluppo, che come tali meritano particolari attenzioni, ma è altrettanto importante non impostare il proprio lavoro con limitazioni pregiudiziali, che spesso ostacolano anziché favorire lo sviluppo delle potenzialità. Marschark (1989, p. 41), commentando i risultati di alcune ricerche sulla memoria che mettono in luce una rigidità nell'organizzare il materiale appreso da parte dei bambini sordi, sottolinea come "troppo spesso, nel nostro sforzo di insegnare nozioni fondamentali a bambini sordi, tendiamo a essere troppo concreti, troppo letterali, e troppo precisi, con il risultato
che togliamo loro la capacità di affrontare il mondo in maniera flessibile". Drezancié (1988), d'altro canto, sottolinea come alcune carenze dello sviluppo linguistico tradizionalmente considerate conseguenze intrinseche della sordità (voce non ben timbrata, pronuncia della parola sillabata, uso di espressioni linguistiche povere), possano essere legate al fallimento del-
le modalità riabilitative utilizzate. 41
3.1. Sviluppo affettivo e sociale
Esaminiamo ora i principali stori si lo ti presenti nello sig.
dei Bambini sordi partendo dagli studi sullo sviluppo affettivo e sociale Warschark (1990; 1993) evidenzia che le ricerche sulla capacità de ne. nati di reagire selettivamente alla voce materna fin dai primi giorni di va mostrano come tale competenza, assente nei bambini sordi, possa esce
un fattore importante nello stabilirsi del legame di attaccamento. Lo se autore tuttavia sottolinea come i bambini sordi possano sfruttare altre foni d'informazione (per esempio l'odore) per identificare le figure familiari. in ulteriore ostacolo allo stabilirsi di un legame sicuro sarebbe costituito dal
percezione del bambino di una scarsa responsività materna, dovuta in un primo tempo alla caduta di una serie di stimoli esclusivamente vocali, us cessivamente all'ansia dei genitori per la mancata reattività del figlio e per la conseguente assenza di reciprocità. Com'è noto, infatti, il bambino a che molto piccolo svolge un ruolo attivo negli scambi con l'adulto: la scarsa reattività del bambino sordo sarebbe quindi frustrante per i genitori udenti
che, non immaginando la causa di tale atteggiamento, possono sentini rifiutati dal figlio. La successiva scoperta della sordità talvolta sembra a. gravare tale situazione aggiungendo ai sentimenti citati lo stress del dover affrontare una situazione difficile, che spesso richiede una ristrutturazione complessiva dell'organizzazione familiare. A questo proposito diversi autori (Marschark, 1993; Caselli et al., 1994 sostengono che tali problematiche appaiono meno rilevanti per le diadi madre-bambino entrambi sordi, sia per la maggiore prevedibilità della dissbilità, sia per l'instaurarsi di una precoce comunicazione attraverso il canale Visivo-gestuale; secondo Rey (1989, p. 186 della traduzione italiana), "dal 1970 circa, numerosi studi hanno mostrato che i bambini sordi di genitor sordi si sviluppano meglio dei bambini sordi di genitori con udito normale, anche quando le condizioni sociali, culturali ed educative apparivano sfavo revoli". Tale generalizzazione sembra tuttavia eccessiva alla luce di alcune considerazioni: le interazioni precoci madre-bambino sono frutto di un comtinuo adattamento reciproco ed è soprattutto la madre che nei primi mesi s
fa carico di interpretare i segnali infantili "come se" fossero intenzionali attribuendo loro un significato. Certamente le vocalizzazioni rivestono un ruolo importante per le diadi "udenti', ma riesce difficile immaginare di di fronte alla scarsa efficacia di tale canale le madri non adottino anche i consapevolmente sistemi vicarianti di comunicazione col proprio bambino sordo, il quale a sua volta tende a mettere in atto una compensazione senso tale (Oléron, 1950), utilizzando più estesamente i dati provenienti dagliat sensi. Tale compensazione appare tanto più probabile dal momento che % modalità interattive e comunicative che si ad oriana con tutti i bambinie d
42
questi usano nelle prime fasi dello sviluppo sono realmente multi-modali' (Caselli et al., 1994, pp. 223-224). Inoltre, è possibile ipotizzare che in molti
casi anche il canale vocale non sia totalmente escluso: le madri infatti spesso
utilizzano con i bambini piccoli una maggiore enfasi vocale, parlano loro tenendoli in braccio, cantano. Nella letteratura la voce umana parlata è classificata partendo da 80 Hz (Gribenski, 1964). Le analisi acustiche della propria voce effettuate da Drezanció (1988), registrano una frequenza di circa 220 Hz e confermano la possibilità di accesso alla voce umana per individui affetti da gravissime ipoacusie percettive, che conservano residui uditivi proprio su queste frequenze. Inoltre, quando si canta, lo stimolo sonoro ha una durata più lunga, che facilita l'ascolto da parte dei bambini sordi profondi. Infine, Lederberg e Mobley (1990), partendo da una dettagliata rassegna sull'argomento, mettono in guardia dal generalizzare risultati ricavati
dallo studio di piccoli campioni di soggetti ipoacusici, date le differenze individuali enormi nella competenza comunicativa e sociale. Alla luce di tali considerazioni, gli autori hanno confrontato 41 coppie di madri udenti e bambini audiolesi con 41 coppie di madri e bambini udenti (età dei bambini compresa fra 18 e 25 mesi), misurando le interazioni in base a tre parametri: qualità dell'attaccamento, quantità e qualità delle interazioni. Dai risultati emerge come, alla presenza di un bambino sordo, la quantità di interazione sia minore; in molti casi infatti i bambini non rispondono
alle sollecitazioni materne in quanto impegnati a guardare gli oggetti e non sempre pronti a dividere l'attenzione fra questi e la fonte di comunicazione. A dispetto di tali difficoltà comunicative, la qualità della comunicazione sembra altrettanto positiva e reciproca in entrambi i tipi di diade; inoltre non c'è fra bambini sordi e udenti differenza nella sicurezza del legame di attaccamento. È importante sottolineare che pressoché l'intero campione di
madri era coinvolto in programmi educativi (pur diversificati per finalità e metodo): ciò sembra confermare l'importanza di un intervento precoce che, coinvolgendo la famiglia, funga da supporto e tenda a contenere le
problematiche connesse alla scoperta della disabilità. Sembra infatti che la dimensione principale nel garantire un buon avvio allo sviluppo affettivo e sociale sia proprio la capacità degli adulti di non scoraggiarsi per la mancata produzione di suoni e di mantenere un contesto interattivo stimolante e una comunicazione ricca, sia essa prevalentemente orale o gestuale. Gli studi sulle tappe successive di sviluppo hanno messo in luce altre caratteristiche del comportamento degli adulti che possono danneggiare la conquista dell'indipendenza e del senso di sicurezza. Fra queste, particolare importanza sembra avere la tendenza, soprattutto materna, a una maggiore intrusività e direttività. Alcune ricerche hanno tuttavia sottolineato il ruolo anche positivo
dei comportamenti direttivi, nel facilitare ad esempio il coinvolgimento dei bambini audiolesi nello scambio conversazionale (Caissie e Cole, 1993). 43
h
Inoltre, come sottolineano Brown e Watson (2017), la maggior parte delle ricerche sulle interazioni fra genitori udenti e figli con sordità, che sottoline.
avano come problematico il carattere direttivo e non responsivo degli inter. venti dell'adulto in risposta ai contributi del bambino, sono stati condotti tra gli anni 70 e la fine del secolo scorso. Secondo gli autori, tali modalità erano
il risultato dei tentativi genitoriali di aggirare la difficoltà nel richiamare e
condividere l'attenzione, dovuta allo scarso accesso del bambino ipoacusico al mondo dei suoni. Attualmente, l'utilizzo di ausili acustici sofisticati ed ef-
ficaci minimizza tale rischio e consente di meglio evidenziare la sensibilità e la responsività dei genitori rispetto alle iniziative comunicative dei loro figli.
Inoltre, diverse caratteristiche comportamentali e temperamentali, ri-
scontrate nell'ambito di alcuni studi con frequenza superiore alla norma nei bambini sordi (impulsività, iperdipendenza, bassa autostima, aggressività,
ecc.) sembrano essere effetti secondari della sordità (Marschark, 1990; Vaccari e Marschark, 1997) e dipendere dunque non da proprietà intrinseche al deficit di partenza, ma dallo strutturarsi di relazioni problematiche, all'interno delle quali, come talvolta succede per questo come per altri tipi di disturbo, le difficoltà oggettive che la situazione di deficit comporta finiscono col permeare di sé tutta la vita della famiglia. Anche per le relazioni extra familiari i problemi comunicativi riportati da alcune ricerche nell'interazione con i coetanei, sembrano poter essere superati quando la conoscenza reciproca consente ai compagni di gioco, bambino sordo e bambino udente, di adattare reciprocamente il proprio modo di comunicare (Lederberg, Ryan e Robbins, 1986). Theunissen, Rieffe, Kouwenberg, Soede, Briaire e Frijns (2011) evidenziano come i bambini con disabilità uditiva che frequentano scuole comuni e hanno un'educazione oralista presentino meno sintomi depressivi di bambini educati in scuole
speciali che usano la lingua dei segni o una comunicazione bimodale. Gli autori sottolineano come probabilmente questi ultimi abbiano meno contatti con i coetanei udenti e siano più isolati nella vita sociale; di con-
seguenza, essi avrebbero minori opportunità di sviluppare strategie utili ad affrontare efficacemente le situazioni di difficoltà.
3.2. Sviluppo cognitivo e della memoria L'interesse per lo sviluppo cognitivo dei bambini sordi appare legato soprattutto negli studi classici degli anni 1950-60 - non soltanto all'ambito clinico, ma alla volontà di capire il ruolo del linguaggio nello sviluppo cognitivo anche degli udenti. In quest'ottica, gli studi di Furth (1966) sull'acquisizione di concetti e sul raggiungimento delle capacità di conservazione (osservate adattando i compiti piagetiani in una versione non verbale), hanno 44
evidenziato un ritardo di sviluppo dei bambini con problemi di udito di duequattro anni rispetto ai coetanei udenti. L'autore attribuisce tale ritardo alla povertà di esperienze e solo indirettamente al carente sviluppo linguistico, in quanto ostacolo a una varietà di interazioni sociali. Oléron (1950; 1953), d'altra parte - pur mettendo in luce le notevoli differenze riscontrabili fra un individuo e l'altro - afferma che l'idea di un ritardo di sviluppo è quella che meglio caratterizza la vita psichica del bambino sordo; secondo l'autore inoltre tale ritardo si manifesta soprattutto nel pensiero astratto ed è strettamente legato alle carenze dello sviluppo linguistico, essendo il linguaggio un modo per esercitare il pensiero e uno strumento di risoluzione dei problemi. Tali studi - condotti in un'epoca in cui l'accesso all'istruzione dei bambini con problemi di udito era ancora notevolmente limitato - hanno contribuito a creare un'immagine del sordo come individuo concreto, legato nella risoluzione di problemi all'evidenza percettiva immediata e incapace di raggiungere, anche da adulto, forme di pensiero più elevate. Già negli
anni '60 tuttavia si faceva strada l'idea che non ci fossero differenze né quantitative né qualitative tra l'intelligenza degli udenti e dei non udenti. Come riporta Moores (2017), Joseph Rosenstein, in una rassegna del 1961
sui processi percettivi, cognitivi e linguistici nei sordi, evidenziava come l'uso di termini come concreto e astratto per caratterizzare i processi intellettivi di sordi e udenti fosse ambiguo e confusivo in quanto le ricerche, controllando per i fattori linguistici, non riscontravano nessuna differenza nelle capacità concettuali dei due gruppi: le persone con disabilità uditiva infatti non mostravano difficoltà specifiche nel ragionamento astratto. Anche ricerche condotte in Italia negli anni '90 (Albanese, 1990; Alba-
nese, Belloro e Quagliarini, 1997), che hanno utilizzato prove piagetiane con bambini di 9-11 anni affetti da sordità neurosensoriale profonda, non hanno riscontrato differenze significative rispetto ai coetanei udenti nella esecuzione delle prove, ma, in alcuni casi, solo nell'esplicitazione delle strategie utilizzate. Gli autori concludono non solo che lo sviluppo intellettivo nel periodo operatorio è equivalente nei sordi e negli udenti, ma che in entrambi i gruppi si riscontra un'elevata variabilità intra e interindividuale nelle prestazioni alle prove di conservazione (sostanza, peso e volume). Di fronte a tale quadro composito emergono alcune considerazioni: - l'estrema variabilità dei risultati ottenuti sembra essere almeno in parte connessa alle differenze ancora notevoli riscontrabili non solo nella competenza linguistica, ma anche nella generale qualità dell'esperienza educativa e nell'efficacia dei metodi riabilitativi utilizzati; - il fatto che molte persone sorde raggiungano gradi elevati di istruzione e siano in grado di svolgere attività lavorative di alto livello, ci porta a concludere che il ritardo nell'acquisizione di certe competenze non possa essere attribuito alla condizione di sordità di per sé;
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- il fato tutavia che ancora troppo speso basse ten sensoriale si 0.
'alto a dificola di apprendimento e a alcuni interdineno scola, parta a riletere sull inadeguatezza di alcune interventi e sul reco porta confronto serio fra varie scuole per meglio evidenziare i macina
successo e di insuccesso. sucpre nel'ambito dello sviluppo cognitivo e dell'apprendimeno rie
stono un notevole interesse gli studi sulta memoria: essi sono stai conte
stilizzando compiti di memoria a breve e a lungo termine. Marchi
(1989) evidenzia come i risultati delle ricerche siano talvolta discorda ti, sia nel valutare l'efficacia delle competenze mnemoniche rispetto a udenti, sia nell'attribuire agli individui con disabilità uditiva una prece. za per codici visivo-spaziali versus codici verbali-sequenziali e attribuis. tali discordanze alla grande variabilità di competenza linguistica nei sg getti sordi: essa contribuirebbe in molti casi a evidenziare un'inferiona
nel campione audioleso rispetto a quello udente, meno diversificato al suo
interno. Una conclusione che sembra possibile trarre, anche in base al ricerche effettuate dall'autore citato, è che i bambini sordi usino codia diversi in base al tipo di abilità linguistica posseduta: "questo significa che
per bambini che fanno uso di linguistiche dei segni, un codice visivo o
cinestesico di una parola può aiutare la memoria, allo stesso modo che un codice verbale o fonologico può aiutare bambini con udito e bambini sordi
che fanno uso del linguaggio orale" (ivi, p. 38): le differenze sembrano legate non tanto al fatto di non sentire, quanto alle differenti esperienze linguistiche (Marschark e Hauser, 2012). Inoltre sembra importante com durre con bambini ipoacusici un lavoro sistematico sull'uso appropriato d strategie mnemoniche (quali ad esempio la ripetizione), che essi sono i grado di utilizzare come gli udenti, ma che spesso non mettono in pratic spontaneamente. Si tratta, quando il bambino è piccolo, di offrire nel mo do più naturale possibile delle occasioni di ripetizione e di fissazione de materiale di apprendimento, compensando con un intervento finalizza
la scarsa ridondanza delle informazioni cui sono sottoposti i sordi. l
piccolo udente infatti spesso impara un nuovo concetto, una nuova pard perché ne fa naturalmente esperienze ripetute; con i bambini sordi occor offrire sufficienti occasioni di immagazzinamento affinché la fissazione un materiale nuovo sia sicura e lasci tracce permanenti. Con i bambini P grandi è importante renderli gradualmente consapevoli del ruolo indispe sabile delle strategie di memorizzazione per l'acquisizione e il ricordo di
che a lungo termine di nuove informazioni. Per l'educatore o il terapis si tratta di non accontentarsi della semplice esecuzione o ripetizione D mentanea, ma di utilizzare metodi e strategie che garantiscano al segal audioleso la possibilita di interiorizzare (e quindi di poter utilizzare 8 momento opportuno) gli apprendimenti. 46
In tempi più recenti molti autori si sono interessati allo sviluppo della teoria della mente (cfr. cap. 8) nei bambini con disabilità uditiva. Infatti, come affermano Schick, de Villiers, de Villiers e Hoffmeister (2007), esaminare tali capacità in questa popolazione significa studiare un gruppo di bambini che hanno normali abilità sociali, cognitive ed emotive, ma solitamente uno sviluppo linguistico ritardato e consente quindi di valutare direttamente il ruolo che gioca il linguaggio nello sviluppo della comprensione della falsa credenza. Gli autori evidenziano come lo sviluppo del ragionamento sui processi cognitivi, implicato nei compiti di falsa credenza, possa essere in ritardo nei bambini sordi figli di genitori udenti - educati al linguaggio orale o alla lingua dei segni - mentre non presenta ritardi nei figli di genitori sordi. Non sarebbe quindi la sordità in sé a inficiare il ragionamento sui processi mentali, quanto il ritardo nel linguaggio - orale o segnato - potenzialmente presente in figli di genitori udenti (si vedano anche Marchetti, Liverta Sempio e Lecciso, 2006). Inoltre, il fatto che altre competenze legate alla teoria della mente siano del tutto paragonabili a quelle dei bambini udenti, induce a pensare che non esista un generale deficit metarappresentazionale
nei sordi. Essi infatti sanno spiegare le emozioni altrui in base agli stati mentali e ai desideri. Inoltre, come dimostrato da Want e Gottis (2005) usando un compito di imitazione, bambini dai quattro ai sette anni con deficit uditivo, a prescindere dalla precoce esposizione alla lingua dei segni, interpretano i movimenti delle persone sulla base degli scopi che li
generano e ne imitano solo gli aspetti che veicolano tali scopi piuttosto che mettere in atto un'imitazione fedele delle azioni che compie l'adulto.
La sordità in sé non implica quindi alcun tipo di cecità mentale. E importante tuttavia che un linguaggio ricco anche di termini riferiti alla vita mentale ed emotiva sia parte integrante dei programmi di riabilitazione orale, per supportare precocemente e in modo efficace i ragionamenti sui processi cognitivi propri e altrui. Inoltre, come si evidenzia in una ricerca di Peterson e Wellman del 2018 sul rapporto tra predizione del comportamento in base alla falsa credenza (dove Sally cercherà la biglia?) e spiegazione del comportamento dovuto a una falsa credenza (perché Sally
ha guardato dentro la scatola?), bambini con disabilità uditiva, al pari dei bambini udenti, rispondono meglio alle richieste di spiegazione che a quelle di predizione e migliorano le loro prestazioni se sottoposti a uno specifico training orientato a individuare nelle false credenze la spiegazione dei comportamenti inefficaci (Sally ha guardato dentro la scatola, perché non ha visto quando Anna ha spostato la biglia).
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3.3. Sviluppo linguistico
L'acquisizione del linguaggio costituisce l'ostacolo principale per le persone audiolese: un bambino con sordità prelinguale grave o profonda, infatti, smette intorno ai sei mesi di produrre suoni e, senza un intervento sistematico, non è in grado di apprendere il linguaggio verbale. Trattiamo brevemente tale aspetto, poiché la variabilità in questo campo è tale da rendere difficile l'uso di descrizioni generali, ci occuperemo poi nella parte dedicata ai metodi di sintetizzare come ciascuno di essi metta in atto stra-
tegie per favorire tale sviluppo. Occorre naturalmente partire da una distinzione fra apprendimento della lingua dei segni e apprendimento della lingua parlata. Tralasciamo di addentrarci nella polemica se l'acquisizione della prima inibisca o favorisca l'acquisizione della seconda, anche perché, a causa delle consistenti differenze fra diversi programmi bilingui, non è semplice valutarne l'impatto (Marschark, 2001); propagandare dunque l'effetto positivo o negativo del segno sulla parola rischia di diventare un problema squisitamente ideologico, con scarse basi scientifiche di riferimento. Sicuramente, un bambino sordo che nasca in una famiglia dove almeno uno dei genitori è segnante (ossia utilizza fluentemente la lingua dei segni per comunicare) apprende questa lingua con tempi simili a quelli che un bambino udente impiega a imparare la lingua parlata, acquisendo quindi nei primi anni di vita una modalità comunicativa visivo-gestuale (Everhart e Marschark, 1988), che gli consente di interagire efficacemente all'interno del nucleo familiare e con chi tale lingua conosce. Occorre però sottolineare come la percentuale di questi casi rispetto alla totalità dei sordi prelinguali sia estremamente ridotta. Per tutti i figli sordi di genitori udenti (più del 90%) non potrà mai avvenire un apprendimento naturale di questo tipo: il loro ambiente di vita non è infatti una comunità segnante e un genitore che desideri apprendere la lingua dei segni avrà bisogno di parecchio tempo, senza contare che difficilmente riuscirà a padroneggiare in pieno quella che per lui è una seconda lingua, espressa per di più attraverso un canale
con cui ha poca dimestichezza. È ipotizzabile quindi che nella maggior parte dei casi anche il bambino sordo segnante entri nella lingua con un ritardo più o meno marcato rispetto ai coetanei udenti. Tale ritardo è generalmente presente nel caso in cui il bambino venga educato oralmente; esso sarà tuttavia più o meno marcato in relazione sia a fattori intrinseci al deficit (entità, epoca di insorgenza), sia a caratteristiche individuali e dell'ambiente. Albanese, Ripamonti e Tomatis (1989) ipotizzano che due fattori siano importanti per il successo nell'apprendimento del linguaggio verbale: una predisposizione individuale per la comunicazione e per il linguaggio, che renderebbe alcuni individui più disponibili all'inte48
razione, e una parallela disponibilità alla comunicazione nell'ambiente e in particolare da parte delle madri. La già citata ricerca di Rufsvolt e collaboratori (2018) sull'impatto dell'input adulto su bambini con sordità educati oralmente, ha messo in luce come a una maggiore stimolazione linguistica da parte degli adulti corrisponda una maggiore loquacità dei bambini e un maggior numero di interazioni linguistiche tra caregiver e bambini. In estrema sintesi, considerando il linguaggio come un sistema complesso in cui interagiscono competenze fonologiche, lessicali/semantiche, grammaticali e pragmatiche, si può affermare che l'aspetto più direttamente compromesso dalla sordità è quello fonologico: la sensibilità alle
differenze tra i suoni della lingua, presente nei bambini molto piccoli, è naturalmente inibita dalle carenze del feedback uditivo. Molti autori ri-
conducono il ritardo nell'acquisizione del lessico principalmente alle citate difficoltà fonologiche (Moeller, Hoover, Putman, Arbataitis, Bohnenkamp, Peterson, Lewis, Estee, Pittman e Stelmachowicz, 2007), mentre evidenziano strategie simili nei sordi rispetto agli udenti nell'apprendimento di parole nuove e nello sviluppo delle categorie semantiche (Moeller, Tomblin, Yoshinaga-Itano, McDonald Connor e Jerger, 2007). Nell'acquisizione degli aspetti grammaticali, si evidenziano da un lato alcune difficoltà morfologiche: i morfemi liberi (articoli, preposizioni ecc.) sono parole brevi, non accentate e quindi difficili da percepire e riprodurre; la morfologia legata d'altra parte, che in italiano consente di concordare in base al genere e al numero e di coniugare i verbi, è anch'essa condizionata dalle difficoltà fonologiche, in quanto si tratta di cogliere piccole differenze, percettivamente
poco evidenti, ma rilevanti per la morfologia grammaticale (Zanobini,
Basili e Lanzara, 2010). D'altro canto, lo sviluppo sintattico sembra molto influenzato dalle metodologie educative utilizzate. Non è dimostrato infatti che la tendenza a utilizzare frasi brevi, semplici, talvolta incomplete e che presentano per lo più un ordine lineare (soggetto-verbo-complemento), sia una conseguenza diretta della sordità. Come sostiene la Drezancié (1980b, pp. 11-12), "per evitare la stereotipia delle frasi apprese in sede di rieducazione e per contribuire alla organizzazione del pensiero e alla maturazione cognitiva, oltre che linguistica del bambino, è necessario far acquisire al bambino un certo numero di frasi strutturate, anche se gli elementi fonetici di cui il bambino dispone sono pochi dal punto di vista numerico. Occorre in ogni caso evitare le possibili stereotipie nelle frasi apprese, variando gli elementi delle frasi e i loro rapporti (es.: Paolo ama Bubu, e le possibili variazioni: Bubu ama Paolo, Tino ama Bubu, ecc.)'. Un interessante studio sulle competenze narrative di bambini con disabilità uditiva parlanti inglese (Jones, Toscano, Botting, Marshall, Atkinson,
Denmark, Herman e Morgana, 2016) evidenzia come, a livello di macrostruttura narrativa, bambini sordi di età compresa tra 6 e 11 anni non
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si differenzino dai coetanei udenti: sono cioè capaci di raccontare storie
coerenti a livello di contenuto, di utilizzare dispositivi narrativi quali il
discorso diretto e indiretto, aggettivi e avverbi; essi tuttavia, pur con notevoli differenze interindividuali, come gruppo mostrano prestazioni deficitarie a livello di microstruttura narrativa, ossia nell'utilizzo di morfemi grammaticali e di meccanismi linguistici di coesione (uso corretto e non ambiguo dei pronomi, dell'articolo determinativo e indeterminativo, ecc.); tali difficoltà tendono a essere più presenti quando i bambini hanno minori competenze linguistiche e un vocabolario più ridotto. In sintesi, da un lato lo studio dimostra che i bambini educati oralmente, anche in presenza di
ritardi linguistici, sono motivati delle esperienze sociali a raccontare gli
eventi passati e hanno le competenze cognitive necessarie per creare i collegamenti che conferiscono coerenza a una narrazione. Tuttavia, per andare oltre gli elementi rudimentali della narrazione e acquisire una piena competenza narrativa, è necessario impostare un percorso riabilitativo che curi
l'acquisizione di un vocabolario ricco a livello quantitativo e qualitativo, come vedremo nei paragrafi sui metodi riabilitativi. Per quanto riguarda l'apprendimento della lingua scritta, ricerche in lingua italiana e in lingua inglese hanno evidenziato nella scrittura di molti individui sordi problemi e ritardi analoghi a quelli riscontrati nel linguaggio orale (cfr. Conway, 1988). A questo proposito alcuni autori indicano un possibile collegamento fra tali carenze e il ritardo nella competenza metalinguistica evidenziata dai bambini con ipoacusia in alcuni settori (Gartner, Trehub e Mackay-Soroka, 1993), segnalando quindi la possibilità di focalizzare l'intervento anche su tali capacità metalinguistiche. Altri possibili predittori delle capacità di lettura sono stati esaminati da una ricerca longitudinale su bambini dall'ottavo all'undicesimo anno di età (Kyle e Harris,
2010): la capacità di lettura labiale sembra predire le iniziali abilità di
lettura di parole, mentre l'ampiezza del vocabolario predice più stabilmente in tutte le tappe considerate le acquisizioni e i progressi sia nella lettura di parole, sia nella comprensione di frasi e di testi. Uno studio di Geers e Moog (1989), condotto esaminando le competenze in letto-scrittura di giovani con sordità profonda precocemente educati
con programmi audio-orali, ha evidenziato come ragazzi con ipoacusia
anche grave possano raggiungere all'età di 16 anni capacità di lettura simi-
li a quelle degli udenti, se stimolati correttamente da famiglia e terapisti Inoltre una ricerca di Pace, Pontecorvo, Skliar e Volterra (1994), finalizzatà a indagare le ipotesi sulla lingua scritta di bambini sordi frequentanti la scuola materna, ha riscontrato notevoli somiglianze con le ipotesi evidenziate nelle ricerche sui bambini udenti. Gli autori concludono che i bambini sordi non manifestano difficoltà di accesso alla lingua scritta e che i
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problemi spesso riscontrati nelle tappe successive possono essere affrontati con un intervento mirato; in particolare viene avanzata la proposta di favorire il collegamento fra segno, rappresentazione della parola con l'alfabeto manuale (dattilologia) e rappresentazione ortografica della stessa.
Leybaert e Alegria (1995) - inserendosi in un filone di ricerca volto a studiare l'uso delle informazioni fonologiche e morfologiche nello spelling di parole diverse per grado di trasparenza ortografica* (cfr. anche Campbell, 1994) - confrontano le prestazioni di bambini sordi educati oralmente e di bambini udenti a due livelli di scolarità (primi anni di scuola elementare vs ultimi anni di scuola elementare/inizio della scuola secondaria), in un compito di scrittura di parole target. I risultati evidenziano come i sordi, così come gli udenti, commettano più errori nel compitare parole irregolari e siano quindi sensibili al grado di trasparenza ortografica. Questi dati smentiscono l'ipotesi che le persone con sordità si limitino, nella letto-scrittura, all'uso di strategie visive, non linguistiche; viceversa dimostrano che essi hanno rappresentazioni interne del linguaggio e che sono in grado di stabilire relazioni fra i fonemi oggetto di tali rappresentazioni e i grafemi corrispondenti. Si possono quindi trarre conclusioni in linea con i risultati delle ricerche ormai classiche di Conrad (1970) che, dimostrando un effetto della somiglianza fonetica nel ricordo di nomi di lettere, avevano evidenziato l'utilizzo di un linguaggio interiore da parte dei sordi.
La ricerca citata tuttavia mette anche in luce la notevole eterogeneità che contraddistingue le prestazioni delle persone sorde in compiti di scrittura. Un elemento chiave di tale variabilità sembra essere il grado d'intelligibilità della produzione orale: chi utilizza un linguaggio comprensibile presenta una maggiore efficacia nell'effettuare analisi linguistiche delle parole nei segmenti che le compongono e conseguentemente nell'utilizzare le corrispondenze fra tali segmenti e i grafemi che li rappresentano. Queste considerazioni, relative all'esistenza di profili eterogenei nella qualità delle produzioni orali e scritte, vanno tenuti presenti prima di attribuire determinati pattern di errore alla sordità in sé. È quindi importante leggere anche alla luce di tale variabilità i principali tipi di errore evidenziati dal gruppo di ricerca dell'Istituto di Psicolo4. Gli stimoli della ricerca consistevano in 41 parole francesi, divise in tre classi in base al livello di trasparenza ortografica: le parole regolari, le quali possono essere trascritte correttamente con una conversione puntuale fonema/grafema; le parole morfologiche, simili a quelle regolari salvo che per il fatto di contenere un morfema finale ambiguo che può essere disambiguato attraverso la conoscenza dei legami morfologici con altre parole; le parole opache, la cui trascrizione deve essere memorizzata, in quanto contravvengono in alcune parti alle regole di conversione fonema/grafema.
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gia del Cnr in produzioni orali e scritte di individui sordi italiani, in linea con i risultati di ricerche condotte su altre lingue: omissioni e sostituzioni di articoli, di pronomi, di preposizioni; errori nell'uso dei modi e dei tempi del verbo, nonché nelle coniugazioni; omissioni degli ausiliari; imprecisioni lessicali (Caselli et al., 1994). Vediamo ora se e come un efficace approccio riabilitativo possa superare queste e altre difficoltà che ancora caratterizzano il linguaggio di tanti individui audiolesi.
4. I metodi riabilitativi Il dibattito sui metodi educativi e riabilitativi rivolti a persone con deficit uditivo si è storicamente centrato sulla lotta fra oralismo e gestualismo, con il sopravvento, in epoche e/o paesi diversi, dell'una o dell'altra tendenza. Ancora oggi tale dibattito è in molte occasioni vivace, ma purtroppo connotato di forti valenze ideologiche, che spesso allontanano dalle ragioni di un serio confronto scientifico. Sulla base di quanto è emerso dalle ricerche sullo sviluppo dei bambini con sordità sembra invece cruciale che i programmi riabilitativi ed educativi si orientino nello sfruttare appieno le potenzialità dei bambini ipoacusici, puntando al superamento di quelle difficoltà che paiono legate più a carenze nella stimolazione che alla sordità in sé. In particolare, come propone Zanobini (2015) sembra cruciale: - intervenire precocemente con un programma educativo e riabilitativo idoneo e con la tecnologia più adeguata al caso specifico; - prestare attenzione agli aspetti fonologici e prosodici, che sono alla base delle difficoltà linguistiche dei bambini con ipoacusia profonda;
- promuovere l'utilizzo di un lessico ricco e variegato: se non si introducono termini meno concreti, legati alla vita emotiva e mentale, si
rischia uno sviluppo incompleto della teoria della mente e delle competenze narrative; - impiegare strategie per potenziare le capacità mnemoniche, attraverso modelli e stimoli che costituiscano punti di riferimento per i bambini sordi; - promuovere l'autoregolazione, favorendo una partecipazione attiva del bambino al suo processo educativo e riabilitativo. Non ci addentriamo dunque direttamente nel confronto tra i metodi che
privilegiano il linguaggio orale e quelli che puntano in primis all'acquist zione della lingua dei segni, anche perché spesso si rischia di focalizzare il dibattito su una sola dimensione del problema, trascurando altri aspetti fondamentali alla luce delle seguenti considerazioni:
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- nessuna scuola propone più un'educazione esclusivamente gestuale e in ogni caso viene riconosciuta l'importanza di una competenza linguistica anche verbale. Tutte le diverse impostazioni teoriche devono dunque
far fronte al problema del come insegnare a parlare ai sordi profondi, problema che non si risolve senza un approccio metodologico preciso e programmato, con la semplice esposizione al linguaggio orale, a quello dei segni o a entrambi;
- le differenze fra scuole sono spesso marcate anche all'interno di una impostazione oralista o di un'impostazione mista (segno e parola): come
brevemente vedremo esse riguardano sia le modalità di insegnamento del linguaggio verbale sia, in alcuni casi, i tempi di inizio di tale insegnamento; un confronto scientificamente serio dovrebbe avvenire sui risultati effettivamente ottenuti in relazione alle modalità di lavoro e agli strumenti utilizzati. Vediamo ora molto sinteticamente alcune fra le principali proposte educativo/riabilitative.
4.1. Metodo bimodale "L'educazione bimodale si pone come obiettivo il raggiungimento di una buona competenza linguistica orale da parte del bambino sordo, utilizzando un supporto segnico nell'insegnamento della lingua vocale" (Massoni, 1985, p. 77). La lingua dei segni viene quindi utilizzata come supporto
alla lingua parlata: per questo motivo non può essere utilizzata la lingua dei segni vera e propria, poiché essa ha una morfologia e una sintassi completamente diverse dalle lingue vocali. Viene generalmente utilizzato un adattamento di tale lingua, in Italia per esempio non la Lis (lingua italiana dei segni), ma l'italiano segnato esatto (Ise): il lessico è quello della Lis, ma l'ordine delle parole segue le regole dell'italiano (Rinaldi e Caselli, 2008). Per i termini non presenti in lingua dei segni (articoli, preposizioni ecc.) si fa solitamente uso di un alfabeto manuale (dattilologia) o, in alcuni programmi bimodali (Périer, 1990), del cued speech, ossia di un sistema di supporto alla labiolettura, che consiste in suggerimenti manuali relativi ai fonemi vocalici e consonantici, realizzati vicino alla bocca mentre si parla (Hage, Alegria e Périer, 1990). In questo modo, nel corso della seduta logopedica, l'attenzione del bambino viene attirata sulle parti del discorso più passibili di essere omesse. Tuttavia, qualora la finalità principale della seduta logopedica sia "la comprensione globale di un messaggio o di una sto-
ria, insieme al parlato viene usato l'Italiano Segnato" (Caselli et al., 1994, p. 240), che segue con i segni l'ordine delle parole italiane, omettendo le 53
parole funzione. Infine, il metodo prevede una formazione dei genitori nella Lis, in modo che essi possano utilizzare con i figli la lingua dei segni che tradizionalmente usano i sordi per comunicare fra di loro. Ciò affinché i bambini possano usufruire fin da piccoli dell'esposizione ad un "linguag. gio naturale" attraverso la modalità visiva integra. Le problematiche maggiori connesse a tale impostazione pedagogica ci sembrano inerenti innanzitutto alla varietà di codici cui viene sottoposto i bambino: lingua italiana orale, lingua italiana dei segni, italiano segnato, ita. liano segnato esatto: sembrerebbe veramente troppo anche per un bambino senza problemi. Nell'ambito della riabilitazione poi, l'abbinamento suggerito da Beronesi (1985) fra movimenti ideati per accompagnare l'emissione voca-
le e/o per sottolineare l'andamento ritmico di una frase (Drezancié, 1982a) a movimenti dell'alfabeto manuale sovrappone due modalità talmente diverse
di uso della gestualità da rischiare fenomeni molto forti di interferenza. Infine, le ricerche di Wood e Wood (1992), condotte in classi per audiolesi dove gli insegnanti accompagnano il linguaggio verbale coi segni, hanno mostrato come i soggetti non fossero in grado di illustrare coi segni ciascun morfema del proprio discorso. Viene dagli autori considerata "una crudele ironia del destino" il fatto che proprio quegli aspetti della grammatica inglese acusticamente meno salienti, che nella lingua orale procurano ai sordi profondi maggiori difficoltà, siano anche quelli che più raramente vengono segnati (ciò che viene segnato rappresenterebbe una sorta di linguaggio telegrafico).
4.2. Educazione bilingue I sostenitori di un'educazione bilingue propongono che i bambini sordi vengano esposti a due lingue: la lingua dei segni, che darebbe al bambino la "possibilità di dispiegare la sua facoltà di linguaggio nella modalità integra visivo-gestuale in modo spontaneo e senza alcun insegnamento di tipo formale" (Volterra, 1985, p. 59) e la lingua vocale parlata dai genitori, per comunicare con gli udenti della propria comunità. A differenza dell'approccio precedente, le due lingue non verrebbero utilizzate contemporaneamente, ma, come in altri casi di bilinguismo, separatamente, in modo che
il bambino possa operare l'associazione una lingua/un interlocutore. Nel caso del bambino sordo, tuttavia, è difficile che la lingua parlata venga appresa con gli stessi tempi della lingua dei segni, anche qualora ai due codici venga data fin dall'inizio la stessa importanza (bilinguismo simultaneo): ci troveremo dunque più spesso di fronte ad una situazione di "bilinguismo successivo" (Taeschner, 1985), nella quale l'apprendimento della lingua parlata si appoggerebbe su quello della lingua gestuale, come mostrano
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alcune ricerche sullo sviluppo linguistico di bambini audiolesi nati da genitori anch'essi con deficit uditivo (per l'italiano Caselli, 1985). Sulla base di queste considerazioni alcuni autori (cfr. breve rassegna in Périer, 1990) propongono di iniziare l'insegnamento della lingua parlata dopo che il bambino abbia consolidato sufficientemente la lingua dei segni. Di fatto, i principi dell'educazione bilingue calati nella realtà dei sordi implicano a tutt'oggi una serie di problematiche sul piano linguistico e psicologico, prima fra tutte la difficoltà a bilanciare efficacemente l'esposizione alle due lingue, sia per la maggiore accessibilità della lingua dei segni, sia per l'impossibilità per i genitori udenti di padroneggiare tale modalità comunicativa in profondità (Massoni e Maragna, 2004). Restano quindi ancora aperti alcuni problemi piuttosto rilevanti relativi all'applicabilità e all'efficacia di tale approccio: innanzitutto, come si è già detto, non è facile creare precocemente per i figli di udenti una situazione di "bilinguismo naturale" simile a quella vissuta dai bambini che hanno almeno uno dei genitori sordo e segnante; in secondo luogo rimane da chiarire con quali modalità la lingua vocale debba essere insegnata poiché, differentemente dagli altri casi di bilinguismo, la grave perdita uditiva impedisce un'acquisizione per semplice esposizione di quella che dovrebbe essere la seconda lingua.
4.3. Metodo orale classico Tale metodo si pone come obiettivo di fornire al bambino anche sordo profondo una competenza linguistica il più possibile vicina a quella degli udenti. Presupposti principali perché ciò possa avvenire sono considerati una diagnosi molto precoce (primi mesi di vita), una tempestiva protesizzazione, scegliendo l'apparecchio acustico sulla base della curva audiometrica, un tempestivo intervento riabilitativo, un'assidua partecipazione della
madre al programma riabilitativo (Del Bo e Cippone De Filippis, 1981). L'insegnamento del linguaggio, programmato a partire dai primi mesi, si basa principalmente su: - allenamento acustico, che viene iniziato precocemente con l'uso di strumenti e poco più tardi (nel secondo anno) con il riconoscimento a bocca schermata delle proposte vocali (iniziando dai suoni onomatopeici); - labiolettura: fin dall'inizio si fa in modo che il bambino concentri la sua attenzione sui movimenti delle labbra e della lingua;
- tattolettura: il bambino appoggia la mano sulla gola, sulle guance, sul naso (a seconda dei fonemi), per registrare a livello tattile le vibrazioni; - esercizi di respirazione e soffio, durante i quali si allena l'articolazione separatamente dalla produzione vocale; 55
- impostazione dell'articolazione: il terapeuta mostra, affinché il bambino lo imiti, possibilmente davanti ad uno specchio, il modo e il punto esatto di articolazione di ciascun fonema; laddove ciò risulti insufficiente, interviene manualmente o con strumenti appositi (bastoncini, guidalingua ecc.) per impostare direttamente la posizione articolatoria; associazione della parola (all'inizio suoni onomatopeici) con l'oggetto e
- molto precocemente (2° anno) con l'immagine corrispondente;
- uso precoce della lettura, a partire dal secondo anno d'età. Secondo gli autori *È estremamente importante insegnare a parlare e a leggere contemporaneamente perché la metodica possa veramente essere applicata nella sua completezza" (ivi, p. 179). Come è possibile intuire da questa breve sintesi, il metodo orale si basa
su una programmazione piuttosto rigorosa: il problema principale sembra essere tuttavia la scarsa rispondenza fra le tappe previste e le modalità
normali di evoluzione del linguaggio. Se è vero infatti che per educare
bambini con sordità gravi e profonde al linguaggio verbale occorre adottare strategie specifiche e programmate, è auspicabile tuttavia che ci sia una costante attenzione a non snaturare in questo processo le caratteristiche essenziali dell'attività comunicativa e linguistica. 4.4. Metodo verbo-tonale
Tale metodo è stato ideato da un'équipe multidisciplinare sotto la guida di Petar Guberina e sperimentato inizialmente presso il centro Suvag di Zagabria. Attualmente esso è adottato in Italia presso diversi centri (per esempio a Genova, a Roma, a Napoli).
Esso si basa su alcuni principi, e in particolare sul fatto che il residuo uditivo possa essere utilizzato nella riabilitazione, sia attraverso speciali apparecchi che venivano usati quando la tecnologia protesica era ancora molto rudimentale (Suvag), sia con l'uso di apposite cuffie che consentono ai bambini di accedere a un'amplificazione selettiva delle frequenze resi-
due (in particolare, come si è detto, delle frequenze basse), sia grazie alle protesi acustiche. Inoltre tutto il corpo viene considerato uno strumento appropriato per ricevere e trasmettere messaggi, in quanto sensibile alla componente vibratoria del suono. Come sottolinea lengo (1990), nell'intervento vengono utilizzati sia i canali comunicativi integri (visivo, propriocettivo, esterocettivo), sia quello acustico deficitario. Ciò viene realizzato attraverso diversi strumenti: oltre ai già citati amplificatori (apparecchi Suvag e protesi acustiche) vengono costantemente impiegati nella riabilitazione, soprattutto con i bambini più piccoli, dei vibratori, sia situandoli direttamente sul
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corpo del bambino che collegandoli ad apposite pedane. Si fa uso inoltre di strumenti musicali e di apparecchi per audiovisivi. Caratteristica principale di questa metodologia è il fatto di essere multidisciplinare (cfr. Iengo, 1990 e Zatelli, 1980, 1991 per un approfondimen-
to). Alla sua realizzazione concorrono infatti: attività corporee ritmiche, nelle quali ampi movimenti del corpo accompagnano l'emissione sonora cercando di rappresentare le caratteristiche dei fonemi, delle parole, delle frasi prodotte; stimolazioni musicali con strumenti vari; attività di drammatizzazione, utilizzate per motivare all'uso del linguaggio attraverso un forte coinvolgimento emotivo; stimolazioni grafo-motorie (grafismo fonetico), ossia uso di segni grafici per rappresentare gli elementi della stimolazione sonora; psicomotricità, per affrontare i problemi di sviluppo psico-
motorio talvolta associati alla sordità; sussidi visivi per rappresentare storie con nessi logici e temporali. Le lezioni possono essere svolte in gruppo, allo scopo di incrementare la socializzazione, la comunicazione e l'apprendimento linguistico (anche stimolando fenomeni di imitazione e di competitività). Alle lezioni di gruppo si affiancano lezioni individuali centrate sul livello raggiunto dal singolo soggetto e sulla correzione.
Merito di questa metodologia è sicuramente valorizzare il ruolo della motivazione nella riabilitazione e pensare a un coinvolgimento di tutta la
persona in tale processo. Tuttavia suscita qualche perplessità proprio la pluralità delle discipline, soprattutto perché non è chiaro se esse seguano un comune programma (non solo nelle linee generali, ma anche nelle metodo-
logie e negli strumenti relativi ai singoli obiettivi) e quale; in caso contrario, la preoccupazione è che troppi stimoli poco coordinati creino fenomeni di interferenza e possano generare confusioni soprattutto nei casi di sordità profonde. 4.5. Uso delle tecnologie informatiche
Particolare attenzione merita l'evoluzione delle tecnologie informatiche nel migliorare la qualità della vita e le possibilità di partecipazione in vari contesti delle persone con disabilità uditiva. Si pensi per esempio alla rivoluzione creata dall'introduzione della messaggistica, scritta e orale, nella telefonia e alle opportunità offerte dall'utilizzo di internet da parte delle persone con deficit uditivo. La partecipazione allo spazio virtuale consente di fare incontri, discutere, imparare, divertirsi in un mondo sociale con caratteristiche particolari. Come sottolineano Barak e Sadovsky (2008), non si tratta solo della mediazione di aspetti tecnologici: la rete
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telematica consente agli individui con sordità di comunicare liberamente con altre persone - attraverso forum, e-mail, messaggi, chat o blog - senza necessariamente mettere in campo la propria disabilità. Oltre a permettere di esprimere al meglio le proprie capacità comunicative, trattandosi di un mezzo di comunicazione prevalentemente visivo, tale canale può contribuire ad aumentare la sicurezza in se stessi e il senso di essere alla pari con
gli altri. Studiando adolescenti udenti e ipoacusici, maschi e femmine di
due diverse fasce d'età, gli autori traggono le seguenti conclusioni: gli adolescenti con deficit uditivo sono maggiormente motivati a usare internet; utilizzano la rete più dei coetanei udenti, soprattutto come mezzo di comunicazione; l'utilizzo di internet è associato con un più elevato livello di benessere; mentre gli adolescenti sordi mostrano in genere una percezione di solitudine maggiore e una minor autostima rispetto ai coetanei udenti, ciò non accade a quelli che usano maggiormente internet. Secondo Barak e Sadovsky, questi risultati non consentono di trarre conclusioni sul rapporto di causa ed effetto tra uso di internet e benessere, ma mettono in luce le potenzialità della rete come risorsa psicologica e non solo tecnica. Per quanto riguarda il contesto scolastico, come sottolineano Fusillo,
Mich e Mazzi (2010), l'idea di utilizzare tecnologie informatiche per favorire l'integrazione scolastica di alunni ipoacusici non è nuova (cfr. per esempio il progetto di "Rete telematica" realizzato in Liguria da Chiappini e Conte, 1990). Inoltre da tempo esistono programmi finalizzati a migliorare le competenze scolastiche, come la costruzione di testi, attraverso lavori di completamento, di produzione e di discussione sui prodotti ottenuti (fra questi i programmi ideati da Tornatore e descritti in Caselli et al., 1994). Le novità dell'approccio proposto da Fusillo e collaboratori "consiste, primo, nell'utilizzo di un hardware dedicato, che mira a superare l'isolamento di cui spesso l'alunno ipoacusico soffre in una classe normale; secondo, nel proporre l'utilizzo di software normale, cioè pensato per alunni udenti, per risolvere difficoltà speciali. In pratica, l'alunno con disabilità uditiva viene munito di una postazione computerizzata bifronte, realizzata collegando la scheda video di un Pc a due schermi. In questo modo insegnante e alunno, posti uno di fronte all'altro, possano condividere la stessa schermata e quindi lo stesso contenuto guardandosi in faccia. Con programmi di digitalizzazione del parlato, inoltre, il bambino può sfruttare la lettura labiale e la simultanea lettura del parlato sul monitor. Tali programmi di riconoscimento vocale sono nati alla fine del secolo scorso con l'obiettivo di rendere pienamente partecipi le persone audiolese a occasioni di rilevante interesse sociale e culturale e di contribuire quindi
a ridurre la distanza che li separa dal mondo degli udenti. In quest'ottica, ad esempio, il progetto Voice (Pirelli, 1998) studia l'utilizzo del riconosci-
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mento vocale applicato a varie situazioni (lezioni scolastiche, conferenze, trasmissioni televisive, dialoghi e conversazioni telefoniche) per realizzare sullo schermo di un computer ciò che viene detto in simultanea. Tali programmi, che si stanno via via perfezionando dal punto di vista tecnico, aprono una prospettiva di sempre maggiore integrazione non solo per i sordi prelinguali, ma per tutta quella parte di popolazione (compresi anziani e stranieri) che per motivi vari ha difficoltà di accesso alle fonti verbali di informazione. In continuità con il progetto Voice, recentemente si è iniziata a utilizzare efficacemente una tecnica di scrittura rapida, denominata rispeakeraggio (da respeaking), che permette la trascrizione, la riformulazione o la traduzione di un testo orale simultaneamente alla sua produzione grazie alla tecnologia Asr (automatic speech recognition) di riconoscimento automatico del parlato. La tecnologia Asr traduce in parole scritte quanto dettato oralmente a un microfono dal respeaker. Le applicazioni sono molteplici e vanno dalla sottotitolazione intralinguistica e interlinguistica in tempo reale di prodotti televisivi, cinematografici e radiofonici alla trascrizione delle lezioni universitarie e delle conferenze. Come sottolinea Eugeni (2013), il rispeakeraggio, in Europa e in una certa misura in tutto il mondo, è diventato prassi consolidata per la produzione di sottotitoli in diretta per sordi: "la sottotitolazione intralinguistica in tempo reale tramite respeaking risulta un mezzo efficace per superare le barriere imposte da un problema uditivo, consentendo non solo l'accessibilità a contenuti informativi o ludici preregistrati, ma anche a tutti quegli eventi in real-time che permettono alla persona sorda di non sentirsi esclusa da una parte importante della realtà quotidiana" (ivi, p. 21).
4.6. Il metodo creativo, stimolativo, riabilitativo della comunicazione orale e scritta con le strutture musicali di Zora Drezancic
Tratteremo in modo più analitico, pur nei limiti delle finalità del presente volume, tale metodo. Esso infatti presenta un programma organico, a partire dai primi mesi fino all'adolescenza; è finalizzato a insegnare anche a bambini sordi profondi, da molti autori ritenuti scarsamente ricuperabi-
li, un linguaggio verbale orale e scritto intelligibile, corretto e adeguato alle richieste comunicative dei diversi ambienti; agisce nel rispetto delle normali tappe di sviluppo, tenendo conto delle potenzialità dei bambini audiolesi e non solo dei limiti connessi al danno uditivo. Non è semplice sintetizzare una pedagogia creata grazie alla confluenza di conoscenze specialistiche relative a più discipline (fonetica, musica, pedagogia, psicologia) da un lato e dall'altro basata su una sperimentazione più che 59
trentennale della Drezandic con bambini sordi di diversi paesi europei. Rimando quindi alla lettura delle numerose pubblicazioni dell'autrice per ulteriori approfondimenti teorici (fra le altre: Drezancic, 1978; 1982a; 1988 e Drezancic, 1994) e per la conoscenza degli strumenti didattici utilizzati
nell'ambito della pedagogia (Drezandic, 1980b; 1982b; 1983; 1987a; 19876;
1990; 1992, 1998) e ad alcune pubblicazioni più recenti che illustrano principalmente il primo programma del metodo (Zanobini et al., 2010) o presentano i risultati dell'applicazione di tale metodologia con bambini a sviluppo tipico in contesti educativi prescolari (Cozzani, Zanobini e Usai,
2016).
4.6.1. I principi - Anche bambini con sordità profonda dalla nascita possono arrivare a una buona competenza linguistica: a tal fine la stimolazione deve iniziare il più presto possibile, con un intervento pedagogico idoneo, vale a dire rispettando le fasi dello sviluppo linguistico "normale". L'autrice sottolinea a questo proposito l'importanza delle vocalizzazioni e della lallazione per la qualità della voce, per l'articolazione e per l'ingresso nella semantica (prime parole). Il linguaggio è un sistema complesso. Il metodo fornisce stimoli adatti a sviluppare gradualmente e parallelamente i diversi processi implicati nell'apprendimento e nell'uso del sistema linguistico. Uno degli errori classici delle pedagogie è stato infatti secondo Drezancio quello di separare, per esempio, la fonazione dall'articolazione (in pratica allenando i movimenti necessari per la pronuncia separatamente dalla voce).
I modelli vanno proposti rispettando i modi e i tempi di ricezione e di
_ immagazzinamento delle persone sorde: "Troppe proposte, senza lasciare il tempo necessario di elaborazione, non possono giovare all'acquisizione corretta" (Drezancic, 1992, p. III).
- I modelli proposti sono multisensoriali: l'attenzione del bambino viene richiamata sulla proposta vocale, sulla percezione uditiva, sull'espressione del viso e sui movimenti. A tal fine molta importanza riveste un uso corretto delle protesi acustiche, scelte sulla base dei residui uditivi presenti nel bambino. Inoltre una funzione fondamentale è svolta dai movimenti, programmati in relazione alle diverse proposte vocali. Essi assolvono a diverse funzioni: sottolineano le caratteristiche dell'emissione sonora (qualità, durata, ritmo, intonazione, tanto nelle forme dei ritmi musicali, quanto nel linguaggio parlato) e facilitano l'acquisizione dei suoni del linguaggio; evidenziano la presenza nella frase di elementi non accentati come articoli, preposizioni ecc., che rischiano altrimenti,
60
come si è visto, di essere omessi nel linguaggio delle persone audiolese; favoriscono la memorizzazione della proposte e l'evocazione delle stesse in assenza del modello vocale.
- I suoni del linguaggio e i vocaboli sono accessibili per il bambino con
ipoacusia profonda se si rispetta una progressione fonetica: è importante infatti offrire stimolazioni che il bambino sia in grado di riprodurre il più correttamente possibile, al fine di motivarlo (l'insuccesso è un forte ostacolo all'impegno) e di evitare pronunce errate, che possono richiedere tempi di correzione anche molto lunghi.
La voce cantata e il ritmo musicale sono i principali supporti per l'apprendimento di una competenza comunicativa orale: la voce cantata, e anche quella modulata, servono ad ottenere un buon timbro della voce parlata e una giusta articolazione, impegnando in modo naturale le corde vocali ed evitando le alterazioni della voce tipiche nel passato dei sordomuti. Il ritmo musicale (espresso vocalmente), per le sue somiglianze e corrispondenze con il ritmo linguistico, aiuta a parlare rispettando i rapporti corretti fra le sillabe (Drezancio, 1980a; 1998) ed evitando quell'eloquio monotono o per sillabe staccate anch'esso tipico
di certi sordi adulti. - La scelta dei vocaboli viene effettuata in funzione dell'età dei bambini, tenendo conto della loro capacità di comprensione e di espressione vocale. Sono inoltre presenti fin dall'inizio le diverse categorie grammaticali (nomi, aggettivi, verbi, articoli ecc.) che serviranno per strutturare le frasi complete. - La pedagogia prevede una stretta collaborazione fra logopedisti, educatori e famiglie, che insieme operano per un progetto comune, nella consapevolezza che la riabilitazione non è un "lavoro" che si può imporre a un bambino, ma un processo educativo che richiede forte adesione e carica motivazionale di tutti i partecipanti (e soprattutto del bambino audioleso). In quest'ottica le proposte sono create per avere successo, 5. La progressione fonetica proposta per la lingua italiana (Drezandic, 1982a) è la seguente:
PA BA MA TA DA NA
LA VA FA
SA (sa), SA (za) SCIA IA (ja) GLIA
RA CA GA
ZA (tsa) ZA (dza) CIA GIA GNA
6. Il timbro è una qualità del suono, che può essere elemento di differenziazione a parità di altezza e di intensità. Esso dipende dal numero e dall'intensità degli armonici, ossia delle frequenze aggiuntive che accompagnano il suono fondamentale. Il timbro è quella qualità che rende possibile distinguere una voce dalle altre.
61
d
per passare progressivamente, anche se lentamente, da una conquista a quella successiva, per sperimentare da subito la propria voce all'interno
di un dialogo significativo.
4.6.2. I programmi Come si è detto, una programmazione rigorosa e coerente nel tempo è necessaria per un apprendimento del linguaggio in bambini con gravi deficit uditivi; merito di questo metodo è, come si è detto, di aver previsto questa programmazione, tenendo conto delle possibilità e delle richieste di ogni fascia d'età.
In particolare è unico il primo programma, che affronta il problema dell'intervento precoce in modo puntuale, ma senza ricorrere a mezzi (come la lettura) inadatti per bambini sotto i tre anni: mezzi principali in
questo periodo sono la voce (cantata, modulata e parlata) e i giocattoli, che associati alle proposte vocali, motivano i bambini e servono come prima base per la memorizzazione delle forme acustiche e per il richiamo dei ri-
cordi.
Nel secondo e terzo programma si consolidano le acquisizioni prece-
denti e si estendono le competenze linguistiche sui versanti fonologico, semantico, sintattico e pragmatico; le proposte riabilitative affiancano inoltre il bambino nel lavoro scolastico.
Infine, di estrema importanza è anche il quarto programma, che prevede un'autonomizzazione del ragazzo nella gestione di quel minimo di
esercizio che consente di non perdere la qualità di quanto si è imparato nei programmi precedenti. Forniamo nella tabella 3 alcune note schematiche sulle principali tappe del percorso.
62
Tab. 3 - I quattro Programmi della pedagogia Nido: nascita - 3 anni
programma
audio-fono-psicomotorio
Stimolazione attraverso l'attivazione delle vie
neurali delle diverse funzioni psichiche e dei primi processi mentali: - sensibilizzazione
all'ascolto; - prime imitazioni vocali; - stimoli vocali creati utilizzando un
giocattolo per ogni
suono; - evocazione dello
stimolo vocale, guardando il giocattolo
scelto ad esso associato;
- riconoscimento uditivo degli stimoli vocali di cui sopra; - pronuncia delle prime parole con significato (principale scoperta del bambino in questo periodo).
Prescolare: 3-6 anni
Scolare: 6-14 anni
Il programma
III programma
Adolescenti
IV programma
Procedimenti pedagogici - Sviluppo delle (canali) per stimolare: attività psichiche
In questo periodo si spiegano ai ragazzi i
l'intonazione; - i ritmi (musicali e linguistici); - i suoni del linguaggio,
comincino ad utilizzarli
- la voce;
necessarie per leggere motivi della scelta dei mezzi usati affinché essi e scrivere: processi
di analisi e sintesi. Passaggio dall'orale allo scritto, basato
sulla base dei tratti
sulle Sfr imparate nel programma
pertinenti attraverso le strutture foneticoritmiche: Sfr%;
precedente. Lettura delle note
- le prime parole:
musicali. - Esercizio e controllo
strutturazione dell'aspetto sonoro
della voce parlata.
della parola per consentire
- Apprendimento della grammatica nella forma orale.
l'espressione
linguistica dei concetti; - le prime frasi: esercizi per strutturare e
- I tre tempi dei verbi: passato, presente e
futuro. Approccio alla letteratura. - Approccio ad una lingua straniera.
correggere il dialogo,
partendo dalle domande e dalle risposte. Il lavoro è finalizzato a far emergere la creatività
autonomamente per non
diminuire la qualità della pronuncia. Stimolazione e controllo della voce, al momento dei cambiamenti fisiologici del tono, evidenti soprattutto nei maschi.
- Collaborazione fra famiglia, scuola ed
intervento logopedico
per aiutare gli
adolescenti nella scelta della scuola.
del linguaggio spontaneo.
Mezzi didattici Mezzi didattici - Giochi fonici: giocattoli - I movimenti associati ai suoni del linguaggio e giocattoli adatti a stimolare la produzione delle prime parole (es.: Paolo, metto, la moto, il dado) e delle prime frasi (es.: la moto va; il dado è blu).
- Libri con schede illustrate per l'apprendimento dei
vocaboli e delle prime frasi (1980b; 1990)
Mezzi didattici
- Sussidi citati
accompagnano la voce e aiutano la memorizzazione delle
Sfr: sottolineano il ritmo musicale e il ritmo linguistico. Libri del programma
nel programma
precedente, con introduzione dei tempi passato e futuro.
- Scrittura, introdotta nel rispetto della
progressione fonetica e sulla base delle
precedente. Schede per la lettura delle note musicali (1982).
Mezzi didattici
- Tutti i mezzi didattici creati per questo tipo di disabilità possono essere applicati come
prove per verificare il livello raggiunto dai soggetti.
proposte orali dei programmi precedenti (1983; 1987).
- Disegni per aiutare la
memorizzazione delle Sfr (1992).
- I tre tempi (1987), per l'uso del presente.
7. Le Sfr sono strutture formate da sillabe con lo stesso fonema ripetuto o con più fonemi in opposizione e aiutano la discriminazione, la riproduzione e la memorizzazione dei suoni della lingua. Esse sono create con qualità ritmiche diverse, che sottolineano le caratteristiche dei singoli fonemi, in ogni esercizio sono presenti intonazioni diverse, che facilitano la sensibilità alle intonazioni dell'espressione linguistica (narrativa, interrogativa, affermativa). Movimenti ritmici programmati accompagnano ogni Sfr, per facilitare la memorizzazione e l'evocazione di ciascun fonema.
63
4.6.3. I procedimenti pedagogici (canali)
I procedimenti utilizzati sono 20: i primi 10, utilizzati fin dai primi pro. grammi, svolgono funzioni che vanno dalle prime stimolazioni vocali alla Correzione della parola; gli altri, utilizzati prevalentemente dopo l'ingresso a scuola, riguardano la lingua scritta, la grammatica e gli apprendimenti più avanzati. Sintetizziamo brevemente in tabella 4 le funzioni di ciascun canale. Tab. 4 - 1 20 canali della pedagogia
Stimolazioni multisensoriali/multimodali:
Motorie-visive-acustiche-fonomotorie Coinvolgimento e sviluppo di: affettività motivazione interesse attenzione processi intellettivi
1 voce parlata 2 voce parlata 3 voce cantata
Discriminazione identificazione memorizzazione dei suoni del linguaggio con le Sfr Significante: principio della strutturazione Principi della sonorizzazione della voce: altezza/tonalità/timbro della voce Discriminazione di fonemi in opposizione Significato: i primi concetti concreti e astratti Sonorizzazione della voce. Slancio di vocali, onomatopee
4 voce parlata 5 voce parlata 6 voce modulata 7 voce recitata Il ritmo e la rima Discriminazione filastrocche dei bambini udenti 8 voce parlata Riconoscimento uditivo: identificazione di parole e frasi 9 voce parlata 10 voce parl-cant-mod Correzione: voce, fonemi, ritmo, intonazione, sintassi Processi mentali di analisi e sintesi nella scrittura e nella lettura 11
12 13
14 15 16 17
18 19 20
La lettura delle note: i ritmi musicali La sintassi: frasi semplici e complesse I tre tempi nelle frasi semplici e complesse Gli aggettivi e gli avverbi nelle frasi Le domande orali e scritte La poesia Il romanzo-la lettura Il teatro-il dialogo Forme speciali per facilitare l'identificazione della parola
5. Conclusioni Lo studio della sordità appare un campo ancora aperto e una serie di problemi si pongono sia per la ricerca che per l'intervento. Sicuramente i progressi avvenuti a livello tecnologico e pedagogico fanno sperare in una possibilità sempre maggiore di inclusione delle persone con deficit uditivi anche molto gravi nella comunità di appartenenza.
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Superati definitivamente i pregiudizi che volevano l'individuo con sordità chiuso nel suo silenzio, necessariamente segnato da una labilità emotiva
e relazionale, ancorato al concreto, oggi la tendenza è quella di dare un
peso sempre maggiore alla qualità del processo educativo nel suo comples-
so. Compito della ricerca è allora valutare scientificamente l'effetto delle variabili individuali, familiari, educative e riabilitative nelle diverse aree di sviluppo. Per chi opera direttamente con i bambini sordi è importante soprattutto partire da una conoscenza il più possibile ampia del problema, dalla volontà di collaborare con le altre figure coinvolte nel processo educativo e dalla disponibilità a confrontarsi con altre impostazioni sulla base dei risultati del lavoro di ciascuno.
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a
3. Disabilità visiva di Maria Carmen Usai, Elena Cocchi, Elisabetta Capris
1. Cecità e ipovisione Il principale parametro per valutare la capacità visiva è l'acuità visiva o visus, definibile come la capacità di distinguere a una distanza data determi-
nate forme, o di discriminare due punti vicini. La misura di tale capacità è normalmente espressa con frazioni numeriche, differenti nelle varie nazioni. In Italia si esprime in decimi, mentre in Inghilterra e negli Usa, per esempio, viene espressa rispettivamente in sesti e in ventesimi. In pratica essa si misura, separatamente per ciascun occhio, "ponendo l'esaminando a una prestabilita distanza da un tabellone dove sono disegnati simboli, detti ottotipi, di dimensioni decrescenti, sottendenti angoli visivi decrescenti anch'essi" (D'Alonzo, 1992, p. 388). Secondo le misurazioni italiane, un visus di 10/10 corrisponde alla visione normale, ossia alla capacità di leggere le prime dieci righe di un ottotipo alla distanza di circa cinque metri. Leggere solo la prima riga indica un'acuità visiva di 1/10. Qualora non sia letta neppure la prima riga, si fa avvicinare la persona al tabellone. Se per esempio la persona legge la prima riga a tre metri, si attribuisce allora un visus di 3/50. Naturalmente la valutazione avviene in modo diversificato a seconda
dell'età: mentre per gli adulti, com'è noto, si utilizzano di solito tabelloni con lettere, con bambini fra i due e i cinque anni si propongono ottotipi con disegni o simboli grafici, utilizzando tecniche di lettura sia per riconoscimento sia per confronto. Inoltre, per definire lo sviluppo visivo nella prima infanzia, o comunque in bambini non ancora collaborativi, si sono recentemente introdotte tecniche che utilizzano risposte comportamentali o elettrofisiologiche. In particolare il preferential looking, che si basa sulla preferenza innata del bambino nei confronti di stimoli strutturati rispet to a stimoli omogenei, e i potenziali visivi evocati, che consistono nella registrazione di un segnale elettrico dall'area occipitale della corteccia in risposta a una stimolazione visiva. 66
Negli anni '90 Lea Hyvarinen, una studiosa impegnata in programmi europei e internazionali riguardanti la ipovisione, rivolti alla diffusione presso gli educatori e i riabilitatori delle competenze valutative e riabilitative più adeguate alla crescita e allo sviluppo dei bambini ipovedenti, ha realizzato numerosi test a risposta comportamentale, molto utili per la valutazione della funzione visiva in soggetti molto giovani o con gravi difficoltà cognitive.
In questi individui la risposta visiva può essere valutata oggettivamente anche tramite i test dell'elettrofisiologia, che però creano non pochi problemi organizzativi per l'esecuzione con individui non collaboranti e pongono difficoltà interpretative nei primi anni di vita, durante la fase di maturazione del sistema visivo. Anche l'evocazione del nistagmo optocinetico, cioè Poscillazione degli occhi provocato durante la fissazione di uno stimolo ripetitivo (es. bande bianche e nere) in movimento nello stesso senso, può dare indicazioni oggettive circa l'acutezza visiva, soprattutto per i valori bassi.
Un ulteriore parametro di valutazione della funzionalità visiva, anche se non tutti i sistemi di valutazione ne tengono conto, è il campo visivo,
che corrisponde all'ampiezza della scena visibile quando lo sguardo è fisso davanti a sé.
I deficit visivi possono essere attribuiti a una riduzione dell'acuità
(visione centrale) oppure a una riduzione del campo visivo (visione periferica).
Il grado di minorazione visiva può variare dalla cecità totale (impossi-
bilità di percepire qualsiasi stimolo visivo), alla cecità legale (residuo visivo inferiore a un minimum prestabilito), alla ipovisione (parziale capacità) secondo un continuum, in cui le linee di demarcazione non sono facilmente
identificabili.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità prevede cinque categorie di disabilità visiva, che tengono conto sia del visus sia del campo visivo (considerati separatamente). In accordo con tale classificazione, la legge 138/2001 individua i gradi di gravità delle minorazione visiva in relazione alla visione centrale e alla visione periferica (tab. 1).
Come si evidenzia nella tabella 1, per parlare di ipovisione si fa riferimento a un residuo visivo (con migliore correzione standard) fino a 3/10 ° a un residuo percentuale del campo visivo binoculare inferiore al 60%,
indipendentemente dall'acuità visiva.
Il limite intrinseco delle diverse definizioni sta soprattutto nel non rendere conto dell'estrema variabilità individuale nell'utilizzo del residuo visiNo, degli ausili e delle capacità sostitutive ai fini del raggiungimento di un inassimo di autonomia personale e sociale. Tale variabilità appare di fatto legala, oltre alla gravità del danno e allepoca di insorgenza, tanto a fattori
67
Tab. 1 - Severità del difetto visivo secondo la legge 138/2001
Categoria di disabilità visiva
Residuo perimetrico binoculare
Visus Minimo
Massimo
Minimo
59%
50%
• ipovedente
< 2/10
2/10 1/10
49%
30%
• ipovedente grave
< 1/10
1/20
29%
10%
• cieco parziale
< 1/20
> 1/200
9%
3%
• ipovedente lieve
Massimo
3/10
medio-grave
• cieco totale
Percezione del moto della mano, dell'ombra e della luce
< 3%
personali (ad es. età, stato di salute, caratteristiche di personalità) quanto a fattori ambientali di vario tipo (accettazione da parte dei familiari, ma
anche caratteristiche degli ambienti di vita e richieste insite nei diversi compiti). Interessante a questo proposito appare la distinzione fra cecità reale e cecità funzionale: 1. "È oggettivamente cieco colui che non dispone di nessuna percezione visiva derivante da stimoli luminosi provenienti dall'ambiente esterno; 2. è funzionalmente cieco colui che, pur disponendo di percezioni visive (luci e ombre, colori, forme vaghe, ecc.) non può per altre cause (.. organizzare l'input sensoriale in percezioni operativamente utili rispetto alla necessità di sviluppare strategie adattive almeno in un settore della
vita quotidiana" (Dell'Osbel, 1992, p. 25). Alberti, Magni, Savaresi, Castelli e Rigamonti (1989) suggeriscono due criteri di classificazione dei deficit visivi: la suddivisione anatomica e l'epo ca di insorgenza. La suddivisione anatomica prende in considerazione le zone interessati
a seconda che la patologia riguardi gli annessi, la cornea, Piride, il crisal lino, la corioretina, la papilla ottica e il nervo ottico, l'idrodinamica, le ViP ottiche e la corteccia (vedi fig. 1). Inoltre lipovisione può essere congenita, cioè già presente alla nast la, oppure acquisita. Si vedrà nei paragrafi relativi allo sviluppo quanto Lorganizzazione percettiva dei ciechi totali possa essere diversa nelluno Incialtro caso e non solo relativamente all'organo sensoriale inabiliato. e
anche in relazione ai muni legamente allorgano зепьоаурро ресен
di, oltre aree di sviluppo. Le conseguen se dil scono tra so cologate quis de oltre che con l'entita della menomazione, anche, nel caso di un disult acquisito, con l'età in cui essa insorge.
68
I ERGAMO
Fig. 1 - Conformazione dell'occhio
29 a
Sclera
Retina Pupilla
Fovea centrale
Linea della luce
Nervo ottico
Cornea
Umor acqueo
Iride
Non intendiamo inoltrarci ulteriormente in ambiti non di nostra pertinenza. Riteniamo però importante sottolineare come sia necessario che
coloro che hanno in carico l'educazione della persona con disabilità siano messi a conoscenza del tipo di deficit, delle sue caratteristiche, delle ricadute nell'esercizio della vita quotidiana, e dell'efficacia degli interventi riabilitativi specifici per un progetto dinamico basato sulle potenzialità di sviluppo. Di seguito si presenta un breve elenco relativo ai principali fattori causali delle compromissioni visive in età infantile: - patologia congenita: trasmissione genica di alterazioni organiche e fattori prenatali extragenici: infezioni, agenti fisici, intossicazioni, fattori endocrini, ecc. durante la gravidanza (per esempio, rosolia, toxoplasmosi, accertamenti o trattamenti radiologici, ecc.); cause perinatali: anossia, prematurità e relativi trattamenti (iperossigenazione, con possibile sviluppo di fibroplasie retrolentali), diabete materno;
- cause post-natali: infezioni virali, fattori immunitari, degenerativi e
traumatici (meningiti ed encefaliti), tumori, diabete. Quanto all'entità della popolazione afflitta da tale minorazione un accertamento in ambito sia internazionale sia nazionale non è possibile per la difficoltà di registrazione di tutti i casi: non tutti coloro che sono legalmen-
te iscritti come ciechi a registri quali pensioni di invalidità, associazioni di non vedenti, ecc. sono veramente tali e viceversa non tutti coloro che presentano minorazione visiva sono conosciuti. Le stime pertanto sono 1. Si ricorda che una stessa patologia può dar luogo a disabilità correlate; di fatto come riportano Ricci et al. (1991) - già Fino (1968) aveva rilevato come, nel 56% dei casi, oltre alla minorazione visiva fossero presenti anche altre compromissioni.
69
approssimative, sia per quanto riguarda viste A sia per quanto Fig gravi compromissioni della funzionalita no Aio O o paesi occidemai a
Sidenza della cecità legale è stimata intorno allo 0,027o della popolazione
Lencativamente alle specifiche incidenze nella patologia infanti.
rilevato che le diverse ricerche epidemiologiche presentano dati coma stanti, presumibilmente in relazione ai criteri normativi assunti olte de alle caratteristiche della popolazione in esame, diverse tra i paesi in via sviluppo e quelli sviluppati. Non riteniamo quindi di poter fornire dai per centuali. Piuttosto possiamo affermare che le varie analisi epidemiologie mostrano linee di tendenza che evidenziano fra le più frequenti patologi la cataratta congenita, l'albinismo, le otticopatie, le atrofie ottiche, le film plasie retrolentali, il glaucoma e le distrofie tapeto-retiniche, in cui spesso il nistagmo accompagna la patologia di base (Gogate, Gilbert e Zin, 201 mentre le lesioni traumatiche oculari infantili non sembrano essere sta prese sufficientemente in considerazione.
2. Lo sviluppo nel bambino non vedente Circa il 45% delle persone non vedenti presenta questa condizione dalla
nascita, per tale ragione considerare allo sviluppo di tale popolazione a pare molto importante. Le traiettorie di sviluppo dei bambini ciechi son
molto variabili e legate a fattori quali il livello intellettivo, le abilità o
gnitive, fattori di resilienza, la presenza di altri problemi e la qualità del stimolazioni che provengono dall'ambiente. Nella descrizione e nella valutazione dello sviluppo dei bambini ma
vedenti sembra importante distinguere fra aree di sviluppo direttame colpite dalla cecità (blind-specific) e aree di sviluppo influenzate in mal
indiretto dal problema visivo (blind-non specific). Secondo Tröster e Bang bring (1993), le aree del primo lipo includono o presuppongono le capa
di coordinazione visuo-motoria: la loro completa maturazione è comune
impedita dalla cecita e dificiana loto domai che ne сольедиоло ps
venire completamente compensati col col procedere dellodella sviluppo. Tali ai comprendono parente compensati procedere i motria Lione apposizione, le aree del secondo tipo non presuppongono la cond
Pione visuo-motoria, e quindi ов ртевцрроирро didi malie possono e sono ampia quindigli glierte eretii po indicenti nelio sviluppo cod
lo posturale, sviluppo sociale ed emotivo, sviluppo linguistico). G mne mete Hatneil 0 бол, ро біопоселое позві ше те моinетevidenza судедля Наниев соо2), о сол обна донине репетийв
renziali hanno rivoluzionato anone e sullo sviluppo dena e sul 0 tenzialità evolutive.
70
Tradizionalmente infatti venivano enfatizzati gli svantaggi dei soggetti non vedenti nelle rappresentazioni spaziali e attribuiti alla natura sequenziale dell'udito e del tatto, contrapposte alla presunta simultaneità del sistema visivo. La recente scoperta di due sistemi visivi distinti - quello focale e quello periferico - e della stretta connessione del secondo con il movimento degli occhi e della testa hanno messo in luce la natura sequenziale, sia pure di breve durata, del processo esplorativo visivo. L'elaborazione dello spazio, che nei ciechi si realizza attraverso l'udito e il tatto avverrà dunque più lentamente, ma non in modo sostanzialmente diverso rispetto ai soggetti vedenti. Durante lo sviluppo la comunicazione tra modalità sensoriali è un'importante componente per l'acquisizione di molti aspetti percettivi. Questo processo si realizza attraverso una grossa intercomunicazione tra sistemi sensoriali nel bambino e sembra essere importante per la costruzione di una percezione coerente del mondo. L'assenza di una modalità può infatti provocare danni percettivi in altre modalità sensoriali. In particolare la vista sembra essere importante per acquisire il concetto tattile di orientamento e il tatto sembra essere importante per acquisire il concetto visivo di dimensione degli oggetti. Coerentemente con questa idea, nei bambini con disabilità visiva è stata osservata una incapacità di riconoscere l'orientamento di oggetti nello spazio, ma non la loro dimensione. Questa asimmetria potrebbe essere quindi correlata con il ruolo che la modalità visiva riveste nell'acquisizione del concetto percettivo di orientamento tattile.
E importante infine sottolineare come fra vista e movimento esista
un'interconnessione reciproca: il movimento, come si è detto, è indispensabile per cogliere visivamente alcune proprietà dello spazio circostante; d'altra parte movimenti accurati si appoggiano sulla vista per il controllo di una corretta ed efficace esecuzione. "La cecità, che costituisce una privazione sensoriale grave, potrà avere anche un'importante incidenza sulla motricità perché uno dei principali anelli di congiunzione sensomotorio è impedito nel suo funzionamento" (Hatwell, 1992, pp. 89-90).
2.1. Sviluppo motorio
La motricità permette al bambino l'esplorazione dell'ambiente circo-
stante e la conoscenza della realtà, favorendo conseguentemente lo sviluppo cognitivo, percettivo e sociale. Nei bambini non vedenti la deprivazione
sensoriale incide sulla motricità e sulle conoscenze spaziali che conseguentemente si realizzano più lentamente e con maggiore difficoltà. Come abbiamo evidenziato precedentemente, quest'area di sviluppo, nonostante il ruolo vicariante svolto dal tatto e dall'udito, si struttura in tempi diversi rispetto ai normodotati, determinando ritardi anche gravi (tab. 2).
71
-
Tab. 2 - Comparsa abilità motorie
Abilità Si alza sulle braccia da posizione prona
Afferra con le mani gli oggetti Afferra con le mani oggetti sonori
Passa da una posizione sulla schiena a una sul ventre Rimane seduto senza bisogno di aiuto Si alza se aiutato Cammina se sostenuto Sta in piedi da solo Cammina da solo (primi passi)
Non vedente
Vedente
8.75 mesi
2,1 mesi
11 mesi 7.25 mesi 8 mesi 11 mesi
6,4 mesi 6,6 mesi
5 mesi
10,75 mesi
8,6 mesi 8,8 mesi
15,25 mesi
11,7 mesi
13 mesi
11 mesi
Riadattamento da Fraiberg e Bayley (1974).
Diversi autori (Bower, 1974; 1977; Fraiberg, 1977) concordano nel ritenere che l'entità del ritardo sia particolarmente elevata in quelle abilità che implicano una motricità volontaria, come il sollevarsi sulle braccia o lo spostarsi da una posizione all'altra, oltre che nella capacità di deambulazione e di prensione dell'oggetto sonoro. Tali capacità, infatti, risulterebbero influenzate direttamente dalla mancanza di visione, al contrario di altre,
come le reazioni di orientamento, il controllo posturale e alcune abilità
manuali di base, che non sarebbero direttamente sotto il controllo della coordinazione visuo-motoria.
Per quanto riguarda l'acquisizione della deambulazione autonoma, il bambino non vedente presenta un considerevole ritardo: impara a stare in piedi in un periodo relativamente normale, tuttavia di rado cammina in
posizione quadrupedica e spesso non si rotola, necessita inoltre di un tempo maggiore affinché la mobilità avvenga per iniziativa personale. Talvolta si può assistere a curiose forme di motricità (spostamenti nell'ambiente da posizione seduta), che evidenziano una soluzione di compromesso tra la curiosità e l'interesse esplorativo e la sicurezza e il vantaggio posturale del
la posizione seduta.
Intorno ai cinque mesi il bambino vedente comincia a strutturare lo schema della prensione, che via via si stabilizza e si organizza: partendo dalla capacità di afferrare un oggetto e di avvicinarlo a sé per poterlo
esplorare, il bambino successivamente a sei mesi impara a lasciarlo cadere
e quindi a lanciarlo.
Come è stato sottolineato da Fraiberg (1977; 1979) la vista e la prensio ne, dal punto di vista biologico, si sviluppano in sincronia e ciò determina nei bambini non vedenti un evidente ritardo nella strutturazione dello sche ma della prensione e nell'utilizzo delle mani. Data la maggiore difficolia del compito di prensione sulla base dei soli stimoli uditivi, rilevata d'altra parte anche in ricerche con bambini vedenli
72
nei primi mesi di vita le mani del bambino con deficit visivo rimangono
per lungo tempo in prossimità delle spalle senza dimostrare alcun interesse esplorativo (mani cieche); solo a partire dagli 8-10 mesi si assiste a un'iniziale ricerca dell'oggetto sonoro (Fazzi, Lanners, Martini, Danova e Lanzi, 1994). Di conseguenza, nei bambini con deficit visivo si è riscontrata talvolta la tendenza a usare maggiormente le mani come strumento di autostimolazione che non come mezzo di conoscenza della realtà circostante.
Esse infatti spesso vengono tenute in bocca o, premute contro gli occhi, producono immagini luminose (fosfemi). A questo proposito McCormick (1977) ha potuto constatare che i movimenti di sfregamento e pressione degli occhi sono più frequenti nei bambini con retinopatia del prematuro rispetto agli altri non vedenti. Tröster e Brambing (1993) ritengono che la cecità congenita agisca sullo
sviluppo motorio sia direttamente sia indirettamente. Gli effetti diretti riguardano il ruolo che il feedback visivo gioca nel coordinare i movimenti verso uno scopo preciso e nel controllare la postura. Per raggiungere un oggetto è infatti importante, almeno inizialmente (intorno ai quattro mesi), un continuo aggiustamento della traiettoria del braccio e dei movimenti della mano, basato appunto sul controllo visivo. Il comportamento adattativo, che ci permette di avere una relazione ottimale con il nostro ambiente, richiede uno scambio continuo di informazioni con l'ambiente, mediato dai recettori sensoriali. I bambini con disabilità visiva non hanno la possibilità di servirsi di uno dei sistemi sensoriali. Se l'informazione visiva e completa o impoverita, l'informazione necessaria per l'azione dipende maggiormente dagli altri sensi, con la conseguenza che il comportamento spesso diventa meno efficace ed efficiente. Sono state rilevate differenze specifiche nel controllo sensomotorio di bambini con disabilità visiva rispetto a bambini normovedenti: tali differenze non sono causate direttamente dal deficit nella capacità visiva, ma sono il risultato di una scarsa calibrazione delle informazioni sensoriali necessarie per l'esecuzione dei compiti (Reimer, Cox, Boonstra e Smits-Engelsman, 2008). Il bambino cieco che tenta di afferrare un oggetto sonoro impara a coordinare i movimenti necessari sulla sola base dei successi conseguiti, data l'impossibilità di percepire la direzione e l'estensione dell'errore in caso di fallimento. Analogamente, nei primi stadi di sviluppo del controllo posturale, l'integrità della percezione visiva consente una ridondanza di informazioni e maggiori opportunità di anticipare i movimenti compensatori in caso di perdita di equilibrio. Nelle tappe successive, grazie a una progressiva automatizzazione dei movimenti e delle posture, un controllo visivo costante sarebbe meno necessario.
L'effetto forbice nelle età di acquisizione delle competenze motorie sembra essere maggiormente correlato alle differenze interindividuali e proprie del contesto familiare, non omogenee per la popolazione non-ve73
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dente, con importante impatto degli interventi di riabilitazione precoce de
bambino (Brambring, 2006).
Fra gli effetti indiretti della cecità, gli autori evidenziano: 1. una minore elicitazione dell'attività motoria in mancanza di stimoli vi sivi; secondo Fraiberg (1978) il notevole ritardo riscontrato nei bambini non vedenti appare difatti determinato "dall'assenza dell'incentivo che la vista rappresenta per tutta la motricità volontaria e al fatto che, in sta assenza, non esistendo modalità vicarianti di ricognizione della realla il bambino con deficit visivo non può avventurarsi verso una realtà vuota, misteriosa, sconosciuta, piena di ostacoli e pericoli" (Fazzi, Lanners,
Martini, Danova e Lanzi, 1994, p. 124); 2. minori stimolazioni sociali iniziali, in relazione ai tempi necessari alle madri per interpretare correttamente le reazioni dei propri bambini; 3. maggiore insicurezza nel comportamento esploratorio, dovuta sia alla difficoltà di localizzare gli eventuali ostacoli, sia all'impossibilità di ricevere sicurezza emotiva dalla madre attraverso il semplice contatto
visivo;
4. ritardo nella costruzione del reale (in senso piagetiano), in quanto nessuna modalità sensoriale è paragonabile alla visione nel consentire di integrare diverse impressioni sensoriali in una totalità dotata di signifi-
cato.
Tröster e Brambing (1993), confrontando bambini non vedenti nel pri-
mo anno di vita con un corrispondente campione di bambini vedenti, riscontrano un ritardo di sviluppo - sia pure di minore entità - anche in quelle abilità motorie che non richiedono necessariamente una compensazione o una coordinazione visiva. Esemplificando, la capacità di stare seduti sul pavimento senza supporto e di giocare a lungo in questa posizione, presente nella totalità dei bambini vedenti a nove e a dodici mesi, non si manifesta in nessuno dei bambini non vedenti al primo livello d'età e compare nel 62% circa del campione a un anno. I ritardi maggiori tuttavia, anche in questa ricerca, intervengono nell'integrazione delle competenze posturali acquisite in sequenze dinamiche di movimento. Il ritardo nello sviluppo grosso motorio e della motricità fine sono in relazione fra loro poiché il primo fornisce una solida base per lo sviluppo del secondo la capacità di assumere una ferma postura da seduti favorisce i processi per raggiungere (reaching) e afferrare (grasping) gli oggetti infatti tendere la mano per prendere un oggetto è più facile se si hanno gli arti inferiori liberi, non impiegati per sostenere il proprio corpo. Uno sviluppo grosso motorio ottimale favorisce le attività di afferramento e di esplorazione degli oggetti e delle superfici e la realizzazione di obiettivi che implicano azioni distali. Anche per tali ragioni la coordinazione della motricità fine può essere compromessa nei bambini ipovedenti.
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In sintesi si può affermare che, data l'importanza che il movimento
riveste per l'autonomia del bambino e per la sua crescita psicologica, un'attenzione particolare vada rivolta alla stimolazione dell'attività esploratoria precoce e alla conquista di un certo grado di sicurezza, tale da contenere
in prospettiva i problemi motori nell'ambito ristretto delle attività direttamente condizionate dal controllo visivo. A questo proposito, Sleeuwenhoek, Boter e Vermeer (1995) propongono un modello concettuale di rapporto fra menomazione visiva, disabilità e handicap in cui la prestazione motoria, ossia l'uso concreto delle competenze percettive e motorie nella vita quotidiana, rappresenta un'ulteriore variabile, in aggiunta al grado di disabilità, capace di influenzare direttamente il livello di partecipazione e le eventuali restrizioni in tal senso. Coppa (1991) d'altra parte ha evidenziato la possibilità di favorire il movimento nello spazio in modo coordinato, nonché un buon controllo posturale e un'adeguata capacità di equilibrio statico e dinamico per mezzo della messa in atto, da parte di genitori ed educatori, di strategie specifiche: 1) incentivare il bambino alla verbaliz-
zazione delle esperienze; 2) stabilire in modo chiaro e preciso i punti di partenza e di arrivo di ogni percorso da eseguire; 3) iniziare l'attività in ambiente protetto; 4) motivare il bambino al compito. Rimandiamo all'ultima parte del capitolo per un approfondimento delle tematiche relative all'intervento. 2.2. Sviluppo cognitivo Lo sviluppo cognitivo può subire dei ritardi sia nei bambini ciechi sia in quelli ipovedenti, specie nei casi in cui il danno visivo origini da cause neurologiche o si presenti in comorbilità con altri disturbi Occorre innanzitutto premettere alcune fondamentali distinzioni legate
all'epoca di comparsa del deficit, all'entità e al tipo di perdita visiva. Di
fondamentale rilevanza è il fatto che la cecità sia congenita o acquisita.
La mancanza della visione nei primi mesi di vita produce infatti danni irreversibili. Alcuni bambini nascono con deficit visivi potenzialmente suscettibili di correzione, quali ad esempio la cataratta congenita: essa consente la percezione della luce attraverso il cristallino opacizzato, ma non permette la visione di percetti strutturati. In tali casi, quando la correzione non avviene in epoca precoce il bambino non è più in grado di utilizzare la capacità visiva, anche se successivamente l'organo visivo viene reso tecnicamente funzionale. Come ampiamente descritto in letteratura, esiste un periodo critico e uno sensibile di maturazione delle aree corticali deputate
alla funzione visiva, pertanto risulta fondamentale un precoce intervento di riabilitazione neurovisiva allo scopo di stimolarne la riorganizzazione (Voss, 2013).
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La perdita dell'acuità visiva consente al cervello di accedere a noi percorsi al fine di superare tale limitazione; le evidenze sulla neuroplasi. Cità (a livello corticale) e le ripercussioni funzionali - nelle menomazioni visive - producono un effetto compensatorio, in cui sono attivate anche le
funzioni sensoriali vicarianti (Silva et al., 2018). Il deficit visivo instaurato dopo i primi anni di vita ha effetti meno drastici: per recuperare la funzione visiva è necessario reintegrarla nella nuova struttura percettiva gerarchica.
Per quanto riguarda l'ipovisione, le difficoltà sono strettamente collegate alla tipologia del deficit, oltre che alla sua gravità. Abbiamo già fatto cenno alla distinzione fra il sistema focale, deputato alla ricognizione di forma, grandezza e localizzazione, e il sistema periferico, il cui campo di rilevazione riguarda il movimento. Tale distinzione è di indubbio interesse per gli ipovedenti, in relazione alla compromissione specifica. Le capacità di lettura e scrittura saranno difficilmente acquisibili senza l'ausilio di strumenti appropriati da parte di bambini con scotomi centrali, mentre per un bambino con scotomi periferici sarà più difficile individuare segnali sulla base dei quali muoversi e orientarsi nello spazio?. In generale comunque l'esperienza di deprivazione dell'ipovedente, non essendo totale, sembra essere molto diversa da quella del cieco, che non ha mai potuto utilizzare il dato visivo pur imperfetto per integrare le informazioni provenienti da altri sensi. Le considerazioni che seguono riguardano dunque solo le persone classificabili come cieche dalla nascita.
Come è noto, le prime attività cognitive sono strettamente collegate all'attività motoria. Di fatto, Piaget nello sviluppo dell'intelligenza distin-
gue un primo livello, l'intelligenza sensomotoria, non ancora propriamente intelligenza o intelligenza rappresentativa. È immediata conseguenza che la mancanza della principale afferenza (lo stimolo visivo) che stimola e favorisce l'esplorazione e quindi la conoscenza degli oggetti e dello spa-
zio comporti un ritardo non solo sulla motricità, ma anche sulle attività che nella primissima infanzia sono collegate a essa. Di fatto la tabella di Fraiberg (1977) segnala un ritardo motorio che è anche un ritardo dello sviluppo psicomotorio. Le mani "cieche riportano minori informazioni, con l'implicazione di un ritardo che ricade anche sullo sviluppo di altre modalità sensoriali e sulla formazione della conoscenza.
La ricerca degli oggetti nel bambino cieco deve fondarsi su afferenze
sensoriali diverse da quelle visive, principalmente quelle tattili e sonore.
2. Con il termine scotoma si intende un'alterazione del campo visivo per cui una porzione limitata di esso risulta cieca; a seconda della posizione di tale porzione, gli scotomi assumono il nome di centrali, periferici o anulari.
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Bower (1977) ha fornito un quadro delle capacità del bambino vedente e di quello non vedente e delle compromissioni di quest'ultimo. Per esempio, la percezione dell'avvicinamento di un oggetto può essere determinata sia dalle modificazioni visive, sia da quelle tattili attraverso la percezione dello spostamento dell'aria; Bower ha rilevato che il bambino non vedente non dà risposte di difesa di fronte a un oggetto che si avvicina con spostamento d'aria. Tale comportamento sembra essere strettamente collegato alla mancanza dell'input visivo. Infatti, due esperimenti di controllo hanno verificato che i bambini vedenti hanno risposte difensive anche quando viene mantenuta la sola immagine virtuale dell'oggetto che si avvicina e viene eliminato lo spostamento dell'aria, mentre non le manifestano quando l'avvicinamento dell'oggetto è effettuato al buio con lo spostamento d'aria. Gli esperimenti dimostrano che il bambino in età molto precoce è capace di individuare oggetti in movimento, ma solo quando può ricevere il relativo stimolo visivo; in assenza di questo anche il bambino vedente non è in grado di interpretarne i correlati in altre modalità sensoriali. Nel bambino cieco l'afferramento dell'oggetto sonoro è più tardivo di quello dell'oggetto visivo per il bambino vedente. Ma diversi studiosi, oltre a Bower, hanno riscontrato che la coordinazione udito-prensione è più tardiva di quella visione-prensione anche nel bambino vedente. Il ritardo dimostrato dal non vedente nella ricerca dell'oggetto non sarebbe quindi da attribuirsi alla cecità in quanto tale, ma alla necessità dell'uso del canale informativo uditivo, la cui coordinazione con la prensione avviene normalmente in periodo più tardivo. Tale ritardo comporta la messa in discussione dei tempi di formazione di un concetto base considerato dalla teoria piagetiana, la nozione di permanenza dell'oggetto, che nel vedente incomincia a delinearsi intorno al 9° mese. Ricordiamo che nelle osservazioni di Piaget, al 9° mese il bambino inizia a ricercare il gioco nascosto dietro uno schermo, e che però, se l'oggetto ritrovato in una prima prestazione è nascosto successivamente dietro altri schermi, il bambino tende a ricercarlo dove lo ha ritrovato la prima volta, come se il ritrovamento dell'oggetto nascosto fosse il risultato della sua azione piuttosto che collegato all'oggettiva reale collocazione. Per stadi successivi, che culminano con la comparsa dell'intelligenza rappresentativa, il bambino arriverà all'effettiva individuazione della collocazione dell'oggetto nascosto. Per quanto riguarda l'oggetto sonoro Bigelow (1986) ritrova una notevole variabilità interindividuale nell'acquisizione di questa condotta e comunque sempre un notevole ritardo nei ciechi (tra i 22 e i 35 mesi in confronto ai 18-24 mesi per il vedente). Nel bambino cieco si riscontra, come si è visto, un'altra condotta tipica: i blindismes, tic e condotte stereotipiche di autostimolazione (pugni schiacciati sugli occhi, dondolamento della testa e del tronco, ecolalie), cioè una
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produzione di stimoli suppletivi a quelli che non gli provengono dall'ester. no, che di per sé non inficiano specificamente lo sviluppo cognitivo, ma che, in quanto privi di significato Funzionale, certamente non lo incora.
giano. Come riferisce Hatwell (1992) relativamente agli stadi successivi e in particolare allo sviluppo del ragionamento logico, i ciechi dalla nascita mostrano un ritardo principalmente nelle operazioni infralogiche (es. conservazione di sostanza e peso) e, più lieve, in quelle logico-matematiche implicanti percezione e manipolazione di oggetti concreti (seriazione di bastoncini, classificazione di forme geometriche secondo uno o più criteri; secondo alcuni autori non vi sono invece quasi, o affatto, differenze nelle operazioni logico-matematiche basate sulla comunicazione verbale (es. inclusione delle classi, seriazione formale ecc.). Da una ricerca di Ittyerah e Samarapungavan (1989) con bambini ciechi
e vedenti dai 4 ai 12 anni circa d'età, suddivisi in due livelli in base agli stadi piagetiani di sviluppo, emergono risultati in parte sovrapponibili La capacità maggiormente compromessa nei ciechi, rispetto ai vedenti in condizione normale di visione o bendati, sembra essere quella relativa alla conservazione della quantità (misurata con la prova della plastilina), l'unica in cui i non vedenti non mostrano uno sviluppo significativo al secondo livello d'età. Una differenza significativa appare anche nei compiti di rotazione e di classificazione di oggetti concreti. Differenze minime o nulle si riscontrano nei compiti di classificazione non basati sulla rappresentazione
di oggetti familiari, in compiti di conservazione del numero, nell'uso di
regole transitive nella soluzione di problemi presentati oralmente, mentre le prestazioni dei ciechi appaiono superiori in compiti di seriazione. Gli autori concludono che gli effetti negativi della cecità sullo sviluppo cognitivo nell'infanzia sembrano essere specificamente collegati a un certo contenuto di conoscenza o a un certo compito piuttosto che a un deficit globale relativo a determinate classi di competenze. Essi inoltre mettono in luce come, anche in compiti dove si riscontra un certo ritardo, i bambini ciechi mostrino differenze significative nelle prestazioni ai due livelli evolutivi conside rati, suggerendo come col tempo processi integrativi tendano a colmare in gran parte tali differenze.
Alcuni studi sullo sviluppo cognitivo tendono a indirizzarsi, coerentemente con quanto avviene nella ricerca su bambini vedenti, all'analisi delle prestazioni in compiti specifici, più che alla definizione di stadi di svilup po. In quest'ottica Dimcovic (1992) in un esperimento concernente operazioni infralogiche e logiche trova che i bambini ciechi, rispetto ai vedenti (bendati), hanno una maggiore rigidità e resistenza ad adattarsi a un cam biamento del compito che implica una variazione degli attributi focalizzati L'autrice avanza l'ipotesi che l'esperienza giochi un ruolo fondamentale
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nel determinare tali differenze: il vedente ha esperienza di cambiamenti, trasformazioni, relazioni che danno luogo a "scene" presenti alla vista; il cieco deve costruire tali scene; il vedente ha accumulato un'esperienza che gli serve nell'elaborazione di nuovi dati; il cieco invece fatica a compiere
tale operazione.
Come si è già evidenziato, è presumibilmente nelle rappresentazioni spaziali che il cieco ha le maggiori limitazioni conoscitive, dal momento che gli altri canali sensoriali non sono altrettanto efficienti di quello visivo per gli stimoli distali. Per la percezione delle localizzazioni e per l'orientamento l'individuo ha necessità di ancorarsi a un sistema di riferimento. Nel non vedente tale
ancoraggio tende a essere costituito dal proprio corpo piuttosto che da punti di riferimento esterni, prolungando la condizione di egocentrismo intesa secondo l'accezione piagetiana. Com'è noto Piaget osserva che una delle
linee portanti dello sviluppo cognitivo, anzi la caratteristica basilare, è il passaggio dalla centrazione su di sé alla centrazione sull'altro, passaggio che per il pensiero concreto si attua intorno ai 7-9 anni. Per il cieco congenito la posizione egocentrica permarrebbe più a lungo, poiché egli tenderebbe a considerare il proprio corpo come il riferimento dominante. Un esperimento di Millar - riportato da Hatwell (1992) - su bambini ciechi dalla nascita e vedenti, bendati e non bendati sostiene tale ipotesi. Dimcovic (1992) osserva che la conclusione dell'esperimento di Millar è che i ciechi, nel risolvere compiti spaziali, tendono a codificare l'informazione differentemente e che il sistema di codifica che la maggior parte di essi usa potrebbe essere descritto come "di ordine inferiore", significando che l'input tattile non si organizza spazialmente così facilmente come quello visivo. E interessante rilevare che in tale esperimento i ciechi tardivi hanno prestazioni simili ai vedenti; ciò ribadisce come i primi anni di attivazione della percezione visiva siano sufficienti a impostare strutture cognitive impedite ai ciechi dalla nascita.
Un altro esperimento di Lederman, Klatzky e Barber (1985) mostra
come il riconoscimento spaziale di stimoli bidimensionali mediante il tatto fornisca informazioni povere e stimoli conseguentemente processi inferenziali non sempre corretti. Per studiare la modalità utilizzata per codificare informazioni spaziali attraverso il tatto gli autori hanno utilizzato una serie di esperimenti con soggetti adulti ciechi congeniti, ciechi tardivi o vedenti momentaneamente bendati. Tali osservatori dovevano seguire con un dito un percorso curvilineo in rilievo e quindi valutare sia la lunghezza del percorso, sia la distanza euclidea fra il punto di partenza e il punto di arrivo. Da tali esperimenti emerge come sia gli individui bendati sia i non vedenti tendano a sovrastimare la lunghezza della distanza euclidea quanto più è lungo il percorso tattile seguito. Questo sta a indicare che la modalità tatti-
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le di codifica della distanza è basata sul movimento; tale fenomeno appare particolarmente rilevante per i ciechi congeniti rispetto ai ciechi tardivi e ai vedenti bendati, suggerendo che l'esperienza visiva precedente sia di aiuto nell'inferire l'estensione spaziale a partire dall'esplorazione aptica. Concludendo, le difficoltà cognitive, risultanti dalla cecità completa, si risolvono generalmente in ritardi di acquisizione, per quanto permangano
le limitazioni sul piano sensoriale e delle immagini. Il solo deficit visivo non comporta differenze né tanto meno un'inferiorità nel bagaglio cogni-
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tivo dell'adulto. Ma la similitudine riscontrata nelle linee di sviluppo per non vedenti e vedenti non implica percorsi e mezzi simili. La deprivazione sensoriale visiva comporta delle riorganizzazioni funzionali che utilizzano processi vicarianti per la presa in carico delle informazioni: "queste vicarianze sono dapprima di ordine sensoriale, con una maggiore implicazione del sistema tattilo-cinestesico e uditivo. Esse, però, sono anche di ordine cognitivo. I ciechi si servono spesso di altri quadri di riferimento per elaborare i dati spaziali e, più generalmente, privilegiano, più dei vedenti, il linguaggio e l'elaborazione semantica astratta dei dati (a cui giungono altrettanto rapidamente dei vedenti) a detrimento delle rappresentazioni spaziali e per immagini che restano sovente per loro più fragili e più delicate da maneggiare" (Hatwell, 1992, p. 10).
Le più recenti acquisizioni in campo neurologico (Reich e Amedi,
2015) suggeriscono che alcune funzioni chiave nella organizzazione della corteccia visiva non richiedono esperienza visiva per progredire. Nei mo-
delli di acquisizione multisensoriale i parametri principali per il compito di identificazione aptica sono correlati alla familiarità con l'oggetto, alle rappresentazioni spaziali e alla attivazione di protocolli di elaborazione
bottom/up e top/down (Lacey et al., 2009).
2.3. Sviluppo affettivo e sociale
Vianello e Bolzonella (1988) parlano di un'influenza del deficit visivo a due livelli: l'influenza diretta determinata dalla deprivazione visiva sullo sviluppo psico-fisico del bambino e l'influenza indiretta sullo sviluppo psicologico; talvolta essa può essere determinata anche dal disorientamento dei genitori di fronte alla disabilità del figlio con conseguenti interventi educativi inadeguati. "Le madri dei lattanti ciechi o affetti da ambliopia sono descritte come paralizzate dal trauma della scoperta della cecità. Capiscono rapidamente che il loro bambino è diverso. Sovrainvestono allora la parola, come se il bambino sentisse tutto, e parlano un linguaggio iperconcreto e fattuale. Perdono il piacere legato all'uso degli altri canali di comunicazione: i dondoli, il contatto cutaneo, le vocalizzazioni, ecc. Da qui
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nasce il rischio di un'evoluzione disarmonica del bambino" (Wills, 1989, p. 197 della tr. it.). Vedremo nel capitolo dedicato alla famiglia come le modalità di reazione dei familiari possano essere molteplici e dipendano da numerosi fattori personali e ambientali. Sottolineiamo in questa sede che non sempre la scoperta della cecità conduce a comportamenti disadattivi da parte dei genitori. Dalle descrizioni di Als, Tronick e Brazelton (1980), per esempio, appare come talvolta, a dispetto dei problemi che l'assenza della vista pone nell'interazione, le madri sappiano interpretare fin dall'inizio le esigenze e i comportamenti dei bambini ciechi e si adattino a essi allo scopo di sostenere l'interazione e di dirigerla verso forme più mature. Dote-Kwan (1995) d'altra parte sottolinea come le ricerche abbiano tendenzialmente descritto le madri dei bambini non vedenti come un gruppo omogeneo, mentre secondo l'autore esse possono presentare stili interattivi molto diversi. In particolare dal suo studio - condotto con diciotto madri di bambini legalmente ciechi di età compresa fra i 20 e i 36 mesi - emerge una percentuale di accoglimento delle richieste di aiuto espresse dai figli maggiore rispetto a quella evidenziata in ricerche precedenti. La responsività delle madri si dispiega inoltre in numerose ripetizioni o riformulazioni dei comportamenti comunicativi infantili. A loro volta i bambini mostrano una certa consapevolezza dell'ambiente e livelli di sviluppo in varie aree correlati positivamente alla responsività materna. E possibile che alcune differenze nell'interazione madre-bambino non vedente siano legate alla partecipazione a precoci programmi di intervento, che stimolano atteggiamenti responsivi e adattivi nelle madri. Le considerazioni sullo sviluppo che seguono vanno dunque comprese alla luce delle differenze individuali e contestuali. Come è noto, il bambino è dotato fin dalla nascita di sistemi di segnalazione che suscitano risposte in chi si prende cura di lui: egli infatti piange, sorride ed emette vocalizzi. Inizialmente questi comportamenti non sono intenzionali, ossia il bambino non attende una risposta, ma semplicemente esprime i propri stati interni di benessere e di malessere. Ciò nonostante gli adulti rispondono a tali segnali, e in particolare al sorriso, guardando il bambino negli occhi, toccandolo affettuosamente e parlando con lui. In questo modo si origina una ripetitiva, e talvolta ritmica, sequenza di sorrisi e vocalizzi accompagnati da un reciproco contatto visivo. Questa sequenza di comportamenti favorisce il legame di attaccamento adulto-bambino. Anche il bambino con deficit visivo è capace di emettere vocalizzi e di sorridere circa alla stessa età degli altri bambini, rispondendo alla voce e alle stimolazioni corporee. Tuttavia non è ovviamente in grado di stabilire un contatto visivo con gli altri. A questo proposito Fraiberg (1977) ha potuto constatare che talvolta i genitori di bambini non vedenti appaiono scoraggiati per la mancanza di uno sguardo reciproco o di una risposta a un
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sorriso; molte madri cercano di provocare il sorriso nel bambino, in quanto ciò le gratifica e dà loro una sensazione di maggior contatto. Alcuni autori (si veda per esempio Vianello e Bolzonella, 1988), facendo riferimento agli studi effettuati da Fraiberg (1977), hanno potuto constatare che gli stadi di attaccamento nel bambino non vedente non appaiono completamente sovrapponibili a quelli del bambino vedente, verificandosi in molti casi un ritardo di alcuni mesi in alcune tappe fondamentali, quali ad esempio la capacità di discriminare le figure familiari dagli estranei. Successivamente anche il processo di separazione individuazione può risultare ritardato in relazione a diversi fattori: com'è noto, infatti, la possibilità per il bambino di sperimentare il mondo circostante, allontanandosi dalla madre, è strettamente collegata ai suoi progressi nella locomozione e in generale alla capacità di spostamento autonomo. È già stato detto come queste competenze motorie si sviluppino con ritardo notevole nel bambino non vedente. A rendere più problematico tale fenomeno contribuisce talvolta una tendenza all'iperprotezione da parte degli adulti che si manifesta attraverso una costante mediazione tra il bambino e l'ambiente circostante e/o semplicemente come difesa dai pericoli esterni. Infine è ipotizzabile che, così come il bambino non vedente acquisisce in ritardo coscienza della costanza degli oggetti fisici, egli tardi ad attribuire alla madre un'individualità separata e un'esistenza indipendente dalla sua presenza fisica. Come sottolineano Bregani, Cerabolini, Colli, Colombini e Damascelli (1987) la capacità di distacco momentaneo dalla madre e dalle figure familiari, importante per il raggiungimento di un'autonomia psicologica, è possibile ad alcune condizioni: 1) un legame soddisfacente con i propri genitori nel primo periodo di vita; 2) una certa consapevolezza della propria e altrui identità; 3) una certa tolleranza per la momentanea assenza delle figure familiari basata sulla fiducia della continuità del rapporto. Viceversa Hollins (1989) segnala fra i fattori più negativi per lo sviluppo sociale e affettivo la "distanza emotiva" tra genitore e bambino, determinata dalla discrepanza esistente tra le aspettative genitoriali e l'ideale di bambino posseduto dai genitori e il bambino reale con disabilità sensoriale.
Lo studio longitudinale già menzionato (Als et al., 1980) sull'interazione madre-bambino, condotto con bambini disabili e non a partire dal primo mese di vita, evidenzia la somiglianza nell'organizzazione di tali interazioni precoci in presenza di un bambino vedente o non vedente.
L'osservazione ripetuta delle coppie in situazioni interattive faccia a faccia mette in luce una sequenza di stadi caratterizzati da una graduale evoluzione delle capacità del bambino (nel mantenimento dell'equilibrio fisiologico,
nel controllo posturale, nel livello di attenzione e di partecipazione allo
scambio ecc.) e un corrispondente adattamento del tipo di supporto fornito dal genitore. Dai risultati emerge come nella coppia madre-bambino cieco
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si passi, come nella coppia madre-bambino vedente, da una fase di organizzazione del movimento e della postura, tesa a raggiungere una posizione favorevole all'interazione (midline), a una fase di mutuo orientamento e infine a un dialogo giocoso, all'interno del quale il bambino non vedente,
stimolato dalla madre, cerca di toccarle il volto con le mani, iniziando
quindi verso i quattro mesi i primi tentativi di raggiungere oggetti esterni. La principale differenza fra le diadi studiate consiste nel maggior impegno che il contenimento del bambino cieco prima e il coinvolgimento interattivo poi richiedono alla madre. Si assiste dunque a un uso più marcato del contatto, dell'avvolgimento fisico, della voce e a una maggiore consapevolezza - rispetto alle altre madri - del proprio comportamento, degli obietti-
vi e dei risultati. Un campo particolarmente studiato nell'ambito dello sviluppo affettivo e sociale è quello relativo all'espressività facciale. Masini e Antonietti
(1987), da una breve rassegna sulle principali ricerche condotte con bambini non vedenti, concludono che esiste una competenza espressiva di base che consente anche a individui ciechi dalla nascita di decodificare e codificare le emozioni di base (gioia, dolore, rabbia, ecc.). Per quel che riguarda invece le emozioni più complesse, i fattori di apprendimento sociale sembrano rilevanti nel compensare le mancate esperienze visive, che in molti casi determinano nel non vedente un repertorio espressivo più limitato. Da quanto è emerso in questa breve descrizione il bambino non vedente sembra possedere una serie di competenze di base, che rendono possibi-
le uno sviluppo affettivo e sociale per molti aspetti simile a quello di un
bambino vedente. Nel rapporto adulto-bambino, come si è visto, l'adulto si fa generalmente carico di sostenere l'interazione adattandosi alle modalità comunicative del bambino non vedente, utilizzando in misura maggiore il contatto corporeo e la stimolazione vocale.
Le relazioni con i coetanei, in quanto interlocutori meno disponibili, pongono al bambino non vedente nuovi problemi. Vianello e Bolzonella
(1988) sottolineano come talvolta il permanere di tendenze egocentriche possa ostacolare il rapporto con i pari. Si evidenzia a questo proposito l'importanza della scuola dell'infanzia che allarga il campo delle esperienze sociali (cfr. anche Guasco e Raspino, 1994). Le attività ludiche coordinate da un adulto competente appaiono le modalità più adeguate per promuovere lo sviluppo di comportamenti sociali nei confronti dei coetanei. Il bambino con deficit visivo, infatti, non essendo in grado di vedere l'attività svolta dal compagno di gioco, tenderebbe a svolgere di preferenza giochi concentrati sul proprio corpo oppure a produrre con gli oggetti degli schemi d'azione ripetitivi.
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2.4. Sviluppo linguistico
L'enfasi che molte ricerche hanno posto sulla natura sociale dello sviluppo linguistico ha contribuito a concentrare l'attenzione di molti studiosi sugli aspetti preverbali della comunicazione (per una rassegna cfr. Morra Pellegrino e Scopesi, 1989). In quest'ambito alcune modalità preverbali d'interazione sono state valorizzate come importanti precursori della successiva competenza linguistica, in particolare l'uso del contatto oculare nel regolare gli scambi precoci fra madre e bambino, la condivisione visiva dell'attenzione su un oggetto e l'uso di gesti comunicativi a partire dalla seconda metà del primo anno di vita. L'interesse quindi allo sviluppo linguistico nei bambini ciechi è legato in parte al proposito di verificare il peso che su tale evoluzione possono avere le limitazioni del canale visivo tipiche dei primi scambi fra adulto e bambino non vedente.
Sino ai 6-7 mesi non sono state riscontrate differenze nelle vocalizzazioni fra bambini con deficit visivo e bambini vedenti. Successivamente, a parere di Fraiberg (1977), i bambini non vedenti appaiono meno loquaci, ma pur sempre pronti a rispondere alle stimolazioni con vocalizzi. Alcune ricerche (Kastein, Spaulding e Scharf, 1980) hanno posto in evidenza la fondamentale importanza di gratificare e di incentivare le vocalizzazioni spontanee, dando risposta al bambino (ripetendo le sue produzioni vocali sotto forma di eco) e favorendo l'atto comunicativo; in questo modo è infatti possibile aumentare il livello e la qualità delle produzioni sonore. Per quanto riguarda l'acquisizione delle prime parole, la letteratura fornisce risultati non univoci. Come sottolineano Moore e McConachie (1994), mentre alcuni autori hanno riscontrato parecchi mesi di ritardo in tale acquisizione per i bambini con cospicui deficit visivi, questo dato non sempre è stato confermato. Gli autori attribuiscono tali discordanze nei risultati sia a differenze metodologiche nella raccolta dei dati, sia alle diversità nella composizione dei campioni. E forse possibile ipotizzare che i bambini non vedenti siano a rischio di ritardo nell'acquisizione dei primi vocaboli, sia per i limiti evidenziati nella comunicazione non verbale, sia per la limitata esperienza del mondo esterno che rallenta il processo di conoscenza degli oggetti e delle persone. "Senza la vista il bambino deve compiere un percorso molto più lungo e difficile per costruirsi il mondo degli oggetti, dare loro un nome e attribuire loro qualità e azioni di cui non ha esperienza diretta" (Damascelli, 1992). È possibile tuttavia che l'attenzione delle madri a sostenere attraverso altri canali la comunicazione preverbale e a stimolare l'esplorazione e la conoscenza degli oggetti possa in alcuni casi favorire i bambini ciechi fin dalle prime fasi dello sviluppo linguistico. Fra gli autori che hanno riscontrato ritardi nelle prime acquisizioni linguistiche, Moore e Conachie (1994) hanno esaminato anche le differenze
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nelle modalità comunicative dei genitori di bambini ciechi di età media 18 mesi rispetto a quelle utilizzate con bambini ipovedenti e con bambini vedenti della stessa età. L'ipotesi infatti è che alcuni aspetti dell'input adulto
non siano favorevoli allo sviluppo linguistico. In particolare dai risultati
emerge che:
- i genitori di bambini ciechi iniziano più frequentemente l'interazione e lo fanno molto spesso attraverso il solo commento verbale (senza accompagnamento dell'azione). Questo dato sottolinea come lo strumento verbale, in quanto canale comunicativo integro, tenda naturalmente a essere sovrautilizzato coi propri bambini non vedenti; - tali genitori usano con frequenza molto superiore rispetto agli altri (genitori di vedenti e di ipovedenti) le richieste di informazione; gli autori sottolineano l'inadeguatezza di tale comportamento linguistico nei con-
fronti di bambini così piccoli; - prevalgono i riferimenti a oggetti potenzialmente interessanti piuttosto
che a oggetti presenti nel contesto. Tale comportamento sembra accomunare i genitori di bambini ciechi ai genitori di bambini con sviluppo linguistico lento (Harris, Jones, Brookes e Grant, 1986). Per quanto riguarda le fasi successive di sviluppo, Damascelli (1992) segnala un ritardo nell'uso appropriato di frasi di due o tre parole, ancora una volta a causa della discrepanza fra l'input linguistico (spesso basato su una rappresentazione degli oggetti in cui domina il dato visivo) e i dati esperienziali. Secondo l'autrice tuttavia tale ritardo sarebbe temporaneo e destinato a colmarsi intorno ai tre anni. Ulteriori elementi di diversità nelle prime tappe dello sviluppo linguistico vengono messi in luce da una ricerca, finalizzata a esplorare le relazione fra input dei genitori e competenze linguistiche, nonché a confrontare bambini vedenti e non vedenti nel terzo anno di vita, rispetto alla capacità di rispondere in mondo contingente ai propri interlocutori (Kekelis e Prinz, 1996). Dai risultati di tale studio longitudinale della durata di sette mesi, consistente in osservazioni mensili su quattro soggetti (due non vedenti e due vedenti) in interazione con le proprie madri, emergono alcune differenze nei rispettivi pattern conversazionali: 1. mentre i bambini vedenti producono lo stesso numero di enunciati per
turno rispetto alle loro madri, i bambini ciechi sembrano contribuire
alla conversazione con un minor numero di enunciati;
2. le domande rivolte ai non vedenti sono finalizzate principalmente a verificare le loro conoscenze su nomi e caratteristiche degli oggetti,
mentre ai coetanei vedenti le madri farebbero in proporzione significativamente maggiore richieste reali, che elicitano informazioni su sentimenti, fantasie, interpretazioni degli eventi;
3. contrariamente ai risultati di altre ricerche, il numero di frasi direttive utilizzate dalle madri sono in questo studio simili nei due casi.
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Tuttavia, come mettono in luce gli autori stessi, è importante non generalizzare tali risultati, relativi a pochi soggetti osservati in situazione di gioco, a tutti i casi e a tutti i contesti. Sembra fondamentale inoltre tener conto del valore adattivo che alcune modalità interattive possono rivestire nell'interazione con un bambino non vedente: in questo caso specifico per esempio, entrano in conflitto l'obiettivo di espandere le capacità di gioco, descrivendo gli oggetti e il loro funzionamento e assumendo quindi un ruolo asimmetrico nel dialogo, e l'obiettivo di coinvolgere il bambino nella conversazione. Come sottolineano Behl, Akers, Boyce e Taylor (1996), la qualità e l'appropriatezza delle interazioni di madri di bambini con disabilità visiva, possono essere paragonabili a quelle di madri di bambini vedenti. Studi longitudinali di lunga durata sono inoltre necessari per verificare l'eventuale permanere delle diversità osservate. Brambring (2007) sottolinea come lo sviluppo del linguaggio, sia solo
lievemente in ritardo nei bambini non vedenti rispetto ai vedenti, a eccezione di alcune specifiche difficoltà quale un iniziale ritardo nell'età di acquisizione delle prime parole. L'acquisizione di rappresentazioni simboliche di oggetti e persone attraverso il linguaggio parlato è critica nel bambino non vedente perché fortemente correlata alla ridotta possibilità di accedere alla comunicazione non verbale, ampiamente utilizzata nelle prime fasi dello sviluppo del linguaggio, dai genitori dei bambini vedenti. Quelle che emergono nelle età successive sembrano essere differenze principalmente qualitative, che rifletterebbero la peculiare esperienza della realtà delle persone non vedenti. In particolare è stata da più autori sottolineata una certa tendenza all'iperverbalismo: il bambino ripeterebbe molti termini o strutture frasali che sente dall'adulto senza accedere completamente al significato. Pensiamo ai termini designanti oggetti o fenomeni percepibili solo attraverso la vista (le stelle, i colori) o di cui gli altri sensi ci offrono una percezione parziale (il mare, il grattacielo). È da notare tuttavia come anche per i vedenti il significato delle parole si costruisca gradualmente: i bambini piccoli in genere usano le parole con un'estensione semantica diversa dagli adulti. Questo fenomeno, pur più marcato e più duraturo nei ciechi, non è dunque completamente estraneo neppure ai vedenti. Inoltre esso sembra destinato a spegnersi o comunque ad attenuarsi con l'ampliamento dell'esperienza e la conoscenza di nuove situazioni. Diverse ricerche hanno inoltre posto l'accento su elementi di somiglianza nello sviluppo linguistico di ciechi e vedenti, che possono in qualche modo sembrare eccezionali se teniamo conto delle differenze esperienziali già più volte citate. Gleitman e Wanner (1988) per esempio riportano un interessante esperimento in cui si chiede a una bambina cieca di tre anni di "mostrare" o di "dare" un oggetto; la risposta è inequivocabile: la bambina tiene l'oggetto in mano a una certa distanza, quando lo sperimentatore
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chiede di mostrare l'oggetto, mentre glielo consegna, se richiesta di darlo. Analogamente, si tocca la schiena quando deve"toccare dietro di sé", mentre cerca di sentire qualcosa muovendo la mano nello spazio dietro al proprio corpo quando la consegna è: "guarda dietro di te". Gli autori - che utilizzano tale esempio come contributo alla discussione sul ruolo dell'esperienza e delle competenze innate nell'acquisizione del linguaggio - concludono che "i bambini ciechi dalla nascita imparano gli stessi elementi lessicali e le stesse relazioni tematiche, e quasi nello stesso ordine, dei bambini vedenti" (ivi, p. 251).
3. Le disabilità multiple Negli ultimi anni si evidenzia un cambiamento nell'ambito della disabilità visiva, non più solo sinonimo di cecità o ipovisione, ma sempre più spesso associata ad altre problematiche.
I dati epidemiologici relativi alla popolazione infantile che afferisce ai centri di riabilitazione registrano l'aumento di quadri clinici complessi, dove la limitazione delle funzioni visive si accompagna, per cause pre-, peri- o post-natali, a patologie neuromotorie e sensoriali. Tale aumento potrebbe essere correlato al maggior tasso di sopravvivenza di bambini nati pre-termine, associato al miglioramento delle tecnologie e ai progressi in ambito medico. La pluridisabilità non rappresenta la semplice somma di più limitazioni compresenti nella stessa persona, quanto invece una interazione permanen-
te di patologie, limitazioni e disabilità all'interno di un sistema dinamico influenzato dagli ambienti interni ed esterni alla persona stessa (Piccioni, 2005).
Nella pluridisabilità, eterogenea per definizione, l'elemento comune è forse proprio la difficoltà di poter armonizzare quanto giunge attraverso i sensi, apprendere quanto sperimentato, fissare nella memoria le esperienze passate.
Alcuni Autori parlano di spettro della pluridisabilità, precisazione che mette in luce la pluralità diagnostica ed eziologica della problematica qui affrontata. Dentro allo spettro della pluridisabilità, la problematicità della situazione è declinata in lieve, media e grave. - Pluridisabilità "lieve" è la definizione che fa riferimento a tutte quelle condizioni in cui la compromissione cognitiva e/o motoria e/o sensoriale non determinano una significativa limitazione dell'autonomia, delle possibilità di percezione, di espressione e di relazione del soggetto.
- Pluridisabilità "media" è il concetto che si riferisce a quadri clinici molto eterogenei, in cui le disabilità intellettiva e motoria, eventualmente in
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associazione a un deficit sensoriale, compromettono lo sviluppo armonico dell'individuo. In questi casi il linguaggio può essere presente, ma caratterizzato da ritardi o disturbi. Possono essere presenti disfunzioni neuropsicologiche (deficit di attenzione, concentrazione, memoria).
- Pluridisabilità "grave" è il concetto che indica nel grave deficit intellettivo e motorio le due principali discriminanti. In queste persone il linguaggio è del tutto assente e la disabilità intellettiva profonda, al punto che non esistono test standardizzati applicabili per una valutazione attendibile del loro QI. In aggiunta a questi problemi, a causa dei
danni cerebrali si riscontrano deficit sensoriali con maggiore frequenza delle menomazioni visive. Tale quadro clinico determina una restrizione estrema dell'autonomia e delle possibilità di percezione, di espressione e
di relazione. La valutazione nella persona con minorazione visiva e disabilità associate necessita di una équipe multidisciplinare: l'approccio a un problema con diverse sfaccettature deve essere unico e complessivo nel senso di una comunicazione armonica tra tutti i professionisti coinvolti (Piccioni, 2005). Le aree della valutazione sono:
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- funzionalità visiva: abilità oculomotorie, acuità visiva (di risoluzione,
di riconoscimento), campo visivo, sensibilità al contrasto, funzioni neu-
ropsicologiche visuo-cognitive (riconoscimento visivo, abilità visospaziali); abilità cognitive (WPPSI test, WISC IV test, Scale Griffiths, Reynell Zinking test);
valutazione abilità senso-percettive; - valutazione abilità comunicative e linguistiche (Comunicazione Aumen-
- tativa Alternativa, Lis);
- valutazione abilità neuromotorie; - valutazione autonomie (Vineland Adaptive Behavior Scales); - valutazione ICF del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Per quanto riguarda la presa in carico riabilitativa del bambino con pluridisabilità è necessario fare una distinzione in riferimento all'età in cui si avvia un percorso riabilitativo. Parliamo di "intervento precoce" quando l'intervento riabilitativo ha avvio nel periodo di vita 0-3 anni: in questo periodo il bambino acquisisce importanti competenze motorie, cognitivo-simboliche, affettivo-relazionali. Il canale visivo svolge un ruolo importante affinché alcune tappe dello sviluppo del bambino possano essere raggiunte nei tempi previsti. Il deficit visivo potrebbe influenzare negativamente il suo sviluppo psicomotorio. Recenti risultati delle neuroscienze confermano l'importanza dell'intervento riabilitativo precoce, per inserirsi in un momento evolutivo fondamentale sia per lo sviluppo post-natale del sistema visivo (periodo sensibile) sia per la capacità di riorganizzazione (plasticità) del Sistema Nervoso Centrale.
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L'intervento riabilitativo precoce del bambino con pluridisabilità deve necessariamente prendere in considerazione la riabilitazione visiva (early low vision training) con l'obiettivo dell'uso funzionale del residuo visivo, lo sviluppo senso-percettivo (uso del tatto, udito, gusto e olfatto), lo sviluppo del processo figurativo (costruzioni di immagini mentali), l'uso delle prassie (uso funzionale della mano), lo sviluppo immaginativo-motorio (esplo-
razione dell'ambiente attraverso esperienze tattili-motorie-acustiche).
In questa fascia di età è essenziale che il progetto riabilitativo sia intensivo, globale e personalizzato, finalizzato allo sviluppo armonico del bambino sotto il profilo cognitivo, emotivo, psicomotorio. Se necessario, all'intervento di riabilitazione visiva, si associano interventi quali: infant massage, stimolazioni basali, psicomotricità, fisioterapia, logopedia, pettherapy. Periodo dopo i 3 anni di età (età scolare, età adulta): concluso il periodo considerato "critico", i progetti riabilitativi, sempre fortemente personalizzati, hanno quale obiettivo il raggiungimento del massimo livello possibile di autonomia, comunicazione e socializzazione della persona disabile, attraverso interventi calibrati sull'individuo e sulla famiglia. La riabilitazione della persona con pluridisabilità è un percorso che inizia precocemente e prosegue per tutto il ciclo di vita; la presa in carico non
è solamente riparare un danno o ripristinare una funzione, ma è soprattutto evocare una competenza che non è apparsa nel corso dello sviluppo o impedire una regressione funzionale, promuovere e sostenere le abilità
emerse, anche se in maniera fragile e/o parzialmente adeguata, sostenere il contesto familiare.
4. Interventi riabilitativi ed educativi Come abbiamo potuto osservare nella trattazione precedente, i ritardi di sviluppo del bambino non vedente si dimostrano più o meno consistenti anche in rapporto al ruolo svolto dai genitori e dagli educatori nella relazione con il bambino; difatti, nonostante le difficoltà strettamente connesse con la disabilità sensoriale, la presenza di stimolazioni costanti, di interazioni coinvolgenti e di arricchimenti continui dell'esperienza fanno sì che un bambino con disabilità visiva possa evidenziare uno sviluppo psicofisico simile a quello di un vedente. La formulazione di una progetto riabilitativo parte da una valutazione accurata dell'individuo e del contesto (per esempio la famiglia). La definizione di tale progetto dipende da variabili quali l'età del soggetto, le sue caratteristiche e quelle del contesto, così le attività riabilitative proposte saranno differenziate sulla base dell'età e individualizzate sulla base dei bisogni specifici. 89
*õê * . SONO DI TUTTI, TRATTAMI BENE se riconsegni il libro danneggiato o sottolineato, dovrai ricomprarlo.
A partire dalla classificazione delle disabilità in ottica psicosociale 1CF. CY (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2007), la definizione del piano
di riabilitazione terrà conto, in particolare a partire dai 7 anni, anche di specifici obiettivi nelle aree di Attività e Partecipazione, che hanno un
impatto sulla integrazione sociale e sulle prestazioni nella vita quotidiana. Nel periodo neonatale e prescolare gli obiettivi di intervento multidisciplinare saranno quindi mirati a conseguire le fondamentali tappe di sviluppo del bambino (Rainey, van Nispen e van Rens, 2014). Coerente a tali principi è il metodo proposto dall'Istituto David Chiossone di Genova, già condiviso nel "Manuale di riabilitazione visiva per ciechi e ipovedenti" del 2009, in cui sono descritti i protocolli di valutazione delle diverse aree di intervento destinate all'età evolutiva. Gli operatori sottolineano l'importanza della precocità dell'intervento,
indicando come i primi 18 mesi di vita siano il periodo sensibile per lo sviluppo dei circuiti neurali coinvolti nei processi percettivi visivi. In età
a
precoce la riabilitazione prevede sia la stimolazione del sistema visivo attraverso materiali luminosi sia l'esercizio delle funzioni nervose superiori come l'attenzione, la memoria, le prassie e le funzioni gnosiche. Con l'esercizio si intende stimolare lo sviluppo dei processi senso-percettivi come la capacità di fissazione, la motricità oculare, la binocularità, la sensibilità al contrasto, l'adattamento alla luce e all'oscurità, la sensibilità ai colori; l'esercizio, inoltre, è volto a promuovere i processi gnosico-prassici come la durata e la qualità dell'attenzione visiva volontaria e automatica, la memoria visiva, la capacità di coordinare il movimento degli occhi con altri aspetti del comportamento (movimenti del capo, della mano, eccetera),
la capacità di discriminare forme e colori, di individuare somiglianze e differenze, di imitare espressioni e movimenti, di orientarsi nello spazio
(Cannao, 2009).
In età precoce l'intervento è caratterizzato dall'obiettivo di garantire il pieno sviluppo dell'individuo e di potenziare le capacità percettive, accanto alla stimolazione del residuo visivo sono previste tutte le iniziative volte a potenziare la percezione e la motricità: quali logopedia, acquaticità, musicoterapia, fisioterapia, pet-therapy e psicomotricità (Fazzi Signorini, 2005). Successivamente - in età scolare - la riabilitazione è volta a facilitare la comunicazione, promuovere la capacità di orientamento e la mobilità attraverso l'uso degli ausili. Accanto a tali interventi sono previste attività laboratoriali, musicoterapia, nuoto, ippoterapia e iniziative volte alla socializzazione e alla conoscenza dell'ambiente (Martinoli e Delpino, 2009). Come detto sopra, l'intervento sull'individuo cieco o ipovedente deve tener conto del contesto, in particolare della famiglia. Come nel caso di altre disabilità, la famiglia riveste un ruolo importante (si veda Zanobini, Manetti e Usai, 2002) e deve essere in grado di mettere in atto processi
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di adattamento funzionali alla situazione. Nel caso di persone con disabilità visiva acquisita, per esempio, la famiglia mette in atto processi di funzionamento e adattamento che spesso sono simili a quelli messi in atto dall'individuo con disabilità (Bambara, Wadley, Owsley, Martin, Porter e Dreer, 2009). La menomazione impone una riorganizzazione non solo a livello dell'individuo interessato, ma di tutto l'ambiente familiare, soprattutto nei casi in cui i membri della famiglia prestino assistenza diretta al congiunto. La famiglia fornisce alla persona con disabilità visiva supporti a vari livelli, dall'aiuto materiale al sostegno emotivo; tali forme di supporto sono fondamentali per l'adattamento alla perdita della vista e costituiscono fattori di protezione sia nei confronti dello stress, sia per gli eventuali esiti negativi in relazione alla salute. Nelle attività di riabilitazione è necessario prestare attenzione anche alla famiglia dell'individuo con disabilità visiva poiché sono ben noti gli effetti positivi del sostegno emotivo sui processi di adattamento. Gli operatori della riabilitazione non devono trascurare eventuali segnali di malessere familiare poiché questi possono essere di ostacolo al successo dell'intervento riabilitativo sul singolo. Alcuni autori suggeriscono di monitorare le condizioni della famiglia e di prevedere cicli psicoeducativi volti a esaminare le influenze e le interazioni tra pensieri, emozioni e comportamenti riguardanti il problema tra le persone della famiglia (Dreer e Broadfoot, 2008). L'acquisizione di un soddisfacente livello di autonomia, che possa consentire un allargamento del proprio spazio di movimento in sicurezza, e uno specifico adattamento ambientale dei contesti di vita, costituiscono l'obiettivo principale degli interventi educativi e riabilitativi rivolti ai non vedenti. Gli interventi finalizzati al miglioramento dell'autonomia personale e di movimento, si avvalgono di ausili speciali e di un training di orientamento e mobilità. È importante introdurre e abilitare all'uso di specifici ausili, volti a potenziare il residuo visivo o a vicariare le funzioni visive, che supportano l'autonomia personale nelle attività del quotidiano e facilitano l'accesso alle
informazioni e alla cultura. Negli ultimi anni sono stati sviluppati strumenti volti a migliorare l'autonomia degli individui ciechi o ipovedenti che includono ausili per la casa (bilance, orologi da muro, calendari, termometri) con caratteri ingranditi, display braille o sintesi vocale. Parallelamente gli ausili tiflotecnici a supporto della scrittura e lettura hanno avuto enormi evoluzioni, a partire dalla scrittura manuale in braille (tavolette), alle interfacce per po con display
braille, ingranditori di caratteri (ingranditori e videoingranditori portatili o da tavolo, lavagne per disegno ingrandito, touch screen), screen reader, sintetizzatori vocali, sistemi per il riconoscimento dei testi.
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Se con il secondo millennio la telefonia mobile ha rappresentato un importante ostacolo alla integrazione sociale e alle comunicazioni, per via soprattutto delle tecnologie touch e dei collegamenti tramite icona, a partire dal secondo decennio sono state introdotte dagli sviluppatori della tecnologia mobile specifici strumenti di accessibilità e personalizzazione per tutte le funzioni di navigazione e comunicazione (VoiceOver per Apple e TalkBack per Android) che hanno reso completamente accessibile il telefonino e le funzioni di rete. Inoltre la flessibilità e innovazione data dallo sviluppo di app dedicate, ha permesso l'introduzione nello stesso telefono portatile di sistemi ingranditore e ocr, ma anche funzioni di supporto sociale che vengono in aiuto del non vedente per orientarlo o interpretare testi e segnali. L'intelligenza artificiale oggi, con algoritmi dialogici e la possibilità di interfacciare con comandi interamente vocali, risponde alle funzioni di
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ricerca di informazioni e gestione di acquisti online, governa interamente la domotica e offre stimoli per il tempo libero; apre quindi un nuovo scenario in cui risulta ridotta anche la necessità di apprendimento da parte dell'utente. 4.1. Training e strumenti per il potenziamento dell'efficienza visiva Con il termine potenziamento dell'efficienza visiva intendiamo l'utilizzo significativo del residuo visivo allo scopo di ottenere informazioni sull'ambiente circostante e migliorare, conseguentemente, l'autonomia. Diversi autori (Barraga, 1983; Herchul e Turner, 1988) hanno potuto constatare che lo sviluppo dell'efficacia visiva richiede in genere un addestramento viso-
motorio.
Ad oggi, specialmente per il bambino in età prescolare, non esiste un approccio riabilitativo condiviso e standardizzato; le metodiche riabilitative sono spesso empiriche e si basano sulla esperienza del professionista che effettua l'intervento e mancano di misurabilità oggettiva e confrontabile. Ciò del resto è giustificato dal fatto che l'intervento debba essere neces-
sariamente individualizzato in funzione al tipo di patologia, alla gravità della disabilità, alla prognosi e alle pluridisabilità correlate. Le abilità che
è possibile e necessario potenziare sono: la consapevolezza della luce (valutata attraverso la risposta di orientamento in presenza di uno stimolo), l'attenzione alla luce (fissazione mono e bi-foveale), la localizzazione della
luce in vari punti del campo visivo, la capacità di seguire con lo sguardo
una luce in movimento, la consapevolezza della presenza o assenza di una luce (detezione), la capacità di seguire con lo sguardo oggetti o persone in movimento, la localizzazione di oggetti e l'uso della visione periferica.
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Per migliorare la fissazione del bambino affetto da ipovisione centrale è
anche possibile utilizzare - con i bambini collaborativi - il microperimetro, strumento che permette di effettuare stimolazioni neurovisive mediante il biofeedback sonoro (Vingolo et al., 2015). Nelle persone ipovedenti è possibile, dopo una corretta valutazione della condizione visiva (tipo di affezione dell'occhio, grado di acutezza visiva, ampiezza del campo visivo, ecc.) potenziare la capacità visiva residua mediante l'uso di specifici ausili ottici (lenti ipercorrettive, lenti prismatiche, filtri fotoselettivi, ecc.). Gli ausili finalizzati all'ingrandimento dell'immagine retinica, o al miglioramento della qualità di tale immagine, possono essere distinti in due categorie: per la visione da vicino (videoingrantitori, computer) e per lontano (sistemi telescopici). I sistemi telescopici sono utilizzati per ingrandire le immagini a distanza, da due a otto ingrandimenti, che pur lavorando su un campo di osservazione ridotto e imponendo una certa staticità all'osservatore possono favorire l'autonomia personale e nell'ambiente del soggetto ipovedente.
Più semplici degli ausili ottici per la lettura, laddove sia richiesto un ingrandimento superiore a 1x o 2x, sono i videoingranditori (sistema televisivo a circuito chiuso, Cctv) sistemi dotati di schermo a colori, illumi-
nazione e piano d'appoggio mobile che permettono di leggere e di vedere le immagini ingrandite fino a oltre 50 volte. Diversi autori (Turner, 1976; Savaresi e Rigamonti, 1989; Alberti e Savaresi, 1990), consigliano l'utilizzo dei videoingranditori a persone con residuo visivo inferiore a 1/10, ma ne ritengono indispensabile l'uso con bambini in età scolare, anche se in possesso di un'acuità visiva superiore, in quanto la lettura e la scrittura in questo periodo sono attività particolarmente impegnative. Tutti i moderni sistemi di ingrandimento prevedono opzioni di personalizzazione di luminosità e dei contrasti, l'inversione del bianco/nero e in alcuni casi sono anche dotati di scansione Ocr e sintesi vocale. Ausili specifici sono i software ingrandenti dotati di zoom, programmi che installandosi sul Pc ingrandiscono, anche fino a 60 volte, gli elementi presenti sullo schermo e permettono di rendere visibili le icone e le immagini di piccole dimensioni. Le persone con disabilità di grado lieve possono usare un computer adattandolo alle loro esigenze, tramite particolari configurazioni già presenti sul sistema operativo, cui possono essere associate periferiche specifiche come le tastiere con caratteri ingranditi.
4.2. Strumenti per vicariare la funzione visiva Ben diversi appaiono gli interventi rivolti a individui totalmente ciechi. Oltre alle già citate abilità di movimento spaziale e di autonomia in am93
d
bienti familiari e non, alle persone con disabilità visiva vengono insegnate le tecniche di utilizzo dei principali sussidi per la lettura (lettori automati-
ci, materiali Braille) e dei sussidi informatici per non vedenti (uso del personal computer con sintesi vocale e/o display Braille). L'accesso alle informazioni è stato nello scorso secolo una delle prin-
cipali sfide per le persone non vedenti, identificando nella diffusione del Braille la chiave di volta per l'accessibilità della lettura e soprattutto della scrittura. In questa direzione sono andate le innovazioni nelle interfacce dedicate all'uso del computer per le persone non vedenti.
L'utilizzo del computer portatile o desktop è consentito grazie ad au-
sili quali la sintesi vocale e la barra Braille, che trasformano i testi e le informazioni presenti visivamente sul monitor in informazione vocale o percepibile al tatto. La barra braille, o display braille, consiste in una riga di caratteri braille i cui puntini in rilievo si possono sollevare e abbassare con impulsi elettrici controllati dal computer. L'interazione con il computer, nella maggior parte dei casi, avviene tramite la tastiera standard, con la tecnica dattilografica. Sono anche disponibili tastiere speciali con barre braille che facilitano l'esecuzione dei comandi complessi simulando l'utilizzo del mouse ma anche complessi sistemi di intelligenza artificiale che supportano comandi vocali. Sintesi vocale e barra braille consentono alle persone non vedenti le stesse possibilità di accesso ai programmi informatici più diffusi e utilizzati abitualmente da tutti, favorendo in questo modo l'integrazione scolastica e lavorativa delle persone con disabilità visiva. Infine, sono anche disponibili in commercio stampanti braille che consentono
la stampa di documenti in alfabeto braille. Nella tabella 3 riportiamo le
principali categorie di ausili informatici per non vedenti. Come afferma Holbrook nel suo editoriale che precede un nucleo monotematico sull'alfabetizzazione nelle persone ipovedenti apparso nel 1996 sul Journal of Visual Impairment and Blindness, l'innovazione tecnologica e il livello di sviluppo raggiunto hanno influenzato gli orientamenti educativi nei confronti degli stessi ipovedenti. Negli anni '60 e per buona parte
degli anni '70 vi era una forte spinta al potenziamento del residuo visive come mezzo principale di alfabetizzazione mentre oggi il potenziale e il dinamismo del supporto informatico tramite la sintesi vocale rendono più fruibili gran parte delle informazioni. Si è giunti alla conclusione che sebbene la tecnologia sia molto importante, questa non può sostituirsi alla lingua scritta o al braille, ma semplicemente rendere i mezzi di comunicazione più fruibili (Holbrook, 1996). Tuttavia, come sottolinea Tutle (1996), il supporto tecnologico amplia la gamma dei mezzi di contatto con la lingua scritta che con il solo braille risulterebbero limitati, soprattutto in considerazione del fatto che sono ormai molto diffusi i sistemi di rappresentazione di tipo iconico, si pensi ad esempio alle pagine web o alle caratteristiche
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Tab. 3 - Ausili informatici per i non vedenti (Castaldo, 2004)
Ausili Screen reader
Programmi che interpretano i contenuti testuali mostrati dalle applicazioni o dal sistema operativo. Una volta interpretati dallo screen reader, i testi vengono presentati al non vedente da una barra Braille o da un dispositivo di sintesi vocale.
Barra Braille
Dispositivo hardware che traduce i caratteri in Braille. La barra Braille si collega al Pc tramite la porta seriale, la porta parallela o la porta USB. E una sorta di display, ma in rilievo che mostra un certo numero di rettangolini, ognuno dei quali contiene un carattere braille, forma-
to da 6 o 8 punti. Il numero di rettangolini può variare da 20 a 80. Si possono dare comandi di lettura o di spostamento sullo schermo tramite appositi tasti. Le barre Braille interfacciano gli screen reader e quindi funzionano in modo diverso a seconda del programma instal-
lato.
Sistemi di sintesi Dispositivi hardware o software: in entrambi i casi i sistemi di sintesi vocale leggono i testi inviati dallo screen reader grazie a una voce vocale sintetica. Per renderne più agevole la comprensione, è possibile modificare tutti i parametri: tonalità, velocità, modo di lettura, tono, ecc. Spesso sono in grado di parlare più di una lingua. Oggi predisposti nelle funzioni di accessibilità dei dispositivi smartphone. Stampanti Braille Permettono di stampare in Braille documenti presenti nel Pc. Alcuni tipi possono stampare su entrambi i lati della pagina, altri consentono di stampare immagini. Sono gestite da programmi che adattano il documento alle esigenze del Braille.
Scanner
Non sono specifici ausili per persone non vedenti, perché si usano normalmente per acquisire immagini e documenti. L'impiego di uno scanner come ausilio per i non vedenti consiste nell'acquisizione di testi stampati su carta e nella loro conversione in documenti digitali grazie a programmi Ocr (Optical Character Recognition). Dopo questa trasformazione i documenti possono essere agevolmente letti tramite screen reader.
delle interfacce grafiche di Macintosh e Windows, che hanno sostituito il concetto di carattere con quello di punto sullo schermo (Burzagli e Graziani, 1999).
La diffusione dell'utilizzo degli strumenti informatici per molteplici attività quali il reperimento di informazioni, la formazione, il contatto con
le pubbliche amministrazioni, se da un lato rende più facilmente accessi-
bili una serie di servizi utili alla vita di tutti i giorni, dall'altro impone il
problema dell'adeguamento di tali sistemi anche (e soprattutto, potremmo aggiungere) ai disabili. Questa necessità ha trovato una risposta legislativa nella legge 4/2004 ("Disposizioni per favorire l'accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici"), che sancisce il diritto di accesso ai servizi in-
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formatici di enti pubblici e privati e l'accessibilità degli strumenti didattici e formativi allei persone condispositivi disabilità.informatici di tipo mobile per In modoanche analogo più recenti
la comunicazione quali palmari, tablet e smartphone dispongono gia di opzioni di personalizzazione che li rendono fruibili e accessibili anche da parte di non vedenti, ad esempio l'ingrandimento, la sintesi vocale, la possibilità di collegare a essi una barra braille, ecc. Numerosi sono stati gli studi per individuare modalità specifiche per
accedere ai testi e alle immagini utilizzando le sensorialità vicarianti
quali il tatto e l'udito, andando oltre l'accesso ai testi come per esempio sistemi vibranti, a rilievo o sonori per la rappresentazione delle immagini, delle figure geometriche o ancora degli scenari fuori dal finestrino di un auto in movimento. La sfida all'accessibilità va di pari passo con le innovazioni tecnologiche, l'intelligenza artificiale e la moderna tecnologia dei materiali. Il sistema braille
Il sistema di scrittura e lettura dei non vedenti è stato inventato da un
educatore francese non vedente di nome Louis Braille (1809-1852) intorno al 1829. Questo sistema di scrittura è stato dichiarato ufficiale per tutte le nazioni nel 1878 al Congresso Internazionale di Parigi. La particolarità della scrittura Braille è quella di essere costituita da punti
in rilievo che vengono incisi procedendo da destra a sinistra; in questo modo, quando si gira il foglio, è possibile leggere normalmente da sinistra a destra. I singoli segni vengono rappresentati mediante un numero differente di punti (da uno a sei), collocati su due colonne ognuna delle quali è costituita da tre righe. Il significato del segno è determinato in base al numero di punti presenti e alla posizione in cui sono collocati. In totale si possono ottenere 63 segni che coprono tutte le esigenze di ogni forma di linguaggio scritto e di tutte le segnografie matematiche e musicali. In passato per scrivere in braille occorreva un'apposita tavoletta munita di un regolo mobile e di un punteruolo. Oggigiorno sono comunemente adottate le dattilobraille; macchine da scrivere con 6 tasti più la barra spaziatrice in cui la scrittura procede normalmente da sinistra a destra e i caratteri risultano già disposti nel senso di lettura.
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Fig. 2 - Alfabeto Braille. Louis Braille assegna tutte le lettere secondo un sistema accrescitivo sulla terza linea, eccetto per la W che allora non era inclusa nell'alfabeto francese
:: a b d
h g
e
p
g
r ** 4
S
4.3. Strumenti di orientamento e mobilità
La maggior parte dei bambini con disabilità visiva e, in particolar
modo, i non vedenti congeniti necessitano di supporto per l'acquisizione del movimento autonomo. Coppa (1991) sostiene che, in generale,
orientamento e mobilità sono acquisite dalla persona cieca mediante
attività grosso-motorie, quali il gioco; è tuttavia necessario che il bambino non vedente sia in possesso di determinati prerequisiti essenziali: 1) conoscenza del proprio corpo; 2) lateralizzazione; 3) comprensione dei concetti topologici; 4) padronanza delle abilità uditive, tattili e olfattive; 5) controllo posturale. Queste competenze sono caratterizzate da uno sviluppo normotipico fino a che si rivolgono alla posizione statica e mostrano un rallentamento consistente nelle attività che richiedono l'esplorazione ambientale (Brambring, 2006), con consistenti conseguenze nella riabilitazione precoce. Il training di orientamento e mobilità prevede dapprima percorsi motori graduati per difficoltà, interamente decisi e guidati dall'adulto; in seguito il ruolo dell'adulto passa in secondo piano e lascia al bambino ampi spazi di autonomia. Ciò è reso possibile dal progressivo aumento delle competenze
in varie direzioni: la coordinazione di movimenti, la conoscenza di ambienti esterni e interni, la capacità di discriminare attraverso i vari sensi le peculiarità dei percorsi (odori, suoni, rumori), la capacità di progettare una sequenza di movimenti, le abilità di spostamento con o senza l'utilizzo di
ausili.
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SONO DI TUTTI, TRATTAMI BENE
se riconsegni il libro danneggiato o sottolineato, dovrai ricomprarlo.
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Diversi autori hanno potuto constatare che le funzioni di mobilità sono strettamente correlate alla capacità di costruire una rappresentazione mentale dello spazio circostante (Ochaita e Huertes, 1993) e che un apprendimento graduale determina nei bambini con deficit visivo, oltre a una sempre maggiore sicurezza di movimento, anche un aumento dell'autostima (Warren, 1984). L'acquisizione di funzioni spaziali risulta essere maggiormente mediata dalle funzioni verbali superiori e di memoria, con attivazione della corteccia visiva nel soggetto cieco (Amedi et al., 2003) e attraverso rappresentazioni multisensoriali complesse che coinvolgono l'udito e le percezioni aptiche (Lacey et al., 2009). La costruzione di mappe mentali e l'acquisizione delle funzioni spaziali possono inoltre essere mediate da supporti tattili statici o programmabili (Leo, Cocchi e Brayda, 2017). I più comuni ausili per la mobilità sono l'accompagnatore vedente, il cane guida e il bastone bianco (long cane). Anche il tradizionale bastone basato sulla conoscenza tattile del territorio "un passo avanti a sé" ha visto sperimentazioni con l'introduzione di sensori e segnali vibranti per aumentare le informazioni di contesto e il relativo controllo spaziale. Tutti questi ausili impongono una buona rappresentazione dell'ambiente circostante e l'acquisizione precisa della tecnica tale da garantire condizioni di sicurezza e capacità di orientamento. Anche le tecniche di accompagnamento prevedono una partecipazione attiva da parte del non vedente che trae informazioni sul percorso e sugli ostacoli sulla base di indici senso-motori (che rileva con una operazione di controllo attentivo sull' accompagnatore). L'utilizzo efficace di tale supporto è però, secondo l'Unione Italiana Ciechi, ancora poco diffuso in Italia dove, piuttosto che su tecniche codificate, ci si basa sull'esperienza e il rapporto con l'accompagnatore. L'insegnamento delle tecniche di autonomia di movimento mediante l'uso del bastone bianco richiede nel bambino non vedente un buon livello di
sviluppo intellettivo e motorio e costituisce la fase preliminare per l'utilizzo del cane guida, che risulta efficace dal punto di vista della fluidità, della velocità e della sicurezza della mobilità, in quanto la sua presenza costante a fianco della persona non vedente diminuisce il livello di stress e favorisce la corretta esecuzione del percorso anche con una soglia di attenzione più
bassa. Al fine di favorire l'autonomia di movimento, fin dalla prima infanzia sono anche introdotti dispositivi che contribuiscono a rinforzare la mobi-
Lità del bambino. Come riportato da Leong (1996), tali dispositivi possono essere distinti in apparecchi per l'infanzia, giocattoli e dispositivi adattivi
per la mobilità. Per quanto riguarda i giocattoli, come i finti carrelli della spesa, i tagliaerba giocattolo, ecc., essi hanno il vantaggio di essere adatti all'infanzia per dimensione e materiali, offrendo una certa protezione contro gli ostacoli e la possibilità di impratichirsi nel centrare la presa, ma 98
contemporaneamente sono oggetti che i bambini non hanno sempre con sé.
I dispositivi adattivi per la mobilità sono apparati dal design speciale con finalità esplorative e di protezione come descritto per i giocattoli, ma pur essendo meno ingombranti sono attualmente poco diffusi (possono essere
confusi con i dispositivi per gli individui con problemi motori). Alcuni
autori (si veda ad es. Clarke, 1988; Skellenger e Hill, 1991), sostengono ci debba essere un continuum nell'utilizzo di tali dispositivi di mobilità fino a giungere all'utilizzo del bastone bianco. Il bastone bianco prevede fondamentalmente due modalità d'uso: la posizione centrale del bastone rispetto al corpo associata con un movimento di oscillazione da sinistra a destra ovvero la posizione diagonale del bastone tenuto di fronte a sé. Entrambe le tecniche hanno lo scopo di proteggere da eventuali ostacoli lungo il percorso e di fornire informazioni aggiuntive rispetto a quelle uditive, olfattive, ecc. Dell'Osbel (1992) sottolinea come la mobilità autonoma mediante l'uso del long cane richieda al soggetto un coinvolgimento diverso rispetto al cane guida, soprattutto in riferimento al livello di attenzione necessaria, al livello di stress nella deambulazione e alla connessa percezione del grado di sicurezza personale. Esistono strumenti elettronici, quali versioni più moderne del bastone bianco, che emettono segnali funzionali all'individuazione degli ostacoli grazie a impulsi a raggi infrarossi o ultrasuoni, versioni poco diffuse e meno gradite del tradizionale long cane: il laser cane e il sonic guide. I prototipi allo studio a partire dal secondo millennio si scontrano con la complessità delle informazioni raccolte e l'impegno richiesto dal soggetto nel fonderle tutte in una completa rappresentazione spaziale. Le recenti sperimentazioni di dispositivi integrati con sistemi di geolocalizzazione e con il supporto della tecnologia mobile prevedono istruzioni vibranti o uditive a supporto dell'orientamento del soggetto disabile visivo in percorsi non noti.
4.4. Interventi educativi Herchul e Turner (1988) sostengono che per una buona riuscita educativa si debbano approntare delle strategie d'intervento che soddisfino nel bambino con disabilità visiva bisogni fisiologici, di sicurezza, di amore e di affiliazione, di stima e di autorealizzazione. Ed è proprio a scopo educativo che Harrison e Crow (1993, pp. 83-106), rivolgendosi sia a genitori che a educatori, evidenziano quaranta punti, ritenuti a loro parere essenziali per favorire un adeguato sviluppo psicofisico nei bambini non vedenti. Essi costituiscono un tentativo di tradurre in indicazioni pratiche le conoscenze acquisite sullo sviluppo, sulle competenze e sulle principali problematiche che caratterizzano in varia misura gli in-
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dividui non vedenti. Tali punti, come emerge dalla tabella 4, riguardano la Conoscenza della situazione iniziale del bambino, le modalità comunicative
utilizzate dall'adulto, alcune strategie per facilitare l'autonomia di mov. mento e di orientamento.
Tab. 4 - I 40 punti di Harrison e Crow Conoscenza della situazione iniziale del bambino: 1. Documentatevi sulle condizioni visive del bambino.
Modalità comunicative utilizzate dall'adulto: 2. In presenza di un bambino cieco, identificatevi sempre in modo che vi possa riconoscere dalla voce. 3. Utilizzate sempre il suo nome per rivolgervi a lui. 4. Prima di parlargli siate chiari nel far capire che vi state rivolgendo a lui. 5. Incoraggiatelo a utilizzare il nome delle persone con cui desidera parlare. 6. Se siete in un gruppo, prima di parlare con una persona, chiamatela per nome. 7. Siate consapevoli che il linguaggio possiede delle connotazioni visive. 8. Utilizzate un linguaggio chiaro e conciso. 9. Cercate di non tendere all'iperverbalismo. 10. Prestate particolare attenzione al tono di voce. 11. Tenete presente che periodi di ecolalia sono comuni in bambini ciechi. 12. Offrite adeguate opportunità che gli possano permettere di porre domande. 13. Date sempre un'adeguata risposta. 14. Prestate attenzione alle espressioni facciali e al linguaggio corporeo, tenendo presente che nel non vedente sono meno evidenti. 15. A volte, quando non è possibile la vicinanza fisica, è necessario fornire delle rassicu-
razioni verbali.
16. Quando si nomina un oggetto è necessario differenziare tra la rappresentazione e l'oggetto reale. 17. Le descrizioni verbali devono possedere un collegamento con delle esperienze signifi-
cative.
18. Per formare concetti le esperienze devono essere interconnesse. 19. Dopo aver interagito con il non vedente, avvisatelo se vi allontanate o se parlate con un'altra persona. 20. Teoricamente i concetti visivi possono essere spiegati e conseguentemente acquisiti dal non vedente.
Strategie per facilitare l'autonomia di movimento e di orientamento: 21. È necessario il contatto fisico. 22. Assicuratevi che il bambino non vedente sia consapevole della vostra presenza, prima di toccarlo. 23. E importante che il non vedente impari a utilizzare il proprio residuo visivo. 24. Tenete presente che il corpo è il punto di riferimento del non vedente. 25. Rendetelo consapevole di tutti gli spazi che lo circondano. 26. Se dopo aver camminato con il non vedente vi dovete allontanare, assicuratevi che conosca la sua collocazione e che sia a contatto con qualcosa. 27. Quando ha iniziato un percorso non intervenite con altre indicazioni, anche se ha sbagliato. lasciatelo terminare.
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Tab. 4 - segue 28. Destra e sinistra possono essere insegnate. 29. Identificate dei punti di riferimento nell'ambiente che possano essere utilizzati per facilitare l'orientamento. 30. Identificate odori piacevoli e spiacevoli.
31. Identificate suoni e rumori. 32. Siate consapevoli che i suoni e i rumori possono confonderlo. 33. Usate in modo selettivo musica, radio e televisione. 34. Incoraggiatelo e motivatelo al movimento. 35. Ricorrete a metodi non convenzionali per motivarlo e interessarlo. 36. Non permettetegli di agire come estensione di voi stessi. 37. Fornite sempre una situazione ricca di stimoli.
38. Cercate di riconoscere le situazioni di estraneamento del non vedente. 39. Nonostante il maggiore supporto che richiede il non vedente, deve essere oggetto delle medesime aspettative che investono i coetanei vedenti.
40. Siate preparati alle reazioni.
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4. Disabilità motoria di Maria Carmen Usai, Valentina De Franchis
1. Introduzione I disturbi motori relativi all'assetto posturale e al controllo dei movimenti sono classificabili dal punto di vista eziologico come problemi di origine organica.
È possibile classificare il disturbo della funzione motoria riconducibile a un preciso substrato organico in base alla localizzazione del danno: - disturbo della funzione motoria da danno all'apparato esecutore (danno periferico); - disturbo della funzione motoria in seguito a danno del sistema nervoso centrale, che a sua volta si distingue in disturbo da danno specifico e non specifico (danno centrale).
Nei casi di disturbo motorio da danno periferico si verifica una degenerazione progressiva delle fibre muscolari e delle fibre nervose fino a una totale compromissione dell'attività motoria, che può essere anche seguita da morte a causa di complicazioni agli apparati cardiocircolatorio e respiratorio (si veda ad esempio la sindrome di Duchenne). Tali manifestazioni risultano avere eziologia di origine genetica. L'esordio e il decorso variano secondo la gravità del processo patologico instauratosi. In alcune forme molto gravi il decesso avviene entro il 1°-2° anno d'età, mentre in forme più lievi, con esordio tardivo individuabile nel periodo adolescenziale o nella prima età adulta (entro i trent'anni), si verifica uno sviluppo pressoché normale e la successiva insorgenza di deficit progressivi. Dal punto di vista terapeutico non esistono trattamenti farmacologici efficaci, tali da far regredire o bloccare definitivamente la degenerazione muscolare poiché non se ne conosce ancora l'esatta patogenesi. La fisioterapia risulta l'unica forma di trattamento che consente di prolungare l'efficienza muscolare impedendo il precoce costituirsi di deformità secondarie. Per quanto riguarda il disturbo motorio in seguito a danno centrale, secondo quanto riportato
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da Barzan (1988), è possibile distinguere un disturbo determinato da una lesione non localizzata nelle aree deputate alla motricità (danno aspecifico) da un disturbo diretta conseguenza di un danno alle suddette aree anatomiche (danno specifico).
Nel caso di danno aspecifico il quadro sintomatologico non si caratterizza esclusivamente per la presenza del deficit motorio, ma contempla anche deficit cognitivi di tale gravità che l'impoverimento della componente motoria si inserisce assumendo, talvolta, caratteristiche di rilevanza secondaria; in altre parole, si tratta di quadri caratterizzati principalmente dalla presenza di grave disabilità mentale. Seguendo un approccio di tipo evolutivo, nei paragrafi successivi concentreremo la nostra attenzione su alcuni disturbi che determinano impedimenti allo sviluppo della motricità normale. Non riferiremo quindi delle disabilità motorie che sopraggiungono in seguito nella vita dell'individuo a causa di disturbi degenerativi o per cause esterne (es. incidenti) in quanto questi meriterebbero una trattazione a parte soprattutto per le conseguenze psicologiche a essi collegate.
2. La paralisi cerebrale infantile La paralisi cerebrale infantile (PCI), secondo la definizione della Socie-
tà Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione (SIMFER e della Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza (SINPIA), fa riferimento a un gruppo di disturbi permanenti dello sviluppo del movi-
mento e della postura che determinano una limitazione dell'attività attribuibile a un danno permanente (non progressivo) che si è verificato nell'encefalo nel corso dello sviluppo cerebrale del feto, del neonato o del lattante (SIMFER-SINPIA, 2013). I disturbi motori della PCI sono spesso accompagnati da disturbi sensitivi, sensoriali, percettivi, cognitivi, comunicativi, comportamentali, da epilessia e da problemi muscoloscheletrici secondari (Rosembaum, Paneth, Leviton, Goldstein, Bax, Damiano, Dan e Jacobs-
son, 2006). La PCI è dunque una condizione dovuta ad alterazioni del
sistema nervoso centrale per cause pre-, peri- o post-natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo, estremamente eterogenea in termini di eziologia, tipo e gravità del disturbo stesso (Bax, 1964; Bax, Goldstein, Rosembaum, Leviton, Paneth, Dan, Jacobson e Damiano, 2005; Mutch, Alberman, Hagberg, Kodama e Perat, 1992). Secondo questa definizione vengono esclusi i disturbi motori transitori (si parla infatti di disturbi permanenti), ma nel tempo è possibile individuare cambiamenti (miglioramenti o peggioramenti) di tipo sia spontaneo sia indotto delle manifestazioni cliniche. Questo avviene soprattutto alla luce 103
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dei recenti studi sulla plasticità cerebrale. La lesione di per sé non evolve, ma, divenendo sempre più complesse le richieste dell'ambiente, si può assistere a un aggravamento della disabilità in funzione sia del danno primitivo, sia dei deficit accumulati "strada facendo" in ragione della mancata acquisizione di esperienze e di nuove capacità (SIMFER-SINPIA, 2013). L'elemento di innovazione nella attuale definizione rispetto alla precedente è individuabile nel fatto che, nonostante in genere, caratteristica peculiare di questi quadri patologici è la presenza di una lesione di varia entità che interessa le strutture encefaliche deputate alla funzionalità motoria, viene dato ampio spazio al fatto che, accanto alle alterazioni dell'azione e del
controllo motorio (componenti sempre presenti nella PCI), sono frequenti e altrettanto determinanti disturbi associati quali i deficit sensitivi e sensoriali/percettivi, i problemi prassici e gnosici, le difficoltà di apprendimento, i disturbi cognitivi e quelli relazionali, fenomeni espliciti e indagabili anche in epoca precoce, pur se variabili per frequenza e gravità. L'incidenza del disturbo non è certa a causa della mancanza di un registro epidemiologico nazionale che impedisce di produrre dati epidemiologici oggettivabili (SIMFER-SINPIA, 2013). Attualmente nei paesi industrializzati la prevalenza della PCI si è attestata da tempo attorno al 2 per mille, un nuovo caso ogni 500 nati vivi (Surman, Hemming, Platt, Parkes, Green, Hutton e Kurinczuk, 2009). Uno studio svedese documenta una prevalenza di 2,18 casi per 1000 nati vivi (Himmelmann, Hagberg e Uvebrant, 2010). Come sottolineato da Cioni, Paolicelli, Castellacci, Ferrari e Rapisardi (1998), l'incidenza della patologia tende a rimanere costante nel tempo o, in alcuni casi, ad aumentare in seguito alla riduzione della mortalità perinatale dovuta al miglioramento delle tecniche di assistenza in caso di età gestazionale e/o peso molto bassi alla nascita, fattori che come abbiamo visto nei capitoli precedenti possono costituire un rischio per l'insorgere di diverse patologie. Una delle cause principali, ormai ben documentata, è l'età gestazionale (EG): il rischio di avere una PCI è infatti di 100/1000 per i nati prima della 28a settimana di gestazione, ben 100 volte superiore
rispetto ai neonati a termine (Washburn, Dillard e Goldstein, 2007). In
generale è possibile riscontrare una variabilità nell'incidenza del disturbo da 1 a 5 casi su mille, con una concentrazione dal 2% al 5% in bambini prematuri con peso alla nascita sotto i 1500-1000 grammi e dal 6% al 24% in bambini il cui peso alla nascita è inferiore a 800 grammi. Convenzionalmente per porre diagnosi di PCI la lesione deve essere avvenuta entro il primo anno di vita; per lesioni successive a tale termine si utilizzerà una diagnosi specifica (trauma cranico, tumore cerebrale, stroke, encefalite, ecc.) e il progetto riabilitativo considererà le peculiari caratteristiche di ogni patologia. Infatti nella PCI si parla di una mancata acquisizione", dopo l'anno di vita invece avremo una "perdita della funzione" in
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corso di sviluppo. Dal gruppo delle PCI pertanto restano escluse le forme eredo-familiari e le forme metaboliche a esordio precoce.
2.1. Cause Le lesioni cerebrali che determinano la paralisi cerebrale infantile hanno un'eziologia che varia secondo il momento di insorgenza. Gli insulti cerebrali a insorgenza prenatale, ad esempio, possono essere determinati da malformazioni congenite del sistema nervoso centrale, fattori genetici, episodi ischemici in cui, a seguito della riduzione del flusso sanguigno in una zona cerebrale, si determina una lesione del tessuto nervoso. I danni a insorgenza perinatale sono imputabili a emorragie intracerebrali e intraventricolari, asfissia durante il parto, disturbi respiratori associati a prematurità. In ultimo, le lesioni che insorgono in epoca postnatale possono essere dovute a traumi, eventi anossici, infezioni o agenti tossici. Una delle cause postnatali più diffuse è un danno neurologico permanente chiamato leucomalacia. Si tratta di una lesione cerebrale di origine ipossico-ischemica, determinata dall'interruzione o da uno scarso apporto d'ossigeno in alcune regioni encefaliche da cui consegue l'instaurarsi di un processo necrotico, e cioè di morte cellulare, circoscritto a quelle regioni. il danno insorge più frequentemente al 3°-4° giorno di vita; la sua entità e il tipo di configurazione sono correlate allo sviluppo anatomico e strutturale dell'encefalo e della circolazione cerebrale sanguigna. Le lesioni che interessano il neonato pretermine risultano più gravi a causa dell'immaturità delle strutture cerebrali, in particolare di quella del sistema circolatorio che non è in grado di sopperire prontamente all'arresto dell'ossigenazione dei tessuti. La gravità del quadro motorio derivante da questa manifestazione patologica dipende da alcune variabili quali la sede esatta e l'estensione della lesione e il tipo di danno. Ci sono molti esempi di alterazioni che interessano il sistema nervoso centrale quando questo è ancora in fase di maturazione e che non determimano perdite funzionali di uguale entità rispetto a quando le stesse alterazioni interessano la struttura nervosa matura; la ragione di ciò è da ricercarsi in un fenomeno, chiamato plasticità cerebrale che, tuttavia, nel caso delle PCI dimostra evidenti limiti. La plasticità cerebrale è un meccanismo di adattamento anatomo-funzionale che promuove un rimodellamento dei
circuiti nervosi, e quindi della struttura cerebrale nel suo complesso, in risposta alle stimolazioni ambientali (dove con questo termine indichiamo tutto ciò che non è geneticamente determinato). Importante è l'azione del presente meccanismo in caso di lesioni cerebrali precoci: spesso, infatti, non si determinano evidenti perdite funzionali in seguito a un danno in 105
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una regione cerebrale, in quanto si sviluppa uniazione vicariante delle m. zoni generalmente espletate dalle suddette aree lese da parte dei circup. zio sindondanti che, in condizioni normali, sarebbero destinati a sparte con il progredire della maturazione, oppure da parte di altre aree. Ne case delle PCI, pero, i danni a carico del sistema nervoso sono di tale entita che l'azione di meccanismi vicarianti non è sufficiente a ripristinare la comple ta funzionalità.
2.2. Classificazione delle PCI
La gravità dell'impedimento motorio dovuto a PCI varia secondo la
localizzazione e l'estensione della lesione cerebrale. Le PCI possono essere classificate secondo differenti approcci di cui la classificazione internazio-
nale del 2006 rappresenta il tentativo di unificarli (Simfer-Sinpia, 2013). Secondo questa classificazione è utile distinguere tra quattro componenti (all'interno delle quali si ritrovano riferimenti a classificazioni già esistenti): 1. anomalie motorie:
a) natura e tipologia del disordine motorio (Surveillance of Cerebral Palsy in Europe, SCPE); b) abilità funzionali motorie (Gross motor function classification sy-
stem-gmfes per le funzioni posturo-cinetiche; Manual ability classification system-macs - per le funzioni manipolatorio-prassiche); 2. disturbi associati: sensitivi, sensoriali/percettivi, cognitivi, comunicativi, comportamentali, epilessia e problemi muscoloscheletrici secondari; 3. quadri anatomici e neuroradiologici (SCPE differenzia le lesioni cerebrali in unilaterali o bilaterali); 4. aspetti eziopatogenetici e timing ovvero come si sono instaurate e in quale epoca dello sviluppo.
A partire dal 2007 a livello internazionale è stato inserito, oltre a queste classificazioni, l'utilizzo dell'ICF-CY (Classificazione Internazionale dell'OMS sulla Funzione, Disabilità e Salute). In Italia possiamo anche trovare riferimenti ad altre classificazioni delle PCI, delle quali la più utilizzata è quella di Hagberg (1975). Secondo questa classificazione si possono distinguere diverse forme cliniche di PCI sulla base del tipo di disturbo
motorio prevalente e della distribuzione topografica: si parla di forme
spastiche, forme atassiche e forme discinetiche. Le forme spastiche di PCI 1. Con questa affermazione non intendiamo dare una visione meccanicistica del funzionamento cerebrale: in realtà il rapporto fra strutture anatomiche e funzioni cognitive non ha una corrispondenza biunivoca. Ci serviamo di questa espressione esclusivamente per semplificare l'esposizione di un argomento la cui rilevanza non è centrale rispetto alla trattazione generale.
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sono le più frequenti e sono caratterizzate da ipertonia (eccessiva "resistenza" opposta dai muscoli di un determinato segmento corporeo al tentativo
di mobilizzazione) e sono dovute al prevalente interessamento della "via cortico-spinale", deputata alla motilità volontaria. Le forme spastiche sono ulteriormente distinte in unilaterali (emiplegia) e bilaterali (diplegia e tetraplegia). L'emiplegia interessa il braccio e la gamba di un lato del corpo, destro o sinistro. La deambulazione autonoma è solitamente raggiunta. Talvolta si evidenziano ritardi nello sviluppo dell'intelligenza e, a seconda dell'emisfero cerebrale leso, problemi nello
sviluppo del linguaggio. Frequenti sono le forme di epilessia parziale,
caratterizzata da crisi convulsive, e le alterazioni dello schema corporeo, dell'organizzazione prassica e gnosica.
La diplegia si caratterizza per disturbi del tono e del movimento che riguardano in particolare gli arti inferiori, mentre la motricità degli arti su-
periori è sufficientemente preservata. L'esordio può avvenire dopo il terzoquarto mese di vita. In genere la deambulazione autonoma è raggiunta e talvolta non necessita di ausili; inoltre risulta normale lo sviluppo dell'intelligenza e del linguaggio. E rara la presenza di epilessia, mentre frequenti sono lo strabismo, le contratture muscolari e le deformità articolari degli
arti inferiori.
La tetraplegia (o tetraparesi) si distingue per un disturbo del tono e del movimento che si evidenzia fin dalla nascita e che interessa tutti e quattro gli arti in eguale misura. Lo sviluppo della postura e della motricità risulta fortemente ritardato al punto che le possibilità di deambulazione autonoma e le capacità manipolatorie appaiono fortemente limitate. Come si può intuire, si tratta di casi gravi in cui spesso alla patologia motoria si associano disturbi visivi, epilessia e ritardo mentale. Le forme atassiche sono caratterizzate da un disturbo della coordinazione dei movimenti, equilibrio, tremore. Sono meno frequenti delle forme spastiche e sono dovute al prevalente interessamento del cervelletto. Fin dalla nascita si presentano con un'evidente ipotonia. Lo sviluppo psicomotorio è ritardato e così anche lo sviluppo del linguaggio. Talvolta è presente un deficit mentale. Possiamo distinguere due forme della sindrome: l'atassia congenita semplice e la diplegia atassica. Quest'ultima si caratterizza per la sovrapposizione dei sintomi della diplegia spastica a quelli dell'atassia. Le forme discinetiche sono caratterizzate dalla presenza di movimenti involontari e anomali spesso scatenati dal movimento volontario (ad esem-
pio per afferrare un gioco). Risultano da disfunzioni del sistema extra-
piramidale? con interessamento dei gangli della base. Sulla base delle ca2. Una grossolana distinzione fra sistema piramidale e sistema extrapiramidale vede il primo deputato al controllo della muscolatura volontaria, mentre il secondo coinvolto in diverse funzioni tra cui il controllo della muscolatura involontaria e volontaria.
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materistiche del movimento sono suddie in corso al rosiche (norie. raterinian cent, sintosi, che interessa anomale, associato) e disong invoumenti involontari lenti e posture a omedale @ sociali a iporona tronco e coinvolgimento della muscolatura buccale e del volto). onco forma arerosica è la più diffusa ed e caratterizzata da ipolonia,
dalla presenza di movimenti lenti, anti movimenti e involontar, da.
dateasia aumenta durante l'esecuzione di movimenti volontari.Il guado
è presente fin dai primi mesi di vita la pare colare interessamento del muscolatura del volto, della lingua e della parte distale degli arti. asco forma distonica si contraddistingue per un'alterazione della regola zione del tono muscolare che determina ampie variazioni di questo: ali.
potonia in condizioni di riposo all'assunzione di posture sovrapponibi a quelle delle sindromi spastiche in condizioni di sollecitazione motoria Sono presenti lente, sostenute, toniche e involontarie contrazioni di grup
pi muscolari opposti, che spesso causano dolori e posture anomale. Sono frequenti ipercinesie a carico della faccia e della lingua; inoltre lo stesso apparato bucco-fonatorio risulta coinvolto con conseguenze sull'emissione della voce e sull'articolazione del linguaggio, spesso veloce e incompren sibile. Va infine ricordato che nell'ambito delle forme spastiche (le più fre. quenti) in Italia viene utilizzata ai fini riabilitativi anche la classificazione di Ferrari (2005), basata sulle funzioni adattive motorie (postura, cammino e manipolazione). A prescindere dal tipo di classificazione utilizzato per descrivere le PCI secondo le linee guida attuali (SIMFER-SINPIA, 2013), non si può prescindere da un approccio individualizzato multidimensionale che tenga conto dello stato funzionale della persona e dei suoi bisogni (Rosenbaum et al., 2007).
2.3. I deficit associati Sebbene, come abbiamo indicato prima, la PCI risulti da un insulto ce rebrale specifico per le strutture deputate alla motricità è molto frequente la presenza di altri disturbi associati all'impedimento motorio.
È possibile individuare diversi disturbi nelle PCI quali: 1. Difficoltà uditive 2. Difficoltà visive 3. Epilessia 4. Difficoltà di alimentazione e digestive 5. Difficoltà respiratorie 6. Complicazioni muscolo-scheletriche 7. Gestione del dolore 8. Difficoltà cognitive, di apprendimento e comunicative 9. Problematiche comportamentali 108
Lipkin (1991), riferendosi a diverse casistiche, riporta percentuali oscil-
lanti tra il 30% e il 60% di casi in cui alla PCI seguono anche disabilità mentale e disturbi specifici di apprendimento. Sottolinea, però, che la diffusione di questi disturbi riguarda in maniera marginale i bambini con emiplegia, diplegia o disturbo atetosico; infatti, più dell'80% di questi soggetti mostrano un intelligenza normale. L'80% dei bambini con PCI hanno un linguaggio povero o inutilizzabile, mentre gli altri manifestano
nella maggior parte dei casi disturbi di articolazione delle parole. I disturbi comunicativo-linguistici possono evidenziarsi sia sul versante espressivo del linguaggio ma anche nella comprensione dello stesso. Tale aspetto può incidere sulle dinamiche interattive e familiari tanto da determinare difficoltà di comunicazione che generano frustrazione nei soggetti interessati (Tornetta, Martielli, Trabacca, Cazzagon, Signorini, Luparia e Stortini, 2016). I deficit uditivi risultano più comuni tra i bambini con disturbo atetoide, mentre quelli visivi sono più diffusi nella forma spastica. L'epilessia si trova associata alla PCI circa nel 30% dei casi; la sua presenza denota quadri estremamente severi a cui si associa anche la disabilità intellettiva. Per quanto riguarda i disordini affettivi e comportamentali, questi sono presenti con una frequenza maggiore rispetto al resto della popolazione; in particolare, l'iperattività è comunemente riportata come associata alle paralisi cerebrali. Nei casi in cui è presente anche una disabilità intellettiva risulta più probabile l'emergere di una forma psicotica.
3. Lo sviluppo della conoscenza Il bambino con PCI può manifestare disturbi cognitivi che sono direttamente imputabili all'estensione della lesione in aree cerebrali deputate alle funzioni cognitive superiori (si veda ad esempio il linguaggio). Vi sono, però disordini cognitivi che non sono diretta conseguenza della lesione, ma che risultano secondari alle limitazioni imposte dall'impedimento motorio, soprattutto quando questo interessa tutti gli arti in maniera molto grave (tetraplegia).
Secondo una prospettiva piagetiana, meglio specificata da Bruner
(1971), lo sviluppo della conoscenza nel bambino procede attraverso due fasi: la prima delle quali si sviluppa attraverso la costruzione degli schemi percettivi e motori, mentre la seconda consiste nell'integrazione di questi schemi e nella risultante formazione dei concetti. Nella prima fase, definita esplorativa, ha luogo la formazione delle categorie percettivo-visive che consentono al bambino di formulare ipotesi formali sugli oggetti (per esempio, il bicchiere è cilindrico). E solo in una fase successiva che, però, il bambino acquisisce i concetti, quando cio ha luogo l'integrazione fra 109
gli schemi percettivi e gli schemi d'azione. Grazie a tale coordinazione a possibile esperire le caratteristiche funzionali degli oggetti, il nucleo fum. posale comune a tutti gli oggetti facenti parte di una categoria specica Tuo bicchiere e una tazza hanno la stessa funzione "servono a bere", sebbe ne siano dotati di caratteristiche percettive differenti). La formazione della ne sacenza nei primi anni di vita è quindi legata all'attività esplorativa, in. Con come capacità di eseguire comportamenti manipolatori o motori su un
oggetto finalizzati a ottenere informazioni sul mondo circostante (si veda anche Benelli, D'Odorico, Levorato e Simion, 1980); da ciò consegue che le operazioni intellettuali originano da azioni reali. I processi inferenziali (base della conoscenza astratta) sarebbero quindi legati all'atto motorio: ma cosa succede quando questo tipo di attività manipolatoria è limitata o del tutto ostacolata? In realtà, come sottolineato da Bruner, non è tanto l'esecuzione dell'atto motorio, quanto l'intenzione di eseguirlo, intesa come formulazione di un'ipotesi da parte del bambino e pianificazione per il raggiungimento di uno scopo (per esempio prendere il bicchiere), che costituisce uno degli elementi fondanti la conoscenza. Potrebbero essere quindi gli elementi anticipatori del risultato dell'azione, e cioè i tentativi di scelta dei mezzi e l'attento controllo su tutta la sequenza e non l'esecuzione
di un movimento spesso disordinato e scorretto a consentire lo sviluppo della conoscenza astratta. L'intervento riabilitativo non può prescindere dal considerare questi aspetti. Fedrizzi, Anderloni, Carpanelli, Botteon e Dal Brun (1991) evidenziano la necessità di "*valutare la presenza di intenzioni, di progetti di conoscenza e di esplorazione della realtà" a fini sia diagnostici e sia riabilitativi. Come vedremo in seguito, l'utilizzo di strumenti valutativi come le scale di Uzgiris-Hunt e l'impiego di strumenti tecnologici come supporto riabilitativo rappresentano un chiaro segnale in questa direzione. Questi strumenti consentono, infatti, di superare le difficoltà insite nell'impedimento motorio focalizzandosi sulle reali capacità del bambino di interazione con la realtà in modo indipendente dal funzionamento della motricità.
4. L'apprendimento e il controllo motorio nel bambino con PCI Fedrizzi e Anderloni (1998) descrivono un efficace schema che illustra i diversi livelli di elaborazione, esecuzione e controllo del comportamento
motorio. "Il bambino, nell'interazione con gli oggetti e le persone, formula intenzioni e sulla base delle informazioni ambientali formula piani d'azione (... immagini motorie spaziali prima generali, poi più specifiche in relazione all'esperienza) ed è in grado, sulla base di regole innate, di trasformare il piano d'azione da parametro astratto in un programma mo-
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forio specifico, con rappresentazioni spazio-temporali e cinematiche del movimento, e di controllare il risultato dell'azione attraverso i meccanismi di feedback durante e dopo le sequenze motorie" (Fedrizzi e Anderloni, 1998, p. 115). Secondo gli autori, il bambino alla nascita sarebbe dotato di un repertorio di moduli innati, vale a dire un complesso di sequenze motorie preformate (riflessi, reazioni automatiche, ecc.); inoltre sarebbe funzionante un sistema di selezione e di analisi delle informazioni e un insieme di regole che consentono di modificare le sequenze motorie innate rendendole più complesse e adattandole alle richieste ambientali; infine, alla nascita sarebbe presente anche un sistema di controllo che agisce durante l'esecuzione motoria o al termine di questa e consente correzioni o la ridefinizione del piano d'azione. Rifacendosi alle ipotesi di Bruner (1970) e di Connolly (1975), Fedrizzi e Anderloni sostengono che l'apprendimento motorio avviene attraverso un processo di modularizzazione in cui le nuove sequenze d'azione sono incluse e integrate nelle sequenze già presenti. Lo schema sopra descritto consente alcune importanti implicazioni cli-
niche. In caso di un disordine quale la PCI, esso guida la fase diagnostica poiché consente di elaborare ipotesi riguardo alle diverse fasi del processo per la realizzazione di un atto motorio. Sebbene il disturbo riguardi precipuamente gli aspetti esecutivi, come abbiamo visto sopra la lesione può colpire oltre il comportamento motorio anche le capacità sensoriali e percettive e, più in generale, la capacità di elaborazione delle informazioni. Ciò fa supporre che anche il livello di elaborazione dei piani d'azione possa essere compromesso. L'indagine diagnostica dovrà perciò comprendere una valutazione sensoriale, dello sviluppo cognitivo, dell'organizzazione percettiva e prassica e anche una valutazione dello sviluppo affettivo (per mettere in luce le caratteristiche della relazione del bambino con il suo ambiente).
Per la valutazione del livello di esecuzione del programma motorio, l'indagine comprenderà la valutazione di competenze funzionali quali la postura, la deambulazione, la motricità oculare, la manipolazione fine, la motricità bucco-facciale e le capacità di fonazione e alimentazione.
5. La valutazione SIMFER e SINPIA (2013) suggeriscono la descrizione di un profilo
funzionale del paziente attraverso l'utilizzo di un sistema multiassiale composto da nove assi: motricità, anamnesi lesionale, anamnesi riabilitativa, complessità, complicanze, famiglia, servizi di riabilitazione, comunità in-
fantile e qualità della vita. Il primo asse, "motricità", descrive le componenti della disabilità nei termini di localizzazione (es. tetraplegia, diplegia, ecc.) e natura del deficit
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(es. spasticia, Macidia, coc). La valutazione della Funzionalia mago nelle prima setimane di vita è possibile grazie al utilizzo di scale basa sul osservazione del comportamento. La scala di Precht (1990) in parco. lare consente una valutazione clinica della motricità del neonato in basca parametri della motricità spontanea. Una ricerca riportata da Cioni, Ferrai e Prechti (1993), ha messo in luce come vi siano correlazioni significative tra la valutazione motoria precoce ottenuta con questo tipo di tecnica, la presenza di lesioni cerebrali e il successivo decorso. II secondo asse "anamnesi lesionale" consente di evidenziare i dati più importanti della storia clinica del paziente quali epoca, sede ed estensio-
ne della lesione. Rispetto ad altre disabilità, nella valutazione della PCI diventa essenziale l'indagine anatomica in quanto è ben documentabile la
presenza di un danno cerebrale. Dall'entità e dalla localizzazione di questo si possono effettuare fondate previsioni sulla gravità e sulle caratteristiche qualitative del conseguente impedimento motorio. Alla luce di tali infor-
mazioni è quindi possibile delineare il decorso e progettare l'intervento riabilitativo più adatto a consentire lo sviluppo di funzioni cognitive superiori, l'emergere delle quali è particolarmente ostacolato dalla presenza del deficit motorio. Il terzo asse "anamnesi riabilitativa" consente di registrare le informazioni a partire dall'emissione della diagnosi (comunicazione della diagnosi, reazione della famiglia, interventi attivati). Il quarto asse, "complessità", consente di ottenere informazioni circa le compromissioni a livello sensoriale, neuropsicologico e sui disturbi di acquisizione e generalizzazione degli apprendimenti motori. La valutazione cognitiva è un punto cruciale nella diagnosi della PCI, soprattutto per la difficoltà che si incontra a elaborare parametri che rispecchino lo stato reale della funzionalità intellettiva senza che questi siano pesantemente influenzati dai segni negativi della disabilità motoria. In altre parole, il problema della valutazione cognitiva
precoce consiste nel fatto che essa è strettamente legata all'esecuzione motoria. In generale, gli strumenti psicometrici più diffusi misurano la funzionalità cognitiva in base a parametri in cui risulta indispensabile l'accuratezza esecutiva (Ferretti, 1993). L'utilizzo di uno strumento quale il corpo di scale ordinali dello sviluppo psicologico di Uzgiris-Hunt (1975) consente di superare alcune delle difficoltà insite in questo tipo di rilevazione: il fatto che si tratti di uno strumento di tipo ordinale, ad esempio, non costringe ad attenersi a norme di standardizzazione e quindi a non essere rigidamente legati alle caratteristiche del materiale utilizzato, alle modalità di presentazione e al tipo di risposta ottenuta, elementi di flessibilità questi assolutamente indispensabili nella valutazione cognitiva in presenza di forme spesso diverse di impedimento motorio. Lo strumento, applicabile con bambini da 1 a 24 mesi, trova la sua base teorica nel modello piage-
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tiano di sviluppo dell'intelligenza e si compone di sei scale, articolate al loro interno in livelli di prestazione. La prima scala indaga la capacità di seguire con lo sguardo oggetti in movimento e l'acquisizione della permanenza dell'oggetto; la seconda analizza lo sviluppo dei mezzi per ottenere eventi ambientali desiderati; la terza indaga la capacità del bambino di ri-
farsi a modelli esterni attraverso l'imitazione vocale e quella gestuale (sono previste due sottoscale separate per i due tipi di imitazione); la quarta e la quinta si riferiscono rispettivamente allo sviluppo della causalità operazio-
nale e alla costruzione delle relazioni spaziali tra oggetti; infine, la sesta indaga lo sviluppo degli schemi di relazione con gli oggetti. L'impiego di questo strumento consente di ottenere informazioni di carattere qualitativo sul livello di sviluppo delle strutture del pensiero, informazione questa indispensabile alla progettazione e messa in opera di un approccio riabilitativo mirato a sfruttare le potenzialità del bambino per il raggiungimento di obiettivi realistici.
Il quinto asse della valutazione suggerita da SIMFER e SINPIA, "complicanze", consente di registrare altre condizioni associate sia relative alla salute del paziente sia alla presenza di altri fattori di rischio inerenti le relazioni e il contesto ambientale (elevata morbilità, presenza di epilessia, disagio familiare e sociale, ecc). Il sesto e il settimo asse ("la famiglia" e "¡ servizi di riabilitazione") consentono di fotografare rispettivamente le caratteristiche del contesto familiare e quelle dei servizi di riabilitazione in relazione all'attivazione degli interventi a favore del paziente. L'ottavo asse, "la comunità infantile", ha l'obiettivo di esaminare la possibilità di accesso del paziente alla comunità infantile, attraverso l'esame della fruibilità dei servizi e della risposta sociale attivata dai pari e dagli adulti. Infine, l'ultimo asse, "qualità della vita", si concentra sul concetto di riabilitazione come avente come fine ultimo il raggiungimento della maggiore qualità di vita possibile del bambino e della sua famiglia. Il profilo funzionale così ottenuto è fortemente ancorato alla fascia di età considerata e nel passaggio a un'altra fascia d'età questo può essere aggiornato e modificato in modo da adattare gli interventi alla specifica condizione del paziente.
6. La spina bifida Tra i disturbi derivanti da un danno centrale che compromettono la motricità è importante menzionare la spina bifida. Il disturbo è dovuto a un fallimento nella chiusura del tubo neurale nell'embrione che è causa di un'errata fusione della parte che formerà la colonna vertebrale del bambino: ciò determina una fenditura ossea attraverso cui protrudono le membra-
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ne che rivestono la spina dorsale (meningi). Le conseguenze nel bambino
variano a seconda della localizzazione e della gravità di tale fenditura 380% dei casi è costituito da un danno alla parte inferiore della schiena è in particolare nella zona lombo-sacrale Il grado di disabilità motoria e sensoriale nella spina bifida dipende da una serie di fattori quali il luogo della lesione spinale, la presenza di deformità dal punto di vista ortopedi co, da un eventuale coinvolgimento neurologico dovuto alla presenza di idrocefalo che talvolta accompagna la spina bifida. Collegato al problema
motorio, spesso si verifica una disfunzione della vescica e degli sfinteri con la possibile compromissione dell'apparato renale. Nei primi giorni di vita è possibile intervenire chirurgicamente sia per ridurre la possibilità di infezioni che per motivi estetici (nei casi più gravi la protrusione è visibile sulla schiena dei bambini). La popolazione di bambini e adolescenti con spina bifida (senza ulteriori compromissioni come l'idrocefalo) risulta avere un'intelligenza nella norma, tuttavia non risulta del tutto rara la presenza di difficoltà di apprendimento e di problemi di tipo percettivo (Leonard e Freeman, 1981). Circa l'80% dei bambini con spina bifida manifesta infatti problemi di coordinazione visuo-motoria, di attenzione, di memoria, di comprensione, di pianificazione e di iperattività (soprattutto per quanto riguarda il tratto relativo all'impulsività). Alcuni bambini con spina bifida e idrocefalo manifestano problemi di apprendimento tali da compromettere l'acquisizione di una serie di competenze prettamente sociali che sono apprese attraverso l'osservazione del comportamento degli
altri individui. Tali bambini possono così manifestare bassa tolleranza alla frustrazione, difficoltà nell'alternanza dei ruoli e nella comprensione delle regole sociali, difficoltà nel comprendere i segnali della comunicazione non verbale o gli aspetti pragmatici della comunicazione verbale (intonazione, pause, ecc.). In Italia l'incidenza della spina bifida è di 4-6 casi ogni 10.000 nati (circa 360 nuovi casi all'anno), in Gran Bretagna è di 8 su 1000, 1 su 1000 in Giappone. Si stima che attualmente la prevalenza totale della spina bifida in Italia sia dello 0,38 per mille nati.
7. Lo sviluppo psicologico La motricità rappresenta il mezzo attraverso il quale il bambino conosce il mondo circostante e costruisce la propria esperienza soggettiva. "Il Sé nucleare, base esistenziale fondante per tutto lo sviluppo successivo della personalità si organizza e costruisce grazie anche alla conquista da parte del bambino della piena padronanza del corpo, della gestualità, delle proprie azioni" (Maestro, 1993, p. 204). E quindi attraverso il comportamento
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motorio che il bambino raggiunge le tappe dello sviluppo psicologico (cOme ad esempio la separazione), che gli consentono l'organizzazione di una propria identità. L'mpossibilità a fruire della motricità sottrae lo strumento per realizzare un'organizzazione psichica integrata. Frequenti sono le situazioni in cui il bambino con paralisi cerebrale manifesta un'eccessiva dipendenza, un'intolleranza verso qualsiasi tipo di separazione dalla madre, con la quale stabilisce un rapporto di fusione-confusione in cui egli perde la
coscienza dei propri limiti, determinata dal vivere attraverso il corpo e la mente di un altro un'illusione di realtà (Ferrari, Lodesani, Muzzini, 1993). Nelle situazioni di disabilità motoria il sostegno professionale e la motivazione del bambino rivestono un ruolo di primaria importanza non solo sulla capacità di sviluppo motorio, ma anche e soprattutto sullo sviluppo psicologico legato alla coscienza della disabilità, alla capacità di mettersi in relazione con il proprio mondo interno, integrando le parti malate del proprio corpo e consentendo l'accesso a livelli più evoluti di simbolizzazione. Solo in corrispondenza del pieno sviluppo del linguaggio e della maturazione della percezione, dove il conseguimento di queste tappe sia possibile, comincia a manifestarsi la coscienza della disabilità. Il raggiungimento di tale consapevolezza è talvolta seguito dall'insorgere di stati depressivi, collegati in adolescenza alla percezione della propria immagine corporea in rapporto con quella dei propri pari, dal cui confronto emerge il vissuto dell'imperfezione fisica aggravato dalla condizione di irreversibilità e per-
manenza. Come è noto (si veda p. es. Hemming, 1974), il concetto di sé riveste un ruolo importante nei processi dinamici dello sviluppo. L'autore distingue un sé oggettivo, con cui s'intende indicare l'individuo osservato nel suo contesto, da un sé soggettivo, ovvero dalla percezione che l'individuo ha di se stesso. È quest'ultimo a determinare la qualità e la quantità delle interazioni con il mondo esterno e a influenzare lo sviluppo dell'intera personalità. L'adolescente che si percepisce inadeguato può manifestare un ritiro dall'esperienza verso la fantasia oppure elaborare un'immagine compensatoria falsa. In entrambi i casi risulta diminuire l'interazione potenzialmente formativa con l'ambiente circostante. In caso di disabilità motoria, tale ritiro è spesso accentuato e facilitato dalla stessa condizione oggettiva di disabilità. Resnick (1984) riporta i dati di numerose ricerche da cui emerge chiaramente come bambini e adolescenti con paralisi cerebra-
le infantile siano meno esposti alla cultura e all'influenza dei propri pari, poiché non ne condividono ad esempio le attività ricreative e anche quando ciò accade essi sono costantemente seguiti e accompagnati da membri della famiglia piuttosto che dai coetanei. Ciò inevitabilmente determina un forte isolamento sociale che ha conseguenze sull'acquisizione delle capacità di
interazione in senso lato e sulla possibilità di instaurare relazioni privilegiate. A questo proposito, ricordiamo che è proprio durante l'adolescenza
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che cominciano a svilupparsi le prime relazioni d intimità dal cui succeso dipende in buona parte l'autostima dei ragazzi e delle ragazze e anche a possibilità di apprendere comportamenti sociali e di genere appropriati veda ad esempio Blum, 1984). La scarsa esposizione alle esperienze e alla cultura dei pari ha infatti conseguenze su quelle abilità la cui possibilità di apprendimento è legata soprattutto all'osservazione e allo scambio. Risulta Cosi che aspetti quali la sessualità siano negativamente influenzati non solo
dall'impedimento motorio, che come abbiamo detto favorisce l'emergere di un'immagine negativa del proprio corpo e di conseguenza ha effetti negati-
vi sull'autostima, ma anche dall'impossibilità che da esso consegue di apprendere i comportamenti appropriati. Il sostegno esterno potrebbe rivestire un ruolo importante se diretto anche alla realizzazione di un progetto educativo rivolto a tali aspetti della sessualità, con il quale non si intenda solo la trasmissione di nozioni sul funzionamento sessuale, ma l'insegnamento, la guida all'apprendimento delle espressioni, dei gesti appropriati dell'affetto e di un modello di risposta alle relazioni eterosessuali.
Wallander, Varni, Babani, Tweddle Banis, DeHaan e Thompson Wilcox (1989), trovano che i bambini con paralisi cerebrale e spina bifida manifestano significativamente più problemi di funzionamento emotivo e sociale dei loro coetanei che non presentano tali patologie. I bambini con le due patologie non differiscono per quanto riguarda l'adattamento emotivo; sembra invece che sia il fatto di avere un problema fisico cronico a determinare i suddetti problemi. Anche l'adattamento sociale in questi bambini risulta povero (si veda anche Wallander, Feldman e Varni, 1989).
8. Gli aspetti relazionali
8.1. I genitori Dal punto di vista psicologico, non è raro che i genitori non riescano a considerare un bambino disabile motorio nella sua complessità e che stabiliscano una relazione preferenziale con la parte "malata": ciò determina un'eccessiva concentrazione di risposte selettive sui bisogni "speciali" lega-
ti alla motricità, a svantaggio dei reali bisogni infantili, uguali a quelli di tutti i bambini. L'aiuto primario che deve venire dagli operatori, come sottolinea anche Maestro (1993), è mirato a favorire il superamento del trauma iniziale dovuto alla discrepanza tra il bambino reale e quello ideale,
così come era stato fantasticato durante la gravidanza. Il tutto per consentire il passaggio da una relazione puramente assistenziale a una relazione parentale nel senso pieno del termine.
Spesso, più che una guida alla gestione del problema motorio dal
punto di vista pratico è necessario da parte degli operatori un intervento
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sulle aspettative genitoriali. Come sottolineato da diversi autori (si veda ad esempio Myers, 1991), il programma di intervento formulato per le disabilità motorie non può trascurare le aspettative nei confronti delle reali capacità e delle possibilità di recupero del bambino con PCI che via via si consolidano nei genitori. Episodi quali la perdita definitiva della locomozione in adolescenza a causa dell'aumento del peso e delle dimensioni del corpo, l'eventuale compresenza di altre manifestazioni patologiche, legate per esempio a problemi cognitivi, necessitano di una mediazione da parte degli operatori perché essi vengano compresi e accettati (Keith e Markie, 1969; Resnick, 1984).
Come accade per tutti gli adolescenti, la famiglia sembra avere un ruolo importante come moderatore delle reazioni agli stress recenti: infatti le famiglie in cui è presente un clima positivo risultano avere un ruolo di contenimento dello stress (Murch e Cohen, 1989). Holmbeck, Gorey-Ferguson, Hudson, Seefeldt, Shapera, Turner e Uhler (1997) trovano che i genitori di bambini con spina bifida mostrano maggiori difficoltà di adattamento rispetto ai genitori di bambini senza disabilità motorie; inoltre manifestano un minor livello di soddisfazione per quanto riguarda il ruolo genitoriale. Ciò suggerisce che il fatto di avere un bambino con spina bifida possa avere un impatto negativo sul funzionamento di tale ruolo. Le madri oltre a sentirsi meno soddisfatte si percepiscono meno competenti e più isolate; manifestano in misura minore strategie di tipo attivo e si affidano più spesso alla negazione. Esse dimostrano inoltre un minor livello di adattabilità all'ambiente. Le madri di bambini con PCI risultano essere più soggette al rischio di depressione, ma il supporto sociale può avere effetti positivi nel ridurre i rischi associati al dover prendersi cura di un bambino con disabilità (Manuel, Naughton, Balkrishnan, Paterson Smith e Koman, 2003; si veda anche Zanobini, Manetti e Usai, 2002).
Quanto sopra descritto è illustrato in uno studio che ha l'obiettivo di evidenziare i rapporti di causa-effetto tra le variabili che influenzano il benessere psico-fisico dei genitori di bambini con disabilità motoria: i più importanti predittori del benessere dei genitori sono le caratteristiche del comportamento del bambino, le richieste di cura determinate dalla disabilità e il funzionamento familiare. Altri aspetti quali il concetto di sé, il
supporto sociale e la capacità di far fronte allo stress hanno effetti indiretti sul benessere psicofisico influenzando direttamente la qualità del funzionamento familiare (Raina, O'Donnell, Rosenbaum, Brehaut, Walter, Russell, Swinton, Zhu e Wood, 2005). Quindi è molto importante che oltre al lavoro con il bambino con PCI venga dedicato uno spazio per le persone della famiglia che sono per lui molto importanti. È da ritenere fondamentale poter offrire uno spazio di ascolto del dolore relativo al trauma iniziale per la famiglia che si trova a
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gestire un bambino diverso da quello che aveva immaginato nel corso dell gravidanza e può provare sentimenti di paura di non essere all'altezza, rado. Dia, sensi di colpa, ecc.; è dunque di primaria importanza sostenere un processo di elaborazione da parte dei genitori del bambino con PCI, soprattutto nelle fasi iniziali, attraverso un lavoro personale con uno psicologo che possa fornire un accompagnamento tempestivo nel percorso complesso che
i genitori saranno chiamati ad affrontare con il bambino. Questo aspetto è anche alla base della possibilità che i genitori possano a loro volta supportare gli altri familiari coinvolti nella vita del bambino, partendo da una loro elaborazione del dolore per la situazione. Anche i fratelli e le sorelle del bambino con PCI hanno solitamente un bisogno importante di poter parlare delle proprie emozioni e preoccupazioni e di essere aiutati a capire cosa sta succedendo. I fratelli si trovano
infatti a vivere una situazione particolare, di cui non sempre hanno una immediata comprensione e che può risultare fonte di estrema preoccupazione e rabbia per il tempo che viene sottratto loro per la gestione del fratello. Spesso i bambini vivono l'impossibilità di potersi confrontare con gli adulti perché avvertono di essere davanti ad argomenti che gli adulti non riescono ad affrontare e quindi loro stessi frequentemente smettono di fare domande rimanendo soli ad affrontare esperienze molto più grandi di loro. Le reazioni dei bambini di fronte alla disabilità del fratello possono essere molto varie, e per la maggior parte ciò è determinato dal contesto in cui vivono che diversamente può essere capace di sostenere adeguatamente la
costruzione della loro identità in relazione al fratello con difficoltà e comportamenti speciali.
Talvolta i genitori riferiscono di fratelli e sorelle che apparentemente non sono particolarmente disturbati dalla situazione ma che poi sviluppano somatizzazioni, ansie, paure, conflitti, ambivalenze e soprattutto sensi di colpa nell'essere il fratello "sano". Alcuni posso sviluppare un eccessivo senso si responsabilità e sentono di dover "risarcire" i genitoti offrendo loro delle soddisfazioni continue. Alcuni assumono ruoli di eccessivo accudimento e dedizione rispetto al fratello e alle persone con
difficoltà. Come sostenuto da Anderloni, Magro, Nacinovich, Bon, Sartor e Casa-
lino (2016), il suggerimento di non dire e di lasciare che il tempo gradualmente li aiuti a comprendere e ad adattarsi non rappresenta una buona indicazione. È importante che ciascun bambino, fratello o sorella di un bambino affetto da PCI riceva da parte degli adulti informazioni semplici e misurate di ciò che ha il proprio fratello. E importante anche accogliere e legittimare i vissuti del fratello, con particolare attenzione a quelli negativi come il desiderio inconfessabile di cancellare quel fratello i cui bisogni necessitano di attenzioni tali da parte dei genitori da non lasciare spazio ai propri. I
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genitori devono mostrarsi capaci di accogliere e permettere ai fratelli di esprimere i sentimenti negativi oltre a quelli positivi. È solitamente utile sottolineare ai genitori, oltre all'importanza di essere in grado di parlare con i propri figli e accogliere le loro emozioni, anche la necessità di dedicare a ciascun figlio una quota adatta di attenzione specifica ed esclusiva che consolidi il legame affettivo. Va infine ricordato che, secondo le attuali Linee guida (SIMFER-SINPIA, 2013), il presupposto indispensabile al percorso riabilitativo è il modello centrato sulla famiglia (Family-Cente-
red Care), che ha gli obiettivi di migliorare la qualità di vita di tutto il nucleo familiare allargato, incrementando la soddisfazione dei genitori (esperti dei bisogni e delle abilità del bambino) e la loro partecipazione al programma terapeutico (CanChild, Law, Hanna, King, Hurley, King, Kertoy e Rosenbaum, 2003). Questo non significa attribuire ai genitori il ruolo di terapisti, delegando loro l'intervento riabilitativo (significherebbe costringerli a farsi carico di responsabilità non proprie), ma è altrettanto scorretta da parte dei genitori la completa delega ai terapisti dell'impegno riabilitativo. È invece necessario individuare assieme ai genitori una serie di situazioni in cui il bambino con PCI, nella vita di tutti i giorni, possa compiere esperienze utili e coerenti con il processo di recupero in atto (concordance). Il bambino avrà così la possibilità di generalizzare l'apprendimento realizzato in situazioni specifiche di terapia. Un analogo coinvolgimento attivo e collaborativo va cercato anche nei confronti delle istituzioni educative e scolastiche.
8.2. L'interazione con i pari Il problema dell'integrazione dei bambini con severe disabilità fisiche in ambienti quali la scuola dell'infanzia ci conduce a considerare alcuni aspetti che possono influire sulle dinamiche relazionali in età precoce. In questo tipo di disabilità, più che in altri, nelle interazioni sociali riveste un ruolo importante l'apparenza fisica: in generale, infatti, nei bambini le
categorizzazioni sono largamente influenzate dalle caratteristiche fisiche e comportamentali delle altre persone e tendono a essere semplici, superficiali ed esclusive. I bambini con impedimenti motori sono percepiti come meno attraenti dai loro pari (si veda Erwin, 1993) e questo potrebbe spiegare un'eventuale riduzione delle interazioni a essi rivolte. In realtà, alcuni
autori (Evans, Salisbury, Palombaro, Berryman e Hollowood, 1992) hanno evidenziato come a scuola i coetanei dei bambini con gravi disabilità rivolgano loro numerose iniziative interazionali. Tale numero è, però, soggetto a un sensibile calo con il procedere del tempo: ciò fa supporre che il possesso di abilità comunicative che consentono la produzione di risposte sociali 119
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adeguate sia cruciale per il mantenimento della relazione. Sembra infan: che i bambini con disabilità abbiano conoscenze limitate sulle strategie necessarie all'instaurarsi e al mantenimento di un'interazione amicale. La. ito dell'operatore potrebbe risultare efficace se rivolto soprattutto alla mediazione degli aspetti riguardanti l'intraprendere relazioni d'amicizia con i pari (Erwin, 1993). Un' importante osservazione riguarda la qualità degli interscambi: i bambini rivolgono nei confronti dei loro pari gravemente disabili comportamenti che potremmo definire assistenziali (Evans, Salis. bury, Palombaro, Berryman e Hollowood, 1992) consistenti principalmente in supporti di tipo fisico (ad esempio, per muoversi nella classe). Alla particolarità delle relazioni che vedono coinvolti i bambini disabili possono contribuire anche le conoscenze che in generale i bambini hanno della disabilità. Conant e Budoff (1983), hanno evidenziato che da un lato
i bambini di 3-5 anni sono in grado di comprendere condizioni quali la presenza di impedimenti visivi, uditivi, o motori, dall'altro essi incontrano invece molte difficoltà nel comprendere la disabilità intellettiva. In una ricerca condotta su bambini di 4 anni frequentanti un corso prescolastico, Diamond (1993) ha evidenziato come in età prescolare i bambini siano in grado riconoscere e formulare pensieri sulla disabilità, specialmente quando la osservano in un proprio pari. In particolare sono in grado di riconoscere in quanto tali le difficoltà cognitive e motorie, ma non sono ancora in grado di rilevare la presenza di eventuali problemi di linguaggio. La possibilità di comunicare riveste per i bambini con disabilità una grande importanza per partecipare all'interazione soprattutto con i pari: l'utilizzo di ausili comunicativi e progetti di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) risultano particolarmente efficaci per la promozione delle interazioni.
In conclusione, come indicato nelle Linee guida SIMFER-SINPIA del
2013 è un aspetto di fondamentale importanza sostenere le attività scolastiche e socializzanti, anche se esse non possiedono valore terapeutico in sen-
so stretto. Gli aspetti ludici e di partecipazione sociale fanno infatti parte
della presa in carico del bambino con PCI.
8.3. La qualità della vita
In accordo con il "Manifesto per la Riabilitazione del Bambino sottoscritto nel 2000 dai medici e dai terapisti appartenenti al Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infantili (GIPCI), le Linee guida SIMFER-SIMPIA nella revisione del 2013 sottolineano come la riabilitazione abbia come fine ultimo il raggiungimento della maggiore qualità di vita possibile del bambino e della sua famiglia. Proprio in questa direzione nell'ultimo decennio si è
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verificata un'importante evoluzione del pensiero e della prassi riabilitativa. Sono stati infatti ridefiniti i concetti di qualità della cura, intesa come processo complesso in cui la valutazione dell'esito di una funzione non è sufficiente, ma deve essere integrata in una visione globale del bambino (Larson, 2000), di salute come risultato dell'interazione dinamica tra uno stato psicofisico e i fattori contestuali (personali o ambientali), in accordo con il modello bio-psicosociale (ICF, 2001), e di disabilità, definita come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole (ICF, 2001). In un ampio studio che ha coinvolto nove paesi europei (Colver, 2006) è stata presa in esame la qualità della vita e il livello di partecipazione dei bambini con PCI attraverso. I risultati indicano che una porzione significativa di bambini con PCI è più esposta a rischi per la salute mentale rispetto al resto della popolazione a sviluppo tipico (Parkes et al., 2008): in particolare fra questi bambini si osserva un'incidenza significativa di impedimenti sociali dovuti a problemi emotivi e comportamentali. In un certo numero di casi, questi problemi assumono livelli di gravità tali da rendere necessaria la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale. Per quanto riguarda la qualità della vita valutata in sei diversi domini (benessere psicologico, concetto di sé, supporto sociale, ambiente scolastico, risorse economiche, accettazione sociale), la severità della menomazione non è associata in modo indiscriminato alla qualità della vita. Le diverse difficoltà hanno effetti specifici nei diversi ambiti valutati: così le difficoltà motorie influenzano negativamente il benessere fisico, quelle intellettive sono associate a difficoltà emotive, nell'umore e a bassa autonomia, le difficoltà nella comunicazione sono associate a maggiori difficoltà
nella relazione con i genitori. Tuttavia non sono le differenze nella menomazione a incidere significativamente sulla qualità della vita nel com-
plesso, quanto piuttosto il dolore fisico. E noto infatti che uno degli aspetti problematici nei casi di disabilità motoria sia il dolore e questo influenzi
la qualità della vita più di altre variabili (Castle, Imms e Howie, 2007; 0 Dickinson et al., 2007); il dolore inoltre, associato all'affaticabilità, predice alcune difficoltà della vita quotidiana e in particolare la qualità del funzionamento scolastico (Berrin et al., 2007). Gli autori concordano nel sottolineare come una più attenta valutazione del dolore sia necessaria per prevenire difficoltà in altri domini dell'esistenza (O Dickinson et al., 2007).
9. Interventi La definizione più attuale della riabilitazione offerta dalle linee guida contenute nelle Raccomandazioni sulle Paralisi Cerebrali Infantili del 2002, aggiornate nel 2005-2006 e nel 2013, della Società Italiana dei Me-
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dici Neuropsichiatri dell'Infanzia e dell'Adolescenza e della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa e in accordo con il Manifesto per la Riabilitazione del Bambino (GIPC1, 2000) è la seguente: "la riabilitazione è un processo complesso teso a promuovere nel bambino e nella sua fa-
miglia la migliore partecipazione e qualità di vita possibili. Con azioni
dirette e indirette essa si interessa dell'individuo nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale (carattere olistico), coinvol gendo il suo contesto familiare, sociale ed ambientale (carattere ecologico). Si concretizza con la formulazione del progetto abilitativo e dei vari programmi terapeutici attivi nei tre ambiti della rieducazione, dell'assistenza e dell'educazione. La riabilitazione della PCI è per definizione un intervento terapeutico operato per il recupero delle funzioni della vita di relazione piuttosto che per la rieducazione di organi, apparati o sistemi
(Ferrari, 2005). Il termine abilitare significa trasmettere conoscenze. Chi opera in termini abilitativi cura attraverso i genitori; questa modalità
di intervento indiretto deve essere condivisa con tutte le figure sanitarie coinvolte" (Ferrari, 1998). In questa definizione sono racchiusi tutti gli aspetti importanti da considerare quando si parla di interventi sulla PCI. Innanzitutto è di rilievo sottolineare come a partire dagli ultimi decenni si possa parlare di un'importante cambiamento del modo di concepire l'intervento riabilitativo, che è maggiormente focalizzato su una visione globale del bambino e sul suo
contesto di vita. Un'importanza fondamentale è stata attribuita all'ambiente di vita del bambino che risulterebbe essere alla base del suo benessere: da
qui l'attenzione al fatto che gli interventi nella terapia riabilitativa vadano a concentrarsi sul bisogno di trasferire abilità apprese nelle sedute di trat tamento nei diversi contesti di vita quotidiana (casa, scuola, ecc.). Infatti, è attualmente generalmente condiviso il fatto che la riorganizzazione neuronale e le possibilità di recupero legati alla plasticità del sistema nervoso siano favoriti da un ambiente significativo e arricchito, ricco cioè di proposte motivanti anziché condizioni di ripetizione di esercizi prive di significato
per il bambino e avulse dal suo contesto di vita (Setaro, Fedrizzi, Fazzi Alessandrini, Stortini, Corlatti, Foscan, Arnoldi, Bussolino, Marchi e Godio, 2016). Da qui l'importanza di un coinvolgimento diretto dei genitori
nel trattamento con un duplice scopo: da un lato quello di poter accedere a informazioni sui reali bisogni del bambino e sulle possibilità del contesto
di vita quotidiana di portare avanti le proposte terapeutiche in modo che le attività possano essere strutturate in base a necessità reali e condivise: dall'altro lato quello di poter offrire ai familiari la possibilità di apprendere il funzionamento di alcune attività e riproporle in ambito familiare nel modo in cui vengono svolte dagli operatori perché possano essere consolidale fuori dal setting di intervento clinico e generalizzate. Il coinvolgimento del 122
familiari risulta essere uno degli aspetti chiave per il successo del trattamento e una ricaduta forte sullo sviluppo funzionale del bambino. A livello internazionale è ormai ampiamente riconosciuto come presupposto fondamentale al percorso riabilitativo un modello di intervento centrato
sulla famiglia (Family-Centered Care), con obiettivi di miglioramento della qualità di vita non solo del bambino (favorendone lo sviluppo per-
cettivo-motorio e posturale, cognitivo e delle funzioni neuropsicologiche, psicologico ed emozionale, comunicativo e sociale), ma di tutto il nucleo
familiare.
Premesso quindi il ruolo fondamentale del sistema familiare nella progettazione e implementazione dell'intervento sul bambino, andiamo ad affrontare nello specifico come questo viene predisposto e strutturato. Nel parlare di intervento con il bambino affetto da PCI bisogna innanzitutto considerare la distinzione tra interventi cosiddetti "abilitativi" e "ri-abilitativi"
L'intervento cosiddetto "abilitativo" è tipicamente relativo soprattutto alle prime fasi di sviluppo del bambino e viene implementato precedentemente all'emergere delle abilità, per promuoverle e indirizzarne la traiettoria di sviluppo nella direzione più funzionale. Mira infatti a promuovere quelle competenze che sono potenzialmente presenti nel patrimonio comportamentale del bambino, ma che potrebbero non emergere adeguatamente in risposta alle conseguenze del danno neurologico.
Si parla invece di intervento "riabilitativo" per riferirsi a un partico-
lar tipo di intervento che solitamente viene effettuato nelle fasi successive di sviluppo, quando cioè il bambino ha già trovato e messo in atto le sue strategie di adattamento all'ambiente che però non sono particolarmente efficaci: tali modalità di comportamento messe spontaneamente in atto dal bambino risulterebbero faticose, complesse e potrebbero farlo incorrere in rischi di deformità e disabilità maggiore di quella manifestata. Possiamo quindi dire che questo tipo di intervento è finalizzato a recuperare delle funzioni che in seguito a un danno neurologico si sono sviluppate in modo disfunzionale rendendo complicato per il bambino l'adattamento al proprio ambiente. Esistono percorsi terapeutici estremamente variabili da bambino a bambino con PCI e ciò è in relazione a caratteristiche specifiche del bambino quali età, tipo di danno neurologico, problematiche emergenti, potenzialita di sviluppo disponibili, modificabilità delle funzioni ma soprattutto in relazione alle caratteristiche dell'ambiente di vita del bambino e della sua famiglia. Solitamente il progetto riabilitativo per bambini con PCI nei primi anni di vita è di tipo precoce, continuativo e intensivo, successivamente è invece tendenzialmente caratterizzato da una modalità a cicli o con controlli multidisciplinari, in base alla modificabilità del quadro e all'insorgere di nuove potenzialità terapeutiche. 123
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Il progetto riabilitarivo deve essere formulato in seguito a una vale a tone funzionale relativa a tutte le funzioni adattive (motoria, postaTale, Visiva e oculo-motoria, coerina Guida SIMEER:, comunicativa, tale (vo-relazionale). Secondo le Linee Guida (SIMTER-SINPIA, 2013), a valutazione deve avvenire attraverso un'osservazione diretta e guida. d l'impiego di protocolli costruiti sulle caratteristiche peculiari dello sui luppo del bambino con PCI. Sempre secondo le suddette raccomandazioni sulle PCI, nella valutazione del bambino, accanto agli strumenti descritti-
vi propri di ogni servizio, dovrebbero essere utilizzati quando possibile, strumenti standardizzati o metodiche strumentali al fine di rendere più obiettiva, quantificabile e confrontabile nel tempo e tra gli osservatori la valutazione stessa: ne sono alcuni esempi valutazioni strutturate dello svi. luppo, scale per la descrizione del tono, della forza, del range articolare, valutazioni funzionali, videoregistrazioni, motion analysis sono solo alcune metodiche indicate come esempio di valutazioni strutturate e condivise di cui è noto dalla letteratura il range di ripetibilità. Viene raccomandato l'uso dell'International Classification of Functions-Child and Youth (ICFCY) come organizzatore concettuale dei dati acquisiti e come strumento classificativo per pianificare gli interventi e i trattamenti individualizzati
e fornire il riferimento di outcome degli interventi stessi. L'ICF-CY è
strutturata in maniera tale da essere sensibile ai cambiamenti associati alla crescita del bambino con disabilità e rappresenta uno strumento indispensabile per poter cogliere tutte le variabili in gioco durante il suo sviluppo. L'utilizzo dei codici relativi all'ICF-CY permette di fotografare la condizione di salute e l'ambiente in cui vive il soggetto, descrivendone il funzionamento e considerando gli aspetti di partecipazione e i fattori ambientali (scuola, tempo libero, relazioni con i familiari e i pari, ecc), delineando eventuali punti di forza e criticità e il grado con cui questi sono influenzati da facilitatori e barriere ambientali. Tutto ciò è utile alla formulazione della diagnosi funzionale e della prognosi di funzione, cioè degli elementi predittivi, positivi e negativi, relativi all'area funzionale considerata, su cui si fonda il giudizio sulla possibilità
di raggiungere il cambiamento finale atteso, obiettivo del progetto rieducativo. Tali elementi devono tenere conto della molteplicità delle aree funzionali compromesse e delle loro interazioni reciproche: si parla infatti attualmente dell'importanza di considerare la "globalità" del progetto rieducativo a fronte della "specificità" degli interventi rieducativi praticati da ciascun professionista.
Sempre secondo le Linee guida SIMFER-SINPIA del 2013, l'ambito del progetto rieducativo deve essere costituito da attività/abilità concrete e finalizzate a obiettivi realistici. Il progetto rieducativo non può essere perciò stabilito in modo predeterminato (applicazione di un metodo come ricetta universale precostituita), ma deve essere adattato ai bisogni, ai pro-
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blemi e alle risorse di quel bambino con PCI e della sua famiglia ed essere sottoposto a costante verifica. E inoltre indicata l'importanza di dichiarare gli strumenti terapeutici che s'intende adottare per il conseguimento degli obiettivi a breve termine: esercizi terapeutici; setting; interazione terapeutica; farmaci per il controllo della spasticità ad azione generale, distrettuale (pompa al baclofen) o focale; farmaci per il controllo delle discinesie, dei disturbi associati con influenza sul movimento; sussidi; ortesi (correttive, contenitive, funzionali); ausili per la postura, l'autonomia e il movimento; interventi di chirurgia ortopedica funzionale e correttiva; interventi di chirurgia neurologica funzionale (rizotomie, neurotomie, stimolatori cerebrali
profondi, ecc.); istruzioni ai familiari; consigli agli educatori; modifiche
adattive dell'ambiente, ecc. È necessario inoltre indicare gli indicatori che si impiegheranno per misurare il risultato ottenuto. Un aspetto importante è anche quello relativo alla stipula dell'accordo terapeutico con la famiglia e il bambino stesso (quando questo sia possibile per età e livello cognitivo raggiunto) sul progetto rieducativo, ovvero su ciò che ci si impegna a ottenere attraverso il trattamento rieducativo (vedi Linee Guida del Ministero della Sanità per le attività di riabilitazione del :1998). In linea di massima viene indicato che l'accordo terapeutico venga rinnovato una volta all'anno con la famiglia e il bambino in modo da tener conto dei cambiamenti nel frattempo sopraggiunti. Il consenso alla cura da parte della famiglia e, quando possibile, da parte del bambino stesso è perciò una condizione indispensabile al trattamento e merita di ricevere una giusta attenzione. Oltre al coinvolgimento della famiglia, molto importante nel progettare l'intervento riabilitativo è il supporto alla famiglia del bambino con PCI: le linee guida indicano l'importanza di favorire nei genitori la consapevolezza delle reali condizioni del bambino (diagnosi), valorizzando il ruolo che essi possono avere sui processi di recupero (prognosi) e nella promozione di autodeterminazione (capacità decisionale), autosufficienza (sapere cosa bisogna fare) e autonomia (sapere fare da solo)
del loro bambino. Alla famiglia va offerto il massimo sostegno attraverso la presa in carico e se necessario messo in atto un adeguato intervento di counselling.
Il progetto riabilitativo, oltre a essere discusso e condiviso con la famiglia, deve prevedere un approccio interdisciplinare ovvero coinvolgere figure professionali diverse che assieme concorrano alla realizzazione del progelto stesso. Per i bambini con PCI risultano importanti il neuropsichiatra infantile che si occupa della diagnosi e coordina gli interventi a favore del bambino, il fisiatra che si occupa delle problematiche motorie e posturali % lo psicologo che si occupa del riconoscimento dei bisogni del bambino e della famiglia e del loro benessere, i terapisti quali il fisioterapista e il terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva, che si occupano della 125
riabilitazione del bambino con atenie. elarional componenti funzionali, Inotorie, percetive, cognitive, affettive, relanonali e il logopedista, che si moca della riablitazione delle funzioni comunicative e cognitive, il te. occupatopedico, che si occupa delle ortosi e degli ausili utili al bambino, Feducatore, che sostiene l'integrazione sociale e scolastica.
E importante inoltre creare una rete di specialisti delle problematiche associate alla PCI (ortopedico, neurologo, oculista, nutrizionista, otorinolaringoiatra, broncopneumologo, ecc.) in grado di integrare le valu. tazioni specifiche effettuale dalle figure professionali che normalmente hanno in carico il bambino. Si raccomanda l'uso dell'ICF-CY proprio perché si possa contare su uno strumento di comunicazione facilitante la multidisciplinarietà. Le diverse strutture dedicate alla riabilitazione possono differire per le figure professionali impegnate e per le modalità di organizzazione del servizio, ma le varie figure coinvolte dovrebbero comunque essere sempre coordinate tra di loro e prevedere momenti di confronto reciproco e con la famiglia, al fine di raccogliere e coordinare tutti gli interventi e individuare di volta in volta le necessità del bambino e gli obiettivi di intervento. In accordo con la letteratura internazionale e con la prassi consolidata in questi ultimi 10 anni di attività, il Manifesto per la Riabilitazione del Bambino del Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infantili propone un approccio riabilitativo basato sui seguenti sei aspetti: 1. Intervento precoce: iniziare l'intervento non appena le condizioni del bambino lo consentono e in relazione all'emergere della funzione. L'intervento riabilitativo dovrebbe essere continuativo per lo meno nei primi anni di vita del bambino (naturalmente quando le sue condizioni lo permettono e lo giustificano) e finché si individuano chiari obiettivi da perseguire. 2. Intervento interdisciplinare: nel rispetto della globalità del bambino e della multidimensionalità dei fattori determinanti il suo pieno sviluppo, si ritiene indispensabile un intervento in cui le diverse figure professionali possano contribuire in maniera specifica e integrata con le proprie competenze al percorso riabilitativo del bambino e della sua famiglia. 3. Intervento intensivo: per "intensivo" si intende non tanto/non solo il mut mero delle sedute di trattamento, che pure è importante, ma soprattutto l'allenamento quotidiano e il trasferimento delle abilità apprese in terapia nel contesto di vita del bambino, possibile solo attraverso la cond visione di obiettivi e strategie di intervento con la famiglia. L'intensivita del trattamento risulta una variabile critica per l'efficacia dell'intervento
riabilitativo.
4. Approccio centrato sulla famiglia: si riconosce la famiglia come luogo primario di vita del bambino; la sua cura non può prescindere dalla
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cura della famiglia, dall'ascolto dei dubbi, dei problemi, delle difficoltà, dei contributi specifici che essa può apportare al percorso riabilitativo. È opportuno trasferire alla famiglia tutte le conoscenze che permettono una migliore cura del proprio bambino. 5. Approccio centrato sul bambino: si tiene conto delle esigenze proprie
del bambino, si rispettano i suoi bisogni, i suoi ritmi esplorativi ed
evolutivi. Si riconoscono i bisogni fondamentali del bambino di sentirsi attivo e partecipe, di intrattenere interazioni giocose con le persone e con l'ambiente, di sentirsi integrato nella comunità dei pari; si tiene conto di cosa sia utile che quel bambino impari, con quelle difficoltà, in quel contesto di vita, in quella fase di sviluppo. Gli obiettivi terapeutici vanno "tagliati su misura" di ogni bambino e devono rispondere ai suoi bisogni primari. 6. Attenzione al contesto: attraverso la modifica degli oggetti messi a disposizione del bambino con PCI, si può adattarli meglio alle sue esigenze e alle sue possibilità motorie, consentendogli di avere soddisfazione e autonomia; semplici modifiche delle caratteristiche fisiche dell'ambiente di vita del bambino gli rendono tale ambiente più accessibile e agibile. Per quanto riguarda gli interventi sul piano motorio specifici sul bambino, quelli attualmente maggiormente riconosciuti come accreditati dalla ricerca scientifica più recente fanno riferimento alle teorie di apprendimento motorio (Motor Learning). Secondo questo approccio il terapista ha l'obiettivo di insegnare al bambino il controllo motorio svolgendo una funzione di guida attenta e flessibile che, partendo da una profonda conoscenza delle caratteristiche del singolo bambino e della sua patologia,
ne favorisce l'iniziativa, lo sostiene durante la scelta e lo svolgimento di un compito, lo aiuta nella formulazione di un piano d'azione e di un programma motorio idoneo, e lo guida nell'apprendimento e nel controllo delle varie fasi dello svolgimento di un'attività (Setaro et al., 2016). O1tre a questo approccio vengono anche utilizzate tecniche di facilitazione neuromuscolare (Bobath, Kabat, Vojta, Castillo Morales, Doman, Stimolazione Basale), che si basano sulla stimolazione di riflessi e/o sulla attivazione dall'esterno (ad es. attraverso facilitazioni date attraverso le mani del terapista) di schemi motori che il bambino non è in grado di utilizzare autonomamente per soddisfare i propri bisogni. Altri approcci riabilitativi che si ispirano alle più recenti scoperte delle neuroscienze e in relazione ai quali anche in Italia stanno diventando oggetto di interesse della ricerca sono i seguenti:
- La Constraint-Induced Movement Therapy (Cimt) che è una terapia basata sulla costrizione indotta dell'arto sano al fine di evitare l'apprendimento al non-uso dell'arto colpito in attività mono-manuali, principalmente rivolta al bambino con emiplegia.
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e
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II Training intensivo bimanuale ovvero un intervento di terapia occupazionale tipicamente utilizzato con il bambino emiplegico per favorire l'apprendimento di schemi prassici nel gioco e nelle attività della vita quotidiana (Adl).
- L'Action Observation Therapy (Aot) ovvero l'osservazione e l'imitazione motoria basata sulla possibilità di riorganizzazione dei circuiti neuronali (il sistema dei "neuroni specchio"). Questo approccio si basa sul principio in base al quale la semplice osservazione di un'altra persona che svolge una certa azione sia in grado di facilitare l'apprendimento della sua esecuzione (apprendimento per imitazione) (Parente, Demott, Johnson e Jennings, 2011). Tale approccio è ancora in fase sperimentale ma risulta particolarmente interessante nelle sue potenzialità. Il fatto che le cellule nervose si attivino quando l'individuo assiste a un atto motorio,
al pari di quando è lui stesso a eseguirlo, apre infatti importanti prospettive in campo clinico (si veda Rizzolatti, Fabbri-Destro e Cattaneo, 2009). Particolarmente interessante, infatti, è il fatto che il meccanismo dei neuroni specchio sia implicato nella formazione delle memorie mo-
torie: in alcuni studi riportati da Rizzolatti et al. (2009) si evidenzia
come l'apprendimento di movimenti sia più efficace quando l'individuo esegue e contestualmente osserva movimenti congruenti, rispetto a quando i movimenti sono appresi attraverso un training che prevede la sola esecuzione. Tali evidenze dimostrano che, quando l'osservazione è abbinata all'esecuzione, la formazione delle memorie motorie ne risulta fortemente facilitata. In letteratura è già stata documentata l'efficacia di un intervento basato sull'osservazione combinata con un training fisico
delle azioni osservate (Ertelt, Small, Solodkin, Dettmers, McNamara, Binkofski e Buccino, 2007; Franceschini, Agosti, Cantagallo, Sale, Mancuso e Buccino, 2010). Attualmente è stato dimostrato che l'Aot svolge un ruolo importante nel recupero delle funzioni motorie dell'arto superiore in bambini affetti da PCI in età scolare (Buccino, Arisi, Gou8h, Aprile, Ferri, Serotti, Tiberti e Fazzi, 2012; Sgandurra, Ferrari, Cossu, Guzzetta, Biagi, Tosetti, Fogassi e Cioni, 2013). - La telemedicina ovvero un sistema di erogazione del trattamento di tir po domiciliare a distanza, mediante una piattaforma condivisa tramile computer con il terapista che può monitorare in tempo reale gli esercizi svolti dal bambino e monitorare il suo andamento clinico. - La realtà virtuale immersiva che è considerata particolarmente indicata nel trattamento dei pazienti con disabilità motoria a eziologia neurologica. In particolare nell'ambito della realtà virtuale possiamo annove Tare strumenti diversi come tablet, pedane posturali, giochi come Wii Kinect che possono essere usate come interfacce e che si implemen tano con immagini virtuali proiettate su schermi di varie dimensioni 128
Nell'esecuzione del compito il bambino si relaziona con un contesto di tipo ludico e offre un feedback immediato della prestazione, aspetti che risultano particolarmente motivanti per il bambino. - La robotica ovvero apparecchiature ad alta tecnologia che si interfacciano con sistemi di realtà virtuale e permettono ai pazienti di effettuare movimenti passivi o attivi assistiti sia sugli arti superiori che sul cammino. Prevedono l'impiego di apparecchi esterni in grado di potenziare le capacità fisiche del bambino andando a costituire una sorta di "muscolatura artificiale" (esoscheletro). Sono particolarmente funzionali in quanto offrono la possibilità di registrare la prestazione del paziente, permettono la misurazione oggettiva dei deficit presenti e il monitoraggio dei risultati progressivamente ottenuti. Oltre agli interventi sopracitati esiste un'altra categoria di trattamenti tesi a prevenire i cosiddetti "danni secondari". Questi interventi comprendono l'uso di ortesi e ausili per la sorveglianza delle articolazioni e della funzionalità dei distretti corporei, la chirurgia ortopedica e funzionale, la neurochirurgia, la rizotomia dorsale selettiva, la tossina botulinica per la gestione della spasticità, la pompa al baclofen, l'intervento su disfagia e problematiche correlate alle funzioni di alimentazione e deglutizione. Tutti questi interventi sono finalizzati a promuovere la salute globale del bambino in relazione alle condizioni associate ai deficit motori ma altrettanto importanti e degne di attenzione. Per i bambini con PCI sono indicati anche interventi che sono di tipo ricreativo e dalle quali in particolare i bambini con danni cerebrali possono effettuare per la promozione del benessere come la musicoterapia e l'ippoterapia. Questi interventi non rientrano tra gli approcci riabilitativi specifici per il trattamento delle PCI ma possono essere utili per favorire la partecipazione e la qualità di vita del bambino.
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6. Disturbi dell'apprendimento di Maria Carmen Usai
1. Introduzione I disturbi specifici dell'apprendimento (DSA) sono manifestazioni patologiche che colpiscono la capacità dei bambini di apprendere. La legge 170 dell'8 ottobre 2010 riconosce l'esistenza dei DSA e stabilisce una serie di indicazioni volte a garantire il diritto all'istruzione dei bambini che presentano tali disturbi, a favorirne il successo scolastico e promuovere lo sviluppo delle proprie capacità in diversi ambiti. La legge 170/2010, accogliendo quanto emerso dal dibattito scientifico sollevato dalla Consensus Conference (2007; PARCC, 2011) definisce i DSA come disturbi che si manifestano in presenza di un adeguato livello intellettivo, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, e che possono costituire una importante limitazione per alcune attività della vita quotidiana. La legge coinvolge la scuola come istituzione attiva nell'individuazione dei bambini con DSA, nella realizzazione di percorsi formativi mirati a creare competenze specifiche negli insegnanti, per poter mettere in atto strategie didattiche e misure dirette ai bisogni connessi a tali disturbi.
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Legge 8 ottobre 2010, n. 170 Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico Art. 1 - Riconoscimento e definizione di dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia 1. La presente legge riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento, di seguito denominati "DSA", che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana. 2. Ai fini della presente legge, si intende per dislessia un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà nell'imparare a leggere, in particolare nella decifrazione dei segni linguistici, ovvero nella correttezza e nella rapidità della lettura. 3. Ai fini della presente legge, si intende per disgrafia un disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nella realizzazione grafica. 4. Ai fini della presente legge, si intende per disortografia un disturbo spe-
cifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nei processi linguistici di
transcodifica. 5. Ai fini della presente legge, si intende per discalculia un disturbo spe-
cifico che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e dell'elaborazione dei numeri. 6. La dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia possono sussi-
stere separatamente o insieme.
7. Nell'interpretazione delle definizioni di cui ai commi da 2 a 5, si tiene conto dell'evoluzione delle conoscenze scientifiche in materia.
Art. 2 - Finalità
1. La presente legge persegue, per le persone con DSA, le seguenti finalità:
a) garantire il diritto all'istruzione;
b) favorire il successo scolastico, anche attraverso misure didattiche di sup-
porto, garantire una formazione adeguata e promuovere lo sviluppo delle potenzialità; c) ridurre i disagi relazionali ed emozionali; d) adottare forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessità formative degli studenti; e) preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori nei confronti delle problematiche legate ai DSA; f) favorire la diagnosi precoce e percorsi didattici riabilitativi; §) incrementare la comunicazione e la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi sanitari durante il percorso di istruzione e di formazione; h) assicurare eguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale.
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Art. 3 - Diagnosi 1. La diagnosi dei DSA è effettuata nell'ambito dei trattamenti specialistici già assicurati dal Servizio sanitario nazionale a legislazione vigente ed è comunicata dalla famiglia alla scuola di appartenenza dello studente. Le regioni nel cui territorio non sia possibile effettuare la diagnosi nell'ambito dei trattamenti specialistici erogati dal Servizio sanitario nazionale possono prevedere, nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, che la medesima diagnosi sia effettuata da specialisti o strutture accreditate. 2. Per gli studenti che, nonostante adeguate attività di recupero didattico mirato, presentano persistenti difficoltà, la scuola trasmette apposita comunicazione alla famiglia.
3. È compito delle scuole di ogni ordine e grado, comprese le scuole
dell'infanzia, attivare, previa apposita comunicazione alle famiglie interessate, interventi tempestivi, idonei ad individuare i casi sospetti di DSA degli studenti, sulla base dei protocolli regionali di cui all'articolo 7, comma 1. L'esito di tali attività non costituisce, comunque, una diagnosi di DSA.
Art. 4 - Formazione nella scuola 1. Per gli anni 2010 e 2011, nell'ambito dei programmi di formazione del personale docente e dirigenziale delle scuole di ogni ordine e grado, comprese le scuole dell'infanzia, è assicurata un'adeguata preparazione riguardo alle problematiche relative ai DSA, finalizzata ad acquisire la competenza per individuarne precocemente i segnali e la conseguente capacità di applicare strategie didattiche, metodologiche e valutative adeguate. 2. Per le finalità di cui al comma 1 è autorizzata una spesa pari a un mi-
lione di euro per ciascuno degli anni 2010 e 2011. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente utilizzo del Fondo di riserva per le autorizzazioni di spesa delle leggi permanenti di natura corrente iscritto
nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, come determinato, dalla Tabella C allegata alla legge 23 dicembre 2009, n. 191.
Art. 5 - Misure educative e didattiche di supporto 1. Gli studenti con diagnosi di DSA hanno diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica nel corso dei cicli di istruzione e formazione e negli studi universitari.
2. Agli studenti con DSA le istituzioni scolastiche, a valere sulle risorse specifiche e disponibili a legislazione vigente iscritte nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, garantiscono:
a l'uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche
peculiari dei soggetti, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate;
b) l'introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonché misure dispensative 168
da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere; c) per l'insegnamento delle lingue straniere, l'uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche, ove risulti utile, la possibilità dell'e-
sonero. 3. Le misure di cui al comma 2 devono essere sottoposte periodicamente a monitoraggio per valutarne l'efficacia e il raggiungimento degli obiettivi.
4. Agli studenti con DSA sono garantite, durante il percorso di istruzione e di formazione scolastica e universitaria, adeguate forme di verifica e di valutazione, anche per quanto concerne gli esami di Stato e di ammissione all'università nonché gli esami universitari.
Art. 6 - Misure per i familiari
1. I familiari fino al primo grado di studenti del primo ciclo dell'istruzione con DSA impegnati nell'assistenza alle attività scolastiche a casa hanno diritto di usufruire di orari di lavoro flessibili. 2. Le modalità di esercizio del diritto di cui al comma 1 sono determinate dai contratti collettivi nazionali di lavoro dei comparti interessati e non devono comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Art. 7 - Disposizioni di attuazione 1. Con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, si provvede, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad emanare linee guida per la predisposizione di protocolli regionali, da stipulare entro i successivi sei mesi, per le attività di identificazione precoce di cui all'articolo 3, comma 3. 2. Il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con proprio decreto, individua le modalità di formazione dei docenti e dei dirigenti di cui all'articolo 4, le misure educative e didattiche di supporto di cui all'articolo 5, comma 2, nonché le forme di verifica e di valutazione finalizzate ad attuare quanto previsto dall'articolo 5, comma 4. 3. Con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, da adottare entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, è istituito presso il Ministero dell'istruzione, dell'università e della
ricerca un Comitato tecnico-scientifico, composto da esperti di comprovata
competenza sui DSA. Il Comitato ha compiti istruttori in ordine alle funzioni che la presente legge attribuisce al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Ai componenti del Comitato non spetta alcun compenso. Agli eventuali rimborsi di spese si provvede nel limite delle risorse allo scopo disponibili a legislazione vigente iscritte nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca.
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Art. 8 - Competenze delle regioni a statuto speciale e delle province auto.
1. Sono fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, in conformità ai rispettivi statuti e alle relative norme di attuazione nonché alle disposizioni del titolo v della parte seconda della Costituzione.
2. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono a dare attuazione alle disposizioni della legge stessa.
Art. 9 - Clausola di invarianza finanziaria
1. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 4, comma 2, dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
2. Gli aspetti generali 2.1. La definizione Negli ultimi anni si è giunti a una definizione condivisa di disturbo specifico dell'apprendimento (DSA), dove il termine specifico ha la funzione di differenziare tale entità nosografica da difficoltà generalizzate che coinvolgono le abilità cognitive nel loro complesso (ad esempio, la disabilità
intellettiva). La Consensus Conference dell'Istituto Superiore di Sanità (2011) definisce i DSA "disturbi che coinvolgono uno specifico dominio di abilità
lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici" e identifica la dislessia come disturbo nella lettura (intesa come abilità di decodifica del testo), la disortografia come disturbo nella scrittura (intesa come abi
lità di codifica fonologica e competenza ortografica), la disgrafia come disturbo nella grafia (intesa come abilità grafo-motoria) e la discalculia come disturbo nelle abilità di numero e di calcolo (intese come capaci di comprendere e operare con i numeri). II DSM-5 (APA, 2013) riconosci i disturbi specifici di apprendimento tra i disturbi del neurosviluppo come unica categoria nosografica inserita con specificatori diversi per la compro missione nella lettura, nell'espressione scritta e nel calcolo.
Si è giunti a tale definizione attraverso un percorso che nel tempo i colto alcuni degli aspetti distintivi di come oggi vengono intesi i DSA. T 170
le definizioni storiche riportiamo quella proposta negli Stati Uniti dall'Of. fice of Education (1977), secondo la quale si indicano portatori di tali ditficoltà
quei bambini che hanno un disturbo in uno o più processi psicologici di base
coinvolti nella comprensione e nell'uso del linguaggio, parlato o scritto, e che tale disturbo possa manifestarsi attraverso deficit nella capacità di ascoltare, di pensare, di parlare, di leggere, di scrivere correttamente e di fare calcoli matematici. I deficit includono condizioni quali le disabilità percettive, i danni cerebrali, le difunzioni cerebrali minime, la dislessia e l'afasia evolutiva. Inoltre, la definizione esclude i bambini che hanno difficoltà di apprendimento risultanti principalmente
da deficit sensoriali visivi e uditivi, disabilità motorie, ritardo mentale, disturbi
emotivi o svantaggi di carattere ambientale, culturale o economico (Shapiro, 1991, p. 263).
Questa definizione consente di formulare alcune osservazioni. In primo luogo, è evidente che si tratta di una definizione a carattere operazionale. Essa, infatti, non presenta una descrizione concettuale dei disturbi specifici dell'apprendimento e delle cause da cui essi originano, ma cita invece una serie di criteri che consentono l'individuazione o l'esclusione del disturbo in base alle sue manifestazioni. In secondo luogo, tale definizione si riferisce a un raggruppamento funzionale piuttosto che a sintomi distinti, non fornisce cioè precisi criteri patognomici.
Inoltre, i disturbi citati fanno riferimento ad abilità scolastiche (ad
esempio lettura, scrittura e calcolo) o a funzioni necessarie alla prestazione scolastica (capacità di ragionamento, comprensione ed espressione). Una diagnosi di DSA è quindi formulabile a partire dall'età scolare, anche se in letteratura sono presenti sforzi compiuti per evidenziare in età prescolare i segni di eventuali successivi problemi di apprendimento. Un'ulteriore osservazione riguarda il fatto che un numero ampio di disfunzioni è raggruppato in un'unica definizione diagnostica: da ciò consegue che all'interno del gruppo di individui con DSA esiste una forte disomogeneità determinata dall'eterogeneità delle manifestazioni del disturbo.
Un'ultima osservazione riguarda i criteri di esclusione: la definizione, infatti, non consente di indicare come DSA le situazioni che possono essere associate a deficit sensoriali e motori o all'appartenenza a un ambiente socioculturale svantaggiato. Ciò non significa che bambini con le suddette caratteristiche non possano presentare tali disturbi, più semplicemente essi vengono classificati all'interno di aree problematiche differenti. Le ragioni di tali criteri di esclusione vanno quindi considerate da un punto di vista convenzionale piuttosto che nell'ambito delle cause intrinseche.
La definizione del National Joint Committee on Learning Disabilities
del 1988 (si veda Moats e Lyon, 1993) riscuote il consenso di operatori che
171
B
agiscono in differenti ambiti relativi ai disturbi di apprendimento, e cioè; trattamento, la prevenzione e la programmazione: Learing disabilities è un termine che si riferisce a un gruppo eterogeneo di dir sturbi che si manifestano con significative difficoltà nell'acquisizione e nell'uso di Capacità quali l'ascolto, l'espressione, la lettura, la scrittura, il ragionamento e i calcolo. Tali disordini, che sono intrinseci all'individuo, si presume siano dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale e che possano manifestarsi durante tutto l'arco della vita. Problemi nell'autoregolazione dei comportamenti, nella percezione sociale e nelle interazioni sociali possono coesistere con i disturbi di apprendimento, ma non possono costituire essi stessi una difficoltà di apprendimento. Sebbene le difficoltà di apprendimento possano manifestarsi in concomitanza con altre disabilità (ad esempio, impedimenti sensoriali, ritardo mentale, disturbi sociali ed emotivi) o con altre condizioni estrinseche (come differenze culturali, istruzione insufficiente o inappropriata), esse non sono il risultato di tali condizioni o delle influenze di queste.
Come dicevamo, questa definizione non fornisce (come, del resto, la precedente) criteri precisi per la diagnosi dei disturbi di apprendimento, ma si differenzia dalla prima per la prospettiva rivolta all'individuo in tutto l'arco della sua vita e non solo nella fanciullezza e nell'adolescenza. Tale prospettiva ha importanti ripercussioni sul riconoscimento della presenza di bisogni speciali anche in età adulta, fatto di cui si deve tener conto nell'organizzazione dei servizi che si occupano dell'educazione superiore, dei corsi professionali o di qualsiasi iniziativa di tipo educativo e/o formativo rivolta agli adulti. 2.2. Cause e fattori associati
2.2.1. Le cause I deficit che caratterizzano i DSA hanno origine neurobiologica. Nonostante ciò, è necessario considerare anche alcune variabili che influenzano
il processo di apprendimento: i prerequisiti cognitivi, i prerequisiti affettivi (legati soprattutto alla motivazione), l'esperienza didattica e la qualità dell'ambiente familiare. Dal punto di vista biologico, alcuni studi (si veda ad esempio Galaburda, Sherman, Rosen, Aboitz e Geschwind, 1985; Larsen, Hoien, Lundberg
e Odegaard, 1990) hanno evidenziato differenze nella morfologia cerebrale dei soggetti con dislessia evolutiva. È stato osservato, in modo consistente
fra gli studi, un ridotto volume totale del cervello nelle persone con dislessia evolutiva, ma resta da chiarire se si tratti di una delle condizioni 172
che partecipa alle cause della dislessia o se ne sia una conseguenza. In generale, l'indagine sulle differenze neuroanatomiche non è ancora giunta a risultati conclusivi e gli studi suggeriscono come vi siano ancora dati insufficienti per identificare differenze neuroanatomiche robuste e ben replicate tra controlli e individui dislessici (Ramus, Altarelli, Jednoróg, Zhao e Scotto di Covella, 2018). In molti individui che non presentano il disturbo si riscontrano, infatti, asimmetrie riguardanti le dimensioni di alcune aree dei due emisferi cerebrali. Una di esse interessa la parte che si ritiene coinvolta nei processi fonologici, e cioè il planum temporale dell'emisfero sinistro: in soggetti che non presentano il disturbo quest'area risulta più estesa rispetto alla corrispondente nell'emisfero destro, mentre in alcuni individui con dislessia tale asimmetria non sussiste.
I dati relativi alla familiarità suggeriscono un'origine genetica del disturbo; in base a un'ampia rassegna di studi, Démonet, Taylor e Chaix (2004) indicano ben sei cromosomi (1, 2, 3, 6, 15 e 18) contenenti geni coinvolti nelle difficoltà di lettura. Anche se risulterebbe azzardato spiegare le manifestazioni della dislessia esclusivamente con alterazioni della struttura cerebrale, questi dati rappresentano un'ulteriore prova a favore del coinvolgimento di fattori neurobiologici nei disturbi di apprendimento. Attualmente c'è ampio accordo sulla necessità di adottare modelli interpretativi dei DSA, che li definiscano come frutto dell'interazione tra fattori neurobiologici e ambientali. Il presentarsi o meno di una specifica difficoltà dell'apprendimento dipenderebbe dall'interazione fra caratteristiche genetiche che influenzerebbero la presenza di alcuni fattori di rischio (es.
familiarità per il disturbo), alcuni fattori di protezione (es. buone abilità semantiche), che a loro volta interagirebbero con l'ambiente (es. diverse
strategie didattiche). Il quadro delle risultanti difficoltà sarebbe quindi dovuto all'interazione dei suddetti fattori (si veda Gooch, Snowling e Hulme,
2011).
In questa prospettiva, alcuni fattori genetici, comuni ad altri disturbi, agendo in concerto con altri fattori di rischio genetico e ambientale, potrebbero essere responsabili dello sviluppo di deficit cognitivi, talvolta in comorbilità con altri. L'ipotesi relativa all'eziologia condivisa (de Jong, Oosterlaan e Sergeant, 2006), spiega in questo modo la presenza contestua-
le di più disturbi di apprendimento in uno stesso soggetto. Attualmente è crescente l'interesse per gli endofenotipi sottostanti i disturbi dello sviluppo (Skuse, 2001). Il concetto di endofenotipo si riferisce a un livello intermedio tra il genotipo e il fenotipo e rappresenta l'insieme dei fattori di rischio per i DSA. Per esempio, Snowling (2008) propone che i deficit fonologici siano concettualizzati come un endofenotipo della dislessia, piuttosto che come un marcatore delle difficoltà di lettura, poiché, in alcuni casi, la presenza precoce di tali deficit non comporta necessariamente la comparsa di 173
una dislessia. In alcuni casi, infatti, le difficoltà fonologiche possono essere compensate da altre condizioni che agiscono come fattori di protezione. I modelli eziologici dei DSA che stanno emergendo sono pertanto probabili-
stici e multifattoriali (Pennington, 2006). Il modello in figura 1 rappresenta l'interazione tra i fattori che possono spiegare la presenza di un DSA. Fig. 1 - Interazione tra fattori alla base dei DSA
GENOTIPO
Fattori di
ENDOFENOTIPO
Ambiente
protezione
FENOTIPO
2.2.2. L'ambiente
Lo svantaggio determinato dall'ambiente è senza dubbio un fattore importante nei disturbi di apprendimento, non perché può costituirne la causa (i problemi esclusivamente imputabili all'ambiente non rientrano nella definizione classica dei DSA), ma per il suo effetto aggravante e la sua azione ostacolante il recupero funzionale. Spieghiamo cosa si intende per svantaggio "socioculturale": con questo termine indichiamo una serie di situazioni in cui sia assente o fortemente limitata la ricchezza e la varietà degli stimoli intellettuali in seguito a carenze ambientali di tipo materiale, povertà linguistica, problemi familiari che ostacolano l'educazione e il rap-
porto con la scuola.
2.3. La prevalenza Il DSM-5 (2013) indica una percentuale compresa tra il 5 e il 15% di
individui che presentano il DSA con una maggiore prevalenza fra i maschi. Per quanto riguarda i dati italiani, un rapporto del Miur riporta che la pre-
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senza di alunni con DSA nell'anno scolastico 2016/2017 era dell'1,9% nella scuola primaria, intorno al 5,4% nella scuola secondaria di primo grado e del 4% nella scuola secondaria di secondo grado (Miur, 2018).
Nonostante in Italia a partire dal 2007 sia stato indicato il protocollo diagnostico e i criteri da adottare per la formulazione di una diagnosi di DSA, si registra un margine di variabilità nella prevalenza dovuto anche alla diversa sensibilità degli strumenti utilizzati. Altri fattori che spiegano tale variabilità sono l'età in cui è stata formulata la diagnosi, le possibilità di accesso e di riconoscimento da parte dei Servizi in diverse aree del territorio e la difficoltà, in alcuni casi, di formulare una diagnosi differenziale che consenta di individuare con precisione i DSA e di distinguerli da altri problemi che comportano cadute del rendimento scolastico (si veda tab. 1). Tab. 1 - Sono qui elencate le diverse condizioni che possono determinare un basso rendimento scolastico (Shapiro, 1991)
- Disturbi specifici di apprendimento - Disturbo centrale della comunicazione - Disturbo da deficit dell'attenzione con iperattività - Limitazioni intellettive (disabilità o per inibizione intellettiva) - Perdita progressiva di vista o udito - Disturbi fisici cronici - Deprivazione ambientale - Problemi psichiatrici - Scarsa motivazione
3. I DSA: l'importanza della cornice teorica Come vedremo in seguito, diagnosi e riabilitazione di un disturbo sono spesso guidate dalla teoria di riferimento che spiega il normale funzionamento del meccanismo deficitario. La neuropsicologia cognitiva ha grandemente influenzato lo studio dei disturbi dell'apprendimento indicando come l'attività di funzioni cognitive, quali il linguaggio, la memoria, l'attenzione, ecc., sia scomponibile in componenti deputate a compiti specifici: in questo modo un determinato processo cognitivo risulta dal contributo e dall'integrazione delle suddette componenti. In questa prospettiva, semplificando, la prestazione deficitaria in un compito specifico (la lettura, ad esempio) sarebbe il risultato dell'alterazione di una o più componenti collegate con la funzione in oggetto. Le funzioni cognitive non sono autonome e indipendenti l'una rispetto alle altre; esse si integrano e si influenzano reciprocamente dando luogo ai processi di elaborazione delle informazioni. 175
Consideriamo ora il modo in cui le componenti deficitarie evolvono e le conseguenze per lo sviluppo delle diverse abilità: un contributo importante a tale tematica ci è fornito dal neurocostruttivismo. Tale approccio assume che il cervello sia dinamico e che si strutturi in interazione con l'ambiente (Westerman, Mareschal, Johnson, Sirois, Spratling e Thomas, 2007). Come detto sopra, gli stessi geni interagiscono con l'ambiente e la loro espressione cambia in funzione dell'input ambientale. Il neurocostruttivismo presenta implicazioni importanti soprattutto per l'individuazione delle cause dei disturbi e per il concetto di specificità degli stessi disturbi (Karmiloff. Smith, 1998). Secondo tale prospettiva, non esistono disturbi evolutivi che colpiscono selettivamente un'abilità, poiché se è presente un deficit in età precoce, esso potrebbe influenzare alcuni domini più di altri, ma l'intero sistema comunque ne subirà l'influenza. Rispetto ai DSA, l'approccio neurocostruttivista prevede che si debbano identificare i deficit molto precocemente e che gli esiti a lungo termine negli altri domini della conoscenza debbano essere monitorati con un approccio longitudinale. Rispetto a ciò, assumono particolare importanza le attività di prevenzione dei disturbi e delle difficoltà di apprendimento. Ma quali sono le funzioni cognitive maggiormente implicate nei distur-
bi di apprendimento? Nei paragrafi successivi illustreremo, i modelli di sviluppo, il funzionamento e le manifestazioni deficitarie relative ad abilità specifiche delle competenze scolastiche. La nostra trattazione non vuole essere esaustiva, ma si propone di fornire un quadro generale su alcuni aspetti, che riteniamo gli educatori e gli operatori scolastici in genere deb bano conoscere. Faremo riferimento, in particolare, alle capacità di lettura (decodifica e comprensione), di scrittura e, infine, di calcolo.
3.1. L'apprendimento della lettura e della scrittura Il modello che spiega la lettura negli adulti è stato elaborato tenendo presenti le caratteristiche della lingua inglese e prevede essenzialmente tre tipi di processi (o vie) che vengono attivati a seconda delle richieste del compito: come illustrato nella figura 2, il primo prevede il passaggio attraverso il sistema semantico e di corrispondenza lessicale (via n. 1), il secondo attiva l'immagine fonologica della parola senza il contributo del sistema semantico (via n. 2), il terzo, infine, prevede il solo intervento del sistema di conversione grafema-fonema (via n. 3). Attraverso quali tappe evolutive l'individuo giunge al sistema di funzionamento descritto? In letteratura sono stati presentati alcuni modelli che illustrano l'apprendimento della lettura e della scrittura (si vedano, ad esempio Frith, 1985; Seymou e MacGregor, 1984; per una rassegna si veda Bozzo, Pesenti, Siri, Usai e 176
Fig. 2 - È illustrato un modello funzionale semplificato dei processi coinvolti nel riconotoimento delle parole. Nel sistema di analisi visiva avviene il riconoscimento de riconoastratta delle lettere e l'identificazione della loro posizione all'interno di ciascuna naIo la: il lessico visivo d'entrata è una sorta di masazzino che contiene la rappresentazione delle forme scritte di tutte le parole conosciute dall'individuo, mentre il lessico fonemio d'uscita ne contiene la rappresentazione fonologica. Nel sistema semantico sono orgarizzati i significati. Il sistema di conversione grafema-fonema attiva nel successivo buffer di risposta (da alcuni autori identificato come livello fonologico) i fonemi corrispondenti alle lettere riconosciute nel sistema di analisi visiva. Il buffer di risposta è una sorta di magazzino di memoria a breve termine in grado di contenere la sequenza dei fonemi per l'intervallo di tempo necessario all'articolazione delle parole Parola scritta
[Sistema di analisi visiva
Lessico visivo d'entrata Sistema semantico
Conversione grafema-fonema Lessico fonemico d'uscita
Buffer di risposta
Parlato
Zanobini, 2000). Essi, sostanzialmente, individuano tre stadi evolutivi: lo stadio logografico in cui è ignorato l'ordine delle lettere e il loro valore fonologico, il processo di riconoscimento delle parole è globale e istantaneo, risultando simile a quello impiegato nella produzione e riconoscimento di figure; lo stadio alfabetico, in cui l'approccio alla lettura da globale diventa sistematico con i processi di conversione grafema-fonema e si acquisisce, quindi, la conoscenza delle forme visive e motorie dei singoli grafemi e delle loro correlazioni con il linguaggio parlato (corrispondenza fonemagratema e viceversa); lo stadio ortografico, in cui si sviluppa la conoscenza delle regole per la conversione di più unità grafemiche (morfemi) in fonemi, le parole giungono ad avere una rappresentazione mentale astratta, 177
⑲
sono considerate come unità ortografiche e non è quindi più necessaria la Conversione fonologica. In ultimo, le capacità acquisite si integrano e dan. no luogo al riconoscimento delle parole in assenza dei processi di conver. sione fonema-grafema. Secondo quanto riportato da Elis (1993), i bambini di 4.5 anni riconoscono le parole scritte come se fossero un oggetto, una
figura. Essi basano tale capacità sul patrimonio verbale acquisito fino a quel momento e sono in grado di riconoscere parole familiari in base a specifiche caratteristiche visive (ad esempio, la parola "giallo" potrebbe essere riconosciuta per la sua brevità e per la presenza di due segmenti gemelli). Gli errori riguardano parole non conosciute che spesso vengono sostituite con parole conosciute perché visivamente somiglianti. Verso i 6-7 anni, comincia a essere appresa la corrispondenza fonema-grafema: solo così il bambino è in grado di leggere parole che non conosce. Verso i 7-8 anni comincia a consolidarsi un vocabolario interno, il lessico visivo d'entrata, e, successivamente, le regole che governano la complessità della corrispondenza fra grafema e fonema, contenute nel lessico fonemico d'uscita: il bambino diventa un lettore esperto man mano che i nuovi vocaboli entrano nel lessico visivo d'entrata e nel lessico fonemico d'uscita e che i corrispondenti significati vengono immessi nel sistema semantico. I successivi sviluppi del sistema, ormai completo delle sue componenti, riguardano l'efficienza e la velocità dei processi che conducono all'automatizzazione
della lettura. L'apprendimento e le caratteristiche della prestazione in scrittura non sono influenzate solo dagli aspetti di elaborazione lessicale e fonologica, ma sono legati anche alle caratteristiche della rappresentazione grafemica (Caramazza e Miceli, 1990), ove con questo termine si intendono una serie di aspetti strutturali legati al grado di complessità con cui è rappresentata la lingua scritta: l'identità della lettera come consonante (c) o vocale (v), la struttura delle stringhe di lettere (evev, cvv, vcev, ecc.), il numero di lettere (consonanti o vocali singole, doppie e associate). In uno studio effettuato sulla lingua italiana per valutare lo sviluppo dell'organizzazione grafemica della lingua scritta, Usai e Bozzo (1998) hanno verificato come sia precoce l'identificazione dello status di consonante o vocale, nel senso che i
bambini tendono a commettere errori di sostituzione all'interno delle due categorie, sostituendo cioè più frequentemente consonanti con consonanti e
vocali con vocali. Il consolidamento di tale acquisizione si conclude entro il primo anno della scuola primaria, mentre le competenze relative all'or ganizzazione della parola (ordine e numero di lettere) risultano di più lenta acquisizione e fino al termine della quinta permangono difficoltà legate alle strutture più complesse, quelle cioè in cui sono presenti consonanti o vocali associate.
178
La scrittura è un atto compositivo complesso che richiede la specializzazione di differenti processi la cui integrazione dà luogo a elaborazioni di notevole complessità. Apprendere a scrivere non è quindi semplice e necessita di tempi lunghi in cui le abilità si perfezionano gradualmente. A partire dall'età prescolare sono state individuate una serie di competenze specifiche per la scrittura, relative alla capacità di elaborare forme di scrittura simili all'ortografia convenzionale, che compongono un fattore indicato come capacità notazionale. Tale fattore risulta distinto da altri predittori dell'apprendimento della lettura, come la competenza metafonologica, e fornisce un contributo unico e superiore a spiegare l'apprendimento della scrittura nella scuola primaria (Pinto, Bigozzi, Accorti Gamannossi e Vezzani, 2008; 2009).
Spesso, nel corso dello sviluppo, si presentano problemi che ritardano o bloccano il consolidamento di alcune capacità. I modelli a due vie, inizialmente elaborati per la lettura, sono stati estesi anche alla scrittura. Il problema che spesso ci si pone è se tali modelli elaborati per una lingua con ortografia opaca come l'inglese risultino universali, validi cioè in altri contesti linguistici, ad esempio nel caso di lingue con ortografia trasparente come l'italiano. Alcuni studi effettuati sulla lingua scritta hanno in parte confermato l'applicabilità del modello a due vie nella lingua italiana (si veda per es. Angelelli, Judica, Spinelli, Zoccolotti e Luzzatti, 2004), anche se le differenze linguistiche impongono una certa cautela nel trasferire i modelli elaborati sulla base della lingua inglese (si veda per es. Bozzo, Zanobini, Usai e Siri, 1997). La letteratura è concorde sul fatto che la velocità con cui i bambini imparano a leggere dipenda dalla struttura sillabica della lingua e dalla trasparenza della sua ortografia (si veda per es. Goswami, 2008). Per esempio, i bambini italiani sono facilitati dal fatto che la nostra lingua sia caratterizzata da una struttura ortografica semplice (CV) e da un'alta consistenza fra lettere e suoni. Tali aspetti, sebbene importanti nel caso di una lingua con la struttura ortografica dell'italiano, non sono gli unici a influenzare il modo in cui i bambini apprendono a leggere e scrivere: Zoccolotti, De Luca, Di Filippo, Judica e Martelli (2008) indicano evidenze del funzionamento dei processi lessicali già alla fine della prima elementare, con parole ad alta frequenza d'uso, e alla fine della terza anche con parole a bassa frequenza d'uso. Per quanto riguarda l'accuratezza, i cambiamenti più sostanziali si evidenziano tra la prima e la seconda classe della scuola primaria. Infatti, la corrispondenza fra lettere e suoni e fra grafemi e fonemi, vale a dire fra unità alfabetiche relative a un singolo suono (es. /n/ per "gn" e /K/ per "gl*), è appresa nel corso del primo anno della scuola primaria. 179
3.1.1. La dislessia e la disortografia
Da un punto di vista eziologico, i disturbi di lettura (dislessie), a cui
sono spesso associati disturbi di scrittura (disortografie e disgrafie), possono essere distinti in dislessie acquisite ed evolutive. I disturbi acquisiti sono generalmente la conseguenza di un insulto cerebrale che danneggia i meccanismi funzionali percettivo/linguistici maturi. Si tratta di disturbi circoscritti, in cui una funzione subisce un danno e le possibilità di recupero della suddetta dipendono spesso dall' instaurarsi di meccanismi compensatori. I disturbi acquisiti possono caratterizzarsi per le manifestazioni legate al deficit selettivo di uno dei processi sopra descritti (la conversione grafema-fonema, l'attivazione della conoscenza lessicale e/o di quella semantica) o delle loro sottocomponenti. Lo studio di pazienti che riportano problemi di lettura ha consentito di descrivere principalmente due forme di dislessia acquisita: la dislessia (disgrafia) superficiale e la dislessia (disgrafia) fonologica. La prima è caratterizzata da un disordine che colpisce l'accesso o la rappresentazione della conoscenza specifica delle parole. Non essendo possibile il recupero delle informazioni di tipo lessicale, le parole conosciute sono elaborate come stringhe di lettere sconosciute: sono così
presenti difficoltà nella lettura di parole irregolari, errori di accentazione e problemi di lettura, scrittura e comprensione di parole omofone non-omografe (ad esempio, l'una-luna, l'ascia-lascia, ecc.), problemi questi attribuibili all'utilizzo della sola via fonologica. La dislessia fonologica, invece, è caratterizzata da una maggiore difficoltà a leggere stringhe di lettere senza significato (non parole) e parole non conosciute a causa di un deficit che interessa i processi di conversione grafema-fonema. La dislessia evolutiva è un disturbo specifico che riguarda l'acquisizione del codice scritto e si manifesta con difficoltà nella correttezza e nella rapidità della lettura. L'International Dyslexia Association (2003) definisce la dislessia evolutiva come una: disabilità specifica dell'apprendimento di origine neurobiologica. Essa è caratterizzata dalla difficoltà di effettuare una lettura accurata e/o fluente e da abilità scadenti nella scrittura e nella decodifica. Queste difficoltà tipicamente derivano da un deficit nella componente fonologica del linguaggio che è spesso inattesa in rapporto alle altre abilità cognitive e alla garanzia di un'adeguata istruzione scolastica. Conseguenze secondarie possono includere i problemi di comprensione nella lettura e una ridotta pratica della lettura che può impedire la crescita del vocabolario e della conoscenza generale (Lyon, Shaywitz e Shaywitz, 2003).
Nella popolazione italiana la dislessia si presenta con lettura ad alta voce molto stentata e lenta in presenza di un quoziente intellettivo nella norma; a queste difficoltà possono associarsi difficoltà ortografiche nella
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scrittura e difficoltà con il sistema dei numeri e del calcolo. In tali quadri si possono riscontrare difficoltà di comprensione del testo, difficoltà nel linguaggio orale, instabilità motoria e disturbi di attenzione. L'espressione di tale disturbo si modifica nel tempo. Al termine della prima classe della scuola primaria i dislessici italiani presentano un profilo caratterizzato da (Consensus Conference, 2007): a) difficoltà nell'associazione grafema-fonema e/o fonema-grafema; b) mancato raggiungimento del controllo sillabico in lettura e scrittura; c) eccessiva lentezza nella lettura e scrittura;
d) incapacità a produrre le lettere in stampato maiuscolo in modo ricono-
scibile. Le prime manifestazioni della dislessia, all'inizio della scuola primaria, consistono infatti in difficoltà e lentezza nell'acquisizione del codice alfabetico e nella applicazione delle corrispondenze tra lettere e suoni e viceversa, nel controllo limitato delle operazioni di analisi e sintesi fonemica con errori che alterano in modo grossolano la struttura fonologica delle parole lette o scritte; in un limitato o assente accesso lessicale, anche quando le
parole sono lette correttamente. A questo livello d'età, la capacità di lettura si esplica come riconoscimento di un numero limitato di parole note. Successivamente nel corso della scuola primaria si assiste a una graduale acquisizione del codice alfabetico e delle corrispondenze grafema-fonema che non sono pienamente stabilizzate; permangono difficoltà nel controllo
delle "mappature" ortografiche più complesse; l'analisi e la sintesi fonemica restano operazioni laboriose e scarsamente automatizzate; migliora l'accesso lessicale, anche se resta lento e limitato alle parole più frequenti. Nella scuola secondaria di primo grado, i dislessici raggiungono una padronanza quasi completa del codice alfabetico e si stabilizzano le corrispondenze grafema-
fonema; l'analisi, la sintesi fonemica e l'accesso lessicale cominciano ad automatizzarsi, almeno con le parole di uso più frequente; permangono difficoltà relative a un limitato accesso al lessico ortografico, una scarsa integrazione dei processi di "decodifica" e "comprensione"; complessivamente, la lettura può diventare piuttosto corretta, ma rimane lenta.
Alcuni lavori approfondiscono l'evoluzione naturale delle capacità di lettura nella lingua italiana e mostrano un quadro in parte sovrapponibile a quello evidenziato in studi precedenti (Stella, Faggella e Tressoldi, 2001), indicando come, con il progredire della classe, le differenze tra dislessici e normolettori per quanto riguarda la velocità di lettura si riducono, mentre aumentano nell'accuratezza (Campanini, Battafarano e lozzino, 2010). Nel brano e nella
lista di parole, il rapporto tra la velocità di lettura dei normolettori e quella dei dislessici frequentanti la seconda classe della scuola primaria è di circa 3:1, mentre si riduce a 2:1 tra i normolettori e i dislessici frequentanti l'ultimo anno della scuola secondaria di primo grado. Nella lettura di non parole il
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suddetto rapporto tende ad aumentare con il progredire della classe. Gli autori ipotizzano che con lo sviluppo i dislessici utilizzino strategie compensative,
basate per esempio sull'utilizzo del contesto semantico o sull'utilizzo di un magazzino lessicale che va via via arricchendosi. Tali strategie, però, non sostengono i dislessici quando si tratta di attivare esclusivamente i processi di decodifica, come richiesto dal compito di lettura di non parole. I dati sulla comprensione, indicano come i dislessici tendano a peggiorare con l'età.
I problemi evolutivi relativi alla lettura e alla scrittura risultano persistenti nel corso degli anni scolastici e anche oltre (Maughan, Messer, Collishaw, Pickles, Snowling, Yule e Rutter, 2009). Tali difficoltà tendono a
essere piuttosto stabili a partire dall'adolescenza. I motivi di ciò si possono comprendere se si considera che l'esposizione alla lingua scritta costituisce un importante predittore dei precoci progressi in lettura (Cunningham
e Stanovich, 1997); come riportano Maughan et al. (2009), l'esposizione continua a esperienze educative e le sollecitazioni all'utilizzo della lingua scritta nel posto di lavoro sono associate a progressi continui nella capacità di comprensione in lettura. Inoltre, la presenza di difficoltà di lettura influenza la scelta delle attività, così, per esempio, i cattivi lettori, in genere, evitano le situazioni in cui sono richieste competenze alfabetiche di alto livello e sono più propensi a scegliere passatempo che non richiedono l'impiego della letto-scrittura (Snowling, Muter e Carroll, 2007). Così, mentre durante l'infanzia l'esposizione alla letto-scrittura è principalmente dovuta a fattori normativi (tutti i bambini devono andare a scuola), successivamente, quando gli individui hanno maggiore libertà di scegliere le attività da svolgere, il ruolo dei fattori genetici riacquista una posizione rilevante nel caratterizzare le manifestazioni di difficoltà. Considerato il ruolo giocato dall'esposizione alla lingua scritta, gli autori indicano come sia importante sollecitare negli adolescenti con difficoltà di lettura la motivazione a continuare a esercitare le abilità di letto-scrittura, poiché ciò risulta vantaggioso. 3.1.2. I problemi di comprensione del testo Le problematiche relative alla comprensione del testo possono presentarsi in associazione ai disturbi di lettura, come frequentemente accade, o manitestarsi in conseguenza di altri deficit cognitivi: per esempio, un deficit alla memoria di lavoro potrebbe compromettere l'elaborazione degli aspetti morfologici (Smith-Lock e Rubin, 1993) importanti per la comprensione di un testo 0 una difficoltà a livello metacognitivo potrebbe ostacolare la messa in atto di strategie funzionali ai processi di comprensione. Negli ultimi anni, tuttavia, i stata evidenziata la possibilità che vi sia un disturbo specifico della compren-
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sione del testo indipendente dal disturbo della decodifica (Bishop e Snowling,
2004). La letteratura internazionale indica gli individui che presentano tale disturbo come poor comprehenders, mentre in Italia sono indicati come cattivi lettori (Carretti, Cornoldi e De Beni, 2007). Tali individui presentano difficoltà a livello sintattico e semantico a fronte di adeguate abilità fonologiche.
I problemi riscontrati in tali individui sono per certi aspetti sovrapponibili a quelli presenti nel disturbo specifico del linguaggio, che spesso viene segnalato nella storia clinica di tali individui. I principali manuali diagnostici (DSM-5 e ICD 10) non riconoscono come specifico e indipendente da altri DSA il disturbo della comprensione del testo e per questo motivo i servizi di diagnosi e cura tendono ad assimilarlo ad altri disturbi della lettura.
3.2. Il calcolo e la discalculia L'apprendimento della matematica costituisce un'area critica, caratterizzata da un'alta percentuale di insuccessi. Si stima che circa il 20% dei bambini incontrino problemi (Lucangeli e Cornoldi, 2007), anche se solo una più ristretta percentuale di questi manifesta un vero e proprio disturbo (per una rassegna sullo sviluppo della conoscenza numerica si veda Lucangeli e Tressoldi, 2002). L'architettura funzionale del sistema del calcolo (McCloskey, Caramazza e Basili, 1985; Miceli e Capasso, 1991) distingue il sistema responsabile dell'elaborazione dei numeri da quello preposto all'elaborazione del calcolo. Il primo si articola in due processi indipendenti, uno di comprensione e uno di produzione, deputati rispettivamente all'elaborazione dei numeri in ingresso e in uscita. Ciascuno di essi consta di un meccanismo lessicale, relativo all'elaborazione delle singole cifre, e di un meccanismo sintattico, relativo alla struttura complessiva del numero. Il meccanismo lessicale elabora le cifre rappresentate secondo due codici: il codice verbale (la parolanumero), che consente la rappresentazione fonologica e quella grafemica, e il codice arabo, relativo alla sola rappresentazione grafemica. I sistemi di comprensione e di produzione dei numeri regolano, rispettivamente, l'accesso e l'uscita al sistema del calcolo. Quest'ultimo è deputato all'elaborazione dei segni matematici e delle operazioni, comprende inoltre le procedure di calcolo e il magazzino dei fatti aritmetici. Tale magazzino contiene una serie di conoscenze relative al calcolo e alle combinazioni numeriche cui è possibile accedere direttamente (ad esempio, le tabelline). Dal punto di vista evolutivo, alcuni studi hanno evidenziato come l'esercizio rivesta una notevole importanza sull'automatizzazione dei processi che coinvolgono tale magazzino (Ashcraft e Fierman, 1982). 183
Eventuali disturbi evolutivi del calcolo possono riguardare i processi
di comprensione e produzione dei numeri, interessando sia l'elaborazione delle cifre prese singolarmente - ad esempio, la sostituzione di una cifra all'interno di un numero (117 invece di 127) - sia la struttura del numero (172 invece di 1072); inoltre, possono risultare compromessi i processi relativi al calcolo, con deficit d'identificazione dei segni matematici, errori nelle procedure di calcolo (ad esempio, nell'incolonnamento delle cifre) e generale lentezza nell'esecuzione dovuta anche alla portata ridotta del ma-
a onvд
gazzino dei fatti aritmetici. Von Aster e Shalev (2007) ipotizzano un modello evolutivo della cognizione numerica a quattro stadi gerarchicamente organizzati. Tale modello postula un primo stadio in cui la rappresentazione delle grandezze cardinali e le relative funzioni di approssimazione e subtizing, costituiscono una componente innata che fornisce le basi per il senso del numero. Questa è una precondizione necessaria affinché i bambini imparino ad associare un numero percepito di oggetti o eventi con simboli quali i nomi dei numeri, la forma scritta di tali nomi e la rappresentazione in numeri arabi. Seguendo il modello di ridescrizione rappresentazionale di KarmiloffSmith (1992), gli autori ipotizzano una ridescrizione delle rappresentazioni dello stadio 1 in forma linguistica (stadio 2) e in forma arabica (stadio 3), che costituisce a sua volta una precondizione per lo sviluppo di una linea dei numeri mentale (stadio 4) in cui l'ordinalità è rappresentata come un secondo nucleo fondamentale (acquisito) del numero. Secondo questo ap-
proccio, si distinguono due forme di discalculia, la prima indicata come discalculia evolutiva che è conseguenza di un problema nello sviluppo del primo stadio. I nomi dei numeri in questi casi possono essere appresi, ma a essi non corrisponde una conoscenza delle relative quantità. Secondo questo approccio, l'altro tipo di dislessia è dovuto a problemi che intervengono negli stadi successivi e che possono dar luogo a disturbi della cognizione numerica e del calcolo. I questi casi la discalculia si presenta in comorbidi-
tà con altre manifestazioni. Nel DSM-5 la discalculia è indicata come "Disturbo specifico dell'apprendimento con compromissione del calcolo" e include difficoltà nel concetto di numero, nella memorizzazione dei fatti aritmetici, nell'accuratezza e nella fluenza del calcolo e nel ragionamento matematico. Alcune manifestazioni principali della discalculia sono: - incapacità di comprendere i concetti di base di particolari operazioni, - mancanza di comprensione dei termini o dei segni matematici; mancato riconoscimento dei simboli numerici; - difficoltà ad attuare le manipolazioni aritmetiche standard; - difficoltà nel comprendere quali numeri sono pertinenti al problema aritmetico che si sta considerando;
-
184
- difficoltà ad allineare correttamente i numeri o ad inserire decimali o simboli durante i calcoli; scorretta organizzazione spaziale dei calcoli;
incapacità ad apprendere in modo soddisfacente le "tabelline" della moltiplicazione. 3.3. Aspetti emotivo-motivazionali associati ai DSA
Le ricorrenti esperienze fallimentari in cui si imbattono i bambini con DSA nello svolgimento delle attività scolastiche hanno importanti ripercussioni non soltanto sul piano delle abilità cognitive, ma anche dal punto di vista psicologico perché influenzano le convinzioni e i sentimenti che ciascun individuo prova nei confronti di se stesso. Per contro, alcune caratteristiche individuali possono contribuire all'emergere di atteggiamenti
disfunzionali all'apprendimento. Alcuni aspetti come la concezione dell'intelligenza, la motivazione, lo stile attributivo e l'autostima influenzano l'atteggiamento che gli individui hanno nei confronti dell'apprendimento. Se si considera per esempio la concezione dell'intelligenza, il fatto di pensare alle proprie capacità intellettive come a qualcosa di stabile, determinato alla nascita e non modificabile può indurre a un atteggiamento passivo rispetto all'apprendimento, contrariamente a quanto accade se si ritiene di possedere un'efficienza intellettiva migliorabile con l'esperienza o l'impegno. Tali concezioni spontanee dell'intelligenza, descritte da Dweck (2000) rispettivamente come teoria entitaria e incrementale dell'intelligenza, influenzerebbero la motivazione nei confronti dell'apprendimento: in particolare,
gli individui caratterizzati da una teoria entitaria sono spinti ad agire da obiettivi di prestazione, focalizzati sull'esito dell'azione. Questi individui sarebbero spinti a ottenere giudizi positivi e a evitare giudizi negativi. D'altra parte, coloro che sono caratterizzati da una concezione incrementale dell'intelligenza, tendono a perseguire obiettivi di apprendimento focalizzati sullo sviluppo delle capacità e l'incremento delle competenza. Secondo Carol Dweck, perseguire obiettivi di prestazione rende più esposti al rischio di fuga dal compito quando si dubiti delle proprie abilità o quando si riceve un riscontro negativo. Al contrario, l'essere focalizzati su obiettivi di apprendimento rinforza la motivazione a impegnarsi per acquisire maggiori capacità.
Tra gli aspetti che influenzano l'atteggiamento degli individui nei confronti dell'apprendimento vi è lo stile attributivo, che possiamo definire
come l'insieme delle cause a cui si attribuisce un successo o un insuccesso
come per es. la fortuna, la facilità di un compito, l'impegno, ecc. (Weiner, 1985). Le cause differiscono sulla base di tre dimensioni psicologiche: la 185
d
causa dipende dall'individuo o da qualcosa al suo esterno (locus interno o esterno)? E stabile o instabile? È controllabile o incontrollabile? La com. binazione di queste caratteristiche da luogo ad atteggiamenti più o meno favorevoli in caso di una difficoltà dell'apprendimento; in particolare, Moè e De Beni (2002) individuano due stili particolarmente svantaggiosi poiché entrambi inducono a un atteggiamento passivo nei confronti dei fallimenti:
lo stile impotente che è tipico negli individui che ritengono di non avere abilità sufficienti ad affrontare le situazioni, di "non essere portati" e che quindi finiscono per cogliere nell'ambiente le conferme a questa convinzione e a non impegnarsi per modificare gli eventi. Altrettanto negativo è lo stile pedina, che induce a un atteggiamento fatalista per cui si riesce o si
fallisce per caso. L'altro aspetto che si rivela cruciale nell'influenzare il rendimento scolastico e quindi i processi di apprendimento è l'autoefficacia, che si riferisce all'insieme di giudizi formulati da un individuo sulla propria riuscita, in particolare in ambito scolastico. Tale aspetto dell'autostima influenza direttamente i risultati scolastici, specie se si considerano periodi critici come le transizioni scolastiche (Zanobini e Usai, 2002; Usai e Zanobini, 2003). Gli aspetti sopra descritti sono stati considerati congiuntamente da Baird, Scott, Dearing e Hamill (2009) in uno studio volto a esaminare la possibilità che gli individui con DSA siano caratterizzati da specifiche modalità di autoregolazione cognitiva che possono aggravare i disturbi dell'apprendimento. Gli autori hanno rilevato che tali individui sono caratterizzati da strategie disfunzionali nei confronti dell'apprendimento come evitare le sfide, sperimentare emozioni negative, esibire bassa persistenza e abbandono del compito, decremento dei livelli di prestazione in relazione ai fallimenti. In particolare, tali individui sono caratterizzati da un basso concetto di sé circa la riuscita scolastica, da una concezione
entitaria della propria intelligenza, da obiettivi di prestazione e non di apprendimento: tali individui provano quindi un senso di sfiducia nei confronti delle proprie capacità, sono convinti di non poter migliorare e affrontano le attività con un'attenzione esclusiva al risultato. Gli autori raccomandano di tener conto di ciascuno di questi aspetti nell'intervento
sui DSA.
In generale, eventi non evitabili e incontrollabili determinano una parti-
colare reazione comportamentale caratterizzata da passività e incapacità ad apprendere con risposte di fuga o evitamento. Peterson (1992) ha descritto il fenomeno della learned helplessness (letteralmente, "impotenza appresa") nell'ambito dei problemi scolastici. La percezione dell'incontrollabilia
degli eventi, della stabilità e dell'immodificabilità delle situazioni e, infine, l'attribuzione di tali percezioni alla globalità delle attività sono segni 186
inequivocabili della presenza di questa sorta di passività che va sotto il nome di impotenza appresa. Alcuni bambini, per i quali è stata ipotizzata la presenza di una forma di learned helplessness, attribuiscono eventuali fallimenti alla mancanza di abilità, impiegano strategie inefficaci nell'esecuzione dei compiti proposti, esprimono sentimenti negativi (pessimismo) e sono caratterizzati da un'eccessiva attività ruminativa su argomenti itrilevanti. In generale, in letteratura si suggerisce che tale tipo di reazione possa essere responsabile dello stabilizzarsi di alcune situazioni problemafiche e per tale ragione deve essere preso in considerazione il peso che tali manifestazioni hanno.
4. Indicatori precoci, diagnosi e intervento 4.1. Segnali precoci e fattori di rischio La Consensus Conference (2011) sottolinea l'importanza di cogliere i primi segnali che precedono le manifestazioni di un DSA e raccomanda di raccogliere un'attenta anamnesi per raccogliere informazioni circa la presenza di eventuali fattori di rischio. Tra i fattori di rischio aumentato di DSA è indicata la presenza di due o più anestesie generali successive al parto, subite prima del quarto anno di vita. Le evidenze indicano un incremento del rischio del 60% per i bambini che ricevono due anestesie generali e del 160% per i bambini che ne ricevano tre o più. L'appartenenza al genere maschile comporta un rischio 2,5 volte superiore di sviluppo della dislessia. Anche una storia genitoriale di alcolismo o di disturbo da uso di sostanze, soprattutto in preadolescenti maschi tra i 10 e i 12 anni comporta un rischio aumentato di DSA, così come l'esposizione prenatale alla cocaina, anche se in questo caso le evidenze non sono forti.
Altri indicatori di rischio dei DSA sono individuati per esempio in
difficoltà nelle competenze comunicativo-linguistiche, motorioprassiche,
uditive e visuospaziali in età prescolare. Un fattore di rischio per i DSA e in particolare per la dislessia è la presenza di difficoltà nello sviluppo linguistico. Nei bambini con difficoltà di lettura sono presenti pregresse difficoltà linguistiche in misura significativamente superiore rispetto alla
popolazione dei normolettori. In particolare, la presenza di un disturbo del linguaggio che comporta la caduta al di sotto del 10° centile in più di una prova di sviluppo del linguaggio in bambini di 5 anni che mantengono tale livello di prestazione a 8 anni rappresenta un rischio aumentato di sviluppo di dislessia. Tali bambini si trovano esposti a un rischio sei volte superiore di presentare successivamente la dislessia. Le difficoltà riscontrate possono
187
riguardare tanto gli aspetti fonologici del linguaggio, quanto gli aspetti
Inerenti lo sviluppo del vocabolario e della grammatica (si veda per es, Snowling, Bishop e Stothard, 2000).
La presenza di una difficoltà in tali aree diventa più significativa rispetto alla probabilità di comparsa di un DSA, soprattutto se nella famiglia del bambino altri individui hanno avuto una storia di disturbi dell'apprendimento. Un'importante lavoro sui fattori di rischio dei DSA (Puolakanaho et al., 2007) ha preso in considerazione un campione di bambini finlandesi seguiti dai 3,5 fino agli 8 anni e ha rilevato come un bambino che abbia nella sua famiglia un genitore con dislessia ha una probabilità di presentare il disturbo quattro volte superiore a chi non abbia
familiarità per il disturbo. Accanto alla familiarità per i disturbi di apprendimento e alla presenza di un disturbo del linguaggio, vi sono specifiche abilità che misurate in età prescolare, risultano predittori della successiva competenza in lettura. Una rassegna sistematica indica come la conoscenza dei fonemi, delle rime, delle lettere, la velocità di denominazione (RAN) siano asso-
⑲ BERGAMO
ciate alla successiva capacità di riconoscimento delle parole e come queste stesse variabili insieme al vocabolario, alla competenza grammaticale, alla memoria di frasi e all'intelligenza non verbale siano correlate alla successiva comprensione della lettura (Hjetland, Brinchmann, Scherer e Melby-Lervag, 2018). Alcuni studi hanno cercato di mettere in luce il ruolo di altre capacità, di carattere dominio-generale, che influenzano gli apprendimenti in età scolare. Fra queste abilità vi sono le funzioni esecutive, che possono essere definite come l'insieme dei processi cognitivi alla base dei comportamenti finalizzati complessi. Diverse sono le situazioni in cui sono implicate le funzioni esecutive; tra queste, ad esempio, le azioni che implicano pianificazione e decision making, i comportamenti che richiedono l'esecuzione di una nuova sequenza di azioni, i compiti in cui è necessario un costante monitoraggio del comportamento o dei processi cognitivi in atto, le attività in cui bisogna superare consolidate risposte abituali (Hughes e Graham, 2002). Il ruolo delle funzioni esecutive è stato dimostrato sia nei processi di lettura e comprensione del testo (ad es. Daneman e Carpenter, 1980), sia nella risoluzione di compiti matematici (ad es. Passolunghi e Pazzaglia, 2004; Viterbori, Traverso e Usai, 2017). Più recente è l'ipotesi di considerare le funzioni esecutive emergenti quali predittori dei successivi appren-
dimenti scolastici. Fra tali funzioni, in particolare la memoria di lavoro
sembra influenzare maggiormente gli apprendimenti scolastici. Tale abilità è, infatti, ampiamente coinvolta nelle difficoltà di lettura (Bull, Johnson e Roy, 1999; Chiappe, Hasher e Siegel, 2000; de Beni, Palladino, Pazzaglia
188
e Cornoldi, 1998; de Jong, 1998; Passolunghi, Cornoldi e De Liberto, 1999; Siegel e Ryan, 1989). Una ridotta capacità di memoria di lavoro compro-
metterebbe il mantenimento delle informazioni nuove in ingresso e non favorirebbe l'integrazione di queste con quelle già possedute (Swanson e Beebe-Frankenberger, 2004). Alcuni dati sulla popolazione italiana indicano come le funzioni esecutive misurate a 5 anni siano predittive degli apprendimenti rilevati nei primi tre anni della scuola primaria (si veda per esempio, Viterbori, Usai, Traverso, e De Franchis, 2015; De Franchis, Usai, Viterbori e Traverso, 2017).
4.2. La diagnosi
Secondo le raccomandazioni fornite dalla Consensus Conference (ISS, 2011), il livello di compromissione dell'abilità deve essere significativo rispetto alle prestazioni attese per il livello di scolarità del soggetto e contestualmente il livello intellettivo deve essere entro i limiti della norma; i problemi derivanti dalla compromissione devono avere un impatto negativo importante nell'area dell'apprendimento e dell'adattamento scolastico; inoltre, il disturbo deve essere evolutivo, con manifestazioni che possono modificarsi nel corso dello sviluppo individuale, e può presentarsi in associazione ad altri disturbi (comorbilità). L'identificazione del disturbo prevede un'indagine anamnestica finalizzata anche ad accertare la presenza dei fattori di rischio, con una raccolta di informazioni relativa agli aspetti fisiologici e medici, alle notizie sulla famiglia e alla storia scolastica. Nell'anamnesi sono raccolte informazioni sulla storia personale e familiare dell'esaminato, sullo sviluppo visivo, uditivo e linguistico. La Consensus Conference (ISS, 2011) raccomanda che siano utilizzati questionari per la raccolta di informazioni mediche (peso alla nascita, età gestazionale, anamnesi di otite ricorrente), comportamentali (tempi di attenzione sostenuta), familiari (anamnesi familiare di difficoltà nella lettura, nell'ortografia e nel calcolo; lettura di libri per bambini da parte dei genitori; scolarizzazione della madre biologica), sullo sviluppo psicofisico e sullo sviluppo sociale. In caso di informazioni insufficienti relative a tali aree, lo specialista può indicare ulteriori accertamenti relativi ai criteri di esclusione (es. esame visivo o uditivo, esami neurologici).
Fondamentale risulta la valutazione del funzionamento intellettivo e
delle abilità colpite dal disturbo (decodifica e comprensione in lettura, ortografia e grafia in scrittura, numero e calcolo in aritmetica). La valutazione del funzionamento intellettivo è effettuata individualmente con strumenti quali la scala WISC IV (si veda capitolo 5), che consentono di estrapolare informazioni sul profilo cognitivo, di maggiore interesse perché più infor-
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⑧
mativo rispetto al solo livello di QI. In caso di Q1 inferiore a 70 si esclude la possibilità di indicare una diagnosi di DSA. Per quanto riguarda le situazioni in cui il QI sia tra 70 e 85 la situazione, almeno in Italia, è più controversa, In questi casi è presente un funzionamento intellettivo limite, che non costituisce una categoria nosografica, ma una condizione a cui possono
associarsi problemi nell'adattamento e nell'apprendimento. La presenza di questi ultimi può secondo alcuni giustificare la formulazione di una diagnosi di DSA (Vianello e Cornoldi, 2017). Nel caso in cui questo non avvenga, è comunque importante non trascurare il bisogno di supporto che questi individui possono manifestare. Tale bisogno può essere considerato all'interno dei bisogni educativi speciali la cui normativa di riferimento sarà presentata nel capitolo 10. Gli apprendimenti devono essere valutati con strumenti standardizzati e utilizzando precisi parametri. Per la diagnosi di dislessia si suggeriscono le prove di lettura di parole e non-parole. In caso di dislessici adulti e/o compensati, è raccomandata soprattutto alla prova lettura di non-parole. Si suggerisce anche l'impiego della prova di lettura del brano perché risulta utile a rilevare il grado di compromissione nella vita quotidiana (come riportato dal manuale diagnostico ICD 10). Gli indicatori utili a valutare la prestazione sono l'accuratezza e la rapidità di lettura, parametro questo più sensibile dell'accuratezza a evidenziare un disturbo della lettura nelle ortografie trasparenti come l'italiano. Numerosi studi hanno dimostrato come nelle lingue ortograficamente trasparenti la rapidità sia un indicatore della presenza del disturbo, soprattutto dopo i primi anni di scolarizzazione. Eventuali problemi di comprensione a cui sia associata una buona capacità nella decodifica non soddisfano i criteri per la dislessia. Infatti la letteratura evidenzia come la comprensione del testo sia associata a carenze nelle competenze linguistiche non fonologiche (Bishop e Snowling, 2004), seppure chi presenti difficoltà di decodifica può manifestare anche proble-
mi della comprensione del testo. Va tuttavia rilevato che, a oggi (maggio 2019), i manuali nosografici di riferimento (ICD 10 e DSM-5) permettono di utilizzare l'etichetta diagnostica della dislessia in caso di compromissione della comprensione, anche in assenza di disturbo della lettura. Per la diagnosi di disortografia sono suggerite prove di dettato di parole singole (parole e non-parole), insieme a prove di dettato di testo e prove di composizione di frasi o di testo. L'indicatore utile a valutare la prestazione è l'accuratezza; si suggerisce inoltre di effettuare un'analisi qualitativa dell'errore. La valutazione dovra tener conto del momento evolutivo e si dovrà concentrare sui processi di conversione fonema-grafema nella fasi iniziali dell'alfabetizzazione, sulle componenti ortografiche di tipo lessicale
nel corso della scuola primaria. Al termine di questa, si dovrà verificare
190
l'eventuale presenza di errori di conversione fonema-grafema che, se riscontrata in tale momento, rappresenta un elemento diagnostico di particolare gravità del disturbo. Per la diagnosi di discalculia sono raccomandate prove per valutare abilità specifiche, quali i fatti aritmetici, e la padronanza delle abilità relarive a eseguire gli algoritmi di calcolo in addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, di lettura e scrittura di numeri, di confronto di quantità e le abilità di conteggio. E inoltre suggerita la valutazione di competenze come la memoria e le abilità visuo-spaziali, coinvolte nell'acquisizione degli apprendimenti aritmetici. I parametri utilizzati sono l'accuratezza e la rapidità nelle abilità aritmetiche.
Per la rilevazione di tutti i disturbi si deve fare riferimento ai cut-off
stabiliti dall'ICD 10, che indicano come la prestazione debba essere al di sotto delle due deviazioni standard per le misure di velocità e al di sotto del 5° percentile per le misure di accuratezza. Il percorso diagnostico termina con la predisposizione della diagnosi funzionale, che, come abbiamo visto nel capitolo 1, è essenziale per la presa in carico e per l'avvio di un progetto riabilitativo. In tale documento, è presentato il quadro diagnostico relativo alle funzioni deficitarie e a quelle integre. Oltre alla valutazione degli apprendimenti, è di solito presente un approfondimento delle singole abilità alla base dei processi deficitari (eloquio e comprensione linguistica, abilità percettive, prassiche, visuomotorie, attentive, mestiche) e degli aspetti emotivo-relazionali implicati nei processi di apprendimento (es. autostima, stile attributivo). Completa la diagnosi funzionale l'esame dei fattori ambientali (famiglia, scuola) e i suggerimenti relativi all'intervento. Nell'esame del quadro diagnostico, particolare attenzione è riservata alla presenza di comorbilità, vale a dire alla presenza di eventuali altri DSA associati oppure alla compresenza di altri disturbi evolutivi. Occorre sottolineare che per un fenomeno multidimensionale quale il DSA è necessario un approccio diagnostico "multivariato", dove con questo termine indichiamo l'integrazione delle informazioni ottenute da prove diverse: esami diretti ad accertare l'integrità fisica, prove d'intelligenza e prove dirette ad accertare la funzionalità di singole abilità cognitive, prove per accertare l'equilibrio affettivo-emotivo, ecc. L'importanza di una valutazione (o assessment) che risulti il meno settoriale possibile, che non privilegi cioè un solo campo d'indagine ha dirette conseguenze sulla scelta e quindi sul successo dell'intervento. In tabella 2 si illustra il percorso dalla diagnosi alla presa in carico e alla riabilitazione così come suggerito dalla Consensus Conference (ISS, 2011) che auspica siano tenuti in considerazione dalle direttive di cui alla legge n. 170 del 2010.
191
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Tab. 2 - Percorso dalla diagnosi alla presa in carico e alla riabilitazione (Consensus Conference: ISS, 2011)
1. Entro la metà del primo anno della scuola primaria gli insegnanti rilevano, dopo attivi. tà di didattica adeguata, le difficoltà persistenti relative all'apprendimento: -di lettura e scrittura: difficoltà nell'associazione grafema/fonema e/o fonema/grafema: mancato raggiungimento del controllo sillabico (consonante-vocale) in lettura e scrittura: eccessiva lentezza nella lettura e nella scrittura; incapacità a produrre le lettere in stampato maiuscolo in modo riconoscibile;
- di calcolo: difficoltà nel riconoscimento di piccole quantità; difficoltà nella lettura e/o scrittura dei numeri entro il 10; difficoltà nel calcolo orale entro la decina anche con supporto concreto.
2. In presenza di criticità relative a questi indicatori, gli insegnanti mettono in atto gli interventi mirati (attività di potenziamento specifico) descritte nelle raccomandazioni del quesito B3 (in basso a questa tabella) e ne informano le famiglie. 3. Nel caso in cui le difficoltà relative all'apprendimento di lettura e scrittura (descritte al punto 1) persistano anche dopo gli interventi attivati, gli insegnanti propongono alla famiglia la consultazione dei servizi specialistici ai fini dell'approfondimento clinico. 4. Il team specialistico multi-professionale effettua la valutazione, formula la diagnosi e definisce un progetto complessivo di intervento che comunica alle famiglie. Previo accordo con le famiglie, stabilisce i contatti con il personale scolastico ai fini di integrare programmi educativi e interventi specifici. Nell'organizzazione dei servizi, si raccomanda di tenere conto del fatto che il modello che garantisce maggiore appropriatezza e integrazione dei processi di diagnosi, presa in carico e abilitazione/riabilitazione (compresa l'inclusione scolastica ottimale) è caratterizzato dai seguenti elementi: - approccio multidisciplinare in ogni fase del percorso; - collaborazione con le persone e le agenzie che si occupano della salute e dell'educazione del soggetto con DSA (famiglia, insegnanti, scuole, clinici specialisti e pediatri) al fine di promuovere la migliore informazione e sensibilizzazione sul disturbo; - tutte le figure coinvolte sono tenute a mantenere elevato lo standard della loro capacità professionali attraverso adeguati programmi di formazione, training, aggiornamento continuo e informazione; - team clinico deve essere multiprofessionale e multidisciplinare e deve includere tra le figure professionali il neuropsichiatra infantile, lo psicologo e il logopedista. Per i soggetti maggiorenni la figura del neuropsichiatra infantile viene sostituita da quella dello specialista medico formato in modo specifico sull'argomento.
B3. Si raccomanda che in presenza di difficoltà di lettura e ortografia vengano effettuati interventi precoci (fine scuola dell'infanzia, primo anno di scolarizzazione primaria), erogati prevalentemente da insegnanti formati allo scopo e mirati a ridurre il rischio di difficoltà di lettura (velocità e correttezza) e di ortografia Le caratteristiche di questi interventi sono: - le abilità da insegnare devono essere rese esplicite; - devono essere intensivi, con sessioni individuali o in piccoli gruppi di circa 15-30 minuti l'una, possibilmente tutti i giorni e comunque non meno di due volte alla settimana, per un totale di 1-2 mesi; - devono comprendere attività per stimolare lo sviluppo delle deve ose nonio segmentazione persom lare i sviluppo deiabilità de trameta-fonologiche grafemi e fonemi. esercizi per lo sviluppo del lessico e la lettura di testi. SONO DI TUTTI, TRATTAMI BENE
õ* se riconsegni il libro danneggiato
o sottolineato, dovrai ricomprarlo.
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Quando è possibile rilasciare una diagnosi di DSA? Gli esperti suggeriscono di rilasciare una diagnosi di DSA non prima della fine del 2° anno della scuola primaria per la dislessia e il disturbo della scrittura e non prima della fine del 3° anno della scuola primaria per il disturbo del calcolo, poiché il completamento dell'istruzione formale al codice scritto coincide con il completamento del primo ciclo di scuola primaria e poiché è ormai accertata un'ampia variabilità nell'automatizzazione dei processi di decodifica e delle prime procedure di calcolo. Nonostante tale raccomandazione, è possibile formulare ipotesi diagnostiche con momenti di verifica successivi e avviare interventi anche in età più precoce quando i livelli di compromissione rendono molto probabile la presenza di un disturbo. Sebbene dati finora a disposizione non siano sufficienti per sostenere l'efficacia di interventi precoci mirati a ridurre il rischio di difficoltà di calcolo, la letteratura concorda sul fatto che gli interventi volti a sostenere l'apprendimento della lettura e dell'ortografia condotti durante la scuola d'infanzia e/o il primo anno di scuola primaria mostrino nell'immediato un'efficacia di entità moderata (dimensione dell'effetto di circa 0,50). In generale, seguendo l'approccio neurocostruttivista, un intervento precoce sulle componenti deficitarie è auspicabile per prevenire ulteriori difficoltà a cascata sulle abilità successive. Secondo il neurocostruttivismo, infatti, lo sviluppo della cognizione e dei substrati neuroanatomici che la sostengono, dipendono in gran parte dal loro stesso funzionamento (Johnson, 2001) e quindi dalle esperienze cui sono sottoposti gli individui fin dai primi momenti della vita. Nel caso specifico dei DSA o delle difficoltà di apprendimento possono essere utili sollecitazioni specifiche che si inseriscono all'interno dei contesti educativi. Gli esiti ottenuti in seguito a questi interventi (la cosiddetta risposta all'intervento) "costituisce un elemento utile e importante per individuare i soggetti che permangono "resistenti", cioè che non manifestano miglioramenti significativi. Questi soggetti si confermerebbero come maggiormente a rischio, presentando le caratteristiche che raccomandano un invio ai servizi specialistici" (Consensus Conference, ISS, 2011).
Altri interventi utili a migliorare le capacità dominio generali coinvolte nell'apprendimento sono volti a sostenere lo sviluppo delle capacità di autoregolazione e in particolare della regolazione cognitiva in bambini di 4-5 anni (Bodrova e Leong, 2007). Tali programmi mettono in luce come le stimolazioni linguistiche che i bambini ricevono dagli adulti sono particolarmente importanti per lo sviluppo delle funzioni esecutive (Barkley,
1997; Cozzani, Zanobini e Usai, 2016). Infatti, come sostenuto da Johnson e Munakata (2005), nel corso dello sviluppo il linguaggio svolge un ruolo importante nell'integrazione di diversi processi di elaborazione. L'aspet-
lo rilevante di tali programmi è che si propongono di attuare interventi 193
⑲
all'interno dei contesti educativi abitualmente frequentati dai bambini, con Fobiettivo di sostenere lo sviluppo di abilità complesse il cui incremento costituisce un fattore di protezione contro il rischio di sviluppare disturbi autoregolativi implicati nei problemi del comportamento e dell'apprendimento che si rilevano in età scolare. Un esempio di tali interventi è il programma Chicco e Nana distribuito gratuitamente sul sito www.autoregolazione.org, che si è rivelato efficace nel promuovere le funzioni esecutive in bambini frequentanti l'ultimo anno della scuola dell'infanzia (Traverso,
Viterbori e Usai, 2015). Nonostante il grande interesse suscitato dai programmi di potenziamento, occorre precisare che non esistono dati a supporto dell'esistenza di
interventi che riducano il rischio di sviluppare DSA negli individui in cui
sia presente tale rischio (Consensus Conference, ISS, 2011).
L'accresciuta conoscenza dei DSA e gli interventi a disposizione per
sostenere l'apprendimento nelle persone che presentano il disturbo hanno
influenzato la possibilità che un numero crescente di ragazzi con DSA prosegua gli studi. A testimoniare questo fenomeno è il fatto che in quasi tutte le università sono previsti servizi di supporto affinché tali studenti
possano raggiungere i propri obiettivi di apprendimento. Questa situazione ha indotto una maggior richiesta di diagnosi e accertamenti anche in tarda adolescenza ed età adulta, spingendo gli studiosi a interrogarsi sui criteri
e sui metodi da utilizzare con questa fascia di popolazione. Uno studio suggerisce come diversi strumenti diagnostici possano dare esiti diversi confermando o meno la presenza di un disturbo in individui in cui questo sia stato già accertato (Bertolo, D'Agostino e Tressoldi, 2019). Il risultato può dipendere solo in parte dalla diversa sensibilità degli strumenti. Occorre infatti considerare che negli individui con DSA adolescenti o adulti il
disturbo può essersi modificato o compensato anche in seguito a interventi che ne hanno ridotto l'impatto. Alcuni studiosi sottolineano come a fronte di un miglioramento quantitativo, questi individui continuino a manifestare prestazioni alterate nelle situazioni ad alto carico o con materiali più complessi. Nelle verifiche diagnostiche effettuate in questi individui è pertanto
importante accompagnare la lettura degli indici psicometrici con un approccio semiotico in cui si prenda il considerazione anche la storia medica e dello sviluppo, educativa e familiare dell'individuo, le difficoltà di apprendimento, comprese le loro manifestazioni e l'impatto di tali difficolta sul funzionamento adattivo (Cornoldi e Tressoldi, 2014). Lo stesso DSM-5, nel caso di individui con età a partire dai 17 anni, stabilisce che la diagno si può essere rilasciata nel caso di storia di difficoltà di apprendimento invalidanti, anche senza la conferma degli indicatori standardizzati.
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4.2.1. Il concetto di discrepanza Secondo l'ICD 10 (Classificazione internazionale delle malattie, OMS)
è richiesto che il livello delle prestazioni nelle prove di lettura, scrittura o calcolo sia significativamente inferiore a quello atteso in base alla scolarità e
al livello intellettivo. Nel DSM-5 il criterio di discrepanza rispetto al livello intellettivo è stato superato; infatti si specifica che le difficoltà di apprendimento non devono essere giustificate dalla presenza di una disabilità intellettiva. Come riportato dalla Consensus Conference del 2011, il criterio della discrepanza appare discutibile sulla base della letteratura. Per la dislessia e la discalculia si riporta come non vi siano differenze sostanziali nel profilo cognitivo (salvo le differenze nelle prestazioni intellettive) e nella risposta al trattamento tra bambini con difficoltà di apprendimento discrepanti e non di-
screpanti dal livello del QI nella norma. Per tali ragioni, la Consensus Conference raccomanda di considerare con maggiore flessibilità il criterio della discrepanza rispetto al QI ai fini della diagnosi di DSA. Soprattutto nelle condizioni di maggiore complessità intellettiva, in cui vi sia per esempio un OI borderline (compreso tra 70 e 85), è valida la raccomandazione di impiegare strumenti di misura multicomponenziali per la valutazione intellettiva poiché, come già riportato nel pargrafo 4.2, il profilo cognitivo generale è più informativo del semplice livello di QI per la formulazione della diagnosi. 4.3. Intervento
Il trattamento dei disturbi specifici dell'apprendimento comprende tre
tipologie di misure: gli interventi di potenziamento delle capacità, gli
interventi sulla funzione specifica e, infine, le misure compensative e dispensative.
Gli interventi di potenziamento delle capacità sono attività volte a
promuovere lo sviluppo di capacità chiave per l'apprendimento scolastico. Spesso questi interventi si inseriscono nella programmazione didattica per il consolidamento di abilità linguistiche quali la consapevolezza fonologica, il vocabolario, le competenze grammaticali o la cognizione numerica. Tali interventi possono essere rivolti a tutti i bambini e talvolta sono impostati per essere utilizzati in età prescolare, a sostegno dello sviluppo dei precursori dell'apprendimento.
Gli interventi sulla funzione specifica sono attivati nei casi di DSA e generalmente prevedono l'abilitazione delle competenze metafonologiche, metalinguistiche, lessicali, sublessicali, grafiche e ortografiche sia in lettura sia in scrittura; mentre per i disturbi del calcolo l'intervento solitamente è mirato al rinforzo delle abilità di calcolo. 195
d
La Consensus Conference (ISS, 2011) raccomanda di trattare le persone
con diagnosi di dislessia con interventi specialistici mirati al miglioramen-
(O della velocità e della correttezza della lettura. Tali interventi devono
tenere conto delle caratteristiche dell'ortografia della nostra lingua. Si suggerisce inoltre di trattare le persone con diagnosi di dislessia con interveni specifici per migliorare la comprensione del testo. Per la disortografia, non risultano interventi sperimentati in ortografie regolari di cui raccomandare l'applicazione clinica. La letteratura documenta l'efficacia a breve termine
degli interventi volti al recupero delle difficoltà di calcolo e della cono-
scenza numerica e pertanto si suggerisce di trattare le persone con diagnosi
di discalculia con tali interventi. Occorre premettere che ormai c'è ampio consenso sul fatto che i trattamenti centrati sul deficit producano una modificazione del disturbo: gli studi (si veda Tressoldi, lozzino e Vio, 2007) indicano che la plasticità del sistema nervoso centrale è elevata quando gli individui sono stimoltati con trattamenti mirati. Indipendentemente da quale sia l'approccio seguito per l'intervento, alcuni autori sottolineano quali debbano essere i parametri per verificarne l'ef-
ficacia; per quanto riguarda la lettura, Tressoldi, Vio, Lo Russo, Facoetti e Iozzino (2003) suggeriscono di valutare gli effetti del trattamento in termini di aumento della velocità di lettura. Infatti, come abbiamo detto la velocità è il parametro più sensibile in una lingua dall'ortografia trasparente come
l'italiano.
Tra gli interventi disponibili per la popolazione italiana, Tressoldi, lozzino e Vio (2007) verificano l'efficacia di un trattamento delle difficoltà di accuratezza e velocità in lettura attraverso l'automatizzazione del riconoscimento di sillabe inserite in un testo. Gli autori rilevano come ogni ciclo di trattamento abbia provocato un miglioramento della velocità di lettura, come durante i periodi di non trattamento non ci sia stato un cambiamento apprezzabile e, infine, come ripetendo il trattamento ad ogni ciclo si sia verificato un miglioramento progressivo della velocità di lettura. Tale risultato in particolare suggerisce che con cicli multipli di trattamento sia possibile raggiungere un'efficienza nella decodifica sufficiente alla lettura in autonomia. Secondo gli autori, questo risultato farebbe emergere la possibilità che un disturbo si possa modificare in modo così significativo da far sì che questo non costituisca più un impedimento alla lettura. Bigozzi, Bernart e Falaschi (2007) propongono un intervento volto a potenziare le conoscenze lessicali che ha effetti sulla correttezza ortografica: secondo questo approccio, l'aumento delle parole conosciute immagazinate, facendo leva sulla triplice codifica fonologica, semantica e ortografica, rende disponibili durante il compito di scrittura un maggior numero di informazioni relative alla corretta forma ortografica delle stesse parole e 196
rinforza le capacità di coordinare gli indizi ortografici, fonologici e semantici durante la scrittura. Per quanto riguarda la discalculia evolutiva, come riportato da Lucangeli e Tressoldi (2001), l'abilitazione delle abilità di calcolo parte dall'analisi delle tipologie di errore commesse dai bambini direttamente riconducibili al sistema di calcolo:
- errori procedurali e di applicazione di strategie (es. utilizzo di strategie
immature); - errori nel recupero di fatti aritmetici dalla memoria a lungo termine; - difficoltà visuo-spaziali (errori nell'incolonnamento, ecc.). De Candia, Bellio, Tressoldi (2007) valutano l'efficacia di un intervento volto a stabilizzare la transcodifica dei codici, a stabilizzare le conoscenze sulla sintassi del numero, a fornire strategie di calcolo e metodi di stima veloce (meccanismi semantici e strategie di calcolo, stabilizzare le conoscenze sui fatti numerici e rafforzare strategie su calcolo scritto. Dallo studio risulta che, in analogia con quanto avviene per la dislessia, i bambini migliorano soprattutto per quanto riguarda l'accuratezza del calcolo, ma non per la velocità. In genere gli studi dimostrano come il disturbo del calcolo persista e non si risolva con le normali strategie didattiche, soprattutto se l'intervento è tardivo. Ripamonti Riccard, Cividati e Russo (2008), propongono un trattamento che tiene conto dell'evoluzione spontanea delle capacità e si concentra sugli aspetti semantici e lessicali inerenti la quantificazione producendo effetti positivi in termini di velocità del calcolo mentale, arricchimento del magazzino dei fatti numerici e potenziamento del calcolo scritto.
Accanto agli interventi focalizzati sulla funzione specifica, Benso (2010; si veda anche Benso, Berriolo, Marinelli, Guida, Conti e France-
scangeli, 2008) propone un trattamento integrato che stimola sia le abilità specifiche (lettura, scrittura, calcolo), sia le componenti attentive e i siste-
mi di controllo implicati negli apprendimenti. L'intervento per la lettura prevede, per esempio, attività che si focalizzano sulla difficoltà specifica, favorendo l'automatizzazione dei processi di decodifica ed esercizi per l'attenzione volti per esempio a stimolare la capacità di gestione dell'interferenza visiva e uditiva, affiancati a esercizi per potenziare la capacità di manipolare le rappresentazioni nella memoria di lavoro (es. esercizi di
visualizzazione di matrici).
Accanto agli interventi abilitanti, è opportuno ricordare l'efficacia della didattica metacognitiva per sostenere capacità quali la comprensione del testo, soprattutto con il progredire del livello di scolarità. Infatti, sono soprattutto i ragazzi della scuola secondaria ad avvantaggiarsi di una maggiore competenza metacognitiva.
197
In aggiunta a quanto riportato finora, l'attuale legge sui DSA prevede una serie di misure volte a rendere personalizzato il percorso di apprendimento. Tra tali misure ricordiamo in particolare gli strumenti compensativi come: l'uso del registratore, gli audio-libri, i computer con programmi di videoscrittura con correttore ortografico e sintesi vocale, i supporti audio per i materiali significativi dal punto di vista scolastico, le tabelle dei mesi, dell'alfabeto e dei caratteri, la tavola pitagorica, le tabelle delle misure
e delle formule, le cartine e i sistemi di visualizzazione di contenuti vari (mappe concettuali), la calcolatrice, i dizionari computerizzati, ecc. In alcuni casi è anche consigliato dispensare i ragazzi con DSA da attività nelle quali risultano particolarmente penalizzati quali: lettura a voce alta, scrittura veloce sotto dettatura, lettura di consegne, uso del vocabolario, studio mnemonico delle tabelline, studio della lingua straniera in forma scritta. Accanto a queste è anche possibile introdurre ulteriori misure come
le interrogazioni programmate, l'assegnazione di tempi più lunghi per le verifiche oltre che modalità di verifica personalizzata.
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7. Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività di Maria Carmen Usai
1. Introduzione Il disturbo da deficit dell'attenzione/iperattività, secondo quanto riportato nel DSM-5 (APA, 2013), è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da livelli tali di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività da compromettere il funzionamento individuale
Una delle prime descrizioni di tali sintomi (Tredgold, 1908) li vede attribuiti a un disordine organico relativo a un danno lieve del sistema nervoso. Ricerche successive (si veda, ad esempio, Strauss e Lehtinen, 1947) descrissero le caratteristiche comportamentali di bambini con danni al sistema nervoso centrale: essi dimostravano iperattività o disinibizione motoria, ristretta capacità attentiva, perseverazione, labilità emotiva e rigidità del pensiero. La causa di questi sintomi venne quindi attribuita alla presenza di una disfunzione cerebrale minima (minimal brain disfunction, Mbd, si veda anche Accardo e Capute, 1979). Tale attribuzione vide un declino negli anni '60, in quanto non venne dimostrata alcuna reale presenza di danni cerebrali nei bambini che riportavano la sintomatologia descritta. Negli stessi anni si fece strada il concetto di sindrome iperattiva infantile (si veda per es. Laufer e Denhoff, 1957; Chess, 1960) che sottolineava l'aspetto legato alle manifestazioni motorie. Negli anni '70 essenzialmente due modelli si imposero per la spiegazione del disturbo: il primo, rifacendosi all'ipotesi della Mbd, descriveva il disturbo nei termini di un disordine del comportamento motorio con alterazioni della coordinazione, turbe dell'attenzione e turbe percettive, difficoltà di apprendimento scolare, turbe del controllo degli impulsi, alterazioni delle relazioni interpersonali e turbe affettive (Wender, 1971). Il secondo sottolineava la presenza di sintomi che colpivano la capacità di portare e mantenere l'attenzione e la concentrazio-
ne, la capacità di inibire le risposte impulsive, la modulazione dei livelli di attivazione rispetto alle richieste del compito, la tendenza a cercare 199
⑲
gratificazioni immediate (Douglas e Peters, 1979). La definizione proposta negli anni '80 e contenuta nel DSM-I1-R (APA, 1987) fa riferimento a ug disturbo da deficit dell'attenzione con iperattività (DDAI), in cui implicitamente si distingue il deficit attentivo con le sue conseguenze, dall'iperat. tività. In tale classificazione si evidenzia come disturbo principale quello relativo all'attenzione al quale può o meno associarsi l'iperattività. A parti. re dalla classificazione proposta dal DSM-IV (APA, 1995) l'iperattività non risulta più in subordine alla disattenzione, ma al pari di questa, può invece
costituire il tratto peculiare del disturbo.
2. Il disturbo da deficit dell'attenzione/iperattività: le caratteristiche 2.1. Le caratteristiche primarie
Il DSM-5 (APA, 2013) definisce i criteri per la diagnosi del DDAI
indicando la presenza di sei o più manifestazioni riconducibili a disattenzione e a iperattività e impulsività per almeno sei mesi. Per gli adolescenti con più di 17 anni o e per gli adulti sono richiesti almeno cinque sintomi. Tali manifestazioni devono comparire prima dei 12 anni e devono essere presenti in almeno due contesti (casa, scuola, lavoro, ecc.). Inoltre, esse devono interferire o ridurre la qualità del funzionamento sociale, scolastico
o lavorativo. Infine, è riportato il criterio che individua la specificità del disturbo differenziandolo dai sintomi che si presentano in altri disturbi mentali. Diversamente dal DSM-5, l'ICD 10 (OMS, 1992, si veda capitolo 1)
prevede la possibilità di diagnosticare il disturbo ipercinetico (codice F90) quando sono presenti almeno sei manifestazioni di disattenzione, tre di iperattività e tre di impulsività. Nonostante le molteplici revisioni che i due sistemi di classificazione dei disturbi hanno subito, continuano a rilevarsi sostanziali differenze nei campioni identificati con disturbo ipercinetico e con DDAI. I gruppi con DDAI combinato e con disturbo ipercinetico differirebbero dagli individui con DDAI disattento e iperattivo soprattutto per lo scarso controllo inibitorio (Lee, Lahey, Owens e Hinshaw, 2008).
Disattenzione Gli individui con DDAI possono manifestare difficoltà a prestare attenzione ai particolari, commettono spesso errori di disattenzione, risultano disordinati, non riescono a mantenere l'attenzione e a portare a termine le attività, i giochi, passando talvolta da un'attività all'altra. Spesso hanno difficoltà a organizzarsi nelle attività e tendono a evitare i compiti che Il chiedono un impegno protratto e sforzo mentale. Nel corso di un'attività si 200
interrompono spesso e sono sistematicamente attratti da eventi irrilevanti;
nel corso di una conversazione interrompono gli altri e "saltano" da un argomento all'altro. Perdono gli oggetti necessari allo svolgimento delle attività e sono spesso sbadati nelle attività quotidiane.
Iperattività e impulsività Negli individui con DDAI si può osservare un eccessivo o inappropriato livello di attività motoria e verbale. Le descrizioni riportano infatti bambini che faticano a stare seduti, sono sempre in movimento, parlano troppo, borbottano e rumoreggiano. Alcune ricerche riportano come i bambini con
DDAI siano più attivi, instancabili e irrequieti sia di giorno sia di notte rispetto ai bambini che non presentano il disturbo (Teicher, Ito, Glod e
Barber, 1996).
Il DDAI comprende anche difficoltà inerenti la capacità di inibire risposte inappropriate e/o affrettate, vale a dire comportamenti impulsivi.
L'impulsività può manifestarsi attraverso lo scarso controllo del comportamento, l'incapacità a ritardare una risposta, a posticipare le gratificazioni o a inibire risposte prepotenti (Barkley, 1997). Sono frequenti manifestazioni
quali l'incapacità di stare a sentire fino in fondo spiegazioni o istruzioni utili per l'esecuzione di un'attività, l'incapacità di aspettare il proprio turno in un gioco, l'incapacità di tener conto delle conseguenze di azioni potenzialmente pericolose o la tendenza a ricercare soddisfazioni immediate e a "prendere scorciatoie". Gli studi mettono in luce come la disinibizione o la scarsa capacità di regolazione e di inibizione del comportamento costituiscano la peculiarità del DDAI (si veda per es. Barkley, 1997). Infatti, secondo alcuni autori, sembra che siano proprio l'iperattività e l'impulsività a costituire una misura discriminante oltre che a caratterizzare i bambini con DDAI (Barkley, Dupaul e McMurray, 1990; Loisier, McGrath e Klein, 1996). Considerate le numerose evidenze sperimentali Barkley (1998) ritiene che non sia tanto il disturbo attentivo quanto invece la disinibizione del comportamento a costituire il tratto fondamentale del DDAI.
Specificatori del disturbo Il DSM-5 prevede l'indicazione di specificatori della manifestazione e della gravità del disturbo. Tali specificatori sono resi necessari dall'estrema variabilità che spesso accompagna il disturbo nei diversi contesti o attività in cui l'individuo è impegnato (si veda anche Barkley, 1998). Specificatori della manifestazione: - 314.01 (F90.2 nell'ICD 10) Manifestazione combinata, se entrambi i criteri per la disattenzione e l'iperattività-impulsività sono soddisfatti negli
ultimi 6 mesi;
201
- 314.00 (F90.0 nellICD 10) Manifestazione con disattenzione predomi. nante: se negli ultimi 6 mesi è soddisfatto il solo criterio della disatten. zione, ma non il criterio relativo all'iperattività-impulsività; - 314.01 (F90.1 nell'ICD 10) Manifestazione con iperattività/impulsi.
vita predominanti: se negli ultimi 6 mesi è soddisfatto il solo criterio dell' iperattività-impulsivita, ma non il criterio relativo alla disatten.
zione. Specificatori della gravità della compromissione attuale:
- Lieve: sono presenti i sintomi necessari alla diagnosi e pochi altri; il
livello di compromissione del funzionamento sociale o lavorativo è clas-
sificabile come minore. - Moderata: sono presenti sintomi o compromissione funzionale compresi
tra "lievi" e "gravi".
Grave: oltre i sintomi richiesti per porre la diagnosi, sono presenti molti, o diversi sintomi particolarmente gravi, oppure i sintomi compromet. tono in modo marcato il funzionamento sociale o lavorativo.
N AMAD
2.2. Le manifestazioni associate
2.2.1. Difficoltà attentive Data la presenza di deficit nelle capacità di base, come quella attentiva,
è intuitivo ipotizzare che i bambini iperattivi dimostrino prestazioni inferiori alla norma in compiti più complessi (si veda Douglas e Peters, 1979). Campbell, Douglas e Morgenstern (1971), utilizzando con bambini iperattivi l'Embedded Figures Test, strumento che richiede di identificare uno stimolo bersaglio in un contesto distraente, hanno evidenziato una certa difficoltà nel fare una scelta partendo da più alternative. Essi hanno osservato che i bambini con DDAI sono meno adatti dei bambini a sviluppo tipico a controllare il loro comportamento e a inibire risposte non corrette, meno capaci di svolgere un compito che richiede l'isolamento di uno stimolo importante partendo da uno sfondo confuso, maggiormente attirati da aspetti più appariscenti del campo, più lenti quando si tratta di un compito che richiede rapidità.
2.2.2. Difficoltà nelle funzioni esecutive
Secondo Castellanos e Tannock (2002) esisterebbero tre particolari endofenotipi in grado di spiegare il DDAI e uno di questi richiamerebbe l'esistenza di deficit nella memoria di lavoro che spiegherebbero i problemi nelle funzioni esecutive e nell'attenzione focalizzata.
202
Anche Sonuga-Barke, Bitsakou e Thompson (2010) dimostrano l'esistenza dei suddetti tre distinti pattern, focalizzandosi in particolare sui defcit alle funzioni esecutive, sul deficit a livello motivazionale e sul deficit nell'elaborazione temporale che di seguito illustriamo. Molti studi convergono nell'associare il DDAI con problemi alle funzioni esecutive, che possono essere definite come l'insieme dei processi cogni-
tivi alla base dei comportamenti finalizzati complessi: i bambini con DAI manifestano difficoltà a interrompere una risposta quando questa ha avuto "sparare" immediatamente le risposte anche quando è inizio e tendono a richiesto di ritardarle. Swanson, Posner, Cantwell, Wigal, Crinella, Filipek, Emerson, Tucker e Nalcioglu (1998) suggeriscono che alcuni bambini con DDAI che manifestano le suddette difficoltà possano avere dei deficit riguardanti le funzioni esecutive. Secondo Posner e DiGirolamo (1998), tali funzioni opererebbero solo in determinate condizioni in cui le funzioni di routine risultassero inadeguate all'esecuzione di un compito o quando cambiamenti ambientali o negli obiettivi imponessero il superamento di tali routine automatiche o apprese. Fra le condizioni che sollecitano il controllo esecutivo indichiamo quelle relative alla pianificazione o ai processi decisionali, alla correzione degli errori, alla produzione di risposte nuove o non del tutto apprese; vi sono, inoltre, le condizioni giudicate difficili o rischiose e quelle che impongono il superamento delle risposte abituali. Secondo alcuni autori, i problemi conseguenti all'iperattività sarebbero dovuti
all'incapacità dei bambini stessi di controllare e/o inibire certi comportamenti (Barkley, 1997; 1998). Secondo Barkley, il DDAI è riconducibile a un disordine delle funzioni esecutive e di autoregolazione. Pennington e Ozonoff (1996) hanno individuato il compito relativo all'effetto Stroop come uno dei più sensibili a distinguere i bambini con DDAI dai bambini normali che non presentano il disturbo: il compito infatti genera un conflitto tra la lettura di una parola e il nome del colore con cui la parola stessa è scritta. Fra le difficoltà incontrate dai bambini iperattivi, Zentall e collaboratori (Zentall, Harper e Stormunt-Spurgin, 1993) hanno evidenziato in alcuni di essi deficit di pianificazione del tempo e delle mete.
2.2.3. Deficit motivazionale
Uno degli endofenotipi individuati da Castellanos e Tannock (2002) indica un'anomalia nei meccanismi legati alla ricompensa che determinerebbe una ridotta capacità di attendere per una gratificazione. Infatti, alcune difficoltà degli individui con DDAI sono state attribuite a un deficit motivazionale che si manifesta con una ridotta capacità di attendere per una gratificazione (delay aversion): secondo questa ipotesi, tali individui sarebbero spinti a evitare la posticipazione di una ricompensa e, se posti
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nella condizione di scegliere fra un'azione immediata o una differita, essi tendono a scegliere quella immediata.
2.2.4. Difficoltà nell'elaborazione temporale Un altro degli endofenotipi individuati da Castellanos e Tannock (2002) assume che un deficit nell'elaborazione temporale sia alla base della grande variabilità nella prestazione intraindividuale e di altre manifestazioni quali deficit nella stima del tempo e nella consapevolezza fonologica. Gli individui con DDAI presentano un'alta variabilità della risposta, elemento unanimamente riportato dalla ricerca. Castellanos e Tannock (2002) suggeriscono come la variabilità della risposta rifletta la presenza di un'alta fre. quenza di risposte lente e di risposte anticipatorie veloci. Gli autori riportano inoltre come anomalie nella riproduzione di durate temporali siano state documentate in bambini, adolescenti e adulti con DDAI. L'abilità di percepire e rappresentare il tempo è fondamentale poiché ci consente di percepire e organizzare le sequenze di eventi e azioni: l'impulsività per esempio, potrebbe essere spiegata oltre che da un deficit ai meccanismi inibitori, da una difficoltà a produrre risposte motorie in accordo con le corrette aspettative temporali. Nei DDAI sono state evidenziate difficoltà nell'abilità di
discriminare brevi durate che differiscono a livello di millisecondi, nel
riprodurre periodi temporali con grande precisione e nel seguire un ritmo anche autodeterminato (si veda Toplak, Dockstader e Tannock, 2006).
2.2.5. Difficoltà nel controllo motorio I bambini con DDAI spesso manifestano problemi di coordinazione motoria e hanno un maggior rischio di sviluppare disturbi evolutivi della coordinazione. Alcune manifestazioni caratteristiche sono i movimenti "a specchio", cioè movimenti che interessano una parte del corpo mentre l'altra è impegnata in un'attività complessa. Alcuni autori suggeriscono che i problemi di coordinazione potrebbero essere la conseguenza di un problema nella programmazione motoria che interessa le regioni frontali e prefrontali, con un possibile coinvolgimento dei gangli della base e del cervelletto.
2.2.6. Altre difficoltà Barkley (1998) presenta una rassegna degli studi che hanno messo in luce difficoltà associate al disturbo, sia nei bambini che negli adulti. Fra i problemi sono indicati: - lievi deficit cognitivi (disturbi specifici dell'apprendimento, scarsa capacità di stima del tempo, difficoltà nella memoria di lavoro, ridotta sensibilità agli errori, deficit di pianificazione, lievi ritardi intellettivi);
204
- disturbi del linguaggio (ritardi nell'acquisizione del linguaggio, difficoltà nell'eloquio, scarsa organizzazione ed espressione inefficiente delle ¡dee, ritardo nell'interiorizzazione del discorso);
- difficoltà nelle funzioni adattive; - disturbi a livello emotivo (inadeguata autoregolazione delle emozioni, scarsa tolleranza alla frustrazione); - difficoltà nel contesto scolastico (comportamenti disturbanti, ripetizione di una classe, sospensioni o espulsioni scolastiche, ecc.); - difficoltà nell'esecuzione di compiti (scarsa persistenza di sforzo e motivazione, grande variabilità nella risposta, difficoltà nell'esecuzione di compiti prolungati, ecc.);
- rischi per la salute (propensione agli infortuni, possibili ritardi nella crescita durante la fanciullezza, difficoltà riguardanti il sonno, rischi nella guida di autoveicoli in età adulta).
2.2.7. Le manifestazioni in età precoce
II DDAI ha un esordio precoce, con manifestazioni prevalentemente riconducibili a iperattività e scarso controllo degli impulsi. È però difficile
distinguere problemi comportamentali clinicamente rilevanti da problemi transitori nel periodo prescolare; infatti, come riportato da Sonuga-Barke, Auerbach, Campbell, Daley e Thompson (2005), molti bambini che, prima dei 5 anni, mostrano un livello di attività motoria elevato non sviluppano un problema clinicamente significativo né nel corso della scuola dell'infanzia né alla scuola primaria. L'iperattività-impulsività a livelli clinicamente non rilevanti è nel periodo prescolare una caratteristica piuttosto diffusa nei bambini: infatti, prima dei tre anni i bambini sono capaci di seguire le istruzioni per iniziare un compito, ma hanno difficoltà nelle condotte inibitorie, in particolare quando si tratta di interrompere comportamenti appresi e automatici; essi, inoltre, sono ancora molto dipendenti dagli stimoli esterni e faticano a modulare il comportamento in relazione a regole o a obiettivi individuali, soprattutto nelle situazioni in cui questi richiedono la soppressione di una risposta automatica. Tra i 3 e i 4 anni si verifica un
aumento significativo nelle capacità di controllo inibitorio: i bambini cominciano a essere in grado di inibire una risposta automatica per mettere in atto un comportamento finalizzato. Con l'ingresso alla scuola primaria, l'ambiente e le attività proposte contribuiscono a favorire la modulazione dell'eccesso di attività motoria e il controllo degli impulsi. Le caratteristiche del comportamento infantile interagiscono con le caratteristiche dell'ambiente e in particolare delle pratiche di cura: atteggiamenti responsivi, sensibili sono in grado di contribuire a trasmettere al bambino la capacità di regolare le emozioni negative, mentre adulti intru205
⑲
sivi possono esacerbare le precoci difficoltà nel controllo delle emozioni negative. L'iperattività può indurre uno stile genitoriale coercitivo che può avere un effetto ancora più negativo sul comportamento del bambino. Sonuga-Barke et al. (2005) hanno proposto una tassonomia delle diff. coltà associate a iperattività in età prescolare, che consente di distinguere quattro sottotipi: - Tipo I (oppositività emergente): si caratterizza per bassi livelli di iperattività associati a bassa tolleranza da parte dell'ambiente familiare; sono presenti interazioni conflittuali genitori-bambino e uno stile educativo coercitivo; sebbene non a rischio per il DDAI, questi bambini possono essere a rischio per problemi comportamentali di tipo oppositivo;
Tipo II (insorgenza tardiva di DDAI): la presenza di una moderata
iperattività prescolare è "gestita" dal contesto familiare ed educativo nel corso del periodo prescolare. Con l'ingresso a scuola le capacità di autoregolazione del bambino sono insufficienti per permettere un adattamento alle richieste del contesto scolastico. Questa forma di disturbo può essere meno pervasiva e strettamente associata a difficoltà scolastiche; - Tipo III (DDAI limitato al periodo prescolare): si caratterizza per elevati livelli di iperattività con molti elementi tipici del DDAI. La presenza di caratteristiche positive nel contesto familiare ed educativo (adeguate strategie di contenimento, la presenza di un ambiente strutturato) agiscono come fattori protettivi per l'insorgenza di problemi scolastici e di comportamenti oppositivi o antisociali;
- Tipo IV (insorgenza precoce e cronica di DDAI): si caratterizza per
elevati livelli di iperattività associati a caratteristiche temperamentali oppositive. L'associazione di questi due fattori aumenta la probabilità che il disturbo si cronicizzi e conduca a interazioni disturbate adultobambino. Come riportato nella rassegna di Spira e Fishel (2005), la prevalenza di DDAI nel periodo prescolare è del 2% e nell'1,8% esso si presenta in associazione con altri disturbi (in particolare, il disturbo oppositivo-provocatorio).
Le manifestazioni precoci del DDAI tendono a essere stabili e a essere associate a esiti evolutivi negativi in adolescenza (Lee et al., 2008). Fra i 2 e i 4 anni la stabilità dei sintomo del DDAI è al 91% mediata da fattori genetici (Price, Simonoff, Asherson, Curran, Kuntsi, Waldman e Plomin, 2005). Per quanto riguarda l'appartenenza ai tre tipi individuati dal DSMIV, iperativo, disattento e combinato, i dati indicano una ridotta stabilita
nel tempo, tanto da suggerire che i sottotipi non debbano essere considerati come calegorie discrete permanenti, ma come manifestazioni dimensionali che variano lungo un continuum sotto l'influenza dei cambiamenti evolutir Vi: Lahey, Pelham, Loney, Lee, e Wilcutt (2005) hanno documentato come
206
i bambini diagnosticati nelle categorie disattento e combinato in età precoce rispettivamente nel 50% e nel 37% dei casi siano assegnati ad altre categorie nei successivi 8 anni; il tipo iperattivo è meno stabile e ha maggiori possibilità di remissione del tipo combinato. Lo studio indica che il disturbo iperattivo-impulsivo permane nel 74% dei casi e che gran parte di questi bambini mostrano successivamente i sintomi del tipo combinato. Quando 'iperattività in età precoce si presenta insieme a comportamenti aggressivi e oppositivi i problemi possono essere più complessi e persistenti.
3. La prevalenza del disturbo In generale l'incidenza del disturbo nella popolazione è abbastanza controversa e la causa è riconducibile ai criteri diagnostici utilizzati. Il DSM-5 riporta la presenza del disturbo nella maggior parte delle culture in circa il
5% dei bambini e il 2,5% degli adulti. La variabilità delle stime di prevalenza del DDAI è principalmente spiegata dalle caratteristiche metodologiche degli studi (Polanczyk, Willcutt, Salum, Kieling e Rohde, 2014). Per quanto riguarda i dati epidemiologici relativi all'Italia, uno studio
riporta come nella fascia fra i 6 e i 7 anni i bambini identificati come
DDAI dagli insegnanti siano circa il 7% della popolazione, con un rapporto fra maschi e femmine pari a 2,7:1 (Mugnaini, Masi, Brovedani, Chelazzi, Matas, Romagnoli, Zuddas, 2006). Negli adolescenti, invece, l'incidenza di tutti i disturbi mentali è pari all'8,2% e l'incidenza dei disturbi esternalizzanti in particolare è pari all'1,2% (Frigerio et al., 2009). La prevalenza totale è stata recentemente ottenuta grazie a una meta-analisi che ha indicato come solo il 2,9% della popolazione italiana presenti il disturbo, a fronte del 5,9% di bambini e adolescenti dai 5 ai 17 anni di età con sintomi comportamentali di DDAI che necessitano di una valutazione specialistica per confermare tale diagnosi (Reale e Bonati, 2018). L'ereditabilità media stimata attraverso 37 studi su gemelli o su misure di disattenzione e iperattività è pari al 74% (Faraone e Larsson, 2019), indicando come sia molto probabile che un bambino presenti DDAI se è ha un familiare con tale disturbo.
Più della metà degli individui con DDAI manifestano altri disturbi
mentali: circa la metà degli individui con DDAI-disattento presentano sintomi internalizzanti quali ansia o depressione, mentre sono rari i sintomi esternalizzanti (disturbo oppositivo-provocatorio o disturbo della condotta); al contrario, il 40% degli individui con DDAI-iperattivo/impulsivo presenta sintomi esternalizzanti e rari sono i casi di sintomi internalizzanti. Infine, nei casi di DDAI-combinato sono altrettanto frequenti i sintomi internalizzanti ed esternalizzanti e il 44% degli individui li presenta entrambi (Mugnaini et al., 2006). 207
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4. Le cause La popolazione per cui è formulata la diagnosi di DDAI presenta carat. teristiche eterogenee e risulta quindi difficile risalire alle cause predisponenti o scatenanti. Inoltre è spesso difficile distinguere cause da fattori che sono invece associati o conseguenti al disturbo. Un importante studio (Demontis et al., 2018) ha confermato le basi genetiche del disturbo individuando dodici frammenti di DNA le cui varianti
genetiche comuni rappresentano il 21% del rischio di DDAI. Tra questi frammenti compaiono specifici geni coinvolti per esempio nella codifica per una proteina con un ruolo centrale nella formazione delle sinapsi fra neuroni e nell'apprendimento (FOXP2), nel controllo degli scambi fra i
neuroni dopaminergici (DUSP6) e nella creazione delle connessioni neurali (SEMA6D). Un terzo dell'ereditarietà del DDAI è dovuto a un componente poligenico che comprende molte varianti comuni aventi ciascuno piccoli
effetti.
Dal punto di vista neurobiologico, vi sono quattro aree cerebrali, la corteccia prefrontale, i gangli della base, il cervelletto e il corpo calloso, che nei bambini con DDAI presentano anomalie strutturali. Tali aree dal punto di vista funzionale sono coinvolte nei circuiti neurali alla base delle capacità che, come abbiamo visto, risultano essere colpite dal disturbo: attenzione, funzioni esecutive, motivazione, controllo motorio e processamento temporale delle informazioni (Marzocchi e Bacchetta, 2011). Un ruolo fondamentale è svolto da un'alterazione relativa a uno specifico neurotrasmettitore, la dopamina, che sarebbe responsabile di una serie, di problemi evidenziabili nel DDAI (Johansen, Aase, Meyer e Sagvolden, 2002; Sagvolden, Johansen, Aase e Russell, 2004). Accanto alla disfun-
zione dei sistemi dopaminergici è stata evidenziata anche una mancata regolazione del sistema noradrenergico, che modula il funzionamento di numerose aree cerebrali coinvolte nei meccanismi di vigilanza, allerta e
attenzione e favorisce il mantenimento degli stati di attivazione, l'inibizione delle risposte automatiche e la memoria di lavoro (si veda per esempio Biederman e Spencer, 1999).
Accreditata è l'ipotesi di una predisposizione di tipo ereditario: come riportato da Barkley (1998), numerosi studi hanno sottolineato la relazione tra presenza di DDAI in un bambino e presenza di casi di psicopatologie varie e DDAI nei genitori dei bambini. Le ricerche indicano percentuali oscillanti fra il 10% e il 35% di bambini con genitori o familiari con DDAl che sviluppano essi stessi DDAI. Dimostrata l'esistenza di una familiarità del disturbo (si veda anche Faraone, Biederman, Lehman, Spencer, Norman, Seidman, Kraus, Peri.
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Chen e Tsuang, 1993), altre ricerche hanno evidenziato alcuni fattori che, combinandosi, possono favorirne l'insorgenza. Come sottolinea Lipkin (1991), alcuni di essi sono individuabili nel periodo pre o perinatale: ritar-
di nella crescita intrauterina, peso alla nascita al di sotto dei limiti della
norma, asfissia perinatale. Evidenze di un aumento dell'aggressività, dell'iperattività e dell'impulsività sono state riscontrate in bambini provenienti da famiglie con storie di assunzione di sostanze stupefacenti (Martin, Ear-
leywine, Blackson, Vanyucov, Moss e Tarter, 1994). Fra i fattori associati al verificarsi di insuccesso scolastico e/o di altri sintomi relativi al DDAI, si annoverano anche alcune sostanze tossiche con cui il bambino viene a contatto durante la vita intrauterina (tra questi alcool, tabacco e cocaina) o, successivamente, dopo la nascita (per es. i farmaci anticonvulsivi quando utilizzati cronicamente).
In generale, la comprensione delle cause per disturbi come il DDAI
segue un approccio probabilistico multifattoriale, in cui fattori di rischio e fattori di protezione si combinano a livello biologico, psicologico e sociale (Patel, Flisher, Hetrick, McGorry, 2007; tab. 1). Più specificatamente, alcuni autori hanno proposto per il DDAI la presenza di endofenotipi, intesi come tratti ereditari che quantificano la propensione dell'individuo a sviluppare o manifestare un dato disturbo.
Tab. 1 - Fattori di rischio e fattori di protezione per i disturbi mentali nell'infanzia e nell'adolescenza (Patel et al., 2007)
Fattori di rischio
Fattori di protezione
- Esposizione a sostanze tossiche durante la gravidanza - Predisposizione genetica
Sviluppo fisico adeguato all'età; buona salute fisica; buon funzionamento intellettivo
Biologico
- Trauma cranico
- Ipossia e complicazioni alla nascita
- Hiv
- Malnutrizione
- Abuso di sostanze
- Altre malattie
Psicologico
- Disturbi di apprendimento - Tratti di personalità disadattivi - Negligenza e abusi sessuali, fisici ed emotivi - Temperamento difficile
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- Abilità ad apprendere dall'esperienza - Buona autostima
- Alti livelli di capacità di problem-solving - Buone abilità sociali
Tab. I - segue
Fattori di protezione
Fattori di rischio Sociale
Famiglia
- Accudimento inconsistente
- Conflitti familiari
- Scarsa disciplina - Scarsa gestione familiare - Morte di un membro della
famiglia
Scuola
- Fallimenti scolastici - Fallimento da parte della scuola
nel fornire un ambiente adeguato a sostenere le aspettative e l'apprendimento, strategie educative inadeguate
- Bullismo Comunità
- Transizioni (urbanizzazione) - Disorganizzazione della comunità - Discriminazione e marginalizzazione - Esposizione alla violenza
- Attaccamento - Opportunità di un buon
coinvolgimento nella famiglia - Riconoscimento di un buon coinvolgimento nella famiglia
- Opportunità di un buon coinvolgimento della vita scolastica
- Rinforzi positivi per
l'apprendimento scolastico - Identificazione con la scuola o bisogno di una guida educativa
- Integrazione nella comunità
- Opportunità di svago - Esperienze culturali positive - Modelli sociali positivi
- Riconoscimento per un buon coinvolgimento nella comunità - Connessione con le organizzazioni della comunità
5. La diagnosi Nel paragrafo 2 sono riportati i criteri che consentono la formulazione della diagnosi di DDAI secondo il DSM-5. Il percorso e le modalità per la formulazione di tale diagnosi sono illustrati nelle linee guida della SINPIA (2002). Tali linee guida raccomandano di raccogliere informazioni da più Fonti fra le figure che si occupano del bambino con strumenti quali interviste o questionari; si prevede l'esame diretto del bambino attraverso un colloquio volto a verificare la presenza di altri disturbi associati e attraver so l'esecuzione di prove volte a valutare le capacità cognitive, le funzioni esecutive, l'attenzione e l'apprendimento scolastico; le suddette linee guida suggeriscono inoltre di effettuare un esame medico e neurologico per escludere la presenza di eventuali patologie associate e per valutare gli effetti di eventuali terapie in atto.
Per la valutazione del comportamento si utilizzano interviste diagnostiche e questionari. Le prime sono rivolte direttamente ai genitori o alla
dolescente con DDAI e registrano informazioni sulle manifestazioni del disturbo psichiatrici e sul funzionamento sociale al momento della sommi
210
nistrazione (es. Kiddie-Sads, Pics-IV), esse inoltre consentono di ricostruire la presenza di sintomi psichiatrici nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza e forniscono indicazioni sulla qualità dell'adattamento. I questionari sono generalmente rivolti a genitori e insegnanti, che offrono un punto di
vista unico sul comportamento dei bambini/ragazzi con DDAI nel loro ambiente di vita. Fra gli strumenti validati più utilizzati in Italia vi sono le
Conners' Rating Scales-Revised (edizione italiana a cura di Nobile, Alberti e Zuddas, 2007), le Brown ADD scales (Brown, 2007) per la valutazione del DDAI in bambini, adolescenti e adulti, le scale per la valutazione dei comportamenti dirompenti (SCOD) per genitori e insegnanti (Marzocchi,
Oosterlaan, De Meo, Di Pietro, Pezzica, Cavolina, Sergeant e Zuddas,
2001; 2003); le Child Behavior CheckList (CBCL, Achembach, 1991; va¡idazione della versione italiana a cura dell'Ires Medea), e le scale SDAI e SDAG (Cornoldi, Gardinale, Masi e Pettinò, 1996). È importante sottolineare come nella pratica clinica non vi sia un protocollo di analisi e valutazione della funzionalità cognitiva validato, tale da consentire lo studio e la comparazione dei profili rilevati, tuttavia è consigliabile accertare il livello intellettivo del bambino con strumenti quali la scala WISC IV, somministrare test per la valutazione delle capacità di inibizione e di controllo dell'impulsività e prove standardizzate per verificare lo stato degli apprendimenti. Sono disponibili alcune batterie validate sulla popolazione italiana che consentono l'esame neuropsicologico delle abilità più frequentemente compromesse nel DDAI. Fra queste, i test per la valutazione dell'attenzione e delle funzioni esecutive della scala Nepsy-Il (Korkman, Kirk e Kemp, 2011) e la batteria Bia (Re, Marzocchi e Cornoldi, 2010).
6. L'intervento
La progettazione di un intervento richiede di considerare, oltre a un insieme di variabili quali l'età del bambino, il suo livello di maturità e la gravità del disturbo, anche le aree specifiche che esso coinvolge. Infatti, come abbiamo visto nel paragrafo dedicato alle conseguenze dell'iperattività, i disturbi comportamentali possono determinare problemi sul piano sociale, il disturbo attentivo è in gran parte responsabile delle difficoltà di apprendimento (o comunque a esse associato) e, nell'insieme, non sono rari
i problemi a livello familiare. È diffuso il consenso sulla necessità di un approccio multimodale al trattamento del DDAI, che presuppone il coinvolgimento della famiglia e della scuola. Infatti, l'intervento deve essere previsto negli ambienti in cui i bambini con DDAI trascorrono la maggior parte del tempo, vale a dire a casa e a scuola.
211
I bambini più piccoli non beneficiano particolarmente di sessioni didattiche, ma rispondono meglio al parent training, che mette i genitori nella condizione di gestire al meglio le problematiche comportamentali, e a interventi volti a promuovere il controllo autonomo del proprio compor tamento. I trattamenti comportamentali per i più piccoli devono prevedere conseguenze tangibili, offerte frequentemente e immediatamente dopo il comportamento desiderato, in modo da facilitare al bambino l'associazione
tra comportamenti e conseguenze. Con i bambini più grandi è possibile introdurre tecniche cognitive per favorire la relazione con i pari e l'apprendimento e motivarli al trattamento per il raggiungimento della piena autonomia. Con l'ingresso nell'adolescenza e nell'età adulta i trattamenti basati su paradigmi cognitivi diventano sempre più efficaci. In tutte le età è necessario che gli obiettivi e i metodi messi in atto per il trattamento abbiano un senso e siano motivanti per gli individui (Young e Amarasinghe, 2010).
6.1. Il parent training Le caratteristiche comportamentali del DDAI possono contribuire a caratterizzare negativamente le relazioni all'interno della famiglia innalzando
così i livelli di stress nei genitori. In tale situazione i genitori tendono a
sviluppare strategie educative disadattive e controproducenti, che non solo risultano inefficaci a contenere il comportamento dei bambini, ma spesso possono esacerbarne i problemi. Per far fronte a tale situazione, sono sta-
ti sviluppati programmi rivolti ai genitori per sviluppare le loro capacità educative e di conseguenza migliorare la relazione con i propri figli. Tali programmi risultano la risorsa più importante per le problematiche del comportamento a esordio in età prescolare. Il parent training consente ai genitori una ristrutturazione cognitiva del proprio ruolo, insegna loro a identificare e modificare gli antecedenti e le conseguenze dei comportamenti del bambino, a riconoscere e tenere sotto controllo i comportamenti problematici, a incoraggiare i comportamenti prosociali tramite lodi, attenzioni e ricompense tangibili, a scoraggiare i comportamenti indesiderati tramite l'ignorare pianificato, la diminuzione dei privilegi o delle ricompense (costo della risposta) o l'interruzione di ogni rinforzo positivo (time-ouf). Nel complesso, si tratta di un intervento indiretto che consente di ridurre significativamente i sintomi del DDAI e di abbassare i livelli di stress familiare.
212
6.2. L'intervento in classe
Come abbiamo detto, è importante che al trattamento del disturbo da deficit di attenzione con iperattività non collaborino solo il bambino e la sua famiglia, ma anche la scuola. A questo proposito, sono state elaborate una serie di strategie adatte a essere impiegate in classe (si veda per esempio Cornoldi, De Meo, Offredi e Vio, 2001). Esse suggeriscono, ad esempio, che l'intera organizzazione del lavoro scolastico sia calibrata sulle emgenze del bambino con DDAI, che l'ambiente sia molto strutturato e che gli eventi che caratterizzano la giornata scolastica siano facilmente prevedibili; si suggerisce inoltre che il bambino iperattivo sia sistemato in un punto della classe tale per cui sia costantemente nel campo visivo dell'insegnante e che si trovi accanto a un compagno sensibile e molto partecipe alle attività didattiche proposte: è infatti necessario interagire spesso col bambino iperattivo fornendogli continue conferme sull'attività svolta e incoraggiando i comportamenti costruttivi con appositi rinforzi. L'insegnante deve contribuire ad aumentare l'autostima del bambino, facilitare le interazioni con i pari e, inoltre, proporre compiti diversi, che ne suscitino l'interesse. È importante programmare le attività didattiche in base alle effettive capacità del bambino, incrementando le difficoltà in modo graduale. È quindi necessario che l'insegnante abbia aspettative realistiche sulle competenze del bambino, in modo da proporre mete raggiungibili in brevi periodi.
Questi e altri accorgimenti sono importanti e, in certi casi, indispensabili per limitare l'insorgenza e il radicalizzarsi di alcuni problemi specifici di apprendimento nei soggetti con DDAI.
Le linee guida per il trattamento dei bambini con DDAI (Chiarenza,
Bianchi e Marzocchi, 2004), suggeriscono a genitori e insegnanti cinque regole base:
1. Al bambino devono essere riferite regole chiare, concise e poco numerose. In classe, può essere applicato, sul banco del bambino, un foglio con alcune regole di base (alza la mano per fare una domanda, stai seduto durante le lezioni, ecc.). A casa, possono essere esposte sul frigorifero (stai seduto quando mangi). Quando possibile, è di aiuto esprimere le
regole in modo positivo, enfatizzando l'attesa in termini di comportamento ("Tu dovresti rimanere seduto durante la lezione"), piuttosto che focalizzarsi su cosa non è permesso (*Non dovresti alzarti dalla sedia durante la lezione").
2. Le istruzioni dovrebbero rimanere concise. I compiti più lunghi do-
vrebbero essere suddivisi in step più piccoli. Questo permette maggiori
213
opportunità per un feedback immediato (elogiare dopo ogni successo). Ouando le nuove abilità vengono acquisite, gli step verranno eseguiti consecutivamente dando luogo al compito originario. 3. Le conseguenze del comportamento, sia positive che negative, devono essere aver luogo il prima possibile a comportamento avvenuto (preferibile immediatamente) e con maggior frequenza rispetto a quella che potrebbe essere utilizzata per un bambino non ipercinetico.
4. Le strategie positive dovrebbero avvenire sempre prima di utilizzare tecniche di punizione. 5. Per aiutare i bambini ad ascoltare un adulto e ad imparare ad apprezzare le relazioni tra il loro comportamento e le risposte di coloro che li circondano, le conseguenze verbali, sia positive (lode) che negative (rimprovero), dovrebbero iniziare con il nome del bambino e includere i riferimenti al comportamento in questione. Ad esempio, un complimento vago, come "ben fatto, Luca, grazie" è con maggior probabilità più efficace quando viene modificato in "Luca, ben fatto. Mi piace veramen-
te quando metti a posto i giochi". Lo stesso vale per i rimproveri.
6.3. La terapia cognitiva
Questo tipo di terapia è rivolta in modo diretto al miglioramento di
alcune abilità che si dimostrano carenti nei bambini iperattivi: la capacità attentiva, l'abilità di problem-solving, l'autovalutazione, ecc. Data la varietà delle abilità a cui si fa riferimento, il primo passo necessario per un efficace intervento è rappresentato dall'individuazione delle aree specifiche sulle quali agire e dal coinvolgimento del bambino stesso in un ruolo di partecipazione attiva alla terapia. Alcuni interventi riabilitativi sono mirati ad accrescere la capacità di controllo attraverso auto-verbalizzazioni, a cui il bambino viene gradualmente istruito fino al momento in cui esse risultano interiorizzate (Meichenbaum e Goodman, 1971). Questa tecnica aiuta il bambino a focalizzarsi sull'attività in corso. Un esempio di utilizzo del linguaggio interiore è dato dall'insegnamento delle capacità di problem-solving: il bambino viene infatti istruito a rappresentarsi verbalmente tutti i possibili percorsi per la soluzione di un problema e successivamente a considerare le conseguenze relative alla scelta di ciascuno. Lefficacia di tali strategie è stata, però, messa in dubbio soprattutto a causa del fatto che esse sembrano apportare solo benefici a breve termine e limitati al contesto in cui esse vengono apprese; non sembra quindi esserci una generalizzazione dei risultati (si veda Barkley, 1998; Shapiro, DuPaul e Bradley-Klug, 1998). Alcuni autori hanno spiegato le ragioni di tale in-
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successo distinguendo due tipologie di strategie: le prime enfatizzano la relazione tra le risposte e le relative conseguenze richiedendo all'individuo di valutare le proprie risposte e aspettarsi le appropriate conseguenze; l'altra tipologia consiste in strategie di controllo cognitivo che si concentrano sui processi di pensiero antecedenti alla risposta. Shapiro et al. (1998) sostengono che gli studi che riportano risultati negativi descrivono la seconda tipologia, mentre gli studi che descrivono l'applicazione del primo tipo di strategia sembrano riportare risultati più confortanti. Gli stessi autori confermano che l'applicazione di un modello di intervento maggiormente focalizzato sulla relazione fra risposta e conseguenza sia efficace nel 78% dei casi di un campione di adolescenti e il risultato è spiegato alla luce del modello di Barkley (1997; 1998) che, come abbiamo visto, individua il problema nella ridotta capacità di inibizione del comportamento. Un'importante raccomandazione è proposta da Shapito et al. (1998): essi sottolineano infatti l'importanza di interventi compositi e diversificati per rispondere alla complessità e all'articolazione delle manifestazioni che accompagnano il disturbo (si veda anche Benso, 2004). 6.4. Il trattamento farmacologico
Il trattamento farmacologico è diretto a regolare l'attività dei sistemi dopaminergici e del sistema noradrenergico, che abbiamo visto essere com-
promessi negli individui con DDAI. Come riportato dalle Linee guida per la diagnosi e la terapia farmacologica del Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (SINPIA, 2002), il metilfenidato è una sostanza attiva che agendo sul sistema dopaminergico è efficace per esempio nel migliorare il controllo degli impulsi. L'altro principio attivo è l'atomoxetina che migliora l'efficienza delle funzioni esecutive e mostra una efficacia simile agli psicostimolanti con minori effetti collaterali. In Italia, 'arruolamento dei pazienti al trattamento con terapia farmacologica è monitorato dall'Istituto Superiore di Sanità con il Registro nazionale dell'ADHD. Il rapporto del 2016 su tale registro riporta 3696 bambini e adolescenti con DDAI arruolati dal settembre 2007 all'aprile 2016. Di questi, il 72% è stato trattato con il metilfenidato e il 28% con l'atomoxetina. Circa il 25% di questi pazienti ha interrotto la terapia farmacologica per diverse motivazioni tra cui "Comparsa di un evento avverso", "Decisio"Inefficacia ne del paziente o dei genitori", "Miglioramento dei sintomi", della terapia",'"Perdita al follow-up", "Altri motivi". Il rischio relativo di
interruzione della terapia è 2,4 volte superiore per il trattamento con l'atomoxetina. Gli eventi avversi comprendono 21 tipologie di problemi tra cui compaiono più frequentemente i disturbi psichiatrici e quelli gastrointesti-
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nali, mentre l'ideazione suicidaria, osservata solo nel gruppo trattato con atomoxetina è maggiore rispetto a quella attesa in base ai dati della Food and Drug Administration (Registro nazionale dell'ADHD, 2016). A breve termine, l'assunzione di tali sostanze ha effetti positivi sia dal punto di vista cognitivo, migliorando le prestazioni attentive, sia dal punto di vista comportamentale, favorendo il controllo dell'impulsività e dei comportamenti distruttivi, effetti questi che contribuiscono all'incremento della capacità di apprendere (Barkley, 1977; 1998). Tuttavia, questo tipo di trattamento si accompagna a effetti collaterali non trascurabili, come l'insorgenza di insonnia e il blocco della crescita, che possono, però, essere limitati con il controllo del dosaggio e la sospensione del farmaco per bre-
vi periodi.
Controverso è anche l'aspetto degli effetti a lungo termine: uno studio longitudinale di Satterfield, Satterfield e Schell (1987), condotto su soggetti con grave disturbo da deficit dell'attenzione con iperattività seguiti per 20 anni, ha evidenziato una discrepanza nel decorso del disturbo a seconda che i soggetti fossero stati seguiti con terapia multimodale, vale a dire, con interventi terapeutici diversificati e sinergici (farmacologico, psicopedagogico, ecc.), o che fossero stati trattati con l'utilizzo esclusivo di psicostimolanti. Questi ultimi, nel corso degli anni, manifestarono un maggior numero di comportamenti antisociali e subirono un numero considerevole di arresti; inoltre, il 25% di essi furono istituzionalizzati contro lo 0% dei pazienti trattati con terapia multimodale. La terapia farmacologica è da considerarsi con estrema attenzione poi-
ché non tutti i bambini trattati ne ricavano un beneficio. Inoltre è ormai consolidata l'evidenza che solo un trattamento multimodale, in cui il farmaco sia previsto a supporto di altri interventi sul bambino e contestual-
mente sull'ambiente, ha maggiori possibilità di avere ricadute positive.
Purtroppo, come affermato nel Registro nazionale dell'ADHD, in Italia non esiste una rete di soggetti e istituzioni che si facciano carico global-
mente della gestione dei casi con DDAI. La mancanza di tale rete tra centri designati per la l'erogazione della terapia farmacologica, servizi territoriali, scuola, famiglie ha conseguenze negative sulla possibilità di erogare gli interventi necessari, soprattutto le terapie non farmacologiche (Registro nazionale dell'ADHD, 2016).
7. Conclusioni Il fenotipo comportamentale del DDAI cambia le sue caratteristiche con lo sviluppo: generalmente i sintomi tendono a migliorare e una per centuale tra il 20-50% degli individui con DDAI presenta una remissione completa dei sintomi nel corso dello sviluppo. La persistenza dei sintomi in
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età adulta è associata alla comorbidità con il disturbo della condotta e con
la depressione maggiore, alla presenza di un DDAI con livello severo di
gravità o segnalato per il trattamento, condizione questa legata alla severità dei sintomi (Caye et al, 2016). Uno studio longitudinale su 110 ragazzi con PDAI seguiti per 10 anni ha rilevato che il 65% del campione non presen-
ta più tutti i sintomi, tuttavia i 78% degli individui continua a presentare manifestazioni che indicano una continuità del disturbo: il 35% continua a soddisfare i criteri del DSM-IV, il 22% presenta manifestazioni sotto soglia, il 15% presenta deficit di funzionamento in diverse aree (Biederman, Petty, Evans, Small e Faraone, 2010).
Per quanto riguarda i cambiamenti relativi alla natura dei sintomi, le caratteristiche di iperattività e impulsività sono tipiche della più giovane età, mentre l'inattenzione e i disturbi correlati sono più evidenti nelle età successive.
In coloro in cui il disturbo permane, possono verificarsi anche gravi
conseguenze. In generale, gli esiti sono peggiori quando ai sintomi di base si associa anche l'aggressività (Dykman e Ackerman, 1993). Una percen-
tuale compresa tra il 25 e il 45% dei bambini iperattivi, sviluppa in età adulta un disturbo antisociale di personalità, conseguente alle relazioni disturbate con i pari e alla bassa autostima durante il periodo dell'infanzia.
Inoltre, fra questi soggetti sono più frequenti le condotte criminali e un
aumento del rischio di abuso di alcool e di sostanze stupefacenti (10-25%). Una meta-analisi sulla prevalenza di individui adulti in stato di detenzione indica che più del 40% di questi presentavano DDAI in età evolutiva (Baggio et al., 2018). Gli individui con iperattività, oltre a manifestare problemi
sociali, nel corso dell'età adulta tendono a perdere più spesso il lavoro; inoltre tanto è più severo il quadro relativo ai disordini della condotta tanto più frequenti sono il fallimento negli studi, l'anticipazione dell'attività sessuale e le gravidanze in età precoce (Barkley, Fisher, Smallish e Fletcher, 2006). Tra gli esiti documentati negli individui con DDAI compare anche un maggior rischio di avere incidenti stradali, obesità, relazioni familiari disfunzionali e difficoltà nella regolazione delle emozioni (Caye et al., 2016).
Gli esiti del disturbo da deficit di attenzione con iperattività possono essere quindi molto gravi, e, se si considera anche la sua diffusione, non e possibile sottovalutare l'importanza di interventi precoci e appropriati al fine di limitare o, meglio, azzerare il rischio di evoluzioni patologiche. In conclusione occorre ricordare che negli ultimi anni è stato rilevato un numero consistente di casi con esordio del DDAI in età adulta, o comunque dopo la fanciullezza. A sorprendere è la percentuale consistente di questi casi (67-87%) che richiede un'analisi approfondita dei fattori alla base del fenomeno (Caye et al., 2016).
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9, Disabilità e famiglia
di Mirella Zanobini
1. Premessa
Come sottolineano molti, autori, la nascita di un bambino con disabilità rappresenta una potenziale fonte di difficoltà e disagio per qualsiasi famiglia. Evidenzieremo sinteticamente nelle pagine seguenti quali sono le
principali manifestazioni di tali difficoltà all'interno del nucleo familiare complessivo e in ciascuno dei suoi membri. Cercheremo tuttavia di prendere in considerazione soprattutto le risorse che possono essere utilizzate per far fronte a una situazione di disequilibrio e per adattarsi alla nuova condizione, nella convinzione che un approccio centrato sulla normalità della famiglia
sia più funzionale - anche alla luce della notevole variabilità interfamiliare - alla progettazione di interventi rispondenti a bisogni reali, piuttosto che impostati pregiudizialmente (Zanobini, Manetti e Usai, 1998; 2002). Compiere questa operazione significa soprattutto lavorare sulle differen-
v: i concetti di ciclo di vita e di fasi di transizione, affermatisi da tempo negli studi psicologici sulla famiglia (McGoldrick e Carter, 1982), mettono infati in evidenza come qualsiasi nucleo nella sua evoluzione si trovi ad affontare compiti che richiedono un più o meno vasto processo di riorganizzazione. Le famiglie differiscono quindi fra loro per le modalità con Qui affrontano tali compiti evolutivi; ma anche il singolo nucleo, in questo percorso, non rimane uguale a se stesso.
o Per quanto riguarda in particolare le famiglie di persone con disabili Il si fa strada la considerazione della variabilità delle situazioni, contro landenza ad adottare un concetto omogeneo di tale tipologia familiare, Atenuto dall'idea - da tempo considerata desueta - che la presenza di un Tiglio disabile renda tale l'intera famiglia (Dall'Aglio, 1994). uTEner COntO delle differenza la considerare la famiglia come protagonita di un processo di adattamento oltre che vittima di una situazione stresa ATte ienthica infine immetterla a pieno titolo nel processo terapeutico, sia
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per quanto riguarda i supporti psicologici e materiali di cui necessita, sia per quanto riguarda l'attivazione delle risorse di cui è portatrice.
2. Le famiglie di fronte alla disabilità Come sostengono Harris, Boyle, Fong, Gill e Stanger (1987), la nascita di un figlio comporta sempre un certo grado di confusione e di disorganizzazione, nonché un cambiamento nella vita dei genitori e un certo livello di stress per riuscire a far fronte alle molteplici esigenze del nuovo nato. Spesso succede, però, che la gioia e la gratificazione legate alla cura e alla crescita del bimbo compensino la fatica e sostengano naturalmente i genitori nei loro sforzi. Quando nasce un bambino disabile, l'evento si connota come altamente stressante, anche perché spesso sono più ridotte le fonti di gratificazione.
Per molto tempo' gli studi sulle famiglie dei bambini con disabilità
hanno centrato la loro attenzione sugli aspetti patologici emergenti in un nucleo familiare in presenza di un figlio con severi problemi di sviluppo. Solo successivamente l'interesse si è spostato allo studio dei processi e del-
le risorse che favoriscono l'adattamento familiare (Krauss, 1993). Diversi autori (Singer e Irvin, 1991; Reddon, McDonald e Kysela, 1992) propongono di applicare allo studio dei processi adattivi un modello multivariato, in base al quale il modo in cui una famiglia reagisce a circostanze difficili risulta dall'interazione fra diversi fattori: le dinamiche familiari, la capacità di effettuare una valutazione corretta del problema, le strategie disponibili per affrontarlo, le risorse materiali e i supporti sociali forniti dall'esterno. Ciò non significa negare l'impatto potenzialmente dirompente dell'evento, descritto da molti autori agli albori della ricerca su tali tematiche (Farber, 1959). Tuttavia, come sottolinea Dall'Aglio (1994), "non si può accettare, поп più, che le dinamiche familiari si cristallizzino in uno stato irreparabile, di disperazione controllata. Tra questo e le altre forme reattive anomale, di rassegnazione passiva e acritica, o di negazione irreale del danno, è individuabile una gamma di reazioni positive, di riparazione del vulnus, di adat tamento maturativo" (p. 32). Inoltre, da alcuni studi che traggono spunto dai resoconti dei familiari o in lavori basati su consolidate esperienze di suppor to alle famiglie (lanes, 1991; Singer e Irvin, 1991; Kearney e Griffin, 2001) ). In pratica, come sostiene DallAglio (1994), la letteratura sulle dinamiche familiari in fronte alla disabilia è circoscritta ai quaranta annetteratura su. in quanto precedente Tannie era molto frequente la istitzionalizzazione e molto per marginale il ruolo del
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emerge come i figli disabili possano essere in molti modi fonte di soddistazione per i loro genitori. Un primo motivo di gratificazione, semplice ed evidente se si ragiona al di fuori di schemi preconcetti è l'esistenza stessa del figlio e l'esperienza genitoriale in sé. Un altro elemento di soddisfazione sono i piccoli o grandi traguardi educativi raggiunti, fonte di autostima e di ammirazione nei confronti del figlio, proprio in relazione alla tenacia e all'impegno che hanno richiesto. Un'altra fonte di appagamento, citata nei lavori che sottolineano i contributi positivi di un figlio con un disturbo evolutivo sulla famiglia (Van Riper, 1999), è la sensazione di cambiamento personale, talvolta di rinascita, legata all'esperienza della disabilità del figlio. Alla luce di tali considerazioni è importante elencare brevemente quali
fattori contribuiscono maggiormente alla "diversità di itinerari adattivi" (Dall'Aglio, 1994, p. 126). Premettiamo che, come sottolineano Singer e Irvin (1991), uno dei fattori potenzialmente stressante è lo stravolgimento delle attività abituali dei membri della famiglia. Tale cambiamento può riguardare i ritmi delle routine quotidiane (pasti, sonno ecc.), i ritmi lavorativi di uno o più membri, lo spazio dedicato ad attività ricreative. Tali limitazioni sono ovviamente collegate alle richieste di assistenza e di cura, anche in termini di tempo di vita che ciascun componente della famiglia
dedica all'assistenza della persona con disabilità.
Una prima variabile da tenere in considerazione è naturalmente la sitazione del bambino, legata alla natura e alla gravità della disabilità, alla eventuale presenza di comportamenti problematici e alla loro frequenza, allo stato di salute, al manifestarsi di disturbi del sonno, ecc. Alcuni studi, mettendo a confronto i livelli di stress genitoriale in relazione a diverse tipologie di disturbi, evidenziano per esempio come i genitori di bambini con disturbi dello spettro autistico sperimentino più stress non solo di quelIl con bambini a sviluppo tipico, ma anche in presenza di altre condizioni,
come la sindrome di Down (Hasting, Kovshoff, Brown, Ward, Degli Espinosa e Remington, 2005). Un minor senso di benessere familiare, unito a elevati livelli di stress, spesso sono connessi, nell'autismo come in altri disturbi (per esempio nell'ADHD), con la frequenza dei comportamenti problema esibiti dai figli (Estes, Munson, Dawson, Koehler, Zhou e Abbott, 2009; Jones, Hastings, Totsuka e Rhule, 2014). Inoltre, in prospettiva transazionale, quando i comportamenti problema e i sintomi del bambino incrementano lo stress parentale, può succedere che le reazioni dei genitori a tali comportamenti a loro volta alimentino i problemi che li hanno scatena-
, creando un circolo vizioso (Rodriguez, Hartley e Bolt, 2019). Tuttavia,
Jones et al. (2014) evidenziano come la presenza di un atteggiamento minJilhness (basato sulla capacità di osservare e descrivere le esperienze, di non essere reattivi, di agire con consapevolezza e fondato sull'accettazione pSicologica) costituisca un potente mediatore tra comportamenti problema 255
e
e benessere genitoriale, diminuendo i livelli di ansia, stress e depressione soprattutto nelle madri. Un'altra variabile è infatti costituita dalle caratteristiche personali che gli individui coinvolti mettono in gioco di fronte all'evento stressante. In particolare sembra che una modalità adattiva di "far fronte" (coping) sia frequentemente legata al senso di padronanza (mastery) rispetto ai problemi emergenti dalla situazione di disabilità e all'elevato livello di autostima. Inoltre appare positiva la capacità di valutare realisticamente un evento dannoso e in seguito di pensare quali risorse possono essere attivate per far fronte alla situazione. La letteratura recente ha messo inoltre in luce come un atteggiamento resiliente, orientato a non piegarsi di fronte alle difficoltà, sia sostenuto da caratteristiche individuali e familiari. Per esempio, un sistema di credenze forte, orientato all'apertura, alla comunicazione, al trovare spazi per fare cose insieme come famiglia contribuisce a promuovere speranza e ottimismo di fronte alle avversità (King, Baxter, Rosenbaum, Zwaigenbaum e Bates, 2009). La tendenza a essere altruisti, così come il ricorso all'emozionalità positiva e all'umorismo, a loro volta promuovono la resilienza. È chiaro tuttavia come tali capacità personali, che coinvolgono sia un versante emotivo (capacità di accettazione; controllo delle emozioni negative) che un versante cognitivo (capacità di valutare correttamente la natura dell'evento), abbiano maggiori possibilità di manifestarsi e di svilupparsi in un contesto ricco di risorse e di fonti di supporto.
Diversi studi (cfr. Singer e Irvin, 1991) hanno infatti mostrato come la rete di supporto intrafamiliare aiuti ad affrontare i compiti di accudimento. Il raggiungimento di un equilibrio soddisfacente sembra essere collegato alla cooperazione dei genitori, a una suddivisione dei compiti percepita come soddisfacente dalle persone coinvolte, alla qualità del rapporto coniugale, alla condivisione con componenti della famiglia allargata (classicamente i nonni). Tali fattori inoltre non agiscono isolatamente, ma in interazione, rinforzandosi o indebolendosi reciprocamente.
Gli studi sul supporto mettono in risalto l'importanza del supporto sociale e delle risorse che la comunità riesce ad attivare di fronte alla
disabilità. Si tratta da un lato di un sostegno psicologico, che sfocia nella percezione da parte dei genitori di non essere isolati rispetto alla comunità d'appartenenza. L'isolamento costituisce infatti un forte rischio per le fami-
glie con figli disabili, per diversi motivi che vanno dalla minor disponibiira di tempo, alla scarsa condivisione di problemi comuni alle altre famiglie, al timore del giudizio esterno (Manetti e Fasce, 2002). Una ricerca sul livello di soddisfazione genitoriale nei confronti dell'educazione inclusiva dei propri figli con disabilità (Zanobini, Viterbori, Garello e Camba, 2017 evidenzia come, a fronte di un buon livello di soddisfazione in molti ambi*', alcuni genitori individuino un elemento di criticità proprio nei rapporti con i compagni e con le loro famiglie. 256
Una forma più "materiale" di supporto è costituita dall'offerta di servizi e dai conseguenti rapporti che si instaurano con diverse figure professionali (medici, psicologi, educatori, tecnici della riabilitazione ecc.). Talvolta tuttavia il rapporto con i servizi si trasforma per le famiglie in un'ulteriore fonte di stress: infatti, come evidenziano Singer e Irvin (1991), i contatti con tali professionisti spesso costituiscono una parte rilevante della vita familiare, anche in termini temporali; nel caso quindi di relazioni conflittuali esse rischiano di costituire un ulteriore peso anziché una risorsa. Gli autori riportano a questo proposito una ricerca di Huang e Heifetz (1984) dalla quale emerge come madri di bambini con disabilità intellettiva individuino quattro fattori che differenziano professionisti supportivi e non: la personale capacità relazionale (espressa come calore, entusiasmo, apertura mentale ecc.); la percezione genitoriale di aver a che fare con una persona competente; il livello di collaboratività (inteso come sensazione di essere ascoltati
e di partecipare alle decisioni); l'efficienza (espressa come finalizzazione dei discorsi e delle azioni a obiettivi concreti).
3. I ruoli all'interno della famiglia La ricerca sulla famiglia ha tradizionalmente messo in luce l'impatto anche differenziato che l'evento disabilità può avere su ciascuno dei suoi membri. Abbiamo fatto cenno a come la soddisfazione e la coesione co-
niugale siano fattori che influenzano l'adattamento e la capacità di riorganizzazione della famiglia e come d'altra parte i conflitti coniugali possano essere esacerbati dalla condivisione di emozioni negative intense e dalla richiesta di riorganizzazione che un figlio disabile comporta. Ma in che modo contribuisce ciascun membro, in particolare ciascun genitore, a tale riorganizzazione? La variabilità interindividuale sembra legata, come si è visto, a una serie di fattori non strettamente riconducibili alle caratteristiche personali. D'altra parte, in un'ottica che assuma la famiglia come sistema in cui ogni membro influenza gli altri e contribuisce a determinare l'assetto generale (Powell, Hecimovic e Christensen, 1992), è importante considerare se esistono specificità individuali collegate ai ruoli che ciascuno ricopre all'interno del sistema. A questo proposito diverse ricerche SI sono focalizzate sulle eventuali differenze fra madri e padri di bambini disabili nella percezione della situazione e nelle modalità di reazione preValenti. I risultati delle ricerche non mostrano andamenti univoci. Ci limilamo dunque a segnalare alcuni fra gli elementi differenziali sottolineati da più autori.
Partendo dalla considerazione che, nonostante i cambiamenti notevoli degli ultimi decenni nel ruolo sociale della donna, le madri continuano a
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essere il cardine della presa in carico dei bambini disabili, molte ricerche si sono inizialmente focalizzate sull'impatto dell'evento disabilità sulla figura materna. Harris et al. (1987) e Sorrentino (1987) evidenziano come spesso, per far fronte alle maggiori responsabilità quotidiane legate all'accudimento del figlio, le madri rinuncino a diverse opportunità di sviluppo personale, per esempio in ambito lavorativo. Tale situazione porterebbe in alcuni casi al manifestarsi di sentimenti di depressione e di rabbia, legati anche alla fatica e alle tensioni quotidiane; inoltre sembra frequente una caduta del livello di autostima, soprattutto nei casi in cui la maternità costituisce per la donna la fonte principale di autorealizzazione. In questa prospettiva il ruolo del padre è stato tradizionalmente letto come più marginale rispetto a quello materno e maggiormente orientato a fronteggiare l'aspetto economico della situazione, piuttosto che le problematiche connesse alla cura del figlio e alle dinamiche relazionali interne alla famiglia. Molti autori notano tuttavia come proprio lo scarso coinvolgimento, spinto in alcuni casi all'eccesso di "fuga nel lavoro". , possa ridurre l'opportunità di controbilanciare i sentimenti negativi di frustrazione, rabbia, colpa attraverso l'impegno quotidiano nei confronti del figlio. Successivamente (Powell et al., 1992; Zanobini e Freggiaro, 2002), la ricerca ha mostrato un maggiore interesse per la figura paterna, in parte in considerazione dei già citati cambiamenti sociali, che determinano una sempre più ampia partecipazione della donna (anche madre di un bambino con disabilità) al mondo del lavoro, in parte alla luce dell'estrema variabilità riscontrata fra le singole situazioni familiari. In particolare, nel tentativo di
delineare somiglianze e differenze fra le figure genitoriali, i risultati delle ricerche nel loro insieme suggeriscono che i padri siano più a rischio delle madri nello sviluppo di solidi legami affettivi con il figlio, mentre le madri mostrerebbero più elevati livelli di depressione o maggiori difficoltà nell'adattarsi alle richieste del ruolo parentale (Krauss, 1993). I risultati di una ricerca di tale autrice sulle famiglie di 121 bambini disabili in età prescolare confermano in parte gli studi precedenti. Infatti dall'analisi dei dati emergono sia somiglianze che differenze fra le figure genitoriali: contrariamente
a quanto rilevato in studi condotti con bambini più grandi, le madri non
riportano punteggi di depressione più elevati rispetto ai padri; esse tuttavia sembrano avere maggiori problemi con le conseguenze personali dell'essere
genitore (restrizioni di ruolo; rapporti con il marito, ecc.). I padri d'altra
parte riportano un maggior livello di stress in relazione al temperamento del figlio e al rapporto con lui; inoltre essi sembravano più sensibili agli effetti dell'ambiente familiare (grado di coesione, livello di adattamento), mentre le madri risultano maggiormente influenzate dalle reti di supporto personale e sociale. Secondo Hastings e coll. (2005), l'adozione di strategie di coping positive, orientate ad affrontare i problemi e a cercare soluzioni, è connessa a situazioni di maggiore benessere in entrambe le figure genitoriali.
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Come si è già più volte affermato, la presenza di una disabilità rappresenta un evento che coinvolge l'intero sistema familiare a vari livel"Ciascun componente può reagire alla situazione con modalità che saranno di volta in volta influenzate anche dal gioco complessivo delle relazioni familiari e degli aggiustamenti reciproci degli altri membri: particolarmente interessante a questo proposito appare la posizione dei fratelli di un individuo con disabilità. Dalla rassegna di Dall'Aglio (1994) su handicap infantile e fratria, emerge come l'interesse per tale argomento sia relativamente recente. Per tutti gli anni '70 del secolo scorso
gli studi clinici su fratelli e sorelle di bambini con disabilità o malattia
cronica hanno messo l'accento soprattutto sui rischi di disadattamento e di sofferenza psicologica legati a questa condizione. Diversi autori (Cigoli, 1993) parlano del rischio di una precoce "genitorializzazione", presente soprattutto per le sorelle maggiori del membro con disabilità. Inoltre, "altre conseguenze possono derivare, direttamente o indirettamente, dalla frustrazione, dalla colpa e dalla vergogna collegate all'esperienza di un familiare disabile. Questi sentimenti, come del resto per i genitori, risentono marcatamente degli stereotipi subculturali e dei pregiudizi che
operano nell'ambito in cui vive una determinata famiglia" (Dall'Aglio, 1994, pp. 70-71). A testimonianza di tali pregiudizi, da una ricerca di Diamond, Furgy e Blass (1993) emerge come bambini di quattro anni,
frequentanti una classe prescolare con l'inclusione di bambini con disabilità, preferiscano come compagni di gioco coetanei dello stesso sesso, non disabili. Anche più recentemente diversi studi, effettuati in contesti scolastici caratterizzati da "piena inclusione" come quello italiano, riportano come gli alunni con bisogni educativi speciali di varia natura siano significativamente meno accettati e/o più rifiutati rispetto agli alunni a sviluppo tipico, sia rispetto alle attività di gioco che di apprendimento e in diversi ordini di scuola (Nepi et al., 2015). È quindi ancora oggi possibile che i fratelli di bambini con disabilità si trovino per riflesso in una
posizione di relativo isolamento, legata in parte ai pregiudizi citati, in
parte alle oggettive limitazioni di tempo "per sé" e per le relazioni socia-
li di cui tutta la famiglia si trova, talvolta, a soffrire. Inoltre, le ricerche sull'argomento non hanno confermato in modo univoco la presenza e l'entità di rischi generalizzati per i fratelli e i risultati evidenziano anche effetti più complessi, non privi di componenti maturative (cfr. anche Powell et al., 1992). Per esempio, alcune ricerche sui fratelli di bambini con disabilità uditiva (Bat-Chava e Martin, 2002) hanno riscontrato una maggiore indipendenza rispetto ai coetanei e una Capacità di cooperazione ed empatia accresciuta dalla presenza del fratello con disabilità.
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4. Fasi di sviluppo del bambino e della famiglia Si è già fatto cenno all'inizio del capitolo alla tendenza attuale a considerare la famiglia in genere, e in particolare le famiglie dove è presente un membro disabile, come sistemi in evoluzione. Questa assunzione è fondamentale per non correre il rischio di giudicare come permanente una
reazione poco adattiva al momento della diagnosi o viceversa di considerare il superamento di tale impatto come unico ostacolo cui la famiglia di un bambino con disabilità deve far fronte. Sicuramente la nascita di un bambino con disabilità o comunque il mo-
mento della scoperta del disturbo è un fenomeno dirompente all'interno del ciclo vitale di una famiglia, tale da produrre una crisi di ampia portata. È importante ancora sottolineare come, a fronte della traumaticità di tale evento, non sempre i professionisti che informano le famiglie sono anche preparati ad aiutarle nel reggere l'impatto di una simile notizia. Come sottolineano Zanobini et al. (1998; 2002) in relazione alle testimonianze emerse nell'ambito di una ricerca condotta con le famiglie di bambini disabili frequentanti la scuola dell'infanzia e la scuola primaria, spesso i genitori riferiscono di essersi sentiti soli di fronte alla diagnosi, anche per una mancato sostegno affettivo da parte dei servizi. Il 25% riporta inoltre elementi di insoddisfazione rispetto a tale momento, in quanto spesso le informazioni e le spiegazioni ricevute risultavano insufficienti o addirittura assenti. Anche Hasnat e Graves (2000) hanno riscontrato in un loro studio che i genitori che pensavano di aver avuto, al momento della diagnosi, un'enorme quantità di informazioni erano più soddisfatti di coloro che trovavano l'informazione semplicemente adeguata, indicando che i genitori desiderano ricevere quante più notizie possibili al momento della diagnosi anche qualora non siano capaci di comprenderle appieno. Harris et al. (1987) suggeriscono a questo proposito la necessità di diversi incontri per fornire gradualmente un'informazione il più possibile completa e corretta: nessun nucleo familiare, per quanto ben funzionante, può nello stesso momento affrontare la notizia della disabilità in sé, la conoscenza dei particolari relativi alla condizione specifica del proprio figlio, i dettagli riguardo agli interventi possibili, ecc. Diversi colloqui sono inoltre importanti per cercare di capire i bisogni specifici di ciascuna famiglia e per tarare su questa base, piuttosto che su opzioni pregiudiziali, l'eventuale offerta di supporti e di servizi. Trabucchi (2009), parlando più in generale del rapporto tra medico e paziente, sottolinea l'importanza delle parole che si scelgono, del tono della voce che si utilizza della comunicazione non verbale, quando si affrontano comunicazioni critiche, come per esempio la comunicazione della diagnosi: le informazioni devono essere chiare, complete, realistiche, ma sempre nutrite da un atteggiamento di speranza. 260
Come si è visto molte famiglie, contrariamente a quanto veniva affermato nei primi studi sull'argomento, trovano le energie sufficienti per affrontare questo evento. Esistono però altre fasi cruciali, che spesso coin-
cidono con tappe importanti nella crescita di un figlio, che pongono ai familiari nuovi problemi di adattamento (cfr. le tappe di adattamento delineate da Myers, 1991, a proposito del ritardo mentale). Innanzitutto, finché un bambino è piccolo, l'esperienza genitoriale può per molti aspetti non essere troppo dissimile - salvo casi di estrema complessità o rilevanti problemi di salute - da quella di altre famiglie: tutti i bambini piccoli sono dipendenti, non camminano, non parlano, non si vestono da soli. Crescendo, anche se in modo diversificato per diverse tipologie di disabilità, spesso aumenta la discrepanza rispetto ai coetanei, sia in termini di livello evolutivo, sia in termini di bisogni e interessi. Questo fatto contribuisce a intensificare il rischio di isolamento del nucleo familiare.
Il momento dell'ingresso a scuola può costituire un altro passaggio molto delicato, soprattutto quando il bambino con disabilità non ha la
possibilità, neppure con il supporto di personale specializzato o di strategie e strumenti didattici adeguati, di condividere gran parte delle attività svolte in classe. Inoltre, com'è facile intuire, diminuiscono ulteriormente le occasioni di condividere con altre famiglie le problematiche legate alla crescita dei figli, al tipo di impegni e di interessi prevalenti. Affronteremo più approfonditamente nel cap. 10 l'importanza che la scuola può assumere per creare e/o coltivare un clima di confronto fra le famiglie nel rispetto della diversità (di cui la presenza di una disabilità è solo una delle possibili facce).
L'ingresso nella pubertà prima, e quindi nell'età adulta costituiscono anch'essi momenti evolutivi cruciali. Come avremo modo di vedere nella parte dedicata agli sbocchi che si delineano per le persone con disabilità dopo la scuola dell'obbligo (cap. 11), esiste una difficoltà culturalmente determinata a pensare la persona con disabilità come individuo adulto. Talvolta la complessità del problema costituisce una difficoltà oggettiva all'emancipazione del ragazzo dalle figure familiari; talvolta invece tale emancipazione è ostacolata soprattutto dalle barriere psicologiche che relegano la persona disabile al ruolo di eterno bambino, negando per esempio i bisogni e le possibilità legati alla sfera sessuale (Govigli, 1987).
Non approfondiamo in questa sede la tematica della sessualità, per la quale rimandiamo ad alcune pubblicazioni specialistiche, che a partire
dagli anni '80 del secolo scorso hanno affrontato tale argomento, uscendo dall'oscurantismo che aveva caratterizzato i decenni precedenti (Baldaro
Verde, Govigli e Valgimigli, 1987; Veglia, 1991). Ci limitiamo a fornire alcuni elementi utili a situare il discorso della sessualità in rapporto al clima culturale e al gioco delle relazioni familiari.
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⑲
Come sottolinea Veglia, nelle situazioni di disabilità emergono in mo-
do forse più esasperato alcuni atteggiamenti culturali generalizzati nei confronti della sessualità. Anche quando tali atteggiamenti non sono più puramente regolativi o repressivi, si arriva a "parlare" di sessualità, ma
raramente essa diventa esplicito oggetto di insegnamento. In tale situazione cresce il potenziale svantaggio dei ragazzi disabili, dato l'accesso spesso
più limitato a fonti di informazione per altri abituali, come i mass-media o il rapporto con i coetanei (Govigli, 1987). Questa considerazione ci introduce immediatamente ad altre considera-
zioni parallele: - in primo luogo il problema del vivere la propria sessualità non si pone nella stessa misura e con le stesse caratteristiche per tutte le persone con
disabilità, ma è legato a numerose variabili quali il tipo e la gravità del deficit, la rete di relazioni familiari ed extra-familiari, l'età, il genere ecc.; - non è possibile inoltre operare un'equazione sessualità/genitalità. I bisogni affettivi, di contatto, di intimità accompagnano quello di avere una vita sessuale e si fondano nell'esperienza relazionale antica e recente di ogni individuo. Questo fatto apre potenzialmente il discorso a tematiche più generali di inclusione sociale, che riguardano non solo il tempo scuola e lavoro, ma anche il tempo libero, rinviandoci ai problemi di isolamento delle famiglie, cui si è fatto cenno nel corso del capitolo. Assumono inoltre un'importanza fondamentale le modalità con cui una famiglia affronta la crescita del figlio in genere e l'affacciarsi della possibilità di una sua vita sessuale. È stato più volte sottolineato in letteratura come situazioni di forte dipendenza reciproca e di iperprotettività da parte dei familiari siano base di un potenziale disconoscimento anche dei bisogni legati alla sfera della sessualità. A partire da tali presupposti vengono tollerati comportamenti autoerotici o favorito il ricorso alla prostituzione, ma non
può essere accettata l'aspirazione a un soddisfacimento sessuale "normale" (che tra l'altro si scontra con il grosso tabù della possibilità di procreazione).
Il rischio è quello che, anche in questo campo, i soggetti di decisioni cosi private e importanti siano altri: la persona con disabilità non ha vita privata, tutto ciò che lo riguarda viene in qualche modo eterodiretto. In conclusione, non si vogliono negare i problemi e gli ostacoli concreti che anche in questo campo condizionano, più di quanto avviene per gli altri individui, la vita delle persone con disabilità: si pensi alle discrepanze fra crescita fisica e psicologica, ai bassi livelli di autonomia, al rischio di gravidanze difficilmente gestibili, tutti fattori che insieme a molti altri possono, quando si presentano, limitare la persona con disabilità e Costituire barriere per chi si pone in contatto con lei. Sottolineiamo tuttavia come sia importante non par-
tre da una negarione pregiudiziale delle possibilità, o da un atteggiamento pedagogico a tutti i costi, attraverso il quale ci si sostituisce alla persona disa bile e si evita il carico emotivo di un ascolto profondo dei suoi problemi real. 262
Ci sembra importante menzionare, infine, la possibilità che la disabilità si presenti come evento inaspettato in un momento qualsiasi del ciclo di vita di una famiglia, colpendo in prima persona uno qualunque dei suoi membri. Esso può essere conseguenza di eventi morbosi o traumatici e presentarsi come fatto improvviso o come progressiva perdita di abilità già possedute. In tali casi - diversi naturalmente per entità del danno e per epoca di insorgenza - i familiari si trovano a doversi adattare a cambiamenti, talvolta molto rilevanti, nelle abitudini di vita e anche nella rappresentazione mentale della persona divenuta disabile.
Un capitolo importante dei disturbi acquisiti è rappresentato dagli esiti dei coma, soprattutto quando i pazienti permangono a lungo in situazione di stato vegetativo. Non è questa la sede per approfondire tale tematica (cfr. Dolce e Rosadini, 1997; 1998). E importante tuttavia sottolineare come tali situazioni richiedano per i familiari un impegno considerevole in termini di tempo e di energie, talvolta per periodi molto lunghi. D'altra parte viene rimarcata da più autori l'importanza che un coinvolgimento dei familiari ricopre per la riuscita della riabilitazione (Ammermann e Morosini, 1998). Anche in questo caso, una molteplicità di fattori interviene a condizionare la varietà di percorsi delle famiglie e la qualità del loro coinvolgimento. In particolare, giocano un ruolo rilevante l'età e il ruolo del paziente prima dell'evento. Diverse ricerche (cfr. Zanobini, 1998 per una rassegna) hanno evidenziato a questo proposito un maggiore stravolgimento di ruoli quando il principale caretaker è il coniuge, che prima ricopriva un ruolo paritario e ora deve assumere un ruolo parentale, rispetto alle situazioni in cui un genitore si occupa del figlio in situazione di stato vegetativo persistente.
5. La famiglia e il trattamento Da quanto è emerso nei paragrafi precedenti appare chiaro come la famiglia sia un anello fondamentale del processo terapeutico in diversi sensi: - un intervento efficace richiede attenzione sia per le domande specifiche
poste dal bambino e dai limiti connessi alla disabilità, sia per la fase evolutiva e per i bisogni della famiglia; - la famiglia partecipa attivamente alle decisioni che riguardano il piano di trattamento per il proprio figlio; - la famiglia è coinvolta nel trattamento del figlio, anche se in misura
diversa secondo i casi e con un ruolo proprio, diverso da quello dei terapisti e degli educatori; qualora le condizioni lo rendano necessario è ipotizzabile un intervento di supporto psicologico e/o materiale alla famiglia. Abbiamo già brevemente considerato come i cicli di vita della famiglia relativi alla crescita del membro con disabilità siano legati all'emergere di 263
nuovi bisogni e alle conseguenti necessità di riorganizzazione. Come già sosteneva Dall'Aglio (1994, p. 84) "sono relativamente scarse le indagini. gli studi (e quindi le informazioni scientifiche attendibili) sul variare delle dinamiche familiari in relazione alla crescita dei figli"; i problemi che sem-
brano emergere con maggiore facilità sono una certa resistenza di fronte alla crescita e all'emancipazione del figlio disabile nei suoi diversi aspetti Uno dei problemi non marginali è quello di far si che, per quanto possibile, l'individuo acquisti gradualmente consapevolezza della sua situazione e si ponga in modo via via sempre più attivo rispetto alle scelte che lo riguardano, per esempio di fronte alle iniziative terapeutiche e riabilitative
a lui rivolte. Abbiamo già fatto cenno in più parti del volume a come sia importante che il progetto di intervento non passi "sulla testa" dei suoi destinatari, ma cerchi il più possibile fin dall'inizio un coinvolgimento attivo. Questo vale ovviamente non solo per la persona con disabilità, ma anche
per la famiglia. Ora, mentre nessun medico sottoporrebbe un bambino a un intervento chirurgico, magari con esito incerto, senza chiedere il parere dei familiari
e senza spiegarne loro i pregi e i rischi, talvolta si ha la sensazione che nel caso della disabilità "la riabilitazione", "l'intervento" siano prescritti
come medicine inevitabili, senza troppa preoccupazione per il fatto che gli utenti ne comprendano il significato complessivo. Il rischio in questi casi, come sottolinea Pierro (1994, p. 22), è che le frequenti attività terapeutico/ riabilitative assumano "insensibilmente il significato di pellegrinaggio, ove importante è l'atto in sé, (...) non la verifica della sua efficacia". Inoltre è importante sottolineare, anche se sembrerebbe ovvio, che la famiglia è il primo luogo nel quale è possibile verificare se le competenze apprese vengono di fatto utilizzate nella vita quotidiana, generalizzando i risultati ottenuti durante la riabilitazione. Come si può pensare allora che i genitori aspettino il bambino fuori dalla porta del terapeuta senza sapere che cosa è successo, che cosa è stato proposto e come ha risposto il bambino? Con queste premesse, come possono conoscere quegli apprendimenti che essi dovrebbero contribuire a verificare e a consolidare?
Certamente, a seconda della natura del trattamento, varia la partecipazione auspicabile da parte dei familiari. Essa è particolarmente incoraggiata per esempio in molte delle forme di terapia comportamentale descrille nel corso del volume, ove si prevede esplicitamente il coinvolgimento della famiglia e della scuola nell'azione riabilitativa; tale partecipazione è inolire
importante nella riabilitazione del linguaggio, nella misura in cui lobiet Yo è migliorare la qualità della comunicazione. E invece ipotizzabile che altri interventi (per esempio quelli psicoterapeutici individuali) richiedano una partecipazione meno diretta dei familiari. In ogni caso è importante sottolineare come i genitori debbano essere informati dell'intero progello 264
di intervento, aggiornati sui risultati e sugli eventuali cambiamenti, nonché ascoltati dagli specialisti almeno per quanto riguarda i riscontri delle terapie nella vita quotidiana. Abbandonare la prospettiva di una famiglia necessariamente patologica e riconoscerne il ruolo fondamentale nella collaborazione con i servizi non significa tuttavia negare le necessità di supporto che via via possono emergere. Singer e Irvin (1991) offrono a questo proposito una panoramica degli interventi possibili distinguendoli in diverse tipologie:
1. Interventi volti a ridurre le fonti di stress. Sotto questa voce vengono comprese sia forme di supporto "pratico" sia servizi educativi per i bambini e i genitori. Sembrano funzionali a ridurre lo stress i servizi di respite care, letteralmente sollievo nel prendersi cura (cfr. Pollock, Law, King e Rosenbaum, 2001 per una rassegna), che offrono ai genitori la possibilità di staccare momentaneamente dalla cura quotidiana del bambino, assolvendo quindi, nei casi di severa compromissione del bambino, al ruolo normalmente ricoperto dai nonni o dalle baby-sitter. Anche il supporto economico è in alcuni casi molto importante dato l'aumento di spese e la diminuzione di risorse lavorative che spesso comporta la presenza di una disabilità. A un altro livello, la presenza di strutture educative dove il bambino può accrescere le sue competenze nella cura personale, nelle relazioni sociali, nella comunicazione allevia notevolmente la fatica dei familiari nella gestione delle attività quotidiane. Più discussa è invece l'efficacia dei programmi di addestramento per i genitori affinché essi assumano un attivo ruolo di insegnanti nei confronti del proprio figlio con disabilità. Tali programmi, di ispirazione prevalentemente comportamentale, valorizzati negli anni '60 e '70 del secolo scorso anche come supporto per i genitori, hanno più tardi suscitato perplessità per i rischi connessi all'assunzione di responsabilità terapeutiche, quali per esempio la diminuzione o la distorsione del coinvolgimento affettivo, nonché l'eccesso di attenzione ai soli aspetti dell'apprendimento. I sostenitori dell'efficacia del parent training sottolineano tuttavia come le attuali modalità di coinvolgimento dei genitori, che prevedono di offrire linee guida per una partecipazione più consapevole alle normali interazioni quotidiane piuttosto che un elenco di attività da svolgere come sedute riabilitative, rendano più improbabili i rischi sopra menzionati e consentano di ottenere risultati positivi in molti ambiti (Benedetto, 2005). Inoltre diversi autori (Soresi, 1994; Molinari, Colombo, Benedetto e Zappaterra, 1997) evidenziano i risvolti Positivi di tale approccio, sia nell'attenuazione dei fattori che all'interno della famiglia stessa determinano comportamenti problematici, sia nella riduzione dei rischi di delega eccessiva alle istituzioni. In generale si va diffondendo negli anni più recenti l'esigenza di interventi di educazione 265
⑲ B)
familiare, rivolti al sostegno e al potenziamento della genitorialità secondo una prospettiva basata sulla competenza, dove si punta a un ruolo
attivo degli individui coinvolti (Milani, 2001). 2. Interventi centrati sull'affinamento delle capacità di valutazione e di coping. Si tratta di insegnare ai genitori l'uso di strategie per far fronte allo stress e per evitare di farsi sopraffare da sentimenti depressivi, di bassa autostima ecc. Le abilità insegnate vanno dalla capacità di identificare le fonti e i sintomi dello stress, all'usare forme di rilassamento, al modificare pensieri negativi automatici, al cercare supporto sociale, all'aumentare le attività piacevoli. Le modalità di tale intervento possono essere diverse, ma gli autori hanno verificato in questo campo l'efficacia di gruppi guidati di discussione e di apprendimento formati da genitori di bambini con disabilità. 3. La partecipazione a gruppi di genitori costituisce più in generale un tipo di intervento finalizzato a rinforzare la rete di supporti sociali al di fuori della famiglia. Altri genitori che condividono le stesse esperienze possono infatti costituire non solo una fonte di sostegno emotivo, ma anche un'opportunità di affrontare e risolvere problemi attraverso lo scambio di esperienze. Laddove è presente un professionista, egli può assumere ruoli di consulente rispetto ai problemi, di guida del gruppo, di facilitatore della comunicazione. Da una ricerca di Krauss, Upshur, Shonkoff e Hauser-Cram (1993), emerge come l'impatto dei gruppi di genitori durante i primi anni di intervento sia complesso e possa presentare diverse sfaccettature. Già altri studi avevano evidenziato risultati non sempre univoci rispetto ai vantaggi associati alla partecipazione a tali gruppi: infatti, alcuni genitori, soprattutto quelli che percepiscono maggiore necessità di supporto e sono in grado di interagire efficacemente in un gruppo, traggono benefici da tale esperienza. D'altra parte sembra che i genitori che hanno meno bisogno di supporto traggano dalla partecipazione ai gruppi effetti non chiari o addirittura negativi. I risultati dell'indagine longitudinale di Krauss et al., condotta su 150
madri di bambini piccoli con vari tipi di disabilità (frequentanti un
programma di intervento), da un lato confermano l'efficacia dei gruppi di genitori nell'aumentare la rete di supporti e la percezione materna di ricevere sostegno dai propri simili; d'altro canto tuttavia in alcuni casi tale percezione positiva si accompagna a un senso di tensione o a un impatto negativo della partecipazione al gruppo sulle relazioni familiari
4. Interventi resi a migliorare le relazioni all'interno della famiglia: essi possono essere finalizzati all'insegnamento di competenze comunicative efficaci per far fronte a situazioni critiche; oppure la terapia può mirare
ad un incremento della soddisfazione nel matrimonio. Singer e Irvin 266
(99) riportano a questo proposito risultati incoraggianti sugli esiti di tali terapie.
5. Inerenti finalizzati a migliorare i rapporti fra genitori e professioni. si essi si concretizzano sia attraverso programmi per modificare gli atteggiamenti di questi ultimi e migliorarne le competenze comunicative, sia attraverso l'insegnamento ai genitori di strategie per interagire eficacemente con le figure professionali in diverse situazioni. Occorre tuttavia precisare a questo proposito come talvolta, anche in situazioni
ottimali dal punto di vista della professionalità degli operatori e del coinvolgimento dei genitori, alcuni ostacoli organizzativi rendano diffcile una collaborazione pienamente efficace. Fra questi problemi, molto importante è quello della segmentazione del servizio reso alle famiglie: talvolta la moltitudine dei professionisti e delle agenzie coinvolte in servizi rivolti al bambino disabile o alla sua famiglia costituisce un quadro
frammentario che non favorisce la necessaria coordinazione fra gli interventi. Alcuni autori auspicano, come possibile risposta a tale problema, la presenza di un operatore addetto alla funzione chiave di collegamento (key operator, si veda Sloper, 1999, Usai, Manetti, Zanobini, 2002). I compiti assegnati a tale operatore non dovrebbero limitarsi al raccordo tra servizi e alla trasmissione di informazioni, ma tale figura
potrebbe diventare un vero e proprio referente per la famiglia, fornendo a essa un feedback continuo sui progressi compiuti dal bambino e più in generale sui percorsi di cura e di educazione. Da questa breve descrizione di alcuni fra gli interventi di supporto alla famiglia emerge come nessuno di essi possa di per sé essere considerato
insolutivo rispetto al ventaglio di problemi possibili: l'utilità di ciascun
intervento o di un progetto di supporto che contempli una rete di proposte integrate va quindi considerata alla luce delle domande specifiche di una certa famiglia in una data fase della sua evoluzione.
Occorre infine specificare come in molti paesi il principio che i prostammi di intervento non vadano tarati solo sul bambino, ma altresi cen-
Tali sui bisogni e sulle risorse delle famiglie trovino da tempo applicazione acie in termini legislativi. Ricordiamo a questo proposito l'entrata in vigoTErgi Stati Uniti del PL 99-457, legge che prevede programmi individuia
*даля нестено рва сь 99 457. еве біе ретель роди ні воли тыва
decisame disposizioni egislative, che a partire dalla legge quadro sui. cap.
Sig (5 laboraio 192, a. laire, che conseguenti decreti attualiti dele lale pendice, che 70 m. 104) e dai consegere persone disabili e delle catute in direni set orr daliano i dura inclusione sociale; inclusione soni
прий ротови в от в ванĸа в силі поіло сте воста ни встао ĸог
daleimpegni baro natia tenerlo deletari un membro disabile: partecipar
ano ale tangle alt per le famiglie con deglintervent educativi.
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10. Gli alunni con disabilità nella scuola di tutti.
Il tortuoso percorso dall'integrazione all'inclusione
di Carla Maria Barzaghi
1. Premessa La scolarizzazione degli studenti con disabilità nelle classi comuni è un processo che iniziò a consolidarsi in Italia dall'inizio degli anni '70 e che da quasi 50 anni caratterizza il nostro sistema formativo. Sulla scia dell'esperienza italiana tale scelta strategica gradualmente è stata intrapresa da un sempre maggior numero di paesi dell'Unione europea. Essa si colloca all'interno del più generale tema della piena attuazione
del diritto allo studio, secondo i principi affermati nella Costituzione della repubblica italiana. La sua evoluzione nel tempo non è stata lineare, né la sua attuazione si presenta omogenea sia nei vari ordini di scuola che tra le diverse realtà territoriali del Paese. La complessità e rapidità dei cambiamenti a livello socio politico in Italia e nel mondo globalizzato non possono non interessare anche le prospettive dell'inclusività nella scuola. La presente trattazione svilupperà le seguenti tematiche: 1. ruolo della scuola nel processo di integrazione/inclusione; 2. analisi della normativa di riferimento e della sua genesi socio-culturalei
3. bisogni educativi speciali e conseguenti scelle formative sui temi dell'inclusione; 4. strumenti operativi e competenze a livello interistituzionale per l'inclu
5. il patto formativo con le famiglie e il ruolo del docente di sostegno; 6. aspetti organizzalivi e psicopedagogici del processo di inclusione. Cod particolare riferimento ai criteri di costruzione es Piano educativo iN diva valutato neliambio della programmazione della classe e al ceni della valutazione scolastica;
1. ceneri nenlo scolarizazione degli alanni con disablia nelle. con rifermeno ala convenzione ONU dal con disabilico nascerando "
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diritto allo studio degli studenti con disabilità nel quadro del grande comparto delle politiche per l'equità che riguarda tutti i paesi dell'Ue (Bottani, 2009).
2. Integrazione o inclusione? Secondo alcuni studi (Hastings e Remington, 1993), le denominazioni di fenomeni che in una certa fase storica hanno rivestito una portata innovativa in uno specifico contesto, dopo un certo numero di anni non sembrano più politically correct, e vengono sostituite da altri termini ritenuti adeguati ai tempi: nell'esperienza italiana ciò si è verificato con il termine handicap (in uso dai primi anni '70 e ancora presente nei testi di legge), superato poi dal concetto di disabilità. Analogo percorso semantico ha subito il termine integrazione a cui oggi si preferisce il termine inclusione (Barzaghi, 2015). Si pongono di seguito a confronto le definizioni proposte da alcuni dizionari (Dell'Isola, 2016): Integrazione
Vocabolario Treccani: s.f. [dal lat. integratio -onis, con influenza,
dall'ingl. integration] Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un'organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapposto a segregazione).
Vocabolario Zingarelli: l'integrare | Completamento di qlco. mediante l'aggiunta di nuovi elementi. Inclusione Vocabolario Treccani: [dal lat. inclusio -onis] L'atto, il fatto di includere,
cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto (spesso contrapposto a esclusione).
Vocabolario Zingarelli: (mat.) Relazione intercorrente fra due insiemi, allorché tutti gli elementi del primo fanno parte del secondo I Relazione soddisfacente le proprietà formali dell'inclusione.
Secondo Dell'Isola (2016), l'idea di integrazione rimanda soprattutlo all'individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie Credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi il termine assume un significato più vicino ad assimilazione, concetto in cui mancherebbe l'idea dello scambio reciproco.
Un termine come inclusione - entrato nel linguaggio della scuola italiana con la convenzione ONU 2006, recepita dalle linee guida mimisteriali del 2009 e con la normativa sui BES - richiama un rapporto
Simmetrico e reciproco fra la persona e l'ambiente, poiché l'ambiente è
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in sintonia rispetto all'elemento che si inserisce. I due termini non sono sinonimi, in quanto veicolano significati differenti e vengono utilizzati da prospettive differenti. La sottile sfumatura semantica che riscontriamo tra questi ha portato nell'evoluzione della normativa italiana l'abbandono progressivo del termine integrazione per sostituirlo con quello di inclusione (Dell'Isola, 2016). Nei fatti, nella prassi scolastica è necessario utilizzare entrambi i riferimenti: - gli obiettivi che perseguono sono comuni: piena partecipazione e massimo apprendimento possibile (Dovigo, 2017) ma con strumenti rivolti a gruppi di alunni differenti tra loro; - i due concetti si arricchiscono l'uno con l'altro: l'inclusione porta l'attenzione sul contesto, sui suoi ostacoli e i suoi facilitatori. Buone prassi di integrazione sono necessarie per una buona inclusione, ad esempio: lettura dei bisogni, metodologie specifiche, gestione dell'eterogeneità, collaborazione con l'extra scuola (lanes, 2009).
2.1. Il ruolo della scuola nel progetto di inclusione "Ciascuno cresce solo se sognato" (Dolci, 1956).
Nel cap. 1 del presente volume sono precisate le definizioni dei concetti di menomazione o danno, disabilità, handicap. Vi trova spazio un'ampia trattazione inerente la struttura e l'applicazione dell'ICF, la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute introdotta nel 2001 dall'OMS. Grazie alla più recente normativa sull'inclusione (decreto 66/2017) approvata nel nostro Paese, possiamo osservare un cambiamento di prospettiva nell'affrontare il trattamento della disabilità che si rifette sul piano culturale, clinico, pedagogico, amministrativo e anche nella progettazione didattica.
Lesperienza scolastica rappresenta una tappa fondamentale nel per corso di crescita personale e sociale di ciascun bambino con disabilità. Attraverso la scuola possono essere favoriti quei percorsi di autonomia personale, affettiva, relazionale, cognitiva che rinforzano nelle persone con disabilità gli elementi di identità necessari per affrontare scelle futu-
re (Lepri, Il ruolo2011). della scuola nel processo di inclusione ha subito un'evoluzione profonda nel tempo, La graduale applicazione - pur in modo non generaPizzato sul territorio nazionale - dei criteri e dei principi che stanno alla base dell1CF eil potenziale innovativo delle tecnologie applicate in campo terapeuticodriabilitativo e formativo, hanno modificato aponfini di alcune
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barriere legate alle patologie e all'ambiente, che alcuni anni or sono sembravano insormontabili.
Le discipline e i mondi professionali che concorrono a un efficace
trattamento dei disturbi connessi alla disabilità risultano fortemente interconnessi
È comunque necessario delimitarne i campi d'intervento (educazione, riabilitazione, cura) al fine di circoscrivere le aspettative reciproche di tutti i protagonisti del progetto di inclusione, secondo un principio di realtà. La scuola interviene prioritariamente sulla dimensione di svantaggio personale comunicativo correlato alla situazione di disabilità, stimolando un processo di apprendimento graduale e personalizzato che coinvolge tutti
gli alunni della classe, con l'obiettivo di rimuovere quelle barriere fisiche, psicologiche, sociali che impediscono al bambino di vivere pienamente le fasi di strutturazione dell'identità personale.
Analogamente, possiamo affermare che la riabilitazione è un processo di apprendimento, un processo facilitato da operatori esperti sul funzionamento della specifica disabilità. Non si tratta del solo recupero di una funzione, ma della riappropriazione di regole atte a guidare una
catena di eventi strutturali/funzionali che possono riprodurre la sequenza comportamentale mai raggiunta o perduta (Costa, Gerosa, Risatti e Rivarola, 1989). Seguendo il paradigma dell'ICF, il termine riabilitare rimanda anche alla promozione di un adattamento all'ambiente sociale in cui l'individuo vive; tale processo avrà possibilità di riuscita quanto più sarà precoce e in rete con tutti gli altri interventi professionali messi in campo a favore della persona.
Sotto questo punto di vista, la scuola si differenzia dalla riabilitazione in quanto per sua natura si rivolge a tutti i minori, nessuno escluso, e verso Ciascuno di essi attua un intervento formativo tendente a una sostanziale uguaglianza di risultati (cfr. premessa ai programmi della scuola elementare, 1985).
Quindi anche al bambino con disabilità la scuola si rivolge secondo criteri formativi comuni rispetto ai coetanei e alla classe: nei suoi confronti si adattano le strategie, si differenziano i percorsi, ma l'obiettivo di fondo
Festa quello di consentirgli di strutturare una integra immagine di sé, di sviluppare il proprio potenziale, di riconoscere e affrontare gradualmente le difficoltà legate alla disabilità, per potervi convivere in una prospettiva evolutiva.
Sarà il confronto tra gli operatori dei servizi socio-sanitari e gli operaLoi della scuola a garantire quell'integrazione degli interventi professionali necessaria a dare senso e unitarietà al progetto di vita, secondo le indicaToni che oftre FICRe sensi arrascurare la condivisione dello studente e
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N
della sua famiglia in tutte le fasi di attuazione del progetto stesso. Analizzando la definizione di persona in situazione di handicap nella formulazione adottata dall'art. 3 della legge 104/92: Persona in situazione di handicap: colui/colei che presenti una minorazione fisica e/o psichica e/o sensoriale stabilizzata o progressiva che è causa di difficoltà di:
- apprendimento
- relazione
integrazione lavorativa tali da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione
si osserva come la stessa, anticipando la logica dell'ICF, contenga una im-
plicita predittività negativa: in assenza di interventi pluridisciplinari e di un investimento della comunità allargata nel progetto di vita, la situazione
di disabilità rischia di condurre ad autentica emarginazione sociale (Lepri, 2011). Ciò richiama l'urgenza di interventi precoci e coordinati al fine di prevenire ulteriori e successivi svantaggi. Già dalla prima infanzia, l'esperienza scolastica arricchisce la capacità personale di assumere ruoli diversificati nel contesto di vita da parte del la persona con disabilità. Il progetto inclusivo si sviluppa sia su un piano orizzontale - esteso a tutte le aree dell'azione formativa (famiglia, scuola, operatori sanitari, associazioni, relazioni amicali) - che longitudinale, articolato nel tempo, lungo tutta l'esperienza scolastica del bambino/ragazzo e oltre (Lepri, 2011). Un'esperienza scolastica efficace tende a favorire: - il consolidamento di una positiva immagine di sé attraverso processi di identificazione con coetanei e adulti in un clima relazionale accogliente (Causin, De Pieri, 2006); - la conquista di un'autonomia personale intesa come capacità di fare scelte e di prendere decisioni - anche sul piano intellettivo e affettivo - di imparare a regolare e dirigere la propria vita, di saper instaurate rapporti paritetici, anche nei casi di disabilità complesse (Govigli e Mastropaolo, 1990);
un processo di apprendimento che, rispettando i ritmi individuali anche attraverso percorsi didattici individualizzati e potenziati del la didattica digitale (Maraffi, Sacerdoti, 2018), sviluppi al massimo grado le capacità cognitive e comunicativo sociali, garantendo col temporaneamente l'acquisizione di competenze metacognitive a ul Fonte accessibile alle caratteristiche della persona (Pontecomo ° Pontecorvo, 1986). Nel percorso di inelusione ciascun docente/gruppo di docenti hailar pio di guardare olre. Si trata di un docenteferuppo di docento subst co che, fra tutti gl interventi istiuzionali eruciale della persona con di
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bilità, si configura come uno dei più costanti e significativi (in un contesto ottimale, potrà spaziare dall'asilo nido all'università). È auspicabile che i docenti riescano a liberare il bambino con disabilità dal guscio di bambino per sempre in cui viene spesso relegato e a vederlo in prospettiva come l'adulto che potrà essere in un sistema sociale aperto, portatore non solo di bisogni ma anche di sogni e aspettative (Popper, 1996). Secondo la prospettiva dell'ICF, le limitazioni conseguenti alla disabilità appaiono correlate ai contesti; la stessa limitazione può presentarsi più rilevante in un contesto o addirittura scomparire in un contesto differente. Acquisirne la consapevolezza rappresenta un presupposto concettuale e pragmatico per il progetto di inclusione a scuola. La nozione di inclusione, oggetto della nuova normativa d'indirizzo per la programmazione didattica delle scuole, apporta una significativa precisazione rispetto alla precedente nozione di integrazione. Il concetto di inclusione attribuisce importanza all'operatività che agisce sul contesto, mentre col concetto di integrazione l'azione si focalizza sul singolo soggetto portatore di deficit o limiti di vario genere, al quale si offre un aiuto di carattere didattico e strumentale per il superamento/attenuazione degli stessi e per essere integrato nel sistema (lanes e Cramerotti, 2009). Si tratta di un cambiamento di prospettiva che richiede al sistema scolastico di portare innovazioni nella prassi ordinaria della gestione della classe e del funzioamento scolastico nel suo insieme (lanes e Tuffanelli, 2011). L'adozione di questa prospettiva impone una nuova dialettica fra strategie di insegnamento tradizionale e modalità di individualizzazione/personalizzazione dei percorsi educativi che favoriscano gli apprendimenti di tutti gli studenti, di cui quelli con bisogni educativi speciali fanno parte.
3. Dall'integrazione all'inclusione: aspetti istituzionali. La legislazione scolastica, linee di sviluppo 3.1. Dalla Costituzione alla legge 517/77 L'evoluzione della normativa sui diritti della persona con disabilità nel nostro Paese procede in parallelo con l'evoluzione del dibattito culturale e scientifico sui temi della diversità sviluppatosi nell'arco degli ultimi cinquant'anni. Dal primo dopoguerra a oggi, il riconoscimento del di fitto allo studio affermato nella Costituzione è da intendersi come tutela soggettiva affinché le istituzioni scolastiche predispongano le condizioni e realizzino le attività utili al raggiungimento del successo formativo per tutti gli alunni (Linee guida ministeriali per l'integrazione degli alunni disabili, 2009).
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Sul piano sociologico la disabilità rientra nella vasta categoria della diversità. Nel nostro Paese, nella prima metà del XX secolo, normalità e uniformità sono stati i riferimenti dominanti in campo antropologico e pedagogico (Cario, 2014).
Finché una certa idea di normalità, intesa come riferimento standard del comportamento sociale, non è stata messa in discussione (Santerini, 1990), tutte le forme di disturbo psichico, di insufficienza mentale, di menomazione psicofisica, sono state assimilate alla follia, alla malattia mentale. Sofferenze prive di voce sono state gestite negli istituti, nei manicomi e nella solitudine delle famiglie, colpite dal pregiudizio e dal bisogno della società dei normodotati di allontanare da sé la presenza tangibile della di-
versità. È doveroso ricordare che decine di migliaia di persone con disabilità sono state eliminate nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale, più che per odio, per disprezzo razziale: si trattava di
esseri inutili, di un peso per la società, persone che sono state spazzate via per le caratteristiche della loro identità inadeguata al modello di supremazia della razza. Questo retaggio culturale ha condizionato nel tempo il nostro Paese, dove nel 1938 sono state approvate vergognose leggi razziali che hanno fortemente condizionato la cultura dominante e dove, per molto tempo, anche nel dopoguerra, sono perdurate scelte di esclusione, nonostante le affermazioni sull'uguaglianza fra tutti i cittadini contenute nella
nostra Costituzione (Paolini, 2012). Le espressioni del disprezzo diffuso verso la diversità erano utilizzate anche nel linguaggio clinico (minorato, cretino, subnormale...) e ancora oggi sopravvivono come insulti nel linguaggio comune (Coleman, 2001). Nella prima metà del '900 in Italia soltanto ai bambini sordi e ciechi (minorazioni sensoriali) era garantita la scolarizzazione in appositi istituti e scuole speciali. La Costituzione della repubblica italiana (artt. 3, 34, 38) afferma i prin-
cipi di:
- rimozione degli ostacoli che limitano il pieno sviluppo della personalità
umana;
universalità della scuola e del diritto allo studio, garantito indipendentemente dalle condizioni di partenza; diritto all'educazione degli inabili e minorati. Dall'affermazione formale all'esercizio concreto dei diritti il percorso si sarebbe rivelato irto di ostacoli.
Negli anni 60, 'urbanizzazione nel triangolo industriale (Torino, Mir
lano, Genova) determinò grandi spostamenti di popolazione dal sud verso le grandi citta del nord. Nel 1962, con l'istituzione della scuola media unificata (legge n. 1859), si avviò nel nostro paese il fenomeno della scolarizzazione di massa, che avrebbe dovuto portare - secondo le intenzioni
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dichiarate - imponenti effetti di mobilità sociale (Bottani, 1986) grazie all'incremento dei livelli di istruzione e all'innalzamento del tasso di diplomati e laureati.
Di fatto tali provvedimenti, non accompagnati da adeguati investimenti sul reclutamento e sulla formazione dei docenti, non evitarono il mantenimento di alti tassi di selezione sociale attraverso i meccanismi della
selezione scolastica (Santerini, 1990). La scuola, infatti, soprattutto a causa
di una dominante matrice culturale di tipo intellettualistico e idealistico, non fu in grado di rispondere ai bisogni formativi di una nuova utenza
scolastica socialmente disomogenea, spesso caratterizzata da gravi forme di disadattamento ambientale e da scarse competenze linguistiche (Passow,
Goldberg, Tannenbaum, 1967).
Così, mentre nelle scuole elementari speciali soggetti minorati completavano la scuola dell'obbligo (con deroghe sull'età dell'iscrizione fino a 18/20 anni per mancanza di altre strutture di sostegno), con la legge 1859/62 venivano istituite le classi differenziali per ragazzi con disagi di vario genere dove si realizzava un programma di studi parallelo ma con tempi distesi rispetto alla scuola comune. Tale impianto avrebbe dovuto consentire agli alunni con maggiori difficoltà negli studi di conseguire - in un maggiore numero di anni scolastici - gli apprendimenti di base, per poi rientrare nel canale formativo ordinario. Tale reversibilità dalla classe differenziale alla scuola comune si verificò raramente.
Di fatto, si strutturò un canale formativo separato per quella fascia di alunni non disabili che trovavano nel rapporto con la scuola un handicap insormontabile in primo luogo sul piano della comunicazione linguistiCa. Si trattava di ragazzi disadattati che creavano problemi di gestione comportamentale. Dalla deprivazione socio-culturale all'handicap vero e
proprio il passo fu breve. Ii destino di migliaia di alunni provenienti dal
sud fu cosi marchiato dalla scuola, con l'avallo dei centri specialistici dove medici e psicologi sottoponevano gli alunni problematici a inadeguati test di tipo cognitivo e verbale, che li avrebbero condotti a frequentare le classi differenziali (Selvini Palazzoli, 1976). Gli anni '70 furono gli anni della grande democratizzazione della società e della scuola (legge 300/1970: emanazione dello statuto dei lavoreti ori; legge 382/74: istituzione delle regioni; dpr 416/417 del 1974: decreti delegati sugli organi collegiali della scuola e sul nuovo stato giuridico dei dOcenti, legge n. 180/18 (detta legge Basaglia): chiusura dei manicomi
Bg 8337780 3. 15078 (de sa viso santario nazionale). Anche linsert
mento nella scuola degli alunni con disabilità trovò nuove tutele: la legge 9, 18 del 1971 (art. 28) assicurava la frequenza scolastica a invalidi civili e mUtilati. L'interpretazione estensiva di tale legge consenti le prime espe-
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rienze di integrazione di alunni con disabilità, anche di quelli con disturbi psichici. Ciò avvenne soprattutto nelle città industriali del nord dove si era sviluppata la scuola a tempo pieno e dove anche i Comuni partecipavano con risorse finanziarie e umane alla realizzazione di un modello di scuola costruito principalmente sui nuovi bisogni delle donne lavoratrici. Dal 1975, la graduale chiusura delle scuole speciali fu causata dal comprovato fallimento degli interventi educativi realizzati in contesti separati ed emarginanti. Essi venivano realizzati da personale docente specializzato con una formazione obsoleta e con scarsa motivazione professionale. La gestione di classi numerose, composte da alunni di età diverse e tutti
portatori di svariate tipologie di disabilità, conduceva alla proposta di esercitazioni didattiche/occupazionali ripetitive, favorendo il riprodursi di stereotipie comportamentali individuali/di gruppo. Gli obiettivi formativi
si limitavano alla gestione del tempo scuola, in assenza di una funzionalità pratica e comunicativa sia per i ragazzi sia per i docenti. Le scuole speciali di certo non furono solo questo, in quanto nacquero a seguito delle innovative ricerche sull'educabilità dei bambini con handicap (Montessori, 1910; Resico, 2011). Si svilupparono al loro interno esperienze di grande umanità e professionalità, ma in un contesto segregante di istituzione totale. La negazione di una convivenza normale tra coetanei, la man-
canza di modelli strutturanti e positivi per i ragazzi con disabilità, i quali potevano solo farsi reciprocamente da specchio, rendeva vuota di senso tale soluzione istituzionale. Fu la pressione sociale, esercitata in primo luogo dalle famiglie, presto riunitesi in associazioni, a rivendicare l'applicazione dei principi costituzionali al sistema scolastico (De Luca e Zappella, 2014). L'entrata in vigore della legge 517/77, oltre a modificare il sistema di valutazione nella scuola dell'obbligo, formalizzò l'assegnazione nella scuola elementare e media di insegnanti specializzati presso le riformate Scuole magistrali ortofreniche (Dpr 970/75) al fine di sostenere l'integrazione degli alunni con handicap nel rapporto di un docente ogni quattro alunni. Sotto la spinta delle nuove tendenze pedagogiche all'innovazione metodologico-didattica (cfr. Dpr 419/74 sulla sperimentazione e la ricerca educativa), la stessa legge prevedeva l'introduzione delle attività di gruppo a classi aperte per incentivare le esperienze espressivo-comunicative degli alunni e le attività di laboratorio. La stessa legge aboli le classi differen ziali. Le scuole speciali venivano svuotate ma nessun testo legislativo le abrogo.
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32. La legge quadro 104/92. L'integrazione come processo interistituzio-
nale Tra il 1977 e il 1992 nessuna nuova legge intervenne a disciplinare il processo di integrazione scolastica. Di rilevante importanza fu la sentenza della Corte costituzionale (cfr. Cm n. 215/1989) con cui vennero estese anche alla scuola secondaria di secondo grado le norme sul diritto allo studio per gli alunni portatori di handicap. L'applicazione di tale sentenza, se da un lato si scontrò con problemi di ordine culturale e operativo (in primo luogo, emersero le lacune formative del corpo docente della scuola secondaria nella gestione della disabilità), dall'altro costituì il completamento del disegno costituzionale sulle condizioni per una piena attuazione del diritto allo studio per le persone con disabilità. Fu la legge-quadro n. 104 del 5/2/1992 a regolamentare tutte le problematiche inerenti la vita della persona con handicap (accertamento, preven-
zione, riabilitazione, cura, inserimento scolastico e lavorativo, tutela delle situazioni di gravità, ecc.). Gli interventi relativi all'integrazione socio-sanitaria della persona disabile - compresi quelli previsti per garantire la frequenza scolastica - furono ulteriormente specificati con l'atto di indirizzo e coordinamento (Dpr 24/2/1994) relativo ai compiti delle unità sanitarie locali (oggi Aziende sanitarie locali) in materia di integrazione scolastica. Si tratta di provvedimenti cruciali, in quando definiscono le competenze di tutti i soggetti istituzionali coinvolti a diversi livelli nel processo di integrazione, e determinano la ripartizione tra ministeri interessati delle risorse necessarie all'attuazione della legge 104/92.
All'interno di tali competenze, si sottolinea il ruolo delle regioni sul piano legislativo e programmatorio in materia di sanità, servizi sociali e
formazione professionale, alla luce del principio di legislazione concorrente fra stato e regioni (cfr. par. 3.6). La fattibilità dell'impianto interistituzionale previsto. dalla legge 104/92 e dal Dpr 24/2/1994 è, infatti, condizionata dalle risorse umane, organizzative, finanziarie messe a disposizione dalle Aziende sanitarie locali (che ricevono le risorse dall' assessorato regionale alla sanita) all'interno delle quali si collocano le strutture operative impegnate insieme alla scuola nel
progetto di inclusione.
Oltre agli specialisti delle Asl, in campo riabilitativo operano associazioni e centri convenzionati con il Servizio sanitario nazionale in base
all'art. 26 della legge 833/78. Tali centri si occupano di specifiche tipologie
di disabilità sul piano del trattamento e della riabilitazione e collaborano con la scuola per le parti di loro competenza nell'elaborazione dei docu277
menti previsti dalla legge 104/92, per l'assegnazione dei docenti di sostegno e per il monitoraggio del Piano educativo individualizzato. Per una sintesi delle competenze in capo ai diversi soggetti istituzionali
cfr. par. 3.6.
3.3. L'autonomia scolastica e la stagione delle riforme
Fino all'emanazione delle linee guida ministeriali del 2009 l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità ha avuto come sostanziale ri-
ferimento la legge 104/92. Nonostante ciò, si può verificare come le scelte di politica scolastica prodotte dai governi che si sono avvicendati dal 2000 ad oggi abbiano riverberato effetti non marginali anche sull'integrazione scolastica (cfr. legge 133/2008 art. 64) soprattutto a causa delle politiche di razionalizzazione della spesa. Ad esempio, il Dpcm 185 del 2006 intervenne a modificare le procedure per l'attestazione di disabilità effettuate dalle Asl condizionando anche le procedure per l'assegnazione dei docenti di sostegno di competenza dell'Amministrazione scolastica. La legge n. 59/97 (detta legge Bassanini), attraverso il conferimento di specifiche competenze alle regioni e alle autonomie locali, ha toccato in
maniera sostanziale il mondo della scuola, in parallelo alla riforma della Costituzione titolo V parte II. Dal 1 settembre 2000 è stata attribuita "Autonomia organizzativa, gestionale, didattica alle Istituzioni Scolastiche di ogni ordine e grado", at-
traverso l'applicazione del Dpr 275/99. Ciò ha determinato una complessa innovazione nelle competenze e nelle responsabilità attribuite ai capi d'Istituto, divenuti dirigenti scolastici, e all'organizzazione della scuola nel suo insieme. L'Autonomia scolastica conferisce nuovi compiti agli organi collegiali della scuola (consiglio di istituto, collegio dei docenti) che ne definiscono gli indirizzi operativi rendendoli trasparenti attraverso il Piano dell'offerta formativa. Tale documento contiene strategie, obiettivi, strumenti, attraverso i quali la scuola persegue le propria mission formativa in un determinato contesto socio ambientale (si prevede che il 15% del curriculum di ciascuna scuola riguardi contenuti legati alla realtà locale).
Con l'autonomia, la figura del dirigente scolastico - pur all'interno di vincoli normativi e finanziari e nel rispetto delle prerogative professionali e contrattuali del personale - assume un ruolo di coordinamento e d'indirizzo. Il dirigente scolastico è garante del contratto formativo che ciascuno studente/famiglia stipula con la scuola per il conseguimento del successo formativo alleso. Al fine di equilibrare i poteri del dirigente scolastico attraverso una condivisione delle principali scelte strategiche, vengono
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istituiti organi di rappresentanza del personale scolastico all'interno della singola istituzione scolastica: le Relazioni sindacali unitarie (Rsu). Con l'introduzione dell'autonomia la scuola viene chiamata ad una sfida significativa: rendere il percorso di apprendimento coerente con le esigenze del territorio e degli alunni, senza perdere il riferimento al contesto nazionale. Da questa prospettiva nascono le indicazioni nazionali che descrivono i traguardi di apprendimento attesi anno per anno, per periodo scolastico, e per il sistema scolastico in generale.
Nell'arco di pochi anni le scuole hanno visto entrare in vigore prima le Indicazioni per i piani di studio personalizzati (ministro Moratti 2004), seguite dalle Indicazioni per il curricolo (ministro Fioroni 2007) fino al testo definitivo delle attuali Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione, emanate con decreto n. 254 del 16 novembre 2012. Da una funzione direttiva e prescrittiva dei programmi ministeriali, dal 2000 si è passati a una forma di orientamento e di guida (Indicazioni) che chiama in causa il protagonismo dei collegi dei docenti
sul piano professionale. Le scuole sono chiamate a una manutenzione continua della didattica attraverso: - l'approfondimento culturale, pedagogico e didattico degli aspetti innovativi delle Indicazioni, così da incrementare l'effettiva autonomia e la professionalità degli insegnanti; l'elaborazione del curricolo, che rappresenta la traduzione sul campo di quanto fissato nelle Indicazioni; - la socializzazione delle buone pratiche attraverso la riflessione, la ripro-
gettazione, il lavoro in rete. Questa elaborazione culturale e di confronto all'interno del corpo docente rappresenta una condizione di contesto favorevole per creare un curricolo inclusivo (Bochicchio, 2017). L'Autonomia scolastica ha costituito la sola autentica innovazione cui si è assistito negli ultimi 20 anni, anche se la lettura dei testi di legge relativi all'inclusione (cfr. l'articolata normativa sui BES) porta a evidenziare una inversione dei ruoli tra centro e periferia dell'Amministrazione scolastica. Secondo alcuni osservatori (Petrolino, 2008), il decisore politico e amministrativo della scuola si è sostituito agli operatori professionali della scuola autonoma nel dettare i contenuti, i metodi, i tempi e le procedure che dovrebbero essere lasciati alla responsabilità professionale dei collegi dei docenti e dei dirigenti che devono mettere in campo la leadership necessaria per governare l'inclusione (linee guida del 2009). Piuttosto che Una normativa dettagliata anche negli aspetti pedagogici e organizzativi, dai vertici dell'amministrazione scolastica la scuola dell'autonomia attendeva una forte capacità di governance attraverso alcune azioni di sistema: fissare standard di risultato irrinunciabili; assicurare le risorse: valutare in modo esterno ed imparziale i risultati raggiunti (Petrolino, 2008).
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La riforma costituzionale (titolo quinto, parte seconda, legge n. 3/2001)
attribuisce alle regioni poteri legislativi che concorronoconcorrente). con quelli statali a definire i caratteri del sistema scolastico (legislazione Tut-
te le regioni rivendicano maggiori spazi di autonomia e maggiori risorse attraverso la Conferenza stato-regioni (Dpcm 12/83; legge 400/1988 art. 12) quale sede privilegiata della negoziazione politica tra governo in cariCa e sistema delle autonomie locali, ma l'applicazione dei provvedimenti condivisi in tale sede avviene spesso a macchia di leopardo e con tempi diversificati. La generalizzazione in tutte le strutture sanitarie competenti dell'adozione dell'ICF prevista dal 2008 in oltre 10 anni non ha ancora trovato piena attuazione su tutto il territorio nazionale.
In parallelo ai provvedimenti sull'autonomia scolastica, negli anni
1999 e 2000 furono varati provvedimenti di riforma (riforma BerlinguerDe Mauro) sull'innalzamento dell'obbligo scolastico a 15 anni successivamente innalzato a 16 anni e sulla riforma dei cicli didattici - legge n. 9/99 e legge n. 30/2000 - che furono abrogati tout court dalla legge quadro 53 del 28 marzo 2003. Il successivo Governo con il ministro Fioroni congelò parti della riforma Moratti, mentre nel 2008, il Ministro Gelmini diede il via a una nuova riforma del sistema formativo. Tra i cambiamenti introdotti dalla riforma Gelmini, troviamo il riordino della scuola secon-
daria di 2° grado, il ripristino del maestro unico, del voto in condotta e dei voti in decimi. Nel 2015, con la legge 13 luglio 2015 n. 107 (detta Buona scuola) vengono incrementati i compiti e le prerogative dei dirigenti scolastici, viene estesa e resa obbligatoria a tutti gli istituti secondari di 2° l'alternanza
scuola-lavoro. Insieme a un consistente piano di assunzioni del personale docente, la formazione in servizio dei docenti viene resa obbligatoria, permanente e strutturale. Nel 2016 il governo Gentiloni prosegue l'attuazione della legge 107/2015 attraverso decreti attuativi che entrano in vigore il 31/5/2017, alcuni dei quali introducono procedure innovative per favorire e migliorare l'inclusività delle scuole (cfr. par 3.6). Questo rapido excursus consente di evidenziare come la scuola sia stata
investita da un riformismo felicemente definito a tela di Penelope (Benadusi, 2005). Dal 2000 a oggi ogni nuova maggioranza di governo si è
impegnata a disfare quanto stabilito dalla maggioranza precedente senza tener conto della difficoltà delle scuole a doversi adeguare a continui cambiamenti sul piano amministrativo e didattico e del conseguente disorientamento del personale, delle famiglie e degli studenti. Per quanto concerne la struttura del sistema scolastico di istruzione e formazione che dell'inclusio ne scolastica rappresenta il contesto organizzativo, si rimanda alla consul razione del sito del Miur www.istruzione.it.
280
34. La convenzione ONU 2006, le linee guida per l'integrazione del 2009
e l'ICF Approvata a New York dall'assemblea delle Nazioni unite il 13 dicembre 2006, la Convenzione rappresenta il testo di riferimento per tutte le norma-
tive e le politiche successive, volte a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, tanto da meritare la definizione di "primo grande trattato sui diritti umani del XXI Secolo". La Convenzione, infatti, non promuove nuovi diritti ma, con i suoi 50 articoli, afferma con forza la necessita che tutti i diritti umani e le libertà fondamentali siano pienamente goduti anche dalle persone con disabilità. Il fine ultimo è la rimozione di tutte le
barriere, ambientali e culturali, che ostacolano la piena uguaglianza. Secondo la convenzione ONU 2006 (art. 2) le persone con disabilità sono "coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettali o sensoriali in interazione con barriere di diversa natura che possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di
eguaglianza con gli altri Ogni norma e azione volta ad assicurarne a garantirne i diritti deve fondarsi sui seguenti principi: - il rispetto per la dignità intrinseca, l'autonomia individuale - compresa la libertà di compiere le proprie scelte - e l'indipendenza delle persone;
- la non-discriminazione; - la piena ed effettiva partecipazione e inclusione all'interno della società; - il rispetto per la differenza e l'accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell'umanità stessa;
- la parità di opportunità; - l'accessibilità; - la parità tra uomini e donne; - il rispetto per lo sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto per il diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità (art. 3). L'articolo 1 della Convenzione ha come riferimento esplicito una teoria della giustizia (Sen, 1994). La teoria delle capabilities come formulata da Amartya Sen viene sviluppata in relazione alle persone con disabilità da Martha Nussbaum (2007). Affermando il principio di uguaglianza, NusSabum parte esplicitamente dalla domanda: eguaglianza di che cosa? La teoria delle capabilities ritiene che la risposta a questa domanda non si troVI tanto in una eguaglianza nei beni o nelle risorse quanto piuttosto nelle oPportunità di sviluppo e autorealizzazione della persona. Le capabilities Si Possono derive ppone le opportunià sostanziali che una persona ha di acquisire certe condizioni di vita o di realizzare particolari attività (funziomamenti). Sulla base di tale teoria, il benessere della persona con disabilita
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dovrebbe essere valutato secondo i livelli di opportunità sostanziali di essere o di fare che le vengono riconosciuti. Quindi, oltre che per l'inclusione scolastica, in coerenza con i principi del capability approach, i paesi aderenti alla Convenzione si dovranno impegnare per:
- politiche per la vita indipendente e le de-istituzionalizzazione (Merlo, 2018); politiche a sostegno dei caregiver familiari; revisione del riconoscimento di invalidità/handicap/disabilità; - piena attuazione del diritto alla salute, all'abilitazione /riabilitazione;
interventi migliorativi per la piena inclusione lavorativa delle persone con disabilità; - accelerazione degli interventi in favore della mobilità e dell'autonomia. Con la legge 18 del 3 marzo 2009 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. I tempi erano maturi per l'emanazione di un atto dal forte valore amministrativo e tecnico, quale le Linee guida per l'integrazione degli alunni con disabilità
dell'agosto 2009, dove vengono ribaditi principi, responsabilità, buone pratiche, e dove le attività in rete e il contesto come risorsa sono alcune tra le nuove idee chiave dell'integrazione, La convenzione ONU indica la visione
dinamica e flessibile introdotta dall'ICF come strumento privilegiato per realizzare l'effettiva uguaglianza e partecipazione delle persone con disabilità. In Italia alcuni atti fanno riferimento all'ICF: - il Dpcm n. 185/06 sulla certificazione di disabilità facendo riferimento ai principi dell'OMS per la stesura delle diagnosi funzionali, implicitamente li richiama; - l'Intesa stato-regioni del 20/2008 sull'integrazione scolastica, dove si fa riferimento all'ICF per la stesura delle diagnosi funzionali (Nocera, 2015), ponendo la premessa all'emanazione delle Linee guida 2009. Le classificazioni dell'OMS, ICD e ICF, venivano citate genericamente nelle norme precedenti: nell'Intesa, l'ICF viene chiaramente indicata in merito alle modalità e ai criteri da utilizzare per la presa in carico dell'alunno con disabilità. Le Linee guida si sviluppano su tre piani: - culturale e pedagogico • considerare la condizione della persona con disabilità come risultante
da un intreccio tra situazione di disabilità, contesto sociale, elementi di facilitazione/di ostacolo messi in atto nell'ambiente di vita del soggetto;
• privilegiare l'utilizzazione dei nuovi sistemi di classificazione della disabilità basati su ICF; proiettare il processo di integrazione oltre l'esperienza scolastica per la costruzione del progetto di vita;
282
- giuridico e istituzionale •irreversibilità della scelta dell'integrazione nel sistema scolastico ita-
liano;
.diritto all'integrazione fondato su una lettura dinamica della Costituzione e dei documenti internazionali; • garanzia che il Pof (piano dell'offerta formativa) sia esplicitamente orientato all'inclusione; - operativo e progettuale • condivisione della responsabilità tra tutti gli insegnanti del gruppo docente; l'integrazione/inclusione è problema della classe e della scuola tutta; • indispensabile la collaborazione con la famiglia secondo un principio di corresponsabilità educative; • privilegiare le didattiche attive e cooperative; valorizzare le diverse intelligenze delle persone con disabilità; •divieto di utilizzare dentro la scuola pratiche di separazione utilizzando impropriamente le figure di sostegno. Il testo integrale delle Linee guida e relative sintesi sono consultabili sul sito del Miur www.istruzione.it.
3.5. Legge 170/2010 sui DSA e normativa relativa ai Bisogni educativi speciali Coerentemente con le Linee guida ministeriali (2009), il Miur emana nell'arco di tre anni alcuni provvedimenti che innoveranno profondamente le procedure amministrative e le conseguenti azioni formative nei confron-
ti della speciale normalità e degli alunni con bisogni educativi speciali (lanes, 2006).
Attraverso tali provvedimenti, la scuola italiana ha confermato una
politica educativa nella direzione dell'accoglienza e delle pari opportunita di studio, pur mantenendo risposte differenziate in base a categorie di alunni. La norma si affida ancora una volta a una certificazione clinica per il riconoscimento del disturbo specifico di apprendimento secondo le indicazioni della legge 170/2010 e della relativa Linee guida (Decreto ministeriale n. 5669 del 12 luglio 2011). L'anno successivo sono state riconosciute altre categorie di bisogno definito genericamente svantaggio. Infatti prima 'Invalsi e successivamente la Direttiva ministeriale del 27/12/2012 e la Cm 8/2013 hanno introdotto la nozione di Bisogno educativo speciale (BES), al 283
cui interno rientrano sia gli alunni con disabilità sia ulteriori profili di funzionamento quali, ad esempio, lo svantaggio socioculturale. Nello stesso provvedimento, sotto un'unica definizione (BES), si prendono in considerazione aree di bisogno totalmente diverse fra loro che richiedono risposte differenti. Tali provvedimenti, che hanno suscitato un grande dibattito nelle scuole, hanno permesso di riflettere sul tema della selezione scolastica che nel 2011 nella scuola secondaria arrivava a tassi tra i più elevati nei paesi Ue (Tuttoscuola.com, 2011). Infatti qual è stata storicamente la fisionomia degli alunni respinti/espulsi dal sistema scolastico se non quella indicata genericamente oggi con l'acronimo di BES? Essi hanno rappresentato quell'area di fragilità della popolazione scolastica di fatto trascurata nella gestione ordinaria della classe - rivolta a un normotipo di alunno ideale quanto inesistente. Tra le cause mai affrontate con provvedimenti strutturali, si riconosce la profonda inadeguatezza nella preparazione professionale dei docenti sulla gestione dell'eterogeneità del gruppo classe e sui processi di individualizzazione e di innovazione educativa che stanno alla base della didattica inclusiva (Dovigo, 2017). Si propone di seguito una definizione di BES: Un Bisogno educativo speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in funzionamento problematico (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF dell'OMS) anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall'eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata (lanes, 2006).
Tale definizione si può associare - in una logica inclusiva - al concetto più ampio di bisogni educativi tout court: Si tratta di bisogni collegati alla natura e alle modalità del processo di apprendimento (alla sua correlazione con lo sviluppo dall'infanzia all'età adulta). I bisogni educativi sono quelli che trovano risposte nell'accesso ai saperi e alle conoscenze, quelli che passano tramite un processo di apprendimento che facilita l'espressione di tutte le potenzialità dell'individuo che sta crescendo e il loro sviluppo nel tempo. I bisogni educativi sono quelli che riguardano gli apprendimenti (nelle diverse sfere dello sviluppo cognitivo, psicomotorio, socio-affettivo, linguisticocomunicativo, relazionale) e la formazione di una personalità competente in grado di fare funzionare al meglio possibile le proprie capacità e di diventare se stessa (Gussot, 2015).
Anche nell'accezione più ampia, la risposta formativa ai bisogni della generalità degli studenti passa attraverso un'idea dell'insegnamento come facilitazione del percorso di apprendimento (Gussot, 2015).
284
Nell'area dei Bisogni educativi speciali la norma individua tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità [tutelata dalla legge n. 104/1992);
- quella dei disturbi specifici dell'apprendimento [tutelata dalla legge 1. 170/2010]; - quella dello svantaggio socio-economico, linguistico, culturale (Direttiva ministeriale del 27/12/2012]. Un BES può presentarsi come situazione stabile, oppure affiorare per periodi definiti della vita scolastica dell'alunno; le cause che lo generano possono anche avere origine fisica, biologica, fisiologica, psicologica o sociale. Agli studenti con BES sarà pertanto garantito: - l'uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico, che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quale il bilinguismo;
- l'introduzione di strumenti compensativi, compresi l'uso di sussidi didattici alternativi e le tecnologie informatiche e di misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità del percorso di apprendimento; - per l'insegnamento delle lingue straniere, l'uso di strumenti compensativi che favoriscano la comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche - ma soltanto qualora risulti necessaria - la possibilità dell'esonero; - adeguate forme di verifica e di valutazione. Il Miur estende, pertanto, a tutti gli studenti con BES non certificati il diritto a seguire un piano educativo personalizzato, applicando le stesse norme già previste per gli alunni con DSA, in particolare per quanto riguarda gli strumenti compensativi e le misure dispensative. La norma non solo afferma principi e finalità ma sulla carta rende prescrittivi i caratteri dell'organizzazione didattica e delle procedure a tutela del processo di inclusione di tale categoria di alunni.
285
⑲
Schema di sintesi su BES
Pei per gli alunni con disabilità
È obbligatoria
la compilazione?
Pdp per gli alunni
Pdp per gli alunni con DSA
con altri BES
L'obbligo, è esplicitato
La stesura del
Sì, per tutti gli alunni nelle Linee guida 2011 con disabilità in base se non si adotta alla L. 104/92 e al Dpr anche ufficialmente la 24/2/94
definizione Pdp
Pdp è contestuale
all'individuazione dell'alunno con BES. Non si può considerare obbligatorio in quanto
conseguente a un atto di discrezionalità della
scuola Chi lo redige? Chi ne ha la responsabilità?
È redatto
congiuntamente dalla
scuola e dai servizi
socio-sanitari con la collaborazione della
È redatto solo dalla È redatto solo dalla scuola che può chiedere scuola che può chiedere
il contributo di il contributo di esperti, ma ne rimane esperti, ma ne rimane responsabile
responsabile
Le azioni definite
Il Pdp tiene conto di eventuali diagnosi
famiglia
Quali vincoli?
Le azioni definite nel Pei devono essere coerenti
con le indicazioni contenute nella certificazione, nella diagnosi funzionale e nel profilo dinamico funzionale/profilo di funzionamento
Che ruolo ha la famiglia?
La famiglia collabora alla redazione del Pei (Dpr 24/2/94)
nel Pdp devono essere coerenti con le indicazioni espresse nella certificazione del DSA consegnato alla scuola
o relazioni cliniche consegnate alla scuola
Il Pdp viene redatto in Il Pdp è il risultato dello sforzo congiunto scuolaaccordo con la famiglia (Linee guida 2011)
famiglia
(Cm n. 8 6/3/2013)
La normativa vigente ne definisce i contenuti?
Sono definiti dalla I contenuti minimi del Non vengono indicati normativa (Dpr 24/2/94 Pdp sono contenuti nelle dalla normativa d.lgs. 66/17) solo negli Linee guida sui DSA contenuti minimi obiettivi generali. del 2011 Un'articolazione dettagliata può essere
concordata a livello locale (modelli di Pei)
Chi costruisce o sceglie eventuali
La scelta dei modelli o altri strumenti è di
modelli o
competenza dei due soggetti responsabili
strumenti per la compilazione?
(scuola e servizi). Il
d.lgs. 66/17 prescrive l'adozione dell'ICF per
La scuola è libera di La scuola sceglie o scegliere o costruire i costruisce i modelli o modelli o gli strumenti gli strumenti che ritenga che ritenga utili ed utili ed efficaci efficaci
la compilazione
286
Dell'impianto sopra descritto si evidenzia:
- soltanto in presenza degli alunni con disabilità viene assegnato alla classe il docente di sostegno, per gli alunni con DSA e con BES la responsabilità educativa è del consiglio di classe;
- a favore degli studenti con DSA e con BES privi di certificazione si possono utilizzare strumenti compensativi e misure dispensative ma tranne che per situazioni specifiche indicate nella norma - i traguardi del processo di apprendimento sono comuni a quelli fissati per tutta la classe.
- la rilevanza dell'uso di una didattica innovativa e della didattica digitale per facilitare gli apprendimenti degli alunni con BES. 3.6. La legge 107/2015 e il decreto 66/2017
La legge 107/2015 (cfr. par 2.3) ha dato origine ai seguenti decreti applicativi in diverse materie: Formazione e ruoli dei docenti della scuola secondaria e tecnica (d.lgs. n. 59/2017)
Promozione della cultura umanistica e sostegno della creatività (d.lgs. n. 60/2017) Revisione dei percorsi dell'istruzione professionale (d.lgs. n. 61/2017) Esami di Stato per il primo e secondo ciclo (d.lgs. n. 62/2017) Effettività del diritto allo studio (d.lgs. n. 63/2017) Scuola italiana all'estero (d.lgs. n. 64/2017) Sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (d.lgs. n. 65/2017)
Promozione dell'inclusione scolastica degli studenti con disabilità (d.lgs. n.
66/2017)
Per il testo integrale del d.lgs. 66/2017 si rimanda alla consultazione del sito del Miur (www.miur.gov.it). Di seguito sono elencate in sintesi le competenze e responsabilità dei SOggetti istituzionali coinvolti nel progetto di inclusione, comprese le innovazioni introdotte dal decreto 66/2017. Ufficio scolastico regionale (Usr) * Stipula accordi di programma/intese per l'inclusione con Regione, Enti locali, Aziende sanitarie locali, Università; • gestisce il personale scolastico assegnato dal Miur; emana indirizzi per la formazione delle classi nella scuola dell'infanzia, del primo ciclo e secondaria di 2°; assegna l'organico di sostegno a tutti i livelli scolastici;
•
287
• nomina il Glir, Gruppo di lavoro regionale per l'inclusione per monitoraggio e verifica del processo di inclusione in rapporto con altri uffici del Usr, con le scuole, con il Miur (Linee guida 2009); costituisce a livello di ciascun Ambito territoriale (ex Uffici scolastici provinciali) il Git (Gruppo per l'inclusione territoriale) che nel testo del decreto ha un ruolo chiave nella procedura che investe l'Usr per l'assegnazione dell'organico del sostegno alle scuole.
Singola scuola autonoma • Nomina il Gruppo di lavoro per l'inclusione che affianca i preesistenti gruppi di lavoro (Glho);
• elabora il Piano dell'offerta formativa (Pof) e il Piano triennale dell'offerta formativa (Ptof); • elabora il Piano per l'inclusione che viene inserito nel Ptof;
• destina fondi del bilancio alla gestione dell'integrazione; • progetta e attua iniziative di formazione in servizio del personale docente sull'inclusione; • coinvolge gli Organi collegiali e i genitori nel progetto di inclusione; • collabora con gli operatori dei servizi socio-sanitari attraverso un suo rappresentante per la stesura del Profilo di funzionamento; • i docenti del consiglio di classe elaborano il Piano educativo individualizzato su base ICF in collaborazione con la famiglia; • attua verifiche sull'efficacia del progetto di inclusione nel suo insieme e in rapporto ai singoli alunni all'interno della progettazione educativa della Scuola (Piano per l'inclusione e Rav); • attua progetti, anche in rete con altre scuole, per migliorare la qualità del processo di inclusione;
da parte del Collegio dei docenti viene approvato il Regolamento sulla valutazione (decreto 62/2017) d'Istituto che contiene i criteri relative alla valutazionel allo svolgimento dell'esame di Stato degli alunni con disabilità e degli alunni
con DSA. Regione • Alla luce del principio di legislazione concorrente emana atti legislativi in al tuazione della legge 104/92, del decreto 66/2017, secondo quanto concordalo in Conferenza stato-regioni sull'inclusione scolastica. Tali atti trovano spazio
all'interno del Piano sanitario regionale; • emana atti di indirizzo alle Aziende sanitarie locali, agli Enti locali, alla scuola, attraverso accordi di programma a livello regionale (art. 13 legge 104192):
• attribuisce fondi per il Diritto allo studio agli Enti locali (Dpr 616/77); • programma e finanzia piani per l'edilizia scolastica e per la sicurezza;
approva il piano regionale per il dimensionamento della rete scolastica (su de lega del Governo).
Azienda sanitaria locale • Garantisce in relazione alle persone con disabilita interventi di prevenzione. riabilitazione, cura;
288
organizza gli interventi sanitari attraverso le strutture ospedaliere, i poliambu-
latori, i servizi socio sanitari a livello distrettuale, le strutture residenziali di
ipo sanitario, i centri convenzionati ex art. 26 legge 833/78; . attiva le competenze professionali specifiche per: accertamento della disabilità. La Commissione medica per accertamenti in età evolutiva rilascia la certificazione di disabilità (Dpcm 185/2006 decreto 66/2017);
- profilo di funzionamento. L'équipe mulidisciplinare elabora il profilo di
funzionamento secondo ICF che supera diagnosi funzionale e profilo dinamico funzionale previsti dalla legge 104/92; . stipula intese e accordi di programma a livello comunale e provinciale secondo l'ambito territoriale di competenza. Comune
. stipula accordi di programma a livello comunale e intercomunale (attraverso le Conferenze dei sindaci) con le Asi di riferimento e con le Scuole autonome; . assegna alle scuole il personale socio-assistenziale e socio-educativo per soste-
nere l'inclusione; • agevola la frequenza scolastica organizzando servizi di trasporto, mense scolastiche, servizi di accompagnamento individuale (fonte: Dpr 616/77 - legge 328/2000 - d.lgs. 66/2017));
•provvede all'edilizia scolastica delle scuole dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione (manutenzione, eliminazione barriere architettoniche) nei limiti delle risorse finanziarie disponibili;
attua servizi educativi (asili nido, centri socio-educativi, residenze protette gestite direttamente, o in convenzione ai sensi dell'art. 26 della legge 833/78);
•elabora il Progetto individuale su richiesta dei genitori (legge 328/2000, art. 14). Provincia/Citta metropolitana (norma di riferimento legge n. 56 del 7 aprile
2014 "Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni")
Stipula intese con gli altri Enti territoriali e locali e con l'ambito territoriale dell'Usr per garantire il diritto allo studio e l'inclusione degli alunni con disabilità nella scuola secondaria di 2°;
"provvede all'edilizia scolastica delle scuole secondarie di secondo grado; gestisce l'ambito della formazione professionale, attraverso le competenze tra-
sferite dalla Regione;
•
approva e propone alla Regione il piano di dimensionamento della Rete scola-
stica sul territorio provinciale.
Dopo aver illustrato le competenze dei diversi soggetti istituzionali, i propone Una sintesi delle principati innovazioni del dlgs. 66/2017 in materia di documen-
" La famiglia richiede all'Inps l'accertamento;
289
• la Commissione per l'età evolutiva rilascia la certificazione di disabilità e la consegna alla famiglia; • la famiglia consegna la certificazione: - all'équipe multidisciplinare che elabora il Profilo di Funzionamento; scuola che predispone il PianoIndividuale. educativo individualizzato; alalla Comune redige il Progetto Il profilo di funzionamento e il Piano educativo individualizzato sono i documenti utili per la elaborazione del progetto individuale da parte del Comune.
3.7. Piano per l'inclusione e Index per l'inclusione La circolare n. 8 del 6 marzo 2013 sui Bisogni educativi speciali identificava nell'Index per l'inclusione uno degli strumenti per la rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del grado di inclusività delle scuole di ogni ordine e grado, soprattutto col fine di accrescere la consapevolezza dell'intera comunità educante sulla centralità e la trasversalità dei processi inclusivi. L'index per l'inclusione è uno strumento che raccoglie materiali e meto-
dologie che consentono a docenti, genitori, studenti e dirigenti di valutare l'inclusione nella propria comunità scolastica e di progettare azioni utili a creare un ambiente a essa sempre più favorevole. L'index nasce nel 2001 in Inghilterra dalla ricerca condotta da Tony Booth e Mel Ainscow. È stata tradotta in oltre 30 lingue in tutto il mondo (Dovigo, 2017). Dal 2008 ne esiste una versione italiana. Attraverso la formazione in servizio, l'Index ha contribuito a diffondere nelle nostre scuole pratiche utili a contrastare l'insuccesso scolastico e ha costituito il riferimento culturale per l'impostazione del piano per l'inclusione così come proposta dal d.lgs. 66/2017. I concetti di inclusione ed esclusione vengono esplorati lungo tre dimensioni interconnesse: Miglioramento della scuola
Concetti chiave per l'inclusione
Creare culture inclusive
Ostacoli all'apprendimento e alla partecipazione
Produrre politiche inclusive
Risorse per sostenere l'apprendimento e la partecipazione
Sviluppare pratiche inclusive
Sostegno alla diversità
Sui concetti chiave si struttura un linguaggio comune per lavorare sulle strategie educative inclusive.
interna. I team presupposti, nella dimensione delle rescina collegialità interna, i team docenti, i consigli di classe e i consigli di intersezione hanno la responsabilia di individuare in ciascuna classe tutti gli alunni
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portatori di BES; si rende quindi necessaria l'adozione, mediante lo sfor2o congiunto della scuola e della famiglia, di una personalizzazione della didattica i cui strumenti privilegiati sono rappresentati dal piano educativo individualizzato (Pei) e dal Piano didattico personalizzato (Pdp). Quest'ulfimo va adottato anche in assenza di certificazione medico-specialistica, in considerazione delle competenze pedagogiche dei docenti che dovranno esprimersi durante un consiglio di classe appositamente dedicato all'inizio di ogni anno scolastico e ogni qual volta si renda necessario. Il Gruppo di lavoro per l'inclusione (Gli) estende la propria competenza alle problema-
liche relative ai BES, svolgendo funzioni di rilevazione, raccolta, documentazione degli interventi didattico-educativi realizzati - anche in rete tra scuole -, consulenza e supporto ai docenti, monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola. Appare evidente che la rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del grado di inclusività della scuola hanno il fine di accrescere la consapevolezza dell'intera comunità educante.
collegio dei docenti avrà quindi il compito di discutere e deliberare il Piano per l'inclusività in cui si esplicitano i punti di forza e di criticità
degli interventi di inclusione scolastica attuati durante l'anno scolastico, formulando un concreto impegno programmatico con i relativi obiettivi di miglioramento.
Il Piano per l'inclusione è attuato nei limiti delle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili. Esso trova spazio nel Ptof e contiene
anche i progetti di formazione sul temi dell'inclusione rivolti al personale scolastico. Ai processi di inclusione il Rav (Rapporto di autovalutazione, Apr n. 80/2013) dedica una sezione specifica da compilare ogni anno.
Il Piano per l'inclusione definisce le modalità per l'utilizzo coordinato delle risorse, offrendo alla dimensione inclusiva un carattere di trasversalià negli ambiti di insegnamento curricolare, della gestione delle classi, del'organizzazione dei lempi e degli spazi, delle relazioni tra docenti, alunni e famiglie.
*. Dall'integrazione all'inclusione. Aspetti pedagogici e organizzativi 41. Il Patto formativo. La famiglia come risorsa e come parmer del progetto inclusivo
In questo paragrafo verrà preso in considerazione il rapporto di collaborazione paragrato Vara glia cosi come è concepito dalla normativa sUl inclusione scolastica. La famiglia è vista come protagonista del proces-
so di inclusione dal punto di vista formativo ma anche dal punto di vista amministrativo. 291
⑲
Il rapporto che intercorre tra genitori e operatori della scuola si fonda sul delicato equilibrio tra riservatezza (d.lgs. 196/2003 Codice in materia di protezione dei dati personali) e trasparenza (legge 241/90). La scuola ha lungamente resistito a un pieno coinvolgimento delle famiglie nel contesto della progettazione educativa; da alcuni tale passaggio - previsto dalla legge - è stato a lungo considerato come un'ingerenza nella sfera professionale
dei docenti. Ma la riforma della Pubblica amministrazione (d.lgs. 165/2001) si basa su un cambiamento di prospettiva che sposta l'attenzione dalle logiche di funzionamento interno e autoreferenziale (la segretezza degli atti) a quella della trasparenza e della rendicontazione all'esterno e nei confronti dei cittadini/soggetti dei provvedimenti amministrativi di qualsivoglia natura (Petrolino, 2008). Si tratta degli stessi principi ispiratori dell'Autonomia scolastica. Un esempio di tale capovolgimento di prospettiva è contenuto nel testo del già citato Dpcm 185 del 23/2/2006, che assegna alla famiglia il compito di far pervenire alla struttura scolastica la certificazione (diagnosi) redatta dall'Unità multidisciplinare. Precedentemente tale documentazione passava per via burocratica dalla Asi alla scuola. La stessa impostazione è stata mantenuta dal d.lgs. 66/2017. Pertanto, la firma che il genitore appone in calce al piano educativo individualizzato, al di la e prima di essere indicativa del livello di collaborazione tra scuola e famiglia, è la manifestazione del consenso informato che la legge prevede venga espresso dal tutori dell'obbligo per il trattamento dei dati personali (d.lgs. n. 196 del 301612005). E ormai largamente condivisa, almeno in linea di principio, la necessità di una stretta collaborazione tra l'istituzione scolastica attraverso
tulle le sue componenti - dirigente scolastico, figure di staff, insegnanti curriculari e di sostegno, operatori socio-assistenziali - da una parte e g° nitori dall'altra (Petrolino e Rembado, 2010). Tale collaborazione si deve realizzare in un clima di pari dignità e reciproco rispetto. Questo è tanto più vero se ci si riferisce ad alunni con disabilità. In questi casi la collaborazione, che si estenderà anche ad altri enti e soggetti (Asl, servizi social. centri riabilitativi, associazioni), è di vitale importanza per la presa in de rico globale per il processo di abilitazione e per la realizzazione di quel progetto di vita dellalunno con disabilita che si delinea fin dai primi anni
Al di i dele dichiarazioni formali sulfimportanza del ruolo della i
miglia, dele alternazioni presenti anche nei testi di legge (art. 12, comma 5 e 6. lese cune 982) ancor ogi le fanniglie di una persona con dikahli. sono visse lo ai lamiglie disabili, famiglie disfunzionali che hanno bade gno non solo di altro, ma anche di controlo si parte degli esperti e dell
istituzioni.
292
Alcune ricerche (Censis, 2010) hanno messo in luce l'invisibilità istiturionale che ha nascosto per troppo tempo i problemi e la vulnerabilità di tali famiglie. Purtroppo è ancora lontana la consapevolezza, soprattutto tra
gli addetti ai lavori;
che i genitori sono portatori di una competenza insostituibile, da valofizzare e diffondere;
- che questa competenza, posseduta dai genitori - cosiddetti esperti grez-
ti - si deve integrare con quella degli esperti formali (www.lascuolapossibile.it/articolo/la-pedagogia-dei-genitori). La famiglia del bambino con disabilità, con le sue fragilità e le sue risposte resilienti, è la sola a conoscere il bambino nelle sue manifestazioni quotidiane, nell'espressione di bisogni e desideri a volte difficili da decodificare. Su questi temi si è aperto un vasto dibattito culturale, anche attraverso un recente approccio socio-formativo denominato Pedagogia dei genitori Dal Molin e Bettale, 2005) che si è nel tempo arricchito di contributi teorici e operativi grazie alle narrazioni, alla formazione condivisa, agli scambi comunicativi tra le famiglie favoriti dalla Rete. Tutte le norme precedenti il d.lgs. 66/2017 assegnano un ruolo partecapativo importante alle famiglie in tutto il percorso che, partendo dalla richiesta di attestazione della situazione di disabilità, giunge all'attivazione di misure scolastiche inclusive. Il loro ruolo è infatti importante sia nella
definizione del profilo dinamico funzionale (Pdf) o Profilo di funzionamento che del Piano educativo individualizzato (Pei). Insieme ai docenti e al referenti Asi, infatti, le famiglie contribuiscono a definire gli obiettivi raggiungibili a lungo, medio e breve periodo.
Con il d.lgs. 66/2017 la famiglia mantiene il suo ruolo di protagonista nelle decisioni relative al minore con disabilità; è solo attraverso la volontà della famiglia che vengono innescate le procedure di certificazione e diagnostiche che porteranno alla costruzione del Pei, che è frutto di confronto ta competenze diverse (chi se non il genitore possiede competenze relative al proprio figlio?). Le linee guida ministeriali su integrazione e inclusione del 2009 e le Linee d'indirizzo Partecipazione dei genitori e corresponsabilità educativa del 2/11/2012 sistematizzano tale tematica, anche se nel quoindiano prevale una totale disomogeneità nei comportamenti istituzionali della scuola verso le famiglie degli studenti con disabilita. A fronte di un sempre maggior numero di scuole - soprattutto quando supportate da servizi socio sanitari e da efficienti uffici scolastici e centri di supporto che esprimono buone prassi sull'inclusione - come si può veriAcare dai siti web di molti istituti scolastici - si è ancora di fronte a sacche
Il trascuratezza, se non addirittura di illegalità (efr. l'ampia casistica su fiduzioni dell'orario scolastico proposte/indotte dalla scuola). Rilevante Indicatore di squilibri nella relazione scuola-famiglia è rappresentato dal
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ricorso di molte famiglie ai Tribunali amministrativi regionali (Tar) per
ottenere un maggior numero di ore del docente di sostegno assegnato alla classe. Non è raro leggere attraverso siti internet delle diverse associazioni, blog e social network, la denuncia di una pratica scolastica che non rispetta
i diritti degli studenti con disabilità. La famiglia ha il diritto di partecipare attivamente alla formulazione del Profilo di funzionamento e del Pei mentre ancora in molte scuole si invitano i genitori a sottoscrivere questi documenti precompilati in modo autoreferenziale dai docenti. Una scuola inclusiva garantirà una particolare cura nel gestire alcuni delicati momenti di transizione, cruciali per la qualità della successiva esperienza scolastica dell'alunno. Risulta strategico strutturare l'accoglien-
za in ogni nuovo ambiente educativo, a partire dal primo inserimento
all'asilo nido, attraverso la conoscenza reciproca, la presa di contatto con il contesto e lo scambio di informazioni sul bambino. Il bambino con una disabilità certificata arriva a scuola più conosciuto di tutti gli altri bambini, attraverso i contatti con operatori dei servizi sanitari e scolastici che accompagnano il momento dell'iscrizione. Nella scuola inclusiva l'accoglienza rappresenta una strategia permanente attraverso cui l'istituzione dedica una costante attenzione agli indicatori di benessere espressi da tutti i soggetti (alunni, famiglie, operatori della scuola, collaboratori) coinvolti nelle fasi cruciali dell'incontro, impegnandosi a monitorarne gli effetti nel tempo. Secondo il principio di sussidiarietà, famiglia e scuola si scambiano un mutuo aiuto per costruire il progetto individualizzato teso al successo formativo (Miliband, 2009). Non esiste la famiglia; esistono le famiglie, ciascuna con la propria storia.
Si tratta di un rapporto di interdipendenza. Se la famiglia ha bisogno della scuola per sostenere la crescita, la maturazione dell'identità del bambino e le sue relazioni con il mondo, così anche i docenti hanno bisogno delle indicazioni, delle informazioni che solo la famiglia è in grado di of-
frire.
A volte la famiglia, soprattutto in presenza di pluridisabilità, fatica a uscire da una relazione esclusiva con il bambino, ad accettare che altri adulti possano entrare in un rapporto costruttivo con lui. Possono inter
venire dinamiche conflittuali espresse a diversi livelli di simbolizzazione. Si tratta di un gioco prevalentemente al femminile, vista la particolare intensità del rapporto madre/bambino, da un lato, e della preponderante presenza femminile nel mondo dell'insegnamento e dei servizi alla persona, dall'altro (Giunta e La Spada, 1987; Colombo, 2005). La consapevolezza del ruolo dovrebbe aiutare i docenti a evitare risposte di tipo simmetrico e speculare rispetto al comportamento dei genitori adottando un atteggiamento di ascolto (Bisogni, 1983). Anche il confito, 294
se accolto, può essere gradualmente riconosciuto e superato fino a ripristinare livelli di comunicazione efficaci in funzione del comune progetto formativo (Benasayag e Del Rey, 2008).
Proprio dall'associazionismo costruito dalle famiglie, in prima istanza per una tutela dei diritti dei figli, ma oggi costituito da persone - senza
alcuna etichetta - unite da un progetto comune, arrivano stimoli e proposte per una società inclusiva e azioni per la vita indipendente di tutte le persone, anche con disabilità complesse (il disability paradox; Niero, 2005).
4.2. Individualizzazione e personalizzazione
Trattando uniformemente la diversità non si produce che differenza
(Scuola di Barbiana, 1967). Ancora una volta la mission pedagogica di Don
Milani rappresenta un principio guida nell'analisi di concetti chiave per
impostare una didattica inclusiva (Baldacci, 2006).
Nel momento in cui uno studente vive una condizione che gli rende difficile o impossibile rispondere adeguatamente e produttivamente alle varie attività, è necessario che anche la scuola attui degli adattamenti alla propria proposta, in funzione del maggiore successo formativo possibile per lo studente.
La visione di tipo olistico (Fiorin, 2011) che sta alla base dei nuovi criteri introdotti dall'ICF sorregge il principio della individualizzazione del processo di apprendimento. Esso riguarda non solo l'alunno con disabilità, ma tutti gli alunni della classe, i quali hanno diritto a un processo di insegnamento/apprendimento non standardizzato e non definito a priori, in grado di tenere in considerazione la diversità delle condizioni di partenza fra tutti gli alunni e la ricchezza degli stili di apprendimento. Per individualizzazione si intende (Vertecchi, 1990): un processo che ton si realizza attraverso un rapporto 1:1 all'interno di un lavoro collettivo Uguale per tutti (lavoro individualizzato è diverso da lavoro individuale); un approccio strategico alla formazione che, attraverso il trattamento differenziato degli apprendimenti degli alunni, intende ottenere un risultato defnito su un criferio collettivo. Non si tratta pertanto di un processo Separato dalla progettazione didattica complessiva, ma di una risposta al problema che la gestione delle diversità individuali pone al ream docente. I Tormenti strutturati per individualizzare l'apprendimento troveranno spazio.
dal interno di modelli organizzativi efficaci - in alternanza con le fasi di
lavoro coltivo e de gruppo. presuposti teorici e le proposte cicalio,
"Stive learning Colnsone Sohnson, 2005), Lutte le metodologie educativo/
dialitiche inegratinson e rolena (lanes, 201; Comoglio, 1098), 1 огия нО рота насто носо ві сетата Сало - 201: Сопово, 1955, й тонив
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a una riorganizzazione didattica che sappia coniugare le istanze della speciale normalità all'interno di una progettazione unitaria (lanes, 2006). Pertanto gli obiettivi di lavoro nelle diverse aree disciplinari da inseri-
re nel Pei sono da riferirsi ai temi di discussione, ai contenuti, alle esperienze, agli obiettivi formulati per tutta la classe (Zambotti, 2015). Una scuola inclusiva si pone il problema di gestire l'eterogeneità valorizzando i diversi stili di apprendimento senza trascurare gli alunni in difficoltà. Si pone pertanto l'esigenza di affrontare un chiarimento concettuale
ponendo a confronto la logica della individualizzazione con quella della personalizzazione rispetto alla prassi scolastica. Prima delle linee guida del 2009 e della successiva normativa sui BES, i documenti ministeriali riguardanti il progetto didattico per l'alunno con disabilità utilizzavano indifferentemente i due termini tanto che per molto tempo sono stati considerati sinonimi. Sembra quindi utile precisare che individualizzare significa utilizzare strategie applicate in percorsi diversificati di apprendimento e finalizzate al conseguimento di obiettivi comuni per tutti gli alunni, mentre personalizzare significa diversificare gli obiettivi basandosi sulle caratteristiche del singolo alunno, quando ciò risulti necessario e opportuno.
Con i percorsi personalizzati si cercherà di valorizzare inclinazioni,
propensioni, interessi, tipo di intelligenza di chi apprende (Gardner, 1999), al fine di raggiungere traguardi adeguati ai bisogni formativi specifici della persona, pertanto diversi per ciascun alunno. Il consiglio di classe sceglierà il percorso migliore da seguire per portare lo studente/gli studenti al raggiungimento delle competenze stabilite dalla programmazione della classe.
Estremamente interessanti sono gli studi che individuano tra i due
approcci una zona d'intersezione (Baldacci, 2006), ovvero quella di una scuola a misura d'alunno. La differenziazione dei percorsi formativi, pur all'interno del contesto inclusivo della classe e dei traguardi per essa fissati, consente ai soggetti con bisogni speciali di sentirsi protagonisti del processo di apprendimento nelle sue svariate dimensioni (individuali, sociali, cognitive e affettive) e possiede una coerente ricaduta sul piano didattico.
Le due modalità risultano nei fatti complementari e da utilizzarsi opportunamente all'interno della flessibilità organizzativa contemplata dalle norme (legge 517/77, Dpr 275/99 sull'Autonomia scolastica) nella gestione degli orari, dei gruppi e delle attività scolastiche.
Fino a tempi recenti in testi ministeriali riguardanti integrazione e inclusione, l'uso dei due termini risulta contraddittorio: per gli alunni con disabilità certificata il piano educativo individualizzato in realtà prevede un percorso personalizzato quando gli obiettivi non siano comuni alla clas-
se (Pei differenziato): per alunni con altri tipi di BES, nel piano didatico
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personalizzato (P4p) vengono stabilite strategie individualizzate e l'uso di strumenti compensativi e misure dispensative per raggiungere gli stessi obietivi della classe (Vanni, 2014). Le Linee guida del 2009 offrono usa utile precisazione in merito: sul piano concettuale e metodologico, è opportuno distinguere fra la
programmazione personalizzata che caratterizza il percorso dell'alunno con disabilità nella scuola dell'obbligo e la programmazione differenziata che, nel II ciclo di istruzione, si può concludere con l'attestato di competenze" (cfr. par. 4.8).
È importante che il team docente si muova con competenza in questo quadro complesso, che conosca il valore semantico dei due termini sul piano pedagogico e su quello amministrativo e che sappia gestire le criticità relative all'azione di valutazione (cfr. par. 4.8).
4.3. Il Piano educativo individualizzato
Il Profilo di funzionamento che sostituisce con il d.lgs. 66/2017 il profilo dinamico funzionale rappresenta il momento dello scambio di aspettative, di conoscenze, di informazioni, di ipotesi di lavoro tra fa-
miglia, scuola, servizi socio-sanitari sui bisogni specifici del bambino e sulle risposte attese dal percorso scolastico. A questo importante documento fa seguito la costruzione di successivi strumenti operativi che si sintetizzano nel piano educativo individualizzato. Lo stesso decreto indica l'ICF come modalità di classificazione privilegiata per la costruzione del Pei.
Si ribadisce che nelle Regioni che non hanno adottato l'ICF come previsto dalla Conferenza stato regioni del 2008, per le attestazioni redatte dai Servizi Sanitari al fine ottenere l'assegnazione dei docenti di sostegno perdura l'utilizzazione dell'ICD10 (con i codici numerici riferiti alle diverse tipologie di disabilità) e la stesura di Diagnosi funzionale e Profilo dinamico funzionale (legge 104/92). Il Pei secondo la formulazione contenuta nel d.lgs. 66/2017: - è elaborato e approvato dai docenti contitolari o dal consiglio di classe, con la partecipazione dei genitori o dei soggetti che ne esercitano la responsabilità, delle figure professionali specifiche interne ed esterne all'istituzione scolastica che interagiscono con la classe e con l'alunno con disabilità nonché con il supporto dell'unità di valutazione multidisciplinare; - tiene conto della certificazione di disabilità e del Profilo di funzionamento; -individua strumenti e strategie, modalità didattiche e di coordinamento degli interventi; dev'essere redatto all'inizio di ogni anno scolastico e aggiornato in presenza di nuove e sopravvenute condizioni:
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è frutto del raccordo di tutti gli interventi (sanitari, riabilitativi, pedagogici,
- dato;
familiari) che si intendono effettuare a favore dell'alunno in un arco di tempo
è uno strumento operativo di tipo interistituzionale, globale, integrato, multidisciplinare, che ha la funzione di dare congruenza e senso all'incontro di linguaggi professionali tanto diversi tra loro (Faloppa, 2009); la sede operativa che gestisce il progetto individualizzato è il Glho costituito dai docenti della classe; il Gruppo di lavoro per l'inclusione (Gli) coordina secondo modalità condivise la strutturazione dei singoli Pei e cura il monitoraggio della qualità del piano per l'inclusione.
Ciascuna istituzione scolastica predispone il Piano per l'inclusione che definisce le modalità per l'utilizzo coordinato delle risorse. Per confrontare modelli di Pei costruito secondo l'ICF (Bedin, 2018) consultare: https://didatticapersuasiva.com/sostegno/pei-icf-esempi-compilati
4.4. Costruire il Pei nella progettazione della classe. Il principio di adattamento Ancora una volta le sollecitazioni dell'Index per l'inclusione (cfr. par 2.7) offrono efficaci indicazioni operative su come modificare la programmazione della classe in funzione della costruzione del Pei. L'adattamento del percorso curriculare della classe alle esigenze specifiche dell'alunno con disabilità avviene per livelli successivi (Booth, Ainscow, 2014) La scelta delle sequenza d'azione avverrà in base alla difficoltà manifestate dall'alunno nella specifica disciplina e alle sue potenzialita,
tenendo presenti gli obiettivi generali stabiliti nel Pei.
Funzione essenziale del percorso di adattamento è trovare punti di con-
tatto tra le attività programmate, le esigenze e le abilita di ciascuno per consentire a tutti la possibilità di partecipare attivamente alla vita della classe. Nel processo di adattamento si fissano: - l'input che rappresenta l'insieme delle condizioni di stimolo nei confronti delle quali lo studente è chiamato ad agire (comprende il compito che gli è stato proposto);
- l'azione costituita da tre fasi: comprensione/elaborazione/output alt traverso le quali l'alunno fornisce la sua personale risposta all'inpul (lanes, Macchia 2008).
Operare un adattamento della progettazione didattica significa cercare
un'armonizzazione fra: - principio di parsimonia: avvalersi di adattamenti il più possibile natu
rali, che non stravolgano il senso del compito e la situazione nella quale
l'alunno è chiamato a lavorare;
298
principio di efficacia: ci chiama a portare aiuti decisivi e risolutivi che Porriscano effettivamente al bambino con BES la possibilità di svolgere il compito insieme ai propri compagni. Itipo di apprendimento da sviluppare è l'apprendimento significativo che consente di dare un senso alle conoscenze e permette l'integrazione delle nuove informazioni con quelle già possedute (Zambotti, 2015). Esso è il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto, strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l'apprendimento, ed è favorito dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale: promuove la collaborazione in contesti e situazioni differenti, sviluppando le capacità di problem solving, di pensiero critico, di metariflessione trasformando le conoscenze in vere e proprie competenze. Questo approccio si fonda sulla teoria costruttivista dell'apprendimento (Contini, 2000), avendo come traguardo l'autonomia del soggetto nei propri percorsi formativi e conoscitivi. Tale modello concettuale si pone come antitesi dell'apprendimento meccanico eterodiretto dal docente. I livelli d'intervento secondo il principio di adattamento sono di seguito sinteticamente descritti:
Sostituzione: sostituzione di alcuni componenti dell'input o dell'azione. Si agisce per rendere più accessibile il percorso attraverso la traduzione di elementi di stimolo. Non c'è semplificazione degli obiettivi.
Facilitazione: si riporta l'obiettivo in un contesto reale e vicino all'esperienza di vita dell'alunno, si lavora su tempi più lunghi e con più pause, si arricchisce l'informazione con indizi ed aiuti esterni (immagini, spiegazioni aggiuntive, domande di comprensione e organizzazione delle conoscenze pregresse); riguarda i contesti di apprendimento (ambienti, strumenti, modalità di interazione), riguarda gli aspetti strutturali del compito (spazi- tempi); riguarda il contenuto dell'attività. Facilitare con aiuti che consistono nell'aggiunta di informazioni utili per svolgere il compito, senza ridurre alcunché nel contenuto e negli obiettivi propri dell'attivila. Lo stesso obiettivo viene proposto da altre persone, in altri ambienti, con altre
modalità; si arricchisce la situazione con altri tipi di aiuto: immagini, mappe, spiegazioni aggiuntive (Maviglia, 2009).
Semplificazione: si semplifica l'obiettivo in una o più delle sue parti, quali comprensione, elaborazione e risposta. Si semplifica il lessico utilizzato, si riduce
la complessia concettale disposta, Si semplitica il lesi re, li amplificant enteri di corretta esecuzione delle risposte, consentendo una maggiore approssi-
Scompositione nei nuclei fondani: si individuano quel conoscenze ed abilia due sono cardini della disciplina che risultino accessibili all'alunno e abetivi di Carmi in termini di lia disciplina che ale min facilmente traducibili in obietivi di
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apprendimento. L'attenzione viene spostata dai singoli contenuti delle attività ad aspetti più generali, legati all'epistemologia stessa delle funzioni cognitive o delle competenze di autonomia personale e sociale che devono essere acquisite in ambi to scolastico.
Partecipazione alla cultura del compito: si cercano o si creano delle occasioni per far partecipare l'alunno a momenti significativi d'elaborazione o utilizzo delle competenze curricolari. In casi particolarmente complessi in cui operare ai livelli precedenti non sia possibile ed efficace, vanno ricercati quegli aspetti che mettono in risalto e in qualche modo amplificano e sintetizzano le finalità stesse e lo spirito dell'attività. Aspetti che permettono un avvicinamento concreto al clima della
classe/sezione, agli aspetti emotivi e affettivi, alla socializzazione dei risultati,
producendo una reale partecipazione alla tensione cognitiva e emotiva del gruppo, Non si lavora sull'attività, ma su presenza e condivisione con la classe (Zambotti,
2015).
In questo quadro di riferimento tutti gli elementi organizzativi della scuola (spazi, tempi, gruppi, materiali, risorse umane) cercheranno di rispondere ai criteri di una didattica inclusiva. Le esigenze del sistema saranno messe a confronto con le aspettative dei docenti e soprattutto con quelle degli studenti. I tempi del curricolo saranno rivisti attraverso un'alternanza tra le attività (lezione frontale/attività in gruppo), monitorando i livelli di benessere e di motivazione al compito del gruppo classe e dei sin-
goli ragazzi con disabilità e/o con difficoltà. Da questa impostazione emer ge l'immagine di una classe resiliente, ricca di risorse con alunni capaci di vedersi competenti ed efficaci negli apprendimenti, di compotarsi in modo adeguato al contesto, di vivere relazioni autentiche con docenti e compagni (lanes e Macchia, 2008). Anche lo spazio in un logica inclusiva ha un ruolo centrale sia in termini di accessibilità e di funzionalità comunicativa (assenza di barriere/ ostacoli fisici), che in termini estetici e simbolici (spazio accogliente, con
arredi appropriati, ricco di stimoli, organizzato per favorire l'autonomia, con spazi laboratorio finalizzati ad un compito). L'adattamento del curricolo e delle sue fasi per la costruzione del Pei rimanda al Piano per l'inclusione e all'Index (cfr. par. 2.7) che analizza la qualità del contesto al fine di garantire il clima inclusivo necessario per indurre negli studenti il piacere della conoscenza (Pontecorvo e Pontecorvo, 1986; Recalcall, 2014). Per un approfondimento della dimensione psicopedagogica che rappresenta il fondamento scientifico-culturale del progetto di inclusione scolastica si rimanda alle ricerche sulle strategie di insegnamento/appren-
dimento (Pontecorvo e Pontecorvo, 1986) sulla pluralità dell'intelligen 7a; Boscolo, 1986;nel Doise e Mugny, 1981; Gardner, 1999; Morin, 2000. sull'osservazione contesto educativo Camaioni, Buscetta e Aurell,
300
(98), sul cooperative learning (Johnson e Johnson, 2005), sulle politiche di equità in educazione (Bottani, 2009). 45. Il docente specializzato. Ruolo di sostegno e funzione di sostegno
La via italiana all'integrazione è stata realizzata attraverso un forte in-
vestimento sulla risorsa professionale che di tale processo è stata nel tempo protagonista: il docente di sostegno.
Tale figura nasce dall'evoluzione dell'insegnante della scuola speciale, formato presso le scuole di metodo già tra le due guerre. Il Dpr 970 del 1975, a seguito dell'emanazione dei decreti delegati sulla scuola (1974), riformò i programmi dei corsi biennali di specializzazione, recependo le nuove esigenze dell'integrazione scolastica, e innovò la formazione della figura professionale che doveva garantire la transizione dell'educazione dei bambini con handicap dalla struttura speciale alla
scuola di tutti.
Dopo circa dieci anni, l'Om n. 194/86 e il Dm 24/4/86 modificarono
ulteriormente i corsi di specializzazione rivolti ai futuri docenti di sostegno
e furono istituiti corsi polivalenti: venivano aboliti i corsi settoriali per la formazione nel campo delle minorazioni sensoriali (vista, udito), che fino a quel momento avevano mantenuto programmi e gestioni separate per l'insegnamento in scuole speciali organizzate per tipo di disabilità. I corsi
polivalenti trattavano delle problematiche cliniche e pedagogiche relative a tutte le tipologie di disabilità. I programmi dei corsi biennali si basavano su un approccio psicosociale: il profilo in uscita dell'insegnante specializzato vedeva le competenze relazionali poste sullo stesso piano delle competenze operative (abilità, procedure scientifiche, uso di tecnologie) e delle conoscenze di carattere teorico.
Con la legge 341/1990 (riforma degli ordinamenti didattici dell'università) e con la legge 104/92 viene sancito il passaggio all'Università di
tutte le competenze formative relative alla specializzazione per il sostegno. L'università si assumerà tale compito a decorrere dall'anno accademico 2011/2012 (Dm 249/2010 - Dm 139 del 4 aprile 2011).
Dal 1975 in poi, tutte le norme e le direttive di settore affermano che l'insegnante specializzato non è l'insegnante dell'alunno con disabilità. Si tratta, al contrario, di un docente di supporto alla classe, assegnato al fine di favorire quelle situazioni organizzative mirate a realizzare il processo di integrazione (Cm 199/79) per un numero di ore settimanali non coincidenti con l'intero orario scolastico degli alunni.
L'alunno con disabilità fa a parte del gruppo classe ed è affidato alla responsabilità formativa di tutti i docenti, così come tutti gli altri alunni che presentino disagi e difficoltà socio-cognitive. 301
Ma è nella realtà dei fatti che il ruolo del docente di sostegno sia stato nel tempo considerato e utilizzato in modo improprio. Dalle prime esperienze degli anni '70 la scuola cercò di contenere gli effetti dirompenti di una presenza impegnativa e inattesa come quella dell'alunno con disabilità, in parallello a quelli conseguenti alla scolarizzazione di massa che mutava la composizione sociale delle classi. Già da quella prima fase venne legittimato implicitamente un processo di delega al docente di sostegno per la gestione dell'alunno con handicap. Tale delega, sollecitata dai docenti curricolari e accettata dai capi d'istituto, spesso è stata auspicata anche dai genitori dei bambini con disabilità: un congruo numero di ore di sostegno e un rapporto esclusivo con il docente di sostegno sembravano rappresentare una risorsa risarcitoria per una situazione esistenzale difficile in un ambiente socioculturale impreparato ad accogliere la diversità in assenza di buone pratiche didattiche a cui fare riferimento. Il legame indissolubile che si è stabilito nel tempo tra figura del docente di sostegno e alunno con disabilità sia nell'immaginario collettivo che nella pratica quotidiana è stato oggetto di analisi e studio di casi all'interno di corsi di formazione, di proteste sindacali, di saggi specialistici, ma non è mai stato sanzionato in quanto comportamento contrario a esplicite norme statali. Esso rappresenta un sintomo della persistente resistenza al cambiamento della nostra scuola (Castoldi, 2017). Per anni non è stato possibile misurare luci e ombre del processo di integrazione, in quanto solo con la fine degli anni '90 e con il nuovo assetto culturale introdotto dall'autonomia scolastica, si è aperto il confronto sui temi della valutazione di sistema e dell'autovalutazione dell'istituzione scolastica (Bottani, 2009). Ma ancora a dieci anni dall'avvio dell'autonomia scolastica nel 2011 il rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte (fondazione Agnelli e altri, 2011) definisce il modello italiano all'integrazione: "ricco di buoni principi ma poco intelligente" (sic). Questa provocatoria suggestione evidenzia che le potenzialità del processo di integrazione sono state ridotte poiché lo stesso risultava ancora fondato sulla relazione quasi esclusiva e, proprio per questo, nociva e inefficace, tra alunno con disabilità e docente di sostegno. L'attività del docente di sostegno per molto tempo si è prevalentemente tradotta:
- in una di tipo attività individuale (attività fuori dall'aula, sottogruppi
formati da sole persone con disabilità...); - in una partecipazione generica alle attività della classe con funzione subordinata ai docenti curricolari; - nell'assunzione di una posizione marginale pur trattandosi della sola figura di docente con specializzazione psicopedagogica; - in un'attività di carattere prevalentemente assistenziale verso l'alunno.
302
I docenti curricolari sono stati scarsamente coinvolti in tale processo risultando privi di una formazione di base in didattica speciale e i dirigenti scolastici si sono rivelati non sufficientemente attenti alla collegialità dei consigli di classe e all'inclusività del contesto scolastico.
Nonostante le molte contraddizioni, la presenza degli alunni con disabilità è stata gradualmente metabolizzata dal sistema scolastico in tutti gli ordini di scuola e con il d.lgs. 66/2017 la rendicontazione sulle azioni
inclusive attraverso il Piano per l'inclusione potrà maggiormente tutelare la qualità del percorso scolastico per gli alunni con disabilità e con altri BES.
Dobbiamo comunque evidenziare che non tutte le criticità risultano
superate. L'accettazione è ancora troppo formale e costellata di pregiudizi non esplicitati, che possono tradursi in forme metacomunicative di rifiuto o di sottostima (Postic, 1986). A tal fine si presentano alcuni dati utili alla riflessione, relativi all'a.s. 2018/2019.
I posti di insegnamento in organico su tutti gli ordini di scuola - sia a
tempo indeterminato che a tempo determinato - risultano in totale 822.723 di cui 681.311 posti comuni e 141.412 di sostegno. Di questi, 100.080 sono posti di diritto (a tempo indeterminato). Possiamo osservare che:
- i posti di sostegno assegnati in organico di fatto (contratti a tempo determinato) sono più di 41.332; - circa il 36% di questi posti sono stati assegnati a docenti non specializzati (circa 15.000 posti).
Come si può notare, la precarietà della figura (con o senza titolo di
specializzazione) impedisce di consolidare l'idea di team-docente stabile in grado di ideare e riprodurre buone prassi inclusive. La discontinuità di intervento (incarico svolto in sedi sempre diverse) e le carenti competenze specifiche compromettono l'efficacia della relazione formativa e la capacità di sostenere le potenzialità dell'alunno con disabilità nel gruppo classe. Problema diffuso è anche rappresentato dalla prassi piuttosto consolidata nelle scuole di far sostituire i docenti curricolari assenti con i colleghi di sostegno, anche se il Miur con la nota prot. 9839 del 2010 ha sancito il divieto di utilizzare l'insegnante di sostegno quando l'alunno assegnato sia presente a scuola salvo in casi eccezionali non altrimenti risolvibili.
Il diventare insegnante specializzato per il sostegno come ripiego o stratagemma per entrare velocemente in ruolo, per poi passare appena
possibile sulla classe rappresenta un percorso legittimo ma che raramente corrisponde all'interesse degli alunni grazie alla cui presenza tale percorso è reso possibile. Le logiche del reclutamento (immissione in ruolo, certezza di un posto di lavoro, possibilità di lavoro sotto casa, sistemazione dei perdenti posto) sono estranee alla logica dell'inclusione e possono essere corTette solo da nuove regole non dettate esclusivamente dal corporativismo del mondo scolastico. 303
Anche grazie all'introduzione delle azioni previste dal Piano per l'inclusione (cfr. par. 3.7) nelle scuole sono aumentate le buone prassi e la condivisione delle stesse attraverso le reti di scuole e i centri di supporto per l'inclusione. Un'inclusione efficace può essere garantita se i consigli di classe sono inclusivi al proprio interno. La scuola inclusiva come comuni-
tà ha una funzione diffusa di sostegno che va oltre il ruolo di una figura professionale, il docente di sostegno, che si configura come esperto della mediazione didattica in relazione ad altri docenti e a figure professionali esterne, che conosce i diversi livelli della progettazione educativa, e sa valorizzare l'alunno con disabilità attraverso un piano educativo individualizzato connesso con le attività della classe. Inoltre, grazie alla specificità del
percorso di specializzazione, oltre alle competenze sui saperi di tipo disciplinare, il docente di sostegno porterà nel gruppo docente un sapere sulla relazione educativa fondamentale per progettare l'inclusione (Postic, 1986).
4.6. Tecnologie e ambiente digitale per l'inclusione scolastica
Da tempo le tecnologie assistive operano per il sostegno della vita indipendente delle persone con disabilità, e una specifica branca scientifica,
la domotica, mira a costruire ambienti fortemente integrati con i sistemi elettronici. Le tecnologie hanno svolto e svolgono un ruolo centrale per il superamento delle barriere fisiche e sociali nella vita delle persone con disabilità, tanto da determinare nuove opportunità esistenziali e nuove categorie scientifiche, come si è verificato con l'assunzione dell'ICF a pa-
radigma internazionale sul piano clinico e diagnostico (Bedin, 2008; 2017). Le tecnologie per una didattica inclusiva facilitano un approccio multimediale e multicanale a servizio dei diversi stili di apprendimento, tolgono
centralità al solo libro di testo, permettono un coinvolgimento attivo e
un'alta attenzione da parte degli alunni, innescano spontaneamente dinamiche cooperative e di aiuto (spontaneo o gestito) permettono la trasferibilità dei contenuti e dei materiali scuola/casa (Zambotti, 2015). La competenza digitale viene considerata una delle otto competenze chiave per l'apprendimento permamente (raccomandazione del Consiglio d'Europa 2018 www.anp.it). Essa presuppone interesse per le tecnologie digitali, dimestichezza con il loro utilizzo per gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro, per lavorare e partecipare alla vita sociale. Le tecnologie digitali vengono valorizzate come ausilio per la cittadinanza attiva e l'inclusione sociale, la collaborazione con gli altri e la creatività nel raggiungimento di obiettivi personali, sociali o commerciali. I dati Istat 2018 ci restituiscono la fotografia di una scuola italiana non ancora pronta a sviluppare percorsi inclusivi di qualità basati sulla didattica
304
digitale. Una scuola su quattro infatti risulta carente di postazioni informa-
are adattate alle esigenze degli alunni con disabilita. Consistenti finanhamenti pluriennali del Miur stanno sostenendo il Piano nazionale scuola digitale.
In parallelo la scuola aiuta i ragazzi a conoscere potenzialità e rischi
della rete per farne un uso informato e responsabile. In particolare i ragazi con disabilità possono diventare vittime inconsapevoli di cyberbullismo, manifestazione in rete del fenomeno del bullismo, che è l'indicatore di un più ampio problema educativo (cfr. Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo Miur, ottobre 2017).
4.7. La valutazione come diritto Insegnare nella complessità significa per i docenti affrontare un'oggettiva difficoltà: armonizzare la risposta ai bisogni speciali di ciascun alunno con il raggiungimento degli standard di competenze previsti per ciascuna classe di ciascun livello scolastico. Perciò uno dei maggiori interrogativi professionali dei docenti, soprattutto nel primo ciclo d'istruzione, è il seguente: alla luce di bisogni educativi speciali si personalizzano le strategie o si personalizzano gli obiettivi?
Personalizzare gli obiettivi, in parole povere spesso significa ridurre gli obiettivi stessi e di conseguenza impoverire il percorso scolastico
dell'alunno con bisogni speciali. Questa frequente azione di riduzionismo rappresenta un rischio che i docenti devono saper monitorare attraverso la progettazione educativa del team. Se personalizzare significa consentire che ciascun bambino con difficoltà non progredisca. rispetto alle prove di ingresso, se il consiglio di classe non cerca di aiutarlo a implementare le proprie competenze in base a standard minimi garantiti, salta il patto democratico sancito dalla nostra Costituzione relativamente al ruolo della scuola. La stessa definizione di inclusione individua come successo formativo il riuscire a ottenere il massimo dei risultati sia nella partecipazione sociale che negli apprendimenti (Dovigo, 2017). Questa premessa concettuale introduce il tema della valutazione degli
alunni con disabilità. Anche gli studenti con disabilità intellettiva hanno
diritto a essere valutati, se hanno regolarmente frequentato le lezioni. Con-
lestualmente i docenti hanno il dovere di attribuire una votazione al loro percorso scolastico (Nocera, 2011).
Secondo un modello di scuola caritatevole, l'omissione degli atti di valutazione nei confronti di alunni con disabilità intellettiva ha lo scopo di non sottolineare eventuali carenze e insufficienze. Tale atteggiamento risulla contrario sia ai principi che ispirano l'integrazione/inclusione a scuola, 305
sia alle norme in vigore. Infatti, l'Ordinanza ministeriale n. 90 del 2001 dall'art. 13 c. 2) ribadisce come per gli alunni in situazione di handicap psichico la valutazione - per il suo carattere formativo ed educativo e per l'azione di stimolo esercitata nei confronti dell'allievo - debba comunque avere luogo alla luce del Pei. La complessità della disabilità non dispensa la scuola dall'azione valu-
tativa. A supporto di tale disposizione, sia la sentenza della Corte costituzionale n. 215/1987, sia il parere del Consiglio di Stato n. 348 del 10 aprile 1991 - riguardanti il diritto all'istruzione delle persone con disabilità nella scuola secondaria di 2° - esprimono tre fondamentali giudizi: a) in base all'art. 3 della Costituzione non vi è graduazione di dignità e di importanza tra le persone e la promozione dei più deboli è uno dei fini primari dello Stato. Perciò non è prospettabile alcuna gerarchia d'interessi (Nocera, 2011): il Sistema scolastico deve occuparsi della promozione e dello sviluppo degli svantaggiati nella stessa misura in cui se ne
occupa in riferimento ai normodotati; b) la valutazione viene intesa sia come verifica dei risultati per il team docente, sia come occasione di stimolo e di impegno per l'educando. Perciò la valutazione ha valore positivo dal punto di vista formativo ed educativo e deve avere luogo anche per il singolo portatore di handicap; c) il terzo principio sviluppato dal parere 348/91 è relativo al compito del-
lo Stato di rimuovere gli ostacoli al raggiungimento dei diritti costituzionali garantiti. Alla luce di questa impostazione giuridica e culturale si può affermare
che per molto tempo il tema della valutazione degli alunni con disabilità ha subito distorsioni interpretative e operative. La diffusa ignoranza da parte degli operatori della scuola delle fonti del diritto e una insufficiente consapevolezza da parte delle famiglie dei diritti di cui i minori con disabilità
sono portatori, hanno compromesso a lungo la qualità dell'inclusione per un rilevante numero di alunni e alunne anche attraverso approssimative moda-
lità di valutazione. La conoscenza di tali aspetti giuridici è fondamentale per i dirigenti scolastici e per i docenti in quanto su tali principi si fondano i ricorsi che le famiglie presentano presso i Tribunali amministrativi regionali (Tar) quando richiedono - e generalmente ottengono - un aumento delle ore di sostegno. La Costituzione Italiana e l'art. 3 della legge 104/92 non prevedono che i diritti esigibili possano ottenere riduzioni da parte dell'amministrazione scolastica, anche in presenza di grave handicap.
Un ulteriore diritto strettamente legato alla funzione valutativa della scuola riguarda il progetto di Orientamento, sia al termine del primo ciclo
di istruzione con la scelta del successivo percorso scolastico/formativo, sia
per l'inserimento lavorativo al termine degli studi secondari. Per lo stu-
306
gente con disabilità si tratta della vera messa alla prova della qualità del pogeto individuale e della inclusività del contesto, tenendo conto che 1 e. puto della crisi economica costringe a mediare realisticamente tra aspethaive e potenzialita dei ragazzi e potenzialità occupazionali del sistema produtivo locale, cercando di evitare che si possano determinare situaziona
escludenti (Gagliardi, 2013).
4.8. La valutazione come procedura
Di seguito si illustrano alcuni punti chiave relativi alla procedura di vanutazione in riferimento agli alunni con disabilità: - nella scuola del primo ciclo (scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado) come per la scuola secondaria di 2°, il Pei deve essere formulato sulla base delle effettive capacità e potenzialità dell'alunno; - la valutazione positiva consegue alla verifica di progressi realizzati rispetto ai livelli iniziali di apprendimento dell'alunno (art. 16 comma 1 legge n. 104/92);
- la valutazione non deve riguardare solo il prodotto ma anche il processo dell'apprendimento (Dpr 129/09); - la piena contitolarità tra docenti di classe e di sostegno rispetto a tutti gli alunni della classe riguarda anche le azioni di valutazione; - si mira al contenimento del fenomeno della ripetenza che nel lungo periodo può favorire l'interruzione del percorso scolastico prima del suo completamento, soprattutto nella scuola secondaria di 2°. Il d.lgs. 59/04 nella scuola primaria consente la ripetenza solo in casi eccezionali che debbono essere motivati e con voto favorevole all'unanimità di tutti i docenti della classe, compreso il dirigente scolastico; - in caso un alunno non si presenti agli esami del 1° ciclo (d.lgs. 62/2017 art. 11 c. 8), ottiene un attestato di credito formativo utile per l'iscrizione alla scuola secondaria di secondo grado o ai corsi di istruzione e formazione professionale, ai soli fini del riconoscimento di ulteriori crediti formativi (per accesso a percorsi integrati di istruzione/formazione). Analogo attestato ottiene lo studente del 2° ciclo che non partecipi agli esami di Stato o che non sostenga una o più prove (d.lgs. 62/2017 art. 20 c. 5);
- è prevista l'equivalenza delle prove differenziate in base ai Pei per lo svolgimento dell'esame di Stato al termine del 1° ciclo di istruzione;
-nella scuola secondaria di 2° per gli studenti con disabilità certificata sono possibili due percorsi distinti: uno curricolare (o per obiettivi minimi, che porta al conseguimento di un regolare titolo di studio), uno differenziato (che consente solo la frequenza della scuola con il rilascio di un attestato di credito formativo ma non del diploma).
307
Valutare un percorso curricolare per obiettivi minimi richiede: - ricerca dei contenuti essenziali delle discipline; sostituzione parziale dei contenuti programmatici di alcune discipline con altri che abbiano la stessa valenza formativa; - predisposizione di prove equipollenti da parte della Commissione d'esame sulla base della documentazione fornita dal Consiglio di classe (art. 6 Dpr 323/1998 - Om 350/2018). Le prove equipollenti dovranno accertare conoscenze, competenze, capacità acquisite dallo studente (Rondanini, 2011); - equipollenza delle prove per lo svolgimento dell'esame di Stato del 20 ciclo per gli alunni che seguono la programmazione della classe per
obiettivi minimi e che conseguono il diploma di maturità. Le prove
equipollenti devono consentire di verificare che lo studente con disabilità abbia raggiunto una preparazione culturale e professionale idonea al rilascio del diploma alla fine del percorso scolastico. Gli alunni con disabilità sostengono le prove d'esame con l'uso di attrezzature tecniche e sussidi didattici, nonché ogni altra forma di ausilio professionale o tecnico loro necessario, utilizzato abitualmente nel corso dell'anno scolastico per l'attuazione del piano educativo individualizzato. La norma di riferimento per la prova Invalsi rivolta ad alunni con disabilità/con DSA e per la certificazione della competenze è il d.lgs. 62/2017.
5. Scenari per l'inclusione a scuola
5.1. Il contesto: facilitatore o barriera? Numerosi segnali indicano che il modello scolastico tradizionale imperniato sul ruolo educativo dello Stato, sulla scuola edificio, sulle classi organizzate per gruppi di età, su programmi predisposti in modo uniforme e sul riconoscimento del titolo legale di studio, sul sistema delle ripetenze, mostra segni di invecchiamento (Castoldi e Chiosso, 2017).
Secondo alcuni studiosi saremmo in presenza di un esaurimento del ruolo della scuola, in un futuro non si sa quanto prossimo o remoto. Non solo la diffusione delle nuove tecnologie, la disponibilità in rete di informazioni infinitamente superiori a quelle che la scuola riesce ad assicurare, ma anche il desiderio dei giovani di costruire percorsi di apprendimento in autonomia e il bisogno di veder valorizzata l'esperienza oltre allo studio sono alcune delle ragioni che spingono verso un nuovo modello scolastico. La situazione italiana è caratterizzata: - da un calo significativo nella popolazione scolastica (Fondazione Agnel-
li, 2018); 308
, qua tata. 200), mergano nuove proposte di aderlismo scolastico Tuttoscuola, 2019);
, a,4unнрото quadro generale senso di incertezze. Сельі 2 01e solla sfluazione sociale del Paese descrive una
(sa) in una coridi fa neore e incerto rofondita: gli taliani sono socio una
** paese pieno di ancoro incerto nel progranmare i touro. парнай
pagati ancho di rsatilibrio dei processi d'inelusione dovuto alia ' rappor-. partia gestione dei Russi migratori linsicura assistenza alle per contrad. ancoufoienti interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato: e non paria di sostenere poltiche di contrasto alla denatalia: la faticosa gestione ela formazione scolastica e universitaria. Le famiglie e le aziende chene gno sostituite al weliare pubblico hanno sperato in una uscita dalla pros. soritta, ma hanno finito per rimanere via via più isolate". Rimandando ad una analisi approfondita delle fonti di tali ricerche, non si può non conside. fare la fatica necessaria a far prevalere logiche inclusive in una società sempre più chiusa e intollerante verso le istanze della diversità: buone leggi non ostano a modificare un tessuto sociale denso di tensioni e contraddizioni.
52. L'inclusione scolastica in cifre Nel presente paragrafo si mettono a fuoco alcuni dati che consentono una maggiore conoscenza della scolarità degli alunni con disabilità.
L'indagine Istat - svolta annualmente e disponibile in rete - dall'a.s.
2017/18 ha esteso il campo di osservazione anche alla scuola dell'infanzia e alla scuola secondaria di secondo grado, fornendo un quadro informativo ampio, su tutte le scuole del territorio italiano. Si tratta complessivamente
di 56.690 scuole, frequentate da 272.167 alunni con sostegno (il 3,1% del totale degli iscritti). Alunni con sostegno a.s. 2017/18 (dati Istat) Totale alunni con disabilità 272.167 su una popolazione scolastica complessiva di 7.682.635 31.650 scuola dell'infanzia 72.477 scuola secondaria 1° 95.838 scuola primaria 72.194 scuola secondaria di 2°
L'indagine consente di mettere in luce caratteristiche e criticità legate alla dimensione territoriale. Si evidenziano le seguenti: - Soltanto il 32% delle scuole risulta privo di barriere fisiche; nel mezzo-
giorno solo il 26% di scuole è a norma. - Il rapporto medio tra docenti per il sostegno e alunni è di 1:1,5. 309
a
- Il 36% degli insegnanti per il sostegno è privo di specializzazione e viene selezionato dalle liste curriculari. - Gli assistenti all'autonomia e alla comunicazione sono circa 48.000. A livello nazionale il rapporto alunno/assistente è di 5:1. - Il problema più frequente è la disabilità intellettiva che riguarda il 46% degli alunni con sostegno. - Gli alunni osservati fruiscono in media di 14 ore settimanali di sostegno. A livello territoriale il numero di ore è maggiore nelle scuole del mezzogiorno - mediamente 3 ore in più - rispetto a quelle rilevate nelle scuole del nord.
- Circa il 5% delle famiglie di alunni con sostegno ha presentato negli anni un ricorso al Tar per ottenere l'aumento delle ore di sostegno. Nel mezzogiorno la percentuale di ricorsi è doppia rispetto a quella del nord (rispettivamente 6% e 3%). Il 41% degli alunni ha cambiato insegnante rispetto all'anno precedente mentre il 12% lo ha cambiato in corso d'anno. - Gli alunni con gravi problemi di autonomia dispongono mediamente di 12,9 ore settimanali di assistenza all'autonomia e alla comunicazione. Nelle scuole del nord ricevono mediamente 3 ore di supporto in più rispetto al mezzogiorno. Per il 9% degli alunni con sostegno, gli ausili didattici utilizzati a scuola risultano poco o per nulla adeguati alle loro esigenze.
Gli alunni con sostegno partecipano raramente alle gite d'istruzione (con pernottamento) prevalentemente a causa della disabilità.
5.3. Alunni di cittadinanza non italiana in situazione di disabilità Dal Focus realizzato dal Miur nel marzo 2018 sugli alunni con cittadinanza non italiana, nell'a.s. 2016-2017 gli studenti stranieri presenti in Ita-
lia sono stati circa 826.000 (9,4% dell'intera popolazione scolastica, con un aumento di oltre 11.000 unità rispetto all'a.s. 2015/2016). Nello stesso a.s. 2016/2017 la percentuale degli alunni stranieri con certificazione di disabilità sul totale degli alunni con certificazione risulta pari al 12,5%. Si tratta di studenti che spesso vivono la doppia fatica di essere immigrati e disabili (www.redattoresociale.it - www.migrantitorino.it 2011). Se guardiamo alla distribuzione territoriale, si osserva una presenza più elevata degli alunni stranieri con disabilità in alcune regioni settentrionali: Lombardia (22,6%), Emilia Romagna (22,1%), Veneto (20,2%).
Alle difficoltà proprie della disabilità si associano quelle linguistico culturali diffuse tra gli studenti non italiani. Tali studenti insistono nelle schiere degli studenti con BES non certificati - soprattutto se di recente immigrazione - e sono ad altissimo rischio di abbandono, sia a causa della
310
irregolarità amministrativa in cui molte famiglie si trovano sia a causa di problemi di tipo pratico (ruoli familiari, orari di lavoro, consuetudini). Per contro, molte famiglie straniere con figli disabili dichiarano di aver scelo l'Italia come paese di elezione grazie al progetto che viene garantito a scuola attraverso il sostegno. Nell'ambito del progetto europeo Diversità multiculturale e specifiche esigenze educative (www.european-agency.org), alcune indagini specifiche realizzate in contesti locali hanno affrontato il complesso intreccio tra disabilità e immigrazione nel mondo della scuola. Tali indagini mettono in luce come gli strumenti oggi utilizzati, sul piano diagnostico e sul piano didattico-pedagogico, tengano in minimo conto la dimensione multiculturale. Gli strumenti valutativi e programmatori impiegati per conoscere le capacità e
i bisogni degli alunni non italiani con disabilità e per definire gli obiettivi
educativi adeguati (diagnosi, profilo dinamico funzionale e Pei), andrebbero
rivisti tenendo conto delle variabili linguistico-culturali. Il docente infatti corre sempre un doppio pericolo: medicalizzare comportamenti culturali che non comprende e culturalizzare disturbi che non riesce a vedere. Il rischio è quello di interpretare stili comunicativi diversi come disturbi della
relazione oppure di non saper decodificare nella pratica comunicativa quello che concerne la sfera della disabilità/della patologia (Mei, 2011).
5.4. BES e dispersione scolastica
La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde, scriveva don Milani cinquant'anni fa con inquietante preveggenza. Ci vantiamo di avere la scuola più inclusiva d'Europa, ma negli ultimi vent'anni abbiamo escluso
35 milioni di studenti su oltre 11 milioni (Tuttoscuola 2019). Questo è il risultato della ricerca elaborata dalla rivista Tuttoscuola su dati Miur e pubblicata nel 2019 in un dossier intitolato La Scuola colabrodo, titolo certamente non di taglio accademico ma efficace per rappresentare una realtà preoccupante e scarsamente rappresentata. Negli ultimi 19 cicli
scolastici delle scuole secondarie di secondo grado, 3 milioni e mezzo di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato Il corso di studi. Essi rappresentano il 30,6% degli oltre 11 milioni di studenti (11.430.218) che si erano iscritti in questo arco di tempo alle scuole superiori statali. In sintesi, su 100 studenti che ottengono la licenza media, arrivano al diploma in 75 (almeno nella scuola statale), e alla laurea in 18.
Lincidenza degli alunni con disabilità certificata all'interno di questo
campione è significativa. È noto come dopo il primo ciclo la frequenza dei
ragazzi con disabilità alla scuola secondaria di 2° risulti irregolare, con lequenti interruzioni del ciclo di studi. I licei sono toccati in modo margial dalle iscrizioni di ragazzi con disabilità i quali, al contrario, gonfiano
311
in modo esponenziale i numeri degli istituti professionali statali e della formazione professionale regionale (doppio canale), che insieme accolgono l'utenza più problematica, esprimendo alti tassi di insuccesso scolastico (dato Miur 2018: nella scuola secondaria di 2°, il 50% degli studenti con disabilità frequenta un istituto professionale, indirizzo scelto solo dal 20,1% degli studenti; solo uno studente con disabilità su 155 sceglie il liceo scientifico e 1
su 131 sceglie il liceo classico). Tale situazione preserva le classi dei licei
dalla turbolenza di gruppi eccessivamente eterogenei e dall'occasione di vivere concretamente la sfida dell'inclusione. L'anagrafe integrata tra sistema dell'istruzione (scuola statale compresi i Cpia - Centri per l'istruzione degli adulti - e scuola paritaria) e sistema formativo regionale, prevista dal d.lgs.
76/2005 sul diritto-dovere e solo di recente avviata da Stato e Regioni, non è ancora operativa. Tale ritardo da parte del Miur nel dotarsi di uno
strumento completo di monitoraggio è sintomatico: sembra mancare la percezione dell'emergenza sul tema della dispersione scolastica. L'attenzione politica e mediatica oggi è sbilanciata sul tema dell'immigrazione, piuttosto che su quello della povertà educativa, che meriterebbe investimenti e
progettualità con il contributo di larga parte della società, dalle istituzioni, all'associazionismo, al volontariato (Tuttoscuola, 2019). Il dossier evidenzia che l'abbandono è più frequente fra coloro che sono già in ritardo con gli studi. Questo fenomeno che riguarda storicamente e strutturalmente gli alunni con disabilità trova nuovi argini attraverso la normativa sulla valutazione (cfr. par. 3.8). Per gli alunni con BES privi di certificazione che sono i predestinati alla dispersione scolastica, nonostante le dichiarazioni di principio contenute nella normativa di riferimento, se il piano didattico personalizzato non prevede una gradualità nell'acquisizione effettiva delle competenze disciplinari comuni alla classe, si ipotizzano tre possibili scenari:
- il consiglio di classe di fatto semplifica gli obiettivi senza dichiararlo,
garantendo una promozione fittizia basata su risultati precari che trovera il proprio punto di caduta negli esami di fine ciclo o nel passaggio al successivo livello scolastico. Questo è un atteggiamento piuttosto diffuso nella scuola primaria, dove la ripetenza è uno strumento raramente utilizzato, ma dove, in assenza della costruzione di un curricolo verticale (Trinchero, 2018), le competenze di base con cui i ragazzi affrontano il passaggio alla scuola secondaria di 1° non sono adeguate alle aspettative dei docenti e ai criteri di valutazione nella scuola secondaria, nonostante il primo ciclo formalmente sia unitario;
- di fronte al non raggiungimento degli obiettivi previsti dal Pdp, il con-
siglio di classe può ricorrere alla non ammissione alla classe successiva (soprattutto alla scuola secondaria di 2°);
- lo studente, non tollerando risultati insoddisfacenti, accumulo di ripetenze, demotivazione allo studio, arrivato al compimento dei 16 anni,
312
si ritira per passare alla formazione professionale o per entrare nella schiera dei futuri neet (not in education, employment or training). In tutti i casi dietro alle statistiche e alle percentuali, ci sono decine di migliaia di ragazzi che ogni anno non trovano nella scuola un senso, una possibilità per il futuro. La consapevolezza di tali rischi può far matura-
re nelle scuole una attenzione autentica alle dinamiche dell'inclusione e ai fattori interni che ostacolano il successo formativo degli studenti più
fragili (De Leo, 2016). 5.5. La situazione dell'inclusione scolastica nell'area Ue
Il diritto allo studio degli studenti con disabilità si colloca nel quadro del grande comparto delle politiche per l'equità che riguarda tutti i paesi dell'Ue (Bottani, 2009). L'Agenzia europea per i Bisogni educativi speciali e l'istruzione inclusiva, trascorsi 10 anni dall'approvazione della Convenzione ONU 2006 sui diritti delle persone con disabilità, confronta i dati a disposizione con quelli della ricerca del 2004 condotta dall'Agenzia europea Eurydice (eurydice. indire.it). Si delinea un quadro di evoluzione dei processi di inclusione scolastica in diversi paesi (www.superando.it), tenendo conto che l'organizzazione dei sistemi di educazione è lasciata ai singoli stati. Nel 2008 i documenti internazionali evidenziavano la necessità di precisare il significato di inclusion rispetto a concetti come special need e integrazione (termine caratterizzante la scolarizzazione degli alunni con disabilità in Italia). La conferenza di Ginevra (2006) affermava che, in quanto l'obiettivo della promozione sociale della persona con disabilità è comune a tutti i paesi, viene riconosciuta la libertà degli stessi paesi membri nelle scelte di politica scolastica. Relativamente all'anno 2014, nei Paesi Ue gli alunni con Bisogni educativi speciali, compresi quelli con disabilità certificata, risultavano essere il 4,1% del totale. Nel 2014 la loro istruzione avveniva per il 60% in classi comuni e per il 40% in scuole speciali, ma tra i 16 e 19 anni la percentuale di abbandono scolastico degli alunni con disabilità era di oltre il doppio, rispetto a quella degli alunni normodotati (il 25% contro il 12,4 dei compagni). Per informazioni dettagliate sui singoli paesi si rimanda al sito dell'Agenzia europea per i Bisogni educativi speciali e l'istruzione inclusiva (www.europeanagency.org).
Passando all'esame dei vari sistemi educativi, si possono individuare tre
principali sistemi di istruzione per gli alunni con disabilità: - il sistema di inclusione (tutti nella scuola di tutti);
- il sistema multidirezionale (possibilità di scelta tra scuola speciale e scuola di tutti); - il sistema bidirezionale (alunni con disabilità solo nelle scuole speciali).
313
Come già nel 2004, in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia vi è la piena inclusione in tutte le scuole di ogni ordine e grado: in questi quattro Paesi, infatti, secondo l'Agenzia, solo in casi eccezionali e quando vi sia l'assoluta necessità di un presidio medico continuo, i ragazzi con gravi disabilità frequentano particolari centri scolastici. L'Italia si ritiene all'avanguardia nei processi di inclusione grazie al nostro modello scolastico, ma nel 2016 il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità che vigila sull'applicazione della Convenzione ha prodotto severe osservazioni sulla mancata/ insufficiente applicazione di numerosi e sostanziali articoli della Convenzione stessa da parte del nostro paese. L'impegno italiano risulta ben al di sotto "dell'accomodamento ragionevole" tra risposta ai bisogni e risorse disponibili cui fa riferimento l'art. 2 della Convenzione (Griffo, 2016).
6. Conclusioni Il presente contributo ha cercato di delineare i caratteri dell'inclusione scolastica sotto diversi punti di vista, evidenziando luci e ombre di un processo in evoluzione. La maggiore garanzia che l'inclusione scolastica non subirà arretramenti sta nel protagonismo che le persone con disabilità hanno finalmente assunto nell'affermazione dei propri diritti sociali e civili ben sintetizzati dall'espressione not for us but with us.
Ciò grazie all'idea di una cittadinanza senza barriere, indicata dalla
Convenzione ONU del 2006. Nonostante ciò, traguardi di piena inclusione appaiono ancora lontani. Sembra doveroso infatti fare riferimento a una realtà molto limitata ma significativa che riguarda il funzionamento residuale delle scuole speciali in
Italia. Grazie ai dati della Agenzia europea per i BES risulta che in Italia
uno 0,8% di alunni con disabilità frequenti scuole speciali, o classi speciali all'interno di scuole ordinarie. A questa realtà poco nota Giovanni Merlo
della Lega per i diritti delle persone con disabilità (Ledha, www.ledha. it) di Milano ha dedicato una intessante ricerca. La percezione è che le
scuole speciali in Italia siano inesistenti, mentre invece sono ancora attive sul nostro territorio più di settanta scuole speciali, di cui 24 concentrate in alcune province della Lombardia (Merlo, 2015). Questa realtà riguarda circa duemila alunni. In alcuni casi tali scuole sono inserite in centri di riabilitazione, alcune sono specializzate per minorazioni della vista e dell'udito, ma si trovano anche all'interno di istituti comprensivi. Solo lo 0,3% è inserito in strutture private che coprono tutto il percorso di istruzione tradizionale, dalla scuola dell'infanzia ai corsi di formazione professionale. Prevalgono le scuole primarie (in Lombardia 17 scuole speciali sono primarie). Le scuole secondarie di primo grado accolgono ragazzi fino ai 18 anni e le disabilità prevalenti sono quelle intellettive (45%), seguite dalle
314
Aleraioni detngono Frequentemen genitori che optano per questo tipo di suture provengono frequentemente da esperienze scolastiche fortemente
segative, in cui la scuola di tuti non è riuscita a mettere in atto un per
causo che andasse oltre Fatto di presenza in classe. Secondo l'indagine, le suole speciali vengono scelle dai genitori perché ritenute la sola possibilità
peri propri belari, se guste nen iter scolastico mirato e attento a le stolta desia particolari. A sostenere e a indirizzare tale scelta frequentemente sono i medici specialisti della disabilità. Condividendo l'analisi di Merlo, un elemento emerge con forza: una realià come quella descritta non sembra determinare una reazione rilevante di elaborazione e di apprendimento sociale. Determinate scelte restano fatti individuali, spesso privati, propri di individui e gruppi specifici, e non attivano un necessario processo di riflessione intersoggettiva (Vitale, 2015) né di dibattito tra gli addetti ai lavori. Resta il fatto che la questione delle scuo-
le speciali apre contraddizioni forti in seno alle famiglie dei bambini con disabilità, e anche nelle loro associazioni. Tale realtà sembra far parte di un rimosso istituzionale. Essa rivela elementi di contraddizione anche nell'ambito di un pensiero inclusivo che ha trovato una forma ideale nelle norme piuttosto che nella realtà viva della scuola, come i dati precedentemente forniti descrivono. In una logica concretamente inclusiva, ascoltare con rispetto
i genitori dei bambini e delle bambine con disabilità, indipendentemente dalle scelte da loro compiute, costituisce la risorsa su cui creare condizioni
di riflessività sociale sulle scuole speciali e sulle prospettive dell'inclusione (Vitale, 2015). Circa 2000 ragazzi, sui quasi 300.000 che frequentano la scuola comune sembrano una goccia nel mare... ma il tema va ben oltre il problema delle scuole speciali; esso riguarda direttamente il rischio di segregazione per le persone con disabilità, ed evoca barriere, discriminazioni, separazioni, reclusioni, mancanza di opportunità, stigma e immagini negalive di cui essi fanno esperienza insieme alle loro famiglie (Merlo, 2018). Non è casuale che la relazione di accompagnamento alla proposta di legge
elaborata nel 2014 dalla federazione delle Associazioni delle persone con disabilità, su: "miglioramento della qualità dell'inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali" si concluda con questo pensiero: " .. Si è così venuta determinando nell'opinione pubblica -
sia degli addetti ai lavori che più ampia nella società - una crescente preoc-
cupazione per la tenuta della scelta inclusiva operata in Italia a partire dalla fine degli anni '60°: Condividendo la stessa preoccupazione, l'auspicio è che tuti coloro che nella società e nella scuola italiana intendano promuovere eficaci processi di inclusione, continuino a procedere "in direzione ostinata e contraria" De Andrè, 1968) se necessario, incrementando la cultura dei Ariti, lavorando sulle buone prassi, con la consapevolezza che la nostra soGetà sta rischiando di fare passi indietro proprio sui temi educativi dellaccoglienza e del riconoscimento delle differenze individuali.
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11. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo di Carlo Lepri
1. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo: alcune considerazioni intro-
duttive
In esordio di questa riflessione sui percorsi possibili per le persone con disabilità dopo la scuola dell'obbligo, sembra utile proporre un avvicinamento al tema attraverso una chiave di lettura che consenta di apprezzare il problema nella sua dimensione socio-culturale prima ancora che nelle implicazioni metodologiche e operative. Non vi è dubbio, e in altre parti di questo volume è già stato ribadito, che il concetto di disabilità va riferito a un complesso intreccio all'interno del quale giocano fattori biologici e fattori psicologici (legati alla natura del deficit), i quali interagiscono con fattori socio-ambientali (legati alla cultura del contesto sociale).
Tuttavia il riconoscimento della disabilità non avviene mai automaticamente. E infatti riduttivo affermare tout court che la disabilità nasce dall'incontro tra i deficit dell'individuo e la cultura presente in
un contesto sociale. Il risultato di questo rapporto non è semplicemente
riferibile agli esiti di questa relazione, ma è legato al significato e al valore che di volta in volta la coscienza collettiva e il senso comune a
esso attribuisce. In questa logica possiamo affermare che il concetto di disabilità è legato ai processi rappresentazionali che si formano all'interno dell'immaginario collettivo in un determinato momento storico.
Le rappresentazioni sociali della disabilità (Moscovici, 1988; Fart,
1989; Galli, 2006) oggi prevalenti sono pertanto da intendersi come *il
frutto di una progressiva sedimentazione e rielaborazione delle diverse immagini che via via gli uomini hanno costruito, attraverso le loro interazioni, per dare un senso a questo fenomeno" (Lepri, 2011, p. 36).
316
purtheim afferma a questo proposito che le rappresentazioni, una volta Armatasi continuano a essere dr per se stesso perdendo a poco a a vola ito carattere di convenzione per imporsi all'individuo come una sorta di realtà sui generis (Durkheim, 1898). a riconoscere e il comprendere come nel tempo queste rappresentazioni
¿sano sviluppate, dando poi forma e sostanza agli atteggiamenti umani e i le risposte istituzionali verso le persone con disabilita, è una operazione utile su diversi piani.
In primo luogo sul piano dell'interpretazione dell'attualità. Come abiamo già detto le risposte che l'organizzazione sociale tende a dare ai problemi delle persone con disabilità sono basate sulla immagine della disabilità prevalenti in quel determinato momento storico. Ma poiché le rappresentazioni si formano attraverso una sedimentazione e sovrapposizione di diverse immagini che hanno preso vita nel tempo, cercare di comprendere le evoluzioni di questi atteggiamenti culturali significa sostanzialmente poterci avvicinare con maggiori strumenti di interpretazione alla realtà odierna.
In secondo luogo un approccio storico permette a tutti (e in particolare agli addetti ai lavori) di mantenere un punto di vista emotivo più distanzia10, con la conseguente possibilità di evitare di cadere nell'ansia del giudizio rispetto a quelle che dovrebbero essere oggi le soluzioni "giuste" per le persone disabili. Assumendo questa prospettiva non esistono soluzioni giuste o sbagliate ma, piuttosto, soluzioni possibili. Un'ultima considerazione relativa alla opportunità di un approccio storico è infine legata alla consapevolezza della possibilità che modalità rappre-
sentazionali collettive già sperimentate nel passato, a fronte di significativi cambiamenti economici o sociali, possano archetipicamente ripresentarsi. In questa prospettiva possiamo quindi affermare che rappresentazioni sociali della disabilità considerate come definitivamente tramontate possono ripresentarsi con la caratteristica di essere soluzioni già sperimentate e quindi profondamente rassicuranti.
Attraverso una notevole semplificazione della realtà, inevitabile in ogni schematizzazione, si intendono presentare alcuni dei passaggi storici più significativi nella percezione collettiva della anormalità. Ciascun passaggio corrisponde con una "immagine" della disabilità
E Può essere riferito a un determinato momento storico ma, quel che importa realmente, non Un a esercina d periodizzazione quanto rilevai come l'appartenenza di una rappresentazione a uno specifico periodo $orico è solo apparente in quanto una volta prodotta e utilizzata essa Io si esaurisce mai completamente. Infatti: "Quando ci si riferisce a una rappresentazione della disabilità, collegandola a un periodo storico,
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N
si intende semplicemente sostenere che essa è diventata prevalente in quel periodo continuando poi a vivere nel tempo, trasformandosi e coesistendo con altre rappresentazioni" (Lepri, 2011, p. 40).
1.1. L'errore della natura La visione delle persone disabili rappresentate come errori della natura resta l'immagine prevalente in Europa a partire dall'età classica fino all'affermarsi del cristianesimo (Aries e Duby, 1986).
Fino a quel periodo infatti "I bambini deformi non costituiscono un
vero e proprio problema, almeno dal punto di vista della loro educazione, giacché esso viene risolto disumanamente, quanto logicamente per quel contesto, alla radice. Il mondo occidentale fino a quell'epoca è lontanissimo dall'aver risolto i problemi della sopravvivenza, e ben consapevole di quanto una comunità faccia fatica a far sopravvivere i propri figli sani, che peraltro già uccide ritenendoli in eccesso, non si pone lontanamente nessuno scrupolo nell'eliminare i suoi figli deformi" (Genovesi, 1993). A ciò si deve aggiungere una forte preoccupazione dello stato a garantire che la comunità sia costituita da cittadini "idonei". Questa preoccupa-
zione eugenetica non riguarda solo gli esempi classici di Tebe e Sparta L'eliminazione fisica dei neonati disabili è praticata in tutto il bacino del mediterraneo ed è lo stesso Seneca che ce ne lascia una testimonianza vivissima nella Epistole: "Noi uccidiamo i cani idrofobi, abbattiamo il bue furioso, distruggiamo la progenie snaturata, affoghiamo anche i bambini che alla nascita siano deboli o anormali. Non è la rabbia ma la ragione che separa il nocivo dal sano". Non è inutile notare come l'immagine del disabile inteso come errore della natura si ripresenterà ciclicamente nella storia dell'umanità e sarà alla base, duemila anni dopo Seneca, dei movimenti eugenetici presenti in Europa e negli Stati Uniti che culmineranno, con la nascita del nazismo, con le prime camere a gas per le persone disabili (Tregenza, 2006).
1.2. Il figlio del peccato Il progressivo affermarsi del cristianesimo in Europa contribuisce al
superamento dell'immagine del disabile inteso come "errore della natura" e alla nascita di una nuova rappresentazione: "il figlio del peccato". La concezione dell'anormale trova una risistemazione attraverso la rappresentazione religiosa della vita all'interno della quale "la malattia e la malformazione sono segni ambivalenti: allo stesso tempo segni del peccato e della sua giusta espiazione" (Giarelli, 1992).
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la chiesa terrena si dimostra spesso preoccupata di sottolineare come natalia sia da giusti care come esito di una qualche forma di ta come
pre legale soprattune la sec son sesuale. Durante il medioevo gres.
so rasentazione assume la sua forma più completa altraverso la ridutes
ala conoscenza di fatti naturali al volere divino. e secondo questa concezione "la persona disabile soffre per redimersi da
a pacado di out e trena ornendo allo stesso tempo Foccasione agli i da a salvare se stessi facendo la carità" (Lepri, 2011, p. 52). Scatta in questa prospettiva una sorta di accettazione condizionata della prona disabile che si esprime anche attraverso la creazione di strata ne la
accoglienza e di cura.
Pensiamo a tutte le strutture che la Chiesa ha contribuito a far nascere e de nei secoli si sono trasformate nelle grandi istituzioni religiose a favore
delle persone con disabilità.
In molte parti del nostro paese queste presenze istituzionali continuano a operare e comunque l'influenza di un'impostazione pietistico religiosa con la sua visione del disabile come segno del peccato e, al tempo stesso della redenzione dal peccato attraverso la sua cura, è ancora intensamente
presente nella nostra cultura.
13. Il selvaggio
Dal Rinascimento prima, e con il razionalismo illuminista poi, prende
l'avvio una percezione nuova della diversità: il disabile. diviene oggetto di
interesse, curiosità osservazione.
Canevaro si interroga sul motivo di questo nuovo interesse filosofico e scientifico nei confronti della anormalità: "Possiamo ipotizzare che questo interesse in Europa sia nato con il diffondersi di tecnologie produttive e con l'estensione di processi di lavoro non legati alla forza e all'attività diretta dell'uomo" (Canevaro, 1989, p. 40).
Inizia l'era tecnologica e con essa prende l'avvio un mito proprio del
nostro tempo: il mito di Narciso. Il processo narcisistico suscita la necessità di stabilire un rapporto importante con un "altro" che sia visibilmente tale.
Le scienze allora rispondono a un'esigenza che può apparire come paadossale: da una parte vi è la ricerca della diversità per studiarla e capirla, dallaltra vi è lo sforzo per annullare la diversità "educando" l'altro ad assumere comportamenti conformi.
Alla formazione di questa nuova rappresentazione del disabile come
"Selvaggio" da educare contribuiscono gli episodi dei ritrovamenti dei co-
sideti enfant sauvage (primo fra tutti il caso di Victor studiato da Itard)
cosi come il nuovo campionari di "selvaggi" offerto dalle nuove esplorazioiI geografiche.
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1.4. Il malato Alla rappresentazione del "figlio del peccato" e a quella del "selvaggio" si sovrappone, in modo abbastanza repentino, una nuova immagine: quella prodotta dalla cultura positivista. L'affermazione del positivismo coincide in Europa con la nascita e il rafforzamento degli stati nazionali e, con lo sviluppo del processo di industrializzazione, si affermano i nuovi valori espressi dalla nascente borghesia.
Si afferma in questo periodo il principio che il criterio di persona normale debba coincidere con quello di cittadino e di produttore. La diversità (biologica e non) incontra una forte cultura della normalizzazione. Scrive Giarelli: "È una vera e propria normopatia come indice di una normalità ossessivamente perseguita che interessa il comportamento dell'individuo sia nell'aspetto esteriore (dal volto all'abbigliamento alle modalità del movimento) sia nella sessualità come nell'uso delle buone maniere. Chi non si adegua o non si adatta a desiderare, imitare, interiorizzare
questo modello diviene oggetto di una particolare attenzione da parte di quei meccanismi istituzionali deputati al compito della razionalizzazione fisica e ideologica della normalità" (Giarelli, 1992, p. 122). La medicina si dedica in modo ossessivo alla classificazione delle differenze e le ragioni dell'anormalità vengono indagate alla luce di una loro supposta eziologia neurologica e biopsichica.
Il risultato di questa impostazione è quello di costruire nell'immaginario collettivo la rappresentazione del disabile come persona malata bisognosa di essere curata, controllata e normalizzata. Si sviluppano in questo periodo, spesso a partire dalle strutture religiose, le istituzioni che, nel rispondere a un compito di cura ma soprattutto di controllo sociale, diventano in effetti sempre più autosufficienti ed escludenti: orfanotrofi, istituti, manicomi. In questa opera di normalizzazione lo stato affianca e, in alcune situazioni, sostituisce l'opera della Chiesa. Il disabile inteso come "malato" porterà a una progressiva centralità della medicina come disciplina deputata alla diagnosi e alla cura all'interno di una immagine rassicurante di causa-effetto.
1.5. L'eterno bambino Per cogliere questa nuova fase dobbiamo giungere ai profondi muta-
menti socio-economici successivi alla seconda guerra mondiale. Assistiamo in questo periodo anche a un profondo cambiamento dell'atteggiamento delle famiglie delle persone disabili.
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Le maggiori disponibilita economiche, i fenomeni di inurbamento, la cola pubblica obbligatoria, un difFuso programma di assistenza sociale, sono alcune delle condizioni che consentono alle famiglie di acquisite le podo ativo attraverso le associazioni. La delega all'istituzione tolale e un mus e nascono le prime esperienze riabilitative protette non istituzionali a forte impronta genitoriale.
"Le famiglie rivendicano interventi specialistici e spesso si organizano in supplenza all'intervento pubblico. Nascono infatti in questo periodo le associazioni di familiari in difesa delle persone disabili e si
assiste a una nuova modalità di intervento fatta sostanzialmente di cure e protezione.
La cultura protettivo-familiare contribuisce a costruire una nuova imnagine sociale del disabile: non più errore della natura da eliminare, figlio del peccato da salvare, buon selvaggio da salvare o malato da curare, ma piuttosto bambino da proteggere.
La cultura dell'infantilizzazione della persona con disabilità (e quindi del divieto a crescere) diventa una sorta di attitudine collettiva che si trascina ancora come rappresentazione prevalente nell'immaginario collettivo odierno.
"Se si considera che educare consiste nel favorire sia l'autonomia che l'integrazione, l'educazione degli adolescenti disabili è infantilizzante, vale a dire che essa diviene in qualche modo una a-educazione" (Berry, 1994). L'infantilizzazione della persona disabile (specie se con disabilità mentale), o meglio, la rappresentazione sociale del disabile come eterno bambino, è coerente con un'organizzazione sociale che, non prevedendo ruoli sociali attivi nel mondo degli adulti per le persone disabili, non può prevederne neppure la crescita e lo sviluppo.
La cultura protettiva genitoriale ha stabilito una sorta di ferreo doppio legame con l'organizzazione sociale: l'infantilizzazione e l'eccesso di protezione della famiglia verso un figlio disabile si sono contagiosamente trasferite nel macrosociale e, simmetricamente, dal macrosociale ritornano alle famiglie attraverso messaggi che confermano e rafforzano questi attegglamenti.
1.6. La persona
Dagli anni 60 del secolo scorso una nuova immagine della disabilità prende forma. Con la messa in discussione di tutto ciò che ha a che fare con l'autorità, anche l'immagine della disabilità e delle modalità spesso
marginanti e segregative a essa collegate viene considerata superata. Molle associazioni di disabili cominciano a reclamare i loro diritti a partire da 321
quello di avere il pieno controllo della propria vita. Il modello di disabilità teorizzato da un approccio medico viene fortemente contestato e prende vita una nuova teoria fondata sul modello sociale di disabilita. In questo modello si teorizza che i problemi non riguardano la persona disabile in sé quanto piuttosto i pregiudizi, gli atteggiamenti discriminatori e le barriere che la società frappone alla piena realizzazione della sua partecipazione alla vita sociale. L'elemento forse più importante che il modello sociale di disabilità introduce è il tema dei diritti umani come parametro di lettura di questo fenomeno. In questo senso la persona disabile deve essere considerata alla luce dei diritti intrinseci di tutti gli esseri umani e questa sua condizione impegna le istituzioni a porre in essere tutte quelle misure e azioni affinché esse possano godere appieno dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Questa visione dovrebbe essere oggi alla base di tutte le attività di inclusione sociale nei diversi ambiti della vita: scuola, lavoro, tempo libero. Su un piano tecnico questa visione della disabilità prende forma con l'adozione dell'ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute) come nuovo sistema di classificazione introdotto nel 2001 dall'OMS. Mentre sul piano politico il modello sociale trova il suo pieno riconoscimento nella "Convenzione sui diritti delle persone con disabilità" (Convention of the Rights of Persons with Disabilities, Crpd) adottata dalle Nazioni Unite nel 2006. È importante ricordare a questo proposito che l'Italia ha proceduto alla ratifica della Convenzione con la legge numero 18 del 3 marzo 2009. Da quella data i principi espressi dalla Convenzione sono entrati formalmente a fare parte del nostro ordinamento giuridico. I principi generali della Convenzione non fanno riferimento alle condizioni di salute ma sottolineano valori che non sono mai stati applicati alle persone con disabilità. Alla base di questi cambiamenti troviamo l'immagine del disabile come "persona" cioè come essere umano che vale per i suoi diritti inalienabili. Non possiamo dimenticare infine che rappresentare la disabilità attraverso l'immagine della "persona" "consente di inserire questo fenomeno in una logica di senso dove normalità e anormalità, salute e malattia, benessere e malessere non sono condizioni rigidamente determinate ma piuttosto eventi che appartengono all'essere umano" (Lepri, 2011, р. 73).
2. La persona e i suoi "bisogni di normalità" Una rappresentazione della disabilità fondata sull'immagine della "persona" consente uno sguardo antropologico che supera il paradigma naturalistico "classificare-curare" sostenuto dall'idea della disabilità come malattia. In altre parole l'attenzione si sposta dal deficit al funzionamento
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potrani sul come essa toliniona" rispeto a un determinato cona per a de pare importante sotamineare è che attraverso questa rappresento. ha sidaemina uno spostamento di attenzione da quelli che sono 1 mia-
per dal persona disabile a queli che sono i suoi bisogni di normalita. pongo uno spostamento dell'attenzione dalle parti malate o defcitaria da
potale al totalita e ala complessia della sua persona e delle sue interaioni sociali e ambientali.
In questa prospettiva appare centrale la preoccupazione di rispondere pitariamente alle esigenze di normalità affettiva, educativa, esperienpale e di ruolo sociale presenti in ogni persona e propedeutiche a ogni alto intervento riabilitativo specifico.
Una visione antropologica della disabilità, centrata sui diritti della per-
sma, costringe necessariamente a una ridefinizione sia degli obiettivi mibliativi sia dei "luoghi" all'interno dei quali la riabilitazione viene effttuata.
Ad esempio, se fino a qualche decennio fa poteva essere considerato
utile e naturale ricoverare una persona con disabilità in un istituto specia¡rato magari lontano da casa per occuparsi della sua riabilitazione, oggi si pone grande attenzione a non barattare un bisogno affettivo fondamentale, com'è quello del rapporto con i genitori e con l'inclusione nel proprio ambiente, con un obiettivo riabilitativo specifico.
Tra i bisogni di normalità che questo approccio antropologico alla
disabilità ha messo in evidenza ve ne sono alcuni che acquistano particolare importanza nella prospettiva dei percorsi dopo la scuola dell'obbligo:
- il bisogno di normalità di immaginario; - il bisogno di normalità di progetto; - ilbisogno di normalità educativa; - il bisogno di normalità di ruolo. Si tratta di quattro aspetti fondamentali in una prospettiva educativa centrata sulla persona e sui percorsi di integrazione sociale nel mondo degli adulti
21. La normalità di immaginario
L'immaginario può essere inteso come "la capacità di anticipare il desiderabile attraverso la fantasia, il sogno" (Lepri, 2011). Si tratta di una attitudine normalmente presente nei genitori ed è anche attraverso di essa che il bambino diventa via via pensante e quindi protagonista 323
IõìÓõ*ûõü ****** SONO DI TUTTI, TRATTAMI BENE
se riconsegni il libro danneggiato
o sottolineato, dovrai ricomprarlo.
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del proprio futuro. I genitori sognano rispetto al futuro dei loro figli e attraverso l'uso dell'immaginazione riescono ad anticipare un domani possibile. Naturalmente non è sempre così facile sognare quando il proprio figlio, a causa di una qualche menomazione, diventa fonte di ansia e di preoccu-
pazione. In questo caso avere un immaginario attivo può essere più dif. ficile e ciò può determinare una difficoltà a saper vedere il proprio figlio grande, adulto. Sappiamo bene come l'assenza di immaginario da parte della famiglia possa portare a una sorta di routine all'interno della quale prende il sopravvento il vivere alla giornata piuttosto che il potersi naturalmente abbandonare alla progettazione di percorsi educativi e di promozione. Vale la pena sottolineare che il diventare psicologicamente e socialmente adulti è strettamente collegato al fatto che qualcuno ci abbia immaginati tali e, attraverso l'immaginario abbia percorso per noi e con noi il processo
di crescita. Non si diventa grandi se nessuno ci pensa realmente capaci di diven-
tarlo.
Sappiamo ormai bene d'altra parte che questa attitudine può prendere realmente l'avvio solo quando esiste una intesa madre-bambino all'interno di quella che viene definita la fase della socializzazione primaria. Questa intesa non è sempre facile da raggiungere poiché, com'è comprensibile, il confronto con un figlio disabile, soprattutto nel primo periodo di vita del bambino, può determinare nella madre (e anche negli altri membri della famiglia) sentimenti di forte inadeguatezza. Sentimenti che possono incidere negativamente sulla attitudine a sognare serenamente sul futuro del proprio figlio. Il tema del bisogno di normalità di immaginario è di straordinaria importanza rispetto ai percorsi scolastici e formativi post scuola dell'obbligo proprio perché è in questa fase della vita che sogni e aspettative possono trasformarsi in percorsi concreti.
La fine della scuola media determina (per tutti) l'avvio di una serie di
scelte propedeutiche al futuro ingresso nel mondo degli adulti. Si tratta di quel processo psicosociale che viene generalmente denomi-
nato come socializzazione prelavorativa e che rappresenta "un modo di analizzare l'esperienza scolastica, familiare, dei gruppi di pari e di tempo libero anche come occasione di avvicinamento progressivo alla realtà lavorativa" (Sarchielli, 2003, p. 123).
Nelle famiglie e nelle persone per le quali è sempre stata attiva una
certa progettualità la scelta del "che fare da grande" non assume di solito aspetti drammatici, poiché il diventare grande è un evento in qualche modo previsto, immaginato, auspicato. 324
,adone invece limmaginariei la progettualita hanno subito gravi danni провалености в а анель а спо віле мігена яремо поПо бобово. i genioni, convinti si arevano shesare per sempre con un bambino bipaso di protezionacciosa per i loro ria dovere vivere questa situazione
pre fortemente minacciosa per il loro ruolo. *legalimenti di ansia e di inadeguatezza portano spesso all'uso di meo.
gaum diensivi di diniesi. L a persona con disabilita continua almea.
poi onsiderla un bastondo no le sue capacita/autonomie disconosciue guea per contro, si nascimento le reali difficolta della persona e si imAprano percorsiapprendimenti/autonomie assolutamente fuori della sua
portata.
"Sono le due facce della stessa medaglia: l'impossibilità di considerare che
una persona con disabilita possa diventare adulto a partire da ciò che egli palmente è. Spesso anche gli operatori che agiscono in questa delicata fase Basano vittime di questa trappola inoltrandosi in alleanze acritiche con la Amiglia oppure in pericolose contrapposizioni con essa dimostrando, in enrambi casi, di non avere un progetto realistico verso il mondo degli adulti.
Aiutare la famiglia con un figlio disabile a costruire un immaginario su
di lui che non si esaurisca con l'adolescenza rappresenta un obiettivo edualivo strategico nella prospettiva dell'integrazione professionale, lavorativa e sociale più in generale.
22. La normalità di progetto
La normalità di immaginario richiama dunque la normalità di progetto intesa come "la capacità di anticipare il possibile attraverso l'azione inten-
zionale" (Lepri, 2011).
Per rendere concreto e reale un sogno è necessario trasformarlo in un
progetto e questa azione può non essere sempre semplice poiché pone inevitabilmente di fronte al tema dei limiti. Con il progetto si separa ciò che è
straordinario da ciò che è possibile e all'interno del progetto si incontrano le proprie potenzialità insieme ai propri limiti. Anche in questo caso assistiamo, nei confronti delle persone con disabilih, a qualche maldestrezza educativa. Spesso, proprio per una sorta di timo-
te a far confrontare queste persone con i loro limiti, si assiste più alla messa in campo di programmi piuttosto che di un progetto di vita complessivo. Quando ciò accade si delinea uno scenario di vita ancorato a una sorta di quotidianità. La dimensione temporale si appiattisce e tutto deve essere preso il giorno dopo come se fosse la prima volta. L'assenza di un progetto verso le persone con disabilità ha inoltre come conseguenza il fatto di depotenziare le capacità di autoprogettazione con
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due possibili risultati: l'inazione o la rinuncia oppure il perseguimento di obiettivi irrealistici. Entrambe posizioni che non facilitano percorsi di inclusione sociale nel mondo degli adulti.
2.3. La normalità educativa Le normalità di immaginario e di progetto riportano inevitabilmente al bisogno di normalità educativa. Occorre dire a questo proposito che qualsiasi processo educativo, per essere veramente tale, deve essere un processo
a termine.
Esiste un'evoluzione nel processo educativo che prevede che le asimmetrie di partenza debbano progressivamente diminuire in quanto si presuppone un travaso da chi più sa a chi meno sa.
Si tratta di un riequilibro non solo in termini di sapere ma anche e soprattutto in termini di relazione. Alla fine di un percorso educativo la distanza relazionale tra educatore ed educando non è mai la stessa verificata
all'inizio.
Con le persone con disabilità, in particolare se disabili intellettivi, sembra non essere così: tanto che si è coniata una espressione, educazione a permanenza, che la dice lunga su questo argomento. Le conseguenze di un rapporto educativo ingessato, all'interno del quale cioè non sia previsto un riequilibro della asimmetria della relazione, possono essere molto serie sul piano dello spreco delle risorse della persona disabile e sul piano della sua qualità della vita. Si ritorna al tema di quale tipo di capacità rappresentazionale sono portatori l'educatore e il contesto nel quale egli opera. Ovviamente, se sul piano della rappresentazione, la persona con disabilità corrisponde al bambino che non può crescere, gli atti "educativi" non potranno che essere orientati da questa rappresentazione. Quando il processo educativo diventa stabile e permanente sarebbe forse più opportuno definirlo come un rapporto finalizzato all'assistenza alla persona più che alla sua educazione. Sembra utile sottolineare che un progetto realmente educativo può essere tale anche in presenza di disabilità complesse. In questi casi gli obiettivi
potranno essere meno ambiziosi ma gli atti educativi avranno comunque la finalità di stabilire un riequilibro, ancorché minimo, nell'economia della
relazione.
2.4. La normalità di ruolo Un ultimo bisogno di normalità al quale guardare con attenzione nella logica dei percorsi post scolastici è il bisogno di normalità di ruolo.
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gas imendo in ques a ss: Voltentare il complesso tema relativo a pensa mando (Mano tibadire idea sberges 10510).,
e otaria necessario ribadire idea che una normalita di ruoli nell'era pia data esoro iero permanere nizazione sociale anche per nel cera. per teabili, pera 10 72 08 atege in posizioni di status marginali Per. Gine tuti gli stori di mie razione mesi in alto nel età precedenti. of han vero quanto afferma Mead quando scrive che: 'Lindividio ha grana di se stesso in quanto tale non direttamente benst solo In no ha pirata, in base alle particolari opinioni degli altri individui dello modo apo ariale,o in base altiopinione generalo del gruppo sociale in deso Finalità alla quale appartiene" Mead, 1966, p. 156). stre giunge alla stessa conclusione attraverso la strada filosofica quanpalerma che: "per ottenere una verità qualunque sul conto di qualcuno
Rogna che la si ricavi tramite l'altro. L'altro è indispensabile alla propria (sitenza così come la conoscenza che ciascuno ha di se stesso" • (Sartre, 945, p. 63 dell'edizione italiana).
'essere in quanto pensati dagli altri così come ci viene proposto da
Nead nel suo concetto di altro generalizzato è direttamente collegato all'ejienza di ricoprire un ruolo all'interno dell'organizzazione sociale. "Nel mondo degli adulti il ruolo è infatti ciò che lega il singolo individuo ala complessità sociale e regola ogni rapporto tra le persone all'interno della società stessa.
Attraverso di esso passa il delicato rispecchiamento io-altri da me che ¿poi decisivo nella costruzione e nel mantenimento dell'identità personale. L'organizzazione sociale prevede naturalmente un progressivo passaggio attraverso i ruoli per tutte le persone. A partire da quelli micro-familiari, quando il bambino è piccolo, via via fino al ruolo lavorativo e ai ruoli genitoriali nell'età adulta.
Dobbiamo notare come, proprio a causa dei già citati atteggiamenti infantilizzanti di cui sono vittime, le persone con disabilità siano spesso sentate dai ruoli soprattutto nella fase del passaggio da quelli agiti nel microsociale a quelli più complessi connessi con l'ingresso nell'età adolesenziale. Questa protezione dai ruoli sembra collegata all'esigenza di non lare incontrare alla persona disabile le parti faticose e dolorose comunque presenti all'interno del ruolo così come presenti all'interno di qualsiasi percorso di crescita.
Na detto infine che la capacità di assumere un ruolo è direttamente colE3a alla capacità di farsi carico dei diritti e i dei doveri a esso connessi. Sitata, com'è comprensibile, di un vero e proprio apprendimento. In questo senso appare evidente la difficoltà a proporre percorsi formatilarorativi a giovani disabili che, per la loro storia educativa più che per Altro reale deficit, sono stati esentati, nel loro percorso educativo, dallas*Pione della responsabilita cosentaa, оп i tuo ).
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In questo caso il rischio è quello di assistere ad assegnazioni di responsabilità connesse più o meno meccanicamente all'età anagrafica piuttosto che alle reali capacità introiettive della persona. D'altra parte, in una prospettiva che preveda la riabilitazione come un atto strettamente connesso ai percorsi di integrazione sociale, l'assegnazione di ruolo diventa non solo inevitabile, ma anche necessaria. Esiste quindi un problema di valutazione delle compatibilità tra le potenzialità di apprendimento del ruolo da parte della persona disabile e le caratteristiche di complessità del ruolo proposto.
Naturalmente l'ipotesi ottimale sarebbe quella di un progressivo e armonico confronto del disabile con i ruoli a partire dall'infanzia. Ma
quest'ultimo bisogno di normalità ci riporta immediatamente all'esigenza che anche ai bisogni di normalità di immaginario, di progetto e di educazione siano state date risposte adeguate.
3. I percorsi dopo la scuola dell'obbligo: alcuni aspetti metodologici Il passaggio da una rappresentazione infantilizzante della persona con disabilità a una modalità che contempli la sua crescita e il suo ingresso come persona nei ruoli sociali adulti è anche conseguenza del massiccio fenomeno di integrazione scolastica avviatosi negli anni '70 e formalizzato con la legge 517 del 1977. L'esperienza di integrazione scolastica in un certo qual modo ha obbligato a immaginare dei percorsi di integrazione che non si esaurissero con il periodo dell'obbligo scolastico poiché il rientro in un circuito esclusivamente assistenziale al termine della scuola dell'obbligo sarebbe stato percepito da tutti, e in primis dalle persone disabili e dalle loro famiglie, come una sorta di inganno. Occorre dire inoltre che l'avvio di percorsi verso il lavoro ha determinato un forte vantaggio anche per la scuola consentendole di rendere più mirata la propria offerta formativa ed educativa verso i propri allievi con disabilità e, più in generale, verso tutti gli studenti. La possibilità di un inserimento nel mondo del lavoro ha inoltre favorito l'affermarsi di modalità individualizzate di certificazione del percorso scolastico. Fino alla metà degli anni '90 infatti, gli alunni che frequentavano la scuola secondaria di secondo grado ricevevano al termine del loro percorso o il titolo di studio oppure un attestato di frequenza. A partire da quel periodo viene introdotto il concetto di credito formativo con il rilascio di una certificazione che attesta le competenze conseguite. Si tratta di un passaggio significativo poiché il credito formativo, con la relativa descrizione delle competenze acquisite, è il riconoscimento a una persona del possesso di capacità acqui-
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se tali per il proseguimento del percorso formativo oppure per l'avvio, stroperso i centri per limpiego elo i servizi di mediazione, di un percors. lavorativo.
no realtà le prime esperienze di integrazione al lavoro di persone con jisabilia prendono campo nel nostro paese all'inizio degli anni 180 de secolo scorso.
La ricchezza di queste esperienze viene fotografata da una ricerca narionale sullo stato dell'arte dell'inserimento lavorativo effettuata nel 1999 in una prospettiva sostanzialmente quantitativa (Lepri, Montobbio e Papoпе, 1999).
"La ricerca prende in considerazione oltre 300 realtà (servizi di Asl, di comuni, centri di formazione professionale, cooperative sociali) che hanno attuato inserimenti lavorativi di persone con disabilità all'interno del normale mercato del lavoro. Si tratta di realtà collocate per 182% al nord, peril 12% al centro e per il 6% al sud. Uno dei dati più significativi della ricerca riguarda il numero complessivo di inserimenti effettuati: viene calcolato infatti che le 310 unità operative prese in esame nella ricerca sono riuscite a collocare, in un periodo di circa 8 anni, oltre 25.000 persone disabili al lavoro.
Si tratta di disabili intellettivi per l'80% dei casi, di persone con disa-
bilità motoria per il 11% dei casi e di disabilità sensoriale nel 9% dei casi.
La ricchezza, l'innovatività e l'efficacia di queste esperienze hanno consentito di individuare alcune costanti metodologiche inserite in una filosofia che è stata definita "metodologia della mediazione" (Leprie Montobbio, 1995).
Si comprende, attraverso queste esperienze, che l'inserimento lavorativo di persone con disabilità non può essere attuato attraverso una modalità di tipo vincolistico secondo il modello burocratico della imposizione di mano d'opera alle imprese ma piuttosto attraverso una modalità di tipo collaborativo finalizzata al raggiungimento di un "collocamento mirato".
Con il collocamento mirato si ottiene infatti un duplice obiettivo: da una parte si risponde alle esigenze delle persone con disabilità attraverso un migliore utilizzo delle loro potenzialità, dall'altra parte si viene inconto alle ineliminabili necessità delle imprese che sono quelle di utilizzare nisorse umane adeguate alle loro caratteristiche organizzative e produttive. La filosofia del collocamento mirato che, con una estrema semplifica¿ione potremmo riassumere nel concetto "la persona giusta al posto giuSto'", sarà raccolta dalla legge nazionale numero 68 che avrà come titolo "Norme per il diritto al lavoro dei disabili" e che verrà approvata dal Parlamento nel marzo del 1999.
La legge 68199 definisce, all'art. 2, il collocamento mirato come: "quel-
la serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare 329
adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi dei posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti,
gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione". La legge, nel raccogliere le diverse esperienze portate avanti sperimentalmente nel nostro paese, riconosce il valore dei servizi di mediazione al lavoro e, all'art. 11, prevede che questi servizi: "possano stipulare con il datore di lavoro convenzioni aventi a oggetto la determinazione di un programma mirante al conseguimento degli obiettivi occupazionali" definendo inoltre, tra le possibilità di queste convenzioni, la facoltà di scelta nominativa del disabile da parte dell'azienda, lo svolgimento di tirocini con finalità formative e di orientamento, l'assunzione con contratti di lavoro a termine, lo svolgimento di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto nazionale di lavoro. Riguardo alla legge 68/99 è opportuno richiamare due aspetti formali fondamentali, uno riguardante le persone con disabilità e l'altro le aziende. Per quanto riguarda le persone destinatarie della legge 68 esse vengono individuate in: a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche, sensoriali e i portatori di handicap intellettivo che comportino una riduzione delle capacità lavorative superiore al 45%;
b) le persone invalide del lavoro con grado di invalidità superiore al 33%;
c) le persone non vedenti e sordomute; d) le persone invalide di guerra, invalide civili e invalide per servizio. È importante sottolineare che i benefici della legge possono essere applicati alle persone disabili che abbiano avuto un riconoscimento, da parte delle apposite commissioni medico legali delle Asl, di una invalidità superiore al 45% e che si siano iscritte in un apposito elenco tenuto presso gli uffici di collocamento gestiti dalle provincie. Tali vincoli esistono anche per le altre persone tutelate dalla legge 68 (invalidi del lavoro, persone non vedenti e sordomute, invalidi di guerra, civili e per servizio) anche se le percentuali di invalidità minima per l'accesso ai benefici della legge variano a seconda delle diverse categorie. Per quanto riguarda le aziende è opportuno sottolineare che la legge indica i seguenti obblighi: a) per le aziende da 15 a 35 dipendenti 1 persona con disabilità; b) per le aziende da 36 a 50 dipendenti 2 persone con disabilità; c) per le aziende oltre i 50 dipendenti il 7% di persone con disabilità. Sono previste per le aziende forme di sostegno economico qualora assumano persone con disabilità complessa così come forme di esenzione 330
unatligo di astoriene in Scaso end ativia lavorative particolarmente per solose o di situazione di crisi aziendali.
31. [tempi
fatto di poter disporre di una legge sul diritto al lavoro rappresenta
un tano estremamente importante per le persone con disabilità, per le loro umiglie e per tuti coloro che intervengono durante il percorso formativo ed educativo.
Tuttavia la legge sul collocamento al lavoro è solo l'ultimo passaggio di un percorso che dovrebbe prendere l'avvio il più precocemente possibile e comunque all'uscita dalla scuola secondaria di primo grado. Al termine della scuola secondaria di primo grado le persone disabili e e loro famiglie hanno davanti a loro alcune possibili scelte:
- l'ingresso nella scuola secondaria di secondo grado; - la frequenza di un corso di formazione professionale ordinario; - la frequenza di un corso di formazione professionale speciale; - l'inserimento in un centro diurno o in un laboratorio protetto. L'ultima opzione, trattandosi di una scelta che rappresenta una rinuncia precoce all'integrazione socio lavorativa in un ambiente normale, viene di solito rinviata e avviene dopo un periodo più o meno lungo di frequenza di un istituto statale o di un corso di formazione professionale. Tale scelta deve comunque essere sempre intesa come provvisoria e comunque sempre come uno degli strumenti di attuazione del progetto educativo individualizzato. In realtà l'iscrizione a una scuola secondaria di secondo grado è ormai anche per le persone con una disabilità complessa, l'opzione più frequente dopo la scuola media.
3.2. L'alternanza scuola-lavoro
Nella logica del percorso dalla scuola verso il lavoro uno degli strumenli sicuramente più innovativi anche se non ancora pienamente utilizzati
dalle scuole è quello dell'alternanza.
L'alternanza scuola-lavoro è definita nella legge 53 del 2003 come: "modalità di realizzazione del percorso formativa progettata, attuata e Valutata dall'istituzione scolastica in collaborazione con le imprese... che assicuri ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l'acquisizione di compelenze spendibili nel mercato del lavoro". Si tratta di una modalità di intervento che prevede l'organizzazione del tempo scuola in forma mista, che vede alcuni giorni di attività all'interno
331
d
dell'istituzione scolastica intervallati da esperienze di formazione "in situazione" da svolgere presso aziende del territorio (Cantoni e Panetta, 2006). L'alternanza tra la frequenza a scuola e la frequenza di un ambiente lavorativo dovrebbe in effetti: - favorire il raccordo tra la formazione d'aula e l'esperienza pratica;
- arricchire la formazione con l'acquisizione di esperienze spendibili nel
mondo del lavoro; - favorire il futuro orientamento lavorativo; - realizzare un organico collegamento tra scuola e mondo del lavoro favorendo i processi di transizione tra queste due realtà. Come si comprende si tratta di uno strumento particolarmente idoneo nel caso di persone con disabilità che abbiano la necessità di una forte personalizzazione del proprio percorso e che possono trarre giovamento da un apprendimento veicolato dalla concretezza del fare. L'alternanza scuola-lavoro rende inoltre la transizione verso il "dopo"
più graduale consentendo ai ragazzi con disabilità e alle loro famiglie di iniziare a pensare al possibile inserimento lavorativo in modo realistico e con i giusti tempi. L'esperienza insegna infatti che il vero problema per le persone con disabilità (in particolare con disabilità intellettiva) non è tanto "imparare un lavoro" quanto piuttosto "imparare a lavorare. Le difficoltà non sono pertanto legate "al fare" quanto piuttosto "all'essere" nelle relazioni, al percepirsi come una persona investita dei diritti/doveri collegati con un ruolo. Si presenta a questo proposito, in tutta la sua evidenza, il problema della capacità di assunzione del ruolo e, al contempo, si verifica che i tempi di apprendimento legati all'imparare a essere nel ruolo lavorativo sono molto più lunghi dell'imparare un compito lavorativo specifico. È per questo motivo che l'alternanza scuola-lavoro così come le varie forme di tirocinio e di stage pre-lavorativo rappresentano una risorsa particolarmente significativa nel percorso dalla scuola al lavoro.
3.3. Operatori e strumenti di mediazione Al termine del percorso scolastico o al conseguimento dell'obbligo formativo le persone disabili si trovano di fronte a nuove scelte (o, a volte, a percorsi obbligati) che possono essere così sintetizzate:
- proseguire gli studi nei corsi di laurea universitari; - trovare autonomamente lavoro; - continuare un percorso di avvicinamento al lavoro attraverso tirocini
guidati;
rimanere a casa con o senza pensione in attesa di un lavoro; frequentare un laboratorio protetto.
332
Nei primi due casi siamo di fronte a percorsi lineari che non necessi. un d interventi particohari. Le ultime due fattispecie potrebbero ecessi
peritarsi o in caso di limitazioni particolari della persona tai da ricco
la una rispoti doni di un territorio oratorio o un cento diurno, oppie
biaso di condizioni di un territorio estremamente disagiato e povero re Amini di servizi e di risposte occupazionali. in effetti l'opzione che si presenta sempre più spesso è quella di contipare il percorso di avvicinamento al lavoro usufruendo di un accompagamento da parte di un servizio di mediazione.
come già descritto in altra occasione (Lepri e Montobbio, 1995) le
componenti fondamentali di un servizio di mediazione sono gli operatori e
gli strumenti. Gli elementi di complessità e le resistenze che si incontrano nel percor-
a verso l'integrazione lavorativa possono essere efficacemente affrontati a condizione che esistano operatori specializzati e specificamente impegnati in questo settore. L'operatore della mediazione al lavoro diventa il regista della complessa azione di avvicinamento del disabile ai ruoli sociali adulti avendo in mente da una parte la storia e i bisogni della persona e dall'altra in progetto personalizzato con i suoi tempi e le sue progressività. 'accompagnamento della persona disabile verso il lavoro si configura quindi come un compito professionale svolto da operatori capaci di mediare tra esigenze soggettive dei disabili e richieste di adattamento del sistema produttivo. Si tratta di operatori in grado di svolgere una corretta valutazione delle potenzialità delle persone con disabilità (azione che può avvenire solo tramite un forte collegamento con chi ha avuto precedentemente in carico il soggetto) e al tempo stesso capaci di saper valutare i livelli di complessità cognitiva ma soprattutto relazionale di un ambiente di lavoro. Si tratta, in sostanza, di una figura professionale che favorisce l'accordo tra le "parti" curando di progettare il percorso della persona disabile, di pilotare l'inserimento attraverso strumenti di supporto specifici (economici, ergonomici, legislativi, organizzativi) e assicurare sostegno al disabile e all'azienda durante e dopo il periodo di mediazione. La capacità di negoziare di questo operatore non è riferita solo al suo essere collocato tra esigenze contrapposte rappresentate dai bisogni specifici della persona in difficoltà e dal mondo del lavoro quanto al suo essere capace di mediare soprattutto rispetto al suo stile relazionale nei confronti della persona disabile.
L'operatore che agisce con utenti in età adolescenziale o giovane adulta deve infatti calibrare in modo estremamente mirato la sua relazione edusaliva, pena il ricadere in stili relazionali smaccatamente infantilizzanti o in atteggiamenti falsamente paritetici. Una grande attenzione deve essere
posta da questi operatori all'auto osservazione nella relazione educativa
333
a
in modo da evitare che quest'ultima acquisti caratteristiche di rigidità e di immodificabilità nel tempo. L'operatore della mediazione si adopera affinché sia la situazione concreta, all'interno della quale è inserita la persona con disabilità, ad agire
attraverso le aspettative di ruolo. In questa logica i suoi interventi professionali sono, di solito, rivolti ai componenti del gruppo di lavoro all'interno del quale si trova la persona con disabilità piuttosto che direttamente al disabile stesso. La centralità dell'operatore della mediazione nel percorso post scolastico è messa in evidenza infine dalla necessità di coniugare risorse spesso molto distanti tra loro. L'obiettivo è infatti mettere in relazione le attività di recupero e riabilitazione svolta dai servizi socio sanitari, quelle formative svolta dalla scuola e/o dai centri di formazione professionale con quelle del collocamento mirato al lavoro. Negli ultimi anni anche in Italia sta cominciando ad assumere importanza la figura del Disability Manager. Questo termine può essere tradotto come Responsabile del processo di inclusione". In Italia si parla per la prima volta in modo formale di questa figura nel Testo unico del pubblico impiego laddove si indica che il Disability Manager deve essere individuato dalle amministrazioni pubbliche con più di 200 dipendenti. I compiti di questa figura di mediazione sono quelli di verificare e facilitare l'attuazione del processo di inclusione lavorativa delle persone disabili, di predisporre le soluzioni tecnologiche più adeguate per
facilitare l'integrazione, di curare i rapporti con gli operatori dei servizi socio sanitari e del lavoro operanti sul territorio.
3.4. Gli strumenti L'esigenza di avere a disposizione tempi appropriati e percorsi individualizzati nel tragitto dopo la scuola e verso il lavoro ha messo in evidenza, per le persone con disabilità in generale e, in special modo, per le persone con disabilità intellettiva, una certa difficoltà ad utilizzare in modo tradizionale gli strumenti tipici di ingresso nel mercato del lavoro. Questa difficoltà ha determinato l'esigenza di costruire degli strumenti che, nel pieno rispetto delle leggi, consentissero di garantire un percorso individualizzato tale da permettere il raggiungimento di quella compatibilità soggetto-ruolo necessaria per una efficace inclusione lavorativa.
Possiamo quindi intendere come strumenti di mediazione "tutti gli attrezzi che consentono di osservare, addestrare, integrare cittadini disabili all'interno del sistema produttivo e in diretta collaborazione con esso" (Lepri e Montobbio, 1995). 334
unomianes degli serie t di supinaione è anche quella di tranqui. Доз торо осин сатиалене. Атост а бізовно «не, сото лобнало ва
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Jeandizionicliniche de cosse io sulla sua storia personale, Sulie cora. pone aquiste nel sere considerato mativo e sul suo progeto di via.omi ponenti posono essere considerati all'interno di tre categorie:
) 4Progetti osservativo/formativi si tratta di strumenti che permettono di sperimentare la persona con
isabilità all'interno di percorsi lavorativi con il solo obiettivo di "Osser. pace per capire". Essendo strumenti prevalentemente formativi possono sere gestiti anche dalle istituzioni scolastiche e/o della formazione professionale.
Ouando prendono l'avvio a partire dalla scuola rientrano nella categoria dellalternanza scuola-lavoro. Se invece hanno origine dalla formazione professionale vengono, di solito, denominati "stage aziendali" o "iro-
cini formativi"; mentre quando vengono attivati a partire dai servizi di mediazione al lavoro vengono normalmente definiti "formazione in
situazione" oppure "borsa di lavoro" D Progetti mediatori all'occupazione
Si tratta di strumenti chiaramente finalizzati alla mediazione verso lo sbocco occupazionale.
L'obiettivo esplicito è permettere alla persona disabile di raggiungere un'occupazione stabile. Di solito si tratta di strumenti destinati a persone che hanno già effettuato un percorso formativo e che sono in condizioni di raggiungere in tempi brevi adeguate capacità produttive. Lo strumento più usato è il tirocinio previsto dalla legge 68. c) Progetti socio-occupazionali
Sono strumenti/progetti rivolti prevalentemente a persone disabili che, pur traendo grande giovamento da un percorso di inserimento lavorativo, non sono in grado di raggiungere un livello produttivo che permetta una loro assunzione a pieno titolo. L'inserimento lavorativo con strumenti socio-occupazionali è quindi una modalità di permanenza stabile nel mondo del lavoro di persone disabili senza l'obiettivo dell'occupa¿ione ma con la finalità della loro autorealizzazione lavorativa.
335
3.5. Il sistema Appare immediatamente evidente che il percorso successivo alla scuola dell'obbligo verso una integrazione sociale e lavorativa per una persona con
disabilità è un percorso di solito lungo, complesso e di esito non sempre certo. Il successo di questo percorso non è poi mai valutabile in valori assoluti poiché per una persona disabile (così come per tutte le persone) l'ingresso pieno e soddisfacente nei ruoli sociali adulti è legato a innumerevoli variabili e certamente non solo a quella lavorativa. Tuttavia è indubbio che una persona disabile avrà migliori opportunità laddove esistano oltre che un immaginario e dei setting accoglienti, anche un percorso scolastico idoneo, e, all'uscita dalla scuola, degli operatori, degli strumenti di mediazione e dei tempi che consentano un percorso integrato e compatibile con i suoi bisogni. Vale quindi la pena di sottolineare che queste condizioni non solo devono esistere ma devono essere sinergicamente coordinate tra loro per potere essere realmente efficaci. Debbono cioè essere previste come l'esito di un sistema che opera in modo sinergico. In questa prospettiva diventa strategico un effettivo coordinamento tra
tutti gli Enti, le Agenzie e i Servizi che nel territorio a vario titolo e in va-
rie fasi del percorso scuola-lavoro, si trovano a operare. L'esistenza di un sistema coordinato delle diverse risorse accanto alla presenza di progettazioni individuali e flessibili può essere il modo per evitare soluzioni di tipo assistenziale o, nel peggiore dei casi custodialistiche che rischiano di diventare dolorosamente inefficaci. La complessità e la conseguente necessità di fare sistema da parte di tutte le risorse sono evidenti se si osserva come nel percorso dalla scuola al lavoro possono intervenire soggetti portatori di culture istituzionali molto diverse tra loro come la scuola media di primo e secondo grado, la forma-
zione professionale, i centri socio-educativi, i servizi sociali e sanitari, la cooperazione sociale, i servizi di mediazione al lavoro e le associazioni delle famiglie. Per un persona disabile che "deve attraversare" un sistema così articolato possono verificarsi delle difficoltà di orientamento e spesso l'obiettivo primario (l'integrazione socio lavorativa) può essere perso di vista o confuso con obiettivi secondari. Si ripresenta, in questa prospettiva, la necessità che tutti coloro che intervengono in queste fasi sappiano porsi in modo sistemico e progettuale guardando non solo al proprio tratto di percorso ma a quanto è stato fatto prima e, soprattutto, a ciò che deve venire dopo.
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