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Italian Pages 264 Year 2001
A
to
Margherita Ganeri
Pirandello romanziere
Rubbettino
Margherita Ganeri (Cosenza, 1965) è
ricercatrice presso l’Università degli Studi della Calabria, dove ricopre l’insegnamento di Storia della critica letteraria italiana. Collabora a varie riviste. italiane e straniere. Oltre a numerosi saggi, ha pubblicato i seguenti volumi: Il “caso” Eco (Palumbo, Palermo, 1991);
Il romanzo storico di G. Lukdcs: per una fondazione politica del genere letterario (Vecchiarelli, Manziana,
modernismo
(Editrice
1995); Post
bibliografica,
Milano, 1998); Il rorzanzo storico in Ita-
lia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno (Manni, Lecce, 1999).
SAGGI BREVI DI LETTERATURA ANTICA E MODERNA
Collana diretta da Franca Ela Consolino e Nicola Merola
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Margherita Ganeri
Pirandello romanziere
© 2001 Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) - Viale dei Pini, 10 - Tel. 0968/662034
Introduzione
Isolare i romanzi dal complesso dell’opera pirandelliana può apparire un’operazione in buona misura riduttiva. Data la fitta rete di collegamenti e di rimandi interni, l’intero opus appare, in effetti, come un insieme difficilmente frazionabile. Pirandello è stato un attivo, prolifico riscrittore, che ha riuti-
lizzato e rielaborato incessantemente i propri materiali, per una sorta di economia tesa al risparmio e al riciclaggio e per un'ossessione della perfettibilità. Il lavorio nascosto dietro i continui rifacimenti editoriali, ampiamente testimoniato dal-
le varianti a stampa, rivela la sua costante tensione verso un’idea di compiutezza, che però ha prodotto il risultato opposto di un’apertura alla forma intertestuale. In ragione dell’affinità di genere, l’intercomunicazione è anzitutto tra i romanzi
e le novelle. Ma non sono meno significativi, perché spesso direttamente genetici, i legami con la produzione teatrale, né quelli con la saggistica e perfino con la pubblicistica critica, dedicata alla letteratura, al teatro, all’arte figurativa. Per la
complessa compenetrazione tra i diversi ambiti creativi, l’identità dello scrittore si mostra mobile e sfaccettata. Di fronte a questo vero e proprio work ir progress, tracciare divisioni troppo nette può apparire limitante. Lungi dal prospettare un’artificiosa vivisezione, il primo piano qui proposto su uno dei generi più importanti per la pratica scrittoria di Pirandello, il romanzo, è pensato per suggerire le coordinate essenziali all'orientamento interpretativo, con-
trastando l’effetto inibente che può produrre sul lettore non addetto ai lavori l’impatto con la sterminata selva degli studi specialistici. La bibliografia pirandelliana è diventata, soprattutto negli ultimi due decenni, un vero zzare magnum. Se la proliferazione delle ricerche è il segno positivo di una piena affermazione canonica dello scrittore, per lo stesso specialismo
delle sue ramificazioni attuali una larga parte della critica tende però a concentrarsi su aspetti minimi, parziali o laterali dell’opera pirandelliana, oppure a proporne interpretazioni sofistiche al limite della forzatura. Questo libro è pensato per un approccio globale ai romanzi di Pirandello. Una precisa scelta è stata quella di ricostruire con doviziosa aderenza gli svolgimenti delle trame, seguendone scrupolosamente l'andamento. Essa è derivata dall’osservazione empirica di una mutata disponibilità alla lettura nelle nuove generazioni, anche tra gli studenti universitari. Senza tenerne minimamente conto, molto spesso persino i supporti didattici meno pretenziosi tendono a saltare la presentazione delle opere, puntando esclusivamente sull’approfondimento delle questioni interpretative. La conoscenza letterale del testo viene data per scontata, il suo attraversamento si ritiene già compiuto a monte. Il commento ravvicinato qui proposto non
sostituisce certo la lettura. Tuttavia, sia chi abbia già letto i romanzi di Pirandello, sia chi ancora non li conosca tutti, è solle-
citato a (ri)percorrerne i singoli passaggi e snodi, per collegare l’interpretazione alla loro tessitura complessiva, e non solo ai
picchi più significativi. La necessità del commento, della glossa, quasi di un’umile “parafrasi” di servizio, sembra oggi diventata più necessaria che in passato. L'illustrazione dettagliata si collega, in seconda istanza, a
un'articolata proposta interpretativa che, pur rimandando in parte anche alla storia della ricezione critica, ha come obiettivi
principali l’analisi e la valutazione. Nei paragrafi intitolati L'interpretazione, infatti, viene espresso sempre un esplicito giudizio di valore. Anche quest’ultima scelta può apparire poco ortodossa. Molti ritengono che sia superfluo o addirittura sbagliato accostarsi ai grandi autori, ormai diventati classici, con un intento valutativo, quasi da critica militante. Dissentendo totalmente, e tanto più in funzione anche di un potenziale pubblico di “neofiti”, si è ritenuto tutt'altro che inutile esplicitare e
motivare un preciso canone, in qualche caso discostandosi da quello più diffuso e consolidato. Le necessarie integrazioni teoriche, critiche, culturali e
biografiche per affrontare l’analisi dei singoli romanzi si trove-
ranno all’interno dei capitoli. Per meglio accedere alle pagine successive, è bene focalizzare in breve una serie di questioni ge-
nerali. E noto che l'affermazione di Pirandello è stata legata per lungo tempo quasi esclusivamente al teatro. Fino alla seconda guerra mondiale, lo stesso dibattito critico sul «pirandellismo» aveva riguardato quasi esclusivamente la produzione teatrale (gli studi più importanti furono quelli di Adriano Tilgher). Il successo era dipeso, per il contesto nazionale, anche dall’adesione dello scrittore al fascismo. Alla consacrazione ufficiale da parte del regime, il mondo intellettuale, dominato dall’estetica crociana, era rimasto sostanzialmente estraneo.
La fortuna critica del narratore è cominciata solo intorno alla metà degli anni Cinquanta: prima di allora i romanzi erano stati o ignorati o stroncati. Alcuni, come L'’esclusa, Il turno
e I vecchi e i giovani, nei casi migliori erano stati visti come imitazioni attardate del verismo siciliano. Renato Serra, ad esempio, nelle Lettere (1914), considerò lo scrittore un vero e
proprio epigono. Ma è emblematico il caso del Fu Mattia Pascal che, nonostante il successo di pubblico, fu giudicato dalla critica più qualificata un fezi/leton, cioè un’opera di puro intrattenimento e di consumo. Benedetto Croce, che lo definì
ironicamente «il trionfo dello stato civile», confermò sempre che Pirandello fosse un minore, valutandone riduttivamente
le opere, contestandone duramente (e miopemente) la teoria umoristica.
E tuttavia, anche dopo la prima inversione di tendenza, provocata, nel decennio 1955-1965, soprattutto dalla critica marxista, cui si ispiravano in parte anche i rivoluzionari studi di Giacomo Debenedetti, ancora nel 1968 Gianfranco Conti-
ni esprimeva rigide riserve sullo «stile medio» della prosa di Pirandello. Le ricerche successive hanno completamente ribaltato l’idea che egli scrivesse “male” e hanno mostrato, invece, sia il rilievo dei risultati, sia la consapevolezza teorica e programmatica delle specifiche scelte espressive, dipendenti dalla formazione di storico della lingua e di dialettologo. Si è scoperta, insomma, nei romanzi e nelle novelle, un’inventiva
rivoluzionaria, o Einschringung, che si esercita sulle minime congiunture sintagmatiche del linguaggio letterario.
L’ondata critica vivacemente tesa alla valorizzazione si è esaurita intorno alla metà degli anni Settanta. A questa altezza si è completata, infatti, una monumentale canonizzazione
internazionale: Pirandello è l’unico scrittore italiano del Novecento letto, studiato e rappresentato in tutto il mondo. Non è un caso, del resto, che anche in Italia gli sia toccato il privilegio, prima di lui riservato solo a Giovanni Boccaccio e a Niccolò Macchiavelli, di “generare” un lessema dal proprio cognome: l’aggettivo /pirandelliano/, indicante un dilemma cerebrale e paradossale (dai predecessori erano derivati i termini /boccaccesco/ e /machiavellico/). Negli anni Ottanta, la bibliografia critica ha raggiunto un'estensione ciclopica, e da allora è in perenne crescita esponenziale. Il macroscopico re-
pertorio, nonostante il costante incremento, rivela una minore tensione critico-interpretativa di quello del ventennio precedente, per il carattere accademico e talora accessorio degli
studi. Si distinguono al suo interno i seguenti orientamenti metodologici: la filologia e il confronto delle varianti, lo studio del contesto culturale e biografico, della poetica e degli influssi teorici italiani e stranieri, le analisi psicocritiche dei
personaggi, gli approfondimenti tematici, la ricostruzione dei rapporti letterari italiani ed europei, le indagini sulla lingua e sullo stile. Nelle pagine seguenti, vengono proposte di volta in volta, a seconda della pertinenza ai vari romanzi, indi-
cazioni sintetiche delle loro principali acquisizioni. Questa florida messe di interventi non ha però del tutto smentito l’inferiorità del romanziere rispetto all’autore teatrale. Sono considerati classici del Novecento solo Ilfu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila. Tra i restanti cinque romanzi, . vecchieigiovani, da più tempo, ei Quaderni diSerafino Gubbio operatore, più recentemente, ma con ben maggiore peso, hanno cominciato a ricevere la meritata attenzione. Gli altri tre, e cioè L’esclusa, Il turno e Suo marito, sono al con-
tempo assai meno conosciuti dal pubblico e assai meno valorizzati dalla critica. Il canone pirandelliano pende insomma nettamente dalla parte del filone umoristico ed espressionistico (quindi d'avanguardia) cui appartengono i tre romanzi maggiori. Si tratta di una giusta prospettiva: indubbiamente
quella filosofica è la più grande stagione del romanziere. E tuttavia, anche l’altro filone, che potremmo definire d’ambiente, facendovi rientrare sia i romanzi siciliani (L’esclusa, I
turno, una parte dei Vecchi e i giovant), sia quelli romani (Suo marito, una parte dei Vecchi e i giovant), meriterebbe un maggior plauso. Se Quaderni di Serafino Gubbio operatore è un capolavoro assoluto, I vecchi e i giovani è soprattutto un importante laboratorio, sede di ardite sperimentazioni, il cui rilievo forse non è stato ancora messo pienamente in luce. Nel ciclo d'ambiente, almeno un caso spicca per un eccesso di penalizzazione: quello di Suo zzarito, che stenta ad essere riconosciuto, come meriterebbe, un piccolo capolavoro. L’esclusa
e Il turno, idue romanzi giovanili del “noviziato” pirandelliano, meritano comunque di essere conosciuti e apprezzati.
L'identità di Pirandello narratore è stratiforme. Nel suo movimento intertestuale si può riconoscere il ritorno ossessivo di temi identici o simili. I principali sono il riso, l’esclusione, il rifiuto del corpo e dell’eros, il matrimonio borghese (e quindi l’amore senza amore), il caso e le sue beffe, la morte, la pazzia. Di quest’ultima, intesa non tanto come conclamata
patologia clinica, quanto come metafora dell’alienazione dell’uomo contemporaneo e dunque come sintomo della scissione della personalità e dell’implosione-divisione dell’io, resta
ancora da scoprire l’incidenza anche sul piano semantico e linguistico-stilistico, per la rilevante ricorrenza, in tutti i ro-
manzi, dei lessemi pazzia-follia-mania-delirio. La centralità del tema viene riconosciuta nel teatro, soprattutto nell’Exrico IV, ma non ancora nella narrativa.
L'indagine tematica, meno praticata sul corpo dei romanzi, è invece frequentemente applicata negli studi sulla novellistica pirandelliana. Spesso essa si fonda su una comparazione tra le edizioni originali e quelle definitive, incluse nella raccolta completa. In questa prospettiva, anche Novelle per un anno, pur essendo un’opera unitaria, portata a compimen-
to con l’intento esplicito della finitezza dopo un lungo percorso di rielaborazione, si presenta come un taccuino aperto, come una sorta di zibaldone. La sua vastità ha indotto la critica a un diffuso atteggiamento rabdomantico che, in genere,
ha privilegiato letture occasionali e trasversali, saccheggiando la raccolta a caso, asistematicamente. Ne è emerso quasi sempre, comunque, che i temi affiorano in risposta a solleci-
tazioni culturali e letterarie contingenti. La riflessione sul significato dell’amore nella società borghese, ad esempio, tanto centrale nei primi quattro romanzi di Pirandello, da L’esclusa a Suo marito, si concentra soprattutto nella serie degli Amori senza amore, ed è stimolata da un dibattito che condi-
zionò, negli stessi anni, Verga e De Roberto. Anche il tema della beffa, centrale nel Turzo e nel Fu Mattia Pascal, preva-
lendo nelle novelle del quadriennio 1904-1908, viene introdotto quasi come esercizio contiguo alla stesura dell’Uzzor:smo. Per meglio ricomporre il quadro delle reciproche implicazioni, sarebbe opportuno ricostruire diacronicamente l’intreccio tra i romanzi, le novelle, i saggi, gli articoli giornalistici e gli epistolari, attraverso la comparazione dei dati editoriali e delle stesure coeve. Il confronto tra le varianti resta fuori da questo libro. Limitatatamente ai romanzi, se ne propone però qualche osservazione sparsa nei paragrafi di storia della redazione, con cui si apre ciascuno dei capitoli.
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L’esclusa
I. La redazione
Intitolata Marta Ajala, la prima versione del primo romanzo di Pirandello, che inaugura anche il ciclo dei romanzi siciliani, viene elaborata durante l'estate del 1893, presso il Monte Cavo, nella zona dei Castelli romani. Lo scrittore, ventisetenne, era da un anno rientrato a Roma da Bonn, dove ave-
va completato brillantemente gli studi universitari, laureandosi in Lettere, nel 1891, con una tesi sulla fonetica della parlata
di Girgenti, il nome arabo allora ancora in uso di Agrigento. Era dunque al suo secondo soggiorno romano: aveva infatti iniziato l'università proprio a Roma, spinto poi a trasferirsi in
Germania, per consiglio del celebre filologo Ernesto Monaci, in seguito a dissapori con il preside della Facoltà di Lettere, il latinista Onorato Occioni. Il ritorno nella capitale coincide con uno dei periodi di maggiore serenità per il neolaureato che, mantenuto dal padre, può liberamente dedicarsi all’attività culturale e creativa. Tramite Luigi Capuana, Ugo Fleres e Ugo Ojetti, viene introdotto negli ambienti giornalistici e letterari cittadini. E proprio dagli stimoli di queste frequentazioni nasce forse il bisogno di cimentarsi con la prosa. Finora, infatti, Pirandello aveva scritto prevalentemente versi, ispirati ai poeti tardoromantici: Carducci soprattutto, ma anche Prati, Carrer e Graf. Il suo esordio letterario era avvenuto con la raccolta di poesie Ma/ giocondo, uscita nel 1889, cui era seguita Pasqua di Gea, la seconda raccolta, pubblicata nel 1891 a Bonn e dedicata a Jenny Schulz-Lander, la giovane donna di cui si era innamorato dopo la rottura del fidanzamento, durato tre anni, dal 1886 al 1889, con la cugina Paolina (Lina).
Il passaggio alla prosa appare decisivo, anche se non ancora definitivo, per la scelta del campo letterario congeniale. 11
L’anno successivo alla composizione di Marta Ajala, il 1894, esce la prima raccolta di racconti, Arzori senza amore, e degli anni seguenti sono i primi copioni teatrali: atti unici e comme-
die (I/ nibbio, L'epilogo, La morsa). Proprio attraverso questi testi, e di pari passo con il graduale lavorio di rielaborazione del primo romanzo, lo scrittore mette progressivamente a fuoco la poetica cui approderà nei primi anni del Novecento. L'itinerario di maturazione, attraverso un tortuoso processo di
raffinamento della propria identità di autore, culminerà nel saggio fondamentale L’urzorismzo, del 1908, e nel romanzo più importante della prima fase produttiva, I/ fu Mattia Pascal, uscito nel 1904, il cui rilievo è segno del raggiungimento di un’ormai piena maturità artistica.
Il celebre saggio, uscito presso il prestigioso editore Carabba di Lanciano, fu scritto per la circostanza occasionale di un concorso a cattedra presso il Magistero di Roma. In esso è elaborata una sintesi di idee affiorate fin dal decennio precedente, a latere della scrittura di novelle e romanzi. Tra gli anni Novanta e gli anni Dieci, tuttavia, la produzione poetica non si esaurisce del tutto (l’ultima raccolta, Fuori di chiave, è del 1912). I suoi risultati provano, ben più di quanto mostrino i romanzi coevi, il
provincialismo del contesto culturale e letterario in cui si compì la formazione giovanile dello scrittore, condizionato da un lato dall’influenza di un canone asfittico e scolastico, di scuola car-
ducciana, estraneo alle influenze della poesia simbolista e dell’avanguardia espressionista, e,dall’altro da una specifica gerarchia di valori estetici tra i qualila poesia, concepita come attività illustre, trovava una collocazione decisamente più elevata della narrativa. Giustamente è stato scritto che Pirandello rivelò fin dall'inizio, e soprattutto nella poesia, «l’accettazione scontata di un codice e di un modello di letterarietà»!, accettazione che non
viene mai completamente meno, neppure nei grandi capolavori teatrali della stagione matura, nel senso che non viene trasgredita fino al rifiuto del codice o a una sua contestazione in base a ragioni extra letterarie o extra istituzionali, ma viene progressiva-
mente consumata e problematizzata dall’interno. Anche le tre ! Romano Luperini, Pirandello, Laterza, Roma-Bari, 1999, p.22.
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redazioni dell’Esc/usa, benché lascino presagire, sotto molte angolature, la grandezza dello scrittore in formazione, rivelano al
tempo stesso i limiti e la pervasività del cété provinciale da cui l'esordiente fatica a emanciparsi. La prima versione del romanzo fu composta quattro anni dopo l'uscita del Mastro-don Gesualdo di Verga e del Piacere di d'Annunzio (entrambi del 1889), un anno dopo quella di Una vita (1892) di Italo Svevo, un anno prima di quella dei Viceré (1894) di Federico de Roberto. Se è scontato che il giovane Pirandello non conoscesse il primo romanzo di Svevo, le opere di Verga, di De Roberto e di d'Annunzio costituiscono invece un riferimento essenziale per comprendere la genesi della sua prima prova. In particolare, è indubitabile l’ascendenza veristica dell’ Esclusa, pienamente visibile nell’ambientazione siciliana, nella trama delle vicende e finanche nel tito-
lo. Proprio L’esclusa avrebbe infatti dovuto intitolarsi un romanzo dello scrittore palermitano Ferdinando Di Giorgi, il quale ne aveva illustrato il progetto a Verga che, insieme a De Roberto, ne aveva disapprovato e sconsigliato il titolo. Èmolto probabile che Pirandello conoscesse personalmente l’autore, ein ogni caso, tramite Capuana, avrebbe facilmente potuto essere al corrente dell’episodio?. Il recupero di un titolo “bocciato” dai due maestri catanesi avrebbe dunque il sapore ambivalente di un atto polemico e al tempo stesso di un omaggio. Tanto più che il motivo ispiratore della trama è sembrato a molti derivare da uno spunto cronachistico legato proprio a Verga. Il ripudio di Marta Ajala rievocherebbe l'episodio della cacciata di Giselda Fojanesi, moglie del poeta-vate Rapisardi, scoperta con una lettera compromettente dello scrittore}. Per quanto è dato sapere, la Fojanesi, che, come Marta nel romanzo, era una maestra, fu veramente amante di Verga e per
questo adulterio venne ripudiata per sempre dal marito. Anche la figura del deputato Gregorio Alvignani, l'amante di 2 Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Roma-
Bari, 2000 [1991], p. 25.
3 Nino Borsellino, Storia di Verga, Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 3435, e Ritratto e immagini di Pirandello, cit., p.25.
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Marta, sembra adombrare un personaggio reale, l’agrigentino Nicolò Gallo, uomo di lettere e saggista, oltre che parlamentare. Tali congetture, che restano al limite dell’aneddoto, evi-
denziano il legame tra il giovane Pirandello e la cerchia dei veristi siciliani. Le vere e proprie influenze letterarie, pur presenti nel progetto originario, vengono però diluite nel lungo corso della rielaborazione del romanzo, durata oltre trenta anni.
Per l'esattezza, ne intercorrono trentaquattro tra la stesura del 1893 e l'edizione definitiva del 1927. Né bisogna dimenticare che il manoscritto restò per otto anni inedito. La pubblicazione avvenne, già con il titolo definitivo, tra il giugno e l’agosto 1901, a puntate sul quotidiano romano «La Tribuna». L’edizione in volume, molto ritoccata e con rilevanti scarti rispetto alla precedente, è però successiva di ulteriori sette anni: uscì presso Treves nel 1908, contemporaneamente all’Urzorismo (e l’autore collega esplicitamente l’opera al saggio nella lettera a Capuana che vi funge da prefazione). La seconda e ultima edizione del romanzo, come già anticipato, esce dopo quasi un ventennio presso l'editore fiorentino Bemporad. La molteplicità delle stesure e la lunga fase di redazione, come del resto accade anche per gli altri romanzi, diventano fattori essenziali per l’interpretazione. Nel caso dell’Esclusa, in particolare, il confronto tra le varianti fa affiorare veri e
propri «segreti», casi di rimozione «capaci di modificare il senso di una vicenda finora accettata nella sua oggettiva evidenza “fattuale”»5. Tanto più che raramente si tratta di semI i
4 In questa lettera, che compare solo nell’edizione del 1908, riferendosi alla precedente edizione a puntate, Pirandello scrive: «Non so rendermi conto dell’effetto che abbia potuto fare nei pazienti e viziati lettori delle appendici giornalistiche; certo, scene drammatiche non difettano in questo romanzo,
quantunque il dramma si svolga più nell'intimo dei personaggi; ma dubito forte che, in unalettura forzatamente saltuaria, si sia potuto avvertire alla parte più originale del lavoro: parte scrupolosamente nascosta sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone; al fondo insomma essenzialmente umoristico del romanzo», Pirandello, L’esclusa, cit., p.881. ? Nino Borsellino, Stratigrafia dell’«Esclusa»,in Ritratto e immagini di
Pirandello, cit., p. 139.
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plici interventi linguistici. Giustamente Nino Borsellino ha scritto che il romanzo «non si presta ad applicazioni del metodo continiano»$, anche perché la prospettiva delle correzioni non mira a un’elevazione del livello stilistico, ma a una
sua omogeneizzazione verso una lingua media. Si tratta di un’intenzione esplicita e programmatica, che è opportuno collegare non solo al rifiuto di Pirandello del bello scrivere e della prosa d’arte — basti pensare alla sua avversione per il modello enfatico e magniloquente di d'Annunzio —, ma anche alla tensione verso un italiano standard, espressivo e insieme stabile e invariabile, pensato per la traducibilità, come del
resto notò, per considerarlo un limite, Gianfranco Contini,
che lo definì «koznè italiana di irradiazione romana»?. Le variazioni hanno dunque un carattere strutturale: sono aggiunte e tagli nella trama, nell’articolazione della materia narrativa, nei dialoghi, nei monologhi, nelle descrizioni dei personaggi. La loro analisi consente di ricostruire le tappe del processo compositivo in modo determinante per l’interpretazione. Anche il confronto “stratigrafico” con la coeva produzione saggistica permette rimandi illuminanti. L'analisi delle interdipendenze, pur senza poter essere mai esaustiva, si rivela sempre necessaria. Ciò prova che non è proficuo con-
siderare i romanzi di Pirandello come opere autonome e finite, e che invece è utile e opportuno valutarle come tasselli strettamente collegati di un aperto e attivo work ir progress. Né la costante fluidità dei collegamenti si coglie solo nel repertorio della prosa narrativa, ma si registra nell'intero corpus poetico, teatrale e saggistico. Si tratta proprio, come ha scritto Giovanni Macchia, di «una sorta di intercomunicabilità a
lungo raggio tra un genere e l’altro», di fronte a cui «segnare divisioni nette tra un’opera e l’altra, e anche tra opere di fantasia e opere critiche, risulta impresa facile e grossolana»8.
6 Ivi, p.140. 7 Gianfranco Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, Firenze, 1968, pp. 608-609.
8 Giovanni Macchia, Introduzione a Luigi Pirandello, Tutti i romanzi,
Meridiani Mondadori, 1973, volume primo, p. XII. Da ora in poi TRI e II.
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Il parallelismo tra la scrittura creativa e la riflessione teorico-saggistica, sempre costante nella prosa pirandelliana, e nel caso dell’Esclusa già implicito nell’indicazione autoriale del rapporto con L’uzzorismo, è ben delineabile anche a partire dalla prima edizione del romanzo, precedente di ben sette anni la pubblicazione dell'importante scritto. L'esempio più vistoso di tale continuo gioco di rimandi è costituito dal confronto con un altro di rilievo, Arte e coscienza d'oggi, compo-
sto, fra l’altro, lo stesso anno di Marta Ajala, il 1893. Si tratta di
un vero e proprio caso di intertestualità, perché il suo titolo è esplicitamente citato nel romanzo, dove diventa quello di una conferenza palermitana di Gregorio Alvignani. Dietro il riscontro testuale sembra sussistere una vera e propria «interdipendenza» tra i due testi, legata al nucleo teorico dell'esame della coscienza moderna, che è la questione centrale del saggio e del romanzo?. Il legame stretto tra la narrativa e la saggistica, oltre a costituire un importante puntello della poetica pirandelliana, giustificando l’identità di una scrittura di tipo argomentativo e ragionativo, spiega in buona misura anche l’ossessiva tensione dell’autore al ripensamento e alla riscrittura dei propri romanzi.
II. L'opera
Come si è già anticipato, L’esclusa subisce variazioni significative nelle tre edizioni a stampa. Quelle più rilevanti riguardano la prima in volume del 1908, dove, ad esempio, il romanzo è diviso in due parti in luogo delle precedenti tre, forse proprio per enfatizzare la simmetria speculare, ora molto più esplicita, della dinamica esclusione-inclusione, con il
rovesciamento finale della situazione iniziale. Molte porzioni di testo vengono arricchite o tagliate. Emblematico è il caso della scena incipitaria, incentrata sul personaggio della «vecchia Pentàgora» Sidora, zia del marito di Marta Ajala. Pur ? Romano Luperini, Pirandello, cit., p.34.
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conservando la stessa struttura, la scena che ce la presenta in cucina, curva sotto la cappa dell'enorme camino, bisbigliante incomprensibili formule in direzione del fuoco, appare nella seconda edizione molto ampliata, con una forte piega descrittiva che restituisce una tonalità di stregoneria e di magismo al carattere del personaggio. La Sidora della seconda edizione, quasi maga vaticinante e divinatrice, e pertanto creduta stre-
ga («la gentuccia del vicinato credeva ch’ella fosse in commercio misterioso con le Dorne (...) che venivano a chiamarla, se la portavano via con loro, in ispirito. Non aveva ella in casa un altarino su cui adorava tre spighe secche circondate da sacchettini scarlatti pieni di sale?»19), è un ritratto in cui è stato visto un riflesso della figura di Maria Stella, la serva contadina dell'infanzia di Pirandello, spesso rievocata in drammi e novelle. La scena del camino viene totalmente tagliata nell'edizione del 1927, dove la donna compare solo in una fugace inquadratura, seduta al tavolo a fianco dei parenti, «pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nero che teneva sempre in capo»!!. L'espunzione ha senz’altro una ragione sostanziale, che forse va ascritta da un lato, com'è stato notato, alla soppressione di quel risvolto autobiografico legato a un ricordo d’infanzia, e dall’altro a un desiderio di affinamento della coerenza testuale. Perché, appunto, le credenze magiche non apparivano del tutto coerenti con l’estrazione borghese o piccolo borghese della famiglia di Rocco Pentàgora. La loro presenza rischiava cioè di circoscrivere una zona opaca, costruendo un rivestimento veristico e bozzettistico in un romanzo che è soprattutto la storia di un conflitto morale borghese. Infatti, l'incipit dell’edizione definitiva vede in primo piano Antonio Pentàgora, il padre-patriarca di Rocco, che incarna in modo esemplare e al tempo stesso estremistico la morale maschilista e misogina su cui si regge il modello familiare borghese. Presentato con poche decise pennellate, in modo estremamente incisivo, tanto che Giovanni Macchia ha definito il passaggio una «minuta
10 TRI, p.883. 11TRI, p.5.
LA
didascalia per una commedia»!2, l’uomo è intento ai suoi gesti di potere, «seduto tranquillamente per cenare», con il volto illuminato da una lampada, che lo fa apparire «quasi una maschera». La sua figura volgare e rozza sembra insomma prendere subito luce attraverso l’angolatura critica di uno sguardo conflittuale. Ma restiamo alla struttura della redazione definitiva. La suddivisione mantiene qui le due parti, di misura quasi perfettamente simmetrica, articolate rispettivamente in quattor-
dici e quindici paragrafi. La prima è ambientata in un luogo che ricorda l’Agrigento di fine secolo. La seconda a Palermo. Il romanzo inizia dopo la scoperta del presunto adulterio di Marta da parte del marito e dunque dopo la «cacciata» della donna, che è tornata in casa di suo padre. La costruzione dei primi capitoli è a inversione analettica e gli eventi vengono rievocati, oltre che retrospettivamente, anche in modo ellittico, attraverso i ricordi non obiettivi di Marta e di Rocco.
Seguiamo dettagliatamente l’articolazione della trama: dopo la scoperta della corrispondenza epistolare tra la moglie e Gregorio Alvignani, Rocco, distrutto e sconvolto, si reca a
casa di suo padre, che è rimasto imperturbabile alla notizia. Da sempre Antonio è convinto che le corna siano «la croce», il «calvario», il vero e proprio «stemma di famiglia», il portato di un destino familiare ineluttabile e fatale. I Pentàgora, da
molte generazioni, vengono prima o poi traditi dalle mogli, e prima o poi sono costretti a ripudiarle. Lo stesso caso, fatalmente predetto anche a lui dal proprio padre, era infatti toccato a sua moglie Fana, madre di Rocco. Assorto nel ricordo dell’antico tradimento, con le labbra «aperte in un ghigno frigido, muto», l’uomo riflette misoginamente sul fatto che «il mestiere delle donne è quello d’ingannare i mariti»!3. Nel 22 TRI, p. XI. 13 Rientra nella misoginia di Antonio Pentàgora anche una buona dose di sadismo. È singolare e grottesco che la cena sia servita da una donna caduta in disgrazia, Epponìna, che il padrone di casa chiama Popònica, il cui ritratto è un piccolo capolavoro espressionistico: «Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gam-
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corso della serata, il fratello minore Niccolino suggerisce l’idea di una sfida a duello. Un po’ titubante, Rocco si reca dunque a casa dell’irlandese Bill Maden, un maestro d’inglese esperto di scherma, per farsi dare delle lezioni, e subito dopo a casa del professor Luca Blandino un filosofo smemorato,
malinconico, perso nei fumi delle proprie meditazioni, che a molti è sembrato un personaggio autobiografico, adombrante cioè lo stesso Pirandello. Al Blandino Rocco chiede di fare da testimone al duello. Nel frattempo Marta, che aspetta un bambino, è tornata a casa dei suoi genitori, dove è stata riaccolta con amorosa apprensione dalla madre Agata e dalla sorella Maria. Suo padre, Francesco Ajala, si è invece rifiutato
di vederla e al suo arrivo si è rinchiuso nella conceria di famiglia, in un silenzio cupo e ostile. Di fronte al suo comportamento intransigente, che sente come un’accusa impietosa e
ingiusta, Marta manifesta il desiderio di abbandonare la casa paterna. E il primo dei tanti monologhi interiori della protagonista, la cui coscienza è scavata nei recessi più profondi da una voce narrante in terza persona, che ne fa emergere i sentimenti ambivalenti, misti spesso ai ricordi, anche d’infanzia. Il
carteggio con Gregorio Alvignani, origine di ogni malinteso, lei lo aveva imbastito davvero, ma la corrispondenza era stata innocua e innocente: «aveva letto con interesse solo quella parte che si riferiva al caso di coscienza tanto grave, quanto ingenuamente da lei esposto all’Alvignani». Delle frasi d’amore, infatti: «non s'era curata, o ne aveva riso, come di superfluità galanti e innocue». Fra i due si era avviata, insomma,
«una polemica quasi letteraria», un «segreto duello intellettuale». Marta può rimproverarsi di essere stata ingenua, ma si
sente ed è del tutto innocente. L’autosegregazione del padre, che ha il senso di una condanna, la spinge dunque a chiudersi in un freddo riserbo, da cui è bandito ogni pianto e ogni segno esteriore di disperazione. Durante la reclusione del capofamiglia, la conceria è lasciata alla gestione del giovane parenbette, forbendosi le mani piccole, sconce dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita amo’ di grembiule». Ma la cattiveria del capofamiglia si riversa spesso sull’unica figura femminile del suo nucleo familiare, la sorella Sidora, «bisbetica fin da ragazza» (TRI, p. 7).
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te Paolo Sistri. Da questi le donne vengono a sapere sia del duello tra Rocco e l’Alvignani, da cui il primo è uscito gravemente ferito al volto, sia delle infamanti provocazioni che ne sono derivate. Il marito, fra l’altro, si fa vedere in città con una
prostituta a cui fa indossare gli abiti della moglie scacciata. Questi eventi segnano solo l’inizio della vertiginosa spirale di sciagure che sta per abbattersi su Marta, in un crescendo di tensione tragica. Una scena particolarmente drammatica è quella in cui Marta, durante le doglie, in preda a una crisi di panico e di dolore, cerca disperatamente di farsi aprire dal padre la porta della conceria. Ma invano: Francesco Ajala sta morendo. L’agonia del moribondo è parallela agli spasimi della partoriente. Essa termina con la morte del padre nel momento stesso in cui il parto difficile di Marta si conclude con la morte del bambino. Fuori, per strada, la folla esulta per la vittoria di Gregorio Alvignani, eletto alla Camera dei deputati. Subito dopo i due luttuosi eventi familiari, Marta si ammala gravemente, restando sospesa per tre mesi tra la vita e la morte. In questo tempo, la conceria va in totale rovina. Viene decretato il suo fallimento, mentre l'amministratore fugge. Le tre donne restano senza proventi, condannate ed emarginate dall'intera comunità cittadina. Accanto a loro c’è solo Anna Veronica, un’antica amica di famiglia caduta in discredito dopo lo scandalo di una relazione clandestina, per la quale aveva fra l’altro perso anche il posto di maestra. Travolte dal turbine delle disgrazie, la madre e la sorella, insieme all'amica Anna, cercano conforto nella religione. Marta, invece, resta estranea, ancora una volta diversa dalle donne che la
circondano. La religione non la affascina, semmai rimpiange una vita elevata intellettualmente, un contesto sociale più aperto o almeno non totalmente meschino. La convalescenza di Marta è destinata a essere funestata da due ulteriori umiliazioni: la prima il giorno della processione di S. Cosimo e S. Damiano, quando, per volere di Antonio Pentàgora, il fèrcolo dei santi viene sospinto dai portatori e dalla folla ingiuriante per ben due volte sotto il balcone delle Ajala, per essere poi sbattuto e agitato contro gli stipiti del portone, in segno di pubblica gogna; la seconda è il pignora20
mento dei beni di famiglia. Chiusa in un gelido silenzio, apparentemente imperturbabile e indifferente a tutto, Marta cerca in realtà rabbiosamente una strada per la ribellione e il riscatto. Decide così di prepararsi al concorso per l’abilitazione all'insegnamento. La ripresa degli studi, rimpianti fin dal giorno delle nozze, segna l’inizio del difficile processo di emancipazione della protagonista. Molti sono gli ostacoli che si frappongono alla sua riuscita, non ultimo l’ostentato disprezzo delle altre candidate, sue antiche colleghe. E tuttavia, alla fine
il concorso viene superato brillantemente. Marta, però, ha tutti contro: c’è chi insinua che il suo successo sia dovuto solo alle raccomandazioni di Gregorio Alvignani, chi protesta per la sua immoralità. Molto presto, a causa delle chiacchiere, la nomina scolastica viene revocata. Rocco, impietosito per le
sciagure abbattutesi sulla moglie, aveva deciso in precedenza di procurarle un segreto sostegno economico. Ma, appena viene a sapere delle sue ambizioni professionali, si indispettisce. L’aspirazione all'insegnamento gli sembra un segno di superbia e di presunzione. Si reca allora da Anna Veronica per comunicare la sua imperiosa condizione: la ripudiata dovrà rinunciare all’insegnamento in cambio di un suo assegno mensile. L'amica e la madre apprezzano la proposta, soprattutto perché potrebbe costituire il preludio del perdono e della rappacificazione. L'interessata se ne sente invece profondamente offesa, meditando persino di scrivere all’ Alvi-
gnani, piuttosto che essere costretta ad accettarla. Ed è proprio l’Alvignani, con cui la donna non ha di fatto finora alcun rapporto, a trarla d’impaccio dall’ambascia. Dietro sua raccomandazione, e tramite l'intercessione di Luca Blandino, la
protagonista viene riassunta in un altro istituto scolastico locale, nel quale, dopo alcuni mesi di dissapori e di tensioni, e il rischio di un licenziamento, arriva finalmente la nomina di
trasferimento a Palermo. La prima sezione del romanzo si conclude con la partenza delle tre donne, amareggiate solo perla separazione dall’amica Anna. La nuova vita a Palermo appare migliore della vecchia. È primavera e Marta, bellissima, rifiorisce in tutto il suo splen-
dore di donna giovane e sensuale. Il nuovo alloggio è un picZi
colo ma ridente appartamento in via Papireto. Qui le Ajala ricevono le visite di due strani vicini di casa, don FifoJoué e sua moglie Maria Rosa. Scoprono così che in un locale di loro proprietà vive Fana Pentàgora, la madre di Rocco, in totale solitudine e miseria. Nella nuova scuola, Marta viene accolta
bene, anche dalle allieve. Molti colleghi sono colpiti dal suo fascino, e la corteggiano in modi più o meno discreti: il professor Mormoni si pavoneggia citando le proprie pubblicazioni sulla storia siciliana, il professor Nusco le dedica poesie d’amore, arrivando persino a pubblicarle su un quotidiano locale. La maestra è lusingata e divertita dai loro goffi approcci. Chi trova invece inquietante è Matteo Falcone, un professore di disegno sofferente di una grave malformazione alle gambe. Quasi storpio, penosamente consapevole della propria mostruosa bruttezza, solitario e asociale, l’introverso col-
lega è sempre cupo e di cattivo umore. La protagonista è però incuriosita dal contrasto che in quel corpo deforme producono gli occhi quasi ferini dell’uomo, estremamente intelligenti e acuti. Falcone si innamora fino all’esplosione della follia e al ricovero in manicomio. Marta resta sempre più inorridita dalla violenza e dalla bestialità del suo desiderio: è disgustata fino al ribrezzo al contatto fisico con l’uomo, una sera in cui
questi le dichiara il suo amore sotto una pioggia torrenziale. Lo stesso giorno aveva visto per strada, inaspettatamente, suo
marito. Mentre si dibatte in un stato di totale disorientamento e di solitudine angosciosa, la raggiunge una lettera di Gregorio Alvignani, contenente l’invito a una sua conferenza del giorno successivo (dal titolo Arte e coscienza d'oggi). La donna decide di non andarci, ma comincia seriamente a meditare
di rivederlo. Si sente spinta quasi inesorabilmente a vivere una situazione che per tutti già è la sua, che le è stata assegnata dagli altri senza che lei l'abbia scelta. L’esortazione a «Vivere! vivere!»!4, contenuta nella lettera dell’ Alvignani, la sua inno-
cenza, le ingiustizie patite fino alla persecuzione la fanno sentire ormai finita, morta, esclusa dalla vita stessa. Dietro la
spinta di questi sentimenti, accetta un successivo invito. E do14TRI, p. 144.
db
po una lunga passeggiata, in cui il forte desiderio erotico dell’uomo prima la coinvolge e poi la spaventa per la sua aggressività, si lascia tuttavia convincere, pur dopo lunga resistenza, a entrare in casa di lui. E qui, tra pulsioni contraddittorie di desiderio, di piacere e di angoscia, Marta si abbandona alla fine tra le sue braccia, con un «fremito in tutte le membra, un
singulto, come uno schianto di chi cede senza concedere»!5, Comincia così la loro relazione, vissuta sotto il segno del-
la colpa e dell’oppressione. Gli incontri furtivi sono punteggiati da paure, ansie, pesanti silenzi, recriminazioni, cupezze.
Gregorio Alvignani è innamorato, coinvolto sentimentalmente e sensualmente, ma è anche un uomo «solo in parte sincero». Marta, invece, è incapace di lasciarsi andare all’abbando-
no passionale e al trasporto sensuale: non ama l'amante come non amava suo marito. Non si era sposata per libera scelta, ma per decisione dei suoi: allo stesso modo ora si concede all’amante senza amore, spinta dal vuoto, dal desiderio di un
sostegno e forse da un inconscio bisogno di rivincita. L’incapacità di amare, che Gregorio Alvignani non mancherà di rimproverarle, è il nucleo della psicologia di Marta su cui si avvita il centro profondo del romanzo. Marta non sa amare perché non è libera intellettualmente: non potendo scegliere il proprio destino e le proprie relazioni, non riesce neppure a immedesimarsi in quelle che il caso e le convenzioni sociali le hanno imposto. Mentre si svolge la relazione tra i due, Rocco, ignaro de-
gli ultimi sviluppi, prende la decisione di riconciliarsi con la moglie e invia a Palermo come suo intermediario Luca Blandino. Questi si reca per caso dall’ Alvignani una sera in cui visi trova anche Marta. Nascosta dietro un uscio, la donna ascolta
le intenzioni del marito e la risposta del suo amante, il quale conviene con Blandino sul fatto che la riunificazione sia la soluzione migliore. Dopo l’uscita dell’ospite, tra i due scoppia una lite furiosa. Il deputato obietta che è lei a dover decidere. Lui l’ha invitata a seguirlo a Roma, ma lei non sa risolversi ad accettare. E allora meglio tornare con Rocco. Ma ecco l’altro 15 TRI,p. 156.
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colpo di scena: Gregorio non sa ancora che Marta è incinta.
Dopo questa rivelazione, ogni soluzione sembra impossibile. Rifiutata la prospettiva di fuggire a Roma con l’amante, per non abbandonare la madre e la sorella, sdegnosamente re-
spinta quella della riconciliazione con il coniuge, la donna comincia a meditare il suicidio. La situazione le appare sempre più insostenibile, la morte le sembra l’unica via d’uscita. Arri-
va persino a decidere di chiedere al marito di sposare, dopo la sua morte, per riparazione postuma, la sorella Maria. In queste ore concitate e febbrili, donna Fana Pentàgora, da tempo gravemente ammalata, entra in agonia. I vicini convocano
Marta che, dopo aver visto l’orrendo spettacolo del capezzale della moribonda, manda a chiamare il marito. I due si incontrano, così, di fronte alla donna morente. Rocco, uscito vivo
per miracolo da una lunga malattia, appare molto cambiato: è pallido, sofferente e al tempo stesso ingentilito. Sono momenti di grande intensità emotiva. Concitatamente, convulsamente, egli le chiede di perdonarlo e di tornare a vivere con lui. La moglie gli confessa i suoi mutati rapporti con l’Alvignani e il suo progetto di suicidio e lui, inorridito, si rinchiude nell’altra stanza. Torna solo nel momento del decesso della madre, a cui assistono insieme. L’esclusa prepara il feretro, partecipa alla vestizione della morta. Rimasta sola a vegliarla, a un certo punto scoppia furiosamente a piangere, curva sul
. cadavere. In questo momento di intensa catarsi, il marito rientra e, vedendola piangere, crolla anche lui, lasciandosi an-
dare, «esasperato, accecato dalla passione», all’«amplesso» di un abbraccio, chiedendole di restare, di dimenticare, do-
mandandole se per caso ami ancora l’Alvignani. A questa domanda, Marta risponde fieramente di non averlo mai amato. Di fronte al volto scoperto del cadavere sul letto funebre, i cui
occhi sembrano osservare la scena («come se la morta si fosse messa a guardare»), Rocco, «vincendo il ribrezzo che il corpo
della moglie pur tanto desiderato gli incuteva (...) se la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere, bal-
bettò, preso da paura» parole di perdono!6.
16 TRI, p.209. 24
Il romanzo ha dunque un finale aperto. Benché quasi tutti i commentatori diano per scontata la prospettiva della rappacificazione coniugale, dopo la veglia funebre, sulla scorta, del resto, delle indicazioni di Pirandello, nella già citata lette-
ra a Capuana, in realtà non è affatto assodato che questa stia veramente per avvenire. Lo scioglimento catartico sta nel superamento da parte dell’uomo di quella morale borghese che ha mosso l’intera vicenda e che, di fronte alla morte = si ricor-
di che Marta ha deciso di uccidersi e che lui è miracolosamente guarito da poco — appare in tutta la sua assurda meschinità. La trama, pur nella stringata sequenza dei colpi di scena, segue, come si è visto, uno schema strutturale essenziale, gio-
cato sul ritorno rovesciato delle situazioni. Un elemento non trascurabile di questo gioco di specchi è costituito dalla netta divisione sessuale delle famiglie dei coniugi: da un lato iPentà- ‘‘ gora, tutti maschi, essendo stata allontanata la madre, e dall’al-
tro le Ajala, tutte donne, dopo la morte del padre. Altro elemento speculare è costituito dalle due gravidanze. Quando Marta viene scacciata, da innocente, è incinta, e perderà il
bambino; quando viene invitata a tornare, colpevole di adulterio, aspetta un figlio di Gregorio che non si sa se nascerà. Ha confessato tutto a Rocco, tranne il suo stato, perché «il figlio è mio... mio soltanto... com'era mio soltanto quell’altro che mi morì per lui... Ah, se io l’avessi avuto...»!7. All’isotopia dei parti si collega l’altra fondamentale intelaiatura rifrattiva del romanzo, quella dei morti. La morte del padre di Marta, accompagnata dalla veglia della moglie Agata, del tutto passiva nei confronti del marito, corrisponde alla morte della madre di Rocco, che è invece presumibilmente (anche se non certamente) adultera e trasgressiva nei confronti degli schemi della morale borghese. Si spiega allora perché la protagonista si trovi, seppure casualmente e non per scelta, a vegliare la seconda e non il primo. È Pirandello stesso a illuminare la totale passività dei protagonisti nei movimenti della trama, quando scrive che, nel romanzo, «ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata
ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontaria-
17 TRI, p.208. LO.
mente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile»!8, E tuttavia, la legge che ne governa i comportamenti, nella composizione architettonica del romanzo, sembra tendere, piuttosto che a una logica occulta, al modello di
un composto, palese e ben costruito bilanciamento. III L'interpretazione
La pubblicazione dell’Esclusa non destò un vero interesse né di pubblico né di critica. Neppure oggi, in verità, nonostante la presenza di una vasta area di studi dedicati al primo Pirandello, il romanzo è veramente al centro di un’attenzione
significativa. Recenti indirizzi di ricerca, con l’obiettivo di opporsi alla parcellizzazione degli studi, spesso tendenti al microspecialismo, hanno perseguito il crinale di tre direzioni teorico-metodologiche, di cui due in parte nuove: la filologia, la psicocritica e la critica femminista. Proprio in questi tre ambiti d'indagine, L’esclusa ha trovato migliore collocazione: per la pubblicazione dei Meridiani Mondadori contenenti le varianti ai testi, per il rilievo della psicologia della protagonista, per la presenza di tematiche quasi pre-femministe. Lo scandaglio delle figure femminili come portatrici di un orizzonte della contraddizione, di un valore antagonistico al maschile anche sotto il profilo linguistico-espressivo, è una direzione su cui la critica pirandelliana ha già cominciato a trovare un terreno fertile di rigenerazione!9, Che L'esclusa, a partire dalle dichiarazioni dello stesso Pirandello nella più volte citata lettera a Capuana, debba essere interpretata in rapporto alla poetica dell'umorismo è un fatto 18TRI, p. 881. 19 Interventi di rilievo degli anni Novanta sono: M. Farnetani Del Soldato, Giselda Fojanesi Rapisardi, ovvero L'esclusa di Pirandello, Arnaud, Firenze, 1992; N. Borsellino, Tre note, «Rivista di studi pirandelliani», 11, 1993, pp. 113-115; N. Tedesco, Situazione dell’«Esclusa», «Rivista di studi
pirandelliani», 12-13, 1994, pp. 21-28; I. Nardi, Pirandello, il lettore e Marta Ajala nella selva del naturalismo, «Critica letteraria», 91-92, 1996, pp. 209-21.
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ampiamente condiviso dalla critica. Se, com'è ovvio, la reda-
zione iniziale del romanzo non poteva risentire di un’elaborazione teorica avvenuta qualche anno più tardi, la stesura originaria appare a maggior ragione come un prezioso documento,
che consente di leggere gli interventi dell’autore alla luce dell’applicazione di una teoria sempre più consapevole. Si è già sottolineato, del resto, che l’ordito della vicenda, fin dalla prima edizione, corrisponde ai canoni in seguito teorizzati da Pi-
randello. Il fatto che Marta venga cacciata quando è innocente e venga riabilitata dal marito quando è invece ormai colpevole costituisce già un’intelaiatura umoristica. Altri evidenti elementi umoristici si rintracciano nei ritratti di molti personag-
gi, grotteschi, estremi, espressionistici: da quello già citato di Antonio Pentàgora a quelli di Paolo Sistri e del professor Matteo Falcone. Tragicomica è anche la metafora dominante delle corna, che lascia una traccia persino nel cognome grecizzante dei Pentàgora, traducibile come cinque corna, laddove il cinque allude forse anche al numero delle dita della mano. Il tema del riso, peraltro, è centrale in tutto il romanzo, in una gamma
di sfumature che va dal sorriso vacuo e incosciente al ghigno sarcastico e cattivo alla folle risata a gola piena. Spesso, come accade in molti altri testi pirandelliani, esso fa binomio con la follia. Basti citare, come unico, significativo esempio, il ritratto della famiglia di Matteo Falcone, con le due vecchie stolide, rispettivamente madre e zia dell’uomo che, come loro, finirà con l’impazzire, le quali ridono smodatamente, insensatamen-
te, anche della deformità di lui. E come non collegare alla nozione di «sentimento del contrario», teorizzata nel saggio pirandelliano del 1908, le seguenti riflessioni di Falcone, a proposito della sua triste condizione fisica e familiare: «Due sole vere infelicità aveva la vita, per coloro sui quali la natura esercita la sua feroce ingiustizia: la bruttezza e la vecchiaja, soggette al disprezzo e allo scherno della bellezza e della gioventù» ?20 Il riso, la vecchiaia, la follia sono temi umoristici per eccellenza
che attraversano ossessivamente l’intera opera di Pirandello, a partire dal primo romanzo.
20 TRI, p. 140. 27
È stato da più parti affermato che l'umorismo modifichi tanto radicalmente le strutture tradizionali della sintassi e dell’«azione parlata» da presentare, al posto della centralizzazione dell’io, un’incessante dinamica di rappresentazione del molteplice. Nei romanzi, nelle novelle e anche in capolavori teatrali come l’Enrico IV, la crisi della soggettività viene estrinsecata dall’interno, attraverso la messa in scena del suo
fallimento e della sua caduta nella confessione esistenziale. Questa fenomenologia agisce anche nell’ Esclusa, che pure è un romanzo dall'impianto abbastanza tradizionale: scritto in terza persona, con un narratore extradiegetico e onnisciente.
Per coglierne alcuni aspetti è utile riferirsi, seppure per sommi capi, all’iter culturale che sta dietro l’elaborazione della
poetica dell’umorismo, non senza sottolineare una significativa coincidenza: il fatto che nel primo decennio del Novecento tre intellettuali di punta abbiano elaborato teorie del comico, indipendentemente l’uno dall’altro, e con gli stru-
menti concettuali delle rispettive discipline2!. Si tratta, oltre a Pirandello, che è l’ultimo dei tre, di Henri Bergson, autore
del trattato I/ riso: saggio sul significato del comico (1900) e di Sigmund Freud, autore del celeberrimo I/ rotto di spirito
(1905). Una categoria centrale nell’orizzonte teorico pirandelliano, il sublime umoristico, è stata da alcuni studiosi ac-
costata proprio alla teoria freudiana della sublimazione. Gustavo Costa, in particolare, per argomentare questa tesi, ne
ha documentato la genesi, a partire dall’influenza del pensiero di Giacomo Barzellotti22. E l’ha ricondotta all’interno di un dibattito che, come Pirandello ben sapeva, era stato avviato in Italia da Enrico Nencioni, influenzato a sua volta da
una certa tradizione anglo-germanica, con un modello forte nell’opera di Jean Paul (pseudonimo diJohann Paul Friedrich 21 Per un approfondimento della questione cfr. Giorgio Patrizi, Pirandello e l’Umorismo, Lithos, Roma, 1997.
22 Gustavo Costa, Un problema pirandelliano: sublime o sublimazione?,in Aa.Vv., Ars dramatica. Studi sulla poetica di Luigi Pirandello, atti del simposio internazionale sul teatro pirandelliano, Boston College, 27-29 ot-
tobre 1994, a cura di Rena A. Syska-Lamparska, Peter Lang, New York, 1996.
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Richter). Attraverso queste ascendenze, e la mediazione di studiosi minori come Gustavo Stafforello, Giuseppe Fraccaroli e Giorgio Arcoleo, si può ipotizzare che Pirandello giunse a una conoscenza indiretta del pensiero di Freud. Se la teoria pirandelliana deriva dall’elaborazione delle discussioni teoriche sul rapporto tra comico e sublime, filtrate soprattutto attraverso gli scritti dello psicologo e filosofo Theodor Lipps, anche la teoria freudiana della sublimazione può porsi come sviluppo estremo dell’estetica tedesca dell’Ottocento. Va aggiunto che Pirandello conobbe il freudismo di ritorno anche attraverso la mediazione di giovani ammiratori di Freud, come Savinio e Bontempelli. Il surrealismo lo affascinò, anche se non scalfì l'adesione al ben radicato relativi-
smo scettico di matrice illuministica. E evidente che anche per l’analisi dell’Esc/usa questo sfondo andrà tenuto presente. E vero infatti che le pulsioni erotiche ambivalenti della protagonista, costituendo peraltro proprio i suoi tratti maggiormente vivaci, sono sistematica-
mente rimosse e sublimate. Come ha notato Maria Antonietta Grignani, le allusioni all’intermittente «pazzia» di Marta, ai suoi «pensieri strani, inconseguenti, inconfessabili», ai «lam-
pi di follia», che la portano spesso a provare ribrezzo per molti degli uomini che la circondano, dal marito a Matteo Falcone, rafforzano l’impressione che nella protagonista sia presente l’occultamento di un senso di colpa, la cui causa perturbante viene costantemente elusa dal narratore?3. L’erotismo tende a restare marginale in una narrazione che pone piuttosto l’etica al suo centro nevralgico. Ma è proprio questa artificiosa marginalizzazione che rende il personaggio di Marta sostanzialmente irrisolto, fino talora a un irrigidimento stereotipico. Nel perturbante, represso e nascosto dietro la compassata retorica del vittimismo, si nasconde il nucleo più forte di verità e di vitalità del romanzo. Ad esso val la pena di collegare l’ipotesi interpretativa avanzata da Nino Borsellino, che lo spiega alla luce di un conflitto dei protagonisti con le figure 23 Maria Antonietta Grignani, Retoriche pirandelliane, Liguori, Na-
poli, 1993, p. 142.
235)
genitoriali. Sotto questo profilo, in effetti, il romanzo è leggibile come la storia di un complesso paterno irrisolto per entrambi i coniugi. Se nel caso di Rocco l’antagonismo è palese fin dall'inizio, nel caso di Marta esso è meno evidente, ma for-
se ancor più distruttivo. Per Romano Luperini, è proprio «il masochismo» di Francesco Ajala che «si converte in sadica e devastante introiezione del senso di colpa nella figlia»?4. E, per inciso, è forse utile notare che molti hanno colto nella
burbera e monolitica personalità dell’uomo un insistito richiamo alla figura reale del padre di Pirandello. Fatto tutt’altro che inconsulto se si pensa che una conflittuale rappresentazione della presenza paterna è rintracciabile fin dalla prima prova narrativa di Pirandello, la novella verista La capannetta,
scritta nel 1884. A ben guardare, dunque, dietro la crisi coniugale di Rocco e Marta va rilevato lo scontro con la generazione dei padri. L’autoritarismo di questi è già chiaro fin dalle prime pagine del libro, quando Antonio Pentàgora, ricordando il tradimento di sua moglie Fana, afferma: Che cosa credevo io che fosse Fana, mia moglie? Precisamente ciò che tu, Roccuccio mio, credevi che fosse la tua: una santa!
Non ne dico male, né gliene voglio: ne siete testimonii. Do a vostra madre tanto che possa vivere, e permetto che voi andiate a visitarla una volta l’anno, a Palermo. M’ha reso in fin dei conti un gran servizio: mha insegnato che si deve ubbidire ai genitori?)
Sospesi tra il dovere dell’obbedienza e il desiderio di rottura e di trasgressione, incapaci di identificarsi con la morale socialmente dominante, per essere nati in un’età di cambiamenti del costume, e tuttavia ancora passivi nella gestione del conflitto, iconiugi Pentàgora sono in realtà i primi protagoni-
sti pirandelliani del contrasto tra le generazioni. Lo stesso dramma è al centro anche dei Vecchi e î giovani, con sfumature che tendono più al piano pubblico, politico e ideologico, 24 Luperini, Pirandello, cit., p.38. 5 TRI, p. 10.
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essendo il romanzo dedicato a un’illustrazione della storia post-risorgimentale, che non a quello privato e familiare. L’inettitudine dei giovani, di fronte alla crisi culturale che travolge i valori dei vecchi, è d’altra parte un tema centrale nella letteratura non solo italiana dei primi decenni del Novecento. Letta in rapporto a questo sfondo, l’inanità di Marta, proprio perché si collega all’incapacità di amare, appare come un sintomo precoce e acuto dello Zeztgezst. Oscillante tra una fiera consapevolezza della propria intelligenza e della propria carica sensuale e una combattuta coscienza della propria subalternità femminile, Marta non può amare gli uomini che la circondano, perché nessuno è in grado di sottrarsi alle rigide, asfittiche e prevaricanti discriminazioni legate ai ruoli sessuali socialmente consolidati. Neppure lei può sottrarsi ad esse, perché dall’imposizione di quei ruoli è stata colonizzata e repressa. Al dominio maschile, insomma, e ai condizionamenti
che esso implica all’interno delle relazioni tra uomini e donne, i protagonisti maschili e femminili non riescono mai a sottrarsi. Per Luperini, questo procedimento concettuale renderebbe conto del modo con cui Pirandello fa i conti con l’eredità dei propri maestri, passando cioè dal «determinismo naturale» a un «determinismo sociale»?6. Si è del resto più volte sottolineato quanto sia essenziale cogliere il legame tra L’esclusa e il contesto culturale e letterario siciliano e veristico, vissuto anche nei suoi aspetti più strettamente provinciali.
Da quanto emerso, appare indubbio che il romanzo offra davvero una ricca miniera di spunti per la riflessione interpretativa. Per quanto riguarda la vera e propria valutazione letteraria, tuttavia, nonostante sia sicuramente da condividere il
giudizio di chi vede nell’Esclusa «il primo incontestabile risultato di Pirandello»?7, al tempo stesso è doveroso evidenziare che non si possa definirlo propriamente un capolavoro. Il carattere irrisolto del romanzo non risiede certo nel suo fi26 Luperini, Pirandello, cit., p.40. Secondo lo studioso, il finale «consolatorio» del romanzo risponderebbe a un’esigenza d’ordine, con il ripristino della situazione socialmente accettabile. 27 Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, cit., p.23.
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nale aperto, che spetta al lettore in qualche modo completare, immaginando nel prosieguo la reintegrazione della protagonista entro l’ordine coniugale borghese, oppure la sua più improbabile uscita definitiva attraverso la morte, perché tale finale è segno di una maturità già quasi avanguardistica. Esso risiede piuttosto nell’obsolescenza del nodo tematico della caduta. La centralità di questo tema nell’articolarsi della vicenda narrativa rende L’esclusa un romanzo datato e Marta Ajala un personaggio femminile decisamente poco al passo con i tempi della letteratura europea. C'è chi ha colto un aspetto innovativo e di rottura nel suo presunto «femminismo pratico»?8. In verità, è discutibile persino ipotizzare un suo «bovarismo tutto di testa»29: Marta è quasi un’anti Emma
Bovary, in questo molto diversa anche da Teresa Uzeda, la protagonista dell’I//usione di Federico de Roberto, incapace com'è di vivere, di amare, di sentire il limite delle convenzioni
borghesi che ne attanagliano il destino, in una trama che è tracciata pensando più di quanto non si dichiari al pubblico dei ben pensanti lettori dei romanzi di appendice. Il caso della donna scacciata sottende un’implicita accettazione della morale sessuale cattolica e della logica patriarcale e maschilista, nonostante le ambivalenti e contraddittorie ridicolizzazioni dei loro portati estremi. Ne discende che, nonostante la sottile tessitura ironica, visibile anche nella scelta di motivi tipicamente romanzeschi, come il duello d’onore, Marta non
diventi mai un modello di vitalità e invece—lo si è già scritto — resti sempre di una passività quasi totale. Marta è un’intellettuale mancata, perché in fondo anela e continua sempre ad anelare all’integrazione. Ed è da questa che si sente esclusa, non dalla vita o dalla realizzazione del proprio sé profondo. La protagonista, insomma, non riesce mai a superare le pro-
prie contraddizioni. Antieroina antiromantica, frigidamente inibita e incapace di provare abbandoni passionali, è altempo stesso incapace di identificarsi nell'orizzonte normativo del28 Renato Barilli, Pirandello, una rivoluzione culturale, Mursia, Milano, 1986, p. 69.
29 Grignani, Retoriche pirandelliane, cit., p.141.
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l’amore coniugale e familiare. Esclusa, dunque, da ogni identità e da ogni vitalità, soprattutto amorosa, erotica e sessuale (è l'esclusione, si ricordi, di chi «cede, senza concedere»).
Nella sospensione tra desiderio d’ordine e rabbioso istinto trasgressivo stanno la grandezza e il limite del personaggio. La grandezza: perché una coscienza nuova, dopo la rivoluzione che si intravede sullo sfondo della sua storia privata, non
può essersi ancora formata. Il limite: perché il freno inibitorio si estrinseca nell’autocommiserazione. Uno dei grandiosi nuclei centrali della poetica pirandelliana, e cioè l’antieroicità dell’uomo moderno, nel romanzo appare profilato ancora in modo incerto, perché la protagonista è una perseguitata dal destino ingiusto. E, nell’imbastitura di questo registro vittimistico, la sessualità estranea agli schemi borghesi è un disvalore, essendo intesa come corruzione del corpo e come peccato, così come invece resta un solido valore l’onestà borghese. L’imperio sensuale e il trasporto sentimentale riguardano al massimo gli uomini, e limitatamente, mai le donne del roman-
zo. La somiglianza tra Marta Ajaia e Silvia Roncella di Suo r24rito, sotto questo profilo, è minima. Silvia è una donna passiva e involuta solo prima della propria affermazione letteraria. Dopo, infatti, riesce a rompere definitivamente con gli schemi coniugali e sociali. La scrittrice di successo è, insomma, un
personaggio assai più complesso e risolto. Ciò accade anche perché l’intelaiatura dell’Esc/usa, montata sul gioco delle parti della trama, piuttosto che sulle dinamiche interiori dei personaggi, si rivela a tratti sovrastrutturale, rendendo talora l’ironia più opaca che drammatica o tragicomica. E vero che la protagonista è già dotata dei tratti alienati di tanti personaggi della stagione più matura. E tuttavia, il romanzo resta pervaso da un patetismo concitato, al quale non rimediano del tutto né il linguaggio, già espressionistico, né la tessitura umoristica. L’esclusa, alla fine, va vista come una prima, pur promettente, prova di Pirandello, una prova giovanile che non raggiunge gli esiti artistici che saranno dell’autore qualche anno più tardi e neppure si colloca all'altezza del contemporaneo verismo più maturo, basti pensare, per esempio, ai Viceré di Federico De Roberto.
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I La redazione
Il secondo romanzo fu composto presumibilmente due anni dopo Marta Ajala, nel 1895, e fu pubblicato per la prima volta nel 1902, in volume, per i tipi dell’editore Giannotta di
Catania. Nel frattempo, e precisamente nel 1894, Pirandello si era sposato con Maria Antonietta Portulano, figlia di un
ricco socio in affari del padre. La dedica riportata nel volume, «Buona siesta, Nietta mia», è rivolta infatti proprio alla moglie. Il matrimonio era stato caldeggiato dalle famiglie ed era stato celebrato ad Agrigento con tutti i crismi tradizionali, in pompa magna. Era stato preceduto, del resto, da un fidanzamento anch’esso molto tradizionale, a distanza: mentre Pi-
randello viveva a Roma, la giovane sposa era infatti vissuta sempre in Sicilia, dove era stata educata presso le suore agrigentine di San Vincenzo. Nonostante non fossero state progettate come coronamento di un amore, le nozze segnano per lo scrittore l’inizio di un periodo di serenità. Quasi subito nascono i tre molto amati figli: già nel giugno 1895 Stefano, nel ’97 Lietta e nel’99 Fausto. Sono anni di intensa attività produttiva. Oltre a varie raccolte di versi (Elegie renane [1895], Zampogna [1901]), Pirandello scrive soprattutto molte novelle. Queste escono sparse su riviste letterarie e quotidiani e vengono poi raccolte in due importanti volumi nel 1902: Beffe della morte e della vita (Lumachi, Firenze) e Quand'ero matto (Streglio, Torino).
Nello stesso arco di tempo vengono completati i Dialoghi tra il gran Me e il piccolo me, la cui seconda parte appare proprio nel ’95 sulla rivista «Tavola rotonda», e la traduzione delle
Elegie romane di Goethe, che esce l’anno successivo. Davvero fitta diventa la rete delle collaborazioni a svariate testate
da
nazionali periodiche, come la «Gazzetta letteraria» di Torino, «Natura ed Arte», «Romaletteraria», «La Critica», la «Tribu-
na Illustrata», «La Vita italiana» e, dal ’96, il prestigioso «Il Marzocco» di Firenze. Da segnalare, inoltre, anche il rapporto stabile con «Il Giornale di Sicilia» di Palermo, soprattutto con articoli di critica d’arte, e la fondazione, nel ’98, insieme a Carlo Falbo e Ugo Fleres, della rivista letteraria «Ariel», di
cui Pirandello assume presto la direzione. L’anno precedente, il 97, lo scrittore aveva iniziato anche la carriera docente,
essendo stato incaricato dell’insegnamento di lingua italiana presso il Magistero di Roma. È chiaro che, a questo punto della sua vita, lo scrittore è diventato non solo un professionista, ma un vero e proprio “letterato di carriera”, con un ruolo di spicco e uno status accreditato, affermato sia a Roma, dove risiede, che in Sicilia.
Ciò spiega il curioso episodio di una pubblicazione non autorizzata del Turzo, nel 1915, presso la casa editrice Madella di
Sesto S. Giovanni. Questa edizione pirata, peggiorandone la qualità, riproduce la lezione Giannotta del 1902, già a sua volta abbastanza dilettantesca, nel senso che presentava numerosi errori e veri e propri lapsus, corretti a penna da Pirandello, poco dopo la pubblicazione, all’interno di un copia di proprietà dell'amico Giuseppe Aurelio Costanzo!. Di queste correzioni l’autore tiene conto nella successiva edizione a sua cura (uscita lo stesso anno di quella pirata, il 1915, presso Treves), nella quale, contrariamente a quanto dichiarato nella nota di accompagnamento citata più avanti, sono presenti nume-
rosi interventi testuali di rilievo. Oltre al Turro, vi è riprodotto anche il testo breve Lontano, forse accostato proprio per il carattere malinconico, teso a mostrare una diversa immagine del contesto siciliano. Il sottotitolo del volume contiene la dicitura Novelle. Per il suo autore, quindi, più che un romanzo, Il turno
deve essere considerato un racconto?. La posizione è esplicita nella seguente premessa editoriale, datata 2 settembre 1915:
1 TRI, p. 980. 2 Pirandello si occupò della distinzione tra il romanzo, il racconto e la
novella, opponendosi al criterio della lunghezza. Stralci di un originario ar-
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Ripubblico intatti, dopo tanti anni, questi due racconti scritti nella prima giovinezza, così tra loro diversi, l’uno gajo, se non lieto, e triste l’altro, eppur nati quasi a un tempo e anche di luogo vicini, poiché il primo rappresenta uomini e casi della vita di città e il secondo della vita di mare in quel lembo di Sicilia, dove anch’io son nato (non personaggio di racconto, purtroppo!). Non ho voluto affatto ritoccare questi racconti per non sciupare quello che m'è sembrato il loro pregio più vivo: la schietta vivacità della rappresentazione, al tutto aliena d’ogni intenzione letteraria. Certo, rivedendone la stampa, ho provato una lieta meraviglia. E chi sa — ho pensato — se un giorno questi due racconti, segnatamente il secondo Lortazo non appariranno, almeno per certi rispetti, assai più degni di considerazione di tanti altri miei lavori più maturi e ambiziosi?.
Ma l’incessante lavorio di rielaborazione non si conclude. Dopo un'ulteriore ristampa del 1920, per la verità fitta di errori tipografici, presso le edizioni Quattrini di Firenze, viene approntata un’ultima edizione, ricca di «aggiunte, soppressioni e correzioni»4, pubblicata nel 1929 presso l'editore Bemporad di Firenze, con l’indicazione in calce della data: «Roma, 1895».
Si conferma dunque l’irresistibile e ossessiva tendenza di Pirandello a tornare costantemente sui propri scritti, interve-
nendovi per correggere e per integrare i materiali, con aggiunte, autocitazioni o espunzioni di interi blocchi narrativi. Anche nel caso del Turz0, le tre edizioni principali autorizzate dall’autore, contenenti varianti significative, si situano lungo l’arco di quasi un trentennio, tra il 1902, il’15 eil ’29. ticolo sul tema, uscito nel 1897 sulla rivista catanese «Le Grazie» furono poi inglobati e ampliati nel fondamentale Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa, raccolto nel volume Arte e scienza. Quell’articolo, rimasto a lungo inedito, è stato pubblicato in «Allegoria», con il titolo Rorzanzo, racconto, novella, e con un’utile nota di accompagnamento di Felice Rappazzo: Un articolo di Pirandello sulle forme narrative, «Allegoria», 8, 1991, pp. 155-160.
3 TRI, pp.981-982. 4 Ibidem.
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II. L'opera
Come per L’esclusa, anche per I/ turno, il riferimento alla poetica dell'umorismo, a causa delle indicazioni autoriali, è
d'obbligo. D'altra parte, però, «la schietta vivacità della rappresentazione» legata all’ambientazione regionale, in una città che questa volta è esplicitamente Girgenti, rimanda in modo altrettanto inequivocabile al verismo siciliano. Nella seconda prova narrativa, la tessitura comica risiede soprattut-
to nell’imbastitura della trama, giocata sul rovesciamento imprevedibile delle situazioni, in seguito a colpi di scena che spiazzano le aspettative del lettore, con un andamento da commedia degli equivoci. Ciò si realizza a discapito della profondità psicologica dei personaggi, concepiti quasi come macchiette di una farsa teatrale. Ne deriva intanto che, a dif-
ferenza dell’Esclusa, nel Turno non si registri la presenza di un vero protagonista. La giovane donna attorno a cui ruota tutta
la vicenda, Stellina, è in realtà un personaggio di secondo piano, mentre la figura del padre, i suoi due mariti e il pretendente Pepè Alletto, probabile terzo, sono tendenzialmente stilizzati, nonostante la vivacità, a tratti, di quest’ultimo, che incar-
na esplicitamente il tipo dell’inetto, e di Diego Alcozér, vecchio uomo di mondo, sagacemente consapevole della «sciocca fantocciata che chiamiamo vita»5, con sfumature malinconicamente autoironiche che si accompagnano a una costante
«risatina fredda». Molto diverso, per impianto e ambizioni, dal precedente romanzo, I/ turno gravita però sul perno degli stessi temi — la morale sessuale e l’etica matrimoniale — che saranno del tutto accantonati nei romanzi successivi. Più che l'assetto normati-
vo che regola l’interdetto del tradimento, in primo piano è ora la questione dell’interesse economico connesso al matrimonio. Neppure qui, dunque, al centro della narrazione è propriamente da identificare l’amore, ma vi si trova in maggior misura l’indagine delle attrazioni sessuali, intese come pulsioni naturali e collegate alla rappresentazione del conflit5TRI, p.291.
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to tra vecchi e giovani. Il motivo onnipresente del letto, infatti, è quasi una metafora dominante del racconto, che lascia
una traccia nel cognome del giovane Pepè. D'altronde, proprio alla conflittuale dinamica del turn-over tra le generazioni, oltre che, referenzialmente, all’avvicendamento dei mariti di Stellina, pare in effetti alludere lo stesso titolo del racconto.
Si tratta del conflitto tra vecchi e giovani amanti, ma anche, in via non certo secondaria, tra padri e figli: basti intanto osservare che il primo matrimonio di Stellina viene imposto con la forza dal padre calcolatore e scellerato che mira esclusivamente al patrimonio dell'anziano marito. Per il progetto di queste abiette nozze, l’uomo viene aspramente criticato e sarcasticamente deriso dalla comunità dei concittadini. E tuttavia, non appena il legame viene sciolto, egli viene subito emulato da cinque vicini di casa, fra i quali persino l’invidiosa Carmela Mèndola, madre della giovane Tina, di cui nel finale vie-
ne annunciato l'imminente matrimonio con l’Alcozèr. Altri temi ricorrenti nel Turz0, come già nell’Esclusa, sono, da un canto il riso e la morte e, dall’altro, la pazzia e il delirio, con-
centrati soprattutto nella parabola esistenziale del cognato di Pepè, Ciro Coppa, focoso e militaresco rappresentante, emblematico fino all'eccesso macchiettistico, di una caratteriz-
zazione da cavalleria rusticana. L'entrata in campo del futuro secondo marito, che incarna la deformazione espressionistica dell’uomo d’onore, sembra in un primo tempo sovvertire l'ordine della fabula, fondata sull’aspettativa del turno dell’Alletto. Il terribile cognato riesce infatti a far annullare il matrimonio inviso alla donna e a sposarla, sottraendola all'ormai
innamorato Pepè, che ingenuamente lo ha creduto lavorare in suo favore. Il ritmo serrato dell’azione è confermato anche dall'impianto strutturale compatto: il racconto non è diviso in parti, ma consta di un unico blocco segmentato in trenta paragrafi, anche qui, come nell’Esclusa, semplicemente contrassegnati da numeri romani, a differenza di quanto accadrà in altri romanzi, dove i capitoli avranno titoli propri, generalmente frastici. L'articolazione della vicenda, insomma, si con-
densa quasi tutta sul dialogo e sull’«azione parlata», con scarsi momenti digressivi e meditativi. #9
Seguiamone dettagliatamente l'andamento: il primo paragrafo si apre con i ragionamenti in pubblico di Marcantonio Ravì, che difende il progetto matrimoniale da lui concepito per Stellina di fronte a un’anonima comunità di interlocutori increduli, contro lo scherno, il dileggio e il riso serpeggianti. Ma il Ravì, soprannominato non a caso Mammone, re-
sta irremovibile e, soprattutto, convinto delle proprie ragioni («che c’era da ridere? Parlava da senno, lui!»6). Certo della
propria perspicacia, il padre non sa spiegarsi la cocciuta resistenza della figlia: Stellina rifiuta caparbiamente di accettare il partito di Diego Alcozér e si rinchiude in camera, respingendo il cibo e persino i costosi regali dell'anziano pretendente. Sotto le sue finestre, intanto, una combriccola di gio-
vani, di cui fanno parte Pepè Alletto, Mauro Salvo e i cugini Garofalo, le dedica struggenti serenate. Tra le ambasce e la disperazione, la figlia del Ravì trova comunque il modo di cedere alla vanità e al compiacimento narcisistico: sicura di non essere vista, indossa furtivamente i preziosi gioielli donati dal suo promesso sposo e si contempla allo specchio, orgogliosa della propria fiorente bellezza. La sua ostinata resistenza viene alla fine vinta, grazie soprattutto alla pressante mediazione del padre, che si rivolge direttamente all’ Alletto, pregandolo di desistere dal corteggiamento. Mammone illustra al fragile e ingenuo Pepè il progetto diabolico pensato anche per lui, e cioè quello di attendere la morte del vecchio per poi sposare una Stellina ormai ricca. L’argomentazione del genitore è un piccolo capolavoro comico: voi siete nobile, ma siete scarso, caro don Pepè! Anch'io sono un pover' uomo, abbruciato di danari. (...) Che volete farci? Ha la mania delle mogli: non può farne a meno. Ma questa, se Dio vuole, sarà l’ultima! Gli diamo, sì e no, tre anni di vita? (...) Ma già, non pesa venti chili...
Il giovane non aveva mai seriamente pensato di chiedere la mano di Stellina: in effetti, benché la ragazza gli piacesse, 6TRI, p.214. TTRI, pp.220-222.
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non ne era innamorato, e del resto non era in condizione di
prendere moglie. Sfaccendato e a sua volta mammone, in senso diverso da quello cui allude il soprannome del Rav, egli viveva infatti con la madre settantenne, donna Bettina, che lo viziava in tutto e che, date le sue nobili origini e il ricordo delle
ricchezze del marito — era stato proprio questi a dilapidare un ingente patrimonio —, non voleva neppure fargli cercare un impiego. Pepò, capace solo di ballare, cantare e suonare la spinetta, improvvisando minuetti e rondò, incarna parodicamente il tipo del languido sognatore romantico, benché gli manchi, soprattutto all’inizio, ogni passionalità sentimentale. Prevale in lui un autocompiacimento narcisistico sostanzialmente infantile («Ogni mattina tre ore, per lo meno, davanti allo
specchio: abitudine! Che poteva farci? Il bagno, le unghie lunghe da coltivare, poi pettinarsi, raffilarsi la barba, spazzolarsi. E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa, pareva un
milordino»8). Quando accoglie pienamente il progetto del Ravìe si dispone quindi ad accettare il matrimonio di Stellina e ad attendere la morte del marito, Pepè, in realtà, oltre a mostrare di essere dominabile e influenzabile dalla volontà altrui, rivela soprattutto di agognare a sua volta a un investimento patrimoniale, pur senza essere capace di pianificarlo. La sua indole passiva risalta del resto anche nella circostanza in cui, dopo il fallimento delle sue speranze, in seguito al matrimonio di Stellina con Ciro Coppa, diventa intimo amico dell’ Alcozér, per un certo tempo addirittura dormendo con lui nello stesso letto in cui aveva dormito Stellina (di qui probabilmente l’umoristico cognome Alletto, che forse allude anche al significato del verbo “allettare”, con riferimento al carattere influenza-
bile del personaggio). Il quarto paragrafo vede in campo la celebrazione delle «nozze tanto combattute». Il marito veste per la quinta volta una lunga napoleona, «memore di quattro sponsali», conservata per lunghi anni sotto canfora e pepe in una cassapanca «stretta come una bara». Stellina, vestita di bianco e di zagare,
viene commiserata dagli astanti. Il suo aspetto cupo, infatti,
8TRI, p.223. 41
«raggelava tutta la sala». Si tratta di uno dei passi più intensi e riusciti del romanzo, perché la scrittura insiste su tratti descrittivi assai incisivi, che colgono la psicologia dei personaggi in poche decise pennellate. L’euforia forzata crea una tensione il cui crescendo raggiunge l’acme nella brusca esplosione isterica della sposa che, all'offerta di un bicchierino di rosolio da parte di don Diego, prorompe in un pianto disperato, inframezzato da «risa convulse». Il ricevimento viene subito sciolto ei convitati si accomiatano precipitosamente. Per strada, spar-
si commenti triviali fanno inalberare Pepè, che aggredisce Luca Borrani. Ne nasce una rissa cui segue il giorno dopo l’annuncio di una sfida a duello. Incitato e istruito soprattutto da don Ciro, l’Alletto si prepara ad affrontare la prova, senza alcuna interiore convinzione, sgomento di fronte all’assurda eventualità di una così insensata morte. Proprio questa sua
passività, accompagnata da pensieri alterni di eroismo e di percezione della vacuità della vita, lo conduce inevitabilmente alla sconfitta. Incapace di reagire, egli si comporta come «un pupazzo da teatrino»: «per poco le braccia non gli eran cascate su la persona, come se la sciabola fosse stata di bronzo massiccio. Parare? Sfalsare? Niente!»?. E così viene gravemente ferito. Il lungo taglio dalla spalla al fianco destro necessita di oltre sessanta punti di sutura. Durante l’intervento, Pepè sviene due volte. Accolto a casa del cognato per la lunga convalescenza, viene amorevolmente curato dalla sorella Filomena. Questa, come il fratello, è una donna del tutto passiva.
Amata alla follia dal Coppa, viene da lui costretta in una vera e propria segregazione. Da anni ormai non esce di casa e ora,
ormai malata da tempo, non può neppure ricevere le cure mediche, perché il marito morbosamente geloso non consente a
nessuno di avvicinarlesi. Si tratta di una gelosia veramente patologica, che raggiunge il parossismo quando la moribonda chiede di poter chiamare un confessore. Il marito, infatti, grottescamente le risponde: «E che peccati puoi avere tu su la coscienza, da confidare sotto il suggello della confessione?». Poi ordina alla serva di mandare a chiamare un prete, ma pre?TRI, p.245.
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cisa che debba essere «Vecchio! Vecchio!». E, mentre la con-
fessione è in corso, passeggiando nervosamente, «con le mani avvinghiate alle reni», il volto contratto e «gli occhi che schizzavano fiamme», va rimuginando fra sé e sé: «Che peccati?... che peccati? Peccati di pensiero, certo... peccati d’intenzione... Chi aveva mai veduto sua moglie?... Cose antiche? Peccati antichi!...»!9. Quando, poco dopo, Filomena muore, il coniuge quasi impazzito manifesta il dolore con l’abituale paradossalità. Per esempio, costringe i figli a pranzare a tavola come se la madre fosse seduta al suo posto, regolarmente apparecchiato. E alterna alle lacrime i soliti severi richiami alla disciplina, in cui si espleta la sua educazione autoritaria e rigida fino alla vera e propria violenza fisica. Nel frattempo, la vita coniugale di Stellina ha preso un andamento dolcemente consuetudinario. L'anziano marito ama essere circondato da giovani e ogni sera organizza riunioni con-
viviali. Mauro Salvo, innamorato della sua giovane moglie, è costantemente invitato a suonare il pianoforte. Appena guarito, anche Pepè si unisce alla brigata, inviso al Salvo e ben accolto da don Diego. Sono pagine di grande intensità, grazie soprattutto alle riflessioni di quest’ultimo, che medita sulla condizione senile e sul senso dell’esistenza, respingendo con saggezza ogni moto di gelosia. Una gita alla valle dei templi si trasforma però in una catastrofe, per l'improvvisa esplosione di un violento diluvio. A causa dell’esposizione all’acqua, il marito si ammala gravemente di polmonite. Ne consegue un lungo delirio, in bilico tra la vita e la morte, nel corso del quale egli parla con le anime delle quattro mogli defunte. Ormai Pepè ama Stellina e tuttavia, per quanto è dichiarato dal narratore,
che però instilla nel lettore qualche dubbio, non osa dichiararlesi né tentare di sedurla. Si lega intanto sempre più fedelmente al padre di lei, ricambiato con vero affetto paterno. E ogni sera si reca a casa Alcozér per vegliare il malato. Al capezzale del moribondo, inaspettatamente, i due giovani sono presi da «un segreto rimorso». Più acuto per Pepè, meno acuto per Stellina.
E quando a don Marcantonio quasi sfugge dalle labbra, guar10 TRI, pp. 249-250.
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dandola figlia e l’amico: «Ci siamo già, figliuoli miei...» essi sospirano e chinano il capo «come in attesa, non della liberazione, ma d’una vera sciagura»!!. L’eventualità della morte induce
dunque un senso di colpa nei presunti promessi sposi, quasi che finanche il suo inconfessabile desiderio fosse interdetto e probito. Ben si vede in questo passaggio come Pepè sia incapace di divenire adulto, aspirando invece a guadagnarsi il ruolo di figlio mansueto e obbediente. Don Diego, tuttavia, non muore. Al termine della sua con-
valescenza, un’ulteriore tensione con Mauro Salvo provoca un nuovo intervento di Coppa, figura protettiva e quasi padre sostitutivo di Pepè. L'avvocato si reca a casa Alcozér in tempo per assistere a una scenata di Stellina. Dopo averne ascoltato le rimostranze, prontamente ne assume la difesa, contro il padre. Si
appella così alla legge, profilando l’opportunità e il diritto di sciogliere il matrimonio imposto con la forza: «La legge non ammette padri che fan sevizie alle figlie, per costringerle a sposare contro la loro volontà e la loro inclinazione»!2, Il Coppa, già lo si capisce da questo primo scambio di battute, si innamora di Stellina, senza che Pepè minimamente se ne accorga. Ne deriva che alla frustrazione della famiglia Ravì, dopo l’annulla-
mento del matrimonio, si/aggiunga, dopo il matrimonio tra Ciro e Stellina, la drammatica disillusione di Pepé. La sconfitta
bruciante lo spinge ora all’amicizia con Diego. È proprio questi infatti a ridimensionare il suo dolore, scherzandoci sopra e
«sogghignando sotto il naso»: «Scusate se rido, don Pepè! Nella vita c'è da piangere e c’è da ridere. Ma io sono vecchio e non ho più tempo di fare tutt’e due le cose. Preferisco ridere. Del resto, piangete voi per me...»!3. Il marito rifiutato rivela allora di esser stato sempre ben conscio della trama intessuta a suo danno dal Rav, e di essersene sempre intimamente compiaciuto, perché convinto che il modo migliore per allungare la vita a qualcuno sia desiderarne la morte. Ora, pur consapevole della propria ridicolaggine, egli medita un sesto matrimonio, anche 11 TRI, p.261.
12TRI,p.275.
13TRI, p.297.
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perché, odiando la vecchiaia, vuole lasciare i suoi beni a una giovane: con questo mio disegno favorisco la gioventù... Voi pensate forse che farei ridere il paese, se sposassi per la sesta volta? Ebbene, si ride tanto poco oggi nella vita che mi guadagnerei presso la gente quest'altro titolo di benemerenza!4.
Intanto, la nuova vita coniugale di Stellina è funestata dal risorgere della morbosa gelosia del secondo marito, avamposto dell’esplosione di follia che lo coglierà di lì a poco. La tragicomica ambascia aumenta quando questi assume Pepè alle proprie dipendenze, per cercare di tenere a freno le proprie proiezioni ossessive, ora rivolte al passato di Stellina che, nel
frattempo, in seguito alle sue angherie affettive, ha perso un bambino. Finché un giorno, dopo aver inviato egli stesso il cognato dalla moglie, per mettere alla prova la propria irrazionale gelosia, durante un’arringa in tribunale è colto da un accesso di insania e, subito dopo, mortalmente, da apoples-
sia. Nell’ultimo brevissimo paragrafo, Stellina, Pepè e Marcantonio assistono alla sua veglia funebre, insieme ai suoi due figli. Al doloroso stupore della moglie e del cognato, attoniti e quasi invecchiati di colpo di fronte all’inattesa morte, si accompagna l'amara battuta conclusiva del padre: Questo che pareva un leone, eccolo qua, morto! E quel vecchiaccio, sano e pieno di vita! Domani l’altro sposa Tina Mèndola, la tua cara amica... Don Pepè, dopo tutto..!5. Il romanzo si conclude, dunque, proprio come nell’Esclusa,
con un finale aperto e una sospensione dell’azione nell’ultima inquadratura intorno a un feretro. III L'interpretazione
Anche se può non apparire evidente a prima vista, il tema centrale del Turzo è certamente l’antagonismo tra le genera-
14 TRI, p.306. 5TRI, p.314.
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zioni. La rappresentazione pirandelliana si regge sempre sul contrasto tra l’inettitudine dei giovani e l’autoritarismo spesso irrazionale degli anziani. Si tratta di una prospettiva che ha una matrice storica: deriva infatti dalla delusione per il fallimento degli ideali romantico-risorgimentali che aveva riguardato la generazione nata dopo l’Unità d’Italia. Sarà questa la direzione in cui il tema del conflitto sarà ripreso ne I vecchi e è giovani, con una più marcata accentuazione dello sfondo storico-politico, piuttosto che di quello psicologico e sociologico, legato alla critica dell’istituzione familiare borghese. Rispetto a quanto accadeva nell’Esclusa, la contrapposizione tra vecchi e giovani assume nel Turro una tonalità più comica e meno drammatica, laddove i secondi sono rappresentati come figure del tutto sottoposte all’autorità dei primi. Quando il campo dello scontro si apre davvero, per profilare il possibile conseguimento di una loro vittoria — quando, cioè, sembra arrivare il loro turno — è sempre troppo tardi: i giovani appaiono invecchiati. La tensione è riscontrabile soprattutto nelle relazioni tra le figure maschili, peraltro dominanti sulla scena narrativa. Queste sono strutturate a contrappunto, su un doppio livello di schieramenti antagonistici: da un lato i vecchi, tutte figure autoritarie e a loro volta in opposizione reciproca; dall’altro i giovani, in conflitto con ivecchi e al tempo stesso tra di loro, come mostrano i duelli e le competizioni, soprattutto tra Pepè Alletto e Mauro Salvo. Le figure gerontocratiche, del resto, sono anch’esse costruite secondo una ti-
pizzazione chiaroscurale, cioè in antitesi, anche se i tipi speculari di fatto si incrociano alla fine in una sorta di strutturale coincidentia oppositorum: da un lato il pratico e semplice don Marcantonio, dotato di paradossale buon senso e dedito totalmente alla famiglia, parodia del borghese faccendiere e traffichino. Dall'altro, l’algido don Diego, ex seduttore, cava-
liere, spadaccino, ballerino («tra i più irresistibili conquistatori di dame in crinolino del tempo di Ferdinando II re delle Due Sicilie») e sofisticato cultore di lettere classiche, parodia dell’aristocratico decaduto. Tutt'e due hanno elaborato una filosofia esistenziale di tipo edonistico, fondata in entrambi i casi, pur con le debite differenze e ascendenze di classe socia-
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le, sulla ricerca dell’utile e del piacere. Don Marcantonio pensa al futuro benessere economico e sentimentale della figlia, raggiungibile dopo il «piccolo sacrificio» del matrimonio con lAlcozér. Quest'ultimo ha desunto da un vero e proprio culto personale del poeta latino Orazio «le norme epicuree»!6 che lo hanno spinto a godere tutta la vita e a voler continuare a godere, comportandosi fino all’ultimo come un giovane. Nella struttura contrappuntistica rientrano anche le due figure che invertono la simmetria, uniche eccezioni nella scala graduata degli opposti: Ciro Coppa e sua moglie Filomena. Entrambi, infatti, pur essendo giovani, hanno personalità che potrebbero essere definite senili, stando all’ordine dei valori del rac-
conto, in quanto le loro principali qualità distintive — l’autoritarismo e la capacità di dominio per il primo, l’indole totalmente remissiva per la seconda — sono anacronistiche nella loro generazione e sarebbero state invece naturali nei giovani della precedente, attuali vecchi. Proprio per il loro anacronismo, i coniugi Coppa sono destinati a uscire drammaticamen-
te di scena. Filomena muore perché la sua passività di fronte al marito l’ha fatta consumare interiormente e ammalare senza poter ricevere le adeguate cure. Ciro ammattisce e poi muore perché non riesce a governare la propria natura imperiosa, che lo spinge autodistruttivamente a controllare persino il proprio comportamento. Il carattere eccessivo, esasperato, follemente passionale di Coppa è delineato come tale fin dal ritratto che introduce il suo ingresso in scena: tozzo, il petto e le spalle poderosi, enormi, per cui pareva anche più basso di statura, il collo taurino, il volto bruno e fiero, contornato da una corta barba riccia, folta e nerissima, la fronte resa ampia dalla calvizie incipiente, gli occhi grandi, neri,
pieni di fuoco, passeggiava per il suo studio d’avvocato con una mano in tasca, nell’altra un frustino che batteva nervosa-
mente su gli stivali da caccia!7.
Si tratta di un descrizione che sembra mutuata in blocco dai celebri studi di Lombroso sulla fisiognomica dei delinquen16TRI, p.217.
17 TRI, p.228
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til8, le cui fisionomie marcate, accompagnate a un sovraecci-
tato gesticolare, sono sempre il sintomo di un’alterazione psichica. Ciò è vero anche se, come ha sostenuto Giacomo De-
benedetti, quando agli inizi del Novecento entrò in crisi la scienza positivistica, cadendo la fiducia nella possibilità di fondare una fisiognomica scientifica, la letteratura d’avanguardia, e segnatamente Pirandello, si orientarono verso l’esasperazione delle anomalie, con l’intento di «mostrare ai lettori come la deformazione investisse molte più figure che in passato, forse in seguito a quella tensione psichica che si stava
impadronendo della civiltà del nuovo secolo»!9. Pirandello, infatti, conosceva forse anche già negli anni Novanta, ma cer-
tamente nel 1900, quando lo cita nel saggio Scienza e critica estetica, l'importante studio di Alfred Binet sulle alterazioni
della personalità (Les a/térations de la personnalité, uscito nel 1892), nel quale si sostiene il principio della scomposizione della coscienza individuale in stadi temporali separati e finanche scindibili. L'interesse per gli studi teorici e scientifici sulla coscienza accompagna tutta l’elaborazione saggistica degli anni Novanta. Sullo scorcio di fine secolo, a questi si aggiunge uno specifico interesse per le psicopatologie, dovuto forse anche al manifestarsi della malattia mentale della moglie. Anche le donne anziane del romanzo, pur nella sostanziale accettazione del ruolo subalterno alle autorità maschili, sono costruite come modelli contrapposti: da un lato c’è la madre di Stellina, la «si-donna» Rosa (il prefisso rafforzativo sortisce l’effetto, non si sa se calcolato o casuale, di rimarcare comicamente il suo costante atteggiamento remissivo), spen-
ta e scialba «nella gravezza della sua gialla carne inerte», totalmente asservita al marito, indifferente alla figlia, incapace di assumere qualsiasi posizione, per cui «lasciava dire e lasciava fare»2!, facendosi costantemente il segno della croce. Dal18 Il riferimento è in particolare al celeberrimo: L'uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale e alle discipline carcerarie (1876). 19 Lucia Rodler, I/ corpo specchio dell'anima. Teoria e storia della fisiognomica, Mondadori, Milano, 2000, p. 140.
20TRI, p.216.
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l’altro donna Bettina, madre di Pepè, maniacalmente attiva
nelle pulizie domestiche, indifferente alla memoria del marito e totalmente dedita al figlio, su cui riversa un amore quasi incestuoso («voleva perfino che si coricasse ancora, come da ragazzo, nella stessa camera con lei»22). Perla verità, Bettina è
l’unico personaggio femminile dotato di una qualche forza vitale che possa far pensare a un pur blando riferimento‘al tema dell’emancipazione femminile nel contesto socio-culturale ottocentesco. La donna reca ancora i segni dell’antica bellezza, che «tante fiamme aveva destate nella gioventù mascolina dei suoi tempi»?3. Di lei s'era allora perdutamente invaghito anche Diego Alcozér. Dopo il matrimonio tormentato con lo scapestrato padre di Pepè, ormai morto da tempo e del tutto perdonato, nonostante la totale miseria in cui questi l’aveva lasciata, restano evidenti in Bettina le tracce dell’antica fierez-
za, derivante anche dalle origini nobiliari. Determinata fino all’intransigenza nella rottura dei rapporti con Ciro Coppa, per il modo in cui egli opprime e segrega sua figlia, è in realtà in conflitto con quest’ultima perché non ne accetta la remissività. Il sogno emblematico in cui la signora Alletto accetta di offrirsi in moglie a Diego Alcozér in cambio di Stellina, pur nella sua brevità, è in effetti un punto chiave del racconto, nel
quale confluiscono molte istanze contraddittorie. Se da un lato il sogno conferma il possessivo amore materno della donna, dall’altro ne rivela la non sopita vitalità erotica. Al tempo stesso, esso ha lo scopo di introdurre un elemento riequilibratore, di fronte a tanta dilagante «pazzia» senile. Nel sogno, Bettina scoppia a ridere di fronte a una dichiarazione d’amore di don Diego e lui, ferito da quel riso, le propone un baratto come ammenda: avrebbe ceduto la moglie troppo giovane a Pepè e avrebbe preso lei al suo posto, ripristinando l’equilibrio generazionale («Unione di due vecchi che pensano alla pace, unione di due giovani che ardono d’amore»?4).
21TRI, p.219. 22 TRI, p.239.
23 TRI, p.238. 24TRI, p.266.
Le giovani figure femminili del romanzo si contrappongono, come quelle maschili, alle anziane. Filomena è in opposizione a Bettina come Stellina lo è alla si-donna Rosa, sia sot-
to il profilo del conflitto d'autorità tra madri e figlie, sia sotto quello della sensualità. La figlia di Bettina è una donna eroticamente consunta e spenta, perché malata e perché repressa dal marito. Stellina, al contrario, è avvenente e compiacente,
a differenza della propria pingue e bigotta madre. Fra le due, diversamente da quanto accade nel sistema dei personaggi maschili, non vi è conflitto, ma sovrapposizione, dal momento che esse non si conoscono neppure e che si alternano nel ruolo di mogli di Ciro. Entrambe sono figure stilizzate. Anche Stellina, pur tendenzialmente indocile e capricciosa, è,
come Filomena, un personaggio debole e passivo. Non la vediamo mai davvero innamorata, né mai coerentemente ribelle
fino all’ultimo. La sua lotta contro l’autorità paterna viene condotta appoggiandosi su un’altra autorità maschile capace di proteggerla. Sotto questo profilo, Stellina è l'equivalente di Pepè. La sua inettitudine, quindi, è molto diversa da quella di Filomena, perché deriva dal caso e dagli eventi: non da una sostanziale senilità psicologica. La prima moglie di Coppa è fin dall’inizio presentata come una «giovane vecchia», maso-
chisticamente compiaciuta del proprio ruolo di vittima sacrificale del sadico marito: Pareva già vecchia a trentaquattro anni. (...) Non si crucciava
più nemmeno in cuore della sorte tristissima che le era toccata, nascendo. L’amarezza di una totale remissione le si leggeva ormai negli occhi silenziosi, costantemente assorti in una pena ignota, indefinita?. In Stellina, invece, non c’è traccia di masochismo, ma semmai,
come in Pepè, di narcisismo. Il racconto, tuttavia, ce la presenta in evoluzione rispetto alla rappresentazione iniziale. La sua fenomenologia va da una massimo di leggerezza a un massimo di cupezza. A questo proposito, è indispensabile sottolineare che, come Marta Ajala, anche lei ha rischiato a un certo
25TRI, p.232. 50
punto di morire in seguito a un aborto. L’evento luttuoso, seguito dall’improvvisa morte del marito, segna un marcato passaggio evolutivo nel personaggio che, al termine della propria tormentata maturazione, ha perso definitivamente il carattere frivolo che le si rintracciava all’inizio. Sia Pepè che Stellina, insomma, subiscono una trasformazione in seguito
agli eventi, ed entrambi smorzano il proprio narcisismo iniziale sia per l'insorgere di sentimenti profondi e devastanti — la sofferenza amorosa per Pepè, la mancata maternità e le frustrazioni coniugali per Stellina —, sia per una consapevolezza tragica della vita, immediatamente visibile nella perdita di allegrezza e giocosità. Per avvicendarsi nel turno della vita, sembra dunque necessario perdere le aspettative ingenue e piacevoli della gioventù. Paradossalmente, la filosofia edonistica degli anziani viene sconfessata dall’esperienza dei giovani. E al momento del turno di Pepè e Stellina, la nuova presa di coscienza della vita, segnata dall’esperienza della follia, dell’insensatezza del caso e della morte, interdice definitivamen-
tela comunicazione anche oculare tra i due. Il romanzo si conclude infatti con la rappresentazione della donna che piange a occhi bassi, incapace di guardare l’uomo: «Stellina, però, que-
sta volta, piangeva con la faccia nascosta nel fazzoletto; e il suo pianto irritava don Marcantonio, scuro e taciturno, e avviliva Pepè». Questi, a sua volta: «Con lo sguardo dolorosamente fisso su Stellina, aspettava, aspettava, che ella levasse gli occhi dal fazzoletto e lo vedesse così e comprendesse»26. Oltre allo scontro generazionale, alla morte, al riso e alla pazzia, anche il tema dell’onestà sessuale è centrale nel Turr0,
come già nell’Esclusa. Il padre di Stellina, infatti, vigila strenuamente sulla fedeltà della figlia al primo marito, control. lando Pepè, benché non sia mai chiaro se il matrimonio sia stato consumato o meno. E val la pena di notare che all’interdizione delle pratiche sessuali al di fuori del matrimonio si accompagna, anche nel Turno, come nell’Esclusa, la metafora
ossessiva della segregazione, qui riservata solo ed esclusivamente ai personaggi femminili. C’è un esempio di autosegre26 TRI, p.315.
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gazione, diversa da quella del padre di Marta Ajala, e un esempio di reclusione passiva. Entrambi hanno come causa nascosta la sessualità: Stellina si rinchiude in camera per protestare contro il padre, che le vuole impedire una normale iniziazione sessuale; Filomena si lascia rinchiudere dal morboso
marito, geloso finanche dello sguardo di altri uomini. Anche il motivo bozzettistico e popolaresco delle corna,
come accadeva nel primo romanzo, trova nel secondo un’adeguata e veramente amena collocazione. Al riguardo, è soprattutto da citare la squisita disquisizione di don Diego che, dopo aver tentato di indagare se Pepè abbia avuto rapporti intimi con Stellina mentre era ancora sua moglie, di fronte alle reiterate autodifese del fedele pretendente, che gli dà del pazzo, saggiamente argomenta:
Son filosofo, don Pepè! Cinque mogli, capite! E figuratevi perciò che selva sulla mia testa. Certe sere, mentre voi ve ne state a pensare e a sospirare, di là, sul balconcino, ci ripenso, e me le sento crescere, crescere sù, sù fino al cielo... crescere, crescere... Mi pare che, a muover la testa, debba con le cime di-
sturbare il sistema planetario... Mi serviranno di scala, di qui a cent'anni, quando creperò. Come uno scojattolo, l’anima mia s’'arrampicherà sù per i palchi di queste smisurate corna, fino al Paradiso, mentre tutte le campane della Terra soneranno a
gloria...27.
Come si è più volte anticipato, per interpretare I/ turno è stato spesso ritenuto essenziale il riferimento alla poetica dell'umorismo. Al tempo stesso, però, il romanzo non è definibile
umoristico in senso pieno e completo. Da un canto è vero che lo stesso tema del giovanilismo dei vecchi, condensato soprattutto nella figura di Diego Alcozér, sembrerebbe, paradossalmente, derivare dal saggio del 1908 e, in particolare, dalla nozione di «sentimento del contrario». Per comprovarlo, ci si può riferire all'immagine diventata quasi la sua icona esemplificativa, pur essendo stata inserita solo nella seconda edizione,
che risale addirittura al 1920: il celebre esempio dell’anziana 27 TRI, pp.304-305.
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signora il cui trucco eccessivo provoca in prima battuta la comicità dell’«avvertimento del contrario», per eleversi a un grado superiore di consapevolezza solo dopo una riflessione sulle motivazioni soggettive che alludono, in ultima analisi, alla drammaticità del vivere28, Da un altro canto, però, a parte il dato oggettivo della cronologia, valido anche per L’esclusa (il fatto, cioè, che la stesura del Turzzo preceda di molti anni l’ela-
borazione del saggio), è proprio la mancanza di profondità psicologica dei personaggi a contraddire la presenza di una prospettiva umoristica, specie dopo un confronto con la costruzione del Fu Mattia Pascal, anch'esso pubblicato prima del saggio in questione. Inoltre, il rapporto stretto con il contesto veristico e la permenenza di un impianto romanzesco ancora tradizionale, fondato sul narratore extradiegetico e onnisciente, limitano lo spazio dedicato all’introspezione psicologica, premessa essenziale per l'evoluzione umoristica dei personaggi. Senza condividere il giudizio di «un’assoluta mancanza di partecipazione emotiva da parte del narratore»?9, è vero però che il motivo conduttore delle beffe del caso, sia nel Turzo che
nelle novelle coeve, poi raccolte nel volume Beffe della morte e della vita, predomina nettamente sulla pur presente prospettiva della malinconica e soggettivistica riflessione esistenziale teorizzata nell’Urzoriszzo. E tuttavia fondamentale collegare questa scarsa profondità dei personaggi a un’altra chiave di lettura, solitamente meno evidenziata, e cioè al legame stretto
tra la scrittura narrativa e quella teatrale. Come si è visto dalla sintesi della trama, veramente fitta di colpi di scena, l’azione è
serrata e il testo si regge soprattutto sui dialoghi. Rispetto al primo romanzo, si profila ora più nettamente l’inclinazione verso la scrittura di copioni, implicita sia nell’impianto strutturale del racconto che nella tratteggiatura dei personaggi. D'altronde, Pirandello aveva già cominciato a cimentarsi con il teatro, elaborando nello stesso arco di tempo i suoi primi atti unici. 28 Pirandello, L’umzorismo, Mondadori, Milano, 1986, p. 135. L'esem-
pio della vecchia signora troppo truccata venne inserito nell’edizione «aumentata», uscita presso l'editore Battistelli di Firenze nel 1920. 29 Luperini, Pirandello, cit., p.37.
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Lasciando da parte l’interpretazione, per passare alla valutazione, Il turzo va collocato ancora nel noviziato giovanile
di Pirandello39. Racconto d’ambiente e di costume assai più dell’ Esclusa, Il turno è certo più bozzettistico, anche se non per questo necessariamente costituisce rispetto a quello, come è stato scritto, «un passo indietro»3!. Gioca a favore della
valorizzazione del romanzo un aspetto su cui vale la pena di concentrare l’attenzione: la maggiore consapevolezza espressionistica della scrittura, che tende a tratti a una concentrazione deformante, rintracciabile solo sporadicamente nell’E-
sclusa. Molti particolari, apparentemente di dettaglio, presentano un accentuato e quasi parossistico simbolismo. Un
esempio per tutti: la cassapanca stretta come una bara che conserva la napoleona di Diego Alcozér. Altro elemento da sottolineare è che la parodia dei fopoi narrativi derivanti dalla letteratura rusticana e appendicistica, come il duello, è assai più efficace, essendo quasi intonata in falsetto. Il patetismo tardoromantico ancora circolante nell’ Esclusa qui è del tutto assente perché del tutto liberato in una sciolta ed efficace comicità. Certo, le ambizioni letterarie del Turzo sono visibilmente assai meno elevate. Forse proprio per questo, però, il
romanzo appare più omogeneo e coeso del precedente.
30 La definizione di noviziato è gia in un titolo di Luigi Russo (I/ roviziato letterario di Pirandello, 1946, poi in Ritratti e disegni storici, Laterza,
1953, quarto volume), viene poi ripresa e argomentata, fra gli altri, anche da Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, cit., pp. 19-29. 31 Luperini, Pirandello, cit., p.35.
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Ilfu Mattia Pascal
I. La redazione
Composto, a quanto pare, in pochi mesi, I/ fu Mattia Pascal'uscì nel 1904, prima a puntate, tra il 16 aprile e il 16 giugno, sulla prestigiosa rivista «Nuova Antologia», e poi, nello stesso anno, in un estratto della stessa rivista!. Il quindicinale romano di critica e di letteratura aveva pubblicato molte opere importanti, fra cui, sedici anni prima, il Mastro-don Ge-
sualdo di Verga. L’anno in cui Pirandello aveva iniziato la stesura del romanzo, il 1903, era stato segnato da un tragico evento biografico, che avrebbe avuto grande rilevanza anche per l’influenza sull’attività letteraria. Si era manifestata in modo conclamato l’irreversibile malattia psichica della moglie, che l'avrebbe portata, nel 1919, dopo un quindicennio di alterni ricoveri in strutture psichiatriche, al definitivo internamento e
allontanamento dalla famiglia. Maria Antonietta, psicolabile ed emotivamente fragile, non aveva retto alla notizia dell’allagamento della zolfara di Aragona, vicino Girgenti, nella quale il padre di Pirandello aveva investito anche la sua dote. L'improvvisa perdita del capitale e l'incertezza per il futuro sostentamento avevano provocato in lei un forte trauma, origine di manifestazioni psicosomatiche, come la paralisi alle gambe, e di disturbi paranoidi, fra i quali un’eccessiva e immotivata gelosia nei confronti del marito e, qualche anno più tardi, della figlia. È chiaro che il dramma familiare, come del resto è stato
ampiamente messo in luce da quasi tutti gli studiosi, abbia ! L’autografo del Fu Mattia Pascal, che contiene alcune varianti rispetto alla prima edizione a stampa, è conservato presso la biblioteca Houghton dell’Università di Harvard.
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condizionato l’idea compositiva e la prima redazione del Fu Mattia Pascal. Da più parti è stato infatti evidenziato il profilo di un’evidente proiezione autobiografica, laddove il cambiamento di nome e di stato anagrafico di Mattia è la conseguenza della fuga da un deprimente contesto domestico: la stessa desiderata, forse inconsciamente, anche da Pirandello, co-
stretto ad assistere la moglie paralizzata in un clima quotidiano di squilibrio, di delirio e di persecuzione?. D'altra parte, oltre alla malattia della coniuge, anche la perdita di una sicura base finanziaria segna un cambiamento nell’attività creativa dello scrittore, che da ora in poi ha necessità di redditi da lavoro. Si potrebbe dire che solo a questo punto della sua vita egli, ora vicino alla quarantina, entri definitivamente nel mer-
cato delle lettere, costretto a un costante impegno professionale non più disinteressato, ma vincolato alla prospettiva degli introiti, d’altronde in linea con una tendenza generale che aveva riguardato molti altri letterati italiani all’inizio del secolo. Questa è probabilmente la ragione per cui il romanzo venne ceduto alla «Nuova antologia», che pagava profumatamente i collaboratori. La mutata condizione economica, che
spinge Pirandello da un canto a un’ansia di iperproduzione e dall’altro al rimaneggiamento e al riuso dei testi pubblicati, viene vissuta, almeno in un primo tempo, come un frustrante
abbassamento di ceto sociale. Un secondo riflesso autobiografico, legato a questo aspetto, può essere identificato nella febbre del gioco e nell’ingente vincita alla roulette del protagonista bibliotecario, che proprio grazie all’improvvisa ricchezza pensa per la prima volta al liberatorio cambiamento della propria vita. 2 Un chiaro riflesso di questo clima coniugale si può cogliere nelle seguenti affermazioni di Mattia Pascal, a proposito della convivenza con sua moglie: «Non solo non si curava più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per riuscirmi incresciosa, rimanendo spettinata tutto il giorno, senza busto, in ciabatte, e con le vesti che le cascavano da tutte le parti. Riteneva
forse che, per un marito come me, non valesse più la pena di farsi bella? Del resto, dopo il grave rischio corso nel parto, non s'era più ben rimessa in salute. Quanto all’animo, di giorno in giorno s'era fatta più aspra, non solo contro me, ma contro tutti», TRI, pp.387-388.
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I fu Mattia Pascal è il capolavoro della prima fase produttiva di Pirandello, ed è anche il primo romanzo che ebbe un consenso immediato di pubblico, sia in Italia che all’estero. Tra l’altro, ne fu approntata quasi subito una traduzione tedesca, che fece balzare l’autore per la prima volta alla notorietà internazionale. Ne deriva che la sua storia editoriale sia più ricca di quella dei due precedenti, e tuttavia più concentrata nel tempo: tra le quattro edizioni intercorrono infatti solo diciassette anni, invece dei trenta che erano trascorsi tra
quelle dei primi due. La seconda, di poco ritoccata rispetto alla prima, esce nel 1910 per i tipi Treves, in due volumi. La terza, riveduta e corretta, caratterizzata da interventi più massicci che saranno conservati nella redazione finale, è del 1918,
presso lo stesso editore. Quella definitiva esce nel 1921, presso Bemporad. Tutte le ristampe successive? si attestano su quest’ultima che, oltre a un ritratto-introduzione, contiene in appendice un'importante nota di accompagnamento, intito-
lata Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Il breve articolo, già pubblicato sul quotidiano «L’Idea nazionale», il 22 giugno 1921, con il titolo Gl scrupoli della fantasia, diventa parte integrante delle riproduzioni, fino alle edizioni odierne. Si tratta di uno dei più importanti interventi polemici e difensivi di Pirandello nel dibattito sulla ricezione, in risposta alle svariate critiche di «inverosimiglianza», «paradossalità» e «disumana cerebralità» mosse al romanzo. L'autore fonda la propria autodifesa sulla menzione di un caso di cronaca italiana, riportato dal «Corriere della sera» del 27 marzo 1920, sor-
prendentemente simile a quello di Mattia: l’elettricista Ambrogio Casati, identificato in un cadavere sfigurato dalla moglie Maria Tedeschi mentre stava scontando una pena carceraria, uscito di prigione, si vede certificare dall’anagrafe la propria morte. Dopo aver scoperto che la moglie ha sposato un altro uomo, Luigi Majoli, con un senso di liberazione si reca
al cimitero per depositare fiori sulla propria tomba. Pirandello 3 Segnaliamo le date principali: 1923, 1927, 1928. Nel 1932 la quarta ristampa è a cura dell’editore Mondadori, presso cui escono anche le successive del 1933 e 1935. Anche quelle uscite dopo la morte dell’autore, fino alle più recenti, sono riproduzioni dell’edizione Bemporad del 1921.
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cita anche un secondo episodio di cronaca nera, questa volta
americana, riportato dai giornali di New York: il signor Alberto Heintz, diviso tra l’amore per una giovane e il legame con la moglie, dà convegno a entrambe per prendere una decisione definitiva. I tre meditano di uccidersi, ma poi lo fa solo la moglie, e gli amanti vengono arrestati. Il commento dello scrittore è che, se un simile «volgarissimo fatto» fosse assunto
come fabula di una commedia, contro di essa si solleverebbero le accuse menzionate sopra, e nessun critico penserebbe mai a un prestito dalla realtà. Ne discende che solo la vita ab-
bia «l’inestimabile privilegio di potere fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire», in quanto le sue assurdità «non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere». Nell’arte, invece, le in-
concludenti stranezze della vita, «per parer vere, hanno bisogno d’essere verosimili. E allora, verosimili, non sono più as-
surdità»4. L'autore ritorna su questo nodo del discorso al termine del saggio, dopo aver commentato lo strano caso dell’elettricista Ambrogio Casati. La conclusione è un piccolo gioiello di retorica: La vita, intanto, col suo beatissimo dispregio d’ogni verosimiglianza, poté trovare un prete e un sindaco che unirono in matrimonio il signor Majoli e la signora Tedeschi senza curarsi di conoscere un dato di fatto, di cui pur forse era facilissimo aver notizia, che cioè il marito signor Casati si trovava in carcere e non sottoterra. La fantasia si sarebbe fatta scrupolo, certa-
mente, di passar sopra a un tal dato di fatto; e ora gode, ripensando alla taccia di inverosimiglianza che anche allora le fu data, di far conoscere di quali reali inverosimiglianze sia capace la vita, anche nei romanzi che, senza saperlo, essa copia dal-
l’arte.
L'explicit conferma il carattere militante della nota, che in questo caso fonda la difesa delle poetica umoristica su una paradossale perorazione a favore del realismo. Se le accuse
4TRI, p.580. 5 TRI, p. 586. 58
dei critici illuminano il provincialismo del contesto letterario nazionale, attardato rispetto al quadro europeo d’inizio secolo, anche la risposta di Pirandello esibisce una radice ottocentesca, addirittura romantica, oltre che verista. Basta pensare
ai punti salienti del dibattito sul romanzo storico e alle disquisizioni manzoniane sul vero storiografico e sul verosimile letterario. Nonostante l’affrancamento dello scrittore sia pieno e completo, quell’orizzonte resta pur sempre il termine cui confrontare il suo approdo conclusivo. Solo I/ fu Mattia Pascal, del resto, appare del tutto sfrondato dai retaggi della cultura giovanile, nell’ambito della prima fase produttiva. I due successivi, Suo marito e I vecchi e i giovani, torneranno a
gravitare sull’orbita del còté realistico e d'ambiente, con il ripristino parziale della voce narrante extradiegetica. La ritornante attrazione per l'impianto realistico si spiega con il fatto che quel modello è ritenuto dallo scrittore, oltre che valido,
addirittura classico. Ad esso egli tende, con l’obiettivo costante di innestarvi e sovrapporvi gli originali apporti teorici maturati. L’argomentazione difensiva dell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia prova proprio la persistenza di un soggiacente desiderio di continuità, contraddittoriamente convivente con la tensione opposta verso l’azzeramento di una tradizione sentita come anacronistica e insufficiente. Un critico illustre come Giovanni Macchia ha ritenuto «autolimitativo» il ragionamento esposto nella postilla difensiva, chiedendosi, alla luce della propria definizione del Fu Mattia Pascal come «farsa trascendentale, retta sull’assurdo», se sia «da vedere in
quella precisazione una prova del suo esasperante ossequio alla cronaca, al fazt divers, o una sfida alla realtà che imita l’arte»6. La risposta da ipotizzare è proprio questa: che la ratio dell’argomentazione sia ereditata dal dibattito ottocentesco sul realismo?. Il diritto di liberarsi dagli scrupoli di aderenza al vero viene difeso da Pirandello sulla scorta di una proble-
6TRI, p. XXIII ? Che coincide in buona misura con la storia del romanzo storico, studiata per la prima volta in prospettiva unitaria dal grande critico e teorico ungherese Gyòrgy Lukécs.
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matizzazione e di un’estensione della categoria di mimesi: è la realtà che appare assurda e incoerente, non l’arte. Ne discendono due conclusioni, reciprocamente non esclusive: la prima è che la taccia sia di per sé «balorda», data l'impossibilità di misurare il grado di approssimazione della finzione alla realtà. La seconda è ironicamente paradossale: l’inverosimiglianza può essere verosimile. II. L'opera
Il fu Mattia Pascal è articolato in diciotto brevi capitoli, dei quali l’ultimo dà il titolo al romanzo. Il primo e il secondo sono premesse in cui il protagonista si presenta e illustra,
adottando il discorso in prima persona, le motivazioni che l'hanno spinto a scrivere il racconto della propria vita. Una delle poche cose di cui poteva dirsi certo, prima dello svolgersi della vicenda, era il suo nome. E ne approfittava, ripetendo a tuttii conoscenti: «Io mi chiamo Mattia Pascal. Grazie caro, questo lo so. E ti par poco?». Non era molto, in verità, ma an-
che quel poco ora non è più assodato. Aver perso anche la certa appartenenza del proprio nome è un caso tanto «strano e diverso» da meritare di essere narrato. È evidente che dietro l’umoristico paradosso dell’inesistenza, il finto defunto, in verità, una propria identità l’abbia sempre avuta. Egli era stato «non so se più cacciatore di topi
che guardiano di libri» nella biblioteca Boccamazza, sita nell'immaginario paesino di Miragno, sulla riviera ligure. Qui è ora tornato, dopo le avventure occorsegli, per scrivere le sue memorie, che giaceranno in deposito cinquant'anni. Saranno dunque leggibili solo dopo la sua terza, ultima e definitiva morte. La Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa contiene l’ulteriore excusatio non petita di Mattia. L’idea iniziale gliel’aveva suggerita il reverendo Eligio Pellegrinotto, l’altro custode della biblioteca, a cui il protagonista affiderà in conse-
gna il manoscritto. I nomi dei personaggi, ben più di quanto accada nei romanzi precedenti, rispondono a un evidente
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gioco umoristico che spinge il lettore alla consapevolezza della finzione letteraria. In questo caso, Eligio allude al suo essere ligio alla tradizione, dato che il sacrestano suggerisce di adeguarsi ai modelli dei vari libri presenti nella biblioteca, perimitare il loro «particolare sapore». Quello del protagonista, come è stato ampiamente messo in luce, evoca il filosofo
esistenzialista Blaise Pascal e la pazzia8. Anche il nome umoristico della chiesetta di Santa Maria Liberale è eloquente, e si collega al doppio fondo allegorico che si ramifica nell'intero romanzo: Mattia scrive nella chiesa sconsacrata che ospita la biblioteca, rannicchiato nell’abside, «al lume che mi viene dalla lanterna lassù, dalla cupola», nella «babilonia» dei volu-
mi non catalogati, sparsi in una confusione «indescrivibile». Il testo sembra sollecitare il rimando a un senso nascosto: se la chiesa-biblioteca sta per la letteratura, non è un caso che il bibliotecario scriva nell’abside, illuminato dall’alto, come un
sacerdote che celebra la messa. La presenza di scenari sacri degradati, che alludono, ironicamente, a vari credo filosofici
e culturali, è del resto molto frequente in Pirandello (come vedremo soprattutto nei Vecchi e i giovani). Fiumi di pagine critiche sono state scritte, poi, sulla figura della lanterna come metafora euristica del relativismo pirandelliano. Tale immagine, qui citata da Mattia, si concretizzerà più avanti in quella
del lanternino, cui allude il titolo del tredicesimo capitolo. 8 Questo secondo significato è confermato all’interno del romanzo, quando, dopo il suo ritorno post mortem, Roberto esclama: «Mattia, l'ho
sempre detto io, Mattia, matto... Matto! matto! matto!» (TRI, p. 557). Il riferimento a Blaise Pascal, come ha notato Enzo Lauretta, è confermato da
una menzione del filosofo all’interno dell’ Urzoris0, dove è riportata la seguente, illuminante, citazione: «Non c’è uomo che differisca più da un al-
tro che da se stesso nella successione del tempo», affermazione che ben si attaglia al destino di Mattia (cfr. E. Lauretta, Core leggere il fu Mattia Pascal, Mursia, Milano, 1976, p. 90). L’altro riferimento, che non esclude il
precedente, confermando anzi la logica della duplicazione, è al nome di Théosophile Pascal, uno degli studiosi di teosofia presenti nella biblioteca di Anselmo Paleari. Per spiegare il nome del bibliotecario, non sono mancate altre ipotesi, meno convincenti: citiamo quella per cui il cognome alluderebbe per affinità fonica alla Pasqua e Mattia sarebbe, per il simbolismo della resurrezione, un doppio di Gesù.
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Per spiegare perché a suo avviso non sia opportuno scri-
vere, «neppure per ischerzo», Mattia illustra la sua filosofia, che dà il titolo al capitolo. Si tratta di un altro celeberrimo passaggio, dedicato alla spiegazione del motto «Maledetto sia Copernico!». Lo scopritore dell’eliocentrismo è colpevole di aver relativizzato le conoscenze umane. Alla protesta del reverendo, il quale obietta che la terra ha sempre girato, Mattia risponde che finché l’uomo non lo sapeva era come se essa non girasse. Dopo la fine dell’antropocentrismo, ogni certezzaè stata vanificata. Se prima il genere umano «faceva bella figura» nel mondo, e poteva appassionarsi, in nome del suo sicuro ruolo, alle storie minute e piene di oziosi particolari, (come dimostra la storiografia di Quintiliano), ora, invece, è pe-
rennemente annoiato, per la consapevolezza di trovarsi: su un’invisibile trottolina, cui fa da sferza un fil di sole, su un
granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a un destino?.
La scoperta della vastità dell’universo rende gli uomini simili a «abbrustoliti vermucci». Eligio non è d’accordo: difende la forza delle illusioni create «dalla provvida natura a fin di bene». E Mattia infine concede: esiste davvero una «distrazione provvidenziale» che li fa distogliere dalla paurosa coscienza del loro essere «atomi infinitesimali». In virtù di questa, egli si accinge a scrivere, tanto più considerando la propria condizione di essere umano già pienamente «fuori della vita».
La narrazione dello strano caso di Mattia può dunque cominciare. Seguiamone dettagliatamente l'andamento: i successivi tre capitoli contengono gli antefatti, dall’infanzia al momento immediatamente precedente il suo cambiamento di identità. All’inizio del terzo, intitolato La casa e la talpa, il
protagonista smentisce un’asserzione precedente, rivelando la propria sostanziale inaffidabilità, che sarà in seguito ampiamente riconfermata: non aveva conosciuto suo padre, scomparso quando egli aveva solo quattro anni e mezzo. L’uomo ERI, p.323.
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aveva lasciato un buon capitale alla famiglia, composta dalla moglie, da Mattia e dal fratello, maggiore di due anni, Roberto. La malignità dei compaesani insinuava che la sua ricchezza fosse stata guadagnata in modo illecito, al gioco. A Marsiglia, un capitano di un vaporetto inglese avrebbe perso tutto il suo denaro e un carico di zolfo, imbarcato «nella lon-
tana Sicilia» per conto di un commerciante di Liverpodl. Dopo la morte del padre, la situazione economica della famiglia peggiora rapidamente, perché la madre, mite e inetta, si affida alla gestione di un amministratore ladro. Il primo personaggio femminile che entra in scena, quello materno, è caratterizzato da un tratteggio prossimo alla stilizzazione: d’indole schiva e placidissima, aveva così scarsa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse di ridere, stringeva le labbra. (...) Come una cieca s’era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casal0,
Gracile e malferma di salute, la signora Pascal non si lamentava mai, accettando le sofferenze con rassegnazione, quasi fos-
sero i sintomi del dolore per la morte dell'amato coniuge. Morbosamente attaccata ai figli, cattolica praticante, la donna è rinchiusa nella «tana» cui allude il titolo del capitolo, a sua volta immagine di decadenza e consunzione, essendo per-
meata da «quel tanfo speciale delle cose antiche» prodotto dai molti oggetti inutili, rotti e abbandonati. Siamo già entrati, col primo squarcio nell’infanzia di Mattia, nel quadro d’ambiente in cui è facile riconoscere affinità tematiche e stilistiche con i primi romanzi. La madre passiva e dimessa sembra all’inizio quasi una macchietta. Ancor più di lei, per caratteristiche specularmente opposte, lo sembra il personaggio femminile che appare subito dopo, zia Scolastica. Si tratta di una «zitellona bisbetica, con un pajo d’occhi da furetto» e il temperamento nervoso, dalla facile ar-
10 TRI, p.327. 63
rabbiatura, che la faceva andare sempre di corsa e, nelle sue
agitate visite, le faceva urlare all'improvviso: «Senti il vuoto? La talpa! la talpa» (era il suo modo di chiamare l’amministratore). La terribile zia, volitiva e imperiosa, ce l’aveva a morte con Mattia, ed egli infatti ne aveva un’inguaribile paura. Avrebbe voluto far sposare alla sorella Gerolamo Pomino, anch’esso un personaggio all’inizio quasi stilizzato, che nel primo ritratto appare un «Omino lindo», che si incipria le guance, passandovi sopra un filo di rossetto, e si pettina i capelli «a farfalla»!!. Vedovo di una donna di cui era stato vittima quasi sacrificale, con un unico figlio, anch'egli di nome Gerolamo, che è amico intimo di Mattia, e che ha un ruolo importante per lo svolgersi delle vicende, è innamorato della vedova Pascal. Aveva aspirato un tempo alla mano di zia Scolastica, che non aveva mai voluto sapere né di lui né di nessun uomo, perché la sola ipotesi di un eventuale tradimento,
le avrebbe fatto «commettere un delitto». L'infanzia del bibliotecario è accompagnata dalla presenza di altri due importanti personaggi maschili, i cui ritratti sono entrambi grandiosi esempi di rappresentazione umoristica ed espressionistica. Il primo è l’educatore Francesco o Giovanni Del Cinque, detto Pinzone. Anch’egli, come Pomino, esempio di crisi della virilità, era «d’una magrezza che incuteva ribrezzo»: altissimo di statura, curvo, gobbo, con il
collo simile a quello di «un pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e giù». Manifestava un sottile sadismo represso, quando «si sforzava di tenere spesso tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente». Conosceva a perfezione, da vero erudito, «la poesia fidenziana, la macaronica, la burchiellesca
e la leporeambica, e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poeti perdigiorni»!2, come Giulio Cesare Croce e Stigliani, e componeva lui stesso poesie. L'altro, di cui si tratta più avanti, è Batta Malagna, «un ladro che più ladro non nascerà mai sulla faccia
TRI, p.329. 12 TRI, p.330.
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della terra»!3. Agendo come una «talpa», per distruggere la «tana» in cui è rinchiusa la vedova Pascal, si è appropriato di buona parte del patrimonio, coprendo l’entità delle ruberie fino alla sua morte, dopo la quale la miseria ha travolto solo Mattia, dato che Roberto si era sposato nel frattempo con una donna facoltosa. Mentre il fratello era elegante e di bell'aspetto, Mattia si descrive come un bambino brutto, oppresso dagli occhiali e da un occhio storto. A diciotto anni si fa crescere una lunga barba rossa per coprire il mento scivoloso. Al contrario di Berto, egli fa un pessimo matrimonio. Qualcosa ne dovrà forse pur narrare — domanda, interrompendo il flusso della narrazione, a don Eligio —, il quale gli consiglia di leggere qualche novella di Boccaccio o di Matteo Bandello per predisporsi alla giusta intonazione. Questo gioco di rimandi è parte della struttura metatestuale del romanzo: la trama procede su due o più piani, grazie ai quali si rinvia a un significato globale sull’atto dello scrivere e sull’identità della letteratura. La storia del poco onorevole matrimonio è contenuta nel quarto capitolo, intitolato Fu così. Entra ora in scena, con pri-
mo piano sulle sue macchinazioni, l’umoristica figura dell'amministratore. Dall’apparenza innocua e forse addirittura mansueta, che contrasta con la cupidigia e la sete di ladroneria, Batta Malagna viene introdotto dal seguente ritratto espressionistico: Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione, di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall’attaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l’imminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni!4.
Forse rubava perché si era sentito «tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare». La prima,
13 TRI, p.335. 14 TRI, p.335. 65
Guendalina, che era stata di lignaggio superiore, subito dopo il matrimonio si era ammalata di gravi disturbi alimentari da cui non riusciva a guarire, perché non poteva rinunciare ai
pasticcini al tartufo e al vino. Rimasto vedovo e senza figli, da anziano, si era risposato con una donna di ceto inferiore, la
giovane contadina Oliva, una ragazza sana, robusta, florida e allegra. Ma neppurelei era riuscita a dargli un figlio. Batta, allora, la offendeva e la malmenava, perché non sapeva a chi lasciare la propria consistente eredità. In un primo tempo, Mattia è infatuato proprio di Oliva, mala ragazza è incrollabile nella sua onestà. Egli, allora, se ne
distoglie, e comincia a corteggiare Romilda, la bella fanciulla di cui era innamorato l’amico Pomino, che l’aveva coinvolto
per sventare una «tresca» di Malagna. L'intrigo era il seguente: la madre della ragazza, la terribile vedova Pescatore, con lo scopo di far mantenere agiatamente la figlia, desiderava che l'amministratore, zio della ragazza, la compromettesse con una gravidanza. Mattia era stato subito colpito dalla bellezza della giovane, i cui occhi erano «d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni» e i capelli «neri come l’ebano, ondulati, che le
scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle»!5. Era nata ben presto una relazione che stava per concludersi in matrimonio, quando all’improvviso Mattia era stato esortato, per lettera, a non cercarla mai più. Lo stesso giorno la moglie di Malagna era venuta a visitare la signora Pascal, piangente, per comunica-
re di essere stata abbandonata dal marito. Il fidanzato respinto ne desume che il piano congegnato fin dall’inizio sia andato in porto e si sente uno strumento nella mani della vedova Pescatore. Per vendicarsi, suggerisce a Oliva di fare un figlio con lui. Il progetto funziona ma, dopo qualche tempo, Batta lo costringe furibondo a riparare, per aver disonorato la nipote. Infatti, ora che anche Oliva è incinta, egli non è disposto a prendersi cura di due bambini. Il maneggio di Marianna Dondi, vedova Pescatore, è fallito, e questa odierà
15 TRI, p.345. 66
per sempre Mattia. Il quale, pur riluttante, alla fine accetta di sposarsi. Nel capitolo successivo, intitolato Maturazione, per allusione all’imminente realizzazione del progetto di fuga!$, il quadretto della nuova vita domestica appare funestato dalle ire della rozza suocera e dalla difficile gravidanza di Romilda,
che giace «buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee, pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di
bene, senza più voglia neanche di parlare o d’aprir gli occhi»!7. La situazione peggiora quando, dopo la vendita delle ultime proprietà, resa necessaria dall'aumento dei debiti, anche la madre di Mattia deve andare a vivere alla Stìa. La vedova Pescatore è sempre sull’orlo di un’esplosione. E la tempesta scoppia dopo la visita della serva Margherita, che chiede alla signora di andare a vivere con lei. La Pascal non può certo accettare questa caritatevole proposta, derivante solo da compassione per il visibile disagio della sua antica padrona, di fronte alle angherie della consuocera. Ma quest’ultima, sentendone il rifiuto, le si avventa addosso con violenza. Il giorno dopo, zia Scolastica viene a prendere la sorella per portarla a vivere
con
sé. E, per l’occasione,
scaglia addosso
alla
Pescatore l’impasto di farina a cui quella lavorava, agitando rabbiosamente il mattarello. Al riso convulso di Mattia, la
madre di Romilda si rivolge contro di lui, lanciandogli l’impasto, tirandogli la barba, buttandosi a terra e strappandosi i vestiti, mentre la sposa, nella stanza a fianco, vomita. Da quel momento, Mattia trova: il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi in quell’istante attore di una commedia che più buffa non si poteva immaginare (...). Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo più che mai a guardare altrove, altrove per conto suo!8. 16 La spiegazione di questo titolo, in realtà, è ben più complessa, e rimanda a un’allusione antifratica al Trattato degli Arbori di Soderini, citato nel testo. Cfr. al riguardo Maria Antonietta Grignani, che l’ha definito «metafora lessicalizzata», in Retoriche pirandelliane, cit., p.56.
17 TRI, p.354. 18TRI, p.360.
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Ridotto alla fame, egli è ora costretto a cercare un lavoro. Quattro giorni dopo viene assunto presso la biblioteca Boccamazza, con uno stipendio di sessanta lire al mese. I primi giorni si aggira ancora il dipendente di cui Mattia ha preso il posto, il decrepito signor Romitelli, totalmente sordo e cieco, trasandato e senza denti, che, pur essendo stato messo a ripo-
so, vi si reca con la massima puntualità, ripetendo quotidianamente gli stessi gesti, leggendo a due dita di distanza dal libro, con un occhio solo, le stesse frasi di un insulso testo di storio-
grafia musicale del 1738. Intanto, Romilda dà alla luce due bambine: la prima muo-
re subito, la seconda dopo un anno, quando già il padre aveva cominciato ad affezionarlesi, dopo che si era fatta «tanto bellina e con i riccioli d’oro», che egli andava annodando intorno alle proprie dita. La figlia muore lo stesso giorno della madre di Mattia, dopo un lungo strazio. Lì per lì egli non sente niente e, per la stanchezza estrema, va a dormire. Ma, al risveglio,
prova un dolore rabbioso, che sembra quasi farlo impazzire. Roberto, il fratello edonista e «privo di cuore», che non partecipa al funerale, gli spedisce cinquecento lire per la doppia sepoltura, «come se avesse volute pagargli le lacrime». Questi soldi segnano l’inizio della vita nuova di Mattia. Il capitolo successivo comincia in rzedias res. Il titolo Tac tac tac... allude infatti al rumore della pallina che corre sul tavolo della roulette. Dopo l'ennesima lite familiare, il protagonista è finalmente fuggito, con il progetto di andare a Marsiglia e di imbarcarsi per l'America. Quasi per un’illuminazione, si è ritrovato invece al casinò di Nizza. Qui ha cominciato
presto a vincere, subito dopo i primi colpi sfortunati. In preda a un’euforia immotivata, quasi gli fossero suggeriti, indovina tutti inumeri vincenti, mentre una «lucida ebbrezza» gli dà l'illusione di poter battere la fortuna, prevedendo anche i suoi colpi avversi: Per qual misterioso suggerimento seguivo così infallibilmente la variabilità imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa divinazione nell’incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze, addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch’io cimenta-
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vo tutto, tutto, la vita fors’anche, in quei colpi ch’eran vere e proprie sfide alla sorte? No, no, io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, per cui domavo, affascinavo la fortuna, legavo al mio il suo capriccio!9.
Alla fine della serata, Mattia ha vinto undicimila lire, sot-
to gli occhi meravigliati e partecipi degli altri giocatori, che tentano più volte di avvicinarglisi per conoscerlo. Indeciso se restare o imbarcarsi lo stesso per l'America, sceglie infine di rischiare ancora. Si reca così per dodici giorni consecutivi al casinò. Per i primi nove vince, poi comincia a perdere. Si fer-
ma in tempo: non per saggezza, ma per il forte turbamento che gli provoca la vista del cadavere di un suicida. Si tratta di un giovinetto pallido, che egli aveva notato ai tavoli da gioco, intento a puntare senza neppure guardare la roulette. Ora giace riverso in mezzo al viale, rimpicciolito dalla postura rannicchiata, con la mano irrigidita nella posa del suo ultimo atto: la pressione del grilletto. Quando Mattia lascia Nizza, ha ottantaduemila lire di vincita in tasca. Potrebbe dirsi felice. Ma nell’explicit commenta: «Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno, dovesse accadere
anche a me qualcosa di simile»?0. E infatti, nel capitolo seguente, intitolato Cambio treno,
con doppia valenza, riferibile alla circostanza esteriore e a quella sostanziale del cambiamento di vita, Mattia apprende da un giornale, con sommo sconcerto, la notizia della propria morte. Per l'insonnia, ne aveva acquistata una copia in una stazione intermedia sulla via per Miragno. Le prime pagine ri-
portavano noiose notizie di politica internazionale. Nell’interno, invece, aveva richiamato la sua attenzione il titolo
Suicidio. Inizialmente egli crede che si tratti del giocatore di Nizza, ma a poco a pocola vista gli si annebbia: viene nominato il podere della Stìa, poi compaiono i nomi della moglie e della suocera, infine il suo. In preda a «un orgasmo», vorrebbe fermare il treno, urlare. Per un attimo vede il proprio cor-
19 TRI, pp. 282-283. 20TRI, p.388.
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po decomposto fluttuare nell’acqua verdastra del fiumiciattolo a lui così familiare, «in stato d’avanzata putrefazione,
puah!». Poi si riprende e ha come una seconda illuminazione: se tutti lo credono morto, allora può finalmente cambiare identità, è libero di fuggire. Il progetto lo fa ora sentire: «paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in
qual modo»2!. Ma deve prima accertarsi che la notizia non sia stata smentita. Riesce così a procurarsi il giornale di Miragno, «Il foglietto», e vi trova in terza pagina la propria retorica e lacrimevole necrologia, contenente persino una citazione dantesca dal quinto canto dell’Inferzo. Ancora una volta,
l'impressione iniziale è di panico e sconcerto. Subito, però, ritorna in lui la «ragione»: anzitutto non avrebbe potuto ridare la vita all’uomo defunto in sua vece. Inoltre, la moglie e la suocera si erano affrettate a riconoscerlo nel cadavere. Dunque erano contente della sua morte. Ne sarebbe stato ancor di più lui. E allora: «Una croce, e non se ne parli più!»?2, La nuova identità prende corpo nel capitolo successivo. Il fu Mattia Pascal si fa tagliare barba e baffi, rinnova l’abbigliamento, viaggia senza meta, verso destinazioni ignote. Due passeggeri parlano dell’imperatore Adriano, poi citano un tal Camillo de Meis. La cosa è fatta: da ora in poi si chiamerà Adriano Meis. Tutto gli sembra diverso: la campagna gli sorride. Si ricorda che ha al dito l'anello nuziale: prontamente lo «intomba» nel bagno delle donne. E passa a inventare la sua nuova memoria: sarebbe stato figlio di emigranti, sarebbe nato in viaggio, lungo il percorso della nave per l'America o l’Argentina. Schematizza le principali tappe della sua esistenza in un riassunto per punti, da non dimenticare. L’invenzione di una vita non vissuta gli provoca un’inconsulta ebbrezza: Adriano vive al presente anche il suo passato. Certo, egli sa bene che in essa c'è sempre una certa dose di verità. Niente — riflette — è inventato ex rovo, richiamando l’argomentazione dell’ Avvertenza sugli scrupoli della fantasia: «nes21 TRI, p.398.
22TRI, p.404.
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suna fantasia arriva a concepire certe follie, come inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal senso tumultuoso della vita»23. Nel capitolo successivo, intitolato Ur po’ di nebbia, lo ritroviamo però già stufo della solitudine, al rientro a Milano da un viaggo per varie città italiane e tedesche. Ora medita con amarezza sulla propria condizione di eterno foréstiero, che non può trovare collocazione nella vita e nel consorzio sociale. Aveva incontrato in trattoria un singolare commensale, Tito Lenzi, dalle idee originali e la raffinata cultura classica, che gli aveva detto: «La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe (...) se noi potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua natura aperta»?4. Quel cavaliere era molto solo, e mentiva spudoratamente, come
mostrava «la sua minuscola ridicola personcina», immaginandosi protagonista di incredibili avventure erotiche. Il fu Mattia era preso da «disgusto» perché mentre, a suo avviso, il conoscente non sembrava averne alcun bisogno, lui, invece,
si sentiva condannato alla finzione. Se ne era accorto quando gli aveva dato il suo biglietto da visita, constatando con costernazione che non avrebbe mai potuto ricambiare. Camminando per le caotiche strade di Milano, rumorose al nuovo «stordimento di macchine», Meis decide di reagire, si capacita che è necessario per lui «vincere ogni ritegno», prendere una soluzione e, insomma, «vivere, vivere, vivere»?9.
Nel decimo capitolo, Acquasantiera e portacenere, è infatti a Roma, intenzionato a prendervi dimora. Trovata una pensione in via Ripetta, bussa a uno dei due campanelli, recanti i cognomi Paleari e Papiano. Viene ad aprire un discinto sessantenne, curiosamente abbigliato: «in mutande di tela,
coi piedi scalzi entro un pajo di ciabatte rocciose, nudo il torso roseo, ciccioso, senza un pelo, le mani insaponate e con un fervido turbante di spuma in capo». Si tratta di Anselmo Paleari, forse il personaggio più importante del romanzo, do23 TRI, p.414.
24TRI, p.424.
TRI, p.431.
26TRI, p.431.
"$
po il protagonista. La figlia Adriana a prima vista sembra una bambina: «piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli,
docili e mesti, come tutto il volto»?7. E lei a mostrargli la camera, che è ariosa e luminosa, con due finestre che dominano
un ampio panorama: fino al ponte Margherita e a Castel Sant'Angelo da un lato, e dall’altro lato fino al Gianicolo. Coabitano con i Paleari anche Terenzio Papiano e Silvia Caporale, maestra di pianoforte. Tutt’e quattro gli inquilini sono personaggi di notevole spessore umoristico. Sicuramente il maggior rilievo è conferito, oltre ad Anselmo, ad Adriana, di
cui il protagonista finirà con l’innamorarsi. Il padre è uno svanito cultore di teosofia, le cui «nuvolose preoccupazioni» lo astraggono dalla vita materiale e gli fanno considerare la Caporale una medium di straordinarie qualità. Alla quarantenne signorina è dedicato un altro dei ritratti più espressivi del romanzo: aveva una «faccia volgarmente brutta, da maschera carnevalesca», un paio di «baffi a pallottolina» e, per contrasto, uno sguardo incredibilmente dolente, nel quale
«gli occhi davan l'impressione che dovessero aver dietro un contrappeso di piombo, come quelli della bambole automatiche»?8. Leggiucchiando i volumi della biblioteca di Anselmo, interamente dedicata alla teosofia e allo spiritismo, Adriano scopre che «i morti, quelli veri, si trovano nella sua identica
condizione». Sono infatti «eccitati da ogni sorta di appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch’essi però ignorano d’aver perduto»?9. Si accorge così con tristezza che anche lui dovrà morire di nuovo. La sua prima morte non è bastata. Non vorrebbe pensarci. Ma il padrone della pensione parla spesso dell’anima immortale, contristandolo. Una volta sola cambia argomento, e si mette a parlare di Roma. Anche la città, però, è «morta da
gran tempo», perché chiusa nel sogno di un maestoso passa-
27TRI, p.432. | _ 28TRI, p.436. Per un’acuta analisi del personaggio a partire dai tratti fisici cfr. Marinella Cantelmo, «Donna, brutta e vecchia»: le «tre disgrazie»
diSilvia Caporale, in L'abito, il corpo..., cit., pp. 139-145. 29TRI, p.439.
(2
to, che le impedisce di diventare una città moderna. E paragona la piccola acquasantiera che il pigionante aveva inavvertitamente adoperato per spegnere una sigaretta alla rovina
della città: «I papi ne avevano fatto — a loro modo s’intende — un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un posacenere»30, Disera, guardando ilfiume, come recita il titolo del capito-
lo successivo, l’ex bibliotecario riflette intanto sull’inconsi-
stenza della propria vita. Adriana annaffia i fiori sul terrazzi no: si sente turbato dalla sua vista come se ella fosse la vita. Ma poi ripete a se stesso l’imperativo di restare libero. Trascorre molto tempo in conversazione con le due amiche, dedicando le sue attenzioni solo alla Paleari. Gli pare che tra la propria anima e quella della ragazza si sia creata un’armonia tacita e invincibile. Queste riflessioni contraddicono le precedenti polemiche con Anselmo, quando Adriano nega di credere nell’esistenza dell’anima, smentita dalla materialità della vita e dal-
l'invecchiamento, che fa perdere «il lume dell’intelletto». La stessa doppiezza del protagonista si profila in controluce nei dialoghi con le due donne, nei quali la delicata gentilezza dimostrata per la più giovane contrasta con l'atteggiamento cru-
dele e indisponente verso la più anziana. L'idillio familiare è squarciato all'improvviso da una furibonda lite notturna tra Silvia e Terenzio, probabili amanti. Nella baraonda, Adriano
capisce che Papiano ha delle mire su Adriana: è questo il momento in cui comincia a rendersi conto del proprio innamoramento. I due capitoli successivi sono dedicati soprattutto alle riflessioni filosofiche. Nel dodicesimo, intitolato L'occhio e Pa-
piano, il protagonista riceve l'invito a partecipare alla rappresentazione dell’E/ettra di Sofocle presso un teatrino di marionette automatiche di nuova invenzione. È il passo in cui Anselmo Paleari esprime la sua celeberrima «bizzarra» ipotesi: Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta 30TRI, p.445.
76;
del teatrino, che avverrebbe? (...) Oreste rimarrebbe terribil-
mente sconcertato da quel buco nel cielo3!.
In questa immagine è stato vista spesso un'’incisiva rap-
presentazione della modernità novecentesca, per la scoperta del relativismo e la smentita di ogni verità ontologica. Essa si collega alla tesi anticopernicana espressa all’inizio da Mattia Pascal, coincidente con la scoperta dell’impossibile ritorno all’innocenza e alla pienezza del senso. Nel passo in questione, Anselmo vede penetrare dallo squarcio nel cielo quei «mali influssi» che farebbero perdere le forze a Oreste, fino al
punto da «farlo diventare Amleto», il celebre personaggio shakespeariano che non è certo emblema della sensibilità del Novecento. Ma è pur vero che lo è già della modernità, come ben sa Anselmo Paleari, che infatti aggiunge: «Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste
in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta»32, Corrobora la diffusa interpretazione cui si è accennato sopra la riflessione successiva di Adriano, che fa propria la dichiarazione dell’amico, per sentire tutto l’abisso che intercorre tra le «felici
marionette», capaci di conservare l'illusione di un cielo senza strappi, e la propria vita, a cui lo strappo impedisce di svolgersi, cioè di «attendere bravamente» e di «prendere gusto» alla commedia dell’esistenza. Quest'ultimo passaggio, indubbiamente uno dei più intensi del romanzo, inscena la scissio-
ne e l’alienazione dell’uomo novecentesco. Mentre Papiano sembra tramare alle sue spalle, indagando sul suo passato, Meis potrebbe andare via, ma né si decide
né approfondisce i suoi sentimenti per la ragazza. Il losco cognato ha convocato un torinese che si dichiara suo parente. Per fortuna, l'indagine si risolve senza conseguenze. Una sera, però, il protagonista si sente all'improvviso in trappola: ha udito in corridoio la voce di uno spagnolo che aveva conosciuto a Nizza, al casinò. Sente che sta per essere scoperto. Ma per fortuna, non accade nulla: è stato invitato solo per un 31 TRI, p.467. 32 TRI, p.468.
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curioso caso. A causa dello spavento preso, guardandosi allo specchio, in cui riaffiora «l’ultima lastra» di Mattia Pascal,
Adriano decide così di operare l'occhio ribelle. Il decorso post-operatorio lo costringe a restare completamente al buio per quaranta giorni. S’intitola per questo I/ lanternino il capitolo forse più noto del volume. Esso è dedicato quasi interamente alle riflessioni del protagonista sul senso della vita, sulla coscienza e sulla filosofia, nel corso di
un intermittente dialogo con Anselmo, che diventa quasi un suo alter ego conflittuale. Il cultore di spiritismo cerca di convincerlo che il buio della sua stanza è solo immaginario: glielo dimostra tramite la «speciosissima» lanterninosofia. Altra potente allegoria, essa allude, ancora una volta, alla relatività della conoscenza umana, che si risolve in una costruzione
estetica poggiata sul nulla. L’invenzione, soggettiva e collettiva, che la fa crescere, come alimentata da un «soffio», si fonda
sempre sul vuoto, per la mancanza di puntelli oggettivi esterni e per l’incessante estensione dell'ignoto, che relativizza sempre il conosciuto. Seguiamo l’articolazione del discorso del teosofista: al genere umano è toccato in sorte un curioso destino: quello di «sentirsi vivere», a differenza degli alberi e degli animali che vivono semplicemente. Ne dipende l’illusione ottica che ci fa vedere come realtà esterna «il nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi,
i casi e la fortuna». Questo sentimento è il lanternino che ogni uomo si porta dentro, per discernere male e bene. La sua luce crea «un cerchio tutt'intorno a noi», senza il quale non ve-
dremmo, ma neppure esisterebbe «l’ombra nera» oltre il suo confine. Con la morte, le fiammelle si spengono e gli uomini tornano «alla mercé dell’Essere»33. Ricordando i ragionamenti di Luca Blandino, nell’Esclusa, e di don Cosmo Laurentano,
nei Vecchi e i giovani, Anselmo definisce i sistemi di pensiero come aggregazioni di lanternini, e quindi come lanternoni
verso cui si orientano i piccoli lumini individuali. Nell’arco della storia umana se ne sono avvicendati molti, con accorpamenti fantastici, multiformi e multicolori, incantevoli da am-
33 TRI, p.484. 75
mirare, affascinanti. Tutti, però, sono stati sempre illusori,
specie quelli delle età di crisi, quando la mancanza di sintonia tra le piccole lanterne fa languire l’alimento interno delle grandi: il lume di un’idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tuttii periodi che sono detti di transizione?4.
Accade a volte che le «fiere ventate della storia» spengano tutti i lanternoni, e si resti al buio. Paleari crede che il pre-
sente, dopo l’affievolirsi delle «grandi luci» di poeti come Nicolò Tommaseo, coincida con una di queste fasi oscure. Eppure, chi può dire— chiede più a se stesso che ad Adriano — se il buio, totale o parziale, sia un inganno come un altro? E se
fosse solo una falsa rifrazione, determinata dal gioco delle luci e delle ombre? A questo interrogativo Anselmo tenta di rispondere con gli esperimenti spiritici nella camera buia. La sequenza delle sedute, concentrata tra l’ultima parte del capitolo e il successivo (Le prodezze di Max) è una fra le porzioni più comiche e movimentate del romanzo. Fra gli otto partecipanti, si registra anche la signorina Pepita Pentagoda, che Papiano vorrebbe far fidanzare con Adriano, per distoglierlo dalla padrona di casa. La rzedium, Silvia, evoca lo spirito di un suo compagno di studi morto giovane di tisi: Max, appunto, che dà il titolo al capitolo. Ma nel corso della trance,
per aver richiesto uno spostamento di posto ai convitati, riceve al buio un pugno fragoroso da Papiano, che la fa urlare e sanguinare. In una seduta successiva, dopo che si è spento il lanternino, Adriano si accosta alla sua amata e la bacia sulla bocca, in un abbraccio lungo e muto. Poi assiste incredulo a fenomeni strani: una spaventosa trance, la lievitazione del ta-
volino. Va a dormire, infine, angosciato, pensando prima al cadavere del suicida di Nizza, poi a quello dell’uomo che giace nella sua tomba. 34TRI, p.485.
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La vista del sole, il giorno dopo, non lo allieta, a causa delle rocambolesche avventure della notte. Nel capitolo intitolato Io e l’ombra mia, la notte e il giorno, la luce e il buio, il corpo e la sua ombra diventano entità umoristicamente contrapposte, che sdoppiano la coscienza dell’uomo. Per questo, rivedere Ù luce, dopo la lunga convalescenza, non gli arreca gioia: perché fa nascere una lotta con l’altro se stesso, che tanto si era adoperato per sopravvivere nel buio. Allo specchio, Adriano non può compiacersi del proprio aspetto ingentilito e imbellito, perché non vi si riconosce, e anzi sente tutta la gravità delle azioni immorali compiute dall’altro, al buio. Quello aveva «fatto l’amore» con Adriana, l'aveva baciata, non aveva sapu-
to trattenersi, e ora lui cosa poteva fare? Non poteva certo sposarla, per mancanza di identità. Anche se le avesse rivelato la verità non avrebbe potuto, perché era già sposato. La moglie, che lo aveva riconosciuto morto, si era potuta liberare di lui; lui, morto, non poteva liberarsi di lei. Il fu Mattia Pascal sperimenta «in tutta la sua crudezza la frode» della sua «illusione»: quella che aveva creduto essere la più grande libertà si rivela ora la peggiore trappola. L’amara riflessione viene interrotta dall’arrivo di Adriana, che gli porta la parcella del dottore. Imbarazzato, apre l’armadietto per cercare i soldi, ma lo
trova vuoto: mancano dodicimila lire. Capisce subito che l’autore del furto è Papiano, ma si rende conto che non può denunciarlo, per le stesse ragioni sopra esposte. E allora esce di casa furibondo, sentendosi ancor più «escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi»35. Per strada, guardando
la propria ombra, sente di essere un fantasma: la sua è proprio l'ombra di un morto. Ne prova prima un piacere crudele, al passaggio dei carri e delle persone sopra di essa. Ma poi si pente, la sente viva, e soffre anche perlei.
Il movimentato quadretto della lite domestica cui Adriano assiste al suo rientro è contenuto nel capitolo successivo, intitolato I/ ritratto di Minerva, dal nome della tela dedicata a
una cagnetta dal pittore spagnolo Bernaldez, che aveva partecipato alle sedute spiritiche dei Paleari. Adriana ha rivelato la
35 TRI, p.523. LA
notizia del furto, contro le raccomandazioni del derubato, ed
essa ha acceso un litigio furioso tra gli inquilini. Poiché non può denunciarlo in questura, il protagonista non ha altra scelta che dichiarare di aver ritrovato il denaro. E anche dopo, per non dover fornire un’impossibile spiegazione alla figlia di Anselmo, sceglie di continuare a mentire, con l’intento esplici-
to di farne morire la passione, facendosi disprezzare. Gliene viene offerta l'occasione al ricevimento del marchese Ignazio Giglio d’Auletta, un vecchio dal passato eroico, nostalgico dei Borboni e clericale, perché convinto che un aumento del potere pontificio avrebbe sollecitato una nuova divisione dell’Italia. In casa sua, Adriano si mette a corteggiare Pepita, che gli dà corda con civetteria grossolana, per fare ingelosire il pittore, suo segreto fidanzato. Ne nasce una colluttazione, che termina con una sfida a duello, da cui il fu Mattia, ancora una vol-
ta, deve tirarsi indietro, perché non può procurarsi i due padrini necessari. Per la verità, egli si sforza di trovare una soluzione. Al caffè Aracne incontra un drappello di soldati cui chiede consiglio, ma questi, dopo il discorso esagitato in cui li esorta ad accompagnarlo subito, perché non può aspettare, gli ridono dietro. Allora si reca sul ponte Margherita e medita il suicidio. Si riprende pensando solo all’assurdo controsenso che sarebbe «uccidere un morto». E si convince invece della necessità di ritornare a Miragno, per recuperare la propria identità e vendicarsi dei torti subiti. Allora compila un biglietto con il nome e l’indirizzo di Adriano Meis, lo lascia furtiva-
mente sul ponte, insieme al cappello e al bastone, e scappa velocemente via, a sua volta «come un ladro». Al finto suicido, e quindi alla seconda morte, segue natu-
ralmente la Reincarnazione (è il titolo del capitolo seguente). In treno è tormentato dal pensiero di Adriana e tuttavia se ne consola, pensando: «Ma se io per te non potevo essere vivo, è meglio ormai che tu mi sappia morto»36. Ora che è fermamente deciso a tornare alla propria identità, gli sembra «addirittura inverosimile» la leggerezza con cui un tempo si era lanciato fuori dal treno, ad Alegna. Dei due anni trascorsi, dovrà
36 TRI, p.550. 78
tacere la verità, e potrà dire tutte le bugie che vuole, del teno-
re di quelle del cavalier Lenzi, e anche peggiori. Per prepararsi al rientro, compra un nuovo cappello e taglia i capelli «di quell’imbecille» del fu Adriano Meis. Sul lungarno di Pisa pensa alla sua morte romana, immaginando le reazioni degli amici alla notizia. E, ancora una volta, si sente infastidito dalla
presenza della propria ombra, come lo era stato quando incarnava ancora l’altra identità. Questa, però, non lo abban-
donerà mai del tutto: l’occhio raddrizzato è il suo segno che Mattia dovrà sempre portare. E il fratello, a Oneglia, a informarlo delle seconde nozze
della moglie con Gerolamo Pomino, il vecchio amico che l’aveva in passato corteggiata. Alla notizia, Mattia scoppia a ri-
dere: «come un rigurgito di bile mi saltò alla gola, e risi, risi fragorosamente».37 Berto gli spiega che dovrà riprendersela, facendo annullare il secondo matrimonio. Al suo consiglio di «restare morto», egli oppone con ostinazione che ora vuole per forza essere vivo, vuole «le carte in regola», anche a costo
di riprendersi Romilda. E torna a Miragno la sera stessa, determinato, agguerrito, rabbioso. Il fu Mattia Pascal, l’ultimo capitolo, si apre con il percorso in treno. Neppure la vista dei luoghi cari, sotto la luce lunare e i lampioncini spenti, come era costume nel paese al plenilunio, valgono a calmare l’ansia e l’odio del finto morto, che medita vendetta. L'incontro con i familiari è un piccolo capolavoro drammatico, quasi teatrale: il protagonista pronuncia il proprio nome, sillabandolo, dietro l’uscio. Poi entra, annunciando di «essere tornato dall’altro mondo». Po-
mino si butta ai suoi piedi, lo scongiura di non spaventare la puerpera: Romilda ha infatti appena partorito una bambina. Alla scena movimentata che ne segue, tra lo svenimento di lei e gli improperi della Pescatore allo smidollato secondo marito, definito «femminuccia», Mattia scoppia a ridere «fino a averne male ai fianchi»38. La sua gelosia e le sue accuse nei confronti dei familiari, per essersi dati alla «pazza gioia»,
37 TRI, p.558. 38TRI, p.568. 79
contrastano però radicalmente con le risoluzioni di due anni prima. Ed è ambivalente anche l’atteggiamento verso la moglie, oscillante tra una minaccia di riprendersela, che esprime anche desiderio, e il rimpianto, che trova un culmine nel
momento conclusivo della «veglia», quando l’invidia per Pomino si manifesta in sguardi ambigui e tremiti alle mani. L’aveva trovata, del resto, bella «come prima», anzi «più for-
mosa». Alla fine, però, Pascal si rende conto che non può regredire al proprio passato e decide di uscire di scena per sempre, promettendo di non farsi più vedere, affermando di voler solo essere riconosciuto vivo, «per uscir da questa morte, che è morte vera, credetelo!»39. All’alba, fuori di casa, non sa dove andare: per strada nes-
suno lo riconosce, perché nessuno pensa più a lui, come se non fosse mai esistito. Poi la notizia della sua resurrezione si propaga per il paese e tutti i concittadini, tranne Batta Malagna, lo circondano, incuriositi. Lodoletta lo intervista per «Il Fo-
glietto» e redige l’articolo Mattia Pascal è vivo!. Dopo la certificazione della rinascita, il protagonista va a vivere con zia Scolastica che, in seguito alle sue avventure, ha preso a volergli un gran bene, e torna in biblioteca, dove per sei mesi discute il
proprio caso con Eligio, mentre scrive le sue memorie. All’amico dice che non saprebbe che «frutto cavare» dalla propria storia. Per l’altro, la morale starebbe nella certezza che «fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, (...) non è possibile vivere». Egli dissente, perché certo di non essere «rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è la moglie di Pomino, e io.non saprei proprio dire chi io mi sia». L'epigrafe dettata da Lodoletta è ancora incisa sulla lapide della sua tomba, sotto il suo nome. Il bibliotecario si reca ogni tanto al cimitero, a farvi visita e a portarvi i fiori. E qui, come all’inizio ripeteva ai conoscenti del paese il proprio nome, ora, ai curiosi che gli domandano chi veramente sia, stringendosi nelle spalle e socchiudendo gli occhi, risponde: «Io sono il fu Mattia Pascal». 39 TRI, p.570. 40TRI, p.578.
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III. L'interpretazione
Ilfu Mattia Pascal riscosse un immediato successo di pubblico, che guadagnò relativamente presto una risonanza internazionale. Come già anticipato, ne fu approntata una traduzione tedesca (1905), seguita con un certo distacco da una francese (1910) e una inglese (1923). La critica, invece; anche
quella più qualificata, restò per molto tempo indifferente o ostile. Renato Serra, per esempio, lo considerò un romanzo di intrattenimento, accostandolo alla produzione consumistica di Luciano Zuccoli, un autore oggi dimenticato, e di due scrittrici allora molto note, Amalia Guglielminetti e Matilde Serao4!. Anche due critici raffinati come l’anticonformista Giovanni Boine4 e il “restauratore” Giuseppe Antonio Borgese4
manifestarono
riserve
sostanzialmente
simili.
Bisogna aspettare la fine della prima guerra mondiale per registrare i primi giudizi positivi, ancora isolati. Tra questi spicca quello acutissimo dello scrittore Federigo Tozzi, che per primo ne colse la portata rivoluzionaria. Dopo di lui, e prima dello studio fondamentale di Giacomo Debenedetti#, risalen-
te al 1937 e in parte ispirato ad alcune intuizioni di Massimo Bontempelli, solo Luigi Russo4 e Walter Binni# attribuirono all'opera un certo valore, pur senza coglierne in pieno la cen41 L'articolo, del 1913, è reperibile nell’antologia Scritti letterari, moraliepolitici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino, 1974, pp. 423-433. 42 Giovanni Boine, I/ peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Garzanti, Milano, 1983.
4 Giuseppe Antonio Borgese, La vita e il libro. Saggi di letteratura e di cultura contemporanea, seconda serie, Bocca, Torino, 1911, pp. 94-100.
44 Federigo Tozzi, Luigi Pirandello, «Rassegna italiana», 15 gennaio 1919, poi in Realtà di ieri e di oggi [ristampa anastatica dell’edizione Alpes, Milano, 1928] Vecchiarelli, Manziana, 1992; e in Opere, a cura di M. Marchi, Mondadori, Milano, 1995. 45 Il riferimento è intanto al saggio «Una giornata» di Pirandello, in Saggi, a cura di F. Contorbia, Mondadori, Milano, 1982. 46 Luigi Russo, I narratori, 1923, edizione accresciuta Principato, Mi-
lano, 1951, pp.241-2. 47 Walter Binni, La poetica del decadentismo italiano, Le Monnier, Firenze, 1936.
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tralità per il canone letterario del Novecento. Lo avevano drasticamente stroncato, infatti, sia Attilio Momigliano#8, sia
Benedetto
Croce.
Quest'ultimo
aveva
prima contestato
L’umorismo9, avviando con Pirandello una vivace polemica, divenuta storica, e poi, negli anni Trenta, per una drastica condanna della sua prosa filosofica, aveva giudicato l’autore un
«intellettuale esasperato e prigioniero, lui, veramente, dei demoni logici che non riesce né a sottomettere né a fugare» e definito il romanzo: «il trionfo dello stato civile»90. La fortuna critica di Pirandello romanziere comincia intorno alla metà degli anni Cinquanta e la ricezione del Fu Mattia Pascal se ne avvantaggia subito, a differenza di quella, per esempio, dei Vecchi e î giovanio,più ancora, di Suo marito. In Italia, la rivalutazione viene avviata grazie agli studi di Carlo Salinari5!, Renato Barilli5?, Arcangelo Leone De Castris3, ma
soprattutto alle lezioni universitarie di Giacomo Debenedetti che, congiugendo al metodo marxista quello psicoanalitico, giunse a una valorizzazione inedita e quasi completa, limitata solo dall’ipotesi di un qualche residuo di «inefficienza creativa», legato al «romanzesco delle idee»?4. 48 Attilio Momigliano, Impressioni di un lettore contemporaneo, 1928, in Storia della letteratura italiana, terzo volume, Principato, Messina-Palermo, 1935, pp. 240-247.
49 La stroncatura apparve con il titolo «L’umzorismo» di Luigi Pirandello su «La Critica», 1909, poi in Conversazioni critiche. Serie prima, se-
condo volume, Laterza, Bari, 1939, pp.47-48. 20 In Luigi Pirandello, «La Critica», 1935, poi in La letteratura della nuova Italia, vol. VI, Laterza, Roma-Bari, 1940, pp.357-71.
21 Carlo Salinari, Lineamenti del mondo ideale di Luigi Pirandello, «Società», XIII, 1957, poi in Mit: e coscienza del decadentismo italiano (D'annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello), Feltrinelli, Milano, 1960. 22 Renato Barilli, La barriera del naturalismo, Mursia, Milano, 1964; La linea Svevo-Pirandello, Mursia, Milano, 1964, poi in Pirandello. Una rivoluzione culturale, Mursia, Milano, 1986. 93 Arcangelo Leone De Castris, Storia di Pirandello, Laterza, Bari, 1962, nuova edizione accresciuta 1971. Ma anche, dello stesso autore, I/ rigore di Pirandello, in Il decadentismo italiano, De Donato, Bari, 1974, poi Laterza, Roma-Bari, 1991.
24 Il testo delle lezioni universitarie del 1962-63 fu pubblicato postumo in I/romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1971.
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A partire dalla seconda metà degli anni Settanta la riabilitazione è totale. Gli studi prodotti da allora in poi riconoscono pienamente il valore letterario del terzo romanzo, che ancora oggi resta presso il grande pubblico italiano e straniero quello più noto e apprezzato di Pirandello. Il repertorio critico si è molto ampliato e ha ormai acquisito un respiro internazionale. Al suo interno, si possono distinguere i seguenti canali di ricerca: la filologia e gli studi sulle varianti, la poetica umoristica e gli influssi culturali italiani e stranieri, la struttura dell’opera, lo studio psicologico del personaggio di Mattia, i temi, la collocazione nel quadro letterario europeo, la lingua e lo stile. I/ fu Mattia Pascale Uno, nessuno e centomila, del resto, sono ormai considerati due classici, e come tali vengono studiati, oltre
che nella scuola italiana, anche nelle università europee e in quelle dell’intero continente americano. La prima, indispensabile, chiave per interpretare il romanzo è, ovviamente, la teoria dell'umorismo, che Pirandello
cominciò a elaborare parallelamente alla sua composizione. Provano lo stretto intreccio tra i due testi la dedica della prima edizione del saggio: «Alla buonanima — di Mattia Pascal — bibliotecario» e la trasposizione di interi passi narrativi nel suo corpo. Non si tratta dell’unico indizio di una costruzione intertestuale: altre porzioni sono mutuate o sviluppate da embrioni presenti in testi anteriori, come le novelle La scelta, in 25 Solo qualche riferimento, a partire dagli anni Settanta: fondamentali sono gli atti di due convegni del Centro nazionale di studi pirandelliani di Agrigento: Il romanzo di Pirandello, a cura di Enzo Lauretta, Palumbo, Palermo, 1976; e Lo strappo nel cielo di carta, Introduzione alla lettura del Fu Mattia Pascal, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1988 (che contiene tra l’altro gli importanti saggi di Maria Antonietta Grignani, Le parole di traverso: lingua e stile nel Fu Mattia Pascal; Giuseppe Petronio, Ur restauro: Pirandello romanziere anni Novanta; Vitilio Masiello, La re0sca nella bottiglia. Introduzione alla lettura del Fu Mattia Pascal; Mario Ricciardi, La posizione del Fu Mattia Pascal nel
romanzo di Pirandello). Utili supporti alla lettura e all’analisi del romanzo sono: Angelo Marchese, I/fu Mattia Pascal: anatomia di un romanzo, in Il segno letterario. Imetodi della semiotica, D'Anna, Firenze, 1987, pp.301-29; e Enzo Lauretta, Core leggere Ilfu Mattia Pascal, cit., che contiene fra l’altro un’anto-
logia della critica. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla bibliografia essenziale posta in coda al volume e ai repertori bibliografici in essa citati.
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cui si ritrova il personaggio di Pinzone, e Pallottoline!, contenente una riflessione etico-filosofica che anticipa quella anticopernicana della seconda premessa del Fu Mattia Pascal. Avverrà anche l’inverso, del resto, e parti del romanzo saran-
no rielaborate e inserite in opere posteriori: il quarto capitolo, ad esempio, scivolerà in Liolà, un testo teatrale del 1916.
Ma i rimaneggiamenti, come vedremo, riguardano talora anche brani di altri autori, come Emile Zola.
La complessa struttura entro la quale i rifacimenti sono inglobati è rivoluzionaria soprattutto sotto il profilo dell’impianto di genere. Come si è visto nel paragrafo precedente, l'incipit profila lo sfondo di una vicenda già conclusa. L'inversione analettica si collega all’autobiografia fittizia, in una variante che, secondo molti studiosi, va ricondotta al romanzo
di formazione. Nelle prime pagine, però, balza subito agli occhi, con assoluta evidenza, la genialità con cui il portato delle possibili ascendenze viene innovato, indebolendo ogni eventuale paragone con i modelli romanzeschi precedenti, almeno italiani. L’analessi, infatti, non tranquillizza il lettore sugli esiti del racconto, che fin dal titolo appare ispirato al controsenso e all’assurdo. La narrazione si regge su un sorta di ossimoro permanente, dato che Mattia Pascal, come conferma
l’ultima frase del romanzo, collegata simmetricamente al titolo per il più vistoso dei tanti effetti speculari, è colui che è stato, in un tempo separato dal presente: «il fu», appunto. Se l’identità del personaggio è negata, l’autobiografia è paradossale e il romanzo di formazione è rovesciato: verso l’acquisizione di una perdita, piuttosto che di un accrescimento. Si tratta
dunque di una struttura molto vicina all’antiromanzo, il genere novecentesco che nega lo svolgimento progressivo dell’azione. A un’analisi più ravvicinata, I/ fu Mattia Pascal appare scomponibile in tre unità interne, o romanzi nel romanzo,
che corrispondono a tre diversi modelli di genere: il primo è costituito dalle due premesse e dagli ultimi due capitoli, cui si aggiungono, con una funzione di raccordo, il settimo e l’ottavo; il secondo dagli antefatti (infanzia, matrimonio, fuga a Nizza di Mattia), concentrati in quattro capitoli (III-VI); il
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terzo dagli otto capitoli dedicati alla storia di Adriano Meis (TX-XVI). La prima sezione testuale si svolge a Miragno ed è dedicata alla parabola dell’identità del protagonista, quasi sempre intento a scrivere in biblioteca. I capitoli di raccordo, ambientati in treno e in viaggio, compongono a loro volta un dittico, nel quale avviene il passaggio morte-resurrezione, che prepara la seconda parte della cornice, spiegando ilsenso dell'aggiunta del passato remoto «fu». Questo primo tracciato narrativo può essere definito romanzo filosofico o metaromanzo. La sezione successiva è un romanzo d’ambiente. La prima parte di essa viene solitamente definita campestre, sia perché lo sfondo è la campagna di Miragno, sia per la metafora del nido familiare, comicamente rovesciato nella «tana»:
l’idillio dell’infanzia di Mattia viene smentito dal passaggio a un’età adulta deludente e senza miti. Alla terza unità corrisponde il modello del romanzo d’ambiente cittadino, con primo piano su Milano e, soprattutto, Roma. L’eterogeneità tra il
blocco di Mattia e quello di Adriano non sta sul piano tematico: anche nel secondo, infatti, ritroviamo uno scenario fami-
liare, con una sorta di nuovo nido-tana, quello di casa Paleari. Essa è visibile soprattutto nell’ambientazione. Nel primo, la vicenda è calata in un immaginario arcaico-rurale, nel quale la rappresentazione dei luoghi è indeterminata e nebulosa, con prevalenza di interni domestici. Anche nel secondo prevalgono gli interni, ma la descrizione degli esterni urbani è dettagliata, minuziosa, circostanziata. Le tre unità scomponibili non sono autonome: esse si collegano e si completano a vicenda, tenute insieme dal telaio di una struttura che non è tanto
concentrica, quanto ellittica. Il filo che le unisce è la formazione rovesciata di Mattia, dal pieno dell’idillio al vuoto dell’estraneità, e dall’identità iniziale alla mancata identità finale.
L'intero impianto compositivo è dunque fondato su una fabula simmetrica, intessuta sulla duplicazione. I due romanzi nel
romanzo sono incastrati, come un dittico dai tasselli di proporzioni irregolari, entro quella che appare come una vera e
propria cornice. Il doppio movimento dalla morte di Mattia Pascal alla nascita di Adriano Meis e viceversa si proietta in essa per preparare la scissione dell’io narrante. In questo qua-
8)
dro, l'architettura delle proporzioni è calcolata e calibrata quasi al millesimo: quattro sono i capitoli della cornice esterna, due iniziali e due finali; quattro quelli del romanzo di Mattia (per cui i due capitoli di raccordo cadono esattamente al momento di cerniera), otto quelli di Adriano Meis. Il raddoppiamento di quest’ultima sezione è in parte legato alla sua duplice articolazione interna, scindibile, esattamente in mez-
zo, cioè al dodicesimo capitolo, in due ulteriori segmenti, per la variazione dell’identità prodotta dall’operazione all’occhio e dalla quarantena al buio. La ridondanza speculare regge una trama di opposizioni semantiche e strutturali costanti (negativo e positivo, pieno e vuoto, buio e luce, corpo e om-
bra), entro un’isotopia dello sguardo, dello specchio e dell'occhio (dritto e storto)56. L’antitesi e l’antifrasi sono, insomma, le figure dominanti del romanzo, a partire dallo stesso ti-
tolo.
L'originalità del Fu Mattia Pascal sta proprio nell’assunzione di questa catena dialettica, e non nell’invenzione del soggetto narrativo, tutt'altro che insolito. Il tema del mortovivo era anzi molto diffuso nel romanzo fantastico dell’Ottocento e nella letteratura d’appendice. Tra le fonti più spesso indicate come certe vanno annoverate due novelle di Emile Zola: Jacques Damour e La mort d’Olivier Bécaille. La prima narra di un comunardo deportato che viene per errore identificato in un cadavere e non smentisce. La seconda è ancora più simile al testo pirandelliano: un uomo creduto morto, dopo aver saputo che la moglie sta per risposarsi, decide di non farsi riconoscere per non tornare con lei. Un’altra fonte pressoché certa è un fewzlleton di Emilio De Marchi: Redivivo,
uscito nel 189577. Nel ritmo binario delle peripezie, con ostacoli e superamenti, colpi di scena e precipitazioni, che richiamano i rituali di iniziazione, si sente peraltro anche l’eco dei novellieri classici più amati da Pirandello, che sono proprio 26 Sul problema del doppio in Pirandello resta fondamentale lo studio di Jean-Michel Gardair, Pirandello e ilsuo doppio, Abete, Roma, 1977 (1972).
27 Per questa identificazione e per un confronto tra i due romanzi si rimanda alle acute osservazioni di Nino Borsellino, in Ritratto e immagini di Pirandello, cit.,33-35.
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quelli citati, nel romanzo, da don Eligio: Giovanni Boccaccio,
soprattutto, e Matteo Bandello. L’abusato topos del morto vivente, tuttavia, viene da
Pirandello collocato al centro di una rifrazione semantica ricchissima, che origina, come abbiamo visto, dalla struttura più profonda del testo. Anche l’intreccio diegetico, oltre alla fabula, si fonda infatti sul raddoppiamento e sulla divisione. Come si verificano in essa due morti e due rinascite (per il bibliotecario), così si incontrano due biblioteche (la Bocca-
mazza e quella di Anselmo), due case (Miragno e Roma), due finti suicidi (Mattia Pascal e Adriano Meis), due veri suicidi e
due cadaveri (il giovane di Nizza e quello seppellito al posto di Mattia), due fratelli (Mattia e Roberto), due sorelle (madre e zia Scolastica), due Pescatore (madre e figlia), due Pomino
(Gerolamo, Gerolamo), due Papiano (il secondo è il fratello demente, autore del furto), due donne in casa Paleari (Adria-
na e Silvia Caporale), due donne ingravidate (Romilda e Oliva), due donne amate (Romilda e Adriana), due gemelle
(figlie di Mattia, che dopo la morte della prima ha comunque come seconda la figlia di Oliva e Malagna, e dopo la morte della gemella superstite, al suo ritorno, ritrova quella di Pomino), e si potrebbe alludere anche al duello mancato e al ritratto della cagnetta Minerva del pittore spagnolo Bernaldez, una probabile citazione umoristica del celebre dipinto di
Velasquez conosciuto come Las rzerinas. Anche il ritmo della trama d’azione sembra animato da movimenti doppi: partenze e ritorni, vincite e furti, parti e morti, collegati tra loro quasi per geminazione. Sono due gli eventi che determinano il cambiamento di vita di Mattia (la fortuna al casinò e il ritrovamento del cadavere della Stìa), e corrispondono specularmente ad altri due (la sfortuna al gioco e il suicido del giocatore pallido, senza il quale Mattia avrebbe forse perso tutta la vincita). Anche le ragioni che inducono Adriano Meis al proprio suicidio sono due (il furto e l’impossibilità di sposare Adriana). È la stessa logica della duplicazione, dunque, che giustifica l’inte-
laiatura quasi numerologica del romanzo, e al tempo stesso la collega alla moltiplicazione esponenziale del due: ottoanduemila lire di vincita, dodici giorni al casinò, quaranta gior87
ni al buio, dodicimila lire di furto, e così via. Raddoppiamento e sdoppiamento spiegano la continua alternanza, sul piano attanziale, tra pieno e vuoto, come mostra la catena dinamica: vincita dei soldi/nuova vita, sottrazione dei sol-
di/suicidio. Ma il ritmo binario si potrebbe estendere anche alle pulsioni emotive del protagonista, estreme, eccessive, con conti-
nui ribaltamenti umorali, spesso volutamente immotivati e spiazzanti. Egli passa infatti da un massimo di passività (inettitudine, irresolutezza ad agire, ansia di libertà e di vita pura), a un massimo di vitalismo (ebbrezza, determinazione, rabbia, odio, vendetta). Gli scatti reiterati da uno stato all’altro e vice-
versa provano l’iterazione di una coazione a ripetere costantemente frustrata da interdetti e collegata a una sistematica strategia di fuga (da Miragno, da Nizza, da Milano, e poi da Roma). In essa si rivela la sua incapacità di vivere che, tra l’altro, diven-
ta anche estraneità all'amore: alla vendicativa beffa sessuale dell’ingravidamento di Oliva si collega, per contrapposizione, l’atto mancato con Adriana; alla fuga da Romilda la convivenza con Scolastica, la zia che aveva sempre rifiutato gli uomini. È questa negazione dell’eros il risultato della formazione di Mattia. Ma anche prima, in realtà, al termine dell’infanzia sca-
pestrata, egli era passato repentinamente, dopo una lettera, dall’amore all’astio per Romilda, e dal desiderio del matrimo-
nio a una sua immediata negazione, che però non era stata sufficiente per sottrarsi all’imposizione di Malagna. L’autorepressione viene giustificata da Mattia in nome di una velleitaria e contraddittoria volontà di purificazione. La sua scissione diventa alla fine anche somatica, coincide anzi con un vero e proprio rifiuto del corpo, come mostrano le due regressioni, simbolicamente intrecciate, nei luoghi chiusi della chiesa-biblioteca e della tomba (ma, in questo senso, era stato già molto eloquente il discorso sul guscio dei morti nel decimo capitolo), e i due passaggi cruciali riferiti ai dialoghi di Mattia e di Adriano con le proprie ombre. Citando il noto personaggio di Adalbert von Chamisso, Peter Schlemihl, Pirandello aveva chiuso, del
resto, il saggio sull’umorismo indicando l’importanza, per l’arte moderna, di badare all'ombra più che al corpo. Confer88
mando la presenza di una sorta di ossessione sepolcrale, la cesura tra i due termini è confermata anche dal finale al cimitero,
che in qualche modo richiamale veglie funebri con cui si erano conclusi idue romanzi precedenti. Dietro la dinamica conflittuale con le figure maschili si nasconde, come è stato notato da Luperini, un irrisolto con-
flitto edipico?8. Malagna, Pomino e Papiano, rivali nella conquista delle donne, ne sono tutti in qualche modo investiti. Ad esso si collega anche la ridondanza dei triangoli, nei quali sempre Mattia si trova implicato, spostando la rivalità originaria ora sulla figura della suocera Pescatore, ora di Batta Malagna, ora di Anselmo. Se l’intero sistema dei personaggi è organizzato per coppie oppositive, è però proprio il rapporto con Paleari, vero sostituto del padre, il più articolato e com-
plesso, sia per le implicazioni filosofiche, sia per la presenza di una donna bambina che, fin dal nome, si pone esplicita-
mente come alter ego del protagonista. Adriano è tanto ambivalente nei riguardi del suo genitore, oscillando tra la diffidenza e l'entusiasmo verso la teosofia e lo spiritismo, quanto è indeciso e infine impotente (letteralmente, essendo impossibilitato ad agire) nei confronti della figlia. Le figure femminili, del resto, richiamano quasi sempre il binomio madre-bambina. Oltre a Adriana, anche la vedova Pascal era «come una
bambina» e Romilda lo era nei fatti, per la dipendenza dalla propria madre. Non è un caso, inoltre, che Mattia generi solo femmine. Vale la pena, inoltre, di notare che nel Fu Mattia Pascal è totalmente assente il tema dell’emancipazione femminile, presente sia nell’Esclusa sia, qualche anno dopo, in
Suo marito. Le donne sono qui o irraggiungibili e lontane o antagonistiche e conflittuali. Nell’alienazione del bibliotecario si inscrive, dunque, anche la repressione dell’eros (Gti
amori senza amore era stato del resto il titolo della prima raccolta di novelle di Pirandello, uscita nel 1894). Tornando alla logica della duplicazione, va detto che essa concorre a costruire un ulteriore e più profondo livello di significato: quello allegorico. L'allegoria è figura per eccellenza 58 Luperini, Pirandello, cit., pp. 64-65.
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della scissione, anche in senso etimologico, dato che il termi-
ne, di origine greca, deriva da allos (altro) e agorèuein (parlare, conferire). Da questo punto di vista, la costruzione più complessa del doppio è contenuta proprio nella cornice, che abbiamo definito metaromanzo. Per spiegarne la valenza, partiamo dall’esempio della biblioteca Boccamazza. Fin dall'incipit, la sua descrizione sembra implicare il rimando a un senso nascosto. Come si ricorderà, essa è devastata dai di-
struttivi effetti dell’incuria e del tempo, che hanno cancellato la memoria e hanno prodotto strane amalgame tra libri molto diversi. Le legature di un trattato licenzioso sull'amore e di un’agiografia di un beato, ad esempio, si sono incollate per l’umidità senza volersi più staccare. Bastano questi pochi riferimenti per cogliere un eccesso di metaforizzazione, tesa tra il registro comico e quello umoristico. Il luogo di culto sconsacrato, caotico, polveroso, umido, invaso dai topi è, infatti,
un’allegoria, ed è probabilmente quella più incisiva e importante del romanzo. Il suo degrado allude allo scarso rilievo della cultura e della letteratura; l'indifferenza verso il bibliofilo monsignore che le dà il nome, donatore del lascito librario al Comune di Miragno, alla loro marginalità nella società di inizio secolo. Mattia ne fornisce una testimonianza ancora
più inequivocabile, dato che dalla propria attività di bibliotecario desume «una così misera stima dei libri (...) che non mi sarei mai messo a scrivere»??. Attraverso l’immagine com-
plessiva della biblioteca si estrinseca pertanto la rappresentazione del ruolo ancillare che la letteratura aveva cominciato ad assumere dopo la seconda rivoluzione industriale. Essa rimanda a una consapevolezza sorprendentemente matura, soprattutto se paragonata all’idea che emergerà, invece, in Suo marito, alcuni anni dopo.
Giancarlo Mazzacurati ha sostenuto che quella pirandelliana sia un’ «allegoria rovesciata», perché implicante la condanna a una condizione di perenne lavorio interpretativo, che non approda mai a nulla (a differenza di quella antica, sempre decodificabile). Il bibliotecario Mattia sarebbe un
59TRI, p.320. 90
soggetto ossessivamente interpretante, condannato a vedere
sempre «altro da quello che appare»60. Da questa costante tensione deriva, in effetti, la difficile autolegittimazione dello
scrivente autobiografo, che si giustifica ripetutamente, quasi si scusa per essersi cimentato nella redazione delle sue memorie. La voce narrante, tendente al soliloquio più che al semplice monologo, diventa omodiegetica, ma al tempo stesso si pone come mendace e inaffidabile: è quella di un narratore inattendibile, per riprendere la celebre formula di Wayne Boothé!. Essa mira a una costante autodestrutturazione, nella quale si sente l’eco della lezione di Laurence Sterne, il cui Tristramz
Shand)y è del resto citato come un modello esemplare di umorismo nel saggio del 1908. La scomposizione nei diversi io divisi è confermata e corroborata da una serie di espedienti linguistici, stilistici e retorici. Questi, come ha scritto Maria
Antonietta Grignani, mostrano «l’insufficienza del linguaggio», distruggendone «gli automatismi semantici», in una procedura «decostruttiva» che sfida «il principio di non contraddizione» e attiva «il senso nel non senso e viceversa»62, Anche la decostruzione logico-espressiva sostiene la prospettiva dell’allegoresi. L’intarsio dei significati contraddittori e polivalenti, grazie all’insistente metaforizzazione cui si è ac-
cennato prima, spingendo a interpretare il discorso di Mattia Pascal come allusivo anche ad altro da sé, rende il personaggio allegoria dell’intellettuale moderno e della sua crisi d’identità. Appare allora tutt'altro che casuale il suo ruolo di bibliotecario che scrive il romanzo in biblioteca, addirittura se-
duto nell’abside e poggiato sull’altare. Per cogliere ancor meglio questo aspetto, è utile confrontare Mattia Pascal a un altro celebre inetto, anch’egli pienamente entrato nell'immaginario contemporaneo, non solo letterario: Zeno Cosini, protagonista della Coscienza di Zeno 60 Giancarlo Mazzacurati, Pirandello nel romanzo... cit., p. 222. Ma dello stesso cfr. anche l’edizione commentata del romanzo, Einaudi, Torino, 1993.
61 Cfr. Wayne Booth, Retorica della narrativa, trad. di E. Zoratti e A. Poli, La Nuova Italia, Firenze, 1997 (1961).
62 Grignani, Retoriche pirandelliane, cit., p.56.
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(1923) di Italo Svevo. Diversamente da quest’ultimo, Mattia non può essere definito propriamente un nevrotico. Pirandello, d’altronde, non conosceva la psicoanalisi freudiana, a differenza di Ettore Schmitz (il vero nome di Svevo), anche se forse ne ebbe un’informazione indiretta, come si è anticipato
nel capitolo dedicato all’Esclusa. Nonostante trai due scrittori non vi sia mai stato un vero rapporto, le affinità culturali sono tutt'altro che trascurabili, a cominciare dalla fascinazione-re-
pulsione per lo spiritismo. Forse sono proprio queste a produrre le singolari convergenze, ampiamente registrate dalla critica, trai due romanzi. Studiando in particolare la presenza dei morti, Paolo Puppa ha rilevato in entrambi i protagonisti un’analoga repressione del desiderio che si libera per vie indirette, Zeno, però, pur con tutte le sue nevrosi, appare alla fine un vincitore, che sa porsi con saggezza, nonostante la consapevolezza della menzogna e della malattia, sulla strada dell’integrazione borghese. Mattia, al contrario, rinuncia all’inserimento nel consorzio sociale, diventando un outsider, cioè un
disadattato. Questo esito opposto si spiega alla luce della diversa estrazione sociale dei due personaggi, da ricondurre in parte anche alla diversa collocazione dei due scrittori nell’establishmentletterario e culturale. Zeno è un capitalista, un industriale, un commerciante con il vizio segreto della scrittura. La sua mania può generare una nevrosi privata, personale, ma
può non intaccare le sue attività pubbliche. Mattia, al contrario, èun borghese declassato al ceto impiegatizio. Inoltre, è un bibliotecario, cioè un custode della cultura, e scrive con atteggiamento testamentario. Espone infatti le sue memorie per
una futura collettività, nella speranza che qualcuno sappia trarne «qualche frutto». Il personaggio pirandelliano, insomma, come il suo autore, è un intellettuale interno al sistema
della cultura, in un’età in cui la crisi del ruolo è già palese. La marginalizzazione dell’arte nella società capitalistica era infatti, all’inizio del secolo, già pienamente in atto. 63 Puppa, «The Haunted Stage» tra Svevo e Pirandello, in Ars dramatica. Studi sulla poetica di Luigi Pirandello, atti del simposio internazionale sul teatro pirandelliano, Boston College, 1994, a cura di A. Syska-Lamparska, Peter Lang, New York, 1996. >
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Anche la critica alla modernizzazione è ben presente nel romanzo. La sfiducia nella ragione positivista e scientista che sta dietro di essa si manifesta nella rappresentazione delle malattie industriali (si vedano le pagine dedicate all’inquinamento e al traffico di Milano o la metafora di Roma come città-posacenere) e delle meccanizzazioni disumane (le marionette automatiche che recitano l’E/ettra di Sofocle)64. Ad essa viene contrapposta, quasi per protesta, una ragione alter-
nativa, fondata sul principio di contraddizione, e pertanto dialettica e critico-negativa. Questa frantuma (come atto anche aggressivo, dunque) la patina superficiale della realtà, e affronta la scommessa di senso sul vuoto (proposta dal filosofo Blaise Pascal), inscrivendola all’interno di un piano doppio: al tempo stesso «esistenziale e gnoseologico»8. La continua rifrazione dei significati gli uni sugli altri, come in un gioco di specchi, rende dunque quello di Mattia un romanzo allegorico, metanarrativo e autoriflessivo, nel
quale lo scrivere, alla fine, si sostituisce al vivere e si proietta sul leggere (e si noti che quando la vicenda sarà leggibile, dopo cinquant’anni, la morte dell’autore si sarà realizzata, e quindi solo la lettura, forse, conserverà ancora la possibilità di un senso compiuto). I/fu Mattia Pascal è, pertanto, il primo dei tre romanzi filosofici di Pirandello, insieme ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore e a Uno, nessuno e cento-
mila. I suoi dilemmi teorici sono da un canto il relativismo (la rivoluzione copernicana, la figura del lanternino), dall’altro 64 A questo proposito, si può aggiungere che nel romanzo è presente anche una larvale critica alla democrazia, messa in bocca a un ubriaco che
riferiscee il discorso di un suo amico «avvocatino imperialista» a favore della monarchia (TRI, pp. 448-449). Secondo Elio Providenti, questo passo, che manifesta l'influenza del trattato Le menzogne convenzionali della nostra civiltà (1883) di Max Nordau, è l'embrione dell’antiparlamentarismo e del nazionalismo cui Pirandello approderà un quindicennio più tardi. Cfr. E. Providenti, Pirandello impolitico, Salerno, Roma, 2000, pp. 85-89. 65 Vitilio Masiello, La rz0sca nella bottiglia, cit., p.77.
66 Sembra coincidere con l’esperienza di Mattia la convinzione pirandelliana per cui «la vita, o si vive o si scrive», come egli dichiara in una lette-
raa Ugo Ojetti, aggiungendo: «Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola», Carteggi inediti, a cura di S. Zappulla-Muscarà, Bulzoni, Roma, 1980, p. 82.
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la fine dell’epos e la degradazione del tragico e del comico in una farsa umoristica che inscena la morte dell’io (lo strappo nel cielo di carta). Il doppio, lo specchio, la morte, più che semplici motivi tematici, sono vere e proprie metafore euristi-
che della crisi della soggettività. Sopra di esse, si eleva la risata ribelle, anticonformista e deformante di Mattia. È il riso di chi commisera ridendo e ride commiserando, per parafrasare una definizione del teorico Theodor Lipps, citata nell’ Urzorismo. Ed è quello di chi è ilare nella tristezza e triste nell’ilarità, secondo il famoso assunto di Giordano Bruno, cui
Pirandello conferisce un significato centrale all’interno dello stesso saggio. Nel riso si annida l’ultima difesa critica, dopo l’amputazione dello status identitario. Se Mattia, infatti, non è certo più un eroe, non può però neppure essere considerato
una persona, come vorrebbe il genere autobiografico, ben centrato sulla celebrazione dell’io, almeno nella sua forma
sette-ottocentesca. Egli è ormai un personaggio che sa di essere tale e che è condannato a sentirsi sempre tale, mentre recita ruoli infiniti e intercambiabili sotto lo squarcio del cielo. Se la sua identità sta nel non essere e nel guardarsi essere, Mattia Pascal è, dunque, allegoricamente, l’altro da sé. Per capire chi egli sia, infatti, non basta leggere il movimentato racconto della sua vita: bisogna anche riflettere sulla sua condizione sospesa e contratta nell’ossimoro permanente. È Mattia stesso a interrogarsi, continuamente, sulla scissione tra tempo e spazio, tra vita e morte, tra senso e nonsenso, tra coscienza e
menzogna. Su questa tensione interpretante, destinata in Pirandello a restare sempre insoddisfatta, si fonda la moder-
nità filosofica e intellettuale del personaggio, legata all’esclusione. Su essa si fonda, infatti, la sua rigorosa coscienza criti-
co-negativa, che sta non tanto nel sapere di essere chi non è più, quanto nel non sapere né chi sia né, quindi, in realtà, chi
veramente fu.
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Suo marito
I. La redazione
Quarto romanzo in ordine di apparizione, anche se quinto in quello di composizione, Suo marito fu scritto intorno al 1909 e pubblicato due anni dopo, nel 1911, presso la casa editrice fiorentina Quattrini, preceduto dalla dedica: «a Ugo Ojetti, fraternamente». All’interno del volume veniva data la notizia dell'imminente uscita dei Vecchi e i giovani, di cui era già circolata in rivista, nel 1909, la prima parte. Il periodo creativo in cui avviene l'elaborazione del romanzo è il primo definibile a pieno titolo umoristico, dato che il
saggio fondamentale — è bene ricordarlo ancora una volta — era uscito nel 1908, e aveva subito originato una serie di polemiche critico-letterarie, fra le quali la più importante con Benedetto Croce. Nell’arco di tempo compreso tra la composizione del Fu Mattia Pascale quella di Suo rzarito, Pirandello scrive soprattutto novelle, anche perché vendibili più facilmente. Tra il 1904 e il 1906 si situano le due raccolte Brazzche e nere (editore Streglio di Torino) ed Erzza bifronte (che segna il sodalizio con l’importante editore Treves). Lo stesso anno comincia la tormentata e discontinua stesura dei Vecchieîgiovani. Un evento privato di rilievo è, nel 1908, la nomina a professore ordinario di «Lingua italiana, stilistica e precettistica e studio dei classici, compresi i greci e ilatini nelle migliori versioni», presso il Magistero di Roma, una titolarità non particolarmente gradita a Pirandello, che non amava gli ambienti accademici né la pratica didattica. In questa fase della sua vita, come risulta fra l’altro dalla Lettera autobiografica indirizzata a Filippo Sùrico, l'insegnamento «gli pesa enormemente»), per le riserve sui con! Scritta tra il 1912 e il 1913, questa fu pubblicata su «Le lettere» il 15 ottobre 1924, e poi il 28 febbraio 1928.
sO
tenuti disciplinari, imetodi di ricerca, la gerarchia e la burocrazia universitarie, ma anche per i troppi impegni alternativi, so-
prattutto giornalistici. Proprio in questo periodo redige, infatti, un numero davvero considerevole di recensioni, che escono
spesso anonime su varie riviste. E nel 1909, anno della stesura del romanzo, ottiene un incarico molto ambito al «Corriere della Sera», avviando una collaborazione stabile che continuerà
senza interruzioni fino alla morte. Un riflesso della sua affermazione letteraria si nasconde dietro la storia della protagonista di Suo marito, la scrittrice Silvia Roncella, che riuscirà, dopo il rag-
giungimento del successo, a recidere il legame soffocante con il proprio coniuge manager, devoto al ruolo di marito, ma tanto iperattivo negli affari quanto insensibile alla letteratura e all’arte. Il decennio che va dal 1904, e cioè dalla pubblicazione del Fu Mattia Pascal, al 1915, anno dell’uscita a puntate di S7
gira, poi diventato Quaderni di Serafino Gubbio operatore, è prevalentemente dedicato alla narrativa. Affianca i romanzi una cospicua produzione novellistica (nel 1910 esce tra l’altro la raccolta La vita nuda), mentre l’impegno teatrale appare ancora secondario, sebbene proprio nel 1910 Pirandello ricavi un atto unico dalla novella Lurz%e di Sicilia, rappresentato con successo dalla compagnia Nino Martoglio al teatro Metastasio di Roma, e, nel 1913, una commedia tratta da un’altra novella, I/ dovere del medico, messa in scena nella stessa città
dalla compagnia Lucio d’Ambra. La storia editoriale di Suo zzarito ha un corso estremamente breve: la prima e unica edizione viene ritirata dal commercio dopo l’esaurimento della tiratura iniziale. Prima dell'accordo con Quattrini, i fratelli Treves, che pure avevano grande stima per lo scrittore, avevano rifiutato la pubblicazione del romanzo, perché intimoriti dal possibile pericolo di scandali e denuncie dovuti ai palesi riferimenti a personaggi molto noti della cronaca romana di quegli anni. Pirandello aveva reagito male al diniego, e si era rivolto tempestivamente all’altro editore menzionato?. Dopo l’uscita del volume, però, fu lui 2 E Pirandello stesso a scriverlo, nella Lettera autobiografica a Filippo Sùrico, cit.
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stesso, come dichiara il figlio Stefano nell’Avvertenza a Giustino
Roncella nato Boggiòlo, contenuta nell'edizione Omnibus Mondadori del 1941, a non concedere ilpermesso di ristampare. Illi-
bro aveva infatti suscitato scalpore per le analogie tra la vicenda narrata e la vita di Grazia Deledda, scrittrice illustre e di successo, il cui marito Palmiro Madesano sembrava aver ispirato il personaggio di Giustino. Anche la figura del senatore Borghi sembrava inequivocabilmente richiamare il ministro dell’Istruzione Ruggero Bonghi, uno dei principali sostenitori della Deledda, di cui aveva entusiasticamente recensito Arzrze oneste, nel 1895. La morbosa curiosità dei critici portò a indicare, nell’immediato e nel corso dei decenni successivi, anche
altri ipotetici referenti reali: svariate personalità della politica e della società letteraria romana, e scrittrici come Ada Negri e Sibilla Aleramo}. Pur essendo uscito molto presto dalla circolazione, il testo a stampa del 1911 è da considerare definitivo. Dopo di esso, infatti, Pirandello abbandonò il romanzo fino a tarda età.
Solo poco prima della morte, nel 1935, ne iniziò una revisione, mosso dal desiderio di riscriverlo «da cima a fondo», a cominciare dal titolo, che sarebbe dovuto diventare Giustino
Roncella nato Boggiòlo. A causa della morte, la rielaborazione venne interrotta a metà strada: la rifusione aveva toccato solo i primi quattro capitoli e parte del quinto. Nella sopra citata edizione Mondadori del ’41, i curatori optarono per il montaggio e l'integrazione della parte rifatta sul materiale originario. Il romanzo vi compariva dunque con il secondo titolo voluto dall’autore. Data l’incompiutezza del rifacimento, quelli dell'edizione corrente Mondadori, Giovanni Macchia e Ma-
rio Costanzo, hanno invece scelto il ripristino della lezione 3 Soprattutto il rimando a quest’ultima sembra davvero plausibile, sia per un’ulteriore coincidenza biografica (la scrittrice aveva lasciato il marito), sia per l'apprezzamento di Pirandello del suo romanzo Una donna (1906), recensito molto positivamente: «Pochi romanzi io ho letti, che racchiudono come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentano con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza» (la recensione uscì su «La
Gazzetta del Popolo», il 26 aprile 1907).
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originaria, tornando al testo e al titolo iniziale, e riproponendo in appendice l’intero corpo, ricchissimo di varianti, dell’incompiuta. La riscrittura tarda del romanzo è segno evidente della fiducia che lo scrittore continuò a riporre nella propria opera, anche dopo averla ritirata dal commercio. Il cambiamento del titolo è di per sé indicativo: egli intendeva sbilanciarne il baricentro sulla figura del protagonista maschile. A ben guardare, anzi, voleva presentare molti personaggi — e soprattutto l’umoristica figura di Giustino — in modo meno stilizzato. Fin dall’incipit del primo capitolo, i tagli e le aggiunte fanno pensare anche a un secondo sbilanciamento sostanziale. Gli interventi correttivi sono pensati per orientare maggiormente l’at-
tenzione sul contesto letterario mondano della Roma di inizio secolo, attenuando la critica nei confronti della specifica con-
troparte delle scrittrici. Nella prima pagina del testo riveduto, ad esempio, viene tagliato il divertente quadretto delle fotografie delle autrici, affisse a bella mostra nell’ufficio di Attilio Raceni, direttore da soli quindici giorni (invece dei quattro anni della precedente versione), della rassegna «Le Grazie»4. Nel testo originario, tale rassegna, di cui si precisava il carattere «femminile (e non femminista)», si chiamava invece «Le
Muse». Al posto dei ritratti, dall’aria «vispa o patetica», nella seconda versione appare quasi subito la rappresentazione della «critica militante italiana», presentata come una «me-
schina pettegola farmacia di villaggio», asfitticamente individualistica, specie se confrontata al «comune orgoglio nazionale (sia benedetto!)»? di Parigi. La riscrittura sembra insomma smorzare i toni sottilmente antifemministi o addirittura latentemente misogini dell’antica versione del romanzo, tratti che affioravano inevitabilmente nella rappresentazione d’ambiente, per la ricerca di effetti comici. La mano dello scrittore sembra tendere a una concentrazione espressiva, ricercando 4 Si tratta del nome di una rivista catanese attiva tra il 1898 e il 1901,
cui Pirandello collaborò effettivamente: cfr. Rappazzo, Un articolo di Pirandello..., cit., p.155.
5TRI,p.1053.
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tonalità più malinconiche e meditative. In questo senso, un’altra espunzione interessante è quella dell’icipzt del secondo capitolo, contenente la scena in cui Ippolito Roncella, zio di Silvia, sosta apatico e immobile nel suo studiolo angusto, arredato da mobili semplici e comuni. La seconda versione inizia direttamente con la descrizione del «profondo cortile di vecchia casa, umido e quasi bujo», dove il pappagallo della signorina Ely Faciolli ripeteva «Che sî fa2», con «voce cornea e un verso che accorava profondamente». Ne viene confermata l'impressione che il rifacimento punti sull’attenuazione degli effetti comici, liberando tendenzialmente il tessuto testuale
degli sparsi residui macchiettistici certo ancora rintracciabili nella prima edizione. Il confronto delle singole varianti, sotto questa angolatura, si rende particolarmente interessante, proprio perché tra le due stesure intercorre l’intero venticinquennio della maturità di Pirandello.
II. L'opera
Suo marito è diviso in sette capitoli, corrispondenti ad altrettanti quadri narrativi, dai titoli quasi sempre parodici. Come nel Fu Mattia Pascal, il continuum della narrazione è sgretolato in una serie di blocchi temporali giustapposti, corrispondenti a scene quasi autonome, rispetto a cui la trama d’insieme sembra avere la funzione di un raccordo sovrastrutturale. Il primo capitolo, intitolato I/ banchetto, inizia in medias res: Attilio Raceni, il direttore della rassegna «Le muse», organizza un pranzo per fare pubblicità alla sua rivista e per festeggiare il lancio di Silvia Roncella. La scrittrice, già famosa dopo il successo del romanzo La casa det nani, si è da poco trasferita a Roma, a malincuore, per volontà del marito. L'ingresso in scena dei coniugi è preceduto da quello di un'intera galleria di personaggi minori, appartenenti al corrotto e provinciale am-
biente letterario. Oltre al Raceni, compaiono l’organizzatrice
6TRI, pp. 1072-1073. 99
Dora Barmis, che stila la lista degli inviti, e poi, al banchetto, gli scrittori di scarso talento Flavia Morlacchi, Filiberto Litti,
Faustino Toronti, Raimondo Jàcono, Cosimo Zago. I primi ospiti, arrivati con troppo anticipo, spettegolano acidamente sulla giovane età della Roncella, sul suo ridicolo marito, sul-
l'eccesso di tributi spettati al suo romanzo, che ai loro occhi non è «certo un capolavoro di umorismo». Lentamente la sala si riempie, fino all'ingresso dei papabili: entrano, fra gli altri, la marchesa Lampugnani, Mario Puglia, Momo Cariolin. Ma i due personaggi di maggior spicco sono il senatore Borghi e il critico di grande prestigio Maurizio Gueli, uno dei personaggi maschili più rilevanti del romanzo. Il banchetto inizia dopo l’arrivo dei Boggiòlo. Giustino appare subito ridicolo: indossa una marsina che lo rende impettito e lo fa sembrare «lucido, quasi di porcellana smaltata», con gli «occhiali d’oro» e la «barbetta a ventaglio». Fin dalle prime battute, Silvia e il marito sono presentati come una coppia male assortita. Alla goffa esuberanza dell’uomo corrisponde la timida mestizia della donna, che nella situazione mondana appare a disagio, dimessa e poco curata a confronto delle eleganti convitate. Il suo imbarazzo cresce quando l’atmosfera si surriscalda ed esplodono l’euforia e i lazzi. Il culmine dell’intensità tragicomica, come già nel banchetto di nozze del Turno, è raggiunto al momento del brindisi che il senatore vuole dedicare alla scrittrice, quando il ridicolo marito si alza in piedi per riceverne l’omaggio insieme alla moglie. A metà della serata, Silvia, che aspetta un bambino, ha un malore e i coniugi sono costretti a tornare a casa. Il capitolo successivo, intitolato ironicamente Scuola di grandezza si apre con l’entrata in scena dello zio di Silvia, Ippolito Onorio Roncella, «l’animaccia ribelle» che per più di cinquant’anni «aveva lavorato di testa»? e ora giaceva «con gli occhi sonnolenti»8 in una totale inedia e malinconia. Aveva calmato le proprie ansie di rivolta contro il mondo e adesso si TTRI, p. 626. 8TRI, p. 624.
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occupava solo di fumare e di curare la propria folta barba. Il burbero e irascibile zio nutre un’autentica avversione per Giustino, perché questi invoglia Silvia a scrivere, il che equivale a «spacciar veleno per professione»9. In realtà, essa è legata, più che al semplice disprezzo per la vanità e la vacuità del fare letterario, a un esplicito maschilismo. Don Ippolito, infatti: ; non poteva soffrire le donne che portano gli occhiali, camminano come soldati, oggi impiegate alla posta, telegrafiste, telefoniste, e aspiranti all’elettorato e alla toga; e domani, chi sa?
alla deputazione e magari al comando dell’esercito!0,
In qualche modo appartenente alla categoria delle intellettuali, e in quanto tale soggetta alla caustica critica di Ippolito, è anche l’attempata signorina Edy Faciolli, proprietaria dell’appartamento romano in cui soggiornano i Boggiòlo. E questa unazitella «bacata» dalla pratica dell’erudizione storiografica. Soprannominata «la longobarda», per i suoi studi inediti sull'ultima dinastia regnante di quel popolo, viene coinvolta da Giustino nel progetto di rieducazione mondana della moglie. A lei impartisce dunque «lezioni di grandezza», per apparire in società. Durante quelle lezioni a cui si sottomette con rassegnazione, la schiva Silvia ha modo di riflettere sul proprio «demone artistico», la parte più intima di lei che non riesce a vivere e che del resto lei stessa non vuole fare vivere. La Roncella, infatti: «Aveva sempre rifuggito dal guardarsi dentro. Qualche rara volta che ci s'era provata per un istante, aveva avuto quasi paura di impazzire», perché entrare in sé
voleva dire «spogliarsi di tutte le finzioni abituali». Non si raggiungeva mai una verità in quello scavo. La stessa verità, del resto, era per lei come «uno specchio che per sé non vede, e in cui ciascuno mira sé stesso, com’egli però si crede, qual’egli si ? Giustino, infatti, gli provocava un senso d’«afa, afa. (...) [perché] s'indugiava a far lume, il più affliggente lume, in tutte le bassure; spiegava le cose più ovvie e più chiare, come se le vedesse lui solo e gli altri senza il suo lume non le potessero vedere», TRI, pp. 627-628. 10 Ibidem.
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immagina che sia»!!. Per anni, a Taranto, Silvia si era concen-
trata sul proprio ruolo di figlia, e poi di moglie e forse di futura madre, con la paura di sembrare strana, diversa, a causa del
vizio segreto della letteratura. Lo «spiritello pazzo» che la muoveva a scrivere, però, all’improvviso le risorgeva dentro, provocandole la stessa angoscia che aveva provato dopo il successo del primo romanzo. Le veniva da ridere, a volte, davanti allo specchio: «Oh perché proprio doveva esser così, lei, con quella faccia? Con quel corpo? Alzava una mano, nell’incoscienza; e il gesto le restava sospeso. Le pareva strano che l’avesse fatto lei. S7 vedeva vivere»!2. Silvia si lascia vivere, e crede che Giustino, con il suo frenetico attivismo, sappia vivere in sua vece. Questa consapevolezza è però accompagnata da uno strano struggimento interno: la prima intuizione, ancora inconsapevole, dell’inferiorità intellettuale del marito.
Contrapposta a Silvia è la figura di Dora Barmis, smaliziata e mondana ex scrittrice senza talento, che cura le pubbliche relazioni del Raceni bazzicando con fare traffichino gli ambienti letterari cittadini. Donna seduttiva e costruita, si di-
verte alle spalle di Giustino, al tempo stesso ammirandone come una rara virtù l’integrità morale. Il manager le si rivolge per ricevere consigli di vario tipo, affascinato dalla sua carica erotica, ma incapace di rendersene conto, e sottraendosi alle
sue palesi profferte sessuali e amorose. La Barmis lo accoglie con divertita benevolenza, ne sollecita le confidenze. Il primo dialogo tra i due, molto incisivo, è giocato sul contrasto tra la
semplicità del bonaccione e la patetica ostentazione della donna di mondo, oscillante tra una malsopita cupezza e una cattiva ilarità. Nel suo disegno complessivo entro il romanzo, questa figura femminile resta sempre in bilico tra un’originale complessità e lo stereotipo di una cortigiana corrotta e consumata che anelerebbe all'integrazione borghese («Tante volte, divento più cattiva, pensando a quest'’ombra. M’accoro e mi nasce un’invidia angosciosa della casa altrui, d’ogni casa che non sia come questa (...) così sola...»!). Nessuno dei due
11 TRI, p. 640. 12 TRI, p. 645. 102
aspetti prevale. Nel personaggio di Dora non vi è equilibrio: lo prova, in barba a ogni moralismo, il suo intermittente riso folle e smodato, da cui la donna si riprende solo a scatti: «sapete che i muscoli da cui dipende il riso non obbediscono alla volontà, ma a certi moti emozionali incoscienti?»!4, Come ri-
sultato dei suoi «ammaestramenti», Giustino compra tre libri da far leggere alla moglie: un breve compendio illustrato di storia dell’arte, un libro francese su Nietzsche, un libro italia-
no su Wagner. E palese l’ironia di questi riferimenti, che alludono a una cultura intesa come pura esibizione salottiera. Il terzo capitolo ha un titolo inglese, Mistress Roncella,
two accouchements (quest’ultimo è un termine francese). I due parti della moglie di Boggiòlo, significativamente denominata signora Roncella, sono citati nell’esilarante dialogo che apre il capitolo: quello tra Ippolito, che non sa parlare inglese, e un giornalista americano incaricato di intervistare la scrittrice per il quotidiano «The Nation». L’inviato scambia la notizia della gravidanza di Silvia per l’annunzio di una gestazione letteraria, probabilmente di un dramma, visto che i drammi andavano di moda più dei romanzi. Dopo lo scioglimento dell’equivoco, lo zio propone al giornalista di intervistare il marito, definito sarcasticamente il
vero grande autore della famiglia. Nel frattempo Giustino, troppo preso dalla promozione della moglie, rischia di perdere il proprio impiego presso l’archivio notarile, dove comincia a sua volta ad essere chiamato «Roncello». Noncurante delle pungenti prese in giro dei colleghi, l’uomo persegue meticolosamente il proprio progetto, segnando su un taccuino le spese effettuate e quelle potenziali, per dimostrare, contro chi lo accusa di tirchieria, la propria generosità. Di questa si mostra profondamente convinto, per-
ché ogni giorno avrebbe voluto fare l’elemosina al cieco che incontrava sulla strada dell’ufficio, ma poi si tratteneva,
perché sapeva riflettere sul fatto che: «una cosa è il buon cuore, un’altra la moneta; tiranno il buon cuore, più tiran-
13 TRI, p. 656. 14 TRI, p. 657. 103
na la moneta; e costa più pena il non dare, che il dare quando non si può».!5 Un altro personaggio femminile contrapposto a Silvia è la madre di Giustino che, dopo anni di lontananza, viene invitata
a Roma per aiutare la nuora a partorire. Il figlio, da sempre sottomesso, l’aspetta inquieto perché teme la sua disapprovazione del ménage familiare condizionato dalla letteratura. All’arrivo alla stazione, l’anziana signora, appassita, timida e impacciata,
appare come «intronata», capace di parlare solo a monosillabi. Giustino si affretta a rassicurarla in merito alle ambizioni di Silvia, scrittrice anzi «troppo modesta», e le spiega come il successo di lei sia tutto merito suo. La signora viene accolta bene da Ippolito, contento di vedersi attorno finalmente «una brava donnetta all’antica», e inizialmente anche da Silvia, desiderosa di protezione materna. Nel frattempo, iniziano le prove teatrali del dramma La nuova colonia, con Laura Carmi nei panni della
prima attrice. Silvia se ne sente turbata. La sua opera letteraria ora le sembra estranea, falsa fino al disgusto. E ne rievoca mentalmente l’intera trama, che ha una funzione contrappuntistica importante nell’intelaiatura del romanzo. Percorriamola dunque rapidamente: in una piccola isola dello Jonio, in origine luogo di pena, poi abbandonata e in rovina, vive una colonia di marinai di Otranto, rozzi e primitivi,
come fuori dal tempo. Spera, la donna del capo, è un’ex prostituta, che tra i coloni vive onorata come una regina e come una santa. Nell’isola, la donna è diventata un’altra persona: compagna virtuosa del forte Currao e madre felice del figlio avuto da lui. La serenità dura fino al giorno in cui sbarca nell’isola una nuova colonia di profughi. Dopo aver conosciuto la giovane Mita, figlia di un anziano marinaio, Currao decide di abbandonare Spera. La donna, disperata, si aggrappa al figlio. Ma il padre di Mita, padron Dodo, per acconsentire alle nozze, pretende che il ragazzo vada a vivere con Currao e la nuova moglie. Spera scongiura perché il figlio non le sia tolto, arrivando persino a supplicare la futura sposa e il suo vecchio padre. Alla fine, arrendendosi all’evidenza del fallimento del-
15 TRI, p. 668. 104
le sue speranze, uccide il figlio, urlando e «ruggendo di disperazione», in un «amplesso» folle d’ira. Subito dopo, un violento terremoto spacca la terra, che inghiotte uomini e cose. Nell’explicit, sullo sfondo della catastrofe, Spera grida a Currao dall’alto di un monte: «Muori, dannato!» Silvia vorrebbe vedere le prove a teatro, ma, per la troppa emozione e la gravidanza inoltrata, non vi si reca mai. Giustino, al contrario, si comporta come se fosse il regista: si occupa della scenografia e dei costumi, segue la recitazione, sbeffeggiato dai comici, che gli fanno provare le battute, per applaudirlo amo’ di scherno. Il critico Casimiro Luna arriva persino a proporre una colletta per fare stampare cento biglietti da visita intestati a «Giustino Roncella nato Boggiòlo». Egli resta indifferente al generale dileggio e continua a lavorare senza risparmiarsi fino al successo trionfale dello spettacolo. Ad esso, e alle tensioni del pubblico, che lo attraversano fino allo scioglimento catartico del lungo applauso finale, è dedicato l’intero quarto paragrafo, che contiene un quadro d’ambiente davvero raffinato, con una folla di personaggi minori, soprattutto critici e attori, colti negli aspetti più vivaci di una caratterizzazione espressionistica sottilmente ridicolizzante. Assistono alla prima anche Maurizio Gueli e la sua convivente Livia Frezzi, che abbandonano il teatro prima della fine, per uno dei soliti attacchi di insana gelosia della donna. Silvia, invece, è assente. La struttura speculare del ro-
manzo vuole che, proprio mentre il dramma va in scena, l’autrice stia rischiando di morire per il parto. Alle ovazioni del pubblico, che la chiama sul palco, suo marito si lancia, pronto a uscire In sua vece.
Il capitolo seguente, intitolato Dopo i trionfo, è dedicato quasi interamente a Silvia, miracolosamente scampata alla morte proprio nel momento del tripudio. La puerpera, che parte per Cargiore, in Piemonte, dove, dopo l’allattamento, dovrà
lasciare il bambino alla suocera, viene accompagnata alla stazione da una folla festante di ammiratori. Nella ressa è presente ovviamente anche il marito che, sfinito e tuttavia ancora
smanioso, si sente protagonista più di lei. Sua moglie, infatti, «aveva partorito quel gracile cosino rosa». Lui, invece, «un gi-
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gante, che voleva darsi a camminare a grandi gambate per tuttal’Italia, per tutta l'Europa, e anche l'America, a mietere allo-
ri, ainsaccar denari». E poiché toccava proprio a lui, «già stremato di forze, così sfinito per il suo parto gigantesco»!6, andargli appresso per il mondo, era forte l'amarezza per l’ingratitudine della moglie, che restava indifferente, pallida, con le labbra esangui, in quel turbine di attenzioni e onori.
Dopo la partenza di Silvia, Giustino continua la propria attività, sempre più ridicolizzato dai critici e dagli agenti editoriali. Si reca anche da Maurizio Gueli e ne viene accolto molto freddamente. Nel frattempo si è infatti diffusa la notizia che il critico sia segretamente innamorato della scrittrice,
di cui la sua compagna, malata di mente, è follemente gelosa. Della lunga separazione dalla moglie, cerca di approfittare Dora Barmis, che esplode a tratti nella solita risata folle e convulsa di fronte alla reticenza e al pudore ingenuo di Giustino. Ma questi resta incorruttibile e una sera, a una profferta più esplicita delle altre, le risponde: Tutte le donne per me sono come uomini, ecco; non ci faccio
più alcuna differenza. Donna per me è mia moglie, e basta. Forse per le donne è un’altra cosa... Ma per gli uomini, creda pure, almeno per me... L’uomo ha tant’altre cose a cui pensare... Si figuri se io, tra tanti pensieri, con tanto da fare...!7-
Nel frattempo Silvia, immersa nella solitudine di Cargiore, diventa consapevole della rivoluzione avvenuta nella propria esistenza. Di fronte alla chiesa antica del paese, il cui
orologio reca la legenda Ognuno a suo modo (si tratta di un’altra citazione intertestuale: è il titolo di una commedia di Pirandello), la donna riflette sulla sua nuova condizione di madre e di scrittrice di successo e si sente ostile a tutti. Il demone artistico risorge più forte di prima, in un furore creativo che la spinge per la prima volta a comporre versi, dei quali prova una gioia «quasi divina»!8, La sua estraneità nei confronti del con-
16TRI, p.700. 17 TRI, p.719. 18 Si tratta della poesia Verrà tra poco, senza fin, la neve, che ancora
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testo familiare e sociale è totale: Silvia ride delle moine della madre di Giustino, del suo comico pretendente «monsù» Martino Prever, che vorrebbe sposarla nonostante l’età, e ride
persino del successo della Nuova colonia. Legge le analisi dei critici e non vi si riconosce, non ricorda più neppure come e
perché avesse scritto quel dramma. Certo, il successo le provoca una vertigine di piacere, ma se ne sente ancora estranea, forse perché vive da reclusa nello sperduto villaggio montano, forse per la progressiva rivelazione della crisi coniugale. Nelle lettere frettolose che il marito le scrive, le elenca i problemi materiali, i costi, iguadagni, grondando soddisfazione per il proprio successo di impresario. Il disgusto nei suoi riguardi le si palesa dopo una lettera della Barmis, che all'improvviso le fa affiorare una percezione fino a quel momento latente: il ridicolo di cui si copre Giustino negli ambienti letterari. Qualche giorno dopo, un’inattesa lettera la rende improvvisamente conscia della propria attrazione erotica per Maurizio Gueli, l’unico che abbia saputo capirne l’opera, l’unico che potrebbe corrisponderle emotivamente. «Il lieve superficiale accordo di sentimenti»!9 che ancora reggeva il precario equilibrio della sua vita ne viene brutalmente frantumato. E, dopo l’improvvisa morte dello zio Ippolito, si vede «esclusa da tutte le parti»?0. Affiorano con la violenza dei sentimenti lungamente sommersi lo sdegno, il disamore, il disprezzo nei confronti del marito.
E si tratta di un’emersione benefica. Ne deriva infatti che quando, in primavera, vengono a intervistarla, Silvia, rinata, li-
berata, sappia concedersi sicura alla macchina fotografica, compiaciuta di posare. Di fronte al giornalista, «anche lei si era scoperta un’altra». E capisce di essere finalmente se stessa, «quale ormai doveva essere»?!. Il quinto capitolo, intitolato La crisalide e il bruco, è dedicato alla metamorfosi di Silvia. Il suo rientro a Roma, dopo il periodo di isolamento, la vede totalmente trasformata, con una volta è dello stesso Pirandello: si tratta della seconda strofa della poesia Cargiore, pubblicata su «La Riviera ligure» nel 1903.
19 TRI, p.736.
20TRI,p. 737. 21TRI, p. 740.
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grande sconcerto di Giustino. Fin dall’arrivo alla stazione, la moglie lo accoglie gelidamente. Né si mostra capace di apprezzare il lussuoso villino che, la moglie ha comprato e arredato con grande sfarzo, durante il suo soggiorno piemontese, dietro suggerimento di Dora Barmis. Nell’ultimo periodo di convivenza, affiora tutta l’ingenuità del personaggio maschile, che di fatto spiana la strada alla separazione senza neppure rendersene conto. Condizionato dalla Barmis, con la quale pure non ha alcun rapporto intimo, egli ha arredato due camere da letto indipendenti, per seguire i dettami della moda. La divisione del talamo consente più facilmente a Silvia di interrompere ogni intimità carnale. Insensibile ai sentimenti come all’arte, Giustino, insomma, viene travolto dal crollo del proprio matrimonio, perché non sa capire i sintomi della crisi. Silvia,
invece, è giunta alla coscienza piena della necessità di un distacco, anche se non sa ancora decidersi a metterlo in atto.
La situazione diventa per lei insostenibile dopo un ricevimento domestico, in cui la donna si sente rivolgere complimenti sfrontati e diretti da parte di molti uomini. Stupefatta e sconcertata, si rende conto che Giustino non solo non se ne cura, ma se ne mostra contento, certo della sua onestà e con-
vinto che gli apprezzamenti aiutino la carriera. Dopo questa scoperta, la crisi è totale. La moglie non riesce più a scrivere. Il marito le rinfaccia i propri sacrifici, richiamandola ai suoi doveri. Durante una notte insonne, si fa strada in lei una co-
scienza quasi femminista: ricorda le donne di Taranto, sottomesse ai mariti, sicure e serene nella loro protezione. Lei non
sarebbe mai stata così. Già allora «le pareva che la donna dovesse anzi offendersi di quella gelosa cura degli uomini come d’una mancanza di stima e di fiducia»?2. Ora capisce che quelle, sposatesi senza amore, stimavano i propri uomini per-
ché le rispettavano. Anche lei si era sposata senza amore, e per lungo tempo si era sentita rispettata. Ma ora lui la spingeva nelle braccia di altri, ne violava l’intimità e anzi quella intimità voleva far fruttare, per arricchirsi grazie ad essa. L’amore non c’era mai stato, ora non c’era più neppure la stima. 22 TRI, p.764.
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Nell’acme della crisi coniugale, assume un ruolo di spicco il critico Paolo Baldani, che suggerisce a Silvia l’ampliamento dell’abbozzo di una novella contenuta nel primo romanzo, Le Procellarie. Si tratta di Se ron così..., altro celebre
testo pirandelliano, incentrato sul caso di una moglie sterile, Ersilia Groa, che ha sposato un letterato privo di ispirazione. Il marito la tradisce con un’altra donna, da cui ha avuto una
bambina. Scoperto il tradimento, Ersilia si impone di aspettare e perdonare, ottenendo per la sua tenacia prima la gratitudine, poi il rinnovato amore del marito, nonché il ritorno de-
finitivo di lui con la bambina. Ben si vede come la trama di questa novella, che diventa subito, nel romanzo come nell’opera di Pirandello, un testo
teatrale, funzioni da elemento portante dello strutturale gioco di specchi su cui è costruito Suo rz4rit0, come già quella della Nuova Colonia. Si tratta infatti di una storia inversamente corrispondente, in senso speculare, a quella della scrittrice. Forse per questo, Silvia non riesce in un primo tempo a completarla. Deve progettarla «con la volontà e non con istinto», proprio perché desiderosa di un esito opposto della trama della propria vita. Silvia, in effetti, è l’antitesi di Ersilia: è la madre che ha abbandonato il figlio, è la moglie che vuol rifiutare il marito, è la donna che desidera essere amante di un altro uo-
mo. Quest'uomo, già lo si è facilmente immaginato, è Maurizio Gueli. Quando il critico si presenta inaspettatamente al villino, ben accolto dall’ignaro e ottuso Giustino, la scrittrice si sente quasi spinta nella relazione, che tuttavia non ini-
zia subito. Essa è infatti preceduta da una lunga fase preliminare, durante la quale l’uomo la aiuta quotidianamente nella redazione di un dramma nuovo, dietro le insistenti pressioni del marito. Boggiòlo parte intanto per Parigi, per assistervi alla rappresentazione della Nuova colonia. Proprio il giorno in cui ritorna a Roma, Silvia e Maurizio scappano insieme.
La fuga, però, ha inaspettatamente un decorso estremamente breve, narrato nel capitolo successivo, Vola via, dopo un
excursus riservato al complesso personaggio dell’amante. Questi è veramente l’anti-Giustino, nell’equilibrio strutturale per coppie oppositive che spesso regge i romanzi di Pirandello. 109
Maurizio corrisponde a Silvia nella natura artistica e sensibile, laddove Giustino corrisponde a Livia Frezzi sotto il profilo della possessività (infatti è proprio questo il commento che Giustino pronuncia, quando riceve la lettera d’addio di Silvia: «Chissà che si figurava di lui il Gueli! Che egli volesse vessar la moglie come la Frezzi vessava lui?»?3). Solo dopo il fallimento della fuga con Silvia si colgono in pieno le tracce chello scrittore ha disseminato nelle precedenti descrizioni dell’uomo, e soprattutto nella digressione che apre il sesto capitolo. Alla fine si capisce, infatti, che il pur colto e sensibile Maurizio è tuttavia, esattamente come Giustino, incapace di emancipazione emotiva, psicologica e dunque anche intellettuale. Anche lui, infatti, è segnato da una diversa, e forse più grave, crisi della virilità,
che si manifesta nella passiva e patologica accettazione di una variante paradossale del modello maschilista. Egli era infatti sotto «il giogo di un capestro» da cui non riusciva a liberarsi: la malsana relazione sentimentale con Livia Maduri. Questa era
cominciata nel periodo del suo primo soggiorno romano, dopo il trasferimento da Genova a Roma in seguito al successo del suo Socrate demente (si noti l'ironia del titolo). Il mediocre storiografo Angelo Frezzi lo aveva accolto come un amico, mentre la sua seconda moglie, ventenne, si era fin dall’inizio rivelata ostile e sprezzante. Era nata così, quasi per ripicca, una relazio-
ne angosciosa, favorita inconsapevolmente dal marito di lei, insofferente a sua volta delle spinosità caratteriali della donna, in
seguito esplose in vera follia. Dopo la scoperta della tresca, gli amanti erano stati costretti a fuggire e non si erano più separati. Ma, più che amore, il loro era un legame malato, una vera «insana malia». Livia, sprezzante verso gli uomini, rivelava solo
nell’intimità con Maurizio una sensualità conturbante e coinvolgente, che però faceva pagare a caro prezzo, perché era patologicamente gelosa e possessiva, persecutoria persino nei confronti dell’arte dell'amante, che infatti si era inaridita. Per Livia, la letteratura era un'attività disonesta, anzi «la più ridico-
la e disonesta delle professioni»?4.
23 TRI, p. 826. 24TRI, p.789. 110
Al momento dell’inizio della relazione con Silvia, Mau-
rizio era giunto al punto di «non poter più vivere con lei» e neppure «senza di lei». Il rapporto con la Frezzi aveva pienamente raggiunto la pericolosa china di un odio-amore sadomasochistico, inscindibile e distruttivo fino alla fine. Egli può trascorrere un periodo al villino dei Boggiòlo solo perché, dopo un’ennesimallite, si è separato per quindici giorni dalla sua persecutrice. Ma alla notizia della fuga del suo uomo con la Roncella, la convivente o va a cercare a Ostia, dove gli amanti si trovano effettivamente, e non a Orvieto, come hanno fatto
credere a Giustino, e gli spara, provocandogli due gravi ferite al ventre e al braccio destro. Poi viene arrestata. Parallelamente, alla scoperta dell'abbandono e dell’adulterio, Giu-
stino crolla in un pianto sconsolato, circondato da Dora Barmis e da altri letterati, che continuano anche in quel momento
a dileggiarlo: «Sublime, sublime, bisognerebbe assolutamente, poverino, che subito qualche altra scrittrice se lo prendesse per segretario!»25.
Nell’ultimo capitolo, Lurze spento, sul protagonista si rovescia però una nobilitante luce umoristica. Ridotto in uno stato «davvero pietoso», lo si vede forse per la prima volta innamorato di Silvia. E solo in queste pagine che affiora nel marito un sentimento simile all’amore, ed è questo che lo spinge a dare prova di grande generosità, contro l’affarismo che lo aveva caratterizzato fino ad ora, nella disinteressata rinuncia a tutti i beni. Silvia, invece, nel momento della sua emancipa-
zione di artista e di donna, resta quasi in ombra. Se ne intuiscono l’amarezza e la malinconia, e al tempo stesso la grandezza e la determinazione. Maurizio Gueli ha subìto l’amputazione del braccio destro, ma è tornato lo stesso a vivere con
Livia, scarcerata dopo alcuni mesi perché incapace di intendere e di volere. Di fronte a questo sviluppo degli eventi, lo stesso Giustino crede che tra sua moglie e il critico, in realtà, non sia mai accaduto nulla. L'incontro erotico, in effetti, resta in dubbio fino alla fine, quando viene rievocato nell’unico
fulmineo ricordo di Silvia al funerale del figlio, come il peg-
25 TRI, p. 830. 111
giore dei tanti orrori che avevano tediato la sua vita: la «vergogna di un unico amplesso, tentato quasi a freddo, per un’orrida necessità ineluttabile, là a Ostia, e rimasto disperatamente incompiuto; si sentiva insozzata da esso per sem-
pre». Dopo questa esperienza, come Marta Ajala, Silvia resta per sempre esclusa dall'amore: «La memoria viscida di quell’unico amplesso mancato le aveva incusso una nausea invincibile, un’abominazione, nella quale si sarebbe ormai sempre affogato ogni desiderio d’amore»26. Giustino, come Rocco Pentàgora, vorrebbe riprendersela: si reca di nascosto a Torino per vederla in teatro, durante la prima di Se ron così...,
cui assiste tra spasmi d’ansia anche per l’esito della rappresentazione. Ma se il dramma, che si conclude con una rappacificazione coniugale, si rivela un grande successo, per i Boggiòlo non vi è più alcuna possibilità. Giustino stesso se ne rende inequivocabilmente conto appena vede la moglie sul proscenio: «diritta, pallida, (...) con una dignità non fredda, ma piena di un’invincibile tristezza». E gli sembra ormai un’altra donna: lontana, irraggiungibilmente lontana, sopra di lui, sopra di tutti, per quella tristezza ond’era tutta avvolta, isolata, innalzata, così diritta e austera, com'era uscita dalla tempesta at-
traversata; un’altra per cui lui non aveva più ragione di esistere28,
A differenza di Marta, insomma, Silvia riesce a completa-
re la propria emancipazione intellettuale, perché resiste alla tentazione di regredire e sa affrontare le pur drammatiche conseguenze di una coscienza lucida: l'impossibilità di tornare indietro. L'ultimo incontro tra i coniugi avviene, come già quello tra Marta e Rocco, durante una veglia funebre, di fronte al fe-
retro del figlio. In questo episodio finale si concentra l’ultimo effetto speculare giocato sull’inversione simbolica delle situa-
26TRI, p. 864. 27 TRI,p.854. 28TRI, p. 855. 112
zioni. Il bambino di Giustino e Silvia si ammala di perniciosa mentre il padre assiste di nascosto alla prima torinese di Se non così.... Sembra ripetersi la stessa situazione che si era veri-
ficata durante la prima della Nuova colonia, dove anche Silvia, oltre al bambino, aveva rischiato di morire. Ma l’esito è
opposto: ora Vittorino, così chiamato in onore di quel primo successo teatrale, muore. La nuova colonia si concludeva con
la morte di Currao e del figlio. Per contrasto, Silvia e il suo bimbo si salvavano. Il finale del nuovo dramma celebra la riconciliazione coniugale e la consegna della bambina al padre da parte dell’amante. Per contrapposizione, Vittorino muore e i Boggiòlo si separano definitivamente. Le trame teatrali giocano a contrappunto con quella del romanzo, e servono a prepararne il finale, improntato alla sconfitta di Giustino. Avvisata della morte del figlio, Silvia accorre a Cargione da Torino. Al suo ingresso in casa, l’uomo le si accosta piangendo, urlando, implorandole di restare. Lei resta inerte, gelida, livida. Alla fine, egli è consapevole della «morte di tutto» e, dopo la deposizione della bara, «depone» nelle mani della donna «gli ultimi resti» della sua vita, «le carte, gli appunti, i numeri di telefono» dei consulenti teatrali ed editoriali, esortandola a non farsi derubare. Il marito, insomma, prima del-
l’addio definitivo, riconsegna alla moglie gli emblemi della propria carriera di impresario letterario, conscio di essere privato per sempre dell’unico, totalizzante scopo della propria vita.
III L'interpretazione
Tra i romanzi antecedenti, il più vicino a Suo rarito è indubbiamente L’esclusa, per la centralità di un personaggio femminile che vive una difficile emancipazione culturale e sociale, originata almeno in parte dalla crisi dell’istituzione matrimoniale borghese. Nell’ultimo dei due, però, a differenza di quanto accade nel primo, dove Marta Ajala domina di gran lunga il campo della narrazione, protagonisti sono entrambi i coniugi Boggiòlo, in egual misura. Anzi, sta proprio nel pecu113
liare impianto «asimmetrico», «leggibile dalla parte di lui e dalla parte di lei»29, la prima novità più rilevante del romanzo. La seconda sta nella figura di Giustino, carattere maschile del tutto nuovo e che resterà isolato nell’orizzonte narrativo pirandelliano. Oltre allo scavo delle personalità dei coniugi, nel romanzo assume un netto rilievo la critica all'ambiente dei circoli letterari romani. Man mano che la storia del matrimonio si svolge attorno alla progressiva affermazione letteraria della moglie, per logorarsi in proporzione inversa alla sua crescita, fino al culmine simbolico della morte dell’unico figlio, l’attenzione del lettore si concentra sull’affresco della cerchia intellettuale (o pseudo intellettuale), letteraria e gior-
nalistica, che ruota attorno alla coppia. Pirandello condanna la superficialità e la frivola mondanità di un preciso contesto culturale e letterario, al tempo stesso rivelando di essere con-
flittualmente immerso in esso. I riscontri autobiografici, in effetti, sono evidenti. Un
chiaro riflesso della sua esperienza professionale è visibile nella descrizione dell’attività teatrale, con le messe in scena,
il pubblico e il mondo degli attori. La stessa Roma è indubbiamente quella vissuta dallo scrittore: una città popolare e piccolo borghese, mai idealizzata, come quella altoborghese di d'Annunzio, e rappresentata invece nella sua prosastica dimensione provinciale39. Anche il giudizio negativo sulla «meschina farmacia della critica militante» è una spia del disagio con cuilo scrittore, anche nella fase di massimo successo, visse il rapporto con la società letteraria italiana. Neppure a Roma egli si era perfettamente integrato: non frequentava i circoli della «Cronaca bizantina» e del «Convito», nei quali invece si ritrovava d'Annunzio, anche per un
sostanziale dissenso culturale. Il giro delle sue frequentazioni letterarie era quello meno in vista e per molti aspetti più provinciale di Ugo Fleres, Giuseppe Mantica e Giovanni
29 Borsellino, Ritratto e immagini, cit., p. 47. 30 Su questo specifico tema, è utile: Giovanni Marchi, La Roma di Pirandello. Una, nessuna e centomila, Istituto Nazionale di Studi romani, 19708
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Alfredo Cesareo. Ne facevano parte anche scrittori di primo piano, come
Luigi Capuana, e come l’intimo amico di
Pirandello Ugo Ojetti, a cui fra l’altro è dedicato Suo marito. I suoi interlocutori erano però legati a una formazione positivistica, di ascendenza veristica e siciliana. L'intero gruppo di «Ariel», peraltro, era composto da siciliani e meridionali. Lo scrittore, che aveva già posto radicalmente in discussione
la propria formazione positivistica, grazie all’influenza di varie letture, da Gabriel Séailles al più volte citato Alfred Binet,
filtrate attraverso il bagaglio culturale ereditato dal soggiorno in Germania (gli autori e gli studiosi più influenti sul giovane Pirandello, lo ricordiamo, erano stati, fra gli altri, Goethe, Heine, Tieck, Chamisso, Lipps), ne sentiva anche la
soffocante chiusura. Come si è notato nel paragrafo precedente, le opere di Silvia sono spesso opere di Pirandello3!, Ciò ha spinto molti critici a tecrizzare un’identificazione proiettiva, peraltro in verità problematica, dello scrittore nel personaggio. Più che una vera e propria autobiografia, seppure celata dietro una maschera fittizia, sarebbe meglio intravedere dietro l’autocitazionismo la pianificazione di un impianto metatestuale, nel quale la narrazione oscilla tra la finzione e la realtà, costruendo un discorso di secondo grado sull’identità dell’autore e su quella della scrittura letteraria, come avviene nel Fu Mattia Pascal. Al suo complesso gioco, collaborano le citazioni di in-
teri inserti narrativi che creano l’effetto di una variegata stratificazione dei livelli interni. L'effetto illusionistico del racconto nel racconto si complica per la loro specifica collocazione nell’ordito romanzesco, in quanto le trame citate funzionano, come si è visto, come digressioni contrappuntistiche
speculari alla trama complessiva. Gli intrecci della Nuova colonia e di Se non così... si intersecano secondo un raffinato
gioco di rifrazioni a specchio, dense di simbologie. Non è dunque la pura e semplice ambientazione romana a sancire la fuoriuscita definitiva di questo romanzo dal filone 31 Una rassegna completa dei riferimenti intertestuali è a cura di G. Macchia, in TRI, p. 1049.
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siciliano in cui si ascrivono i primi due, e in parte anche I vecchi ei giovani. Il cambiamento di paradigma riguarda proprio il nucleo sostanziale della rappresentazione romanzesca, che non è più riconducibile solo allo scontro tra le generazioni filtrato attraverso il conflitto tra i sessi, ma si assesta intorno al
problema dell’identità nuova dell’intellettuale, in linea quindi con l’esperienza esistenziale che traspare piuttosto dai Quaderni diSerafino Gubbio operatore. Il fatto che Silvia non sia un doppio di Pirandello è confermato anche dalla neutralità che accompagna il tratteggio di entrambi i coniugi da parte del narratore, extradiegetico e onnisciente. Il lettore, in effetti, non è spinto a parteggiare per nessuno dei due. Sotto questo profilo, Silvia coinvolge forse meno di Marta Ajala, la cui volontà di riscossa, accompagnata al vittimismo, la rendeva una sorta di eroina tragica. Anche nella Roncella è visibile in filigrana una sorta di progetto eroico, che viene però smorzato in ragione della progressiva crescita umoristica, a contraltare, di Giustino. La pa-
rabola di quest’ultimo, infatti, presentato per tre quarti dell’opera sotto i riflettori deformanti dell’eccesso e del ridicolo, nelle ultime pagine si conclude con una curva ascensionale. La pur incompleta nobiltà d’animo, la pur sciocca abnegazione del marito ne mostrano alla fine lo spessore di personaggio complesso e certo positivo, ribaltando la sua immagine da comica a tragicomica.
Rispetto alle altre donne del romanzo, Silvia è un personaggio isolato. Tra esse spiccano i due tipi estremistici di Dora Barmis e di Livia Frezzi, rapportabili la prima, cinica e isterica, allo stereotipo del divismo e di un romanticismo deteriore, la seconda, paranoide e maniacale, al còté decadente della vi-
rago. Entrambe sono estranee al modello familiare borghese che appariva ancora solido e socialmente condiviso nell’Esclusa. Ed è emblematico che ad esso, in Suo rarito, si possa in
qualche modo ascrivere solo la fragile e illetterata madre di Giustino: dietro gli scenari del romanzo, insomma, si registrano cambiamenti sociali di grande rilievo. Le nuove donne sposano però modelli alternativi fallimentari rispetto ai vecchi: Edy Faciolli per la sua zitellaggine patetica, Dora Barmis 116
per le pose costruite, Livia Frezzi per la crudeltà e la follia. Solo Silvia offre un modello di equilibrio, a ben guardare, anche in confronto ai personaggi maschili. Il suo isolamento finale è quasi inevitabile: deriva dall’impossibilità di riconoscere un proprio corrispettivo intellettuale nell’altro sesso. Per l'esito della sua parabola esistenziale, Maurizio Gueli è forse più importante di Giustino, in quanto è proprio il suo comportamento aberrato che determina l’aridimento erotico e amoroso della protagonista. Il coniuge è un uomo infantile, semplice, ingenuo, un po’ grossolano. È certo un maschio mancato, che si compenetra fin troppo pacificamente nel regesto tradizionale del dominio coniugale, in realtà fondato su una obiettiva inferiorità. Ma, alla fine, la sua sordità all’arte e il
suo attaccamento all’utile vengono in qualche modo attenuati o addirittura smentiti. L'amante delude assai più del consorte. Nella fine brusca della relazione si conferma, infatti, l’incapacità dell’uomo a emanciparsi da un modello femminile, dominante fino alla patologia e castrante anche per la sua attività artistica. La crisi della virilità, nel raffinato uomo di cultura,
non è certo meno grave. Impossibilitata a restare unita al pragmatico marito, Silvia non può neppure congiungersi al-
l’intellettuale insterilito e represso. Una rilevante novità di questo triangolo erotico, rispetto al primo romanzo di Pirandello, sta nella completa caduta di una morale trionfante. Nelle tre diverse fenomenologie psicologiche non c’è più traccia di moralismo: il relativismo è pienamente in campo e ha travolto i valori, i sentimenti, e le stesse complessità coscienziali dei personaggi. Come dimostra, invece, un esplicito collegamento con Marta Ajala, la freddezza e l’inibizione sessuale sembrano essere caratteristiche delle donne in via di emancipazione. La rinuncia di Silvia all'amore è infatti proprio il segno del suo affrancamento. 32 Si tratta di un affrancamento anche artistico che non raggiunge certo le vette «dell’esame di critico fantastico», riservate solo a personaggi maschili come, in particolare, Mattia Pascal, Serafino Gubbio e Vitangelo Moscarda. Ma non è da condividere, in questo caso, il giudizio di Maria
Antonietta Grignani, secondo cui Silvia resta eroina di una rivolta imperfetta, ove trasgressione, vittimismo e senso di colpa inibiscono l’uscita libe-
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L’inconciliabilità dell'amore con la scrittura, e quindi con una dimensione intellettuale, è probabilmente un'ossessione pirandelliana, ma di grandissima pregnanza e profondissima intuizione. Dietro il limite realistico che fa sposare alla protagonista il mito fier de siècle dell’ispirazione poetica “divina”, Silvia nasconde, in virtù di essa, un carattere di estrema e assai
vitale modernità. Il titanismo cui ella approda al termine del romanzo ne costituisce un vertice, sia perché si fonda sulla scoperta tragica della solitudine intellettuale femminile (cui consegue la rinuncia all'amore, inseparabile per un'artista dalla ricerca di affinità culturali), sia perché poggia sulla coscienza di un relativismo alieno da mitologie consolatorie. La tristezza profonda che non riesce più a lasciarla, dopo la separazione da Giustino, deriva proprio da questo: che la scrittura ha per lei solo la funzione, pur felice, di liberare un'energia creativa fine a se stessa. La letteratura non costruisce miti eroici e forme di divismo. Se Silvia alla fine veramente vive, senza più lasciarsi vivere, la sua esistenza nuova consiste solo
nella coraggiosa accettazione della «nudità» e dell’«assurdità» della vita. La critica non tende a considerare Suo marito un romanzo di primo piano nel corpus pirandelliano. Ricondotto in genere alle propaggini del naturalismo, esso viene tutt'oggi sottostimato33. Come I vecchi e i giovani, è al centro di una graduale, anche se meno vistosa, rivalutazione. Ma è ancora lonratoria dalla vecchia coscienza», Retoriche pirandelliane, cit., p. 136.
33 Qualche indicazione bibliografica relativa a studi dell’ultimo decennio: FE. Todero, Pirandello e la fabbrica del successo: l’autore e il pubblico in «Suo marito»,
in Scrittore e lettore nella società di massa.
Sociologia della letteratura e ricezione: lo stato degli studi, Lint, Trieste, 1991, pp.531-553; L. Kroha, La scrittrice come oggetto di scambio nel romanzo «Suo marito» di Pirandello, in The Woman Writer in Late-nine-
teenth Century Italy. Gender and the Formation of Literay Identity, Mellen Press, Lewiston, 1992; G. De Donato, Ur personaggio da romanzo: Grazia Deledda in «Suo marito», «Rivista di studi pirandelliani», 6-7, 1992, pp. 21-40; L. Fava Guzzetta, Letteratura ‘en abyme’ in Giustino Roncella nato Boggiòlo, in Percorsi di scrittura nel Novecento italiano,
Gei, Roma, 1993, pp. 31-54; V. Giannantonio, Laboratorio pirandelliano: la revisione di «Suo marito», «Critica letteraria», 1,1994, pp. 121-30.
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tano dall'essere considerato, come meriterebbe, un piccolo
capolavoro. Pur non raggiungendo la forza espressiva e la grandezza dei tre maggiori romanzi di Pirandello, e cioè I/fu Mattia Pascal, iQuaderni di Serafino Gubbio operatore e Uno, nessuno e centomila, nell'ambito della restante produzione l’opera riveste un ruolo di primo piano. Certo, il personaggio femminile rischia di apparire troppo legato da un canto al còté dell’onestà sessuale, e dall’altro, più incisivamente, a
quello del genio artistico, di ascendenza romantica, che vive al di fuori di ogni possibile integrazione sociale. Sembrano però eccessivi giudizi come quello di Nino Borsellino, per cui il romanzo sarebbe gravato da troppe «motivazioni irrelate: umoristiche, satiriche e finanche autobiografiche»34. La va-
rietà delle motivazioni, la qualità della scrittura, l’intarsio a dittico, la ricchezza dei tipi maschili e femminili, tra i quali serpeggiano i consueti temi della follia, del riso, della morte, del conflitto tra i sessi e tra le generazioni, e ai quali si aggiunge il tema nuovo della crisi della virilità, rendono invece questo romanzo particolarmente riuscito, oltre che estremamente coinvolgente e ricco di sollecitazioni.
34 Borsellino, Ritratto e immagini, cit., p. 48.
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Introduzione L’esclusa
I. La redazione II. L’opera
III. L'interpretazione Ilturno I. La redazione II. L'opera III. L'interpretazione Il fu Mattia Pascal
I. La redazione II. L’opera III. L'interpretazione Suo marito
I. La redazione II. L'opera III. L'interpretazione
I vecchi e i giovani I. La redazione II. L'opera III. L'interpretazione
Quaderni di Serafino Gubbio operatore I. La redazione
II. L'opera
181 III L'interpretazione
199 Uno, nessuno e centomila 199 I Laredazione 205 232
II. L’opera III L'interpretazione
247 Bibliografia essenziale
258
Finito di stampare nel mese di luglio 2001 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Questo volume è stato stampato su carta «Palatina» della Cartiera Miliani Fabriano
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Dei sette romanzi di Pirandello, solo I/ fu Mattia Pascale Uno, nessuno e centomila sono considerati classici del Novecento. I vecchi e i giovani e Quaderni di Serafino Gubbio operatore hanno cominciato più recentemente a ricevere la meritata attenzione. Gli altri tre, L'esclusa, Il turno e Suo marito, sono, invece, ingiustamente, meno noti al pubblico e meno valorizzati dalla critica.
A tutti è qui dedicato un ampio commento testuale, che segue scrupolosamente l’andamento delle trame, analiz-
zandone i singoli passaggi e snodi. L'illustrazione dettagliata si collega poi a un’ampia serie di proposte interpretative, orientate a rifondare, dopo la ri-
cognizione del dibattito critico, alcuni giudizi di valore. Contro chi ritiene superfluo o addirittura sbagliato accostarsi ai grandi autori, ormai diventati classici, con un intento valutativo, da critica militante, l’autrice ha ritenuto
indispensabile esplicitare e motivare un preciso canone, in qualche caso discostandosi da quello più diffuso e consolidato.
ISBN 88-498- puoi:5 Il \ | | ||
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25.000
€ 12,91
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