Profilo di storia del pensiero economico. Gli sviluppi contemporanei [2, 3 ed.] 8843030256, 9788843030255

Questo Profilo di storia del pensiero economico non è una rassegna cronologica delle scoperte scientifiche in economia p

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Profilo di storia del pensiero economico. Gli sviluppi contemporanei [2, 3 ed.]
 8843030256, 9788843030255

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Carocci editore

@ Studi Superiori

Questo Profilo di storia del pensiero economico -articolato in due volumi- non è una rassegna cronologica delle scoperte scientifiche in economia politica, né una galleria di ritratti dei principali autori. Piuttosto, si presenta come una ricostruzione dei molteplici sistemi teorici fondata sull'idea che la conoscenza del contesto culturale e sociale in cui una teoria si è formata risulta importante quanto quella della sua struttura logica. Tratto caratteristico dell'opera è quello di presentare le antiche teorie non come qualcosa del passato, ma come attualità; e le teorie contemporanee- quelle dell'ultimo cinquantennio- non come verità acquisite una volta per tutte, ma esse stesse come storia. Questo secondo volume abbraccia gli sviluppi contemporanei del pensiero economico dal secondo dopoguerra ad oggi. Il capitolo finale, dedicato alla situazione attuale della scienza economica, chiarisce il senso in cui va vista la fase critica che la disciplina sta attraversando: e cioè positivamente, come una crisi salutare.

Ernesto Screpanti è ordinario di Economia politica e Storia dell'economia politica all'Università di Siena. Si è occupato di teoria della distribuzione del reddito, di teoria del ciclo economico e dell'analisi delle istituzioni del capitalismo.

Stefano Zamagni è ordinario di Economia politica nella facoltà di Economia

dell'Università di Bologna. Dal1979 è adjunct professar di Economia presso

il Bologna Center della Johns Hopkins University e dal1985 tiene un corso di Storia dell'analisi economica all'Università Bocconi di Milano.



21,80

STUDI SUPERIORI ECONOMIA

/ 693

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II,

00186 Roma, telefono o6 42 8r 84 17 fax o6 42 74 79 31

229

Siamo su: http:/ /www.carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore http://www. twitter.com.com/ caroccieditore

Ernesto Screpanti

Stefano Zamagni

Profilo di storia del pensiero economico Gli sviluppi contemporanei Terza edizione aggiornata e ampliata

Carocci editore

2a ristampa, marzo

201 5

2011 2004 (1 ristampa) Ia edizione, aprile 19 89 ©copyright 2004 by Carocci editore S.p.A., Roma Ia

Ia

edizione Studi Superiori, aprile

edizione Università,

Finito di stampare nel marzo

2015

da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN

9 78-88-430-J025-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge

22

aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

II

Prefazione alla terza edizione I.

Teorie macroeconomiche

I.I. 1 .2 .

Dall'età dell'oro alla stagflazione La sintesi neoclassica

r.2.r. Generalizzazioni: ancora il modello 15-LM l r.2.2. Mfinamenti: la funzione del consumo l I.2. 3. Correzioni: moneta e inflazione l r.2.4. Semplificazioni: crescita e distribuzione

I3 I6

La controrivoluzione monetarista

r.3.r. Atto primo:

money matters l 1.3.2. alt the people alt the time l I.3.3. Atto maestro l I. 3-4- Fu vera gloria?

Atto secondo: you can't /ool terzo: gli allievi superano il

Dal disequilibrio all'equilibrio non-walrasiano

r.4.r. Le microfondazioni della macroeconomia l 1.4.2. I modelli d'e­ quilibrio non-walrasiano

Teorie post-keynesiane

1.5.1. Reinterpretazioni antineoclassiche di Keynes l 1.5.2. Distribuzio­ ne e crescita l 1.5-3- La moneta e l'instabilità dell'economia capitali­ stica l r. 5-4- Microfondazioni eterodosse della macroeconomia

1 .6 .

La nuova macroeconomia keynesiana

r.6.r. Un lontano retroterra hicksiano l r.6.2. Le rigidità nominali l r.6.3 Le rigidità reali l r.6-4- Un confronto tra alcune scuole macroe­

6o

conomiche contemporanee

2.

2.1.

Opere di rilievo Riferimenti bibliografici

74 77

Trionfo e crisi dell'economia neoclassica

8I

L'approccio neo-walrasiano all'equilibrio economico generale

8I

2.r.r. La conquista del teorema d'esistenza l 2.1.2. La sconfitta sul terreno dell'unicità e della stabilità l 2.1.3. Fine di un mondo? l 2.1.4. Equilibrio temporaneo e moneta

7

2 . 2.

Gli sviluppi della nuova economia del benessere e le teorie della giustizia economica

2.2.1. I due teoremi fondamentali dell'economia del benessere l 2.2.2. n dibattito sui fallimenti del mercato e il teorema di Coase l 2.2.3. La teoria delle scelte sociali e il teorema di impossibilità di Arrow l 2.2.4. Sen e la critica dell'utilitarismo l 2.2.5. Le teorie economiche della

1 00

giustizia

La controversia sul marginalismo nelle teorie dell'im­ presa e dei mercati

2.3.1. Critiche alla teoria neoclassica dell'impresa l 2.3.2. Le teorie post-keynesiane dell'impresa l 2.3-3- Le teorie manageriali e comporta­ mentiste l 2.3+ Le reazioni neoclassiche e le nuove teorie dell'im­

121

presa

Opere di rilievo Riferimenti bibliografici



Ai margini dell'ortodossia

139

Giochi, evoluzione e crescita

1 39

3.1.1. La teoria dei giochi l 3.1.2. Giochi evolutivi e istituzioni l 3.I.3.

La teoria della crescita endogena

La teoria della produzione come processo circolare

3.2.1.

e il teorema di non sostituzione l 3.2.2. n di­ battito sulla teoria del capitale l 3.2.3. Produzione di merci a mezzo di

L'activity analysis

15 1

merci

3 .3 .

Il pensiero economico marxista tra ortodossia e revi­ sione

3.3.1. Prima del 1968 l 3.3.2. Eresie marxiste l 3·3-3- Verso una teoria

1 62

del valore coi piedi per terra

Opere di rilievo Riferimenti bibliografici



Una rivoluzione post-smithiana?

1 75

Alle soglie del millennio

1 75

Fonti dell'istituzionalismo e dell'evoluzionismo contemporanei: quattro economisti scomodi

1 88

4.1.1. La globalizzazione l 4.1.2. Moderno e postmoderno 4. 2.

4.2.1. Karl Polanyi l 4.2.2. Nicholas Georgescu-Roegen l 4.2.3. Albert O. Hirschman l 4.2.4. Richard M. Goodwin

8

4·3 ·

4·4 ·

Approcci all'analisi istituzionale

4·3·1. La "nuova economia politica" e dintorni l 4.3.2. n neoistituzio­ nalismo contrattualista l 4·3-3- n neoistituzionalismo utilitarista l 4·3+ n nuovo "vecchio" istituzionalismo l 4·3·5· n neoistituzionali­ smo evoluzionista l 4· 3.6. lrreversibilità, rendimenti crescenti e com­ plessità l 4-3-7· Von Hayek e la scuola neoaustriaca

L'economia politica radicale

4-4-1. Teorie del circuito monetario e del cambiamento istituzionale l 4.4.2. n marxismo analitico l 4·4+ n postmarxismo l 4·4+ La sfida

229

femminista

4·5 ·

Oltre l ' homo oeconomicus Opere di rilievo Riferimenti bibliografici 255

Indice dei nomi

9

Prefazione alla terza edizione

La nostra soddisfazione è facilmente immaginabile: scrivere la terza edizione di questo libro, mentre ci rende persuasi di aver prodotto un'opera utile, ci offre l'opportunità di migliorarla. Cosa che abbiamo cercato di fare in diversi modi. Abbiamo ap­ portato perfezionamenti un po' in tutti i capitoli; eliminato sviste ed errori; semplificato vari passaggi che gli studenti ci hanno segnalato come oscuri o difficili; aggiornato le bibliografie, sempre con l'intento di fornire utili suggerimenti per ulteriori letture. Integrazioni più sostanziose abbiamo apportato ai CAPP. I, 2 , 4 del primo volume e al CAP. I del secondo volume. Nel primo capitolo del primo volume ci è parso necessario richiamare il ruolo che l'Uma­ nesimo e il Rinascimento hanno giocato nella nascita dell'economia politica, specialmente per il contributo dato alla formazione dell"' u­ manesimo civile " , un'impostazione filosofica che cadde in oblio in se­ guito all'avvento dell'utilitarismo, ma che oggi sembra annunciare una seconda rinascita. Nel capitolo dedicato a Smith abbiamo arricchito l'esposizione delle interpretazioni del suo pensiero, richiamando quel­ la che oggi sembra la più diffusa e anche la più convincente, cioè l'interpretazione di Smith come istituzionalista. Un'integrazione simile abbiamo apportato al capitolo su Marx, ricordando la sua concezione dell'uomo e la sua indagine delle condizioni sociali e istituzionali del­ la produzione capitalistica, due delle parti del suo pensiero che ci sembrano più vive. Nel CAP. I del secondo volume abbiamo separato la trattazione dell'approccio postkeynesiano da quella della cosiddetta "nuova macroeconomia keynesiana" , approfondendo entrambe e mo­ strando le importanti differenze che distinguono le due scuole. Inol­ tre abbiamo aggiunto un paragrafo di sintesi in cui proponiamo un semplice schema grafico per confrontare le posizioni di varie scuole macroeconomiche contemporanee. Nel CAP. 3 del secondo volume abbiamo inserito ampi paragrafi sui giochi evolutivi, le teorie della crescita e quelle della complessità. II

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

Infine abbiamo aggiunto un nuovo capitolo, il 4 del secondo volu­ me, nel quale affrontiamo la situazione attuale della scienza economi­ ca. Oggi, più di quando scrivemmo la prima e la seconda edizione di quest'opera, è evidente lo stato di crisi in cui versa la nostra disci­ plina da ormai quasi un trentennio. A noi sembra una crisi salutare, e in quest'ultimo capitolo abbiamo cercato di spiegare perché. Una cri­ si può essere anche una rivoluzione. Non pretendiamo di sapere cosa accadrà nella scienza economica nei prossimi vent'anni, però ci è sembrato importante chiarire il senso in cui, secondo noi, questo pas­ saggio può assumere la portata di una crisi dei fondamenti e far ri­ partire la storia da Adamo. Vogliamo ricordare anche una modifica formale che speriamo tor­ nerà utile specialmente agli studenti. Abbiamo tolto dal testo molti riferimenti alle opere rilevanti, e li abbiamo raccolti in liste biblio­ grafiche speciali che compaiono in fondo ai vari capitoli. Nel testo abbiamo lasciato solo i riferimenti alle opere fondamentali, quelle che nessuno studente può permettersi di ignorare. Concluderemo ringraziando gli amici e i colleghi che si sono sob­ barcati l'onere di commentare le integrazioni a questa edizione: Elet­ tra Agliardi, Emiliano Brancaccio, Luigino Bruni, Luca Fiorito, Ni­ cholas Theocarakis, Carlo Zappia, Luca Zarri e Maurizio Zenezini. ERNESTO SCREPA:\'TI STEFANO ZAMAGNI

I2

I

Teorie macroeconomiche

I. I

Dall'età dell'oro alla stagflazione

Già durante gli anni bui della barbarie bellica il mondo si chiedeva su quali basi far rinascere l'economia mondiale dopo la guerra. Tra la Prima e la Seconda guerra mondiale si era consumata non solo una perdita di leadership economica da parte della Gran Bretagna, ma un arretramento relativo dell'intera Europa, che ormai importava dagli Stati Uniti tecnologie, capitali e modelli organizzativi. Furono quindi proprio gli Stati Uniti ad avere il peso maggiore nel determinare le direttrici della ricostruzione. Tre furono i presupposti principali sui quali il nuovo periodo di prosperità fu basato: la crescita economica come strumento di soluzione dei conflitti distributivi e di conteni­ mento del comunismo, l'integrazione europea come assicurazione contro lo scoppio di altre guerre mondiali, il coordinamento econo­ mico internazionale come condizione per evitare crisi dirompenti come quella del 1 92 9 . I l Piano Marshall contribuì i n maniera determinante ad attivare lo sviluppo industriale dei paesi europei, spingendoli alla collaborazione economica, fornendo i mezzi per importare le indispensabili materie prime, risolvendo la "questione tedesca" senza strascichi di riparazio­ ni da pagare e, infine, instillando negli europei la voglia di imitare il modello consumistico americano. Ma il Piano Marshall fu accompa­ gnato anche dall'attuazione degli accordi monetari internazionali de­ cisi a Bretton Woods nel 1 944, con la fondazione del Fondo moneta­ rio internazionale e della Banca mondiale e con la costituzione del GATT, organismi e accordi destinati a coordinare gli interventi di poli­ tica monetaria e commerciale sul piano mondiale. Il grande boom che seguì fu generalizzato e coinvolse i vecchi paesi industrializzati e alcuni di quelli che nascevano dal processo di decolonizzazione. Naturalmente i paesi che già avevano una base in-

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

dustriale solida poterono ridurre il divario con gli Stati Uniti, dando luogo a veri e propri "miracoli economici,; quelli, invece, che emer­ gevano appena allora da un passato coloniale godettero di un miglio­ ramento piuttosto relativo, legato prevalentemente alla vendita di ma­ terie prime sui mercati internazionali. La spinta all'integrazione europea si rivelò più che una vaga pro­ spettiva, portando alla creazione della CECA prima, poi del Mercato comune e di tutte le altre iniziative comunitarie che ridiedero fiato economico all'Europa. Alla lunga ne arrestarono il declino, con im­ portanti conseguenze non solo sui rapporti con gli Stati Uniti, ma an­ che con l'Europa dell'Est, che era rimasta tagliata fuori. Furono anni di grandi esodi di forza lavoro, dall'agricoltura all'in­ dustria e dalle aree periferiche alle metropoli. Anni di grandi processi di trasformazione socio-culturale, quali l'enorme crescita delle aree urbane, il mutamento dei patterns di consumo e dei modelli culturali, l'incremento della mobilità della popolazione, il diffondersi dell'auto­ mobile e la conquista di un benessere generalizzato. Le proteste sin­ dacali furono contenute, anche perché la forte domanda di lavoro permetteva una notevole possibilità di miglioramento economico. Non si era mai visto un periodo di crescita così sostenuta, rapida e diffusa. Si dimenticarono rapidamente guerre e crisi e ci si illuse che non esistessero limiti alle capacità di espansione economica. Quando nel 1 9 6 1 il primo uomo volò nello spazio sembrava ormai che qualsiasi traguardo fosse a portata di mano. Scienziati ed econo­ misti godevano di un prestigio sociale enorme e parve che nulla, che mente umana potesse concepire, essi non potessero realizzare. L'età dell'oro che si era instaurata negli anni cinquanta e sessanta, però, fu di "corto, respiro. Il paese di Cuccagna, con la sua abbon­ danza e la sua armonia senza costi, non era a portata di mano. Furo­ no dapprima le proteste sindacali a riportare i governi alla dura realtà della lotta di classe, e a far capire che esisteva una conflittualità di fondo che non si poteva del tutto esorcizzare, nemmeno con una ra­ pida crescita economica. Quindi incominciarono a manifestarsi dei gravi squilibri nel sistema monetario internazionale, e il dollaro, inde­ bolito dalle spese per la guerra del Vietnam e dalla forte crescita de­ gli altri paesi industrializzati, non era più in grado di governare l'eco­ nomia mondiale. All'inizio degli anni settanta si assistette alla morte del Gold Exchange Standard, che si era instaurato con gli accordi di Bretton Woods: morte che fu decretata prima dalla svalutazione del dollaro e poi dalla dichiarazione della sua inconvertibilità. Ma anche sul fronte delle materie prime la situazione diventò in­ candescente. La crescente consapevolezza dell'esauribilità delle risorse

I . TEORIE MACROECONOMICHE

e il graduale aumento d'autonomia dei paesi produttori portarono a inevitabili aumenti di prezzo che alterarono sensibilmente le ragioni di scambio, particolarmente quelle del petrolio. In questo caso l'esi­ stenza di pochi produttori favorì la costituzione di un potente (ma non onnipotente) cartello internazionale che nel I 9 7 3 fece lievitare di quattro volte in un colpo solo il prezzo del petrolio, riuscendo a mantenerlo elevato, pur con fasi alterne, anche successivamente. Molti furono i paesi che si ritrovarono improvvisamente con im­ ponenti disavanzi nelle bilance dei pagamenti e che dovettero ricorre­ re a prestiti internazionali e a misure restrittive interne per arrivare a un riequilibrio. Fu così che da un lato si originò il crescente indebita­ mento estero di diversi paesi, specie quelli in via di sviluppo, e dal­ l'altro si scatenarono processi inflattivi e restrizioni della domanda. Il tasso di crescita dell'economia mondiale subì un drastico rallentamen­ to. Gli organismi di coordinamento internazionale si rivelarono inca­ paci di far fronte ai nuovi problemi. Nonostante l'esistenza di vaste reti internazionali di prestatori di ultima istanza, non si poterono evitare fallimenti bancari, per fortuna circoscritti, ed episodi anche assai seri di crisi borsistiche. I quali tut­ tavia non riuscirono ad innescare gli effetti a valanga visti in altri casi precedenti, soprattutto in virtù di una maggiore rapidità di intervento delle banche centrali e dei governi. Si cercò di rafforzare il coordina­ mento e il monitoraggio dell'economia internazionale attraverso la creazione del Sistema monetario europeo e delle conferenze dei "sette grandi" paesi industrializzati, mentre sui fronti interni si andavano sperimentando nuove forme di relazioni industriali. In generale, tuttavia, per tutti gli anni settanta e ottanta hanno predominato scenari internazionali caratterizzati da forti fattori di in­ certezza e di instabilità; e ciò ha reso difficile la coordinazione e la programmazione delle politiche economiche dei governi, oltre che la formulazione di coerenti piani di sviluppo a lungo termine delle gran­ di imprese. Queste ultime sono state costrette a trovare nuovi moduli organizzativi per rendere più flessibili i loro flussi di produzione e meglio adattarsi ai consumi più ricercati dei loro clienti; il che ha portato alla costruzione di reti di imprese collegate il cui funziona­ mento è assai più complesso di quanto non si era mai conosciuto in passato. Infine, le crescenti preoccupazioni per gli effetti di inquinamento del generalizzarsi e massificarsi della produzione industriale hanno aggiunto nuove sollecitazioni a un ripensamento del modello di svi­ luppo prevalso negli anni cinquanta e sessanta.

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO 1.2 La sintesi neoclassica

1 .2 . 1 . Generalizzazioni: ancora il modello IS-LM

Nel CAP. 8 del primo volume abbiamo mostrato come i tentativi di "normalizzazione" dell'eresia keynesiana fossero cominciati immedia­ tamente dopo la pubblicazione della Teoria generale. La prontezza della risposta neoclassica è impressionante se si pensa che il paper di Hicks, Mr. Keynes and the Classics, uscito nel 1 9 3 7 , era stato già pre­ sentato a una riunione della "Econometrie Society" del 1 9 3 6 . I tenta­ tivi di riassorbimento e di generalizzazione ripresero immediatamente dopo la guerra e occuparono gli economisti per una ventina d'anni, dando origine a quell'approccio teorico ai problemi macroeconomici che divenne noto col nome di "sintesi neoclassica" e che costituì il nocciolo duro dell'ortodossia economica del secondo dopoguerra. Molti definiscono tale approccio "neokeynesiano"; ma impropriamen­ te, a meno che non si voglia intendere il termine come una contrazio­ ne di "neoclassico-keynesiano"; l'etichetta usata dalla Robinson, «key­ nesiano bastardo», è forse un po' forte, ma esprime bene il concetto. Qui comunque, per evitare malintesi, ci atterremo, per lo più, alla denominazione che ci sembra più corretta: "sintesi neoclassica". Gli economisti che hanno contribuito alla costruzione di questo sistema teorico sono stati molti, ma non possiamo che !imitarci a menzionare i più importanti: William Baumol, James Duesenberry, Lawrence R. Klein, Franco Modigliani, James Edward Meade, Don Patinkin, Paul Anthony Samuelson, Robert Solow, James Tobin. E per dare un'idea del lavoro svolto cominceremo col commentare due opere fondamen­ tali: un articolo di Modigliani, che aprì le danze, Liquidity Pre/erence an d the Theory o/ Interest an d Money ( r 944) , e un libro di Patinkin, che praticamente le chiuse, Money, Interest and Prices ( r 95 6) , special­ mente la seconda edizione, del 1 9 65 , ampiamente modificata. Modigliani, in quell'articolo, riprese e sviluppò il modello IS-LM di Hicks, proponendosi di «formulare eventualmente, una teoria più generale» di quella di Keynes. Costruì innanzitutto un modello "clas­ sico generalizzato" riprendendo le equazioni di Hicks e limitandosi a sostituire all'ipotesi di salario monetario fisso quella di salario flessibi­ le. Ottenne così, come casi particolari, il modello (neo)classico tradi­ zionale e quello "keynesiano". Il primo differirebbe dal "generalizza­ to" per avere l'equazione quantitativa di Cambridge al posto dell'e­ quazione della preferenza per la liquidità. Il secondo vi differirebbe per l'ipotesi di salari monetari rigidi. Modigliani mostrò che il mor6

I . TEORIE MACROECONOMICHE

dello (neo)classico esibiva la consueta dicotomia tra l'economia reale e quella monetaria. I salari flessibili assicurano il raggiungimento di un equilibrio di piena occupazione, in corrispondenza del quale tutte le variabili reali dipendono da fattori reali. La neutralità della moneta assicura che variazioni della quantità in circolazione influenzano solo il livello dei prezzi e le altre variabili monetarie. Accantonato come caso molto speciale quello della trappola della liquidità, Modigliani mostrò poi come, data l'offerta di moneta, l'equilibrio macroeconomi­ co potesse essere raggiunto nel modello keynesiano in corrispondenza di qualsiasi livello dell'occupazione, e quindi che nulla garantirebbe la piena occupazione. Responsabile di questo risultato, dimostrò Mo­ digliani, è l'ipotesi di salari monetari rigidi. La ragione è molto sem­ plice: con un'offerta di moneta data, il vincolo sul salario monetario risulta essere, di fatto, un vincolo su quello reale. Le condizioni mo­ netarie determinano il reddito monetario. Quello reale varierà in modo da eguagliare la produttività marginale del lavoro al salario rea­ le, ed esisterà un diverso livello dell'occupazione per ogni diverso li­ vello del salario. Negli anni successivi alla pubblicazione dell'articolo di Modigliani l'attenzione fu rivolta alla spiegazione del modo in cui la flessibilità del salario e dei prezzi riesce a neutralizzare Keynes. Sembrava ad alcuni che esistessero almeno due casi particolarissimi nei quali nean­ che la flessibilità dei salari fosse in grado di avere ragione delle tesi di Keynes. Uno è quello della trappola della liquidità, cui si è già accen­ nato nel CAP. 7 del primo volume, l'altro è quello della insensibilità degli investimenti al saggio d'interesse. Se si fa l'ipotesi che, non solo i risparmi, ma anche gli investimenti sono indipendenti dal saggio d'interesse, succede che la curva IS assume una posizione verticale, cosicché nessuna politica di espansione monetaria sembrerebbe in grado di influenzare il livello d'occupazione. Ebbene si dimostra che anche in questi casi è necessario assumere rigidità dei prezzi o dei salari per ottenere le conclusioni di Keynes. Un ruolo cruciale in questa dimostrazione fu svolto dai cosiddetti "effetti ricchezza". Se ne distinguono due tipi: !' "effetto Pigou", o "effetto delle scorte liquide reali", e l' "effetto Keynes", o " wind/all e//ect" . Vediamo innanzitutto in cosa consiste l'effetto Pigou. Ponia­ mo che esista disoccupazione. Se i salari monetari sono flessibili, di­ minuiranno; e dietro a essi diminuiranno i prezzi. Data l'offerta di moneta, le scorte liquide degli agenti economici aumenteranno in ter­ mini reali. Allora gli agenti ridurranno la domanda di moneta nel ten­ tativo di ricostituire le scorte liquide desiderate. Ciò farà spostare verso destra la curva LM. Una riduzione dei prezzi corrisponde a un

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

aumento dell'offerta di moneta in termini reali, e si verifica automati­ camente quando esiste disoccupazione. Un secondo effetto dell'au­ mento delle scorte liquide reali è di far sentire più ricchi gli agenti economici. I quali, di conseguenza, aumenteranno la loro domanda di beni di consumo. Ciò farà spostare verso destra la curva IS e spingerà l'economia verso la piena occupazione. Inoltre l'aumento dell'offerta di moneta in termini reali farà diminuire il saggio d'interesse e au­ mentare il valore delle attività finanziarie. I consumatori, sentendosi più ricchi, potranno ridurre la propensione al risparmio e ciò, mentre fa spostare ulteriormente verso destra la IS, facendo aumentare il moltiplicatore, ne fa anche diminuire l'inclinazione. I risparmi diven­ tano sensibili alle variazioni dell'interesse e la IS, se prima era vertica­ le, ora diventa inclinata negativamente. Infine, l'aumento della ricchezza finanziaria degli imprenditori, che consegue alla diminuzione del saggio d'interesse, li induce a spendere di più anche nell'attività d'investimento. Questo è l'effetto Keynes, il quale implica che aumenta la sensibilità degli investimenti alle variazioni del saggio d'interesse e diminuisce ancora di più l'in­ clinazione dell'JS. Per di più, se i guadagni straordinari causati dalla riduzione dell'interesse alimentano l'ottimismo degli imprenditori, la IS subirà un ulteriore spostamento verso destra. In conclusione, non esistono LM orizzontali o IS verticali che tengano: se i prezzi e i salari sono flessibili, l'economia possiede le forze per portarsi sempre auto­ maticamente verso la piena occupazione. L'equilibrio di sottoccupa­ zione keynesiano non è più ammissibile neanche come caso partico­ larissimo. La sistemazione di questi risultati entro un modello di equilibrio economico generale fu opera di Patinkin, il quale, nel libro sopra citato, giunse a estendere la portata del modello neoclassico genera­ lizzato di Hicks e Modigliani. L'estensione consistette da una parte nell'introduzione di un quarto mercato, oltre quelli del "prodotto na­ zionale", della moneta e del lavoro, cioè il mercato delle attività finanziarie; dall'altra nell'introduzione di una nuova variabile nelle funzioni di domanda e d'offerta di tutti e quattro i beni, cioè il livello dei prezzi. Tale variabile entra nella funzione di domanda e d'offerta del lavoro insieme al salario monetario, in modo che conti solo quello reale, così da eliminare ogni possibile "illusione monetaria", e nelle funzioni di domanda delle merci, della moneta e dei titoli, oltre che in quella d'offerta dei titoli, in quanto deflattore delle scorte liquide, in modo che conti solo il loro livello reale. Non c'è da meravigliarsi perciò se in questo modello viene riaffermata la neutralità della mo­ neta e la consueta dicotomia neoclassica. Il bello della teoria di r8

I . TEORIE MACROECONOMICHE

Patinkin sta nella precisa individuazione delle ipotesi da cui dipendo­ no le sue conclusioni. Le due ipotesi principali riguardano l'assenza d'illusione monetaria e la perfetta flessibilità dei prezzi su tutti i mer­ cati. Non sembra esserci speranza per Keynes: se interpretato nel­ l'ambito di un modello di equilibrio economico generale, la sua teoria generale si dissolve nel nulla. Insieme al lavoro di generalizzazione di cui si è detto sopra gli economisti della sintesi neoclassica portarono avanti una serie di ri­ cerche su aspetti specifici della teoria keynesiana con lo scopo di cor­ reggere certi suoi difetti particolari, di affinare alcune tesi specifiche, di farle quadrare con i risultati della ricerca empirica. Da tali indagini presero origine dei dibattiti che portarono a scartare o a emendare certe particolarità della teoria di Keynes in modo tale che questa infi­ ne ne uscì irriconoscibile. Ci soffermeremo qui su quattro dei più im­ portanti problemi macroeconomici affrontati negli anni cinquanta e sessanta: quello della funzione del consumo, quello della funzione della domanda di moneta, quello della teoria dell'inflazione e quello della crescita. r

.2 .2 . Affinamenti: la funzione del consumo

La funzione del consumo svolgeva un ruolo fondamentale nella teoria di Keynes in quanto consentiva di individuare una relazione semplice tra consumi e reddito dalla quale si poteva ottenere una misura della propensione marginale al consumo e del moltiplicatore. È importante che tale funzione sia stabile; stabile nel senso che i suoi parametri non varino in misura rilevante quando cambiano le grandezze delle variabili. Solo se il moltiplicatore è stabile è legittimo il procedimento keynesiano di determinare le variazioni del reddito e dell'occupazione con quelle della spesa autonoma. La funzione del consumo keynesia­ na nella forma più semplice è: C = Co

+

cY

dove Co è una costante, C rappresenta i consumi e Y il reddito di­ sponibile (cioè il reddito guadagnato al netto delle tasse). In questa funzione la propensione media al consumo, CIY, è più alta di quella marginale, c. Va da sé che tale funzione non può essere valida nel lungo periodo, né può essere applicata a un arco temporale molto lungo, poiché in tal caso comporterebbe risparmi aggregati negativi in corrispondenza di livelli del reddito bassi.

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

Come mostrò Simon Kuznets, nel lungo periodo vale un'altra fun­ zione, una del tipo: C = bY nella quale la propensione marginale al consumo, b, coincide con quella media ed è più alta di quella misurata da c. Questo tipo di funzione, adattandosi bene a serie storiche molto lunghe, divenne presto nota come funzione del consumo di lungo periodo. L'altra funzione, che invece si adatta meglio ai dati cross section sui bilanci familiari, fu interpretata come una funzione di breve periodo. Una spiegazione semplice e ragionevole della differenza esistente tra funzioni del consumo di breve e di lungo periodo fu offerta dall'i­ potesi del reddito relativo, che fu proposta da Dorothy Brady e Rose Friedman e poi ripresa da Duesenberry. Secondo questa ipotesi il consumo delle famiglie è funzione, oltre che dei livelli del reddito as­ soluti, anche di quelli relativi. Le famiglie povere hanno una propen­ sione media al consumo più alta delle famiglie ricche, cosicché i dati cross section esibiscono una propensione media decrescente. Quando il reddito nazionale aumenta, senza che varino le relatività, aumenta­ no nella stessa proporzione i consumi di tutte le famiglie in modo che restino costanti anche le relatività nel consumo. In tal modo la media nazionale delle propensioni (familiari) medie può restare co­ stante nel corso del tempo. In altri termini al variare del reddito na­ zionale le funzioni del consumo di breve periodo slitterebbero verso l'alto lungo una funzione di lungo periodo. Questa spiegazione, a di­ spetto della sua ragionevolezza, non ebbe molto successo; forse per­ ché, troppo fedele allo spirito keynesiano, essa non attribuiva un gran peso all'esigenza di trovare una fondazione microeconomica basata sull'assunzione di comportamento massimizzante dei consumatori, o forse perché gli economisti neoclassici amano le riduzioni sociologi­ che meno di quelle psicologiche, o forse per entrambe le ragioni. Più successo ebbe il suggerimento, avanzato da Tobin, di dar conto degli slittamenti verso l'alto della funzione di breve periodo in­ cludendo la ricchezza tra i suoi argomenti. Il suggerimento fu accolto da Modigliani e Brumberg, i quali, nell'articolo Utility Analysis an d the Consumption Function: An Interpretation o/ Cross Section Data, proposero la cosiddetta teoria del "ciclo vitale". Teoria che subì varie modifiche e affinamenti nel corso dei successivi dibattiti, ma pochi cambiamenti sostanziali. Può essere esposta sinteticamente nel se­ guente modo. In presenza di una funzione di utilità additiva e con utilità marginale decrescente, i consumatori cercheranno di distribui20

I . TEORIE MACROECONOMICHE

re il consumo in maniera uniforme nel corso della propria vita, così da non dover consumare troppo quando guadagnano molto e troppo poco quando guadagnano poco. Perciò durante gli anni in cui lavora­ no risparmieranno in modo da accumulare una ricchezza da consu­ mare da vecchi, quando avranno cessato di produrre reddito. La fun­ zione del consumo verrebbe ad avere due argomenti: la ricchezza W, e il reddito atteso di lungo periodo, Ya, cioè quello che l'individuo presume di guadagnare in media, annualmente, nel corso dell'intera vita. La funzione avrebbe la forma: C = aW

+

cYa

Il problema di Kuznets è risolto se si assumono costanti il rapporto tra ricchezza e reddito disponibile e quello tra reddito vitale e reddi­ to di disponibile. Allora la propensione media al consumo CIY = aWIY + cYa!Y sarebbe costante. Questo accadrebbe però solo nel lungo periodo, in cui sembrerebbe legittimo assumere la costanza del rapporto ricchezza-reddito. Nel breve periodo invece tale rapporto oscillerebbe considerevolmente e con esso oscillerebbe la propensione media al consumo. Non molto dissimile da questa è la teoria del "reddito permanen­ te, formulata da Milton Friedman in A Th eory o/ th e Consumption Function . Il reddito permanente è definito come il valore attuale della ricchezza futura. Siccome questa non è nota, la valutazione del reddi­ to permanente dipende dalle aspettative del consumatore. Assumendo aspettative adattive, il reddito permanente, YP, può essere calcolato come una media ponderata dei redditi percepiti negli anni passati; in pratica come una media dei redditi correnti guadagnati in due anni consecutivi nel passato recente, Y e Y_1 :

con o < a < 1 . La funzione del consumo di lungo periodo dipende­ rà dal reddito permanente, e avrà la forma: C - bYp Nel breve periodo però il reddito corrente divergerà da quello per­ manente per una componente transitoria casuale. Se è inferiore a esso, la propensione media al consumo di breve periodo sarà maggio­ re di quella di lungo; e viceversa. Perciò la propensione marginale sarà inferiore a quella media; il che si spiegherebbe col fatto che gli 21

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

individui non sanno se le variazioni osservate dei redditi correnti sa­ ranno mantenute nel tempo o se sono solo transitorie. Così, regre­ dendo i consumi sui redditi correnti si otterrà una funzione della forma: C = Co

+

cY

la stessa della semplice funzione del consumo keynesiana. Ma Fried­ man l'ha derivata da una teoria che la spiega come una funzione alta­ mente instabile. I parametri potranno variare in misura rilevante al variare del reddito corrente, visto che questo incorpora una forte componente casuale e transitoria. Vedremo più avanti quale impor­ tante ruolo verrà assegnato da Friedman, nella disputa contro la teo­ ria keynesiana, all'instabilità della funzione del consumo. r

.2 . 3 . Correzioni: moneta e inflazione

Un altro campo in cui i teorici della sintesi neoclassica sono andati oltre Keynes è quello della teoria della domanda di moneta. Nel mo­ dello di Keynes gli speculatori svolgevano un ruolo fondamentale. Essi speculano sui cambiamenti del valore delle attività finanziarie formandosi delle aspettative definite su un arco temporale molto bre­ ve e senza alcun riguardo per i fattori "fondamentali" che dovrebbe­ ro governare i prezzi delle azioni. Tali aspettative assumono la forma di previsioni su aspettative altrui e in certe occasioni, quando i mer­ cati sono dominati da fenomeni di psicologia di massa, diventano ca­ paci di autorealizzarsi creando instabilità e catastrofici crolli. Se la do­ manda di moneta è dominata, o comunque influenzata in misura rile­ vante, dalla speculazione di questo tipo, essa può andare incontro a drastici cambiamenti e a repentini salti in seguito a variazioni delle opinioni degli speculatori. Ma le opinioni degli speculatori possono variare in maniera imprevedibile, anche in relazione alle variazioni del saggio d'interesse. Perciò la funzione di domanda di moneta in Key­ nes è molto instabile e non è in grado di fornire un affidabile suppor­ to alla politica monetaria. Keynes infatti era piuttosto scettico riguar­ do non solo all'efficacia, ma anche alla possibilità d'attuazione di una politica monetaria discrezionale. La revisione neoclassica della teoria della domanda di moneta keynesiana è stata mossa da tre obiettivi principali: a) espungere dal corpo della teoria la speculazione destabilizzante; b) trovare delle fondazioni microeconomiche capaci di ricondurre la 22

I . TEORIE MACROECONOMICHE

domanda aggregata di moneta a una qualche forma di comportamen­ to massimizzante degli individui; c) costruire una funzione stabile della domanda di moneta. Un tentativo di dar conto dell'esistenza di una stabile relazione decrescente tra domanda di moneta per scopi transattivi e saggio d'interesse fu fatto da Baumol nel 1 95 2 . Applicando alla domanda di moneta la teoria della gestione delle scorte, Baumol dimostrò che la domanda per scopi transattivi dipende, oltre che dal volume delle transazioni, anche dai costi che si devono sostenere per convertire ti­ toli (a breve) in moneta e, soprattutto, dal saggio d'interesse. Ciò ac­ cade perché le scorte di liquidità detenute dalle imprese per il nor­ male svolgimento degli affari rappresentano un costo in termini dei rendimenti a cui si rinuncia per non aver investito la ricchezza in atti­ vità meno liquide. Quando aumenta il saggio d'interesse aumenta questo costo-opportunità e, a parità di altre condizioni, le imprese sono indotte a ridurre i bilanci di cassa. La domanda di moneta per scopi transattivi si trova quindi in una relazione decrescente col sag­ gio d'interesse. Tentativi più ambiziosi di fondazione microeconomica della teoria monetaria furono fatti da Hicks e da Tobin. Negli anni cinquanta fu elaborata la teoria delle scelte di portafoglio, per la quale non si pos­ sono non ricordare almeno due lavori di Harry Markowitz, l'articolo Port/olio Selection e il libro Port/olio Selection: Efficient Diversification o/ Investments, e uno di Tobin, Liquidity Pre/erence as Behaviour To­ ward Risk. Tobin affrontò direttamente il problema della domanda di moneta a scopi speculativi e lo risolse riducendolo a un problema di scelta di fronte al rischio. La detenzione di attività non liquide pro­ mette un rendimento, identificabile con la somma dell'interesse e dei guadagni di capitale, che la moneta non può dare. Gli agenti econo­ mici formulerebbero delle aspettative riguardo ai possibili guadagni di capitale e le specificherebbero nella forma di una distribuzione di frequenza. Ammetterebbero la possibilità che si verifichino diversi va­ lori del guadagno atteso e a ognuno di essi assegnerebbero una pro­ babilità soggettiva. Tobin, assumendo per semplicità una distribuzio­ ne di forma normale, prese la media come una misura del valore atte­ so e lo scarto quadratico medio come una misura del rischio. Dato il saggio d'interesse corrente e il guadagno di capitale atteso, il rendi­ mento atteso dell'investimento risulta essere una funzione crescente del rischio. All'aumentare della percentuale di ricchezza investita in titoli, aumenta il rendimento, ma aumenta anche la rischiosità dell'in­ vestimento. L'investitore avrà delle preferenze riguardo al modo in cui combinare rendimento e rischio. Il suo problema si riduce quindi

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

a quello della massimizzazione della soddisfazione; e il modo in cui ripartirà la ricchezza tra moneta e titoli dipenderà dalla sua awersio­ ne al rischio. Per indurre un investitore tipico, che si assume awerso al rischio, ad aumentare la domanda di titoli e quindi a diminuire la domanda di moneta, sarà necessario aumentare il saggio d'interesse sui titoli. Così la domanda di moneta per scopi speculativi risulta es­ sere una stabile funzione descrescente del saggio d'interesse. Dopo la pubblicazione di questo articolo la ricerca continuò so­ prattutto nella direzione di un'estensione alle scelte di portafoglio in presenza di diversi titoli. In un articolo del 1 969, Tobin estese la teo­ ria delle scelte di portafoglio come comportamento verso il rischio al caso generale in cui si debba scegliere tra una vasta gamma di attività finanziarie. Fra tali attività incluse lo stock di capitale reale; inoltre introdusse una nuova variabile, q, che definì come il rapporto tra la valutazione di mercato e il costo di rimpiazzo del capitale di un'im­ presa. Ne emerse la famosa q-th eory dell'accumulazione, secondo la quale al crescere di q cresce la convenienza all'investimento reale. Quando q aumenta, le imprese non avranno difficoltà di finanziamen­ to esterno, che troveranno abbondante e a basso costo; perciò au­ menteranno gli investimenti reali. Quando q diminuisce e la valuta­ zione di borsa diventa inferiore al valore di rimpiazzo del capitale, le imprese che vogliono investire troveranno più conveniente acquistare in borsa altre imprese o partecipazioni in esse, piuttosto che aumen­ tare gli investimenti reali. Così gli investimenti risulteranno essere una funzione crescente di q. È questo q che dovrebbe figurare nel mo­ dello IS-LM piuttosto che un generico "saggio d'interessse". Ma resta il fatto che esso dipenderebbe comunque dalle decisioni delle autori­ tà monetarie riguardo ai livelli e alla struttura dei saggi d'interesse. Resterebbe così esclusa la possibilità che gli investimenti siano insen­ sibili alle politiche monetarie discrezionali. Un altro campo d'indagine in cui la sintesi neoclassica cercò di perfezionare Keynes è quello della teoria dell'inflazione. Su questo tema Keynes aveva formulato una teoria precisa fin dal Treatise. E a tale teoria restò sostanzialmente fedele anche dopo la pubblicazione della Gen era! Th eory; tanto che la ripropose in forma pressoché inva­ riata nel 1 940 in How to Pay /or th e War. L'inflazione per Keynes dipenderebbe dall'eccesso della spesa aggregata rispetto all'output re­ ale. È quindi un problema che diventa rilevante solo in presenza di piena occupazione. In tale situazione un aumento della domanda ef­ fettiva fa aumentare i profitti e innesca un processo inflazionistico cu­ mulativo che, modificando la distribuzione del reddito a favore dei capitalisti, continuerà fino a quando i risparmi non saranno aumentati

I . TEORIE MACROECONOMICHE

al livello necessario per il finanziamento degli investimenti. Un corol­ lario di questa teoria, che però fu sviluppato dai seguaci post-keyne­ siani più che da Keynes stesso, è che in una situazione di disoccupa­ zione l'inflazione non può essere spiegata con le forze della domanda, ma solo con le spinte provenienti dai costi. Questa duplicità teorica, con un'inflazione pura da domanda in piena occupazione e un'inflazione pura da costi in presenza di disoc­ cupazione, sembrò poco elegante e non piacque a molti economisti; e appena emerse un appiglio per abbandonarla, tutti i keynesiani neo­ classici ci si attaccarono. L'appiglio fu offerto da Alban William H. Phillips, il quale, in The Relation between Unemployment an d th e Rate o/ Change o/ Money Wage Rates in th e United Kingdom} I86I-I957 ( r 95 8 ) , presentò i risultati di una ricerca empirica da cui emergeva l'esistenza di una relazione decrescente tra il saggio di cre­ scita dei salari monetari e il saggio di disoccupazione. La spiegazione teorica "ortodossa" della "curva di Phillips" fu fornita da Richard George Lipsey nel r 96o. I salari varierebbero come funzione decre­ scente dell'eccesso di offerta di lavoro. Il saggio di disoccupazione ri­ velerebbe tale eccesso di offerta. In questo modo la curva di Phillips sembrerebbe riconciliata con la teoria ortodossa del salario, salvo il fatto, che successivamente però si rivelerà cruciale, di far dipendere dall'eccesso di offerta non le variazioni del salario reale, ma quelle del salario monetario. r .2 .4. Semplificazioni: crescita e distribuzione

L'ultimo passo che restava da fare per completare la riconduzione di Keynes nell'alveo della teoria neoclassica era di mostrare che il saggio d'interesse, benché influenzato da forze monetarie, resta comunque regolato da forze reali; e che fosse infine possibile ridurlo a essere proprio ciò che Keynes gli aveva negato di essere, cioè il prezzo dei servizi del capitale, owero il prezzo d'equilibrio dei risparmi e degli investimenti. Già Hicks e Modigliani, nei due articoli sul modello IS­ LM sopra citati, avevano tentato di raggiungere tale risultato. Ma quel modello, basato com'era sull'ipotesi di equilibrio temporaneo (con uno stock di capitale dato) si prestava poco allo scopo. Per fare dell'interesse il prezzo d'equilibrio dei servizi del capitale, bisogna poterlo ricondurre alla produttività del capitale e farlo dipendere dal­ le proporzioni d'impiego del fattore capitale. Inoltre bisogna che tali proporzioni, visto che l'equilibrio è una situazione in cui gli individui hanno massimizzato i propri obiettivi, siano in un qualche modo ri­ conducibili alle decisioni di agenti economici ottimizzanti. Lo stock di 25

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

capitale infine non può essere preso come un dato; e il concetto di equilibrio cui si deve fare riferimento è quello di lungo periodo. Que­ sti scopi furono raggiunti, almeno così sembrava a quei tempi, con i modelli neoclassici di crescita. Ignorando la vasta letteratura sull'argomento sviluppatasi negli anni sessanta, ci limiteremo a richiamare qui il primo e più semplice di tali modelli, quello elaborato da Solow in A Contribution to th e Th eory o/ Economie Growth e da Trevor W. Swan in Economie Growth and Capita! Accumulation , entrambi del 1 95 6. Bisogna ricor­ dare però che un anno prima Tobin aveva già disegnato le linee es­ senziali di questo modello in A Dynamic Aggregative Mode!. La riconduzione del saggio d'interesse alla produttività marginale del capitale era solo uno dei piccioni che si volevano prendere con la fava soloviana. Un altro era rappresentato dalla soluzione di un pro­ blema fondamentale della crescita emerso dal modello Harrod-Do­ mar, quello della capacità di un'economia capitalistica di crescere al saggio "naturale", assicurando il mantenimento della piena occupa­ zione. Fu accantonato il problema della stabilità, che i neoclassici ignorarono sin dall'inizio assumendo che l'economia si muove sem­ pre al saggio garantito. Dopo di che quello della crescita naturale venne risolto aggiungendo alle tre equazioni fondamentali del model­ lo Harrod-Domar (cfr. PAR. 7 . 1 . 6 del primo volume) una funzione di produzione aggregata del tipo Y = F(K,L) , con Y che rappresenta il reddito nazionale, K il capitale, L il lavoro. Nel CAP. 3 , quando af­ fronteremo il dibattito sulla teoria del capitale, mostreremo le diffi­ coltà analitiche e teoriche insite negli stessi concetti di funzione di produzione aggregata e di capitale aggregato. Qui le ignoreremo trat­ tando il capitale come se fosse gelatina. Se si assumono rendimenti di scala costanti, la funzione di produ­ zione può essere riscritta come y = /(k), con y = YIL e k = KIL, e disegnata come nella FIG. 1 . Si dimostra che, data la propensione al risparmio della collettività, s, e fatte le opportune ipotesi sulla forma della funzione di produzione, esiste un unico rapporto capitale-pro­ dotto, a''', che assicura l'eguaglianza tra il saggio di crescita garantito e quello naturale, n . In altri termini a''' , il rapporto capitale-prodotto di piena occupazione, viene determinato endogenamente in modo da verificare l'eguaglianza sia·" = n, ovvero Ila''' = n /s. La soluzione del problema di Harrod-Domar veniva raggiunta trattando il rapporto capitale-prodotto come una variabile, invece che come un dato. Il significato economico di tale soluzione risiede nel fatto che, essendo flessibile il rapporto capitale-prodotto, gli impren­ ditori lo sceglieranno con l'obiettivo di massimizzare i profitti. Le tec-

I . TEORIE MACROECONOMICHE FIGURA I

y /(k)

y""' --------------

o

k

niche si modificheranno in risposta alle variazioni dei prezzi dei fatto­ ri produttivi. In qualsiasi momento si dovesse venire a creare una si­ tuazione di disoccupazione, la flessibilità dei salari reali garantirebbe la riduzione del costo del lavoro necessaria per indurre gli imprendi­ tori a modificare le tecniche in modo di aumentare la domanda di lavoro. La dissocupazione non potrebbe essere che temporanea e fri­ zionale. In equilibrio il salario sarebbe uguale alla produttività margi­ nale del lavoro e l'economia dovrebbe crescere in piena occupazione. Allo stesso modo, qualsiasi disturbo monetario che alterasse il saggio d'interesse indurrebbe gli imprenditori a modificare la domanda di capitale in modo da eguagliarne la produttività marginale al costo del finanziamento. Così l'equilibrio sul mercato del capitale sarebbe assi­ curato da un saggio d'interesse che remunera i servizi produttivi del capitale, essendo uguale alla sua produttività marginale. La forza persuasiva di questo modello era legata anche al fatto che con esso si riusciva a dar conto nella maniera più semplice di un fenomeno storico a cui Keynes avrebbe stentato a credere e che il modello Harrod-Domar non riusciva a spiegare: la capacità delle eco­ nomie capitalistiche più avanzate di crescere effettivamente mante­ nendo la piena occupazione, come era accaduto negli anni cinquanta e sessanta. Questo fenomeno non portò gli economisti neokeynesiani a rifiutare esplicitamente Keynes, ma sembrava senz'altro giustificarli nel rifiutarne il pessimismo. Dopo tutto l'economia capitalistica era capace di badare a se stessa, cosicché le politiche economiche di tipo keynesiano non dovevano mirare a curare alcun male incurabile. Tut­ t'al più potevano essere invocate per correggere qualche imperfezio­ ne, ad esempio quando i sindacati si ostinavano a irrigidire il salario.

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In generale però dovevano servire solo a "sintonizzare" la crescita economica, ad attenuarne le eventuali oscillazioni, a mettere a suo agio la "mano invisibile". D'altra parte, essendo politiche di breve pe­ riodo, non si poteva pretendere che facessero di più. Allo stesso modo in cui la teoria keynesiana non intaccava in maniera essenziale l'impianto teorico neoclassico, così le politiche keynesiane non dove­ vano intaccare in maniera essenziale il funzionamento del mercato. 1. 3

La controrivoluzione monetarista I. 3 . I.

Atto primo: money matters

Mentre nel MIT e nelle Università di Yale e di Harvard si veniva co­ struendo la sintesi neoclassica, Milton Friedman, nell'Università di Chicago, stava lavorando alla sua personale ricostruzione del sistema teorico neoclassico. La teoria monetarista, come venne chiamata la ri­ proposizione friedmaniana dell'antica teoria quantitativa della mone­ ta, crebbe parallelamente alla sintesi neoclassica e, apparentemente, in polemica con essa, visto che si presentava come una critica e un su­ peramento dell'economia di Keynes, mentre i neoclassici del MIT si autoproclamavano "neokeynesiani". L'avvio della controrivoluzione monetarista avvenne nel I 95 6, quando Friedman pubblicò Th e Quan­ tity Th eory o/ Money: A Restatement. Questo famoso articolo fu se­ guito da altri importanti contribuiti, successivamente raccolti nel vo­ lume Th e Optimum Quantity o/ Mon ey, del I 969, che contiene i fon­ damenti della teoria monetarista. Friedman sostenne che la teoria quantitativa doveva essere inter­ pretata come una teoria della domanda di moneta e non come una semplice spiegazione del livello dei prezzi. Solo con l'aggiunta di ipo­ tesi specifiche sulle condizioni d'offerta (della moneta e dei beni rea­ li) si sarebbe potuto usare quell'approccio per spiegare il livello dei prezzi. Quindi riformulò la teoria della domanda di moneta tenendo conto dei progressi della ricerca moderna. Dopo vari affinamenti giunse a proporre un modello non dissimile da quello basato sulle scelte di portafoglio; e incluse negli argomenti della funzione di do­ manda di moneta i saggi d'interesse sui titoli e le azioni, il saggio d'inflazione, interpretato come il negativo del saggio di rendimento delle scorte liquide, la ricchezza, e altre variabili strutturali e istitu­ zionali. Nella sostanza questa funzione non contiene nulla di nuovo rispetto a quella usata dai neoclassici keynesiani e può essere facil­ mente manipolata, come si fa quando si usa nella ricerca empirica,

I . TEORIE MACROECONOMICHE

per trasformarla in una funzione della domanda di scorte liquide rea­ li dipendente solo da un saggio d'interesse e dal livello del reddito. Friedman era convinto, come e più dei neoclassici keynesiani, che tale funzione fosse molto stabile. In un articolo del 1 963 , scritto in collaborazione con David Meisel­ man, Friedman ripresentò la tesi della stabilità della funzione di do­ manda di moneta sotto forma di un'ipotesi relativa alla stabilità (e alla grandezza) della velocità di circolazione della moneta, che ribat­ tezzò "moltiplicatore monetario". Accoppiò poi tale ipotesi a un'altra, relativa al moltiplicare del reddito, che sostenne essere più basso e instabile di quello monetario. Giustificò questa ipotesi con la teoria della funzione del consumo basata sul reddito permanente. Poiché i consumi dipendono dal reddito permanente e quindi dai redditi per­ cepiti negli anni passati, oltre che da quello corrente, la propensione al consumo calcolata sul reddito corrente è più bassa di quella calco­ lata sul permanente. Inoltre il reddito corrente contiene sempre una componente transitoria che è casuale e molto variabile. Ne deriva che la propensione al consumo, e quindi il moltiplicatore keynesiano, non solo è bassa, ma cambia in misura notevole in risposta ai cambiamen­ ti annuali del livello del reddito. La conclusione fu semplice: gli im­ pulsi che provengono dalla politica fiscale, che agiscono sull'econo­ mia attraverso il moltiplicatore keynesiano, sono meno efficaci di quelli monetari, che agiscono attraverso il moltiplicatore monetario. Tale conclusione fu poi rafforzata dalla cosiddetta "tesi dello spiaz­ zamento", moderna riformulazione dell'antica Treasury View, contro cui Keynes aveva lottato accanitamente. Data l'offerta di moneta, un aumento della spesa pubblica finanziata con il debito fa alzare il tasso d'interesse e, di conseguenza, "spiazza" gli investimenti privati, cosic­ ché la domanda aggregata non aumenta di molto. Al contrario, data la spesa pubblica, un aumento dell'offerta di moneta fa aumentare il reddito, senza far crescere il saggio d'interesse: money matters. La tesi estrema, riguardo allo spiazzamento, richiede una curva LM verticale, ma, in generale, è sufficiente che la LM sia più inclinata dell'IS per poter concludere che la moneta conta di più delle stimolazioni reali. Friedman però non derivò da questa tesi la conclusione che la politica monetaria discrezionale è consigliabile. Infatti in una monu­ mentale ricerca, condotta in collaborazione con Anna J. Schwartz, A Mon etary History o/ th e United States) r867-196o, credette di aver di­ mostrato che l'influenza dei cambiamenti dell'offerta di moneta è for­ te ma irregolare, essendo lungo e variabile il ritardo intercorrente tra impulso monetario ed effetti reali. Ciò vorrebbe dire che la moneta sarebbe bensì in grado di disturbare l'economia reale; però, a causa 29

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

dell'imprevedibilità dei suoi effetti, nessuno potrebbe usarla come strumento di politica discrezionale. La cosa migliore da fare, per le autorità monetarie, sarebbe quindi di far crescere l'offerta di moneta al ritmo richiesto dalla crescita reale di lungo periodo, lasciando al mercato il compito degli aggiustamenti di breve. 1 .3 . 2 . Atto secondo: you can)t /ool al! th e p eople al! th e time

Un colpo decisivo al neoclassicismo keynesiano fu sferrato, sul finire degli anni sessanta, in due articoli che attaccavano la teoria sottostan­ te alla curva di Phillips: uno di Edmund S. Phelps, del 1 967 , e uno di Friedman, del 1 968. In tali articoli venne fatto notare che, se la curva di Phillips viene interpretata nei termini della legge della do­ manda e dell'offerta, e se gli agenti economici sono ritenuti razionali, allora il saggio di disoccupazione deve essere messo in relazione non alle variazioni del salario monetario, bensì a quelle del salario reale. Il saggio di crescita del salario reale è dato dalla differenza tra il saggio di crescita di quello monetario e il saggio d'inflazione atteso. Date certe aspettative inflazionistiche, le autorità monetarie possono riusci­ re a ridurre la disoccupazione solo se fanno crescere l'offerta di mo­ neta in misura tale da generare un'inflazione maggiore di quella atte­ sa. In tal modo gli imprenditori crederanno a una diminuzione del salario reale e aumenteranno la domanda di lavoro. Il salario moneta­ rio aumenterà e i lavoratori, date le aspettative inflazionistiche, au­ menteranno l'offerta di lavoro. Una semplice "curva di Phillips di breve periodo " Oinearizzata) ha la forma:

dove W è il saggio di crescita dei salari monetari, pe è il saggio d'in­ flazione atteso, u è il saggio di disoccupazione e un il suo livello "na­ turale ", quello che dipende dalle preferenze degli agenti economici e dalla tecnologia. In corrispondenza di date aspettative inflazionistiche, ad esempio, � = o si avrà una curva di Phillips di breve periodo inclinata negativamente come la curva I nella FIG. 2 . Per ottenere una disoccupazione al livello D bisogna che l'offerta di moneta aumenti in modo che i salari (e i prezzi) crescano al saggio Wl . Tuttavia, gli in­ dividui non si lasceranno ingannare a lungo. Quando si accorgeranno che i prezzi sono cresciuti, modificheranno le aspettative verso l'alto, ad esempio a P: > � = o. Ora, se il salario continua a crescere al

I . TEORIE MACROECONOMICHE FIGURA

2

w

II

L

I

o

u

saggio WI ' i lavoratori ridurranno l'offerta di lavoro, cosicché si veri­ ficherà, nella FIG. 2 , uno spostamento orizzontale verso Un- Per man­ tenere la disoccupazione al livello U le autorità dovranno far crescere l'offerta di moneta ancora più di prima, in modo da generare un'in­ flazione effettiva a un saggio � > �. Il che ingannerà di nuovo gli agenti economici e indurrà uno spostamento verso sinistra lungo la curva II (corrispondente alle aspettative i>;_). In conclusione, per continuare a ingannare gli agenti economici le autorità dovranno attivare e mantenere un processo d'inflazione acce­ lerata. Questa è la cosiddetta "ipotesi accelerazionista". In presenza di un qualsiasi saggio d'inflazione costante (e quindi noto agli agenti economici) nessuno si farà ingannare e l'economia si stabilizzerà ver­ so il saggio di disoccupazione naturale, Uw Nel lungo periodo non esiste nessuna relazione decrescente tra disoccupazione e saggio di crescita dei salari monetari, o comunque si tratta di una relazione molto debole. La "curva di Phillips di lungo periodo", in corrispon­ denza della quale il saggio d'inflazione atteso coincide con quello ef­ fettivo, sarebbe pressoché verticale, come la L nella FIG. 2 . La curva di Ph�lips 9i lungo perio?o si ottiene dalla formula pre­ cedente ponendo W = P = pe dove P è il saggio d'inflazione effetti­ vo. Si ottiene:

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

da cui si vede che la curva è verticale, cioè U = Um se f3 = I. In tal caso la politica monetaria è del tutto inefficace come politica di pieno impiego e ha solo effetti inflazionistici. Se però f3 < I, la curva di Phillips di lungo periodo è inclinata, anche se meno di quella di bre­ ve periodo. f3 è il "coefficiente d'aspettativa" , ed esprime la misura in cui il saggio d'inflazione effettivo dipende da quello atteso. Per i neo­ keynesiani f3 dipenderebbe dall'entità dell'illusione monetaria : quanto più questa è forte, tanto più f3 è basso. Le divergenze tra neoclassici keynesiani e neoclassici monetaristi verterebbero, così, sulla grandezza di {3: i primi lo vogliono basso, i secondi lo credono prossimo a I. Le varie tesi avanzate da Friedman in polemica con i neoclassici keynesiani hanno sempre fatto scalpore appena uscite, come fossero delle eresie, e hanno sempre suscitato dibattiti accesi. Il che può sem­ brare strano se si pensa che Friedman ha accettato tutti i fondamenti teorici della sintesi neoclassica, dalla funzione del consumo a quella della domanda di moneta, dalla rilevanza pratica degli effetti ricchezza a quella, teorica, della flessibilità dei prezzi, dall'adesione al modello IS-LM all'ossequio verso la teoria dell'equilibrio economico generale. In realtà Friedman si è semplicemente limitato a trarre le estreme conseguenze logiche dalle premesse della sintesi neoclassica. Gli appa­ renti motivi di dissenso riguardano prevalentemente certe ipotesi sulla grandezza di alcuni parametri economici, come la propensione al con­ sumo, la velocità di circolazione della moneta, il coefficiente d'aspetta­ tiva inflazionistica. Il vero dissenso però ha a che fare con le conse­ guenze, in termini di teoria della politica economica, che si possono trarre dalle grandezze di quei parametri. Così si sarebbe tentati di cre­ dere a Friedman quando diceva che tutte le divergenze potevano ri­ solversi sul piano della ricerca empirica. Peccato però che la ricerca empirica non sia mai riuscita a dirimere divergenze teoriche e politi­ che di questo tipo. Come si spiega allora che verso l'inizio degli anni settanta il mo­ netarismo finalmente sfondò, conquistando un'improvvisa e inattesa egemonia, o quasi? La causa è prevalentemente politica. Da una parte la stagflazione di quegli anni sembrava dar ragione ai monetaristi, che da vari lustri mettevano in guardia dagli effetti inflazionistici delle po­ litiche keynesiane, mentre con l'ipotesi accelerazionista predicavano la necessità di un lungo periodo di stagnazione per ridurre l'inflazione. Dall'altra i monetaristi offrivano una ricetta semplice per risolvere tutti i problemi: bloccare l'espansione monetaria e deflazionare l'eco­ nomia. E ciò piaceva non solo ai politici dalla mente semplice, ma anche ai più avveduti; come quelli che, ad esempio , non credendo alla tesi monetarista secondo cui i sindacati non sono responsabili 32

I . TEORIE MACROECONOMICHE

dell'inflazione, pensavano che le politiche monetariste potessero servi­ re comunque a dar loro una lezione. r.

3 . 3 . Atto terzo: gli allievi superano il maestro

Il trionfo del monetarismo ebbe vita breve. Milton Friedman aveva appena conquistato il campo, dopo quindici anni e più di lotta, che fu subito "spiazzato" dal "neomonetarismo". "Neomonetarismo" è il termine più appropriato per definire quella che molti chiamano, esa­ gerando un po', "nuova macroeconomia classica". Tale scuola di pen­ siero, che si affermò verso la fine degli anni settanta, si riconosceva esplicitamente nel monetarismo, ma se ne differenziava per diversi ri­ guardi, e soprattutto per la maggiore raffinatezza dell'impostazione teorica e metodologica, oltre che per il maggior estremismo, se possi­ bile, in tema di politica economica. I principali esponenti di questa scuola sono Robert E. Lucas jr., Thomas J. Sargent e Neil Wallace. Il monetarismo aveva mostrato la maggior debolezza proprio sui temi in cui sembrava aver sbaragliato il campo. Riconosciuta l'esisten­ za della curva di Phillips di breve periodo aveva di fatto rafforzato la posizione di quei neokeynesiani per i quali la politica economica ser­ viva proprio per sintonizzare l'economia nel breve periodo. Per di più, ammettendo la possibilità dell'esistenza di una curva di Phillips di lungo periodo inclinata negativamente, aveva di fatto riconosciuto che le politiche keynesiane potevano avere effetti anche duraturi, sep­ pur poco drammatici. Sul piano politico quindi non sembrava che le divergenze fossero così grandi. Sul piano teorico però Friedman ave­ va fatto un mezzo passo avanti rispetto alla sintesi neoclassica quando aveva calcato la mano sul ruolo svolto dalle aspettative nel frustrare la politica economica. Come già detto, il modello IS-LM, interpretato come un modello di equilibrio generale temporaneo, fu adottato sia dai neoclassici keynesiani che dai monetaristi. In un modello di equi­ librio temporaneo, se non sono aperti i mercati a termine per tutti i beni disponibili nel futuro, l'unico modo per tener conto dell'in­ fluenza di tali beni sulle transazioni correnti è di introdurre le aspet­ tative riguardo ai loro prezzi. Ed è ciò che aveva fatto Friedman, in­ troducendo le aspettative inflazionistiche. Queste possono essere inte­ se come delle aspettative sul prezzo futuro di quei beni di consumo per i quali non esistono mercati a termine. Friedman però, seguendo Philip Cagan, assumeva "aspettative adattive", un tipo di aspettative formato in un modo piuttosto meccanico, cioè estrapolando dall'e­ sperienza passata. Tale ipotesi non solo non aveva una solida giustifi­ cazione teorica, ma era anche la principale responsabile della possibi33

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

lità che il coefficiente d'aspettativa nella curva di Phillips fosse di­ verso da I ; ovvero della possibilità che gli agenti economici si lascias­ sero ingannare sistematicamente. Infatti le aspettative adattive posso­ no dare origine a errori di previsione sistematici. Lucas superò d'un balzo questa difficoltà adottando l'ipotesi di "aspettative razionali"; ipotesi che era stata formulata già nel I 9 6 I da John Fraser Muth nel famoso articolo Rational Expectations an d th e Th eory o/ Price Movements. La principale lacuna delle aspettative adattive è che sono formulate non gestendo in modo razionale tutta l'informazione disponibile. Ad esempio, poiché il processo di forma­ zione delle aspettative adattive tiene conto solo dell'esperienza passa­ ta, l'agente che lo adotta ignorerà gli annunci e gli effetti futuri delle scelte correnti di politica economica. Per tenere conto di questi e di altri fenomeni rilevanti ai fini delle decisioni, gli agenti dovrebbero ragionare usando la teoria economica. Ebbene le aspettative razionali sono quelle che si formano sulla base dell'acquisizione di tutte le in­ formazioni disponibili e della loro elaborazione mediante il modello economico "corretto". Il modello economico "corretto" è, ovviamen­ te, quello di Lucas. Esso, in quanto "corretto", consente di determi­ nare i "veri" valori di equilibrio delle variabili economiche. Così l'i­ potesi di aspettative razionali si risolve sostanzialmente in quella di "previsione perfetta", con l'unica differenza di tener conto dei di­ sturbi stocastici; una differenza non insignificante, ma non decisiva dal punto di vista teorico. Le aspettative razionali non eliminano ogni possibile errore di previsione, ma ammettono solo errori casuali. Le previsioni basate sulle aspettative razionali sono "vere" solo "in media". I neomonetaristi ripresero da Friedman l'ipotesi del tasso naturale di disoccupazione e la riformularono trasformando la curva di Phil­ lips in una "funzione d'offerta aggregata". A tal fine utilizzarono la cosiddetta "legge di Okun"; una legge che postula l'esistenza di una relazione decrescente tra il saggio di disoccupazione e la differenza tra saggio di crescita del reddito nazionale e il suo trend. Riformu­ larono tale legge in modo da ricavarne l'equazione ( U Un) = g C Y - Yn) . Qui Yn è il saggio di crescita "naturale" del reddito, cioè quello che garantisce la disoccupazione "naturale". Sostituendo que­ sta equazione in quella della curva di Phillips (PAR. r. 3 .2), e ponendo P = W e f3 = I , si ottiene: -

. . I Yn + - (P - pe) fLY

34

-

I . TEORIE MACROECONOMICHE

da cui si vede subito che, se le aspettative sono razionali, sarà P j_Je e il reddito crescerà al saggio naturale. La dissocupazione si stabi­ lizzerà pure al suo saggio naturale. Non esisterebbe alcuna curva di Phillips di breve periodo, mentre quella di lungo periodo sarebbe perfettamente verticale. Ciò vuoi dire che qualsiasi sistematica politica economica espansiva è destinata al fallimento. Sia che le autorità mo­ netarie annuncino le loro decisioni, sia che, pur non annunciandole, le prendano seguendo un modello noto agli agenti economici, questi ultimi ne prevederanno immediatamente gli effetti e non si lasceranno ingannare; così le condanneranno all'inefficacia. Come si spiegherebbero allora le oscillazioni cicliche? Non con le rigidità dei prezzi e le imperfezioni dei mercati, come sostenevano i neoclassici keynesiani. I neomonetaristi assunsero che i prezzi sono in grado di sgomberare i mercati in ogni istante, cioè che sono prezzi d'equilibrio perfettamente flessibili. Non resta quindi che una possi­ bilità. Gli shock casuali non sono prevedibili, così come non lo sono le politiche economiche non sistematiche. Perciò nel breve periodo possono verificarsi delle sorprese, cioè può accadere che P -:;:. i?e. Ma a tal fine è necessario assumere che l'informazione non sia perfetta. Ed è ciò che i neomonetaristi fecero con la cosiddetta "ipotesi delle iso­ le,, che era stata già avanzata da Phelps. Gli agenti economici opera­ no su mercati "locali, separati gli uni dagli altri, come fossero delle isole. Le prime informazioni che acquisiscono sono quelle che riguar­ dano i loro specifici mercati. Se le interpretano come limitate a tali mercati, mentre non lo sono, si lasceranno ingannare, almeno tempo­ raneamente. Ad esempio un'imprevedibile decisione politica con ef­ fetti inflazionistici causerà un aumento generalizzato dei prezzi. Ogni imprenditore osserverà l'aumento del prezzo del proprio prodotto. Se lo interpreterà come un aumento limitato al proprio mercato, crederà trattarsi di un cambiamento dei prezzi relativi invece che di quelli as­ soluti. Così sarà indotto ad aumentare la produzione. Salvo però ren­ dersi conto, quando tutti i prezzi saranno aumentati, di essersi ingan­ nato. Allora riporterà la produzione al livello "naturale,. Dunque la politica economica può essere efficace nel breve periodo, ma solo se è estemporenea, non sistematica, imprevedibile. In quest'ottica, le fluttuazioni economiche sono generate da shock esogeni inattesi e hanno alla loro base l'incompletezza delle informa­ zioni a disposizione degli agenti economici. Una critica che è stata rivolta a tale concezione è che essa sarebbe in grado di dar conto solo di movimenti casuali e di breve respiro nelle variabili economi­ che, non del ciclo degli affari vero e proprio. Nella realtà il ciclo è caratterizzato dal succedersi di fasi più o meno lunghe in cui diverse -

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PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

variabili, produzione, occupazione, salari ecc., subiscono dei "como­ vimenti" piuttosto marcati, cioè si evolvono nel tempo mantenendo tra loro una forte correlazione. Questo è il cosiddetto "problema del­ la persistenza". Per rispondere a tale ordine di critiche Lucas ha avanzato due tipi di risposte. Da una parte ha suggerito che le "isole" in cui operano gli agenti economici potrebbero essere abbastanza lon­ tane tra loro da richiedere un certo lasso di tempo per colmare le carenze informative. Dall'altra ha sostenuto che esistono certi mecca­ nismi economici, come l'acceleratore ad esempio, che tendono a pro­ lungare nel tempo gli effetti degli shock esogeni. Da questa problematica è nata la letteratura sul "ciclo economico reale" che è fiorita negli anni ottanta. Ricorderemo qui solo i due con­ tributi che hanno aperto la strada a questo filone di ricerca, quello di F. Kydland e E. C. Prescott e quello di J. B. Long e C. I. Plosser. Queste teorie conservano, dell'approccio neomonetarista, le due ipote­ si fondamentali: agenti economici con aspettative razionali e mercati in equilibrio in ogni istante. Spostano invece l'attenzione dagli shock mo­ netari a quelli reali, come principali fattori di ciclicità, soprattutto a quelli connessi ai cambiamenti della spesa pubblica e della produttività dei fattori. L'aumento della produttività fa crescere il reddito dei fatto­ ri e, a parità di input, il livello di produzione. L'aumento della spesa pubblica invece fa crescere, da un lato la domanda aggregata e i salari, dall'altro il saggio d'interesse e i risparmi. Nelle fasi di boom si verifica un aumento dell'offerta di lavoro, ma non a causa di un aumento dei salari indotto da un eccesso di domanda. I salari, secondo questa linea di pensiero, coincidono sempre con la produttività marginale del lavo­ ro, mentre domanda e offerta dei servizi di tutti i fattori si eguagliano in ogni istante. La ragione principale del "comovimento" salari-occu­ pazione-produzione andrebbe ricercata nella razionalità del comporta­ mento dei lavoratori. Questi programmano l'offerta del proprio fattore in un arco temporale abbastanza lungo, diciamo uno-due anni. Perciò, essendo in grado di prevedere l'evoluzione futura dei redditi, tende­ ranno a lavorare di più quando i salari sono più alti e di meno quando sono più bassi. È in questo fenomeno di sostituzione intertemporale del tempo libero che andrebbe cercata la ragione principale della per­ sistenza degli effetti degli shock esogeni. I .3 ·4 · Fu vera gloria?

Fin dal suo nascere, e in misura crescente man mano che acquistava audience, la nuova macroeconomia classica è stata sottoposta a un fuoco serrato di critiche. Oggi sono noti a tutti i suoi punti deboli.

I . TEORIE MACROECONOMICHE

Qui di seguito ne elencheremo alcuni, quelli che ci sembrano decisi­ vi. Accenneremo appena alla sua capacità di ricevere continue smen­ tite dalla ricerca empirica, poiché non tutti gli economisti teorici si lasciano facilmente impressionare da un difetto del genere, e molti credono che non sia comunque un difetto irrimediabile, visto che la ricerca empirica è incessante e che non ci sono limiti, o quasi, a ciò che le si può chiedere e a ciò che se ne può ottenere. Più serie invece sono le lacune di carattere teorico. Innanzitutto ci sono problemi con il concetto di razionalità delle aspettative. Nella teoria neomonetarista tale concetto serve essenzial­ mente a ridurre a rischio calcolabile quegli effetti che il futuro impre­ vedibile può causare nel presente e che Keynes definiva in termini di incertezza. I nuovi economisti classici hanno semplicemente negato l'esistenza di questo problema e lo hanno fatto assumendo che i sog­ getti economici siano in grado di considerare nei propri calcoli tutta la gamma di eventi possibili. Un'assunzione veramente difficile da mandar giù. Un'altra lacuna importante riguarda l'ipotesi di stazionarietà del­ l'equilibrio verso cui convergerebbe l'economia composta da agenti economici razionali. Il modello teorico sulla cui base si formano le aspettative razionali deve rappresentare un'economia con una struttu­ ra abbastanza persistente. Solo in tal modo gli individui saranno giu­ stificati nel formarsi le aspettative sulla base di una valutazione delle variabili "fondamentali". Inoltre si deve ipotizzare che esista uno e un solo modello corretto dell'economia studiata. E questa è un'ipotesi molto meno ovvia di quanto si possa credere a prima vista. Se il tipo di equilibrio cui dovrebbe convergere l'economia dipendesse esso stesso dalle aspettative avremmo non uno ma molti equilibri di aspet­ tative razionali, uno per ogni aspettativa capace di autorealizzarsi. Vi potrebbe essere addirittura un continuum di teorie diverse; e di esse possono servirsi gli agenti economici per formulare le proprie previ­ sioni senza che gli eventi che ne conseguono li inducano a mutare opinione. Inoltre i modelli con aspettative razionali vanno incontro a seri problemi di instabilità dinamica. I neomonetaristi, a questo riguardo, non possono più permettersi di comportarsi alla maniera di Fried­ man, semplicemente assumendo che l'economia è sempre regolata da prezzi d'equilibrio e ignorando spavaldamente la dinamica di disequi­ librio con i connessi problemi di stabilità. Ciò perché, oltre ai con­ sueti problemi dinamici che si pongono nel tradizionale modello d'e­ quilibrio walrasiano , altri più specifici se ne aprono quando vengono introdotte le aspettative razionali. Ad esempio le soluzioni di molti 37

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

modelli con aspettative razionali hanno la natura di "punti di sella": esistono, cioè, infiniti sentieri che tendono ad allontanare l'economia dall'equilibrio, e solo uno che tende a farvela convergere. I neomone­ taristi non si sono lasciati spaventare da questa difficoltà e hanno semplicemente proceduto mantenendo che l'economia, qualunque shock dovesse venire a subire, sia in grado di riportarsi sempre e istantaneamente su quell'unico sentiero stabile. Ma non è mai stata data una giustificazione convincente di questo modo di procedere. Un ulteriore problema di stabilità può sorgere quando il processo di formazione delle aspettative viene descritto in termini di apprendi­ mento dagli errori. Se l'equilibrio verso cui l'economia dovrebbe ten­ dere dipendesse esso stesso dalle aspettative, sarebbe possibile che i cambiamenti delle aspettative generati dalla correzione degli errori facciano cambiare gli equilibri in modo esplosivo. Infine accade che l'applicazione dell'ipotesi di aspettative razionali all'analisi dei com­ portamenti speculativi nei mercati finanziari, l'unico contesto reale forse a cui ha senso applicare quell'ipotesi, può dare origine a feno­ meni di autorealizzazione delle attese con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di "bolle di sapone" speculative, crash catastrofici e simili, possibilità che già Keynes aveva intravisto. Alla luce di tutte queste ragioni di perplessità e altre che non ab­ biamo avuto lo spazio per indicare, ci si può domandare quali siano state le ragioni della vasta accoglienza ricevuta dalla nuova macroeco­ nomia classica nell'era di Reagan e della Thatcher. Una risposta è im­ mediata, la più semplice e forse la più vera: fu appunto l'era di Rea­ gan e della Thatcher. I neomonetaristi sono stati capaci di dispiegare una potente artiglieria di accorgimenti retorici, tra i quali è rientrato persino l'appello alla logica. Ma l'efficacia di quell'artiglieria è stata esaltata, sul terreno politico, dal trionfo del neoconservatorismo degli anni settanta e ottanta e, nella professione, dall'opera di preparazione svolta dal vecchio monetarismo di Friedman. La ragione principale del successo del neomonetarismo, però, al­ meno per quanto riguarda gli ambienti più strettamente accademici, va ricercata nel ruolo che esso ha svolto nello sviluppo di una tradi­ zione di grande prestigio, quale era quella della "sintesi neoclassica". Del ciclo aperto da tale tradizione, la nuova macroeconomia classica ha rappresentato l'estremo punto di approdo. Della sintesi neoclassi­ ca i neomonetaristi hanno accettato il riferimento teorico fondamen­ tale, quello relativo all'equilibrio economico generale walrasiano, oltre a una serie di altre convinzioni di non secondaria importanza, come quella per la quale Keynes non avrebbe diritto di cittadinanza in un mondo di prezzi flessibili e individui razionali. Già il primo monetari-

I . TEORIE MACROECONOMICHE

smo aveva sfondato alcune porte, mostrando, da una parte le necessa­ rie implicazioni che l'ipotesi flex-price deve avere in termini di predo­ minio dell'offerta (rispetto alla domanda effettiva) nel determinare le proprietà dell'equilibrio generale, dall'altra il carattere "naturale" di quelle proprietà. I neomonetaristi hanno accettato entrambe queste implicazioni teoriche del vecchio monetarismo. Ciò che hanno ag­ giunto, completando così il ciclo d'allontanamento da Keynes, è stata l'ipotesi di aspettative razionali, l'unica plausibile, effettivamente, in un mondo in cui i soggetti sono perfettamente razionali (nel senso neoclassico) e i mercati perfettamente concorrenziali. Così, partiti dal­ le lontane premesse "keynesiane" della sintesi neoclassica, non si po­ teva giungere che alle logiche estreme conclusioni della nuova ma­ croeconomia classica. E l'unica vera differenza tra padri e figli sem­ bra infine ridursi solo al diverso grado di ingenuità con cui si può credere nel realismo dell'ipotesi /lex-price. Ciò ci porta anche a far notare, a difesa della nuova macroecono­ mia classica, se questa può essere una difesa, che buona parte delle debolezze che la caratterizzano, ad esempio quelle relative al modo di trattare l'incertezza, all'ipotesi di stazionarietà dell'equilibrio, allo stu­ dio delle sue proprietà dinamiche, sono debolezze anche di molti altri modelli neoclassici keynesiani. Cosicché, dopotutto, il fatto che i neo­ monetaristi abbiano contribuito a portarle alla luce potrebbe essere considerato perfino un merito. Non si può non ricordare infine che ci sono due acquisizioni al bagaglio dell'economista teorico contemporaneo delle quali bisogna dar merito ai neomonetaristi. La prima riguarda l'introduzione siste­ matica nella macroeconomia dello studio dei processi di formazione endogena delle aspettative, unitamente a quelli di elaborazione e dif­ fusione delle informazioni, insomma l'introduzione nella scatola degli attrezzi dell'economista di uno strumento teorico importante: l'econo­ mia dell'informazione. La seconda acquisizione è di carattere critico ed è costituita dalla cosiddetta "policy evaluation proposition " . Secon­ do tale proposizione le politiche economiche di tipo keynesiano sono erroneamente basate su modelli econometrici i cui parametri sono as­ sunti stabili. I parametri delle forme strutturali dei modelli in realtà sono derivati da ipotesi sul comportamento e sulle regole decisionali degli agenti economici che sono lungi dal giustificarne la stabilità. In particolare nel definire le funzioni da stimare di solito vengono assun­ te come date le aspettative degli agenti decisionali riguardo alle varia­ bili del modello. Ma se le aspettative sono formate endogenamente, esse cambieranno al variare delle grandezze delle variabili e, soprat­ tutto, al variare delle decisioni di politica economica. Ciò vuoi dire 39

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

che i parametri strutturali non sono stabili, né indipendenti dalle po­ litiche che la loro stabilità dovrebbe giustificare. Il che, non solo to­ glie terreno da sotto i piedi a gran parte delle politiche economiche discrezionali di tipo neokeynesiano, ma, più in generale, toglie fonda­ mento teorico a tutte le ricerche econometriche che non siano in gra­ do di dar conto della formazione endogena delle aspettative. 1.4

Dal disequilibrio all'equilibrio non-walrasiano

I ·4 · I . Le microfondazioni della macroeconomia

Negli anni sessanta era ormai diventato chiaro a tutti, meno che agli autori di manuali, che il modello d'equilibrio walrasiano non era in grado di rendere giustizia a Keynes. Già Patinkin nel I 95 6 , nel libro in cui presentava la summa teorica della sintesi neoclassica, Mon ey, Interest and Prices, aveva suggerito che, non essendoci spazio per Keynes nel modello d'equilibrio economico generale, bisognava stu­ diare le situazioni di disequilibrio per dar conto delle problematiche keynesiane. Questo suggerimento fu accettato da due economisti di formazione ancora neoclassica, i quali, in vari articoli pubblicati nel corso degli anni sessanta, sferrarono un poderoso attacco al modello IS-LM. Il loro proposito era di ricercare nella dinamica di disequili­ brio i fondamenti microeconomici della macroeconomia keynesiana. Gli economisti in questione sono Robert Wayne Clower e Axel Lei­ jonhufvud. Clower propose semplicemente di abbandonare, dell'impostazione teorica walrasiana, l'idea che gli scambi si effettuino in equilibrio. In equilibrio tutte le decisioni degli individui vengono realizzate in modo che siano tra loro compatibili. Perciò le domande "program­ mate" (o "nozionali") coincidono con quelle effettive. Questa coinci­ denza viene meno fuori dell'equilibrio. Se i prezzi non sono tali da sgombrare i mercati, gli individui non riusciranno a vendere o a com­ prare le quantità programmate. Perciò le domande effettive risulte­ ranno vincolate dai redditi monetari effettivamente realizzati. Se que­ sti ultimi non sono tali da consentire l'acquisto delle quantità deside­ rate, i piani di spesa dovranno essere rivisti. D'altra parte tutte le transazioni avvengono in moneta e ciò consente di operare una netta separazione tra le decisioni relative alle merci da domandare e quelle relative alle merci da offrire. Si verifica così una sorta di "dualismo decisionale": invece del tradizionale vincolo di bilancio che, in equili­ brio, pone il valore delle offerte dei servizi uguale a quello delle do-

I . TEORIE MACROECONOMICHE

mande di beni, l'agente economico che opera in disequilibrio deve sottostare a due differenti vincoli. Il primo è un vincolo di spesa e richiede che gli acquisti siano sostenuti da disponibilità monetarie. Il secondo è un vincolo di reddito e pone che l'accumulo di scorte li­ quide sia limitato dalla capacità di realizzare un reddito mediante la vendita di beni e servizi. Così può accadere che i lavoratori che non riescono a vendere tutti i servizi del lavoro che vorrebbero non po­ tranno neanche acquistare tutti i beni di consumo che desidererebbe­ ro. Ma allora le imprese non potranno vendere tutte le merci pro­ dotte. In tal modo un'iniziale carenza di domanda può trasmettersi all'intera economia attraverso un processo moltiplicativo che somiglia a quello concepito da Keynes. Leijonhufvud seguì un'impostazione simile a quella di Clower, in­ sistendo però sull'idea che il processo moltiplicativo è essenzialmente un fenomeno di illiquidità, cioè un processo generato dalle carenze di liquidità (rispetto ai livelli desiderati delle scorte) che si verificano negli scambi fuori dell'equilibrio. Inoltre accentuò il ruolo attribuito alle carenze informative come fattori generatori dei processi molti­ plicativi. Quest'ultimo punto è importante. In Clower non era chiaro se l'abbandono del modello walrasiano implicasse la rinuncia al ban­ ditore o al tatonnement o addirittura alla legge di Walras. Invece Leijonhufvud, ponendo l'accento sulle carenze informative generate da prezzi diversi da quelli che vigono in equilibrio walrasiano, colse la sostanza di questo approccio teorico e aprì la strada ai modelli di equilibrio non-walrasiano elaborati negli anni settanta. E la sostanza è che non al tatonnement si deve rinunciare, ma al banditore. Prima di descrivere questo gruppo di modelli però è opportuno richiamare un altro tipo di modellistica non-walrasiana sviluppata, pure, negli anni sessanta: quella dei "processi di non-tatonnement" . Non se ne dovrebbe parlare qui, poiché non hanno a che vedere con alcun tipo di materia keyn esiana. Ma è utile farlo, se non altro per fornire un terreno di confronto. Nei processi di non-tatonnement in­ fatti succede proprio il contrario di quanto accade nei modelli di equilibrio non-walrasiano, di cui parleremo nel prossimo paragrafo: scompare il tatonnement ma sopravvive il banditore. L'avvio di tale approccio risale a due contributi di Frank Hahn e di Takashi Ne­ gishi. Il modello, che originariamente era stato formulato con riferi­ mento a un'economia di puro scambio, fu poi esteso a un'economia di produzione da Franklin M. Fisher. Qui gli agenti economici sono price-takers; e i prezzi sono fissati da un banditore. Gli scambi però possono essere effettuati anche a prezzi che non sgombrano i mercati. Alcuni agenti perciò potranno

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risultare razionati. Dopo ogni scambio il banditore calcolerà altri prezzi; e sulla base di questi gli agenti prenderanno altre decisioni ed effettueranno altri scambi. L'economia si muove lungo una sequenza di periodi. I dati sulla base dei quali vengono prese le decisioni di un periodo (in particolare le dotazioni individuali di merci) dipendono dagli scambi effettuati nel periodo precedente. Perciò l'equilibrio a cui eventualmente porterà tale processo di evoluzione sequenziale sarà in generale diverso da quello walrasiano. Quest'ultimo infatti di­ pende esclusivamente dai dati iniziali e non è influenzato dal processo attraverso cui si giunge all'equilibrio. 1 . 4 .2 . I modelli d'equilibrio non-walrasiano

Nel modello d'equilibrio economico generale walrasiano gli agenti economici sono price-takers sia in equilibrio che in disequilibrio. An­ che a prezzi di disequilibrio essi continuano a ignorare ogni possibile vincolo quantitativo alle proprie decisioni, visto che effettueranno gli scambi solo quando saranno stati raggiunti i prezzi d'equilibrio. D'al­ tra parte i prezzi sono perfettamente flessibili; non sono fissati da nes­ sun singolo agente economico, ma "gridati" dal banditore, che li de­ termina in funzione degli eccessi di domanda. Così gli agenti potranno usarli "parametricamente", che siano prezzi "giusti" o sbagliati. Solo, continueranno a modificare le proprie decisioni finché non incontre­ ranno quelli giusti, cioè quelli che vigono in equilibrio. Il banditore, da parte sua, continuerà a modificare i prezzi finché non saranno stati eliminati tutti gli eccessi di domanda. Perciò quello walrasiano è un equilibrio, sia nel senso che tutti gli eccessi di domanda sono stati annullati in corrispondenza di un livello d'attività che assicura la piena utilizzazion e delle risorse, sia nel senso che gli agenti economici non hanno stimoli a cambiare le proprie decisioni e quindi che non esi­ stono forze in grado di modificare l'assetto economico raggiunto. Un "equilibrio non-walrasiano" invece è una situazione in cui par­ te delle risorse disponibili resta inutilizzata e tuttavia possono essere assenti stimoli che inducano gli agenti a modificare le proprie decisio­ ni. È un equilibrio solo nel senso che l'economia, una volta raggiunto tale stato, non è spinta ad allontanarsene, owero nel senso che gli individui hanno realizzato in qualche modo i propri piani. Un equili­ brio del genere può essere ottenuto in un contesto teorico in cui non vale qualcuna delle ipotesi fondamentali del modello walrasiano, in particolare quella relativa alla flessibilità dei prezzi. La teoria che ne segue può essere denominata "teoria dell'equilibrio non-walrasiano" o

I . TEORIE MACROECONOMICHE FIGURA

3 p

-1 p
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o a chi risultasse inizialmente svantaggiato e un Ti < o a chi risultasse troppo avvantaggiato. Ma se lo Stato cono­ sce tutto ciò, perché mai chiedere l'intervento del mercato? Non po­ trebbe arrivare direttamente all'allocazione l' della FIG . 8 senza passa­ re per il tramite del meccanismo di mercato, ad esempio mediante una qualche forma di programmazione? La risposta non può che es­ sere affermativa. Il seguente paradosso pare inevitabile. Il secondo teorema fonda­ mentale dell'economia del benessere, mentre viene chiamato in causa allo scopo di dare sostegno alla tesi secondo cui lo Stato deve avva­ lersi del mercato, è valido solo in quelle circostanze nelle quali non c'è alcun bisogno di servirsi del mercato come meccanismo allocativo. Come si può comprendere, si tratta di un paradosso fondamentale che non ammette soluzione. Ma c'è di più. Quali condizioni devono essere soddisfatte affinché il secondo teorema possa essere usato per mostrare che in un' econo­ mia di mercato efficienza ed equità possono stare insieme? Due con­ dizioni fondamentali: che l'equilibrio generale sia unico e stabile. In­ fatti, una volta che l'ente pubblico abbia realizzato la desiderata di­ stribuzione iniziale delle risorse, se l'equilibrio non è unico potrebbe accadere che il mercato, anziché condurre a l', porti a un equilibrio "sbagliato " , addirittura a uno più iniquo di quello che si voleva cor­ reggere, x�'. D'altro canto, se l'equilibrio è instabile, appena si esce dallo stato iniziale, x�', il meccanismo di mercato potrebbe destabi­ lizzare l'economia in modo da non farla arrivare mai ad alcun equili­ brio, cosicché quello desiderato sarebbe irraggiungibile proprio a causa del funzionamento del mercato. 2 . 2 .2 . Il dibattito sui fallimenti del mercato e il teorema di Coase

Tra le tante assunzioni che occorre introdurre per dimostrare i due teoremi fondamentali, ve n'è una cruciale, oltre a quella di esistenza di mercati completi: quella di assenza di effetti esterni. Si tratta cioè di escludere: a) che le scelte di consumo di alcuni soggetti influenzino i livelli di utilità di altri soggetti; 1 05

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b) che le funzioni di produzione di talune imprese siano influenzate dalle decisioni di produzione di altre imprese. Delle esternalità esistono quando, data la definizione dei diritti di proprietà, cioè i diritti e gli obblighi incombenti su chi esercita un' at­ tività economica, il soggetto che danneggia non ha l'obbligo di inden­ nizzare i consumatori o i produttori danneggiati dalle sue attività. La presenza di esternalità segnala un'insufficienza nel meccanismo di mercato, e ciò nel senso che le scelte degli individui sono effettua­ te sulla base di prezzi e di costi che non riflettono il valore effettivo delle risorse utilizzate. Nel caso della fabbrica che emana fumo, il produttore agirà sulla base di un costo della sua attività, il costo pri­ vato, che è inferiore a quello che sopporterebbe se dovesse pagare gli indennizzi per i danni provocati ai vicini, cioè al costo sociale (somma dei costi privati e dei danni sopportati dagli altri) . Il risultato è che egli tenderà a spingere la produzione oltre il livello cui la porterebbe se dovesse tener conto anche delle esternalità, cioè del costo sociale. Di qui l'imperfetto funzionamento del meccanismo di mercato. Si può in definitiva sostenere che i teoremi fondamentali riescono a incorporare soltanto quella categoria di interazioni sociali che può essere assorbita dal meccanismo dei prezzi. Quest'ultimo, in presenza di esternalità, è incapace di informare correttamente i decision-ma­ kers, e ciò fa venire meno il carattere di ottimalità delle allocazioni di equilibrio competitivo. Quanto precede non autorizzerebbe però a concludere che l'esistenza di effetti esterni annulla la funzione del mercato. Una soluzione per correggere le inefficienze procurate dalle ester­ nalità risiede nell'introduzione di appositi correttivi: sostanzialmente, quelle tasse e sussidi di cui aveva già parlato Pigou. Se, nell'esercizio della sua attività di consumo o di produzione, un soggetto danneggia gli altri, dovrà pagare una tassa commisurata al danno che ha provo­ cato; mentre, se awantaggia gli altri, dovrà ricevere un sussidio. La soluzione prospettata da Pigou, e successivamente ripresa e perfezionata da Samuelson negli anni quaranta, valse a calmare le ac­ que agitate da coloro che avanzavano perplessità circa le capacità del mercato di conseguire un'efficiente allocazione delle risorse. La tre­ gua fu tuttavia di breve durata. A partire dagli ultimi anni cinquanta, prese corpo un'altra linea di attacco alla tesi del libero mercato, una linea che partiva dalla constatazione che, per un insieme di ragioni legate al processo stesso della crescita economica, il conflitto tra azio­ ne individuale e soddisfacimento delle stesse preferenze individuali è soggetto a inasprirsi. Ottenere quel che si vuole e fare come si vuole risultano essere due cose incompatibili quando sono presenti massicci r o6

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

fenomeni di interazione sociale. Si pensi al caso dei commons, per pri­ mo messo in luce da Garreth Hardin in The Tragedy o/ Commons. I commons sono quei beni il cui uso è accessibile a molti individui, nessuno dei quali ne è proprietario. Ogni individuo, se è egoista, cer­ cherà di trarre la massima utilità da questi beni ignorando le esigenze degli altri individui. Tutti potrebbero stare meglio se il loro compor­ tamento potesse venire vincolato; ma nessuno, individualmente, ha interesse ad auto-vincolarsi. In tali situazioni, che diventano sempre più frequenti mano a mano che un 'economia evolve, l'azione indivi­ duale non è più un mezzo sicuro per conseguire gli stessi obiettivi individuali. È soprattutto ad Albert Hirschman e ad Amartya Sen che si deve la dimostrazione che questi ultimi possono essere meglio rag­ giunti o mediante l'azione collettiva oppure ancorando l'azione indivi­ duale a un codice morale di comportamento più " ricco , del codice di moralità mercantile cui si riferivano i !iberisti classici; più ricco nel senso che esso, oltre a onestà e fiducia, include la benevolenza. Si considerino ancora i numerosi casi descritti dal celebre dilem­ ma del prigioniero. Sono casi che puntualmente si registrano ogni qualvolta si abbia a che fare con " beni pubblici , , cioè con beni ca­ ratterizzati dall ' assenza di rivalità nel consumo (più soggetti possono simultaneamente beneficiare del bene senza che ciò riduca l'utilità di ciascuno) e dall' inescludibilità dai benefici (qualora il bene è reso di­ sponibile per qualcuno non è possibile o conveniente escludere altri dai benefici che il bene produce) . Ebbene, il risultato, per più versi paradossale, che viene ottenuto è che in presenza di beni pubblici i soggetti razionali sono condotti a scegliere l'alternativa e il corso di azione che non massimizza il loro benessere . Per l a proprietà d i non rivalità nel consumo, i l costo marginale di erogazione dei benefici di un bene pubblico disponibile è nullo, per cui sembra ottimale estenderne la disponibilità all'intera collettività. Questa è chiamata però a finanziarne il costo. Se ogni consumatore deve pagare lo stesso ammontare, allora i consumatori con l'utilità marginale più bassa preferiranno non consumare il bene pubblico, e ciò è subottimale in vista del fatto che il consumo aggiuntivo da parte di un soggetto non aumenta il costo totale. Dunque, la condizione di ottimalità richiede che ogni consumatore paghi un prezzo pari alla sua valutazione marginale; risultato a cui erano giunti già Wicksell e Lindahl. Ma nessun consumatore egoista avrà convenienza a dichiara­ re la sua valutazione se dovrà pagare in funzione di essa. In definitiva ciò che impedisce il raggiungimento di un equilibrio ottimale è il pro­ blema del /ree-rider, ovvero la presenza di consumatori che appro1 07

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

fittano dei consumi collettivi non partecipando adeguatamente al loro finanziamento. Infine, un ulteriore caso di fallimento del mercato, portato alla luce tra i primi da George Akerlof in The Market /or Lemons, è quel­ lo dei mercati con informazione asimmetrica. Una delle condizioni del corretto funzionamento del mercato è un'informazione perfetta sui beni e servizi oggetto di contrattazione. Ora, è un fatto che la conoscenza del compratore è spesso di gran lunga inferiore a quella del venditore. In situazioni del genere, il soggetto in possesso di mag­ giore informazione viene sospinto dal proprio interesse ad assumere comportamenti di mora! hazard (o hidden action) oppure di adverse selection (o hidden in/ormation) . Queste ultime sono quelle situazioni in cui le parti in una transazione hanno informazioni diverse su qual­ che caratteristica del contratto (per esempio, sulla qualità del prodot­ to) e la parte più informata ha interesse a nascondere la sua informa­ zione. Situazioni di azzardo morale sorgono, invece, allorché i possi­ bili effetti del contratto dipendono dalle azioni di almeno un con­ traente e tali azioni non sono perfettamente osserva bili dall'altro con­ traente. Il comportamento è comunque il medesimo: gli agenti hanno l'incentivo a dire il falso, a violare cioè il codice di moralità mercanti­ le che pure è necessario al corretto funzionamento del mercato. Come ha osservato Arrow, l'adesione a un codice kantiano di etica professionale può rimediare a queste forme specifiche di insufficienza del mercato. Il fatto che vi sia bisogno di un comportamentio etico non utilita­ ristico in situazioni in cui mercato e interesse personale produrrebbe­ ro risultati indesiderabili, ha riportato alla ribalta la nozione di bene­ volenza. Il bisogno di norme e di comportamenti etici che integrino e, all'occasione, sostituiscano l'interesse personale appare come uno dei risultati più interessanti della ricerca teorica degli ultimi trent'anni sui fondamenti della dottrina del libero mercato. La diversità dei risultati cui conducono "l'azione benevolente " e l'azione ispirata al familiare criterio di razionalità individualistica non solo obbliga a rivedere quest'ultimo (che razionalità è mai quella che porta a risultati subottimali? ) , ma soprattutto getta seri dubbi sulla possibilità logica di mantenere tra loro separati il giudizio di raziona­ lità, inteso come giudizio circoscritto alla relazione tra scelte e prefe­ renze, e il giudizio morale, inteso come giudizio sulle preferenze stes­ se. Si noti che l'impossibilità di restringere la nozione di razionalità al giudizio di adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini è di natura logica: essa consegue allo scarto che l'interazione sociale determina tra inten-

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2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

zione e risultato dell'azione, alla divergenza cioè tra risultati attesi e risultati effettivi della scelta individuale. Quale il senso ultimo dell'argomento? Quello di indicare che i principi dell'interesse personale e della moralità mercantile risultano insufficienti come strumenti di organizzazione sociale quando sono massicciamente presenti fenomeni di interazione sociale, come è ap­ punto il caso nelle moderne economie ad avanzato grado di indu­ strializzazione. In situazioni del genere, il perseguimento del sel/-inte­ rest se non è sostenuto e, in un certo senso, corretto da istanze etiche più forti di quelle di onestà e fiducia, cessa di assicurare il raggiungi­ mento dell'obiettivo dell'efficienza. Quanto a dire che il meccanismo di mercato, da solo, non assicura più un risultato che è Pareto-atti­ male. Un modo radicalmente alternativo di affrontare il problema delle esternalità, dei beni pubblici e delle asimmetrie informative fu quello suggerito da Ronald H. Coase nel famoso articolo The Problem o/ So­ eia! Cast ( r 96o) . In presenza di informazione completa da parte degli agenti e in assenza di costi di transazione, le conseguenze delle ester­ nalità e dei beni pubblici possono essere corrette per mezzo del mec­ canismo di mercato stesso, senza alcun bisogno di ricorrere all'inter­ vento diretto dello Stato. Coase dimostrò infatti che, se le parti coin­ volte sono in grado di contrattare liberamente gli effetti delle esterna­ lità, si può raggiungere un'allocazione ottimale delle risorse indipen­ dente dalla distribuzione iniziale dei diritti di proprietà e senza inter­ vento alcuno da parte dello Stato. In altri termini, secondo Coase, l'argomento pigoviano ignorava le possibilità di un accordo e quindi di una "transazione " tra le parti. Se è possibile, a costi nulli, un atto di scambio tra il soggetto (o i soggetti) le cui azioni generano esterna­ lità e il soggetto (o i soggetti) sul quale gli effetti esterni ricadono, allora le esternalità possono essere in un certo senso "internalizzate " . S i consideri il caso della fabbrica che emette materiale inquinante e della comunità che ne subisce il danno. La comunità, che detiene il diritto all'aria pulita, può alienare tale diritto vendendo " concessioni " a inquinare. Ogni concessione permette alla fabbrica di produrre un'unità in più di output e l'inquinamento che l'accompagna. La co­ munità seguiterà a vendere concessioni fino a che i benefici marginali così ottenuti eccedono i costi marginali rappresentati dall'aumento di inquinamento. Come si comprende, alla base del teorema di Coase sta l'idea che gli individui possano liberamente contrattare la titolarità dei diritti di proprietà, come se si trattasse di beni qualsiasi. È stato osservato che il teorema di Coase è assai più robusto del primo teorema dell'economia del benessere. Al pari di esso asserisce 1 09

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che, se ogni cosa è negoziabile, compresi i diritti di proprietà, allora risultati efficienti in senso paretiano sono assicurati quale che sia l' as­ setto proprietario sulla base del quale i soggetti operano. Ma, a diffe­ renza di esso, non abbisogna di alcuna ipotesi di convessità, di com­ portamento price-taking, di mercati completi. Ciò che solo esige è l'assenza di qualsiasi barriera alla contrattazione. Tuttavia, poiché il teorema di Coase dipende dall'ipotesi che i soggetti negozino in modo efficiente e senza costi, è owio che esso ha contenuto esplicati­ vo solo nel caso in cui negoziazioni efficienti e non costose siano possibili. La letteratura degli ultimi anni sulla teoria del bargaining, che è associata, fra gli altri, ai nomi di Kenneth Binmore e J ohn F arrell, è valsa a mostrare che i risultati di efficienza promessi dal teorema di Coase reggono solo in casi speciali e poco interessanti, ad esempio nel caso di un numero modesto di agenti e di assenza di costi di tran­ sazione. Col che restano frustrate le speranze degli studiosi della " scuola di Chicago , , per i quali le molteplici situazioni del tipo " di­ ,, lemma del prigioniero rappresenterebbero non un fallimento del mercato ma un "fallimento delle istituzioni , (nel senso che un'appro­ priata allocazione dei diritti di proprietà tra gli individui interessati risolverebbe ogni difficoltà) . Da ultimo vanno considerate le difficoltà che sempre sorgono quando si tratta di attribuire diritti di proprietà agli individui. Chi, fra tutti coloro che se ne servono, dovrebbe vedersi assegnata la pro­ prietà di un bene di uso comune, come un pascolo, un lago ecc. ? Si rammenti che il teorema di Coase dimostra l'irrilevanza dell' allocazio­ ne iniziale dei diritti di proprietà ai fini deltefficienza; ma non certo al fine di raggiungere una qualche distribuzione desiderata. E chi ha stabilito che l'equità distributiva debba essere sacrificata all'efficienza allocativa? 2 .2 . 3 . La teoria delle scelte sociali e il teorema di impossibilità di Arrow

,, Di fronte alla " crisi di identità della nuova economia del benessere, una crisi che, come detto, si manifestò a partire dagli anni cinquanta, si registrò una duplice risposta: da un lato, quella neo-istituzionalista, di cui ci occuperemo più avanti, dall'altro quella della teoria delle scelte sociali, di cui ci occuperemo nel presente paragrafo. Si è soliti fissare la data di nascita di tale teoria al I 9 5 I , anno di cui Kenneth Arrow pubblicò il celebre Social Choice and Individua! Values. Il libro ricevette una subitanea e straordinaria accoglienza, soprattutto a cauI IO

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

sa della diffusa esigenza di raccogliere la sfida lanciata dalle teorie keynesiane. È noto che ciò che qualifica l'intervento pubblico, nella teoria keynesiana, non è tanto la gestione dell'attività economica, quanto piuttosto l'attivazione da parte del settore pubblico di un livello di spesa in grado di stimolare il mercato a produrre di più. In un'ottica del genere, il problema della scelta sociale viene posto decisamente in secondo piano. Il rapporto dello Stato con l'economia non si pone tanto in termini di scelta del modo in cui impiegare le risorse della società, ma in termini di soddisfacimento di tutti gli interessi che l'ampliamento della spesa pubblica rende tra loro compatibili. Tutta­ via, la graduale estensione del settore pubblico nel secondo dopo­ guerra finì con l'aprire un problema nuovo, quello della scelta tra di­ verse alternative di impiego delle risorse. Infatti, al di là di una certa soglia dell'intervento pubblico e di fronte a situazioni di disoccupa­ zione di tipo strutturale o tecnologico, era evidente che il problema della scelta sociale non poteva più essere eluso. Di qui l'interesse per il programma di ricerca arroviano. La moderna teoria delle scelte sociali ha le sue lontane radici nel­ l'Illuminismo. Due distinte fonti ne segnano l'origine: da un lato, l'approccio normativo al problema del benessere economico inaugu­ rato dal lavoro di Bentham ; dall'altro, la teoria delle votazioni e delle decisioni di comitato legata ai nomi di Borda, Condorcet, Rousseau. Diversa è stata tuttavia l'influenza esercitata nel corso del tempo da questi due filoni di pensiero. Fino agli anni venti, l'orizzonte filosofico dell'economia del benes­ sere (non si parla ancora di teoria della scelta sociale) era stato quello dell'utilitarismo classico. Se Ui è la funzione di utilità della persona sull'insieme X degli stati sociali alternativi, allora lo stato x è almeno altrettanto " buono " dello stato y, in simboli xRy, se e solo se m

Ui(x) iL =I



m

L Ui(y) . Chiaramente qui, cardinalità e confronti interi= I

personali delle utilità individuali sono indispensabili . Con la sistema­ zione robbinsiana, come si ricorderà, l'unico terreno sul quale si ri­ teneva lecito fondare i giudizi di benessere sociale era diventato quello delle m - p le di utilità (ordinali) individuali non confrontabili interpersonalmente; col che il tradizionale criterio dell'ordinamento per somma diventava inservibile. In particolare, dato che la funzio­ ne di utilità cardinale dei soggetti era stata rimpiazzata con la loro relazione binaria di preferenza, Rz, la relazione di preferenza sociale R non poteva che farsi derivare dalla m - p la degli ordinamenti indi­ vi duali {Ri} . III

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Ebbene, è in tale contesto di " crisi informazionale " che si è inne­ stato l'apporto dell' altra fonte sopra ricordata. L'economista del be­ nessere, che prima degli anni trenta non aveva mai avuto alcun valido motivo per interessarsi ai lavori di Borda, Condorcet o Lewis Carrol, scoprì nella teoria delle votazioni uno strumento per far fronte alla carenza di informazioni provocata dalla svolta metodologica di quegli anni. È da tale convergenza che nacque la moderna teoria della scelta sociale. I suoi inizi non furono certo esaltanti, se si deve giudicare dal celebre teorema di impossibilità di Arrow del 1 95 r . Peraltro, già pri­ ma dell'esito fallimentare dell'approccio basato sui test di compensa­ zione, Harrod e Bergson, fra i tanti, avevano mostrato scetticismo cir­ ca la possibilità di arrivare a costruire un ordinamento di stati sociali su basi individualistiche senza dover in qualche modo chiamare in causa i confronti interpersonali di benessere. Ciò che il fondamentale saggio di Arrow conseguì su tale fronte fu l'esplicita e rigorosa dimo­ strazione della validità di tale intuizione. Si tratta di questo. Ciascun individuo possiede, per ipotesi, un ben definito ordinamento preferenziale sull'insieme degli stati sociali. In quanto sono espressione dei sistemi di valori dei diversi individui, in generale tali ordinamenti non coincideranno tra loro. Una " funzio­ ne di scelta sociale " è una trasformazione o mappa dall'insieme di tutte le m-ple logicamente possibili degli ordinamenti individuali al­ l'insieme di tutti i possibili ordinamenti di preferenza sociale sui vari stati sociali. In simboli: R = F(Rp R2 , . . . , Rm) . Nel decidere l'ordine degli stati sociali x e y , l'unica informazione ammissibile è che, ponia­ mo, il soggetto i-esimo preferisce x a y e che il soggetto }-esimo pre­ ferisce y a x. In un quadro del genere, Arrow dimostrò che non esiste alcuna funzione di scelta sociale che sia in grado di soddisfare i se­ guenti requisiti minimali di coerenza e di moralità: a) dominio universale (il dominio della funzione di scelta sociale deve includere tutti i profili di ordinamenti individuali logicamente concepibili) ; b ) indipendenza dalle alternative irrilevanti (la scelta sociale d a un dato insieme di alternative non deve essere influenzata dal modo in cui gli individui ordinano le alternative che non rientrano in quel­ l'insieme) ; c) condizione di Pareto (se tutti gli individui preferiscono x a y , x deve essere socialmente preferito a y) ; d) non dittatorialità (non deve esistere un dittatore che riesca invaria­ bilmente ad imporre le proprie preferenze su quelle degli altri) . La difficoltà sta in ciò: che, per almeno qualche configurazione ! !2

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

degli ordinamenti individuali, il tentativo di soddisfare tali requ1s1t1 genera un ordinamento di preferenze sociali che non rispetta la pro­ prietà di transitività, proprio come accade col paradosso della vota­ zione a maggioranza di Condorcet. Siano x, y, z tre alternative sociali tra cui scegliere in base al criterio della maggioranza. Può accadere che nel confronto tra x e y vinca x, tra y e z vinca y e tra x e z vinca z. Non esiste dunque alcuna alternativa in grado di vincere sulle altre. Infatti, x perde contro z che perde contro y che perde contro x. Que­ sto significa che la scelta sociale, in quanto non razionalizzabile da una relazione binaria transitiva su x, non soddisfa il requisito della razionalità. Pertanto, delle due l'una: o si rinuncia ad almeno una delle con­ dizioni imposte da Arrow alla scelta sociale (o quanto meno la si in­ debolisce) ; oppure si muta il quadro di riferimento stesso, così da consentire, ad esempio, l'impiego di una struttura informativa che vada oltre la mera coerenza delle preferenze individuali e la loro ag­ gregazione in una funzione di scelta sociale dipendente unicamente dagli ordinamenti individuali. Il risultato arroviano riveste importanza fondamentale poiché dimostra che proprietà etico-razionali minimali, apparentemente poco restrittive per la democraticità del processo di valutazione sociale, generano risultati sorprendenti se adottate con­ temporaneamente. La vastissima letteratura sulle scelte sociali ha esplorato entrambe le direzioni di studio. È però dalla seconda che sono derivati gli svi­ luppi più interessanti. Decisiva al riguardo è stata l'opera di Amartya K. Sen. 2 . 2 .4. Sen e la critica dell'utilitarismo

L'attacco dell'economista indiano fu rivolto alla "povertà informati­ va " dello schema arroviano. In particolare, due tipi di informazione sul processo della scelta sociale non sono presi in considerazione da quello schema: le informazioni sulle utilità dei singoli e le informazio­ ni extrautilitarie. E ciò in omaggio alla scelta ordinalista fatta da Ar­ row; una scelta da cui discende che ciò che deve contare nelle de ci­ sioni sociali sono unicamente gli ordinamenti preferenziali individuali e non anche, poniamo, i confronti che gli stessi individui possono istituire tra i loro ordinamenti. C 'è tuttavia un altro vincolo, implicito ma non per questo meno restrittivo, sull'insieme delle informazioni ammissibili. La concettualizzazione arroviana implica che nella defini­ zione di R non si possa tener conto delle caratteristiche " oggettive" delle alternative in gioco, ma ci si debba basare solo sul modo in cui I I3

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queste sono ordinate dagli individui. Tale condizione, nota in lettera­ tura come " condizione di neutralità, , non è che un riflesso del "be­ nesserismo, , della tesi cioè secondo cui i livelli di benessere o di utili­ tà manifestati dai singoli sono la sola base legittima per giungere a una valutazione aggregata degli stati sociali. In ottemperanza ai cano­ ni del benesserismo l'insieme di informazioni rilevanti contenute in qualunque stato sociale viene ridotto a un vettore di livelli di utilità, ogni componente del quale è riferito a un individuo. È da questa presa d'atto che Sen sviluppò, a partire dal Collective Choice and Social Wel/are del 1 970, la sua critica all'utilitarismo. Per quale ragione - chiese - nel decidere quale sia il comportamento mo­ ralmente accettabile, ovvero quale debba essere il modo di aggregare le preferenze dei singoli, dovrebbe venire riconosciuta un'autorità ul­ tima al loro giudizio? Certo, il principio di " sovranità del consumato­ re , è una manifestazione di rispetto nei confronti degli individui. Ma, a parte il fatto che perfino utilitaristi come Harsanyi riconoscono la necessità di non prendere in considerazione certe preferenze antiso­ ciali e quindi di censurare le funzioni di utilità espresse da certi membri della collettività, è difficile negare che esistono cose che han­ no valore anche se non sono desiderate (o preferite) da alcuno. Del pari, anche se esistono individui che non hanno la possibilità di ma­ nifestare la loro preferenza nei confronti di certi valori (si pensi a quelli che vivono in un regime oppressivo e che non hanno il co­ raggio di desiderare la libertà) , nulla esime dal dovere di accordare loro ciò che essi non chiedono esplicitamente. Per contro, esistono beni cui gli individui credono di avere diritto e che non pare che la società possa legittimamente accordare loro, ad esempio l'eroina. Sul terreno dei diritti, l'utilitarismo è particolarmente fragile e ciò per tre ragioni specifiche. In primo luogo per la sua visione alquanto ristretta dell'essere umano. Come scrisse Sen in Utilitarianism and beyond, del 1 9 84: «Essenzialmente, l'utilitarismo vede le persone come localizzazioni delle loro rispettive utilità [ . . . ] . Una volta consi­ derata l'utilità della persona, l'utilitarismo non ha alcun ulteriore di­ retto interesse a qualsiasi informazione su di essa» (p. r4) . In secondo luogo perché i diritti, in quanto rappresentano aree di discontinuità, aree cioè in cui un trade-off illimitato tra le alternative in gioco nep­ pure può essere concepito, non possono trovare posto in una struttu­ ra teorica che invece postula la continuità. La terza ragione, infine, ha a che vedere con l'ordinamento-somma. Chiaramente, nel mettere as­ sieme i pezzi di utilità in una somma totale si perdono sia l'identità degli individui sia la loro separatezza, requisiti questi ovviamente ne­ cessari per rendere possibile un'attribuzione di diritti. 1 14

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

In definitiva, qualsiasi tentativo di introdurre i diritti nel calcolo morale deve rompere con l'utilitarismo. Quest'ultimo non può limi­ tarsi ad affermare la tesi dell'individualismo etico, secondo cui tutti e solo gli individui contano, e tutti contano egualmente. Un individuali­ smo etico accettabile implica qualcosa di più che non il rispetto degli individui; implica il rispetto dell'individuo. Ebbene, nella sua esplora­ zione del territorio dei diritti, Sen si imbatté in un risultato di impos­ sibilità formalmente analogo, ma sostanzialmente più imbarazzante di quello di Arrow. Si tratta della celebre tesi dell"'impossibilità del li­ berale paretiano " , presentata in The Impossibility o/ a Paretian Libe­ ra!. La tesi è che non esiste alcuna funzione o regola di scelta sociale che soddisfi, a un tempo, le condizioni di: a) dominio universale; b) libertà minimale (deve esistere almeno una coppia di alternative, appartenenti alla sfera protetta dell'individuo, rispetto alle quali il de­ siderio o la volontà dell'interessato devono considerarsi sovrani) ; c) Pareto. La strategia dimostrativa di Sen può essere chiarita con il seguen­ te esempio. Vi siano due individui: A, che è un tipo molto prude, e B, che è privo di scrupoli morali. Oggetto della scelta sociale è la lettura di un libro considerato libertino (L'amante di Lady Chatterley, nell'esempio originale di Sen). Le alternative in gioco sono: x (A solo legge il libro) ; y (B solo legge il libro) ; z (nessuno dei due legge il libro) . Date le caratteristiche psicologiche dei due soggetti, l'ordina­ mento preferenziale di A sarà: z > x > y, dove il simbolo " > " sta per "preferito a " . Quello di B sarà: x > y > z. Se ora si chiede ad A di scegliere tra z e x, questi opterà per z, mentre, se si chiede a B di scegliere tra z e y, questi opterà per y. In vista della condizione b di cui sopra, risulta che la scelta collettiva dovrà soddisfare il seguente ordinamento: y > z > x. Eppure per entrambi i soggetti x è preferito a y e dunque l'opzione x è Pareto superiore all'opzione y. La scelta col­ lettiva che rispetta la condizione di libertà minimale contraddice la scelta collettiva che rispetta il principio di Pareto. Qual è il senso del teorema di Sen? Si tratta innanzitutto di un risultato che, a differenza di quello arroviano, presuppone la specifi­ cazione di un solo ordinamento di preferenze da parte di ciascun in­ dividuo. Inoltre non è qui richiesta né la transitività né la quasi-tran­ sitività delle preferenze sociali, ma solo la loro " aciclicità" , una condi­ zione assai più debole, per la quale, date n alternative sociali X 1 , X2 , . . . , Xm s e X1 è preferito a X2 , X2 è preferito a x3 , . . . , xn_1 è preferito a xn , allora X1 deve risultare preferito a XnIn terzo luogo, la via d'uscita che chiama in causa un allargaI I5

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mento delle informazioni di utilità risulta qui impraticabile; e c1o per l'ovvia ragione che la concezione libertaria vuole che i diritti vengano presi in considerazione in virtù della natura delle scelte in gioco, cioè del fatto che si tratta di questioni "personali " , e non sulla base dei guadagni netti di utilità a esse connessi. In quarto luogo, l'impossibilità in questione nulla ha a che vedere con l'assen­ za di informazioni extrautilitarie, dal momento che è la condizione di libertà stessa a incorporare tale tipo di informazione. Piuttosto, l'impossibilità del liberale paretiano trova la sua spiegazione ultima non già in una informazione inadeguata, ma nell'uso non congruente delle informazioni disponibili : il principio di Pareto impone di fon­ dare certe classi di decisioni sociali esclusivamente su informazioni di utilità, mentre il principio liberale insiste con l'attribuire un ruo­ lo primario alle informazioni extrautilitarie per arrivare a certe altre classi di scelte sociali. Il risultato di impossibilità cattura la tensione tra i due principi. Molteplici sono state le proposte di estensione del lavoro di Sen, così come vari e ingegnosi sono stati i tentativi per scongiurarne l'esi­ to negativo. Ma è evidente che l'interesse delle tesi di Sen non sta tanto nel loro carattere paradossale, quanto nella loro capacità di mo­ strare che l'introduzione della categoria dei diritti nel processo della scelta sociale pone problemi nuovi all'economista; problemi difficil­ mente risolvibili da chi ritiene di non dover tenere conto delle infor­ mazioni sulle motivazioni sottostanti le preferenze individuali e della natura delle alternative sociali in gioco. 2 .2 . 5 . Le teorie economiche della giustizia

Uno dei più interessanti risultati collaterali della teoria delle scelte so­ ciali è stato il cambiamento profondo che essa ha indotto nel modo di concepire il nesso tra problemi di efficienza e problemi di giustizia distributiva. Già Smith nella Theory o/ Mora! Sentiments aveva avvertito che la giustizia è il pilastro principale dell'edificio sociale. «Gli uomini sono guidati da una mano invisibile a realizzare una distribuzione di quan­ to è necessario per vivere praticamente identica a quella che si sa­ rebbe avuta se la terra fosse stata divisa in parti eguali tra i suoi abi­ tanti; così senza averne l'intenzione, senza saperlo, essi promuovono l'interesse della società e forniscono i mezzi necessari per la molti­ plicazione della specie» (parte v, pp. 1 84-5 ) . Ma nel corso degli svi­ luppi successivi, il principio del self-interest finì con il polarizzare l' at­ tenzione degli economisti fino a relegare la categoria di giustizia nel 1 16

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

limbo delle considerazioni etiche, cioè metascientifiche. Come darsi conto allora della vigorosa ripresa di interesse sui temi della giustizia verificatasi dalla seconda metà degli anni sessanta? C'è un nesso con i grandi movimenti emancipatori di quegli anni? Si è detto che l'utilitarismo ebbe, almeno agli inizi, delle forti im­ plicazioni politiche riformiste. Si pensi agli atteggiamenti politici di John Stuart Mill, Marshall, Wicksteed, Pigou . Fu solo in seguito al­ l' affermazione dello statuto ordinalista che esso finì con il diventare un'apologia dello status qua. In particolare fu in conseguenza della diffusione del criterio di efficienza paretiano che si rafforzò il convici­ mento secondo cui giustizia distributiva ed efficienza sono antitetiche. D'altra parte, se oggi tale convincimento non disturba né impensieri­ sce più di tanto, ciò è dovuto al modo in cui il sistema di pensiero keynesiano pone i termini del rapporto tra efficienza e giustizia. In tale sistema, infatti, lo Stato non entra mai in conflitto con il mercato, ma lo aiuta, dal momento che l'intervento pubblico viene simultanea­ mente a perseguire obiettivi di equità e di efficienza. Una situazione di disoccupazione derivante da carenza di domanda effettiva è uno spreco di risorse e perciò è una situazione inefficiente e al tempo stesso iniqua. Su entrambi i punti Keynes fu esplicito. È stato vera­ mente un grosso risultato politico del keynesismo, d'altra parte, quel­ lo di avere mostrato che esistono speciali circostanze storiche in cui lo Stato può agire con successo come mediatore neutrale tra le classi. Un più alto livello di investimenti pubblici in una depressione non solo genera più posti di lavoro per i disoccupati e quindi un più alto monte salari, ma aiuta anche i capitalisti a conseguire un più alto li­ vello di profitti. Però questo ruolo economico dello Stato cessa di valere quando vengono meno le condizioni politiche per il funzionamento del mo­ dello di capitalismo dal volto umano. Allora la politica economica keynesiana entra in crisi, e con essa la filosofia del mercato ammini­ strato. Così non deve stupire se a partire dagli anni sessanta riprese a diffondersi, tra economisti e policy-makers, la tesi del trade-off tra effi­ cienza e giustizia e, di conseguenza, tra istituzioni della cittadinanza sociale e crescita economica. Arthur Okun ha compendiato elegante­ mente il punto di vista !iberista: «Tutti i tentativi per dividere la torta in parti eguali riducono le dimensioni della stessa» (p. 48 ) . L'ineffica­ cia degli interventi in chiave redistributiva venne resa con l'immagine paretiana del secchio bucato: «Il denaro deve essere trasportato dal ricco al povero in un secchio bucato. Parte di esso sparirà semplice­ mente durante il tragitto» (p. 9 1 ) . Alla base della tesi del !rade-o// sta l'idea secondo cui l'obiettivo dell'eguaglianza richiede l'adozione di 1 17

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schemi di tassazione che avrebbero comunque effetti distorsivi sull'al­ locazione delle risorse. Ebbene, negli ultimi tempi si è cominciato a dubitare dell' approc­ cio "giustificazionista " alla razionalità economica, un approccio che per così lungo tempo ha consentito all'economista di lavorare "indi­ sturbato " da preoccupazioni riguardanti l'equa ripartizione delle ri­ sorse e dei redditi. In primo luogo, le difficoltà di varia natura che sono connesse al corretto funzionamento del meccanismo di mercato, e di cui si è detto nel PAR. 2 . 2 .2 , hanno affievolito quelle che pareva­ no solide certezze circa le capacità del mercato di conseguire l'obiet­ tivo dell'efficienza. In secondo luogo, si è andata diffondendo la con­ sapevolezza che le società in cui viviamo sono assetti complessi in cui accade, simultaneamente, di avere eguali diritti ma diseguali opportu­ nità. Siamo al tempo stesso membri del " club della cittadinanza " , in cui ci riconosciamo come eguali (una testa, un voto) , e membri del " club del mercato " , la cui regola fondamentale (un penny, un voto) prevede premi e sanzioni che non obbediscono ad alcun principio di eguaglianza sociale. Le tensioni più familiari sono quelle tra diritti di cittadinanza e diritti di proprietà; fra diritti e opportunità; fra l'avere l'eguale libertà di fare o possedere qualcosa e l'avere differenti capa­ cità di base per fare o possedere qualcosa. Ma democrazia economica e democrazia politica non possono divergere troppo e troppo a lun­ go: i fondamenti stessi del sistema di mercato ne risentirebbero peri­ colosamente. Quanto a dire che il tenere separati obiettivo allocativo e obiettivo redistributivo alla lunga non giova alle ragioni né dell'effi­ cienza né dell'equità, come Anthony Atkinson ha convincentemente mostrato in The Economie Consequences o/ Rolling Back the Wel/are State. L 'interesse crescente sviluppatosi negli ultimi tempi intorno al tema della giustizia ha trovato la sua ragion d'essere nel tentativo di arrivare a definire un quadro di riferimento entro il quale poter trat­ tare, a un tempo, questioni di efficienza e questioni di giustizia, supe­ rando la tradizionale separazione tra i due ambiti di discorso. In vista della rilevanza del progetto, non deve sorprendere che siano state molte le linee di attacco finora proposte. Tuttavia esse si connotano come varianti, più o meno radicali, delle due principali tradizioni di pensiero nel campo della filosofia politica, quella contrattualista e quella utilitarista. La prima, che affonda le sue radici nei contributi di Hobbes, Locke e Rousseau, concepisce lo Stato come il punto di arrivo di un processo di negoziazione fra soggetti interessati, proprio come avviene in un contratto d'affari tra agenti economici. Nella pro­ spettiva utilitarista, invece, lo Stato è un ente che massimizza il be-

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nessere sociale, così come un'impresa massimizza il suo profitto: è dunque una sorta di superagente che risolve i conflitti di interesse tra individui nello stesso modo in cui il singolo individuo risolve i suoi conflitti interiori. Molto chiara, al riguardo, la posizione di Harsanyi ( 1 9 8 5 , p. 1 24 ) : «Per un coerente utilitarista, l'uguaglianza economica e sociale non è un valore morale intrinseco». Nell'ottica contrattuali­ sta, invece, se l'individuo può essere un massimizzatore, non può es­ serlo lo Stato, il quale ha come compito specifico quello di fissare le regole fondamentali (la " costituzione " ) nel rispetto delle quali gli in­ dividui sono legittimati a perseguire i propri fini privati. Nel suo influente contributo del 1 97 1 , A Theory o/ ]ustice, John Rawls riaccese l'interesse sul filone di pensiero contrattualista, sugge­ rendo una procedura alternativa a quella utilitarista per esprimere un giudizio di preferibilità sociale fra stati alternativi. Un assetto distri­ butivo è giusto, per Rawls, quando è equo, quando cioè offre le me­ desime opportunità a tutti i membri della collettività, oppure, se tale eguaglianza di fatto non sussiste, quando le regole del gioco preveda­ no che l'assegnazione delle risorse favorisca i gruppi più svantaggiati. È questo il senso del criterio di scelta sociale denominato maximin: si tratta di massimizzare il benessere dei soggetti che occupano i gradi più bassi della scala sociale. Per arrivare a tale criterio di scelta, i sog­ getti devono divorziare - secondo Rawls - dalla conoscenza dei pro­ pri attributi personali ponendosi dietro "un velo di ignoranza " . Al ri­ paro da tale velo, tutti si trovano in una "posizione originaria" di to­ tale eguaglianza, nel senso che ognuno possiede la medesima informa­ zione circa gli effetti probabili di regole distributive diverse sulla pro­ pria posizione futura. Da questa posizione tutti gli individui pavente­ ranno la possibilità di venire a trovarsi in situazioni di svantaggio e quindi tutti accetteranno la regola del maximin . Così la giustizia viene introdotta in virtù dell'imparzialità del processo di decisione colletti­ va. La teoria di Rawls è tipicamente end-state-oriented, nel senso che presta attenzione allo " stato finale" quando si devono esprimere va­ lutazioni. Un approccio alternativo, legato ai nomi di von Hayek e Nozick, e che affonda le radici nel filone liberale, ha sviluppato una teoria della giustizia procedurale, per cui, cioè, la giustizia è intesa come ri­ spetto delle regole e delle procedure con cui i soggetti acquisiscono le risorse e i diritti. Nella sua illustrazione della " teoria del titolo vali­ do " , avanzata in Anarchy, State an d Utopia, del 1 97 4, Robert N ozick chiarì i due principi di giustizia che caratterizzano la sua proposta teorica: quello di giustizia nell'acquisizione (l'acquisizione iniziale del­ la proprietà deve avvenire nel rispetto delle regole del gioco) ; e quel1 19

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lo di giustizia nel trasferimento (il passaggio della proprietà tra sog­ getti diversi deve awenire sulla base di un titolo valido) . L'approccio process-oriented di Nozick rifiuta dunque il consequenzialismo, questo pilastro dell'edificio utilitarista che impone di tenere conto solo delle conseguenze che un dato corso di azione produce, e arriva così a giu­ stificare lo " stato minimale " . Anche Hayek, in The Constitution o/ Liberty, del 1 960, fu un so­ stenitore della posizione process-oriented: nel giudicare i risultati di istituzioni sociali quali il mercato, ci si deve attenere solo al processo attraverso cui quei risultati sono raggiunti; e il processo è giusto se rispetta le regole su cui concorderebbero individui razionali e autoin­ teressati. Dunque, il processo giustifica il risultato, e non viceversa, come sancisce invece la posizione end-state-oriented. L'altra conclusio­ ne importante dell'impostazione hayekiana è che la nozione stessa di " giustizia sociale " è priva di significato. La giustizia sarebbe piuttosto una virtù, cioè un attributo del comportamento individuale, e non potrebbe quindi essere riferita ad enti collettivi come il mercato o lo Stato. L 'impostazione alla Hayek e alla Nozick si è auto-definita "li­ bertaria" ; ma impropriamente, perché questo termine è tradizional­ mente riferito alle posizioni anarchiche di sinistra. Sarebbe in realtà più corretto parlare di quella di Hayek e di Nozick come di un'impo­ stazione "ultraliberale " . U n modo diverso d i affrontare il problema della giustizia è quello di Sen il quale, in On Economie Inequality e in Commodities and Ca­ pabilities, pose al centro della propria analisi la constatazione che beni fondamentali come quello della libertà non possono di fatto es­ sere goduti al di sotto di certi livelli minimi di benessere. Sen suggerì allora di ancorare l'idea di giustizia alla nozione di capacità fondamen­ tali (basic capabilities) , una nozione che indica le funzioni vitali che un individuo riesce a esercitare con un certo paniere di beni a sua disposizione. Non sarebbe cioè sufficiente prestare attenzione al solo ammontare di beni e servizi a disposizione di un individuo, bisogne­ rebbe anche accertare se questi ha la capacità effettiva di servisene in modo da soddisfare i propri bisogni. La giustizia, in definitiva, è uguaglianza di capacità fondamentali. Risorse e beni hanno valore, se­ condo questa concezione, non tanto perché posseduti da un indivi­ duo, né per l'utilità che gli procurano, quanto perché gli consentono di espandere il suo spazio di libertà. Più recentemente, in La ricchezza della ragione, Sen ha chiarito il nesso tra la sua concezione di giustizia e la sua concezione di libertà. Quest'ultima non è il /ree to choose di cui aveva parlato Milton Fried­ man nel suo influente Capitalism and Freedom, vale a dire la libertà 1 20

2 . TRIONFO E CRISI DELL ' ECONOMIA NEOCLASSICA

come mera autodeterminazione. Piuttosto, si tratta della libertà come autorealizzazione, una distinzione che Sen ha espresso nei termini della differenza tra "libertà di agire " (assenza di costrizioni o di inter­ ferenze dall'esterno) e " libertà di conseguire " (possibilità di affermare l'identità personale) . La visione relativistica della libertà, riducendola a mero permissivismo privato e negandole valenza pubblica, ha favo­ rito, secondo Sen, la grave confusione tra " omissioni del mercato " (ciò che il mercato non fa ma che potrebbe fare) e "malfunzionamen­ ti dello stesso " (ciò che il mercato fa ma fa male). Qui trovano la loro origine quella prassi di politica economica che anziché favorire inter­ venti market-including (quelli che cercano di rimuovere le cause dei vari fallimenti del mercato), realizzano interventi market-excluding (quelli che si sostituiscono al mercato) . A partire d a questi principi, Sen ha sviluppato in Development as Freedom la nozione di " sviluppo come libertà " , di sviluppo cioè come dilatazione delle libertà che sono effettivamente godute dalle persone. Ha così contribuito al superamento di concezioni riduzioniste dello sviluppo, ad esempio di concezioni «come quelle che lo identificano con la crescita del prodotto nazionale lordo o con l'aumento dei red­ diti individuali, o con l'industrializzazione, o con il progresso tecnolo­ gico, o con la modernizzazione della società» (p. r 8) . La teoria eco­ nomica non può limitarsi a studiare i mezzi dello sviluppo economi­ co, deve porsi anche il problema dei fini. Le enormi ricadute a livello pratico di una tale impostazione concettuale hanno riguardato sia il modo in cui si costruiscono gli indicatori dello sviluppo umano, sia la scelta di strategie di intervento nella lotta contro la povertà. 2.3

La controversia sul marginalismo nelle teorie dell'impresa e dei mercati

2 . 3 . r . Critiche alla teoria neoclassica dell'impresa La sistemazione raggiunta dalla teoria neoclassica tradizionale sul tema della natura e degli obiettivi dell'impresa capitalistica poneva non pochi problemi teorici e interpretativi. Intorno a essi si accese la cosiddetta controversia marginalista, che iniziò negli anni quaranta e si protrasse fino a tutti gli anni sessanta. La controversia coinvolse studiosi di orientamenti teorici diversi che non accettavano l'assunto della massimizzazione del profitto come valido punto di partenza per la spiegazione del comportamento d'impresa. La visione neoclassica tradizionale dell'impresa poggia su tre pila-

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stri. Il primo è la teoria della concorrenza perfetta, nucleo attorno al quale si è sviluppata, per differenza, l'analisi delle altre forme di mer­ cato. In tale quadro l'impresa è vista come «un neurone della mano invisibile» (Marris, 1 9 8 9 , p. 4 ) , e i neuroni, com'è noto, non hanno capacità di crescita. Il secondo è la tesi secondo cui il lungo periodo altro non sarebbe che un'aggregazione di tanti brevi periodi, cosicché l'impresa massimizza il profitto di lungo periodo se e solo se riesce a massimizzare il profitto periodo per periodo. Il terzo, infine, è la con­ cezione dell'impresa come " scatola nera tecnologica " che combina in­ put acquistati sul mercato con risorse specifiche dell'impresa per pro­ durre un output che verrà venduto sul mercato. Così il problema dei risultati economici dell'impresa viene risolto in quello della combina­ zione ottima dei fattori, ignorando ogni problema di natura organiz­ zativa e istituzionale. Eppure la struttura interna dell'impresa non è del tutto indipendente dalla struttura del mercato in cui l'impresa si trova a operare. A partire da simili premesse, la teoria tradizionale ha sviluppato un modello di concorrenza perfetta che esclude di fatto ogni seria considerazione delle dinamiche e della vita dell'impresa. E infatti tale modello, mentre ha qualcosa da dire sul sistema dei prezzi, ben poco può dire circa la competizione tra imprese e l'organizzazione interna delle stesse. Ciò che questo modello riproduce in forma stilizzata non è la concorrenza ma la decentralizzazione; tanto che, più che di con­ correnza perfetta, si dovrebbe parlare di decentralizzazione perfetta. I soli parametri che guidano le scelte sono quelli esogeni, i gusti e la tecnologia, e quelli determinati impersonalmente dal "mercato " , i prezzi. E poiché tutti i parametri sono fuori del controllo di qualsiasi agente o istituzione, nessuna autorità centrale potrebbe svolgere in modo efficace un qualche ruolo allocativo. La " competizione " che viene presa in esame dal modello è ridotta ad aggiustamenti di quan­ tità istantanei e senza costo. Nulla che evochi la nozione del " fare meglio di " . Inoltre, le decisioni di massimizzazione sono prese in un contesto in cui la conoscenza delle possibillità di produzione è perfet­ ta e gratuita, mentre i compiti cruciali del management non ricevono alcuna attenzione. È evidente che in un simile quadro teorico non c'è posto per l'impresa in quanto istituzione economica: l'impresa è nulla più che un algoritmo. Infatti la spiegazione del comportamento del­ l'impresa è implicita negli assunti che definiscono l'ambiente in cui opera, proprio come accade con la teoria del consumatore: se que­ st'ultimo è un calcolatore di utilità, l'imprenditore è un calcolatore di profitto. Eppure non è questa l'immagine di impresa che osserviamo nella

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realtà, in cui è presente una grande varietà di dimensioni e strutture amministrative e proprietarie. Già nel I 9 3 2 Adolf Berle e Gardiner Means avevano pubblicato The Modern Corporation and Private Pro­ perty, un libro destinato a diventare il punto di riferimento per tutte le teorie moderne dell'impresa. È qui che venne enunciata e argo­ mentata con rigore la tesi della separazione tra proprietà e controllo: non i proprietari capitalisti ma i dirigenti di professione avrebbero il controllo della grande impresa; può esistere dunque un potere senza proprietà. Poi, nel I 9 3 9 Robert Hall e Charles Hitch pubblicarono un im­ portante articolo dal titolo Price Theory and Business Behaviour. L'ar­ ticolo presentava i risultati di una ricerca, svolta a Oxford e coordi­ nata dagli autori, mirante a indagare il processo decisionale delle im­ prese di fronte a specifiche misure governative. Sulla base di un cam­ pione di 5 8 imprese, l"' Oxford Economie Group , giungeva alla con­ clusione che gli uomini d' affari non cercano di massimizzare i loro profitti alla maniera indicata dalla teoria marginalista. Piuttosto si comporterebbero sulla base di una regola, detta " del costo pieno, , che in generale conduce a risultati diversi d a quelli contemplati dalla teoria tradizionale. Pur muovendosi sul piano della ricerca empirica e pur non pro­ spettando alcun approccio alternativo, le conclusioni di Hall e Hitch rappresentavano una seria critica al marginalismo, anzi la prima seria critica proveniente dal fronte empirico. Gli articoli di Sraffa del I 925 e del I 92 6 avevano costituito, d'altro canto, il primo grosso attacco dal fronte teorico. Nel I 93 9 , poi, Paul M. Sweezy pubblicava l'artico­ lo Demand under Conditions o/ Oligopoly, nel quale, riprendendo i risultati ottenuti da Richard Kahn in The Problem o/ Duopoly, elabo­ rava il celebre modello della curva di domanda a gomito per spiegare perché il prezzo dei prodotti nei mercati oligopolistici tende a rima­ nere rigido e non a muoversi secondo quanto previsto dalla teoria marginalista tradizionale. Sulla scia di questi contributi si sono formati, negli anni quaranta e cinquanta, vari filoni di ricerca che, pur da angolature e con intenti diversi, ed avendo in comune solo il rifiuto della teoria neoclassica tradizionale, hanno mirato a dare spessore teorico ai risultati empirici ,, del " gruppo di Oxford . Gli esiti più significativi della " controversia marginalista , sono rappresentati da due gruppi di teorie: quello delle teorie post-keynesiane dell'impresa e quello delle teorie manageriali e comportamentiste. A partire dagli ultimi anni sessanta, poi, la teoria economica del­ l'impresa ha sviluppato problematiche che ne hanno modificato la

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portata rispetto alle fasi precedenti. Due sono diventate allora le linee di ricerca prevalenti. In primo luogo, è stato affrontato direttamente il problema della natura dell'impresa in quanto organizzazione. In particolare, si è cercato di dare risposta all'interrogativo: perché esiste l'impresa? Infatti, se le transazioni di mercato sono il modo più effi­ ciente di organizzare l'attività economica, perché mai la gran parte di tale attività viene svolta all'interno delle imprese? Un interrogativo che già Ronald H. Coase aveva sollevato nel r 9 3 7 nel pionieristico contributo, The Nature o/ the Firm. Il problema è di spiegare perché sorge questa istituzione alternativa al mercato e, in particolare, perché esistono e si affermano imprese non atomistiche. Le teorie neo-istitu­ zionaliste dell'impresa si situano in tale contesto. Ce ne occuperemo nell'ultimo capitolo. In secondo luogo, si è affrontato lo studio di po­ litiche di impresa diverse da quella usuale dei prezzi: politiche dell'in­ novazione, degli investimenti, della pubblicità, dei contratti interni di lavoro e così via. Ciò ha portato all'affermazione della teoria dell'or­ ganizzazione industriale e delle teorie evoluzioniste dell'impresa. 2 . 3 .2 . Le teorie post-keynesiane dell'impresa Perfino gli studiosi che accettavano l'assunto di massimizzazione del profitto non hanno mancato di rilevare che l'obiettivo della massimiz­ zazione di lungo periodo non implica, di per sé, l'eguaglianza tra co­ sto marginale di breve periodo e ricavo marginale. Solo se le decisio­ ni che vengono prese periodo per periodo fossero tra loro indipen­ denti, la massimizzazione del profitto di breve comporterebbe anche quella di lungo periodo, anzi, ne costituirebbe il presupposto indi­ spensabile. La discussione sul long run profit maximizing iniziò a Ox­ ford. Tre annate degli " Oxford Economie Papers " , 1 95 4, 1 95 5 , 1 95 6 , contengono i principali contributi sull'argomento . Per motivare l'abbandono del principio marginalistico dell' egua­ glianza tra costo marginale e ricavo marginale furono addotte le se­ guenti ragioni. In primo luogo, le imprese non sono in grado di co­ noscere con precisione la loro curva di domanda; dunque, la regola marginalistica non può essere applicata per mancanza di informazio­ ni. Secondariamente, la preoccupazione principale dell'impresa non perfettamente concorrenziale riguarda il prezzo e non la quantità da produrre; l'impresa fissa il prezzo sulla base di un qualche criterio e vende a quel prezzo qualsiasi quantità il mercato sia in grado di as­ sorbire. Infine, l'applicazione della regola marginalistica implica una forte variabilità del prezzo, nel senso che qualsiasi variazione, seppure lieve, nelle condizioni di costo o di domanda porta con sé una varia-

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zione di prezzo. Ma ciò è ampiamente contraddetto dall'evidenza em­ pirica, che indica che i prezzi delle imprese manifatturiere tendono a essere rigidi, nonostante le variazioni nella domanda e nei costi. Come avevano scritto Hall e Hitch : «l prezzi così fissati hanno una tendenza a rimanere stabili. Essi cambieranno se vi è mutamento si­ gnificativo nei costi del lavoro o delle materie prime, ma non in ri­ sposta a variazioni moderate o temporanee di domanda» (p. 2 2 4 ) . Le ragioni indicate acquistano particolare rilevanza nel caso dei mercati oligopolistici, dove le varie imprese hanno interessi sia comu­ ni che conflittuali. L'aspetto della comunanza sta in ciò, che tutte puntano all'espansione del settore in cui operano, dal momento che, una volta specificate le rispettive quote di mercato, il profitto di cia­ scuna impresa dipende dallo stato di salute del settore. D'altro canto, è proprio a proposito della ripartizione delle quote di mercato che si manifesta il momento conflittuale. Ora, di tutti gli strumenti attraver­ so i quali viene esercitata la rivalità tra oligopolisti, la concorrenza di prezzo è certamente quella più pericolosa. La diminuzione del prezzo da parte di un'impresa nel tentativo di aumentare la propria quota di mercato aprirebbe la via a immediate ritorsioni con effetti negativi sul livello dei profitti di tutto il settore. Il modo specifico in cui viene realizzata la concorrenza non di prezzo dipende dalla natura e dalla storia del ramo industriale, dal tipo di merci che vengono prodotte, dalle disposizioni di legge vi­ genti, dallo stato generale in cui si trova il sistema economico. Per altri versi, la comprensione della forma specifica che assume la lotta tra imprese rivali in mercati oligopolistici non può prescindere dalla considerazione esplicita del contesto istituzionale di riferimento. Non si può, cioè, sperare di comprendere il comportamento dell'impresa oligopolistica a partire dal solo criterio di razionalità inteso come massimizzazione del profitto; un argomento questo che Nicholas Kal­ dor aveva anticipato in The Equilibrium o/ the Firm. A causa di fenomeni quali integrazione verticale, diversificazione produttiva, coordinamento oligopolistico nei mercati, la grande im­ presa possiede un potere di mercato discrezionale. D'altra parte realtà quali concentrazione, barriere all'entrata e all'uscita, collusioni, sono in contrasto con il meccanismo competitivo concepito dalla teoria neoclassica, poiché fanno sì che i prezzi non possano rispondere alle variazioni della domanda e dell'offerta. N on esistendo alcuna specifi­ ca funzione di reazione dei prezzi, questi non possono convergere ai prezzi di equilibrio. Nell'ottica neoclassica, perfino nei casi di mono­ polio e oligopolio, i prezzi dovrebbero muoversi in base agli scarti tra domanda e offerta, tanto che il " grado di monopolio " misurato dal-

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l'indice di Lerner (definito come la differenza tra prezzo e costo mar­ ginale divisa per il prezzo) viene espresso in termini di elasticità della domanda. Al contrario, per gli autori post-keynesiani i prezzi del­ l' output sono determinati dal costo di produzione corrispondente ad un tasso normale di utilizzo della capacità produttiva e da un mark up che va ad aggiungersi ai costi variabili. Il problema è: da cosa di­ pende il livello del mark up ? Diverse sono state le risposte fornite dai vari autori. Della posizio­ ne di Kalecki già si è detto nel PAR. 7 ·4 del primo volume. Secondo gli autori della teoria delle barriere all'entrata, Paolo Sylos Labini e J oe Bain, di cui ricorderemo, rispettivamente, Oligopolio e progresso tecnico e Barriers to New Competition, il livello del mark up è de­ terminato dall'esigenza di prevenire l'entrata nel mercato da parte dei concorrenti potenziali. Questa è la teoria del prezzo limite. Il livello del margine viene a dipendere da fattori quali il grado di concen­ trazione del settore, le economie di scala, la differenziazione del pro­ dotto, i vantaggi di costo delle imprese già in esercizio rispetto a quelli delle imprese potenziali. La letteratura post-keynesiana ha messo in rilievo altri fattori come determinanti del mark up . L 'attenzione, soprattutto nel corso degli anni settanta, si è spostata sullo studio della domanda e dell' of­ ferta dei finanziamenti necessari per le decisioni di investimento. A. S. Eichner, di cui ricorderemo The Megacorp and Oligopoly, ha so­ stenuto che, poiché è l'autofinanziamento, piuttosto che il finanzia­ mento esterno, a determinare l'espansione dell'impresa nel lungo an­ dare, il calcolo del mark up verrebbe effettuato tenendo presente l'o­ biettivo dell'espansione interna dell'impresa. L'idea di prendere gli investimenti come variabile cruciale per la determinazione dei prezzi (variabile che è l'elemento critico anche nella teoria keynesiana della domanda aggregata) ha consentito a Eichner di porre le basi di una nuova microfondazione della dinamica macroeconomica. L 'approccio post-keynesiano ha trovato un valido supporto nel la­ voro dello storico Alfred Chandler. In The Visible Hand: The Mana­ gerial Revolution in the America n Economy, Chandler ha messo in luce il fatto che la pratica del mark up pricing è stata introdotta dalla grande impresa come tecnica di controllo finanziario sull'ingente am­ montare di capitale fisso da essa investito. Alla fine dell'Ottocento, le grandi imprese già realizzavano l'integrazione verticale e la diversifica­ zione dei prodotti, soprattutto nei rami in cui venivano prodotte mer­ ci primarie. Gli sviluppi successivi di tale fenomeno, a partire dagli anni venti, videro il diffondersi delle attività "multi-impianto " e "multi-prodotto " . In tale contesto, il mark up pricing diviene lo stru-

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mento operativo con cui le grandi imprese cercano di decentralizzare le decisioni produttive in divisioni e sottodivisioni: il prezzo di cia­ scun prodotto deve essere tale da assicurare un tasso di rendimento sul capitale investito nella divisione che produce quella merce, un tas­ so che deve essere in linea col tasso medio di rendimento sul capitale totale investito dall'impresa nel suo insieme. È così, secondo Chan­ dler, che si è passati dal modello unidivisionale ( U-/orm) a quello multidivisionale (M-/orm). Vale la pena ricordare, infine, che la prima evidenza storica circa le pratiche di formazione dei prezzi secondo le linee del costo pieno risale al 1 87 8 , anno in cui un contabile di Man­ chester, Thomas Battersby, pubblicò un saggio sulle procedure di prezzo seguite dalle imprese inglesi dell'epoca.

2. 3 . 3 . Le teorie manageriali e comportamentiste Un'altra linea di attacco alla teoria neoclassica tradizionale è partita dalla constatazione del declino dell'impresa familiare e dell'afferma­ zione della società per azioni nel capitalismo moderno. Ciò comporte­ rebbe due conseguenze di rilievo. In primo luogo, l'attività di con­ trollo dei processi aziendali deve essere affidata a manager di pro­ fessione. In secondo luogo, dal momento che il portafoglio ottimale di ciascun investitore tende ad essere diversificato tra le azioni di pa­ recchie società, l'azionista perde la capacità di seguire da vicino le vicende della singola impresa. Ne deriva che i manager delle grandi imprese finiscono con l'esercitare il potere di fissare le linee della po­ litica societaria, liberandosi dalla sorveglianza degli azionisti-proprie­ tari. Nell'importante opera The Theory o/ the Growth o/ the Firm del 1 95 9 Edith Penrose sottolineò come l'impresa, utilizzando risorse in­ terne ed esterne, possa crescere, fino a una certa fase, senza sostanzia­ li barriere all'espansione. Essa gode cioè di economie di scala " dina­ miche" realizzabili sia attraverso l'acquisizione di altre imprese sia mediante la diversificazione dei mercati. Esisterebbe tuttavia una " curva della crescita" : oltre una certa fase aumentano i costi orga­ nizzativi dello sviluppo così che il tasso di crescita dell'impresa inizia a declinare. Il lavoro della Penrose ha costituito un notevole punto di svolta nella teoria dell'impresa. Alla visione neoclassica tradizionale ha so­ stituito la nozione della grande impresa come pool di risorse orga­ nizzate dai manager. Questo modo di concepire l'impresa ha costitui­ to la base di partenza di due distinti indirizzi di ricerca, quello mana­ geriale e quello comportamentista, i quali, pur adottando gli stessi presupposti e pur ponendosi entrambi lo scopo di interpretare il fe-

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nomeno della " rivoluzione manageriale " , si differenziano sotto il pro­ filo metodologico. La prima linea di ricerca, associata ai contributi di Baumol, Mar­ ris e Williamson, mantenne il principio della massimizzazione vincola­ ta come espressione della razionalità delle scelte. Ciò che modificò, rispetto all'impostazione tradizionale, fu la specificazione della funzio­ ne obiettivo. Nel contributo di William Baumol, ad esempio, si mas­ simizzava il saggio di crescita dell'impresa. Inoltre fu esplicitamente presa in considerazione l'influenza del mercato azionario. Su ciò ha insistito Robin Marris, in The Economie Theory o/ Managerial Capita­ lism: la borsa, da un lato è fonte di finanziamento, dall'altro consente una continua valutazione dell'impresa attraverso i corsi delle azioni. Pertanto il suo influsso si esercita sia nei confronti degli azionisti di controllo sia nei confronti dei manager. D'altro canto, come ha messo in evidenza Oliver Williamson nel saggio Managerial Discretion and Business Behaviour, i manager dispongono di un certo margine di di­ screzionalità nel perseguire politiche aziendali che massimizzano la loro funzione di utilità. In un contesto del genere, il profitto agirebbe allora solo come un vincolo dovuto alla necessità di remunerare gli azionisti per evitare la caduta del valore di borsa delle azioni. La teoria dei takeovers sviluppata da Marris dà conto di uno dei principali modi in cui i mercati dei capitali possono influenzare i comportamenti manageriali: quello che si esprime nell'effetto di con­ trollo. La minaccia dei takeovers serve a disciplinare i manager: la mancata massimizzazione dei profitti riduce il valore dell'impresa sul mercato azionario e quindi induce investitori e imprenditori esterni ad acquistare l'impresa e sostituirne il management. Il primo studio formale del ruolo disciplinare dei takeovers è opera di S. J. Grossman e O. Hart, mentre a C. M. Jensen e W. H. Meckling si deve la prima analisi dell'importanza delle diverse strutture proprietarie ai fini della determinazione dell'efficacia delle scalate azionarie. La seconda linea di ricerca, legata all'opera di Herbert Simon, il fondatore della moderna teoria dell'organizzazione, si è caratterizzata per l'adozione di un diverso criterio di razionalità. L'impresa moder­ na - osservò Simon in Administrative Behaviour - in quanto opera in un contesto di incertezza e in un mondo reso sempre più complesso dall'aumento delle informazioni e dalla rapidità della loro diffusione, non può prescindere dalla considerazione del fattore organizzativo. Più esattamente, alla base del discorso di Simon stava la tesi secondo cui l'impresa moderna non è una ben definita " entità individuale" , quanto piuttosto un "' organizzazione " , cioè un complesso di individui e centri di potere. Le varie decisioni, in tale contesto, scaturirebbero

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da interazioni e compromessi tra i vari centri. Pertanto solo un ade­ guato studio delle interazioni tra le componenti interne d'impresa consentirebbe la definizione di qualcosa di simile a un obiettivo aziendale. In tale studio confluiscono vari aspetti. In primo luogo, in quanto "sistema " , l'impresa è sì costituita da individui, ma questi vi agiscono come " personificazione di ruoli " tra loro interagenti, ovvero come elementi di una rete informativa. In se­ condo luogo, la realtà dell'impresa moderna non può essere spiegata assumendo che l'unica motivazione dell'agire economico sia quella egoistica. Il sel/-interest, osservò Simon, è spesso tenuto in scacco da meccanismi di identificazione che operano a livello cognitivo e moti­ vazionale. Lo spirito di identificazione è responsabile di quei fenome­ ni di attaccamento all'organizzazione e di accettazione dei suoi obiet­ tivi che giocano un ruolo decisivo nel decretare il successo dell'im­ presa. In terzo luogo, se l'impresa è un " organismo " nel quale convi­ vono diversi centri di potere, ognuno con un suo proprio obiettivo specifico da raggiungere, è necessario un lavoro di coordinamento e di controllo se si vuole arrivare a una decisione univoca. Dalla teoria del controllo dei sistemi complessi si trae che questi si reggono sul principio della " omeostasi" , intesa come capacità di un organismo di conservare nel tempo la propria struttura a prescindere dalle variazio­ ni e sollecitazioni ambientali. Come "organismo omeostatico " l'impre­ sa, dunque, assume forme adeguate a generare processi di autoregola­ zione capaci di reagire a mutamenti esterni al fine di ristabilire l'equi­ librio interno, proprio come avviene negli organismi biologici. Da queste indicazioni metodologiche scaturì l'idea che l'obiettivo fondamentale di un'impresa è soprattutto la propria " sopravvivenza " . Sul terreno operativo essa mirerebbe a raggiungere non una soluzione ottima, ma una " soddisfacente " , una cioè che sia abbastanza buona per tutti i gruppi interni all'impresa; e poiché la sopravvivenza del­ l'impresa è in ogni caso legata al profitto, essa punterebbe a raggiun­ gere un livello soddisfacente di profitto. È questo un esempio tipico di quello che Simon ha chiamato satis/ycing behaviour e che trova la sua giustificazione nel fatto che le imprese, al pari di ogni altro sog­ getto, agiscono sulla base di una razionalità limitata (bounded rationa­ lity) . Solo in uno stato stazionario le differenze nei risultati tra il comportamento massimizzante e il comportamento satis/ycing tende­ rebbero a scomparire. Non così, invece, nei casi in cui le situazioni mutano continuamente e la conoscenza è incompleta. Inoltre, la con­ dotta dell'impresa sul mercato verrebbe a ispirarsi, secondo Simon, non più alle regole della massimizzazione vincolata, la cosiddetta ra­ zionalità sostantiva, ma a una razionalità procedurale. Questa consiste 129

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nell'attribuire razionalità alle procedure di comportamento quali cri­ teri guida per la determinazione delle scelte economiche. La fortunata nozione di razionalità procedurale è stata esposta da Simon in From Substantive to Procedura! Rationality. Le idee di Herbert A. Simon hanno dato origine all 'approccio comportamentista alla teoria dell'impresa, approccio di cui ricordere­ mo solo il libro di Robert Cyert e John March: A Behavioural Theory o/ the Firm ( 1 963 ) . Obiettivo centrale del contributo di questi autori fu lo studio del processo decisionale di una grande impresa con pro­ duzioni multiple, operante in situazione di incertezza e nell'ambito di un mercato imperfetto. In particolare, l'interesse per i problemi orga­ nizzativi creati dalla struttura interna ha portato Cyert e March a una concezione dell'impresa intesa non come unità decisionale con un unico obiettivo, ma come organizzazione multidecisionale con una molteplicità di obiettivi. Ciò in quanto l'impresa è una coalizione di portatori d'interessi (stakeholders) che sono legati alla sua attività in modi diversi e che perseguono obiettivi diversi. Così, ad esempio, i manager punteranno ad accrescere il proprio potere e il proprio pre­ stigio, gli azionisti a ottenere dividendi più alti possibile, i lavoratori a ricevere salari più elevati e migliori condizioni di lavoro. Per questa ragione l'impresa è una struttura complessa che non può essere assi­ milata a una macchina programmabile e controllabile perfettamente, come la teoria marginalista suppone.

2 . 3 .4 . Le reazioni neoclassiche e le nuove teorie dell'impresa Quattro principali linee di difesa furono erette a sostegno del margi­ nalismo nel corso della controversia, la più importante delle quali fu quella della scuola di Chicago. Milton Friedman sostenne che la teoria tradizionale dell'impresa aveva prodotto buone e ragionevoli previsioni e quindi che andava giudicata in modo positivo. Ciò consegue dall'impostazione metodo­ logica accolta da Friedman; un'impostazione secondo cui il realismo delle assunzioni su cui si regge una teoria è del tutto irrilevante. Ciò che veramente conta, per giudicare la validità di una teoria, sono solo le previsioni che essa consente di formulare. In sostanza, secondo Friedman, l'imprenditore si comporterebbe come l'esperto giocatore di biliardo che arriva a colpire il suo obiettivo con la velocità e l'an­ golazione necessarie pur non conoscendo le leggi della fisica e i teore­ mi della geometria. Va da sé che questa è una difesa molto debole. Chi garantisce che le leggi che l'imprenditore seguirebbe inconsape-

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volmente sono proprio quelle inventate dagli economisti marginali­ sti? Una seconda linea di difesa ha cercato appoggio nella ricerca em­ pirica, concentrando l'attenzione sulle cosiddette "ipotesi ausiliarie " , soprattutto quelle relative alla forma delle curve di domanda, alla for­ ma delle curve di costo e all'orizzonte temporale delle decisioni. Eb­ bene J. Early, sulla base di un campione di I Io società statunitensi, trovò che i moderni metodi di contabilità sono in grado di fornire informazioni su costi e ricavi marginali e che queste informazioni vengono di fatto utilizzate dalle imprese. Si tratta dunque di un'inda­ gine empirica che arriva a conclusioni opposte rispetto a quelle rag­ giunte nello studio di Hall e Hitch. Altri autori, tra cui Armen Alchian, sono ricorsi al principio dar­ winiano della sopravvivenza del più forte per arrivare a concludere che le imprese che restano sul mercato sono quelle che massimizzano il profitto. L'ambiente economico selezionerebbe le imprese che mira­ no alla massimizzazione del profitto ed eliminerebbe le altre. Così, l'economista sarebbe legittimato, secondo Alchian, a postulare che la migliore ipotesi sul comportamento dell'impresa sia quella della mas­ simizzazione del profitto. Una quarta linea di difesa, infine, ha insistito nella convinzione che le ipotesi da cui parte la teoria tradizionale dell'impresa sono, nel complesso, realistiche. Nel I 9 4 6 Machlup sostenne che l'evidenza em­ pirica contraria al marginalismo è affetta da troppe lacune per poter essere risolutiva. Le dichiarazioni degli uomini d'affari, secondo cui il prezzo verrebbe fissato al livello del costo variabile più un margine lordo, non rappresentano una prova contro la regola marginalistica della massimizzazione del profitto. E ciò per la semplice ragione che gli intervistati, non conoscendo il linguaggio della teoria economica, si esprimerebbero in modo improprio. Vi sarebbero, inoltre, ragioni psicologiche che indurrebbero gli imprenditori a dichiarare che la massimizzazione del profitto non rientra nei loro obiettivi: essi vor­ rebbero apparire " onesti" ; e mostrare di servire un obiettivo sociale nello svolgimento della propria attività. Le ipotesi di base della teoria marginalista dell'impresa per Machlup sarebbero nel complesso plau­ sibili. È vero che costo marginale e ricavo non sono conosciuti in modo oggettivo dalle imprese; ma ciò non costituirebbe un grave problema, dato che una valutazione soggettiva di queste curve an­ drebbe altrettanto bene. In un contributo del 1 967, Machlup ha fatto un tentativo di ri­ conciliazione tra gli approcci marginalista, manageriale e comporta­ mentista. Secondo lui non ci sarebbe conflitto radicale tra principio

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del costo pieno o marginalismo, poiché quel principio potrebbe esse­ re incorporato, come caso speciale, nella teoria marginalista. Fino a quando l'impresa registra ampi margini di profitto, vi è spazio perché si scatenino gli interessi e i desideri dei vari gruppi che in essa opera­ no, proprio come viene teorizzato negli approcci manageriale e com­ portamentista. Ma quando spira il vento della concorrenza e il con­ flitto interno raggiunge livelli tali da erodere i margini di profitto, fino a minacciare la stessa soprawivenza dell'impresa, il comporta­ mento non potrà che seguire le regole marginaliste di massimizzazio­ ne. Va da sé che la " chiusura " della controversia su una posizione del genere non poté impedire una vigorosa ripresa di interesse, a partire dai primi anni settanta, della teoria del costo pieno, né poté impedire che la riflessione sui limiti dell'impostazione tradizionale procedesse su nuovi e più interessanti fronti. Uno di questi è l'approccio evoluzionista alla teoria dell'impresa inaugurato dall'importante contributo di R. Nelson e S. G. Winter, An Evolutionary Theory o/ Economie Change. In esso, la determina­ zione del comportamento d'impresa poggia sullo studio di meccani­ smi di tipo adattivo che sembrano dare credito alla tesi secondo cui i sistemi viventi non seguono, in generale, dei sentieri ottimali. Un ri­ sultato di ottimalità, tutt'al più, può essere conseguito, sotto certe condizioni, come proprietà asintotica e non come conseguenza diretta dei comportamenti degli agenti. È la "memoria" dell'impresa la base del suo comportamento. Quando i risultati cessano di essere soddi­ sfacenti, l'impresa cerca nuove routines: o le elabora autonomamente all'interno dell'organizzazione o le imita dall'esterno. L'approccio evoluzionista si è intrecciato, in epoca recente, con la ripresa della riflessione neoschumpeteriana sul tema dell'impresa e dei mercati, per la quale ricorderemo soprattutto il contributo di Nathan Rosenberg, Inside the Black Box: Technology and Economics. Un altro filone di ricerca è quello della teoria dell'organizzazione industriale, alla cui base sta l'idea che lo studio dell'impresa e dei mercati vada condotto nei termini delle soluzioni ottimali rispetto non tanto ai vincoli produttivi, quanto ai vincoli contrattuali fra le parti interessate. Si tratta di un approccio che vede l'impresa come struttu­ ra di contratti (nexus o/ contracts) nel cui ambito viene a svolgere un ruolo fondamentale la trasmissione dell'informazione tra gli apparte­ nenti all'organizzazione. Infatti, se la specializzazione produttiva assi­ cura un aumento di produttività degli addetti, essa fa sorgere, al tem­ po stesso, un problema di coordinamento delle azioni da parte dei vari membri dell'impresa, parecchi dei quali dispongono di differenti insiemi informativi. Non solo, ma i centri di interesse non si riducono

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a quelli rappresentati dai manager e dagli azionisti. Ci sono i lavorato­ ri, i quadri intermedi e altri gruppi ancora, che esprimono esigenze particolari e che, a causa dell'esistenza di asimmetrie informative, pos­ sono perseguire interessi che vanno a scapito di quelli dell'impresa nel suo insieme. Si tratta allora di indagare - ha sostenuto J acques Tirole - come sia possibile sfruttare le informazioni disperse nel sistema-im­ presa riuscendo a trovare un equilibrio fra le istanze dei molteplici centri di interesse che operano al suo interno. Ciò vale a far com­ prendere perché uno dei principali strumenti di analisi della variegata letteratura sull'organizzazione industriale sia costituito dal modello di agenzia principale-agente, introdotto da S. A. Ross in The Economie Theory o/ Agency: The Principal's Problem e da J ames A. Mirrlees in Notes on Wel/are Economics, In/ormation and Uncertainty. Infine, un altro fronte di ricerca è quello della "nuova economia industriale" il cui tratto caratterizzante è costituito - secondo Richard Schmalensee - dall'abbandono dell'idea che l'impresa sia un ente che si adatta, più o meno passivamente, a condizioni date. Questo ap­ proccio aspira a superare il celebre schema dell'economia industriale tradizionale, uno schema basato sulla triade: struttura, comportamen­ to, performance. Strutture produttive, forme di mercato, modi di or­ ganizzazione aziendale non sono semplicemente il risultato di un adattamento efficiente delle imprese a un ordine esterno; e ciò perché esse sono in grado di modificare, mediante il loro comportamento strategico, le condizioni dell'ambiente. In altri termini, mentre nell'e­ conomia industriale tradizionale l'impresa è vista come un adattatore razionale che sottostà ai processi selettivi del mercato, nella nuova economia industriale l'impresa è attivamente impegnata nella ricerca di strategie di dominazione (come la creazione strategica di barriere all'entrata e all'uscita) volte ad accrescere il suo potere di mercato. Opere di rilievo AKERLOF G. A. ,

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3

Ai margini dell 'ortodossia

J. I

Giochi, evoluzione e crescita

3 . I . I. La teoria dei giochi Storicamente, la teoria dei giochi venne elaborata per fornire uno strumento logico con il quale studiare situazioni in cui i risultati delle scelte di alcuni agenti sono parzialmente determinati dalle scelte di altri agenti con interessi possibilmente conflittuali. La rilevanza di tale teoria per le questioni economiche è stata vista soprattutto nella pos­ sibilità di affrontare con essa i problemi posti da situazioni di con­ flitto e cooperazione tra decisori razionali e intelligenti. " Razionali " si­ gnifica che ciascun agente effettua le proprie scelte in modo da mas­ simizzare l'utilità attesa soggettiva (subjective expected utility) qualora le decisioni degli altri agenti siano specificate. " Intelligenti" significa che ciascun soggetto è in grado di conoscere ogni cosa circa la strut­ tura della situazione nella quale si trova inserito, proprio come il teo­ rico che studia quella situazione. In particolare, ogni decisore sa che gli altri individui sono decisori razionali e intelligenti. Per afferrare il senso in cui un gioco è un contesto di decisioni interdipendenti, consideriamo una versione semplificata del modello di duopolio di Cournot e confrontiamo il problema di scelta del duo­ polista con quello di un'impresa operante in un mercato perfettamen­ te concorrenziale. In quest'ultimo caso, l'impresa A sceglie il livello di output da offrire sul mercato una volta che siano noti i prezzi del­ l' output e degli input necessari alla produzione di quel bene. Sotto l'ipotesi di concorrenza perfetta, l'impresa A percepisce una curva di domanda del suo output perfettamente elastica (cioè orizzontale) ; ov­ vero, al prezzo di mercato, l' output dell'impresa A (piccolo, per ipo­ tesi, rispetto al volume di scambi) sarà interamente venduto. Inoltre l'impresa non ha bisogno di prendere in considerazione le decisioni I 39

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delle altre imprese operanti nel settore: l'unica informazione rilevante è completamente anonima ed è quella sintetizzata dai prezzi. Consi­ deriamo invece un duopolio, cioè una situazione in cui, oltre all'im­ presa A, un'altra impresa - indichiamola con B - produce e vende un bene identico a quello della rivale. Supponiamo che il comportamen­ to dei consumatori di quel bene sia noto ai due produttori e sia rias­ sunto dalla funzione di domanda p = /(Q) , dove p indica il prezzo e Q l'output totale, pari alla somma di qA e qB, che rappresentano i livelli di produzione delle imprese A e B rispettivamente. Per semplicità, ipotizziamo con Cournot che i costi di produzione siano nulli; se ogni impresa sceglie indipendentemente il proprio livello di output per massimizzare i propri profitti (indicati da n) , allora, formalmente, l'impresa A sceglie qA per massimizzare nA = pqA =/(qA + qB)qA. Dun­ que, nA dipende anche da qB; vale a dire, la scelta ottimale del livello di output da parte di A non è più, come nel caso di concorrenza perfetta, indipendente dal livello di output simultaneamente scelto dall'impresa rivale. Il ponte definitivo tra la teoria dei giochi e la teoria economica fu costruito solo nel 1 944, con la pubblicazione di Theory o/ Games and Economie Behavior di von Neumann e Morgenstern. Dalla fusione dei due approcci nacque una serie di concetti e di direzioni di ricerca che sono ancora oggi al centro dell' attenzione degli economisti: il concetto di gioco cooperativo, in cui i giocatori possono prendere ac­ cordi o fare minacce che razionalmente saranno portati a mettere in atto; l'analisi delle coalizioni, che riprende i pionieristici studi di Ed­ geworth e che porta alla moderna analisi del core; la definizione assio­ matica dell'utilità attesa e la dimostrazione della sua importanza come criterio di scelta in condizioni di incertezza. Alcune circostanze, tra cui la novità dei concetti e delle dimostrazioni matematiche, limitaro­ no però notevolmente la diffusione di Theory o/ Games, soprattutto nell'ambito delle discipline sociali, alle quali pure era in primo luogo rivolto. Occorrerà attendere la fine degli anni cinquanta, con la pub­ blicazione di Games and Decisions di R. Luce e H. Raiffa e poi del libro di Thomas Schelling, The Strategy o/ Con/lict, per assistere alla diffusione della teoria dei giochi. Solo allora si cominciarono a vedere le prime interessanti applicazioni economiche. Oggi la teoria è in grado di analizzare molte classi di " giochi" , anche se l'attenzione degli studiosi si è soprattutto concentrata su al­ cuni casi particolarmente degni di attenzione. Una prima classe che è approdata a una teoria esaustiva e generale è stata quella dei giochi a due persone a somma zero. Al di là della loro rilevanza, che pure non è trascurabile, i giochi a somma zero sono stati di vitale impor-

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tanza in quanto l'apparato concettuale sviluppato per analizzarli si è rivelato in buona parte estensibile all'analisi di casi più generali. Particolarmente importante è il concetto di livello di sicurezza, il livello minimo di pagamento che un giocatore può garantirsi indipen­ dentemente dalle strategie dell'altro. Un gioco ha un esito razionale dal punto di vista individuale se il pagamento ricevuto da ogni gioca­ tore non è inferiore al rispettivo livello di sicurezza: se un individuo è razionale, agirà sempre in modo da assicurarsi per lo meno quel li­ vello di pagamento che può ottenere con certezza. Il livello di sicu­ rezza può essere calcolato sia per le strategie pure (che sono sequen­ ze di azioni ben determinate) che per quelle miste (nelle quali in uno o più stadi del gioco la scelta dell'azione è effettuata per mezzo di un esperimento stocastico, ad esempio il lancio di una moneta) . In un gioco strettamente determinato, nel quale cioè si ha un solo esito razionale dal punto di vista individuale in termini di strategie pure, si potrà essere certi che quello è l'esito che prevarrà quando tutti i giocatori sono razionali. Un gioco è invece determinato se ha un unico esito razionale dal punto di vista individuale in termini di strategie miste. Ci sono giochi che non sono strettamente determinati ma solo determinati; in tal caso i giocatori non hanno a disposizione una scelta " razionale " in termini di strategie pure ma ce l'hanno se considerano l'insieme più vasto delle strategie miste. Già agli inizi del secolo Ernst Zermelo riuscì a dimostrare che il gioco degli scacchi è strettamente determinato. Ciò owiamente non significa che la strategia " ottimale " per questo gioco sia facile da indi­ viduare, come ogni scacchista sa bene. In ogni caso, il teorema di Zermelo ha avuto una straordinaria importanza in quanto è stato il prototipo dei teoremi sempre più generali ottenuti negli anni succes­ sivi. In concreto, per "esportare " il teorema al di fuori dell'ambito dei giochi a somma zero il concetto di esito razionale dal punto di vista individuale è stato sostituito con quello di equilibrio strategico. Una strategia è di equilibrio se massimizza il livello di pagamento ot­ tenuto da un giocatore, date le strategie scelte da tutti gli altri. Questa fondamentale nozione, introdotta dal matematico americano John Nash nel 1 95 r in Non-cooperative Games, e nota come " equilibrio di Nash " , poggia sull'idea che, in equilibrio, le strategie devono costitui­ re delle " risposte mutuamente migliori " e ciò nel senso che nessun giocatore può fare meglio di quello che fa, dato quello che fanno gli altri giocatori. Il lavoro di Nash permise a Harold W. Kuhn di prova­ re che ogni gioco a n persone con perfetta informazione (in cui cioè tutti i giocatori conoscono l'intera struttura del gioco, dai pagamenti alle possibili mosse degli altri) ha un equilibrio in termini di strategie

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pure. Malgrado il suo interesse, questo teorema non è però partico­ larmente potente in quanto nulla esclude che un gioco abbia un nu­ mero molto alto di equilibri, così che non è affatto chiaro quale sia l'esito che prevarrebbe se tutti i giocatori fossero razionali. Questo è in effetti ciò che accade per la grande maggioranza dei giochi. Si è così recentemente sviluppato un filone di ricerca che ha cer­ cato di affinare l'insieme degli equilibri strategici di certe classi di giochi con l'impiego di criteri ausiliari tra i più vari. I risultati di tali ricerche sono per ora controversi: non esiste infatti un criterio " og­ gettivamente valido" per operare degli affinamenti. I più importanti affinamenti sono dovuti a J ohn Harsanyi e a Reinhard Selten. Il primo, in un contributo del 1 967-68 e in uno del 1 97 5 , ha introdotto una classe più generale di giochi, definiti " giochi bayesiani" , in cui i giocatori possono non conoscere con certezza la struttura del gioco. Il secondo ha introdotto la nozione di " equilibrio perfetto " . In un contributo del 1 975 Selten partì dalla constatazione che parecchi equilibri di N ash sono imperfetti nel senso che si basano su minacce di azioni le quali dipendono da circostanze che mai si ve­ rificano nella situazione di equilibrio e che i giocatori mai vorrebbero tenere in conto se potessero scegliere. Il concetto di equilibrio perfet­ to elimina appunto tale tipo di imperfezione. Recentemente, una sin­ tesi importante di queste due linee di ricerca è stata proposta da D. Kreps e R. Wilson con la nozione di " equilibrio sequenziale" . N el caso di giochi a due persone a somma zero le cose sono mol­ to più chiare: il famoso teorema del minimax di von Neumann affer­ ma infatti che, se il numero delle strategie pure ammissibili è finito, tali giochi sono determinati, ossia ammettono un unico esito indivi­ dualmente razionale in termini di strategie miste. Il teorema ha avuto un impatto enorme sullo sviluppo della disciplina (la stessa dimostra­ zione di esistenza dell'equilibrio competitivo è stata ottenuta come generalizzazione di una delle dimostrazioni del minimax) e per un lungo periodo i giochi a somma zero sono stati considerati "il " cam­ po di applicazione della teoria. Sta di fatto che quasi tutto il "voca­ bolario " fondamentale della teoria dei giochi è già presente qui. La teoria contemporanea, pur avendo portato molto avanti le in­ tuizioni di von N eumann e Morgenstern, si è trovata di fronte a pro­ blemi formidabili. Per esempio, anche nel campo dei giochi coopera­ tivi esiste in genere una molteplicità di possibili equilibri. Il numero e la natura degli equilibri che verranno associati a un certo gioco sa­ ranno così determinati dalla particolare interpretazione del gioco stes­ so, dall'insieme delle strategie disponibili ai giocatori e dai " criteri di razionalità" a cui essi dovrebbero attenersi. Non esiste un criterio di

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scelta universalmente valido. Ogni criterio proposto seleziona equili­ bri " ragionevoli" per certi giochi; ma per altri giochi ne esclude alcu­ ni altrettanto " ragionevoli" per sceglierne altri meno " plausibili " . Un'altra difficoltà, emersa negli anni cinquanta e sessanta, è che la teoria riguardava essenzialmente giochi di completa e di perfetta infor­ mazione. Nei giochi di completa informazione, i giocatori conoscono la natura del gioco; in quelli di perfetta informazione, invece, i gioca­ tori conoscono sia la natura del gioco sia tutte le mosse precedenti fatte dagli altri giocatori o dal caso. Ciò contribuiva a restringere il campo dei fenomeni che la teoria poteva affrontare e quindi limitava le possibilità di applicazione economica. Gli sviluppi teorici degli anni settanta e ottanta, opera soprattutto di Harsanyi e Selten, hanno in parte posto rimedio a tale deficienza. Un approccio emerso di recente è quello dei giochi ripetuti, chia­ mati anche supergiochi. Il comportamento strategico può cambiare se invece di giocare " una volta per tutte " gli individui sanno che un cer­ to gioco può essere ripetuto un certo numero, magari indefinito, di volte. Tipico esempio è il famoso " dilemma del prigioniero" , un gio­ co a somma non nulla che dà origine a una soluzione non cooperati­ va se giocato una volta sola, ma che può invece generare comporta­ menti cooperativi se ripetuto un numero sufficiente di volte. R. Luce e H. Raiffa furono tra i primi a far notare che il dilemma consiste nel fatto che una scelta egoistica è razionale ma non porta alla migliore delle soluzioni possibili, mentre la scelta cooperativa è irrazionale per chi la compie a meno che una risposta pure cooperativa venga realiz­ zata dall'altro giocatore. Ciò che è meglio per l'individuo non è ne­ cessariamente meglio per tutti gli individui presi insieme. L'interesse per i giochi ripetuti viene da un teorema, noto come " teorema popo­ lare " (Folk Theorem) , e di cui non si conosce la paternità, che stabili­ sce una fondamentale analogia tra giochi ripetuti e giochi non ripetuti ma cooperativi, sottolineando come l'emergere di fattori di " reputa­ zione " , " credibilità " ecc., tipica dei giochi ripetuti, porti in modo na­ turale i giocatori a esplorare le possibilità di soluzioni cooperative. Ciò perché tali fattori possono rendere credibili gli accordi e le mi­ nacce che generano la cooperazione. Una verifica sperimentale del teorema è stata fornita da Robert Axelrod ( 1 9 8 4 ) , che ha mostrato come in effetti gli esiti cooperativi tendano a prevalere in un gioco ripetuto un numero di volte indefinito. In vista del collegamento stretto tra " indeterminazione oligopoli­ stica" e teoria dei giochi, non deve sorprendere se l'apparato concet­ tuale di quest'ultima ha trovato la più ampia applicazione negli studi di economia industriale. Nel saggio del 1 947 , Price Theory and Oligo-

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poly, Kurt W. Rothschild lamentava il fatto che, nella trattazione del­ l'oligopolio, gli economisti si fossero lasciati troppo influenzare da ana­ logie tratte dalla meccanica e dalla biologia. Nello studio delle situa­ zioni oligopolistiche è meglio riferirsi - annotava Rothschild - a quei campi di indagine in cui ci si occupa di mosse e di contromosse, di lotta per il potere e di comportamenti strategici. Ora è proprio l'uso della teoria dei giochi che ha condotto, in epoca recente, a una rivalu­ tazione di concetti come le barriere all'entrata, di temi come la relazio­ ne tra strutture di mercato e mutamento tecnico e così via. Come ha indicato Martin Shubik in Strategy and Market Structure, il risultato più importante a tale riguardo è stato il seguente: il nesso di causalità che procede dalla struttura di mercato alla condotta e ai risultati è stato sostituito dall'idea che la struttura di mercato, intesa come nume­ ro e dimensione delle imprese in esso operanti, è determinata endoge­ namente attraverso l'interazione strategica tra le imprese stesse. Un'altra area di fruttuosa applicazione dei giochi è quella della contrattazione bilaterale (bargaining) , in cui due o più individui devo­ no accordarsi per la divisione di una posta data, col vincolo che in mancanza di accordo nessuno riceve alcunché. T ale problema ha per­ messo di dare una definizione precisa di un concetto economico chia­ ve: quello di " potere contrattuale" . Tanto più una parte è " ansiosa" di concludere l'accordo, tanto più essa sarà disposta a " cedere " . Il lavoro di Ken Binmore, Modelling Rational Players, è il riferimento più significativo al riguardo. In esso, alla nozione tradizionale di ra­ zionalità sostantiva è stata sostituita quella di " razionalità algoritmi­ ca" , che riprende e generalizza la celebre nozione di razionalità pro­ cedurale di Herbert Simon, di cui abbiamo detto nel capitolo prece­ dente. Infine, un campo molto recente di applicazione della teoria dei giochi è quello della politica economica (politica monetaria, politica fiscale, cooperazione economica internazionale) , dove il criterio di perfezione di Selten e il concetto di equilibrio sequenziale hanno tro­ vato ampio utilizzo in relazione alle nozioni di credibilità e reputazio­ ne di "giocatori" quali governo e sindacati. Tra i lavori più importan­ ti su questo argomento ricorderemo quelli di Robert J. Aumann e Mordecai Kurz e di Paul Dubey e Martin Shubik. La maggiore fecondità delle applicazioni economiche della teoria dei giochi, rispetto a quelle derivate da altri tipi di strumenti matema­ tici, dipende forse anche dal fatto che tale teoria non è stata presa a prestito da altre discipline, ma è stata sviluppata proprio all'interno della ricerca economica, ciò che ha favorito l'elaborazione di concetti e procedure formali ben adeguati alla rappresentazione dei fenomeni 144

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di interazione sociale ed economica. Non ci si deve nascondere però che restano delle limitazioni ancora severe nella modellistica della teoria dei giochi. Per esempio, le scelte della nozione più appropriata di razionalità individuale e di equilibrio di un gioco sono molteplici e parzialmente arbitrarie. Inoltre, anche dopo aver accolto una nozione ben definita di equilibrio di un gioco (per esempio quella di N ash), permane spesso - specie nei supergiochi - il problema della molte­ plicità degli esiti che rappresentano equilibri. Il dibattito su tali que­ stioni è tuttora in corso. Una cosa comunque sembra emergere con chiarezza: che la teoria dei giochi, proprio in quanto rigoroso appara­ to logico in grado di classificare tipi diversi di razionalità e di equili­ brio, si va configurando come un approccio di ricerca alternativo a quello neo-walrasiano. 3 . I . 2 . Giochi evolutivi e istituzioni

La teoria dei giochi evolutivi nacque nell'ambito degli studi di biolo­ gia, in cui fornì una formalizzazione semplice ed elegante della teoria darwiniana della selezione naturale. L 'idea che sta alla base di tale teoria è che l'evoluzione in un contesto biologico dipende dalla ri­ produzione differenziale degli individui o degli elementi "più adatti" , nel senso che chiariremo tra breve. L a prima fase della ricerca venne sintetizzata nell'importante libro di J ohn Maynard Smith, Evolution and the Theory o/ Games, del 1 9 8 2 . In quest'opera, che riassume i risultati di più di dieci anni di ricerche, il grande biologo inglese ren­ deva nota, al di fuori della cerchia degli specialisti della disciplina, l'affascinante connessione che esiste tra il concetto di gioco, opportu­ namente reinterpretato per il contesto dei " conflitti animali " , e le più basilari nozioni di razionalità strategica sviluppate nella ricerca econo­ mica e nella teoria delle decisioni, prima fra tutti la nozione di equili­ brio di Nash. Dopo qualche tempo di cauto interesse, a partire dall'i­ nizio degli anni novanta gli economisti dedicarono alla nuova area di­ sciplinare un'attenzione crescente e un crescente sforzo di ricerca. L'origine di tale interesse può essere rintracciato nell ' impasse che al­ l'inizio di quel decennio caratterizzava la letteratura sui cosiddetti af­ finamenti dell'equilibrio di Nash, come si è ricordato nel paragrafo precedente. Perché la nozione di equilibrio di N ash potesse essere considerata uno strumento veramente utile occorreva che, in presenza di una molteplicità di equilibri, esistesse un criterio convincente e manegge­ vole per decidere quale di essi dovesse essere selezionato in relazione alla struttura e alle caratteristiche del gioco. È vero che nel corso de-

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gli anni ottanta erano stati proposti diversi criteri di affinamento, con grande dispendio di inventiva e abilità tecniche, ma ognuno di essi sembrava denunciare limiti sostanziali. Sembrava, in particolare, che ogni criterio di affinamento fosse " tagliato su misura, per un deter­ minato tipo di gioco, rivelandosi inadeguato in contesti differenti da quelli per i quali era stato concepito. Il monumentale lavoro di John Harsanyi e Reinhard Selten, A Genera! Theory o/ Equilibrium Selec­ tion in Games, pubblicato nel 1 9 88 dopo una lunga gestazione, si proponeva di fornire l'ultima parola sull'argomento presentando una teoria generale valida per ogni possibile tipo di gioco. Ma, a dispetto dell'enorme sforzo e dell'importanza dei risultati conseguiti, la " teoria generale , si rivelava tanto complessa e macchinosa da rendere palese il sostanziale fallimento del programma di ricerca. L'avvento della teoria evoluzionista dei giochi venne così salutato con grande soddisfazione e con un certo sollievo: grazie a questa teo­ ria diventava infatti possibile costruire una " dinamica sociale, attra­ verso la quale i giocatori finivano per convergere sulla scelta di un unico equilibrio di Nash sulla base di condizioni ben precise. Una scelta del genere, che sembrava impossibile nell'approccio aprioristico tipico della teoria degli affinamenti, poteva essere realizzata ex post come risultato di un processo di interazione tra un gran numero di agenti. Alla prova dei fatti però anche l'approccio evolutivo lasciava aperti dei problemi. Ad esempio, in presenza di giochi con un nume­ ro sufficientemente elevato di strategie, le dinamiche evolutive pote­ vano facilmente dare luogo a comportamenti complessi che non con­ templavano la convergenza verso alcuno stato finale che fosse un equilibrio di Nash . Ben presto a questa delusione si sostituì però un rinnovato inte­ resse verso una diversa possibile interpretazione dei giochi evolutivi, un'interpretazione in termini di teoria della razionalità limitata. Come notava il matematico inglese Ken Binmore, se il problema dell' ap­ ,, proccio " eduttivo alla teoria dei giochi risiedeva proprio nella diffi­ coltà di costruire a priori una teoria della razionalità strategica valida in ogni circostanza, attraverso l'alternativa dell'approccio " evolutivo, diveniva possibile mostrare come e sotto quali condizioni certi com­ portamenti razionali a priori divenivano socialmente diffusi. Si pote­ vano diffondere attraverso meccanismi di apprendimento sociale pur in presenza di giocatori dotati di modeste capacità di calcolo e di schemi comportamentali poco flessibili e sostanzialmente adattivi, schemi basati su una logica di tipo satisficing alla Simon. Anche in contesti modellistici molto semplici, la teoria evidenziava poi come i comportamenti razionali in senso pieno potessero non assicurare ai

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giocatori il massimo guadagno. In tal modo si arrivava a sfidare in modo diretto ed esplicito il fondamento " darwiniano , che alcuni eco­ nomisti utilitaristi avevano cercato di porre alla base dell'ipotesi di razionalità dell'homo oeconomicus. Contrariamente a quello che si era pensato per molto tempo, non era necessariamente detto che una maggiore razionalità implicasse maggiori possibilità di profitto o di sopravvivenza in un contesto di interazione competitiva. Questi risul­ tati aprivano dunque nuove e importanti prospettive di ricerca so­ prattutto per gli economisti più insoddisfatti delle implicazioni ultime del tradizionale approccio neoclassico. La teoria dei giochi evolutivi fornisce, in particolare, un interes­ sante nozione statica di equilibrio e un'ancora più interessante speci­ ficazione del processo dinamico di selezione. La nuova nozione di equilibrio è espressa in termini di uno stato evolutivamente stabile, una condizione che richiede che un determinato profilo di strategie sia robusto non soltanto rispetto a singole deviazioni individuali (come accade nell'equilibrio di N ash) ma anche rispetto a deviazioni scelte simultaneamente da una frazione, sia pur piccola, di giocatori. Si tratta di un'innovazione significativa, che esibisce però un impor­ tante difetto: non sempre in un determinato gioco esiste un equilibrio di N ash che soddisfa quella condizione. Il processo dinamico più studiato nella teoria dei giochi evolutivi è la cosiddetta dinamica di replicazione, secondo la quale il peso di una strategia all'interno di una popolazione di giocatori aumenta tan­ to più quanto maggiore è la remuneratività della strategia stessa ri­ spetto al livello medio di remunerazione. In altre parole, le strategie che fanno meglio della media sono premiate a spese di quelle che fanno peggio, tanto più quanto meglio fanno. Le dinamiche di re­ plicazione, qualora convergano, convergono verso equilibri di Nash, e godono di un certo numero di proprietà interessanti, come la tenden­ za a eliminare le strategie che risultano strettamente dominate nel gioco. In anni più recenti gli economisti hanno cominciato a utilizzare le nozioni di stato evolutivamente stabile e di dinamica di replicazione per costruire modelli applicabili ai contesti più vari, con una partico­ lare enfasi su fenomeni in precedenza poco considerati, come la for­ mazione di convenzioni sociali, l'impatto e l'evoluzione delle norme sociali, l'evoluzione culturale. Un altro fertile campo di applicazione è quello riguardante i problemi classici del cambiamento istituzionale e dell'evoluzione delle preferenze individuali, problemi che possono es­ sere ora affrontati in modo nuovo. Oggi la teoria dei giochi evolutivi si sta affermando come paradigma alternativo all'approccio neoclassi-

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co, anche grazie alla sua capacità di spiegare endogenamente fenome­ ni cruciali come il prevalere di un determinato livello di razionalità tra gli agenti economici e le condizioni di sopravvivenza di motivazio­ ni individuali non auto-interessate. In particolare, i modelli della teo­ ria evoluzionistica dei giochi si prestano bene allo studio dell'evolu­ zione culturale. Nel suo The Evolution o/ Social Contrae!, Brian Skyrms illustrava come le norme di giustizia e le norme di tipo coo­ perativo evolvano nel corso del tempo e in specifici contesti ambien­ tali, anche tra soggetti auto-interessati. Un altro fertile campo di ap­ plicazione è quello che si occupa di spiegare l'emergenza di norme sociali di reciprocità, di simpatia, di altruismo. Punto di riferimento in tale ambito è The Complexity o/ Cooperation, di Robert Axelrod, dove è stato applicato per la prima volta alla teoria dei giochi evoluti­ vi un particolare algoritmo genetico. Gli algoritmi genetici, sviluppati inizialmente all'interno degli studi sull'intelligenza artificiale, riprodu­ cono i meccanismi in forza dei quali l'evoluzione biologica va alla ri­ cerca dei metodi più efficienti per assicurare l'adattamento a una plu­ ralità di contesti ambientali. Con riferimento a situazioni del tipo di­ lemma del prigioniero, Axelrod dimostrò che la strategia tit-/or-tat, da lui stesso " inventata " ed esposta nel suo contributo del I 9 8 4, è molto robusta, quanto a dire che le strategie di tipo cooperativo e recipro­ cante tendono a prevalere in un'ampia varietà di situazioni. Per concludere, nello scenario teorico che è stato aperto dalla teo­ ria dei giochi evolutivi si assiste ad una crescente convergenza tra le ricerche dei biologi, quelle degli economisti e quelle dei sociologi. Si stanno così creando le basi per una possibile scienza del comporta­ mento sociale che travalica i vecchi confini disciplinari di ascendenza positivista. 3 . I. 3. La teoria della crescita endogena

Per comprendere le ragioni che stanno alla base del notevole succes­ so ottenuto nel corso dell'ultimo decennio dalla teoria della crescita endogena in ambito macroeconomico occorre prendere le mosse dal cosiddetto " residuo di Solow" . Con questa espressione si indicano tutte quelle determinanti dei processi di crescita che non sono riduci­ bili ai contributi del lavoro e del capitale. Col senno di poi si può dire che uno dei meriti principali del modello di Solow del I 95 6 (cfr. PAR. I .2 .4) fu l'idea che la crescita economica non può essere spiegata esaustivamente dagli incrementi dello stock dei fattori produttivi. La sua teoria comunque lasciava senza risposta i seguenti interrogativi: ammettendo che alla base degli incrementi di produttività del lavoro

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e del capitale vi sia il progresso tecnico, come è possibile modellizza­ re questo fenomeno? Come riuscire a fornire spiegazioni endogene del tasso di crescita di lungo periodo? Malgrado l'oggettiva rilevanza delle questioni, e i contributi inno­ vativi di economisti come Kenneth Arrow e Nicholas Kaldor, negli anni sessanta si era assistito a un affievolimento dell'interesse degli studiosi neoclassici per i problemi della crescita a tutto vantaggio del­ la teoria del ciclo economico. Tale periodo di oblio però non è dura­ to a lungo. Come ha mostrato N. Foss, a partire dai primi anni ottan­ ta, proprio all'interno della teoria del business cycle, si è verificato un graduale ma significativo spostamento degli interessi degli economisti verso lo studio dei fattori reali della crescita a discapito di quelli mo­ netari. Il lavoro di F. Kydland ed E. Prescott del 1 982 è un esempio di tale slittamento. In queste tendenze si devono leggere i sintomi di un cambiamento di clima che si sarebbe rivelato estremamente favo­ revole all'avvento della «nuova teoria della crescita». La data di nascita ufficiale della teoria della crescita endogena è il 1 986, anno di pubblicazione del fondamentale articolo di Paul Romer Increasing Returns and Long-Run Growth. Si tratta di un modello di equilibrio concorrenziale in cui il processo di crescita è guidato da rendimenti crescenti di tipo marshalliano. La funzione di produzione aggregata ha le seguenti caratteristiche: l' output dipende dallo stock di capitale, dal lavoro e dalle spese in attività di ricerca e sviluppo (R&D) ; inoltre, gli spillover derivanti dagli sforzi di ricerca privata portano a miglioramenti nello stock di conoscenza pubblica. La cono­ scenza è intesa come un input dalla produttività marginale crescente. Si tratta dunque di un modello che combina due ipotesi di fondo: equilibrio concorrenziale e cambiamento tecnologico endogeno. Ro­ mer sottolineava come la variabile conoscenza potesse presentarsi in diverse forme: ad un estremo troviamo la conoscenza scientifica di base, all'altro estremo la conoscenza intesa come insieme di istruzioni specifiche relative a una determinata operazione. Romer rilevava come «non vi siano ragioni per aspettarsi che le determinanti dell' ac­ cumulazione di questi diversi tipi di conoscenza siano le stesse [ . . ] Non vi è quindi ragione per aspettarsi una teoria unificata della cre­ scita della conoscenza» (p. 1 009 ) . Un aspetto fondamentale che accomuna numerosi modelli d i cre­ scita endogena è la caratterizzazione della conoscenza come bene pubblico: essa infatti possiede, almeno in una certa misura, gli attri­ buti della non escludibilità della non rivalità che sono propri di questi beni. L'idea è che la non escludibilità dalla fruizione della nuova co.

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noscenza creata da una singola impresa generi effetti positivi sulle possibilità produttive delle altre imprese presenti sul mercato. Le ipotesi di rendimenti crescenti e non escludibilità della cono­ scenza erano già presenti nel lavoro sul learning by doing che Arrow aveva pubblicato più di due decenni prima. In questo contributo Ar­ row aveva formalizzato l'idea secondo cui i rendimenti crescenti si configurerebbero come un effetto diretto della scoperta di nuova co­ noscenza. È fondamentalmente questa idea che verrà ripresa e svilup­ pata da Romer. Una delle più importanti implicazioni del modello di Romer è la seguente: gli output pro-capite di paesi diversi non tendono necessa­ riamente a convergere: non si può escludere che i paesi meno svi­ luppati crescano ad un ritmo inferiore rispetto a quello dei paesi avanzati o addirittura che non crescano affatto. Successivamente, in un modello elaborato nel 1 990, Romer considerò un'economia com­ posta di tre settori (ricerca, beni di produzione e beni finali) e ca­ ratterizzata da mercati di concorrenza monopolistica. Assunse inoltre che, mentre lo stock di conoscenza tecnologica è caratterizzato da non rivalità, il capitale umano invece lo è. Il modello prevede che le economie dotate di un più elevato stock di capitale umano cresce­ ranno più rapidamente delle altre. Un'accelerazione della crescita si avrà anche in conseguenza di aperture al commercio internazionale. Nel 1 988 Robert Lucas presentò un modello simile a quello di Romer del 1 986. Però alla funzione di produzione aggregata erano associati due diversi settori e due diversi tipi di investimento (in capi­ tale fisico e in capitale umano) . L'unica grandezza che veniva assunta esogena era il tasso di crescita della popolazione. Mentre il capitale fisico si accumulerebbe mediante l'usuale meccanismo neoclassico, la crescita del capitale umano sarebbe regolata invece dalla seguente " legge " : indipendentemente dallo stock già raggiunto, ad un livello costante di sforzo corrisponde un tasso costante di crescita dello stock. Lucas sostenne che uno dei meriti principali della "nuova teo­ ria della crescita " starebbe nella sua capacità di elaborare modelli for­ mali in grado di spiegare sia la crescita dei paesi avanzati sia quella dei paesi in via di sviluppo. Al contrario, negli anni sessanta prevale­ va l'idea che si dovesse ricorrere a teorie distinte. Inoltre ci sarebbe una rilevante implicazione politica, in quanto le autorità pubbliche sembrano godere di un maggiore " spazio di manovra" in contesti ca­ ratterizzati da crescita endogena. Il modello di Solow, facendo dipen­ dere il tasso di crescita di lungo periodo esclusivamente dal cambia­ mento tecnologico esogeno, finiva per non assegnare alcun ruolo a soggetti istituzionali esterni al mercato; al contrario, i modelli di ere-

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scita endogena ammettono che, ad esempio, cambiamenti di regime fiscale possano influenzare il tasso di crescita. Altro contributo importante alla teoria della crescita endogena è quello di Philippe Aghion e Peter Howitt, i quali hanno tentato di mostrare che ci sono numerosi canali attraverso cui le società posso­ no accumulare conoscenza, dall'istruzione formale alle innovazioni di prodotto. Tra questi canali, particolare rilievo viene attribuito a quel­ lo delle innovazioni industriali che migliorano la qualità dei prodotti. Il ragionamento di matrice schumpeteriana sottostante al modello di crescita endogena di Aghion e Howitt può essere sintetizzato nei ter­ mini seguenti: la crescita è effetto del progresso tecnologico, il quale a sua volta dipende dalla concorrenza tra imprese che fanno ricerca e generano innovazioni. Ogni innovazione porta alla produzione di un bene intermedio di tipo nuovo, grazie al quale è possibile produrre l' output finale in condizioni di maggiore efficienza. Dal punto di vista della singola impresa, l'incentivo a impegnarsi sul versante della ri­ cerca è offerto dalla prospettiva di costruire delle rendite di monopo­ lio in virtù della protezione legale delle innovazioni. D'altra parte, in un contesto dinamico, quelle stesse rendite vengono vanificate dalle innovazioni successive, le quali rendono obsoleto il bene intermedio che era stato appena prodotto. Si può peraltro notare come questo schema analitico contempli una relazione forte tra potere di mercato dell'impresa innovativa e grado di escludibilità della conoscenza. Tale escludibilità a sua volta dipende criticamente dalla presenza di istitu­ zioni legali preposte alla protezione dei diritti di proprietà, oltre che dalla natura stessa della conoscenza. J.2

La teoria della produzione come processo circolare

3 . 2 . r . L' activity analysis e il teorema di non sostituzione

Nel CAP. 8 del primo volume abbiamo parlato di una certa tradizione nell'analisi delle interdipendenze settoriali che prese origine agli inizi del Novecento in Russia con Dmitriev, per poi emigrare in Germania, a Berlino, con von Charasoff e von Bortkiewicz. Lì, nella seconda metà degli anni venti, tale tradizione ispirò i lavori di Leontief e Re­ mak. Nello stesso capitolo si è anche parlato del Kolloquium viennese di Menger e dei contributi di Schlesinger e Wald al problema dell'e­ sistenza di soluzioni nel modello di equilibrio generale; così come si è accennato ai movimenti di von Neumann fra Berlino e Vienna. Queste tradizioni di pensiero furono trapiantate in America negli

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anni trenta e lì, nel secondo dopoguerra, diedero diversi e notevoli frutti. Abbiamo già detto del contributo dato da von Neumann alla nascita della teoria dei giochi e del modello di crescita bilanciata. Ab­ biamo anche accennato al contributo di Leontief all'avvio dell'analisi input-output e alle sue applicazioni pratiche. Infine abbiamo detto dell'influenza esercitata da queste tradizioni di pensiero sullo sviluppo dell'approccio neowalrasiano all'analisi dell'equilibrio. Ora vogliamo dire qualcosa su altri due sviluppi teorici importanti che presero pure avvio nel secondo dopoguerra e che possono essere interpretati come approfondimenti ed estensioni dei contributi di Leontief e von Neu­ mann. Ci riferiamo all'analisi delle attività e al teorema di non so­ stituzione. Il luogo classico di entrambi questi sviluppi teorici è il li­ bro Activity Analysis o/ Production and Allocation , uscito nel I 95 I a cura di Tjalling Charles Koopmans . L'analisi delle attività è una generalizzazione del modello di von Neumann in termini di programmazione lineare; generalizzazione consistente nell'introduzione di diverse risorse scarse e nell'uso del modello per risolvere il problema della loro allocazione efficiente. Le prime idee sulla programmazione lineare, lo abbiamo già ricordato, risalgono a un contributo di Kantorovic del I 9 3 9 · Ma la teoria de­ collò solo nel I 947 , quando fu trovato, nel metodo del simplesso, un modo efficiente per risolvere un problema di programmazione linea­ re. L'autore fu George Bernard Dantzig, che aveva riscoperto la pro­ grammazione lineare in maniera indipendente da Kantorovic. La sua prima pubblicazione importante sull'argomento fu Programming in a Linear Structure, alla quale ne seguì un'altra che uscì nel già ricordato volume di Koopmans del I 9 5 I . Notevoli sono state le applicazioni pratiche nella programmazione produttiva delle imprese. Ma a noi interessano le applicazioni teori­ che; e la più importante di queste è l' analisi delle attività. Un' attività è una combinazione tecnicamente ammissibile di input, cioè una tec­ nica. Si assume che esistano più attività che risorse. Il cosiddetto " problema primale , consiste nello scegliere un vettore di livelli d'atti­ vità che massimizzi il valore dell' output finale, dati i prezzi dei beni finali, in modo che non vengano usate più risorse di quante ne sono disponibili. Il " problema duale , invece consiste nello scegliere un vettore di prezzi che minimizzi il costo delle risorse impiegate, in modo tale che il costo di produzione di ogni merce prodotta non sia inferiore al suo prezzo. Quest'ultima condizione assicura che non si facciano profitti. La soluzione del problema di programmazione con­ sente di raggiungere simultaneamente diversi risultati: di determinare i valori d'equilibrio dei livelli di produzione e dei prezzi; di massi-

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mizzare il prodotto nazionale; di minimizzare i costi di produzione; di scegliere le tecniche più profittevoli. La soluzione risulta essre dun­ que ottimale e di equilibrio. Il libro curato da Koopmans conteneva, tra le altre cose, ben quattro saggi sul cosiddetto " teorema di non sostituzione" , uno di Georgescu-Roegen, uno di Arrow, uno di Koopmans e uno di Sa­ muelson. Questo teorema fu enunciato inizialmente sotto forma di un'applicazione teorica del modello di Leontief. Si fonda sulle se­ guenti ipotesi: esiste un solo input primario; tale input è indispensa­ bile per produrre ogni merce; ogni processo produce un solo output; esistono rendimenti costanti di scala; esiste concorrenza perfetta. Il problema è di scegliere le attività più profittevoli, cioè quelle che mi­ nimizzano i costi. Si dimostra che, sotto quelle ipotesi, i prezzi e i livelli d'attività sono tra loro indipendenti e che l'insieme delle attivi­ tà scelte come le più profittevoli per ottenere un dato vettore di do­ manda finale resta il più profittevole anche per produrre qualsiasi al­ tro vettore. Quest'ultimo risultato è di cruciale importanza. Le attività vengo­ no scelte dagli imprenditori con l'obiettivo di minimizzare i costi; se non esistono altri input primari, oltre al lavoro, esiste un unico insie­ me di attività che è il più profittevole; poiché prevalgono rendimenti di scala costanti, una tecnica che è la più profittevole a un certo li­ vello d'attività lo è a qualunque altro livello; perciò la scelta delle tec­ niche non cambia al variare della composizione della domanda e del­ le quantità prodotte e i prezzi dipendono unicamente dalle condizioni di produzione. Sulla rilevanza del teorema esistono due diverse interpretazioni. Nella prima, e originaria, si interpreta il termine " sostituzione" come sinonimo di " cambiamento delle tecniche " . Allora il teorema servi­ rebbe a dimostrare la robustezza del modello di Leontief e di modelli a esso affini. L'ipotesi di coefficienti fissi, che compare in tali modelli, non è restrittiva, come sostenevano alcuni critici di Leontief. Infatti, dimostra il teorema, tali coefficienti possono essere interpretati come quelli che sono stati scelti dagli imprenditori entro una vasta gamma di possibilità tecniche; una tale scelta non viene modificata al cambia­ re della domanda finale. In un 'altra interpretazione il " teorema di non sostituzione " mira a porre in evidenza il fatto che, al variare della composizione della do­ manda, non si verifica sostituzione tra fattori primari. D'altra parte è evidente che non si può verificare sostituzione tra fattori primari quando ne esiste solo uno. La rilevanza del teorema allora sembre­ rebbe risiedere nel fatto che, quando ne esiste più di uno, la sostituI53

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zione è possibile e ha luogo ogni qualvolta si verifica un cambiamen­ to nei gusti dei consumatori. Sembrerebbe così restare confermata la tradizionale visione neoclassica secondo cui, in generale, se aumenta la domanda di un bene producibile con elevata intensità di un certo fattore, aumenterà, oltre al prezzo di quel bene, anche la domanda e la remunerazione del fattore in questione e, di conseguenza, varieran­ no anche i prezzi di tutti gli altri beni. In generale perciò i prezzi dipenderebbero dalla domanda dei beni finali e dalla scarsità degli input primari. Vedremo nel prossimo paragrafo quanta cautela biso­ gna mantenere nel sostenere una tesi del genere. Intanto faremo notare che esistono casi in cui non vale il teorema di non sostituzione, e in cui la sostituzione tra fattori primari non svolge alcun ruolo. Uno di essi è quello in cui esistono rendimenti non costanti di scala. Qui è chiaro che variazioni della domanda avranno effetti rilevanti sulle condizioni di costo delle merci e quindi ne avranno anche sui loro prezzi. Ma ciò non ha niente a che vedere con la sostituzione tra fattori primari. Un altro caso è quello in cui esiste produzione congiunta. Qui, in generale, le variazioni della do­ manda modificheranno le condizioni di convenienza nell'attivazione dei diversi processi, visto che una certa merce può essere prodotta congiuntamente a qualche altra facendo uso di diverse attività. Perciò al variare della domanda potranno variare le tecniche attivate e quin­ di i costi e i prezzi. Ma, di nuovo, ciò non ha niente e che vedere con la sostituzione tra fattori primari. Ricorderemo infine tre contributi degli anni sessanta, uno di Paul Anthony Samuelson, uno di J ames A. Mirrlees, e uno di J oseph E. Stiglitz, nei quali il teorema veniva generalizzato con l'introduzione di un saggio d'interesse e di un caso speciale di produzione congiunta. L'introduzione dell'interesse modifica i risultati del teorema in questo senso: che esisterà un diverso sistema dei prezzi per ogni diverso valo­ re del saggio d'interesse; e che la tecnica scelta potrà variare al variare dell'interesse. Il carattere " dinamico " del teorema consisterebbe nella possibilità di applicarlo a un'economia che cresce in stato uniforme. 3 .2 .2 . Il dibattito sulla teoria del capitale

Esclusa la possibilità di sostituzione tra fattori primari, se ne potreb­ be ritenere possibile però una di un altro tipo: la sostituzione tra il " fattore" capitale e il lavoro. Pur escludendo effetti della domanda dei beni finali sui prezzi, non potrebbe esistere una relazione signifi­ cativa tra la domanda dei " fattori produttivi" lavoro e capitale e le loro remunerazioni? Se i prezzi dei servizi dei fattori sono degli indici

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di scarsità allora dovrebbe accadere che, all'aumentare del rapporto salario-interesse, aumenterà la domanda dei servizi del capitale rispet­ to a quella dei servizi del lavoro. In concorrenza perfetta le remune­ razioni reali dei fattori dovrebbero eguagliare le loro produttività marginali; perciò la spiegazione dell'esistenza di una relazione decre­ scente tra intensità capitalistica delle tecniche e costo relativo del ca­ pitale potrebbe essere ricercata nella diminuzione relativa della pro­ duttività marginale del capitale rispetto a quella del lavoro, diminu­ zione che sarebbe causata dalla sostituzione del lavoro col capitale. Questa è la teoria della distribuzione che prevalse. Già Wicksell però, come si è accennato nel CAP . 6 del primo volume, si era reso conto della stranezza di certi fenomeni (che più tardi sarebbero stati chiamati " effetti Wicksell" ) e aveva posto in luce la possibilità che si verificassero alcuni " paradossi" nella relazione esistente tra intensità capitalistica delle tecniche e remunerazione del capitale. Solo nel dibattito degli anni cinquanta e sessanta, tuttavia, si riu­ scì a venire a capo del problema. Il dibattito fu aperto da J oan V. Robinson con l'articolo The Production Function an d the Theory o/ Capita!, nel quale essa avanzava una tesi ispiratale dalla lettura del­ l ' Introduzione di Sraffa ai Principi di Ricardo; e cioè che il "grado di meccanizzazione " di una tecnica produttiva potesse aumentare, inve­ ce che diminuire, in seguito a un aumento del rapporto interesse-sala­ rio. La Robinson fece anche notare che l'origine di questo strano ef­ fetto andrebbe ricercata nell'impossibilità di misurare il capitale in termini fisici, data la sua composizione eterogenea, e nella conseguen­ te necessità di misurarlo in valore. Poi David Champernowne, in un commento all'articolo della Robinson, pur riconoscendo l'importanza del problema da lei sollevato, suggerì che lo si potesse risolvere misu­ rando il capitale mediante un "in dice" fisico; ma ammise che il suo indice può non funzionare in alcuni casi "strani " . La Robinson con­ trattaccò, tra l'altro , in un paragrafo di The Accumulation o/ Capita! ( 1 95 6), dove mise in chiaro che la relazione perversa tra prezzi dei servizi dei fattori e intensità capitalistica delle tecniche non è dovuta a fenomeni di natura puramente "finanziaria " , come sembrava sugge­ rire Champemowne, ma che può essere generata da un reale cambia­ mento tecnico. In quell'anno, strano scherzo della storia, videro la luce i primi modelli di crescita unisettoriali neoclassici, quelli di Solow e Swan, di cui abbiamo già parlato nel CAP. 1 . In tali modelli si faceva uso pro­ prio della funzione di produzione aggregata e proprio della teoria del capitale che erano stati criticati dalla Robinson. Il che servì a movi-

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mentare la scena. Nel r 9 6o comunque usciva Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa, un libro che forniva tutti gli strumenti concettuali necessari per chiarire la questione. Contemporaneamente a esso usciva Il capitale nelle teorie della distribuzione di Garegnani, nel quale la critica alle teorie neoclassiche del capitale veniva formu­ lata in termini del tutto espliciti. La critica della Robinson fu accetta­ ta senza resistenze da molti economisti neoclassici, tra cui ricordere­ mo Morishima e Hicks. Tuttavia ancora nel r 962 e nel r 965 Samuel­ son e Levhari avevano fatto dei tentativi per risolvere il problema in una direzione diversa da quella suggerita dalla Robinson. Il dibattito raggiunse l'acme nel 1 966, quando il " Quarterly Journal of Econo­ mics" gli dedicò un numero speciale che raccoglieva gli atti di un symposium. Decisivi furono gli articoli pubblicativi da Pasinetti e Ga­ regnani. Ma più importante fu il Summing up in cui Samuelson rico­ nobbe la validità delle critiche e, pur cercando di minimizzarne l'im­ portanza, ammise l'errore insito nelle teorie neo classiche del capitale aggregato. Il che chiuse il dibattito, anche se si verificarono degli strascichi fin entro i primi anni settanta. La parola definitiva fu detta da Garegnani in Heterogeneous Capita� the Production Function and the Theory o/ Distribution . Per esporre la materia nel modo più semplice useremo un mo­ dello di un'economia in cui si producono due sole merci, un bene di consumo e un bene capitale, mediante capitale e lavoro; è lo stesso modello che abbiamo usato nel CAP. 4 del primo volume per chiarire il problema marxiano della trasformazione dei valori in prezzi:

I = w lc

+

k cP ( r

+

r)

Il prezzo del bene di consumo è preso come numerario, w è il salario reale, p il prezzo relativo del bene capitale, r il saggio di profitto, uguale al saggio d'interesse, lk e le i coefficienti di lavoro nelle due industrie, kk e kc i coefficienti di capitale. Con qualche semplice pas­ saggio algebrico si ottiene, dalle due equazioni, una relazione decre­ scente tra salario e profitto, nota come " curva salario-profitto " , cioè: w

lc - lc lk

(- -)

kk kc (r lk lc

+

r)

3 · AI MARGI="!I DELL ' ORTODOSSIA FIG URA

9

w

a

- - - - - - - - - - - - - - -

o

� {> �

_ _ _

p2 r

Due diverse curve salario-profitto sono state disegnate nella FIG . 9 · Rappresentano due differenti tecniche produttive (due diversi sistemi di equazioni) ; chiamiamole a e {3. Le tecniche differiscono a causa del diverso modo in cui combinano capitale e lavoro. La concavità della curva a implica che nella tecnica a è kk llk > kc llc. Invece la curva f3 è lineare perché si assume che nella tecnica f3 sia kk llk = kcllc. Nella tecnica a il rapporto capitale-lavoro varierà al variare del prezzo del capitale, e quindi al variare della distribuzione del reddito, anche sen­ za che cambi la tecnica produttiva. N ella tecnica f3 invece il rapporto capitale-lavoro aggregato non varia, al variare della distribuzione, per­ ché non variano i prezzi. Graficamente il rapporto capitale-lavoro è misurato, per la tecnica {3, dall'inclinazione della retta {3. Infatti nel caso in cui kk llk = kcllc la formula precedente si riduce a questa: w

in cui kk llc misura l'inclinazione della retta {3. Per la tecnica a invece il rapporto capitale-lavoro è misurato, ad esempio nel punto P2 , dall'ampiezza dell'angolo a, ed è diverso in ogni diverso punto della curva a. Ora confrontiamo le due tecniche in corrispondenza di diversi as­ setti distributivi. Nei punti a sinistra di P1 i capitalisti sceglieranno la I57

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tecnica f3 poiché essa, rispetto alla a, dà profitti più elevati in corri­ spondenza di ogni salario. Nei punti compresi tra P1 e P2 sarà invece preferita la tecnica a, mentre in quelli alla destra di P2 si tornerà alla tecnica {3. Questo è il cosiddetto fenomeno del " ritorno delle tecni­ che " : la tecnica {3, che era stata abbandonata in seguito a un aumento del saggio di profitto intorno a P 1 , torna a essere preferita quando il saggio di profitto diventa ancora più alto, cioè più alto di r2 • Nel punto P1 e nel punto P2 le due tecniche sono equiprofittevoli e han­ no, in ognuno di essi, uno stesso sistema dei prezzi. Passando dalla tecnica f3 alla a in un intorno di P1 si verifica una diminuzione del rapporto capitale-lavoro. Questo cambiamento dell'intensità capitali­ stica delle tecniche ha cause puramente reali, visto che nel punto P1 le due tecniche hanno lo stesso sistema dei prezzi. Il fenomeno è noto con il nome di " effetto Wicksell reale positivo " . N el passaggio dalla tecnica a alla f3 in un intorno di P2 si verifica un effetto Wick­ sell reale negativo. In questo caso, all'aumentare del saggio di pro­ fitto, il rapporto capitale-lavoro aumenta invece di diminuire; e ciò accade a causa di un reale cambiamento tecnico. Anche nei punti compresi tra P1 e P2 il rapporto capitale-lavoro aumenta quando au­ menta il saggio d'interesse, ma ciò accade, in questo caso, solo perché cambia il prezzo del capitale. Questo è un " effetto Wicksell di prez­ zo " . Il fenomeno dell'aumento del rapporto capitale-lavoro in seguito ad un aumento dell'interesse si chiama "inversione del valore del ca­ pitale " . I n generale si può dire che l a radice del problema sta nel fatto che nell'economia si producono beni eterogenei, cosicché il capitale deve essere misurato in valore. Quando varia il salario reale, cambia il costo del lavoro in ogni industria e, siccome l'incidenza dell'input di lavoro è diversa da industria e industria, cambiano i prezzi relativi delle merci. Quindi il valore del capitale varierà senza che mutino le tecniche, ma come semplice conseguenza del cambiamento dei prezzi relativi. Questo è l'effetto Wicksell di prezzo. Il rapporto capitale-la­ voro può cambiare in qualsiasi direzione, ed è possibile che aumenti quando aumenta il rapporto interesse-salario. Ciò vuoi dire che l'in­ tensità capitalistica della tecnica può aumentare quando il "fattore " capitale viene a costare più caro del fattore lavoro: il contrario di quanto prevede la teoria marginalista. In questo caso il fenomeno è causato da un perverso effetto Wicksell di prezzo. Può accadere di peggio. Quando cambia il salario reale, i capitali­ sti sono indotti a modificare le tecniche non solo perché varia il costo del lavoro, ma anche perché, in seguito al cambiamento dei prezzi delle merci, mutano tutti i costi di produzione. Cambieranno quindi

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anche le quantità impiegate dei beni capitale e la grandezza del valo­ re del capitale. Questo è l'effetto Wicksell reale, che può essere sia positivo che negativo. Se è negativo, accade che il rapporto capitale­ lavoro aggregato aumenta all'aumentare del rapporto interesse-salario. Di nuovo: il contrario di quanto prevede la teoria marginalista. In questo caso il fenomeno si verifica come conseguenza di un genuino cambiamento delle tecniche e delle quantità fisiche dei beni capitali usati. Un antico pregiudizio marginalista veniva propagandato raccon­ tando la seguente parabola. Quando aumenta l'impiego di lavoro, dato l'impiego degli altri fattori produttivi, se ne riduce la produttivi­ tà marginale. Le imprese saranno disposte ad aumentare l' occupazio­ ne solo se si riduce il salario. In equilibrio concorrenziale il salario coincide con la produttività marginale del lavoro, cosicché si può dire che il lavoro viene remunerato in accordo con il suo contributo pro­ duttivo. Allo stesso modo, quando aumenta l'impiego del " fattore" capitale se ne riduce la produttività marginale. Perciò le imprese sa­ ranno disposte ad adottare tecniche più intensamente capitalistiche solo se si riduce il tasso d'interesse. In equilibrio concorrenziale il saggio d'interesse remunera il contributo produttivo del capitale, coincidendo con la sua produttività marginale, e si riduce quando se ne aumenta l'impiego. Ebbene questa parabola non può più essere raccontata perché può accadere che l'impiego del capitale aumenti quando il suo costo aumenta invece che quando diminuisce. La conclusione può essere generalizzata: non vale solo per il capi­ tale, ma anche per tutti i fattori originari, ad esempio la terra. È pos­ sibile che il rapporto tra impiego di terra e impiego di lavoro au­ menti quando il rapporto rendita-salario aumenta. Anche questo è un risultato che emerge dall'analisi di Sraffa. Fu esplicitato compiuta­ mente però dai suoi seguaci. Ricorderemo tra tutti John S. Metcalfe e lan Steedman, che approfondirono la questione nel saggio Reswit­ ching and Primary Input Use. 3 . 2 . 3 . Produzione di merci a mezzo di merci

Tutto questo c'è nel libro di Sraffa, ma solo delineato nelle linee es­ senziali. E non deve meravigliare che la teoria economica ortodossa abbia avuto bisogno di diversi anni di dibattiti per accettarne le im­ plicazioni teoriche. Il fatto è che questo tardo prodotto degli anni dell'alta teoria è un libro scarno, essenziale, compatto, che non si la­ scia assimilare facilmente. Né è facile trovargli il posto giusto nella I59

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storia del pensiero economico, data l'avarizia di riferimenti con cui Sraffa ha dato conto delle proprie fonti. Quanto alla semplice presentazione del modello di Sraffa, qui possiamo sperare di essere fedeli a esso, e anzi cercare di superarlo, solo in una cosa: la concisione. Il nocciolo del modello è costituito da un'equazione come la seguente:

p = wl

+

Ap ( 1

+

r)

dove A è una matrice di coefficienti tecnici di dimensione n x n, l un vettore di coefficienti di lavoro, p un vettore di prezzi relativi. Se il salario, w, è noto, il sistema di n equazioni determina simultaneamen­ te il saggio di profitto e i prezzi relativi di n - I merci. Al variare di w variano le condizioni di costo relative delle diverse merci perché le proporzioni d'impiego del lavoro e dei mezzi di pro­ duzione nelle diverse industrie sono diverse. Perciò variano tutti i prezzi relativi. Tra saggio di profitto e salario esiste una relazione de­ crescente. In tema di distribuzione il modello ci dice semplicemente che, nota una delle due variabili distributive, l'altra viene determinata residualmente. Il profitto non è spiegato con il contributo produttivo del "fattore , capitale e con la sua scarsità: è invece trattato come un sovrappiù la cui grandezza dipende unicamente dalle relazioni sociali e tecniche che vigono nel processo produttivo. È da questo risultato che bisogna partire per collocare storica­ mente l'opera di Sraffa. Intanto va detto che bisogna rifiutare subito le interpretazioni che ne fanno un caso particolare di un modello di equilibrio economico generale neowalrasiano: quel caso particolare in cui si ottiene un saggio di profitto uniforme. Queste interpretazioni sono scarsamente significative perché, concentrando l'attenzione sugli aspetti formali del modello, ne trascurano la sostanza teorica. Ciò che rende la teoria di Sraffa estranea al modello di equilibrio generale è una serie di caratteristiche teoriche, tra cui ricorderemo: l'assenza dell'ipotesi di piena occupazione; il rifiuto di considerare i prezzi come determinati dalla domanda e dall'offerta; il rigetto dei concetti di produttività marginale; il ripudio della teoria di capitale come fat­ tore produttivo; la spiegazione del profitto come residuo. Il che ci porta nel mondo degli economisti classici e di Marx. I classici e Marx facevano uso di una dinamica che si svolge nel tempo storico. Essi assumevano date, in un certo istante, o in un arco tem­ porale molto breve (ad esempio un ciclo produttivo) , la tecnica in uso e la composizione della domanda finale. Per studiare il cambia­ mento non ragionavano assumendo che in ogni istante è aperta la

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possibilità di scegliere tra tecniche e consumi finali prevalenti in di­ verse economie in stato stazionario. Le tecniche e la domanda, per loro, cambiano col passare del tempo, sono diverse da un periodo all'altro, ma in ogni periodo, in ogni ciclo produttivo, esistono un'u­ nica tecnica e un'unica domanda finale. Così i prezzi possono cam­ biare col passare del tempo; e anche in conseguenza dei cambiamenti della domanda finale, visto che questi cambiamenti inducono cambia­ menti delle tecniche. Ebbene, pressoché l'intero libro di Sraffa può essere letto in questa ottica. Dunque, per capire l'essenza della " rivo­ luzione sraffiana" , è necessario definire più nettamente la posizione di Sraffa rispetto all'approccio classico e a quello di Marx. Il problema è che non esiste un " paradigma classico-marxiano " , s e è vero che Marx si considerava u n critico di Ricardo e d i Smith. Allora, Sraffa era un "neoricardiano " , come sostengono alcuni marxi­ sti ortodossi, oltre che alcuni ortodossi neoclassici? Oppure era un marxista, come sostengono molti suoi seguaci? Il livello di astrazione a cui si colloca il modello di Sraffa è defini­ to nel sottotitolo del libro: Premesse a una critica della teoria economi­ ca. Ed è lo stesso del primo capitolo del Capitale, intitolato La merce, vera e propria premessa fondamentale alla Critica del!)economia politi­ ca. In quel capitolo Marx affrontava l'analisi della merce e del suo valore e poneva le basi teoriche di tutta la sua indagine successiva; se la prendeva con gli "economisti volgari " , che accusava di cercare nel­ lo scambio le cause del valore delle merci; e si riallacciava esplicita­ mente a Ricardo nel cercarle invece nella sfera della produzione. Tut­ tavia, benché avesse messo bene in chiaro che il valore è un fenome­ no sociale, l'influenza di Ricardo lo indusse a determinare il valore delle merci astraendo dalla forma economica capitalistica entro cui esse sono prodotte. Il valore, secondo la teoria esposta nel capitolo La merce, dipenderebbe unicamente dalla quantità di lavoro impiega­ to nella produzione, la sua determinazione sociale riducendosi al modo in cui la società alloca l'attività lavorativa tra i vari impieghi. Non sarebbe influenzato invece dal modo in cui la produzione è strutturata socialmente, né dal modo in cui le classi sociali si con­ frontano nella sfera della produzione. Così, ad esempio, il valore del prodotto sociale non dipenderebbe dalla maniera in cui il prodotto è distribuito - chiara reminiscenza della pretesa ricardiana di misurare il valore rendendolo indipendente dalle variazioni della distribuzione. Va da sé che per raggiungere questo risultato Marx si dovette porre a un livello d'astrazione sidereo; ed è quasi paradossale che un libro sul " capitale " sia aperto da un capitolo in cui si astrae dal capitale. Eb­ bene Sraffa è come se avesse riscritto quel capitolo, cercando anche r6r

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lui il massimo di astrazione possibile: dai rendimenti di scala, dallo sviluppo, dagli aggiustamenti in disequilibrio, dalle forme di spesa, dalla struttura dei mercati, perfino dallo specifico assetto istituzionale a cui il modo di produzione capitalistico può conformarsi storicamen­ te; proprio come nel capitolo La merce. Ma ha messo in chiaro che l'unica cosa da cui non si può astrarre, nel determinare il valore delle merci prodotte in un'economia capitalistica, è il fatto che sono pro­ dotte in condizioni capitalistiche; che non ha senso astrarre dal sala­ rio, come fa Marx in quel capitolo. In altri termini Sraffa prese sul serio Marx nel trattare il valore come un fenomeno sociale, tanto sul serio da allontanarsi da Ricardo, per tale via, più di quanto riuscisse a fare Marx stesso. Ci sembra di poter concludere che, sebbene in tema di determi­ nazione del profitto, la teoria di Sraffa non lasci intravedere differen­ ze analitiche sostanziali tra Ricardo e Marx, in tema di valore invece essa possa essere letta solo in una maniera: le Premesse ad una critica della teoria economica ci appaiono come un primo capitolo del Capi­ tale quale lo avrebbe scritto Marx se fosse stato un po' meno ricar­ diano e un po' più marxista. 3·3

Il pensiero economico marxista tra ortodossia e revisione

3 · 3 · 1 . Prima del I 968

In questo paragrafo tratteremo di un gruppo di economisti che han­ no dato dei contributi interessanti allo sviluppo della teoria marxista nel secondo dopoguerra. Il primo di cui parleremo è Paul Alexander Baran. Russo, figlio di un menscevico, respirò giovanissimo il clima dei fervidi dibattiti so­ vietici degli anni venti. Emigrò nel I 92 8 e, dopo varie disavventure accademiche in Germania e in Inghilterra, approdò negli Stati Uniti nel I 9 3 9 . Lì riuscì a ottenere una posizione accademica sicura nel I 95 I , all'Università di Stanford. La sua opera principale è The Politi­ ca! Economy o/ Growth, del I 9 5 7 , in cui avanzò la famosa teoria del surplus potenziale. Mentre il surplus effettivo prodotto in un'economia è misurato dal divario tra produzione corrente e consumo necessario corrente, quello potenziale è definito come la differenza tra la produ­ zione resa possibile dalla tecnologia esistente e il consumo produttivo necessario per ottenere quella produzione. È una grandezza nazionale ovviamente, che serve però a mettere in luce le distorsioni effettive delle economie capitalistiche, nelle quali infatti il surplus potenziale è

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sempre superiore a quello effettivo a causa delle inefficienze allocative generate dal mercato e dal sistema del profitto. Né bisogna dimenticare l'analisi baraniana dell'imperialismo; un'a­ nalisi che, discostandosi in maniera originale dalla vulgata marxista­ leninista di quei tempi, fece avanzare il pensiero marxista nella dire­ zione della teoria dello scambio ineguale come meccanismo fonda­ mentale di produzione e riproduzione del rapporto imperialistico e del sottosviluppo. Questa teoria ispirò molti lavori successivi, tra i più importanti dei quali vanno ricordati almeno quello di A. G. Frank e quello di A. Emmanuel. Il libro di Baran fu importante an­ che politicamente perché, con la sua tesi secondo cui i movimenti di liberazione nazionale avrebbero contribuito a liberare non solo se stessi dall'imperialismo, ma anche i paesi imperialisti dal capitalismo, diede fondamento teorico a gran parte dei movimenti terzomondisti degli anni sessanta. Le tesi di Baran furono sviluppate nel libro Monopoly Capita!, del 1 966, scritto in collaborazione con Sweezy. Di Paul Malor Sweezy ab­ biamo già parlato, nel CAP. 8 del primo volume, a proposito della sua summa della teoria economica marxista, The Theory o/ Capitalist De­ velopment, un libro su cui si sono formate generazioni di intellettuali marxisti. Due linee di pensiero originali di Sweezy furono già abboz­ zate in quel libro e hanno a che fare con la sua personale interpreta­ zione di due leggi di movimento marxiane: da una parte la teoria del­ le " crisi di realizzo" , che fu riformulata, anche sotto l'influsso delle teorie stagnazioniste di origine keynesiana, in un'originale teoria sot­ toconsumistica della depressione; dall'altra la legge della tendenza alla crescente " concentrazione " e " centralizzazione" del capitale, che fu arricchita con l'esperienza acquisita nella partecipazione ai dibattiti degli anni trenta sulle forme di mercato non concorrenziali. A quei dibattiti, come abbiamo accennato già nel CAP. 2 di questo volume, Sweezy aveva partecipato con un contributo originale in cui aveva presentato la tesi della curva di domanda ad angolo. In Monopoly Capita! questi diversi interessi di ricerca si fusero con la teoria del surplus economico di Baran e produssero la tesi del­ la tendenza alla crescita del surplus; una tesi che doveva rimpiazzare, nelle intenzioni degli autori, la marxiana legge della caduta tendenzia­ le del saggio di profitto come spiegazione fondamentale della marcia del capitalismo verso l'autodistruzione. L'accumulazione capitalistica causerebbe, oltre a una crescente concentrazione del capitale, un co­ stante aumento della produzione e della produttività. Data la disegua­ le distribuzione del reddito, caratteristica ineliminabile delle econo­ mie capitalistiche, l'accumulazione creerebbe anche un fondamentale

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problema di " assorbimento del surplus" e una permanente carenza di opportunità d'investimento. La connessa tendenza alla stagnazione potrebbe essere controbilanciata da certe controtendenze, come le spese di vendita, la spesa pubblica, le spese militari ecc. Ma queste, da una parte contribuiscono a creare vari problemi di natura sociale e politica, come sprechi, inefficienze, guerre imperialistiche, dall'altra possono servire a ostacolare solo temporaneamente l'intrinseca ten­ denza alla stagnazione. Un altro economista marxista importante di questo periodo fu Maurice Herbert Dobb, di cui abbiamo già ricordato l'importante Politica! Economy and Capitalism del 1 9 3 7 . Nel 1 946 uscì Studies in the Development o/ Capitalism, un libro che aprì un importante di­ battito teorico e nutrì intere generazioni di storici economici, non solo marxisti. Uno dei principali argomenti di discussione riguardò il problema se il declino del feudalesimo fosse stato causato da con­ traddizioni interne, come sosteneva Dobb, o non fosse stato innescato piuttosto da fattori " esterni" , quali lo sviluppo del commercio e delle relazioni tra città e campagna, come sostenne tra gli altri anche Swee­ zy. Un dibattito, questo, la cui rilevanza non è limitata all'ambito de­ gli studi di storia economica, ma tocca un problema centrale della teoria economica marxista, quello dell' " accumulazione originaria " . Uno degli interessi principali di Dobb nel secondo dopoguerra ri­ guardava la teoria economica del socialismo, alla quale contribuì con varie opere. Dobb fu un critico delle teorie del "socialismo di merca­ to" alla Lange-Lerner, delle quali fece notare il carattere essenzial­ mente statico e quindi irrealistico, e in polemica con le quali avanzò la tesi secondo cui, data anche la pesante eredità di disuguaglianza nella distribuzione del reddito e delle risorse, oltre che di arretratezza produttiva, un'economia in fase di transizione al socialismo deve esse­ re capace di anteporre i problemi di equità e di sviluppo a quello dell'allocazione efficiente delle risorse. Questi tre accademici " eretici" , Baran, Sweezy, Dobb, furono in realtà abbastanza ortodossi se si guarda alla cosa dal punto di vista della dottrina marxista dell'epoca. La loro ortodossia si è manifestata prevalentemente nella scelta del "livello d'analisi " su cui concentrare i propri sforzi teorici, che fu il livello "intermedio " dell'analisi dell'evo­ luzione economica; mentre quello più elevato dei "principi fonda­ mentali" del marxismo non fu neanche toccato. Per capire questo fat­ to può tornare utile la dottrina dei " tre livelli" avanzata negli anni cinquanta da Kozo Uno per razionalizzare quell'atteggiamento meto­ dologico. Uno, un importante economista giapponese dell'epoca, avanzò quella dottrina in un libro di Principi di economia politica. La

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tesi è che la teoria marxista si articola su tre livelli d' analisi: il primo, e più astratto, affronta i problemi attinenti ai principi fondamentali, del valore, della crisi, dello sfruttamento ecc.; il secondo livello è quello che delimita il campo degli studi sull'evoluzione della forma economica capitalistica e dà origine alla cosiddetta teoria dei " tre sta­ di" dello sviluppo capitalistico (mercantilismo, liberalismo, imperiali­ smo) ; il terzo, infine, è quello delle " analisi concrete delle situazioni concrete " . Ebbene, l'ortodossia dei grandi economisti marxisti di quell'epoca si è manifestata nel fatto che, a fronte dell'originalità con cui sono stati capaci di affrontare i problemi di " secondo " e " terzo" livello, nessuno di loro ha mai osato accedere criticamente al più alto livello di sapienza, affrontando i problemi teorici fondamentali. Un altro sintomo della loro ortodossia è costituito dalla convinzione, che solo Uno però ha avuto il coraggio di dichiarare esplicitamente, se­ condo cui ci sarebbe stata storia del capitalismo fino al I 9 I 7 , poi non più; poi sarebbe cominciata la storia della transizione al socialismo. 3 . 3 . 2 . Eresie marxiste

È bene soffermarci brevemente su questo problema perché su di esso si è formato uno degli spartiacque principali tra il vecchio e il nuovo marxismo. Negli anni venti e trenta la tesi secondo cui il sistema so­ vietico non era altro che una forma di " capitalismo di Stato " era stata avanzata da anarchici e marxisti " estremisti" , ma più come slogan po­ litico che come concetto analitico. La tesi cominciò ad essere elabora­ ta in termini scientifici negli anni quaranta ad opera di alcuni marxi­ sti eterodossi, come Raya Dunayevskaya, Amadeo Bordiga e Tony Cliff, per menzionarne solo tre. La Dunayevskaya esordì su posizioni trotskiste, essendo stata la segretaria di Trotsky nel I 9 3 7-3 8 , ma poi si allontanò dal maestro per sviluppare una critica radicale del mo­ dello sovietico come sistema capitalistico e dello stalinismo come con­ tro-rivoluzione. Concentrò la sua analisi sulle modalità di sfruttamen­ to del lavoro in Unione Sovietica, mostrando che lo sfruttamento esi­ ste ed è alto anche nel " paradiso dei lavoratori" , proprio come nelle economie di mercato. Avanzò inoltre la tesi secondo cui nel capitali­ smo di Stato le crisi avrebbero assunto forme ancora più gravi che in quello di mercato . Sviluppò infine un'acuta analisi delle tendenze del capitale alla globalizzazione. Il suo primo articolo sul capitalismo di Stato risale al I 94 I . Altri contributi sull'argomento sono stati raccolti e ripubblicati recentemente nel volume The Marxist-Humanist Theory o/ State-Capitalism. Anche Bordiga aveva elaborato un'originale teoria del sistema sta-

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linista che tagliava corto con tutte le contorte tesi sulla " transizione difficile " , lo " Stato operaio degenerato " , il " collettivismo burocratico" ecc. : il sistema instaurato da Stalin in Unione Sovietica è semplice­ mente una nuova forma di capitalismo. Questa tesi fu avanzata in vari saggi a partire almeno dal I 946 e, in forma compiuta, nel libro Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, del I 9 5 7 . È interes­ sante osservare che Bordiga aveva previsto che prima o poi il sistema sovietico avrebbe abbandonato il capitalismo di Stato per tornare al sistema di mercato: «Questa è la costante tra ieri, oggi e domani, tra un capitalismo organizzato dallo Zar, condotto dallo Stato sovietico, e domani reso fotograficamente identico a quello occidentale» (p. 668 ) . S u una simile linea d i pensiero s i mosse Tony Cliff con un libro che uscì nel I 948 e che subì successivamente varie rielaborazioni. La rie­ dizione più recente è del I 97 4 e porta il titolo di State Capitalism in Russia. La tesi del capitalismo di Stato restò minoritaria fino a tutti gli anni sessanta; ma la storia le ha reso giustizia. Già Charles Bettel­ heim, uno studioso di orientamento maoista, affrontò lo studio dei problemi della " transizione " interpretando le trasformazioni economi­ che e sociali generate dallo sviluppo economico sovietico come tipi­ che di un processo capitalistico. Negli anni ottanta questa visione è diventata dominante, tanto che vi si è accostato alla fine anche Swee­ zy, sia pur timidamente. Bisogna ricordare anche un altro eretico marxista contemporaneo, Ernest Mandel, di orientamento trotszkista, il quale, dopo un organi­ co ma abbastanza tradizionale Traité d' économie marxiste, ha scritto recentemente due opere di notevole originalità: Late Capitalism e Long Waves o/ Capitalist Development. Pur collocandosi anch'essi a un livello " intermedio " d'analisi, e lasciando inviolati principi " fonda­ mentali " come la caduta tendenziale del saggio di profitto, questi libri hanno contribuito a far uscire i dibattiti sul futuro del capitalismo dalle semplificazioni delle teorie del crollo e della stagnazione, oltre che a riportare all'attenzione degli economisti marxisti il problema delle onde lunghe. Infine non si può non menzionare uno dei pochi economisti ma­ rxisti dell'epoca che hanno avuto il coraggio di entrare nella cittadella dei principi fondamentali per sgombrarla da alcuni luoghi comuni. Ci riferiamo a Nobuo Okishio il quale, sviluppando tesi che erano state già avanzate negli anni trenta da K. Shibata, ha dimostrato, tra le al­ tre cose, che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto non è affatto una legge, ma solo una teoria particolare che dipende I 66

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da alcune ipotesi restrittive e irrealistiche sulla natura del progresso tecnico. Il 1 968 è stato un anno cruciale per l'evoluzione del pensiero mar­ xista. Una popolosa generazione di giovani si accostò all'improvviso alla politica, vergine di ideologie e di partiti. In tutto il mondo si ri­ bellò contro l'autoritarismo, l'oppressione, lo sfruttamento; e benché avesse cercato i propri principali riferimenti culturali nei classici anti­ chi e moderni del pensiero marxista, non mancò di portare il proprio ardore iconoclasta anche dentro l'ordine costituito della dottrina so­ cialista ufficiale. Furono liberate energie creative e i dibattiti teorici si riaccesero aspri, negli anni successivi; e non risparmiarono nulla di ciò che di sacro era stato trasmesso dai padri. Nel prossimo capitolo presenteremo alcuni dei contributi più ori­ ginali che stanno oggi uscendo da questo magma teorico. Qui voglia­ mo richiamare alcuni importanti lavori degli anni settanta che si sono distinti per aver innovato la tradizionale analisi marxista su delle que­ stioni teoriche di un qualche rilievo. Innanzitutto The Fiscal Crisis o/ the State di James O'Connor, che ruppe con le semplificazioni marx­ leniniste sullo Stato come " comitato d'affari della borghesia" per stu­ diare il ruolo svolto dallo Stato capitalista moderno nel processo d'accumulazione e, al contempo, gli effetti del conflitto di classe sulle trasformazioni dello Stato stesso. Poi Labor and Monopoly Capita! di Harry Braverman, che affrontò il problema degli effetti della mecca­ nizzazione e della gestione manageriale delle imprese sulle trasforma­ zioni del processo lavorativo e della composizione di classe nel capi­ talismo moderno. Infine The Modern World System di lmmanuel Wallerstein, che innovò sull'analisi marxiana dell"' accumulazione pri­ mitiva " , avanzando la concezione di un capitalismo che può vivere e fin dai primordi effettivamente vive - solo come "economia-mon­ do" , cioè come un sistema integrato di divisione internazionale del lavoro. 3 . 3 . 3 . Verso una teoria del valore coi piedi per terra

In tema di valore il dibattito marxista fu riaperto nel 1 960 dal libro di Sraffa, covò sotto la cenere per alcuni anni e divampò fragorosa­ mente verso la fine degli anni settanta. Oggi sembra accettata dai più l'idea che si debba rinunciare ai fasti dialettici della teoria del valore lavoro. Le ragioni che vengono addotte sono sostanzialmente quat­ tro. La prima è che quella teoria, ultimo residuo di "naturalismo ri­ cardiano" nella teoria di Marx, è in contrasto con la tesi, propria-

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mente marxiana, che vuole il valore un "fenomeno sociale" . Ne ab­ biamo già accennato nel paragrafo dedicato a Sraffa e non ci tornere­ mo sopra; ci limiteremo a indicare in Marx: Il valore come costo socia­ le reale di Marco Lippi l'opera che più lucidamente ha affrontato questo aspetto del problema. La seconda ragione ha a che fare con il problema della trasforma­ zione. Anche di ciò abbiamo già parlato nel capitolo dedicato a Marx. Qui ci limiteremo a ribadire l'essenziale. Ebbene si tratta di questo. Per quanto modeste siano le pretese analitiche che si possono avanzare nei confronti dei procedimenti di trasformazione, non si può evitare di ammettere che le seguenti proposizioni non sono vali­ de in generale: a) è necessario conoscere i valori -lavoro per determinare i prezzi di produzione; b) dato il salario e le tecniche, è possibile determinare il saggio di profitto prima di conoscere i prezzi; c) nel passaggio dai valori ai prezzi restano invariate tutte le gran­ dezze aggregate; d) in particolare restano invariati il saggio di profitto e il saggio di sfruttamento. Marx non fu consapevole di queste difficoltà. Ma oggi la cosa è nota a tutti, ed è ormai accettato il fatto che, di fronte a esse, non è possibile restare fedeli alla teoria del valore-lavoro , anche se c'è qual­ cuno che si accontenta di mantenerla come teoria " ausiliaria" e altri che stanno ancora cercando la soluzione al problema della trasfor­ mazione. Purtroppo non ci si può accontentare di una teoria ausiliaria. C'è infatti una terza ragione che spinge inesorabilmente all'abbandono di quella teoria. Ed è che in generale, cioè quando non ci si voglia limi­ tare ai casi di produzioni singole con solo capitale circolante, le varia­ bili espresse in termini di lavoro contenuto non necessariamente assu­ mono valori dotati di significato economico. Questo è il noto fenome­ no, pure portato alla luce da Sraffa, per cui, in presenza di produzio­ ni congiunte e sistemi dei prezzi economicamente significativi, posso­ no darsi valori-lavoro negativi; addirittura saggi di sfruttamento nega­ tivi in presenza di saggi di profitto positivi. Ma l'acquisizione più importante della ricerca recente, e questa è la quarta ragione, consiste nell'aver capito che la teoria del valore la­ voro si trova in contraddizione con la teoria dello sfruttamento. Infat­ ti, poiché il saggio di sfruttamento non è invariante nel passaggio dai valori ai prezzi (cfr. PAR. 4 · 3 ·4 del primo volume) , si può trovare che il rapporto profitti-salari è più alto del saggio di pluslavoro. Il che r 68

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potrebbe essere interpretato come un caso in cui esiste almeno una parte dei profitti che non è stata " creata" dal lavoro - una tesi inac­ cettabile per Marx. Così i marxisti contemporanei hanno capito che devono fare una scelta: o buttano a mare la teoria del valore-lavoro o vi buttano quella dello sfruttamento. L'opinione ormai diffusa è che la teoria dello sfruttamento sia in­ dipendente da quella del valore-lavoro. Si sono così moltiplicati gli sforzi per mostrare come sia possibile dare conto dello sfruttamento senza fare uso del concetto di " lavoro-contenuto " . Ricorderemo qui cinque autori che hanno fatto tentativi interessanti, anche se la ricer­ ca su questo problema è ancora in corso: John Eatwell, Ian Steed­ man, John E. Roemer, Samuel Bowles e Herbert Gintis, su alcuni dei quali torneremo nel prossimo capitolo. Quanto al valore, ormai quasi tutti i marxisti hanno accettato la teoria dei prezzi di produzione di Sraffa. E quelli che vogliono conti­ nuare a usare una certa terminologia marxiana hanno scoperto di po­ terlo fare grazie ad un espediente contabile tanto arguto quanto sem­ plice: basta normalizzare i prezzi con un numerario, m = py/L, chia­ mato "misuria monetaria del lavoro" . p è un vettore di prezzi mone­ tari, y un vettore di prodotti netti ed L il livello dell'occupazione. Dunque m non è altro che la produttività media del lavoro in termini monetari. Si scopre che, se si misura il prodotto netto con questo numerario, esso risulterà essere uguale al livello dell'occupazione, py/m = L . Così il valore del prodotto netto è stato ridotto a una quantità di "lavoro vivo" . La stessa operazione si può fare con i pro­ fitti e i salari, in modo da poter continuare a parlare di " pluslavoro" e "lavoro necessario " . Il linguaggio è lo stesso di Marx, ma è evidente che i suoi concetti sono stati reinterpretati. I "valori-lavoro " ottenuti con questa normalizzazione restano prezzi di produzione. Opere di rilievo

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4

Una rivoluzione post- smithiana?

4· 1

Alle soglie del millennio

4· I . I . La globalizzazione

Forgiato nel I 983 dal giornalista americano Theodore Levitt, e reso popolare nel I 9 8 8 dall'economista Kinichi Ohmae, con i suoi lavori sulle strategie planetarie delle imprese multinazionali, il termine " glo­ balizzazione" definisce un vasto processo di intensificazione della mo­ bilità delle merci, delle informazioni e dei fattori produttivi su scala mondiale. Soprattutto il capitale e gli strumenti finanziari hanno mo­ strato un'enorme capacità di movimento globale. Il processo è stato accompagnato e favorito dall'abbattimento delle barriere protezioni­ stiche in un numero crescente di paesi, dalla diffusione delle ideolo­ gie neoliberiste e dall'adozione di politiche liberiste da parte delle principali istituzioni economiche internazionali, oltre che dai governi e dalle banche centrali dei paesi capitalistici dominanti. Quello della globalizzazione è un tipico fenomeno complesso. Non deve perciò meravigliare la pluralità delle interpretazioni e dei relativi atteggiamenti politici. In effetti la globalizzazione divide gli studiosi e i cittadini più di quanto li unisca. Un primo terreno di scontro riguarda le risposte alla domanda: quella della globalizzazione è una novità emergente oppure una sem­ plice magnificazione del più antico fenomeno dell'internazionalizza­ zione delle attività economiche? Molti pensano che la globalizzazione rappresenti solo un avanzato stadio di sviluppo del capitalismo. Chi si riconosce in tale posizione si basa sull'osservazione che, se si guar­ da all'intensità degli scambi di beni e servizi e degli investimenti all'e­ stero per il periodo che va dal I 8 8o allo scoppio della prima guerra mondiale, si rileva che il flusso di questi movimenti, in rapporto alla produzione, eguaglia o addirittura supera quello attuale. Di qui la 1 75

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conclusione secondo cui la globalizzazione rappresenterebbe sempli­ cemente l'intensificazione di un processo in atto già da tempo, inten­ sificazione che sarebbe stata favorita soprattutto dall'impiego delle nuove tecnologie infotelematiche. Una tale linea interpretativa si ri­ chiama a un celebre passo del Manz/esto del r 848 , nel quale Karl Marx e Friedrich Engels scrivevano (pp. r o 4 5 ) : -

Con l o sfruttamento del mercato mondiale l a borghesia h a dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazio­ nari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili [ . . . ] . All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una dipendenza universale fra le nazioni.

Sulla medesima linea si muoveva Norman Angeli, nel cui saggio The Great Illusion si legge: «Questa vitale interdipendenza, che taglia tra­ sversalmente le frontiere, è in gran parte opera degli ultimi quaran­ t'anni [ . . . ] . È il risultato dell'uso giornaliero di quei congegni della civilizzazione che risalgono a ieri» (p. 5 4) . Altri studiosi, invece, insistono sulla novità assoluta della globa­ lizzazione, e individuano tre rilevanti fenomeni che rappresentano de­ gli elementi di specificità della situazione contemporanea: - la tendenza alla destrutturazione sia dei modi di organizzare l'atti­ vità produttiva sia dei rapporti tra politica ed economia; - la tendenza a un accrescimento della ricchezza aggregata che pa­ radossalmente si accompagna a un aumento della povertà; - lo sviluppo di una crescente tensione tra processi di globalizzazio­ ne economica e democrazia politica. Il fenomeno della destrutturazione concerne, in primo luogo, il modo in cui va cambiando l'organizzazione dell'attività produttiva. Il fatto è che sta venendo meno la tradizionale corrispondenza tra il luogo in cui si prendono le decisioni produttive e quello in cui la produzione si svolge. Questa tendenza, nota come delocalizzazione dell'attività produttiva, genera una diminuzione della responsabilità degli imprenditori nei confronti delle varie classi di stakeholders (di­ pendenti, fornitori, consumatori, proprietari, società civile locale) . Tra questi, solamente gli azionisti non sono vincolati dall'elemento spazia­ le, potendo ormai comprare e vendere titoli azionari sui mercati glo­ bali dei capitali senza impedimento alcuno. Tutti gli altri stakeholders non possono distaccarsi dai vincoli imposti da una determinata loca­ lizzazione. La mobilità acquisita dagli investitori tende a generare una



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netta divaricazione tra potere economico e obblighi sociali - una di­ varicazione senza precedenti nella storia economica, se si pensa che in passato i " ricchi" , soprattutto i grandi industriali, non potevano non tener conto, sia pure obtorto collo, dei vincoli posti dagli Stati in cui operavano e dai movimenti democratici che ne condizionavano la politica. È come se oggi il capitale avesse acquisito una nuova libertà: quella di non dover rendere conto alla gente appartenente ai luoghi in cui fa profitti. In questo senso, si può dire che il potere economico ha acquisito natura extraterritoriale. L'interesse dello Stato-nazione a mantenere la sua sovranità sul territorio non coincide più con l'inte­ resse delle imprese a muoversi liberamente sui mercati internazionali alla ricerca delle migliori opportunità di profitto. In altri termini, è finita l'epoca in cui potevano farsi affermazioni del tipo: «Ciò che è bene per la Ford, è bene per l'America». N el I 968 Richard Cooper - uno dei primi studiosi a proporre una teoria economica dell'interdipendenza - aveva congetturato che la liberalizzazione del commercio internazionale e dei flussi di capita­ le avrebbe reso gli Stati-nazione sempre più vulnerabili e interdipen­ denti. A sua volta ciò avrebbe comportato, da una parte, un aggiu­ stamento sistematico delle economie nazionali e, dall'altra, un mag­ giore impegno dei singoli paesi nello sviluppare accordi negoziali e istituzioni internazionali capaci di fissare le regole del gioco globali e di farle rispettare. Ebbene, mentre lo straordinario aumento di inter­ dipendenza economica che si registrò nel periodo che va dagli accor­ di di Bretton Woods ( 1 944) alla metà degli anni settanta fu essenzial­ mente frutto delle scelte politiche dei governi nazionali, il processo di globalizzazione che prese formalmente avvio dal vertice di Rambouil­ let (Parigi) del novembre 1 975 , è stato guidato principalmente da for­ ze economiche, forze che sono espressione di soggetti privati, gruppi di imprese, associazioni di interesse, organizzazioni non governative. Tali soggetti, proprio grazie all'accresciuta interdipendenza, comincia­ rono a reagire ai segnali di convenienza in modo del tutto autonomo rispetto alle proprie autorità nazionali. In tal senso la globalizzazione consente alle imprese di riprendersi quel potere d'azione che in passato fu addomesticato con gli stru­ menti della politica, e dunque rende finalmente possibile ciò che per il capitalismo è sempre stato dogma e utopia al contempo: le imprese, soprattutto quelle di grandi dimensioni, svolgono un ruolo chiave non solo nell'organizzazione dell'economia, ma anche in quello della società. Così la globalizzazione modifica alla radice i fondamenti del­ l'economia e della politica, restringendo drasticamente i gradi di li­ bertà nelle scelte degli Stati nazionali e provocando " una subpoliti1 77

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cizzazione" sconosciuta nelle epoche passate. Tutti gli strumenti poli­ tici dello Stato-nazione (tasse; organismi di controllo; servizi sociali; sicurezza militare; politica estera) sono legati ad un territorio ben de­ finito. Le imprese, invece, possono produrre in un paese, pagare le imposte in un altro, e in un terzo ancora richiedere aiuti e contributi statali. Una delle conseguenze più gravi di questo processo consiste nel­ l'aumento dell'instabilità finanziaria. Fra tutti i beni che circolano li­ beramente nei mercati mondiali quello che si muove con più libertà, rapidità e virulenza è la finanza. In effetti la "globalizzazione finanzia­ ria " rappresenta il fenomeno più impressionante del mondo contem­ poraneo. In un'ottica di brevissimo termine, masse enormi di capitale speculativo si muovono in tempo reale da un mercato all'altro in cer­ ca di guadagni di capitale nelle transazioni su titoli, derivati finanziari e tassi di cambio. Sulla base di aspettative che tendono ad autorea­ lizzarsi, questi movimenti di capitale sono capaci di generare enormi bolle speculative, facendo crescere i valori a livelli che non hanno nessun rapporto con i fondamentali. Quando poi le aspettative si in­ vertono, le bolle esplodono scatenando crolli finanziari capaci di pro­ durre crisi reali che mettono in ginocchio paesi interi. Crisi del gene­ re ne sono già scoppiate parecchie negli anni novanta, soprattutto nel Sud-Est asiatico e in America Latina. Né sembra che gli organismi economici internazionali, come il Fondo monetario internazionale, siano in grado di fargli fronte. Anzi in più di un'occasione gli aggiu­ stamenti strutturali da essi imposti ai paesi che chiedevano aiuto sono serviti ad aggravare i problemi - e ciò in omaggio alle ideologie neoli­ beriste che ne hanno guidato le scelte. Il secondo aspetto rilevante della globalizzazione riguarda la disu­ guaglianza dei redditi e delle ricchezze. La globalizzazione, in quanto fa crescere il commercio mondiale, è un processo che aumenta la ric­ chezza complessiva, e dunque è un gioco a somma positiva. Senonché la stessa globalizzazione inasprisce il contrasto tra vincitori e vinti. Dalle indagini della World Bank risulta che il numero di individui che soffrono la povertà assoluta, cioè che vivono con un reddito mi­ nore di 2 dollari al giorno, è aumentato di 2 2 8 milioni di unità dal 1 9 87 al 1 99 9 . Ciononostante la World Bank prevede che nel futuro la povertà diminuirà. Peraltro c'è da domandarsi se la povertà assoluta sia un concetto valido per misurare l'impoverimento della gente e se sia adatto a cogliere l'effettiva entità della disuguaglianza dei redditi. Un concetto più appropriato di " povertà" è quello che la definisce in relazione al reddito medio. È il concetto comunemente usato dagli economisti. Ebbene, in base ad esso la povertà è aumentata ancora di



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più. In generale si può dire che è aumentata la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. E insieme ad essa è aumentata la vulnerabi­ lità economica di quote significative delle popolazioni, non solamente dei paesi del Sud del mondo, ma anche di quelli del Nord. La letteratura sull'argomento comunque è piuttosto divisa su que­ sto punto. Per capire la natura del problema bisogna distinguere tra distribuzione mondiale del reddito e distribuzione internazionale. Quest'ultima è basata sulle differenze nei redditi medi tra paesi (pesa­ ti per tener conto delle dimensioni della popolazione) ; la prima pren­ de invece in considerazione anche le disuguaglianze di reddito esi­ stenti all'interno dei singoli paesi. Ora, perché la disuguaglianza mon­ diale possa ridursi, si devono verificare due condizioni: la prima è che i paesi poveri e altamente popolati crescano ad un tasso superiore a quello dei paesi ricchi; la seconda è che ciò avvenga senza che au­ menti la disuguaglianza all'interno dei paesi. Ebbene, la prima condi­ zione si sta verificando almeno in un certo numero di paesi (sopra t­ tutto quelli, come la Cina, i cui Stati fanno resistenza alla globalizza­ zione) , mentre la seconda condizione non si sta verificando quasi in nessuno. Un terzo carattere distintivo della globalizzazione riguarda le mi­ nacce ai diritti sociali di cittadinanza. La creazione di un mercato glo­ bale del lavoro consente alle imprese di spostare i propri centri pro­ duttivi là dove il costo del lavoro è più basso. Ora, il costo del lavoro è determinato non soltanto dal salario percepito dal lavoratore, ma anche da oneri che servono a finanziare i sistemi di welfare e che comprendono essenzialmente i quattro grandi capitoli dell'assistenza sanitaria, della previdenza sociale, della politica ambientale e dell'i­ struzione. Così accade che la gara competitiva sui mercati globali ten­ de ad abbassare i livelli di protezione sociale finora acquisiti. Che la globalizzazione possa indurre inquietanti gare al ribasso nel campo dello stato sociale è qualcosa di più di una semplice minaccia o di un'astratta ipotesi. Sta così emergendo un nuovo !rade-o//, quello tra posizioni di vantaggio competitivo e reti di sicurezza sociale. Non solo le imprese, ma anche gli Stati che vogliono attrarne gli investimenti, tendono a vedere nelle pratiche di dumping sociale un modo per con­ quistare vantaggi competitivi nel mercato globale. Ma si tratta di un atteggiamento miope. Infatti - come argomenta Joseph Stiglitz - in­ tervenire democraticamente sui meccanismi di redistribuzione del red­ dito e della ricchezza potrebbe servire allo stesso processo di svilup­ po, assicurandone la sostenibilità nel tempo. Il punto sollevato si collega alla grossa questione del rapporto tra globalizzazione e democrazia. La globalizzazione drena potere dallo 1 79

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Stato nazionale (ma più dagli Stati del Sud del mondo che da quelli dei grandi paesi capitalistici del Nord ) , la cui autonomia è oggi com­ promessa da un forte vincolo esterno. Gli Stati nazionali non riesco­ no più a sottrarsi al confronto con le aspettative dei mercati interna­ zionali dei capitali. E le preoccupazioni elettorali dei partiti tendono sempre più a tener conto delle richieste di credibilità avanzate dalla finanza globale, dal momento che differenze anche modeste negli in­ dicatori di credibilità si traducono in differenziali insostenibili dei tas­ si di interesse. Così la minaccia alla capacità dei governi di esercitare la loro sovranità interna si trasforma in minaccia alla democrazia stes­ sa. Sebbene i cittadini continuino a votare, il potere effettivo del voto, quello di forgiare le grandi decisioni pubbliche, tende a decre­ scere con il declino della sovranità interna. La novità più importante della globalizzazione è quella che Dani Rodrik chiama il " trilemma politico " delle nostre società: realizzare una piena integrazione economica internazionale, attuare politiche de­ mocratiche, conservare il sistema degli Stati-nazione risultano obietti­ vi mutuamente incompatibili. Si tratta di tre principi regolativi del­ l' ordine sociale, dei quali solo due alla volta possono stare assieme. Ma dal " trilemma " si può uscire in diversi modi, a seconda dell'im­ portanza che ai tre principi si vuole attribuire. La strada imboccata dal capitalismo contemporaneo, che punta prevalentemente sul primo principio, non è l'unica percorribile. Non esiste la one best way. La globalizzazione ha contribuito alla diffusione delle ideologie neoliberiste e in tal senso ha lanciato una sfida alla teoria economica. Scrive Joseph Stiglitz (200 1 , pp. 1 2 - 3 ) , commentando gli errori com­ messi dal Fondo monetario internazionale nelle crisi del Sud-Est asia­ tico: «Non è che non avessimo le conoscenze adeguate, che non sa­ pessimo cosa fare per contrastare le fasi di contrazione. Ciò che si doveva fare era esattamente quanto noi docenti di economia avevamo insegnato ai nostri studenti corso dopo corso, in tutto il mondo, per più di mezzo secolo. E tuttavia, furono prese delle decisioni che era­ no esattamente l'opposto di quanto avevamo insegnato nei nostri cor­ si di base. Tutto questo per me, come economista, fu, almeno all'ini­ zio, molto difficile da comprendere». Il termine "neoliberismo " viene oggi usato dagli economisti in senso ironico, se non proprio dispregiativo, per denotare una confusa ideologia che ha fatto presa sulle menti degli uomini d'affari, dei ban­ chieri, dei giornalisti, dei burocrati e giù giù fino a molti politici, an­ che di sinistra. Questa ideologia è piuttosto semplice, ed è basata su due assiomi: il mercato è efficiente, indipendentemente dalla sua for­ ma; lo Stato è inefficiente, indipendentemente dalle sue istituzioni 1 80



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tesi che nessun serio !iberista classico o neoclassico avrebbe mai so­ stenuto. Le implicazioni politiche sono altrettanto semplici: lo Stato deve essere minimo; le imprese pubbliche devono essere privatizzate; i bilanci pubblici devono tendere al pareggio; le politiche fiscali e monetarie devono essere proibite; le banche centrali devono essere autonome dalla volontà dei cittadini; le barriere protezionistiche de­ vono essere abolite; lo stato sociale deve essere azzerato. Nessuno di questi teoremi politici, tantomeno gli assiomi su cui sono fondati, ri­ sulta suffragato dalla ricerca scientifica. Oggi gli economisti, debellata la controrivoluzione monetarista e neomonetarista, stanno riscopren­ do i fallimenti del mercato e i doveri dello Stato. Si è capito che i mercati non devono essere la giungla, e che le leggi "naturali " dell'e­ conomia non esistono. I mercati in realtà non sono altro che le istitu­ zioni che regolano gli scambi. Perché funzionino bene c'è bisogno di buone istituzioni. I mercati efficienti non sono quelli non regolati. Sono quelli ben regolati. Se poi, oltre all'efficienza, si chiede anche un po' d'equità, si giunge alla conclusione a cui sta arrivando la teo­ ria economica contemporanea, pur nella pluralità dei punti di parten­ za teorici, e cioè che Stato e mercato, più che beni sostituti, sono beni complementari e che le politiche macroeconomiche e microeco­ nomiche sono comunque necessarie prima ancora che desiderabili. 4 . r .2 . Moderno e postmoderno

A partire dagli anni settanta si è verificata una rivoluzione filosofica che ha coinvolto diversi filoni di pensiero in un attacco concertato alle epistemologie neopositiviste ed empiriste. Pensatori provenienti dalla filosofia analitica, dal pragmatismo, dallo strutturalismo, dall' er­ meneutica, dal marxismo, hanno contribuito per vie diverse a portare alla luce i presupposti metafisici, assolutisti e dogmatici dello "scienti­ smo " moderno. In questo processo di smascheramento della metafisi­ ca sono state poste le basi di un nuovo approccio alla scienza in cui vengono riconosciuti la valenza pragmatica della ricerca, la relatività delle verità consolidate, il carattere discorsivo e retorico dei sistemi teorici, la funzione costruttiva dei modelli concettuali. Ne è derivato un sentimento generale di perdita dei fondamenti e delle certezze che, mentre ha seminato il panico tra gli scienziati tradizionali, ha però liberato energie creative nelle giovani generazioni. Così, a partire dalla fine degli anni settanta, e per un arco di tempo che non sembra ancora concluso, si sono moltiplicati i tentativi di andare " oltre " le tradizioni, con una proliferazione di nuovi approcci che ha inflaziona­ to l'uso del prefisso " post " nella denominazione degli orientamenti r8r

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filosofici: postanalitico, poststrutturalista, postlinguistico, postmarxi­ sta, addirittura postepistemologico e postfilosofico. Jean-François Lyotard ha trovato un termine che li raccoglie tutti: "postmoderno " . E lo ha proposto con l'ambizione di andare oltre an­ che alla delimitazione metodologica del dibattito. Si è infine capito che la " condizione postmoderna" non ha stravolto soltanto la filosofia della scienza, ma ha investito l'intero campo dell'esperienza umana, dalla produzione artistica alle prassi etiche e e olitiche, dai valori esi­ stenziali ai contenuti sostantivi della scienza. E ormai consolidata l'i­ dea che ciò a cui la condizione postmoderna va oltre è l'insieme di certezze metafisiche di tipo umanistico e razionalista su cui si è co­ struito il mondo moderno. L'Umanesimo è l'ultimo residuo della me­ tafisica occidentale - quell'insieme di piccole e grandi fiabe con cui gli uomini cercano di dare un senso universale alle proprie vite con­ tingenti, un valore di verità assoluta alle proprie opinioni parziali, la forza di un'etica oggettiva alle proprie abitudini di comportamento, una giustificazione generale ai propri interessi particolari. La condi­ zione postmoderna supera tutto ciò: è la condizione dell'uomo che riconosce la propria finitezza e non ne fa un dramma. Il postmodernismo può essere ben compreso asservandolo in con­ troluce col modernismo. Sul piano antologico il modernismo tende a riporre la propria fede nella portata universale della ragione umana, mentre il postmodernismo si caratterizza per una perdita di certezza nella capacità della ragione di raggiungere obiettivi universali. Il mo­ dernismo glorifica l'idolo di un agente umano razionale, mentre il postmodernismo pone l'enfasi sui caratteri particolari e contingenti dell'individuo e sulla limitatezza della sua razionalità. Bisogna tener presente tuttavia che il rapporto tra moderno e postmoderno non è basato semplicemente sulla negazione. È anche un rapporto di inveramento. Dal momento che lo stesso modernismo nasce da una critica alle metafisiche trascendentali della tradizione, i suoi critici postmoderni non fanno altro che portare le sue premesse alle logiche conseguenze. La condizione postmoderna è implicita nel modernismo. Lo spirito critico postmoderno assume la forma della " decostruzione " , un procedimento di smantellamento dei dogmi tra­ mite lo smascheramento dei trucchi linguistici dietro cui si nascondo­ no. Con la decostruzione i filosofi postmoderni liberano lo spirito moderno dagli ultimi residui della metafisica. Il postmodernismo non è un sistema filosofico, come potrebbe es­ sere il marxismo o il liberalismo. È piuttosto un movimento di rinno­ vamento culturale di vasta portata che coinvolge tutto il campo del­ l' agire umano. Ciò comporta che al suo interno possono prendere 1 82



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corpo sistemi teorici diversi e anche orientamenti politici contrappo­ sti, di destra e di sinistra, precisamente come è accaduto col moderni­ smo. Si dovrebbe dunque pensare ad esso come si pensa ad esempio al Rinascimento o all'Illuminismo. Vediamo brevemente come lo si può inquadrare nel campo della teoria economica. Il modernismo ha dominato tutta la storia della disciplina nell'e­ poca del suo farsi scienza, da Smith ad Arrow, senza escludere molti filoni di pensiero più o meno eterodossi, come il marxismo, il vecchio marginalismo austriaco, il neokeynesismo. Al di là delle profonde dif­ ferenze dottrinali che pure esistono tra le varie scuole, queste sono accomunate da alcuni atteggiamenti filosofici di fondo: - un ' antologia umanista dell'essere sociale, cioè la convinzione che l'economia sia una scienza sociale avente per oggetto il comportamen­ to di un agente umano razionale; una teoria sostanzialista del valore, cioè una teoria che dà conto del valore come espressione del soggetto economico, che spiega l' ap­ parenza dei prezzi relativi come manifestazione di significati fonda­ mentali creati dall'uomo. Tali significati sarebbero la sostanza umana che si nasconde dietro i rapporti di scambio; - un approccio d'equilibrio allo studio della struttura sociale. Poiché la realtà economica è il risultato dell'attività di molti soggetti, la sua struttura riflette le relazioni tra i soggetti. Poiché le azioni umane sono l'espressione della dea Ragione, le relazioni tra gli uomini non possono produrre il caos. L'idea di un equilibrio sociale razionale esprime la convinzione che l'attività umana è capace di creare l'ordi­ ne sociale; - una metanarrativa ottimistica dei destini dell'umanità, cioè una teoria della storia e della politica che dà conto della capacità del sog­ getto umano di plasmare il mondo in funzione di uno scopo univer­ sale concepito come il prodotto della Ragione. I due più ambiziosi sistemi teorici modernisti in economia sono il neoclassicismo e il marxismo, due filoni di pensiero diametralmente opposti, ma che hanno in comune tutti e quattro quegli atteggiamenti filosofici di fondo. La metafisica neoclassica è fondata sul concetto di homo oecono­ micus, un complesso costrutto antropologico che può essere ridotto a tre basilari assiomi: atomismo, egoismo , razionalità soggettiva. Atomi­ smo vuoi dire che l'agente economico è un individuo le cui prefe­ renze sono formate senza subire alcuna influenza esterna da parte delle preferenze di altri individui, dei modelli culturali, della pubbli­ cità ecc. Egoismo vuoi dire che gli individui sono mossi da finalità personali che dipendono unicamente dalle proprie preferenze e che si

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risolvono nella ricerca del proprio bene. Razionalità soggettiva vuoi dire che l'individuo è dotato di conoscenza perfetta e completa, di illimitata capacità di calcolo, dell'abilità di trovare sempre i mezzi mi­ gliori per raggiungere i propri fini. L 'approccio neoclassico è mosso dall'aspirazione a dimostrare che un ordine sociale ideale, cioè un equilibrio economico generale, può essere raggiunto tramite le sem­ plici interazioni non condizionate di un insieme di atomi sociali che sono egoisti e razionali. Tali interazioni si svolgono nel mercato, l'or­ dine sociale ideale è un equilibrio di mercato. I valori delle merci che emergono dagli scambi di mercato esprimono una sostanza umana, sono una manifestazione delle scelte razionali degli agenti e risultano in ultima istanza determinati dalle valutazioni soggettive dei consuma­ tori, compresi i lavoratori intesi come consumatori di tempo libero. La metafisica marxista è invece fondata sul concetto di homo fa­ ber, un soggetto collettivo più che individuale, un soggetto che si for­ ma nella cooperazione produttiva. La ragione umana agisce tramite un "intelletto generale" capace di organizzare scientificamente la pro­ duzione entro l'impresa capitalistica. Questa è il regno della razionali­ tà. D'altra parte nei mercati capitalistici la forza della ragione si mani­ festa sotto forma di leggi oggettive della concorrenza che costringono gli agenti individuali ad effettuare scelte efficienti. Attraverso tali leg­ gi si afferma una divisione del lavoro che impone il rigore del lavoro socialmente necessario, cioè l'uso efficiente delle tecniche e degli es­ seri umani. I valori delle merci nascondono ed esprimono la sostanza del lavoro produttivo. Essi non dipendono genericamente dal lavoro contenuto, piuttosto sono " creati " dal lavoro socialmente necessario per produrre le merci. Quanto alla metanarrativa, quella neo classica prende corpo nell'e­ conomia del benessere, un ambizioso modello utopistico che, dopo un lungo processo di aggiustamento autocritico, si è infine concre­ tizzato nella dimostrazione dei due teoremi fondamentali. Il primo teorema stabilisce che nessuna allocazione può essere paretianamente più efficiente di quella generata da un equilibrio concorrenziale. Il mercato concorrenziale forse non è il migliore dei mondi possibile, ma si può senz' altro dire che non esiste nessun mondo migliore di esso. Il secondo teorema, d'altra parte, stabilisce che è sempre possi­ bile raggiungere un'allocazione efficiente usando l'equilibrio competi­ tivo. Su di esso si fonda una concezione della politica secondo cui la concorrenza è la via più diretta al perseguimento dell'efficienza e lo Stato deve agire in modo da non interferire col mercato se non nei rari casi in cui questo fallisce. In tali casi, tramite la determinazione di prezzi e trasferimenti che imitano o correggono l'azione del merca-



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to, le autorità politiche usano la ragione per servire al meglio gli sco­ pi degli agenti economici individuali. In questo modo la politica si fa strumento della razionalità massimizzante, aiutando i mercati a conse­ guire quello che gli individui considerano il migliore dei mondi pos­ sibili. La metanarrativa marxista assume la forma di una teoria delle leg­ gi di movimento del modo di produzione capitalistico. La legge della miseria relativa crescente spiegherebbe la tendenza della quota salari a diminuire nel lungo periodo e delle condizioni di vita delle classi oppresse a peggiorare rispetto a quelle dei capitalisti. Ciò creerebbe le premesse per un risveglio della coscienza di classe dei lavoratori. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto vorrebbe dar conto degli effetti negativi che l'accumulazione avrebbe sul trend del saggio di profitto, la diminuzione del quale determinerebbe un gra­ duale esaurimento della spinta propulsiva del capitale. Insieme a que­ sta tendenza se ne manifesterebbe una all'inasprimento crescente del­ le crisi periodiche. Alla fine si verificherà un crollo così grave che il risveglio della coscienza rivoluzionaria saprà tramutare in una crisi di superamento del capitalismo . Nel frattempo la legge della crescente concentrazione e centralizzazione del capitale avrà ampliato così tanto le dimensioni delle imprese, cioè dello spazio sociale entro cui si estrinseca la razionalità produttiva, che non sarà difficile passare a un modo di produzione superiore a quello capitalistico. In tale nuovo modo di produzione i soggetti umani cesseranno di essere dominati dalla ragione reificata del capitale e potranno finalmente assumere il controllo consapevole delle proprie condizioni di vita. Questa rico­ struzione, indubbiamente caricaturale, della metanarrativa marxiana mira a metterne in evidenza i caratteri intrinsecamente storicisti: si tratta di una forte e ottimistica filosofia della storia che mira a dar conto dei destini ultimi dell'umanità come di un processo di autorive­ lazione della ragione umana tramite la coscienza di classe. Ebbene tutti i fondamenti analitici dei due massimi sistemi teorici modernisti sono stati sottoposti a una critica serrata negli ultimi tren­ ta o quarant'anni. La teoria dei giochi e la dimostrazione della non unicità dell'equilibrio generale hanno portato alla luce un fatto scon­ certante: che gli agenti economici razionali possono agire in modo tale da non essere in grado di determinare l'insieme delle loro rela­ zioni sociali. Inoltre l'acquisizione dell'idea che l'equilibrio generale può non essere stabile mette in crisi la convinzione che un mercato composto di atomi razionali ha la forza di costruire un ordine sociale equilibrato ed efficiente. Per di più il dilemma del prigioniero e il problema del /ree rider portano alla conclusione che proprio l'egoi-

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smo può condurre a esiti sociali in cui gli individui non riescono a perseguire i propri interessi al meglio. Il teorema di impossibilità di Arrow infine dimostra che è possibile che esistano funzioni di scelta sociale che non soddisfano alcuni requisiti di razionalità pur in pre­ senza di ordinamenti razionali degli individui. Questa è una debacle della metanarrativa neoclassica: l'azione dello Stato può non essere in grado di aiutare i mercati a raggiungere il migliore dei mondi possibi­ li. Ancora più devastante è la conclusione raggiunta da Sen con la dimostrazione dell'impossibilità del liberale paretiano: in un mondo di atomi sociali utilitaristi può non esserci spazio per l'attribuzione agli individui di alcuni dei più elementari diritti umani. A tutto ciò vanno aggiunti i risultati della ricerca empirica e sperimentale, i quali hanno dimostrato che gli stessi assiomi di base della teoria neoclassi­ ca sono falsi. Gli individui sono dotati di razionalità limitata e rara­ mente riescono a massimizzare alcunché. Le loro preferenze, lungi dall'essere esogene e primitive, sono ampiamente influenzate da ester­ nalità di ogni tipo e di fatto sono formate endogenamente. Quanto all'egoismo, ormai è acquisita l'idea che gli individui sono spesso mossi anche da finalità altruistiche, dal senso di giustizia, da norme etiche. L'homo oeconomicus semplicemente non esiste. In campo marxista è stato dimostrato che almeno tre delle quat­ tro leggi di movimento, quella della caduta tendenziale del saggio di profitto, quella della miseria relativa crescente e quella dell'inaspri­ mento tendenziale delle crisi periodiche, lungi dall'essere delle leggi generali, sono in realtà delle congetture sul decorso storico che di­ pendono da ipotesi ad hoc e poco realistiche; in particolare dall'ipote­ si che l'accumulazione del capitale e il progresso tecnico facciano au­ mentare il rapporto capitale-lavoro più della produttività del lavoro. Sul piano della teoria del valore, poi, la ricerca avviata dalla " rivolu­ zione sraffiana, ha dimostrato che la teoria del valore lavoro è sem­ plicemente sbagliata e che, sulla base di essa, non è possibile sostene­ re simultanenamente che il valore è " creato, dal lavoro e che tutto il profitto è " creato, dal pluslavoro. Queste critiche di per sé potrebbero non essere esiziali, potrebbe­ ro anzi essere usate per modificare e migliorare gli apparati analitici dei due massimi sistemi, spingendoli al rinnovamento e al perfeziona­ mento. Invece la condizione postmoderna ha indotto molti scienziati a leggerle come critiche dei fondamenti stessi e a usarle per portare alla luce i loro caratteri metafisici. La critica interna si trasforma in un procedimento di smantellamento dei sistemi teorici attuato tramite lo smascheramento dei dogmi su cui si fondano. Considerando che tanto il sistema neoclassico quanto quello marr 86



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xista vantano lontane ma solide origini classiche e smithiane, si po­ trebbe parlare degli ultimi trenta o quarant'anni della storia del pen­ siero economico come dell'epoca di una rivoluzione " postsmithiana" , una rivoluzione che cerca di andare oltre le metafisiche dell ' homo oe­ conomicus e dell ' homo /aber. È una rivoluzione contro le verità asso­ lute della scienza economica moderna, che tuttavia vuole esaltare e liberare il suo spirito critico, quello spirito critico che era già pre­ sente nell'anima istituzionalista di Smith e che i suoi eredi hanno cer­ cato di soffocare. T al e rivoluzione tende ad assumere due forme. Da una parte si sono verificati, in modo apparentemente paradossale, una diffusione e un consolidamento, se non delle convinzioni, almeno dei linguaggi e delle tecniche analitiche dell'economia ortodossa moderna. È questo l'aspetto deteriore della rivoluzione postsmithiana. Dall'altro si sta manifestando una proliferazione di approcci eterodossi come non si era mai vista nel passato, in un processo di babelica confusione delle lingue di cui daremo conto nel resto del capitolo. E questo è l' aspet­ to critico e innovativo, e dunque il più interessante, della rivoluzione post-smithiana. Quanto alla prima forma, può sembrare sorprendente. Ma è un fatto che il linguaggio e il metodo neoclassici ormai dominano pres­ soché tutto il campo dello scibile economico contemporaneo, avendo invaso anche alcuni dei territori che sembravano più ostici, quello keynesiano, quello marxista, quello istituzionalista. Come è possibile ciò, se gli stessi fondamenti assiomatici della teoria neoclassica sono stati dimostrati infondati? Ebbene è possibile precisamente come ma­ nifestazione di un'attitudine postmoderna. I decostruttori della meta­ fisica modernista non dicono che si può fare a meno della metafisica. Dicono semplicemente che non ci si deve credere troppo. Delle as­ sunzioni metafisiche sono comunque inevitabili per postulare gli as­ siomi di base. Questi, per definizione, non sono dimostrabili logica­ mente; sono però necessari per costruire i modelli analitici. Ciò può generare una certa spregiudicatezza nei confronti del realismo delle ipotesi, le quali potrebbero essere assunte non perché giudicate vere, ma semplicemente perché sono comode. Gli economisti neoclassici contemporanei, con un atteggiamento spesso inconsapevolmente stru­ mentalista e covenzionalista, usano un linguaggio sempre più raffinato analiticamente, sempre più elegante formalmente, ma sempre più vuoto di capacità interpretativa. Il manierismo in effetti è una forma del postmoderno. In modo non dissimile, alcuni marxisti ultra-ortodossi non hanno esitato a ricorrere a espedienti contabili, come l'introduzione di un

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numerario speciale chiamato "misura monetaria del lavoro " (cui ab­ biamo accennato nel PAR. I . 3 . 3 ) per ridefinire certi concetti marxiani in modo da poter continuare ad usare il linguaggio del Capitale senza cambiare una virgola: "il lavoro crea valore " , "il saggio di profitto tende a cadere " ecc. Il loro manierismo si è spinto fino al punto di fingere di dire le stesse cose che diceva Marx solo perché si usano le stesse sue parole, ignorando il fatto che la ridefinizione delle parole ne cambia il significato. 4· 2

Fonti dell'istituzionalismo e dell'evoluzionismo contemporanei: quattro economisti scomodi

4. 2 . r . Karl Polanyi Ci sono quattro "economisti" per i quali non siamo riusciti a trovare la casella giusta nel panorama delle scuole economiche contempora­ nee: Karl Polanyi, Nicholas Georgescu-Roegen, Albert Otto Hirsch­ man e Richard Murphy Goodwin. Li abbiamo messi insieme perché siamo convinti che in fondo in fondo questa loro irriducibilità alle classificazioni sia una caratteristica che li accomuna e li qualifica mol­ to più fortemente di quanto possa sembrare a prima vista. E li abbia­ mo messi nel girone degli eretici perché crediamo che, tra le qualità che li accomunano, il gusto per l'eresia non sia la meno rilevante. Ma, soprattutto, li abbiamo messi in questo capitolo perché crediamo che tutti e quattro costituiscano dei punti di riferimento fondamentali per gran parte del pensiero istituzionalista ed evoluzionista contem­ poraneo. Cominciamo con Polanyi. Nato a Vienna nel I 886 da padre un­ gherese, trascorse la giovinezza a Budapest, dove studiò legge e svolse attività politica e culturale in ambienti radical-socialisti. Nel I 9 I 9 era di nuovo in Austria. Nel clima infuocato della Rate Wien definì me­ glio la propria posizione politica come socialista di orientamento la­ burista. Lì svolse attività di scrittore e giornalista, e diede un primo importante contributo scientifico intervenendo nel dibattito sul calco­ lo economico nel socialismo. Con l'avvento del nazismo emigrò dap­ prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Durante le lezioni che tenne in questi due paesi tra il I 94 I e il I 944, scrisse la sua opera principale, The Great Trans/ormation . Dal I 947 insegnò alla Colum­ bia University. Morì nel I 9 64. È difficile definire Polanyi professionalmente: non era un econo­ mista, né uno storico, né un antropologo, né un filosofo sociale. Era I 88



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un po' tutte queste cose insieme. Il suo pensiero fu molto influenzato dagli studi antropologici di Malinowski e Thurnwald. Dalla conoscen­ za delle culture primitive dedusse una concezione della natura umana come eminentemente sociale e una visione organicistica delle società arcaiche e preindustriali, che vide improntate alla realizzazione di una " sostanza umana e naturale " . Lo scopo della struttura organizzativa di una comunità è la coesione sociale e la riproduzione delle relazioni umane. Queste relazioni sono regolate da due fondamentali principi di comportamento: la " reciprocità" e la " redistribuzione " . La prima consiste in una forma di scambio basato sul dono, la seconda in mec­ canismi di trasferimento di risorse verso un'autorità centrale e da questa verso i singoli membri della società. Lo scambio, inteso in sen­ so moderno, è abbastanza marginale nelle società arcaiche. I mercati si formano negli interstizi dei grandi aggregati sociali, e ciò dimostre­ rebbe che non c'è nulla di naturale in essi. L'attività propriamente economica è embedded, "inserita " , nel più ampio contesto delle rela­ zioni sociali e culturali, dalle quali acquista senso come base dei pro­ cessi di riproduzione materiale. Ma non è mai preminente nella de­ terminazione degli scopi e dei motivi dell'azione umana. Questa visione idilliaca della società "naturale" sta a fondamento della serrata critica che Polanyi rivolse al capitalismo industriale, o meglio, alle economie di mercato. Nel capitalismo l'attività economica diventa disembedded e la motivazione utilitarista delle azioni umane acquista preminenza. N asce il mercato cosiddetto " autoregolato " , nel quale le leggi della domanda e dell'offerta lavorano con " assoluta fe­ rocia " all'esaltazione dell'efficienza produttiva e alla distruzione della "sostanza umana e naturale" della società. Checché ne dicano i suoi ideologi !iberisti, il mercato non ha nulla di primigenio e pre-istitu­ zionale, secondo Polanyi. È anzi un'insieme di istituzioni. Come tale, non può nascere se non in seguito a un intervento consapevole del­ l' autorità statale. Per la precisione, il mercato " autoregolato " è una delle quattro istituzioni fondamentali con cui nasce il capitalismo mo­ derno. Le altre tre sono: il Sistema Aureo e il connesso apparato fi­ nanziario e bancario, che governano la produzione della moneta; la base costituzionale e !iberista dello Stato, che regola i rapporti giuri­ dici; il sistema dell'equilibrio delle potenze, che consente l'espansione del mercato e del capitalismo su scala globale. Polanyi, tra l'altro, fu uno dei primi teorici della globalizzazione capitalistica. Le tre istituzioni sono funzionali alla creazione della prima. Il mercato moderno comunque non nasce se non quando vengono crea­ te le tre cruciali "merci fittizie " del capitalismo industriale: il lavoro, la terra e la moneta. T ali cose, per loro natura, non sono delle merci.

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Il lavoro non sarebbe altro che l'estrinsecazione della vocazione socia­ le e creativa dell'uomo. La terra è un nome diverso per dire "natura" ; senz' altro non è stata creata dall'attività umana. L a moneta è solo un sistema di convenzioni. È lo Stato che, attraverso il suo intervento normativo e coercitivo, crea le istituzioni con cui viene regolato lo scambio e determinato il prezzo di questi tre beni, i quali appunto in tal modo diventano merci. C'è dunque ben poco di autoregolato nel mercato " autoregolato " . Non è da escludere, nell'analisi polaniana delle "merci fittizie " , una qualche influenza della teoria marxiana del feticismo, ma Polanyi sviluppò tale tematica in una direzione molto diversa da quella di Marx. Per lui non è il capitale che genera il feti­ cismo, trasformando tutto in merci nella sua spinta all' autovalorizza­ zione. La sua impostazione umanistica e naturalistica lo indusse piut­ tosto a criticare il capitalismo per il suo carattere innaturale e disu­ manizzante. In realtà, nella misura in cui la nascita del capitalismo viene spiegata come conseguenza della creazione artificiosa e intenzio­ nale del mercato e delle tre merci fittizie, il capitale viene visto come la conseguenza piuttosto che l'origine della feticizzazione. La critica di Polanyi in effetti aveva di mira più il mercato in sé che il capitalismo. Anche nell'analisi delle classi sociali il teorico un­ gherese si allontanò molto da Marx. La sua concezione organicista e funzionalista della struttura sociale lo spinse a vedere la definizione degli interessi di classe e la formazione delle classi come processi ge­ nerati dagli interessi della società e funzionali o disfunzionali alla sua coesione. La marxiana concezione dicotomica dei rapporti di classe come governati da interessi contrastanti e fondamentalmente inconci­ liabili è molto lontana dalla sua visione del mondo. Ne consegue che neanche una filosofia politica della rivoluzione come passaggio obbli­ gato per il superamento del capitalismo appartiene all'universo teori­ co di Polanyi. Venne sviluppata invece la famosa dottrina del " doppio movimen­ to" . Se è vero che «il mercato avanza sulla desertificazione della so­ cietà», è anche vero che le sue spinte distruttive generano delle rea­ zioni difensive. Di fronte al movimento destrutturante dell'espansione e della penetrazione dei mercati - espansione nel mondo, penetrazio­ ne nell'animo umano - la società protegge la sua coesione creando a sua volta corpi e apparati associativi, organizzazioni e istituzioni, che hanno la funzione di salvaguardare la natura sociale dell'uomo. La le­ gislazione finalizzata alla protezione dell'ambiente e alla regolazione dell'uso della terra; la Banca Centrale e il suo governo dei mercati finanziari; la regolamentazione antitrust e le politiche di controllo del­ la domanda, che sono attivate per stabilizzare la macroeconomia; le



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agenzie e le associazioni di difesa dei consumatori; quelle che si occu­ pano della protezione e della cura dei giovani e degli anziani; i sinda­ cati e le associazioni civiche, che proteggono gli interessi di certe ca­ tegorie sociali; perfino le grandi corporazioni industriali: sono tutte forme di azione sociale che contribuiscono a creare quel "movimen­ to" di difesa con cui la società cerca di contrastare gli effetti deva­ stanti dell'avanzare del mercato. Polanyi non si limitò a criticare il mercato capitalistico, ma diede anche importanti contributi allo smascheramento del "fanatismo " e del " fervore evangelico" delle teorie economiche che lo giustificava­ no. Tutte le scuole economiche di impostazione !iberista, dalla ricar­ diana alla neo classica, ma specialmente l'austriaca, passarono al vaglio della critica polaniana e ne uscirono stroncate. Ne venne messo in evidenza il carattere negativamente utopico. Soprattutto vennero por­ tate alla luce le loro fondamenta surrettiziamente psicologiche. Un po' come Veblen, Polanyi accusò gli economisti !iberisti di naturali­ smo, individualismo, formalismo. Ma lui, più di Veblen, era interessa­ to alle implicazioni etiche e politiche di quei fondamenti teorici. Tut­ tavia bisogna riconoscere che l'antropologia umanista e solidarista che Polanyi contrappose a quella individualista dei liberali non sembra meno metafisica di essa. Il contributo principale del pensiero di Polanyi, almeno per quan­ to riguarda la teoria economica, va ricercato nella sua critica alla con­ cezione del mercato come entità naturale. L'idea che il mercato è un'istituzione, che è un sistema di relazioni sociali creato artificial­ mente dalle istituzioni e da esse regolato, andrà a costituire uno spar­ tiacque fondamentale tra i neoistituzionalisti evoluzionisti da una par­ te e quelli utilitaristi e contrattualisti dall'altra. Laddove questi parto­ no dalla tesi che "in principio erano i mercati e gli atomi egoisti" , quelli, sulla scorta dello studioso ungherese, potranno dire: "in prin­ cipio erano le istituzioni e le relazioni sociali " . 4 .2 . 2 . Nicholas Georgescu-Roegen Dopo un'iniziale carriera come statistico matematico, Georgescu-Roe­ gen si volse agli studi economici negli anni 1 934-36 a Harvard, dove fu discepolo di Schumpeter. La prima fase del suo lavoro economico ebbe per oggetto la teoria del consumatore, l'analisi input-output e la teoria della produzione in senso lato. In questa fase pubblicò i fonda­ mentali saggi The Pure Theory o/ Consumer Behavior e Choice} Ex­ pectations and Measurability. Il primo articolo era dedicato al problema dell'integrabilità nella

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teoria della domanda e conteneva un risultato di per sé devastante per la scuola neo classica. È noto che l'analisi ortodossa della doman­ da ha il suo fondamento nella teoria del comportamento del consu­ matore. Questa - a sua volta - è basata sull'assunto fondamentale che il consumatore è un soggetto razionale che massimizza una funzione di utilità - cardinale o ordinale che sia - sotto un vincolo di bilancio. Poco importa se un tale assunto non può essere sottoposto a verifica empirica, come esigerebbe lo statuto epistemologico neo-positivista dal quale il sistema neoclassico trae la sua legittimazione scientifica. Dopo tutto, nessuna scienza, anche quelle naturali, può rinunciare a servirsi di assiomi ovvero dei cosiddetti termini teorici. L'importante è che tali termini ammettano un'adeguata interpretazione empirica, un'interpretazione che conferisca rilevanza e realismo al costrutto in cui essi appaiono. Ora, si assuma che le proposizioni derivabili dalla teoria del consumatore risultino confermabili o addirittura conferma­ te dalle osservazioni empiriche. Si può concludere che il consumatore è un soggetto che sceglie in modo da massimizzare una qualche fun­ zione di utilità? Sta in ciò la sostanza del "misterioso " problema del­ l'integrabilità, una questione esorcizzata per lungo tempo e poi accan­ tonata come pseudo problema dal mainstream neoclassico. Ebbene, nell'articolo del I 93 6 Georgescu-Roegen dimostrava che le curve in­ tegrali dell'equazione differenziale che esprime la condizione di equi­ librio del consumatore - l'equazione che impone l'eguaglianza tra saggio marginale di sostituzione e rapporto tra prezzi dei beni - non necessariamente rappresentano le curve di indifferenza del consuma­ tore. Solo se si introduce il postulato di transitività delle preferenze si può dimostrare che i due tipi di curva coincidono. Questo significa che non è possibile, in generale, risalire alla funzione (ordinale) di utilità partendo dall'osservazione delle scelte di mercato del consuma­ tore. Il matematico Vito Volterra lo aveva intuito, ma senza riuscire a darne una dimostrazione, recensendo nel I 906 il Manuale di Pareto. Nell'articolo del 1 95 4 Georgescu-Roegen dimostrò che, se le pre­ ferenze del consumatore sono di tipo lessicografico, la curva di indif­ ferenza non esiste. Quindi non è possibile costruire una funzione o un indice di utilità da cui poter ricavare la familiare curva di doman­ da. Sebbene la nozione di ordinamento lessicografico (così detto per­ ché richiama l'ordine con cui le parole sono disposte nel vocabolario) fosse già implicita nei lavori di Cantor, essa entrò per la prima volta nel linguaggio scientifico nel I 9 I 4 con Hausdorff. In economia pene­ trò nei primissimi anni cinquanta con i lavori di William M. Gorman e Gerard Debreu, i quali tuttavia non le attribuirono alcun significato di rilievo. Con riferimento a panieri formati da due soli beni, l'ordi-



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namento lessicografico può essere espresso come segue: il paniere x è preferito al paniere y, se X1 > Y1 oppure se, essendo X1 = y i X2 > ' y2 • Si constata immediatamente che con ordinamenti del genere non si arriverà mai a costruire una curva di indifferenza dotata delle usua­ li proprietà. La dimostrazione del caso generale ( con panieri a n beni) consentì a Georgescu-Roegen di porre in evidenza la " fallacia ordinalista " insita nella teoria neoclassica del consumatore: nonostan­ te le apparenze, l'impostazione ordinalista non si differenzierebbe nella sostanza da quella cardinalista e dunque il passaggio dalla se­ conda alla prima non costituirebbe un reale avanzamento teorico, come avevano creduto Robbins e altri. Sull'altro fronte della ricerca di Georgescu, tre contributi sono degni d'interesse. Uno è quello relativo al teorema di non sostituzio­ ne, che formulò per primo, e di cui abbiamo già detto nel capitolo precedente. Gli altri riguardano due dei più intrattabili problemi del­ la dinamica macroeconomica, quello delle non linearità e quello delle discontinuità, problemi che affrontò in Relaxation Phenomena in Li­ near Dynamic Mode/s. In tale saggio, sulla base di un'innovativa ap­ plicazione della teoria delle oscillazioni, Georgescu fornì un risultato fondamentale per indagare i passaggi di regime, un risultato che da allora è entrato nella " scatola degli attrezzi" dell'economista. La seconda fase del lavoro scientifico di Georgescu iniziò con il famoso saggio metodologico del 1 966, Analitica! Economics: Issues and Problems, un libro che ospita un'impietosa critica dell"'economia standard " . Il principale capo d'accusa era di aver ridotto il processo economico a un " analogo meccanico " e di aver confinato la teoria economica all'ambito di applicabilità della meccanica razionale. La proposta avanzata nel saggio fu quella di una nuova alleanza tra atti­ vità economica e ambiente naturale, una proposta che negli anni suc­ cessivi sfocerà nel suo " programma bioeconomico " . La chiave di vol­ ta di questo ambizioso progetto va trovata nella legge dell'entropia, «la più economica delle leggi fisiche», la riflessione sulla quale sospin­ se Georgescu a indagare sulle condizioni di sopravvivenza del genere umano. Muovendosi al confine tra economia e termodinamica, nel li­ bro The Entropy Law and the Economie Process Georgescu formulò una nuova legge, la " quarta legge della termodinamica " , riguardante l'impossibilità del moto perpetuo del terzo tipo, definito come un si­ stema chiuso in grado di eseguire lavoro indefinitamente a un tasso costante. L'implicazione economica di questa legge consiste nel rifiu­ to del " dogma energetico " , dogma secondo cui " solamente l'energia conta" , senza riguardo alcuno alla "materia " . Questa linea di pensiero approdò poi al modello a " fondi e flussi " 1 93

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presentato in Energy and Economie Myths. Tale modello si pose come un'alternativa radicale, sia al modello della funzione di produzione, sia a quello dell'analisi delle attività, entrambi giudicati incapaci di tenere conto del ruolo svolto dall'elemento tempo nell'attività produt­ tiva. Nel corso di questi ultimi anni il modello a fondi e flussi ha ricevuto un'attenzione crescente da parte sia degli economisti teorici sia degli analisti dell'organizzazione produttiva. Ricorderemo infine il lungo saggio introduttivo che Georgescu scrisse nel 1 9 83 all'edizione inglese del famoso libro di Gossen, The Laws o/ Human Relations and the Rules o/ Human Action Derived There/rom, un saggio che è molto più di una splendida biografia intellettuale, e che dimostra, ol­ tre alla profondità e all'ampiezza della cultura economica di George­ scu, la sua straordinaria capacità di superare i limiti angusti entro cui il discorso economico viene spesso confinato dalla scienza ufficiale. Ciò può aiutare a comprendere il generalizzato fin de non recevoir della professione nei confronti del messaggio critico di Georgescu, il messaggio di un autore che non si è mai lasciato ingabbiare in nessu­ na scuola di pensiero. 4.2 .3 . Albert O. Hirschman Un grande maitre a penser della sinistra libera! americana contempo­ ranea è Albert Hirschman. Laureatosi a Trieste nel 1 93 7 , si occupò inizialmente di statistica demografica e di economia italiana. In Natio­ nal Power an d the Structure o/ Foreign Trade trattò degli aspetti stori­ ci e teorici della relazione tra potenza nazionale e struttura del com­ mercio estero, con riferimento esplicito alla politica della Germania nazista. Già in questo lavoro Hirschman assunse una posizione critica nei confronti di alcuni fondamenti teorici della dottrina economica dominante; tuttavia continuò a sviluppare le proprie tesi facendo uso della struttura analitica della teoria ortodossa, quasi a volerne mostra­ re le possibilità di utilizzazione per scopi conoscitivi alternativi. In The Strategy o/ Economie Development, uno dei suoi libri più impor­ tanti, e in Journey toward Progress, Hirschman, per affrontare i pro­ blemi dei paesi in via di sviluppo, propose un'analisi realmente alter­ nativa a quella ortodossa. The Strategy è centrato sulla " ricerca del primum movens" , ovvero dei fattori e delle condizioni storiche, psico­ logiche, antropologiche, quali prerequisiti dello sviluppo economico. Le conclusioni furono che lo sviluppo è possibile anche in presenza di risorse naturali scarse; che, in condizioni appropriate, le capacità produttive possono essere apprese da tutti i popoli; che non è vero che il risparmio possa essere cronicamente insufficiente; né che possa 1 94



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esserlo l'imprenditorialità. Più importante il fatto che lo sviluppo di­ pende dalla capacità di chiamare a raccolta e mettere a profitto ri­ sorse e capacità «nascoste, disperse, male utilizzate». L'analisi dello sviluppo di Hirschman si plasmò sull'osservazione degli aspetti sociali e politici della realtà presa in esame, una linea di ricerca che trovò massima espressione nella notevole raccolta di saggi A Bias /or Hope: Essays in Development and Latin America. Nel 1 977 Hirschman pubblicò The Passions and the Interests, un importante saggio di storia delle idee che ricostruiva la lunga sequen­ za di pensiero iniziata con Machiavelli e approdata alla dottrina sette­ centesca del predominio degli interessi sulle passioni. Nella Theory o/ Mora! Sentiments, secondo l'interpretazione liberale prevalente, Smith aveva posto gli impulsi non economici al servizio di quelli economici, facendo perdere loro la specifica autonomia di cui avevano goduto precedentemente. In The Wealth o/ Nations, poi, l'analisi era stata fondata sull'idea che gli uomini siano motivati prevalentemente dal desiderio di migliorare la propria condizione economica, e che la " simpatia" e i sentimenti morali siano essi stessi definibili in funzione del sel/ interest. È così che sarebbe nata l'economia politica moderna: una grande conquista intellettuale che tuttavia avrebbe portato con sé un significativo restringimento del campo d'indagine, oltre a «un im­ poverimento progressivo del concetto prevalente di natura umana» (p. 2 88 ) . D i qui una prima tesi "forte" del pensiero d i Hirschman: occorre complicare gradualmente la disciplina economica, poiché essa è stata fondata su postulati troppo semplificati. È una critica rivolta preva­ lentemente alla teoria neoclassica, ma che non risparmia neppure molti approcci alternativi, da quelli keynesiani a quelli istituzionalisti, da quelli marxisti a quelli neoistituzionalisti. Una caratteristica co­ stante del lavoro di Hirschman è il rifiuto di rispettare i limiti tradi­ zionali della disciplina; una caratteristica che si è trasformata, con il tempo, «nell'arte di violare i confini». È questo il messaggio centrale di Essays in Trespassing: Economics to Politics and Beyond, un libro che contiene un caldo invito, specificamente rivolto all'economista, a prendere sul serio le azioni e il comportamento umani che non sono riconducibili al tradizionale concetto di " interesse " : «Le azioni moti­ va te dall'altruismo, dall'attaccamento ai valori etici, dalla preoccupa­ zione per l'interesse pubblico o di gruppo» (p. 4 1 9 ) . Nel saggio Shzf ting Involvements, centrato sul problema dell'oscillazione del coinvol­ gimento umano tra l'interesse per la sfera privata e quello per la sfera pubblica, è racchiusa la maturazione finale della visione hirschmania­ na. Infine in Against Parsimony: Three Easy Ways o/ Complicating 1 95

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Some Categories o/ the Economie Discourse venne ripreso il tema del «complicare il discorso economico». Tale processo di complicazione dovrebbe passare per l'introduzione di due modalità fondamentali, e di due tensioni proprie, della condizione umana. Le prime sarebbero l"' autoriflessione " e la voice, la protesta, di cui Hirschman si era oc­ cupato anche nel saggio Exit} Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms} Organizations} and States. Le seconde riguarderebbero la di­ stinzione tra modi "strumentali " e "non strumentali " di comporta­ mento e quella tra interesse personale e moralità pubblica. Il proble­ ma economico verrebbe così sottratto, secondo Hirschman, al sem­ plicistico riduzionismo della massimizzazione vincolata. 4.2 ·4· Richard M. Goodwin

Un altro grande eretico di questa generazione di economisti è stato Richard M. Goodwin, il "marxista deviante " , come si è definito lui stesso. Laureatosi a Harvard nel 1 934, si convertì al marxismo sotto la spinta degli eventi economici della grande crisi; poi studiò con Harrod a Oxford, dove lesse in bozze la Genera! Theory !asciandose­ ne affascinare. Di nuovo a Harvard nel 1 9 3 8 , seguì i corsi di Schum­ peter e Leontief. Lì si addottorò nel 1 94 1 e insegnò fisica e matemati­ ca applicata fino al 1 945 , economia fino al 1 9 5 0. Successivamente emigrò in Europa, dove ha insegnato in Inghilterra e in Italia. Marx e Schumpeter furono i suoi due grandi padri spirituali: «Solo Marx aveva capito la verità [ . . . ] solo Schumpeter aveva preso seriamente Marx» (pp. 1 2 -3 ) - ha scritto nella prefazione all'edizione italiana degli Essays in Economie Dynamics. Questo libro contiene il meglio dei contributi di Goodwin alla teoria economica dinamica. Un altro libro, Essays in Linear Economics, contiene il meglio dei suoi contributi nel campo dei modelli lineari multisettoriali. Qui non pos­ siamo ricordare che alcuni, i più importanti, di quei saggi. lnnanzitutto, nel campo della teoria del ciclo, ricorderemo The Non-Linear Accelerator and the Persistence o/ Business Cycle, in cui Goodwin cercava di risolvere un problema fondamentale delle teorie del ciclo basate sull'interazione tra moltiplicatore e acceleratore, quel­ lo della loro "non persistenza " . Goodwin capì che questo problema era essenzialmente connesso al carattere lineare dei modelli. Lo risol­ se introducendovi appunto delle non-linearità, e ottenne delle oscilla­ zioni di rilassamento: l'economia si espande fino al raggiungimento della piena occupazione o della piena utilizzazione degli impianti; dopo di che si rilassa ed entra in una fase depressiva, nella quale per­ marrà fino al raggiungimento di un livello nullo degli investimenti



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lordi. Ancora più importante forse il modello elaborato nell'articolo A Growth Cycle, del 1 967 , nel quale Goodwin usò le equazioni di Volterra per formalizzare la teoria marxiana del ciclo. La filosofia del modello è che la causa principale delle fluttuazioni economiche risie­ de nella relazione di conflitto e di dipendenza che lega tra loro le due classi sociali fondamentali dell'economia capitalistica. Ognuna di esse vuole aumentare la dimensione della propria fetta di torta. Ma le re­ gole del gioco impongono che nessuna delle due possa prendersi tut­ ta la torta. Nessuna delle loro due fette può crescere indefinitamente a scapito dell'altra. Nel lungo periodo esse saranno costanti. Nel bre­ ve periodo oscilleranno. Il meccanismo che assicura l'oscillazione è costituito dagli effetti negativi che l'aumento della quota salari ha su­ gli investimenti e da quelli che la diminuzione degli investimenti ha sulla disoccupazione. Questi due articoli rivelano rispettivamente la componente harro­ diano-keynesiana e quella marxista della formazione di Goodwin. La componente schumpeteriana si è fatta sentire in un altro lavoro, Inno­ vations and the Irregularity o/ Economie Cycles ( 1 946) , il cui messag­ gio teorico, secondo una reinterpretazione recente, risiederebbe nel­ l' aver mostrato l'effetto di " risonanza " che l'irregolarità degli investi­ menti innovativi immetterebbe nel movimento ciclico. In Dynamic Coupling with Special Re/erence to Markets Having Production Lags Goodwin tentò di dare conto della coesistenza di cicli di diversa pe­ riodicità, accoppiando equazioni del ciclo degli affari e di quello delle costruzioni. In epoca più recente l'accoppiamento dinamico è stato da lui usato per innestare un ciclo breve di tipo marxiano su un mo­ vimento a onda lunga; quest'ultimo venendo spiegato schumpeteria­ namente con le innovazioni di base e la loro tendenza a comparire in grappoli. Dell'altro grande filone di ricerca di Goodwin , quello prodotto dall'ascendenza leontieviana, abbiamo spazio solo per ricordare i due contributi che ci sembrano più importanti: The Multiplier as a Ma­ trix, un lavoro che fu seguito da altri due sullo stesso tema e che diede origine a un interessante dibattito nei primi anni cinquanta; Static and Dynamic Genera! Equilibrium Models, dove Goodwin cercò di introdurre nel modello di Leontief un originale processo di taton­ nement capace di generare delle piccole oscillazioni. Nei confronti di Goodwin è stata talvolta avanzata una critica di eclettismo che ci sembra ingiustificata. È vero che questo economista ha subito l'influsso di autori dalle più diverse impostazioni teoriche. Ma è anche vero che di tali impostazioni si è sforzato di portare in luce alcuni importanti aspetti che hanno in comune: ad esempio la 1 97

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visione del capitalismo come di un sistema dinamico intrinsecamente instabile, la consapevolezza dell'insufficienza della tradizionale analisi statica e d'equilibrio per comprendere le leggi di movimento di quel sistema, la centralità riconosciuta al comportamento degli agenti eco­ nomici collettivi e il connesso giudizio di irrilevanza nei confronti dell'analisi microeconomica. Ed è anche vero che la sua ricerca è sta­ ta costantemente dominata dall'esigenza di integrare le idee prove­ nienti da quelle impostazioni in una visione organica. Il vero proble­ ma è che tale ricerca non è giunta alla formulazione di un sistema teorico completo. Ma questo è un problema di tutta la ricerca teorica post-keynesiana e post-marxista contemporanea. D'altra parte si tratta di lavori ancora in corso e resta il fatto che il contributo ad essi dato da Goodwin è fondamentale. 4·3

Approcci all'analisi istituzionale

4· 3 · I . La "nuova economia politica" e dintorni Sotto l'espressione "nuova economia politica " si è soliti raggruppare un insieme variegato di approcci e di aree di studio che vanno dalla teoria delle scelte pubbliche a varie scuole neoistituzionaliste, dall'e­ conomia comportamentale alla teoria dei diritti di proprietà. Sono ap­ procci piuttosto diversi fra loro, non solo per quanto attiene all'enfasi posta sui vari argomenti di indagine, ma anche per le impostazioni filosofiche di fondo e le metodologie adottate. Tuttavia sono accomu­ nati dalla stessa ambizione: varcare i confini posti dalla teoria orto­ dossa all'analisi degli effetti economici delle istituzioni. La teoria ortodossa cerca di spiegare le scelte degli agenti econo­ mici, le loro interazioni e i risultati che ne conseguono a livello collet­ tivo, sotto un duplice ordine di assunti. Da un lato si assume che fini e motivazioni dell'azione umana siano dati a priori e siano formalizza­ bili in una funzione di utilità da massimizzare. Dall'altro si assume che l'assetto legale-istituzionale entro cui i soggetti operano le loro scelte sia anch'esso esogeno, cioè sia un dato che, mentre condiziona le scelte, non è da esse condizionato. È vero che sono state formulate delle varianti che attenuano il rigore di tali ipotesi. Ad esempio, nella cosiddetta " teoria della ricerca " (search theory) l'ipotesi secondo cui l'insieme delle alternative è dato a priori è sostituito da quella per cui nuove alternative possono essere generate da un processo di ricerca il cui costo è però noto a priori. In altre varianti ancora si ipotizza che le conseguenze delle alternative che compongono il campo di scelta



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del soggetto non siano note con certezza; l'agente decisionale cono­ scerebbe invece una distribuzione congiunta di probabilità dei risulta­ ti, così che il suo problema diventerebbe quello di massimizzare l'uti­ lità attesa. Si tratta evidentemente di attenuazioni che non modificano la natura delle ipotesi di base circa il comportamento degli agenti. Scopo dichiarato della nuova economia politica è lo studio delle proprietà di insiemi alternativi di regole legali-istituzionali. Essa così si offre come guida a coloro che sono interessati al mutamento istitu­ zionale. Mentre l'economia ortodossa esamina la scelta entro vincoli predeterminati e dunque mira a servire il policy-maker che opera in un contesto dato, la nuova economia politica esamina la determinazio­ ne dei vincoli. Un esempio chiarificatore può essere quello della poli­ tica monetaria. La nuova economia politica non è tanto interessata a stabilire se l'espansione o la restrizione monetaria sono necessarie per realizzare l'obiettivo della stabilizzazione in un particolare contesto, quanto piuttosto a valutare le proprietà di regimi monetari alternativi (politiche ispirate a regole fisse oppure discrezionali; moneta il cui va­ lore deriva dal potere dello Stato oppure da una merce e così via) . La nuova economia politica può essere vista come una ripresa in chiave moderna di un antico progetto smithiano, per il quale l'analisi del processo di mercato mirava a dimostrare che il buon funziona­ mento degli scambi non è indipendente dall'assetto normativo in cui si svolgono, ma anzi presuppone una certa struttura istituzionale. Se­ condo questa interpretazione, Adam Smith si occupò essenzialmente di confrontare strutture istituzionali diverse; cosicché la sua proposta di uno " Stato minimo" emergeva dal confronto tra vantaggi e svan­ taggi di ciascuna alternativa. La successiva affermazione del sistema teorico neoclassico andrebbe dunque giudicata responsabile di una discontinuità prodottasi nella scienza economica. Il costituirsi dell'e­ conomia del benessere come branca di studio dotata di una certa au­ tonomia ha fatto sì che il discorso economico sulle istituzioni venisse relegato a tale ambito, e lì venisse svolto non in termini di analisi comparativa delle istituzioni, ma in termini di efficienza. È così potu­ to accadere che persino la reazione normativa contro l'eccessiva estensione del laissez /aire sia stata svolta in termini di "fallimenti del mercato" anziché di analisi delle istituzioni. 4· 3 .2 . Il neoistituzionalismo contrattualista La fondazione del "J ournal of Law an d Economics " nel r 9 5 8 sancì la nascita di un fruttuoso sodalizio tra le Facoltà di Diritto e di Econo­ mia dell'Università di Chicago ; da esso si sviluppò uno dei più im1 99

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portanti dei filoni di analisi che confluiscono nel moderno neoistitu­ zionalismo di origine neoclassica. Punto di partenza del nuovo filone fu l'osservazione che i rapporti tra soggetti economici, nelle moderne società capitalistiche, risultano regolati da una trama di meccanismi istituzionali che sono molto più complessi e articolati di quelli consi­ derati dal tradizionale modello di concorrenza perfetta: le società si reggono su sistemi legali sofisticati dai quali scaturiscono diritti di proprietà, criteri per l'allocazione delle risorse di proprietà comune o dei beni pubblici, rapporti contrattuali a lungo termine che possono favorire il mantenimento nel tempo di posizioni monopolistiche o collusive. L'obiettivo del filone di ricerca in questione era di analizza­ re questa trama di fatti istituzionali, studiandone le proprietà di effi­ cienza e dandone una giustificazione in chiave individualistica, cioè riconducendola alle scelte di individui autointeressati e razionali. A partire da questi intenti, il neoistituzionalismo contrattualista si sviluppò seguendo due approcci: quello process oriented (orientato al processo) e quello end-state oriented (orientato allo stato finale) . Se­ condo il primo, è al processo deliberativo e non al risultato finale che si deve prestare attenzione quando si vogliono esprimere valutazioni. Si ritiene che basti applicare una procedura in modo corretto perché il risultato sia giusto o corretto. Quanto a dire che il processo giu­ stifica il risultato e non viceversa, come invece sancisce l'approccio end-state. Una posizione del genere è stata assunta dai teorici dello " Stato minimo " , il più illustre dei quali è il filosofo americano Robert Nozick. In Anarchy, State and Utopia, del 1 974, Nozick ha sostenuto che il mercato è il solo meccanismo giustificabile per l'allocazione delle risorse perché esso solo è compatibile con la protezione della libertà negativa, cioè della libertà come assenza di costrizioni. D'altro canto, quella negativa sarebbe l'unica concezione di libertà che la so­ cietà liberale può e deve tutelare. Due le conseguenze che ne deriva­ no a proposito del giudizio da dare circa gli interventi dello Stato nell'economia. La prima è che nessun individuo deve trovarsi a stare peggio di quanto starebbe in assenza dell'intervento pubblico. La se­ conda è che nessuna valutazione morale può essere data degli esiti di mercato, dal momento che nessuno di coloro che partecipano al gio­ co di mercato può esserne ritenuto responsabile per averne " voluto " l'esito. Per chiarire questo punto, veramente centrale nel dibattito sulle teorie economiche della giustizia, Nozick si è servito del seguente esempio. Se un gran numero di individui decide volontariamente di pagare una certa somma per assistere allo spettacolo di un artista, 200



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nessuno potrà obiettare con ragione alla distribuzione del reddito che ne consegue, anche se il risultato di un tale processo fosse che l'arti­ sta diviene enormemente ricco. È questa una variante, in chiave mo­ derna, della celebre affermazione di Locke secondo cui, «acconsen­ tendo all'uso del denaro», gli individui finiscono con l'acconsentire a qualunque distribuzione di reddito ne derivi. Chiaramente, si tratta di una posizione non molto solida sotto il profilo filosofico. Infatti dal­ l'impossibilità di attribuire agli agenti del mercato la responsabilità dei suoi esiti non consegue che costoro siano esonerati dalla respon­ sabilità di porre ad essi rimedio. Ciò che l'esempio di Nozick indica è che vi sono soggetti che preferiscono pagare un certo prezzo piutto­ sto che perdersi lo spettacolo. Ma sarebbe un non sequitur sostenere che essi preferiscono la distribuzione del reddito che ne consegue; e ciò per l'ovvia ragione che quest'ultima non è un'opzione che appar­ tiene all'insieme di scelta degli individui. Trattandosi di un risultato che emerge a livello aggregato, una certa distribuzione del reddito può essere "scelta " solamente per mezzo di una decisione collettiva. Il secondo approccio, quello end-state, si sviluppò all'interno della prospettiva filosofica del neocontrattualismo, prospettiva che va asso­ ciata, come si è ricordato nel capitolo precedente, al pionieristico contributo di J ohn Rawls del I 97 I . L'idea centrale qui è che sono gli esiti finali dei meccanismi allocativi, piuttosto che le procedure con cui vengono conseguiti, che vanno sottoposti a giudizio sulla base di prefissati criteri di valutazione. Obiettivo di questo approccio era di spiegare i meccanismi istitu­ zionali di una società mediante un modello che ne giustificasse la co­ stituzione e l'operare in termini non solo di una proprietà di efficien­ za in senso economico, ma anche di una proprietà di consenso fonda­ to su un criterio di razionalità individuale. L'approccio contrattualista tende a trattare l'interazione tra soggetti economici in maniera esplici­ ta. Connaturato ad esso è l'abbandono della categoria neo classica di concorrenza perfetta, intesa come competizione tra individui isolati che agiscono in condizioni parametriche, e la ripresa dell'originario concetto classico di concorrenza come rivalità tra individui interagen­ ti. Un risultato importante dell'approccio end-state è stato la reintro­ duzione nell'economia dello studio di fenomeni che gli economisti neoclassici avevano relegato fuori del proprio ambito di studio. Istitu­ zioni quali le regole morali di convivenza, i contratti di lungo perio­ do, i rapporti di autorità, la reputazione, per lungo tempo erano stati confinati nel campo di ricerca della filosofia morale, della sociologia, del diritto, della scienza politica. È stato merito specifico del neocon20I

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trattualismo aver contribuito a riportare tali questioni nell'agenda dell'economista. Di fronte a una situazione di " fallimento del mercato " , il tentativo di soluzione contrattualista parte dalla convinzione che i soggetti pos­ sano organizzare la loro vita sociale secondo un disegno cosciente. I " pianificatori " avrebbero il compito di " ridisegnare" la società e le sue istituzioni in modo che tutte le azioni siano guidate da fini noti. Importanti in tale contesto sono stati i lavori di L. Hurwicz, The Design o/ Mechanisms /or Resource Allocations e di J. Geanokoplos e H. Polemarchakis, Existence, Regularity and Constrained Suboptimali­ ty o/ Competitive Allocations When Asse! Market Is Incomplete. La "scoperta " interessante di quest'ultimo contributo è che in economie con mercati incompleti, l'equilibrio generale è di regola non solo su­ bottimale, ma anche subottimale vincolato. Ciò significa che un "pia­ nificatore " vincolato a usare gli stessi strumenti (e solo quelli) dispo­ nibili agli agenti economici è in grado di " fare meglio " del mercato. Che un pianificatore " onniscente " possa " fare meglio " del mercato, quando questo è incompleto, era un risultato già noto da tempo. Il nuovo punto di vista suggerisce che in economie dove l'assenza di mercati è causa di gravi inefficienze, uno Stato non omniscente può assumersi il ruolo di colmare la lacuna, rendendo meno incompleta la struttura dell'economia. In buona sostanza, il programma di ricerca sui fallimenti del mercato è valso a porre in luce il fatto che alla base di tutti i casi di fallimento si trova un comune problema: la tendenza di agenti auto-interessati ad agire in modo non cooperativo in situa­ zioni nelle quali la cooperazione è necessaria per realizzare sia scambi mutuamente benefici sia un'allocazione efficiente delle risorse. Come ha sintetizzato Joseph Stiglitz in The Economie Role o/ the State, l'i­ stituzione mercato non è in grado di assicurare, da sola, un compor­ tamento cooperativo da parte di coloro che in essa operano, e dun­ que c'è bisogno dell'intervento di un'altra istituzione. Dimostrare, sulla scorta dell'argomento dei fallimenti del mercato, la possibilità di uno spazio per l'intervento pubblico è condizione ne­ cessaria ma non ancora sufficiente per legittimare in senso economico l'intervento stesso. Quel che in più si richiede è che il governo sia in grado di realizzare a costi " ragionevoli " ciò che le forze di mercato non riescono ad ottenere. È questo il senso del programma di ricerca, anch'esso di impianto contrattualista, che studia i " fallimenti del go­ verno " , vero cavallo di battaglia della Scuola di public ehoice fondata da J ames Buchanan e Gordon Tullock. Nel loro classico The Calculus o/ Consent, del 1 962, i due studiosi hanno dato seguito all'ammoni­ zione del filosofo morale inglese Henry Sidgwick, secondo cui: «Dalla 202



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circostanza che il laissez /aire manchi ai suoi scopi non segue che l'in­ terferenza del governo sia vantaggiosa, dal momento che gli inevitabi­ li svantaggi provocati da quest'ultimo possono essere peggiori, in par­ ticolari casi, delle carenze della intrapresa privata» ( I 883 , p. 4 1 4 ) . In­ tento dichiarato della scuola di public choice è di mostrare che laddo­ ve la mano invisibile del mercato non riesce a trasformare i vizi priva­ ti in pubbliche virtù, la mano visibile dello Stato non necessariamente riesce a trasformare i vizi del governo in pubbliche virtù. Ora, quali sarebbero i "vizi del governo " ? Questo programma di ricerca ne considera diversi. C'è l'agire burocratico: il burocrate, di cui non si può mai fare a meno, si interpone tra cittadino e gover­ nante, riuscendo ad avocare a sé parte del soprappiù. Ci sono i costi connessi alla ricerca di rendite (rent-seeking) : costi che, essendo so­ stenuti per conservare posizioni di rendita, non sono produttivi. Ci sono poi le cosiddette internalità: le strutture di punizioni e ricom­ pense prevalenti all'interno di organizzazioni non di mercato entrano nella funzione di utilità dell'agenzia governativa e generano effetti di­ storsivi sull'allocazione delle risorse. C'è infine la natura essenzial­ mente problematica di ogni regola di scelta collettiva: come i vari teo­ remi di impossibilità avevano dimostrato, qualsiasi meccanismo di de­ cisione collettiva o è efficiente ma dittatoriale oppure è democratico ma inefficiente. L'impostazione generale della scuola di public choice rientra nella tradizione europea (continentale) della scienza delle finanze degli ulti­ mi decenni dell'Ottocento, una tradizione che ha avuto tra i suoi rap­ presentanti più illustri gli italiani Pantaleoni, De Viti De Marco, Maz­ zola, Montemartini e gli svedesi Wicksell e Lindahl. In The Limits o/ Liberty: Between Anarchy and Leviathan, del 1 975 , una delle sue ope­ re di più largo respiro, Buchanan ha affrontato lo studio dell' orga­ nizzazione economica di una società di uomini liberi. L'obiettivo era di arrivare a una costituzione economica su basi individualiste; dove per " costituzione" si deve intendere un insieme di regole convenute in anticipo e nel rispetto delle quali dovranno svolgersi tutte le azioni della fase post-costituzionale. Il costituzionalismo economico di Bu­ chanan è contrattualista in quanto le regole su cui si fonda presup­ pongono il consenso, e quindi l'accordo, di tutti gli interessati. È im­ portante osservare che, nell'ottica contrattualista, l'economia del be­ nessere è - per dirla con Andrew Schotter - «lo studio delle regole del gioco ottimali per le situazioni economiche e sociali» (p. 5 ) e non già la disciplina che studia le condizioni per l'ottima allocazione delle risorse in un contesto istituzionale dato. 203

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO 4 · 3 . 3. Il neoistituzionalismo utilitarista

Sostanzialmente diversa da quella contrattualista è la versione del neoistituzionalismo che possiamo chiamare utilitarista. Questo ap­ proccio si mantiene saldamente agganciato all'impianto filosofico del­ l'utilitarismo, sia pur dopo averlo ripulito di non poche delle ingenui­ tà dell'originaria formulazione di Jeremy Bentham. L'iniziatore di tale progetto teorico è stato Douglas North, il quale gli ha assegnato il compito di correggere ed estendere la portata esplicativa della teoria neoclassica per consentirle di spiegare la necessità delle istituzioni economiche. In quale senso si può sostenere che questo programma di ricerca si muove entro l'alveo neoclassico? Nel senso - scrive North in Institutions and Economie Theory (p. 4) - che «esso inizia con il postulato di scarsità e quindi di competizione; visualizza la scienza economica come teoria della scelta sottoposta a vincoli; im­ piega la teoria dei prezzi come parte essenziale dell'analisi delle istitu­ zioni; e considera i mutamenti nei prezzi relativi come forza principa­ le che provoca il mutamento istituzionale». E in quale senso questo programma va oltre la teoria neoclassica? Nel senso che, «oltre a mo­ dificare il postulato di razionalità [strumentale] , esso aggiunge le isti­ tuzioni come vincolo critico e analizza il ruolo dei costi di transazione [ . . . ] . Esso estende la teoria economica perché incorpora le idee e le ideologie [degli agenti] nell' analisi, modellizzando il processo politico come fattore critico ai fini della performance dell'economia» (ivi) . Un campo di studio in cui tale versione del neoistituzionalismo ha trovato vasta applicazione è quello della teoria dell'impresa e dei mercati. Perché esiste l ' istituzione impresa? E perché si osserva una grande varietà di tipi d'impresa, di strutture gerarchiche, di dimensio­ ni, di diversificazione produttiva, di strutture proprietarie? Non si tratta di domande oziose dato che, concettualmente, potrebbe esiste­ re un'economia di mercato con un'accentuata specializzazione pro­ duttiva anche senza imprese. Perché dunque l'impresa emerge come istituzione se dal modello di concorrenza perfetta si trae che il merca­ to è in grado di assicurare l'efficienza allocativa? Il problema fu posto per la prima volta esplicitamente da Ronald Coase nel 1 93 7 in The Nature o/ the Firm, dove osservava che il mer­ cato comporta dei costi d)uso che devono essere presi in considerazio­ ne al pari dei costi di produzione veri e propri. Quando i costi d'uso superano un certo livello, il mercato entra in crisi e a esso si sostitui­ sce l'impresa. In altri termini, in un mondo di incertezza, l'impresa si costituisce come alternativa al mercato quando l'informazione acqui204



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sta valore e il mercato diventa uno strumento inefficiente nella raccol­ ta e nel controllo dell'informazione. Le iniziali intuizioni di Coase sono state riprese successivamente da Oliver Williamson, che vi ha costruito sopra l'approccio dei costi di transazione alla teoria dei mercati e delle organizzazioni d'impresa. L'approccio transazionale ha trovato una prima sistemazione in Mar­ kets and Hierarchies: A Study in the Economics o/ Interna! Organiza­ tions, del r 97 5 , ed è stato poi generalizzato in una seconda opera di sintesi, The Economie Institutions o/ Capitalism, del 1 985 . Williamson ha distinto fra costi di transazione ex ante ed ex post. I primi si iden­ tificano con la categoria tradizionale dei costi d'uso del mercato, i co­ sti connessi alla negoziazione e alla redazione dei contratti. Invece i costi di transazione ex post sono quelli che sorgono nella fase di ese­ cuzione di una transazione in connessione al verificarsi di circostanze non regolate preventivamente dal contratto. La grandezza dei costi è determinata dalle caratteristiche delle transazioni, che Williamson ha identificato in tre dimensioni principali. La prima è la specificità: af­ finché la transazione abbia luogo si richiede un investimento specifico da una o da entrambe le parti contraenti. La seconda dimensione concerne la frequenza: ad esempio, l'utilizzo ripetuto di un fornitore abituale permette di ridurre notevolmente costi quali quelli per il controllo della qualità. La terza dimensione è rappresentata dall' incer­ tezza: più lo scambio è incerto, più dettagliato deve essere il contratto che lo regola. In definitiva, i costi di transazione non si riducono ai soli costi d'uso del mercato; né le transazioni ai soli scambi di mercato. Si può ad esempio parlare di costi di transazione a proposito delle risorse impiegate per regolare l'esecuzione dei contratti di lavoro dipendente. I costi di questo tipo vennero classificati da Williamson in costi di coordinamento (quelli necessari per giungere all' accordo tra tutti i partecipanti) e costi causati dall'incompletezza contrattuale. In tale quadro Williamson ha potuto spiegare con dovizia di particolari i vari passaggi organizzativi dell'impresa dalla forma marshalliana classica alla grande conglomerata moderna. Una critica, per così dire interna, alla teoria dei costi di transa­ zione è stata avanzata da Harold Demsetz. L'interrogativo centrale di Demsetz era: perché le imprese talvolta producono i loro input e al­ tre volte trovano conveniente comprarli da altre imprese? La questio­ ne non riguarda tanto la sostituzione tra mercati e imprese, quanto piuttosto il grado di centralizzazione del coordinamento manageriale. Quanto più le imprese producono internamente gli input di cui ab­ bisognano, tanto più centralizzato risulterà il coordinamento manage205

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riale. Un aumento nei costi di transazione - ha osservato Demsetz non conduce a una sostituzione del coordinamento manageriale al coordinamento di mercato, come asserisce la teoria dei costi di tran­ sazione. Quello che succede è piuttosto la sostituzione del coordina­ mento manageriale entro poche grandi imprese al coordinamento manageriale in più numerose ma più piccole imprese. Secondo tale prospettiva, il grado al quale il coordinamento è verticalmente de­ centralizzato non è più semplicemente una questione di costi di transazione. Le imprese acquistano gli input quando ciò risulta più convenien­ te che produrli in proprio. Il costo di transazione è bensì un elemen­ to del costo di acquisto, ma solo un elemento. Secondo Demsetz, l'enfasi sui costi di transazione ha finito con il far perdere di vista l'intero quadro, facendo implicitamente ritenere che tutte le imprese possono produrre beni e servizi egualmente bene. È invece un fatto che le imprese non sono sostituti perfetti nella produzione dei beni; può quindi accadere che un'impresa trovi conveniente produrre i suoi input anche se i costi di transazione fossero zero e i costi di am­ ministrazione positivi. In sostanza la confusione deriverebbe dal fatto che si assume che l'informazione necessaria a scopi transattivi ha un costo, ma che è gratuita quando usata a scopi produttivi. La posizione di Demsetz può considerarsi il naturale sviluppo del­ l'idea di impresa come "funzione di produzione di squadra " , un'idea che Armen Alchian e Harold Demsetz avevano avanzato in un saggio del 1 972 , Production) In/ormation Costs and Economie Organization. Si ha produzione di squadra in un gruppo di lavoro quando la pro­ duttività marginale di ogni membro del gruppo dipende da quelle di tutti gli altri, cosicché non è possibile misurare separatamente i con­ tributi produttivi dei singoli e degli strumenti di lavoro da essi usati. Ebbene l'impresa nascerebbe da un particolare tipo di "fallimento " : il mercato non riesce a organizzare efficientemente la " produzione di squadra" perché non è possibile ottenere le informazioni necessarie per valutare il contributo produttivo dei singoli fattori. Se il contribu­ to di ciascun lavoratore non è distinguibile da quello degli altri, sarà difficile stabilire a chi sia da imputare la variazione dell' output. La remunerazione dei fattori dovrà allora basarsi sul prodotto congiunto e non più sulla produttività marginale dei singoli input. In tal caso però ciascun lavoratore avrà un incentivo a comportarsi in modo op­ portunistico, cioè da /ree-rider, erogando una quantità subottimale di sforzo. Il risultato finale sarà l'inefficienza produttiva. Una possibile soluzione del problema - suggerirono Alchian e Demsetz - è quella di affidare ad un membro della squadra il ruolo di supervisore, cioè il 206



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compito di controllare i singoli soggetti e di deciderne la remunera­ zione. D'altro canto, come si può evitare che il controllore colluda con gli altri membri della squadra, trascurando di esercitare le pro­ prie funzioni? La risposta dei due studiosi è che al supervisore venga riconosciuto il diritto di disporre del reddito residuale, cioè di ciò che resta una volta che tutti gli input siano stati remunerati. Poiché l'opportunismo riduce il profitto, il supervisore ha tutto l'interesse a combatterlo. In conclusione, dato che il proprietario è il soggetto cui spetta il diritto al residuo, il controllore più efficiente sarà il proprie­ tario dell'impresa. L'altro grosso filone di ricerca in cui si è articolato il programma del neoistituzionalismo utilitarista è quello della teoria dei diritti di proprietà. Duplice è l'obiettivo di questa teoria, come hanno posto in luce Alchian e Demsetz in The Property Rights Paradigm: da un lato, si tratta di confrontare, sul piano dell'efficienza, le conseguenze che assetti proprietari alternativi possono avere sulle allocazioni sociali; dall'altro bisogna spiegare, sempre sulla base di un criterio di effi­ cienza, quali strutture di diritti di proprietà vengono a configurarsi endogenamente a partire da una data situazione iniziale. L'idea base da cui ha preso le mosse questa letteratura è che, nei rapporti di scambio aventi per oggetto beni o servizi, non sono i beni e i servizi in sé a dare senso a quei rapporti. Piuttosto quel che real­ mente conta è ciò che gli agenti hanno titolo a fare una volta che siano entrati in possesso di beni o servizi. Ne discende una visione dello scambio come scambio di diritti di proprietà: tenuto conto del fatto che un diritto di proprietà si articola sia nel diritto al reddito residuale sia in quello al controllo residuale, il valore che un soggetto attribuisce a una risorsa dipende dai diritti di proprietà che essa è in grado di comandare. Si tratta di spiegare allora lo sviluppo nel tempo di tipi diversi di diritti di proprietà. Inoltre si pongono i seguenti problemi: in che modo la natura dei diritti di cui un individuo può disporre influenza il suo comportamento? Qual è il significato di strutture alternative di diritti di proprietà? Infine, più specificamente, come spiegare l'emergere dell'impresa in quanto istituzione alternati­ va al mercato facendo ricorso alla teoria dei diritti di proprietà? Nell'originaria elaborazione di Demsetz, la struttura dei diritti che si osserva nell'impresa capitalistica è una risposta ai costi di transazio­ ne dovuti alle asimmetrie informative e alla natura idiosincratica delle azioni in cui si materializzano le prestazioni dei soggetti. La più re­ cente teoria delle strutture proprietarie è andata oltre, dilatando note­ volmente l'orizzonte delle conoscenze circa i fattori da cui dipende l'ottima struttura dei diritti di proprietà nell'impresa. Steven Grossman 207

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e Oliver Hart ( 1 986) e Hart e John Moore ( 1 990) sono partiti da una nuova premessa: l'impresa non è più vista come una rete di contratti e un modo per risolvere il problema dei costi di transazione. È vista come un insieme di attività, di beni capitali e di competenze indi­ spensabili allo svolgimento del processo produttivo. Il punto è che individui e beni capitali sono eterogenei, vale a dire non sono in ge­ nerale tra loro sostituibili. Sono dunque frequenti i casi in cui fra in­ dividui e beni capitali si instaurano dei rapporti di complementarità che danno vita a " reti di interdipendenza tecnologica " . Un soggetto può essere portatore di conoscenze e capacità tali da renderlo indi­ spensabile all'impresa. Ebbene tale soggetto dovrebbe esserne il pro­ prietario. Un merito particolare della teoria di Grossman, Hart e Moore sta nella capacità di spiegare l'emergere e la sostenibilità di forme di impresa diverse da quella capitalistica, ad esempio dell'im­ presa cooperativa. Come dire che quella capitalistica non è la forma "naturale " di impresa. Sulla medesima linea di pensiero si è mosso H. Hansmann, che ha proposto una teoria della proprietà dell'impresa basata sulla mini­ mizzazione della somma totale dei costi di contrattazione e di pro­ prietà. La constatazione da cui è partito Hansmann è che le transa­ zioni tra agenti economici possono essere regolate o per mezzo di contratti o per mezzo di rapporti di autorità. Ciascuno dei due modi di regolazione comporta dei costi specifici: costi di contrattazione, l'uno; di proprietà, l'altro. Inoltre ci sono diverse classi di stakehol­ ders, cioè di portatori di interessi, nei confronti dell'impresa: lavora­ tori, fornitori, clienti, amministratori, azionisti, autorità pubbliche. La tesi di Hansmann è che la proprietà dell'impresa deve essere attribui­ ta alla classe di stakeholders che dimostra di essere in grado di mini­ mizzare la somma dei costi di contrattazione e di proprietà. Un'area di ricerca in cui il filone del neoistituzionalismo utilitari­ sta ha prodotto risultati copiosi è quello della teoria dell"' agenzia" (è ormai invalso l'uso di tradurre così il termine inglese agency, che do­ vrebbe invece essere tradotto col termine "mandato" ) . Riflettendo sulle conseguenze della separazione fra proprietà e controllo nella moderna impresa, M. H. J ensen e W. Meckling hanno portato l' at­ tenzione su un nuovo tipo di relazione tra proprietari e manager: il rapporto di " agenzia " . In esso un soggetto, l"' agente" (cioè il manda­ tario) , si impegna, dietro compenso, a svolgere azioni nell'interesse di un altro soggetto, il "principale " (cioè il mandante) . Nel caso specifi­ co dell'impresa, " principali" sono i proprietari, " agenti" gli ammini­ stratori. Costoro potrebbero essere tentati di massimizzare la propria funzione obiettivo, che, tipicamente, non coincide con quella dei pro208



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prietari. Poiché questi ultimi si trovano nell'impossibilità sia di fissare contrattualmente tutti gli obblighi dei manager sia di controllare il loro operato, la via d'uscita al problema dell'azzardo morale (mora! hazard) starebbe nella definizione di adeguati contratti d'incentivazio­ ne. Si tratterebbe dunque di trovare un sistema di premi e punizioni tale per cui l"' agente " è incentivato a perseguire l'interesse del " prin­ cipale " . Chiaramente, per stipulare un contratto d'incentivazione ver­ ranno sostenuti dei costi specifici. I costi di " agenzia" definiscono una nuova categoria di costo che nulla ha a che vedere con quella dei costi di transazione. Come hanno mostrato Andrei Shleifer e Robert Vishny, la teoria dell ' " agenzia" ha obbligato gli studiosi dell'impresa a porsi il problema del disegno della struttura appropriata di corporale governance, intesa come l'insieme de­ gli strumenti organizzativi, legali e culturali in forza dei quali i pro­ prietari dell'impresa si assicurano il massimo ritorno possibile per il loro investimento. Partendo dall'importante distinzione tra autorità for­ male (quella esercitata da chi detiene il diritto di proprietà) e autorità sostanziale (quella di chi ha il controllo effettivo sulle decisioni strategi­ che e quindi sull'utilizzo delle risorse) , Philippe Aghion e Jacques Tiro­ le hanno richiamato l'attenzione sul fatto che i vincoli posti dagli incen­ tivi sono altrettanto essenziali dei vincoli posti dalle risorse. Infatti, se le informazioni e/o le azioni individuali non sono conoscibili né verifi­ cabili, non basta prestare attenzione alle risorse a disposizione: occorre determinare quale struttura di incentivi deve essere predisposta affin­ ché gli individui rivelino correttamente le informazioni private in loro possesso e si astengano da comportamenti opportunistici. 4 · 3 ·4· Il nuovo "vecchio " istituzionalismo

Tutto il profluvio di approcci neoistituzionalisti contemporanei non deve far dimenticare il fatto che esiste anche un "vecchio " istituziona­ lismo, che anzi è tuttora vivo e vegeto: l'istituzionalismo degli eredi di Veblen e Commons. Quando Walton Hamilton, nel 1 9 1 8, presentava all'American Economie Association una relazione dal titolo The Institutionalist Ap­ proach to Economie Theory, stava facendo una scommessa: che l'istitu­ zionalismo, forte della sua maggiore capacità di aderire alla realtà, potesse soppiantare il neoclassicismo come ideologia economica do­ minante almeno in America. A sostegno di tale ottimismo non c'era solo il prestigio intellettuale di filosofi sociali del calibro di Dewey, Veblen e Commons, e neanche la rapida diffusione dell'approccio istituzionalista a cui stava assistendo il sistema universitario americano 209

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in quei tempi. C'era forse anche la crescente presa del pensiero istitu­ zionalista sull'opinione pubblica e i leader politici. E il New Deal sembrò dare ragione all'ottimismo di Hamilton. In quell'ambizioso esperimento di riforma economica e sociale l'America tentava di ri­ trovare la forza dello spirito della frontiera per venire a capo di pro­ blemi apparentemente insolubili; cercava di andare oltre le secche della depressione, della povertà, della disoccupazione con uno sforzo di volontà che assumeva le caratteristiche di una ribellione verso le " leggi naturali" del mercato. Ma quei problemi erano insolubili solo per la scienza ortodossa neoclassica. Gli istituzionalisti avevano delle soluzioni e le proposero, e il governo le adottò. D'altra parte, il pen­ siero istituzionalista, come avrebbe teorizzato John Fagg Foster, era l'incarnazione del vero spirito della frontiera, lo spirito del can do, della capacità pubblica di influenzare positivamente gli eventi storici rompendo la continuità istituzionale. Sembrò in quel momento che la scommessa di Hamilton fosse vinta. Senonché nel secondo dopoguerra le cose cambiarono drastica­ mente. Nel giro di pochi anni l'approccio neoclassico, forte dell'assi­ milazione della rivoluzione keynesiana, divenne egemone, e gli istitu­ zionalisti vennero emarginati. Mentre i neoclassici conquistavano tutte le università più prestigiose del regno e vincevano un premio Nobel dietro l'altro, gli istituzionalisti furono relegati in poche università di provincia; e sembravano destinati a una morte lenta e inesorabile o a una grama soprawivenza nel sottomondo degli eretici. Ma l'approccio istituzionalista soprawisse, e un numero consi­ stente di intellettuali scomodi continuò a lavorare con i suoi strumen­ ti in attesa di tempi migliori. Eretici come John Fagg Foster, Dudley Dillard e Allan Gruchy diedero vita a delle piccole ma agguerrite scuole; battitori liberi come J ohn Galbraith, Warren Samuels, Mare Tools, Kenneth Boulding e diversi altri insistevano nella critica alle metafisiche neoclassiche e nell'elaborazione di un sistema teorico al­ ternativo a quello ortodosso. Per molti anni furono inascoltati, talvol­ ta avevano anche difficoltà a pubblicare i propri lavori, ma continua­ rono a costruire. Finché, a partire dalla fine degli anni settanta, esplo­ se la rivoluzione neoistituzionalista. Molti economisti, anche di forma­ zione neoclassica, per uscire dall'impasse in cui venne a trovarsi la scienza economica ufficiale in quell'epoca, riscoprirono le istituzioni. Fu così che venne " riscoperto" anche il buon " vecchio " istituzionali­ smo americano; e molte delle ricerche, delle acquisizioni e delle pre­ diche degli eredi di Veblen e Commons, che erano rimaste inascolta­ te negli anni cinquanta e sessanta, riacquistarono u dienza non solo tra il grande pubblico ma anche nell'accademia. Nel lungo periodo 2 10



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l'istituzionalismo non è dunque morto e Hamilton potrebbe dopo tutto anche vincere la sua scommessa. Galbraith è forse l'esponente più rappresentativo dell'istituzionali­ smo americano contemporaneo. Nel solco tracciato da Veblen, e sulla base di una lettura molto particolare del pensiero keynesiano, Gal­ braith ha esplorato la natura societaria e i modi di pianificazione del sistema delle imprese, oltre all'influenza di ciò che considera " gli im­ perativi tecnologici " ; ma si è occupato anche della formazione sociale delle preferenze individuali, dell'interazione tra sfera privata e sfera pubblica, delle forze che influenzano la formazione delle opinioni nel settore pubblico. In American Capitalism, del 1 96 1 , Galbraith avanzò la teoria del countervailing power. Secondo tale teoria, un modo per tenere in equilibrio un sistema sociale, riducendone le sperequazioni, le ingiu­ stizie e il grado di sfruttamento, è quello di bilanciare l'eccesso di potere detenuto da certi gruppi socio-economici (grandi imprese, car­ telli, associazioni padronali ecc.) consentendo la costituzione di altri gruppi di potere con interessi contrapposti. Una teoria piena di reali­ smo e di saggezza, ma che non è stata accettata dalle ideologie econo­ miche dominanti. Nella trilogia formata da The A/fluent Society, The New Industria! State ed Economics and Public Purpose Galbraith so­ stenne con forza la tesi secondo cui la "mano invisibile " è lungi dal­ l' avere i benefici effetti che gli attribuiscono le teorie liberiste. Al contrario essa condurrebbe a un'esasperazione della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, alla prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici, anzi al sottosviluppo e allo "squallore " dell'econo­ mia pubblica, e infine al sottodimensionamento dell'attività di ricerca e sviluppo. Quest'ultima attività svolge un ruolo fondamentale nel processo di sviluppo economico; ed è un fatto, per Galbraith, che gran parte di essa, soprattutto di quella veramente utile dal punto di vista del progresso economico, è svolta dalle grandi imprese. Anche per questo Galbraith si è sempre mostrato piuttosto scettico nei con­ fronti dell'efficacia e dell'utilità delle politiche antitrust. Più utile, se­ condo lui, la pianificazione strategica, un tipo di intervento pubblico nella sfera economica che non dovrebbe mirare a coartare l'attività privata, ma a coordinarla e a piegarla a servire l'interesse pubblico. Nei suoi saggi più recenti, del 1 97 9 e de 1 9 8 3 , Galbraith si è spinto così avanti su questa strada da giungere a predicare un intervento pubblico volto sistematicamente alla redistribuzione del reddito a fa­ vore degli strati più poveri della società. John Fagg Foster, che insegnò nell'Università di Denver dal 1 946 al 1 97 6, ha pubblicato poco ma ha contribuito a mantenere viva una 211

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tradizione orale in cui si sono formate varie generazioni di economisti eterodossi. Si impegnò a fondo in un tentativo di assimilare il pensie­ ro di Keynes all'impostazione istituzionalista, mettendo in evidenza, ad esempio, il carattere endogeno del cambiamento strutturale e isti­ tuzionale. La teoria e la politica keynesiana non valgono solo nel bre­ ve periodo, come andavano sostenendo i teorici della sintesi neoclas­ sica, ma anzi assumono valore soprattutto nel lungo. Le politiche pubbliche sono necessarie per far fronte al problema della disoccupa­ zione e della cattiva utilizzazione delle risorse, che non è un fenome­ no di disequilibrio di breve periodo, ma un problema cronico dell'e­ conomia capitalistica. Per questo gli aggiustamenti politici e istituzio­ nali, ad esempio sotto forma di socializzazione degli investimenti e di eutanasia dei rentier, devono assumere il carattere di riforme struttu­ rali. Tali riforme devono rispondere a un criterio di valutazione che Foster ha denominato principio di «efficienza strumentale». Il criterio, che è riconducibile alla distinzione tra giudizi strumen­ tali e giudizi cerimoniali, è stato sviluppato da Mare R. Tool nell'affi­ namento della teoria istituzionalista del valore strumentale. L'evolu­ zione di un'economia può essere vista come una successione intermi­ nabile di problemi la cui soluzione richiede la continua ristrutturazio­ ne sociale attraverso l'aggiustamento istituzionale. In tale processo il principio di efficienza strumentale impone che siano abbandonate le regressive istituzioni cerimoniali e favorito il cambiamento strumenta­ le, che è progressivo e socialmente benefico. Tornando a Foster, bisogna ricordare anche la sua teoria della formazione del capitale, una teoria che costruì partendo dalla keyne­ siana uguaglianza risparmi-investimenti. Foster interpretò tale ugua­ glianza come un'identità contabile e l'usò per fondare una teoria del­ l' accumulazione di lungo periodo. Da quell'uguaglianza dedusse l'im­ possibilità che la formazione del capitale potesse essere frenata da una carenza di risparmi. Anzi, secondo lui, è la debolezza dei consu­ mi che può rallentare la crescita. I risparmi si adattano sempre passi­ vamente agli investimenti, cosicché il processo d'accumulazione è trainato dal progresso tecnico e dall'attività d'investimento. Il finan­ ziamento avviene attraverso la formazione del debito e il successivo rimborso col reddito generato dall'accumulazione stessa. Le istituzio­ ni politiche ed economiche, specialmente il ministero del Tesoro e il sistema bancario, svolgono un ruolo fondamentale nel guidare e so­ stenere la formazione del capitale. Anche in questo caso è evidente una rilettura del keynesismo come dottrina della politica economica valida soprattutto per il lungo periodo. Foster fu membro molto attivo del Wardman Group, un circolo 2 12



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di economisti istituzionalisti che, a partire dalla fine degli anni cin­ quanta, si riuniva all'interno dell' American Economie Association e che successivamente avrebbe dato vita all' Association for Evolutiona­ ry Economics (AFEE) , l'organizzazione accademica che raccoglie gli economisti americani di impostazione istituzionalista. Tra i membri più influenti del Wardman Group e i fondatori del­ l ' AFEE c'era Allan Garfield Gruchy, uno dei capiscuola dell'istituzio­ nalismo americano contemporaneo. Gruchy, come Foster, fu molto influenzato dalla rivoluzione keynesiana. Secondo lui il mercato, lungi dall'essere un efficiente allocato re di risorse, è fonte di vasti fallimenti e inefficienze. La disoccupazione, la disuguaglianza dei redditi, l'in­ flazione, l'inadeguatezza dei servizi sociali, lo strapotere delle grandi imprese, l'alienazione e l'oppressione dei lavoratori e dei consumato­ ri, sono tutti problemi che, lungi dall'essere automaticamente aggiu­ stati dal mercato, sono invece da esso provocati. In quest'ottica è evi­ dente che le politiche di controllo della domanda aggregata proposte dai neokeynesiani, che pure possono essere utili, sono tuttavia insuffi­ cienti: sono incapaci di correggere i malfunzionamenti di fondo. Gru­ chy sostenne che erano necessarie politiche più coraggiose, politiche capaci di incidere sulla struttura del sistema economico. Così non esi­ tò a proporre un'attiva politica dei redditi, una forte regolamentazio­ ne delle società per azioni, una risoluta politica antimonopolistica, lo sviluppo di programmi sociali avanzati e, soprattutto, la pianificazione economica nazionale. Questa non doveva essere una pianificazione centralizzata del tipo sovietico, ma neanche una blanda pianificazione indicativa alla francese. Gruchy simpatizzò piuttosto con la program­ mazione socialdemocratica sperimentata nei paesi scandinavi. A un livello teorico più astratto Gruchy propose un approccio che definì holistic economics, intendendo rompere gli schemi concet­ tuali e accademici che isolavano e separavano le varie discipline socia­ li. A causa del carattere multidimensionale della natura dell'uomo e della società, cioè dell'oggetto di studio dell'economia, questa disci­ plina deve essere una scienza della cultura e svilupparsi in simbiosi con la sociologia, l'antropologia, la politica, la storiografia. Una tale scienza deve rifiutare il paradigma meccanicistico della fisica newto­ niana e seguire l'indirizzo darwiniano suggerito da Veblen. Gruchy, peraltro, preferì definirsi " evoluzionista" piuttosto che "istituzionali­ sta" . Gran parte della sua carriera si svolse comunque tra gli istituzio­ nalisti, cioè all'Università del Maryland, il cui Dipartimento di Eco­ nomia era diventato negli anni cinquanta un covo di economisti ere­ tici. Leader indiscusso e genio ispiratore della " scuola istituzionalista 213

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del Maryland " fu Dudley Dillard, il quale sviluppò quello che lui stesso ha chiamato l'approccio " trinitario" all'economia, un approccio fondato su tre discipline: microeconomia, macroeconomia e teoria dei sistemi economici. Quest'ultima disciplina doveva essere la più im­ portante delle tre. Le categorie economiche infatti sono storicamente e istituzionalmente determinate. Perciò, se si vuole capire come fun­ zionano le economie reali, lo studio del sistema capitalistico deve es­ sere preliminare a quello della micro e della macroeconomia. Com­ prendere il capitalismo contemporaneo, per Dillard, significa capire la moneta e il progresso tecnico, cioè le due forze motrici dell' accumu­ lazione. Il capitalismo infatti è visto come un sistema monetario di produzione trainato dagli investimenti innovativi. Si deve anche ricordare Warren J. Samuels, un economista che si distaccò un po' dall'impostazione degli altri istituzionalisti di questa generazione perché si ricollegò ad una linea di pensiero che risale a Commons e Hale (piuttosto che a quella avviata da Veblen e Ayres) e per aver scelto il proprio campo d'indagine nella disciplina di law and economics. Ha infatti studiato a fondo il ruolo dello Stato nella costruzione sociale. Rovesciando l'impostazione liberale classica, che vedeva lo Stato costituirsi su mandato dei soggetti sociali, Samuels ha portato alla luce la funzione costitutiva che lo Stato svolge nei con­ fronti dell'economia e della società civile, funzione che viene svolta attraverso la determinazione dei diritti e delle libertà, l'attribuzione del potere e l'imposizione della coercizione. Lo Stato interviene nel­ l'economia in quanto apparato legittimo di definizione e cambiamen­ to delle leggi. Nello stesso tempo però l'economia interviene sullo Stato facendone un territorio di conflitto e contrattazione per la di­ stribuzione del potere. Così politica ed economia si condizionano a vicenda, in realtà interagiscono costruendosi, modificandosi e rico­ struendosi in un processo di cambiamento continuo. Samuels peraltro ha rigettato l'impostazione neoistituzionalista di origine neoclassica per la sua tendenza a giustapporre Stato e mercato come se fossero due cose separate e indipendenti. In realtà tale separazione non ha senso per il semplice fatto che il mercato è creato dallo Stato attra­ verso la definizione delle norme e l'attribuzione dei diritti. Inoltre il vero problema politico, per Samuels , non è di decidere se lo Stato deve o non deve intervenire nel mercato e nell'economia, bensì di ca­ pire quali interessi sono da esso serviti nel suo intervento. Samuels si differenziò dagli altri istituzionalisti della sua genera­ zione anche per i suoi studi di storia del pensiero economico e di metodologia, nei quali ha sviluppato la tradizione pragmatista dell'i­ stituzionalismo americano arricchendola con apporti dall'ermeneutica 2 14



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e dal pensiero postmoderno. Ha così elaborato un'impostazione filo­ sofica che, tagliando alle radici le basi positiviste della scienza econo­ mica, ne porta alla luce il carattere discorsivo, retorico e ideologico, ma soprattutto la natura costruttiva. La realtà economica è socialmen­ te costruita, mentre il pensiero economico è socialmente condiziona­ to. Gli interessi sociali determinano le posizioni ideologiche dei grup­ pi in lotta, i quali, attraverso il gioco dei discorsi economici, costitui­ scono posizioni politiche che, a loro volta, determinano l'azione dello Stato e la costruzione della realtà economica. Il carattere costruttivo delle teorie e delle idee è stato sviluppato anche da Kenneth Ewart Boulding, un economista inglese emigrato in America che non può essere classificato in nessuna scuola, ma che è molto vicino alle posizioni istituzionaliste ed evoluzioniste. Tra i suoi svariati contributi va ricordato il concetto di " immagine " , che propo­ se nel r 9 5 6 per descrivere i costrutti mentali sulla base dei quali i soggetti effettuano scelte, prendono decisioni, intraprendono azioni e in definitiva costruiscono la realtà sociale. Le "immagini" diventano particolarmente potenti quando sono condivise socialmente, nel qual caso contribuiscono alla costituzione dei gruppi e alla determinazione dell'azione collettiva. Il contributo di Boulding all'approccio evoluzionista consiste nel­ l'elaborazione di un grandioso disegno di teoria generale dell'evolu­ zione in cui tutti i processi di produzione, biologica, fisica, economi­ ca, tecnologica ecc., sono visti come meccanismi di creazione di feno­ tipi a partire da genotipi. Questi ultimi sono definiti come strutture genetiche contenenti informazioni e know how. Tali sarebbero, ad esempio, il DNA contenuto in un cromosoma, o l'uovo da cui nasce una gallina, o il progetto con cui si costruisce un'automobile. In que­ st' ottica le differenze tra le attività creative dell'uomo e la creazione naturale tendono a scomparire. Non ci sarebbero differenze sostan­ ziali, salvo il fatto che il genotipo delle produzioni artificiali è conte­ nuto nella mente dell'uomo piuttosto che nei prodotti stessi della creazione. Il know how consiste in un potenziale creativo. Ha però bisogno di catturare energia per trasformare i materiali con cui dà vita alla struttura fenotipica. Ma qui il processo di produzione va in­ contro a dei " fattori limitanti " , visto che l'energia, i materiali, lo spa­ zio e il tempo sono scarsi. Infine vogliamo ricordare il contributo di Boulding alla costruzio­ ne della teoria post-keynesiana della distribuzione, contributo nel quale l'economista inglese sviluppò la parabola dell'" orcio della vedo­ va " per spiegare come sia possibile che, nell'aggregato, i redditi gua­ dagnati siano il risultato delle spese effettuate piuttosto che la loro 2 15

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causa. L 'esperienza immediata suggerisce che per effettuare una spesa dobbiamo avere dei soldi e che la spesa comporta una decumulazione delle nostre scorte liquide. Sembrerebbe dunque che si spende quan­ to si guadagna. Dal punto di vista macroeconomico però non c'è de­ cumulo di scorte liquide nel processo di scambio delle merci, c'è solo il passaggio della moneta da una mano all'altra. L 'insieme di questi passaggi si risolve nella creazione di profitti per i venditori delle mer­ ci, profitti che saranno tanto più alti quanto più alte sono le spese per consumi e investimenti. È così che, nell'aggregato, sono le spese a generare i redditi piuttosto che viceversa. 4 · 3. 5. Il neoistituzionalismo evoluzionista

Definiamo in questo modo un'area di ricerca che alcuni definiscono " nuovo istituzionalismo europeo" e che si è venuta formando recen­ temente intorno all'European Association for Evolutionary Politica! Economy (EAEPE) . Gli economisti di questo orientamento rifiutano di essere accostati ai neoistituzionalisti di origine neoclassica, sia quelli di credo contrattualista che quelli di credo utilitarista. Sembrano in­ vece accettare un apparentamento coi nuovi "vecchi" istituzionalisti americani, tanto che l ' EAEPE viene presentata talvolta come la gemella europea dell' AFEE. Tuttavia va ricordato che le tradizioni istituzionali­ ste europee sono molto più eterogenee e complesse di quella america­ na, per cui questo apparentamento può risultare un po' forzato. Il neoistituzionalismo evoluzionista si caratterizza comunque per un'esplicita tendenza a riallacciarsi alla tradizione critica di Veblen, oltre che per l'attenzione mostrata verso varie tematiche care all'eco­ nomia marxista. Notevole anche l'interesse per Schumpeter e, tra gli economisti contemporanei, per autori come Michel Aglietta, Kurt Rothschild , Janos Kornai, John K. Galbraith, Nicholas Georgescu­ Roegen e i post-keynesiani europei. Confluiscono in questa linea di pensiero, sia la scuola francese della " regolazione" , sia vari tipi di ap­ procci neoschumpeteriani al cambiamento economico, inclusi alcuni recenti approcci " evoluzionisti " allo studio del progresso tecnico e delle istituzioni, sia infine una parte degli approcci all'analisi del cam­ biamento strutturale. Fortissima è la polemica nei confronti della tra­ dizione neoclassica. Esplicito il rifiuto dell'individualismo metodologi­ co, un rifiuto sostanziato dalla tesi secondo cui, nel determinare il comportamento economico, più che le scelte razionali svolgono un ruolo significativo le azioni condizionate e inconsapevoli. Viene sotto­ lineato il ruolo giocato dalle istituzioni, intese come espedienti sociali creati per fronteggiare l'incertezza e come meccanismi di acquisizione 216



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e di elaborazione delle informazioni, ma anche come apparati capaci di indurre tra gli individui comportamenti di routine e azioni colletti­ ve. Marcata è l'enfasi sull'indeterminismo delle scelte e, in relazione a ciò, la tendenza a studiare il cambiamento economico in termini di processi "evolutivi" di tipo cumulativo, secondo una visione che rie­ cheggia temi e idee di Schumpeter e di Kaldor, ma soprattutto di Veblen. L 'aggettivo " evoluzionista " è importante per caratterizzare questo tipo di istituzionalismo e capire ciò che lo distingue dalle impostazio­ ni contrattualiste e utilitariste. Infatti qui il sistema teorico neoclassi­ co viene rifiutato in blocco perché vengono rigettate le ipotesi che definiscono tradizionalmente l ' homo oeconomicus: edonismo, indivi­ dualismo, utilitarismo, razionalità sostanziale, completezza delle infor­ mazioni, esogeneità delle preferenze. Si pongono allora dei problemi: come si fa a determinare la struttura e la dinamica della società se non si parte dalle scelte razionali degli individui? Se i comportamenti individuali sono soggetti a forti esternalità, cosa garantisce che le rela­ zioni sociali abbiano struttura? E cosa garantisce che tale struttura si evolva ordinatamente, così da soddisfare in qualche modo i bisogni umani? La risposta a tutte queste domande è: evoluzione darwiniana. Le organizzazioni, gli apparati produttivi, le norme, le abitudini, le istituzioni sono tutti strumenti della lotta per la sopravvivenza umana. Perciò cambiano con l'evoluzione della specie. Non c'è bisogno di as­ sumere che le istituzioni siano costruite razionalmente per conside­ rarle umanamente benefiche. Basta assumere che una sorta di selezio­ ne "naturale " operi anche tra gli artefatti umani. La tendenza sarà verso l'affermazione delle istituzioni che meglio servono i bisogni de­ gli individui, anche se questi non le hanno scelte consapevolmente. Ci sarà dunque un'evoluzione della società che è tendenzialmente positi­ va, e che tuttavia non è ottimale, visto che tra i criteri di selezione delle istituzioni non rientra la massimizzazione vincolata. Né è teleo­ logica, dal momento che non è decisa a tavolino da un pianificatore centrale o da un soggetto decisionale che si collochi all'esterno del processo selettivo. Né infine è unidirezionale, visto che è continua­ mente esposta sia all'innovazione che all'errore. Lo stato in cui si tro­ va la società in un dato momento storico è path-dependent, dipende cioè dal percorso con cui ci si è arrivati; e in ogni momento la storia si trova di fronte a situazioni di biforcazione: il passato è determi­ nante, ma il futuro è aperto. Non abbiamo spazio per rendere giustizia a tutti i contributi ori­ ginali che stanno emergendo dal magma del neoistituzionalismo evo­ luzionista. Perciò ci limiteremo a menzionare solo alcuni degli autori 2 17

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ptu noti. Innanzitutto va ricordato Geoffrey M. Hodgson, che ha scritto i due manifesti del nuovo istituzionalismo evoluzionista. Poi dobbiamo menzionare i contributi di Bart Nootebom e Ulrich Witt. Il primo si è distinto nel tentativo di superare l'economia dei costi di transazione attraverso lo studio dei processi di apprendimento orga­ nizzativo e di costruzione della fiducia. Il secondo si è occupato, da una parte dei processi di selezione naturale delle imprese in presenza di informazione imperfetta, dall'altra dei modi in cui i processi evolu­ tivi possono generare l'auto-organizzazione e il coordinamento spon­ taneo delle attività individuali. A questi tre va aggiunto Robert Sug­ den, un economista che, partito da un approccio contrattualista alla Buchanan, se ne è gradualmente allontanato studiando il ruolo gioca­ to dai sentimenti di equità nel finanziamento di beni pubblici e meri­ tori, oltre che il ruolo delle convenzioni sociali spontanee nei tentativi di venire a capo di problemi di equilibri multipli. Un contributo inte­ ressante Sugden lo ha dato, insieme a J. Loomes, nella " teoria del rimpianto" (regret theory) , con la quale ha affrontato il problema del­ le scelte in presenza d'incertezza ammettendo preferenze non transi­ tive. 4· 3 .6. Irreversibilità, rendimenti crescenti e complessità

La nozione di rendimenti crescenti di scala è da tempo presente nella letteratura economica, ma ha ricevuto una trattazione soddisfacente solo in tempi recenti. Già Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni aveva posto l'enfasi sui rendimenti crescenti e la divisione del lavoro per spiegare la crescita economica; Alfred Marshall, poi, introducen­ do i concetti di esternalità e di irreversibilità delle curve di offerta, aveva individuato nei rendimenti crescenti le cause della molteplicità degli equilibri. Causazione cumulativa, economie di scala dinamiche, circoli vir­ tuosi, sono termini che appaiono in alcuni contributi degli anni venti e trenta del xx secolo nell'ambito delle teorie del commercio interna­ zionale, dell'economia regionale e industriale, e successivamente, a partire dagli anni sessanta, delle teorie della crescita. Come si è ri­ cordato nel PAR. 8 .5 . 1 del primo volume, Young aveva enfatizzato il ruolo dei rendimenti crescenti e delle economie di scala dinamiche nell'espansione dei mercati; Kaldor, avendo compreso che rendimenti crescenti e progresso tecnico sono strettamente collegati, aveva intro­ dotto la nozione di " causazione cumulativa" per spiegare anche la di­ versità dei sentieri di sviluppo industriale in vari paesi; Myrdal infine aveva esaminato differenti meccanismi di causazione cumulativa e di 218



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" circoli virtuosi e viziosi " . In tempi più recenti Krugman ha applicato tali idee allo studio della localizzazione spaziale e alle moderne teorie della differenziazione intraindustriale nel commercio internazionale. È all'interno di questo quadro che vanno collocati i pionieristici contributi di Brian Arthur e di Paul David, i quali hanno fornito una chiara spiegazione del ruolo dei rendimenti crescenti nello sviluppo economico. La dinamica dei sistemi economici è history-dependent, ossia dipende dalle condizioni iniziali e dal sentiero seguito dall'eco­ nomia nei periodi precedenti. Un'altra caratteristica essenziale che è stata portata in luce da questi lavori è la stocasticità: le deviazioni casuali dal sentiero di equilibrio influiscono sulla tendenza di lungo periodo. In particolare, i processi stocastici non-lineari del tipo Polya, che sono stati studiati da Arthur e da statistici della scuola di Santa Fe, hanno esibito alcune interessanti proprietà: per esempio, sono compatibili con una molteplicità di possibili stati di lungo periodo, ognuno dei quali risulta essere dipendente dalle condizioni iniziali e dalle fluttuazioni casuali; inoltre la struttura di ognuno di questi stati rappresenta il risultato emergente di un processo che assume le ca­ ratteristiche dell'" auto-organizzazione " . L e tipologie dei rendimenti crescenti sono varie. Fenomeni di learning-by-doing e learning-by-using, effetti di coordinamento, ester­ nalità di rete, generano dei rendimenti crescenti in relazione all'ado­ zione di certe tecnologie perché quanto maggiore è l'uso di uno stan­ dard tecnologico tanto maggiori sono i benefici derivanti dalla sua adozione. Inoltre anche la trasmissione di informazioni sulla base del­ l' esperienza e dell'apprendimento può determinare un rafforzamento della posizione iniziale e quindi agire in modo simile alle forme più usuali di rendimenti crescenti. In tutti questi casi le decisioni d'inve­ stimento presentano caratteristiche di irreversibilità, e ciò spiega il prevalere di fenomeni di isteresi, cioè di effetti che persistono anche quando le cause che li hanno determinati sono scomparse. I rendimenti crescenti possono generare vari problemi, come l'esi­ stenza di equilibri multipli e di forme di inefficienza paretiana, di cui gli economisti sono consapevoli da tempo. Arthur ( 1 98 8 , 1 9 89) ne ha individuati altri: effetti di lock-in : una volta raggiunto uno stato , è difficile modifi­ carlo; la dinamica diviene strutturalmente rigida esibendo forti carat­ !eristiche di inflessibilità e irreversibilità; - fenomeni di path-dependence: la dinamica è influenzata dalle con­ dizioni iniziali, così che la storia risulta essere rilevante; processi di symmetry-breaking: pur partendo da condizioni iniziali simmetriche, lo stato finale può esibire caratteristiche di asimmetria. 219

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Si prenda il caso di competizione tra una pluralità di tecnologie che sono inizialmente presenti sul mercato. Il risultato può essere un monopolio tecnologico: il mercato finisce per essere intrappolato in una delle tecnologie disponibili, che non necessariamente è la più ef­ ficiente. Questo è un caso in cui i rendimenti crescenti generano dei feedback positivi (gli effetti di certe azioni rafforzano la motivazione a insistere in quelle azioni) che, combinati con degli " accidenti " stori­ ci e delle fluttuazioni casuali, determinano degli effetti di lock-in . Ci sono anche casi di sistemi history-dependent che invece non mostrano effetti di lock-in . Si tratta di modelli in cui è possibile la ricontrattazione tra gli agenti, in cui cioè è ammessa una revisione delle scelte. Gli effetti delle revisioni decisionali possono essere stu­ diati usando il concetto di " probabilità di transizione " da uno stato all'altro. Il senso in cui la storia ha importanza, in questi modelli, è la path-dependence delle probabilità di transizione. Ad esempio, in un modello di competizione di mercato le probabilità di transizione da una struttura di mercato a un'altra dipendono dalle quote di mercato esistenti in un dato stato o dal numero delle scelte precedenti di par­ ticolari gruppi di agenti. Tali processi mostrano convergenza nella di­ stribuzione di probabilità, anziché convergenza puntuale, e sono par­ ticolarmente adatti per esaminare contesti di " reti sociali " , ossia strut­ ture in cui gruppi diversi di individui si scambiano beni e informazio­ ni. In questi casi possono emergere convenzioni sociali, norme e isti­ tuzioni per far fronte alla casualità della recettività delle informazioni o all'imprevedibilità delle interazioni tra agenti. Secondo David, le convenzioni e le norme che regolano il funzio­ namento delle organizzazioni e delle istituzioni sono «carriers o/ hi­ story». Possono scaturire dall'evoluzione di strutture originatesi spon­ taneamente ed endogenamente, oppure possono essere il risultato di regole di interazione consapevoli. Come ha scritto Greif (p. 9 1 8) : «la capacità di mutamento dell'assetto organizzativo della società è fun­ zione della storia, poiché le istituzioni sono una combinazione di or­ ganizzazioni e credenze culturali [ . . . ] . D'altro canto, le organizzazioni e le credenze del passato influenzano storicamente le organizzazioni e gli equilibri successivi». Considerazioni del genere stanno alla base dei recenti sviluppi della letteratura che studia la coevoluzione di tec­ nologie, organizzazioni e istituzioni. L'idea sottostante questi contri­ buti è che l'economia si configura come un sistema complesso. Esistono sistemi che, pur evolvendo nel tempo in modo casuale, tendono a convergere verso una configurazione simile a quella inizia­ le. Questi, in genere, sono sistemi moderatamente complessi. Invece l'evoluzione storica dei sistemi molto complessi è tipicamente a senso 2 20



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unico: la storia non si ripete. I sistemi molto complessi sono altamen­ te sensibili alle piccole perturbazioni delle condizioni iniziali. Il pro­ blema diviene allora quello di valutare se tali fluttuazioni sono con­ trollabili per mezzo di meccanismi di regolazione. In caso contrario esse potrebbero determinare, a lungo andare, delle evoluzioni cata­ strofiche. Come si è accennato sopra, i sistemi con rendimenti crescenti sono caratterizzati da forti non-linearità. Ebbene i sistemi non-lineari possono avere molteplici attrattori, cioè regioni nello spazio degli sta­ ti da cui il sistema è attratto, che costituiscono come delle "soluzioni emergenti" . Il tipo di attrattore più semplice è un punto fisso, che corrisponde a una soluzione stazionaria. Per i sistemi dinamici non lineari il repertorio dei comportamenti è vasto: possono darsi attratto­ ri periodici, quasi-periodici, non periodici ecc. Ci sono poi sistemi deterministici, anche di struttura piuttosto semplice, che possono esi­ bire comportamenti imprevedibili. E può trattarsi di un'imprevedi­ bilità essenziale, nel senso che non può essere eliminata con l'acqui­ sizione di ulteriori informazioni. Questo fenomeno è noto come " caos deterministico " , una dinamica generata da leggi che in sé non com­ portano alcunché di stocastico, ma che può produrre traiettorie erra­ tiche in relazione a piccole perturbazioni delle condizioni iniziali. I sistemi dinamici in cui le variabili fluttuano in modo non periodico, e in cui le traiettorie vagano caoticamente, costituiscono esempi di di­ namiche complesse. In generale, per i sistemi dinamici in tempo con­ tinuo, l'evoluzione temporale caotica ha luogo in spazi di dimensione maggiore di due. Inoltre l'interazione tra sistemi indipendenti rende il caos più probabile, specie se le interazioni sono sufficientemente ele­ vate. La scoperta dei fenomeni caotici ha interessato molte discipline scientifiche. In economia ha condotto alla nascita di un paradigma nuovo. Da un lato il caos introduce limitazioni alla capacità previsio­ nale dei modelli, dall'altro il determinismo intrinseco al caos fa sì che molti fenomeni apparentemente casuali lo siano in realtà meno di quanto si pensi. I modelli di crescita e sviluppo tecnologico con rendimenti cre­ scenti sono particolarmente adatti a rappresentare sistemi economici che si comportano caoticamente. Poiché i concetti sottostanti le teo­ rie del caos sono sorti nelle scienze fisiche, un parallelo tra l' evoluzio­ ne di un sistema fisico e lo sviluppo di un sistema economico può servire a porre in luce alcune interessanti implicazioni teoriche. A bassi livelli di sviluppo tecnologico l'economia è in uno stato stazio­ nario (corrispondente allo stato stazionario di un fluido sottoposto ad 221

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una moderata fonte di calore) . A livelli più elevati di sviluppo tecno­ logico (rispettivamente, di temperatura) possono sorgere delle oscilla­ zioni periodiche: i cicli economici. A livelli ancora più avanzati di svi­ luppo tecnologico, si potrebbe osservare una sovrapposizione di due o più periodicità. Infine, in una fase ancora più avanzata può accade­ re che l'economia entri in uno stato turbolento (come quello di un liquido in ebollizione) , con variazioni irregolari e marcata dipendenza dalle condizioni iniziali. Forse questo è lo scenario dell'economia in cui viviamo oggi. Day ha illustrato le proprietà caotiche di alcune formalizzazioni di teorie classiche della crescita. Albin ha esaminato un modello disag­ gregato in cui l'interazione fra le imprese dà luogo, a livello aggrega­ to, ai comportamenti caotici studiati anche da Day. Baumol e Wolff hanno dimostrato l'insorgere del caos in un modello d'innovazione tecnologica, mentre Deneckere e J udd hanno studiato il caso di mer­ cati con innovazioni protette da brevetti. Inoltre interessanti applica­ zioni sono state sviluppate da Michael Woodford nell'ambito dei mercati finanziari, mercati in cui in effetti le dinamiche caotiche e im­ prevedibili sono piuttosto frequenti. Peraltro il campo della finanza, anche grazie alla maggiore disponibilità e attendibilità dei dati, sem­ bra essere il terreno ideale per l'applicazione delle teorie del caos. La scienza del Novecento ha visto il crollo del rigido determini­ smo di Laplace. Il principio d'indeterminazione di Heisenberg, evi­ denziando l'impossibilità di ottenere simultaneamente delle misure precise di due grandezze diverse (come la posizione e la velocità di una particella) , ha posto una limitazione forte alla possibilità di fare previsioni. D'altro canto, su scala macroscopica, la fonte dell'impreve­ dibilità può risiedere nella turbolenza del fenomeno, turbolenza che comporta l'amplificazione degli errori dovuti alle dinamiche comples­ se. Questi due aspetti stanno alla base dell'insuccesso delle teorie de­ terministiche classiche. Ebbene la teoria del caos ci ha messo di fron­ te a una limitazione ancora più drammatica: l'impossibilità di preve­ dere il futuro. Ne è risultato che l'analisi d'equilibrio, così centrale nel discorso economico ortodosso, è ormai messa in discussione da un gran numero di economisti. Al suo posto si stanno sviluppando approcci che cercano di studiare come le preferenze, le aspettative, le azioni dei soggetti economici reagiscono in modo sistematico all'insie­ me dei risultati che esse stesse generano. È interessante osservare che tali approcci stanno modificando in profondità le concezioni tradizionali circa il modo di intendere il ruo­ lo della politica economica. Infatti, l'indicazione che emerge da tali studi è che l'autorità di governo, a qualsiasi livello, deve guardarsi 222



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dalle posizioni estreme del dirigismo, da un lato, e del laissez /aire, dall'altro. Piuttosto, essa dovrà adoperarsi per spingere in modo " gentile , il sistema ad adottare strutture di comportamento che siano capaci di crescere in modo spontaneo. Con le parole di Brian Arthur, né di una mano invisibile né di una mano pesante si ha bisogno, ma di una "mano stimolante, (nudging hand) . + 3 · 7 · Von Hayek e la scuola neoaustriaca

L'espressione "scuola neoaustriaca, designa una varietà piuttosto am­ pia di studiosi che, pur riconoscendosi tutti nella linea di pensiero inaugurata da Cari Menger, hanno sviluppato programmi di ricerca diversi, attestandosi su livelli pure diversi quanto a rigore analitico e innovazione scientifica. Per un piccolo gruppo di tali autori l' approc­ cio neoaustriaco farebbe riferimento, più ancora che a una specifica dottrina economica, al modo in cui il discorso economico può essere utilizzato per mostrare la superiorità dell'ideologia liberale. È princi­ palmente a Fritz Machlup e alla sua interpretazione dell'opera di von Mises che si deve la diffusione di tale posizione, la quale negli ultimi anni ha ricevuto grande attenzione da parte del più convinto seguace americano di von Mises, Murray Rothbard. Comunque è al contributo scientifico di Hayek che invece si può attribuire il carattere di un vero sistema di pensiero. Nell'ultimo quarto di secolo, soprattutto negli USA , attorno a tale sistema si è svi­ luppato un filone di ricerca che si può propriamente definire " neoaustriaco , . Gli esponenti principali sono I. Kirzner, M. Rizzo, G. O'Driscoll, L. Lachmann. È dunque necessario partire dai fonda­ menti del sistema teorico hayekiano se si vogliono comprendere le linee direttrici di tale approccio. Nei capitoli precedenti ci siamo im­ battuti in vari contributi specifici di Hayek: la teoria monetaria del ciclo, la teoria dell'equilibrio intertemporale, la critica alla pianifica­ zione socialista. In questa sezione intendiamo offrire una visione d'assieme del pensiero hayekiano. In tal modo pensiamo di porre in luce il carattere radicalmente eterodosso dell'approccio neoaustriaco rispetto al mainstream neoclassico. Hayek è stato un autore straordinariamente prolifico, con inte­ ressi di ricerca che hanno spaziato dai problemi epistemologici a quelli economici, senza trascurare la filosofia e la psicologia. N on deve dunque sorprendere se molti studiosi, pur non riconoscendosi nelle posizioni della scuola neoaustriaca, ammettono debiti intellet­ tuali nei suoi confronti. C'è unitarietà nel pensiero di Hayek, e non pare plausibile la tesi secondo cui vi sarebbe un "primo Hayek , , 223

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teorico neoclassico ortodosso, e un " secondo Hayek" , teorico neoau­ striaco. È vero invece che si può individuare nella sua ampia produ­ zione scientifica una prima fase, in cui è prevalso un interesse alle questioni analitiche della teoria economica, e una seconda fase - che può farsi iniziare dalla pubblicazione del celebre The Road to Serf dom, del 1 944 - in cui sono state privilegiate questioni di filosofia politica e morale. Il filo conduttore che dà coerenza al sistema teorico di Hayek è la prospettiva evolutiva, la quale da sola costituirebbe la vera alter­ nativa al paradigma dell'equilibrio. Hayek attribuì scarsa capacità esplicativa alla categoria di equilibrio e al metodo di analisi che su di essa si regge: «La principale difficoltà dell'approccio tradizionale risiede nella sua completa astrazione dal tempo. Un concetto di equilibrio che fosse essenzialmente applicabile solo a un sistema eco­ nomico concepito come atemporale non potrebbe essere di grande utilità» ( 1 93 9 , p. 1 3 9 ) . Ma è soprattutto nel già citato saggio del 1 93 7 , Economics and Knowledge, che vennero esposte in modo siste­ matico le ragioni per le quali la metodologia di equilibrio non è ca­ pace di produrre una scienza economica utile. Non è dunque accet­ tabile la tesi dei teorici delle microfondazioni della macroeconomia tra cui Robert Lucas - che vorrebbero derivare da Hayek l'ispirazio­ ne prima della controrivoluzione delle aspettative razionali. Alla cate­ goria di " equilibrio " Hayek sostituì quella più vaga, ma anche più realisti ca, di "ordine spontaneo" . Un ordine comporta bensì una qualche regolarità a livello aggregato, ma è compatibile con diverse configurazioni di strutture microeconomiche. Non ci sarebbe con­ traddizione tra l'esistenza di un ordine macroeconomico e l'operare di caotici processi di aggiustamento individuale. Peraltro si può os­ servare che la nozione hayekiana di ordine presenta non pochi punti di contatto con la nozione di " complessità" quale viene usata nell'o­ dierna teoria dei sistemi. Al centro della riflessione dell'economista austriaco c'era il pro­ blema della conoscenza, che venne affrontato con riferimento sia al singolo agente - come arriva a conoscere quel che conosce - sia alla società nel suo insieme - attraverso quale processo la conoscenza si accumula e viene utilizzata collettivamente. Il problema della cono­ scenza occupò un posto centrale nel pensiero di Hayek già a partire dalla teoria del mercato come ordine spontaneo. Il mercato rende pos­ sibile utilizzare la conoscenza che è dispersa tra tutti i soggetti; esso è, essenzialmente, una procedura di scoperta, vale a dire un processo evolutivo che, attraverso prove ed errori, riesce ad aggiustare sistema­ ticamente le scelte dei soggetti economici e i loro risultati. L'ordine 224



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del mercato è spontaneo, non è indotto artificialmente, tanto meno è imposto dalla volontà di qualcuno. In tal senso, prima ancora di esse­ re un sistema di scambio di beni e servizi, il mercato è un sistema di produzione e scambio di segnali. I più rilevanti di tali segnali sono i prezzi, i quali non vanno concettualizzati come indici di utilità o di remunerazione dei fattori produttivi, bensì come strumenti d'informa­ zione. Un'economia di mercato rende possibile l'emergere di un ordi­ ne spontaneo attraverso i processi di apprendimento individuali asso­ ciati al contenuto informativo dei prezzi: «La somma delle informa­ zioni riflesse o precipitate nei prezzi è interamente il prodotto della competizione, o quanto meno dell'apertura del mercato a chiunque abbia informazioni rilevanti concernenti la domanda o l'offerta dei bene in questione [ . . . ] . È mediante il convogliamento delle informa­ zioni in forma codificata che gli sforzi competitivi del gioco di merca­ to assicurano l'utilizzazione della conoscenza che è ampiamente di­ spersa [ . . ] . La competizione opera come una procedura di scoperta non solo nel senso di dare a chiunque la possibilità di sfruttare parti­ colari circostanze [ . . . ] , ma anche nel senso di fornire alle altre parti l'informazione che una tale opportunità esiste» ( 1 99 1 , p. 3 o r ) . Al fondo della visione hayekiana del mercato come processo di scoperta e di apprendimento c'è un'originale concezione dell'evolu­ zione culturale, che non va confusa con la teoria dell'evoluzione natu­ rale. Si tratta di un processo di selezione competitiva da cui scaturi­ scono quelle regole di condotta individuale e quelle istituzioni sociali con cui vengono affrontati i problemi dell'interazione umana. Le re­ gole sulla base delle quali gli individui prendono decisioni hanno la natura di norme sociali, il che comporta che la loro violazione riceve sempre un sanzionamento sociale. Questa concezione è in netto con­ trasto con la teoria della scelta razionale, secondo cui il soggetto deci­ sionale, sulla base di un certo insieme di credenze e di un ben defini­ to ordinamento di preferenze, agisce in modo da massimizzare una funzione obiettivo sotto vincoli. Per Hayek, l ' homo oeconomicus delle scelte razionali è un feticcio privo di senso. D'altra parte, Hayek as­ sunse che l' agente non è pienamente consapevole delle norme sociali sulla cui base prende decisioni. Il che venne giustificato con la tesi secondo cui le norme emergono appunto da un processo evolutivo che non è governato da nessun singolo agente. La dinamica del pro­ cesso non è intelliggibile per via della complessità delle strutture di interazione tra gli individui. Scrisse in Law) Legislation and Liberty (p. 5 34 ) : «L'uomo ha certamente più spesso imparato a fare le cose giuste senza capire perché lo erano, ed è ancora oggi meglio servito dalle sue abitudini che dalla sua capacità di comprensione [ . . . ] . Fu un .

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repertorio di regole apprese che disse all'uomo quale era il modo giu­ sto o sbagliato di agire in diverse circostanze, e che gli diede una cre­ scente capacità di adattarsi a condizioni mutevoli, e in particolare di cooperare con gli altri membri del suo gruppo». A differenza dell'equilibrio generale walrasiano, l'ordine sponta­ neo non è stazionario. Esso evolve, dal momento che le norme sociali di comportamento cambiano nel tempo in relazione ai risultati delle azioni e delle interazioni umane. Qui Hayek anticipò l'odierna nozio­ ne di coevoluzione tra norme di comportamento e ordini spontanei, nozione che è al centro della teoria dei giochi evolutivi. La teoria sociale di Hayek - una teoria di impronta fortemente individualistica - sta a fondamento del suo liberalismo politico. Uno dei successi di cui l'economista austriaco è stato più fiero è la co­ stituzione, nel I 94 7 , della Società del Mont Pèlerin, vero e proprio semenzaio del pensiero liberale contemporaneo. Il mercato sarebbe il miglior garante della libertà politica; l'idea stessa di una giustizia so­ ciale sarebbe infondata: ecco due delle perle più risplendenti del libe­ ralismo di Hayek. Facile capire che sono state strumentalizzate dalla "nuova destra" , la quale le ha usate come cavallo di battaglia per contrastare ogni forma di intervento economico dello Stato. Va co­ munque ribadito, contro ogni semplificazione, che Hayek è un libera­ le, non un superficiale. Un episodio biografico merita di essere ricor­ dato: l'economista austriaco ha insegnato all'Università di Chicago dal I 9 5 o al I 962 , e per questo viene spesso associato alla cosiddetta " scuola di Chicago " , ma erroneamente. In realtà non ha mai insegna­ to presso il Dipartimento di Economia di quell'università, che sempre gli ha rifiutato l'accesso. La ragione principale dell'insistenza di Hayek sul concetto di mercato come ordine spontaneo va rinvenuta nel suo rifiuto del " co­ struttivismo razionalista " , costruttivismo la cui paternità attribuì a Descartes. Rifacendosi ad Adam Ferguson, che già aveva caratterizza­ to gli ordini sociali che evolvono spontaneamente come ordini «che sono dell'azione umana, ma non del disegno umano», Hayek ha sem­ pre stigmatizzato il vizio d'origine del costruttivismo: quell'«illusione sinottica» per cui si crede che sia possibile sommare le conoscenze individuali e, peggio ancora, che una tale sommatoria possa essere consegnata ad un qualche soggetto intellettivamente superdotato o a un comitato di saggi. Secondo Hayek nessuna pianificazione centra­ lizzata potrà mai funzionare e nessun sistema di regole di condotta potrà mai essere opera di ingegneria sociale. Laddove il costruttivi­ smo razionalista «ci dà la sensazione di avere un potere illimitato nel realizzare i nostri desideri», la teoria sociale evoluzionista «ci porta a



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considerare che vi sono limiti a ciò che possiamo tentare di consegui­ re e a riconoscere che alcune delle nostre speranze sono delle illusio­ ni» ( I 9 7 3 - I 9 7 9 , p · I 3 ) · C'è in Hayek la preoccupazione, tutta postmoderna, di porre in guardia economisti e filosofi contro l'aspirazione faustiana a raggiun­ gere una razionalità perfetta. La storia di Faust è antica almeno quan­ to la modernità. Se ne hanno tracce fin dal XVI secolo e in quasi tutte le lingue. Ma la versione di Goethe, la più famosa, innova in modo significativo rispetto a quelle precedenti. Infatti, mentre tradizional­ mente Faust veniva descritto come un soggetto talmente egoista da arrivare a vendere l'anima al diavolo in cambio di benefici e denaro, in Goethe è mosso da finalità nobili e altruistiche: liberare l'uomo dalle sofferenze e dalla schiavitù. Per riuscirvi, Faust ritiene indispen­ sabile costruire una nuova organizzazione sociale, e dunque avverte il bisogno di acquisire una conoscenza perfetta. Di qui il patto col dia­ volo: l'anima contro la conoscenza. È questo Faust che Hayek aveva in mente quando si scagliava con veemenza contro il costruttivismo razionalista. E che dire del suo giudizio perentorio sull'idea di giustizia socia­ le? Riallacciandosi alla tradizione liberale kantiana, Hayek ha osserva­ to che la giustizia è una virtù e che, in quanto tale, il suo ambito di applicazione è quello dell'azione individuale. Un'azione è giusta se è conforme alle norme vigenti nella società di cui l'individuo è parte. Pertanto, visto che gli enti collettivi non hanno né possono avere vir­ tù, dire che un ordine sociale è ingiusto significa commettere un erro­ re di antropomorfismo. La conclusione cui giunse Hayek fu che ogni tentativo di realizzare progettualmente la giustizia sociale non può che condurre a uno Stato " totalista" , uno Stato che distrugge le li­ bertà degli individui e dei gruppi sociali. Si può dire che con tale argomento Hayek ha portato al suo sbocco naturale un'idea che era stata elaborata già a partire dal Settecento: l'idea che l'ordine sociale emerge come «conseguenza non voluta dell'azione intenzionale». Oggi se ne parla usando il concetto di " eterogenesi dei fini " : vi sono situazioni sociali in cui più individui che sono mossi da fini particola­ ri interagiscono tra loro, nel rispetto di regole di condotta socialmen­ te condivise, generando conseguenze benefiche che non erano parte delle loro intenzioni. Hayek comunque non sostenne che i sistemi di norme sociali vi­ genti in un dato contesto vadano lasciati a sé. L'azione a favore di un disegno istituzionale può e deve avere luogo tutte le volte che le con­ dizioni generali possono essere migliorate; ma migliorate per accre­ scere l'utilizzo e la scoperta di nuove conoscenze, non per accrescere 227

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il benessere degli esseri umani. Si legge in Studies in Philosophy, Poli­ tics and Economics (p. 1 5 0): «l sistemi di regole di condotta si svi­ luppano come degli insiemi [ . . .] ; e il fatto che una nuova regola, combinata con tutte altre regole del gruppo, [ . . . ] aumenti o diminui­ sca l'efficienza dell'intero gruppo, dipenderà dall'ordine cui porta la condotta individuale, che in una situazione può essere di detrimento, in un'altra può dimostrarsi benefica». Quel che non si deve assoluta­ mente fare - per Hayek - è di intervenire con progetti di ingegneria sociale di tipo più o meno dirigistico, perché questi possono generare effetti perversi sull'ordine spontaneo esistente, minandone l'efficienza complessiva. Tuttavia è stato osservato da più di un critico che, una volta rifiutata la teoria neo classica dell'equilibrio e dell'efficienza pa­ retiana, non si capisce bene cosa si possa intendere per efficienza di un " ordine spontaneo " . Per concludere, si può dire che la riflessione hayekiana costituisce una sorta di punto di approdo e di estremizzazione di quella filosofia della mano invisibile che aveva trovato in Smith il più autorevole si­ stematizzatore. Come già accennato, all'interno della scuola neoaustriaca lo stu­ dioso che più si è mosso nel solco tracciato da Hayek è indubbia­ mente Kirzner. Competition and Entrepreneurship , del 1 9 7 3 , la sua opera più importante, è esplicitamente dedicata all'analisi della fun­ zione imprenditoriale. Per Kirzner, la struttura di mercato non può essere nota a priori. Essa emerge dal processo competitivo e dunque dipende dal sentiero che è stato percorso per raggiungerla. Non è dunque accettabile la teoria ortodossa, per cui la struttura di mercato - concorrenza perfetta, oligopolio o monopolio - è assunta fin dall'i­ nizio tra i dati del problema. Inoltre il mercato è caratterizzato dal disequilibrio permanente, e non ha senso cercare di valutare, come fa l'economia del benessere, i vantaggi e gli svantaggi di una posizione di equilibrio che esiste unicamente nella mente del ricercatore. D'al­ tro canto il disequilibrio è il contesto naturale dell'attività imprendi­ toriale. Infatti l'opera dell'imprenditore dispiega appieno i suoi effetti solamente nelle situazioni in cui i piani individuali non riescono ad armonizzarsi tra loro. E la ragion d'essere dell'imprenditore risiede nella sua capacità di avviare processi di coordinamento che sboccano nel soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, bisogni che diversa­ mente rimarrebbero in evasi. In un certo senso, l'approccio di Kirzner è speculare a quello di Schumpeter. Laddove quest'ultimo parte dal­ l'equilibrio per evidenziare il ruolo specifico dell'imprenditore-inno­ vatore, che sarebbe quello di rompere l'armonia del flusso circolare 228



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walrasiano, Kirzner parte piuttosto dal disequilibrio per esaltare la funzione equilibratrice dell'imprenditore. In Discovery and the Capitalist Process, del 1 9 85 , l'economista americano si è dedicato a questioni essenzialmente metodologiche, so­ stenendo la tesi secondo cui non si possono spiegare gli oggetti socia­ li se essi non vengono dapprima " compresi" . Il coinvolgimento che lo studioso ha con l'oggetto del suo studio costituisce, piuttosto che un impedimento a una conoscenza scientifica, una sua condizione neces­ saria. Un punto questo che è stato ulteriormente approfondito da Ludwig Lachmann in The Market as an Economie Process, del 1 986. Lachman si è distanziato da Kirzner per via del suo radicale soggetti­ vismo. È a lui comunque che si deve la distinzione tra «informazione come incorporazione di un flusso di messaggi oggetto di scambi» e «conoscenza come composizione di pensieri che un individuo è in grado di rievocare quando prepara e programma l'azione ad un dato punto del tempo» (p. 49) . Ebbene, è proprio la differenza tra infor­ mazione e conoscenza a rendere impossibile qualsiasi approssimazio­ ne, sia pure asintotica, a un qualche equilibrio informazionale. 4·4

L'economia politica radicale

4·4· r . Teorie del circuito monetario e del cambiamento istituzionale

La condizione postmoderna ha avuto sul marxismo effetti vivificatori e liberatori. Il crollo delle certezze antologiche, prima ancora che il crollo dei muri, ha portato all'eclisse del pensiero ortodosso e all'idea stessa che possa esistere una verità costituita nel " socialismo scientifi­ co " . Il pensiero radicale ha riscoperto la sua vocazione critica e anali­ tica. Si sono così moltiplicate le scuole di pensiero che si ispirano a Marx, ma s'è anche affermata la tendenza a rifiutare il metodo dell'i­ pse dixit. In questa sezione passeremo in rassegna vari approcci eco­ nomici radicali contemporanei. Quelli che presenteremo in questo paragrafo sono i più tradizio­ nali. Si tratta di due nuovi approcci all'analisi del capitalismo che si sono sviluppati negli anni ottanta: le teorie del circuito monetario e le teorie del cambiamento istituzionale. Le teorie del circuito monetario partono da quella particolare concezione marxiana del flusso circolare che lo vede come parte di un " circuito del capitale monetario " . Questo inizia con la creazione di potere d'acquisto, attraverso il credito, e termina con la sua di­ struzione, attraverso il pagamento dei debiti. La moneta svolge un 229

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ruolo essenziale nel processo di produzione capitalistico, perché, es­ sendo potere d'acquisto non prodotto (come bene reale) , consente l'avvio della produzione " dal nulla, . Il credito tuttavia non è accessi­ bile a tutti i soggetti economici, ma fondamentalmente solo ai capita­ listi, i quali perciò sono messi in condizioni di acquistare forza lavoro e mezzi di produzione senza prima aver prodotto un corrispettivo in termini reali. Invece i lavoratori, che hanno un limitato accesso al cre­ dito, possono acquistare merci solo dopo averle prodotte. Questa asimmetria sociale è considerata una caratteristica essenziale del modo di produzione capitalistico, e anche più importante dello stesso assetto istituzionale che regola la proprietà dei mezzi di produzione. Infatti, ciò che veramente conta nel rapporto di classe che si instaura nel processo produttivo è non tanto chi possiede i mezzi di produzio­ ne, quanto chi li controlla. E li controlla chi prende le decisioni d'in­ vestimento, quindi chi ha accesso alla finanza. D'altra parte, l'offerta di moneta è endogena e il settore che la " tratta, è considerato come un vero e proprio settore produttivo: il suo output è la liquidità, e si espande e si contrae in sintonia con la domanda, cioè con il livello di attività dell'economia complessiva. Ma non è detto che si muova in perfetta sintonia. Ciò può dar origine alle crisi di realizzo e, più in generale, a una forte ciclicità della dinamica dell'accumulazione. Le crisi vengono spiegate non soltanto con la funzione di riserva di valore della moneta e con la conseguente possi­ bilità di accumulo eccessivo di riserve liquide, ma anche, e soprattut­ to, col duplice carattere di attività-passività della moneta e la connes­ sa necessità da parte dei debitori di ripagare prima o poi i debiti. A causa del concatenamento dei rapporti di debito-credito, infatti, le crisi finanziarie assumono spesso la caratteristica di fallimenti a cate­ na. Qui la parentela con alcune teorie post-keynesiane è stretta. Più in generale si può dire che le teorie marxiste del circuito monetario derivano proprio dal tentativo di assimilare alla teoria marxista dot­ trine elaborate da alcuni seguaci antineoclassici di Keynes, ma è stato costante anche il riferimento ad altri teorici eretici della moneta, come Tooke, Wicksell, Schumpeter. Un 'illuminante formulazione del­ l' approccio del circuito monetario si può trovare in Augusto Grazia­ ni, The Theory o/ the Monetary Circuit. Bisogna peraltro rilevare che, anche se il riferimento dottrinale prevalente tra i teorici del circuito monetario è costituito da Marx, non tutti gli economisti che seguono questa linea di ricerca, specialmente in Francia, si considerano mar­ xisti. Un altro insieme di problemi teorici che ci interessa in questa sede è quello emerso dai dibattiti dell'ultimo decennio sui cicli lun-



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ghi. Ciò che si nasconde dietro le discussioni sui cicli lunghi e preme con forza per venire alla luce è il rifiuto del concetto stesso di "leggi di movimento " tendenziali. Attenti alle ricorrenti capacità della storia di smentire le filosofie della storia, e diffidenti nei confronti non solo dell'implicito ottimismo storico dei modelli di crescita di stato uni­ forme neoclassici e post-keynesiani, ma anche dell'esplicito " ottimi­ smo " dei modelli di stagnazione e di crollo dei vecchi marxisti, i ma­ rxisti delle giovani generazioni hanno imparato ad andarci cauti con la storia e le sue "leggi di movimento " . Ma non hanno rinunciato al­ l'idea che l'economia politica, intesa come scienza del modo di pro­ duzione capitalistico, abbia a che fare con i cambiamenti di lungo pe­ riodo. Una volta abbandonata l'illusione di spiegare la storia con una qualche ipotesi forte sulla tendenza secolare del saggio di profitto o di quello d'accumulazione, non restano aperte che due vie : rinunciare all'analisi dei fenomeni di lungo periodo o affrontarla in termini di cambiamento strutturale ricorrente, owero, che è lo stesso, di ciclo lungo. Le teorie del cambiamento strutturale e istituzionale infatti mira­ no a endogenizzare una serie di fenomeni economici che le teorie or­ todosse tendono a trattare come parametri: la tecnologia, le istituzio­ ni, i rapporti di classe. Nella misura in cui si nega al sistema capitali­ stico la capacità di mantenere in modo stabile e permanente un certo " regime" d'accumulazione, cioè una certa struttura di quei parametri, si riconosce la necessità di drastici cambiamenti strutturali. Ma nella misura in cui gli si nega qualsiasi tendenza al crollo finale, gli si rico­ nosce anche la capacità di usare il cambiamento strutturale per ri­ stabilire le condizioni d'accumulazione. Per questa via si arriva inevi­ tabilmente a una qualche teoria del cambiamento strutturale ciclico. E siccome sono in ballo i cambiamenti di forze fondamentali, si deve trattare di cicli lunghi. Non ha importanza poi la particolare periodi­ cità che gli si attribuisce, trentennale, semisecolare o altro; anzi, nean­ che ha importanza che ci sia una periodicità regolare. Ciò che vera­ mente conta è questo: quali che siano le proprietà dell'impianto isti­ tuzionale che è giudicato necessario per sostenere l'accumulazione, gli si nega un'indefinita capacità di riprodursi. Il che implica che lo svi­ luppo stesso è in grado di creare le condizioni necessarie per modifi­ care le proprie basi sociali, istituzionali e tecnologiche. Questa impostazione metodologica è presente, più o meno consa­ pevolmente, in tutte le teorie contemporanee del ciclo lungo. Le dif­ ferenze riguardano solamente il tipo di cambiamento strutturale su cui viene focalizzata l'attenzione e il tipo di parametri che sono endo­ genizzati dalle varie teorie. Si potrebbero distinguere così due grossi

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gruppi di teorie. Da una parte quelle neoschumpeteriane (ma fatte proprie anche da economisti marxisti) , in cui l'accento è posto sul cambiamento tecnologico, le ondate di grandi "innovazioni di base " e i mutamenti dei "paradigmi tecnologici " . Dall'altra le teorie marxiste in senso stretto, in cui vengono endogenizzati i cambiamenti degli as­ setti istituzionali e del conflitto di classe. Includiamo in questo grup­ po anche la teoria della " regolazione " , teoria che studia le norme e le istituzioni che servirebbero a " regolare" i " regimi" di determinazione salariale e di estrazione del sovrappiù. In alcune versioni di tale teo­ ria, accanto a una concezione del modo di produzione capitalistico che attribuisce molta importanza al carattere funzionale delle istitu­ zioni di regolazione, è presente anche la consapevolezza del carattere storico e transeunte dei sistemi istituzionali. Per l'accento che pongo­ no sulla tendenza dei " regimi di regolazione " a creare le condizioni del proprio cambiamento di forma nel lungo periodo, ci sembrano appartenere meno alle dottrine degli stadi evolutivi che a quelle del ciclo lungo. 4.4 . 2 . Il marxismo analitico

Uno dei motivi, o delle scuse, per cui l'accademia ha sempre teso a emarginare gli economisti marxisti va rintracciato nel basso livello della strumentazione analitica usata dalla teoria economica radicale. Più presi da questioni politiche reali che da astratti problemi mate­ matici, i marxisti hanno sempre teso a snobbare i virtuosismi formali, così giustificando quell'emarginazione e quasi compiacendosi in essa. Le cose hanno cominciato a cambiare negli anni sessanta, quando la diffusione dell'approccio sraffiano ha alimentato la crescita di un'eco­ nomia marxista analiticamente avanzata e formalmente ineccepibile. Sono poi cambiate ancora di più a partire dagli anni settanta, quando una nuova generazione di economisti radicali è entrata nella scena ac­ cademica con un bagaglio metodologico molto raffinato e, libera da pregiudizi e da dogmatismi, non ha esitato ad entrare nella cittadella dei principi fondamentali adottando strumenti analitici e concettuali desunti dall'economica "borghese " . L'approccio che ne è emerso è stato definito "marxismo analitico " o "marxismo delle scelte raziona­ li" . È caratterizzato dall'adozione di due assiomi fondamentali della teoria neoclassica, uno di natura metodologica e uno di carattere so­ stantivo: l'individualismo metodologico e la razionalità dei comporta­ menti individuali. I marxisti analitici sostengono che tali assiomi ser­ vono soltanto ad esplicitare e dare robustezza teorica ad assunti che erano già presenti nell'analisi di Marx. I principali esponenti di que-



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sta impostazione di pensiero sono Jon Elster e John E. Roemer. Ma vi si possono accostare, sia pur con molti distinguo, anche Samuel Bowles, Herbert Gintis e Gerry A. Cohen. A coronamento di un lungo percorso di ricerca Cohen ha pub­ blicato nel 1 995 un libro molto importante, Self-Ownership, Freedom and Equality, nel quale, partendo da una critica alla teoria della li­ bertà di Nozick, ha portato alla luce una carenza grave della teoria marxista. Ecco di che si tratta. Se si accetta l'assioma di sel/-owners­ hip , cioè l'assunto che gli individui siano proprietari di se stessi, allo­ ra si devono accettare le conclusioni illiberali e antiegualitarie del "li­ bertarismo" di Nozick. Gli individui, se non devono essere sfruttati, devono poter usare liberamente le proprie risorse umane. Se sono considerati liberi in quanto proprietari di se stessi, devono poter fare quello che vogliono con il proprio capitale umano, e se ciò comporta che gli individui più dotati finiranno con l'essere molto più ricchi e liberi di quelli meno dotati, nessuno può lamentarsi. Una distribuzio­ ne diseguale dei beni deve essere considerata un risultato giusto della distribuzione diseguale dei talenti. In quest'ottica la tassazione pro­ gressiva e la fornitura pubblica di beni meritori e pubblici sono viste come forme di ingiustizia. Ma l'assioma di sel/-ownership è infondato o contraddittorio. La libertà del cittadino deve essere definita dall'insieme dei diritti inalie­ nabili di cui è dotato, cosicché non la si può fondare su un diritto di proprietà, che è per definizione alienabile. Se i beni di cui l'individuo è considerato naturalmente proprietario consistono nei talenti perso­ nali e nel capitale umano, allora delle due l'una: o l'individuo non ha diritto a vendere lo stock di tali beni, cioè a vendere se stesso come schiavo, nel qual caso non detiene una vera sel/-ownership ; oppure ha questo diritto, nel qual caso deve essere ammesso il contratto di schiavizzazione come condizione essenziale della libertà umana. Nel primo caso l'assioma di sel/-ownership come base della libertà è in­ fondato, nel secondo è contraddittorio. Cohen ha trasferito la critica all'interno dell'impostazione marxi­ sta, facendo notare che le concezioni dello sfruttamento e del sociali­ smo in essa dominanti presuppongono l'assioma di sel/-ownership . Ci sarebbe sfruttamento infatti quando il lavoratore, proprietario della propria forza-lavoro e delle proprie capacità produttive, cioè di se stesso, è espropriato di un plusvalore che dovrebbe appartenere a lui in quanto è stato prodotto col suo capitale umano. D'altra parte, nel socialismo ognuno verrebbe remunerato secondo le sue capacità, cioè secondo i talenti personali di cui è proprietario. Se tali talenti sono distribuiti in modo diseguale, il socialismo sarebbe un sistema che fa 233

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della disuguaglianza un principio di giustizia. La proposta di Cohen è di purgare il marxismo di ogni riferimento all'assioma di sel/- owners­ hip , così da poter costruire una teoria della giustizia e della libertà capace di fondare una società comunista. Solo se gli individui non sono dotati di proprietà su se stessi si può concepire un assetto orga­ nizzativo in cui la massima libertà individuale e la massima uguaglian­ za sociale sono assicurate dal criterio allocativo: «A ognuno secondo i suoi bisogni, da ognuno secondo le sue capacità». Nel r 9 7 8 Cohen aveva pubblicato un libro nel quale proponeva un'interpretazione neopositivista del materialismo storico. La storia sarebbe mossa da una spinta umana ad espandere le forze produttive, spinta che sarebbe determinata da una naturale razionalità degli indi­ vidui e dal loro desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita. Le relazioni sociali di produzione, cioè le forme istituzionali entro cui si svolge e si organizza il processo produttivo, possono ostacolare o favorire lo sviluppo delle forze produttive. Ma quelle che lo ostacola­ no verranno spazzate via dalla storia, mentre si affermeranno quelle che lo promuovono e lo favoriscono. Sicché sembrerebbe potersi dire che, nel lungo periodo, l'evoluzione delle relazioni sociali è funziona­ le allo sviluppo delle forze produttive. Questa spiegazione funzionali­ sta ha suscitato molte critiche e ha alimentato un dibattito sul funzio­ nalismo nelle scienze sociali che ha permesso ai marxisti analitici di chiarire le proprie posizioni metodologiche. Decisivo è stato il contributo al dibattito offerto da Elster, il qua­ le, in un articolo del r 98 2 , sostenne che " spiegazioni, di tipo funzio­ nalista sono ampiamente presenti nel metodo di Marx e di molti mar­ xisti. Ma la " spiegazione , funzionalista di un fenomeno si riduce a spiegare la causa con la conseguenza, ed è sbagliata. Molti marxisti tendono a cadere in questo tipo di errore quando studiano in modo olistico i comportamenti collettivi, la lotta di classe, la coscienza di classe ecc. Per evitare l'errore, secondo Elster, è necessario che lo studio dei comportamenti collettivi sia microfondato. Si deve evitare di scivolare nel misticismo olistico e si deve studiare la società parten­ do dai comportamenti individuali, per i quali si deve assumere che sono determinati da scelte almeno potenzialmente razionali. Quello proposto da Elster tuttavia non è un individualismo metodologico forte del tipo che prevale nell'approccio neo-walrasiano. Gli individui prendono decisioni in situazioni di interazione sociale intensa, di ete­ rogeneità dei fini, di diffuse esternalità, di informazione incompleta, e anche la loro razionalità è imperfetta. Elster ha suggerito che uno strumento analitico molto utile, in tale contesto teorico, specialmente nell'analisi del conflitto di classe, è fornito dalla teoria dei giochi. 2 34



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Con questo tipo di analisi infatti si possono spiegare sia le complesse interdipendenze individuali dalle quali originano il comportamento collettivo, l'azione di gruppo e la coscienza di classe, sia le interazioni strategiche tra diverse classi che si rapportano l'un l'altra in situazioni di conflittualità e/o di cooperazione. Nel 1 9 85 Elster pubblicò un li­ bro in cui passava al vaglio il pensiero marxiano. Alla luce dell'indivi­ dualismo metodologico e della teoria delle scelte razionali, come c'era da aspettarsi, molte tesi di Marx non riuscirono a superare la prova, perché sbagliate o irrilevanti. Tuttavia alcuni aspetti fondamentali del­ la sua analisi del capitalismo, le teorie dell'alienazione, dello sfrutta­ mento, della lotta di classe, dell'ideologia, sarebbero ancora validi. Parallelamente all'esegesi marxologica e ai dibattiti sul metodo, Elster ha approfondito lo studio della teoria delle scelte razionali in alcuni lavori ( 1 97 9, 1 9 8 3 ) da cui emerge una visione molto raffinata e articolata della ragione umana e delle sue implicazioni comportamen­ tali. La razionalità è imperfetta perché è costantemente esposta alla pressione di mutevoli desideri e forti passioni. L 'individuo è consape­ vole di queste debolezze. Per questo spesso si lascia limitare e vinco­ lare dalle norme sociali. Molti vincoli comportamentali vengono infat­ ti imposti e accettati proprio perché aumentano la capacità di formu­ lare previsioni, consentendo agli individui di agire in base all'analisi delle conseguenze delle azioni. Ma gli agenti sociali, che pure scelgo­ no le proprie costrizioni, spesso le scelgono in modo irrazionale. La ragione umana dunque ha dei limiti seri e può produrre dei fallimen­ ti. Cosicché è la stessa teoria delle scelte razionali che si rivela falli­ mentare. Elster ha esibito un virtuosismo filosofico fuori del comune nell'usare questa teoria per mostrarne le crepe. In un libro del I 9 89 la teoria delle scelte razionali è stata usata insieme a quella delle norme sociali per affrontare il problema del cemento sociale, cioè delle condizioni che rendono possibile l'esisten­ za di un ordine sociale cooperativo. L'idea di Elster è che alcuni tipi di cooperazione sono ottenuti con l'azione collettiva volta al controllo del problema del /ree riding; altri vengono invece conseguiti con la contrattazione. I due metodi sono strettamente interdipendenti, cosic­ ché l'azione collettiva può fallire se viene interrotta la contrattazione. Ad esempio la scelta sociale deciderà quali beni devono essere offerti pubblicamente. Siccome non è possibile far pagare le tasse in pro­ porzione all'utilità che i cittadini ottengono dai beni pubblici e meri­ tori, allora si dovrà ricorrere alla contrattazione per stabilire come ri­ partire il carico fiscale. Il punto è che se la contrattazione fallisce, nel senso che i contribuenti non raggiungono un accordo, allora anche 2 35

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l'azione collettiva fallirà, cioè il bene pubblico o meritorio non verrà prodotto. A differenza di Elster, che è partito dalla teoria delle scelte razio­ nali per giungere a mostrarne i limiti e le assurdità e che ha usato la teoria dei giochi per portare alla luce le in congruenze dell'equilibrio generale, della mano invisibile e dell'homo oeconomicus, Roemer ha abbracciato senza esitazioni tutte le ipotesi, le credenze e i pregiudizi neoclassici. Sotto l'influenza di Michio Morishima, l'economista ame­ ricano ha coltivato con particolare cura la migliore delle virtù neo­ classiche, la vis generalizzatrice. Ha cominciato con il generalizzare, nel I 977 , il teorema di Okishio sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, dimostrando che il saggio di profitto non ha alcuna tendenza a cadere anche in presenza di capitale fisso. Poi, nel I 980, ha usato un modello di equilibrio economico generale per riformulare il "Teo­ rema Marxiano Fondamentale " di Morishima (il saggio di profitto è positivo se e solo se i lavoratori sono sfruttati) e per dimostrare che non vale nel caso generale di una tecnologia convessa. Infine, in un ambizioso testo di economia matematica del 1 9 8 2 , ha generalizzato Marx in blocco. H a assunto che tutti gli agenti sono razionali, nel senso banale che massimizzano l'utilità. Poi ha definito cinque classi sociali in base al lato in cui gli agenti si trovano nel contratto di lavoro : proletari (venditori di forza lavoro); capitalisti (acquirenti di forza lavoro) ; lavoratori autonomi; semi-capitalisti (la­ voratori autonomi che assumono coadiuvanti) ; semi-proletari (lavora­ tori autonomi che lavorano anche come salariati) . Interpretando la teoria marxiana dello sfruttamento come basata sullo scambio inegua­ le del lavoro, ha ridefinito il pluslavoro come una rendita che i lavo­ ratori pagano ai capitalisti al fine di poter usare il loro capitale. Infine ha dimostrato il seguente teorema: i capitalisti e i semi-capitalisti sono sfruttatori; i proletari e i semi-proletari sono sfruttati. Dopo aver ge­ neralizzato il teorema al caso di una tecnologia convessa, non ancora soddisfatto, ha generalizzato la generalizzazione al caso in cui i valori­ lavoro non possono essere definiti. Usando il concetto di "nucleo" dei giochi cooperativi, ha dimostrato che, oltre allo sfruttamento ca­ pitalistico, può esistere lo sfruttamento feudale e anche lo sfruttamen­ to socialista. Tutto questo florilegio di generalizzazioni ha suscitato più di una perplessità tra i marxisti. Né poco aspre sono state le criti­ che ai concetti roemeriani di sfruttamento e di classe, concetti che fanno leva sulle relazioni di proprietà, sulla distribuzione delle dota­ zioni, sulle preferenze degli agenti e sullo scambio ineguale, piuttosto che sui rapporti tra classi sociali nel processo di produzione. Successivamente Roemer si è occupato di teorie della giustizia, nel



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tentativo di andare oltre lo stesso concetto di sfruttamento. Infatti la teoria marxiana dello sfruttamento non è una teoria della giustizia: dà conto dello sfruttamento ma non pretende di dimostrarlo ingiusto. Per Marx neanche si pone il problema etico della giustificazione o della condanna morale di un particolare assetto distributivo. Per lo stesso motivo, si potrebbe aggiungere, la società comunista non è concepita da Marx come una società giusta. È vista come l'esito di un processo storico e di un movimento politico che sono mossi da ben definiti e concreti interessi sociali, piuttosto che come la realizzazione di un astratto modello di giustizia. Ebbene Roemer in questo campo si è allontanato definitivamente da Marx, elaborando un suo modello di società giusta di orientamento egualitario. N ella buona società di Roemer opera un meccanismo di livellamento delle opportunità in base al quale: vengono eguagliati i vantaggi che risultano da eguali impegni e responsabilità individuali pur in presenza di diseguali cir­ costanze e dotazioni di risorse; vengono invece preservate le disugua­ glianze derivanti da diversi impegni e responsabilità individuali. Infine Roemer è passato a studiare problemi del socialismo di mercato e della proprietà pubblica. Insieme a J oaquim Silvestre ha dato un contributo particolarmente interessante in quest'ultimo cam­ po: ha dimostrato che, in un contesto di asimmetria informativa (l' au­ torità pubblica non conosce la funzione dei costi di un 'impresa che gode di un monopolio naturale), la regolazione pubblica di un mono­ polio privato non è necessariamente più efficiente della proprietà pubblica. Forse si possono accostare ai marxisti analitici Samuel Bowles e Herbert Gintis. Anche loro infatti hanno un atteggiamento di cauta simpatia e distacco critico nei confronti del marxismo; anche loro sono mossi dal rovello delle microfondazioni e dal fascino della teoria delle scelte individuali; anche loro tendono a partire da Walras piut­ tosto che da Marx. Ma loro partono da Walras per allontanarsene. Fanno ciò rifiutando l'ipotesi che i contratti possano essere resi ese­ cutivi senza costi ed esogenamente, ipotesi che sembra particolarmen­ te impervia nei mercati del lavoro e del capitale. Nella realtà l'imposi­ zione delle clausole di un contratto deve essere per lo più assicurata endogenamente ad opera delle stesse parti contraenti, le quali do­ vranno dunque sostenere dei costi di esecuzione. Ciò fa sì che i mer­ cati non siano mai sgombri, anche in condizioni di concorrenza. Ac­ cadrà che la relazione post-contrattuale sarà sistematicamente esposta al conflitto redistributivo, situazione che Bowles e Gintis definiscono contested exchange. Accadrà anche che la parte che si trova sul lato corto del mercato acquisirà un potere particolare, chiamato short side 237

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power, che sarà proprio ciò di cui si servirà per rendere endogena­ mente esecutivo il contratto. Nei mercati del lavoro, in cui la disoccupazione è sistematica, la parte forte è chiaramente quella dei capitalisti. I quali infatti, usando la minaccia del licenziamento, costruiscono il potere necessario per costringere i lavoratori a rispettare le norme contrattuali. Nei mercati finanziari, d'altronde, sono le situazioni di rischio che rendono inevi­ tabile il razionamento della domanda. Lo rendono inevitabile perché i creditori non sono in grado di far valere senza costi i propri diritti nei confronti di debitori inadempienti. In un'economia capitalistica accadrà che i mercati finanziari e le banche percepiranno come alta­ mente rischiose le imprese gestite dai lavoratori, le quali dunque ri­ sulteranno molto più razionate delle imprese capitalistiche. Questa teoria è stata usata sia per criticare il capitalismo sia per costruire un , modello alternativo di economia democratica. L alternativa al capitali­ smo, per Bowles e Gintis, non è il socialismo o il comunismo. È la democrazia economica intesa come un metodo decisionale, applicabi­ le tanto ai mercati quanto alle organizzazioni, che consente il massi­ mo sviluppo della personalità umana e la massima libertà dell'azione individuale. 4 ·+ 3 · Il postmarxismo

I postmarxisti si sono allontanati da Marx nella direzione opposta a quella seguita dai marxisti analitici, cioè rifiutando in blocco il lin­ guaggio e i concetti modernisti tipici della teoria delle microfondazio­ ni e delle scelte razionali. Hanno invece sviluppato idee e suggestioni della koinè postmoderna. Molti marxisti dogmatici hanno mostrato una certa ostilità nei confronti del postmodernismo. Alcuni lo hanno addirittura interpretato come l'ideologia del tardo capitalismo con­ temporaneo, altri come la cultura del capitale globalizzato e demate­ rializzato. La recente rivoluzione delle tecnologie dell'informatica, dei trasporti e delle comunicazioni, secondo costoro, avrebbe determina­ to una contrazione spazio-temporale del mondo, una dematerializza­ zione della produzione e dei consumi e una crisi del sistema di rego­ lazione fordista. Questi processi, a loro volta, avrebbero causato un indebolimento e una crisi delle certezze razionaliste su cui si erano fondate le ideologie ottocentesche e novecentesche. Da tale crisi sa­ rebbe sorto il pensiero postmoderno. Altri tuttavia hanno fatto notare che una tale interpretazione, non solo pecca di determinismo tecnologico - un peccato gravissimo in un'ottica marxista - ma rivela anche una lettura semplicistica del pen-



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siero postmoderno. Questo infatti non è un sistema filosofico, con un ben definito orientamento politico e una chiara collocazione di classe. Piuttosto è un vasto movimento di rivoluzione culturale all'interno del quale si sono incrociate e scontrate le posizioni più disparate. Molti dei marxisti che hanno partecipato alla rivoluzione postmoder­ na hanno sostenuto che il pensiero critico di sinistra ha svolto un ruolo fondamentale nel suo innesco. Altri hanno posto in luce le radi­ ci post-strutturaliste e anti-umaniste del movimento del r 96 8 , che è stato interpretato come la prima rivoluzione culturale postmoderna, una rivoluzione che ha contribuito a demolire le basi metafisiche tan­ to delle ideologie liberiste del capitalismo di mercato quanto di quel­ le marx-leniniste del capitalismo di Stato. A un livello più profondo è stato sostenuto che il pensiero radica­ le postmoderno consiste in un superamento (nel senso di Aufhebung) del marxismo ortodosso: negandone le componenti storiciste e positi­ viste, ne invera le premesse materialiste e pragmatiche. La teoria mar­ xiana dell'ideologia, ad esempio, si è evoluta nelle tesi althusseriane sui «modi di produzione della conoscenza» e in quelle foucaultiane sull'uso della scienza come strumento di potere. Inoltre l'undicesima tesi su F euerbach - quella in cui Marx sostiene che i filosofi hanno solo variamente interpretato il mondo, mentre si tratta di cambiarlo sta alla base di due avanzamenti teorici estremamente importanti. Da una parte dà fondamento a una concezione del pensiero critico, scientifico e politico come di una " filosofia della prassi, , concezione che era stata elaborata già da Gramsci. Dall'altra dà credito a quanti vedono nel marxismo una forma di ermeneutica del capitalismo, una scienza che mira non a riflettere la realtà come in uno specchio bensì a interpretar/a da un punto di vista di classe in vista di poterla cam­ biare. In campo economico si possono rintracciare implicazioni postmo­ derne in diversi dei filoni di ricerca radicali. Le critiche dei marxisti sraffiani alla teoria del valore-lavoro ad esempio scontano una chiara presa di distanza da una certa mistica del valore che pure è ancora in voga in alcuni circoli marxologici contemporanei. Il profluvio di studi recenti sulla regolazione, il cambiamento istituzionale e le onde lun­ ghe, d'altra parte, sarebbe impensabile senza il superamento delle metarrannative storicistiche che sono insite nelle leggi di movimento tendenziale. Perfino nel marxismo analitico si potrebbe rinvenire qualche traccia di postmodernismo, e non solo nel senso di un osse­ quio manieristico al linguaggio neoclassico. Il punto è che il fascino dell'individualismo metodologico e della teoria delle scelte razionali 239

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stride fortemente con la metafisica olistica della " classe per sé " e del "genera! intellect" . Forse i contributi più interessanti, certamente i più consapevoli, allo sviluppo di un marxismo postmoderno, provengono da un grup­ po di studiosi che fanno capo alla rivista "Rethinking Marxism " . In realtà, più che di un gruppo, si tratta ormai di un vasto movimento mondiale che ha trovato nella rivista il suo pulpito più prestigioso. Senza alcuna pretesa esaustiva, tra gli autori più rappresentativi di questo approccio ricorderemo J. L. Amariglio, R. F. Garnett, B. Hin­ dess, D. F. Ruccio, S . Resnick e R. D . Wolff. Il pensiero postmarxista rifiuta l'idea di un " soggetto della storia" . Nella storia reale operano individui decentrati e sovradeterminati, cioè persone che sono strutturalmente esposte alla pressione della so­ cietà. Gli agenti collettivi sono continuamente costruiti, distrutti e ri­ costruiti in un processo di interazione sociale che si svolge storica­ mente, ma il cui percorso resta aperto e non teleologico. Le relazioni sociali sono costituite attraverso il comportamento istituzionalizzato. Gli individui hanno interessi contrastanti, oltre che credenze, aspira­ zioni e preferenze eterogenee. Sono inoltre dotati di razionalità limi­ tata e le loro azioni sono dominate dal comportamento abitudinario e da processi di apprendimento sociale. Le istituzioni e le routine con­ solidate tuttavia non riescono a stabilizzare la società in modo dura­ turo, in quanto l'eterogeneità degli individui e la diversità dei loro interessi fanno sì che le relazioni sociali sono sempre segnate da una componente antagonistica e perciò sono esposte al cambiamento continuo. I mercati non sono visti come essenzialmente anarchici, ma nean­ che come essenzialmente ordinati. "Essenzialmente " i mercati non sono niente, in quanto non esiste una loro essenza. In realtà sono essi stessi costituiti istituzionalmente e quindi la loro struttura e il loro funzionamento dipendono di volta in volta dai compromessi preva­ lenti tra gli individui, i gruppi, le classi, le organizzazioni che parteci­ pano al processo di mercato. Possono essere caotici e mutevoli, ma non sono drammaticamente instabili o inefficienti, cosicché, in linea di massima, possono consentire agli individui di conseguire i propri scopi in modo soddisfacente. D'altra parte la pianificazione centra­ lizzata non è vista come intrinsecamente superiore al coordinamento competitivo. I postmarxisti rifiutano l'idea stessa di un corpo politico dotato di una conoscenza qualitativamente diversa da quella dei sog­ getti sociali, così come rifiutano l'idea di un'autorità centrale che sia neutrale e indipendente dalle forze sociali che si scontrano e incon­ trano nella società civile. La pianificazione viene dunque vista come



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un risultato delle lotte sociali e delle pressioni di gruppo. Ciò vale per il capitalismo, ma anche per il socialismo. Questo, come quello, è considerato come un sistema parzialmente decentrato e caotico, e quindi aperto ad esiti incerti. Né il socialismo viene identificato con la pianificazione centralizzata. Piuttosto è interpretato come un siste­ ma di relazioni sociali in cui alcune forme di sovradeterminazione, come il potere capitalistico, sono sostituite da altre, come la negozia­ zione tra gruppi organizzati. Un mondo migliore del capitalismo è possibile, secondo i postmarxisti, ma non inevitabile: i processi storici sono aperti e l'avvento del socialismo non è inscritto nelle leggi di movimento dell'economia. 4·4·4· La sfida femminista Forse il pensiero femminista ha contribuito più di ogni altro a scardi­ nare le ortodossie scientifiche moderniste in economia. A partire dai primi anni settanta la contestazione femminile è entrata con autorevo­ lezza in molti campi dell'azione e dello scibile umani tradizionalmen­ te riservati ai maschi, portandovi lo scompiglio e mettendo in discus­ sione luoghi comuni, verità, principi e metodi consolidati. L' econo­ mia politica non è andata esente da questo assalto e, specialmente nella cittadella neoclassica, ha dovuto subirne la dirompente carica decostruttiva. Ma anche l'ortodossia marxista è stata scossa dalle in­ cursioni della decostruzione femminista, e non c'è dubbio che questa ha in qualche modo contribuito alla nascita del marxismo postmo­ derno. Uno dei primi dibattiti dell'economia femminista degli anni set­ tanta verteva sul ruolo del lavoro domestico nell' accumulazione capi­ talistica. Ci limiteremo a ricordare il contributo di J. Gardiner come rappresentativo di una posizione molto diffusa nel femminismo socia­ lista di quei tempi. Nell'impostazione marxista la famiglia è vista come un processo produttivo che procrea forza lavoro usando come input beni salario e lavoro casalingo. Le donne costituiscono la quasi totalità di questa forza lavoro. Esse producono valori d'uso trasfor­ mando gli input produttivi e prendendosi cura dei figli e dei mariti. Tuttavia non producono valori di scambio, visto che i loro prodotti non sono venduti nel mercato. Dunque non creano direttamente va­ lore e plusvalore (ma questa proposizione è stata contestata da alcune studiose) . Certamente però partecipano alla creazione del plusvalore complessivo. Infatti, coi loro servizi contribuiscono ad alzare la pro­ duttività dei lavoratori salariati e ad abbassarne il salario. In tal modo accade che lo sfruttamento perpetrato direttamente dal capitale in

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fabbrica si risolve anche in uno sfruttamento perpetrato indirettamen­ te sul lavoro domestico. Le donne che svolgono questo tipo di lavoro risulteranno essere sfruttate se il valore che esse producono, o che contribuiscono a far produrre, è maggiore del valore dei loro consu­ mi. Nell'impostazione marxista lo sfruttamento e l'oppressione delle donne sono funzioni del rapporto di produzione capitalistico, ovvero sono ad esso funzionali. In quest'ottica, il conflitto di classe predomi­ na su quello di genere, cosicché il superamento del capitalismo è vi­ sto come la condizione fondamentale, sebbene non l'unica, per la li­ berazione delle donne. Non tutte le femministe però la pensano così. Molte di esse, dan­ do vita a una corrente di pensiero ancora più radicale di quella mar­ xista, hanno fatto notare che lo sfruttamento e l'oppressione delle donne hanno una storia più lunga di quella del capitalismo. In questa prospettiva teorica è stata coniata una nuova categoria concettuale, quella di " patriarcato " , la quale denota l'assetto politico-culturale en­ tro cui si generano le condizioni per la dominazione dell'uomo sulla donna. Tale assetto non si dà tanto nella sfera delle relazioni econo­ miche, e va individuato a un livello più profondo della struttura so­ ciale, quello delle relazioni personali e familiari. Si scopre così che "il personale è politico" e che, di conseguenza, il cambiamento rivoluzio­ nario deve investire l'esperienza quotidiana, i rapporti sessuali, il po­ tere personale e tutte quelle forme di violenza e oppressione appa­ rentemente individuale attraverso cui i maschi esercitano il controllo sociale sulle donne. H. Hartman ha sviluppato questo tipo di impo­ stazione sostenendo che l'analisi e la critica del patriarcato non si tro­ vano in contrasto con la teoria marxista del capitalismo. Nel modo di produzione capitalistico il patriarcato è piegato a servire l'accumula­ zione del capitale così che le donne risultano essere sfruttate più de­ gli uomini: svolgono una maggior quantità di lavoro domestico in fa­ miglia e devono accettare posti di lavoro peggio pagati nella fabbrica capitalistica. S. Walby ha approfondito l'analisi introducendo la di­ stinzione tra " patriarcato pubblico " e " patriarcato privato " . Non c'è solo il potere individuale che gli uomini esercitano sulle donne in quanto mariti e padri, c'è anche quello che essi esercitano collettiva­ mente quando le donne entrano nei luoghi di lavoro e della vita pub­ blica, nei quali risultano essere segregate in posizioni di subordinazio­ ne e in segmenti sottopagati e dequalificati del mercato del lavoro. Il pensiero femminista non si è limitato a criticare il patriarcato e il capitalismo. Ha dato anche contributi importanti alla critica della scienza economica modernista. Sandra Harding ha lavorato con gran­ de acume alla decostruzione di quell'epistemologia positivistica che



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sta alla base di gran parte dell'ortodossia economica, mostrando l'in­ fluenza della divisione di genere che si nasconde dietro i criteri di oggettività e verità scientifica. Non solo le metafore usate dagli scien­ ziati rivelano sempre un forte contenuto sessuato, ma la stessa distin­ zione tra economia positiva ed economia normativa è sessuata, così come lo è quella tra spiegazione razionale e comprensione intuitiva. La scienza inoltre non è " libera da valori" , come pretendono le epi­ stemologie realiste. Tutte le teorie sono impregnate di valori ed è un fatto che la stessa aspirazione a un pensiero universalizzante e razio­ nale, unita al rifiuto delle emozioni e delle influenze soggettive nella ricerca scientifica, esprime un dualismo concettuale di carattere forte­ mente sessuato. Infatti la ragione e l'universalità vengono associate al­ l'uomo mentre alla donna vengono tipicamente attribuiti i limiti del pensiero intuitivo, emotivo e particolaristico. Dopo di che le teorie sviluppate in modo razionale e universale vengono assunte come vere e avalutative, mentre le modalità di pensiero attribuite alle donne vengono considerate valutative e quindi non scientifiche. In un orientamento chiaramente postmodemo, parte del pensiero femminista ha criticato non solo la metodologia positivista della scienza ortodossa e l'idea stessa che possa esistere una verità oggetti­ va. È stata messa in discussione anche la convinzione che la realtà sociale esista indipendentemente dai soggetti che la studiano e la agi­ scono. La realtà è socialmente costruita e la scienza contribuisce a tale costruzione. Dualismi concettuali di tipo metodologico, come ra­ zionale/intuitivo, universale/particolare, oggettivo/soggettivo, fatti/va­ lori, vengono concepiti come isomorfici a schemi dualistici di natura antologica: pubblico/privato, mente/corpo, ragione/emozione e, in fondo a tutti, uomo/donna. È così che il pensiero sessuato, cioè una scienza impregnata di valori maschili, contribuisce a costruire una realtà di discriminazione di genere. Ann J. J ennings è andata a fondo in questo tipo di ricerca richiamandosi a un'impostazione istituziona­ lista radicale. Il suo oggetto di analisi e di critica è la " cultura pecu­ niaria" di vebleniana memoria piuttosto che il " capitalismo" marxia­ no. Nella cultura pecuniaria agisce un doppio dualismo: pubblico/ privato ed economia/famiglia. Il processo d'industrializzazione ha fa­ vorito ed è stato favorito dall'affermarsi dei principi del mercato competitivo, i quali hanno assegnato priorità alle relazioni economi­ che rispetto alle relazioni sociali, agli interessi privati rispetto alle po­ litiche pubbliche. Ne è emersa una concezione del bene sociale come benessere economico che universalizza i valori maschili del potere e della competizione, particolarizzando e svalutando quelli femminili della solidarietà e dell'uguaglianza. Così il cerchio si chiude: la relega243

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zione delle donne nella sfera del privato e in ruoli subordinati è pro­ dotta da un'interpretazione del mondo in cui il lato femminile dei dualismi concettuali è sistematicamente screditato; tale interpretazio­ ne, a sua volta, presentandosi come scienza universale e avalutativa, è il prodotto del potere esercitato dagli uomini nella società. 4·5

Oltre l'homo oeconomicus

Una cosa che accomuna gran parte degli economisti contemporanei, a dispetto della diversità degli orientamenti teorici, è la ripresa d'inte­ resse per il problema dei presupposti antropologici del discorso eco­ nomico. La lezione che ci viene dall'ortodossia modernista è espres­ sione di una concezione alquanto limitata della natura umana, una sorta di riduzionismo utilitarista che tende a vedere nell'uomo un ato­ mo egoista dotato di razionalità olimpica (ma solo strumentale) , di preferenze esogene, di informazione completa ecc. Né meno limitata è la connessa concezione di ciò che deve essere considerato bene umano: nient'altro che il benessere economico. Ne emerge un'inac­ cettabile incapacità di ammettere che in un individuo vi possano esse­ re molteplici impulsi e sentimenti che non sono riducibili all'angusto calcolo dell'interesse egoistico. La teoria economica contemporanea sta cercando di andare oltre il mainstream neoclassico proprio nella definizione dei presupposti onta­ logici della disciplina. Oggi si tende ad ammettere che gli individui possano essere dotati di razionalità limitata, di preferenze endogene, di informazione incompleta, di io multipli e motivazioni eterogenee. E si riconosce che, proprio a causa di tutto ciò, non ha senso ridurre l'eco­ nomia a una pseudo-psicologia dei comportamenti ottimizzanti. Sem­ bra ormai acquisita la consapevolezza del fatto che, essendo l'uomo quell'essere finito e limitato che è, non si può comprendere la sua con­ dotta se si astrae dalle istituzioni, le culture, i valori, le norme etiche e, in definitiva, le relazioni sociali che la conformano. Tale risveglio di coraggio scientifico trae origine da un duplice in­ sieme di fattori. Da un lato si è portati a pensare che quel riduzioni­ smo antropologico potrebbe essere in buona parte responsabile del­ l'incapacità dell'economia di far presa sui grandi problemi che afflig­ gono la nostra società: l' aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, il degrado ambientale, il tendenziale svuotamento della demo­ crazia, l'estendersi dello spodestamento politico, l'aumento dell'esclu­ sione sociale, la perdita di senso delle relazioni interpersonali, la di­ soccupazione di massa, lo sfruttamento e l'alienazione. Dall'altro lato 244



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ci si sta accorgendo del fatto che quello stesso riduzionismo costitui­ sce un grosso ostacolo all'ingresso di nuove idee nella disciplina. Un numero crescente di economisti si sta oggi rendendo conto della ne­ cessità di superare il pavido protezionismo con cui l'accademia cerca di difendersi dalla critica che sale dai fatti, oltre che dalle innovazioni provenienti dalle altre scienze sociali. La tendenza in atto ci sembra paragonabile a una migrazione in­ tellettuale. E come gran parte delle migrazioni, anche questa pare es­ sere mossa da fattori sia di "spinta " che di " traino " : dall'insoddisfa­ zione per la sistemazione scientifica esistente e dalla speranza che l'a­ pertura a un orizzonte filosofico più vasto possa arricchire la ricerca. Va da sé che il tentativo di andare oltre i limiti di quel riduzionismo potrà avere successo se non si limiterà a correggere questa o quell'a­ poria: dovrà dimostrare di essere capace di far presa sulla realtà. Ma c'è di più. La teoria economica tradizionale tende a ignorare tutto ciò che nell'azione umana non è oggettivamente osservabile - le emozioni, le credenze, i valori, le rappresentazioni simboliche. Si ritie­ ne che queste cose abbiano scarsa rilevanza, e comunque solo indi­ retta, per la comprensione delle azioni economiche. Piuttosto si pensa che soltanto i risultati delle azioni siano degni d'interesse per la scienza economica. Una tale posizione filosofica viene spesso giustificata con la tesi secondo cui l'agente economico è sovrano, in un'economia di mer­ cato, e quindi è libero di esprimere qualsiasi tipo di preferenza, della quale l'economista può essere ignaro. Perciò, una volta fatta l'ipotesi più semplice, cioè che l'individuo tende a massimizzare la sua funzio­ ne-obiettivo, non vi sarebbe alcun bisogno di preoccuparsi delle moti­ vazioni o delle disposizioni profonde che sottostanno alle sue scelte. Da ciò deriva, ci sembra, un'ingiustificata giustificazione minimali­ sta del consequenzialismo come dottrina etico-politica. Ingiustificata perché il rasoio di Occam, se pure è un valido strumento euristico, non può essere usato per costruire i fondamenti dell'etica e della poli­ tica. In realtà tale giustificazione cerca di far passare surrettiziamente una posizione filosofica piuttosto forte e tutt'altro che ovvia. Infatti al fondo della teoria economica ortodossa sta un costrutto antropologico che attiene non alla dimensione pratica - cioè alla filosofia seconda, per dirlo con Aristotele - ma alla dimensione ontologica - cioè alla filosofia prima. Si tratta di una costruzione che rinvia ad una precisa visione del mondo, vale a dire all'individualismo assiologico. È questa la vera base filosofica su cui poggia l'artificio dell' homo oeconomicus. Ma oggi il re è nudo. Oggi nessuno crede più che la scelta dell'in­ dividualismo sia dettata da considerazioni di rilevanza empirica o di comodità analitica, o che sia un individualismo solo metodologico. 245

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Oggi si è capito che, in fondo in fondo, l'assunto di individualismo ha la natura dell'asserto ontologico. In quanto tale, deve essere giu­ stificato sul piano filosofico. Ma su questo piano non è stato valida­ mente giustificato dall'ortodossia economica modernista. Pensiamo infine che il riduzionismo antropologico della teoria do­ minante sia guardato con sospetto da un numero crescente di econo­ misti anche perché porta una qualche dose di responsabilità per certe scelte politiche ed economiche cui dà una più o meno implicita giu­ stificazione. Ed è ormai evidente che ci sono proprio delle scelte poli­ tiche ed economiche, e non la "natura " , tanto meno quella "umana" , all'origine dei molti mali del mondo contemporaneo. La ricerca scientifica implica responsabilità e rischi che, special­ mente nelle scienze sociali, rientrano nell'ordine dell'etica e della po­ litica. Oggi nessuno crede più alla possibilità che si possa separare !"' analisi " dalle "visioni " . Sappiamo infatti che le teorie economiche non sono strumenti neutrali di pura conoscenza. Non neutrali, perché i giudizi di fatto non sono separabili dai giudizi di valore, ma espri­ mono sempre dei punti di vista particolari dietro i quali si nascondo­ no (a volte molto bene) interessi particolari. Non di pura conoscenza, perché le idee cambiano la testa della gente e quindi cambiano il mondo. Le teorie del comportamento dell'uomo contribuiscono alla sua costruzione. Ecco perché vediamo con soddisfazione i babelici sviluppi della scienza economica contemporanea. Non sappiamo qual è il luogo ver­ so cui ci condurrà la rivoluzione scientifica cui stiamo assistendo. Ma sappiamo qual è quello da cui ci sta allontanando. E pensiamo che il superamento del riduzionismo dell homo oeconomicus sia un passag­ gio obbligato in vista della ricostruzione di una scienza economica di cui non ci si debba vergognare di essere cultori. Dice il saggio (Hicks, 1 94 1 , pp . 6-7 ) : '

U n uomo che è matematico e nulla più che matematico [ . . . ] non reca danno ad alcuno. Un economista che è nulla più che un economista è un pericolo per il suo prossimo. L'economia non è una cosa in sé; è lo studio di un aspet­ to della vita dell'uomo in società [ . . . ] . L'economista di domani (e talvolta dei giorni nostri) sarà certamente a conoscenza di ciò su cui fondare i suoi consi­ gli economici; ma se [ . . . ] il suo sapere economico resta divorziato da ogni retroterra di filosofia sociale, egli rischia veramente di diventare un venditore di fumo, dotato di ingegnosi stratagemmi per uscire dalle varie difficoltà ma incapace di tenere il contatto con quelle virtù fondamentali su cui si fonda una società sana. La moderna scienza economica va soggetta ad un rischio reale di machiavellismo: la trattazione dei problemi sociali come mere que­ stioni tecniche e non come un aspetto della generale ricerca della Buona Vita.

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25 3

Indice dei nom1

Agassi J., 96 Aghion P. ( 1 95 6-), 1 5 1 , 209 Aglietta M. , 2 r 6 Akerlof G. ( r 94o-), 65 , 67, ro8 Alchian A. ( r 9 14-) , 1 3 1 , 206-7 Allais M. ( r 9 r r -) , 83 , 86-7 Amariglio J. L. , 240 Andrews P. W. S. ( r 9 I 4- I 97 I ) , 5 8 Angeli N . ( r 874- 1 967) , 1 76 Arrow K. ]. ( r 92 r -) , 82-3 , 85 , 87-8, 9 1 , 98, IOI, 108, I l O, 1 1 2-3 , 1 1 5 , 149, 1 5 3 , 1 83 , I 86 Arthur B. ( I 945 -) , 2 I 9 , 223 Atkinson A. ( 1 944-) , I I 8 Auman n R. ]. ( I 930-) , 144 Axelrod R. , 143, 148 Ayres C. E. ( r 89 I - 1 972) , 2 1 4 Azariadis C. ( I 943 -), 67 Baily M. N. ( r 945 -) , 67 Bai n J. ( r 9 r 2 - ) , 5 7 , r 2 6 Baran P. A. ( r 9 r o- r 964) , r 62 -4 Barro R. ]. ( 1 944-) , 43 Battersby Th. , 127 Baumol W. ( 1 922-), I 6, 2 3 , 1 2 8 , 222 Benassy ].-P. ( 1 948-) , 43-4 Bentham ]. ( I 748- I 83 2 ) , I r r , 204 Bergson A. ( 19 I4-), I o r , I I 2 Berle A . ( r 895 - 1 97 I ) , 1 2 3 Bettelheim Ch. ( r 9 1 3 - ) , r 66 Binmore K. ( I 94o- ) , r ro, 144 , I 46 Block H. D., 87

Borda J. C. de ( 1 7 3 3 - 1 799) , r r I -2 Bordiga A. ( r 889 - 1 97o) , 1 65 -6 Bortkiewicz L. von ( r 868 - r 9 1 3 ) , 1 5 1 Boulding K. E. ( r 9 r o-), 46, 2 r o, 215 Bowles S. ( 1 939-) , I 69 , 2 3 3 , 237-8 Brady D . , 20 Braverman H. , I 67 Brumberg R. , 20 Buchanan J. ( r 9 1 9-), 202-3 , 2 1 8 Cagan P . ( 1 927-), 3 3 Cantar G . ( r 845 - 1 9 r 8) , 192 Carroll L. ( r 83 2 - I 898) , I I 2 Champernowne D. ( r 9 1 2-) , 1 5 5 Chandler A. , 1 2 6-7 Charasoff G. von ( r 877-?) , 1 5 1 Cliff T. , I 65 -6 Clower R. W. ( 1 926-) , 40- r , 43 Coase R. H. ( r 9 r o-), r o9- ro, 1 24, 204-5 Cohen G. A. , 2 3 3 -4 Commons ]. R. ( I 862 - 1 944) , 209 - r o, 2 14 Condorcet A. N. de ( r 743 - 1 794) , I I 1 -3 Cooper R. ( I 93 5 - ) , I 77 Cournot A. ( r 8o r - r 877) , I 3 9-40 Cyert R., r 3o Dantzig G. B. ( I 9 14-), 1 5 2 David P. , 2 I 9 -2o

255

PROFILO DI STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO Davidson P. ( I 93o-) , 46 Day R. H. , 2 2 2 D e Viti D e Marco A . ( I 85 8 - I 943 ) , 203 Debreu G. ( I 92 I -) , 8 2 -5 , 8 8 -9 , 92 , 9 8 , I O I , I 92 Demsetz H. ( I 9 30-) , 205 -7 Deneckere R. ( I 85 9 - I 95 2 ) , 222 Descartes R. (Cartesio, I 5 96- I 65 o) , 226 Dewey J. ( I 85 9 - I 95 2 ) , 2 0 9 Dillard D . , 2 Io , 2 I 4 Dmitriev V . K . ( I 8 6 8 - I 9 I 3 ) , I 5 I Dobb M. H. ( I 9oo- I 976) , I 64 Doeringer P. B. ( I 94 I - ) , 64 Domar E. D. ( I 964-) , 2 6 - 7 , 5 0 , 5 2 Drèze ]. H. ]. M. E. ( I 9 2 9 - ) , 43-4 Dubey P. , I 44 Duesenberry ]. ( I 9 I 8 - ) , I 6 , 2 0 Dunayevskaya R . ( I 9 I O - I 9 87) , I 65

Early J . , I 3 I Eatwell J. ( I 945 - ) , I 69 Edgeworth F. Y. ( I 845 - I 926) , I 03 , I40 Eichner A. S., 5 7 , I 2 6 Elster J. , 2 3 3 -6 Emmanuel A. , I 63 Engels F. ( I 82o- I 895 ) , I 7 6

Fagg Foster ]. ( I 907 - I 9 85 ) , 2 I 0-3 Farrell J. , I I o Ferguson A. ( I 7 2 3 - I 8 I 6) , 2 2 6 Fischer F. M . , 99 Fischer S. ( I 94 3 - ) , 64 Fisher M. ( I 93 4-) , 4I Foss N. , I49 Frank A. G., I 63 Friedman M. ( I 9 I 2 - ) , 2 I -2 , 2 8 - 3 0 , 3 2 -4, 3 7 -8 , 5 5 , I 2 0, I 3 0 Friedman R. , 2 0 Frisch R . ( I 895 - I 97 3 ) , 8 I , 83

Galbraith J . K. ( I 9o8-) , 2 I O, 2 I I , 2I6 Galiani F. ( I 7 2 8 - I 7 8 7 ) , 94 Gardiner J. ( I 83 6-) , 24I Garegnani P. ( I 93 0-) , 47, I56 Garnett R. F. , 240 Geanokoplos J. , 202 Georgescu-Roegen N. ( I 906- I 994) , I 5 3 , I 88 , I 9 I -4, 2 I 6 Gintis H . ( I 94o-) , I 69 , 2 3 3 , 2 3 7 - 8 Godley W. A . H. , 5 9 Goethe W. von ( I 749- I 8 3 2 ) , 2 2 7 Goodwin R . M. , I 8 8 , I 96-8 Gordon D. F. ( I 92 3 - ) , 67 Gorman W. ( I 9 2 3 - ) , I 92 Gossen H. H. ( I 8 I o- I 85 8 ) , I 94 Gramsci A. ( I 89 I - I 9 3 7 ) , 2 3 9 Grandmont ] . -M. ( I 9 3 9 - ) , 43 , 9 6 , 98-9 Gray J. ( I 799 - I 85o) , 64 Graziani A. , 230 Greenwald B. C. ( I 946-) , 69, 73 Greif A. , 2 2 0 Grossman H. I . , 4 3 Grossman S. G . , I 2 8 , 207 - 8 Gruchy A. G. , 2 I o, 2 I 3

Hahn F. ( I 925 -) , 4 I , 85 , 8 7 , 9 I , 95 , 98-9 Hale G . , 2 I 4 Hall R. ( I 94 3 -) , 5 8 , I 2 3 , I 2 5 , I 3 I Hamilton W. H. ( I 8 o5 - I 865 ) , 209 - I I Hansmann H. , 208 Hardin G. ( I 9 I 5 -) , I 07 Harding S . , 242 Harrod R. F. ( I 900- I 978) , 26-7, 50, 52, IOI, I I2 Harsanyi J. ( I 92o-) , I O I , I I 4 , I I 9 , I 42 - 3 , I 4 6 Hart O. S. D. ( I 948-) , I 2 8 , 2 0 8 Hartmann H. , 242 Hausdorff F. ( I 868 - I 942 ) , I 92 Hayek F. A. von ( I 899- I 99 2 ) , I I 9 -20, 223-8

11'\DICE DEI NOMI Heisenberg W. ( I 90 I - I 976) , 222 Hicks J . ( I 904- 1 9 89) , 1 6 , 1 8 , 2 3 , 2 5 , 60- 2 , 8 1 -2 , 95 , I O I , 1 5 6 , 246 Hildebrand B. ( I 8 I 2 - I 878) , 96 Hindess B. ( 1 9 3 9 -) , 240 Hirschman A. O. ( 1 9 1 5 -) , 107, 1 8 8 , 1 94-6 Hitch Ch . , 58, 1 2 3 , 125, 1 3 1 Hobbes Th. ( ! 5 8 8 - 1 679) , I 1 8 Hodgson G . M . ( 1 946- ) , 2 1 8 Howitt P . ( 1 946-) , 1 5 1 Hurwicz L . ( 1 9 1 7-) , 8 7 , 202

Jensen M . C . ( 1 93 9 - ) , 1 2 8 Jensen M . H. , 208 Judd K. L. , 222

Lachmann L . , 2 2 3 , 2 2 9 Lange O. ( 1 904- I 965 ) , 1 0 1 , 1 64 Laplace P. S. ( 1 749 - 1 82 7 ) , 222 Lebesgue H. L. ( I 8 75 - 1 94 1 ) , 89 Leibenstein H. ( 1 92 2 - 1 9 9 2 ) , 67 Leijonhufvud A. ( 1 93 3 -) , 40- 1 , 43 Leontief W. ( I 9o6- 1 9 99 ) , 54, 8 1 , 1 5 1 -3 , 1 96 Lerner A. ( ! 905 - 1 9 82) , 1 0 1 , 1 2 6, 1 64 Levhari D. ( 1 9 3 5 -) , 1 5 6 Levitt T. , 1 7 5 Lindahl E . R . ( 1 8 9 I - I 9 6o) , 1 07 , 203 Lindbeck A. ( 1 9 30-) , 6 8 Lippi M . , I 6 8 Lipsey R . G. ( 1 92 8 - ) , 25 Locke J. ( 1 63 2 - 1 704) , 1 1 8 , 2 0 1 Long J. B. , 3 6 Loomes J. , 2 1 8 Lucas R. E . jr. ( 1 9 3 7 -) , 3 3 -4 , 3 6 , 1 5 0 Luce R. , 140, 1 4 3 Lyotard J.-F., 1 82

Kahn R. F. ( 1 905 - 1 9 89) , 58 Kahn R. J., 46, 1 2 3 Kakutani S. ( I 9 I I -) , 8 2 Kaldor N. ( 1 908 - I 9 86) , 46, 5 1 , 5 3 , 5 5 , I O I , 125, 149, 2 17-8 Kalecki M. ( I 89 9 - 1 97o) , 49-5 0 , 5 8- 9 , 69, 1 2 6 Kantorovic L. V. ( 1 9 1 2 - I 986) , 1 5 2 Keynes J . M. ( 1 88 3 - 1 946) , 1 6-9, 2 2 , 24-5 , 2 7 -9 , 3 7 -4 1 , 4 5 - 9 , 5 4 , 5 6 , 6 1 , 65-6, 70, 1 1 7 , 2 1 2 , 2 3 0 Kirman A. P . ( 1 93 9 - ) , 8 8 , 96 Kirzner I. ( 1 9 3 0-) , 223, 2 2 8-9 Klein L. R. ( 1 92 0-) , 16 Koch K. J . , 88 Koopmans T. Ch. ( I 9 1 9 - 1 9 84) , 1 5 2 - 3 Kornai J. ( 1 92 8 - ) , 2 1 6 Kreps D . ( 1 95 0 - ) , 142 Krugman P. ( 1 95 3 -) , 2 1 9 Kuhn H . W. , 1 4 1 Kurz M . ( 1 934-) , 144 Kuznets S. ( I 90 1 - I 9 85 ) , 2 0 - 1 Kydland F. ( 1 943 - ) , 3 6 , 1 49

Machiavelli N. ( 1 469- 1 5 2 7 ) , 1 95 Machlup F. ( 1 902 - 1 9 83) , 1 3 1 , 2 2 3 Malinowski M. R. , I 89 Malinvaud E. ( 1 9 2 3 - ) , 43 , 83 , 92 Mandel E. ( 1 92 3 -) , 1 66 Mankiw N. G. ( 1 9 5 8 - ) , 65 Mantel J . , 8 8 March J. , 1 3 0 Markowitz H. ( 1 927-) , 2 3 Marris R. , 1 2 2 , 1 2 8 Marschak J . ( 1 89 8 - 1 977) , 8 1 Marshall A. ( 1 842 - 1 924) , 62 , 1 1 7 , 2!8 Marx K . ( I 8 I 8 - 1 8 8 3 ) , 9 2 , 1 60-2 , ! 67 - 9 , 1 7 6 , 1 90, 1 9 6, 2 3 2 , 2 34-8 Mazzola U. ( 1 863 - 1 899) , 203 McKenzie L. W. ( 1 9 1 9 -) , 82 - 3 , 98 Meade J. E. ( 1 907-) , 16 Means G. ( 1 896- 1 9 8 8 ) , 123 Meckling W. H. , 128, 208 Meiselman D. ( 1 924-) , 29 Menger C. ( I 840- I 92 I ) , 223 Metcalfe J. S. ( 1 946-) , 1 5 9

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Nash ]. ( 1 92 8 - ) , 8 r , 1 4 1 -2 , 1 45 -7 Negishi T. ( 1 9 3 3 -) , 41 Nelson R. ( 1 9 30-) , 1 3 2 Neumann J. von ( r 903 - 1 9 5 7 ) , 5 4 , 8 r , 1 40 , 142 , 1 5 ! -2 Nootebom B. ( 1 942 - ) , 2 1 8 Nordhaus W. D . ( 1 94 1 -) , 5 9 North D . ( r 64 r - r 69 r ) , 204 Nozick R. ( 1 93 8-) , r 1 9 -20, 200- r , 233

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Pigou A. C. ( 1 87 7 - 1 959) , 1 7 , ro6 , 1 17 Piore M. J. ( 1 940-), 64 Plosser C. 1. , 3 6 Polanyi K . ( r 8 86- r 9 64) , r 8 8 , 1 90 - r Polemarchakis H. ( 1 9 5 2 - ) , 202 Polya G. ( r 8 8 7 - 1 9 85 ) , 2 1 9 Prescott E. C. ( 1 940-) , 3 6 , 149

Quesnay F. ( r 694 - 1 774) , 92

Radner R. ( 1 9 2 7 - ) , 98 Raiffa H. ( 1 924-) , 140, 143 Rawls J. ( r 92 r -) , 1 1 9 , 201 Reagan R. ( r 9 r r -) , 38 Remak R. ( r 8 r 5 - r 865 ) , 8 r , 1 5 1 Resnick S . , 240 Ricardo D. ( 1 772 - 1 82 3 ) , 1 5 5 , r 6 r -2 Rizzo M . , 22 3 Robinson ]. V. ( r 903 - 1 9 8 3 ) , r 6 , 46, 49-5 1 , 54, 1 5 5 - 6 Rodrik D. , r 8o Roemer J. E. ( 1 945 - ) , r 69 , 2 3 3 , 2 3 6-7 Romer P. , 149-50 Rosenberg N . , 1 3 2 Ross S . A . ( 1 944-) , 1 3 3 Rothbard M . ( r 9 I 3 - 1 944 ) , 2 2 3 Rothschild K. W . ( 1 9 1 4-) , 144, 2 1 6 Rousseau J . -J. ( r 7 I 2 - 1 77 8 ) , r r r , r r 8 Rowthorn R. , 6o Ruccio D. F. , 240

1 17

Pantaleoni M. ( r 85 7 - 1 9 24) , 203 Pareto V. ( r 84 8 - 1 92 3 ) , r o r , 1 1 5 , 1 92 Pasinetti L. L. ( 1 93 0-) , 46-7 , 5 2 , 5 4 , I56 Patinkin D. ( 1 922-) , r 6 , r 8 -9, 40, 4 3 Penrose E . ( r 9 I 5 - 1 996) , 1 2 7 Phelps E . S . ( 1 9 3 3 - ) , 3 0 , 3 5 Phillips A. W. H. ( r 9 r 4- 1 975 ) , 2 5 , 3 0-5 , 6o, 7 1 -2

Saari H. , 87, 97 Salop S. ( 1 946-) , 67 Samuels W. J. ( 1 9 3 3 - ) , 2 1 0, 2 1 4 Samuelson P. A. ( r 9 1 5 -) , r 6 , 8 2 , 86, 9 2 , r o6 , 1 5 3 -4 , 156 Sard J . , 89 Sargent Th . J. ( 1 94 3 - ) , 3 3 Say J. -B. ( r 767- r 8 3 2 ) , 48 Scarf H. ( 1 9 3 0-) , 87 Schelling T. ( r 92 r -) , 140 Schlesinger K. ( r 899- 1 9 3 8 ) , 8 r , 1 5 1

11'\DICE DEI NOMI Schotter A. ( I 947-) , 203 Schumpeter ]. A. ( I 8 8 3 - I 9 I 7 ) , I 9 6 , 2 I 6-7 , 2 2 8 , 2 3 0 Schwartz A. ]. ( I 9 I 3 -) , 29 Selten R. ( I 9 3o-) , I 42 -4, I46 Sen A. K. ( I 93 3 -) , I 07 , I I 3 -6 , I 2 0- I , I 86 Shackle G. L. S. ( I 9o3 - I 992) , 46, 48 Shapiro C. ( I 95 5 - ) , 67 Shibata K. ( I 929-) , I 66 Shleifer A. , 209 Shubik M. ( I 92 6 - ) , I44 Sidgwick H. ( I 83 8 - I 9oo) , 202 Silvestre J. ( I 942 - ) , 2 3 7 Simon H . A . ( I 9 I 6 -2oo2 ) , I 2 8-3o, I 44, I46 Skyrms B. , I48 Smale S. ( I 93o-) , 87 Smith A. ( I 7 2 3 - I 79o) , I 99 , 2 I 8 Smith J . P . ( I 943 -) , I45 , I 6 I , I 8 3 , I 87 , I 95 Smith P . , 94 Snower D. J. ( I 95 0-) , 68 Solow R. ( 1 924-) , r 6 , 2 6 , 49, 5 3 , 67 , I 4 8 , I 5 0, I 5 5 Sonnenschein H . F. ( I 94o -), 8 8 Sraffa P . ( I 898 - I 98 3 ) , 5 4 , 92 , I 2 3 , I 5 5 - 6 , I 5 9 -62 , I 67 - 8 Stalin I. ( I 8 79 - I 95 3 ) , I 66 Steedman I. ( I 94 I -) , I 5 9 , I 69 Steindl J. ( I 9 I 2-) , 46 Stiglitz J. E. ( I 943-) , 63 , 67, 69, 7 3 , I 54 , I 7 9 , I 80 , 202 Sugden R. ( I 949-) , 2 I 8 Swan T . W . ( I 9 I 8 - I 9 89) , 2 6 , 49, 5 3 , I5 5 Sweezy P . M . ( I 9 I o-2oo4) , I 63 -4 Sylos Labini P. ( I 92o-) , 5 7 , I 2 6

Tarshis L. ( I 9 I I - ) , 46 Taylor J. B. ( I 946-) , 65 Thatcher M. ( I 92 5 -) , 38 Thurnwald M. , I 89 Tintner G. ( I 907 -) , 8 I , 83

I23,

Tirole }. , I 3 3 , 209 Tobin ]. ( I 9 I 8-2oo2 ) , I 6, 20, 2 3 -4 , 26, 55 Tooke Th . ( I 774- I 85 8) , 2 3 0 Tool M. R. , 2 I 2 Tools M . ( I 92 I -) , 2 I o Townsend H. ( I 92 5 -) , 9 I Tullock G . ( I 92 2 - ) , 202

Veblen Th. ( I 8 5 7 - I 929) , I 9 I , 209 - I I , 2 I 3 -4 , 2 I 6 -7 Vishny R. , 209 Volterra V. ( I 86o- I 940) , I 92

Walby S . , 242 Wald A. ( I 9o2 - I 95 o) , 8 I , 86-7, I 5 I Wallace N . ( I 9 39-) , 33 Wallerstein I. ( I 93o-) , I 67 Walras L. ( I 8 34- I 9 I o) , 4 I , 8 9 , 94, 97, 2 3 7 Weintraub E. R . ( I 943 - ) , 9 I Weintraub S. ( I 9 I 9 - I 9 84) , 46, 5 9 Weiss A. , 67 Wicksell K. ( I 85 I - I 92 6) , I 07 , I 5 5 , I 5 8 - 9 , 203 , 2 3 0 Wicksteed Ph. H. ( I 844- I 92 7 ) , I I 7 Williamson O. ( I 932 -) , I 2 8 , 205 Wilson R. ( I 9 3 7 - ) , I 42 Winter S. G. ( I 9 3 5 - ) , I 3 2 Witt U. ( I 946-) , 2 I 8 Wolff R. D . , 2 2 2 , 240

Yellen J. , 65 Young A. , 2 I 8

Zermelo E . ( I 87 I - I 95 3 ) , I 4 I

259