Pink Floyd. Musica per immagini 9788862314886, 8862314884

una proprietà specifica della musica dei Pink Floyd quella di evocare immagini interiori nella mente dell'ascoltato

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Pink Floyd. Musica per immagini
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ANTONIO PEDICINI

PINK FLOYD

MUSICA PER IMMAGINI

antonio pedicini

pink floyd musica per immagini

indice

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Una nota prima di iniziare

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Le immagini dei pink floyd, un passato eternamente presente 11 Le prime messe in scena 32 Tonite Let’s All Make Love in London 36 More 41 Obscured by Clouds 49 Zabriskie Point 52 Pink Floyd: Live at Pompeii 58 Noi (la band) e loro (il pubblico): la frattura che ha creato “il muro” 67 “Pink Floyd The Wall”: il film 83 The Final Cut 138 La carrera panamericana 157 Chi è Pink? “Roger Waters The Wall” 161 Epilogo

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Bibliografia consigliata Videografia parziale Note

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una nota prima di iniziare1 ____________________________

Il successo dei Pink Floyd nasce da quattro amici molto affiatati. ROGER WATERS, in Roger Waters – The Wall (Usa 2015, regia di Roger Waters e Sean Evans) Gli amici che hai a quindici anni non li hai più… RICHARD DREYFUSS, in Stand by me – Ricordo di un’estate (Usa 1986, regia di Rob Reiner)2 Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, perché le parole le immiseriscono […]. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dove è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti, ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare. STEPHEN KING, Stagioni diverse Ho scritto THE DARK SIDE OF THE MOON, ma credo che si debba andare verso la Luce, piuttosto che verso l’Ombra. ROGER WATERS

Quell’anno, era il 1991, il mese di agosto si preannunciava particolarmente caldo e nella mia città erano previste temperature torride. La mia famiglia e io (all’epoca mio papà era ancora vivo) eravamo particolarmente indaffarati perché avevamo da poco lasciato la casa nella quale ero nato e cresciuto per una più grande e spaziosa. Sembrerà strano, ma le cose che si lasciano sono ricche di un’anima che solo la fantasia di una mente sensibile

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ascolta e fa pulsare, dotandole di vita propria. Oggi il ricordo più intenso di quella magica estate sono le melodie di THE DARK SIDE OF THE MOON. Fu pressappoco in quel periodo che conobbi Gianni. Senza accorgercene diventammo molto amici. Dopo poco divenne il confidente ideale e l’amico del cuore. Quello con il quale si poteva parlare di tutto. Suonavamo insieme, ascoltavamo musica. E una mattina mi portò a casa una cassetta con su scritto THE DARK SIDE OF THE MOON. La misi immediatamente nello stereo. «È un po’ vecchia, ha un po’ di fruscio, è un peccato…», mi disse Gianni. «Perché?», domandai incuriosito. «Questo è un gruppo», mi rispose con esattezza e quasi mistica precisione, «che esige l’ascolto più pulito che si possa avere. Registrano suoni, voci e rumori con una tale precisione che i brani riprodotti devono essere perfetti, per sentire il loro vero suono cristallino…». Il brano cominciò, e io fui subito catturato dal battito cardiaco che si diffondeva rimbombando nella mia cameretta. I vetri e gli oggetti vibravano in sintonia. Era un suono ipnotico. Poi seguirono i ticchettii e i suoni dei registratori di cassa, anticipazioni di Time e Money, e un urlo risuonò con tutta la sua forza. Era l’apice: il momento di massima espansione drammatica dopo il quale la narcotica melodia di Breathe invase l’ambiente. La slide guitar di Gilmour era languida e trascinante e fu allora che Gianni mi disse: «Non senti com’è espansiva?». Sì, espansiva, è proprio questo il termine che usò. Il più adatto. Espresse alla perfezione il senso di abbandono e di dislocazione cui l’acido può portare. Ma anche senza droga, si può immaginare anche solo con la forza della propria fantasia l’espansione della percezione che si può raggiungere spingendo l’acceleratore su certi stati d’animo. Ormai era fatta. La scintilla era scoccata. Il seme dei Pink Floyd era stato piantato nel profondo. Da allora non avrei più smesso di dedicarmi alla musica del gruppo, che divenne l’argomento principale di ogni conversazione con Gianni. Insieme ascoltavamo, approfondivamo, discutevamo i variegati aspetti riguardanti i Pink Floyd. E ogni volta una scoperta, ogni volta un nuovo studio, ogni volta un nuovo entusiasmo riaccendeva il mio amore. Anche se allora non avevo assolutamente idea di quanto quel disco mi sarebbe stato caro, avrei continuato ad amarlo e ad ascoltarlo per anni. Sarebbe entrato prepotentemente, ma con la dolce forza tipica di ogni grande amore, tra i ricordi più importanti della mia vita, ispirando stili comportamentali e veri

UNA NOTA PRIMA DI INIZIARE

e propri modi di vivere. Inoltre, negli anni successivi, mi avrebbe riportato alla mente una delle amicizie più intense e care che abbia mai avuto. La musica può cambiare la vita. Ma soprattutto può far entrare in contatto con se stessi e trovare (o ritrovare) il proprio vero volto. Quello che hai sempre avuto. E allora, tutto il resto viene di conseguenza. “Conosci te stesso” è uno dei più antichi e importanti comandamenti impartiti all’uomo. Il più ignorato. Ecco, la musica dei Pink Floyd mi ha aiutato a conoscermi e a estrinsecare emozioni e sentimenti che se fossero rimasti dentro di me, inespressi, avrebbero generato angoscia. Ma questa conoscenza profonda è una pericolosissima arma a doppio taglio. Mai lasciarsi prendere troppo la mano e rimanere imbrigliati all’interno di se stessi. Si rischia di non venirne più a capo. Si rischia, subito dopo l’attimo fugace di maggiore possessione, di perdere la consapevolezza di dove sei, chi sei, cosa fai e cosa farai. «Ci sono strade percorse le quali non si fa più ritorno», disse una volta il Conte di Cagliostro. Come dire dopo l’acme di maggiore realizzazione emotiva si spalanca un abisso. Un punto di non ritorno che non concede scampo. È questo abisso che ha danneggiato irrimediabilmente la mente e l’anima di Syd Barrett, il geniale fondatore storico della band alla fine degli anni Sessanta. Lui non ci fece caso. E quando il contatto con la realtà è così labile, così fortemente in opposizione a un mondo potentissimo che preme dal di dentro e chiede solo di essere raccontato, come era per Syd, è bene valutare con attenzione e cognizione ogni piccolo grande passo che si compie verso se stessi. Un approccio totalizzante che porta a una crisi di rigetto. E se la tua vita poggia su un solo perno, dove rifugiarsi per ritrovarsi? Dove trovare un’eco che ti parli di te stesso, di quello che sei sempre stato? Ma forse cercarsi e non trovarsi è proprio il segno che sei a una svolta. È proprio il segno che sei giunto a una sintesi e che devi solo andare avanti verso nuovi lidi. Ma cercarsi non vuol dire forse aver bisogno di una rassicurazione? Magari un’identità che ti venga regalata proveniente dall’esterno? No. Capii che cercarmi voleva dire addentrarmi nella foresta nera e perdermi. Cercarmi voleva dire allontanarmi da me. Cercarmi voleva dire che credevo, con la mente ma non con il cuore, di non aver più niente dentro. E invece smettere di farlo, guardarsi attorno e respirare a pieni polmoni senza paura di insistere tutto ciò che c’è, vuol dire riguadagnare lentamente se stessi. Allora tutto attorno cambia. E la gioia appare. Perché non è nelle cose, ma negli occhi di chi le sa guardare.

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Questo libro riprende e amplia i miei articoli riguardanti il cinema dei Pink Floyd apparsi dal novembre 2000 sulla fanzine «Cymbaline», organo del Pink Floyd fan club che pionieristicamente (in perfetto “stile Pink”) si è seriamente occupata del gruppo con continui e inediti aggiornamenti, oltre a intelligenti e colti collegamenti con altre arti. Ringrazio quindi il suo presidente Carlo Maucioni e il suo staff, che per primi hanno dato voce alle mie idee sulle immagini create dal gruppo. Un ringraziamento particolare all’indimenticabile amico del cuore Gianni, senza il quale non avrei mai conosciuto i Pink Floyd e all’amico fraterno Ferdinando, indispensabile per le ricerche necessarie alla realizzazione del testo. Laura, da sempre amante di chi ama la musica, mi ha riscaldato durante la stesura. Infine, un grazie alla mia critica più severa: Rosaria. A tutti: Shine on!

le immagini dei pink floyd, un passato eternamente presente ____________________________

La musica dei Pink Floyd colpisce la mente in modo tale che nasce spontanea l’evocazione interiore di immagini. È quindi una musica immaginifica, spesso senza una traccia delineata, con andamenti e ritmi liberi (in particolare agli inizi della carriera del gruppo), senza linee guida, priva di struttura, con il solo scopo di indurre la mente a fantasticare. Non è quindi un caso che il cinema abbia sempre desiderato i brani dei Pink Floyd e i Floyd stessi abbiano più volte esternato la loro gratificazione nel comporre colonne sonore per il cinema. Roger Waters, leader e mente creativa del gruppo, ha più volte individuato nella creazione dell’immagine l’origine del grande successo della musica dei Pink Floyd. Immagine volta a generare altre immagini. Immagine in partenza oggettiva, che grazie all’interazione fondamentale con la musica crea la pura emozione della visualizzazione soggettiva nella mente di chi ascolta. Ma l’immagine suonata non può non avere un supporto visivo. L’immagine per eccellenza è quella del gruppo in scena: ed ecco allora i famosi, spettacolari e mastodontici impianti scenografici utilizzati dal vivo nei concerti più famosi dei Pink Floyd, che spesso hanno rappresentato veri e propri grandi eventi, in cui l’importanza dell’occasione si sposava a meraviglia con il fascino storico e artistico del luogo prescelto. Indimenticabile la performance senza pubblico immortalata nel film Pink Floyd: Live at Pompeii (1972, regia di Adrian Maben), oppure quella del 15 luglio 1989, in mondovisione da Venezia, o ancora l’esibizione alla reggia di Versailles. Pregna di significati storici e politici l’ardita esecuzione di THE WALL a Berlino del 21 luglio 1990, a opera di Waters, in occasione della caduta del Muro.

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Il trionfo della scenicità e della spettacolarizzazione della musica rock, quindi, che sopperisce alla totale mancanza di “presenza scenica” dei Pink Floyd, da sempre lontani anni luce dall’incarnazione dello stereotipo della rockstar. Se Mick Jagger crede di non invecchiare mai e desidera solo esibirsi, come ha raccontato una sera a Gilmour3, l’interesse di quest’ultimo è solo suonare la chitarra. In occasione del The Division Bell Tour Gilmour ha dichiarato che lui e i suoi tre compagni, in un certo senso, sono solo accessori dello spettacolo, e la loro presenza sul palco è uno degli aspetti meno rilevanti. Frase che chiarisce bene quanto spazio il gruppo abbia da sempre dato alla cura scenica dei loro concerti. Gilmour chiarisce così con termini semplici ma efficaci il suo concetto di stare sul palco e la sua visione del rock: suonare la chitarra, appunto. Seminascosti tra le sofisticate apparecchiature elettroniche, il risultato sarebbe identico anche se i musicisti fossero addirittura altri. Concetto realmente messo in scena durante il tour di THE WALL del 1980, quando il primo brano In The Flesh fu suonato da una band di sostituti in playback, ognuno con la maschera dello strumentista corrispondente, mentre i veri Floyd suonavano nel backstage. È stata questa spersonalizzazione totale della musica del gruppo a far sì che a esaltarla fossero proprio le immagini, conferendole un aspetto ancora più mistico e magico (a volte addirittura quasi ermetico). Immagini caratteristiche e surreali che ricorrono anche nelle copertine degli album. Da ATOM HEART MOTHER (1971) in poi, infatti, su espressa richiesta del gruppo, queste si distaccano sempre più dal convenzionale prototipo degli album psichedelici precedenti. Scompaiono volutamente visi e fisionomie dei musicisti, per cedere il posto a immagini emblematiche volutamente surreali e di difficile decodificazione. Rick Wright ha dichiarato che i Pink Floyd non hanno mai tentato di vendere loro stessi, ma solo la propria musica, e hanno adottato questa linea di condotta fin dagli inizi. Non hanno mai avuto un agente pubblicitario, non avendone mai sentito la necessità. Non frequentavano le feste in, né i locali in di Londra. Per strada la gente non li riconosceva e, se anche fosse successo, per loro non sarebbe stato un problema. Wright dichiarò inoltre che alcuni musicisti hanno il genere di personalità che incoraggia tutti all’adorazione della persona, ma i Floyd non sono mai stati quel genere di band. Per i Floyd questa era una situazione davvero piacevole da vivere. Anche David Gilmour ha detto che i Pink Floyd hanno sempre condotto lo stile di vita che hanno voluto condurre, e che nessuno del gruppo ha mai

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sentito il bisogno di farsi notare dalla stampa. Con i giornalisti ci sono stati momenti difficili, ha ammesso Gilmour, ma i Floyd hanno dimostrato a loro stessi di non averne bisogno, convinti che il loro successo dipendesse solo da quello che componevano. Quando la concentrazione è sulla musica e non sul personaggio, l’immagine-copertina assurge a una vera e propria individualità, volta non semplicemente e banalmente a presentare il disco, ma ad approfondirne il contenuto attraverso significati aggiuntivi, conferendo all’opera una dimensione ulteriore. Non a caso, la concezione dell’artwork è parte pregnante dell’ideazione e commercializzazione del disco, cui i Floyd dedicavano la stessa cura che avevano nell’incidere i brani. Ne personalizzavano il concept, in stretta collaborazione con il grafico Storm Thorgerson, fondatore dello studio di grafica Hipgnosis e autore di copertine per importanti gruppi rock, come Led Zeppelin, Wishbone Ash e Nice. Amico di vecchia data dei Floyd, Thorgerson è un altro artista proveniente dal giro di adolescenti di Cambridge che si riuniva puntuale ogni sabato pomeriggio a casa di Syd Barrett per suonare e provare le ultime “novità” narcotiche provenienti dall’America. Tuttavia, nel lavoro è sempre stato lucido. Ricorda infatti4 di aver fumato uno spinello sul lavoro solo una volta, prima di una session fotografica con i Pretty Things, dimenticando così di schiacciare un pulsante sulla macchina fotografica. Dopo la session, il gruppo gli chiese come fossero andate le cose. Lui rispose semplicemente che erano andate talmente bene che… non era riuscito a scattare immagini! La sua relazione con i Floyd, ha dichiarato ancora Thorgerson in occasione del The Division Bell Tour, è sempre stata serena: il suo ego rampante gli consente di creare immagini molto particolari che non danno alcuno spazio alla fantasia dei musicisti, i quali, se vogliono concepire le loro proprie copertine… allora non hanno bisogno di lui! Il suo studio, Hipgnosis, ha chiuso la sua attività nel 1983 per l’insofferenza di Thorgerson verso i manager, che “non capiscono niente di arti figurative”, pur avanzando delle velleità in tal senso. Per la copertina di A MOMENTARY LAPSE OF REASON, primo disco dei Floyd di Gilmour senza Waters, Storm Thorgerson fece disporre 800 letti d’ospedale su una spiaggia a Saunton Sands, nel North Devon, perché secondo lui i Floyd dovevano “guarire” dalla “dipendenza” verso la creatività di Roger. Per la copertina di WISH YOU WERE HERE il suo ragionamento fu un po’ più complesso e articolato. Trattando il disco il tema dell’assenza, il geniale grafico ebbe l’idea di rendere assente il disco stes-

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so. Lo chiuse quindi in una cellofanatura nera, che non permetteva di identificarne l’immagine tra gli altri dischi negli scaffali dei negozi. Una rivolta rimossa tale copertina, appariva la vera copertina dell’album: nera con il logo di due mani che si stringono, secondo il grafico un gesto molto formale. Non a caso il disco è anche centrato sulla “falsità dei rapporti interpersonali”, secondo le parole di Waters. Infatti è famosissima, per quel disco, l’immagine di due uomini che “fingono” di darsi la mano; uno dei due sta infatti bruciando (e, ricorda ancora Storm, non ebbe al momento dello scatto la furbizia di mettersi contro vento, riuscendo così a scottarsi il viso). La copertina dell’ultimo disco, THE ENDLESS RIVER, è ancora volutamente surreale: raffigura infatti una gondola con tanto di gondoliere che solca un cielo all’alba, riferimento forse a un mondo “altro” e omaggio e tributo al tastierista Rick Wright, cui il disco è dedicato. Un’immagine che rimanda allo storico concerto a Venezia del 1989, evento clou del Delicate Sound of Thunder Tour che ebbe luogo in occasione della festa del Redentore. Per tale show, trasmesso in mondovisione in 38 paesi, fu approntato un inusuale palcoscenico: un’enorme chiatta galleggiante, lunga oltre 90 metri, larga 30 e alta 24, ancorata a 150 metri da Riva degli Schiavoni. Seguito da oltre 80 milioni di telespettatori, una parte dei fortunati presenti nella città lagunare (oltre 200mila) vi assistette su barche, gondole e altre imbarcazioni attraccate davanti al mastodontico palco. Realizzata dal diciottenne egiziano Ahmed Emad Eldin, la copertina di THE ENDLESS RIVER è stata approvata da Aubrey “Po” Powell, partner di Thorgerson all’Hipgnosis studio. L’immagine della copertina è il leit motiv del riuscitissimo video di Louder Than Words, in cui un gondoliere osserva una landa desolata dall’alto dei cieli, mentre bimbi poveri raccolgono pezzi di navi arenatesi e arrugginite nel “Cimitero delle navi” in Oriente. A queste immagini vengono alternate riprese di repertorio in cui Gilmour, Mason e Wright sono al lavoro in studio. Gilmour canta il ritornello che fa riferimento alla collaborazione con Roger Waters, andato appunto oltre le parole, nonostante i litigi occorsi con il resto della band. Nel video, molto visualizzato su Internet, si segnala l’efficace uso della silhouette del gondoliere, la cui inevitabile filettatura contro lo sfondo blu viene utilizzata in modo creativo, significando la luce del sole. L’immagine diviene così determinante per la fruizione dell’opera, indispensabile alla comprensione della poetica del gruppo. Una formula unica e irripetibile, che rende questa musica fuori dal tempo, al pari di quella classica.

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Il concept album di maggior successo dei Pink Floyd, THE DARK SIDE è stato suonato dal vivo interamente durante il The Division Bell Tour e da Roger Waters come solista nel suo The Dark Side of the Moon Summer Tour (2006). Ancora perfettamente attuale, come ogni grande classico, è la conferma che la musica del gruppo è un passato eternamente presente. Del resto, Roger Waters ha sempre avuto le idee chiare riguardo la creazione di un nuovo mezzo di comunicazione che fornisse un colpo d’occhio diretto attraverso la sinergia di effetti visivi e acustici. Ha infatti dichiarato di voler creare un nuovo ambiente, con l’idea fissa di utilizzare un tendone, andando in tour per le varie città come un circo itinerante, costituendo una grande occasione di spettacolo. In questo tendone Waters immaginava uno schermo gigante, largo 36 metri e alto 12, sul quale proiettare filmati e diapositive. Una sorta di “grande evento” che toccasse varie città, proprio come un circo. Con questa fantasia progettuale del ’67 Waters anticipava di vent’anni l’idea di un impianto scenico unico e itinerante studiato appositamente per il gruppo. Realtà concretizzatasi con il Division Bell Tour, in cui un palco lungo 57 metri e alto 18, dalla forma semicircolare ispirata all’Hollywood Bowl (un’arena americana dove i Floyd si esibirono negli anni Settanta), veniva montato tre giorni prima del concerto da duecento tecnici, al lavoro contemporaneamente anche in quattro città differenti. I tecnici tiravano fuori tutto questo materiale da 58 tir, 33 dei quali dediti solo a trasportare materiale metallico. Occorrevano 18 ore per montare il tutto, sette per smontarlo e due giorni per risistemare 700 tonnellate di attrezzature. L’immancabile quanto prezioso light-show (che con i Floyd di Gilmour aveva anche un possente impianto di raggi laser proiettati verso il cielo) è stato concepito da Mark Brickman e Mark Fisher, in opera già dal precedente A Momentary Lapse Of Reason Tour. Il Division Bell Tour batté all’epoca ogni record d’incasso: 110 concerti in 77 città, 5 milioni e trecentomila biglietti venduti, che fruttarono alla band oltre 100 milioni di dollari; per soddisfare l’enorme richiesta dei fan furono anche aggiunte date inizialmente non previste. L’ultima e più sontuosa ed elaborata messa in scena sembra evidenziare l’impegno che i Floyd hanno preso con se stessi di superarsi di volta in volta quanto a maestosità e innovazione tecnologica. Uno dei loro sogni è rimasto, purtroppo, irrealizzato: Gilmour ha dichiarato infatti che il gruppo aveva sempre desiderato suonare in Egitto sulla piana di Giza, davanti alle piramidi. Tentarono di farlo in ocOF THE MOON,

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casione proprio del Division Bell Tour, ma furono costretti ad abbandonare l’idea a causa della situazione politica sfavorevole. I bizzarri suoni sperimentali di cui sono disseminati i loro dischi diventano dal vivo espedienti per sfoggiare una miriade di effetti scenici sempre più strabilianti, di cui il gruppo si è sempre avvalso. Nell’agosto ’71, ad esempio, durante il garden party al Crystal Palace di Londra, un enorme polipo gonfiabile di quindici metri emerse dal laghetto antistante il palco. Alla Royal Albert Hall di Londra, invece, durante i concerti dei primi anni Settanta, erano soliti fare il loro ingresso durante lo show personaggi abbigliati con costumi strampalati, che attraversavano la sala per salire sul palco in un tripudio di proiezioni cinematografiche ed erogazione di fumo colorato, dopo aver salutato il pubblico con amichevoli pacche sulle spalle. Già nel 1970 lo stesso Waters dichiarava che l’ambizione ultima del gruppo era quello di trasformare i concerti rock in uno spettacolo teatrale completo. Anche da questo punto di vista il vero album-svolta risulta essere THE DARK SIDE OF THE MOON. Il disco infatti è il primo che, dopo una lunga serie di sperimentazioni sonore in studio e visive dal vivo, contiene effetti sonori pensati per essere proposti al pubblico sotto forma di trovate visive: suoni da mettere in scena, quindi. È il primo vero grande show dal vivo, in questo senso anticipatore del grandioso e inimitabile spettacolo live di THE WALL, dove un muro veniva lentamente costruito durante l’esecuzione di ogni brano, completato alla fine della prima parte dello show, con i musicisti che suonavano dietro di lui, e poi fatto crollare nel “gran finale”. Per la prima volta DARK SIDE si avvaleva di suoni che sarebbero poi diventati dal vivo vere e proprie trovate sceniche, e che entreranno a far parte del repertorio fino agli ultimi concerti post-Waters: la sfera di specchi, il caratteristico schermo circolare (definito «l’occhio gigante dei Floyd in un’altra dimensione» e utilizzato a partire dal tour francese del 1974), l’aeroplano che si schianta sul palco (utilizzato per la prima volta il 18 maggio ’73 all’Earls Court di Londra) poi sostituito da un letto nel tour ’88-89 e il celeberrimo maiale gigante, che a partire dal tour di ANIMALS del ’77 diverrà un altro elemento stabile dell’armamentario live. Per i concerti di THE DARK SIDE OF THE MOON, il gruppo dedicò gran parte dell’autunno precedente a filmare e a montare immagini che sarebbero poi state proiettate sullo schermo gigante, tra le quali una sequenza che dava l’illusione che alcuni personaggi politici “folli” cantassero il brano Brain Damage insieme al gruppo: altro espediente che verrà “riesuma-

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to” per il Division Bell Tour. Per Eclipse erano invece state scelte macchie e protuberanze di fuoco che si affastellavano sulla superficie del sole. Evento non trascurabile, c’erano anche delle animazioni di Gerald Scarfe, un mordace cartoonist politico. Il suo primo lavoro, una parodia del consumismo americano datata 1971 e intitolata Long Drawn-Out Trip, aveva impressionato molto positivamente Waters, che prese da allora a corteggiarlo. Scarfe realizzò per i Floyd, prima delle notissime animazioni del film Pink Floyd The Wall (1980), l’animazione di Welcome To The Machine, con apocalittiche visioni in cui un personaggio da incubo fagocita mostri dalle vaghe fattezze umanoidi. La copertina di DARK SIDE, come ha detto Storm Thorgerson, è probabilmente la cover più famosa di tutti i tempi, ma non ci si stanca mai di guardarla. Il grafico ricorda che propose al gruppo tre o quattro idee, che i Floyd a malapena considerarono entrando nel suo studio, per dirigersi immediatamente affascinati verso l’immagine del prisma con il raggio bianco che frange la luce nei colori principali dell’arcobaleno. L’elaborazione conteneva elementi interessanti per il gruppo, come la luce, che faceva riferimento al loro famoso light-show, e la “faraonica” piramide, che richiamava il tema dell’ambizione e dell’avidità, e forniva una risposta alla richiesta di Richard Wright, che voleva qualcosa di drammatico, semplice e scarno. Come disse lo stesso Thorgerson, è difficile immaginare quel disco con un’altra copertina. Ancora una volta mancavano i volti dei componenti del gruppo. Solo nell’edizione in vinile pubblicata per il venticinquesimo anniversario dell’uscita del disco (1997) nella copertina apribile compare una figura per ogni musicista, con una lettera che, unita alle altre, dà il nome “Pink Floyd”. Mancava solo un’immagine delle piramidi sulla piana di Giza, e Thorgerson propose di scattarne una notturna, evitando i turisti e conferendo all’immagine una luce ancora più mistica e archetipica. Quando si recò sul posto, il guardiano notturno gli impedì di entrare, ma il furbo inglese riuscì a “patteggiare” il permesso con un’offerta in denaro. Le immagini scattate quella notte sono ormai diventate parte dell’immaginario collettivo. Il maiale gonfiabile che troneggia sulla copertina di ANIMALS fu invece un’idea di Roger Waters che richiama i testi del disco, in cui è presente, in apertura e in chiusura (in una classica convergenza “inizio-fine”) il brano dal titolo Pigs On The Wing (parti 1 e 2). Il 2 dicembre 1976, una schiera di fotografi e cameraman si riunì nei pressi della londinese Battersea Power

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Station per riprendere e fotografare il lancio, l’ascesa al cielo e il volo di un maiale gonfiato di elio. Il maiale rosa era stato costruito dalla ditta tedesca Ballon Fabrik, la stessa che aveva fabbricato i dirigibili Zeppelin. Un tiratore scelto era presente nel caso l’enorme pupazzo fosse sfuggito ai controlli. Ma qualcosa andò storto, perché non era stato pompato abbastanza elio all’interno del maiale per farlo sollevare in alto. Tutti tornarono quindi a casa, non prima dopo aver consumato il rinfresco offerto per l’occasione. Il gruppo si riunì il giorno dopo, stesso posto, stessa ora, stavolta con la giusta quantità di elio. Il maiale si levò diretto in aria, tanto che i cavi che lo ancoravano si ruppero e i londinesi si trovarono con il naso in alto a guardare nei loro cieli un enorme pupazzo che volava. Il maiale raggiunse l’aeroporto di Heathrow, dove fu avvistato per la prima volta da un pilota di aerei che, ovviamente, alla notizia di aver avvistato un “maiale volante” fu sottoposto a un esame del tasso etilico, ma dopo che l’esame ebbe dato esito negativo, l’informazione fu presa sul serio. La polizia sguinzagliò un elicottero, che raggiunse il maiale e lo agganciò, portandolo all’altezza di millecinquecento metri prima di fargli fare ritorno alla Battersea Power Station. I quotidiani londinesi della sera riportarono la notizia dell’avvistamento di un enorme maiale rosa in volo. La direzione dell’Aviazione civile diffuse poi lo stato di allerta generale, invitando tutti i piloti di velivoli che solcavano quel giorno i cieli di Londra a prestar attenzione a un “maiale in volo”, con cui si perse il contatto-radar presso la zona orientale di Detling, nelle vicinanze di Chatham, in Kent, mentre volava all’altezza di oltre cinquemila metri e si dirigeva pericolosamente a est, per toccare alla fine terra nel Kent. L’ufficio stampa dei Pink Floyd adottò il silenzio-stampa, per ammettere poi che non vi erano abbastanza foto utilizzabili per l’immagine di copertina, e il tutto fu poi risolto ancora da Thorgerson con un fotomontaggio in studio. Grazie a Waters, la parte visiva delle copertine ha assunto grande importanza. Waters se ne dichiara soddisfatto, pur ammettendo: «Alcune cose non andavano bene. Altre erano buone idee realizzate male. MEDDLE, per esempio: quella copertina però fu concepita in Inghilterra mentre noi eravamo in tour in Giappone. Ma non è un grande problema. La grafica di DARK SIDE, WISH YOU WERE HERE, ANIMALS e THE WALL è fantastica»5. La copertina di ANIMALS, analizzando gli eventi con il senno di poi, segna tuttavia una prima distanza tra Waters e il suo abituale gruppo di lavoro. Roger ricorda un litigio avvenuto con il grafico delle caratteristiche copertine visionarie dei Floyd: «Dopo WISH YOU WERE HERE lui non fu più utilizzato

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per alcun lavoro grafico dei Pink Floyd, finché sono rimasto nel gruppo, e devo dire che amo davvero quelle copertine. La Hipgnosis, la società di Thorgerson, portò un sacco di idee per ANIMALS, nessuna delle quali mi piaceva, e penso che nessuno degli altri della band le ritenesse brillanti. Inoltre avevo la sensazione che pensasse “se non ti piace, fai tu qualcosa di meglio”… Così me ne andai in bicicletta nel sud di Londra con la mia macchina fotografica, e scattai delle foto alla Battersea Power Station; poi trovai chi mi facesse un enorme maiale finto e dissi: “Questa è la mia idea”. Ho litigato molto con Storm quando ha inserito quella copertina in un libro sulla sua grafica per dischi, perché non aveva nulla a che fare con le sue idee. Semplicemente mi chiamarono e mi dissero: “Nessuna obiezione, ma avrai bisogno di molti fotografi il giorno in cui farai alzare il maiale gonfiato nel cielo; gradisci che ti organizziamo i fotografi?”. Così, quando successivamente la Hipgnosis cercò di assumere la paternità della cosa, mi incazzai molto. Ma per la copertina di THE WALL, dopo che avevamo terminato l’album, avevo un’idea precisa. E avevo realizzato molto lavoro di animazione con Gerry Scarfe. Feci anche la copertina di THE FINAL CUT»6. David Gilmour ricorda: «Storm Thorgerson era già stato fatto fuori. Roger era molto arrabbiato con lui. Sono vicende molto vecchie, delle quali non ricordo ogni dettaglio, ma culminarono nell’inserimento della copertina di ANIMALS in un libro di copertine di dischi eseguiti dalla Hipgnosis con una didascalia che la attribuiva a Roger. In quel periodo, l’ansiosa ricerca di accreditamenti su tutto il materiale pervadeva la mente di Roger»7. Thorgerson, nel suo splendido volume Spirito e materia – L’arte visionaria dei Pink Floyd, chiarisce le cose: «La grafica e l’idea della copertina di ANIMALS furono suggerite da Roger. E l’idea si rivelò davvero brillante. All’inizio ero offeso dal fatto che la band avesse rifiutato la mia idea [un disegno di un bimbo di spalle che sorprende i genitori a letto che fanno l’amore, N.d.A.], non solo perché odio i rifiuti, ma anche perché pensavo che la giungla psicologica della nostra giovinezza vi fosse presentata con intelligente freschezza. Ma l’esperienza del maiale voltante, il lavoro finito, mi hanno tolto ogni dubbio. […] Il maiale gonfiabile era un dirigibile lungo nove metri e alto sei e fu portato vicino al fiume Tamigi, non lontano dalla sede del Parlamento. La squadra dei Floyd, insieme ai tecnici della società di dirigibili, si diede da fare per gonfiarlo. Po [Powell, collaboratore di Thorgerson, N.d.A.] e io avevamo radunato un vero esercito di fotografi (almeno undici) e li avevamo dislocati nelle posizioni

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chiave attorno alla centrale elettrica per coprire ogni angolo immaginabile, compreso il tetto. Il gonfiaggio del maiale doveva essere un evento irripetibile e noi non volevamo perderlo. Aspettammo. Tutti erano in posizione. Steve O’Rourke aveva avuto l’intuizione di ingaggiare un tiratore scelto, nel caso il maiale sfuggisse e rischiasse di procurare danni alle persone o alle cose. Il maiale iniziò a prendere forma in mezzo al tessuto. Una gamba qui, un orecchio lì. Poi, più nulla. Difficoltà tecniche impedirono di concludere il gonfiaggio e il maiale non si staccò neppure da terra. Ma il tempo era grandioso. A sinistra si erano raccolte nuvole spettacolari, che avevano circondato una macchia di cielo azzurro, striato dai cirri, attraverso la quale il sole illuminava a tratti l’edificio in tutto il suo splendore déco. Ma non c’era nessun maiale. Il giorno dopo ci ripresentammo tutti, prendemmo le nostre posizioni e attendemmo con ansia. Il cielo era sgombro, di un azzurro brillante. Il maiale, con tutta la sua gomma rosa, prese forma non appena gonfiato. Alla fine fu guidato lungo un lato dell’edificio in mezzo all’eccitamento generale, l’agitarsi di cappelli e mille pacche sulle spalle. Ma, prima che potessimo fotografarlo adeguatamente, prima che la squadra a terra fosse pronta, un colpo di vento fece girare il disgraziato animale e lo sciolse dalle funi d’ancoraggio. Fu sparato in cielo, salendo con imprevedibile velocità, e sparì tra le nubi lassù in alto. Per questioni economiche, il cecchino non era stato richiamato e non poté abbatterlo, anche se dubito che ne avrebbe avuto il tempo. Ancora una volta, nessun maiale. O meglio, un maiale velocissimo. Qualche foto, ma non molte. […] Il giorno dopo, anzi dopo tre giorni, il dirigibile era ancora davanti alla centrale elettrica, riparato, gonfio e pronto a partire. Il cielo era ancora sgombro. Tutti i fotografi e, questa volta, anche una squadra con le cineprese e un elicottero erano pronti. Il maiale gonfiato si levò tra le torri della centrale e se ne stette lì tutto il giorno, da bravo maiale che era. Si era divertito abbastanza. Era tempo di lavorare. […] la versione definitiva [della copertina] comprendeva un vero maiale (del terzo giorno) con vero sfondo (del primo giorno). Avevamo già pensato che la cosa potesse essere montata. Non c’era bisogno di fotografare il maiale sul luogo, ci dicemmo sconsolati. Ci sbagliavamo. La parte migliore consisteva nel mettere insieme l’avvenimento, e la bellezza e la drammaticità furono raggiunte proprio perché l’avevamo fatto sul serio. Roger aveva molto insistito che lo facessimo sul serio. Aveva ragione, come già aveva avuto ragione sull’idea. Maledizione»8.

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Per il ritorno on the road, dopo la separazione da Waters, fu chiesto addirittura a Steven Spielberg di ideare e progettare palco, illuminazioni ed effetti speciali, offerta poi declinata dal grande regista. Per il letto volante che parte dalle spalle del pubblico e si schianta sul palco, durante l’esecuzione di On The Run, lo stesso Thorgerson citò l’immagine della copertina. Il maiale gonfiabile appare invece durante l’esecuzione di On The Run e viene citato nel video Delicate Sound of Thunder, filmato al Nassau Coliseum, in America, nel Long Island, come appartenente a un certo “R. Waters”. Waters, con il suo tipico sense of humor tutto britannico, ha poi dichiarato in occasione del suo Summer Tour del 2006, che il maiale è suo, lo schermo è suo, le proiezioni sue, il “fumo” è loro. Al lontano ’69 risale invece l’utilizzo dell’Azimuth Co-ordinator, pionieristico sistema di amplificazione quadrifonico studiato appositamente per i Floyd che permetteva al suono di avvolgere il pubblico dai quattro lati della sala. Per una definizione di “Azimuth” Roger Waters aprì il dizionario, leggendovi “Arco di cieli che si estende dallo Zenith all’orizzonte, che taglia ad angolo retto”, trovandolo veramente pertinente e interessante. La tecnologia, messa al servizio della creatività, ha da sempre stimolato le menti dei musicisti. David Gilmour, dopo il successo mondiale del tour di THE DIVISION BELL, ha dichiarato infatti che il gruppo aveva seriamente preso in considerazione la possibilità di produrre un nuovo concept utilizzando multimedia, Internet, telefonia mobile e quant’altro di avanguardistico esistesse. L’ultima esibizione dei Floyd capitanati da Gilmour, datata 5 giugno 1995 in occasione della promozione del live PULSE, è stata realizzata con proiezioni sull’Empire State Building di New York tra giochi di luce e tecnologie inedite. Del resto, i Pink Floyd hanno sempre sperimentato denotando un grande interesse per la tecnologia, con soluzioni spesso molto avanti per i tempi, sia dal vivo, che in studio, creando sonorità spesso uniche e irripetibili, a cominciare dall’utilizzo del sintetizzatore per il già citato brano pioneristico On The Run. David Gilmour ha spiegato9 che nessuno dei componenti era soddisfatto del pezzo, per lungo tempo eseguito dal vivo improvvisando con chitarra e basso. Quando venne utilizzato un sintetizzatore, Gilmour ne suonò una serie di note delle quali Waters fu subito entusiasta, creandone a sua volta di nuove da cui si sarebbe poi sviluppato il brano, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Alan Parsons. Individuata la serie di note, si cominciò a sperimentare. Gilmour le velocizzò e le filtrò nuovamente, creando dei suoni che assomigliassero a macchine del futuro.

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Il sintetizzatore di base disponeva già degli alti. Altri sintetizzatori, in questa traccia molto complessa, crearono effetti di vibrazione. Fu poi aggiunto un suono di chitarra elettrica suonata con l’asta di un microfono (come Syd Barrett suonava spesso la sua Telecaster a specchi per creare strani effetti) che nello stereo si muovono da destra verso sinistra. Con altri sintetizzatori si ebbe un effetto Doppler. Infine, fu aggiunto un effetto di battito cardiaco per aumentare la tensione. Tutti avevano le mani sui fader dei mixer, le cui tracce non bastavano mai. Guardando indietro, si è portati a pensare che il sintetizzatore e altri strumenti del genere abbiano fatto la loro apparizione nelle sale di registrazione molto tempo prima di quanto in realtà non sia successo. Invece, negli anni Settanta, in studio non c’era niente del genere. L’unica possibilità era utilizzare i registratori in modo tale da poter poi intrecciare le varie registrazioni. A quei tempi, ricorda ancora Gilmour, mixare DARK SIDE era come suonare sul palco dal vivo. Un aspetto che con i computer oggi si è perso, ma che farà solo slittare il rapporto con la tecnologia in altre direzioni: al suo recente ritorno in studio, con RATTLE THAT LOCK, per la title track Gilmour registrerà con il suo iPhone, ad Aix-en-Provence, in Francia, gli annunci delle stazioni ferroviarie. Singolo che vede anche la partecipazione del Liberty Choir e delle cantanti Mica Paris e Louise Marshall e la stessa band del suo precedente album da solista, ON AN ISLAND: il “Roxy Music” Phil Manzanera (coproduttore) alla seconda chitarra, Guy Pratt al basso, Jon Carin alle tastiere, oltre alle new entry Theo Travis al sassofono e Kevin McAlea in sostituzione di Richard Wright. Per quanto riguarda il concerto, ogni biglietto dava diritto a una copia gratuita del disco di prossima uscita. In Italia, in particolare, Gilmour si esibisce prima del 18 settembre (riprendendo forse una vecchia, collaudata “abitudine Floyd” di presentare al pubblico i brani prima dell’uscita del disco), con date in siti archeologici di grande rilievo artistico, dall’Arena di Pola a quella di Verona, all’Ippodromo del Visarno (Firenze), così come farà poi al Teatro antico di Orange. Davanti all’inevitabile schermo circolare, i cavalli di battaglia floydiani: Shine On You Crazy Diamond Part 1-5, Money, Us And Them, Sorrow, Run Like Hell, che non suonava dal Division Bell Tour, per andare ancora più indietro alla “sua” Fat Old Sun, da ATOM HEART MOTHER, e approdare al classico Astronomy Domine di Syd Barrett, da THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, in cui non era presente, bypassando THE ENDLESS RIVER.

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L’apporto creativo di Gilmour all’interno dei Pink Floyd, sia da punto di vista tecnologico che da quello artistico, è sempre stato notevole. Roger Waters, dopo l’abbandono di Syd Barrett, aveva pensato di ingaggiare Jeff Beck, come chitarrista, ma la scelta ricadde poi sul vecchio amico del “giro” di Cambridge. David Gilmour è l’uomo che ha cambiato, dal 1968 a oggi, il destino della musica dei Pink Floyd, che se concettualmente devono a Roger Waters il valore di testi e concept, a Gilmour devono il merito dell’alto livello qualitativo sotto l’aspetto puramente musicale. Durante il The Wall Tour del 1980, ad esempio, fu Gilmour a essere direttore artistico, coordinando creativamente la musica che il fortunato pubblico poteva ascoltare. Ed è proprio nel tour di THE WALL messo in scena da Roger Waters tra il 2010 e il 2013, che i due torneranno per la seconda volta a esibirsi insieme, con Nick Mason aggiuntosi nel finale. La volta precedente – la “storica reunion” dei quattro Pink Floyd al completo – si era infatti avuta il 2 luglio 2005 a Hyde Park, in occasione del Live 8 per l’imminente incontro dei “potenti” a Edimburgo, un luogo che rivestiva anche un valore simbolico. I Pink Floyd erano infatti stati uno dei primi gruppi (insieme a Jethro Tull e Roy Harper) a tenere un concerto gratuito nel grande parco londinese, il 29 giugno 1968, nel Cockpit. Un portavoce del ministero dei Lavori Pubblici aveva espresso la sua perplessità circa il tipo di fan che il concerto avrebbe potuto attirare, essendoci già abbastanza vandalismo nei parchi reali, ma i Pink Floyd replicarono che la loro musica era fin troppo rilassante e che non avrebbero risposto di eventuali danni al parco, non essendone responsabili in prima persona. Era il giorno in cui veniva pubblicato A SAUCERFUL OF SECRETS e il concerto ebbe una notevole importanza per la loro credibilità. Fu un vero e proprio trionfo, tale che il disk-jockey David Peel – che non dava molto credito al gruppo senza Barrett – ebbe a dichiarare nove anni dopo che si era trattato di un’esperienza “mistica”: i Floyd suonarono A SAUCERFUL OF SECRETS, dando l’impressione di riempire l’intero cielo, in una totale fusione musica-ambiente. Secondo Peel, fu uno dei migliori concerti che avesse mai ascoltato. In quello del 2005 le cose, però, erano molto diverse. David Gilmour ha infatti dichiarato – in una recente intervista a «Classic Rock» per la promozione di RATTLE THAT LOCK – che i Pink Floyd erano loro, e non Roger Waters. Ha però aggiunto che il giorno prima, provando con lui senza pubblico, ne aveva ricavato una sensazione piacevole, subito dissoltasi con la tensione del concerto vero e proprio, a causa del clima trasmesso, come

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sempre nelle esibizioni, dal vecchio leader. Osservando bene il filmato, infatti, alla fine del concerto si può distintamente osservare Gilmour che, dopo aver posato la sua chitarra, sta per lasciare da solo il palco, allontanandosi così dai vecchi compagni. Richiamato perentoriamente da Waters, che gli fa cenno di unirsi ai tre, li raggiunge (probabilmente controvoglia) per raccogliere i sentiti applausi. Sarebbe stata l’ultima volta che la storica formazione anni Settanta si sarebbe esibita al completo. L’immagine filmica non poteva non subire il fascino di una musica così intimista, a volte libera da melodie, ritmi e sempre sperimentale. E non è un caso che, proprio in seguito alla dipartita di Syd Barrett, con la perdita di un preciso punto di riferimento per il pubblico, la band fece sì che ad affermarsi fosse proprio l’enorme potenziale multimediale delle proprie creazioni musicali. Dapprima come ritratto di un’epoca, nello psichedelico Tonite Let’s All Make Love in London (1968) di Peter Whitehead, poi come colonna sonora nei film More e La Vallée (1969 e 1972), entrambi di Barbet Schroeder, poi in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, e successivamente come protagonista principale in Pink Floyd: Live at Pompeii e – totalmente al servizio del testo e quindi della narrazione – in Pink Floyd The Wall (1982) di Alan Parker. Poco conosciuta è la colonna sonora di The Committee (1968, regia di Peter Sykes), definito una sorta di fantasia dostoevskiana di crimine e punizione, del quale era anche in progetto la realizzazione di un disco (ne furono comunicati anche i numeri di catalogo), ma che, per decisione del gruppo, fu alla fine accantonato. Un caso a parte è da considerarsi il rapporto con Ron Geesin, geniale e bizzarro musicista scozzese, ex compositore della band dalle sonorità jazzistiche The Downtown Syncopators, specializzato nella realizzazione di colonne sonore e già autore di stravaganti sperimentazioni di matrice surrealista. Nel 1970 – un anno molto intenso per i Pink Floyd e per la loro mente creativa, Roger Waters – solo con sperimentazioni di basso e batteria veniva composto ATOM HEART MOTHER, arrangiato da un’orchestra e cori a opera di Ron Geesin. All’inizio dell’anno, a Geesin era stato proposto di comporre la colonna sonora di un documentario sul corpo umano, adattamento cinematografico del libro The Body (scritto da Anthony Smith ed edito nel 1968), e il musicista chiese l’aiuto di Roger Waters, che per una colonna sonora usciva per la prima volta dalla band. Attraverso un amico comune, nel 1968 Geesin aveva conosciuto Nick Mason, che un anno più tardi gli aveva presentato Roger Waters e i due erano divenuti compagni di

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partite di golf, uno sport che ben si adattava al carattere competitivo e agonista di Waters. Il musicista scozzese aveva preparato alcuni brani che aveva fatto ascoltare al produttore del film Tony Gardner, che aveva capito che quel documentario necessitava di brani specifici, di maggiore atmosfera e di pezzi articolati. Così subentrò Roger Waters nel progetto, per comporre quattro brani. Secondo le parole di Geesin, Waters era un tipo molto egocentrico, con modi molto particolari. Come ogni artista probabilmente insicuro, aveva bisogno di conferme, approvazioni e consensi da parte di tutti, per poi sparire quando l’applauso giungeva. Capitò più volte a Geesin di giungere a casa di Waters in orario per non trovare nessuno… in uno stile britannico di riservatezza, ambiguità e sfrontatezza. Geesin e Waters composero i primi brani per The Body all’inizio del 1970, ognuno per conto proprio. Geesin si avvalse di un bizzarro violoncellista e Waters produsse delicati brani acustici (valga su tutti Sea Shell And Stone, che sarà più volte ripreso come “intermezzo” durante l’album e apre le danze dopo Our Song, una sequenza di rumori caratteristici del corpo umano) affini a quelli che avrebbero fatto parte poi della colonna sonora di More, oltre a ballate che rimandavano ai tradizionali schemi del puro folk presenti in Grantchester Meadows (UMMAGUMMA) e If (ATOM HEART MOTHER), oltre a brani nei quali si rivelava acuto ricercatore di effetti elettronici per sonorità più assimilabili a un rock già progressive (come Several Species Of Furry Animals Gathered Toghether In A Cave And Grooving With A Pict, ancora in UMMAGUMMA). Completata la colonna sonora, i musicisti furono informati dalla Emi che sarebbe diventata un album, quindi i due si rimisero al lavoro, nella convinzione di Geesin che il materiale non fosse adatto per un disco, e registrarono nuovi brani per MUSIC FROM THE BODY, che alla pubblicazione si rivelò un album diverso dalla colonna sonora del film. Diretto da Roy Battersby, il documentario uscì poi nel 1974, in Italia con il titolo Questo tuo fragile corpo meraviglioso. Da notare nella colonna sonora il brano Breathe, che ha per argomento i danni provocati dall’industria sull’ambiente, embrione del brano omonimo presente qualche anno più tardi in DARK SIDE e nel quale sono rintracciabili i primi cenni dell’amore di Waters per tematiche sociali (non a caso, un giovanissimo Roger era un convinto militante nelle file di organizzazioni per l’ambiente). Per concludere l’album, Geesin riprese, orchestrandolo nello stile che gli era proprio, il tema watersiano di inizio disco di Sea Shell And Stone, come indice di una sintonia collaborativa riuscita. Del resto, la musica

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composta da Waters ha sempre affascinato anche i compositori di brani appositamente creati per il cinema per la sua forte cifra emozionale, basti citare Lost Boys Calling, composta con il maestro Ennio Morricone per il film La leggenda del pianista sull’oceano (1999) di Giuseppe Tornatore. Qualche anno dopo The Body, usciva il documentario sul surf Crystal Voyager (1973), con la regia di David Elfick. Diviso in due parti, la prima aveva un commento di Greenough, surfer e cameraman (nonché sceneggiatore), con una colonna sonora di Wayne Thomas; la seconda aveva una versione di Echoes a commento ad alcune riprese di surf, che talvolta verranno utilizzate dagli stessi Floyd nel corso del tour del 1975 durante l’esecuzione del brano. Tra i progetti multimediali non realizzati, un balletto su temi della Recherche proustiana, che i quattro trovarono illeggibile, e una serie a cartoni animati di Alan Aldridge (illustratore più noto per i suoi due volumi di The Beatles’ Illustrated Lyrics), intitolata Rollo, che rimarrà in fase embrionale per problemi di budget. Si trattava un cartone psichedelico con una storia magnifica – secondo le parole di Roger Waters – in cui un ragazzo, a letto, iniziava (forse) a sognare: all’improvviso il letto si “svegliava” e ne spuntavano a un paio di occhi e delle gambe. Quindi scappava via dalla casa con degli stupendi movimenti animati, per volare infine in cielo. Qui, la Luna stava fumando un grosso sigaro, che ben presto si sarebbe capito essere un’astronave. È del novembre 1972 invece il riuscito connubio con una coreografia di Roland Petit, ancora oggi nei teatri. Dapprincipio, per questo evento fu chiesto al gruppo di comporre musica inedita. Successivamente si optò per brani già esistenti, per mancanza di tempo. La musica dei primi Pink Floyd creò un alone “fantastico” attorno al gruppo. Bisogna infatti considerare che, con la pubblicazione del secondo album, A SAUCERFUL OF SECRETS, i Floyd avevano “viaggiato” in campi siderali e quasi occulti, con testi come Set The Controls For The Heart Of The Sun. Il gruppo di grafici Hipgnosis aveva ideato per il disco tredici immagini, che andavano dal sistema solare a una ruota con i simboli dello zodiaco, oltre a vecchie foto di un alchimista con le sue ampolle. Nasceva attorno al gruppo un’aura di fantascienza, che li avrebbe portati a suonare in concerti specializzati, come uno a Detroit durante una convention di fantascienza americana. Addirittura nel 1969 era così elevata la fama “astrale” di questi primissimi Pink Floyd, che una loro improvvisazione musicale fu utilizzata dal-

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la televisione inglese, olandese e tedesca per la messa in onda dell’allunaggio. Questa fascinazione per la fantascienza fu un tratto dal quale i Pink Floyd, come ha oggi dichiarato Mason, non riuscirono mai a liberarsi del tutto. Riflettendo su come si può cucire una fama su qualcosa che assolutamente non c’è, il batterista afferma che negli anni Sessanta nel gruppo tutti leggevano molta fantascienza, da Ray Bradbury a Robert Heinlein. Ancora una volta, i pionieri Pink Floyd anticipavano i tempi. Era sicuramente la dislocazione spazio-temporale, l’astrazione fisica e l’imperscrutabilità dello spazio, oltreché la vastità dell’Universo, ciò che probabilmente attraeva il gruppo e ne ispirava le sonorità. Ed è sicuramente per questo che il maestro inglese Stanley Kubrick richiese la suite Atom Heart Mother come colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio (1968). Kubrick però pretese la totale autonomia sull’utilizzo dei brani, cosa che non piacque a Waters, che declinò con la stessa fermezza e determinazione la richiesta. Con la realizzazione dei concept album, il gruppo si consacrò definitivamente come il più “cinematografico” degli anni Settanta, essendoci a monte dei testi un solido lavoro di strutturazione narrativa del tema raccontato. E il tipico amore per la creazione di concept album di Waters lo ritroveremo anche nei suoi successivi album solisti. Non a caso, con la sua dipartita dal gruppo, i due successivi album dei Floyd di Gilmour (A MOMENTARY LAPSE OF REASON e THE DIVISION BELL) mancheranno di quel trait d’union tra i brani. Waters, invece, diede innanzitutto luogo a THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING (1984) – per la registrazione del quale utilizzò dei veri e propri attori – il cui tema che si dipana durante i vari brani riguarda i sogni che un uomo fa durante la notte. Sogni che si trasformano in incubi. Non a caso i dodici brani componenti l’album sono tracciati, insieme ai rispettivi titoli, dalle ore della nottata in cui il protagonista riceve queste visioni oniriche: da 4.30 A.M. (Apparently They Were Travelling Abroad) fino a 5.11 A.M. (The Moment of Clarity). Il tema del sogno tornerà anche nel road movie Roger Waters – The Wall diretto da Sean Evans e dallo stesso Waters, che ne è anche valente attore e co-sceneggiatore, di cui parleremo più avanti. Nel successivo RADIO KAOS (1987), i testi riguardano alcune delle problematiche sociali care a Waters: dall’energia nucleare allo schiacciante strapotere del denaro e dei martellanti mass media, tematica questa presente anche in AMUSED TO DEATH (1993), oltre al tema della morte e a quello dell’antimilitarismo, argomenti che avevano già toccato l’apice nei testi

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di THE WALL. Interessante notare qui (ma riprenderemo più avanti questo tratto distintivo della “narrazione concettuale” di Waters) che l’inizio coincide con la fine, in una sorta di “quadratura del cerchio”, in cui il binomio “inizio-fine” viene destrutturato a favore di un ascolto che possa ricominciare idealmente per continuare dove era finito. In THE PROS AND CONS si trattava di una sveglia. L’idea gli fu suggerita una notte, durante la quale era seduto in una stanza ascoltando il ticchettio di una sveglia. Il concept dell’album riguarda appunto la schiacciante sensazione di panico cui è facile essere colti alle quattro del mattino quando, dopo un sogno particolarmente vivido, ci si risveglia madidi di sudore con la sensazione che quel sogno abbia voluto dirci qualcosa, facendoci afferrare un “messaggio importante” da un’altra dimensione. È il “sogno lucido”, ossia un sogno, una visione notturna che gli studiosi di paranormale ben conoscono: sogni nei quali si è coscienti di sognare. Sogni che possono così essere guidati con una consapevolezza simile a quella che si ha da svegli, solo durante il sogno. Anche nel recentissimo Roger Waters – The Wall viene accennato il tema del “sogno cosciente”. In RADIO KAOS, disco di cui Waters a posteriori non ha nessuna stima, il filo narratore è invece un semplice quanto efficace – perché ossessivo – tintinnio metallico, che compare all’inizio durante il dipanarsi della narrazione e alla fine del disco. Durante la registrazione della colonna sonora del film Pink Floyd The Wall, Waters sembra innamorarsi del commento orchestrale presente nell’ultimo brano (come vedremo più avanti), amore che sarà espresso addirittura in una vera e propria opera lirica in tre atti, ÇA IRA (2005), con tanto di libretto originale scritto da Ètienne e Nadine Roda-Gil, riguardante la rivoluzione francese, dimostrando così di saper creare non solo musica rock, ma anche di saper spaziare in progetti di ambizioso respiro. Questa è la sua vera genialità: la capacità di esprimersi attraverso ogni tipo di forma musicale, nonostante anche ÇA IRA non abbia avuto l’atteso successo commerciale. E cosa c’è di più “visivo” di un’opera teatrale? L’ascolto del disco evoca infatti (grazie anche ai numerosissimo suoni che ambientano il disco in precisi luoghi) continuamente delle immagini. Waters va sempre avanti e compone quindi continuamente musica, dando ascolto solo alla sua ispirazione interiore e non vendendosi mai al business, maturando così sempre più. Un passato eternamente presente: ricordate l’adattamento orchestrale a opera di Ron Geesin per ATOM HEART MOTHER? Non è quindi ardito supporre che il gruppo sarà sempre ricordato per le “opere” scritte

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dal mancato architetto Waters, che di volta in volta, riusciva a creare vere e proprie “architetture con strutture sonore”, concepite in coerenza concettuale dal primo all’ultimo brano, dall’inizio alla fine del disco. Non a caso WISH YOU WERE HERE e THE WALL hanno lo stesso suono all’inizio e alla fine, mentre ANIMALS inizia e termina con lo stesso brano, Pigs On The Wing 1 e Pigs On The Wing 2. È una traccia stilistica questa, che affascina molto Waters, probabilmente perché cinematografica, rintracciabile appunto nel film Pink Floyd: Live at Pompeii che inizia e termina come in ANIMALS con lo stesso brano e conseguenzialmente con la stessa inquadratura: Echoes (part 1) e Echoes (part 2). Dopo aver ammesso che THE FINAL CUT era stato registrato in un clima di grande tensione, riflesso nella sua stessa voce, la mente creativa dei Pink Floyd trova nuova linfa creativa. Nonostante lo scarso successo commerciale di THE PROS AND CONS – che tuttavia lo lascia indifferente – e il megaconcerto di Berlino, registra con la sua Roger Waters and the Bleeding Heart Band un’ultima colonna sonora. Il film in questione è When the Wind Blows (1987, regia di Jimmy Murakami), adattamento dell’omonimo libro di Raymond Briggs edito nel 1982. Il tema del libro è lo scoppio di una guerra nucleare. Nel libro, infatti, si narra la vicenda di due anziani pensionati inglesi (le cui voci sono state inserite nel disco) che si trovano a dover fronteggiare tale apocalittica vicenda. Lo fanno con l’aiuto dei mezzi di comunicazione che dà loro indicazioni su come comportarsi: radio e tv. Il libro piacque molto a Waters, tanto da definire Briggs un grande scrittore, da un lato perché vi trovò tematiche a lui care, ma soprattutto perché tali tematiche erano trattate con un senso dell’umorismo che stemperava la gravità degli eventi narrati e della situazione in cui si trovano i due malcapitati personaggi. La “prima” del film animato ebbe luogo a Londra il 3 febbraio 1987, alla presenza di molti personaggi del mondo dello spettacolo e l’incasso della serata fu devoluto alla campagna antinucleare promossa dall’associazione Greenpeace. Positiva l’accoglienza da parte della critica sia del film che del commento musicale di Waters. La colonna sonora nel lato A contiene brani di David Bowie, Hugh Cornwell, Genesis, Squeeze e Paul Hardcastle, mentre il lato B è esclusivo appannaggio di Waters e della sua “nuova” band. Se, con Barrett, i soggetti dei brani erano volutamente infantili, perciò elementari e quindi molto favolistici (basti citare The Scarecrow o The Gnome in THE PIPER AT THE GATES OF DAWN), con Waters diventeranno via via sempre più complessi e strut-

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turati, con precisi nuclei tematici. Ne sono esempi The Man e The Journey, suite datate 1969-1970, eseguite solo nei concerti dal vivo, che già si avvalevano di supporti visivi e rumoristici. Durante l’esibizione, sul palco veniva imbandita una tavola con tovaglie e piatti e fritto un uovo per raccontare le fasi della giornata tipica dell’uomo medio inglese. Idea ripresa da Waters per il suo In the Flesh Tour del 2000, immortalato in Cd e Dvd in alta definizione (avanguardistica per l’epoca) in cui, durante l’esecuzione di Dogs, i musicisti si fermano per giocare a carte, mentre le coriste li osservano sorseggiando un drink e Waters serve loro da bere. L’attenzione di Waters si è quindi fin da subito incentrata su un’attenta analisi sociologica e psicologica della situazione dell’uomo contemporaneo e sui mali che lo affliggono. Tematica fondamentale, questa della quotidianità, percorsa dal sottile e inquietante pericolo della pazzia, filo conduttore di tutto il corpus floydiano, sublimato ancora una volta nel classico THE DARK SIDE OF THE MOON, e che culminerà in THE WALL, ultimo grande capolavoro concettuale per eccellenza, in cui Waters raggiunge il massimo dell’autobiografia e dell’intimismo, con una disperata descrizione dell’alienante mondo del rock business, con citazioni che rimandano a Syd Barrett e al padre morto in guerra ad Anzio. Dopo essersi quindi “cibato” delle intriganti melodie degli inizi, immaginifiche e quasi prive di struttura come colonne sonore, con il film Pink Floyd The Wall è proprio la storia che si dipana attraverso le varie tracce del disco a divenire soggetto, a divenire film. Non a caso il film di Parker è privo di dialoghi convenzionali e il concept deve essere attentamente capito principalmente attraverso la comprensione dei testi dei brani. Nei surreali video Ep per THE FINAL CUT, è ancora l’analisi catartica dei propri traumi esistenziali l’argomento delle narrazioni di Waters. In particolare, viene qui messo a fuoco l’episodio autobiografico del padre morto in guerra, presente in soli due brani di THE WALL: Another Brick In The Wall (Part 1) e When The Tigers Broke Free. Sarà poi di nuovo la musica, stavolta dei Floyd senza Waters, efficacissima colonna sonora come esaltazione delle immagini della corsa automobilistica in La carrera panamericana (1991). Degno di particolare interesse è quest’ultimo lavoro del “nuovo” gruppo per la perfetta sinergia tra musica e immagini, fin dalla primissima sequenza, in cui Run Like Hell fa da supporto a immagini asfittiche del deserto messicano in cui si svolgerà la gara. Trattasi di un riuscito docu-film che alterna interviste a Gilmour, Mason e al manager O’Rourke,

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più altri partecipanti la gara, a sequenze in cui vediamo e respiriamo l’adrenalina degli automobilisti prima, durante e dopo la corsa. Lo show del gruppo in concerto, arricchito dai moderni e supertecnologici effetti speciali, è il motivo di maggior interesse dei video live Delicate Sound of Thunder e Pulse. Ripercorriamo quindi la storia del gruppo attraverso le immagini che ne hanno caratterizzato i momenti principali, scanditi di volta in volta da un’immancabile testimonianza visiva. Mentre era in uscita il quarto disco solista di Gilmour (il già citato RATTLE THAT LOCK), Waters dava prova nelle sale cinematografiche dell’attualità della sua opera concettuale per eccellenza, con il docu-film Roger Waters – The Wall dimostrando di essere anche un ottimo attore, nonché co-regista e sceneggiatore. Occasione sfuggitagli per il film Pink Floyd The Wall di Alan Parker, come vedremo nell’apposito capitolo. Il 13 settembre 2017 nelle sale, e a novembre in Dvd, il docu-film Live at Pompeii, dell’altro “Uomo Pink” di sempre, il mordace e tenace David Gilmour, per il suo ritorno quarantacinque anni dopo nell’arena romana di Pompei. Inizialmente intitolato Return to Pompeii, il docu-film, girato in 4k, per la regia di Gavin Edler, già regista di gruppi come Duran Duran, vede nella storica cornice di Pompei i brani live di RATTLE THAT LOCK, oltre a classici floydiani come Wish You Were Here e l’unico pezzo che fu suonato anche nel concerto senza pubblico immortalato nel film del ’71, One Of These Days. Un ultimo ricordo Floyd, mentre Waters prepara una versione lirica di THE WALL: entrambi, a caccia del fatidico interrogativo che sempre grazie a loro arrovellerà le menti dei fan: «Chi è Pink?», dal momento che entrambi “rispolverano” e “riattualizzano” un passato eternamente presente.

le prime messe in scena ____________________________

All’inizio del 1966 i Pink Floyd suonarono all’Università di Essex, fuori Londra, dove gli studenti proiettarono un film alle loro spalle. Waters ricorda che avevano dato una macchina da presa a un paraplegico, spingendolo per le strade della capitale. Il gruppo doveva suonare accompagnando quelle immagini. Fu questa una delle prime esperienze multimediali del gruppo, ma già un anno prima un loro amico di vecchia data, Mike Leonard, aveva provato un simile esperimento mentre il gruppo suonava all’Hornsey Art College, Londra. Il college aveva un proprio laboratorio di suoni e luci molto avanzato ed era attrezzato con speciali proiettori per i lavori multimediali. Fu l’inizio del lungo sodalizio artistico dei Pink Floyd con il light show. Nel frattempo, la Londra alternativa – definita Swinging London da un articolo della rivista «Time» – cominciava a decollare e a espandersi con una serie di incontri della domenica pomeriggio al Marquee Club, il celebre locale di Soho in cui nacquero le leggende di molte generazioni di musicisti, come Rolling Stones, Yardbirds e Who. A questi incontri, happening equivalenti degli americani be-in, intitolati Spontaneous Underground, la gente andava per incontrarsi, divertendosi in ogni modo possibile, portando da casa stracci, manichini abbigliati secondo la moda di Carnaby Street, scatoloni per saltarci dentro, spazzoloni da toilette, tubi postali da usare come megafoni, forbici, poster, colla, carta crespa, radio a transistor e tutto ciò che potesse garantire uno sfrenato e rumoroso divertimento estemporaneo. Nulla si prometteva, nulla era preparato, il pubblico si intratteneva a modo suo. Era il trionfo dell’anarchia. Tra gli intrattenimenti pomeridiani c’erano anche le esibizioni di diversi gruppi rock, e i Pink Floyd vi si esibirono la prima volta il 13 marzo 1966. Durante le performance si proiettavano film

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a 8mm e tra musicisti e pubblico non c’era la minima distanza. John Hopkins, fotografo free-lance del «Melody Maker», la cui storia si intreccerà con quella dei Floyd, ricorda che il gruppo suonava “non suoni, ma onde di suoni”, qualcosa di assolutamente diverso da qualsiasi cosa ascoltata prima. Durante gli assolo strumentali, infatti, riusciva impossibile agli spettatori distinguere quale suono fosse prodotto da una chitarra e quale invece dalle tastiere. Il light show e gli esperimenti multimediali di quel periodo divennero fondamentali quanto la musica stessa, costituendo l’attrattiva principale dei Floyd che, a differenza degli altri gruppi che sfruttavano le luci del locale, avevano una loro attrezzatura di fari, gelatine colorate e proiettori. Il light show interagiva in perfetta simbiosi con i suoni e divenne un elemento inscindibile dello spettacolo, caratteristico di questa musica, definita “psichedelica” dal vocabolo coniato dallo scrittore Aldous Huxley a proposito dei suoi esperimenti con l’acido lisergico, l’Lsd, con i termini greci psyche, riferito alla mente o all’anima e delos, riferito a ciò che è visibile. Quindi “che rende visibile ciò che è proprio dell’anima”. E psichedelica è considerata a ragione tutta la creazione artistica di questo periodo, caratterizzata dall’espressione delle suggestioni create da assunzioni di massicce quantità di acido, reperibile sulla scena londinese fin dalla metà del 1965, portatovi da Michael Hollingshead, del Millbroke Centre di Tim Leary, in America. Nel caso dei Pink Floyd l’unico ad assumerne era comunque Syd Barrett. È stato al Marquee Club che i Floyd furono avvicinati dai loro futuri manager Andrew King e Peter Jenner, i quali promisero loro che sarebbero diventati più grandi dei Beatles. Ma fu durante uno dei concerti successivi per la London Free School alla All Saints Church di Powis Place, nel quartiere di Notting Hill, che il light show si perfezionò notevolmente. La London Free School era un prototipo di organizzazione comunitaria autosufficiente, con un autonomo “Laboratorio di suoni e luci”, uno dei primi corsi organizzato da Hopkins. Lì due americani provenienti dal Millbrooke Centre, Joel e Toni Brown, portarono con sé il loro proiettore ed ebbero la geniale idea di proiettare diapositive sui musicisti a tempo con la musica. L’effetto ottenuto fu eccezionalmente nuovo: nessuno aveva mai provato qualcosa di simile in Inghilterra prima di allora. Anche se le diapositive erano statiche, il risultato fu comunque molto sorprendente e suggestivo. Il pubblico ne fu entusiasta, stupefatto almeno quanto Peter Jenner, che decise di costruire un rudimentale sistema di luci psichedeliche utilizzando ritagli di Perspex colorato disposto su un disco che veniva ruotato attorno

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ai proiettori, sincronizzati con interruttori domestici comandati manualmente. (Oggi il rudimentale dispositivo è in mostra nella sala delle sculture al Museo nazionale della Originaria Arte Psichedelica di Chicago). Nick Mason studiava attentamente le coreografie delle luci e ricorda che in principio c’era soltanto la musica, con qualche persona che mandava dei lampi di luce su quella base, ma le luci erano insignificanti perché nessuno aveva pensato ad altro che a lampade di una certa potenza. Quando l’idea fu sufficientemente sviluppata, fu tutto leggermente più equilibrato. Il gruppo era infatti alla ricerca di un’ottima sinergia tra luci e sonorità, per non dispensare tenebre, inchiostro e oscurità. Quando Joel e Toni Brown fecero ritorno in America, portarono con sé l’attrezzatura di proiettori e diapositive. Allora i Pink Floyd decisero di affidare la creazione del loro light show, divenuto irrinunciabile e importante quanto la musica stessa, a Jack Bracelin che, in un concerto del 5 novembre 1966, sviluppò un sistema che chiamò “Fiveacre Lights”. Consisteva in un disco di plastica appeso al soffitto con incollate strisce argentate che scendevano fino al pavimento. I dischi ruotavano e con essi le strisce e la gente in acido poteva godersi la musica sotto le strisce in movimento, al culmine dell’estasi lisergica. Poi le luci vennero affidate al diciassettenne Joe Gannon, espertissimo di elettronica, che aveva seguito il laboratorio di luci e suoni dell’attrezzatissimo Hornsey Art College e ai coinquilini di Syd Barrett, Peter Wynne Willson e Susie Gawler-Wright. In un’intervista del 1966 Gannon illustra la sua concezione del light show, spiegando che progetta le diapositive basandosi sulla sua idea della musica. Muovendo una mano su un piccolo interruttore, infatti, Gannon faceva funzionare le luci ritmicamente, lampeggianti al ritmo della musica. I tre svilupparono anche il caratteristico effetto delle diapositive liquide, tipico e inconfondibile marchio di fabbrica dell’era underground. Anche nel recente The Division Bell Tour, durante l’esecuzione di Keep Talking e Any Colour You Like alle spalle dei musicisti era ben visibile una serie di gocce che si stemperavano una nell’altra in un fondersi di colori. Tornando alla fine degli anni Sessanta, Susie spiega che Peter prese a spiaccicare sulle diapositive gli inchiostri Doctor Martin, colori molto brillanti, che cercavano in diversi negozi, una cosa molto “casinista” e anche molto divertente. Usavano una torcia elettrica per scaldarle e un asciugacapelli per raffreddarle. Guardando quelle bolle che si muovevano, la ragazza pensava che erano davvero stupende. Rick Wright a proposito del

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loro light show, ora enormemente perfezionato, ricorda che divenne una parte davvero essenziale del gruppo, al tempo stesso rappresentava i Pink Floyd e un modo di vivere, soprattutto per quell’epoca. Ma fu all’Ufo club, punto principale di ritrovo della popolazione underground sito in Tottenham Court Road, che il light show poté essere studiato con maggiore attenzione. Il locale era umido e oblungo, con un soffitto basso e un palco minuscolo, ma proprio perché così raccolto permetteva di verificare istantaneamente attraverso le reazioni del pubblico il riuscito effetto delle innovazioni nel sistema di illuminazione. Lì Wynne Willson poté approfondire le sue idee, puntando un gruppo di quattro luci per ogni membro del gruppo. Costruì una luce che girava intorno all’organo di Rick per illuminargli testa e busto. Ce n’era una davanti alla batteria e una a testa di fronte a Syd Barrett e Roger Waters. Oltre a illuminarli, quelle luci proiettavano ombre sullo schermo dietro di loro. Se, dove c’era un’ombra creata da un proiettore, se ne puntava un altro di colore diverso, si otteneva un’ombra colorata. Così si creavano tutte quelle ombre colorate dei musicisti che danzavano sullo schermo: un effetto visivo di sicura presa sui presenti. Svilupparono qualche altro effetto di ottima fattura, con un polarizzatore e un analizzatore incorporati nel proiettore, ottenuti stirando gomma al politene o lattice. Roger Waters ha poi dichiarato a proposito di quei primi concerti, che quei Floyd erano una band relativamente giovane. Non in quanto a musica o a età, ma proprio per quanto riguardava le trovate sceniche. Sperimentavano continuamente immagini sul gruppo dal vivo, consci che se il duplice effetto (musica-luce) fuso insieme non fosse piaciuto, il pubblico non sarebbe tornato ad ascoltare la musica, una con le immagini. Musicalmente, tuttavia, fu all’Ufo club che il gruppo suonò la migliore musica dal vivo e Hopkins ricorda che diventarono il gruppo di testa della cultura underground, seguiti a breve distanza dai Soft Machine, come i Beatles della musica alternativa. Syd Barrett era infatti ispiratissimo e dava il meglio di sé nell’incarnazione estetica del modello di rock che stava creando con i suoi compagni, tanto che i fan che lo ricordano in quei concerti asseriscono che quasi apparisse e vivesse sotto quelle luci, come una creatura immaginaria. I suoi movimenti erano infatti orchestrati per adattarsi a quei colori, di cui appariva una naturale estensione, l’elemento umano di quelle immagini liquefatte.

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Alla fine del 1965, il ventenne Peter Withehead si trasferì a Cambridge, a casa dei Mitchell, amici di famiglia, e lì conobbe Syd Barrett. Syd frequentava infatti la figlia dei Mitchell, Julie, che aveva convinto i suoi genitori a permettere a lui e ai suoi amici di provare nella cantina di casa. Un anno dopo, con l’obiettivo di diventare regista, Withehead si trasferì a Londra e continuò ad avere rapporti con Barrett, non perché apprezzasse la musica sperimentale dei Pink Floyd (anch’essi nel frattempo trasferitisi nella capitale) quanto per la sua attrazione verso Jenny Spires, la ragazza con la quale Syd si accompagnava in quel periodo, e con la quale ebbe in effetti un flirt segreto. Per “riparare” il danno, Jenny persuase Whitehead, non senza difficoltà, a finanziare una session in studio di registrazione per la band e a includere la loro musica nel film che stava realizzando. Ispirato all’omonima poesia di Allen Ginsberg (che aveva fatto della Londra alternativa la sua seconda casa), Tonite Let’s All Make Love In London ritraeva lo spirito e la forma (appariscente) della Swinging London della fine degli anni Sessanta. Prodotto da Colin Miles e Mark Rye e “blandamente divertente”, il film è pieno di Mini Morris, minigonne e stravaganti giacche con i colori della Union Jack, oltre a fugaci apparizioni cameo da parte di David Hockney, Mick Jagger e di un Lee Marvin in uniforme militare, e riesce a fornire un valido e affascinante ritratto della Londra di quegli anni, centro culturale del decennio come la Roma splendidamente rappresentata dal Fellini de La dolce vita lo era stata di quello precedente. L’11 gennaio del 1967 i Pink Floyd si recarono presso lo studio di incisione Sound Tecniques di Chelsea con il tecnico del suono John Woods e

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il produttore Joe Boyd (co-finanziatore delle registrazioni insieme ai manager Peter Jenner e Andrew King) e incisero quattro brani: due lunghi strumentali, Interstellar Overdrive e Nick’s Boogie, nota per essere la prima e unica composizione di Nick Mason incisa su un disco nel collettivo Floyd, e due eccentriche e personalissime canzoni di Syd Barrett, Arnold Layne e Let’s Roll Another One (“Rolliamocene un altro”) il cui titolo fu poi cambiato in Candy And A Current Bun, per evitare troppo evidenti riferimenti alla droga. Il film è infatti dedicato a Syd Barrett, e la colonna sonora, pubblicata su vinile nel 1968 e ristampata nel 1983 con identica copertina e stesso numero di catalogo, contiene tre versioni di Interstellar Overdrive di diversa durata (quella presente nel film è di undici minuti) e comprende, oltre a brani degli allora nascenti Pink Floyd, anche composizioni di altri artisti, tra cui Alan Aldridge, Small Faces, Lee Marvin, Mick Jagger e Chris Farlowe. Una dichiarazione del regista presente sul vinile dell’ edizione del 1983 ricorda che gli anni Sessanta sono stati un vero e proprio stato d’animo, un periodo pieno di amore per la libertà, di odio per il fascismo in tutte le sue forme e di idealismo, successivamente svanito, non poggiando evidentemente su radici così profonde come invece sembrava. Le immagini erano solo icone, maschere, pretesti per conquistare le strade. Whitehead si dichiara ottimista, concludendo la sua intervista affermando che i semi di quei favolosi anni stanno continuamente germogliando negli ambienti più inaspettati, aspettando solo il momento propizio per emergere. Insomma, nei Sessanta si è mosso qualcosa di eterno e profondo. Sicuramente il Peter Whitehead del 1983, come molti suoi coetanei, è ancora innamorato di ciò che aveva provato e sperimentato in quell’epoca. Basta vedere poche immagini del suo film per rendersi conto della libertà, della mancanza di inibizioni, dell’amore per una socialità libera da convenzioni che accomunava i giovani del periodo. Interstellar Overdrive era il piatto forte delle esibizioni dei Pink Floyd, nonché un inno alla musica psichedelica di quegli anni. È un brano che spianò la strada a quell’abbandono delle strutture musicali convenzionali che ebbe inizio verso il 1966. Incentrato sul un riff d’apertura, una triade discendente maggiore in Mi bemolle, che risale al marzo del 1966, il brano si “dilata” poi in una lunga e sperimentale improvvisazione, per poi ritornarvi. Un riff nato per caso: Peter Jenner, infatti, aveva ricevuto una copia

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dell’album d’esordio dei Love, una band di folk psichedelico della West Coast, e ne era rimasto talmente impressionato che, non appena ebbe modo di incontrarsi con Syd, gli canticchiò un brano, cercando di spiegargli come suonasse. Syd afferrò la chitarra e lo accompagnò con semplici accordi. Ma Jenner la canticchiò malissimo e l’accompagnamento che ne derivò fu del tutto differente da quello reale. Così, gli accordi “trovati” da Syd grazie agli errori canori del suo manager finirono per diventare il riff principale del nuovo pezzo dei Pink Floyd. Interstellar Overdrive è probabilmente il brano che cattura meglio di ogni altro il sound tipico dei primi Floyd di Barrett (che all’epoca usavano ancora l’articolo “The” prima del nome, che in questa forma appare nei credit del film), nonché il senso di dislocazione spazio-temporale causato dall’assunzione di Lsd, che a quei tempi circolava davvero in dosi massicce. Barry Miles, giornalista del quotidiano «International Times» (IT) e una delle figure chiave della scena underground britannica, sottolinea quanto la musica dei Pink Floyd possa creare un “altrove lisergico” se la si ascolta sotto l’effetto dell’Lsd. L’assunzione dell’acido per molti era una specie di sacramento, un tramite che serviva per vivere una visione, un’estasi mistica, quasi una sorta di illuminazione. Vale la pena citare un episodio connesso con alcune immagini realizzate dal fido grafico e regista Storm Thorgerson e proiettate sullo schermo circolare dei Floyd di Gilmour durante il The Division Bell Tour. Riguarda un “viaggio” di Syd. Secondo Thorgerson Syd voleva sperimentare tutto: aveva una mentalità molto aperta, fino a livelli pericolosi. Ma nessuno ha mai capito se abbia davvero raggiunto uno stato di illuminazione. Ian Moore, per lungo tempo alle dipendenze dei Pink Floyd, ricorda che durante un “ritrovo” a casa di Syd i ragazzi avevano preparato un po’ di Lsd liquido in alcune bottiglie, messo in fila centinaia di cubetti di zucchero versato su ognuno due gocce di sostanza, che però era così forte che fu assorbita direttamente dalle dita. Quando arrivò l’effetto divenne difficile più a distinguere le zollette preparate dalle altre, così probabilmente alcune ne ricevettero una dose doppia. Syd aveva in mano una prugna, un’arancia e una scatola di fiammiferi10, e perso nel suo “viaggio” era seduto a fissarle. Per Syd la prugna era Venere e l’arancia Giove11, e lui volava nello spazio tra i due pianeti. I suoi “viaggi interstellari” finirono bruscamente quando Moore, immerso completamente in un diverso trip, venne attirato dalla prugna di Syd e si mangiò Venere in sol un boccone. Syd rimase sotto shock per alcuni secondi, poi sogghignò appena.

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Quando Storm Thorgerson progettò la copertina dell’album del 1974 che raccoglieva i due dischi solisti di Barrett inserì una foto che raffigurava appunto un’arancia, una prugna e una scatola di fiammiferi, insieme a una semplice foto in bianco e nero in cui Syd è seduto a gambe incrociate sul pavimento dipinto del suo appartamento di Earls Court Square nel 1969. Una delle colonne sonore meno conosciute dei Pink Floyd, mai comparsa nella discografia ufficiale del gruppo, è quella del film The Committee, il film del 1968 diretto da di Peter Sykes, prodotto da Max Steuer e distribuito a Londra dalla Craytic Ltd. È la storia di un personaggio dal nome sconosciuto, intrepretato da Paul Jones, che riceve un passaggio in autostop dalla vittima (Tom Kempinski) alla quale accidentalmente taglia la testa facendo cadere il cofano dell’auto durante un controllo al motore. Il protagonista riattacca semplicemente la testa al tronco, e il guidatore riprende vita senza ricordare niente. Nella seconda parte del film, scollegata dalla prima, il protagonista fa parte, insieme alla vittima, di un comitato che insieme ad altri sembra guidare le sorti del mondo. Gran parte del film consiste in dialoghi fra il protagonista e il capo del comitato. I Pink Floyd sono i principali artefici della colonna sonora, avendo composto quasi tutti i brani a eccezione di Nightmare, per il quale è probabile il contributo di The Crazy World Of Arthur Brown.

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I brani sono, nell’ordine: Intro, Main Theme, The Party, Nightmare, The Confession, Main Theme 2. L’Intro è una traccia suonata prima al contrario e poi nella versione originaria, che accompagna le prime scene della pellicola. Main Theme è un brano strumentale basato su un semplice riff. In The Party, l’organo Hammond jazzato di Richard Wright gioca un ruolo di primo piano. Nightmare, come si diceva, è probabilmente un brano di The Crazy World Of Arthur Brown. The Confession a conferma dell’amore dei Floyd di questo periodo per questa forma di composizione, è una lunga suite di impronta sperimentale, il cui finale è un primo abbozzo di Careful With That Axe, Eugene. La conclusiva Main Theme 2 è una versione prolungata di Main Theme. Si può notare la predilezione dei Floyd già in una fase embrionale per le strutture circolari, in cui il finale si ricollega concettualmente all’inizio, un tratto stilistico che caratterizzerà molti dei loro lavori successivi. La colonna sonora, per espresso divieto del gruppo, non fu mai pubblicata in un album ufficiale, tuttavia esistono vari bootleg composti di tutte le tracce, in alcuni punti delle quali fanno capolini i dialoghi originali del film. David Gilmour ha dichiarato che sarebbe stato meglio se qualcuno avesse fatto loro delle richieste precise prima che iniziassero a comporre i brani, in modo da evitare alcune tortuosità presenti nella musica.

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All’inizio del 1969 ai Pink Floyd fu commissionata la colonna sonora completa di un film. David Gilmour dichiarò in seguito che, dopo il poco riuscito esperimento di The Committee, avrebbero fatto qualsiasi pur di pubblicare una vera colonna sonora. Da qui nacque la collaborazione al melodramma culturale a basso costo e recitato in francese More, che venne diretto da Barbet Schroeder, ex allievo di Jean-Luc Godard, oggi ricordato nel mondo soprattutto per aver offerto il pretesto al terzo album del gruppo. Ma nella campanilista Francia More raggiunse un successo paragonabile a quello di Easy Rider (regia di Dennis Hopper, 1969), contribuendo così al successo dei Pink Floyd in quel paese, tradizionalmente ostico per i gruppi anglosassoni. Con le loro coreografie basate su immagini in movimento e la loro musica immaginifica e priva di struttura, i Floyd erano davvero il gruppo più adatto alla composizione di una colonna sonora. Richard Wright ha dichiarato che in quel periodo comporre colonne sonore sembrava la soluzione ideale ai loro problemi e che, dato il genere di brani che componevano, si sentivano naturalmente portati in particolare per film a soggetto surreale. More è la storia di Stefan (Klaus Grunberg), un giovane tedesco che al termine degli studi decide di spogliarsi della sua estetica conservatrice e abbattere i ponti del suo status sociale. Dopo un passaggio in autostop fino a Parigi, rubacchia per sopravvivere, fino a quando non incontra lo spirito libero Estelle (Mismy Farmer), un’americana con la quale decide di dirigersi alla volta di Ibiza. Ma Estelle ha un passato che la perseguita, un uomo di nome Wolf. È una storia d’amore autodistruttiva, un amore imper-

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fetto fra due personaggi incapaci di amarsi fino in fondo che solo l’elemento artificioso dell’eroina riesce a compensare. Girato con un taglio quasi documentaristico a budget ridotto e prodotto dalla Germania Ovest, dalla Francia e dal Lussemburgo, il film può forse apparire datato, ma Mismy Farmer dona al suo personaggio un fascino etereo d’angelo ammaliatore: una sorta di vampiro che dà un senso di compiutezza all’intero lavoro. È il mito del male eternamente seducente che assume le sembianze tentatrici di donna, da un lato sacrale Madonna, dall’altro demone lascivo. Una sacerdotessa alternativa, grande esperta di ogni genere di esperienza narcotica, che avvia Stefan, un ragazzo dall’aria innocente, alla distruzione psico-fisica. A detta di Gilmour, il gruppo, solitamente lento nella composizione, anche grazie agli stimoli del regista Schroeder ultimò la colonna sonora in appena otto giorni. Nel film e nei brani che lo accompagnano il dramma della morte del protagonista per overdose si mescola con la rabbia dei litigi e delle crisi di astinenza, e in qualche modo tutto questo è significativo della posizione che i Floyd avevano assunto nei confronti delle forme più deleterie della drug culture. Richard Wright, interrogato provocatoriamente su questo nel corso di un’intervista, rispose che il film, stigmatizzando e mettendo in scena i deleteri effetti della droga, diceva le cose giuste al riguardo, altrimenti non avrebbero accettato di comporne la colonna sonora. È noto l’episodio secondo il quale, durante una session di THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, Syd Barrett si accese in studio uno spinello che venne immediatamente sequestrato, spento e accartocciato da Waters. Attraverso le immagini di More i Floyd esorcizzano il loro passato, anche se non basta la dolcezza di Cirrus Minor per limitare i riverberi comunque lisergici delle parole, che fanno riferimento a un viaggio a Cirrus Minor, dove, come recita il testo, si è scorto un cratere nel sole, dopo miglia di luce lunare. Stranamente, la colonna è composta principalmente da brani più strumentali che d’atmosfera, come si potrebbe essere portati a immaginare. Green Is The Colour e Cymbaline diverranno standard dei loro concerti nei due anni successivi, mentre la rabbia presente in Ibiza Bar e The Nile Song darà ispirazione ai primi preparati di hard rock. Gilmour descrive il lavoro dei Floyd per More come una sorta di esperienza a contratto. Il gruppo arrivava in studio senza nulla di preparato, lavorando finché dalle loro improvvisazioni non usciva della musica, di cui veniva poi valutato il valore utilizzabile. Non è esattamente come compor-

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re musica per se stessi, essendo questo un processo più veloce, che richiede meno riflessione da parte del gruppo. Roger Waters ha invece dichiarato che di tanto in tanto nella loro carriera i Floyd hanno composto dei pastiche suonando la loro idea di heavy rock. In questo senso rimane impressa, all’interno della colonna sonora, l’inquietudine di Up The Kyber e Dramatic Theme. Una nuova commissione di Barbet Schroeder fruttò le poche e arruffate canzoni di OBSCURED BY CLOUDS (1972, titolo francese del film La Vallée), un anticipo dei momenti migliori di THE WALL. Nel testo di Burning Bridges possiamo infatti ascoltare inquietanti parole che fanno riferimento a una porta che rimane socchiusa oltre la gabbia dorata, idea chiaramente allusiva al Muro. Quando nel luglio del 1969 uscì MORE, destò una certa meraviglia. Molti si aspettavano infatti una conferma della “via elettronica”, e invece ecco una serie di brani acustici, intimistici, ricchi di un fascino sottile. In tutti c’è l’impronta di Waters, anche se sei su tredici sono firmati da tutti i membri. Ma non si trattava di un nuovo corso. La diversità di MORE è spiegata dall’obiettività che il gruppo si era posto: la musica al completo servizio delle immagini. Una musica, appunto, intimista e suggestiva, che non ha pretese di protagonismo, ma di suggestione. Il film, che comparve anche in Italia (con il titolo Di più, ancora di più), è pervaso da una specie di sottile magia, pur nell’esilità dell’intreccio, ambientato fra i mari e i muri bianchi di Ibiza, isola che all’epoca era rifugio di numerose comunità

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hippies e che durante una vacanza del 1967 aveva tributato un benvenuto trionfale agli eroi alternativi Rick Wright e Syd Barrett. Gilmour dichiarò di aver composto questa colonna sonora solo per soldi, ma non è del tutto vero. La preparazione dell’album aveva richiesto un certo impegno, e i brani di Waters dipingono con chiarezza l’atmosfera che Schroeder voleva costruire attraverso le sue immagini. Ad esempio, The Nile Song (il cui testo fa riferimento a una figura femminile che chiama “dal profondo” un’anima destinata da lei a essere portata giù, in un sonno eterno) dà tono a scene che le sole immagini avrebbero bruciato con eccessiva superficialità. La scelta di Ibiza era una delle tante “coincidenze” della carriera dei Floyd: proprio in quel periodo sull’isola viveva in una comune Syd Barrett, che veniva da un lungo periodo di “relax” (come lo definì lui stesso) nella casa dei genitori, a Cambridge. Alle Baleari si rimise a dipingere e a interessarsi di musica, componendo alcuni brani che avrebbero poi fatto parte del suo primo Lp. Dopo l’uscita di MORE Roger Waters dichiarò che il continente (e in particolare la Francia) sembrava appena esploso per il gruppo, cosa per loro ancora abbastanza nuova. Tutto questo, continua, grazie al film, che ebbe tale successo che a Parigi fu proiettato in contemporanea in due cinema distanti poche decine di metri l’uno dall’altro. Nella carriera dei Floyd l’unione suono-immagine rappresenta un imperativo: l’immagine psichedelica è già di per sé il presupposto della loro musica. Dai primi riflettori dorati nascosti sotto la batteria di Nick Mason si arriva così all’enorme maiale che vola sulle teste degli spettatori sputando fuoco e fumo. In questa dinamica dell’immagine che segue la carriera del gruppo c’è una progressione che porta i Floyd da un punto di partenza culturalmente legato all’America, il “sentito dire” del light show di Andy Warhol, a un consolidamento nell’establishment artistico europeo. E l’approccio al film costituisce il primo e più importante passo di questo processo. La realizzazione della colonna sonora di More ha dunque una collocazione precisa nella storia del gruppo: oltre ad ampliarne la fama al di là i confini dell’Inghilterra, conferma l’amore dei quattro per l’arte del grande schermo, e infine costituisce una specie di valvola di sfogo, un allargamento delle vedute musicali più che mai utile per approfondire le idee sperimentate dopo la dipartita di Barrett.

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MORE innanzi tutto vanta un record: è stato il disco che, in termini temporali, ha impegnato di meno il quartetto: appena otto giorni per realizzarlo. È come una prova generale della capacità di poter trarre da pochi, precisi suoni sensazioni, ansie e sorrisi, gli stessi che i dischi a venire susciteranno con maggiore efficacia. Basti citare i brani Echoes e Shine On You Crazy Diamond, il primo costruito a partire da una semplice nota del pianoforte di Wright fatta passare attraverso un amplificatore in studio, e il secondo basato sulle quattro famosissime note trovate da Gilmour “fantasticando” in studio con la sua chitarra. Note di cui Waters fu subito apprezzò con entusiasmo la tristezza e la malinconia. In questo risiede la grande capacità del gruppo di fare musica come “fantasisti”: nello sviluppare un brano, anche grazie ai numerosi “rodaggi” dal vivo, fino a ultimarlo, pronto per essere inciso. Anche THE DARK SIDE OF THE MOON è stato composto così: il disco uscì infatti dopo un anno di tour. MORE perde tutta la linearità che il precedente A SAUCERFUL OF SECRETS aveva acquisito. La cosa è facilmente spiegabile considerando che ogni suo singolo brano deve sottolineare una sequenza di un film in cui l’amore fra i due giovani si mescola con la rabbia dei litigi e delle crisi d’astinenza e con il dramma della morte per overdose del protagonista. Ecco dunque la dolcezza di Cirrus Minor, Crying Song, Green Is The Colour, More Blues e la rabbia di The Nile Song e Ibiza Bar. C’è inquietudine in Up The Kyber e dramma in Dramatic Theme. L’unico brano più accomunabile alla musica che i Pink Floyd eseguivano in quel periodo è probabilmente Main Theme, nel quale, svincolati da obblighi di sequenza, i quattro si sbizzarriscono in una mini-suite, logico seguito della più corposa A SAUCERFUL OF SECRETS. Il potere evocativo della musica dei Pink Floyd si esalta e si giustifica soprattutto alla luce delle immagini. Se gli anni Ottanta del rock sono già stati identificati come gli anni del video-clip, le prime avvisaglie di questo cambiamento devono essere attribuite alla musica dei Pink Floyd. Nel 1969 è quindi proprio il cinema che contribuisce a far decollare il gruppo. Attraverso More, la popolarità dei Pink Floyd si estende anche nei circuiti underground degli altri paesi. La musica segue strettamente le emozioni umane, e riflette con terribile evidenza il dramma del protagonista. Cirrus Minor è il momento più chiaro di questa dimensione, che vorrebbe essere onirica ma che purtroppo rispecchia una terribile realtà: sibili lenti, canti di uccelli, serenità e pace ai bordi di un fiume accanto a un cimitero. È questa la risposta europea all’ondata psichedelica californiana

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di quegli stessi anni. E saranno poi gli stessi Floyd a gettare un lungo ponte oltreoceano, partecipando con le loro immagini sonore al già citato Zabriskie Point, per la regia di Michelangelo Antonioni. Ma riguardo a questo importante passaggio della discografia della band, le opinioni dei suoi membri sono piuttosto controverse. Roger Waters ha dichiarato che il gruppo avrebbe voluto eseguire dal vivo la colonna sonora nella sua interezza, e che la sua suddivisione nei sedici brani del disco è stata fonte di disagio. Gilmour sostenne che la realizzazione della colonna sonora sia stata un po’ forzata, essendo stata tutta scritta, registrata e missata in soli otto giorni. Secondo il chitarrista, inoltre, i Floyd non avrebbero nemmeno mai visto il film completo una volta terminato; film che ha avuto recensioni abbastanza negative, probabilmente perché i dialoghi sono piuttosto elementari e banali: personaggi dicono cose come: “Bello, tiriamoci su”; il regista Schroeder, in quanto straniero, probabilmente non aveva grande capacità di discernere sull’opportunità dell’uso di molte espressioni gergali. Ancora Gilmour ha dichiarato che i membri della band avrebbero ricevuto circa seicento sterline a testa per realizzare una colonna sonora di un lungometraggio e quindi si erano rimboccati le maniche e l’hanno composta. Nick Mason, invece, non ricordava proprio come andarono le cose, né quando incontrarono il regista Barbet Schroeder, che propose loro la collaborazione mostrando il film non sonorizzato. Il gruppo pensò di accettare dal momento che voleva sfondare nel giro del grande cinema. Successivamente composero la colonna sonora del suo Obscured by Clouds solo perché era diventato un amico. In quell’intervista il batterista conti-

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nua affermando che è bello lavorare per le colonne sonore. In studio si aspetta anche per sei mesi l’idea geniale per un album e non arriva niente, ma quando si è al lavoro su una colonna sonora, Roger Waters è davvero sotto pressione e produce canzoni con una velocità incredibile. Mason conclude dicendo che il gruppo riceve molte offerte di questo tipo, e che è certo che prima o poi ne accetteranno altre. La prima esecuzione live di un brano tatto da MORE fu di Cymbaline, inizialmente una parte della suite The Man intitolata Nightmare. Era suonata in una versione allungata, con un intermezzo sperimentale di suoni e rumori che, a volte, superava i tredici minuti. L’ultima esecuzione conosciuta, documentata su nastro, fu a Cincinnati, il 20 novembre del 1971. Green Is The Colour veniva sempre eseguita dal vivo in una versione “miscelata” con Careful With That Axe, Eugene; l’ultima volta è documentata su nastro ad Osaka, il 9 agosto 1971. Un terzo brano tratto da MORE venne presentato solo in alcuni show: si tratta di Main Theme, di cui si conoscono solo due esecuzioni: quella a Croydon il 18 gennaio 1970 e quella di Parigi trasmessa in diretta dalla radio francese Europe 1 cinque giorni dopo. Già dalle date successive del febbraio 1970 scomparirà dagli spettacoli. Il disco fu pubblicato il 27 luglio 1969 in versione stereo (Columbia Scx 6346) e mono (Columbia Sx6346); l’edizione più ricercata è quella giapponese (Odeon Op-80165), stampata in vinile rosso e contenente un blocchetto con i testi delle canzoni. Molto rara anche l’edizione originale americana (Tower St 5169), che in seguito venne ristampata (Harvest Sw 11198). In Italia fu pubblicato nel 1969 (Columbia 3C 062-04096), mentre THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (5 agosto 1967) e A SAUCERFUL OF SECRETS (29 giugno 1968), i primi due album della band, furono editati in coppia in A NICE PAIR il 3 dicembre 1973. MORE si può quindi considerare il primo disco dei Pink Floyd che venne immesso sul nostro mercato. Il gruppo cominciò a lavorare a una nuova colonna sonora per Schroeder il 23 febbraio 1972 in Francia, al Château D’Hérouville, uno studio non particolarmente attrezzato che fu scelto soltanto perché in quel momento gli strumenti si trovavano lì. L’album, OBSCURED BY CLOUDS, fu in vendita a giugno, ma non ottenne molti consensi. La stampa specializzata non gli prestò molta attenzione, giudicandolo per lo più come una sequenza di canzoni destinate a fare solo da sfondo a un film, non a farsi ascoltare per sé stesse.

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Anche i recensori più benevoli ne sottolinearono la pessima qualità di registrazione, e molti ne attribuirono le cause all’insufficienza del Chateau D’Herouville. L’album, tuttavia, fu molto ascoltato negli States, dove le stazioni FM lo trasmettevano in continuazione, come non avevano mai fatto per alcun lavoro precedente del gruppo.

obscured by clouds

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È ancora una volta il regista Barbet Schroeder a volere i Pink Floyd per la colonna sonora del film La Vallée. Pur essendo stato presentato al festival di Venezia del 1972, la pellicola non è mai stata distribuita in Italia, fatta eccezione per qualche rara apparizione in locali specializzati. Nel complesso, nonostante la stupenda fotografia del film, è stato osservato che tutti sembravano “assenti”: dal regista ai grafici dello studio Hipgnosis, che idearono una copertina piuttosto anonima, fino ai musicisti stessi, tanto che anche dal vivo il disco ha avuto vita breve. Solo due sono infatti i brani che hanno conosciuto esecuzioni live: Childhood’s End e Obscured By Clouds/When You’re In. La prima versione conosciuta di Childhood’s End è stata suonata a Saint-Queen il primo dicembre del 1972. Lo stesso pezzo sarà suonato per l’ultima volta nelle prime sei date del tour americano del marzo 1973 (Madison il 4, Detroit il 5, St. Louis il 6, Chicago il 7, Cincinnati l’8, Kent il 10). Queste ultime esecuzioni sono particolarmente interessanti perché, nella parte strumentale, si avvicinano molto a Shine On You Crazy Diamond parte terza. In scaletta il brano sarà poi sostituito da Set The Controls For The Heart Of The Sun. Invece Obscured By Clouds/When You’re In hanno avuto vita più lunga, essendo state suonate in tutti i concerti del 1973, inclusi gli spettacoli con Roland Petit. Nonostante la scarsa pregnanza artistica del disco, riconosciuta dai musicisti stessi e in parte giustificata dalla poca ispirazione di un film che, in definitiva, non sentivano, OBSCURED BY CLOUDS, con le sue atmosfere marcatamente rock, è indicativo del nuovo corso che il gruppo stava intraprendendo, e che sarebbe approdato nel capolavoro DARK SIDE. Da un comunicato stampa della Columbia si evince inoltre che è stato proprio gra-

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zie a queste due colonne sonore che Roger Waters ha avuto l’idea di creare concept album, ed è proprio con il brano Free Four che inizia per Waters l’approfondimento della tematica del padre morto in guerra, che troverà la sua massima espressione in THE WALL e in THE FINAL CUT. Il film La Vallée inizia su un’isola della Nuova Guinea. Tornano quindi scenari esotici e volutamente fuori dal mondo, atti a portare la mente umana in un mondo “altro”, come già successo per More. In un’inquadratura davvero efficace, il primo brano Obscured By Clouds fa da colonna sonora a una panoramica sulle montagne, mentre la protagonista Vivian (interpretata da Bullie Ogier), attraente e ricca moglie di un diplomatico francese, raggiunge la cima dell’ultimo crinale scoprendo la valle nascosta che il suo gruppo di esploratori hippie cercava. Il sole fa capolino tra le nubi (Obscured By Clouds, appunto) rivelando lo scenario in tutta la sua naturale bellezza. La donna cerca poi di comprare in un negozio di prodotti contraffatti alcune piume di un uccello molto raro, che le potranno conferire prestigio presso i suoi amici parigini e farle guadagnare un buon compenso presso i sarti di alta moda, ma nel negozio non ce ne sono. Conosce Olivier (Jean-Pierre Kalfon), che ha delle piume che si è procurato da solo. I due si recano nella sua tenda, dove lui le mostra altre piume. La invita poi a esplorare le zone montagnose della Papuasia, dove ha comprato le piume da un missionario. Lui e l’amico Gaetan (Michael Gothard) sono infatti diretti in una valle definita come “oscurata dalle nubi”. Vivian cena con il gruppo, e tra i due c’è un rapporto sessuale. Durante il viaggio nella foresta, il gruppo fa visita a una tribù di nativi, quindi si reca da uno sciamano solito regalare piume solo a chi ama. Vivian riesce a ingraziarsi il mistico tribale e riceve diverse piume preziose. Dopo aver bevuto una pozione preparata dallo sciamano, la donna è sopraffatta da una bizzarra visione, diventando tutt’una con la foresta. Si sente liberata, forte e bella, e si sposa con la natura grazie al connubio con un serpente… Successivamente gli esploratori si trovano a dover fare i conti con un gruppo di cacciatori americani. Vivian si vede così costretta a dare tutto il proprio denaro per salvare sia la jeep sulla quale viaggiavano che i cavalli che hanno al seguito. Giunti alla mitica vallata “oscurata dalle nubi”, i personaggi sono catturati dalle pieghe seducenti di una natura primigenia, paradisiaca, vergine e incontaminata, e finiranno per essere uccisi dal loro stesso sogno, quasi a delineare il concetto che dopo l’acme della gioia e dell’estasi non si può più

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fare ritorno al reale. Un reale che risulterebbe cambiato, simile alla visione annebbiata di un cieco che vede per la prima volta la luce, per il quale non è più possibile un’ustionante rientro nella quotidianità. È il numinoso che, quando lo tocchi, ti cambia per sempre, in una lettura in chiave Junghiana. Non a caso, la loro ultima frase prima di morire sarà: “È la valle, la vedo”. Il film, nonostante lo splendore delle location e l’estremizzazione delle situazioni, non ha la compattezza e la solidità di More, e rimane un’opera abbastanza elementare e banale. Anche per questa colonna sonora ai Floyd bastano pochi giorni di lavoro. David Gilmour ricorda che alcuni brani sono stati composti in Inghilterra, mentre gli altri sono stati scritti in studio, a Hérouville, di fronte alle immagini del film finito per un’esigenza di maggiore spontaneità, registrando tutti i giorni dalle due del pomeriggio fino alle cinque del mattino. Pubblicato in Inghilterra il 3 giugno 1972 (Harvest Shsp 4020), il disco aveva gli angoli della copertina arrotondati. L’edizione italiana (Harvest 3C06405054) aveva le prime sessantamila copie difettose, e la Emi provvide quasi subito a ritirarle dai negozi. L’edizione americana (Harvest St 11078) aveva nel retro di copertina tre foto tratte dal film, diverse da quelle presenti sull’edizione inglese. Le edizioni più ricercate di questo album sono quella giapponese (Odeon Eop 80575), in vinile nero con allegato un blocchetto di dodici pagine, e quella promozionale argentina (Emi 5130), con le labels bianche e una copertina leggermente diversa. Tra le due colonne sonore per il regista Schroeder si colloca quella, fondamentale per il gruppo, per il regista italiano Michelangelo Antonioni, che racconta le sue sensazioni riguardanti l’America in Zabriskie Point.

zabriskie point

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Il regista Michelangelo Antonioni (Ferrara 1912 – Roma 2007), impegnato a Londra nelle riprese di Blow-Up (1966), vide per la prima volta i Pink Floyd in occasione di un concerto alla Rondhouse al quale si era recato in compagnia di Monica Vitti la sera dell’11 ottobre 1966. Si trattava di un grande evento, una festa organizzata per il lancio della nota rivista underground «IT»,+ di cui abbiamo già parlato. Per il gruppo era una serata di particolare importanza: erano accorse circa duemilacinquecento persone. Tutto l’universo sommerso dell’underground era presente, e quello era il primo concerto della band davanti a un pubblico così vasto. I Floyd erano in forma smagliante e suonarono, oltre a Interstellar Overdrive di Barrett, lunghe versioni psichedeliche di classici come Louie Louie e Roadrunner che ebbero un notevole impatto su un pubblico in estasi lisergica. In particolare, un amico dei Floyd, Matthew Scurlow, è convinto che la serata e il ruolo di spicco che vi aveva rivestito Barrett ebbero un notevole effetto su Paul McCartney, giunto in compagnia della fidanzata Jane Asher, tanto da influenzare in maniera determinante il SGT. PEPPER dei Beatles. Il loro light show, costruito da Jenner e King, fu affidato a Pip Carter e fu molto apprezzato nell’oscurità dell’enorme locale, originariamente concepito come deposito per le locomotive della compagnia ferroviaria e successivamente utilizzato come fabbrica per gli enormi tini di gin da Gilbey’s. I Pink Floyd fecero saltare l’impianto elettrico a metà di Interstellar Overdrive, ma la serata ebbe ugualmente un enorme successo. Gli articoli pubblicati sulla stampa nazionale (dal «Melody Maker» al «Sunday Times») aumentarono notevolmente la fama del gruppo, che diventò indiscutibilmente la band più emblematica dell’underground. I Floyd avevano fat-

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to cose davvero bizzarre per tenere alto il feeling dell’evento con il loro spaventoso feedback sonoro, con la proiezione di diapositive direttamente sulla loro pelle, con dei faretti che lampeggiavano al ritmo della batteria. La maggior parte degli spettatori poté assistere per la prima volta a un light show, e molta gente rimase per ore a bocca aperta di fronte a quelle pulsanti esplosioni di luce. Il gruppo fece inoltre ricorso a qualche tecnica originale: la chitarra suonata con un accendino metallico e con cuscinetti a sfera per uno stupefacente feedback sonoro alla Bo Diddley (una tecnica probabilmente ripresa dagli AMM), con un tappeto sonoro continuo di sottofondo, realizzato in successive ondate controllate, sulla cui base si innestavano complesse ripetizioni di pattern precedenti rimessi nuovamente in circolazione. Alla fine, all’approssimarsi della conclusione di Interstellar Overdrive, i Floyd fecero esplodere in tutta la sua potenza il drammatico climax della loro esibizione. Questo era l’ambiente underground che pullulava nella Londra degli anni Sessanta, e questo è esattamente il clima che il regista Antonioni stava ritraendo alla perfezione in Blow-Up, sua personale visione della Swinging London. Il film contiene infatti elementi tipici della città e del periodo che rappresenta: il fotografo pop (interpretato da David Hemmings), la moda della minigonna, le performance teatrali e avanguardistiche dei mimi e l’immancabile rock’n’roll degli Yardbirds, in un concerto nel tipico affollato ambiente drogato di una caratteristica sala da concerti sotterranea. Memore del grande successo della serata alla Roundhouse, Antonioni decide di affidare la colonna sonora del suo film successivo, Zabriskie Point (1970), proprio ai Pink Floyd, che dovevano originariamente completare da soli l’intera soundtrack. Dave Gilmour ha dichiarato di aver composto per Antonioni molto più materiale di quello che fu effettivamente utilizzato. Il chitarrista continua a essere convinto che il lavoro sarebbe riuscito molto meglio se il regista avesse utilizzato la maggior parte di quello scritto. Nelle numerose interviste relative alla lavorazione per il film vi sono varie discrepanze. Rick Wright, per esempio, dichiarò che si trattò di un lavoro davvero duro. Il gruppo fu infatti impegnato giorno e notte per due settimane per realizzare non più di venti minuti di musica. Ma per Wright fu anche una grande soddisfazione, e i Floyd si dissero contenti di ripetere l’esperienza in futuro. Roger Waters e Nick Mason fecero un resoconto più realistico dell’esperienza, ricordando di essersi recati a Roma e di essersi stabiliti in un albergo di lusso per alzarsi tutti i giorni alle quattro del pomeriggio e infilarsi nel bar per rimanerci fino alle sette, per

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poi andare al ristorante a mangiare e bere per un paio d’ore. A quel punto, più o meno alle nove di sera, il gruppo cominciava a lavorare; lo studio era a pochi minuti di cammino, facilmente raggiungibile a piedi. Waters ricorda che la faccenda si sarebbe potuta portare a termine in circa cinque giorni, perché non c’era molto da fare. C’era Antonioni, e i Floyd avevano preparato un po’ di materiale davvero buono, ma lui ascoltava e poi si esprimeva con un certo, tremendo tic: “È meraviglioso, ma è troooppo triste”, oppure “È troooppo forte”. In sostanza, era sempre tutto sbagliato. Alla fine Antonioni utilizzò soltanto tre dei brani che avevano realizzato, e al posto dei loro scelse brani di Jerry Garcia, Grateful Dead, Rolling Stones, Kaleidoscope, Youngbloods, John Fahey, Roscoe Holcombe e Patti Page. David Gilmuor descrisse i brani utilizzati da Antonioni chiarendo che uno era il rifacimento di Careful With That Axe, Eugene, che probabilmente era la loro cosa migliore. L’altro era una sorta di brano country and western che sarebbe potuto essere sostituito con un qualsiasi brano di una band americana. Ma Antonioni scelse quello targato Floyd, cosa davvero strana secondo Gilmour. Richard Wright invece fu più diretto, affermando che Antonioni non aveva le idee chiare. Non si riusciva a capire cosa cercasse. Wright era in studio seduto al pianoforte a guardare una sequenza del film che illustrava scontri violenti al campus che gli ispirò quei giri armonici che al tempo entusiasmarono tutti. David Gilmour in seguito dichiarò il suo stupore per il fatto che quelle melodie al piano composte nel 1969 per Zabriskie Point (Riot Scene) non fossero inserite negli album successivi come ATOM HEART MOTHER (1970), MEDDLE (1971) e OBSCURED BY CLOUDS, ma poi fossero “rinate” spontaneamente e naturalmente in DARK SIDE sotto forma della celebre Us And Them. A proposito di questo brano, è interessante notare il capovolgimento di prospettiva operato dai Floyd nell’utilizzo della colonna sonora in relazione alle immagini. Non commentarono immagini violente con musiche violente, il che avrebbe creato probabilmente una maggiore sintonia musica-immagine, ma stravolsero completamente il concetto utilizzando passaggi di grande dolcezza. Questa geniale intuizione crea in chi vede il filmato uno spostamento del punto di vista. Non ci si indentifica più, infatti, con il mero fautore della violenza sfogata alla cieca, bensì con chi la subisce, creando un’empatia di compassione. Roger Waters liquidò la faccenda in poche parole, com’è tipico del suo stile asciutto, dichiarando che quello che Antonioni voleva era in realtà Careful With That Axe, Eugene. Nick Mason aggiunse che Antonioni voleva avere pieno con-

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trollo sui brani, e quindi, anche se le musiche andavano bene, non poteva accettarle subito, doveva scegliere per forza12. Antonioni aveva infatti ascoltato la narcotica e travolgente versione di Careful With That Axe, Eugene presente su UMMAGUMMA (Harvest Shdv ½ 1969). In particolare, l’atmosfera di attesa e di rabbia trattenuta che permea la parte iniziale del brano, per poi esplodere drammaticamente con un urlo di Waters in un pauroso crescendo, aveva suggerito al regista ferrarese una lunga sequenza di esplosioni al rallentatore girate con speciali macchine da presa13. La sequenza risulta ideata apposta per sincronizzarsi con il brano, e l’interazione musica-immagini è riuscitissima, a sottolineare la grande cifra suggestiva ed emotiva della musica dei Pink Floyd di questo periodo. Ma se Blow-Up analizza in particolare il rapporto uomo-realtà, Zabriskie Point, oltre a raccontare una serie di emozioni dell’autore a confronto con un Paese come l’America, approfondisce il rapporto uomo-ambiente. Il film nasce infatti dalla scoperta fatta da Antonioni, “vero shock cristallizzatore dell’opera”, del luogo chiamato Zabriskie Point, nel cuore della sterminata e desolata “Valle della Morte”. Non è un caso quindi che al regista sia venuta in mente proprio la musica dei Pink Floyd come colonna sonora per le immagini che si apprestava a creare. Il film inizia con il brano Heart Beat, Pig Meat, che accompagna i titoli di testa. Il pezzo introduce

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a una riunione di rivoluzionari studenti universitari: era un’espressa richiesta di Antonioni, che aveva bisogno di un componimento che sottolineasse il senso di precarietà e di smarrimento provato dai giovani, che mettevano in discussione i valori consumistici di un’esistenza borghese. Il protagonista Mark (Mark Frechette) durante la riunione si alza annoiato dichiarandosi pronto: “…a morire, ma non di noia”. Abbandona così l’incontro e viene condannato dagli altri partecipanti alla riunione per il suo “individualismo borghese”. È quindi chiaramente un personaggio controcorrente, che rifiuta l’omologazione al gruppo in cui si trova. Daria (Daria Halprin) è la segretaria di un importante costruttore edile che ha deciso di costruire un villaggio residenziale. La ragazza vuole recarsi in automobile a Phoenix, e per questo sta attraversando il deserto. In un clima denso di violenza e di tensione, durante gli scontri all’Università Kent State tra i ragazzi e la polizia Mark viene accusato erroneamente dell’omicidio di un poliziotto. Per assecondare ancora una volta il suo temperamento anticonformista ruba quindi un aeroplano. Vuole, come confesserà più tardi, “alzarsi da terra”. Nel deserto incontra Daria. Con il suo biplano, in mezzo alle lande desolate, si dirige provocatoriamente contro l’auto della ragazza. Questa, dapprima spaventata, capisce che si tratta di uno scherzo e comincia a divertirsi a osservare i pericolosi voli radenti dell’aereo e le sue discese in picchiata. Così i due si conoscono, dialogano mettendo in discussione tutti i valori nei quali credono e fanno l’amore sotto il sole cocente del deserto. È la passione erotica che trionfa idealmente contro la morte e la violenza della prima parte. Un amore selvaggio, e perciò disinibito e liberatorio, che si ricollega alla potenza rigeneratrice incarnata dallo spirito atavico di libertà rappresentato dalla valle, che viene interamente ripopolata, in un momento al di fuori dello spazio e del tempo reali, di coppie che fanno l’amore. Ma dopo il ritorno alle origini, la successiva separazione e l’impossibilità di ritrovare la dimensione quotidiana scardinata per sempre in quel pomeriggio nella valle, non può esserci che la morte. Così Mark, che dipinge il suo aereo con colori psichedelici al punto da renderlo irriconoscibile, torna all’aeroporto dal quale era partito e viene immediatamente abbattuto dalla polizia. Daria, che intanto prosegue il suo viaggio in auto, apprende la notizia dalla radio. Appresa la ferale notizia, Daria giunge alla villa del suo principale, dove è in corso una riunione, e con gli occhi bagnati di lacrime immagina una colossale esplosione dell’abitazione che ha davanti. È questo il momento più drammatico e fantastico della storia,

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quello in cui culmina la rabbia della protagonista verso quella realtà che l’ha derubata del suo uomo. La ragazza, con la sua allucinazione, decreta una fine quanto mai spettacolare e cruenta per il mondo al quale è precedentemente appartenuta. E il momento più squisitamente cinematografico di tutto il film, non a caso, è appannaggio della musica dei Pink Floyd. Il brano fu intitolato per l’occasione Come in Number 51 Your Time Is Up. La colonna sonora fu originariamente pubblicata in America nel 1970 (Mgm Se 4668 ST). Nello stesso 1970 fu anche ristampata in Inghilterra, con una diversa copertina (Mgm 2315 002). Nel 1997 ne uscì una versione Deluxe (MCA Records) con otto tracce in più. Almeno altri cinquanta minuti di altra musica Floyd, presumibilmente incompiuta e per lo più costituita da brani strumentali, furono per l’occasione recuperati dall’archivio. I brani in questione furono lasciati fuori dalla colonna sonora del film probabilmente a causa dell’esigenza di controllo di Antonioni e delle idee poco chiare di cui ha parlato Richard Wright, o forse, per il terribile “tic italiano” che tanto infastidiva Roger Waters. Nonostante si presentino in forma abbozzata, infatti, i brani sono piuttosto buoni. Costituiscono infatti una sorta di “prologo” a quelli che avrebbero fatto parte di ATOM HEART MOTHER e MEDDLE. I titoli improvvisati dei brani inediti risalgono allo stato in cui furono lasciati dopo la fine della collaborazione con Antonioni. Country Song, in particolare, è una tipica ballata floydiana, con potente voce di Waters, sostanziose esplosioni di Gilmour, un commento di pianoforte di Wright in stile honky-tonk e con un lungo assolo di chitarra in crescendo. Unknown Song è pregna di atmosfere barrettiane, con tocchi di melodia orecchiabile. Per la sequenza di sesso nella valle di Zabriskie Point i Floyd si impegnarono al massimo, componendo un brano di oltre sette minuti: Love Scene – Version 6, una blues-jam semplice per i loro standard, con molto spazio lasciato al fraseggio della chitarra di Gilmour. Love Scene – Version 4 ha un approccio molto differente, essendo di fatto un brano di Jazz da camera anni Settanta. Ne esiste una versione ancora precedente, non inserita nell’edizione Deluxe, con tastiere che descrivono distese marine, Mason impegnato ai cembali ed effetti di chitarra a imitazione del verso dei gabbiani. Anche se incompleti, questi brani hanno una propria identità, ma il regista li tralasciò puntando tutto su Careful With That Axe, Eugene, che accompagnò l’indimenticabile sequenza finale del film.

pink floyd: live at pompeii ____________________________

Girato tra il 4 e il 7 ottobre 1971, diretto da Adrian Maben (regista scozzese naturalizzato francese) e con il vate del cinema internazionale Leonardo Pescarolo (Italia 1935 – Rabat, Marocco 2006: nel suo curriculum Diavolo in corpo di Marco Bellocchio, 1986, Mignon è partita di Francesca Archibugi, 1988 e Dogville di Lars Von Trier, 2003) come “production manager” per la RM Productions, il film mostra il gruppo in concerto senza pubblico all’interno dell’anfiteatro romano di Pompei, con immagini supplementari ispirate alla trasmissione inglese Top of the Pops in cui i musicisti camminano tra fumanti bolle vulcaniche della solfatara e alle pendici del Vesuvio e altre girate in studio durante la preparazione di THE DARK SIDE OF THE MOON. Lo stile è prettamente documentaristico, ma la regia non manca di esaltare i momenti più significativi del concerto con rapidi montaggi ad effetto, spesso sincronizzati al ritmo della batteria. Il ricorso a inquadrature subliminali e a immagini aggiuntive dei corpi ritrovati tra gli scavi e di mosaici e affreschi romani arricchisce notevolmente il risultato finale, pregno dell’aura mistica del sito storico, che si fonde a meraviglia con la suggestiva musica psichedelica. L’antico e il moderno si armonizzano quindi perfettamente grazie alle note musicali e agli effetti sonori che il gruppo riesce a creare e la musica sottolinea alla quasi “misticamente” il fascino antico e magico che emerge dalle rovine, creando un ottimo contrappunto sonoro alla visione della solenne austerità suggerita dai ruderi degli antichi romani. Il regista Adrian Maben ricorda: “Un uomo possente, Steve [O’Rourke, manager dei Pink Floyd, N.d.A.], uno di quelli che non girano tanto intor-

PINK FLOYD: LIVE AT POMPEII

no alle cose e guardano subito al sodo. Presi il treno e mi recai a Londra; dopo i primi convenevoli cominciammo a blaterare qualcosa sulla mia idea. Avevo appena cominciato quando all’improvviso si aprì una porta e vidi entrare un giovanotto con i capelli lunghi. Era David Gilmour. Mise il naso dentro e si avvicinò con estrema cortesia, chiedendomi in che cosa consistesse questo film che voleva fare con la band” […] “La mia risposta fu un po’ esitante. Balbettai di un matrimonio tra la musica del gruppo e le immagini di De Chirico e Magritte, suggerendo di utilizzare anche lavori più contemporanei di artisti come Jean Tinguely e Christo. Ma non devo essere stato tanto convincente, visto che calò un silenzio di tomba”. […] “Gilmour cercò di spezzare quel momento imbarazzante con la sua cortesia”, prosegue Maben. “Lo fece sorridendo, con una frase che diceva tutto e niente: ‘Beh, grazie. Ci penseremo e ti daremo un colpo di telefono. Au revoir!”. Il primo incontro finisce così, con gli occhi bassi e una dannata sensazione di aver giocato male le proprie carte. Segue il rientro a Parigi, con aspettative vicine allo zero: “Pensai di aver perso inutilmente del tempo e arrivai al punto di valutare l’abbandono del progetto, perché mi stavo convincendo che fosse una sciocchezza. Decisi comunque di aspettare la telefonata di O’Rourke. Che però non arrivò mai: furono mesi di si-

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lenzio, un po’ frustranti, a dirla tutta. A un certo momento presi il coraggio a due mani e telefonai io. O’Rourke sembrò ricordarsi di me e della mia proposta. Mi disse: ‘No, non vogliamo fare nulla del genere. Però se riuscissi a trovare un luogo interessante per un film concerto, magari potremmo riconsiderare la cosa”. Rimaneva quindi ancora una tenue possibilità per il regista di fare il film. Decise così di prendersi una vacanza con la fidanzata e fece un giro nelle più importanti città della fascinosa Italia, inclusa una visita ai siti archeologici di Ercolano e Pompei, brulicanti di turisti biondi dalla pelle arrossata dal sole del Sud, esattamente come loro. “Quel giorno camminammo tantissimo”, ricorda Adrian Maben. “Poi, verso l’ora di pranzo, ci recammo all’anfiteatro salendo nella parte alta, e decidemmo di sederci lì a pranzare. […] Per usare le parole di Magritte”, prosegue Adrian, “fu un po’ come sentire il silenzio del mondo. […] Finito lo spuntino, con tutta calma continuammo a zigzagare per le strade della città antica e rientrammo in albergo solo nel tardo pomeriggio. Fu in quel momento, poco prima di sera, che mi accorsi di aver perso il passaporto. Pensai che l’unico posto dove potevo averlo lasciato era l’anfiteatro. Così corsi fino ai cancelli della Pompei antica, preoccupato per l’ora tarda. Saranno state le otto di sera, o giù di lì. Gli scavi erano già chiusi e gli accessi erano presidiati dai guardiani, così ne avvicinai uno e cercai di persuaderlo a farmi entrare. Sfoggiai il mio italiano ballerino e mi aiutai con un po’ di commedia”. Fu appunto lì che il giovane regista ebbe la visione più spettacolare degli scavi: da solo, tra i ruderi che gridavano alla storia con il cielo che aveva da poco abbandonato i toni rosati del tramonto e le ombre della sera che iniziavano a emergere come vecchi fantasmi tra le mille pietre, ognuna con una storia di secoli dentro. “Mi inoltrai tra gli scavi che era quasi buio. Il cielo scuriva, ma manteneva ancora screziature rossastre, e la luce intorno pareva quasi surreale. Entrando nell’anfiteatro mi diressi nella zona in alto. Avvertii un vago senso di inquietudine e di meraviglia. Ero solo in un luogo millenario, misterioso, circondato da un insistente frinire di cicale e da un ronzio impressionante; quel silenzio incomparabile che avevo avvertito sotto il solleone si era trasformato d’incanto in un concerto di migliaia di insetti; lo stridio dei pipistrelli produceva echi sinistri fra le antiche mura. L’anfiteatro aveva preso vita fra le pieghe del tramonto, e fu inevitabile cadere preda di suggestioni di ogni tipo. Fu come se i fantasmi dei morti fossero tornati a Pompei a ripopolare il luogo dove avevano vissuto”. Adrian Maben non ebbe nemmeno un atti-

PINK FLOYD: LIVE AT POMPEII

mo di esitazione: solo la musica dei Pink Floyd avrebbe potuto descrivere al meglio quelle estatiche sensazioni fuori dal tempo. Sì, lì avrebbe portato i Pink Floyd per un concerto senza pubblico. A questo punto, preso dalla furente ispirazione, non ha cercato più il passaporto. “Chi se ne fregava del documento. L’unica cosa di cui mi preoccupai, a quel punto, fu di tornare in albergo e cercare un telefono. […] Dissi al manager dei Floyd che Pompei aveva tutti gli elementi utili per un film concerto con i Pink Floyd. Non ci sarebbe stato bisogno di spettatori perché il pubblico era il luogo stesso, erano le reliquie del passato. E soprattutto misi in risalto il lato inedito dell’operazione: scegliere un sito storico distrutto dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. era un evento senza precedenti per una rock band. La musica dei Pink Floyd sarebbe stata incorniciata dalle rovine e dall’atmosfera di dannazione che continuava ad aleggiare su quel luogo”14. Alla seconda, determinata richiesta del regista, il gruppo accettò. Ma le difficoltà non finirono lì. La corrente elettrica che il gruppo aveva portato da Londra non fu sufficiente, e fu necessario integrarla con cavi elettrici che partivano dal Municipio per attraversare tutta la cittadina e giungere agli scavi. Il film inizia e termina con la stessa scena: un campo totale larghissimo dell’anfiteatro romano occupato dalle attrezzature del complesso e dalle macchine da presa. C’è quindi un lento avvicinamento dell’inquadratura, che giunge fino a portare in primo piano la batteria di Mason e in chiusura un lento allontanamento dallo stesso primo piano, fino a tornare al totale larghissimo, immagine che include tutto l’anfiteatro (incluse macchine da presa, luci con supporti e tecnici appositamente piazzati). Sembra quasi la corrispondenza filmica della logica del brano Echoes (part 1 e 2), che apre e chiude il film e a sua volta comincia e termina con lo stesso suono. Suono prodotto in studio dal pianoforte di Richard Wright, che amplificò una semplice nota, per l’entusiasmo di Roger Waters. Originariamente il brano doveva chiamarsi Return To The Sun Of Nothing, ma quel semplice, potentissimo e unico suono dal quale comincia a strutturarsi l’atmosfera dell’intero brano, convinse Waters a intitolarlo con il più pregnante Echoes. Il brano è diviso nel film in due parti, poste appunto in apertura e in chiusura del lungometraggio. Inizio e fine quindi coincidono, convergendo attraverso la stessa armonia di suoni, la stessa inquadratura e lo stesso movimento della macchina da presa, e si fondono l’uno nell’altro fino a smarrire la loro specificità.

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Questa voluta ciclicità del brano crea una dissoluzione sistematica della singola individualità dell’opera, attraverso l’abbattimento della separazione fra inizio e fine, ed è una cifra stilistica fondamentale dei Floyd, che sarà approfondita negli album successivi, THE DARK SIDE OF THE MOON, WISH YOU WERE HERE e THE WALL, fino all’ ultimo disco, THE ENDLESS RIVER, che inizia e termina con il suono di una voce effettata. Riguardo i cori “senza fine” della seconda parte di Echoes, David Gilmour ha dichiarato che sono costituiti da una serie di poche idee sviluppate insieme. Era infatti la prima volta che il gruppo usava un registratore a dodici piste. Inserendovi un suono, questo sembrava non finire mai, come nei disegni di Escher, in cui ci sono scale che salgono e non vanno mai da nessuna parte, per poi perdersi e ritrovarsi e di nuovo iniziare in un ciclo di eterno ritorno. I brani eseguiti nel film sono i principali che il gruppo suonava dal vivo nei concerti di quel periodo, nell’ordine: Echoes prima parte, la cui versione è senza dubbio una delle migliori mai eseguite, addirittura superiore a quella in studio; Careful With That Axe, Eugene, con immagini dell’eruzione del Vesuvio del marzo 1944 che accompagnano l’urlo di Waters, alternate a una velocissima e quasi impercettibile inquadratura subliminale di quello che sembra un ideogramma giapponese; One Of These Days I’m Going To Cut You Into Little Pieces, in cui domina la grintosa prestazione di Nick Mason, cui è dedicato il maggior numero di inquadrature, a tratti rallentate ed enfatizzate da interventi di post-produzione in truka15. Il batterista, preso dalla frenesia del ritmo che aveva trattenuto prima dell’esplosione, si lascia andare al punto di fare volare via una bacchetta, immediatamente rimpiazzata. La macchina da presa indulge eccessivamente sulla prestazione di Mason anche perché sembra che parte delle bobine riguardanti le immagini degli altri componenti la band fossero andate perdute. In effetti, in questo brano è visibile, oltre Mason, solo un primissimo piano del viso di Gilmour che “assapora” il ritmo e un’inquadratura molto lontana dal gruppo, appunto un “totale” di sera, che parte dal costoso mixer e si innalza a “scoprire” il gruppo che suona illuminato dai potenti riflettori e dalle luci della notte dell’anfiteatro. Potrebbe questo essere un intelligente espediente di regia: l’inquadratura in “totale”, come si dice in gergo tecnico, non consente di riconoscere in “dettaglio” cosa stia suonando il gruppo, ed è quindi utile a mascherare eventuali mancanze di immagini.

PINK FLOYD: LIVE AT POMPEII

Il film continua poi con A Saucerful Of Secrets, Set The Controls For The Heart Of The Sun, brano in cui è evidente l’amore di Waters per le melodie narcotiche di gusto orientaleggiante e Madmoiselle Knobs, con ululati del cane di Gilmour, per chiudere con la seconda parte di Echoes. Le sequenze in studio ci mostrano Waters, Wright e Gilmour al lavoro su On The Run, Us And Them, Eclipse e Brain Damage. Originariamente concepito per le televisioni europee, nel settembre 1972 fu presentato con notevole successo all’Edinburgh Arts Festival, prima che complicazioni legali lo bloccassero per due anni. Nick Mason ha dichiarato che il film per il regista sembrava non essere mai finito. Infatti, ovunque andasse in prima visione, Adrian Maben telefonava ai Floyd per chiedere loro di aggiungere un altro po’ di pellicola. Il lavoro si è così strutturato per anni, aggiungendo pezzettini di immagini a poco a poco. Ad esempio, nel teatro di posa parigino Euro Pasonor e in quello di Bologna furono filmate sequenze relative ai brani Set The Controls For The Heart Of Sun, Careful With That Axe, Eugene e la parte in sovrapposizione visiva di A Saucerful Of Secrets per la quale i Floyd hanno dovuto suonare davanti a uno schermo riflettente di Scotchlite16 con proiezioni delle immagini girate a Pompei, oltre che a Echoes (part 2) e a Madmoiselle Knobs. A parte che per il brano A Saucerful Of Secrets, gli spezzoni nei teatri sono ben riconoscibili per l’assenza di barba sul viso del tastierista Rick Wright. Il lavoro finale in effetti risente dei numerosi rimaneggiamenti subiti in seguito, perdendo di spontaneità in diversi passaggi. In particolare, nelle inquadrature realizzate nei teatri di posa si avverte molto l’assenza scenografica dell’anfiteatro romano, che avrebbe fornito uno sfondo ben più solenne e suggestivo rispetto a quello nero e indefinito che le caratterizza. Anche l’esecuzione dei brani girati in studio è un po’ forzata, essendo il gruppo ordinatamente disposto davanti allo schermo di Scotchlite, come avviene nella parte finale di A Saucerful Of Secrets e nella sezione strumentale di Echoes (part 2). Suggestiva è invece la tecnica, tipica dei filmati musicali anni Settanta, di dividere lo schermo in più parti per ottenere un suggestivo effetto psichedelico di “scomposizione”, in cui ogni piccola parte dello schermo è identica alle altre, in una frammentazione ossessiva e dal forte impatto visivo. Tecnica usata per l’assolo di chitarra in Echoes (part 1) e quello di batteria di One Of These Days I’m Going To CutYou Into Little Pieces. Mentre scrivo, una mostra itinerante di venti foto di scena del gruppo in concerto è visibile presso il palazzo del Comune di Pompei, mentre altre

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dieci sono visibili in un noto museo d’arte di Napoli. Si tratta di immagini sviluppate da un rullino ritrovato per caso a Parigi e scattate da uno dei cameraman Jacques Boumendil. All’epoca, dopo averne vista la versione definitiva a New York, Roger Waters dichiarò che si trattava di un buon film. A suo parere le immagini in studio durante la preparazione di DARK SIDE erano un buon contrappunto che accentuava l’effetto delle scene live, e il risultato era un film di intrattenimento che sarebbe piaciuto ai fan dei Pink Floyd, anche se era più dubbioso sulla sua fortuna presso un pubblico diverso. A lui sembrava, in definitiva, un grande film fatto in casa. Ben diverso il parere che David Gilmour espresse in occasione della riedizione in videocassetta del 1987. Per il chitarrista Live at Pompeii era il genere di film che dovrebbe essere passato solo in tv in tarda serata, ed esprimeva dubbi sull’opportunità della videocassetta. Le interviste del film che inframmezzano le sequenze in studio riguardano aspetti generali della carriera del gruppo, in particolare la convinzione diffusa che fosse la tecnologia elettronica a creare la loro musica, sostituendo la loro soggettiva creatività. Waters si difende affermando che è come pensare di poter dare una chitarra Les Paul a uno qualunque affinché diventi Eric Clapton. Allo stesso modo non basta accendere un amplificatore e un sintetizzatore per essere un Floyd. Gilmour insiste sull’originalità della mente umana, affermando che la loro musica è tutta un’estensione di quel che hanno nel cervello. E, aggiunge con un largo sorriso un po’ spavaldo, bisogna che nel cervello ci sia, prima di potere uscire. Le macchine non possono suonarsi da sole! È importante osservare che il primo brano, utilizzato nei titoli di testa (“Pompeji”), inizia con il suono di un battito cardiaco che sfuma in quello del gong. I Pink Floyd si stavano concettualmente preparando a DARK SIDE. Ben diverso il discorso riguardante la “spuria” versione in Dvd del film, denominata Director’s cut e palesemente rifatta ad anni di distanza. Ne sono conferma i titoli ondeggianti di inizio film, realizzati digitalmente come negli anni Settanta non sarebbe stato possibile e altre immagini in digitale che solo macchine da ripresa moderne potevano consentire. Valga su tutte l’inquadratura in cui un bronzo, grazie al programma digitale Morphing (usato di frequente nei film di genere), si trasforma nel viso di Gilmour che si avvicina al microfono per cantare la sua sezione vocale. Piacevolissime sono invece le immagini in bianco e nero, sicuramen-

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te originali d’epoca, che vedono ancora Gilmour e Wright in studio davanti al microfono, talvolta con espressioni ironiche perché sbagliano la loro parte cantata. Immagini che però danno la conferma che la traccia audio eseguita nell’anfiteatro era già pronta in studio prima che il gruppo si recasse tra le rovine del famoso anfiteatro. Non sono certo originali le immagini girate a Napoli, al Museo Archeologico Nazionale di statue della collezione Farnese, e nemmeno altre chiaramente postume della solfatara di Pozzuoli o quella, scontata e “da cartolina” del Vesuvio e del lungomare napoletano di Mergellina. Anche la parte iniziale ha come colonna sonora un non meglio identificato sospiro prolungato cui si sovrappone un battito cardiaco e il suono del gong, poi scorrono immagini di pianeti che rimandano al film 2001: Odissea nello spazio e sottraggono spazio a quelle, ben più preziose, che nella pellicola originale mostrano in campo totale l’anfiteatro romano nella sua maestosa interezza. Insomma, più che una vera e propria director’s cut”, che dovrebbe arricchire il film con inquadrature scartate, è un chiaro e palese rimaneggiamento successivo, con inquadrature e titolaggi aggiunti. Tuttavia il risultato non dispiacque allo zoccolo duro dei fan più incalliti, perché diede loro comunque la possibilità di vedere i Floyd anche in riprese e interviste inedite. La colonna sonora non venne realizzata su disco, ma un raro bootleg dal titolo LIVE AT POMPEII cominciò a circolare quasi subito. Ne uscirono quattro edizioni, due con un inserto raffigurante un robot che suona la chitarra (il primo di colore blu, il secondo giallo), la terza, molto rara, con un inserto bianco e nero raffigurante una famiglia araba, e la quarta con un inserto nero e verde come copertina e giallo e nero sul retro. È uno dei bootleg storici del gruppo, e oggi, nella sua prima edizione, è un pezzo molto ambito dai collezionisti. La prima videocassetta ufficiale tratta da questo importantissimo concerto, della durata di un’ora, conteneva solo la parte live. Nel 1987 è stata rieditata da Channel 5 Video con una migliore qualità sonora, non più mono ma stereo e il brano dei titoli di testa leggermente diverso. Il 12 marzo 1990 il film è stato riprodotto integralmente su una videocassetta della durata di 80 minuti sempre pubblicata da Channel 5 Video, con immagini del gruppo in studio al lavoro sul disco DARK SIDE. Nel 2003 è stata editata la nuova versione in Dvd del film (Universal 11039/St/G2/Ri-or3) di cui abbiamo parlato.

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Nel mese di gennaio 2016 i quotidiani pubblicano un’eccezionale notizia: si lavora per riportare David Gilmour a Pompei. La mente dei fan non può che cominciare a sognare. Il comune di Pompei aveva infatti inviato al chitarrista di Cambridge una proposta per l’inaugurazione della stagione estiva di quell’anno. E la “magica” notizia arriva poco dopo: il chitarrista dice di sì. In tour in Europa per il suo ultimo disco solista, Gilmour accetta di rispolverare il passato di 45 anni prima. Allora era con gli altri quattro membri del gruppo, prima del successo mondiale di THE DARK SIDE OF THE MOON. Oggi è solo, granitico e mastodontico, ad affrontare e confermare un successo tutto personale, figlio del gruppo di cui è stato leader negli ultimi anni. Così, il 7 e l’8 luglio l’anfiteatro romano “rivede” il chitarrista dei Pink Floyd, in due concerti immortalati in immagini in modernissimo formato 4k.

noi (la band) e loro (il pubblico): la frattura che ha creato “il muro” ____________________________

Nell’album WISH YOU WERE HERE, Roger Waters, a proposito del brano da lui composto Welcome To The Machine, mette a fuoco per la prima volta un concetto che lo accompagnerà fino all’ultimo tour, iniziato in America nel 2017, chiamato Us + Them: “Welcome To The Machine riguarda loro e noi e tutti quelli che sono coinvolti dal processo della comunicazione di massa”17. Già in DARK SIDE, la track n. 7 era intitolata appunto Us And Them, con il primo verso che declama: “Us and Them, and after all, we’re only ordinary men…” (“Noi e Loro, e dopo tutto siamo uomini comuni…”). Si può quindi ipotizzare che questi versi si riferiscano ai Floyd stessi, che si ritengono appunto: “uomini comuni”. È quindi probabile che questo concetto sia nato nella sua mente ancora prima di WISH YOU WERE HERE, anche se, in Welcome To The Machine, il riferimento è esplicitamente dichiarato. Waters probabilmente avvertiva già, come vedremo più avanti, una prima distanza tra “Us” e “Them”, riferendosi appunto rispettivamente alla band e al suo pubblico, o meglio a chi crea ed esprime l’opera d’arte e chi poi ne fruisce, subendo talvolta la responsabilità di decodificare così tutti i significati, anche reconditi, di cui Waters si diverte a disseminare gli album da lui composti. C’è infatti una voce femminile (probabilmente della stessa cantante Clare Torry), nel brano The Great Gig In The Sky, che dice: “Se senti questa voce, allora vuol dire che stai morendo”. Da sottolineare che il brano, track list. n. 5 del capolavoro dei Floyd, ha per argomento appunto la morte. In THE WALL e AMUSED TO DEATH sono presenti messaggi subliminali, comprensibili suonando il disco al contrario. A “Loro” il compito di decifrarli… La band non ha mai smentito né confermato l’utilizzo di tali espedienti, anche se

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per THE WALL si vociferò di un intervento in un secondo momento dei tecnici in studio. In THE WALL quest’idea di distanza viene estremizzata. Durante il tour Roger Waters – The Wall sul bordo del palco era visibile una scritta in forma di moderni graffiti giovanili, davanti alla quale Waters più volte si aggirava: “US, no THEM”, cioè “Noi, non LORO”. L’ultimo tour di Waters, che sembra voler dichiarare sanata questa lontana frattura, si chiama appunto “Us + Them”. Waters ha dimostrato più volte di aver ‘fatto pace’ con l’idiosincrasia che sta alla base del concept di THE WALL, annunciando in occasione dell’uscita dell’album solista AMUSED TO DEATH che il suo “muro” interiore è crollato. A riprova di tale ritrovata comunione con il pubblico, in occasione del suo Dark Side of the Moon Summer Tour del 2006, si è più volte avvicinato agli spettatori delle prime file quasi per assecondare il loro frenetico scattare foto alla rockstar. Vediamo quindi come nasce l’idea della “frattura” che ha creato il muro: “L’idea di THE WALL è nata dopo dieci anni di tour di grandi spettacoli rock, e soprattutto dopo gli ultimi anni, in cui abbiamo suonato davanti a un pubblico enorme. Alcuni venivano per ascoltare quello che volevamo suonare, ma la maggior parte sembrava essere lì per bere birra… In qualche modo è giusto che il pubblico faccia quello che vuole; d’altra parte, però, davano l’impressione di essere dall’altra parte del muro… Suonavamo sempre in grandi stadi zeppi di pubblico, e diventò un’esperienza sempre più alienante, quella di tenere gli spettacoli in mezzo a una tale bolgia; io ero sempre più conscio del “muro” che ci separava dal nostro pubblico, e quindi THE WALL è nato prendendo spunto da quegli orribili spettacoli. Dico “orribili” intendendo che tutto questo succedeva perché la gente che dal palco vedi a uno spettacolo rock è quella che si trova nelle prime venti o trenta file, ed è quella più scalmanata, che tende a stare ammassata, a fischiare, a lanciare oggetti, urtandosi in continuazione… Loro si divertono molto, ma è difficile cercare di suonare in mezzo a quella baraonda. […] Buona parte dell’impulso creativo di THE WALL nasce dalla disillusione che provavo a produrre show musicali in stadi da calcio. Nel periodo precedente a THE DARK SIDE OF THE MOON, il fascino delle performance dei Pink Floyd consisteva in un una certa intimità tra il pubblico e la band. Era magia. Ma alla fine degli anni Settanta questa magia è svanita, si è rotta sotto il mortale peso dei numeri. […] Ci fu un momento allo stadio Olimpico di Montreal durante il tour di ANIMALS in cui mi sono trovato a confronto con tutti gli aspetti negativi che questa situazione aveva

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creato. Un teenager urlava la sua devozione, pazzamente, cercando di farsi strada nella bolgia tra la band e la massa delle prime file. Tutta la mia frustrazione alla fine esplose. Gli sputai in faccia. Fui subito scioccato da me stesso. Riflettei che non c’era più scambio tra noi (la band) e loro (il pubblico) […]. Ebbi la vivida immagine di un pubblico sadomasochista bombardato da noi della band, un pubblico felice di trovarsi al centro dell’attenzione in questo modo perverso. Subito dopo ebbi l’idea di costruire un muro durante lo show. Fu un’idea che mi prese molto. Al di là dei significati personali, mi sembrò che potesse rappresentare una grande messa in scena del rock, un rock teatrale. […] Quando sei in una rock band di successo ti trovi in una posizione privilegiata e molto invidiata. Apparentemente è quello che tutti sognano. Hai molto potere, guadagni un sacco di soldi e sei sempre sulla cresta dell’onda. Vieni attratto da tutto, e arrivi a dimenticarne gli aspetti negativi. Divieni piacevolmente insensibile… […] Non era questo quello che avevi sempre sognato, ma ora ci sei talmente dentro da non poterne più uscire”18. A Montreal qualcosa si spezzò. I motivi furono tanti: la tensione accumulata durante un lungo tour (quello di ANIMALS) per i ritardi dei jet, il cibo da albergo, la noia che precede e segue gli spettacoli, l’oppressivo accalcarsi di carne senza volto ma piena di aspettative; la tensione implicita in quel modo di vivere, accumulata per più di dieci faticosi anni (“Che dire di quella volta a Dunstable, nel 1967, quando il pubblico della galleria ci ha versato addosso della birra?”), un modo di vivere che aveva già consumato l’anima e il cuore di uno degli amici più cari del gruppo; e anche la consapevolezza di aver fatto un brutto spettacolo, la sera precedente, davanti a gente vociante in quel buco nero di cemento e di acciaio che era già appagata dalla loro semplice presenza, a prescindere da come suonassero. “Loro” erano i Pink Floyd, e questo era abbastanza. Quella notte Roger Waters aveva sputato in faccia a un ragazzo. Dopo quell’episodio il cantante-bassista-compositore dei Pink Floyd aveva passato molto tempo rimuginando quel che la fama aveva provocato in lui, come era potuto giungere a un punto tanto allarmante. Più tardi aveva scritto tutto quello che era successo, trasformando quell’esperienza in una serie di canzoni di confessione brutali ed essenziali, che nel 1979 diventeranno THE WALL: un successo da vari dischi di platino. In quel momento David Gilmour non aveva ancora capito quanto il concerto di Montreal avesse sconvolto Waters. “Nessuno di noi”, spiega

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Gilmour, riferendosi al batterista Nick Mason e al tastierista Richard Wright, “ne era consapevole in quel momento. Io pensavo solo che fosse vergognoso concludere un tour di sei mesi con uno spettacolo schifoso. Ricordo di essere andato alla consolle di missaggio tra il pubblico a guardare il bis mentre Snowy (White), il chitarrista che allora era con noi, suonava”. Ma se THE WALL è per molti versi un’acuta verifica autobiografica di Waters, del modo in cui non solo il mondo del rock’n’roll, ma anche la società in generale banchetta a spese dei suoi spiriti creativi, le sue radici e i suoi insegnamenti non sono meno familiari agli altri Floyd. Gilmour ricorda, con una nota di amara rassegnazione, il momento in cui il pubblico dei Pink Floyd si è trasformato, da attento e devoto e interessato a ogni eco risonante in UMMAGUMMA in una folla spaventosa e spesso incontrollabile, a cui interessava solo lo show. Per ironia della sorte, tutto questo era accaduto con il successo del singolo Money, nel 1973. Quella sprezzante analisi del benessere, anch’essa opera di Waters, fa parte di un album di incredibile successo, THE DARK SIDE OF THE MOON (433 settimane di permanenza tra i primi 200 Lp nella classifica di «Billboard», un fulmine), un intero ciclo vita-morte-reincarnazione tradotto in musica. In un certo senso, i Pink Floyd dovevano criticare solo loro stessi. Da THE DARK SIDE OF THE MOON in poi compensavano ogni crescita della loro popolarità e ogni aumento di misura delle sale da concerto in cui suonavano con produzioni spettacolari sempre più grandiose. I testi si facevano sempre più autentici e introspettivi (e quasi paranoici, come nel caso di ANIMALS, album infuso di una feroce misantropia), entrando così in un regno visivo surreale, come un riflesso dei Floyd passato attraverso qualche sinistro specchio deformante. Cosa si ricorda meglio del tour di ANIMALS? Gilmour che prolunga i suoi acuti assolo in Dogs, la vendicativa galoppata di Sheep oppure il maiale gonfiabile dagli occhi elettrici che sibila volteggiando sull’arena come un grasso gigante uscito dall’inferno? Come album, THE WALL è una critica esplicita alla mentalità da arena rock e più in generale alla società. Come film, The Wall è una fedele traduzione della sceneggiatura e dell’album di Waters da parte del regista Alan Parker, un’abbacinante serie di incubi a occhi aperti: qualcosa di simile a una enorme copertina d’album come quelle dello studio Hipgnosis, con l’aggiunta dell’animazione da fantasia infernale come quella realizzata da Gerald Scarfe per il live show, con le sue pesanti insinuazioni alla psi-

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cologia filo-fascista della folla che assiste ai concerti rock. Ma come concerto, (a cui poterono assistere da poche centinaia di migliaia di persone a New York, Los Angeles, in Germania e a Londra), The Wall era un’elaborazione intelligente di quel complesso psicologico, efficace nel rendere il punto di vista di Waters. La graduale costruzione e la successiva demolizione del muro, il ronzio sovrastante dell’aereo, le grottesche bambole gonfiabili e la copia del gruppo dei Floyd erano stati studiati non solo per illustrare l’album, ma anche per ottenere la medesima, fragorosa, reazione pavloviana che il colpo sparato da Waters aveva provocato per la prima volta a Montreal. In The Wall il pubblico era la metafora. L’ironia conclusiva dello sbalorditivo successo dei Pink Floyd, da DARK SIDE fino a THE WALL, sta certamente nell’insistenza dei media nel definire la band come l’ultimo gruppo vivente veramente psichedelico: un “gruppo spaziale”. Le prime registrazioni dei Pink Floyd (con o senza Syd Barrett), come Interstellar Overdrive e Set The Controls For The Heart Of The Sun, miravano verso i confini più lontani. Eppure, da THE DARK SIDE OF THE MOON i Pink Floyd, e Waters in particolare, si interessavano di più all’oscuro spazio interiore, al malandato passaggio dell’anima e del corpo attraverso le difficili fasi della vita. Mentre Peter Townshend vive l’ossessione di invecchiare nel mondo del rock’n’roll, Roger Waters si preoccupa di sopravvivere abbastanza da raggiungere la vecchiaia”19. Il tour del ’77 si rivelò davvero massacrante, in particolare per Roger Waters, che si accorgeva di suonare in condizioni psicologiche sempre più disastrose. Si andava delineando un’incomunicabilità che iniziava a separarlo anche dai suoi compagni di gruppo: un disapprovante Peter Jenner osservò infatti che Waters arrivava ai concerti con un elicottero appositamente noleggiato20. Dall’altro, s’inspessiva la profonda insoddisfazione per i luoghi disumani nei quali aveva permesso che il suo gruppo suonasse la sua musica (in quel tour la più dura che avesse mai composto), provocandogli in tali condizioni l’incapacità di sentire un qualsiasi senso di comunicazione con il suo pubblico – “la maggior parte del quale” ebbe a dire in seguito “era lì soltanto per la birra. […] È difficilissimo suonare in una simile condizione, con la gente che fischia e strepita e ti butta roba addosso e si picchia a vicenda e rompe tutto… ma allo stesso tempo sentivo che era una situazione che avevamo creato noi, per la nostra stessa avidità”21. In lui si delineava così la frustrante convinzione che la sua musica fosse diventato un mero e commerciale prodotto da stadio. Avrebbe poi dichia-

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rato: “Il rock’n’roll sta diventando avidità camuffata da intrattenimento, proprio come la guerra è diventata avidità camuffata da politica”22. “A ogni concerto, quasi inevitabilmente qualcosa andava storto, gettando il gruppo (incrementato per l’occasione dal secondo chitarrista ex Thin Lizzy Snowy White oltre che dal già familiare sassofonista/tastierista Dick Parry23) nella costernazione e nel nervosismo. Per tenere la musica in sincronia con la “pista guida” dei filmati, Waters si sentì in obbligo di indossare auricolari a ogni concerto, il che non faceva che estraniarlo ancora di più dal suo pubblico. A Francoforte, in Germania, il fumo si inspessì a tal punto che gli spettatori, adirati perché non riuscivano a vedere lo spettacolo, finirono per bersagliare il palco di bottiglie vuote. A marzo, gli spettacoli casalinghi dei Floyd furono ricevuti gelidamente da critici come il Tim Lott di «Sounds»: “Delusione. Resto freddo. Si sono comportati come macchine. Come se la folla non ci fosse. Entusiasmo minimo. Approccio strumentale scadente… I Floyd non sono mai stati dei virtuosi, ma hanno sempre ottenuto un effetto. Questa volta no. La pecca più destruente, rovinosa, evitabile, eppure senza speranza, è ancora la voce di Waters. La cosa più ovvia da fare sarebbe stato lasciare che la voce di Gilmour, relativamente forte, reggesse tutte le parti soliste, con Waters che poteva a tratti inserirsi nel coro… forse non ho ancora capito quant’è inetto come cantante”24. Derek Jewell del «Sunday Times» fu meno duro, definendo lo spettacolo come “l’ultimo grido in fatto di teatro della disperazione messo brillantemente in scena” e “un’esperienza visiva e musicale che conquista (o ispira totale repulsione)”25. Sul «Melody Maker», però, Michael Oldfield propose sdegnosamente che “il prossimo passo logico per loro potrebbe essere quello di farsi fare dei manichini da lasciare sul palco con sopra delle maschere dei Pink Floyd”26. Roger, in verità, cominciava a pensarla quasi allo stesso modo. Mentre la tournée procedeva, Waters mostrava segni crescenti di quella che i conoscenti hanno poi definito la sua paranoia o la sua megalomania. Se ne stava quasi sempre per conto suo, disertando le cene e i ricevimenti pre e post concerto”27. Immagine che l’attore Bob Geldof nel film incarna durante il brano Young Lust: durante una festa nel backstage del concerto americano declina assente l’invito a firmare il suo album che gli viene dolcemente offerto da una bella groupie. “Già da molto tempo, nel corso di quel tour che odiavo, avevo capito che c’era qualcosa che non funzionava…”28. “Gli spettatori, intanto, si meravigliavano della sua abitudine di gridare sempre un numero esattamente

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alla metà di Pigs (ad esempio, «ventuno!», o «cinquantasei!», o «cinquantaquattro!») – finché qualcuno non osservò che corrispondeva al numero di concerti che la band aveva tenuto fino a quel momento nel tour Pink Floyd: In The Flesh29. In questa abitudine, citata nello splendido volume di Nicholas Schaffner, si può riscontrare una forte istanza affettiva di Waters: quasi volesse chiedere aiuto a un estraneo – un pubblico che faticava a riconoscere come suo, da attirare appunto con le grida tipiche di un bimbo abbandonato – esprimendogli quanto si era dedicato ai concerti, come pure la sua tipicamente watersiana, competitiva vena di esibire una vittoria: come si può leggere nel gesto del gridare i concerti eseguiti, anziché quelli da eseguire, seconda ipotesi questa che invece avrebbe denotato ansia di terminare il massacrante e nevrotizzante lavoro live. La tensione accumulata esplose la sera dell’ultima esibizione live: il 6 luglio 1977 a Montreal. Durante quella disperata serata del tour di ANIMALS: Roger Waters sputa in pieno viso a uno spettatore”. Ero così provato e angosciato, durante lo show, che sputai addosso a uno spettatore che urlava e si divertiva un mondo a spintonare le transenne… Voleva fare casino, e quello che volevo io, invece, era poter fare uno spettacolo di rock’n’roll… Mi arrabbiai così tanto che, alla fine, gli sputai addosso… Mirai molto bene, perché lo centrai in piena faccia. Questo incidente mi spaventò…”30. David Gilmour: “Ricordo che non fu molto divertente come show. La costruzione di quel grande stadio era appena stata ultimata. C’era solo una gru che avevano dimenticato di smontare. Ero così disamorato che scesi dal palco e andai a sedermi, non visto, al banco di missaggio durante il bis – senza conseguenze per l’umore di Roger. Penso che fosse davvero disgustato con se stesso, a tal punto da lasciarsi andare a uno sputo a uno spettatore”. Roger Waters: “Non sono sicuro di averlo colpito”. Nick Mason: “Beh, Roger non è propriamente conosciuto come uomo di pace e amore, ma eravamo comprensivi, anche se nessuno di noi aveva sentimenti passionali come i suoi. Fatto sta che gli spettacoli negli stadi sono molto strani. Quando suoniamo, guardiamo il pubblico, così come il pubblico guarda noi. L’unica cosa che vediamo sono le prime file e… non dico che sono tutti solo facce, ma si dovrebbe riuscire a distinguere, soprattutto nei cosiddetti (eufemisticamente) concerti con posti a almeno quei pazzi delle prime file, quelli che aspettano che le porte dello stadio siano aperte ore prima del concerto, che fanno corse e si afferrano per i capelli pur di essere tra i primi, i più vicini a noi. Sono quelli che di solito si

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piazzano di fronte al chitarrista, che conoscono e gridano tutti i testi o quelli più deboli che, dopo ore e ore di attesa e ‘combattimenti’, crollano proprio quando la band sale sul palco”. Bob Ezrin: “Roger mi invitò per il fine settimana – aveva una bella casa in campagna con uno studio appositamente in ombra. Fu durante uno di quei fine settimana d’autunno meravigliosamente grigi e tristi, tipicamente inglesi, che è stato ideato THE WALL. Mi accomodai in una stanza e mi fece ascoltare un nastro di brani senza pause, quasi fosse una sola canzone lunga 90 minuti, intitolata The Wall, poi dei brani e ritornelli di altre idee che voleva incorporare nell’album in qualche modo, cosa che non avvenne mai. […] La campagna inglese, sotto il peso dell’umidità e delle nuvole, era lo scenario perfetto per quella musica, tanto che ne rimasi impressionato. Il nastro era incompleto; ma pur non essendo affatto un lavoro finito, catturava l’atmosfera, ed ebbi subito la sensazione che sarebbe diventato un lavoro importante e che sarebbe servita una gran mole di lavoro per renderlo strutturato, coeso”31. Roger Waters: “Capivo che il processo di lavorazione sarebbe stato lungo e complesso, e avevo bisogno di un collaboratore con cui confrontarmi, ma non c’era nessuno nella band con cui sostenere questo confronto: Dave non era affatto interessato, Rick a quel tempo aveva quasi smesso, Nick sarebbe stato felice di ascoltarlo perché a quei tempi eravamo abbastanza vicini, ma era ancora più preso dalle sue auto da corsa. Avevo bisogno di qualcuno come Ezrin che mi fosse musicalmente e intellettualmente vicino”. Nick Mason: “Cercammo di capire se si potesse migliorare il nostro metodo di lavoro, e pensammo tutti che avere un’influenza esterna potesse essere assai utile. Roger aveva incontrato Bob Ezrin e sembrò una buona idea avere questo ingegnere giovane e appassionato, James Guthrie, che lo integrasse”. James Guthrie: “Mi telefonò il loro manager, Steve O’Rourke, che mi convocò nel suo ufficio. Mi consideravo un giovane produttore appassionato! Mi spiegò che la band cercava nuova linfa e che avevano ascoltato il mio lavoro – in particolare con The Movies e i Runner – e mi fece incontrare Roger per vedere se ci fosse chimica tra noi. Fondamentalmente, non mi fu detto niente di Bob (Ezrin) e a lui non fu detto nulla di me. Credo che quando arrivammo avessimo avuto entrambi l’impressione di essere stati ingaggiati per fare lo stesso lavoro”.

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Bob Ezrin: “All’inizio, quando cominciai, ci fu una terribile confusione su chi stesse lavorando al disco. Eravamo tutte persone molto dotate, molto specializzate nel nostro approccio alle cose, molto ostinate e creativamente all’altezza delle nostre carriere, perciò ci furono molti momenti impetuosi Penso che a quel punto Roger volesse che il progetto fosse attribuito a lui, ma quando un membro di una band si dichiara superiore agli altri può rendere difficile il lavoro di gruppo e penso che lui fosse sensibile a questo, almeno nella misura in cui Roger può esserlo. Così mi coinvolse, penso, come un alleato che lo aiutasse a organizzare il lavoro da farsi. La percezione che avevo dei miei compiti era di dover fungere da fautore del lavoro stesso, che significava molto spesso essere in contrasto con Roger e con quelli che erano dalla sua, nonché fare da catalizzatore per loro al fine di superare ogni contrasto che potesse venirsi a creare”. David Gilmour: “La realizzazione di THE WALL è avvenuta in tre fasi: la prima ai Britannia Row Studios a Londra, con l’esame del materiale, eseguendo nuove idee e provando il tutto; poi in Francia, dove realizzammo il grosso del lavoro; infine a Los Angeles, dove terminammo l’album e lo missammo. In Francia, in particolare, lavorammo molto bene e duramente. È sorprendente quante cose facemmo in un tempo breve”. Nick Mason: “Si procedeva a gran velocità e con molta concentrazione. Eravamo impegnati contemporaneamente in due studi in Francia”. David Gilmour: “Il Superbear, lo studio nel quale eravamo più impegnati, era situato in alta montagna, ed era famoso per le difficoltà che questo comportava ai cantanti. Roger aveva molte difficoltà a mantenere l’intonazione nel canto. Perciò trovammo un altro studio, il Miravel, dove Roger andò con Bob a eseguire le parti vocali”. Bob Ezrin: “Avevamo dato un termine al nostro lavoro, dopo il quale c’era una vacanza – avevamo molte vacanze! Io ne feci ancora, e credo che tutto il lavoro in studio in realtà venne completato nell’arco di quattro o cinque mesi, ma l’intero processo coprì un anno, perché lavoravamo poche ore e facevamo molte vacanze. (I Floyd) erano tipi tutti lavoro e famiglia e volevano lavorare dalle dieci alle sei di pomeriggio – o meglio, Roger decise che dovevamo lavorare dalle dieci alle sei. Lavoravamo in orari da signori, vestivamo da signori, mangiavamo da signori, prendevamo anche tè e pasticcini ogni giorno all’ora canonica. Era tutto molto borghese. E considerato che stavamo realizzando una cosa abbastanza controculturale, questa situazione suscitava in noi uno strano sentimento, schizoide e surreale. In

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Francia questa sensazione era ancora più accentuata. Alcuni di noi erano alloggiati a Nizza, alcuni avevano affittato interi paesi, alcuni vivevano nello studio stesso, il tutto era molto frammentato, ma poi ci ritrovavamo in studio e creavamo cose sorprendenti che venivano fuori dalle cose più banali: alcuni effetti sonori di batteria furono creati con che tegami per l’arrosto sul pavimento. Arrivai con molte idee del tutto nuove per il team di lavoro inglese. Fummo i primi a utilizzare la macchina multipla per registrare, cosa che oggi è una procedura operativa standard. Incidevamo le tracce base su un registratore a 16 piste, le trascrivevamo in una versione a basso missaggio su un registratore a 24 piste, prendevamo tutte le parti di batteria e le collocavamo in poche tracce del 24 piste, poi aggiungevamo tutte le sovraincisioni: gli strumenti, gli effetti sonori, le voci. Il progetto prevedeva che alla fine il 16 e il 24 piste fossero in sincronia per poter girare contemporaneamente, così che sul 16 il suono degli strumenti risultasse assolutamente magnifico. Questo perché i nastri erano stati immagazzinati, non erano stati utilizzati e non si erano logorati dopo tanto tempo dalle prime incisioni. Poi aggiungemmo le sovraincisioni e ottenemmo il meraviglioso suono che è dell’album. Affascinava tutti coloro ai quali lo facevo sentire. Ai Floyd va dato atto che condivisero questo mio modus operandi, ma via via che ci avvicinavamo alla consegna diventavano più nervosi. Guthrie lo era in particolare. Ricordo che stavamo facendo una canzone e fu necessario cancellare le parti di batteria registrate nel 24 piste, quindi, se la sincronizzazione dei due nastri non fosse riuscita, sarebbero scomparse per sempre! James sbiancò quando gli feci pigiare il tasto di cancellazione: fu come chiedergli di sparare a un bambino. Andò bene, e dopo lo scampato pericolo occhiate e sorrisi di sollievo si disegnarono sui visi di tanti di loro. Questo metodo ha richiesto una grande mole di lavoro, ma è per questo che l’album ha quella sua unica presenza incredibile, come pure la sua caratteristica densità di suono”. L’atmosfera nei vari studi andava da ‘tesa’ a ‘guerra totale’. Toccò il culmine con il fuoco su Wright. Bob Ezrin: “C’era molta tensione tra i membri del gruppo, perfino tra le loro mogli. Ci fu un periodo in Francia di grande ostilità, quella ostilità a denti stretti tipicamente inglese”. Nick Mason: “Probabilmente Bob la vede come una guerra perché era sotto tensione. Stava attraversando quella che può essere descritta come una fase incerta della sua vita. Risiedeva a Nizza e noi eravamo con lo studio sulle colline, quindi doveva guidare fino a casa quando finivamo di

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lavorare. Credo che vivesse un momento di crisi. Si stupiva che ci scompisciassimo dalle risate quando lo vedevamo arrivare tardi e trafelato il giorno dopo…”. Bob Ezrin: “Roger e io vivemmo un momento particolarmente difficile. In quel periodo ebbi un lieve esaurimento e la tensione mi si leggeva davvero sul volto, perciò trovavo qualsiasi scusa per arrivare tardi al lavoro al mattino. Preferivo non esserci quando c’era Roger”. Roger Waters: “Sicuramente c’era tensione, ma il mio sentimento quando mi alzavo al mattino e attraversavo in auto la Francia per andare a lavorare era buono, positivo, ansioso di raggiungere lo studio. Cominciammo ad avere problemi con Rick – c’era ma era come se non ci fosse”. David Gilmour: “La maggior parte delle discussioni nasceva da questioni creative. Non era una guerra totale, sebbene ci fossero cattivi auspici – certamente verso Rick, perché non dava l’impressione di prendere le sue parti”. Rick Wright: “Volevo lavorare, ma Roger me lo rendeva molto difficile. Penso che avesse già deciso di liberarsi di me”. Bob Ezrin: “Vedevo questa situazione crescere e ci stavo piuttosto male. Capivo che c’era molta pressione su Rick e che era praticamente impossibile per lui rispondere alle aspettative. Era come se fosse sull’orlo di una crisi di nervi. Date le circostanze, non vedo come si potesse sopravvivere”. Roger Waters: “Perché licenziai Rick? Perché non era presente nella cooperazione della realizzazione dell’album. In verità successe che THE WALL fu il primo album in cui non condividemmo – tutti noi della band – i crediti della produzione del disco. All’inizio del lavoro, quando annunciai agli altri che volevo coinvolgere Bob Ezrin, che ovviamente avrebbe avuto un compenso, dissi: ‘Produrrò l’album con lui e anche con Dave, e per questo anche noi riceveremo un compenso; invece tu, Nick, di fatto non te ne stai occupando, e così anche tu, Rick. Perciò voi due non riceverete compensi’. Nick accettò di buon grado la cosa, invece Rick disse: ‘No! Partecipo alla produzione dei dischi nello stesso modo in cui lo fai tu!’. Così fummo d’accordo a iniziare a lavorare al disco per riparlarne in seguito. Ma chi avrebbe fatto da arbitro? Tutti fummo d’accordo nello scegliere Bob. Dunque Rick si sedeva nello studio – arrivava in perfetto orario, cosa piuttosto insolita, e rimaneva fino alla fine ogni sera. Un giorno Ezrin, che era leggermente infastidito da questa presenza che di tanto in tanto se ne usciva con un ‘Questo non mi piace’, mi chiese: ‘Per-

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ché Rick è ancora qui?’. Gli risposi: ‘Non l’hai capito? Sta prendendo tempo per dimostrarci che è capace di fare dischi. Parlagliene’. Gliene parlò. Dopo di che Rick non si presentò più a nessuna session, tranne quando gli veniva chiesto espressamente di eseguire parti di tastiera. Ma diventò incapace di suonare qualsiasi brano. Era un incubo. Penso che quello fu l’inizio della fine. Ma alla fine della fine, ci mettemmo d’accordo per consegnare l’album all’inizio di ottobre e ad agosto ce ne andammo in vacanza. Intanto io presi carta – anche musicale – e penna e scrissi tutte le canzoni e tutto ciò che serviva per pianificare il prosieguo del lavoro; a quel punto mi fu chiaro che non avremmo potuto terminare entro i tempi previsti. Così chiamai Ezrin: ‘Vuoi prepararti per cominciare una settimana prima le sezioni di tastiera con Rick a Los Angeles?’. Mi rispose: ‘Va bene, grazie, amico’. Si sentiva sollevato di andare via e di stare con Rick. Gli dissi: ‘Puoi anche rivolgerti a un altro tastierista, se Rick non dovesse riuscire a eseguire quello che c’è da suonare, e se concludi le sezioni di sovraincisioni di tastiera prima che torniamo noi, ce la possiamo quasi fare a rispettare i tempi prestabiliti’. Un paio di giorni più tardi mi telefonò O’Rourke. Gli dissi: ‘Hai parlato con Rick?’ – ‘Si, ti ha mandato affanculo!’. Questo fu tutto. Io stavo facendo praticamente da solo tutto quel lavoro, mentre Rick non faceva nulla da mesi e alla fine ebbi pure in risposta un ‘vaffanculo’!… allora dissi a Dave e Nick: ‘Non posso lavorare con questo tipo: è impossibile!’, e loro furono d’accordo. In ogni modo, fu una decisione di tutti. Suggerii quindi a O’Rourke di dire a Rick: ‘O cominci una lunga battaglia o accetti questo: e il ‘questo’ consisteva nel finire l’album, incassare per intero la sua quota del disco, ma poi abbandonare pacificamente. Rick fu d’accordo per questa soluzione. Perciò, la fama del grande cattivo Roger che improvvisamente si libera di Rick è semplicemente una sciocchezza”. David Gilmour: (sospira) “Non ero d’accordo. Andai fuori a cena con Rick dopo che Roger gli aveva detto queste cose e dopo che, invece, aveva chiesto a me di appoggiarlo qualora Rick avesse deciso di rimanere nella band. Dissi a Rick che non aveva apportato nessun contributo significativo all’album e che anche io non ero contento di lui – aveva in effetti fatto molto molto poco; una enorme quantità di tastiere era stata suonata da me, Roger, Bob Ezrin, Michael Kamen e Freddie Mandell – ma il suo ruolo nel gruppo per me era sacrosanto. La mia posizione, allora come oggi, è che se a qualcuno non piacciono come vanno le cose, è libero di sceglie-

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re di andare via. Non consideravo la possibilità che qualcuno potesse liberamente buttar via qualcun altro”. Roger Waters: “Ebbi un incontro con Dave nel giardino della mia abitazione nel Sud della Francia. Lui mi disse: ‘Liberiamoci anche di Nick’. Scommetto però che non lo ricorda: sarebbe sconveniente… Risposi: ‘Oh, Dave! Nick è mio amico: lasciamo stare!” Nick Mason: “In verità penso di essere andato davvero molto vicino a uscire dal gruppo. E dopo avrebbe potuto farlo Dave. È curioso quando ne parliamo adesso. Penso che Roger accarezzasse molto questa idea e che volesse il controllo totale. Roger e io siamo amici da quando eravamo studenti, ancor prima che la band nascesse, perciò suppongo che la mia posizione fosse molto più forte di quella di Rick. In effetti, credo ci sia sempre stata una sorta di divisione spirituale e caratteriale all’interno della band: Roger e io eravamo visti come quelli cui piacevano gli effetti speciali, lo show, la tecnologia, la musica in un certo senso più libera da forme convenzionali, mentre Dave e Rick erano invece i due del gruppo che avevano assunto una posizione più propriamente musicale. D’accordo: è una generalizzazione eccessiva, ma la band fu concepita così fin dal suo inizio, tanto da esser vista come una grande produzione teatrale, e penso che da lì sia partito il conflitto – anche perché Rick non è assolutamente una persona con la quale si potrebbe entrare in conflitto: è estremamente mite. Lui era però il peggior nemico di Roger… d’accordo, avrebbe potuto dare forse un po’ di più e probabilmente così avrebbe disinnescato la situazione, ma penso che Roger si sia mosso brillantemente. In confronto a Roger (ride), Stalin sembra un vecchio incapace. Allora tutti noi non avevamo grandi speranze di cambiare la situazione o poter fare qualcosa. Roger fece intendere abbastanza chiaramente che se Rick fosse rimasto, lui e l’album non sarebbero rimasti. Penso che la minaccia che pendeva sulle nostre teste in termini finanziari – non semplici perdite, ma un vero e proprio fallimento – fosse abbastanza allarmante. Eravamo davvero molto sotto pressione. Mi sentii colpevole. Ancora oggi mi sento in colpa. Con il senno di poi, mi piace pensare che ci si sarebbe potuti comportare meglio e che le cose si sarebbero potute fare diversamente. Ma probabilmente avremmo comunque agito tutti nello stesso modo…” Rick Wright: “Sarebbe stato piuttosto facile dire: ‘Andò via perché aveva un problema di cocaina o perché beveva’. Posso dire però che non fu affatto un problema di droga. In passato sicuramente ne avevamo presa

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tutti: Roger, io, Dave, Nick, Bob Ezrin, ma solo in occasioni sociali; nello studio non ne circolava affatto”. Roger Waters: “C’era ‘qualcuno’ che si faceva molto – alcuni di noi avevano grandi, grandi problemi. Di sicuro, io non mi facevo di droga, allora”. Rick Wright: “Se ci penso, fin dall’inizio, io e Roger non siamo mai stati i migliori amici, ma non eravamo nemmeno nemici, almeno finché lui non si chiuse nel suo ego. Una volta che ebbe deciso di avere il controllo su tutto, il suo primo passo fu: ‘Mi libererò di Rick, che comunque non mi è mai piaciuto!’. Era parte del suo megalomane piano per diventare il leader assoluto, il produttore, il compositore e avere gente che suonasse per lui. Penso che il passo successivo, nonostante la loro amicizia, fosse quello di era liberarsi di Nick – almeno è quello che ho sentito dire – mentre Dave gli avrebbe fatto da chitarrista, oltre a essere il suo session man. Si potrebbe pensare che siano tutte sciocchezze, ma temo che queste cose le pensasse davvero. Credo che lui sostenga che io avevo perso interesse nei confronti della band perché talvolta, all’epoca di ANIMALS, mi sedevo con il nostro manager e dicevo: ‘Devo lasciare il gruppo, non riesco a seguire Roger’, ma non lo dicevo seriamente, sebbene non fossi affatto felice. Allora stavo per divorziare, tuttavia non ero così funereo come durante la lavorazione di THE WALL. Non avevo materiale pronto, e Roger riteneva che non fossi in grado di assicurare il mio apporto artistico a causa della mia situazione, ma in realtà era lui che non mi consentiva di creare con serenità – non mi consentiva di creare affatto. Al termine delle registrazioni in Francia ci concedemmo una pausa. Andai in Grecia per vedere la mia famiglia. Lì ricevetti una telefonata da Steve O’Rourke, che mi disse: ‘Vieni immediatamente a Los Angeles, Roger vuole che cominci a registrare le tracce di tastiera’. Risposi: ‘Non vedo i miei bambini da mesi e mesi, verrò alla data stabilita’. Lui mi rispose: ‘Hai ragione, capisco…’. Così andai a Los Angeles secondo i programmi e lì Steve mi disse: ‘Roger vuole che tu esca dalla band’”. Nick Mason: “Rick prese atto della situazione e lasciò tutto. Penso che una parte di sé abbia pensato: ‘Beh… ho avuto comunque abbastanza anche se lascio adesso…’”. Rick Wright: “Lottai per il mio posto. Dave e Nick dicevano: ‘Non è giusto, pensiamo che tu non debba assecondare Roger e lasciare tutto’. Quando ci riunimmo, Roger mi disse: ‘Guarda, o te ne vai, oppure non inserisco il materiale che hai suonato per me in THE WALL. Forse era solo un

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bluff, ma è proprio quanto mi disse. Ricordo che eravamo in situazione finanziaria davvero disastrata. Aggiunse: ‘Riceverai tutte le tue royalties per l’album, ma devi andartene ora; ci rivolgeremo a un altro tastierista per terminare il disco’. Passai giorni terribili e molte notti insonni pensando a tutto quello che mi disse. Avrei anche potuto rilanciare sul suo bluff, dicendo: ‘Ok, fai l’album come solista’, ma probabilmente Roger mi avrebbe poi risposto: ‘Va bene, allora butto via tutto questo materiale’ che di fatto era suo, quindi aveva il diritto di farlo. Riflettei molto e decisi che non potevo più lavorare accanto a lui, qualunque cosa avesse detto o fatto. Ero terrorizzato dalla situazione finanziaria e capivo che di fatto l’intera band stava andando a rotoli. Non sapevo – e mai lo saprò – cosa sarebbe successo se mi fossi rifiutato di andare via. Così presi la decisione, giusta o sbagliata che fosse, di lasciare. Ma avrei comunque terminato le registrazioni per l’album e avrei partecipato ai concerti, per poi dire addio. La cosa che mi incuriosisce di tutto questo è capire esattamente cosa accadde in quel momento: visto che Roger pensava che non fossi in grado di suonare, perché mi ha risposto: ‘Va bene, è magnifico, puoi finire le registrazioni e partecipare ai concerti!’? È tutto molto strano e bizzarro. Inoltre capivo poco della reale situazione, perché mi trovavo in una fase della mia vita in cui ero davvero molto confuso”. James Guthrie: “Rick eseguì alcune grandi parti su quell’album, che la gente se ne ricordi o meno – delle parti di Hammond fantastiche”. Rick Wright: “Il mio terapeuta è convito che io sia ancora molto arrabbiato per tutta questa faccenda, e in un certo senso lo sono davvero. Penso che sia stata faccenda sporca. I Pink Floyd sono la mia band esattamente come lo sono di Roger. Ma il fatto che Dave e Nick abbiano litigato con Roger subito dopo (fecero THE FINAL CUT, ma da quello che so e posso capire fu un affare ridicolo: ebbero dei veri e propri scontri in studio, tanto che Dave rifiutò di mettere il suo nome nei credit) in un certo senso confermava le mie ragioni e le motivazioni che mi avevano costretto a lasciare la band. Comunque ancora oggi non mi piace il modo in cui questo avvenne. Dopo 18 anni sono ancora convinto che fosse sbagliato. Spero che un giorno possa sedermi a tavolino con Roger e lui possa serenamente ammettere che fu ingiusto. Roger Waters: “No, fu esattamente la cosa giusta da fare”. James Guthrie: “A differenza della gran parte delle band, che devono rispondere alla casa discografica, per i Pink Floyd le cose andavano così:

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‘Stiamo per fare un album, lo ascolterete quando sarà finito’. Il playback ufficiale arrivò alla CBS Records a Century City. Nel giro di un paio di ore arrivai con un nastro di un quarto di pollice per preparare il sound system nel loro salone delle conferenze. Quando arrivò la parte in cui c’è l’effetto sonoro degli stukas che cadono, ci fu una tale vibrazione che causò un forte soffio nell’altoparlante di destra. Cercammo allora nell’intero edificio un ufficio che fosse abbastanza grande e avesse un sound system almeno decente. Alla fine trovammo una sala che ci sembrò adatta, vi portammo tutta l’attrezzatura, ci gettammo dentro una gran quantità di cuscini, spegnemmo le luci e facemmo partire l’album”32. L’album fu completato a Los Angeles e la copertina fu disegnata da Gerald Scarfe e Roger Waters. Le note di copertina sull’edizione originale accreditarono tre produttori, un coproduttore, quattro ingegneri, tre compositori, due arrangiatori d’orchestra, sei coristi, un curatore dell’attrezzatura tecnica e la Islington Green School. I nomi Rick Wright e Nick Mason non si leggono da nessuna parte. Bob Ezrin: “Missammo sommariamente il tutto in Francia. Lo mettemmo in sequenza, avevamo un modellino del palco in scala con omini di gomma e pupazzi gonfiabili finti. Suonammo il disco mentre si svolgeva contemporaneamente lo show in miniatura. Quando la band ascoltò e vide THE WALL in questa versione, godette di un’esperienza audiovisiva completa. Dal soggetto originale non stavamo traendo solo un album, ora stavamo costruendo anche uno show. Per me e Roger la giornata cominciava alle 8,30 di mattina; a casa di Gerald Scarfe guardavamo i filmati delle animazioni, poi parlavamo con Mark Fisher, straordinario designer e architetto di palchi. Trascorremmo molto tempo a pesare i mattoni per assicurarci che, se ne fosse caduto qualcuno, non facesse del male a nessuno. A quel punto pensammo addirittura di progettare un luogo appositamente studiato per i nostri spettacoli che potesse essere portato in giro – una sorta di tenda dalla surreale forma di verme”. Nick Mason: “I tamburi erano circondati da una gabbia corazzata, per cui non subivano danni quando il muro crollava. Ero in un ambiente curioso, piuttosto bello. Era come trovarsi in studio, tranne la possibilità di interagire con gli altri musicisti, ma era strano, perché non c’era molta spontaneità. Non però non siamo noti per i nostri passi di danza e per plateali movimenti sul palco!”33.

“pink floyd the wall”: il film ____________________________

Diretto con grande maestria tecnica da Alan Parker da una sceneggiatura originale di Roger Waters, Pink Floyd The Wall (Gran Bretagna, 1982) rappresenta il massimo connubio tra la più completa, articolata e originale opera concettuale rock dei Pink Floyd e il mezzo cinematografico, nonché il più geniale e significativo parto della creatività di Waters. Concepito originariamente come un album, uno show (che sarebbe stato il più ambizioso dell’intera storia live del rock), e un film, Pink Floyd The Wall è a tutt’oggi considerato un “cult movie”, un grande e suggestivo capolavoro dall’impressionante impatto emotivo, un vero e proprio incubo allucinato a occhi aperti, un delirante shock visivo, che si aggiunge alla lista di grandi film musicali quali Quadrophenia (1979) e Tommy (1975), diretti rispettivamente da Franc Roddam e Ken Russell. Ma in Pink Floyd The Wall la fedeltà al disco originale è totale, tanto che il film può essere pensato come naturale estensione della storia narrata attraverso i ventisei brani dell’opera musicale. Alan Parker ha dichiarato esplicitamente di aver voluto creare una vera e propria “frammentazione visiva” che si sposasse con i brani fondendosi in un tutto unitario che alla fine del film, con le immagini della rottura del Muro e la suggestiva e positivista inquadratura che termina in un fermoimmagine di un bimbo che rovescia una molotov, conclude il film. Il regista voleva infatti una progressione narrativa che non si basasse su convenzionali dialoghi (seppur vagamente presenti, ma solo in piccolissima parte), sfruttando al massimo la forza motrice della musica. Il paragone con 2001: Odissea nello spazio del grande maestro inglese Stanley Kubrick è palese. Anche nel film di Kubrick infatti a farla da regina sono le pure e semplici immagini, con la loro forza espressiva, e il montaggio analogico

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e spesso assiomatico. Anche nel capolavoro di Kubrick i dialoghi sono poco presenti, e quando i personaggi parlano, si scambiano per lo più banali battute. Come un altro grande maestro del cinema, Alfred Hitchock, che dichiarò, a proposito di Psycho (Usa, 1960) che ad aver emozionato il pubblico non era stata la storia, non i personaggi, bensì il puro film. Questo è cinema, appunto: raccontare per immagini e solo immagini. A fare da guida durante il procedere della narrazione è quindi esclusivamente la colonna sonora, e la comprensione dei testi dlele canzoni è fondamentale per la chiarificazione della vicenda e lo sviluppo della storia. Il film richiede un necessario approfondimento da parte dello spettatore. Il Muro in questione è quello che ognuno può erigere per isolarsi dal mondo, isolarsi dall’altro e rimanere vittima dell’incomunicabilità tra singolo e singolo. La chiusura in se stessi, essendo fuga dal mondo, non può far altro che rafforzare la spinta a rintanarsi nel passato, come succede appunto al protagonista del film, che, isolato nella sua stanza d’albergo, si ritrova a rivivere i suoi traumi esistenziali. Ma il Muro, allargando il discorso, è anche quello che può essere eretto dall’uomo contemporaneo a difesa della propria più riposta sensibilità, contro le pressioni esterne di una realtà opprimente e destabilizzante. Arricchito dalle visionarie e apocalittiche animazioni ideate e dirette da Gerald Scarfe, i cui filmati erano già da anni utilizzati dai Floyd (basti citare Welcome To The Machine), il film è interpretato da Bob Geldof, all’epoca cantante dei Boomtown Rats, nel ruolo di Pink, rockstar di successo che alla vigilia di un importante tour in America cade preda delle proprie ossessioni e dei propri demoni personali e si barrica in albergo, vittima delle sue stesse soffernze e dei suoi stessi deliri. Il film è ricco di metafore e simboli. La metafora principale del Muro era nata nella mente di Waters durante il precedente tour della band. Il tour di ANIMALS (1977), infatti, fu particolarmente logorante e stressante per il gruppo, che per la prima volta si esibì negli stadi, in una snervante maratona che li condusse in nove paesi in Europa e in America. Il tour si chiamava Pink Floyd In the Flesh, titolo che Waters avrebbe poi riutilizzato come titolo del primo brano del disco successivo, come metafora della crudeltà e dell’alienazione che accompagnavano i concerti rock, sia per i musicisti che per gli stessi spettatori. “La situazione divenne sempre più opprimente”, ricorda Waters. “Quegli stadi, ovviamente, non erano stati costruiti per la musica, ma per eventi sportivi, e non è quindi strano

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che ispirassero uno spirito di guerra, perché lo sport è un rituale di guerra. Quello che mi passava per la testa – e per il corpo intero – era un enorme senso di frustrazione, un pensiero come: ‘Cosa ci stiamo facendo qui?’ E la risposta che mi frullava in testa era inevitabilmente sempre la stessa: soldi ed egoismo. Questo è tutto”34. Anche David Gilmour, non ancora abituato alle platee oceaniche che poi sarebbero state la norma negli anni in cui avrebbe avuto la leadership sul gruppo, ricorda: “A Roger non è mai piaciuto moltissimo viaggiare, era sempre piuttosto teso e irritabile. Gli affari economici gli provocavano disgusto in molte forme, come a tutti noi, del resto. Il grande cambiamento avvenne con l’enorme successo di THE DARK SIDE OF THE MOON. Al pubblico piaceva ‘interagire’ con noi, gridando molto. Prima, anche se suonavamo in grandi arene da 10.000 posti, si riusciva a sentire anche uno spillo che cadeva. Perciò il cambiamento fu uno shock, mi ci vollero quattro anni per accettare l’idea che dovesse andare così”35. Era una messa in scena ancora una volta grandiosa, con enormi manichini gonfiabili, tra cui il maiale dagli occhi luminosi (che sarebbe poi diventato un punto fermo dell’armamentario live dei Floyd di Gilmour). Ma proprio questa grandiosità e ambiziosa magniloquenza si rivelò una pericolosa arma a doppio taglio: esigeva una rigorosissima attenzione ai dettagli, nonostante la quale qualcosa andava inevitabilmente storto. Bisognava considerare moltissimi fattori per una perfetta riuscita dello show e i musicisti erano sottoposti a grande pressione, data la meticolosità del lavoro. Inoltre, il gruppo era sempre più estraniato dal suo pubblico, perché i quattro, per sincronizzarsi con i filmati, erano costretti ad ascoltare la musica attraverso gli auricolari. La tensione e il nervosismo crescevano. In particolare, Waters cominciava a sentirsi frustrato per il fatto che la sua musica fosse diventata un mero prodotto da stadio, fruita da un pubblico che non aveva intenzione di recepire il vero messaggio che si sforzava di trasmettere dal palco: la maggior parte degli spettatori era lì “solo per la birra”, ed era molto difficile suonare quella musica in un contesto in cui la gente fischiava, strepitava, si picchiava e rompeva tutto. Ma allo stesso tempo, e probabilmente da qui nasce il frustrante senso di colpa del sensibilissimo artista, Waters sentiva che tutta questa delirante e violenta situazione era stata creata da loro, dalla loro stessa avidità. In pratica, il pubblico assumeva ai suoi occhi sempre più le fattezze di un’unica, mostruosa, compatta e informe massa scalmanata.

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L’incidente dello sputo in faccia al giovane spettatore del 6 luglio 1977 spaventò molto la scontrosa rockstar e la portò a riflettere in cosa il rockbusiness lo avesse trasformato. Per Waters era infatti estremamente doloroso constatare che il frutto della sua arte, la messa a nudo dei suoi sentimenti più intimi, si era trasformata in rituale insensato. Percepiva infatti un’enorme barriera tra il pubblico e quello che lui voleva dare loro, una barriera sulla quale era diventato impossibile arrampicarsi. “THE WALL è nato nel 1977 e all’inizio era semplicemente l’espressione del mio profondo disagio per l’incomunicabilità tra noi rockstar e il nostro pubblico. Musica e sentimenti erano stati spazzati via, ed erano rimasti solo denaro e potere; ormai il rock non esprimeva altro che la necessità sociale di una cerimonia tribale. Così era nata l’idea di costruire un muro davanti al palcoscenico sul quale suonavamo… All’inizio avevamo pensato che il completamento del muro, divenuto così alto da non poter più consentire al pubblico di vederci, avrebbe segnato il culmine e la conclusione dello show. Ma quell’idea ci sembrò troppo radicale, e abbiamo cominciato a pensarci in termini di spettacolarità”36. Alla fine del lungo tour del 1977, Waters giurò a se stesso che i Pink Floyd, il suo gruppo, non avrebbero mai più suonato la sua musica negli stadi per una folla che a volte raggiungeva addirittura le novantamila persone. Quando la band tornò a esibirsi, lo fece con un vero e proprio muro a separarla fisicamente dal pubblico, metafora estrema della solitudine psicologica in cui l’arte e la musica di Waters avevano rinchiuso il suo stesso autore. L’idea del muro ispirò quella conseguente che ogni mattone poteva essere un differente spezzone di vita: spunto dal quale si sviluppò tutta un’opera autobiografica. Molti degli elementi descritti, dei mattoni del Muro sono infatti stati realmente vissuti dall’autore. Nell’insieme, tuttavia, il suo vissuto pesa in percentuale minoritaria, rispetto ad altri elementi del concept di altra provenienza biografica, e a quelli che hanno funzione puramente allegorica. David Gilmour ricorda: “Subito dopo aver finito un progetto, non facevamo mai dei piani sul lavoro successivo, ci prendevamo sempre un po’ di tempo. Fui convinto da un paio di vecchi amici, con i quali ero stato in una band prima dei Pink Floyd, a fare un album improvvisato, per divertirci un po’. Anche Rick stava facendo un album. Quando ci ritrovammo in uno studio di Londra, Roger aveva intenzione di realizzare uno dei due progetti sui quali aveva lavorato nel suo studio casalingo. Si presentò con due idee già ben sviluppate e in buona parte in

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forma di demos: una era THE WALL e l’altra quello che sarebbe diventato il suo primo album come solista. Aveva un suono molto bello, ma per quanto ricordo era troppo monotono. Decidemmo che THE WALL sarebbe stato il progetto sul quale avremmo iniziato a lavorare quando ci fossimo ritrovati a settembre”37. Buona parte degli episodi proviene da fatti realmente accaduti, ispirati a Syd Barrett, mentre altri citano avvenimenti che hanno visto protagonisti personaggi vicini allo staff dei Floyd. Varie sono le vicende che provengono dalla vita intima di Waters. Il film si può dividere in due parti, la prima delle quali espressamente autobiografica, separate dalla sequenza-shock in cui Pink si rade le sopracciglia. Fino a Goodbye Cruel World (ultima

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traccia del primo disco), il film può essere infatti letto come un lungo flashback che descrive i traumi vissuti dal giovane, dall’infanzia fino ai giorni dell’ultima tournée americana. Nello spettacolo dal vivo, a questo punto della narrazione corrispondeva il momento in cui il muro era completato e nascondeva del tutto il gruppo agli occhi del pubblico. Gli episodi cui assistiamo, nella logica della narrazione, sono i “mattoni” che isolano sempre più Pink dal mondo che lo circonda. Ogni volta che gli accade qualcosa di negativo, la rockstar si isola un po’ di più, aggiungendo simbolicamente un altro mattone al muro per proteggersi da un ambiente a lui ostile. In questa prima parte, inoltre, l’autorità in tutte le sue forme (stato, famiglia, scuola, religione) trionfa indiscussa. Waters ha affermato38 che per sua madre erano molto importanti l’istruzione e l’educazione: per lei, ogni avvenimento della vita era una lezione da imparare per “correggere” la propria direzione. Il giovane Waters capì a un certo punto che la vita non funziona così: ha le sue fasi, e in ogni momento si possono prendere in mano le redini del proprio destino per cambiarla. La prima inquadratura del film, dal sapore kubrickiano (luci cupe e volutamente oppressive, lento carrello in avanti, punto di vista basso), ci mostra un corridoio illuminato. In sottofondo, musica anni quaranta che rimanda ad analoghe sequenze di Shining (Usa, 1980), uno tra i film horror più riusciti della storia del cinema di genere. Il brano in questione è The Little Boy That Santa Claus Forgot, cantato da Vera Lynn. Soprannominata la “fidanzata delle Forze Armate”, Lynn fu una cantante divenuta molto famosa durante la Seconda guerra mondiale grazie a canzonette il cui scopo era quello di arrecare conforto al morale di uomini che probabilmente non avrebbero fatto mai più ritorno a casa. In fondo al lussuoso corridoio vediamo una donna intenta alle pulizie avvicinarsi all’ultima stanza. Dopo i titoli di testa disegnati dall’espressiva grafica dei caratteri di Gerald Scarfe, un uomo accende una lampada a olio. In sottofondo c’è il suono drammatico e catastrofico dei bombardamenti. L’uomo ha un’espressione intensa, sofferta. Accende pensoso una sigaretta da cui aspira avidamente. Si sente chiarissimo il suono di una bomba che esplode, sovrapponendosi al primo brano della colonna sonora, When The Tigers Broke Free. L’episodio è autobiografico: l’attore James Laurenson interpreta il padre di Waters, Eric Fletcher Waters (1914-1944), morto a causa di una bomba lanciata da uno Stuka tedesco durante un bombardamento ad Anzio, quando Waters aveva appena due anni.

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La tematica dell’assenza della figura paterna è particolarmente cara al musicista, che l’aveva affrontata già nel 1967 in Corporal Clegg, un brano di A SAUCERFUL OF SECRETS, per approfondirla poi nel 1972 con Free Four, canzone contenuta in OBSCURED BY CLOUDS. When The Tigers Broke Free, che si avvale del coro maschile di Pontardoulais (un piccolo villaggio del Galles meridionale), scelto apposta da Waters per la sua forza espressiva, è suggestivo e ricco d’atmosfera, e sottolinea alla perfezione la drammaticità dell’unica, efficacissima inquadratura: un primo piano ravvicinato del viso dell’uomo e degli oggetti bellici che ha davanti a sé. Fra di essi, una pistola e delle scatole di proiettili emergono da un ambiente completamente buio, come in un quadro di Caravaggio. L’uomo pulisce accuratamente l’arma e poi la carica con i proiettili. L’inquadratura così ravvicinata non concede nessuna connotazione spaziale, ma il momento è pregno di suggestione, grazie alla musica di sottofondo, all’inquietante ed eloquente rumore fuori campo dei bombardamenti e alle parole del testo che ricordano quella tremenda mattina del quarantaquattro, oltre che alla sofferta interpretazione di Laurenson. Tutti gli elementi si coordinano a meraviglia nella descrizione di quello che è il primo, doloroso “mattone” del muro. Lo scrittore ed ex direttore della rivista musicale «Rolling Stone» Timothy White dichiarò di scommettere che non passi un giorno senza che Waters consciamente o inconsciamente non pianga e rimpianga quel padre che non ha mai conosciuto, oppure maledica la serie di circostanze che lo ha derubato di un genitore amorevole, come tutti lo ricordano nella sua famiglia. Il primissimo piano della fiammella nella lampada a olio, dai colori arancioni molto tenui, si dissolve lentamente nell’immagine sognante, della stessa tonalità, di una pianura soleggiata e sterminata, sgombra di qualsiasi elemento paesaggistico. Vi si distingue solo una figura umana correre lentamente sullo sfondo verso la macchina da presa. L’inquadratura, che sarà ripresa in diversi momenti del film, ha la funzione di riportarci alla realtà, al presente storico della narrazione, in cui uno splendido macro (inquadratura ravvicinatissima) di un orologio con Mickey Mouse domina a tutto schermo l’immagine. L’orologio è al polso di Pink, e la macchina da presa, che si avvale di un obiettivo da ripresa “Snorkel”39, “accarezza” il braccio dell’uomo fino alla mano, nella quale troneggia una sigaretta quasi del tutto incenerita, segno evidente dell’assenza di qualsiasi attività fisica e cerebrale da parte di Pink.

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Il lento movimento di macchina prosegue poi sul viso dell’uomo, fino a portare in primissimo piano l’occhio destro. Un rapidissimo stacco ci riporta nel corridoio già visto all’inizio del film, dove la donna delle pulizie ha terminato con l’aspirapolvere e si dirige verso la camera d’albergo in cui è rintanato il protagonista. Bussa alla porta: nessuna risposta. All’interno Pink è sdraiato su una poltrona davanti al televisore e rimane immobile. La scenografia è ispirata all’arredamento della suite che Barrett possedeva a Chelsea Cloisters, un lussuoso complesso di splendidi appartamenti dove pare vivesse attorniato da una ventina di chitarre e almeno cinque tv a colori, che a volte guardava contemporaneamente. La donna continua a bussare. Solo un tic increspa il viso di Pink. La donna fa per entrare, ma la porta rimane socchiusa a causa della catenina serrata dall’interno. Quest’immagine fa da raccordo con la sequenza successiva, quella di In The Flesh?, in uno dei serratissimi montaggi che caratterizzano il film. La porta d’albergo fa affiorare alla mente di Pink l’immagine della porta dei cancelli dello stadio del concerto forzata dai ragazzi in delirio, in un riuscito montaggio alternato-analogico. Il brano è accompagnato dalle immagini della folla all’esterno dell’area destinata al concerto, durante i duri scontri con la polizia. Uno dei temi principali della sceneggiatura originale scritta da Waters era stato anch’esso meditato nel corso del tour di ANIMALS, ed enfatizzava i collegamenti tra i concerti rock e la guerra. Waters percepiva come nei grandi concerti la gente sembra essere contenta di essere trattata così male, subendo una musica suonata a volume tanto alto e distorto da provocare danni. Nell’immaginazione del bassista – compositore, il magma del pubblico, in un crescendo scandito dalle grida del leader della band (il cui ruolo era facilmente accostabile a quello di un dittatore che esalta le masse) veniva bombardato e fatto esplodere, pur continuando ad amare ogni momento di tale tortura. Nella sua mente il musicista vedeva braccia mozzate e brandelli di carne fatti saltare in aria, idea accantonata dalla sceneggiatura perché troppo estrema, tanto da risultare quasi comica. Nel film rimane appena un accenno a questa similitudine nella parte iniziale della sequenza, quando alle inquadrature dei ragazzi che corrono per assicurarsi i posti migliori al concerto vengono alternate, in un inquietante parallelismo, quelle dei soldati in guerra che cadono al suolo sotto le bombe. Successivamente assistiamo al discorso di Pink trasfigurato appunto in un dittatore di ispirazione nazista. Il personaggio in divisa si rivolge alla

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folla attenta con toni decisi e gesti plateali, e l’argomento è lo spettacolo che il pubblico si aspettava di vedere. Uno spettacolo, appunto, una fredda e ripetitiva messa in scena, rispondente solo alle richieste insaziabili della folla. Non a caso, il brano era suonato nello spettacolo live da una band di controfigure con la maschera di ognuno dei Floyd, simbolo della falsità e della meccanicità dell’esibizione del gruppo. Waters si vedeva quindi nei panni di un demagogo che plasma la folla con la radicalità del suo messaggio. E la folla sembrava disposta ad accettare anche la violenza dall’idolatrato leader. “Inizialmente, avevo due immagini”, ha dichiarato Waters, “quella di un muro in costruzione sul palco e quella di una relazione sado-masochista tra il pubblico e la band: l’idea cioè di un pubblico che viene bombardato e fatto a pezzi mentre applaude con passione perché ama che gli venga fatto questo: si sente al centro dell’attenzione, anche se dalla parte della vittima. Cìera qualcosa di macabro e molto preoccupante in questo rapporto, così come nel dotare le band di un sistema di amplificazione così potente da provocare danni a chi sta loro di fronte. Così cominciò a nascere in me l’idea di Pink trasformato in demagogo nazista”40. Waters ha riconosciuto la presenza dentro di sé di un bisogno di autorità, una sua esigenza masochista di subire e celebrare a un tempo i fasti dell’autoritarismo più bieco, così come di avere qualcosa di fascista nella sua anima, altrimenti non avrebbe potuto creare queste scene. Come simbolo dell’autoritarismo viene utilizzato il famosissimo logo dei martelli incrociati, che compare in queste immagini per la prima volta, come distintivo del regime totalitario di cui è capo il dittatore – Pink. Il simbolo del martello è un’altra delle allegorie chiave del film e simboleggia ovviamente l’atto di schiacciare, reprimere, annullare. Come tutte le allegorie di cui è ricca la storia, il famoso martello dalla forma e dai colori caratteristici ricorrerà più volte durante le immagini del film. La sequenza termina con scene di soldati durante la Seconda guerra mondiale, con l’uccisione del padre di Waters in trincea, dopo l’esplosione della bomba. È un flashback dopo il quale si inizia a raccontare la storia, che è un po’ la storia della generazione dell’autore. The Thin Ice è la reale nascita del personaggio chiamato Pink, il vero inizio della sua vita. Sullo schermo vediamo le immagini di una culla in un tipico giardino inglese, mentre la mamma della futura rockstar sonnecchia su un lettino poco distante. La scena è stata girata a East Molesey, nel Surrey, vicino a Great Bookham, luogo natale dello stesso Waters. Ancora im-

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magini relative ai soldati, che ora, dopo la battaglia, ricevono le cure necessarie. Vediamo la sofferenza distorcere in impressionanti smorfie di dolore i loro giovani volti, e vediamo moltissimi cadaveri. Nel momento in cui la voce di Waters intona i versi riguardanti il ghiaccio sottile della vita moderna, una lenta carrellata ci fa ritornare nella camera d’albergo in cui Pink si è rinchiuso. La stanza è nel più totale disordine: sul pavimento ci sono indumenti e oggetti sparsi un po’ dappertutto. Traspare un’impressione generale di abbandono e di trascuratezza. Il televisore è acceso e trasmette un cartone animato della serie Tom & Jerry, che appare demenziale in questo atroce contesto. Le immagini televisive e la colonna sonora del cartone animato fanno da stridente contrappunto alla drammaticità della scena. La macchina da presa arriva poi sull’attico della lussuosa suite d’albergo e inquadra la piscina, in cui compare un Pink tremante. Si tratta di un’altra immagine ispirata a un episodio realmente accaduto a Barrett. Gilmour ricorda infatti che capitò un incidente simile a Los Angeles, quando Syd cadde dentro una piscina, si tolse i vestiti di Granny Takes a Trip e li lasciò galleggiare nell’acqua per tre giorni. Seguno altre immagini dell’esplosione fatale alternate a una velocissima inquadratura subliminale di un disegno di Eric Fletcher Waters con tanto di elmo da guerra realizzato da Gerald Scarfe. Nell’acqua della piscina, ora diventata del colore del sangue grazie all’utilizzo di un filtro da ripresa di colore rosso, il giovane si contorce, ossessionato dal doloroso ricordo. Il brano ha come argomento gli anni dell’infanzia, una serena infanzia dolce e innocente, velata di rassicuranti apparenze, destinata a infrangersi e a corrompersi a contatto con il violento impatto con la vita reale, inevitabilmente ricca di sofferenze per un individuo dotato di una sensibilità eccezionale come il nostro Pink. La prima inquadratura del successivo brano Another Brick In The Wall (part 1) è metaforicamente una foto in bianco e nero di Eric Fletcher Waters, rimasto appunto per il piccolo Pink solo una foto nell’album di famiglia, come recita il testo del brano. La mancanza della figura paterna era un elemento che accomunava Roger Waters a Syd Barrett. Anche il fondatore storico dei Pink Floyd, infatti, aveva perso il padre alla giovane età di dodici anni. Vien fatto di chiedersi quanto la mancanza dell’affettuosa figura paterna sia pesata nei futuri squilibri psichici di Barrett, che inevitabilmente a partire da questo tragico evento cominciò a costruirsi una naturale difesa psicologica dal mondo esterno, gettando così il primo mattone del suo futuro Muro. Waters dichiarerà di aver trovato l’ispirazione per

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educare i suoi bambini, non avendo avuto un padre, “nei bambini stessi. Per me fu difficile venir su senza il modello paterno, quindi cercavo riferimenti genitoriali esterni. THE WALL ha appunto questa tematica: è una sorta di resoconto personale. […] Se decidi di fare l’artista, non puoi censurare per niente le tue sensazioni”41. Il brano accompagna una sequenza in chiesa in cui la madre del piccolo piange a una commemorazione in onore dei caduti ad Anzio, come ci informa un’iscrizione in marmo. Il piccolo gioca con un modellino di aereo da guerra e ha al petto due medaglie al merito evidentemente appartenute al padre. Poi la mamma accompagna il giovanissimo Pink a un parco giochi, dove il bambino si sente inevitabilmente solo e abbandonato e stringe teneramente la mano al padre di uno dei bambini con cui gioca. Qui ci sono alcuni dei brevi e semplici dialoghi del film. L’uomo al quale il piccolo Pink stringe infatti la mano gli chiede dov’è sua madre. Lo mette su una giostra, e poi su uno scivolo, insieme al figlio che abbraccia alla fine della discesa. Nessuno invece prende tra le braccia il piccolo Pink, che corre dall’uomo a stringergli nuovamente la mano per la seconda volta. Ma questi lo manda via in modo brusco. Oltre alla contrapposizione fra la morte del padre e l’ingresso nella vita del figlio, in queste sequenze si esprime la tristezza dell’essere abbandonati e si fanno presagire le conseguenze negative di un rifiuto a una richiesta di affetto, che spinge inevitabilmente a barricarsi dietro difese che lasciano sempre più isolati dentro se stessi. In assenza di un riferimento forte come quello paterno, è facile essere indirizzati verso altri riferimenti, spesso dannosi. Non può non venire alla mente la vicenda di Syd Barrett, a cui l’attrazione per la droga lisergica è costata la salute mentale e la vita. “Fu molto difficile per noi quando si ammalò” ricordò Waters prima della sua morte. “E non mi stupisco quando i sale qualche lacrima quando eseguo Shine On You Crazy Diamond o Wish You Were Here, un tributo a Syd che scrissi quando seppi della sua malattia. Ora vive da solo, ancora a Cambridge. O meglio, sopravvive. Non lo vedo da molti anni, ma quando ero in contatto con lui, ossia alla fine degli anni Sessanta, capii che qualcosa a cui neanche lui sapeva dare un nome lo turbava. Non è più stato felice. Non penso si possa biasimare il rock’n’roll per il danno subito da Syd. Penso fosse qualcosa di intrinseco o genetico. Si potrebbe casomai biasimare l’Lsd per averlo accentuato. È certamente vero che se sei potenzialmente schizofrenico, o soggetto ad altre malattie mentali o qualunque cosa presenti quei

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sintomi, e assumi dosi anche blande di Lsd o di qualunque cosa del genere, non ti fai un favore; e Syd ne prese per molto tempo. Ma credo che in certa misura fosse cosciente di ciò che faceva… sono certo che se ora Syd si facesse di Lsd, i suoi sintomi sarebbero ancora peggiori”42. Assistiamo poi a uno dei tanti eventi che sicuramente avranno caratterizzato l’infanzia di Waters. Il bambino è cresciuto, lo ritroviamo di qualche anno più grande. Al ritorno da scuola, il piccolo si imbatte in una serie di cimeli appartenuti al padre, tra cui una nota di condoglianze, il cappello della divisa militare, il rasoio per la barba e una serie di proiettili. La sequenza, accompagnata dalla seconda parte di When The Tigers Broke Free, culmina nel suo punto più drammatico con un montaggio alternato tra l’immagine del ragazzino allo specchio che ha indossato l’uniforme militare del padre e quella del padre stesso nell’atto di aggiustarsi il cappello. Il bambino ribadisce così la sua istanza psicologica di far rivivere il genitore che non ha mai conosciuto attraverso la sua emulazione. Solo così riesce a soffocare il grande dolore per la sua assenza. Il successivo brano, Goodbye Blue Sky è una riflessione che Pink compie mentre sta per diventare adulto, lasciandosi dietro il mondo della sua infanzia coronato da dolci sogni e taglienti illusioni descritto in The Thin Ice, al quale dice addio. Waters ebbe a dire che ne brano si ricorda la fanciullezza mentre ci si prepara ad affrontare il resto della vita. Significativamente, la sequenza comincia con una riproposta dell’inquadratura di The Thin Ice in cui Pink neonato è nella culla in giardino con la madre. Un gatto, che allegoricamente rappresenta le insidie del mondo reale cui il giovane sta per andare incontro, fissa una colomba bianca, che però riesce a scappare, sfuggendo all’animale che muove nella sua direzione, ma va incontro a un destino comunque avverso. In una straordinaria sequenze di animazione creata da Gerald Scarfe, la colomba della pace infatti esplode, e dalle sue viscere nasce una terribile aquila. Questa creatura minacciosa strappa enormi zolle di campagna con i suoi colossali speroni, distruggendo città intere. Mentre vola bassa, dà vita al Signore della Guerra, una figura gargantuesca che a sua si trasforma in metallo e lancia bombardieri dalle ascelle: le bombe si tramutano in croci, mentre gli “Spaventati” (come vengono definiti nel testo) corrono nei rifugi. Spettri di soldati cadono e risorgono continuamente, e sopra a una collina di corpi una bandiera britannica diventa una croce insanguinata. Il sangue scorre dalla croce e tra i cadaveri, e sgocciola giù negli scarichi. Tutto sembra perdersi nella

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morte, nella dissoluzione, nell’annientamento ferale, nella scomparsa. La pace appare impossibile di fronte a un destino oscuro predominante. Del resto, THE WALL può essere letto come ciò che succede quando non si dialoga con se stessi per risolvere i propri dilemmi interiori, e non si “disarma” il proprio animo dagli intenti delle distruttività, dell’avidità e della rabbia. Concetto che Roger Waters esprimerà nel testo di Perfect Sense (part 1), track n. 3 di AMUSED TO DEATH, il suo album solista del 1993, osservando con l’acume che gli conosciamo che i Tedeschi uccidono gli Ebrei, questi gli Arabi e questi ultimi gli ostaggi, a indicare una spirale in cui c’è sempre un “debole più debole” contro il quale sfogare la violenza intrinseca nell’animo umano. Nella loro simbologia, le trasformazioni, repentine e surreali, delle immagini animate di queste sequenze apocalittiche risultano scioccanti. Scarfe dà prova di un grandissimo talento visionario nel dar vita ai numerosi personaggi e alle allegorie, tra cui in particolare gli “Spaventati” risultano di grande effetto drammatico, vinti come sono dalla paura e dall’angoscia, che li porta a indossare una maschera a gas, fusa saldamente con i lineamenti del loro volto. La sequenza successiva ci riporta all’infanzia di Pink, che ritroviamo insieme a due suoi piccoli amici. I tre si recano in prossimità dei binari della linea ferroviaria e Pink entra in una galleria per sistemare sui binari uno dei proiettili che erano appartenuti al padre, li stessi della sequenza When The Tigers Broke Free. Il treno si avvicina. Pink colloca il proiettile, che esplode appena il treno lo investe. Il bambino riesce a ritrarsi appiattendosi contro la parete interna della galleria. Ma lo scenario che vede all’interno del treno in corsa è terribile: molti bambini, addossati l’uno contro l’altro e circondati da filo spinato, protendono le loro mani verso l’esterno. Una scena che rimanda chiaramente alla deportazione degli ebrei, brutalmente ammassati nei treni merci in viaggio verso i campi di concentramento come carne da portare al macello. Nell’animazione, i bambini hanno una maschera sul viso che li rende tutti simili e cancella i loro lineamenti. Con le urla del maestro di Pink, che appare diabolico sullo schermo mentre agita minaccioso la bacchetta verso il bimbo, ha inizio il nuovo brano, The Happiest Days Of Our Lives. Si tratta di una denuncia all’autorità scolastica, intesa da Waters come un’istituzione repressiva nella quale gli insegnanti non coltivano le doti individuali degli alunni per incoraggiarli a sviluppare le loro personalità e le loro attitudini, ma cercano solo di te-

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nerli calmi e fermi e schiacciarli fino a imprimere loro la forma giusta, uguale per tutti. Nelle immagini successive Pink viene fatto oggetto di scherno e di derisione da parte del professore, interpretato da Alex McAvoy, che davanti alla classe legge alcune poesie che il bimbo ha scritto in un quadernino, trovato sul suo banchetto, dopo aver dichiarato con tono ironico e sarcastico: “Il ragazzino si crede un poeta!”. I versi sono quelli della prima strofa di Money, in un’intelligente autocitazione. Dopo averli letti, il professore dichiara con disgusto: “Immondizia assoluta”. Waters ha affermato più volte che la scuola ha sempre represso la sua creatività letteraria e che era stato invariabilmente deluso dai metodi di insegnamento dei suoi professori, che si era trovato più volte ad idealizzare per colmare il vuoto dell’assenza di una figura paterna. Il bambino di The Wall, umiliato e deriso dal professore, comincia a fantasticare sogni di vendetta, immaginando una rivolta degli studenti al grido dei versi sovversivi di Waters. Un approfondimento psicologico del personaggio del professore ci viene esplicitamente suggerito da una scena in cui lo vediamo a casa con la moglie che chiarisce da dove abbia origine la rabbia repressa che sfoga con violenza sugli alunni in classe. Dimesso il suo abito di “educatore”, al di fuori del suo ruolo sociale, è un misero frustrato, a sua volta umiliato e vessato senza pietà da una moglie “psicopatica” (come recita il testo del brano), che lo domina comandandolo con autorità. La sequenza è ricca di feroce ironia, grazie a un montaggio alternato che mostra le due facce della personalità dell’uomo: a scuola con i bambini forte, determinato e autoritario, a casa con la moglie debole, insicuro e inetto. Il film prosegue ribadendo il concetto del un sistema scolastico uniformatore e livellatore delle personalità, mostrandoci l’immagine-metafora di una scuola trasfigurata in una sorta di “industria”, rappresentata come un’enorme, terrificante macchina. Da un lato i bambini vi entrano con le loro fisionomie ben distinte, dall’altro ne escono tutti simili, con la loro maschera priva di lineamenti. Roger Waters ha espresso più volte il suo giudizio sugli effetti deleteri dell’educazione scolastica tradizionale, che egli stesso aveva subito alla Cambridge High School For Boys, della quale, come ebbe a dichiarare43 aveva odiato tutto, tranne lo sport. In The Wall, nessun livello del sistema scolastico si salva dalla feroce critica di Waters. Gli studenti che vi compaiono, infatti, appartengono a ogni fascia d’età e cantano tutti insieme il loro grido di rivolta, ammassati negli scomparti dell’inospitale scuola-bunker.

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Ritorna qui ancora una volta l’immagine simbolica del martello, riconoscibile in un’ombra sul muro insieme ad ingranaggi in movimento, mentre un gruppo di adolescenti su un nastro trasportatore finisce in un tritacarne. Ma gli alunni levano con impeto la maschera dai loro volti e distruggono con ogni mezzo possibile la scuola, sfasciando banchi e abbattendo un muro, e infine accendono un falò verso il quale spingono con forza l’odiato professore, sentenziando così la fine dei suoi metodi oppressivi. Ma si tratta solo di un sogno, di una fantasia del piccolo Pink, che subito dopo ritroviamo in classe, ancora dolorante alla mano per la bacchettata ricevuta dal professore. Another Brick In The Wall (part 2) schizza immediatamente come singolo al numero uno della classifica londinese. Erano passati ben undici anni dall’ultimo singolo della band entrato nella Top Ten, ovvero See Emily Play, scritta da Syd Barrett. Roger Waters, come ricorderà in seguito, aveva composto il celebre brano su una chitarra acustica, e in questa forma fu registrata sul demo che ascoltò la band. Secondo Nick Mason, la musica originaria era ‘funerea, e molto deprimente’’, finché Bob Ezrin (che a New York aveva assistito alle registrazioni di RISQUÉ degli Chic) non incoraggiò Dave Gilmour a lasciarsi contaminare dalla scena disco music, la moda del momento. ‘Mi feci forza’, ricordava il chitarrista, ‘e ascoltai quelle cose in quattro quarti tutte basso e batteria. La mia impressione era ‘Dio, che merda!’. Poi tornammo in studio e cercammo di cambiare una delle sezioni del brano per renderla più commerciale”44. Utilizzarono lo stesso processo per Run Like Hell. La paternità del sound del brano è però da attribuire a Bob Ezrin: “Avevo appena fatto una session a New York, e Nile Rodgers e Bernard Edwards erano nello studio accanto. Ascoltai quel modo di suonare la batteria e pensai: ‘Wow! Può funzionare bene con il rock’n’roll. Quando tornai in Inghilterra qualche mese dopo e cominciai ad ascoltare Another Brick In The Wall (part 2), quelle battute continuavano a risuonare nella mia testa”. Nick Mason: “Ricordo che nessuno si lamentò. C’è una velocità standard per una traccia disco, e noi la seguimmo alla lettera. Fu registrato in uno stile molto disco – basso e batteria di base e tutto il resto aggiunto gradualmente”45. “Il brano ora aveva un beat lucido e ficcante, ed Ezrin era convinto che Part Two potesse essere un hit. Ma una sola strofa e un ritornello non erano sufficienti per la pubblicazione. Quando il gruppo si rifiutò di scrivere un’altra strofa (dicendo ufficialmente al produttore: ‘Noi non facciamo singoli, vaffanculo!’), Ezrin semplicemente raddoppiò quello che aveva. Eppure

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sentiva che mancava ancora qualcosa. ‘La domanda era’, disse, ‘cosa ci si può inventare con la seconda strofa, visto che è identica alla prima?’. E a questo punto arrivò il colpo di genio che avrebbe assicurato la gloria immortale a Part Two. Quando aveva prodotto l’hit di Alice Cooper del 1972 School’s Out, Ezrin aveva inserito un coro di bambini per dare un tocco di anarchia al tutto. Mentre che i Floyd erano in tour negli Usa, mandò il tecnico del suono Nick Griffiths alla scuola Islington Green, dove il maestro di musica Alin Renshaw mise assieme venti allievi della sua classe per registrare nei Britannia Row Studios del gruppo l’ormai classico coro ‘We don’t need no education’, trattando le loro voci con un effetto multi-traccia per dare l’idea di una folla molto più grande”46. Bob Ezrin descrive la lavorazione nei minimi dettagli: “Grazie al nostro sistema di registrazione a doppio nastro, mentre la band era in tour fummo in grado di copiare la prima strofa e il coro; prendemmo poi una delle parti di batteria, la mettemmo in sequenza e allungammo il coro. Allora la questione divenne: come fare con la seconda strofa, che è uguale? E siccome qualcuno ironicamente disse: ‘La scuola è finita!’, mi venne l’idea di inserire dei ragazzi, in una canzone che peraltro parlava proprio di loro. […] Dissi loro: ‘Voglio un accento londinese, elegante’ – e li sovraincisi sul pezzo. Quando Roger sentì per la prima volta questi ragazzi entrare sulla seconda strofa i suoi lineamenti si ammorbidirono; in quel momento si rese conto che Another Brick In The Wall era diventato un brano ben fatto e importante per il disco”47. Roger Waters era entusiasta del lavoro di Ezrin: “Era grande – precisamente la cosa che mi aspettavo da un collaboratore”48. Ma Gilmour contesta: “E alla fine non suonava alla Pink Floyd”49. Terminata questa galoppata liberatoria e distruttrice dell’immaginazione infantile, esaltata a perfezione dal ritmo dance del brano, si passa a una narrazione più drammatica, adatta al tema che si affronta in Mother: il rapporto di Pink con le donne. Un’istantanea ritrae Pink in età matura assieme a una rossa di bell’aspetto. Capiamo che Pink ha una compagna. Lo vediamo telefonarle dalla sua disastrata camera d’albergo negli Stati Uniti. Pensa alla sua donna, immagina uno dei loro baci. Nessuno risponde. Pink stacca la spina dal telefono e medita, aggrappandosi al cuscino, come quando era piccolo e si aggrappava alla madre. La sequenza consiste in un efficace montaggio analogico, in cui vediamo le immagini di Pink bambino e di Pink adulto in relazione alle figure femminili principali della sua vita, rispettiva-

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mente la mamma e la donna che ama. Eccome come Waters ci spiega il suo rapporto con questo tema: “Credo che l’amore sia un fattore creativo molto lontano da me. La paura di perderlo: sono più interessato a questo”50. Il brano ritrae la figura di una mamma iperprotettiva e possessiva, che per sopperire alla mancanza della figura paterna soffoca il proprio figlio con il suo amore eccessivo, nel vano tentativo di allontanare da lui tutte le sofferenze, rinchiudendolo in un nido protettivo che gli impedisce di affrontare da solo le difficoltà della vita egli nega la possibilità di maturare autonomamente. Il loro è un rapporto di vera e propria dipendenza, tanto che il piccolo, per sfuggire agli incubi portati dalle ombre della notte (una delle quali ha una straordinaria somiglianza con la “maschera-appiattimento” di Another Brick In The Wall (part 2)), si rifugia più volte nel letto della madre, accanto alla quale ritrova la tranquillità e la sicurezza. Ma, come canta Gilmour, la mamma sarà un “aiuto” nel costruire il muro nella mente del bimbo. E infatti nel letto, accanto alla madre, il bimbo trova un cadavere, in una dalle chiare implicazioni psicologiche che delinea il devastante effetto del rapporto madre-figlio. La donna ha come costretto il bambino a rimanere l’eterno neonato bisognoso di cure e affetto, impedendogli così un regolare e armonioso sviluppo psicologico, rendendolo un adulto immaturo ed emotivamente vulnerabile. Un adulto stordito dalla droga e incapace di entrare in contatto con la propria compagna, indifferente a un suo provocante strip-tease, come vediamo nella sequenza successiva. La scena divide la sequenza in due segmenti narrativi. Prima assistiamo a una serie di eventi dell’infanzia del protagonista in cui il bambino, nel bene o nel male, è vincolato alla figura materna. Nella seconda parte vediamo invece scene dal matrimonio di Pink. Viene qui messo in risalto quanto questo amore eccessivo sviluppato durante l’infanzia verso una sola donna abbia impedito nella successiva maturità la naturale apertura verso le altre, condizionando il giovane e creandogli seri problemi relazionali con l’altro sesso. Pink rimane insensibile alla vista della moglie che lo saluta affettuosamente al suo ritorno a casa, e lei, dopo aver passato una mano davanti ai suoi occhi spenti gli chiede, in modo semplice quanto efficace: “Ti ricordi di me? C’ero anch’io davanti al sindaco…”. Pink non ha nessuna reazione, e nell’inquadratura successiva vediamo la donna, che si è resa conto del penoso stato psicologico in cui è piombato il marito, piangere amaramente consumando una sigaretta. In questa seconda parte la vediamo fare ami-

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cizia con il leader di un movimento pacifista con il quale avrà una relazione. Sua è la voce maschile che la centralinista sente rispondere al telefono quando Pink chiama a casa dall’America. Waters ha commentato la scena della telefonata dicendo di apprezzare molto lo stacco che imprime all’assetto del brano: viene implicitamente suggerita la ricerca di un “contatto sentimentale” e il bisogno di sentirsi dire parole affettuose da parte del protagonista, il modo in cui la centralinista dice: “Forse c’è qualcuno oltre sua moglie” dà una stoccata dall’effetto drammatico. Sembra che l’episodio rimandi a una reale esperienza di Waters avvenuta gli ultimi tempi del suo matrimonio con Judy Trim, la sua prima moglie. Pink ha capito tutto; distrutto dal dolore, si accascia lasciandosi scivolare lungo il muro al quale è collegato l’apparecchio telefonico, facendo cadere la cornetta penzolante. Insieme al brano Empty Spaces, parte un’altra delle splendide animazioni di Scarfe. Questa volta i protagonisti sono due fiori, che rappresentano l’uomo e la donna. Il fiore “femmina” è più grande e attrae con movimenti sinuosi quello “maschio”, che lo accarezza assumendo una forma sempre più fallica, mentre l’altro si trasforma sempre più in una gigante, famelica vagina. La psicoanalisi freudiana ha esplorato il concetto di “vagina con i denti”, un organo sessuale femminile che prima fagocita, poi distrugge, rendendo reale la fantasia maschile di “perdere” il proprio organo genitale dopo l’acme del piacere. Anche in natura non mancano esempi di femmine che uccidono il proprio compagno dopo averlo “usato” per la riproduzione sessuale. In questa scena l’amplesso diventa un’altra metafora di paura e violenza. Il fiore maschio penetra violentemente il fiore femmina, e si avvinghia e si salda a lei in una simbologia sessuale sempre più dichiarata ed esplicita. Poi le due figure si trasformano in due crani e cominciano a mordersi e ad attaccarsi, ferendosi a sangue. E qui è implicito un altro concetto fondamentale nell’economia della storia: il rapporto amoroso, di per sé cruento e doloroso, nasconde sempre una componente di sofferenza e violenza che da implicita può emergere lentamente con il passare del tempo. Waters ha le idee chiare in proposito, osservando che molti uomini e donne si mettono insieme per la ragione sbagliata e diventano via via sempre più aggressivi gli uni nei confronti degli altri, facendosi reciprocamente molto male. Successivamente abbiamo uno sviluppo del brano, che non fu inserito nel disco, a causa della somiglianza con In The Flesh?, ma veniva suonato

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in tutte le esibizioni live. La sequenza mostra la naturale estensione dell’amplesso. I fiori si trasformano in filo spinato: dopo l’amore, appunto, la morte. Sullo schermo, si succedono immagini di violenza: un cranio violentemente spaccato inonda di sangue un muro, che si trasforma in un Muro di automobili, chitarre, amplificatori e quant’altro ci porti al concetto di consumismo, mentre un mare di facce, disegnate da Scarfe come una massa informe, si muove senza direzione in una landa desolata verso una chiesa, che viene a sua volta distrutta dal Muro, che si allunga a invadere tutto lo spazio verde che era prima libero. Il brano successivo, Young Lust, era in origine incentrato sul rapporto, spesso paralizzante, fra paura e desiderio delle esperienze sessuali. La sequenza del film mostra alcuni momenti di una festa che si svolge nel backstage del concerto americano di Pink. Vediamo il suo manager, interpretato da Bob Hoskins, aprire una bottiglia di champagne e festeggiare con entusiasmo. Nel frattempo fanno il loro ingresso alcune giovani groupie, bramose e disponibili. Le donne entrano nella zona riservata ai soli addetti ai lavori e seducono gli uomini della sicurezza ottenendo il permesso di entrare e ingressi gratis per il backstage come compenso per le prestazioni. Una di queste, in cambio di un pass, scompare sotto la scrivania di una guardia della security, che sgrana gli occhi, in una scena molto esplicita. Successivamente si danno da fare con i tecnici del concerto, organizzando in un deposito in piccolo party erotico. Nel frattempo, la festa del manager e degli altri membri dello staff continua tra abbondanti fiumi di alcoolici in un’area poco distante; Pink invece, se ne sta solo e silenzioso in disparte, all’interno del suo trailer. La più carina delle groupie, interpretata da Jenny Wright, lo nota e lo avvicina porgendogli una copia del suo disco, che ha appena ricevuto. Pink rimane indifferente, sembra infastidito. Nonostante ciò, i due entrano nella sua stanza d’albergo. E qui la problematica relazionale già affrontata in Mother si rivela in tutto il suo aspetto. Pink ignora del tutto la ragazza, sedendosi davanti al televisore e fissandolo con occhi spenti. La donna nota le numerose chitarre ammassate in un angolo, chiede qualcosa da bere e osserva che la cucina è grande quanto la sua casa. La bella groupie dai capelli ramati e il viso dolce vuole rivolgergli la parola. Ma lui è psicologicamente assente, emotivamente morto. Il Muro che ha dentro gli impedisce di vivere qualsiasi contatto interpersonale che implichi affetto o amore. È bloccato da un’impotenza nevrotica, paralizzato dall’impossibilità relazionale di godere di una donna. Il desiderio di lussuria

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non può essere appagato. La donna tenta di risvegliare in lui il desiderio sessuale, ma Pink rimane indifferente. È destinato a rimanere represso e a rispondere con angoscia e rabbia. One Of My Turns, brano successivo, nelle intenzioni di Waters è infatti la risposta di Pink ai molti problemi della sua vita. Il suo matrimonio si è appena rotto, e con questa ragazza a disposizione nella sua camera d’albergo non riesce ad avere nessun rapporto. Sprofondato nella sua poltrona, si massaggia le tempie, e mentre una lacrima riga il suo viso ha un improvviso quanto furibondo attacco d’ira e distrugge la stanza, spaventando la groupie. Il richiamo, secondo Waters, è a un’analoga reazione isterica che aveva avuto come protagonista Roy Harper, collaboratore del gruppo ai tempi di WISH YOU WERE HERE. Il cantante, che aveva già alle spalle una storia di instabilità mentale, accortosi poco prima di un concerto della sparizione del suo costume di scena demolì uno dei furgoni dei Floyd, sfasciandone le pareti, strappandone le fodere, tirando bottiglie di vetro contro i finestrini e riuscendo a tagliarsi piuttosto gravemente una mano. Waters ha dichiarato di aver avuto una spettacolare visione durante l’esecuzione di questo brano nel suo storico concerto di Berlino: alzatosi dalla poltrona sulla quale cantava la prima parte del brano, come da copione, e affacciatosi alla finestra prima di demolirla, ha visto la Potzdamer Platz stracolma di spettatori a 60 metri d’altezza. Grande iniziativa civile, questa della messa in scena di THE WALL il 21 luglio 1990. Il concerto è stato patrocinato dalla città di Berlino, il cui sindaco, Walter Momper, ha dichiarato: “Il 9 novembre 1989, quando è crollato il Muro, il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo. Non solo in Germania, ma in molti altri Paesi, la gente ha espresso la propria felicità per il crollo delle barriere. Per quasi trent’anni, il Muro ha simboleggiato la divisione del nostro continente e l’ostilità di due sistemi politici, era una costruzione fatta contro la gente, contro i diritti umani e contro l’umanità intera. La Potzdamer Platz, un tempo centro pulsante di Berlino, mostra meglio di qualsiasi altro luogo al mondo dove possa portare la rigidità ideologica, e meglio di qualsiasi altro luogo può simbolicamente ospitare la battaglia per un mondo più umano”51. Roger Waters, che da sempre si batte per la pace, non può non mettere in scena la sua opera rock proprio in occasione di un evento storico così importante, e lo fa ancora una volta a scopo umanitario: diffondere e far conoscere il “Memorial Fund for Disaster Relief” per aiutare le famiglie devastate dalla guerra, dando così valore sociale ed etico alla sua

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arte. Eccezionali gli ospiti musicali: Scorpions, Ute Lemper, Cindy Lauper, Sinead O’Connor, Bryan Adams, Jerry Hall, Van Morrison, Marianne Faithfull, Albert Finney, Jony Mitchell e Paul Carrack. È presente la band di accompagnamento di Waters, la Bleeding Heart Band, formata da Graham Broad alla batteria, Peter Wood e Nick Glennie Smith alle tastiere, Andy Fairweater Low, Rick Di Fonzo e Snowy White alle chitarre, Joe Cheamay, Jim Farber, Jim Haas e John Joyce ai coristi. Di rilievo l’apporto dell’Orchersta Sinfonica di Berlino Est, diretta da Michael Kamen. Colossale anche la messa in scena dello spettacolo. Per il 21 luglio, viene edificato sulla Potzdamer Platz il più grande palcoscenico mai realizzato per un concerto rock: 168 metri di larghezza, 41 di profondità e 25 nel punto di massima altezza, sul quale si sono mossi la sera del concerto due pupazzi gonfiabili, il maiale e l’insegnante, alti rispettivamente 15 e 12 metri, sollevati da due gru speciali attivate da due squadre di venti uomini. Il tutto per oltre a 130 tonnellate di impalcature e ben 2.500 “mattoni” in stirene. Torniamo al film. In Don’t leave me now Pink sembra tracciare il punto della situazione. La rockstar non riesce a capire perché la moglie lo abbia tradito con un altro uomo, e non riesce a farsene una ragione. Confuso, ripensa ai momenti in cui l’ha trattata male e a quelli in cui il loro rapporto era improntato a un semplice e ipocrita rispetto di facciata. Viene abbozzato il tema del suicidio, con un’immagine in cui vediamo Pink in piscina mentre l’acqua si macchia di sangue nelle zone attorno ai suoi polsi. Viene ripreso e ampliato il tema della donna intesa come fonte di sofferenza: sul muro della parete appoggiato alla quale Pink si dispera, un’ombra della moglie, grazie a un impressionante effetto realizzato di animazione, si trasforma in un mostro. Dapprima l’essere ha la forma attraente di un fiore, quasi identica a quella del fiore “femminile” già visto in Empty Spaces. Ritorna quindi anche l’allusione al sesso della donna, che ora diventa espressamente e senza possibilità di fraintendimenti una figura demoniaca, famelica, che aggredisce e ghermisce Pink, che cerca di scappare. Ma il fiore-donna è tenace e non demorde, lo insegue e riesce a immobilizzarlo in un angolo. In un’inquadratura animata che starebbe a meraviglia in uno dei primi film horror di David Cronenberg, il fiore si trasforma in un essere con artigli e denti uncinati, pronto a colpire. Un televisore che trasmette immagini di un film viene distrutto improvvisamente da Pink con una chitarra. Il suo viso ha un’espressione davvero allucinata. È evidente che è posseduto dai demoni interiori che abbiamo

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conosciuto fin qui. L’immagine viene montata più volte, a una velocità via via maggiore e l’accompagnamento di un urlo della disperata rockstar, e il televisore viene così distrutto quattro volte di seguito, fornendo un drammatico e fragoroso inizio alla grintosa Another Brick In The Wall (part 3). Le immagini che accompagnano il brano sono una sorta di ricapitolazione dei traumi descritti in questa prima parte del film. Questo è l’ultimo mattone, e la sequenza ci propone intelligentemente un veloce montaggio di inquadrature già viste, riguardanti tutti gli eventi del passato, avvero i mattoni precedenti che hanno preceduto a quest’ultimo, che inesorabilmente chiude il Muro. Vediamo quindi immagini da Mother, In The Flesh?, One Of My Turns, The Happiest Days Of Our Lives e i concetti corrispondenti di matrimonio, morte, autoritarismo, madre, rufiuto, incapacità relazionali si riassumono immediatamente nella mente dello spettatore, riconfermando il senso della storia. Ci sono poi inquadrature aggiuntive di una sommossa con tanto di lanci di bombe molotov girate all’officina del gas di Beckton. Il brano, che rispetto a quello presente nell’album ha un ritmo più veloce, sottolinea le scene di violenza sposandosi a meraviglia con il veloce montaggio, rendendo con grande efficacia la sensazione di rabbia che scaturisce dalla constatazione dell’avvenuta ultimazione del Muro e della conseguente recisione di ogni collegamento con il mondo. Qui il radicale isolamento autodistruttivo diviene cosciente, e assume i toni di un rabbioso e definitivo rifiuto di tutto e dell’accettazione della fine. Dominano il nichilismo, l’autoannullamento, la negazione di qualsiasi possibilità di rimedio, la rinuncia orgogliosa di ogni aiuto esterno. Il film riprende la narrazione collegandosi all’inizio, con la riproposta della carrellata in macrofotografia girata con la snorkel che parte dalla sigaretta non fumata e arriva all’occhio spento di Pink. La storia riprende quindi da questo momento. Ora sappiamo, conosciamo il vissuto del protagonista, capiamo perché è ridotto in questo tremendo stato psicotico. Il Muro è completo, e noi lo vediamo in tutta la sua gelida e inquietante maestosità. Ci appare enorme e invalicabile. Il brano dall’eloquente titolo Goodbye Cruel World, accompagna queste immagini. In un’inquadratura che idealmente si colloca all’interno della sua travagliata psiche, vediamo ora Pink a diretto contatto fisico con il suo Muro, al cospetto del quale ci appare come una figura piccolissima che si chiede “c’è qualcuno là fuori?” (“Is there anybody out there?”) mentre si lancia invano contro l’enorme parete scura e sconfinata, dalla quale non sembra esserci possibilità di scam-

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po. L’inquadratura è girata chiaramente in un teatro di posa: l’attore Bob Geldof si lancia disperato (in un’ottima interpretazione) contro una sezione di Muro scenografica, che prosegue in una parte dipinta in cui, grazie a una prospettiva con punto di fuga lontanissimo, ci appare infinitamente lungo. L’agenzia Saatchi & Saatchi nel 1986 realizzerà uno spot usando proprio questo brano, con delle grida aggiunte da Waters stesso. Alla fine compariva sullo schermo la rassicurante parola “Sì”. Ora l’azione si sposta nuovamente nella stanza d’albergo. Pink allinea meticolosamente in ordine i minuscoli e innumerevoli cocci degli oggetti fracassati durante la crisi di One Of My Turns, talvolta incrociandoli per formare il logo dei martelli. Il processo psichico di frammentazione e distruzione della realtà avvenuto nella sua mente è irreversibile, ma Pink sembra non rassegnarvisi, e in questa scena tenta appunto di ricostruire ciò che ha distrutto. La psicologa infantile Melanie Klein sottolinea come il bisogno di ordine originario, chiarezza e pulizia sia tipico dei bambini che rimettono a posto tutti i loro giocattoli dopo il momento di divertimento, ma nel gioco anche quest’ordine segue una logica completamente loro. Nel film abbiamo quindi un altro momento chiaramente metaforico e allusivo: il giovane si sforza di ricostruire i frammenti del proprio passato, nel disperato tentativo di far coincidere i vari elementi percepiti come discordanti, manifestando il bisogno di rimettere ordine dentro se stesso. E nella sua mente distorta l’ordine è associato alla pulizia. Pulizia interiore, ma prima di tutto pulizia esteriore, ed ecco che dopo essersi raso, spruzza la crema da barba sui peli del petto e rade anche quelli, si sciacqua abbondantemente per poi guardarsi nuovamente allo specchio, toccandosi le sopracciglia. Dalla sua espressione capiamo che sta pensando qualcosa. Vuole depilarsi completamente, in un’estremizzazione radicale dell’atto di radersi. Apre quindi il rasoio ed estrae dal suo interno la lametta. È insensibile, sembra non accusare il dolore alle dita mentre la spezza in due metà. Perle di sangue gocciolano, macchiando di rosso la schiuma nel lavandino. Una sagoma inquietante si delinea dietro il vetro traslucido della porta del bagno. Pink ne esce con le sopracciglia completamente rasate. La scena è tra le più forti e scioccanti di tutto il film. Nel descrivere un atto quotidiano portato alle estreme conseguenze da una mente chiaramente sull’orlo della crescente follia, l’inquadratura (enfatizzata con una carrellata in avanti verso il vetro), è di grande effetto suggestivo. C’è anche un rumore di eco che sottolinea l’attesa, mentre Pink, rasato, è appena visibile attra-

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verso il supporto smerigliato della porta, e termina quando l’immagine del suo viso deturpato appare in tutto il suo inquietante aspetto, dopo l’apertura del vano. Le immagini in cui Pink si rade il petto e le sopracciglia sono assolutamente raccapriccianti. È uno dei momenti più riusciti ed efficaci di tutto il film. Sottolinea alla perfezione lo sprofondare di Pink nella sua definitiva psicosi, che ora segna indelebilmente anche il suo aspetto fisico. La scena è notoriamente ispirata a Syd Barrett. Il 5 giugno 1975, infatti, mentre il gruppo era impegnato nel missaggio di Shine On You Crazy Diamond, il leggendario chitarrista si presentò negli studi della Emi con capelli e sopracciglia rasati. Essendo oltremodo ingrassato, nessuno dei suoi vecchi compagni lo riconobbe, e solo dopo un accurato esame un Waters in lacrime poté far notare la presenza dell’amico di vecchia data agli altri compagni della band. June Bolan, una cara amica di Syd che gli era stata particolarmente vicina durante i primi tempi della band, definì la scena della depilazione di Pink come uno shock assoluto; la trovò talmente vicina a Syd nella sua essenza che le fu quasi insopportabile. Nell’intervista presente nel Dvd di The Wall Roger Waters dichiara: “Penso non ci siano novità che lo riguardino”. […] “Ho spesso sue notizie perché mia madre vive ancora a Cambridge e mi tiene informato. Ora conduce un’esistenza abbastanza tranquilla. Riceve ancora i suoi diritti d’autore, credo che abbia delle necessità molto semplici. Penso che ancora entri ed esca dall’ospedale locale, ma la maggior parte del tempo la trascorre fuori. È piuttosto scisso, schizofrenico, e certamente ai tempi in cui eravamo in contatto, venti anni fa, questo risultava essere molto deprimente per entrambi, sia per lui che per noi della band. E non penso ci sia qualcosa che possa essere fatta per tirarlo su, finiremmo solo con il turbarlo maggiormente, come quando qualcuno o qualcosa lo riporta agli anni londinesi del successo con il gruppo. Non ho nessun contatto diretto con lui, tranne, ovviamente, il fatto che lo ricordo con grande affetto”52. Con Nobody Home, lo stile della narrazione diventa più cupo e introspettivo, adatto all’approfondita autoanalisi psicologica che Pink esegue stando davanti al televisore, che trasmette scene del film di guerra La battaglia d’Inghilterra. Il testo del brano descrive alcuni oggetti che lui possiede, quelli ai quali è più affezionato nella sua vita quotidiana e quelli che formano gli elementi obbligatori delu suo abbigliamento da rockstar. Ne emerge quindi un ritratto completo ed esauriente della sua identità di artista, immerso nel tipico mondo del rock-business. Le scene seguono fe-

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delmente il testo e ci ripropongono inquadrature della prima telefonata di Pink a casa, quella fatta subito prima di Mother, quando appunto a casa non c’era nessuno. Il testo fa riferimento al bisogno di evadere, senza però avere la possibilità di farlo, né uno spazio mentale e vitale dove questo possa avvenire. Nell’inquadratura successiva la stanza scompare per essere sostituita dall’immagine della radura che abbiamo visto all’inizio del film come sfondo alla sequenza di guerra di In The Flesh? e The Thin Ice. Ora Pink è immerso nello scenario naturale che sappiamo appartenere solo al suo inconscio, tra filo spinato e immancabili martelli a fare da recinzione, incarnazioni dei suoi fantasmi interiori. Gli elementi che lo accompagnano in questa sorta di traslazione spaziale (il lume, il televisore e la poltrona), sono i pochi che la sua mente ancora registra e con i quali interagisce. Grazie alla loro funzione di basica utilità, essi rappresentano gli unici contatti concreti ancora rimasti con il mondo circostante (e reale) della stanza d’albergo e costituiscono ormai l’unica traccia della presenza di una pur flebile vita psichica di Pink. Tutto il resto scompare, il quotidiano si dissolve e viene sostituito dai ricordi ancestrali del doloroso passato, che così prevalgono definitivamente sulla realtà oggettiva. L’immagine è molto surreale, e scandisce il definitivo abbandono di Pink alla dimensione totalizzante e satura d’angoscia della stanza d’albergo. Da questo momento in poi è il suo turbinoso inconscio a prevalere, e gli eventi che ancora si succederanno attorno a lui verranno registrati come lontane interferenze. Pink, ormai chiuso nel suo Muro, si dibatte nel disperato tentativo di aprirsi una breccia. Con un riuscitissimo effetto ottico realizzato in truka, Pink adulto, ondeggiando sulla sua poltrona, si trasforma in Pink bambino. La regressione all’età infantile è quindi splendidamente raffigurata con una geniale trovata visiva, che sottolinea con efficacia l’affezione di Pink per il periodo della sua vita che gli è più caro. Significativamente Pink riesce a ritrovare veramente se stesso solo rigenerandosi attraverso un ritorno all’infanzia, dominata dalla più totale spontaneità e autenticità emotiva, unico appiglio a cui aggrapparsi con tutte le rimanenti forze, in un’ipotesi di ricostruzione. Il “rinato” bambino quindi si muove cautamente tra le vittime del conflitto mondiale, come a voler metaforicamente simboleggiare il continuo confronto con i fantasmi del passato. La felice trovata della regressione infantile di Pink culmina in una scena in cui, in una stupenda inquadratura dai toni seppiati, il bambino incontra in manicomio il suo alter-ego adulto

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chiuso in una cella e ormai definitivamente impazzito, con in mano il librettino nero delle sue poesie cui fa riferimento il testo. Un angosciante suono ripetitivo sottolinea la drammaticità e l’irrealtà di questo delirio, dal quale il bambino corre via terrorizzato. Il successivo brano, Vera, fa riferimento a Vera Lynn, una delle cui canzoni è stata scelta come colonna sonora per la prima inquadratura del film. Riporto estratti da un intelligente articolo di Gianfranco Melone uscito sulla rivista «Cymbaline»: Vi chiederete che relazione ci sia tra Vera Lynn, Stanley Kubrick e Roger Waters; la risposta è ovvia: THE WALL. Vera Lynn non è altro che quell’immagine di speranza che Waters evoca nel suo Muro: “C’è qualcuno qui si ricorda di Vera Lynn? Ricordate cosa diceva? Che ci saremmo rivisti in un giorno di sole…”. In effetti, Waters, in quel punto della sua complessa opera rock, rievoca un momento molto particolare del secondo conflitto mondiale: la speranza che la cantante Vera Lynn diffondeva tra le truppe inglesi con le sue canzoni a sfondo patriottico e sentimentale: che un giorno la guerra sarebbe terminata e sarebbero tornati a casa. […] Ma con Vera incomincia anche un discorso diverso che poi si svilupperà ne Il sogno del dopoguerra: e cioè la disillusione che tali momenti sono solo delle pause nelle proprie difficoltà, nei propri problemi. Analizzando il testo di Vera si nota che prima Waters rievoca quella speranza, ma poi sottolinea la disillusione: “Vera! Vera! Che ne è stato di te? C’è qualcuno qui che prova quello che sento io?”. Ma perché Waters utilizza la figura di Vera Lynn? Forse una risposta possibile la troviamo nel film Il dottor Stranamore, del già citato regista inglese Stanley Kubrick. Infatti, lo scomparso regista utilizza la figura di Vera Lynn per sottolineare che le esperienze di guerra non servono a nulla se l’uomo continua a progettare armi per combattere i suoi simili. Tema del film è infatti il rischio di una guerra nucleare. Kubrick sceglie una canzone di Vera Lynn per concludere il film, in particolare quella We’ll Meet Again che Waters citerà in THE WALL: “Does anybody here remember Vera Lynn? Remember how she said that WE’LL MEET AGAIN some sunny day”. E con la stessa introdurrà le poche rappresentazioni live. È noto l’impegno antinucleare di Waters soprattutto negli anni giovanili, quindi avrà sicuramente visto il film nel 1964 (anno di uscita nelle sale); inoltre si sa della stima che aveva nei confronti di Kubrick e del presunto contatto che ci fu con quest’ultimo per curare la colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio. Infine, si ricordi

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il tributo di Waters a Kubrick nel tour 1999 [intitolato guarda caso In The Flesh Tour, N.d.A.], durante il quale sugli schermi televisivi montati sul palco andavano in onda le immagini di 2001: Odissea nello spazio e Orizzonti di gloria. La conclusione è che Waters aveva bisogno di una figura che rappresentasse la speranza e la sua disillusione; figura che sembra avergli suggerito Kubrick nel citato film53.

Le immagini mostrano il ritorno a casa degli uomini dal fronte, con le famiglie che riabbracciano i loro cari. Anche Pink è in attesa e cerca con apprensione tra la folla, evidentemente ansioso di poter riabbracciare il proprio amato padre, ma il desiderio viene deluso quando il militare verso il quale si dirige speranzoso il bambino si gira: non si tratta di lui, e infatti viene subito raggiunto dalla propria moglie e dal proprio figlio. Pink rimane così desolatamente solo. Ora la folla presente alla stazione intona all’unisono Bring The Boys Back Home, un sentito inno alla pace. Alcuni violenti colpi ci riportano alla realtà nella camera d’albergo. Pink è immobile, con gli occhi chiusi, perso nel suo mondo alienato, sprofondato in poltrona. I colpi vengono dalla porta, che viene abbattuta. Il suo manager e un dottore fanno irruzione nella stanza. Il fatidico momento di andare in scena è inesorabilmente giunto. Le atroci e ferree regole del rock-business devono essere rispettate e si impongono con prepotenza su qualsiasi esigenza emotiva. Ma lo spettacolo lascia allibito il manager, che impreca: la stanza è semidistrutta, ci sono oggetti fracassati dappertutto e l’autore del disastro è sulla sua poltrona, all’apparenza assente. Il tema dell’assenza è il tema portante di WISH YOU WERE HERE. “E nulla avrebbe potuto illustrare questo pensiero”, ha scritto Storm Thorgerson, “con più forza e più significato dell’improvvisa e irreale comparsa di Syd, che arrivò ad Abbey Road mentre si registrava lo sfondo vocale di Shine On, che parlava di lui. Non lo vedevamo da sei o sette anni. Tuttora non capisco perché fosse ricomparso proprio allora, con quell’aspetto orribile, la testa rasata, gli occhi incavati, l’aria malaticcia, il corpo grasso e l’imbarazzante richiesta di potersi rendere utile in qualche modo. Ma non c’era più. Roger pianse. David pianse. Noi tutti rimanemmo a bocca aperta. Syd era così assente, e la sua assenza era resa più dolorosa dalla sua presenza. Sospetto che il senso dell’assenza avesse investito le relazioni personali all’interno della band. La sensazione agghiacciante che, nonostante ogni tentativo, alla fine si trattasse solo di gesti. Le persone cui volevamo bene erano fisi-

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camente presenti, ma erano emotivamente assenti, con la mente altrove. Neppure i Pink Floyd, ha sostenuto Roger in seguito, erano del tutto presenti, non erano del tutto uniti come band. Forse facevano solo dei gesti – presenti, ma assenti – ma questo non gli impedì di realizzare qualcosa di meraviglioso come Shine On”54. Nulla di più pertinente di queste parole del grafico Thorgerson per indicare un’assenza espressa attraverso una presenza che ne denota, appunto, la mancanza. Attorno alla rockstar Pink ci sono medici, infermiere, dottori, il manager, ma lui non c’è. È proprio lui, il perno di tutta la macchina, quello senza il quale non si può andare avanti, quello che non può assolutamente fermarsi pena la rottura degli ingranaggi, a essere assente. La macchina per fare soldi non può assolutamente arrestarsi e il dottore e uno staff di infermieri sotto le pressioni del manager, evidentemente interessato solo alle sorti dell’imminente spettacolo, fanno di tutto per rianimare la rockstar. L’uomo intima al medico di riportare Pink all’efficienza con ogni mezzo possibile, mimando un’iniezione, unico antidoto possibile contro lo stress dello spettacolo e del massacrante tour. Così gli viene fatta una puntura e Pink urla in un’inquadratura alternata a quella che mostra dei vermi, che rappresentano la decadenza della sua mente. La sostanza ha effetto, ma la mente di Pink è ancora persa altrove, come apprendiamo dal testo, in cui genialmente Waters canta che non c’è più dolore mentre ci si sta allontanando. Questa appare come una riflessione molto profonda: quando penetra il veleno, qualsiasi esso sia, fa ovviamente male, ma quando non c’è più dolore si supera lo stato in cui la sofferenza fa da “campanello d’allarme” per la guarigione e non c’è più possibilità di redenzione. Perché appunto si è “insensibili”, come recita il testo del brano. L’origine del titolo del brano, tuttavia, risale ancora a una delle massacranti serate del tour In The Flesh tanto odiato da Waters: quella sera il gruppo doveva esibirsi al Philadelphia Spectrum e il bassista soffriva terribilmente per dei crampi allo stomaco. Gli si prospettavano due possibilità: annullare lo show, con conseguenze disastrose, o affrontare il pubblico. Water, in linea con il suo spirito sempre combattivo, decise di assumere un analgesico che secondo le sue parole avrebbe potuto uccidere un elefante55. Così lo show poté andare avanti, ma il potente psicofarmaco tolse al bassista sensibilità alle mani e alle braccia, impedendogli di alzarle. Roger Waters: “Il verso: ‘Quando ero bambino ebbi una febbre, mi sentivo le mani come due palloni’ parla dell’indescrivibile sensazione del mio corpo du-

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rante un delirio da febbre alta che mi faceva sembrare ogni cosa intorno a me troppo grande. In un paio di occasioni in cui nella mia vita mi sono sentito vicino alla decomposizione ho provato una specie di delirio”56. James Guthrie, il produttore del disco, ricorda: “Tutti noi – incluso Roger – incoraggiavamo Dave a farsi venire qualche idea, e il giorno in cui arrivò con Comfortably Numb e cantò una melodia più alta degli accordi, fu fantastico”. David Gilmour: “Roger e io avevamo un buon rapporto di lavoro. Discutemmo molto, certo – qualche volta anche in modo piuttosto acceso – ma per disaccordi artistici e problemi musicali, non per cose riguardanti l’ego. Non discutemmo molto riguardo a chi dovesse essere la voce principale. Roger non si infastidiva per questo, e insieme realizzavamo ancora cose valide. Cose come Comfortably Numb sono davvero gli ultimi fuochi della collaborazione fra Roger e me: musica mia, parole sue. Avevo la parte basilare della musica già composta. Detti le parti a Roger. Lui scrisse le parole, tornò e disse: ‘voglio cantare questa linea, quest’altra invece possiamo allungarla con molte battute, così posso farla’. Risposi: ‘Ok, Roger, ci metterò qualcos’altro’”. Roger Waters si dimostra un po’ polemico al riguardo: “Karl Dallas scrisse un libro alcuni anni fa che mi fece infuriare, perché diceva che Dave aveva scritto una delle canzoni più potenti di THE WALL: Comfortably Numb. Non è vero… successe che Dave mi diede una sequenza di accordi, e volendo dare battaglia su questo, cosa che non voglio fare, potrei dire che scrissi la melodia e tutte le liriche. Nei cori Dave canticchiò una parte di melodia, ma sicuramente non la linea principale. Questo non ha mai rappresentato un problema per me; penso che Comfortably Numb sia una grande sequenza di accordi. Perché ne parliamo? Discutiamo di una cosa ormai futile”57. “Ho lottato molto per inserire l’orchestra in quel disco”, dice Ezrin. “La cosa fu un grosso problema per Comfortably Numb, che Dave vedeva come un brano più essenziale. Roger era dalla mia parte”. “Litigammo come pazzi per Comfortably Numb”, ha dichiarato Gilmour alla rivista «Rock Compact Disc». “Discussioni accesissime, per un sacco di tempo”. Alla fine, le parti raggiunsero un compromesso e Comfortably Numb presenta elementi delle due visioni. “Sul disco”, disse Waters ad Absolute Radio, “la prima strofa viene dalla versione che piaceva a Gilmour e la seconda da quella che piaceva a me. Abbiamo trattato e siamo arrivati a un compro-

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messo”58. Gilmour ricorda così la disputa a proposito del brano: “Avevamo delle discussioni, la peggiore delle quali fu a proposito di Comfortably Numb. Ce ne fu una a proposito di una traccia di batteria e basso che a Roger e Bob piaceva davvero. Io ritenevo che fosse troppo lenta, troppo sdolcinata. La rifacemmo innestandola nello stesso punto della traccia guida, e io pensavo che così fosse meglio. Roger e Bob rimasero sulle loro posizioni. Ne discutemmo. Tutti questi nastri si persero a Los Angeles; intanto io, Roger e Bob Ezrin andammo a cena in un ristorante italiano, urlandoci addosso per tutta la notte a proposito di questa fottuta e stupida traccia. Oggi non saprei descriverti le rispettive posizioni. Tirammo fuori un approssimativo compromesso. A volte eravamo ossessionati da cose ridicole come queste. Ma era questo il massimo delle discussioni che avevamo”59. Bob Ezrin osserva le cose da un’ottica distaccata: Comfortably Numb all’inizio era un demo di Dave – un brano in Do con un coro sublime e una strofa molto malinconica. All’inizio Roger aveva deciso di non inserire nel disco materiale di Dave, ma c’era bisogno di riempire alcuni punti. Lottai per Comfortably Numb e insistetti affinché Roger ci lavorasse. Il mio ricordo è che lo fece di malavoglia, ma lo fece. Tornò con questa strofa di parole pronunciate in tono un po’ monocorde e una lirica nel coro che per me rimane ancora come una delle più grandi mai scritte. Il matrimonio di quelle liriche con la melodia di Dave e i due assolo di chitarra, emotivamente spettacolari… ogni volta che ascolto Comfortably Numb mi viene la pelle d’oca”60. Per quel che riguarda gli assolo, David Gilmour ha descritto, per la gioia di tutti gli appassionati, il suo modus operandi: “Entrai in studio e ne suonai cinque o sei versioni”61. “E a quel punto seguii la mia solita procedura, che consiste nel riascoltare ogni singolo assolo e prendere nota di tutti i pezzi migliori. Poi, mixando i vari elementi metto insieme il meglio, finché tutto non scorre liscio come l’olio”62. Il brano fu poi sviluppato a Los Angeles. Ancora Gilmour ricorda: “Andammo a Los Angeles con due versioni della canzone e ne registrammo una prima traccia con la sola batteria che piaceva molto a Roger e a Bob, ma secondo me si perdeva un po’ in alcuni punti, così ne facemmo una seconda versione che mi piacque di più, e litigammo molto per decidere quale di queste due utilizzare. Alla fine utilizzammo pezzi di entrambe. Se mi facessi ascoltare oggi quelle due versioni non sarei affatto sicuro di coglierne la differenza, ma allora sembrava incredibilmente importante.

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Comfortably Numb può essere divisa in Luce e Oscurità: le parti in cui canto ‘When I was a child…’ sono la Luce, la parte ‘Hallo! Is there anybody in there?’, che canta Roger, è l’Oscurità – e sulla parte di Oscurità volli avere un po’ di chitarra grungey, mentre Roger e Bob volevano solo batteria, basso e orchestra. Ne discutemmo a voce alta, ma in quella occasione ebbi la peggio, ma sono ancora convinto che avevo ragione. Dal vivo ho sempre aggiunto un tocco più grungey”63. David Gilmour ricorda l’esecuzione di Comfortably Numb come uno dei momenti per lui più emozionanti dello show: “Era fantastico. L’intero pubblico era seduto, concentrato e attratto da Roger, e improvvisamente partiva questa cosa. Io ero già in piedi al buio e riuscivo a vedere tutto mentre salivo e guardavo verso il basso. Quando cominciavo a cantare e si accendevano le luci, dall’intero pubblico partiva un “Oh!” di meraviglia. Era straordinario. La realizzazione di THE WALL non fu proprio confortevole, ma fu magnifica. Ci sono molti malintesi sull’origine delle grandi ostilità tra me e Roger. Avevamo un rapporto altamente produttivo in termini lavorativi, che in THE WALL funzionò piuttosto bene. Ci confrontavamo su alcuni argomenti sui quali eravamo in disaccordo artistico. C’era l’intenzione di fare il miglior disco possibile”64. Anche Nick Mason concorda con Gilmour: “Non ho ricordi specifici di singole serate, e la ragione – a parte l’Alzheimer – è che si trattava dello spettacolo più provato che avessimo mai fatto. Si svolgeva assolutamente senza intoppi, pur essendo molto complicato. Quel che di solito si ricorda di un normale concerto è quando il pubblico risponde, e tu sai che ce la stai facendo. In THE WALL non potevamo vedere il pubblico, tranne in alcuni momenti: al posto del pubblico c’erano il pupazzo del professore o il muro completo. La cosa più forte di tutte era quando i fari illuminavano Dave in cima al muro. Perfino nel backstage si rabbrividiva”65. Per raccontare “visivamente” questo splendido brano, Parker immagina un “viaggio” nella mente di Pink, attraverso immagini oniriche e personaggi pesantemente truccati. La mente di Pink, lo capiamo dal sapiente montaggio alternato, è ingabbiata irrimediabilmente nei felici ricordi dell’infanzia. La sequenza oscilla sapientemente tra la realtà e il mondo onirico. Vediamo così il bambino che corre libero nella prateria, raccoglie un topolino e lo nasconde con cura a casa. Mentre i tentativi di rianimare Pink in quello che rimane della sua suite d’albergo si fanno sempre più frenetici, nella sua mente continuano ad avvicendarsi ricordi delle persone che han-

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no influenzato la sua vita: il maestro, la madre, il padre, il dottore. Tutti gli sfilano davanti, nel consueto scenario della radura ornata di filo spinato e martelli. Si tratta però di fantasmi, e il loro viso è truccato in modo marcato, a sottolineare la loro identità onirica. Rispettando fedelmente il testo, viene poi riproposto l’episodio relativo alla febbre di Pink bambino, e la figura del dottore di allora stabilisce un ideale collegamento con quella attuale. Anche ora è necessaria un’iniezione, ma la situazione è ben più grave. Come ci informa il testo, il momento di felicità, seppur intenso, è stato breve, ed è destinato a restare ineguagliato. È giunto quindi per Pink il momento di indossare i panni della rockstar e andare in scena. Il giovane viene vestito e letteralmente trascinato verso il luogo del concerto. Portato a spalla da due robusti roadies, Pink si trasforma lentamente in un essere putrescente e mostruoso. Il viso assume ancora una volta le fattezze anonime della maschera degli alunni che abbiamo già incontrato in Another Brick In The Wall (part 2). La sequenza è una tra le migliori del film e il make-up, che si avvale di un completo body-painting (un costume realizzato in lattice schiumato che ricopre tutto il corpo) realizzato da Martin Gutteridge e Graham Longhurt, mostra un progressivo decomporsi di Pink, con la materia putrescente che compare dapprima sul collo e poi si espande ovunque, fino una totale trasformazione in carne in via di decomposizione. Un’altra delle allegorie cardine del film è quella incentrata sull’immagine dei vermi, in questa sequenza rapidamente alternata alle inquadrature già utilizzate in Another Brick In The Wall (part 3) e Comfortably Numb. Waters ha spiegato che i vermi, che hanno mangiato il cervello del suo protagonista, sono la peculiare rappresentazione del decadimento. Il messaggio è che isolandosi si marcisce. Waters fa notare inoltre come nell’approssimarsi dello show nessuno si preoccupi realmente dei problemi di Pink, ma solo del fatto che ci sono migliaia di persone che hanno comprato il biglietto, e quindi lo spettacolo deve andare avanti a ogni costo. Roger ricorda di aver suonato in occasioni in cui era molto depresso e in altre nelle quali era molto malato, quindi in una totale assenza di sentimenti e di capacità espressive. Condizione peraltro condivisa da tutto il gruppo in studio dopo l’enorme successo di DARK SIDE, ed espressa nel successivo WISH YOU WERE HERE: “Nel gennaio del ’75, quando siamo entrati in studio e abbiamo cominciato a registrare, è stato tutto davvero laborioso e trava-

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gliato. Tutti sembravano essere molto annoiati dall’intera faccenda. Per qualche settimana non abbiamo badato alla noia generale, ma poi qualcosa mi ha fatto riflettere. Sentivo che l’unico modo che potesse far rinascere l’interesse per il progetto era quello di tentare di realizzare un album che si rapportasse a come stavano andando le cose tra di noi; c’era il fatto che nessuno di noi riusciva davvero a guardare negli occhi gli altri, e tutto si svolgeva in maniera molto meccanica […] Shine On in realtà non riguarda il solo Syd; lui è soltanto un simbolo degli estremi dell’assenza cui devono indulgere diverse persone, poiché questo è l’unico modo in cui possono tener testa alla tristezza delle loro vite… della vita moderna, che costringe a una totale assenza”66. Come conseguenza di tanto esasperato isolamento, anche i sentimenti di Pink si inaspriscono e si trasformano in vera e propria ostilità verso la folla che sta per affrontare dal palco. A causa della droga somministratagli dal dottore, l’esperienza del concerto assume di nuovo nella mente del musicista le caratteristiche di una grandiosa adunata nazista, con la rockstar trasformatasi nella figura di leader delle masse già vista in In The Flesh?. È lui il demagogo, è lui l’uomo carismatico che detiene il potere e detta legge. Ma questa ripresa dell’incubo visionario assume toni esasperatamente più aggressivi di quella precedente. La messa in scena è ora molto più sfarzosa e maestosa, e Bob Geldof canta In The Flesh? accompagnato da un coro e da una banda di ottoni, con tutti gli strumentisti rigorosamente in divisa. Sadicamente, il dittatore rivela al pubblico di avere brutte notizie: Pink non sta bene, è rimasto infatti in albergo. Allude esplicitamente alla parte positiva di sé, che è rimasta fuori dal perverso affare dello spettacolo. Ancora una volta Waters fa riferimento ai Pink Floyd, che a suo parere durante il tour precedente avevano subito una radicale trasformazione, dai vecchi Floyd che tutti conoscevano e amavano ai loro malvagi alter-ego. Ecco il perché della scelta metaforica di far suonare il brano a una surrogate band mascherata. Dietro tutto questo c’è ciò che accadde a Montreal nel 1977: l’idea che questi sentimenti fascisti nascano dall’isolamento. Waters afferma senza paura che è molto facile isolarsi e dall’isolamento nasce la corruzione di se stessi. Il risultato finale di questo tipo di corruzione è una sorta di fascistizzazione che Pink manifesta dall’alto del palco. Si accanisce contro le minoranze presenti tra il pubblico, omosessuali, ebrei e neri, semplicemente

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perché sono le minoranze più identificabili in Inghilterra. Durante il Summer Tour 2006 e, come vedremo, nel film Roger Waters – The Wall una bella trovata scenica raffigurava quest’idea. Waters indicava dal palco un punto ben preciso tra il pubblico sul quale convergevano tutte le luci a cono, suscitando la paura del malcapitato spettatore che si trovava così, suo malgrado, al centro dell’attenzione generale. Alla fine dell’infuocato comizio, il palcoscenico esplode con coreografici giochi pirotecnici, in un effetto che sembra desunto dalla migliore tradizione live della band. Il diverso, in accordo con la perversa ottica nazista, è l’essere inferiore contro il quale accanirsi, quello da “mettere al muro” per volere del dittatore Pink. E le sue guardie, i terribili skinhead denominati “hammer guards” con il distintivo a forma di martello sulle uniformi, eseguono puntualmente gli ordini, sguinzagliando feroci mastini contro i “diversi” indicati dal loro capo. Durante la successiva Run Like Hell la folla saluta il suo leader. Una folla ovviamente omologata, con la maschera di Another Brick In The Wall (part 2) che rende i visi tutti simili, riducendo l’anima comune della massa a un’unica stilizzazione iconografica. Vediamo poi i componenti della terribile banda di skinhead assaltare un bar “paki” per sfasciarlo, linciare un uomo di colore e violentare la donna con la quale stava amoreggiando in un’automobile. In Waiting For The Worms c’è ancora Pink nei panni del leader nazista, con un inquietante seguito di Hammer guards. Gli uomini, sotto la sua leadership, danno vita a un corteo lungo le strade della città, allo scopo di radunare fedeli e seguaci. Pink sale sul piccolo palco costruito apposta per lui dalle sue guardie e davanti a un enorme stendardo raffigurante il logo del movimento politico urla attraverso un megafono slogan contro le “checche”, i “deboli”, i “neri”. In una trionfante esaltazione degli ideali razzisti finora promulgati, il brano si pone quindi come una continuazione logica dei concetti radicali fin qui illustrati, oltre a sottolineare il simbolico avvicinarsi dei corrompenti vermi. Waters ha dichiarato67 di aver scelto i vermi come simbolo della decomposizione e del decadimento che avviene nella mente quando si cede alla solitudine. In origine, erano una tematica molto più presente nell’opera. A proposito del brano in questione, Waters ha affermato68 di essere stato influenzato dalla preoccupante ondata di violenza neonazista che ha invaso tanto la nuova Germania quanto la più conservatrice Inghilterra alla fine degli anni Settanta, e in particolare da una

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marcia del National Front, un gruppo inglese neonazista che propugnava la supremazia della razza bianca Non a caso nel disco, il brano parte da un conteggio in tedesco: “eins, swei, drei, vier”69. L’attenta analisi di Waters si trasforma qui in una denuncia sociale della radicalizzazione dei messaggi più estremisti della nostra epoca, in cui l’aspetto politico assume una precisa valenza. Il fascismo è infatti lo stadio ultimo della segregazione dietro il Muro. Ormai Pink ne è prigioniero. Incapace di opporsi, si lascia andare all’isolamento, che conduce irrimediabilmente alla decomposizione, e da ultimo giunge il fascismo, forma estrema di violenza contro se stessi e il mondo. L’altro viene quindi corrotto, forgiato, influenzato e in ultimo profondamente strumentalizzato grazie al ricorso a idee estreme, basiche ma efficaci, a meno che non si sia in presenza del “diverso”, che viene semplicemente soppresso e annientato. Non a caso il film, in una notissima sequenza animata, mostra una terribile marea di martelli che si riversa per le strade. L’idea è stata ispirata a Waters dalla visione di alcuni film di Leni Riefenstahl, regista ufficiale del Terzo Reich, e in particolare dal film Trionfo della Volontà, con le sue coreografie di giovani ariani dai capelli biondi e cortissimi. Tuttavia, Roger Waters sembra più affascinato dall’aspetto sociale e psicologico di una dittatura totalitaria e dalle implicazioni che portano uomini talvolta al limite della banalità, ma mossi da impulsi quasi sempre psicotici e quindi scissi da una malattia mentale (come nel caso di Hitler), a diventare dei leader indiscussi, osannati da masse che cercano qualcosa di “sacro”. “Il concept di THE WALL è un punto di vista che conviene alla gente. Il passo da leader a dittatore è molto breve”70, ha dichiarato Water circa la tematica dominante del film. Il suo punto di vista successivamente è diventato più positivo. In occasione del mastodontico concerto di Berlino ha infatti auspicato “che Berlino possa essere l’inizio di una nuova era. È assai sciocco ripercorrere la storia del Novecento per gettare la croce addosso ai tedeschi, avvalendosi dei noti stereotipi: ‘quanto è accaduto nel 1914 e nel 1939 è colpa loro, è un popolo inaffidabile, combineranno sempre dei guai, e così via’. Il nazionalismo è l’arma più a buon mercato alla quale possono ricorrere i mediocri politici, così da ottenere il consenso impressionando i creduloni o gli ingenui. Fino a qualche tempo fa, comportarsi da buon samaritano sembrava un atteggiamento anacronistico e patetico. Ma i figli dell’ultima generazione postbellica hanno capito che non devono ripetere i medesimi errori del passato. Forse fra un secolo si potrà considerare la Gran Bretagna il ‘modello sbagliato’ per an-

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tonomasia, e valutare il fascismo della Thatcher per quello che è: il nemico da combattere. Berlino può essere davvero il blocco di partenza di una corsa verso il domani”71. In occasione del lancio italiano del film Roger Waters – The Wall, in un’intervista andata in onda il 3 dicembre 2015 su La 7, Waters, ospite alla trasmissione Piazza Pulita, dopo essere stato presentato come “uno dei più grandi compositori viventi”, ha dichiarato tuttavia che la Seconda guerra mondiale fu l’unica necessaria, per contrastare l’avidità dei tedeschi. In occasione della suddetta trasmissione televisiva, alla domanda di cosa pensasse di Trump, all’epoca in corsa per le elezioni presidenziali americane, Waters ha risposto con sarcasmo: “Non ci penso, perché ho cose più importanti cui pensare… ma Trump si crede un gigante solo perché è alla vetta, senza accorgersi di quanto è piccolo”. Tornando al film, un urlo (“Stop!”) fa cessare bruscamente le animazioni che contraddistinguono il brano The Trial. È l’urlo estremo di Pink, l’ultimo segnale razionale di opposizione alla degradante discesa nella follia, contro il distruttivo operato dei vermi. La droga ha terminato il suo effetto, e la mente di Pink oscilla paurosamente tra la sua parte più razionale e il suo doppio psichicamente malato. È appunto la parte razionale che tenta di imporsi e di ristabilire l’ordine. Ci avviciniamo quindi a un finale liberatorio, non prima di un ultimo esame cui Pink sottoporrà se stesso e il suo operato a un vero e proprio processo, in risposta ai pressanti sensi di colpa che appesantiscono la sua anima. La parte oscura e paranoica del sé interiore di Pink deve essere prima di tutto portata alla luce e discussa. Pink, in uno stato mentale di confusione, si trova in uno dei bagni del complesso destinato al concerto, e inginocchiato accanto a un water dichiara la sua intenzione di sapere se è stato colpevole per tutto il tempo, dopo aver letto alcuni versi che saranno poi riutilizzati da Waters come parte del brano Your Possible Pasts nel disco successivo, THE FINAL CUT. L’unico modo per affrontare e sconfiggere i suoi opprimenti fantasmi interiori è farli rivivere dentro di sé, per dibattere le accuse più o meno gravi che ognuno ha da imputargli. Pink si sottopone così volontariamente a un surreale processo di derivazione kafkiana, con le parti di giudice, giuria e pubblico ministero incarnate dalla propria delirante immaginazione. È un dialogo che l’artista fa con se stesso e la sua fantasia rielaborando così il suo sofferto vissuto, come ultima soluzione per aprirsi un varco nel Muro che lo opprime. Durante The Trial rivivono quindi tutti i personaggi

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principali della storia, ognuno per attaccare ancora una volta Pink con argute recriminazioni e discutere definitivamente le sue colpe. Inevitabile un paragone con 8 e ½ (Italia 1963), terzo Oscar per il regista Federico Fellini, la cui scena finale (tra le più originali e copiate della storia del cinema) vede il protagonista fronteggiare tutti i personaggi che lo hanno accompagnato durante la sua ‘crisi’ creativa. Il primo ad apparire nelle fantasiosissime animazioni di Scarfe è il “Procuratore della Corona”, il cui intento è quello di dimostrare che Pink è colpevole del grave reato di aver mostrato sentimenti di natura umana. Intanto il Giudice “Vostro Onore il Verme”, formatosi da un insieme di brulicanti vermetti e dall’aspetto di un grosso, ondeggiante tentacolo, vuole sentire gli ‘accusatori’. Il primo teste chiamato a testimoniare in questo surreale e grottesco processo è l’insegnante, che ribadisce l’efficacia dei suoi drastici metodi, nel rammarico di non essere riuscito a portare a termine il suo lavoro con Pink, e conclude implorando di consentirgli di riempire di botte l’imputato. È poi la volta dell’arrogante moglie, che si trasforma in un’enorme scorpione che punge e ferisce Pink, e lo accusa di aver parlato troppo poco con lei, di non essersi aperto sufficientemente. Infine ecco la mamma, la quale è inevitabilmente indulgente nei suoi confronti e desidera stringere il figlio in un ennesimo, soffocante abbraccio, in una continuazione del suo opprimente amore. L’animazione ci propone un’eloquente ed efficace immagine delle braccia della donna che si trasformano in un massiccio muro che serra l’indifeso Pink. In ultimo, la sentenza di “Vostro onore il Verme” è una paradossale condanna a liberarsi dai sensi di colpa. L’unica “colpa” di cui si è macchiato Pink è quella di avere espresso la sua più profonda paura. Il giudice sentenzia così l’abbattimento finale del Muro, con Pink esposto inevitabilmente ai suoi simili. Solo reintegrandosi con la società e l’ambiente circostante e assumendosi le responsabilità conseguenti alla presa di cognizione della sua identità Pink potrà essere definitivamente liberato. Il contatto con l’altro deve quindi avvenire nel contesto di un decondizionamento che riporti alla situazione originale e al punto di partenza per la costruzione di un altro Muro, in un paradossale ciclo di eterno ritorno. Torna l’ottica watersiana del ritorno ciclico a una situazione di partenza, che come abbiamo visto è un elemento caratteristico dei lavori più importanti dei Floyd. In THE WALL il concetto è evidenziato dall’espediente della presenza di alcune

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parole alla fine del secondo disco (“Non è qui che…”) che si interrompono per continuare all’inizio del primo (“…abbiamo cominciato ?”). L’idea nel film è stata chiaramente eliminata, probabilmente per l’impossibilità stilistica di rappresentarla visivamente, ma è stata intelligentemente ripresa da Waters, come vedremo, nel suo Roger Waters – The Wall, e infine nel ultimo disco, IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?, uscito il 2 giugno 2017, quasi a bruciare sul tempo l’arrivo nelle sale cinematografiche del film di Gilmour girato a Pompei, avvenuta il 13, 14 e 15 settembre. Il primo brano dell’ultimo lavoro discografico di Waters, infatti, When We Were Young, autocitazione evidente della prima strofa del brano The Happiest Days Of Our Lives, presenta una sovraincisione della voce di Waters che ripete ossessivamente, oltre titolo del brano, altre più o meno riconoscibili frasi, fra cui “sono ancora spaventato”, che ritornerà come eco finale del brano di chiusura Part Of Me Died. Torniamo al film di Alan Parker. Le immagini animate della sequenza del processo dissolvono ora in un rapidissimo montaggio di inquadrature già viste, insieme ad altre escluse dal montaggio finale. La somma logica di tutto quello che si vede sullo schermo è quindi un’ideale ricapitolazione degli eventi che hanno contribuito alla creazione del possente e massiccio Muro che appare inesorabilmente in dissolvenza alla fine della rapida carrellata di inquadrature. Il Muro è qui, davanti ai nostri occhi, terribilmente solido e invalicabile. L’inquadratura viene mantenuta per il tempo insolitamente lungo di circa trenta secondi, creando l’effetto di un’attesa spasmodica nello spettatore, per poi esplodere alla fine in modo spettacolare, con un urlo in sottofondo a esaltare la scena. In origine Waters aveva deciso di concludere il disco e il film con il Muro intatto, ma poi, convinto da Bob Ezrin, decise di abbandonare quest’idea troppo estrema in favore di una conclusione più liberatoria e rassicurante. Bob Ezrin è stato fondamentale nella strutturazione concettuale del disco. “Incontrai Roger grazie alla mia amicizia con sua moglie Carolyne, che una volta aveva lavorato per me [Era stata la sua segretaria, N.d.A.]. Durante il tour di ANIMALS fecero tappa a Toronto, dove vivevo”, ricorda Ezrin. “Con la limousine con cui si spostava in tour, Roger Waters mi venne a salutare, parlandomi, tra l’altro del senso di alienazione che gli proveniva dal pubblico e del desiderio concreto di mettere un muro che lo separasse dagli spettatori. Lo richiamai e gli chiedi con leggerezza: ‘Beh, perché non lo fai?’. Diciotto mesi più tardi mi chiamò chiedendomi di andare

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a casa sua per parlare della possibilità di lavorare insieme su questo progetto chiamato THE WALL”72. “In parte Bob Ezrin aveva il compito di mediare tra Roger e me. I suoi interventi erano numerosi e importanti”, ricorda David Gilmour. “Ovviamente, Roger fu uno dei produttori principali, perché l’idea era sua ed era anche molto, molto bravo in molte cose che avevano a che fare con la produzione, come le dinamiche pubblicitarie e via dicendo. Ma io sono sempre stato uno dei produttori dei dischi dei Pink Floyd, e se sulle liriche non avrei molto da argomentare con Roger, penso di saperne molto di musica, come nessun altro dentro e fuori la band, e posso certamente dire la mia con non poca convinzione”73. Durante una session lunga una notte intera, Bob Ezrin si ‘aggirò’ tra i demo di Roger Waters: “Quella notte scrissi il soggetto per un immaginario film di THE WALL, del tutto diverso dal film che sarebbe poi stato davvero realizzato; non aveva nulla a che fare con quello, del tutto in contrasto con l’idea di codificarlo in qualsiasi immagine fissa. Dunque, avevo creato uno sviluppo narrativo sonoro – lo vedevo, più che sentirlo – e organizzai tutti i brani di musica che avevamo, più altri non ancora pronti, oltre a effetti sonori e dissolvenze incrociate, ottenendo una storia omogenea. Capii chi fosse il protagonista principale e giunsi alla conclusione che avevamo bisogno di non indicarlo in prima persona, letteralmente, e dovevamo indicarlo attraverso un linguaggio figurato – riesumando il vecchio Pink al quale la band aveva fatto riferimento in passato74. Il giorno dopo arrivai con questo soggetto – che, a proposito, è nella Rock and Roll Hall of Fame – lo mostrai a tutti e organizzammo un tavolo di lettura di THE WALL. Era tutto un altro modo di fare musica, ma aiutò davvero a cristallizzare il lavoro. Da quel punto in poi non brancolammo più, lavorammo a un progetto ben definito”. Waters ricorda che “la struttura di base non cambiò. Alcune canzoni cambiarono molto, altre – Don’t Leave Me Now, Is There Anybody Out There?, Mother – sono quasi del tutto uguali a com’erano in origine”. Ricorda ancora Ezrin: “Quando uscimmo dalla casa di Roger per andare in studio, ci fu un grande sforzo di collaborazione. Ognuno diceva la sua e contribuiva. Talvolta era molto eccitante. Spesso avevamo degli scontri che andavano avanti per settimane, con argomentazioni furiose, sull’approccio a una tale canzone. Scontri che, essendo loro inglesi e io canadese, avvenivano tra ‘gentiluomini’, ma nessuno cambiava idea. E la conclusione, quando c’era quel tipo di conflitto – la sintesi di punti di vista opposti – era molto più forte e corposa dell’idea originale”.

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David Gilmour ricorda così quelle sedute in cui si sceglieva il materiale dai demo di Waters: “Seduti e litigando, per la verità. Qualcuno diceva: ‘Questa cosa non mi piace molto’, qualcun altro era invece d’accordo. Roger allora si imbronciava e il giorno dopo tornava con qualcosa di brillante. In questo fu piuttosto bravo durante THE WALL – lo fu meno durante le registrazioni di THE FINAL CUT. Alcune delle canzoni – ricordo Nobody Home – vennero fuori proprio così: si innervosiva per un rifiuto e tornava con qualcosa di veramente fantastico il giorno dopo. Spesso è bene essere sollecitati quando si è arrabbiati”75. “Roger fu messo sotto pressione perché producesse altri pezzi – ‘Non è ancora buono… fai qualcos’altro’… In questo modo scrisse alcune delle cose migliori. Lavorammo a lungo, per quattro mesi. L’idea era così notevole e così abbondante il materiale letterario che Roger intendeva inserire nel lavoro, che l’unica soluzione possibile era quello di un album di canzoni semplici, spesso basate su lineari arrangiamenti di chitarra… e abbiamo anche faticato a contenere tutto in un doppio album! In più, si trattava pur sempre di cose che non avevano conosciuto il rodaggio del palcoscenico”76. Roger Waters: “A loro piacerebbe credere, per qualsivoglia ragione, che la realizzazione di THE WALL sia scaturita da una collaborazione di gruppo – va bene, si lavorò insieme, ma non ci fu cooperazione con loro. Non fu in alcun modo un processo democratico. Se qualcuno aveva una buona idea, la accettavo e forse la usavo, nello stesso modo in cui se qualcuno scrive e dirige un film spesso ascolta quello che hanno da dire gli attori. Per me è un po’ come nel libro La fattoria degli animali, con la lotta dei maiali su chi fosse più uguale degli altri. Dopo che ho lasciato il gruppo si sono premurati di chiarire che THE WALL non era affatto opera mia e che lo avevamo fatto tutti insieme. Non è propriamente vero. È così chiaro. Credo che THE WALL sia una grande opera e ne sono veramente orgoglioso. No, non tornerò più su questi argomenti. […] Rick non diede alcun apporto, a parte l’esecuzione di strane parti di tastiera, mentre Nick suonò la batteria con un piccolo aiuto dei suoi amici. E Dave, sì, Dave suonò la chitarra e scrisse le armonie di un paio di pezzi, ma davvero non diede alcun altro apporto. Lo abbiamo prodotto, direi, Ezrin e io. La collaborazione con Ezrin fu abbastanza fertile, il suo contributo fu grande, e anche Dave fu accreditato della produzione. Sono sicuro che ebbe a che fare con la produzione del disco; aveva idee molto diverse dalle mie. Ma in verità ci fu un solo leader: io”77.

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Nick Mason: “C’era davvero una band che lavorava a un disco. Forse con qualche disfunzione, ma credo che molte band abbiano delle disfunzioni. Ci sono sempre state, in tutte le band. Va sfatata l’idea che tutto sia come nel film dei Beatles Help!. La vita non è come è rappresentata in quel film ed è molto difficile il processo di scioglimento di un gruppo, oppure che qualcuno abbandoni con dolcezza. Grande merito va ai Genesis, che hanno evitato tutto questo. A volte mi sento come il cuoco di una nave: vedo arrivare e andar via diversi comandanti, e quando le cose si fanno difficili, me ne torno in cucina”78. L’ultimo brano del film, che funge anche da colonna sonora dei titoli di coda, è Outside The Wall, in cui è puntualizzata la differenza sostanziale che esiste tra uomini dal cuore sensibile: gli artisti e gli individui normali. Waters sembra così dividere in due parti ben contrapposte l’umanità. Solo i primi sono in grado di attraversare il Muro e porgere conforto affettivo a chi si trova al di là. Le immagini finali mostrano un gruppo di bambini che si muove tra le macerie di un edificio bombardato e caricano sui loro camion giocattolo i mattoni (veri) che raccolgono tra la polvere. Gli orrori della guerra per questi delicati bambini sembrano non esistere, ridotti come sono ridotti all’innocenza di un gioco, e l’ultima inquadratura consiste in un fermo immagine di un bambino che vuota simbolicamente il contenuto di una bottiglia molotov, nella speranza che ai suoi occhi le brutture dell’umanità raccontate attraverso le esasperate tematiche del film non giungano mai. È la speranza di un mondo migliore, senza Muri ad allontanare le persone e i loro sentimenti. La prima di THE WALL si tenne il 14 luglio 1982 all’Empire Theatre di Leicester Square di Londra e fu un grande evento mondano; il prezzo dei biglietti andava da trenta a cinquanta sterline e il ricavato fu devoluto al Nordoff-Robins Centre per bambini handicappati. Erano presenti Geldof, Parker e Scarfe, oltre a rockstar come Pete Towenshend e Sting. Dei Pink Floyd erano presenti Roger Waters, vestito con abito da sera, David Gilmour in giacca senza cravatta e Nick Mason, in jeans e maglietta. Richard Wright era ufficialmente “in vacanza”, ma in realtà era già stato allontanato dal gruppo. È stato osservato che l’abbigliamento scelto per l’evento dai vari membri rispecchiava perfettamente la dedizione che ognuno di loro aveva nei confronti della band in qiel periodo. L’apparizione dei tre musicisti sul palco reale fu salutata dal pubblico con una stan-

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ding ovation. Curiosamente, il giorno della prima coincise proprio con il ritorno a casa delle truppe dalle isole Falkland, trenta giorni dopo la fine del conflitto tra Inghilterra ed Argentina. Le scene di guerra del film, in particolare quelle di Bring The Boys Back Home, si arricchivano così di un valore morale supplementare. Il film ebbe un successo straordinario, battendo al lancio molti record di incassi ai botteghini, ma la critica lo definì troppo autoindulgente, controverso, difficile e pretenzioso. Indubbiamente, la trasposizione cinematografica esalta aspetti della storia appena abbozzati nel disco, come la megalomania di Pink, che rispecchia l’ego-trip finale di Waters, come l’ha definito Peter Jenner, manager dei Floyd ai tempi di Barrett, che non credeva assolutamente nel successo del gruppo dopo l’abbandono del suo fondatore originale. Stilisticamente il film è un alternarsi di situazioni molto forti, con un velocissimo avvicendarsi di inquadrature a effetto, come una serie di numerosi video stile Mtv cuciti insieme, in anticipo di molti anni sui tempi. Il simbolismo dell’album rappresentato sullo schermo non lascia adito a supposizioni, fornendo una galleria ineludibile di immagini estreme, degne del miglior cinema tout-court. Vermi, vagine dentate e sangue in gran quantità, oltre a trasformazioni da film horror, abbondano in un greve succedersi di efficaci situazioni estremamente forti, assediando lo spettatore dall’inizio alla fine. Alan Parker era del resto il regista ideale per THE WALL, essendo specializzato nella trasposizione cinematografica di musical di grande successo, come successivamente farà con Evita (Usa, 1987, vincitore di 3 Golden Globe come miglior film, migliore attrice, migliore canzone originale, premio Oscar per la migliore canzone originale You Must Love Me, cantata da Madonna, protagonista nel ruolo di Evita Peron insieme ad Antonio Banderas nel ruolo del “Che” Guevara e Jonathan Price in quello di Juan Peron). In comune con la musica dei Floyd, il suo cinema ha da sempre prediletto e affrontato tematiche quali l’assurdità e la brutalità della guerra, la follia e l’alienazione come unica risposta al mondo moderno, la diversità come rifugio dell’individuo ipersensibile, che sono esattamente le stesse che ritroviamo al centro dei nuclei tematici lirici degli album del gruppo, che proprio in THE WALL vengono estremizzati fino a elevatissimi livelli drammatici. THE WALL si pone così concettualmente come summa degli album che lo hanno preceduto, dai quali estrapola e amplia gli argomenti principali. THE DARK SIDE OF THE MOON è presente con la tematica della schizofrenia

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che si insinua tra le grigie pieghe dell’esistenza e della quotidianità, ma anche con la possibilità sempre crescente di trovare definitivamente rifugio nella follia dagli stress e dalle ansietà della pressante vita moderna, con una critica alla spersonalizzante tecnologia. “THE WALL si occupa di alienazione”, ha dichiarato Waters, “e ognuno di noi, singolarmente, deve capire che siamo sulla stessa barca, e che verosimilmente mediante le nostre comunicazioni via Internet avremo la possibilità di stabilire un’unica interpretazione dei dogmi economici e religiosi che in senso generale frammentano il mondo, e a livello personale soffocano le nostre capacità”79. Con THE WALL, l’idea viene dilatata fino alle estreme conseguenze logiche: il ritrarsi dalla vita è appunto totale, e l’alienazione irrompe con tutta la sua forza sovversiva per alterare il reale e dissacrarne i significati, invertendoli. Anche il nucleo tematico portante di WISH YOU WERE HERE, l’assenza, viene qui intesa come totale mancanza di energia psichica e di carica emotiva da parte del protagonista, ingabbiato nel labirinto della sua mente folle. Infine, è presente la visione cinica dell’umanità espressa da Waters in ANIMALS, che viene qui sublimata in un costante attacco alle istituzioni, mostrate appunto come repressive e soffocanti, prime dolorose alterazioni alla delicata struttura psichica del singolo durante la sua crescita, quasi predestinato fin dalla nascita a fuggire rintanandosi in un bozzolo schizofrenico di rassicurante isolamento. Le prime immagini a vedere la luce furono quelle animate ideate e dirette da Gerald Scarfe. Il grafico inglese aveva già anticipato The Wall in una parodia del sistema scolastico britannico con uno dei suoi famosi cartoni animati. Ma fu un successivo lavoro del 1971, una parodia del consumismo americano intitolata Long Drawn Out Trip, a colpire positivamente Waters, impressionandolo al punto da contattare Scarfe perché si occupasse delle animazioni per i concerti del gruppo, a dimostrazione della sensibilità di Waters per ogni forma d’arte, inclusa quella figurativa. Furono così realizzati i filmati di accompagnamento di alcune sezioni di THE DARK SIDE OF THE MOON e Welcome To The Machine, utilizzati come back projection durante tutto il tour ’75-77, che ritraevano creature da incubo che si muovevano in scenari apocalittici. “In passato avevo realizzato un filmato per Wish You Were Here, e divenni molto amico di tutti loro”, ricorda Geral Scarfe. “Dopo che Roger ebbe scritto THE WALL, venne da me per farmi ascoltare i demo che aveva realizzato su nastro. Disse che voleva trarne un album, uno spettacolo e un film. Aveva le idee molto chiare al ri-

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guardo. Un paio di birre e cominciò a divagare (come me del resto…) circa le cose che gli erano accadute e che lo avevano sconvolto. Sembravamo capirci. Mi piace il sense of humor di Roger – è piuttosto mordace, pungente, tipicamente inglese; esattamente come il mio: una cinica concezione della vita estremamente arguta. È una di quelle persone meravigliose che capiscono che quando si ingaggia un artista in effetti si compra quello che l’artista fa, quindi non gli va detto cosa deve fare. Ovviamente si discuteva, ma erano scambi che nascevano sempre da cose concepite e illustrate da me. L’idea di usare i pupazzi gonfiabili era qualcosa che la band aveva concepito in precedenza, ma i disegni erano tutti miei. Prima di tutto dovevo decidere quale aspetto dovesse avere Pink. Lo vedevo come un piccolo gamberetto in embrione, come una figura molto vulnerabile, perché la maggior parte della vicenda si occupava di come si può erigere un muro per difendersi da ciò che più fa male. Realizzai la moglie di Pink come un serpente che attacca e morde, ma non ho idea di come fosse l’ex moglie di Roger, per cui non fu lei il modello. Per il personaggio del maestro mi ispirai vagamente a un insegnante che avevo conosciuto. La madre aveva invece un rassicurante design anni Cinquanta, con braccia molto massicce che a un certo punto diventano il muro stesso. I martelli mi vennero fuori mentre cercavo un’immagine molto crudele, irriflessiva, qualcosa che potesse essere manovrato senza alcuna mediazione razionale e quindi non potesse essere fermato, da cui scaturì anche l’idea di farli marciare goffamente. C’era anche dell’humor, che spero sia arrivato al pubblico, ma nel complesso l’idea era piuttosto tetra. Come del resto mi sembra lo fosse l’intera storia. Goodbye Blue Sky è una delle mie animazioni preferite, un triste peana sulla crudeltà della Seconda guerra mondiale. Durante la guerra ero un bambino, ma capivo la gravità dei bombardamenti, il significato dei bombardieri e delle maschere a gas: a noi bambini, per non farci spaventare, ce le davano a forma di Topolino, ma il loro effetto era comunque claustrofobico. Disegnai delle creature chiamate The Frightened Ones (gli Spaventati), le cui teste erano costituite da maschere a gas e scappavano nei rifugi anti-aereo. L’animazione, secondo me, non doveva essere come i coniglietti di Walt Disney che corrono – per me, non ha limiti: è e dev’essere surreale. La regia delle animazioni è molto complicata e richiede molto tempo: il lavoro durò più di un anno”80. In The Wall la fantasia delirante del grafico era destinata a esplodere, dando vita a una serie di invenzioni difficili da dimenticare, come appunto

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quella degli Spaventati, con i quali esorcizza il suo incubo infantile in cui simili personaggi lo perseguitano nella Londra della guerra. Messo in piedi uno studio a Fulham Road con il solo scopo di realizzare le animazioni per il concerto e il film, Mike Stuart, Jill Brooks e altri quaranta animatori adattarono lo stile personalissimo e unico di Scarfe (ispirato al «Sunday Times», con tratti di penna appena abbozzati) a una traccia che fossero in grado di riprodurre e nel giro di un anno ultimarono tutti i filmati, che erano quindi pronti per essere utilizzati negli spettacoli dal vivo, proiettati sul grande muro di cartone bianco largo cinquanta metri e alto più di dieci che veniva innalzato durante lo show. Infatti, all’epoca dei concerti, Waters immaginava ancora il film come estensione dello spettacolo, ovvero una combinazione di filmati dal vivo dei Floyd, più scene e narrazioni supplementari. Pensava inoltre di interpretare lui stesso il personaggio principale di Pink. Il tour fu di dimensioni faraoniche. Oltre al già citato Muro in mattoni di polistirolo, la messa in scena comprendeva anche l’installazione di enormi pupazzi grotteschi disegnati da Scarfe, che rappresentavano i cattivi della storia: il maestro, la madre, la giovane moglie di Pink. Tuttavia, il successo dell’album e del tour non fu tale da convincere i produttori cinematografici della Emi. Fu allora che l’inglese Alan Parker (fra i cui film ricordiamo Fuga di mezzanotte (Usa, 1977), Birdy le ali della libertà (Usa, 1985), Saranno famosi (Usa, 1980) oltre al già citato Evita”), grande appassionato della musica dei Floyd, telefonò alla Emi con l’intenzione di dare suggerimenti e fu messo in contatto con Waters. Dato il suo impegno alla regia di Spara alla luna (Usa, 1981), si propose come coproduttore del film insieme a Roger, suggerendo il suo direttore della fotografia Michael Seresin come regista insieme a Scarfe. Nel febbraio 1981 Parker e Seresin si recarono in Germania per assistere agli spettacoli in programma a Dortmund. Parker rimase affascinatissimo tanto dalla sontuosa messa in scena quanto dai significati che comunicava. Rimase particolarmente impressionato dalla perfetta sincronia tra effetti scenici e musica, molto difficile da ottenere dal vivo. Nel concerto tutto, com’è nel carattere di Waters, doveva funzionare alla perfezione, anche perché naturalmente non c’era una seconda possibilità. Non a caso Waters si esibiva con un paio di cuffie per controllare che tutti gli strumentisti fossero in sintonia tra loro, con lui e con i filmati proiettati sullo schermo. Il gigantismo dello show di THE WALL e la ferma intenzione del suo au-

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tore di non esibirsi in stadi fecero sì che il gruppo si esibisse in poche arene: la Los Angeles Sports Arena, il Greater Nassau Coliseum di New York per l’America (entrambi nel febbraio del 1980), Earl’s Court a Londra per l’Inghilterra (agosto ’80 e poi ancora giugno ’81) e Wastfallenhalle a Dortmund, in Germania Occidentale (febbraio ’81). A tutt’oggi quello fu il spettacolare show dei Floyd: 45 tonnellate di equipaggiamento, 106 decibel di suono quadrifonico, un bombardiere, i pupazzi gonfiabili di Gerald Scarfe e altri suoi mostruosi burattini, una surrogate band in maschera e 340 mattoni eretti da ascensori idraulici celati in un muro delle dimensioni di 160 per 35 piedi81.Waters si è sempre trovato a suo agio tra le difficoltà, i numeri e gli impianti complessi che le messe in scena degli spettacoli richiedevano. “Mortali (e Floyd) con minor forza d’animo avrebbero vacillato sotto la morsa di simili minuzie”, ricorda Nicholas Schaffner. “Dietro il palco, prima di uno spettacolo, il suo amico del «Melody Maker» Karl Dallas lo udì per caso mentre dava istruzioni ai tecnici: “Voglio che il fumo incominci esattamente alle parole ‘All tight lips and cold feet’… e voglio tutto il fumo che potete tirare fuori. Non voglio che il pubblico veda il maiale prima dell’assolo ad alto volume di Dave…”82. Roger Waters ha dichiarato: “Gli altri compagni della band non ebbero nessun ruolo nell’ideazione dello show. A loro piace pensare il contrario, ma non fu così. Se si legge il programma dello show, nella pagina interna è scritto: ‘The Wall, scritto e diretto da Roger Waters, eseguito dai Pink Floyd’, come davvero era. Non ero interessato a lavorare in gruppo con qualcuno. Cominciai a lavorare con Gerald per vedere che tipo di idee avesse. Probabilmente dalle sue idee sulle animazioni venne fuori anche quella che si sarebbe potuto realizzare un film da tutto ciò. La sceneggiatura che cominciai a scrivere era ambientata nel mondo del rock’n’roll, con noi musicisti che suonavamo e bombardavamo il pubblico – una cosa strana, surreale – e tale rimase fin quando nel progetto non subentrò il regista Alan Parker, che ci indusse ad abbandonare l’idea di utilizzare immagini della band in concerto per optare per una narrazione più diretta, con attori e personaggi cinematografici”. Rick Wright aveva parere positivo sulla realizzazione dello spettacolo: “Vidi che il concept originale di Roger per lo show prevedeva la costruzione fisica di un vero e proprio muro tra i musicisti e il pubblico e che i musicisti se ne andassero fregando il pubblico… ma una volta che il muro era ultimato e su di esso erano proiettate le immagini, con dei mattoni mancanti che permettevano di vedere i musicisti, il muro stes-

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so diventava un’originale e ottima trovata teatrale”. Ma il più impegnato era David Gilmour, per l’occasione anche direttore musicale: “Mi immagino cose come Spinal Tap che escono più tardi con il loro personale e meraviglioso Stonehenge, ma sembrava che tutto avesse un termine e una fine, un significato e un limite, e se doveva fermarci la derisione altrui, ci avrebbe fermati molti anni prima di quella trovata. Gli show erano terrificanti. Mi divertii molto durante quel tour. Durante i trenta e più spettacoli che eseguimmo, mi rendevo conto delle reazioni che riesce a imporre qualcosa di così coreografico. In realtà non c’erano molti momenti per lasciarsi andare alla musica, ma bisognava considerare lo show come un qualcosa di nuovo e diverso, teatrale e musicale insieme. Ero inoltre responsabile di tutti i meccanismi che lo facevano funzionare. Per i primi show avevo un foglio promemoria lungo sei piedi disteso sul mio amplificatore. Lo imparai talmente bene a memoria che sapevo perfettamente come dovevano succedersi i vari eventi dello spettacolo, che potevano provenire da un altoparlante – monitor sul pavimento o da un’animazione dietro di noi. Inoltre avevo un’unità di controllo elettronica per sincronizzare le piste digitali sul mio equipaggiamento e su quello di Roger, di Rick e di Snowy White. Ero tanto indaffarato che non mi accorgevo nemmeno vagamente di quello che mi succedeva attorno. […] Un duro lavoro. Necessità molto, molto specifiche. All’inizio, sui miei amplificatori, c’erano un sacco di fogli pieni di appunti, perché ogni canzone aveva bisogno di differenti messe a punto per i quattro musicisti sul palco. C’erano diversi sistemi di messa a punto. Attraverso la mia spia mi giungeva un ‘click’, ed era così che tutti sul palco sapevano cosa fare e quando. All’inizio e alla fine di ogni brano tutti guardavano verso di me per avere il segnale di passaggio alla messa a punto successiva. Fare il musicista, il chitarrista, il cantante e tener testa a tutta quella tecnologia non era un lavoro facile. Ricordo il nervosismo e la speranza che tutto andasse per il verso giusto83. Bob Ezrin, invece, nonostante il duro lavoro eseguito, visse un momento non facile: “Mi fu chiesto di partecipare ai concerti e non mi riuscì, perché stavo lottando per la custodia dei bambini. Quello e un altro incidente (ingenuamente ricevetti una telefonata da un amico che non sapevo essere giornalista e gli diedi involontariamente delle informazioni riservate sulla band) fecero arrabbiare Roger, che già era molto nervoso anche per la situazione di Rick. Questo è quanto accadde: mi fu proibito l’accesso al backstage. Ci andai lo stesso; New York era una sorta di territorio di mia

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proprietà, perché tutta la security di quel posto mi conosceva da quando lavoravo con i Kiss e con Alice Cooper. Quando però mi presentai, la security dei Pink Floyd disse: ‘Lui non può entrare’, quella del Nassau Coliseum rispose: ‘Come sarebbe non può entrare!?’. Dovetti così comperare il biglietto, ma riuscii ugualmente a vedere lo show. Durante Comfortably Numb, quando Dave suonò l’assolo in cima al muro, scoppiai in lacrime. Per me era l’incarnazione di tutto il lavoro svolto. In ultima analisi, realizzammo quello che si può definire a ragione il miglior lavoro rock del decennio, forse uno dei più importanti album di sempre del rock”84. Per il film, invece, Waters cercò invece di apprendere il linguaggio cinematografico studiando un manuale di sceneggiatura. Quindi lavorò intensamente per settimane con Scarfe nel piccolo studio di questi a Cheyenne Walk, allo scopo di scrivere e disegnare scene per un copione di trentanove pagine, completo di storyboard, come base per un libro stampato privatamente per attrarre possibili finanziatori. Il libro faceva riferimento a “Pink” per le scene di animazione e a “Roger” per le scene filmate dal vivo. Ma Waters non aveva nessuna dote di attore. Non ancora, almeno. I provini che Parker effettuò su di lui eliminarono ogni dubbio al riguardo. La prima difficoltà fu quindi quella di convincerlo ad abbandonare l’idea di incarnare il personaggio di Pink e sostituirlo con una figura abbastanza caratterizzante. Parker si ricordò di alcuni video del gruppo di New Wave irlandese Boomtown Rat, la cui popolarità in quel momento era all’apice, che lo avevano colpito per l’aspetto del cantante Bob Geldof. Gli propose la parte, l’accettò immediatamente. “Fu una buona scelta”, ricorda Gilmour, “vedemmo il suo provino nel quale recitava il dialogo nell’aula del tribunale del film Midnight Express, ed era brillante”85. Nel frattempo, i Pink Floyd avevano messo in scena THE WALL a Earl’s Court a Londra con il preciso intento di ricavarne scene da inserire nel film. Ma i filmati furono, secondo Parker, un disastro totale. Ormai, però, presa la decisione di affidare ad altri il ruolo di Pink, il film cominciava ad assumere un’identità più tipicamente cinematografica e narrativa, e Waters fu costretto a concordare con Parker che sarebbe sembrato troppo incongruo che il risultato finale fosse sia un cartone animato di Scarfe che un concerto dei Floyd. Furono eliminati così anche i pupazzi di Scarfe. Ora il progetto aveva assunto una vita autonoma, un’identità prettamente ed esclusivamente filmica che sarà alla base del suo successo. Parker decise quindi di assumersi in prima persona il compito della regia. Seresin uscì di scena, e

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Alan Marshall subentrò come produttore. Ma il problema principale erano ancora i finanziamenti. Parker fu costretto quindi a rinunciare al campanilistico desiderio di farne un film tutto britannico e si recò ad Hollywood, trovando accordi con la MGM, che lo avrebbe distribuito. I Floyd avrebbero invece finanziato gran parte dei dodici milioni di dollari di budget. Waters era quindi comprensibilmente diventato molto geloso nei confronti del film e la sua personalità ferrea e determinata entrava spesso in contrasto con quella altrettanto motivata di Parker, tanto che la lavorazione il film andò avanti tra mille litigi, in un’atmosfera di fuoco e, stando alle testimonianze degli assistenti di Parker, carica di recriminazioni puerili, con regista e produttore da una parte e Waters e Scarfe dall’altra a litigare. Secondo Bob Geldof “il risultato fu perfetto, proprio perché era il frutto della rivalità tra Waters e Parker. Fra loro c’era odio allo stato puro”86. Ricorda Roger Waters: “Le riprese di THE WALL hanno segnato il periodo più snervante della mia vita, se escludiamo quello del mio divorzio, nel 1975… Finite le riprese, mi chiusi in sala di montaggio e vidi il film dall’inizio alla fine, bobina dopo bobina87. Quando vidi per la prima volta il film completo, pensai che Geldof lo aveva interpretato molto bene e che Parker lo aveva diretto con altrettanta competenza, ma mi resi conto che Pink mi era distante, non mi riguardava, e non provavo niente per lui… e se non ti importa niente di Pink, allora non ti interessa neanche la sua testimonianza sulla natura totalitaria dell’iconografia rock, né di suo padre morto in guerra. Se vado al cinema e non m’importa niente dei personaggi che vedo sullo schermo, allora vuol dire che sto guardando un brutto film”88. Il parere di Waters negli anni è diventato più positivo. Ha infatti dichiarato in una più recente intervista: “Una volta ebbi un’odiosa conversazione con Alan Parker: disse che un film perfetto è fatto da cento minuti perfetti. Capii perché avevamo dei problemi. Occorrono tanti e tanti minuti imperfetti per farne cento perfetti. Ed è ciò che penso del film. Si tentava di riempire ogni minuto di interesse e azione; ritengo che sia difficile guardarlo. Vederlo mi tramortisce. Detto questo, devo pure dire che molto del lavoro che lui fece fu davvero grande, così come il lavoro di Gerry. In verità, sono diventato un appassionato del film. Mi rammaricai molto che nel film non ci fosse umorismo, ma è colpa mia. Credo che allora non fossi in un momento particolarmente allegro”89. David Gilmour ricorda: “Il rapporto tra me e Roger divenne davvero impossibile durante la lavorazione del film Pink Floyd The Wall […] Alan Parker e Roger litigavano

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così violentemente durante la lavorazione del film che il regista se ne andò. Dovemmo convincerlo a tornare; c’era troppo denaro investito in quella cosa. La lavorazione continuò agli studi Pinewood per la regia di Parker, non di Waters, che regista non è. Secondo me le cose non andavano (e lo penso tutt’ora). Ci impelagammo in una ridicola questione di potere per la quale ho il sospetto che Roger non mi abbia mai perdonato. Il nostro rapporto divenne proprio impossibile. […] In verità il film è la meno riuscita delle tre incarnazioni di quella particolare storia; l’album e gli spettacoli sono le altre due. Roger aveva ragione su molte cose, ma non su come dovesse essere realizzato il film; per cui la lavorazione del film non doveva essere interrotta e non doveva assumerne lui la regia”90. Il 12 dicembre 1986 la BBC2 mandò in onda un documentario sulla vita e le opere di Gerald Scarfe, intitolato Scarfe by Scarfe, in cui il geniale disegnatore a proposito della lavorazione del film ricorda che se si mettono tre egomaniaci in una stanza, sicuramente la situazione scoppierà. Per evitare ulteriori contrasti e attriti, Waters si lasciò quindi convincere dal regista ad andarsene in vacanza per sei settimane. Le riprese poterono dunque avere inizio, e Parker fu libero di lavorare senza nessuna interferenza. Ricorda Alan Parker: “In quel periodo mi fu possibile sviluppare il mio punto di vista, e in realtà realizzai il film in totale libertà. Dovevo fare così. Non potevo essere affiancato da Roger, e lui se ne rendeva conto. Le difficoltà sarebbero venute quando finii. Avevo girato per sessanta giorni, 14 ore al giorno, e il film era diventato mio. Poi Roger era tornato, e avevo dovuto affrontare la vera difficoltà, che era quella di avere addosso lui, anche se in realtà si trattava di uno sforzo di collaborazione. Non è stata un’esperienza totalmente felice. C’erano degli enormi ego che si scontravano uno contro l’altro, ognuno di essi combattendo per il suo frammento di film”91. Le scene in casa del giovane Pink furono girate il primo giorno, nella residenza di un ammiraglio. Contemporaneamente, in esterni un’altra troupe preparava filmati per le inquadrature immediatamente precedenti all’animazione di Goodbye Blue Sky. Prima di ottenere qualche immagine utilizzabile furono fatte volare cinquanta colombe e venti piccioni. Il resto delle riprese fu ultimato sui set costruiti ai Pinewood Studios, allocati fuori Londra, dove fu creata la stanza del motel, completa di piscina e scenografia di Los Angeles creata al computer. Fu anche appositamente costruito il colossale Muro della sequenza finale, fatto esplodere dallo scoppio di un cannone ad aria compressa utilizzato in un film di Ja-

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mes Bond. Ma c’erano problemi in vista per Bob Geldof. L’attore infatti non sapeva nuotare, e nelle scene di The Thin Ice in cui galleggia in piscina fu utilizzato un calco trasparente residuato del film Supergirl (essendo quello di Superman troppo largo per il corpo di Geldof), che venne poggiato a pelo d’acqua. Geldof si tagliò anche una mano nel corso della sequenza della stanza sfasciata in One Of My Turns, emulando così Roy Harper, al quale la scena era ispirata92. L’interno della scuola-fabbrica fu invece ricostruito in un capannone in disuso di Beckton, poi definitivamente distrutto con l’incendio ripreso nel film. Tutte le sequenze di violenza furono girate con sorprendente realismo da parte delle comparse, i terribili hammer guards con l’uniforme disegnata da Gearld Scarfe, che vennero scelti tra i più duri skins di Tilbury, nel Sud-Est di Londra. E i vari scontri, organizzati dall’aiuto regista Ray Corbett, proseguivano ben oltre il segnale di stop dato da Parker. Scarfe era ossessionato da incubi in cui incontrava per strada gente abbigliata secondo il look hammer. La violenza che nasce quando si crea un muro tra la gente, secondo le parole di Scarfe, aveva finito per ossessionare i suoi stessi autori. Sessanta giorni di riprese portarono così a oltre sessanta ore di filmati, che sarebbero poi stati ridotti a novantanove minuti sotto la supervisione dell’ottimo montatore Gerry Hambling. Nonostante i titoli di coda dichiarassero la colonna sonora disponibile su dischi e cassette Harvest, i soli brani When The Tigers Broke Free e Bring The Boys Back Home furono pubblicati nel luglio ’82 in formato quarantacinque giri con una splendida copertina apribile che mostrava foto del film e la scritta “Dall’imminente album THE FINAL CUT”. L’intenzione originaria era infatti di intitolare il successivo disco SPARE BRICKS (“mattoni avanzati”) e realizzarlo con scarti da THE WALL e con la colonna sonora integrale del film, che rispetto al disco non conteneva Hey You e The Show Must Go On e presentava invece What Shall We Do Now, che era uno scarto dell’album, l’inedita When The Tigers Broke Free e rifacimenti orchestrali di Mother, Bring The Boys Back Home, In The Flesh? e Outside The Wall. Successivamente, però, Waters compose altri brani e ne riutilizzò di preesistenti, ai quali diede un preciso tema concettuale, creando così il materiale per un nuovo album, intitolato appunto THE FINAL CUT. Pubblicherà poi le idee musicali sviluppate durante la scrittura dei brani di THE WALL nel suo primo disco solista, THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING (1984).

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“L’ho composto nello stesso periodo di THE WALL, e si può dire che sia una sintesi più personale dello stesso materiale. A quell’epoca avevo fatto ascoltare agli altri Floyd i demo dei due lavori, lasciando a loro la decisione su quale firmare Pink Floyd; avevo anche detto loro che quello che avrebbero scartato lo avrei realizzato ugualmente come album solista, perché sentivo di doverlo fare. Loro scelsero THE WALL. Così, dopo THE WALL e THE FINAL CUT, pensai che fosse venuto il momento. La consapevolezza che le vendite sarebbero state assicurate dal nome della band era un po’ frustrante: la qualità dell’album non contava nulla, un discreto successo sarebbe comunque stato garantito. Era più ‘pericoloso’, e quindi più eccitante, tentare la fortuna con un nome che non era mai stato utilizzato…”93. Un doppio bootleg dal titolo The Film uscì in una bellissima veste grafica con la soundtrack completa incisa in stereo. Imperdibile testimonianza sonora dei concerti 1980-81, nel 2000 fu pubblicato, per festeggiare i vent’anni dello spettacolo, un cofanetto a edizione limitata “Is There Anybody Out There? The Wall live” (K93957145) che riporta sulla scatola le quattro maschere in gomma di lattice su sfondo nero che indossavano i musicisti delle surrogate band dei Floyd, un bellissimo e ricchissimo booklet con dichiarazioni dei quattro Floyd riguardo lo spettacolo e il concetto di Muro più interventi di Gerald Scarfe, Jonathan Park, autore insieme a Scarfe della scenografia, Mark Fisher, che ne ha invece curato l’illuminazione, James Guthrie, ingegnere del suono, bellissime foto del concerto e immagini dei bozzetti preparatori su carta da lucido. Era disponibile anche in versione in doppio Cd, non limited edition, anche questa recante sulla copertina le quattro maschere dei Floyd, immagine curata da Storm Thorgerson. Waters, a proposito di questa iniziativa discografica, dichiarò: “Non è stata certamente una mia idea. È stata escogitata tra Steve O’Rourke, Dave Gilmour e la casa discografica, suppongo. […] Non ne sapevo niente fino a circa sei settimane fa. Avendo saputo della pubblicazione, ho avuto qualche input. Per esempio, James Guthrie, che lo stava missando, mi ha inviato i missaggi. Abbiamo discusso del titolo. Se non si chiamerà Pink Floyd – The Wall live, allora sarà Is There Anybody Out There? Ho ascoltato solo i primi quattro missaggi e suonano davvero bene. Sono molto diversi dal disco. Non sarà solo un interessante documento per i fan di vecchia data, ma anche una valida performance. […] Quando seppi dell’idea, mi sembrò un voler raschiare il fondo del barile per vedere di ricavare qualche dollaro dall’operazione, perciò ero piuttosto contrario all’idea. Poi ne parlai con

“PINK FLOYD THE WALL”: IL FILM

mio figlio Harry, che ora ha 23 anni, il quale mi disse: ‘Perché sei contrario? A molte persone piacciono le registrazioni live’ e delle band che piacciono a lui – in particolare gli americani Phish, che adora – ci sono persone che registrano ogni singolo show. Esiste un grosso mercato di incisioni bootleg e l’interesse per le registrazioni live di gruppi famosi è molto forte. Così pensai: ‘Perché non farlo?’. James Guthrie, che ha prodotto il disco e curato tutti i missaggi, ha fatto un ottimo lavoro, e il disco suona davvero bene. Trovo sia molto interessante ascoltare cosa succedeva quando suonavamo THE WALL dal vivo. Ed è tutto originale”94. David Gilmour: “C’è stato molto interesse da parte degli appassionati, mentre i nastri se ne stavano lì da molti anni. All’epoca non volemmo uscire nemmeno con un altro album. Non credo che la casa discografica ci consentisse di uscire con un altro album in competizione con l’originale in studio. Ma la vita continua; facemmo il film Pink Floyd The Wall, facemmo THE FINAL CUT, Roger andò via e noi abbiamo continuato come Pink Floyd senza di lui… la vita continua, e quel materiale fu dimenticato perché non era tra le cose più importanti. All’epoca ascoltammo uno o due nastri di quei concerti, mentre facevamo il film, perché nella colonna sonora dovevamo usare qualche traccia delle esecuzioni dal vivo, anziché le versioni in studio. La band era molto grintosa, il materiale era davvero eccitante e fu registrato tutto su registratori analogici multi-traccia. Abbiamo sempre aspettato a tirarlo fuori. Adesso è parsa una buona idea. Così, ecco il disco”95. La casa discografica ha annunciato l’inserimento nel doppio disco di due brani inediti, due pezzi live che non ci sono nella versione in studio dell’album: What Shall We Do Now? e The Last Few Bricks. Roger Waters, da sempre onesto e fedele alla sua etica professionale, smentisce questa notizia: “L’idea che queste due canzoni siano nuove è del tutto sbagliata: la prima, What Shall We Do Now? è un elenco di generi di consumo presente nel film con l’animazione del muro costituito da prodotti commerciali. Il testo figurava anche nelle liriche riportate sull’album registrato in studio. Rimasero lì nonostante il brano fosse stato poi eliminato perché contraeva la dinamica del disco. ‘Shall we buy a new guitar? / Shall we drive a more powerful car?/Shall we work straight through the night?/ Shall we get into figths?’… e così via. Dunque, nulla di nuovo a proposito di questo brano. E The Last Few Bricks la eseguivamo alla fine della prima parte dello show. Durante le prove capimmo infatti che i ragazzi addetti alla costruzione del muro non facevano fisicamente in tempo a ultimarlo per l’ultimo brano

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della prima parte, Goodbye Cruel World, e si pose il problema di riempire qualche minuto di tempo. Così pensammo a una sorta di ripresa di motivi della prima parte dello spettacolo. Anche in questo caso, niente di nuovo: è solo un medley di brani precedenti ed editi”96. Riguardo alla grafica di copertina, essendo il lavoro grafico di Gerald Scarfe sinonimo di THE WALL, Waters ha dichiarato che l’ingaggio di Storm Thorgerson è stato fatto “contro il mio parere. Ma spesso in queste cose il mio parere non è preso molto in considerazione, perché io sono uscito dalla Pink Floyd Music Limited. Storm è tecnicamente competente, ma non mi piace affatto il lavoro che ha fatto ultimamente. Però sono felice di poter affermare che a tale proposito sono stato tenuto molto in considerazione, e perciò cerco di moderare i suoi peggiori eccessi. In due modi: tentando di lasciare molto del lavoro che Gerry fece da solo e utilizzando molte delle foto degli spettacoli dai quali è tratto il doppio album. Ci sono milioni di foto, alcune delle quali davvero magnifiche”. Nick Mason accoglie come una gioiosa strizzatina d’occhio al passato il “ritorno” di Thorgerson: “Essendo l’artwork di Gerry parte integrante di THE WALL, avrebbe dovuto occuparsi lui della grafica di questo live album. Ma la cosa grandiosa è che per la prima volta dal 1986 i quattro Floyd collaborano tutti insieme. Ci siamo messi d’accordo di far fare a Storm questo lavoro. Storm ha collaborato con me e Dave per gli ultimi due album. Roger, quasi a ragione, sente che Storm è nel campo nemico, ed è proprio bello che abbia accettato il suo coinvolgimento per la copertina”97. Tra tutti gli interventi degli autori coinvolti nel progetto, emerge la forte capacità e spiccata sensibilità artistica di Waters. Anche Gerald Scarfe ammette: “Penso che Roger avesse una concezione ben solida circa la copertina di THE WALL e un’idea molto forte: completamente bianco con i mattoni. Una sera, mentre eravamo insieme in Francia, disegnai una bozza che includeva tutti i piccoli caratteri che avevo delineato quando il muro viene distrutto in The Trial”98. I Pink Floyd investirono anche in pubblicità, con un’idea ancora una volta piuttosto estrema: sul Sunset Strip di Hollywood venne eretto un imponente cartellone bianco raffigurante un muro (nell’ambiente era risaputa la loro vanità in materia di cartelloni pubblicitari). Il cartellone era inizialmente del tutto bianco. Ogni giorno, però, arrivavano alcuni operai per rimuovere qualche “mattone”, in modo da rivelare via via la sottostante illustrazione di Gerald Scarfe.

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Riguardo all’edizione in Dvd del film, Roger Waters ricorda: “Mi ritrovai in una camera d’albergo con Gerald Scarfe e guardammo il film insieme, facendo una serie di commenti e… uh, così sarà sul Dvd. Inoltre, mi chiedevano se potessi pensare a qualcosa di extra da inserire e ricordai che, proprio alla fine della lavorazione del film, pressoché all’ultima conversazione tra me e Alan Parker, gli dissi: ‘Non penso che la bobina sette funzioni, dovremmo rimuoverla’. Lui mi rispose: ‘Ok!’. Si trattava di Hey you. Fu per questo che non fu mai messa nel film. Ora abbiamo deciso di inserirla alla fine, in modo che tutti quelli che acquisteranno il film potranno vederla. James Guthrie, l’ingegnere del suono di THE WALL che curò così accuratamente la soundtrack del film, sta curando il suono per il Dvd. Venne da me e Scarfe a Parigi. Gli chiesi cosa pensasse della bobina sette. Lui mi rispose: ‘È una grande idea, vado a cercarla’. Così volò a Londra agli studi cinematografici Pinewood e la trovò”99. Il Dvd inoltre contiene, tra gli extra, The Other Side of the Wall, un documentario di 25 minuti girato durante la lavorazione del film con commenti di Roger Waters e Gerald Scarfe; una Retrospective, ovvero un esclusivo documentario della lunghezza di 45 minuti con interviste a Roger Waters, Gerald Scarfe, Peter Biziou, Alan Marshall e James Guthrie e il grintoso trailer del film. La colonna sonora invece è stata rimasterizzata in Dolby Digital 5.1 direttamente dal master originale su nastro. Un’edizione del filmato realizzato ad Earl’s Court è stata distribuita d’importazione in Dvd (Digital Media Cd 0003) con il titolo Pink Floyd – So You Thought You’d Might Like Go to the Show. La qualità delle immagini è buona e come extra è presente un’intervista ad Alan Parker (Behind the scenes) più il video di The Fletcher Memorial Home, tratto da THE FINAL CUT. Un bellissimo cofanetto adornato con disegni di mattoni è invece uscito in occasione della Festa del Disco 2012, contenente un megaposter di THE WALL con il logo dei martelli, tre quarantacinque giri con brani dal disco (il primo Another Brick in The Wall part. 2 e One Of My Turns, il secondo Comfortably Numb ed Hey you, il terzo Run Like Hell e Don’t Leave Me Now).

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Come già il precedente THE WALL, anche THE FINAL CUT (pubblicato il 21 marzo 1983) è un concept album con un soggetto drammatico unico e ben definito. Roger Waters produsse un “video EP” con un finanziamento minimo, diretto dal cognato Willie Christie e tratto da una sua sceneggiatura, contenente quattro video: The Gunner’s Dream, The Fletcher Memorial Home, The Final Cut e Not Now John. Il filmato, un cortometraggio della durata di diciannove minuti, è tratto da quello che originariamente doveva intitolarsi Spare Bricks, ossia il nuovo album dei Pink Floyd, contenente appunto “mattoni avanzati”, ovvero out-takes dalla colonna sonora del film THE WALL. Waters però aveva nel frattempo composto nuovi brani, e il 2 aprile 1982 un militare di nome Leopodo Galtieri aveva occupato le isole Falkland. Le Falkland erano una colonia britannica distante duecentocinquanta miglia dalla costa argentina. In risposta alle argomentazioni di Galtieri, secondo il quale l’Inghilterra era troppo distante, esausta e decadente per accettare la sfida, il Primo Ministro Margaret Thatcher inviò sul posto un’armata moderna, stringendo un blocco aereonavale sulle isole e riportandole così sotto il dominio inglese dopo sei settimane di violente battaglie. Galtieri, distrutto, si dimise dalla carica, e l’Inghilterra ne guadagnò in prestigio militare. Poco importava, e questo deve essere stato l’aspetto ad aver fatto breccia nel cuore di Waters, che il conflitto militare fosse costato oltre mille vite, tra soldati britannici e coscritti argentini. Si trattò di una guerra figlia della crisi, una battaglia per un pezzo di terra che il grande scrittore argentino Jorge Luise Borges paragonò a due calvi che si contendono un pettine. I “Mattoni avanzati” (peraltro già annunciati nei titoli di coda del film THE WALL) presero vita, e quella inusitata guerra del Sud Atlantico fornì a

THE FINAL CUT

Waters lo spunto per il nuovo disco, THE FINAL CUT. Il titolo, desunto da Shakespeare, è un riferimento alla pugnalata alla schiena che Bruto infligge a Cesare: “Questa è stata la ferita più impietosa di tutte”, si narra gli rispose il padre adottivo. Continuava così per Waters l’approfondimento della tematica del padre morto in guerra, sicuramente come eco ai fatti sanguinosi che il conflitto delle Falkland stava esponendo agli occhi del mondo. Il filmato del primo brano, The Gunner’s Dream, ha per protagonista un uomo anziano e il suo sogno, appunto il “sogno dell’artigliere”, di una società più umana, rispettosa dei diritti della gente, liberata dalla violenza. Ma il brano, come confermò Waters, affronta anche il tema dell’impotenza. Il protagonista è Alex McAvoy, che aveva già interpretato il professore in The Wall, ora nelle vesti di un pilota di bombardieri che essendo sopravvissuto al conflitto ha intrapreso la carriera dell’insegnamento, ma non riesce a dimenticare le orribili scene di morte cui ha assistito, ed è tormentato da incubi in cui queste continuano a ripresentarglisi. Il video inizia con un’inquadratura ampissima di un’automobile che si sposta in un’autostrada battuta dal sole. Al suo interno, McAvoy ruota la manopola della radio, permettendo allo spettatore di ascoltare così le voci che nel disco sono registrate all’inizio del brano. La colonna sonora del filmato inizia quindi esattamente come il disco. Lo speaker radiofonico annuncia la notizia della decisione presa dal governo britannico di far costruire la nave destinata a sostituire l’Atlantic Conveyor in Giappone anziché nei cantieri inglesi del Clydeside, causando così il licenziamento degli operai100. Intanto, il bellissimo pianoforte di Michael Kamen ci introduce al brano. Mentre il testo inizia con un riferimento appunto ai ricordi che piovono dalle nuvole, in un’immagine alonata, il personaggio anziano vede su un ponte un uomo in divisa. Sconvolto, ferma la sua automobile. Vuole vedere meglio, e scende dall’auto in pantofole (siamo appunto nel “sogno dell’Artigliere”, quindi il tratto è volutamente surreale) e si porta esattamente sotto il ponte dove ha avuto la visione, sul quale c’è una scritta in evidenza: “Go on, Maggie”. Ora però al posto del giovane in divisa c’è una prostituta in abiti “da lavoro”, che accarezza vogliosa e con occhi avidi il duro ferro della ringhiera. In dissolvenza incrociata, ecco un’altra donna, questa volta anziana. Siamo in un interno dai toni caldi e rassicuranti, probabilmente l’abitazione dell’artigliere. La donna sta lavorando a maglia. L’insegnante, sempre in pantofole, legge il giornale davanti al televisore, sui scorrono immagini di guerra. Poi, con

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espressione molto triste, osserva una foto nella quale riconosciamo il giovane in divisa che aveva visto al ponte. È evidente che si tratta del figlio morto nel conflitto, che rivediamo in flashback. Con la stessa espressione triste, l’uomo si reca in cucina. Apre una credenza e ne estrae una valigetta che contiene una bottiglia di birra Guinness. In un fondo nascosto della valigia c’è una pistola. In flashback compaiono altri ricordi del figlio morto. La pistola è probabilmente destinata a una vendetta. Ora il sogno dell’artigliere diventa una confessione che Waters fa a un distratto psichiatra nella casa di cura Fletcher Memorial Home: nome che dà al titolo a un’altra canzone dell’album ed è esso stesso una citazione. Il padre di Waters, infatti, si chiamava Erich Fletcher Waters, nome con cui compare anche all’interno del disco, nella dedica, con l’anno di nascita e quello della morte. Sul televisore dello psichiatra passano per pochi attimi immagini di The Fletcher Memorial Home. Vediamo le labbra di Waters in primissimo piano decantare versi in cui esprime il desiderio di un posto dove vivere, con cibo a sufficienza, dove i vecchi eroi possano passeggiare tranquilli, dove si possano esprimere a voce alta dubbi e paure e soprattutto dove nessuno muoia. Lo psichiatra guarda distrattamente il monitor che ha davanti a sé, tramite il quale controlla i pazienti della clinica. La laurea sul muro ci rivela il suo nome: A. Parker-Marshall. Si tratta di una citazione a regista e produttore di THE WALL, molto odiati da Waters, che coglie così l’occasione per un’intelligente vendetta. Anche la foto della copertina del disco, progettata dallo stesso Waters e scattata dal fratello di sua moglie Carolyne, il già citato Willie Christie, raffigura lo stesso Waters in uniforme militare con una pizza cinematografica sotto il braccio e un coltello nella schiena, ed evidentemente è stata ideata allo stesso scopo. Fuori della casa dell’insegnante passeggia la stessa prostituta che abbiamo già incontrato. La sua figura sarà ripresa ancora più avanti nel film, e rappresenta uno dei personaggi conduttori della storia, una sorta di trait-d’union fra le varie scene. Tornato in salotto dopo un’ennesima notte agitata, l’ artigliere si accomoda ancora a guardare il televisore. Altre immagini della guerra delle Falkland, ancora uno sguardo malinconico alla foto del figlio che ha pagato con la vita il conflitto. Poi l’uomo cambia canale, e partono le immagini di The Final Cut. Si tratta di una serie di vecchie immagini d’epoca che hanno per protagoniste le donne attraverso vari momenti della storia: tra di esse spicca il sex symbol Marilyn Monroe che parla a una folla di militari in immagini intervallate all’inquadra-

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tura di Roger Waters che parla allo psichiatra sulla paura delle conseguenze che potrebbe avere il mettere in mostra il proprio lato oscuro. Teme infatti di essere abbandonato da moglie e figli e di vedere divulgata la sua storia sul giornale musicale «Rolling Stone». Il testo fa riferimento a una telefonata fatta “sottovoce” probabilmente a un istituto per malattie mentali. Le immagini di repertorio proseguono, mostrandoci alcune fasi dell’evoluzione della moda e dell’immagine femminile dai primi passi verso l’emancipazione fino alle disinibite sfilate di moda degli anni Sessanta. L’insegnante cambia di nuovo canale, e sul televisore compaiono le prime immagini di Not Now John. Ritorna la figura della prostituta, che si muove, contro i regolamenti, interferendo con l’attività degli svogliati operai di un cantiere navale. Un altro personaggio che arricchisce la serie di caratterizzazioni, tutte alquanto macchiettistiche e caricate, è un ragazzo dai tratti somatici orientali e la maglietta bianca con il cerchio rosso, simbolo del Sol Levante. La sua espressione è seria e compunta. Lo affiancano alcune geishe vestite con tanto di kimono e massiccio chignon, che fanno da coriste. Il giovane si suicida buttandosi da un’altezza notevole. L’episodio è una citazione a un verso di The Post War Dream, in cui Waters fa riferimento ai “Nips” (dispregiativo inglese per “giapponesi”) per i quali non deve essere uno spasso vedere i loro ragazzi che si suicidano. Inoltre, una delle voci che si odono appena provenire dalla radio tra un canale e l’altro ci informa che se non fosse ancora per i Nips, così bravi a costruire navi, i cantieri sul Clyde101 sarebbero ancora aperti. Vediamo poi un unico operaio al lavoro con un saldatore, sulla cui maschera di protezione non a caso è raffigurato il simbolo della bandiera del Sol Levante. Il paragone con gli operai inglesi che giocano a carte e distrattamente pensano a tutt’altro anziché lavorare è diretto ed esplicito, e ironicamente il contrasto sottolinea l’operosità dei giapponesi, la loro superiorità professionale, a sfavore dei connazionali di Waters. L’artigliere cambia di nuovo canale, e appaiono in tv le immagini di The Fletcher Memorial Home. Nella casa di riposo sono ricoverati per i loro ultimi giorni di vita alcuni dei più noti personaggi della storia, tra i quali riconosciamo Napoleone, Margaret Thatcher, Winston Churchill e Adolf Hitler. Ognuno di loro, nel brano, è rappresentato attraverso una caricatura patetica: Adolf Hitler si guarda allo specchio e saluta se stesso con la destra alzata, Napoleone si dondola su un cavallo giocattolo, tiene in mano un libro di cucina intitolato L’escargot e insegue una chiocciola

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che poi cucinerà. Il brano sembra ribadire la natura psicotica dei tiranni e dei maggiori leader politici, definiti da Waters nel testo come bambini troppo cresciuti. Le immagini del film continuano dal punto in cui erano state interrotte nella sequenza in cui scorrevano nel televisore dello psichiatra. L’artigliere, dopo essere sceso dall’auto, prosegue la corsa in autostrada e si reca appunto Fletcher Memorial Home. Sceso, si dirige con aria minacciosa verso la Thatcher, stringendo la pistola che si è portato da a casa. È la sua vendetta, e implicitamente la vendetta di tutti i parenti dei caduti nelle guerre, considerate da Waters mere macchinazioni di carattere politico che crudelmente e inutilmente sacrificano agli interessi dei leader le povere vite di migliaia di persone come suo padre e il figlio del personaggio del film. L’uomo spara, ma inutilmente. Le vittime designate vengono accompagnate in una stanza dove si trovano in compagnia degli altri ospiti della casa di riposo, probabilmente in attesa di quella che il testo della canzone definisce come soluzione finale. Waters infatti sadicamente suggerisce per i tiranni politici la stessa fine proposta da uno di loro a Wannsee, in Germania, il 20 gennaio 1942: lo stermino. L’azione ora continua nel salotto della casa del protagonista. L’uomo è sul divano e legge una copia del «Daily Mail» con un titolo molto evocativo: Maggie at the front (Maggie al fronte) mentre l’articolo centrale titola: “Non hai fatto un cattivo lavoro, Maggie”. Si tratta delle ultime critiche all’operato della Thatcher, che per quanto riguarda la ferrea condotta delle operazioni militari nel mare delle Falkland, portate a termine sulla falsariga di un sentito e compiaciuto nazionalismo, si guadagnò la rielezione a furor di popolo. La televisione ha un ruolo centrale nel dipanarsi della vicenda, è l’anello di congiunzione tramite il quale si passa da un brano all’altro e il veicolo principale degli avvenimenti cruciali della storia del mondo, ma anche lo specchio introspettivo della sofferenza interiore del protagonista, che si trova appunto a interagire con i personaggi dello schermo situandosi così dentro la tv, parte attiva delle trasmissioni. Inoltre, nella clinica Fletcher Memorial Home i pazienti possono vedere se stessi tutti i giorni grazie a un circuito chiuso che li rassicura sul fatto di essere ancora in cane e ossa, come recita il testo. Come se la realtà proposta dall’apparecchio televisivo fosse l’unica accettabile e inconfutabile. Waters, che svilupperà ulteriormente quest’idea nel suo disco solista AMUSED TO DEATH, concepisce la te-

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levisione come un farmaco, che lenisce le nostre sofferenze, ma allo stesso tempo ci uccide, uccide la nostra cultura. Waters è infatti convinto che buona parte dei disastri umani e politici contemporanei venga drammatizzata, se non addirittura causata, dalla necessità dei civili paesi occidentali di seguire una politica estera “teatrale”, che sappia intrattenere le popolazioni. Tra le cose che vengono generalmente considerate più “divertenti”, vi è quella di essere impegnati in un qualche conflitto, magari in Paesi lontani. Narrativamente deboli, a tratti incoerenti e addirittura poco comprensibili, i video componenti il filmato risentono forse eccessivamente dell’inaccessibilità tipica dello stile del disco, che si può considerare più un vero e proprio lavoro solista di Waters che non una collaborazione corale dei Pink Floyd, anche se è considerato da molti uno dei migliori del gruppo. Nick Mason ne parla in questi termini: “Roger parla di THE FINAL CUT come di un album solista. Probabilmente ha ragione. Fu infatti molto impegnato nel far fuori gli altri. ‘Dimostralo’, potresti dire. Ci furono delle discussioni piuttosto spiacevoli. […] Roger avrebbe potuto far finire i Pink Floyd non lasciandoli mai; rimanendoci cioè senza fare il minimo lavoro, non sarebbe mai accaduto nulla. Capiva che l’esistenza della band lo frenava, mentre la casa discografica continuava a dire: “grande album solista, dov’è il prossimo album dei Floyd?”. In questo senso fu corretto: doveva provare a fare qualcosa per succedere ai Floyd. Ricordo un incontro in cui disse: ‘Andiamo, è finita’. La sensazione era: ‘Non è giusto che decida tu’. Io e Dave pensavamo che senza Roger non avremmo potuto continuare, vedevamo tutto nero, ma, soprattutto grazie a Dave, che è molto ostinato, alla fine decidemmo di tornare a lavorare. Roger è stato mio grande amico per anni e non ho mai considerato offensivo il suo comportamento. C’è bisogno di questi grandi duelli fra personalità, affinché una band funzioni bene”102. Wright era già lontano dal gruppo, e la sua uscita, come abbiamo visto, derivò dalla difficile situazione finanziaria in cui versava il gruppo. Ricorda il tastierista: “A quel tempo, in teoria eravamo in bancarotta. I nostri consulenti avevano perso i nostri soldi. Dovevamo versare un sacco di tasse e mi fu detto che dovevamo andare via per un anno e fare un album per cercare di coprire le spese delle imposte dovute. Dunque fu un momento abbastanza difficile per noi tutti. […] Tuttavia, c’erano delle cose in quel progetto [THE WALL, N.d.A.], per le quali pensai: ‘Oh, no, andiamo di nuovo su questi argomenti – la guerra, sua madre, suo pa-

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dre che ha perduto… – speravo avesse superato tutto questo e magari potessimo occuparci di altro, ma era fissato… Tutte le canzoni avevano lo stesso tempo, la stessa chiave, era tutto uguale. Probabilmente, se non ci fossimo trovati in quella disastrata situazione finanziaria, avremmo detto semplicemente ‘Non ci piacciono queste canzoni’ e le cose sarebbero forse andate diversamente. Ma Roger aveva questo materiale, Dave e io non ne avevamo, così lavorammo su quello”103. Anche David Gilmour ricorda il difficile periodo per la band: “È vero che eravamo tutti in crisi finanziaria, ma non mi sembra che questa si sia concretizzata fino a quando avevamo già iniziato a mettere insieme le prime cose di THE WALL nei Britannia Row Studios, tra settembre e Natale. Allora pensavo che fosse un ottimo concept, oggi invece non mi piace molto. Con il beneficio della prospettiva storica, lo trovo un po’ piagnucoloso, anche se con un buon livello di introspezione. Volevo – così era stato prima e così permisi che fosse dopo – che Roger avesse il pieno controllo della sua visione”104. Waters fa risalire la crisi a molti anni prima: “Il tutto era andato in frantumi già durante WISH YOU WERE HERE. Dave voleva fare un disco completamente diverso. Per questo ci furono dei contrasti, ma alla fine prevalsi io. Dopo DARK SIDE, fu sempre un problema. Infatti, durante WISH YOU WERE HERE, Nick Sedgewick e Storm Thorgerson, ma principalmente Sedgewick – che produsse WISH YOU WERE HERE – vennero in tour con noi e cominciarono a scrivere il loro libro definitivo sull’esperienza dei Pink Floyd. Quando ne fu ultimata un parte corrispondente a circa cinquanta minuti di lettura, noi tutti ci sedemmo e lo leggemmo. In effetti era affascinante, perché era la storia del tour inglese che avevamo appena finito. Dave lo leggeva e annuiva. Dopo un paio di giorni, però, esplose: ‘Se questa è la verità – ed è la verità – allora posso anche non far più parte della band’. Questo perché il testo non coincideva con ciò che lui pensava di se stesso e del suo ruolo nel gruppo. Il libro infatti mi descriveva come il leader, e perciò fu soppresso. Questa cosa risale a venticinque anni fa, ma non è cambiato nulla! [ride]”105. Rick Wright, da romantico qual era, ricordava nostalgicamente il passato: “Mi divertiva davvero l’epoca di DARK SIDE o di WISH YOU WERE HERE, quando, pur essendo in lotta tra noi, facevamo comunque le cose insieme. Temevo che con un produttore esterno potesse andare perduto tutto quello che noi quattro avevamo fatto insieme, di comune accordo, con uno spirito di gruppo. Ma d’altro canto, pensavo: ‘Oh, Dio! Abbiamo bisogno di un arbitro!'”106. Anche Roger Waters ha un bel

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ricordo del periodo precedente al loro album più classico, quasi il successo fosse un “gran corruttore”: “Lavorammo gomito a gomito fino a DARK SIDE. Da allora, non l’abbiamo più fatto. Quel che è venuto dopo lo abbiamo realizzato per inerzia, ma i fattori che ci tenevano uniti erano la paura e l’avidità”107. David Gilmour ricorda la tensione presente in studio tra lui e Roger Waters: “Roger pensava che le opinioni che io esprimevo in merito ai brani fossero ispirate da fattori personali. Aveva cioè la sensazione che fossi d’ostacolo a ciò che voleva fare. Il mio parere, allora e sempre è che bisogna puntare sempre al raggiungimento del miglior risultato possibile, ovvero il miglior disco possibile. Inoltre, nel disco c’erano solo contenuti di tipo politico, icentrati sulla Guerra delle Falkland. Roger era pacifista e io non condividevo le sue opinioni politiche. Ma io non avrei mai, mai voluto essere nella posizione di Roger, che esprime la sua storia in THE FINAL CUT o in qualsiasi altro album. Semplicemente ritenevo che molta musica non fosse all’altezza”. Gilmour ritiene che in THE FINAL CUT ci siano solo tre grandi brani: “The Final Cut, The Fletcher Memorial Home e… adesso non ricordo. È passato tanto tempo da quando l’ho ascoltato. A ogni modo, ne ho citati due”. Waters, a proposito di THE FINAL CUT e della successiva rottura con i Floyd, ricorda: “Il suo più grande critico è Gilmour. Non gli piaceva affatto la politica che c’era dentro. Non gli piaceva questo, non gli piaceva quello… Gli piaceva solo la percentuale extra che pretendeva per produrlo. Può sembrare un po’ scortese, ma non lo è: andò proprio così. Se fosse un po’ più onesto, avrebbe detto semplicemente: “Non voglio avere nulla a che fare con questo album: non mi interessa”. Ma aveva bisogno di un compromesso perché non aveva nessuna canzone sua. Proprio nessuna. E allora cosa vuoi? Se non scrivi canzoni, non fai dischi. È per questo infatti che la maggior parte dei gruppi entra in agitazione: non hanno più canzoni, perché finisce l’energia creativa. Chiaramente, dopo la mia uscita, coinvolsero molta altra gente per scrivere materiale con tutta la tranquillità possibile. Ma la tranquillità non poteva esserci, se si guarda all’elenco di autori delle canzoni. Allora con gli altri collaboratori cercarono di copiare lo stile che avevo creato quando ero nella band, senza che ci fossi io. So per certo che si sedevano e si chiedevano: ‘Beh, cosa farebbe ora Roger?’, poi cercavano di farlo. […] Registrarono metà album che la casa discografica scartò dicendo: “Non potete farne a meno: dovete fare qualcosa che suoni almeno come un disco dei Pink Floyd”. Così ricomin-

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ciarono. Ed è esattamente quel che fecero, cercando di sfornare un disco col “marchio Floyd”. […] È per questa ragione che quei dischi hanno un che di surrogato. Ma, detto questo, devo pure ammettere che alcuni brani di A MOMENTARY LAPSE OF REASON mi piacciono abbastanza, mentre THE DIVISION BELL è pura schifezza. […] Avrei preferito che ci fermassimo. Lo sfacelo che ne seguì fu molto doloroso per un po’ di tempo. In retrospettiva, però, fu la cosa giusta da fare. Adesso riesco a guardare a quei tempi senza rancore”108. Gilmour, dal canto suo, cita il sense of humor nero che Waters usava con lui durante la realizzazione dell’ultimo disco insieme. “Fin dall’ultimazione di THE FINAL CUT Roger diceva: ‘Un giorno chiami, fai le valige e dici: ‘è stato un piacere stare insieme, fantastico’. E io rispondevo: ‘Io non faccio le valige, non ne ho ancora abbastanza’. Faceva battute di questo tipo, diventando sempre più frustrato, e prefiguravamo diversi scenari. Lui diceva: ‘Non farete mai un disco’, e io: ‘Faremo un disco, qualcosa faremo’. E lui: ‘Bene, io non abbandono: mi siedo in fondo alla sala e critico’ e così via. Intanto io ero assolutamente convinto che non ero pronto per abbandonare. Penso che la mia cocciutaggine lo frustrasse così tanto che decise di forzare le cose inviando una lettera di dimissioni alle case discografiche. In effetti, con quella manovra Roger si appellò alla clausola contrattuale che consentiva di iniziare una carriera solista sotto un’altra voce del contratto discografico. Francamente, per noialtri il suo abbandono fu un sollievo. Significò poter partire con i nostri progetti. Cosa che sarebbe stata impossibile con Roger mezzo dentro e mezzo fuori. Avrebbe potuto impedirci di fare qualsiasi cosa sostenendo di non aver lasciato”109. Lasciamo l’ultima considerazione alle parole di Waters: “Se vuoi essere una band, far soldi ed essere una superstar, devi avere ovviamente delle buone canzoni. Vai indietro fino al 1970: scoprirai che quasi tutte le canzoni del gruppo sono mie. Ho scritto molti album da allora, con tante e tante canzoni; dunque è difficilissimo per gli altri dire: ‘Sì, va bene, questo non ci piace. Perché non lo fai come album solista?’. Chi è stato in una rock band capisce che, fondamentalmente, senza un compositore sei fottuto”110. Successivamente, sia David Gilmour che Roger Waters si dedicarono a progetti solisti, mentre Wright unì le forze con l’ex membro dei Fashion Dave Harris per lo sciagurato progetto Zee. Il nuovo progetto solista del principale autore dei brani di maggior successo dei Pink Floyd traeva anche questo ispirazione da una vicenda personale, più precisamente da

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un viaggio in autostop per il continente compiuto poco più che adolescente. Evento questo, che evidentemente per gli sprazzi di libertà che Waters ha sempre desiderato come suoi e per la sua innata capacità di gestire situazioni improvvise, rimarrà nella mente del mosicista che proporrà un brano inedito Is This The End?, durante il Summer Tour 2005 in cui è descritta proprio la prima notte trascorsa fuori casa presso una cortese famiglia europea. Probabilmente nasce con questo brano, ancora inedito, la tendenza ad intitolare brani in forma di domande, che avrà la sua espressione più felice nella title track dell’ultimo lavoro di Waters, appunto Is This the Life We Really Want?. Waters è sicuramente uno dei più grandi poeti e filosofi del novecento. Non stuoisce quindi il suo atteggiamento estremamente riflessivo circa il mondo intorno e il suo porsi delle domande cui, intelligentemente, non offre risposta, lasciando la questione volutamente irrisolta o responsabilizzando i suoi ascoltatori, dopo appunto averli fatti riflettere. I concerti di THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING risulteranno molto spettacolari, nella più autentica tradizione pinkfloydiana, con tutti i crismi del light show, e verranno definiti “l’unico show del rock ufficiale e miliardario che ha il coraggio di ostentare la propria evidente grandezza”111. Il gigantismo cui si riferisce questa frase ha a che vedere con l’enorme palco, sul quale un Roger Waters da sempre attento all’aspetto visivo dei suoi concerti fa sparire lo schermo circolare per le proiezioni, marchio di fabbrica Floyd dai tempi di DARK SIDE, a favore di un più innovativo e spettacolare “sfondo” che diventa così tutto immagini grazie a tre sezioni di schermi distinte, sulle quali vengono proiettate, talvolta in sincronia tra loro, talvolta in ritmica alternanza, le back projection del periodo Floyd, oltre a quelle inedite studiate apposta per il nuovo disco e la storia che si dipana attraverso i testi. Il pubblico può così godere di tre distinte sequenze a volte volutamente in dissonanza tra loro, a volte con sorprendenti immagini (come quella di una palla infuocata che apre l’esecuzione del nuovo materiale), che scorrono da destra a sinistra e viceversa, in un’alternante sincronia tra i tre schermi. Idea questa che verrà estremizzata da Waters nel suo ultimo Us + Them Tour del 2017, in cui, oltre a essere schermo tutto il retropalco, alla destra e alla sinistra del pubblico ci sono anche teloni riflettenti sui quali vengono proiettate le immagini, sorprendenti quanto a definizione artistica e tecnologica. Vien fatto di chiedersi se questa sorprendente idea del “palco tutto schermo” non sia nata nella mente del ge-

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niale musicista durante il tour di THE WALL, dell’80 e ’81, in cui per la prima volta era il muro stesso a essere diviso in tre parti, sulle quali venivano proiettate le front projection. Waters stesso ha così commentato la sua idea di scenografia: “Mi sono molto allontanato dall’idea di un sacco di luci che si accendono e si spengono sul palcoscenico. In molti rock’n’roll shows ci sono troppe vibrazioni e disturbi durante tutta la durata del concerto, e personalmente li trovo molto irritanti. Così userò solo qualche riflettore e delle proiezioni. Il resto sarà immaginazione e qualche effetto sonoro. Il progetto prevede di coprire lo sfondo del palcoscenico con un velo riflettente, in modo che non ci sia un solo schermo sul palco, ma tutto il palco diventi schermo”112. È presente anche un pupazzo a forma di befana, che appare salendo verso l’alto quando nell’album il protagonista sogna di trovarsi in Germania e Waters canta in tedesco “Wilcommen in Konisberg…”. Nonostante le ottime premesse, tuttavia, il tour non convince. Registrerà infatti un discreto successo solo negli Stati Uniti, mentre in Europa le arene che ospitano i concerti, della capienza media di 15. 000 posti, registreranno raramente il tutto esaurito. Roger non se ne preoccupa minimamente: “Inizialmente ero un po’ dispiaciuto per le vendite dei biglietti, che non erano all’altezza delle pur modeste aspettative. Invece, non lo sono stato affatto per quanto riguardava l’accoglienza del pubblico, letteralmente meravigliosa: sotto il profilo del feeling con gli spettatori, abbiamo ottenuto risultati almeno pari a quelli conseguiti con i vecchi spettacoli dei Pink Floyd… Anche se va detto che, in realtà, anche questo era uno show dei Pink Floyd – al posto di Gilmour e Mason c’erano Clapton e Newmark, ma tutto il resto era lo stesso, sia a livello di sistema sonoro, sia per i tecnici del suono, e perfino per i roadies addetti alla costruzione del palco… In quelle occasioni, noi eravamo i Pink Floyd, e il fatto che il pubblico non accorresse in massa dipendeva solo dalla nostra incapacità di comunicare quella realtà: in fondo, sul programma c’era scritto “Written and directed by Roger Waters”… A ogni modo, è andata bene così, e in fondo non me ne frega niente dei risultati del botteghino: se qualcuno ci ha rimesso dei soldi, quello sono io – il tour mi ha fatto perdere circa 400. 000 sterline – ma io sono anche quello che ci ha guadagnato di più: ho realizzato qualcosa che volevo fare, non che avevo bisogno di fare… E poi, il rock’n’roll mi ha fatto guadagnare molto denaro, e se anche ne perdo un po’ non me ne frega proprio niente…”113.

THE FINAL CUT

Il tour ha inizio in Germania il 17 giugno 1984. “La vera sfida fu superare il primo concerto del tour. Per un’intera settimana avevamo tentato di allestire le luci, ma i proiettori non avevano funzionato e io ero preda di una tensione progressiva. Trascuravo la band e le prove, ed ero sempre più nervoso… Ma quella prima sera davanti al pubblico è stata un’autentica rivelazione. Tutto era andato alla perfezione, e questo perché ero insieme a brillanti, magnifici musicisti – è stata davvero una grande serata”114. Così fu recensita la “prima”: Lo spettacolo che Roger Waters ha presentato all’Hallenstadion è un megashow di quelli che lasciano ancora stupiti e soddisfatti, un avvenimento spettacolare di grande portata e di notevole importanza. L’occasione era davvero “storica”: per la prima volta in tour solista per mettere in scena una sua nuova opera, THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING, realizzata senza l’aiuto del resto dei Floyd. Inoltre, Waters in questo brevissimo tour europeo (soltanto nove date) si presenta con una band di tutto rispetto, una sorta di piccola ‘nazionale’ del rock inglese che fu, con Mel Collins ai fiati (King Crimson e decine di altre formazioni), Chris Stantion alle tastiere (session man di lusso per tutti i più grandi solisti e gruppi britannici), Andy Newmark, Tim Renwick, Michael Kamen, e, dando vita così a uno storico incontro tra la musicalità dei Pink Floyd e la tradizione del british blues, Eric Clapton alla chitarra solista. Molti erano i dubbi alla vigilia, perché il materiale su disco non suonava molto convincente, chiuso nel caldo universo dello stile di Waters, raffinato quanto da molto tempo immobile, e privo di quel suono dei Floyd che, per consuetudine, si è sempre associato alla sua musica. Inoltre, il solo materiale del disco non sarebbe di certo bastato a sostenere un intero show. Ma i timori sono svaniti alle 20 in punto, quando la band è entrata sul palcoscenico e ha esordito con uno dei brani più amati della produzione dei Pink Floyd, quel Set The Controls For The Heart Of The Sun che, nel 1968, guidava gli ascoltatori sui sentieri della psichedelia, segnalando il gruppo inglese come una delle formazioni più originali e innovative dell’epoca. I quindicimila dell’Hallenstadion hanno esultato e sono saltati letteralmente in piedi quando, mentre alle spalle del gruppo venivano proiettate le immagini del clip diretto da Peter Medak, Waters ha intonato Money, con tanto di effetti sonori speciali irradiati da un perfetto impianto Dolby Stereo. In pratica è un concerto dei Pink Floyd, anche se mancano gli altri elementi del gruppo, un’occasione unica per riascoltare alcuni dei più riusciti brani della

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formazione. Le canzoni si susseguono l’una dietro l’altra a formare un album dei ricordi che a tratti emoziona, che ha il sapore della celebrazione, dell’ultima replica, della fine di una lunga storia musicale. Il set continua con If, una dolcissima ballata da ATOM HEART MOTHER del 1970, e poi Welcome To The Machine, Have A Cigar, Wish You Were Here e Pigs On The Wing, fino ai brani di THE WALL osannati dal pubblico, accompagnati dai cartoni animati che ne hanno costituito l’immagine video e persino da un piccolo pezzo della scenografia dello show originale. Quando Waters intona The Gunners Dream, da THE FINAL CUT, per chiudere la prima parte del concerto, la gente ascolta in silenzio, quasi per un omaggio malinconico alla musica del gruppo. Venti minuti di intervallo e poi viene calata sull’enorme palco una grande tela sulla quale sono dipinti un muro, un tavolo con dei fiori e un gigantesco televisore, e su questo vengono proiettate le immagini di un film con Jack Palance. È l’inizio dello spettacolo vero e proprio, The Pros and Cons of Hitch Hiking, elaboratissima performance di musica e immagini, in cui Waters narra la storia di un uomo che, nel suo letto, sogna una vita fatta di grandi avventure, sul filo di un viaggio in autostop, e che alla fine, risvegliandosi accanto a sua moglie, conclude che la sua vita normale è quella che apprezza di più. Questa per sommi capi la storia di uno spettacolo multimediale, nel quale si intrecciano cinema e video (sotto la direzione di Bernard Rose e Nicholas Roeg), disegni animati (filmati da Gerald Scarfe), e naturalmente la musica di Waters, nel solco delle ultime produzioni dei Floyd. Prevalgono quindi le ballate (con Waters prevalentemente alla chitarra acustica) in cui hanno modo di mettersi in luce sia il sassofono di Mel Collins che la chitarra, sempre limpidissima e precisa, di Eric Clapton. THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING si distacca invece dalla più recente produzione dei Pink Floyd per i temi trattati: qui si parla di vita quotidiana, ma anche di sogni, di rivoluzione sessuale e violenza terroristica, d’amore e di viaggi, privilegiando forse i testi rispetto alla musica, che è priva di novità. Lo spettacolo che Waters ha messo in scena è affascinante e godibilissimo, una strana miscela di suoni e immagini, ha l’aria di un grande videoclip la cui colonna sonora viene eseguita dal vivo, arricchito da trovate sceniche (un grande pupazzo, le coriste abbigliate in maniera divertente), calibrate con gusto ed essenzialità. La fusione è perfetta, non c’è un solo momento di indecisione o una piccola sbavatura nella macchina scenica e la lunga suite scorre senza intoppi fino agli applausi del pubblico.

THE FINAL CUT

Quando il concerto finisce, il pubblico richiede a gran voce un bis: Waters ritorna ed esegue ancora Brain Damage da THE DARK SIDE OF THE MOON, cantando insieme al pubblico il ritornello “The lunatic is on the grass”115.

Nel dicembre del 1985 filtrò la notizia che Roger Waters aveva lasciato la band. Un comunicato ufficiale rivelava che, nonostante l’uscita di Waters, “il gruppo non ha intenzione di smettere. Al contrario, David Gilmour e Nick Mason, con Rick Wright e Bob Ezrin, stanno attualmente registrando un nuovo album”. Da allora, i “nuovi” Pink Floyd hanno prodotto A MOMENTARY LAPSE OF REASON (1987) e THE DIVISION BELL (1994), un paio di album dal vivo e alcuni tour mondiali di successo. Roger Waters ha pubblicato RADIO KAOS (1987), THE WALL – LIVE IN BERLIN (1990) e AMUSED TO DEATH (1993). Fra Waters e gli altri Floyd è andata in scena un’aspra guerra di parole. David Gilmour è stato esplicito: “La band non avrebbe tratto vantaggio dalla leadership di Roger. Non ne era all’altezza. Non ha avuto grande successo con i progetti nei quali aveva il controllo totale”116. Roger Waters si attribuisce il ruolo di leader: “Tutti abbiamo deciso e scelto questa band: nessuno è costretto a rimanere. […] Non ho mai deciso che il gruppo dovesse morire. Espressi solo il mio punto di vista dicendo che separarci sarebbe stata la cosa migliore. Mi angoscerebbe se Paul McCarteney e Ringo Starr facessero dischi insieme facendosi chiamare ‘The Beatles’. Se non ne fa parte John Lennon, è sacrilego. Non vorrei mettere parole in bocca a Dave, ma da quello che ho letto, ho il sospetto che secondo lui molte persone ritenevano che non fosse giusto continuare a chiamare il gruppo Pink Floyd dopo l’abbandono di Syd. L’insieme delle opere che noi abbiamo prodotto nel periodo successivo a Syd ha legami con le stesse tematiche, argomentazioni, concetti cui anche la musica dei Beatles ha legami e per me questo rende importanti i Pink Floyd. E continuare con i soli Gilmour e Mason, coinvolgendo un gran numero di creativi per scrivere il materiale, mi sembra un insulto al lavoro che abbiamo fatto in passato. È per questo che volevo ritirare il nome”117. David Gilmour ha dichiarato: “La forza dei Pink Floyd è sempre consistita nel talento di tutti e quattro i suoi componenti. Naturalmente perderemo gli stimoli artistici provenienti da Roger, ma comunque continueremo a lavorare insieme come abbiamo fatto in passato. Siamo rimasti sorpresi dalla recente affermazione di Roger sul fatto la band ‘abbia esaurito la sua forza creativa’ solo perché lui non è coinvolto nell’attuale progetto. Noi tre sia-

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mo davvero eccitati dal nuovo materiale, e preferiamo che la forza dell’imminente album dei Pink Floyd venga giudicata dal pubblico”118. Il 7 settembre 1987 viene pubblicato A MOMENTARY LAPSE OF REASON, che annovera, oltre ai tre Pink Floyd, Tony Levin (basso), Jim Keltner (batteria), Steve Forman (percussioni), Jon Carin (tastiere), Tom Scott (sax alto e soprano), Scott Page (sax tenore), Carmine Appice (batteria), Pat Leonard (sintetizzatori), Bill Payne (organo Hammond), Michael Landau (chitarra), John Halliwell (sassofono), Darlene Koldenhaven, Carmen Twillie, Phyllis St. James e Donnie Gerrard (coriste). L’album viene accompagnato dalla pubblicazione di un Cd single (Emi CdEM 26), comprendente una versione rivisitata di Learning to Fly, insieme a una versione anch’essa rivisitata di One Slip. Venne pubblicata anche una versione a tiratura limitata di mille copie, per scopi promozionali. Molte di quelle copie, nelle quali erano state omesse entrambe le versioni di Terminal Frost, vennero messe a disposizione dei fan dei Pink Floyd a prezzi competitivi, oppure regalate assieme alle copie dell’album. Mentre Waters ha dichiarato che l’album era una “discreta contraffazione”119, David Gilmour riconosce onestamente le difficoltà del nuovo progetto. “…fu difficile l’inizio dei lavori per A MOMENTARY LAPSE OF REASON, perché il telefono squillava ogni cinque minuti, con gli avvocati delle due parti che volevano sapere questo e quello. Fu molto complicato. Nick aveva attrversato fu un periodo – dall’ultimazione di THE WALL a THE FINAL CUT – durante il quale si era scoraggiato molto. Ci sentivamo tutti molto sminuiti. Fu un lavoro dannatamente difficile partire mettendo insieme tante cose, cosa che facemmo principalmente con i computer e i sequencer sulla mia barca. Quando andammo a registrare le sezioni di batteria a Los Angeles fu fantastico, perché le ore di ufficio inglesi non erano in sintonia con le nostre, e così gli avvocati non potevano telefonare nel bel mezzo di una registrazione, a meno che non chiamassero nel bel mezzo della loro notte!”120. Riguardo al ritorno di Richard Wright, Gilmour ricorda: “Ero in Grecia prima che cominciassimo le registrazioni, e mi mi fece visita l’allora moglie di Rick, che mi disse: ‘Ho sentito che state per cominciare il lavoro su un disco: ti prego, ti prego, ti prego, può collaborare anche Rick?’. Aspettai un po’ dopo l’inizio del lavoro per chiedergli di rientrare, perché volevo essere sicuro di quello che facevo prima di accendere le sue speranze. Il primo mese vide impegnati solo me e Ezrin a lavorare su molti demo. Fu solo a Natale del 1986 che iniziò il lavoro serio. […] È difficile non avere Roger

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con cui parlare, al quale chiedere: ‘Facciamo questo o quest’altro?’. C’era Bob Ezrin, che aveva preso parte – e molto – a THE WALL, ma era un processo lento. Ogni giorno che si faceva qualcosa che sembrava buono aumentava la nostra fiducia”121. Anche in occasione della pubblicazione di questo primo album dei “nuovi Floyd” non mancarono le polemiche con Waters. L’oggetto della contesa era Bob Ezrin, che avva avuto, come abbiamo visto, un ruolo fondamentale nella creazione di THE WALL. Ingaggiato da Waters, decise poi di lavorare con gli altri Floyd. “Mi ero rivolto a Bob Ezrin per la produzione di RADIO K.A.O.S. Ci eravamo incontrati a New York nel febbraio 1986, dopo un intero anno in cui Gilmour aveva inutilmente cercato una forma per riunificare i Pink Floyd, scontrandosi sempre con la mia ferma opposizione… Io e Ezrin avevamo discusso per due giorni, poi gli avevo dato le registrazioni del materiale di RADIO K.A.O.S. al quale stavo lavorando. Avevamo concordato di cominciare a lavorare insieme il 16 aprile 1986, in Inghilterra. Esattamente dieci giorni prima della data stabilita, avevo tentato di mettermi in contatto con lui. Gli avevo telefonato e lui sembrava quasi sorpreso sentendo la mia voce all’altro capo del telefono. Poi mi aveva confessato: ‘Mia moglie dice che chiederà il divorzio se vengo a lavorare in Inghilterra…’. Ero rimasto sbalordito, e gli avevo domandato: ‘Ma non potevi dirmelo tre mesi fa?’… Ero scioccato, e un minuto dopo che avevo riagganciato la cornetta, mia moglie Carolyne mi disse: ‘Vuoi scommettere che farà quel disco pseudo – Pink Floyd che ha intenzione di realizzare David?’, ma io le risposi: ‘No, non posso proprio crederci”… Invece una settimana dopo scoprii che era stato ingaggiato per collaborare a un nuovo disco dei ‘Pink Floyd’”. Ezrin replica così alle accuse di Waters: “Nel febbraio 1986 ero a Los Angeles a lavorare a un album di Rod Stewart, quando lui mi telefonò da Londra. Aveva tanto insistito che alla fine ci eravamo incontrati per due giorni a metà strada, cioè a New York, per parlare di RADIO K.A.O.S. In quei colloqui gli dissi che avrei voluto aiutarlo a realizzare il disco, e tuttavia avevo la sensazione che lui avesse un atteggiamento troppo rigido nei riguardi della mia collaborazione al progetto. E dopo aver fatto con lui THE WALL, so quanto Roger sia rigoroso… aveva già deciso dove, come e quando realizzare l’album – io ho cinque figli e lui voleva che prendessi armi, bagagli e famiglia al completo e ci spostassimo tutti per almeno tre mesi in Inghilterra. Mia moglie era contraria, perché quel trasferimento avrebbe creato dei pro-

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blemi ai ragazzi, che a quel tempo andavano tutti a scuola. Così, dopo averci pensato un po’, avevo declinato l’invito di Roger… Un mese dopo ero stato contattato da Gilmour, per occuparmi della produzione di un nuovo progetto dei Pink Floyd. David non lo sentivo dai tempi della mia produzione di ABOUT FACE, e non mi aveva chiesto delle cose impossibili come aveva fatto Roger. Mentre Waters pensava solo ai programmi della sua famiglia, Gilmour aveva un programma di lavoro più flessibile, capace di tenere conto sia dei miei figli che dei suoi. Era stato David a spostarsi con tutta la famiglia a Los Angeles, senza pretendere che fossi io a spostarmi in Inghilterra…”122. David Gilmour, artefice della nuova band targata Pink Floyd, parla così del disco: “Ci sono davvero delle buone cose. Mi piace. Quando iniziammo le prove, dovetti far ricorso a musicisti esterni alla band. Un tastierista che facesse le veci di Rick e un altro batterista che facesse buona parte del lavoro di Nick. La tournée fu divertente. Rick e Nick avevano bisogno di quel supporto persino durante le prove. Nei primi due mesi del tour ci fu un momento in cui improvvisamente Nick e Rick ricominciarono ad avere fiducia in se stessi, così che il secondo batterista cominciò a fare principalmente il percussionista. Ci furono momenti in cui davvero si ebbe la sensazione che tutto stesse tornando alla normalità”123. THE DIVISION BELL, continua Gilmour, “venne fuori migliore di A MOMENTARY LAPSE OF REASON, con Rick e Nick che lavorarono di nuovo in perfetta sintonia; le session che facemmo nel ’93 furono fantastiche. Quel materiale venne fuori davvero bene. Forse dimostrò tutto quello che doveva dimostrare… non so… non ne ho idea. Non sono nello stato d’animo per rifarlo. Non so se voglio farlo ancora una volta. Sicuramente farò un altro disco, ma non so se sarà mio o dei Pink Floyd. […] Aver rimesso tutto insieme, farlo funzionare [l’enorme macchinario Pink Floyd, N.d.A.] e aver resuscitato Nick e Rick sono le cose che mi inorgogliscono di più. Di alcune cose di A MOMENTARY LAPSE OF REASON e di THE DIVISION BELL sono orgoglioso più di qualsiasi altra cosa. Tutti gli album che abbiamo fatto da MEDDLE in poi hanno qualcosa di cui sono orgoglioso”124. È interessante notare cosa scrive Storm Thorgerson nel suo Spirito e Materia: l’arte visionaria dei Pink Floyd a proposito del suo lavoro con la band di Gilmour, che lo vide anche valente regista dei filmati in back projection, proiettati sull’onnipresente disco circolare:

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Nel 1987 David prese una decisione che ritengo molto intelligente. Sapeva di dover essere forte per provare a fare un disco senza Roger, così cercò tutto l’aiuto possibile. Rick Wright fu reintegrato nella formazione e Bob Ezrin fu richiamato per aiutare a produrre il disco. Aiutò anche a organizzare lo spettacolo dal vivo, come fecero Robbie Williams e Mark Brickman. E io fui reintegrato per ideare la copertina e girare alcuni filmati, per aiutare a dare a MOMENTARY LAPSE un look da Floyd, sensazioni da Floyd, allo stesso modo in cui i musicisti dovevano aiutare a produrre un sound da Floyd. Ritengo che il modo di agire di David non sia stato debole o vile, ma di un incredibile buon senso e umiltà. Sarebbe stato un compito molto difficile solo per lui e Nick. Serve forza per riconoscere le proprie debolezze. L’idea dei letti mi venne da due fonti: la prima fu un verso di Yet Another Movie, che recita: ‘La visione di un letto vuoto’. David ne aveva fatto un disegno che mi piaceva, ma non da impazzire, così modificai un po’ le parole fino ad avere: ‘La visione di letti vuoti’ e questo è tutto. Una lunga fila di letti che si estendono lungo il paesaggio, fino a dove l’occhio può vedere. Letti veri in un posto vero. Così tanti che l’osservatore potrebbe chiedersi altrettanto facilmente come sia stato possibile o che cosa volesse significare. La seconda fonte fu un rematore o vogatore solitario, che rema per conto proprio lungo il letto, asciutto e rotto dal sole, di un fiume. Era una rivisitazione, capisco, del nuotatore tra le dune di WISH YOU WERE HERE. I letti allora si disposero secondo una morbida curva che si allontanava dalla macchina fotografica, come un fiume, come il letto di un fiume! E la barca del vogatore fu trasformata in un’affusolata barca a remi eduardiana che scendeva lungo il fiume Cam, vicino a Cambridge, in un filmato dal titolo Sign of Life, che veniva proiettato a tutti i concerti. […] Lo stesso rematore, Langley Iddens, occupava un letto semovente nel filmato di On the Run, da DARK SIDE, un letto d’ospedale come quelli della copertina. In qualche modo, tutto si collega. Ma dove trovare tutti questi letti e dove metterli? Ovviamente la risposta era Los Angeles: città di sogni e visioni, con una grandiosa luce naturale e paesaggi suggestivi come la Death Valley. Ma si rivelò una cattiva idea perché non avevano il giusto tipo di letti. Li volevo vittoriani, con la struttura in acciaio, letti da ospedale per sognatori, per gente matta o persino per gente malata. Letti in cui sognare, o letti in cui trovare rifugio. Quelli di cui avevano bisogno Dave e Nick. Portammo tutto a Saunton Sands, nel Devon settentrionale e cominciammo a disporli sulla spiaggia – uno per uno. […] Io non lo sapevo, ma era lo stesso posto usato da Alan Parker per le sequenze militari del film

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THE WALL. […] Il letto sommerso è un’illustrazione per il canzoniere di MOMENTARY; mentre il tipo che se ne sta con una falce in mano in un campo di grano poco fuori Calgari, in Canada (quelle sullo sfondo sono le montagne Rocciose), è il protagonista del video, da me diretto, di Learning to Fly, che naturalmente è una canzone del disco. Il filmato fu divertente da girare perché, oltre nel campo di grano, andammo nel maestoso Jasper Park, sulle Montagne Rocciose e fu molto stimolante. Usammo un elicottero per la maggior parte delle scene, ed era esaltante. Il video vinse un paio di premi, il che mi fece piacere125.

Il lavoro dei Pink Floyd di Gilmour aveva bisogno di un supporto visivo. Questo venne da una delle passioni di Nick Mason: le auto da corsa. Il batterista prendeva infatti parte da anni alla Carrera Panamericana, una corsa per auto d’epoca. Decise così di trascinare in questa sua avventura anche David Gilmour, per il nuovo film del nuovo gruppo.

la carrera panamericana ____________________________

Un’indovinatissima e pertinente versione di Run Like Hell apre il film, dopo l’iniziale titolo di testa. Vediamo immagini in controluce, alonate dal caldo afoso, delle piante tipiche del deserto dell’Arizona, e dei nativi, che abbigliati con i loro costumi tipici conferiscono un sapore latino ed esotico alla sequenza. Un primo piano di un paio di occhi dal forte impatto visivo introduce immagini delle prime auto da corsa d’epoca che solcano deserte e assolate highway. Inquadrature speciali, girate in elettronica, ci portano al posto di guida dei corridori, mostrandoci il loro punto di vista. Siamo così all’interno delle auto. La nuda strada scorre velocissima e pericolosa. Le prime interviste ai partecipanti alla gara hanno per argomento proprio l’ebbrezza della velocità. Un casco è adagiato con cura su un tavolo di legno e reca la scritta “David Gilmour”. La sua inconfondibile voce ci spiega le tappe lungo le quali si dipanerà per sei giorni la gara, mentre il suo dito, uso a solcare ben altri sentieri di espressione, traccia il lungo tragitto su una cartina geografica. I preparativi, durante i quali i corridori apportano gli ultimi ritocchi alle loro lussuose auto, hanno come commento sonoro il brano Pan Am Shuffle (Glimour, Mason, Wright), un rock veloce ed energico guidato dall’inconfondibile fraseggio della chitarra di Gilmour, cui fanno eco le tastiere jazzate di Wright. Le auto d’epoca vengono quindi scaricate dagli enormi camion che le hanno trasportate sul posto. Nick Mason, indossando carismatici occhiali da sole scuri, si aggira con aria noncurante tra le auto, mentre Yet Another Movie (in una versione diversa da quella presente sul disco), con i suoi effetti di batteria e tastiere, arricchisce di pathos le immagini al rallentatore

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dei piloti che si preparano alla corsa. Tutti sono carichi di adrenalina. Anche Mason indossa il suo casco, tutto è pronto. La bandiera si leva alta: è la partenza. Immediatamente passiamo a inquadrature in elettronica del punto di vista dei piloti, con la metà inferiore dell’immagine a bordo dell’auto e l’altra, che vede scorrere a tutta velocità la strada. Sorrow fa invece da commento a inquadrature ampissime che hanno come protagoniste le auto cheh si addentrano nelle lande brulle e desolate del paesaggio incontaminato. Anche la versione di questo brano è differente da quella presente sul disco. I brani, come si percepisce sin dal primo ascolto, sono stati solo rimasterizzati, non eseguiti nuovamente per la colonna sonora. Il lungo montaggio delle auto in corsa enfatizza l’effetto adrenalinico della gara, inquadrata anche da riprese aeree. Seguono altre interviste, poi ci imbattiamo in bellezze femminili del posto che distribuiscono gadgets della gara, mentre una banda musicale festeggia l’arrivo delle auto. Cominciano però anche i primi problemi tecnici. Signs of Life, uno dei più suggestivi brani di A MOMENTARY LAPSE OF REASON, è la colonna sonora di questi momenti di pausa e rilfessione in cui i corridori raccolgono il proprio coraggio e risistemano fiduciosi le proprie auto. L’atmosfera della sequenza è static e riflessiva, e il brano sottolinea la concentrazione necessaria alle operazioni di ricarica, che si svolgono al buio. Signs of Life viene missato più volte, anche al contrario: con la parte di chitarra prima e quella di dell’orgeno dopo, su interviste del manager O’Rourke che fa il punto della situazione all’interno del deposito. Trascorsa la notte, parte la solare ballata acustica Contry theme (Gilmour) con rasserenanti immagini di contadini su carri trainati da animali da soma alternate ad altre di un mercato ricchissimo di invitanti prodotti locali. La slide-guitar di Gilmour, sovraincisa all’acustica, è quanto mai luminosa, e infonde gioia e serenità. Mexico 78 (Gilmour) è invece un brano veloce che ricorda nell’effetto di chitarra Run Like Hell. Anche in queste immagini, che includono nella colonna sonora i suoni dei rombanti motori, si ritrova l’ebbrezza della velocità narrata all’inizio del documentario. Gli accordi del brano, volutmante monocordi e ripetitivi, aumentano la tensione. Alcune auto sono costrette a fermarsi a causa di guasti che vengono immediatmente riparati. La miusica è ora Big Theme (Gilmour), è un brano lento che ha per protagonista chitarre elettriche quanto mai sognanti e me-

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lodiose. Ci sono nuove immagini di auto in corsa deformate dall’afa, poi per pochissimi secondi ritorna il tema di Run Like Hell su inquadrature più ravvicinate di auto in corsa, prima di una suggestiva immagine del sole che scompare dietro una montagna. I Floyd “panamaericani” sono ora a cena con il manager O’Rourke e introducono con le voci fuori campo immagini d’epoca che illustrano la storia della corsa con l’accompagnamento di brani orchestrali grotteschi e riprese in stile cinegiornale di goffe e antiquate auto da corsa che si infrangono inesorabilmente su deboli parapetti. Ad accentuare l’atmosfera antiquata contribuiscono immagini di manifesti d’epoca alternate in dissolvenza ad altre che ritraggono alcuni piloti di allora. Ritornano i Floyd a cena con O’Rourke, ridenti e rilassati mentre discutono della corsa automobilistica. Poi altre immagini d’epoca e altri incidenti. La voce fuori campo di Gilmour ci parla delle difficoltà della corsa. Questa digressione nel passato risulta essere la parte più lenta e meno interessante del film, chiaramente in disarmonia con le adrenaliniche immagini moderne. One Slip (Gilmour, Manzanera) introduce e commenta una pioggia fuori stagione sull’ampia valle. Ma lo spettacolo deve andare avanti, e le auto ripartono. Una di queste si schianta contro una palma. I tecnici accorrono. Small Theme (Gilmour) è un triste brano d’atmosfera dagli accordi lenti e solenni, quasi un requiem per altre immagini di auto che hanno avuto la stessa fine. I corridori, giunti alla fine di una delle tappe, vengono sommersi dal publico acclamante, in suggestive inquadrature che hanno come punto di vista l’interno delle auto e le ovazioni degli astanti, che sommergono la macchina da presa coprendone con le mani l’obiettivo. Alcune auto, evidentemente danneggiate, vengono spinte via. Nonostante questo, la gente esulta. Le auto sono ora nuovamente allineate, pronte per una nuova partenza, mentre i piloti scherzano tra loro. Ecco le ultime interviste ai partecipanti sull’esito della gara, con immagini del grande apprezzamento ricevuto dai messicani. È una sorta di bilancio della corsa: rivediamo le auto distrutte insieme a quelle che hanno raggiunto il traguardo. Nick Mason, intervistato, si dice soddisfatto della corsa e delle prestazioni dei piloti. Ritorna l’energica e grintosa Pan Am Shuffle, dinamico rock a firma di Gilmour, Mason e Wright sulle cui note vediamo ragazze in costume che assegnano i trofei. La corsa è finita, e orchestrine locali suonano in onore dei vincitori. I titoli di coda scorrono su Carrera Slow Blues

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(Gilmour, Mason, Wright), alternati a suggestive immagini delle bellezze architettoniche messicane, paesaggi naturali e caratteristici carri trainati da enormi buoi. Il tutto a celebrare una cultura che ha sposato il rispetto e l’uso dignitoso della natura. Narrativamente e tecnicamente è un film molto riuscito, che offre al pubblico la possibilità di godersi un’avventura di Mason e Gilmour fuori dal lavoro. La produzione è di Steve O’Rourke, il manager del gruppo, il che fa pensare che si tratti di un’operazione commerciale per promuovere i brani dei nuovi Pink Floyd di Gilmour, il quale ha onestamente ammesso che per il loro ritorno volevano fare “molto rumore”. Il concept di partenza è però molto efficace e il film non stanca, tra panorami e scenari naturali che chiunque vorrebbe visitare e personaggi che sembrano provenire da un lontanissimo passato, al riparo dalla corrompente modernità, che viene relegata solo alla gara, con un l’utilizzo di tecnologie molto avanzate per l’epoca come la camera car, che consente una ripresa ad altezza della ruota dell’auto.

chi è pink? “roger waters the wall” ____________________________

Roger Waters ha deciso di mettere definitivamente la parola fine all’epopea Pink Floyd. E qui la “rivalità” con Gilmour si arricchisce di un altro mattone, un muro di incomunicabilità che è andato via via crescendo tra il bassista e il chitarrista, entrambi alla rincorsa per mettere, appunto, la parola fine a quello che è stato e sempre sarà uno dei gruppi più importanti della storia del rock. Se, come abbiamo visto, Gilmour va in tour con il suo ultimo album, Waters reagisce mettendo in scena il disco THE WALL (oltre trenta milioni di copie vendute dal 1980), raccogliendo per il mastodontico tour oltre quattro milioni di spettatori in tutto il mondo in stadi e palazzetti tra il 2010 e il 2013, in una serie di concerti dal punto di vista, dall’impatto visivo e tecnologico avanzatissimo, com’è sempre stato nello stile live del gruppo. Il tour è stato infatti uno dei più lunghi e massicci intrapresi da una rockstar. THE WALL è un’opera particolarmente cara al suo autore. Ha ricevuto molti consensi, certo, ma quanti ne merita? Lo ha comprato molta gente e molta altra continua ancora a comprarlo e viene preso molto seriamente. Una delle cose che mi danno grande gratificazione è che THE WALL è utilizzato per l’insegnamento sia della lingua inglese sia della composizione musicale. Dove potrebbero celarsi i consensi ricevuti? In definitiva, la gente conosce l’opera e le ha riconosciuto il valore che merita prestandole molta attenzione. AMUSED TO DEATH, per esempio, ebbe una minima parte dei consensi che meritava, e forse li riceverà in futuro, perché è un disco stupendo, “il terzo della trilogia di grandi lavori che ho creato, con DARK SIDE e THE WALL”126. Roger Waters ammette comunque le forti implicazioni psicologiche di un lavoro come THE WALL: “Un lavoro del genere è sempre difficile, ma

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soddisfacente. Non c’entra che sia autobiografico o meno. Tranne che, forse, ci si può trovare a combattere contro i propri demoni e le proprie paure ed esporre se stessi. Ma non fu così. Ricordo l’energia, il lavoro con Bob Ezrin, il confronto di idee. Mi piace lavorare in collaborazione con altri creativi. È per questo che mi piace particolarmente lavorare nelle band, anche se non adoro lavorare in comitato. Questo è stato uno dei problemi da DARK SIDE in poi”127. È quindi chiara la posizione di Waters rispetto ad altri creativi: li cerca, ne ammira il lavoro, ma rimane comunque sua l’intuizione più profonda che, spesso, “spiazza” quelle degli altri. Quanto ai Pink Floyd, è palese da queste sue parole la difficoltà emersa da DARK SIDE in poi. David Gilmour ha accettato il tutto con filosofia, pur facendo un’analisi chiara a difesa di quello che sarebbe poi diventato il “suo” gruppo: “Questa è la vita. C’è stata sempre una lotta di potere. È andata avanti per anni. Roger voleva essere il leader e il boss in carica – che, di fatto, era. Ma per me non era un problema, benché ritenessi di avere una migliore conoscenza musicale o, comunque, un senso musicale migliore del suo. Pertanto, questa presunta lotta di potere da parte mia era finalizzata a far valere caparbiamente certi valori musicali. Ma ciò ovviamente presentava sempre delle difficoltà. Tuttavia, il nostro rapporto non diventò improduttivo in termini lavorativi. Invece, il rapporto di Rick con tutti noi, e soprattutto con Roger, diventò impossibile durante la lavorazione di THE WALL. […] In Francia Roger e io discutevamo molto perché andavamo insieme in studio. A Rick era stato chiesto se avesse qualche idea o volesse fare qualcosa. Una sera ci lasciammo e Rick aveva l’intera notte per tirar fuori del materiale, ma credo che allora fosse nel bel mezzo di qualche trauma esistenziale, perciò non dette alcun contributo; si sedeva soltanto e ci faceva impazzire. Nick lavorava molto duramente. Imparò a leggere la musica per batteria e preparava le tracce con Bob Ezrin facendo un ottimo lavoro. Nick ha i suoi limiti come batterista. Roger afferma queste cose, ma io non me ne ricordo affatto, a parte qualche battuta scherzosa in tal senso”. “Ricordo che un giorno verso il periodo di permanenza in Francia, in furgone con Roger, lui mi disse: ‘Dio, non dobbiamo mai smettere di lavorare insieme, siamo un gran team’. Ricordo anche che mi trovavo in Irlanda nel periodo di pausa prima di finire in Francia e andare a Los Angeles un mese dopo. Ero a Dublino e telefonai a Roger perché avevo sentito che stava cacciando Rick dalla band. Lo chiamai da una cabina

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telefonica di Chapel-Lizard, appena fuori Dublino, perché l’appartamento dove alloggiavo non aveva telefono e discussi con lui a proposito di questo argomento. Gli dissi: ‘Non puoi cacciare Rick. Ha sempre fatto parte della band. Se ciò non ti piace devi abbandonare anche tu, non puoi cacciare nessuno. Stai facendo diventare questa vicenda del tutto personale, non ti pare?’. Non cito la risposta…”. “Più tardi, a Los Angeles, Rick mi chiese di uscire per un drink. Mi disse: ‘Che ne pensi di tutto questo?’. Risposi: ‘Non hai mosso un dito, non hai fatto nulla per giustificare la tua presenza nella band. Sei un membro fondatore del gruppo e secondo me è un tuo sacrosanto diritto farne parte, ma devi mettertelo bene in testa’. Mi disse: ‘Vuoi che io stia ancora nella band?’. E io: ‘Non particolarmente, perché non stai facendo niente, ma io sosterrò sempre il tuo diritto di farne parte’. Non fui mai sostenitore della cacciata di Rick, o di Nick: non è la mia posizione”128. Roger Waters va comunque avanti con il suo lavoro. Del resto, conosce molto bene la tecnologia e si tiene sempre all’avanguardia. È capace di chiudersi in sala di montaggio e vedere e rivedere un filmato anche per ore e ore, con una meticolosità e un perfezionismo tipicamente suoi. La sua ispirazione è sempre molto fervida e il suo lavoro gli regala continuamente soddisfazioni: “È sorprendente. Un qualcosa difficile da capire. Per quanto mi riguarda, ricevo lettere dalla gente; il mio lavoro ha molti aspetti positivi che mi fanno stare bene. […] Non mi sono mai alzato una mattina dicendomi: ‘Devo scrivere qualcosa’. Sono sempre stato molto passivo; percepisco una strana sensazione che si fa strada dentro me e che si sviluppa – una specie di sentimento, un’emozione che cresce – allora capisco che c’è una canzone che tenta di uscire. E così corro al pianoforte o raccolgo una chitarra o qualche altro strumento e scrivo qualunque cosa mi venga. E alcune cose hanno cominciato a uscire da me in questo modo. Ho prodotto tante di quelle cose che credo ci sia materiale sufficiente per un album. È una cosa molto personale. È abbastanza divertente – una specie di… come quando componevo per i Pink Floyd. A ogni modo, ritornare nei Pink Floyd vorrebbe significare che non sono autonomo e indipendente come uomo e come artista. Penso che l’unica rivoluzione, quella vera, è la rivoluzione umana: ossia cambiare noi stessi per cambiare il mondo”129. “Qualche volta, durante la giornata, vivo una sensazione molto precisa – non uno stato d’animo vuoto, anzi, molto ricco – e improvvisamente è davvero come se avessi la vista più lunga, perdo la dimensione reale delle

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cose e penso: ‘Oh, sto per scrivere una canzone’. Poi l’ispirazione bisogna prenderla per il collo, allora mi avvalgo di qualsiasi artifizio abbia sviluppato nel corso degli anni per portare la canzone a termine e afferrare l’ispirazione per i capelli, tuttavia la creazione iniziale è un atto passivo. Secondo me può essere un’espressione di quello che Carl Gustav Jung descrive come inconscio collettivo – sembra che gli esseri umani abbiano davvero bisogno di illuminare ed esprimere la loro relazione con ogni cosa, con il tutto. Sto cercando di ricordare se avessi fatto della psicoterapia fino a quel momento, ma la risposta è no, in quanto la feci più tardi, nel 1981, credo”130. Molti anni fa, Roger Waters aveva dichiarato, a proposito di una nuova messa in scena di THE WALL: “Partecipai alla rappresentazione originale a Londra, a Earl’s Court, e sinceramente devo dire che fu il mio migliore concerto. Sarebbe favoloso se lo facessi nuovamente. THE WALL non si può portare in tour: è uno show troppo complesso. Mi è stato chiesto di rappresentare THE WALL il prossimo 4 luglio negli Stati Uniti, nel circuito di Indianapolis… ero quasi d’accordo perché mi dicevano che sarebbe stato un concerto gratuito; l’idea mi attraeva perché mi sembrava piacevole suonare per chiunque volesse venire a sentirci. Volevo rappresentare THE WALL nel Grand Canyon, però… approfondendo l’idea del concerto gratuito, scoprii che sarebbe stato pagato da una grossa azienda americana come la Coca-Cola che avrebbe quindi preteso il controllo sulla distribuzione dei biglietti. […] Mi sarebbe piaciuto rifare THE WALL per l’anno 2000, l’avevo messo in scena nel 1980 e nel 1990 [a Berlino, N.d.A.] e avevo tentato di farlo a New York, ma è difficile riproporlo ancora, anche perché volevo metterlo in scena a Wall Street per circa una settimana e… non penso che i residenti trovino l’idea particolarmente buona. Invece ad Amburgo, in Germania, una società ha investito in soldi e manodopera per costruire un muro elettronico lungo 400 metri e alto 12 o 18 metri. È enorme, fatto di schermi e controllato da software e hard drivers. Credo che finora non si sia mai realizzato nulla del genere. L’amico Jonathan Park, della Fisher & Park che ha lavorato ai miei show negli anni scorsi, è molto coinvolto in questo progetto. Sono molto interessati a me per fare una sorta di muro virtuale per poi registrarlo su un hard drive. Questo spettacolo sarebbe possibile per l’anno 2000; sarebbe grande, in particolare per me, ché potrei guardarlo almeno una volta come spettatore! Sarebbe registrato su un hard drive, così potrei andare in uno stand e guardarlo con gli altri [ride]!”131.

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David Gilmour ha dichiarato132 che i Floyd sono i tre senza Waters, in occasione di un difficile accordo raggiunto per la scelta dei brani eseguiti durante la storica reunion del Live 8 ad Hyde Park del 2 luglio 2005. Ha anche dichiarato che la sera prima del concerto, provarono nel parco senza pubblico, ricavandone sensazioni piacevoli. Durante la vera e propria esibizione live però, si sentiva la tensione immessa da Waters e dal suo prevalente modo di stare sul palco. Rick Wright ha invece dichiarato133 che il Live 8 gli ha dato la gioia di averlo di nuovo al suo fianco. Insomma, da una parte l’ideatore, il fautore dei concept di maggior successo del gruppo “storico” e dall’altra, Gilmour senza il quale i Floyd non avrebbero conosciuto tanto successo fino a oggi, cui romantici e sognatori assolo di chitarra contraddistinguono da sempre il sound Floyd. Gilmour decise di andare avanti dopo la rottura con Waters e rivendica la “proprietà” Pink Floyd. Waters nel primo tour da solo scelse, come frase pubblicitaria: Esecuzione del disco THE PROS AND CONS OF HITCH HIKING di Roger Waters, più brani dei vecchi Pink Floyd. Durante una delle date di quel tour, il pubblico era seduto durante l’esecuzione del disco solista di Waters e in piedi durante i brani dei “vecchi Pink Floyd”. Segno esplicito di una preferenza per il passato. Ma Waters non si è dato per vinto. Durante la causa contro i vecchi compagni, ha dichiarato di voler gisutizia, di un tipo che secondo il suo avvocato, poteva venirgli solo dal pubblico134. Waters non voleva assolutamente che il gruppo ricostituito da Gilmour tornasse a esibirsi e a incidere album con il nome “Pink Floyd”, appropriandosi a sua volta il “Marchio Floyd”. Viene da pensare all’ingiustizia morale di chi quel nome e quel marchio è il vero “proprietario”: un genio che purtroppo non ha saputo fare i conti né con la realtà esterna, né con i suoi fantasmi interiori: Syd Barrett. Ancora oggi molti fan identificano il gruppo, il “vero” gruppo come appartenente a Syd, con il sound inconfondibile da canzonetta gioiosa e volutamente infantile di Barrett. Probabilmente, seguendo un dettame puramente etico, anziché artistico, il vero detentore del marchio Floyd è lui, solo troppo “assente” per avere la combattività (che sicuramente nel suo carattere non è mai esistita) di rivendicare il nome “Pink Floyd”. Non sono mancati inviti da parte di Gilmour in occasione del The Division Bell Tour del 1994, puntualmente declinati da Waters. Ha dichiarato infatti: “L’idea di dover stare in questa grande scodella di porridge e di doverci nuotare intorno… no, ne sto fuori, meglio. Ora mi godo la mia vita. L’idea di collaborare ancora con loro – e puoi

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immaginare come cerchino di farmi tornare nella scodella, perfino facendo questo album dal vivo, con le note del libretto – mi ha riportato alla follia di tutto ciò. Non voglio avere nulla a che fare con loro”. L’avversione di Waters è palpabile. In uno studio pieno di poster di auto da corsa in King’s Crown, a Londra, 3.000 miglia distante dalla casa di Waters a Long Island, Nick Mason ha modi molto meno severi del suo vecchio compagno di avventure, improntati al distacco, a una predisposizione positiva, così come a una… liquidazione circa l’argomento: “Metteresti insieme un equipaggio di circa 200 persone per lavorare a un concerto di fine millennio? Tutti vorrebbero vedere la commovente scena della reunion alla fine del concerto. A questo proposito, con un po’ di fantasia, ci sarebbe stata per un evento tipo Live Aid. Mi pare evidente un enorme senso di diffidenza, tradimento, rabbia e altro”. David Gilmour, metropolitano, quintessenza del carattere inglese, camuffando i suoi reali sentimenti con un mirato modo di esprimersi – ricco di espressioni con doppi sensi negativi – parla ironicamente ma allegramente di Waters, cordialmente come fosse un vecchio sparring partner: “È ovvio che qualche volta ci si sia seduti a pensare a queste cose in qualche occasione e anche io mi sono chiesto come sarebbe, come andrebbe se noi tutti fossimo insieme in uno studio e ci dicessimo di fare qualcosa… non lo vedo possibile. Lo invitammo a suonare THE DARK SIDE OF THE MOON alla Earl’s Court di Londra con noi, ma lui cortesemente ci rispose: ‘No grazie’. Inoltre lo invitai alla festa del mio cinquantesimo compleanno e anche in quell’occasione mi rispose: ‘No grazie’. Ammetto di non aver fatto grandissimi sforzi per riportarlo all’ovile, ma sono stato abbastanza gentile”135. Roger Waters ha dichiarato: “Le uniche cose che ho sentito da loro sono che mi cercarono per una performance live di THE DARK SIDE OF THE MOON a Londra l’ultima volta che si sono esibiti per un grande tour mondiale, ma non volli farlo. E penso che mi cercarono per accarezzarmi la testa dicendomi: ‘È tutto ok, ragazzo! (ride ironicamente). Fai il bravo! E tutto andrà a posto!’136”. David Gilmour, circa il suo invito a unirsi agli altri tre “Floyd” sul palco, ha detto: “Non so mantenere odio profondo per molti anni e sarebbe stata una buona cosa per gli appassionati. C’è una bella differenza tra il dover stare e convivere in studio e il dover salire su un palco come ospite dopo un minimo di prove per suonare un po’ di basso e cantare. Sapere che non avrebbe partecipato fu un cuscinetto di sicurezza, ma l’offerta fu sincera”137.

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“Non credo saremmo andati oltre la prima mezz’ora di prove”, ha detto ancora Waters. “So per certo che avrei provato una sensazione del tipo ‘Uh! Non mi piace questa situazione. Non voglio essere qui a fare questa cosa, non mi fa sentire bene’. C’è troppa storia passata. A suo tempo prendemmo determinate decisioni e strade separate. Se devo suonare su un palco DARK SIDE, voglio farlo con persone che amo”138. Il bassista è comunque sereno riguardo la sua scelta: “Sai, sono soddisfatto di ciò che è accaduto. Era difficile allora, solo adesso comprendo quanto era potente il nome Pink Floyd. Ma molta acqua è passata sotto i ponti. Adesso sto davvero godendomi la vita e sono molto felice del lavoro che faccio. Non riesco a immaginare una qualsiasi ragione per ritornare a lavorare in un album dei Pink Floyd e fare uno show, o un tour, o una qualsiasi altra cosa che mi faccia dire: ‘Okay, ci sto. Voglio essere una grande star, voglio tutto questo, voglio tutto quell’onere che ripudiai quando andai via e voglio riabbracciare tutto quel materiale che attaccai quando feci THE WALL, voglio cambiare tutte le mie filosofie, tutto quello che ho detto e sento circa la musica e la mia propria integrità, la mia politica e tutta la mia vita. La rinnego ora, è tutti vadano fuori e guadagnino insieme molti soldi”. “Non può accadere. Tutte queste cose nella mia vita sono davvero importanti; la musica è veramente importante per me. Quella specie di magia che avevamo prima del successo era davvero importante per me. Quel legame tra i musicisti e il pubblico… e le idee nelle canzoni… volevo far parte di quello. Non di questo, per sentirmi dire: ‘Non sai quanto abbiamo incassato?’. Non l’ho cercato dal 1977 quando dissi chiaramente: ‘Non voglio questo e non lo vorrò mai più!’. Posso capire che ci sono fan che vorrebbero una reunion, poiché queste situazioni vengono analizzate da punti di vista diversi. La gente, i fan, hanno molta nostalgia per i vecchi tempi, quando eravamo una band che realizzava insieme grandi opere, e ho molto rispetto per le opere che hanno realizzato poi e quello che invece abbiamo realizzato insieme: era grande, ma siamo cresciuti in modi diversi e alla fine ci siamo divisi. Non abbiamo più in comune grandi ideali. Quindi non sarebbe una buona idea tornare a lavorare insieme. L’unico motivo che ci vedrebbe nuovamente uniti sono i soldi. E questo non mi attira. Non ho bisogno di soldi; sarebbe un passo indietro. Sentivo che la nostra situazione insieme era in qualche modo schiacciata sotto il peso del nostro successo, dai soldi, dai numeri e dall’ammontare di persone in pubblici enormi. Tutto ciò iniziava a divenire più importante delle idee che esprimevamo e

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della comunicazione con la gente e via dicendo. Così non desidero affatto buttarmi nuovamente in quel giro… per citare una mia vecchia canzone [Welcome To The Machine]: ‘Può diventare una bomba se spingiamo tutti insieme, come una squadra’. Beh, l’abbiamo fatto”139. La tanto agognata reunion è poi avvenuta, come abbiamo, visto il 2 luglio 2005. Il sogno si è realizzato. Con le migliori intenzioni di Waters, l’occasione è stata ovviamente una causa umanitaria: il Live 8, il grande concerto gratuito organizzato da Bob Geldof in occasione dell’incontro del G8 a Edimburgo. I Floyd, tra le lacrime dei presenti, si sono riuniti per l’ultima volta. Gilmour ha dichiarato di aver tratto belle sensazioni dal concerto, mentre Wright si è detto felice di aver accanto Roger Waters. Vien fatto davvero da chiedersi, allora: chi è Pink? Come canta Roy Harper in Have a Cigar, terza traccia di WISH YOU WERE HERE, album appunto dedicato a Barrett e volutamente percorso dal sottile quanto inquietante tema dell’assenza e della incapacità di sentire sentimenti. La reciproca voglia di trasformare i Floyd nel “proprio gruppo” era già palese negli ultimi album del

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gruppo, quando in studio i due si scambiavano occhiate fredde e frecciate di sarcasmo, probabilmente mai spente. Nel making of di Remember That Night è documentato infatti un dialogo in cui non manca un tocco di ironia “freddamente britannica” di Waters all’indirizzo di Gilmour circa gli ultimi progetti, durante un loro incontro ai teatri di posa inglesi dove i due provavano. Durante lo stesso tour di Water di THE WALL, alla O2 Arena di Londra hanno preso parte Gilmour e Mason. Ma, se da un lato Gilmour ha dichiarato140 onestamente e sinceramente che l’assenza di Waters durante le session di registrazione di A MOMENTARY LAPSE OF REASON si sentiva molto dal punto di vista creativo, ammettendo che Waters in studio sapeva sempre come creare suoni e brani, dando le giuste direttive, a Waters si è poi ritorta contro la sua voglia di chiudere con i Floyd. Il suo primo album solita, infatti, THE PROS AND CONS OF HITCH HICKING, si è rivelato un flop commerciale, cosa che però non lo ha scoraggiato. Come non ha scoraggiato Gilmour il suo altrettanto insuccesso commerciale del primo album solista, DAVID GILMOUR, come abbiamo visto nell’introduzione. Ed ecco quindi che torna il passato, il “vecchio, glorioso passato”, di cui i quattro davvero non riescono a scrollarsi di dosso l’ombra. Un passato, però, continuamente “riattualizzato”. Ed ecco che siamo al docu-film Roger Waters – The Wall, per la regia di Sean Evans e dello stesso Waters, che nel film è anche attore nel ruolo di se stesso. Già dal titolo, Waters sembra voler rivendicar la paternità dell’opera rock. Il prefisso “Roger Waters”, rimanda invece al titolo di un altro, celebre film, Pink Floyd The Wall. Ora al posto del titolo del film diretto da Parker, c’è quindi il nome di Waters. L’inizio del film è subito chiaro, dal punto di vista antimilitarista. Vediamo infatti l’attore ormai “maturo” Liam Neeson, parlare guardando in macchina da presa (il film è girato con il modernissimo formato 4K, una macchina da ripresa elettronica che riproduce alla perfezione la pellicola cinematografica) con uno sfondo azzurro alle spalle. L’attore racconta dei suoi difficili primi tempi a Londra. Proveniva infatti dalla devastata situazione politica della sua nativa Irlanda, dilaniata dalle tensioni dell’Ira, e viveva a Londra nei primi anni Ottanta con un’attrice. Ebbene, quei suoi primi tempi di permanenza nella capitale britannica coincisero con le esibizioni live di THE WALL. Comprese quindi che il muro che sentiva dentro doveva assolutamente essere abbattuto. Doveva farlo per se stesso. Perché è un muro che separa e relega l’altro nel “suo problema”. Toccanti e significative parole, le sue, quasi un “testamento” di impegno a un dialogo di

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pace che avvicini poli (separati appunto da tale Muro), che l’odio razziale fa percepire come diversi e ostili. Dopo alcune, toccanti immagini, che rivedremo più volte durante il film, apprendiamo che non solo il padre di Waters è morto in guerra, ma anche il padre di suo padre. E la macchina da presa, in una lenta e perciò ancora più inquietante ripresa in avvicinamento, si sofferma proprio sulle targhe incorniciate dei due caduti. Roger Waters suona la tromba in un cimitero desolato, circondato da alberi scarni: il brano è l’ultimo del secondo disco, Outside the Wall, che come recita lo stesso titolo, è a favore dell’abbattimento del muro. Siamo in un brullo e desolato cimitero di guerra, con lapidi e croci pressoché anonime allineate in prospettiva, il cui occhio attendo del regista Sean Evans pone in fila, come nell’icona classica vista in Pink Floyd The Wall, durante l’animazione di Scarfe del brano Goodbye Blue Sky. In effetti, per la mostruosa guerra, i morti non sono altro che anonimi numeri, il cui ricordo è affidato solo appunto a queste quasi anonime croci e lapidi ossessivamente allineate. Waters, da ottimo polistrumentista, continua a suonare quella che, per il ritmo lento, sembra una marcia funebre. Rompe questo ferale silenzio di rombo di un aereo, a stento riconoscibile come digitale, che attraversa il cielo plumbeo tipicamente inglese. Parte il primo brano: In The Flesh. Roger entra osannato dalla folla, mentre in inquadrature suggestive e distorte da obiettivi grandangolari il palco esplode in mille colorati giochi pirotecnici, tutti diretti verso l’alto, in una stupenda sincronia. Ci viene così presentato il palco: dettagli dei visi degli uomini in divisa fermi a reggere bandiere e stendardi con il logo dei martelli, abbigliati secondo un look da guardie dell’alienante raduno, sono alternati suggestivamente a inquadrature ampie del palco e a quelle del suo leader Waters, dando davvero la sensazione di uomini asserviti al potere del “demagogo” Waters, in una mega-adunata, “esplosa” in un attimo, al suo apparire sul palco, mostrato anche dai maxischermi ai lati della struttura. Un altro subalterno gli porge sulle spalle un mantello di pelle nera. Roger indossa i suoi amati occhiali da sole neri a goccia. Ora la rockstar è pronta per dare ordini, tra cui il via alle luci e, da ultimo, il comando a una vera riproduzione in miniatura di uno Stuka tedesco che si schianta sul palco. Successivamente vediamo Waters nel backstage, parlare con un suo collaboratore del concerto. Questa inquadratura tornerà poi alla fine del film: stessa frase, stessa immagine, stesse parole. Ed è esattamente qui che l’inizio

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coincide con la fine, in un “circolo che si chiude da solo”, come abbiamo visto, cifra stilistica ricorrente nei principali lavori concettuali di Waters. La rockstar è ora in macchina con la sua adeguata scorta, che vediamo in tutta la sua maestosità in un’inquadratura aerea. Si chiede dove stanno andando: “In albergo?” o “A casa?”. Una lacrima solca il viso di Waters (veramente eccellente nella recitazione). La lacrima cade su un foglio, con una calligrafia dai caratteri vergati con un vecchio pennino in calligrafia decisa ma evidentemente di molti decenni addietro. La sua lacrima macchia una frase riguardante il padre. Waters si commuove nel leggere che il padre si è battuto con onore. È fin da subito chiaro così il riferimento alla guerra. Apprendiamo poi, dopo una suggestiva carrellata in casa Waters, che termina su un documento incorniciato, che anche suo nonno è morto in guerra. Questa carrellata attraverso i corridoi semibui e le stanza appena illuminate tornerà più volte nel corso del film. Il secondo brano, dopo le esplosioni pirotecniche e l’aereo che si schianta sul palco a un ordine di Waters, mostra toccanti immagini di vittime, tutte giovanissime, della guerra, principalmente in Medio Oriente. Lo spettatore, di fronte a tale ingiustificata violenza e morte gratuita per i civili, non può non rimanere indifferente. E durante Another Brick in the Wall part. 2 ci sarà una new: Waters si è infatti avvalso di un coro di “immacolati” bambini, con indosso un cartello con la scritta: “Fear builds The Wall”, ossia: “La paura costruisce il Muro”. Waters suona solo di fronte a uno sterminato pubblico, un brano acustico che riprende appunto il tema del brano appena messo in scena, dopo l’uscita dei piccoli. E qui la presenza, la forza scenica di Waters sembra giganteggiare sul palco: da solo, cattura l’intero, numerosissimo pubblico. Da notare anche gli slogan, tipicamente di Waters, presenti durante il concerto, come “Have a Kalashnikov cognac”, presente più avanti. Waters cita poi la serie di concerti tenutisi durante gli anni Ottanta a Londra e dichiara di aver “ritrovato” immagini di tali concerti. Li vediamo immediatamente proiettati. Si tratta di immagini in bianco e nero in cui canta il brano Mother. Le immagini sono in alto contrasto, e raffigurano il solo Waters cantare il brano, mentre è noto che durante quelle messe in scena Gilmour cantava il ritornello… Il concerto prosegue poi con autocitazioni come l’esibizione di THE WALL a Berlino, in cui il pubblico indossava delle maschere desunte dal film di

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Alan Parker. Anche in Roger Waters – The Wall, i numerosissimi spettatori alzano al cielo maschere simili, secondo la concezione watersiana di intendere il pubblico come un tutt’uno: una maschera informe, appunto. Le immagini del concerto si alternano ad altre in cui Roger Waters è in auto perché ha deciso di intraprendere un viaggio ad Anzio, per visitare il luogo dove il padre è morto. È infatti documentata una visita di Waters ad Aprilia (nei pressi di Anzio) prima dell’uscita del film, probabilmente per un sopralluogo in vista delle riprese. Gli è stata infatti conferita la cittadinanza onoraria da parte del sindaco. Ma l’intento di Waters è sempre e comunque ammonire i giovani e le giovani generazioni circa gli orrori della guerra che, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, deruba familiari affezionati creando muri di sofferenza interiore. Ed ecco quindi Waters sulla tomba del padre, seguito da giovani parenti, cui narra le assurdità della guerra. Un altro momento molto toccante del film riguarda il tema della nascita e di come ha cambiato la vita di uno dei collaboratori più stretti di Waters. La sequenza ci mostra infatti i due, fermi per una pausa, che riflettono come un piccolo nato, pur essendo “pre-programmato” a reazioni da imprinting sorrise quando fu preso la prima volta in braccio, creando un’emozione simile a un tuono interiore. È chiaro il messaggio della preziosità della vita. Durante un altro di questi intermezzi di fiction, vediamo Waters parlare con un barman raccontandogli la morte del padre. Il suo interlocutore gli racconta dell’assurdità dei campi di concentramento, avendo anch’egli perso un parente in uno di questi. Probabilmente il dialogo più toccante avviene poi all’interno dell’auto, quando Waters racconta di aver invitato spesso dei reduci di guerra ai suoi concerti, per poi fare loro onore alla fine del concerto. Ebbene, uno di questi, ricorda ancora la sensibile rockstar, lo trattenne per mano più tempo del dovuto, provocando la perplessità di Waters, che gli chiese il perché di tale gesto. “Tuo padre sarebbe fiero di te!”, gli rispose l’anziano reduce dalla terribile guerra. Il finale del film vede Roger Waters parlare al tavolo di un bar con Nick Mason, sul loro “passato”. Sollevano dei bigliettini con le domande dei fan. Alcuni sono molto giovani, a sottolineare l’eternamente attuale musica del gruppo, che ricorda Waters, è stata composta da “amici”… tra le altre domande, Waters pone l’accento sulle messe in scena, ricordando durante il tour di DARK SIDE l’utilizzo di una piramide gonfiabile, che poi lasciava degli “omaggi” al pubblico, cosa non più possibile oggi perché non

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si può far cadere niente sul pubblico. Mason gli rimprovera affettuosamente di andare sempre in tour da solo e Waters racconta quanto è stato piacevole lavorare con i bambini per questo tour. Tra gli altri argomenti toccati, il rapporto ormai labile con David Gilmour e un immancabile ricordo a Syd Barrett. Il film è stato proiettato nelle sale italiane alla fine di settembre, rimasto primo in classifica tra i film più visti per più di due settimane, mentre il Dvd è stato pubblicato l’11 dicembre e contiene, tra gli extra, immagini di sette giorni di ripresa ad Atene, otto giorni di preparazione per la serie di nuovi concerti già sold out in Sud America e una commemorazione del reduce della Seconda guerra mondiale Frank Thompson. Da notare una piacevole reunion con David Gilmour e Nick Mason al concerto del 12 maggio 2011 a Londra, alla O2 Arena, di cui Waters ricorda141 il desiderio di Gilmour di fondare una “Hoping Foundation”, da lui utilizzato come pretesto per invitarlo a esibirsi. Se Gilmour impazza con il film David Gilmour – Live at Pompeii, Roger Waters esce con un nuovo disco il 2 giugno 2017, dal provocatorio titolo: IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?, a esattamente cinquant’anni dall’esordio con THE PIPER AT THE GATES OF DAWN e a venticinque dall’ultimo disco solista AMUSED TO DEATH. Occasione questa per contestare i muri dell’era moderna, primo fra tutti quello dell’era Trump. Waters, fin dalla campagna elettorale, fu molto chiaro: bisognava iniziare con la resistenza, che è anche la scritta a caratteri giganteschi che appare durante la spietata presa in giro dell’attuale presidente Usa nel tour 2017. Mark Fenwick, il manager di Waters, dichiara, a proposito di questa felicità espressiva: “Roger ci pensava da tempo, ha cominciato a registrare delle cose negli anni Novanta, credo che il successo trionfale dei suoi tour lo abbia sorpreso e convinto a fare nuova musica. Ma ha voluto aspettare di avere qualcosa da dire”142. Ancora una volta, all’ispirazione di questo lavoro di Waters c’è la sua poliedricità: nasce infatti da un radioprogramma che il musicista aveva composto immaginando un vecchio irlandese che porta in un giro immaginario del mondo il nipote (qui la citazione della scena Roger Waters – The Wall, in cui Roger porta i suoi figli e nipoti sulla tomba del parente morto in guerra è inevitabile), in cerca di alcune risposte ai quesiti fondamentali della vita. Waters presentò al produttore Nigel Godrich, classe 1971, alcune demo. Godrich, scelto precedentemente da Sean Evans per la colonna sonora di Roger Waters – The Wall, conservò di quel materiale

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solo Déjà Vu e Part of Me Died. Il resto dei brani nacque successivamente, anche grazie alle pressioni del nuovo produttore, giovanissimo e grande fan dei Pink Floyd. Di lui, ha dichiarato Waters: “Nigel ha fatto un ottimo lavoro come produttore, penso che sia proprio un bel disco. È un fan, ha le idee molto forti su come possano funzionare i dischi. È molto bravo a concentrarsi. C’erano alcune cose che avrei fatto in modo assolutamente diverso. Ho dovuto star lì con la bocca chiusa, che è un gran sforzo per me. Non sono sicuro che lo avrei fatto di nuovo, ma sono contento di averlo fatto questa volta”143. La pungente ironia di Waters tanto cara ai fan, tocca l’apice nel primo brano When We Were Young, dove, tra le altre strofe iniziali, che se fosse un drone, con i suoi “occhi elettronici”, si spaventerebbe se trovasse qualcuno in casa… mentre nella ritmata e più rock canzone dell’album: Smell the Roses, il tanto “romantico” profumo di rose non è altro che gas tossico, “sperando che il vento non cambi”. Viene allora da chiedersi quale sia la soluzione a un mondo in cui “i bambini muoiono”. Ma chiaramente l’amore, non solo quello sentimentale, ma anche quello verso tutto ciò che di buono ci circonda, nella consapevolezza che sono gli occhi di chi guarda a trovare il bello. Quindi in questo disco, più che negli altri, in uno spazio dal sound decisamente più minimalista e intimista, Waters mette a fuoco meglio che nei precedenti lavori solisti il suo percepire il mondo come davvero degradante, definendosi “l’ultimo rifugiato” (The Last Refugee). Non a caso non c’è un Jeff Beck, come in Amused, a intervenire con pesanti e personali assolo di chitarra elettrica, per scelta pressoché assente se nel brano già citato Smell the Roses. Nella title track Is This the Life We Really Want?, sembra ritornare l’ossessione più per la paura in se stessa, per la “paura della paura” (ricordate fears builds the Wall del film con Sean Evans?). Quindi la paura, che come dichiara il testo “mette i mulini degli uomini in riga / dirigendo le loro vite”, acquisisce maggiore attenzione nell’acuta osservazione del settantenne rocker, che ha dichiarato: “Penso che sia la questione di riconoscermi ciò che è dovuto. E tutto ciò per tutta la mia carriera, in particolare al periodo successivo ai Pink Floyd, che fu molto importante. Sono stato nel gruppo per vent’anni, ma c’è stato uno strascico, sai? Era un po’ come andarsene da un matrimonio poco raccomandabile con le lattine ancora attaccate alla macchina, facendo un rumore infernale”.

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Pensi che volevano farti sentire responsabile per lo scioglimento dei Pink Floyd? C’era molta inimicizia, lo sai? E probabilmente non sarò mai perdonato per tutto il lavoro che ho fatto, soprattutto dagli altri della band. Ma stiamo tutti per morire quindi, sul serio, chi cazzo se ne frega? Non importa. Ci ho messo un po’ a superarlo e a smetterla di preoccuparmi di capire quali problemi avessero le persone rispetto a quelle dinamiche. Tutte quelle stronzate sul “non ci lascerebbe comporre”. Fanculo [ride]! Nessuno può impedirti di scrivere, idiota. O chiunque tu sia. È ridicolo. Non voglio entrare troppo dentro la questione perché, avrai capito, come io sia abbastanza allegro ma sono anche stanco di ciò, ormai ho lasciato tutto dietro le spalle. Di solito non parlo di queste cose, perché… e ora non ne parlerò più. Fine. Sei in un diverso stato d’animo in questo periodo? Bè, non avevo idea che sarei stato capace di andare avanti, poiché l’intero pubblico dei Pink Floyd mi voltò le spalle nel 1987 quando tornarono in tour. Suonavo davanti a piccoli gruppi di persone, ed era molto… Bleurgh! [ridendo fa rumore di vomito]. Comunque, sembra che gli appassionati della vostra musica abbiano cambiato opinione su di te: sono sicuramente consapevoli di chi sei e di cosa fai oggi. Già, sembra che abbiano capito qualcosa. E questo disco penso li stia aiutando a comprendere ancora di più, perché quelli che lo hanno ascoltato per intero sono, come dire, “wow”! [ride]. Hai chiarito le cose con Is This The Life We Really Want? Già. Ma guardi anche al futuro, che è importante. Lo è, certo. Quanti altri musicisti che hanno settant’anni fanno ancora album con argomenti così importanti e attenti? Non stai facendo un album di vecchie cover di blues. No di certo. E neanche cover di Frank Sinatra come Bob Dylan. Che sia benedetto. [ride]

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Perché ci sono voluti quasi venticinque anni per scrivere e registrare un nuovo album? Non lo so. La miccia è stata la composizione del brano Déjà Vu, un punto di inizio per tutto il resto. E ho trovato il coraggio grazie anche ad alcuni registi di documentari. Ho già menzionato ieri sera Jeremy Scahill e il suo film Dirty Wars. E pure la straordinaria forza d’animo e il coraggio di Chelsea Manning, Edward Snowden, Ray McGovern, Daniel Ellsberg e tutti gli altri che hanno rivelato informazioni preziose sulle cose illegali della guerra in Vietnam. Lo so che è stato tanto tempo fa, ma uno prende coraggio da tutto. Vedi la gente comportarsi correttamente e pensi: “Wow, mi piacerebbe essere parte della cosa”, anche se si tratta solo di scrivere una poesia o una canzone o fare un disco o cose simili. Originariamente ci sono state discussioni sulla canzone Heartland del 2008. Stavi già pensando a un album, allora? Sì. E alcune di queste nuove canzoni risalgono al periodo 2008-2010? Già. Lo sai, ci sono alcune cose che ho scritto allora che non ho ancora mai registrato… una, ad esempio, suona molto cinica, ma a me piace. C’è una frase alla fine che dice: “And the men sold his kids for meat to a broker in Bangkok and got a color tv, and the keys to the executive washroom and a space in the company parking lot”. Una cosa terribile… ma, purtroppo, vera… Cioè ha venduto la propria anima per delle cazzate? È una frase intensa, perché dice molto sul commercio, perfino dei propri figli, e di come ne diventiamo schiavi, specialmente negli Stati Uniti. Ma questo è il modello americano, oggi è predominante su tutto il resto. Quando finì la Seconda guerra mondiale avremmo potuto decidere di essere liberi, ma preferimmo obbedire alla ricchezza. Abbiamo scelto il sogno americano… e questo è il sogno americano! E se devi vendere i tuoi figli a un broker di Bangkok… Trump lo approverebbe. È business. Tu vivi a New York. Cosa ti fa rimanere qui nell’era Trump con così tante cose così palesemente storte? Ti senti la voce dell’opposizione? La guida della resistenza?

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Fortunatamente c’è un sacco di gente che resiste a queste stronzate. Sono venuto a New York perché c’era mio figlio più piccolo. E così mi sono abituato a starci, poi sono passato attraverso un altro matrimonio e cose simili. Quando cominci a raccogliere i detriti della tua vita è facile rimanere bloccato. Ma non sono infelice qui. Si possono vedere un sacco di posti. Ho iniziato da poco a usare frequentemente la metropolitana, poiché è più facile che andare ovunque in auto o taxi. Ora come ora mi piace. Mi piace essere circondato da tante persone, oppure da poche. Spesso viaggio a metà giornata, ed è divertente quando non c’è molta gente. Ma è bello sedersi e guardare le altre persone. Vedi la gente che vive in questa città e quanto diversa sia, quanto cosmopolita sia dal resto dell’America. Il nuovo album parla anche d’amore? Sì. Almeno due o tre canzoni. Wait For Her è una specie di manuale per una relazione migliore. Del tipo: “Questo è quel che devo fare e tu non farti sconvolgere”? In realtà è molto specifica. Si basa sulla traduzione di un testo di Mahmoud Darwish, il famoso poeta palestinese. E la poesia, nel suo titolo, ha le parole Kama Sutra. Parla in modo particolare sull’aspettare che una donna abbia un orgasmo. È di questo che parla. Non ne avevo idea quando la sentii e quando cominciai a scriverla, ma è così. Ed è bellissima… È grandioso… non sapevo niente di Darwish, poi l’ho scoperto con la sua straordinaria poesia. Poi c’è Broken Bones, dove ti schiarisci la gola all’inizio. Quel giorno mi sono veramente schiarito la gola prima di cantare e Nigel Godrich ha lasciato tutto… Godrich è una scelta interessante come produttore. Sei stato coinvolto in prima persona per la produzione in tutti e tre i dischi precedenti… Penso che abbia fatto un gran lavoro, che non avrei potuto fare da solo… o almeno avrei potuto farlo, ma sarebbe stato completamente diverso. Sono felice di aver rinunciato al controllo della produzione del nuovo album. Non lo avevo mai fatto prima. Probabilmente non accadrà più, ma sono contento che sia successo almeno per una volta.

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Al TimesTalks hai suggerito che stai già pensando al prossimo album. È perché hai scritto così tante canzoni nel corso degli anni? È vero che ho tonnellate e tonnellate di materiale. Ma non so quando farò uscire il prossimo disco. Dovrò comunque, a un certo punto, pubblicare l’altra metà di Déjà Vu, di cui ho recitato una strofa la scorsa notte: “Se fossi stato Dio, non avrei scelto nessuno. Avrei dato lo stesso aiuto a tutti i miei figli. Ognuno sarebbe stato felice di rinunciare al Ramadan… trascorrere il tempo in modo migliore in compagnia di amici, mangiando insieme e riparando le reti della pesca”144.

Roger Waters, dall’alto della sua posizione di rock star di successo, non si è fatto scrupoli. Dal giorno dell’insediamento di Donald Trump, ha guerrescamente dichiarato: “Inizia la resistenza”. Ecco quindi che nel nuovo tour la parola resist appare molto spesso durante le esecuzioni dei brani. È quindi ancora una volta l’immagine a denotare e sottolineare l’attacco, stavolta politico. Leggiamo dal «New Musical Express», un articolo di Andrew Trendell, 10 ottobre 2016: Roger Waters attacca l’arrogante, bugiardo, razzista, sessista, porco Donald Trump al Desert Trip. Lo invita inoltre affinché Israele urgentemente liberi la Palestina Roger Waters ha usato il suo concerto di questo weekend al Desert Trip per lanciare un duro attacco contro Donald Trump, definendolo un “Porco razzista e sessista”. La leggenda dei Pink Floyd si è esibito nello stesso luogo dove hanno suonato Paul McCartney, Bob Dylan, The Who e i Rolling Stones al California Festival. Quando ha suonato Pigs (Three Different Ones) da ANIMALS, Waters ha proiettato immagini di Trump in forma di pecora, mostrandolo con un fallo come fucile, come membro del Ku Klux Klan, che fa il saluto nazista, mostrandolo inoltre con un seno femminile e un pisello piccolissimo. Quando ha cantato il verso: “Ha, Ha, charade you are”, il maxischermo ha mostrato il viso di Trump con il termine Charade in sovraimpressione. Inoltre, Waters ha citato molte frasi ingiuriose dello stesso Trump. Il maiale gonfiabile, icona dei Pink Floyd dal vivo, è apparso durante questa canzone, ma questa volta con lo slogan “Fanculo Trump, ’fanculo il suo muro” (Fuck Trump and fuck his wall). “È raro che qualcuno mi dia

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uno spunto come questo, per questo l’ho usato”, ha dichiarato Waters, prima di offrire un omaggio ai palestinesi e il Movimento BDS [Movimento per la liberazione della Palestina, N.d.A.]. “Ho incoraggiato il governo israeliano a terminare l’occupazione”. Ancora una volta Roger Waters, da sempre più interessato a trasmettere nel più utile modo possibile i suoi messaggi, che a farne mero rumore, si dimostra attento all’immagine. Stavolta, sempre al passo con i tempi, avendo capito di trovarsi nell’era del web, Roger Waters addirittura cura personalmente le riprese dei suoi concerti reperibili in rete. Quindi affida a più operatori video la narrazione così estremamente accurata dell’evento, ricco quindi di primissimi piani alternati ad immagini del pubblico e del “palco schermo”, mutando continuamente angolazione di ripresa. Quello che i Floyd di Gilmour chiedono spesso a registi specializzati (nel caso del video P.U.L.S.E., il regista David Mallett ha utilizzato addirittura sedici telecamere per diversi punti di vista) in occasione di un solo evento concertistico, Waters si impegna invece quasi per ogni messa in scena, che diviene così unica e irripetibile, ogni volta nuova ed inedita, quindi sorprendente ed emozionante per il calore del pubblico tra cui sono discretamente disseminati i suoi operatori. Il pubblico. Il pubblico, che “deve tornare a casa stupito dopo ogni nostra esibizione, altrimenti non viene più a vederci”, come un ventisettenne Waters dichiarò nell’intervista filmata da Adrian Maben per il film Live at Pompeii, può cambiare. Ma solo quanto ad età. E mai quanto ad entusiasmo… un passato eternamente presente.

epilogo

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“…lo stiamo facendo per chi non è più qui tra noi, specialmente per Syd”. Con queste parole, Roger Waters introdusse il brano Wish You Were Here alla storica reunion dei quattro Pink Floyd avvenuta ventitré anni dopo la loro separazione, al concerto di beneficenza a Hyde Park, per il G8 che si sarebbe tenuto a Edimburgo il 2 luglio 2005. Waters, pur dichiarandosi più volte arrabbiato per quello che i media, soprattutto all’inizio scrivevano sul suo conto e su di loro, non ha mai dimenticato il debito di gratitudine verso Syd, senza il quale sicuramente il gruppo non sarebbe mai nato, cresciuto e raggiunto i livelli di celebrità cui lui stesso ha poi saputo portarli. E il pubblico non ha mai dimenticato Barrett. Non c’è intervista in cui non si faccia cenno a lui. E la dichiarazione di Waters denota che il suo cuore è ancora rimasto a quei favolosi anni Sessanta, come dimostrano alcuni dei filmati proiettati durante il The Dark Side Summer Tour del 2006, in cui erano visibili, tra i deliri del pubblico che gridava il suo nome, immagini di Barrett durante i primissimi video come The Scarecrow. Anche Nick Mason ha recentemente dichiarato che tre anni di carriera con lui hanno influenzato trent’anni di musica con i Pink Floyd. Basti pensare all’acme della creatività di Waters, THE WALL, chiaramente ispirato al suo vecchio compagno. Waters stesso ha dichiarato quotidiano «The Observer» di averlo sognato. Erano all’aperto e lui faceva ancora parte del gruppo. Cominciarono a parlare e tutto andava bene. Diceva cose che Roger non capiva, ma lo aiutava e Syd lo accettava. I due erano felici insieme.

bibliografia consigliata ____________________________

AA.VV., Pink Floyd, collana “Manuali Rock” a cura di Luca Ferrari, Arcana, Milano, 1985. AA.VV., Pink Floyd, interviste, testi inediti, il mistero di Syd Barrett, discografia completa, videografia, Arcana, Milano, 1985. Luca Ferrari, Annie Marie Roulin, Syd Barret, a fish out of water, Stampa Alternativa, 1996 (contiene due rare incisioni di Barrett del 1966 su Cd). Cliff Jones, La storia dietro ogni canzone dei Pink Floyd, Tarab, Firenze 1997. Stefano Magnani, Pink Floyd – discografia, Blues Brothers, 1991. Stefano Magnani, Pink Floyd The Wall, Blues Brothers, 1990. Stefano Magnani, Roger Waters, l’anima creativa dei Pink Floyd, da THE WALL a AMUSED TO DEATH, Blues Brothers, 1991. Miles, Pink Floyd – la storia illustrata, Gammalibri, 1999. Nicholas Schaffner, Pink Floyd – Uno scrigno di segreti, Arcana, Milano, 1993. Mike Watkinson, Pete Anderson, Syd Barrett, il diamante pazzo dei Pink Floyd, Arcana, Milano, 1992.

videografia parziale

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A Technicolour Dream Regia: Stefen Gammond Produttore: Jon Beecher e Russel Beecher Produttore associato: Andrew Winter Eagle Rock production 2008 Contiene un ampio e dettagliato ritratto della Swinging London, partendo dallo storico happening 14 Hour Technicolour Dream, tenutosi all’Alexandra Palace il 29 aprile 1967 (cfr. capitolo Le prime messe in scena). Sono presenti quindi interviste ai protagonisti di quell’epoca, che la ricordano come unica e irripetibile, come grande vittoria dell’abbattimento delle convenzioni, tra cui John “Hoppy” Hopkins, Joe Boyd, Kevin Ayers, Barry Miles, Phil May e i Pretty Things. I Pink Floyd appaiono in una session con Syd Barrett negli studi Sound Techinques di Londra. Presenti i rari video dei brani Arnold Layne, Scarecrow, Nick’s Boogie e Astronomy Domine. Dei Pink Floyd dell’epoca sono presenti lunghe interviste a Nick Mason e Roger Waters, che ricorda il modo “unico” di Barrett di creare suoni con la sua Stratocaster. Il loro mangar dell’epoca, Joe Boyd dichiara che si avvertiva già una flebile lontananza tra Syd e il resto del gruppo. Una curiosità: è la prima intervista in cui Roger Waters adotta il look “maturo” di una barba incolta e canuta, “marchio” dell’ultimo Waters. Il Dvd è reperibile solo d’importazione. The Pink Floyd Story – Which one’s Pink? Regia: Chris Rodley

VIDEOGRAFIA PARZIALE

Produzione: Chris Rodley BBC, 2006 Probabilmente uno dei migliori documentari sulla storia dei Pink Floyd. Partendo dalla reunion del Live 8, il film inizia con una rara capacità di sintesi, a narrare la storia del gruppo partendo dal suo fondatore storico, Syd Barrett. Vediamo quindi numerose immagini di repertorio (molte delle quali inedite e mai viste prima) per illustrare la storia del gruppo, alternate a interviste ai tutti e quattro i membri del gruppo, più Bob Geldof, artefice del famoso concerto e ai manager Joe Boyd e Andrew King. Interessante notare che il lavoro termina con una domanda posta ai musicisti: se si sono mai sentiti “una famiglia”. Wright risponde di sì, ma una famiglia che ha divorziato. Mason scoppia a ridere. E Waters, con il suo tipico, sagace sarcasmo, dichiara che non potrebbe mai paragonare suo padre e sua madre ai suoi ex compagni di gruppo. A un ulteriore domanda su possibili reunion, Waters prende le distanze, dichiarando di chiederlo a Gilmour, che assicura che non ci succederà, con il tipico, solare sorriso che gli conosciamo… il video non è stato mai distribuito in commercio in Italia, ma è stato trasmesso da Mtv nella stagione invernale 2008. Pink Floyd – The Making of The Dark Side of the Moon Regia: Matthew Longfellow Produzione: Eagle Rock Entertainment Ltd., 2003 Trattasi del making of di THE DARK SIDE OF THE MOON, raccontata splendidamente e con dovizia di particolari dai quattro componenti il gruppo, più interviste all’ingegnere del suono Alan Parsons, i critici Nigel Williamson e Robert Sandall e il manager Bhaskar Menon, artefice del lancio del disco e del gruppo nell’allora ostico mercato americano. Ogni brano del disco è preso in esame attentamente, attraverso l’utilizzo di immagini riguardanti demo-tape preparatori per il disco, interviste utilizzate nel brano Brain Damage, esibizioni dei Pink Floyd esclusivamente filmate per tale documentario e brani tratti dai bootleg d’epoca. D’importazione, probabilmente uno dei migliori documentari sul capolavoro dei Pink Floyd. The Pink Floyd – London 66-67 Regia: Peter Whitehead Produzione: Hator/See for Miles Film LTD. 1994

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Il film presenta i Pink Floyd, con la formazione di Barrett, durante alcune session di incisione tenutesi l’11 e il 12 gennaio 1967 agli Studi di registrazione Sound Tecniques di Londra. Suonano una versione di Interstellar Overdrive e l’inedita Nick’s Boogie per il film di Peter Whitehead Tonite Let’s All Make Love in London (cfr. apposito capitolo). Li vediamo anche suonare al leggendario Ufo Club, più altre immagini girate durante il 14 Hour Technicolour Dream Extravaganza all’Alexandra Palace in aprile, stesse immagini utilizzate e ampliate nel lungometraggio citato più sopra: A Technicolour Dream. È visibile anche John Lennon che partecipa all’evento. Presente un trailer del film Tonite, Let’s All Make Love In London. Pubblicato in videocassetta d’importazione nel 1994, questo film, della durata di 30 minuti, in bianco e nero e a colori, è oggi quasi introvabile. Syd Barrett’s First Trip Un autentico “pezzo da collezionisti”. È il filmato girato in Super 8 da un amico di Syd Barrett nel 1966 e vede Barrett durante uno dei suoi “viaggi”. La seconda parte del video presenta poi i primissimi Pink Floyd davanti all’ingresso degli Abbey Road Studio, immagini utilizzate nel sopracitato video Wich’s One Is Pink?. Edizione limitata in 5.000 copie. The Pink and the Syd Barrett Story regia: John Edginton’s produzione: John Edginton Otmoor Productions 2001 Trattasi di un’interessante Dvd doppio. Con interviste a Roger Waters (disco 1) e a Rick Wright, David Gilmour, Nich Mason e Robin Hitchcock riguardanti Sud Barrett e i primi Pink Floyd. Interessante per approfondire, attraverso immagini inedite di Barrett, il suo mito. Buongiorno, notte regia: Marco Bellocchio produzione: Film albatros e Rai cinema, 2003 Trattasi di un film a soggetto riguardante il rapimento di Aldo Moro. Il regista Bellocchio compie un ottimo ritratto degli anni Settanta, utilizzando brani musicali di Schubert, Verdi, Offenbach e Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd (versione studio).

note

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1. Antonio Pedicini, Conosci te stesso. Come ho scoperto i Pink Floyd, in «Cymbaline», anno 6, n. 25, p. 18, febbraio 1999, autoproduzione. 2. Tratto dalla novella Il corpo in Stephen King, Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, 1987. 3. Intervista a David Gilmour del 14 marzo 2000 organizzata da Emi e Sony in occasione del doppio live Is There Anybody Out There?, in «Cymbaline», n. 31, dicembre 1999, autoproduzione. 4. Learning to Fly, in «Rock Star», n. 16, settembre 1994. 5. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 6. Le foto all’interno del packaging sono state realizzate da Willie Christie, cognato di Waters, regista anche dei quattro filmati EP che hanno accompagnato l’album. 7. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 8. Storm Thorgerson, Spirito e materia: l’arte visionaria dei Pink Floyd, Arcana, 1998, pp. 88-89. 9. Intervista inserita in Pink Floyd – The Making of The Dark Side of the Moon, Eagle Rock Entertainment Ltd., regia di Matthew Longfellow, 2003. 10. Nelle mani del bimbo davanti alla porta, nel filmato proiettato alle spalle della band durante l’esecuzione di Shine On You Crazy Diamond. 11. Vedi il testo di Astronomy Domine di Syd Barrett, in THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, 1967. 12. Interviste inserite in Pink Floyd – The Making of The Dark Side of the Moon, Eagle Rock Entertainment Ltd., regia di Matthew Longfellow, 2003.

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13. Sicuramente macchine da ripresa marca Mitchell, veri e propri “scatoloni” in voga i quegli anni in cui il digitale era lontanissimo, che hanno ripreso l’esplosione a una velocità molto accelerata che in proiezione diventa rallentata. 14. Tratto da The Lunatics, Pink Floyd a Pompei. Una storia fuori dal tempo, Giunti, 2017. 15. Macchina da presa per effetti speciali, costituita da diverse “proiettanti” che serve a sovraimprimere immagini, prima dell’avvento del digitale. 16. Schermo costituito da numerosissime e piccolissime sfere riflettenti, che rimanda in macchina da presa l’immagine che viene su di esso proiettata, consentendo così di avere un soggetto in primo piano e un’immagine fittizia di sfondo. 17. Miles, Pink Floyd. La storia illustrata, Gammalibri, 1990, p. 156. 18. Dichiarazione di Roger Waters presente nel booklet Is There Anybody Out There? 19. David Fricke, Pink Floyd, su «Musician» n. 50, dicembre 1982, citato in AA.VV., Pink Floyd, a cura di Luca Ferrari, Arcana, Milano, 1985. 20. Elemento “reale” che sarà inserito in chiave narrativa come suono di un elicottero nel disco e nella pièce live di THE WALL all’inizio del brano The Happiest Days Of Our Lives. 21. Intervista di Tommy Vance a Waters, BBC Radio One, 30 novembre 1979, in Nicholas Schaffner, Pink Floyd, uno scrigno di segreti, Arcana, Milano, 1993, pp. 229-230. 22. Nicholas Schaffner, op. cit., p. 230. 23. Sassofono in THE DARK SIDE OF THE MOON e WISH YOU WERE HERE. 24. Sounds, 26 marzo 1977, in Nicholas Schaffner, op. cit., p. 229. 25. From Pink To Black Despair, di Derk Jewell, «The Sunday Times», 20 marzo 1977, in ibidem. 26. The Song Rimains The Same, Michael Oldfield, «Melody Maker», 26 marzo 1977, in ibidem. 27. Nicholas Schaffner op. cit., p. 229. 28. La genesi del Muro, in Stefano Magnani, The Wall, Blues Brothers, 1990, p. 13. 29. Nicholas Schaffner, op. cit., p. 229. 30. La genesi del Muro, cit., p. 13. 31. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», n. 30, anno 8, marzo 2000, p. 11.

NOTE

32. Ibidem. 33. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 34. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 35. Ibidem. 36. Stefano Magnani, Roger Waters, l’anima creativa dei Pink Floyd, da the Wall ad Amused to Death, Blues Brothers, 1994, pp. 77-78. 37. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 38. Interviste inserite in Pink Floyd – The Making of The Dark Side of the Moon, Eagle Rock Entertainment Ltd., regia di Matthew Longfellow, 2003. 39. Macchina da presa costituita da un obiettivo a forma di “telescopio” distante dal corpo macchina con la pellicola, particolarmente indicata per riprese radenti i soggetti inquadrati. 40. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 41. Intervista in chat con Roger Waters, 13 marzo 2000, in «Cymbaline», n. 31, anno 8, p. 20. 42. THE WALL su Dvd, intervista a Roger Waters – “Roger Waters In The Flesh Tour”. 43. Another Brick In The Wall Part Two, in «Classic Rock», dicembre 2016, p. 33. 44. Henry Yates, Pink Floyd, in «Classic Rock», n. 49, dicembre 2016, pp. 33-34. 45. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 46. Henry Yates, cit. 47. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 48. Ibidem. 49. Ibidem. 50. Intervista in chat con Roger Waters, 13 marzo 2000, cit. 51. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., p. 81. 52. THE WALL su Dvd intervista a Roger Waters – “Roger Waters In The Flesh Tour”, op. cit. 53. Gianfranco Melone, Vera, Stanley e il Muro di Roger, in «Cymbaline», n. 30, marzo 2000, p. 14. 54. Spirito e materia: l’arte visionaria dei Pink Floyd, testi di Storm Thorgerson, Arcana, Milano, 1998, pp. 88-89. 55. Comfortably Numb, in «Classic Rock», dicembre 2016, p. 34. 56. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 57. Ibidem.

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58. Henry Yates, Pink Floyd, in «Classic Rock», cit. 59. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 60. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 61. Mark Blake, Classic Rock Lifestyle – i 100 assolo di chitarra più Rock della storia, in «Classic Rock», n. 49, dicembre 2016, p. 80. 62. Henry Yates, Pink Floyd, in «Classic Rock», cit. 63. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 64. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 65. Ibidem. 66. Miles, op. cit., pp. 154-156. 67. Cliff Jones, La storia dietro ogni canzone dei Pink Floyd, Tarab, Firenze, 1997, p. 195. 68. Ivi, pp. 204-205. 69. Ibidem. 70. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 71. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., pp. 80-81. 72. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 73. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 74. Nel verso: “Wich’s one’s Pink?”, del brano Have a Cigar. 75. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 76. La genesi del Muro, in Stefano Magnani, The Wall, cit., pp. 16-17. 77. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 78. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 79. Intervista in chat con Roger Waters, 13 marzo 2000, in «Cymbaline», op. cit. 80. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 81. Ibidem. 82. Welcome To The Machine, di Karl Dallas, «Melody Maker», 26 marzo 1977, in Nicholas Schaffner, op. cit., p. 228. 83. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 84. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 85. Intervista in chat con David Gilmour, 16 marzo 2000, in «Cymbaline», n. 31, anno 8, p. 19. 86. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., p. 21. 87. Quando ancora si utilizzava la pellicola per il montaggio di un film, questo veniva montato e sonorizzato in bobine, ossia suddiviso in circa dieci-quindici rulli da dieci minuti l’uno.

NOTE

88. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., p. 21. 89. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 90. Intervista in chat con David Gilmour, 16 marzo 2000, in «Cymbaline», n. 31, anno 8, p. 19. 91. Miles, op. cit., pp. 169-170. 92. Nel film il momento è chiaramente individuabile quando Pink, prima di sfasciare tende e veneziane, sfonda prima con una ginocchiata e poi con le mani l’armadio di legno. Allarmato, controlla la mano sinistra. Con grande professionalità, Geldof decise comunque di non fermarsi, nonostante la fuoriuscita del sangue. 93. The Pros and Cons of Hitch Hiking, in Stefano Magnani, Roger Waters, cit., p. 39. 94. Intervista di Jim Ladd a Roger Waters, Roger Waters – In The Flesh Tour 2000, in «Cymbaline», pp. 5-7, n. 32, anno 10. 95. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 96. Ibidem. 97. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 98. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 99. Cfr. «Cymbaline», n. 29 anno 7, p. 15 novembre 1999. 100. L’Atlantic Conveyor era una nave container affondata nelle Falkland da un attacco missilistico che causò la morte di ventiquattro membri dell’equipaggio. 101. Clydeside, zona industirale di Londra adibita appunto alla costruzione di grosse imbarcazioni da diporto, chiusa appunto per la schiacciante concorrenza giapponese. 102. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 103. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 104. Ibidem. 105. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 106. Ibidem. 107. Pericolo, demolizione in corso, in «Cymbaline», cit. 108. Ibidem. 109. Ibidem. 110. Ibidem. 111. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., pp. 45-46. 112. Roger Waters In The Flesh Tour 1999, p. 3, op. cit. 113. Ivi, p. 47, op. cit.

PINK FLOYD

– MUSICA PER IMMAGINI

114. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., p. 45. 115. Memorie live, ROGER WATERS – Zurigo, 3 luglio 1984, a cura di Ernesto Assante, in Prog Italia, anno 3, Sprea Editori, pp. 50-53. 116. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 117. Ibidem. 118. Miles, op. cit., p. 197. 119. Ivi, p. 202. 120. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 121. Ibidem. 122. Stefano Magnani, Roger Waters, cit., pp. 58-59. 123. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 124. Ibidem. 125. Storm Thorgherson, Spirito e Materia – l’arte visionaria dei Pink Floyd, Arcana, 1998, pp. 100-102. 126. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 127. Ibidem. 128. Ibidem. 129. “Roger Waters In The Flesh Tour 1999”, op. cit. 130. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 131. THE WALL su Dvd intervista a Roger Waters – “Roger Waters In The Flesh Tour”, op. cit. 132. Mark Ellen, “Pink Floyd? Sono solo due parole” in “Classic rock lifestyle”, p. 46, 133. Nel documentario “Wich one’s Pink?” regia di Chris Rodley. 134. Mark Ellen, Pink Floyd? Sono solo due parole, op. cit., p. 66. 135. Dalla rivista «Mojo», n. 73, dicembre 1999. 136. “Roger Waters ‘In the Flesh’ tour 2000, in «Cymbaline» n. 32, pp. 3-15, novembre 2000. 137. The Show Must Go On, in «Classic Rock», n. 10, gennaio 2000. 138. Ibidem. 139. Roger Waters In the Flesh Tour 2000, op. cit. 140. “And there we were three” in “Pink Floyd, oltre il muro” di Maurizio Becker, p. 40, ed. “I Miti del Rock”, Alpi Editore, Roma, 1997. 141. Comfortably Numb, in «Classic Rock», dicembre 2016, p. 34. 142. Nino Gatti/The Lunatics: È questo il Roger Waters che volevamo, in Prog Italia, pp. 43-44, Sprea Edizioni.

NOTE

143. Ibidem. 144. Marcel Anders, Una breccia nel Muro, in Prog Italia, Sprea Editori, pp. 47-49.

È una proprietà specifica della musica dei Pink Floyd quella di evocare immagini interiori nella mente dell’ascoltatore. Secondo Roger Waters, è proprio questo il motivo profondo del loro successo: la creazione di immagini in grado a loro volta di generarne altre. Ma l’immagine suonata non può non avere un concreto supporto visivo, in primo luogo dal vivo: ed ecco allora gli spettacolari e mastodontici impianti scenografici utilizzati nei concerti più famosi dei Pink Floyd, il trionfo della spettacolarizzazione della musica rock per un gruppo per tanti versi lontano dall’incarnazione degli stereotipi del music business. Importante anche l’evoluzione delle copertine dei loro album, che a partire da atom heart mother si distaccano dal convenzionale prototipo degli inizi psichedelici, incentrato sulle fisionomie dei musicisti, per approdare, anche grazie all’apporto creativo di Storm Thorgerson, all’utilizzo sistematico di immagini emblematiche, volutamente surreali e di difficile decodificazione. Ma è nel rapporto con la settima arte, che attraversa tutta la parabola artistica della band, che l’interazione pinkfloydiana fra musica e immagine trova la sua massima espressione: dai primi esperimenti con Peter Whitehead nella Swinging London delle origini alla doppia collaborazione con Barbet Schroeder per More e La Vallée, dal rapporto con l’Antonioni di Zabriskie Point alla produzione del mitico Live at Pompeii, per culminare nell’epopea watersiana di The Wall (album, show e film, per la regia di Alan Parker): questo libro compie per la prima volta una lunga carrellata sull’universo immaginifico del gruppo, senza trascurare di indagare il tema anche nelle produzioni soliste di Waters e in quelle dei “nuovi Floyd” di Gilmour.

Antonio Pedicini Nato a Napoli nel 1976, ha studiato regia, sceneggiatura, montaggio ed effetti speciali a Roma. Molteplice e varia la sua attività: ha all’attivo romanzi, saggi, così come cortometraggi, lavori cinematografici e sceneggiature. Stregato sin dall’adolescenza dalla musica dei Pink Floyd, ha pubblicato diversi contributi critici su «Cymbaline», organo del Pink Floyd Fan Club.

€ 16,50

Cover layout: Bruno Apostoli