Perniciose letture. La Chiesa e la libertà di stampa nell'Italia liberale 9788883344381, 9788883346606

Dal 1848 la libertà di stampa diventa una realtà acquisita prima soltanto nel piccolo regno sabaudo, poi nello stato naz

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Italian Pages 184 [182] Year 2010

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Perniciose letture. La Chiesa e la libertà di stampa nell'Italia liberale
 9788883344381, 9788883346606

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Maria Iolanda Palazzolo

La perniciosa lettura

La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale

viella

I libri di Viella 107

Maria Iolanda Palazzolo

La perniciosa lettura La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale

viella

Copyright © 2010 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione (carta): aprile 2010 ISBN 978-88-8334-438-1 Prima edizione (ebook): giugno 2011 ISBN 978-88-8334-660-6

Questo volume è pubblicato con un parziale contributo del Dipartimento di Storia dell’Università di Pisa (Fondi di Ateneo per la ricerca scientifica).

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libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Introduzione 1. La «Civiltà Cattolica» e la libertà di stampa 1. La buona censura 2. La «Civiltà Cattolica» e la congregazione dell’Indice 3. Una buona stampa?

9 19 29 34 38

2. I vescovi in trincea. Pastorali e cattive letture

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1. Le Pastorali dei vescovi 2. I vescovi del Regno di Sardegna in prima linea 3. Aspettando l’unificazione 4. Un allarme generale 5. La Vie de Jésus di Ernest Renan 6. Dopo Pio IX

49 57 69 72 84 87

3. Il ruolo dell’Indice nelle società liberali 1. Il caso Rouland. La congregazione si difende 2. Il dibattito interno

4. Nuove regole, un nuovo Indice 1. La preparazione della riforma. L’Officiorum ac munerum 2. Un nuovo Indice

93 106 112 125 138 143

Conclusione

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Opere citate

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Indice dei nomi

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Ai miei nipoti

Introduzione

Gli studi sulla censura sono stati in questi ultimi decenni tra i filoni più ricchi e prolifici della ricerca storiografica. L’interesse dei ricercatori, sia in Italia che all’estero, si è concentrato in particolare sui secoli di antico regime ed ha consentito non solo di fare piena luce sulla nascita ed il consolidamento, lungo il XVI secolo, delle grandi istituzioni ecclesiastiche di controllo, come la congregazione dell’Indice, incaricata di redigere l’elenco dei libri proibiti in tutto l’orbe cattolico ma anche di evidenziare conflitti e convergenze con gli organi creati dai governi centrali tra Sei e Settecento per la vigilanza sulla diffusione delle idee e degli scritti pericolosi.1 Ancora in ombra resta invece il periodo successivo, l’Ottocento, quando, con il mutare del quadro politico europeo e la circolazione, sia pure incerta e faticosa, dei principi liberali, cambiano anche le strategie e le pratiche del potere per il controllo dell’informazione, soprattutto presso quei ceti popolari che si affacciavano proprio in quegli anni ai rudimenti dell’alfabetizzazione. Già dalle prime ricerche sinora condotte tuttavia emerge nettamente, soprattutto per l’ambito italiano, l’importanza del ruolo ancora esercitato dalla Chiesa di Roma e dai suoi organi istituzionali nel controllo della produzione e della circolazione delle opere a stampa, libri e periodici quindi ma anche opuscoli e fogli volanti, durante tutta la prima metà del XIX secolo.2 Ciò segna una indiscutibile e marcata frattura con la politica degli stati italiani ed europei nella seconda metà del Settecento. Diversamente 1. Su questi temi si veda l’ampia bibliografia contenuta in Infelise, I libri proibiti. 2. A questo riguardo cfr. Berti, Censura e circolazione delle idee; Palazzolo, I libri il trono l’altare; Potere e circolazione delle idee.

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infatti dal secolo dei Lumi, caratterizzato dalla volontà dei sovrani assolutisti di ridimensionare drasticamente i privilegi ecclesiastici e di creare al contempo una opinione pubblica favorevole alle riforme,3 nell’Ottocento i governi nati dal congresso di Vienna sembrano voler siglare un nuovo patto con il pontefice e la curia romana, collaborando attivamente con la Chiesa cattolica per il controllo della trasmissione delle idee e della lettura anche attraverso il formale ripristino della revisione ecclesiastica, caduta nell’oblio o superata nei fatti dopo l’ondata rivoluzionaria ed il periodo napoleonico.4 Gli esempi paradigmatici di questa nuova alleanza sono numerosi. In primo luogo l’Index librorum prohibitorum, aggiornato periodicamente dalla romana congregazione dell’Indice, acquista un valore di modello delle interdizioni a cui, con poche sbavature, si adeguano anche i divieti di diffusione emanati dai governi della penisola. In pratica, la gran parte dei libri condannati dalla Chiesa sono proibiti anche negli stati italiani; valga per tutti l’esempio della Storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi che, ripubblicata per secoli in terra veneta come simbolo dell’autonomia della Repubblica di Venezia dalla Chiesa di Roma, viene posta all’“erga schedam” dal nuovo governo austriaco nel Lombardo Veneto.5 Oltre a ciò, all’interno degli uffici statali di censura, il compito di esaminare i manoscritti per il rilascio del permesso di pubblicazione è normalmente affidato ad autorevoli uomini di cultura appartenenti nella quasi totalità al clero cattolico; infine ai vescovi viene lasciata grande autonomia nell’esercizio della pastorale ecclesiastica sulla buona lettura. Ma soprattutto vengono condannati dalle autorità civili, e quindi non sono ammessi alla pubblicazione e alla vendita, tutti quei testi che in varia misura sono contrari alla cattolica “religione dominante”, a cominciare dai volumi protestanti o ebraici, o alle opere di ispirazione antitemporalista. I processi di riforma inaugurati da Pio IX ed il biennio rivoluzionario 1848-49 mettono definitivamente in crisi questa forma di collateralismo, già 3. Si vedano in particolare Braida, Il commercio delle idee, in particolare il cap. II; Landi, Il governo delle opinioni; Napoli, Letture proibite; Tortarolo, La ragione interpretata, in particolare i capitoli VIII e IX; Sabato, Poteri censori; Delpiano, Il governo della lettura; Gabriele, Modelli comunicativi e ragion di stato. 4. Sulla politica di Napoleone nei confronti degli intellettuali e della produzione di cultura nella realtà italiana cfr. Albergoni, La censura in età napoleonica. Sulla censura napoleonica si veda anche Pagani, Cenni sull’organizzazione dell’apparato censorio. 5. Si veda Berti, Censura e circolazione delle idee, p. 94.

Introduzione

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del resto minato dalla crescita di una opinione liberale che richiede ormai di partecipare più attivamente e senza costrizioni alla vita pubblica. Malgrado le ambiguità del pontefice e le repressioni dei governi assolutisti, il successivo fallimento dei moti e delle esperienze di governo rivoluzionario non cancella le riforme già avviate, come era invece avvenuto dopo il Congresso di Vienna. Nel marzo del 1849 infatti, il nuovo sovrano sabaudo Vittorio Emanuele II, con un atto simbolico che nella sostanza apre la strada al moderno assetto costituzionale italiano, conferma lo statuto albertino come legge fondamentale del Regno, difendendo i principi liberali che lo ispirano. La libertà di stampa, sia pure all’interno di un singolo stato, diventa realtà ormai acquisita anche nei territori italiani. Da quella data in poi gli intellettuali e gli scrittori delle diverse province della penisola guarderanno al Piemonte come al luogo dove, senza obblighi di revisione o censure di sorta, è possibile pubblicare e diffondere liberamente il proprio pensiero. E del resto, le cifre della produzione libraria torinese confermano largamente questa tendenza, evidenziando dopo il 1849 una crescita esponenziale non solo di stampe libri e giornali per ogni tipo di pubblico ma anche di imprese editoriali, sorte spesso per l’iniziativa o con la direzione dei protagonisti dell’emigrazione.6 Si pensi, solo a titolo di esempio all’attivismo di un politico come il napoletano Pasquale Stanislao Mancini, o alla lunga e fruttuosa collaborazione tra l’economista palermitano Francesco Ferrara e l’editore Giuseppe Pomba, l’uno curatore e l’altro editore della “Biblioteca dell’economista”. La libertà di stampa in Italia nasce in quel lontano 1848 e da lì anche prende le mosse questa ricerca e gli interrogativi che la sottendono. Quali sono gli atteggiamenti della Chiesa cattolica, sia a livello centrale (curia romana) che a livello periferico (vescovi locali) di fronte a questa situazione del tutto inedita per la realtà italiana, che costringe le gerarchie ecclesiastiche all’isolamento, dipingendole spesso come il baluardo dell’oscurantismo e della chiusura culturale? E soprattutto, quali sono le strategie adottate dai diversi organi clericali per ristabilire quella tradizionale funzione di controllo e disciplina della lettura, che era stata per secoli uno dei pilastri dell’intervento sociale delle gerarchie ecclesiastiche, e che adesso è resa sempre più vana dall’assenza di un reale potere coercitivo? 6. Per una visione d’insieme sulla produzione si veda CLIO. Catalogo dei libri italiani dell’ottocento. In generale sulla realtà torinese confronta Firpo, Vita di Giuseppe Pomba da Torino e La nascita dell’opinione pubblica in Italia.

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Certo è ancora possibile per la Chiesa, come di fatto avviene a proposito del concordato del 1855, affidarsi al potente appoggio di casa d’Austria che garantisce ancora nell’impero il mantenimento dei privilegi ecclesiastici come il controllo delle stampe e dell’istruzione scolastica,7 ma questo modello di collaborazione tra i due poteri, che peraltro dura assai poco, è sempre più difficilmente esportabile nel resto d’Europa mentre d’altra parte cresce nell’opinione pubblica liberale l’insofferenza nei confronti delle pretese ecclesiastiche e si moltiplicano ormai pratiche di comportamento individuale che tendono sempre più ad affrancarsi dalle direttive della Chiesa di Roma. Non è un caso che in questo quadro l’ambito della ricerca sia in prevalenza italiano. Perdute le speranze di un’influenza sull’intero continente europeo, la Chiesa del XIX secolo considera infatti l’Italia come l’ultima frontiera da difendere dalle insidie della secolarizzazione dilagante. Ma accanto a questa convinzione – bisogna dire, presente ancora oggi in alcuni settori della Conferenza episcopale italiana – c’è la preoccupazione ben più corposa per il futuro del potere temporale, considerato da sempre dal pontefice e dalla curia come condizione essenziale ed irrinunciabile per il sereno svolgimento dell’attività pastorale. L’Italia significa Roma; abbandonare l’Italia all’influenza delle idee e della propaganda liberale significa di fatto accelerare il processo di dissoluzione dello stato ecclesiastico e abbandonare Roma alle mire espansionistiche del nuovo stato liberale italiano. Di fronte a questo insieme di problemi, che mette anche in crisi l’articolata impalcatura tradizionale di controllo delle stampe, emerge l’esigenza di ricostruire la complessità delle risposte della Chiesa cattolica. Complessità, si diceva. La Chiesa infatti, malgrado alcune rappresentazioni deteriori, non è una struttura monolitica ed è attraversata al suo interno da divergenze e tensioni che ne hanno variamente segnato la storia: oltre ai ben noti conflitti tradizionali tra curia romana e vescovi, che emergono ad esempio a proposito delle diverse redazioni degli Indici cinquecenteschi studiate efficacemente da Gigliola Fragnito,8 o tra gerarchie e basso clero, vi sono stati contrasti motivati dall’influenza esercitata nei secoli dalle diverse congregazioni religiose, che com’è noto hanno tentato di condizionare variamente le scelte politiche dei pontefici. Documentare tale complessità di posizioni non è sempre agevole, poiché bisogna decodifica7. Si veda Zanotti, Il concordato austriaco del 1855. 8. Cfr. Fragnito, La Bibbia al rogo.

Introduzione

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re il falso unanimismo che sembra contraddistinguere le opinioni, almeno quelle espresse nello spazio pubblico. Pure, al di là di una apparente e rituale concordia, emergono soprattutto nelle discussioni interne alle istituzioni della curia voci dissonanti, spesso perplessità e dubbi sulle linee di intervento dei pontificati, che anche se non diventano esplicite decisioni operative, dimostrano comunque la vitalità di un dibattito interno difficilmente omologabile. Per tornare alla situazione delineata in precedenza, si è cercato di evidenziare le voci più autorevoli e rappresentative dell’elaborazione ideologica della Chiesa alla metà dell’Ottocento ed insieme gli attori, singoli ed istituzioni, che intervengono più direttamente sulle nuove leggi liberali sulla stampa. In primo luogo è sembrato opportuno analizzare le posizioni espresse dalla «Civiltà Cattolica», il giornale dei gesuiti fondato nel 1850, espressione della corrente intransigente e considerato insieme sin dal suo esordio come il portavoce ufficioso di Pio IX. Nato per recuperare l’egemonia cattolica attraverso il confronto dialettico nello spazio pubblico, il giornale acquista immediatamente un ruolo politico di grande autorevolezza, mostrando notevole abilità nell’usare gli strumenti della modernità per contrastare la diffusione del pensiero laico liberale. Sono della «Civiltà Cattolica» le elaborazioni più lucide e coerenti, ma anche più conservatrici, tendenti a riaffermare la funzione della Chiesa come supremo organo regolatore della vita civile, secondo il modello dell’«ordinata cristianità medievale».9 Più difficile far emergere con chiarezza la voce del clero ordinario. Tradizionalmente mediatori tra il pontefice di Roma ed i fedeli, i vescovi vivono un oggettivo disagio, stretti come sono tra i pronunciamenti papali, le encicliche, che impongono periodicamente rigide direttive cui uniformarsi ed i comportamenti dei fedeli, ormai alle prese con un mondo in cui si sono largamente diffuse pratiche secolarizzate, anche sullo specifico terreno che ci riguarda dell’informazione e dell’intrattenimento. Basti pensare alla straordinaria proliferazione dei luoghi della lettura e dell’incontro informale con la carta stampata, dai caffè ai gabinetti di lettura frequentati abitualmente dai gruppi intellettuali, sino alle biblioteche popolari e ai mercati, ritrovi consueti dei ceti meno abbienti. Il pensiero dei prelati locali si esprime pubblicamente attraverso le lettere pastorali, il cui uso si 9. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, p. 457. Si veda anche Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale.

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intensifica in questi anni, nelle quali accanto alle meditazioni evangeliche e alle prescrizioni quaresimali si trasmettono anche ai fedeli delle diocesi precise direttive morali, tendenti in particolare a regolamentare e disciplinare i comportamenti individuali sul tema della lettura. Ma più ancora che nelle lettere pastorali, veri atti pubblici spesso ispirati o esplicitamente richiesti dal pontefice, il disagio dei vescovi si esprime nettamente nelle richieste di chiarimenti inviate alla congregazione dell’Indice, dove emergono dubbi e contrasti sulle linee di intervento della gerarchia mentre cresce lo sgomento nei confronti di una diffusione della lettura che sfugge ormai alle pratiche del controllo ecclesiastico e si autoregola sulla base delle nuove esigenze imposte dalla modernità. Lungi dall’essere un organismo immobile nelle mani delle correnti più oscurantiste, come viene polemicamente descritta dalla propaganda anticlericale di metà Ottocento,10 in realtà anche la congregazione dell’Indice è attraversata da discussioni e conflitti laceranti che ne contrassegnano la storia.11 Se come collettore, registra il disagio proveniente dalla periferia dove è ormai palese lo scollamento tra direttive ecclesiastiche e pratiche sociali in materia di lettura, nelle risposte ai numerosi quesiti posti dal clero ordinario emergono ansietà e dubbi sulla rilevanza di una funzione censoria che non è più socialmente riconosciuta neanche tra i fedeli degli stati a prevalenza cattolica e di cui viene sottolineato nel dibattito pubblico soltanto l’aspetto inutilmente vessatorio e repressivo. Sommersi dalla straordinaria massa di scritti che affolla il mercato librario europeo, i membri della congregazione sono infatti lucidamente consapevoli non solo di non riuscire ad esaminare tutto ciò che viene pubblicato, ma soprattutto che le condanne eventualmente emanate, in regime di libertà di stampa, non hanno un effettivo potere di interdizione e rimangono quindi generalmente inascoltate. La «Civiltà Cattolica», i vescovi e la congregazione sono quindi i principali – ovviamente non i soli – attori in una scena in cui la libertà di stampa, garantita dalle leggi, sembra ormai assegnare alla Chiesa cattolica un ruolo secondario nell’indirizzare e disciplinare le letture dei fedeli. 10. Su questo tema, si veda in particolare il cap. 3. 11. Rispetto alla vastità degli studi sull’attività della congregazione dell’Indice nei primi secoli dalla sua fondazione, è ancora esiguo l’apporto di ricerche sull’Ottocento. A questo riguardo cfr. Wolf, Storia dell’Indice. Su questo e altri interventi si veda la rassegna di studi di Palazzolo, L’ultimo secolo dell’Indice.

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Tre attori, dotati di potere, ma di peso politico assai diverso. Il periodico dei gesuiti, che non ha un ruolo istituzionale riconosciuto ma che è esplicitamente appoggiato da papa Pio IX, sceglie di muoversi agilmente da protagonista nello spazio pubblico, cercando degli interlocutori non solo all’interno dei vertici dell’istituzione ecclesiastica ma soprattutto presso i governi ed il ceto politico italiano. Proprio per la sua natura di organo d’informazione al servizio di un preciso progetto ideologico, al contrario degli altri attori si esprime con una voce univoca con l’obiettivo di un pieno riconoscimento statale del ruolo della Chiesa per il controllo delle coscienze; propone quindi un ritorno giuridicamente riconosciuto sic et simpliciter alla censura ecclesiastica, considerata l’unica legittima e la sola capace di allontanare gli uomini dai pericoli delle false dottrine e dell’immoralità delle letture pericolose. Gli argomenti adottati a questo fine sono molteplici ma in generale, affermando che in Italia l’unica opinione capace di fondare l’identità nazionale è quella cattolica, si formula un pesante giudizio sul futuro dello stato liberale che, in assenza di una formale sanzione del ruolo ecclesiastico anche in materia di stampa, rischia di perdere le basi del consenso popolare. È una posizione sostanzialmente statica, che non vede evoluzioni sostanziali sino alla fine del secolo, e che sposa, malgrado il mutamento di rotta negli anni settanta di uno dei suoi più autorevoli fondatori,12 le tesi più accesamente anticonciliatoriste. Anche la congregazione dell’Indice considera la libertà di stampa come un limite oggettivo, che ostacola pesantemente l’azione di contrasto delle cattive letture. Nei fatti però, i consultori sembrano esprimere una posizione più disincantata: consapevoli dell’inarrestabilità del processo di secolarizzazione, malgrado la riproposizione rituale delle condanne, sono ormai convinti della crisi irreversibile dello strumento di controllo, tanto da auspicarne una radicale riforma o da preconizzarne, sia pure in sede del tutto ufficiosa, l’inevitabile fine. Non è un caso che sin dalle fasi preparatorie del Concilio Vaticano I, su pressioni convergenti di vescovi e consultori, venga posta all’ordine 12. Si tratta di Carlo Maria Curci, cofondatore della «Civiltà Cattolica» insieme a Luigi Taparelli d’Azeglio, poi protagonista di una svolta che lo vede passare a posizioni antitemporalistiche ed anche contrarie al dogma dell’infallibilità pontificia, tanto da subire l’espulsione dalla Compagnia di Gesù nel 1877 e la condanna all’Indice di alcune sue opere. Su di lui si veda la biografia scritta da Martina nel DBI, e Mucci, Carlo Maria Curci.

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del giorno la questione della riforma dell’Indice, con la nomina di una commissione che ha il compito di elaborare proposte tendenti a modificare sia le regole generali che lo stesso impianto del catalogo dei libri proibiti. Se pure, a causa della brusca interruzione per l’arrivo delle truppe italiane dell’assise ecumenica, i deliberati della commissione non potranno essere discussi, essi di fatto diverranno la base dell’ultima riforma della congregazione, la Officiorum ac munerum di Leone XIII. Più complessa ed articolata la posizione dei vescovi. Certo i rappresentanti del clero ordinario nei loro pronunciamenti ufficiali fanno propria la linea dei pontefici, esprimendosi apertamente contro le leggi che hanno introdotto le libertà di stampa e di culto in Piemonte, successivamente estese all’intero stato italiano. Tuttavia, pur riaffermando l’ineluttabilità del ruolo pastorale volto a disciplinare le letture per evitare la contaminazione dei fedeli loro affidati, sono assai pochi coloro che si spingono sino ad auspicare esplicitamente la cancellazione delle libertà civili, richiesta che avrebbe portato ad un conflitto con le autorità di governo nazionale o locale difficilmente sanabile. Nello specifico, le autorità vescovili preferiscono invece impegnarsi attivamente sul terreno di una pedagogia della lettura, soprattutto nei confronti di quei ceti meno privilegiati che, ancora esclusi dai processi di acculturazione, possono più facilmente divenire preda della propaganda laica e anticlericale. C’è da dire che nei settori più retrivi della gerarchia sembra prevalere almeno inizialmente una visione apocalittica – peraltro ben radicata nella storia della Chiesa romana13 – tendente a condannare lo stesso accesso alla lettura come potenziale fonte di pericolo per la salute delle anime, e ad esaltare quindi l’ignoranza dei semplici, meno esposti alle tentazioni mondane e per ciò stesso più vicini a Dio. Di fronte al dilagare di stampe pericolose, che diffondono l’immoralità o peggio seminano la diffidenza nei confronti del pontefice e del clero cattolico, meglio denigrare tout court la cultura, e coloro che la producono, sottolineandone i pericoli. Ma accanto a questa posizione, via via sempre più minoritaria, emerge tuttavia un’opinione più dinamica ed in un certo senso meno impaurita, che tende ad un recupero dell’egemonia cattolica sui ceti subalterni attraverso la promozione capillare sul territorio di una rete di iniziative edito13. Si veda a questo riguardo Fragnito, Proibito capire, che evidenzia come il mancato uso del volgare nei rituali liturgici e nei libri di devozione condizioni pesantemente nel tempo l’accesso all’alfabetizzazione delle masse dei fedeli.

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riali; quella “buona stampa” autenticamente cattolica, spesso promossa da istituzioni ecclesiastiche, che cerca di rispondere alle nuove esigenze di informazione e di promozione sociale, contrastando così più efficacemente i modelli di comportamento prodotti dalla cultura laica.14 Gli esempi di queste iniziative, rivolte generalmente ad un pubblico popolare, sono molteplici anche se ancora non ne è stato stilato un censimento accurato; a partire dalla seconda metà del secolo, sotto l’egida delle autorità diocesane e con l’appoggio del notabilato cattolico, fioriscono progressivamente sul territorio italiano le associazioni per la buona stampa che accostano ai contenuti divulgativi, spesso derivati dalla cultura selfhelpista declinata in chiave cattolica, i valori tradizionali dell’obbedienza alle leggi della Chiesa e dell’accettazione del proprio status. Ma questa scelta, che vede le operette educative cattoliche misurarsi con la concorrenza delle stampe laiche nel mercato librario, comporta di fatto l’accettazione del libero confronto nello spazio pubblico e sancisce quindi, se non sul piano formale certo sul piano della pratica fattuale, la fine della lotta della Chiesa cattolica contro la libertà di stampa. Se i gesuiti della «Civiltà Cattolica» continueranno a condurre la propria battaglia ideologica per il ritorno della censura ecclesiastica, in nome della necessità di un’unica autorità disciplinante, i vescovi italiani abbandoneranno presto questo terreno preferendo utilizzare gli strumenti del confronto dialettico, anche per l’esigenza di un dialogo serrato con il potere politico centrale e periferico. Alla fine dell’Ottocento, con il cambio ai vertici del pontificato ed il mutamento del quadro politico e sociale, appare chiaro che, al di là dei riconoscimenti formali, l’obiettivo diviene convincere l’opinione pubblica dell’importanza del ruolo sociale della Chiesa nel controllo delle letture. Si fa strada ormai la convinzione che la campagna per l’egemonia si conduce più efficacemente con le armi della persuasione e del convincimento capillare che con quelle della censura e delle condanne.15 ***

Alla conclusione di questo lavoro vorrei ringraziare tutto il personale dell’Archivio della congregazione per la Dottrina della Fede ed in partico14. Su questi temi si veda Rusconi, “Emuliamo i perversi”. Una strategia editoriale cattolica nell’Italia dell’ottocento e, pur se in una prospettiva apertamente apologetica, il volumetto di Piazza, “Buoni libri per tutti”. Per lo sviluppo di questa produzione negli stati francofoni cfr. Artiaga, Des torrents de papier. 15. Sulla diversità della linea dei pontificati di Pio IX e Leone XIII si veda Verucci, La Chiesa cattolica in Italia, e Menozzi, Rusconi, Contro la secolarizzazione.

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lare Daniel Ponziani, che con la sua gentilezza e competenza, mi ha spesso aiutato a reperire il materiale documentario. Ringrazio ancora gli archivisti della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna per la loro disponibilità, così come i bibliotecari della Biblioteca di Storia moderna e contemporanea cui mi lega una lunga e fattiva frequentazione. Sono grata anche a Giuseppe Monsagrati, Daniele Menozzi e Roberto Rusconi per le loro attente e stimolanti letture, che mi hanno indicato lacune da riempire e proficue direzioni di indagine. Infine devo molto, per questa, come per tutte le mie ricerche, all’intenso confronto con gli amici della «Fabbrica del libro», Lodovica Braida, Ada Gigli, Mario Infelise, Gabriele Turi, che hanno letto in tutto o in parte questo lavoro: dai nostri periodici incontri, fatti di scambi vivaci discussioni accanite e… complici risate, ho imparato e spero di continuare ad imparare molto.

1. La «Civiltà Cattolica» e la libertà di stampa

Con un ampio intervento programmatico sui caratteri del giornalismo italiano, attribuito a Carlo Maria Curci,1 la «Civiltà Cattolica» inizia a Napoli le sue pubblicazioni nell’aprile del 1850.2 Superate le perplessità del padre generale Joannes Philippe Roothaan e di alcuni dei confratelli interpellati che avrebbero preferito che la Compagnia di Gesù non si impegnasse direttamente nella redazione di un giornale di argomento contemporaneo, ma con l’esplicito appoggio finanziario del papa, Curci, Luigi Taparelli d’Azeglio ed altri gesuiti danno vita ad un nuovo periodico di indirizzo cattolico che all’interesse per l’attualità politica e sociale accosti anche un taglio volutamente agile e divulgativo, teso alla conquista 1. [C.M. Curci], Il Giornalismo moderno e il nostro programma, in «C.C.», s. I, I/1 (1850), pp. 5-24. Com’è noto, gli articoli della rivista non sono firmati. Per le attribuzioni autoriali, si fa riferimento all’Indice generale della «Civiltà Cattolica». 2. Sulla storia della nascita e dei primi anni della rivista della Compagnia di Gesù si vedano i contributi di De Rosa, Alle origini della «Civiltà Cattolica»; Id, La «Civiltà Cattolica» e Carlo Maria Curci; Id., La «Civiltà Cattolica» da Roma a Firenze; Dante, Storia della «Civiltà Cattolica»; Id., La «Civiltà Cattolica» e la Rerum novarum. Si veda anche il Quaderno della «Civiltà Cattolica» n. 3570, dedicato ai 150 anni di vita del periodico, pubblicato nel 1999, con contributi di G. Sale, G. De Rosa etc. Fondatori ed estensori del giornale gesuita, furono Luigi Taparelli d’Azeglio, Antonio Bresciani e Carlo Maria Curci. Su Taparelli si veda in particolare F. Valentini, Il p. Taparelli d’Azeglio; Di Simone, Stato e ordini rappresentativi e Di Rosa, Luigi Taparelli. L’altro d’Azeglio. Su Antonio Bresciani, che cura la parte “amena” della rivista, cfr. Coviello Leuzzi, Bresciani Borsa, Antonio, in DBI. Su Carlo Maria Curci si veda Mucci, Carlo Maria Curci, e la voce a lui dedicata da G. Martina nel DBI. In quanto considerata portavoce ufficiosa del papato, la «Civiltà Cattolica» è stata studiata anche per i suoi interventi su alcuni temi specifici. Per il periodo considerato si veda ad esempio Sale, La «Civiltà Cattolica» nella crisi modernista; Taradel, Raggi, La segregazione amichevole.

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del consenso dei ceti medi. I redattori sono consapevoli infatti che, se la Chiesa cattolica vuole impegnarsi nel contesto europeo a difesa delle proprie prerogative e del potere temporale del pontefice romano, deve accettare senza subalternità e senza pregiudizi il confronto nella sfera pubblica, dotandosi di un adeguato strumento d’informazione che si presenti come l’interprete autentico delle parole del capo della Chiesa e sia nello stesso tempo in grado di orientare e dirigere l’opinione dei cattolici;3 non un giornale enciclopedico quindi rivolto esclusivamente agli intellettuali ed al clero colto secondo un modello accademico di antico regime, come vorrebbe inizialmente Antonio Bresciani,4 ma un periodico autenticamente politico, adatto anche a «capacità mezzane», come afferma Taparelli5 quasi evocando il modello di lettore borghese descritto dal romantico Giovanni Berchet qualche decennio prima,6 che faccia della intransigente 3. Il concetto di “opinione pubblica” come categoria storiografica, diffuso attraverso il classico lavoro di Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, è stato in anni recenti sottoposto a revisione soprattutto dagli storici dell’età moderna. Si veda a questo riguardo Tortarolo, La ragione interpretata, particolarmente pp. 154-191; e Landi, Naissance de l’opinion publique. 4. Stupisce che proprio Antonio Bresciani, così attento ad utilizzare le armi del progresso in funzione antimoderna come farà con i suoi romanzi pubblicati sulla «Civiltà Cattolica», non capisca le ragioni dei suoi interlocutori tanto da proporre l’avvio di un «Giornale di scienze lettere e arti», di stampo prettamente settecentesco (cfr. De Rosa, Alle origini della «Civiltà Cattolica», p. 7). Sull’attività di scrittore di Bresciani si vedano, oltre al classico intervento di De Sanctis, L’Ebreo di Verona, i più recenti studi di Di Ricco, Padre Bresciani, e Del Corno, Letteratura e antirisorgimento. 5. La citazione è in De Rosa, Alle origini della «Civiltà Cattolica», p. 8. La consapevolezza dell’importanza del mestiere del giornalista, anzi quasi il compiacimento, è evidente nelle parole di Luigi Taparelli a Cesare Cantù: «Il pensare che ogni 15 giorni 40 o 50 mila lettori leggono quello che abbiamo scritto, il vedere come dal leggere s’ingenera a poco a poco un nuovo modo di pensare […] tutto questo è tal compenso alla fatica, che non mi lascia desiderare di meglio», lettera dell’8 febbraio 1856 in Carteggi del p. Luigi Taparelli, p. 597. A proposito della scelta di pubblicare anche romanzi ed opere narrative, Curci spiega: «Se avessimo avuta l’ambizione di essere letti esclusivamente da venerabili Vescovi, da dotti ecclesiastici, da laici eruditi e studiosi, intendiamo bene che non avremmo avuto uopo di tali adminicoli, ma essi che non ne hanno uopo intenderanno agevolmente l’uopo che può averne una data generazione di persone schiva oltremisura di leggere cose serie, e pure bisognosissima di leggerne» [Curci], Il secondo volume della Civiltà Cattolica, in «C.C.», s. I, I/2 (1850), p. 18. 6. Si tratta del famoso brano della Lettera semiseria di Grisostomo in cui il lettore ideale viene collocato in uno spazio intermedio tra «ottentotti» e «parigini»: cfr. Berchet, Sul Cacciatore feroce.

La «Civiltà Cattolica» e la libertà di stampa

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difesa della “societas christiana” minacciata dalle insidie della modernità il proprio principale obiettivo. Non che non vi fosse stata in precedenza la consapevolezza, anche in campo conservatore, della necessità di attivarsi sul piano della propaganda politica e culturale con tutti gli strumenti offerti dal moderno sviluppo della stampa periodica, per contrastare efficacemente la diffusione delle idee sovversive e anticattoliche. Già negli anni della Restaurazione, come hanno evidenziato alcuni studi recenti, anche tra gli strenui difensori dell’ordine costituito a cominciare dal conte Monaldo Leopardi, in molti erano convinti dell’utilità del giornalismo per mobilitare la pubblica opinione in funzione antiliberale o peggio, a fini strettamente delatori per mettere in difficoltà o chiedere la chiusura di un periodico di diverso orientamento, come dimostra del resto la vicenda dell’«Antologia» di Vieusseux soppressa nel 1833 dal governo granducale su denunzia della modenese «Voce della verità».7 Ma in quei casi, si trattava prevalentemente di periodici che facevano del collateralismo con i governi assolutisti la loro bandiera ideologica quando non ne erano direttamente finanziati e che, per lo stesso motivo, avevano spesso un orizzonte strettamente locale. Niente a che fare con il periodico dei gesuiti che, per essere credibile e mantenere il dichiarato carattere di universalità, afferma pregiudizialmente la sua equidistanza dalle diverse forme di governo statale esistenti nel territorio italiano, evitando una scelta di parte che avrebbe di fatto impedito il dialogo con l’intera società civile. La Civiltà Cattolica appunto per essere cattolica, cioè universale dee potersi comporre con qualsiasi forma di politico reggimento, tanto solo che abbia legittimità nell’essere e giustizia nell’operare. Talmente che noi inerendo al nostro scopo ed accordandoci al nostro titolo, rispetteremo le probabili opinioni di ciascuno, e all’ora stessa studieremo di rendere un gran servigio a tutti procurando di ricostituire l’idea ed il sentimento dell’autorità sul concetto cattolico.8

Si tratta sostanzialmente dei principi già elaborati e praticati da Taparelli durante i primi mesi della rivoluzione siciliana del 1848, che hanno 7. A proposito della chiusura dell’«Antologia», cfr. il vecchio ma sempre utile saggio di De Rubertis, «L’Antologia» di Gian Pietro Vieusseux. Sulla stampa reazionaria si vedano gli studi di Del Corno, La formazione dell’opinione pubblica, e Censura e libertà di stampa. 8. [Curci], Il Giornalismo moderno, p. 15.

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consentito ai gesuiti presenti nell’isola, non appiattiti nella rigida difesa del governo assolutista, di continuare a svolgere i propri compiti istituzionali anche nel contesto di un processo rivoluzionario.9 Lo scioglimento della Compagnia ed in generale le vicende successive che hanno drammaticamente coinvolto l’intera penisola hanno certamente modificato l’atteggiamento di cauta apertura del gruppo dei redattori, ma non hanno spento la convinzione che la Chiesa cattolica, per parlare in modo credibile all’intero corpo sociale, non deve mostrare di difendere aprioristicamente una parte o identificarsi con un movimento politico. Com’è noto, questa posizione creerà sin dal primo numero gravi problemi alla rivista da parte del governo borbonico e dello stesso Ferdinando II, che si aspettava al contrario un appoggio esplicito alla monarchia assoluta come modello ideale di governo ed una netta condanna delle forme costituzionali nate dal biennio rivoluzionario; da qui, con un rigurgito ritardato di giurisdizionalismo, la condanna della rivista e dei suoi redattori che saranno costretti a trasferirsi da Napoli a Roma, per riprendere le pubblicazioni dalla capitale pontificia dove nel frattempo era ritornato Pio IX.10 Gli eventi successivi, contrassegnati da un aspro conflitto con la monarchia borbonica che arriva a mettere al bando il periodico dei gesuiti, sono stati già accuratamente ricostruiti da Gabriele De Rosa.11 Ma ciò che interessa notare è che questa vicenda sembra proprio accreditare, almeno inizialmente, l’equidistanza se non della Compagnia, almeno della «Civiltà Cattolica» dagli schieramenti che si contrappongono nella scena politica e consente al giornale di presentarsi sostanzialmente possibilista nei confronti della evoluzione della situazione italiana. La storiografia più recente ha ricostruito efficacemente il percorso compiuto nella metà del secolo XIX dalla Compagnia di Gesù, che l’ha condotta da una parziale apertura nei confronti delle rivendicazioni nazionali – espressa in particolar modo da Taparelli – ad un progressivo rifiuto della costruzione concreta dello stato italiano e delle norme legislative che si è dato, ispirate a quel liberalismo che a partire dagli anni cinquanta costituisce per Pio IX e per i gesuiti un principio inaccettabile se disgiun9. Si veda a questo riguardo De Rosa, I gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ’48. 10. In una sorta di editoriale intitolato Al suo posto, «C.C.», s. I, I/3 (1850), pp. 5-18, i redattori, senza fare esplicito riferimento alle vicende napoletane, affermano comunque che la scelta di pubblicare nella città campana era dovuta all’assenza del papa da Roma. 11. De Rosa, La «Civiltà Cattolica» e Carlo Maria Curci, p. 9.

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to dal pieno riconoscimento della suprema autorità ecclesiastica.12 Ma in realtà, se i primi pronunciamenti del giornale dei gesuiti si astengono volutamente da giudizi espliciti sulla forma dello stato, è invece martellante e continua la polemica nei confronti dei principi di libertà enunciati e garantiti dallo statuto albertino, a cominciare dalla libertà di stampa considerata come la responsabile principale della dissoluzione dell’unità religiosa e sociale in Italia. Già nell’articolo Il Giornalismo moderno ed il nostro programma cui prima si accennava, che contiene le linee generali a cui la rivista intende ispirarsi per il futuro, emerge un durissimo attacco alla «licenza della stampa» che ha consentito nel biennio rivoluzionario 1848-49 la diffusione di un giornalismo senza regole e senza principi.13 Ma è a Luigi Taparelli d’Azeglio, vero ispiratore degli indirizzi ideologici della rivista, che si deve qualche mese più tardi un ampio intervento dal titolo La stampa libera, che spiega con estrema chiarezza le ragioni del rifiuto delle libertà civili da parte della gerarchia cattolica. La piena libertà nell’opinare è conseguenza indeclinabile del principio protestante […] l’istituzione che sancisce una assoluta libertà di stampa è istituzione essenzialmente anticattolica, ed appunto per questo ella dovette in Italia gittare un tizzone di discordia e dissolvere l’unità; quella unità religiosa rimasta ultima e quasi unica fra le tante scissure d‘Italia, come rimpiangea saviamente Massimo d’Azeglio nel Programma per formare una opinione italiana […] Sì, prima ancora che la libera stampa produca lo sterminio negli intelletti coi veleni ch’ella diffonderà a suo tempo, l’unità religiosa viene a perdersi necessariamente, e per conseguenza viene straziata la società pel solo fatto della istituzione pubblicata; perciocché codesta istituzione è per se stessa una pubblica ed autentica abolizione della unità religiosa.14 12. Su questi temi si veda il contributo di Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana. 13. «Proclamate appena nuove istituzioni civili, la licenza della stampa nacque ad un parto medesimo colla libertà: e bastarono pochi mesi perché il Giornalismo italiano ci regalasse parecchie di quelle pagine che fanno bruciare di vergogna la fronte di una nazione che al tutto non sia sfrontata», [Curci], Il Giornalismo moderno, p. 9. 14. [Taparelli d’Azeglio], La stampa libera, in «C.C.» s. I, II/4 (1851), pp. 247-248 (la sottolineatura è nel testo). Nella seconda parte dell’articolo (pp. 337-362), Taparelli analizza i diversi sistemi normativi in materia di stampa, sia quelli decisamente liberali (Inghilterra e Stati Uniti d’America) sia quelli che prevedono la repressione degli abusi (Francia, Piemonte sabaudo). Su stampa e pubblica opinione, Taparelli scrive sulla rivista 7 articoli, che confluiranno in parte nell’Esame critico degli Ordini Rappresentativi nella Società Moderna, edito nel 1854. Si veda a questo riguardo Valentini, Il p. Taparelli d’Azeglio,

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Il brano risulta di estremo interesse non solo in quanto enunciazione di principi già del resto sufficientemente noti, ma perché contiene al contempo una interpretazione delle ultime vicende storiche che hanno coinvolto la realtà italiana. Se infatti viene ribadita l’affermazione che fa discendere la libertà di pensiero dalla diffusione della dottrina protestante, coerentemente con il modello già evidenziato dalle encicliche pontificie, dalla Mirari Vos di Gregorio XVI del 1832 alla più recente Nostis et Nobiscum di Pio IX pubblicata nel dicembre del 1849,15 più interessante è la conseguente denuncia della libertà di stampa come la principale responsabile del dissolvimento di ogni principio unificatore del corpo sociale. Nei termini nei quali è stata sancita dallo statuto albertino, essa ha avuto ed ha tuttora per Taparelli ed i suoi sodali una funzione potenzialmente disgregatrice dell’ordine morale e civile. Infatti, dando voce a coloro che prima ne erano giuridicamente privi, in primo luogo protestanti ed ebrei ma anche anticlericali o democratici, la libertà di stampare e di diffondere qualsiasi testo senza un controllo istituzionale preventivo scardina di fatto quell’antica unità religiosa del popolo, solo cemento capace di fondare e dare un valore identitario all’intera nazione italiana.16 Da questo punto di vista, risulta oltremodo significativo il richiamo al fratello Massimo e al contenuto della sua Proposta per l’opinione nazionale italiana, pubblicata nel 1847, nella quale anche l’uomo politico aveva posto la «cattolica unità dell’Italia» a imprescindibile fondamento della costruzione della nazione.17 che nota: «Per il Taparelli la libertà assoluta della stampa, negando il principio d’autorità, e quindi dando libertà sfrenata al pensiero, sortirà all’effetto che nessuno più stimerà di mostrarsi obbediente al governo, e in tal maniera ogni ordine civile verrà rovesciato e la società precipiterà nel caos» (p. 525). 15. Cfr. Enchiridion delle encicliche 2. 16. In gioco vi era, prima di tutto, la libertà dei culti protestanti e l’emancipazione dei valdesi, propugnata in Piemonte da Roberto Taparelli d’Azeglio fratello di Massimo e di Luigi e sancita nel febbraio del 1848; l’editto di emancipazione consentiva tra l’altro la pubblicazione e la diffusione delle opere evangeliche. Si vedano al riguardo Romagnani, I valdesi nel 1848; La Bibbia, la coccarda e il tricolore. 17. «Per quanto non stimiamo ci convenga entrare nella questione religiosa, non vogliamo però tacere quanto si creda da noi preziosa la cattolica unità dell’Italia» (d’Azeglio, Proposta d’un programma, p. 41). Su questo tema si veda anche Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, in particolare il cap. I. L’idea che l’unità del popolo italiano si fondi sulla professione di fede cattolica è ribadita da Carlo Maria Curci che, difendendo il giornalismo cattolico, afferma che questo rappresenta l’opinione di tutti «quanto più è evidente e sicuro che l’universale del popolo è sinceramente cattolico, e non può per

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Per i gesuiti, e per il pontefice di cui sono diretti portavoce, l’accettazione di uno stato nazionale italiano, al di là della sua precipua forma di governo costituzionale o assolutistico, sarebbe stata possibile solo nel caso di un pieno riconoscimento del ruolo della Chiesa cattolica come il vero centro intorno al quale regolare la vita civile; ma la promulgazione in Piemonte dello statuto, che contiene ed amplia le libertà di culto e di stampa schiudendo così la strada alla propaganda evangelica o anticlericale, e la sua conferma da parte di Vittorio Emanuele II anche dopo i disastri della guerra del 1849, va in direzione nettamente contraria, aprendo quindi un durissimo conflitto con i vertici istituzionali della Chiesa che andrà ben oltre il XIX secolo.18 In questo quadro, si comprende chiaramente come sin dai primi numeri la libertà di stampa – considerata invece «prima di tutte le libertà» dal movimento liberale europeo19 – diventi nelle pagine della «Civiltà Cattolica» una discriminante essenziale per valutare l’azione di governo dei singoli stati. Malgrado la pretesa equidistanza tra i diversi modelli statali, è evidente che solo gli stati che si conformino alle leggi della Chiesa – e quindi accettino nei fatti quel controllo ecclesiastico sulla stampa, presente in Europa sin dai primi decenni del Cinquecento – possano sperare di raggiungere la prosperità evitando la disgregazione morale e civile. Il tema della censura, o se si vuole dei poteri e degli organi abilitati ad esercitarla, entra quindi a pieno titolo nel dibattito promosso dalla «Civiltà Cattolica», sia negli articoli redazionali di respiro più generale, sia nei contributi di commento agli eventi politici contemporanei. Il giudizio è nettissimo; le società «ammodernate», dove il liberalismo di origine protestante ha piantato le sue bandiere concedendo a tutti i cittadini la possibilità di pubblicare e diffondere senza controlli preventivi il proprio pensiero, sono destinate alla frantumazione delle opinioni e degli interessi e quindi al «dissolvimento dell’unità sociale».20 Il riferimento esplicito in questo essere considerato come una fazione o una parte», Gli organi della opinione, in «C.C.», s. III, IX/9 (1858), p. 11. 18. «L’introduzione di libertà – in particolare quella di stampa – che ponevano fine ai privilegi ecclesiastici nel controllo della vita collettiva erano ai suoi occhi la chiara testimonianza che si era voluto aprire la porta […] al dilagare d’una sfrenata immoralità» (Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, p. 470). 19. L’espressione è utilizzata da Mirabeau, Sur la libérté de la presse, p. 60. 20. «Il dissolvimento dell’unità sociale in tutti i suoi gradi è quindi necessario risultamento nelle società ammodernate di quella indipendenza protestante che attribuisce ad

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quest’ultimo caso è all’Inghilterra, spesso evocata al contrario dai liberali italiani come un modello da imitare di convivenza civile e progresso sociale.21 Ma in realtà l’isola britannica è da molto tempo terra incognita per le gerarchie cattoliche e d’altra parte troppo recente è il riconoscimento istituzionale della Chiesa di Roma in quel paese perché questa si possa permettere un aperto conflitto con le autorità di governo su un tema così delicato. La polemica più stringente e circostanziata è rivolta invece alla vicina Francia, considerata sin dalla metà del Settecento come il luogo di origine della contaminazione sovversiva che si è sparsa in tutta Europa e dove è in atto da tempo un’aspra discussione sui limiti della libertà di stampa, nella quale i cattolici soprattutto dagli anni cinquanta hanno un peso rilevante.22 In realtà la critica della «Civiltà Cattolica» nei confronti della Francia non è motivata soltanto da ragioni ideologiche, largamente condivise del resto da tutti i governi moderati europei, che hanno identificato nella diffusione del pensiero illuminista il punto di partenza dell’incendio rivoluzionario. In questo caso specifico infatti verosimilmente contano di più le contiguità normative tra lo stato francese ed il Piemonte sabaudo, vero bersaglio della polemica, il quale aveva elaborato il testo dell’editto sulla stampa modellandolo sostanzialmente sui principi generali espressi nella Costituzione francese del 1791 ed attuati in concreto nella legge del 1819.23 Diversamente da altri ordinamenti come quelli anglosassoni che almeno esplicitamente non ponevano alcun vincolo all’espressione del pensiero dei singoli, sia l’ordinamento transalpino sia la carta fondamentale del Regno sardo contemplavano nel testo la possibilità della repressione degli abusi, pronunciandosi per una libertà temperata dalla legge. Come recita lo statuto albertino infatti, «La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli ognuno, colla privata infallibilità, il diritto di pubblicar tutte le opinioni e di sforzarsi a modellare su queste opinioni il governo», [Taparelli d’Azeglio], La stampa libera, p. 261. 21. L’obiettivo polemico sembrano in realtà i liberali italiani e quanti, come l’esecrato Gioberti, ritengono che «la dignità della persona umana non riconoscersi ed apprezzarsi altro che in Inghilterra», La nostra epigrafe, in «C.C.», s. I, III/7 (1851), p. 19. 22. La legge sulla stampa nell’Assemblea francese, in «C.C.», s. I, I/2 (1850), pp. 334-336, e Cronaca dalla Francia, in «C.C.», s. I, III/8 (1851), pp. 702-703. Si veda anche [G. Oreglia di Santo Stefano], La libertà della stampa giudicata dai liberali, in «C.C.», s. VII, XIX/7 (1868), pp. 24-35. Sulla presenza dei cattolici nella vita pubblica francese si veda Savart, Les catholiques en France. 23. Sul dibattito parlamentare francese sulla libertà di stampa si veda Compagna, Alle origini della libertà di stampa; per il periodo successivo, cfr. La censure en France.

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abusi».24 Ma questa scelta, motivata per la verità proprio dall’esigenza degli estensori del provvedimento di rassicurare i moderati da una potenziale deriva ultraliberale che può «degenerare in licenza»,25 presta il fianco alle critiche degli ambienti conservatori per le oggettive difficoltà insite nella sua realizzazione. Per i redattori del periodico dei gesuiti allora, contestare la attuazione pratica della legge francese, evidenziare i limiti e le contraddizioni di una norma che si vuole insieme liberale e repressiva significa di fatto indicare quale sia ineluttabilmente lo sviluppo dell’applicazione di quest’ordinamento nella realtà italiana e dimostrare con chiarezza, al di là delle volontà espresse dai legislatori, l’assoluta inadeguatezza del sistema repressivo che nulla può contro la diffusione della cattiva stampa. La polemica è rivolta quindi sì verso la Francia, – non verso i suoi attuali governanti, visto l’appoggio militare dato dal principe presidente Luigi Napoleone al ritorno di Pio IX sul trono di Pietro – ma ancor di più verso lo stato liberale sabaudo in cui l’editto sulla stampa muove i primi passi. Entrando apertamente nel merito delle disposizioni in vigore, Taparelli e gli altri polemisti affermano che le misure cautelative come i sequestri dei periodici o dei libri, contemplate dalla normativa nei casi di gravi ipotesi di reato ed eseguite soltanto dopo un pronunciamento dell’autorità giudiziaria, non hanno alcuna reale efficacia poiché non impediscono la diffusione delle stampe perniciose e non hanno neanche una funzione deterrente nei confronti delle pubblicazioni future.26 Questa posizione 24. Cfr. il datato ma ancora utile Lazzaro, La libertà di stampa. Un breve raffronto storico sulla nascita della norma in vari paesi si trova in Borsa, La libertà di stampa, libello polemico pubblicato nel 1925 contro le leggi fascistissime. 25. La preoccupazione di rassicurare i gruppi più ostili ai principi liberali è evidente nel preambolo posto all’editto sulla stampa, steso da Federico Sclopis: «La libertà di stampa che è necessaria guarentigia delle istituzioni di ogni ben ordinato Governo rappresentativo, non meno che precipuo istromento d’ogni estesa comunicazione di pensieri, vuol essere mantenuta e protetta in quel modo che meglio valga ad assicurarne i salutari effetti. E siccome l’uso della libertà cessa di essere propizio allorché degenera in licenza, quando invece di servire ad un generoso svolgimento di idee, si assoggetta all’impero di malaugurate passioni, così la correzione degli eccessi debbe essere diretta e praticata in guisa che si abbia sempre per tutela ragionata del bene, non mai per restrizione arbitraria» (brano citato in Lazzaro, La libertà di stampa, pp. 7-8; il corsivo è mio). 26. «Nessuna legge è bastevole ad arrestare i mali effetti d’un libro iniquo dopo ch’esso sia pubblicato». L’affermazione di Luigi Taparelli d’Azeglio è contenuta in una recensione ai Discorsi politici e morali del letterato Fortunato Cavazzoni Pederzini, e si riferisce in particolare al saggio presentato dallo stesso Cavazzoni su un tema formulato in maniera tendenziosa dalla Regia Accademia Modenese di Scienze Lettere e Arti, dal titolo «Dimo-

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sarà ribadita successivamente dalla «Civiltà Cattolica» anche quando, con l’unificazione nazionale, la legislazione albertina sulla stampa sarà estesa a tutto il territorio italiano. Il liberalismo […] nel campo della pratica ha finalmente vinto la sua causa. […] Nell’Italia segnatamente esso è, non che dominatore, ma despota assolutissimo di tutta la pubblica cosa; e quindi il regno della libera stampa vi è da nove anni tanto florido quanto forse per lo passato sarebbe parsa follia il sognarselo […] Gli articoli repressivi della legge niente possono contro questo “morbo endemico”. I sequestri, o non arrivano in tempo, o son delusi dalla malizia e dalla impertinenza giornalistica. Il fatto è che i sequestri sono il mezzo più efficace di moltiplicare lo spaccio dei foglietti maledici; onde si ambiscono come favori.27

Il giornale dei gesuiti non era certo il solo a denunciare ambiguità e limiti della legge repressiva, spesso contestata non soltanto dal fronte conservatore ma dagli stessi liberali moderati che nei primi anni della sua applicazione ne sottolineavano l’inefficacia soprattutto nei confronti delle pubblicazioni periodiche e dei cosiddetti “libelli famosi” – o dei foglietti maledici come con espressione aulica li definisce Taparelli – pamphlets corrosivi capaci di distruggere la reputazione di personaggi pubblici e uomini politici con accuse talora infondate ma difficilmente controllabili. Proprio a causa di questi motivi del resto, la normativa sulla stampa fu oggetto sin dai primi anni della sua applicazione di numerosi contrastanti e contrastati progetti di riforma, che tendevano ad adeguarla alle novità imposte dalle scadenze dello scontro politico e sociale, accentuandone progressivamente gli aspetti restrittivi.28 Ciò che interessa notare comunque è che la denuncia strare co’ migliori argomenti i mali della stampa licenziosa e i vantaggi della ben regolata: quindi la necessità di una savia censura». Nel testo, Cavazzoni aveva immaginato un dialogo tra Censura (intesa come censura preventiva) e Libertà (intesa come censura repressiva) nel quale, alla fine, la Libertà si doveva adeguare alle ragioni della Censura. [Taparelli d’Azeglio], Discorsi politici e morali di F. Cavazzoni Pederzini modenese, in «C.C.», s. II, VI/9 (1855), pp. 459. L’affermazione sarà ribadita ancora in un altro articolo sempre di Taparelli, in cui dopo una attenta analisi dei dispositivi della legge, se ne dimostra la pratica inefficacia: Possibilità della libera stampa, in «C.C.», s. III, VII/2 (1856), pp. 385-396. 27. [R. Ballerini], La stampa libera ed il liberalismo in Italia, in «C.C.», s. VII, XIX/4 (1868), p. 514. L’articolo denuncia che «L’Unità italiana» di Mazzini, dopo il sequestro, nel dibattimento giudiziario è stato assolto da una giuria di Milano. 28. Cfr. Cozzo, Il regime della stampa, e più di recente Gabriele, Modelli comunicativi e ragion di stato, pp. 335-352. Sul dibattito sviluppato dopo l’unità a proposito della legge sulla stampa si veda Palazzolo, Una libertà non voluta?.

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dell’inutilità dell’azione repressiva, spesso suffragata da dati specifici, è per i gesuiti funzionale non ad una riforma della legge in vigore ma al ritorno automatico al sistema preventivo, a quella censura preventiva, ancora in atto negli anni cinquanta nella gran parte degli stati della penisola; giudicata ormai antistorica anche da molti conservatori e moderati cattolici, essa viene invece costantemente riproposta dalla «Civiltà Cattolica» come l’unico strumento in grado d’impedire efficacemente la diffusione della sovversione sociale ed il decadimento morale dei cittadini.29 1. La buona censura In questo quadro, se la Francia è la sorgente della contaminazione da cui tutto ha avuto inizio, l’impero asburgico si configura al contrario non solo come il tradizionale e sicuro baluardo dell’Europa cattolica contro gli ormai lontani pericoli di un’invasione «dell’Islamismo e del Protestantesimo», ma anche come la migliore garanzia di pace e stabilità contro le insidie della irreligiosa modernità.30 Certo, questa esaltazione del ruolo dell’Austria nel contesto europeo suona un po’ macabra pensando al dramma che si sta consumando nell’ancora asburgica Mantova, dove sacerdoti cattolici come Enrico Tazzoli, con il sostanziale avallo delle gerarchie ecclesiastiche, sono umiliati e condannati alla forca in quello stesso 1852 per avere difeso le idee liberali ed il principio di nazionalità. Ma di questa tragedia i redattori della «Civiltà Cattolica» non sembrano volersi occupare,31 mentre si mostrano più interessati a salutare con favore 29. Sulle pratiche della censura preventiva nel primo Ottocento cfr. Palazzolo, I libri il trono l’altare. 30. «L’Europa cattolica è debitrice dopo Dio, alla casa d’Austria ed ai prodi suoi eserciti del non essere stata invasa tutta dall’Islamismo e dal Protestantesimo […] Questa vigorosa condizione dell’Austria sia la migliore guarentigia che possa avere la moderna Europa di tranquillità e di pace», Il MDCCCLII, in «C.C.», s. I, III/8 (1852), pp. 18-19. 31. Ho cercato inutilmente traccia di notizie sul processo di Mantova nei peraltro accurati resoconti nella rubrica Cronaca Contemporanea della «Civiltà Cattolica». Solo nel 1853 compare una nota sul Regno Lombardo Veneto, dal titolo Quiete ristabilita e attestati di devozione verso l’Imperatore, s. II, IV/2 (1853), pp. 81-82, in cui si dice: «Dato giù quel primo sussulto in che fu messo il regno da un branco di frenetici mestatori e dalle provvidenze che le autorità credettero di adottare, s’abbonacciò la burrasca e si volse in serenità forse più limpida di prima […] Nel leggere e considerare l’ultima sentenza di Mantova, la quale pone sott’occhio, non solo le enormità di ventisette sciagurati, ma la spaventosa

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i progressivi slittamenti della linea politica del governo centrale austriaco che, abbandonando definitivamente il giurisdizionalismo giuseppino già messo in crisi con la linea di Metternich durante la Restaurazione, si prepara ad approvare nel 1855 un concordato con la Santa Sede che riconsegna all’autorità ecclesiastica il totale controllo della stampa e dell’istruzione scolastica.32 Accettando che la Chiesa divenga il supremo ed ultimo giudice in materia di stampa, l’Austria appare per il periodico dei gesuiti quell’ideale modello di governo a cui tutti i paesi a prevalenza cattolica, a cominciare dall’Italia, devono uniformarsi. Contestata l’utilità dell’azione repressiva nel contesto della normativa liberale, esaltata di nuovo la censura preventiva come lo strumento capace di fermare il diluvio della cattiva stampa, non resta che ribadire che l’unica autorità legittimata alla revisione ed alla sorveglianza della parola scritta è la Chiesa romana insieme ai suoi pastori, come ha appunto riconosciuto il concordato che ha «affidato all’Episcopato di quel vasto impero il diritto di censura sopra la stampa». La Censura Ecclesiastica della stampa, lungi dall’offendere la libertà, è anzi la più sicura, la più degna tutela che possa offerirsi alla libertà di coloro che scrivono, nientemeno che di coloro che leggono.33

L’affermazione apodittica è contenuta in un articolo di commento alle norme concordatarie dal significativo titolo Una censura della stampa tutela della libertà, scritto ancora da Taparelli che ne chiarisce i principi ispiratori in una lunga lettera all’amico Cesare Cantù. ramificazione della rivolta scompartita ne’ suoi comitati e terribilmente organata, non potemmo fare a meno di non sovvenirci: che ad estremi pericoli non disdicono, se pure non sono necessari estremi rimedi». 32. Si veda su questo tema Zanotti, Il concordato austriaco del 1855. Secondo l’art. IX del concordato ai vescovi è garantito, con il sostegno esplicito del braccio secolare, il diritto di impedire la pubblicazione e diffusione di testi contro la religione e la morale (p. 163 e sgg.) 33. [Taparelli d’Azeglio], Una censura della stampa tutela della libertà, in «C.C.», s. III, VII/1 (1856), p. 388. L’articolo è erroneamente attribuito da G. Del Chiaro (Indice generale) a Carlo Maria Curci. Sul tema del concordato austriaco si veda anche la recensione di [G. Fantoni], La libertà della stampa e la censura ecclesiastica. Dialogo del Canonico Teologo Giovanni Finazzi, in «C.C.», s. IV, X/1 (1859), pp. 550-559. L’esaltazione della figura dell’imperatore Francesco Giuseppe, vero principe cristiano, spinto nelle sue scelte politiche dal «sincero desiderio di vedere la Chiesa cattolica sciolta dagli antichi lacci donare al mondo quei beni che essa sola gli può largire» si trova già in Cronaca Contemporanea. Corrispondenza da Milano, in «C.C.», s. I, II/7 (1851), p. 235.

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Il tema del mio articolo si ridurrebbe a queste poche proposizioni: «Chi stampa può fare gran bene e gran male, or per la opportunità e verità del dire, or per i contrari: la Chiesa è giudice di queste due doti; conoscendo il pericolo, ella ha tentato prevenirlo colla censura ecclesiastica: questa censura è volontaria e doverosa per i cattolici: è dunque un freno ragionevole che salva dagli eccessi senza ledere la libertà; dunque ogni scrittore cattolico dovrebbe provvedersi di un censore ecclesiastico approvato dal suo Vescovo, affezionato alla Santa Sede, istruito nelle materie: questa è la sola condizione possibile di stampa libera e non licenziosa: tal condizione è possibile solo nel cattolicismo. Dunque solo fra i cattolici è possibile la libera stampa».34

Chiedendo almeno formalmente il parere dello scrittore, il gesuita in verità descrive la sua idea di censura ecclesiastica come una scelta volontaria di ogni buon cattolico che, per evitare errori nella dottrina o ambiguità nell’insegnamento morale, si sottopone liberamente al giudizio di un ecclesiastico. Ma in realtà la legge austriaca non prevede alcuna possibilità di scelta libera da parte del singolo, che invece deve presentare obbligatoriamente il proprio scritto all’autorità preposta per ottenere il placet alla pubblicazione. Pure, disegnando l’attività di controllo sulla stampa come un diritto imprescindibile della Chiesa per la tutela dell’ordine morale, i gesuiti sembrano – e vogliono – contrapporre alle istituzioni censorie dello stato, per loro natura fallibili e arbitrarie, la buona censura della Chiesa romana che naturalmente «si risolve in ultima analisi nella infallibilità della Chiesa e del supremo visibile suo Capo».35 Inutilmente lo stesso Cesare Cantù, cui certo non si possono attribuire sentimenti anticlericali o spirito accesamente democratico, difende la libera manifestazione del pensiero rifiutando di considerare i pronunciamenti dei vescovi o dei censori da loro nominati come oracoli inappellabili, perché guidati dallo Spirito.36 Nella risposta all’amico scrittore, anch’egli 34. Carteggi del p. Luigi Taparelli, p. 539; il corsivo è dell’autore. 35. [Taparelli d’Azeglio], Una censura della stampa, p. 391. Si noti il riferimento all’infallibilità pontificia, circa 14 anni prima della proclamazione del dogma nel Concilio Vaticano I. 36. Dopo una lunga disamina sull’inopportunità di attribuire ai vescovi funzioni di revisione e di controllo sulla stampa, Cantù afferma: «Io dunque credo che la censura vescovile offrirebbe grandi inconvenienti: e per conto mio la troverei inopportuna, in quanto riverserebbe sulla Chiesa quella malevolenza che facilmente s’ingenera contro chi restringe la manifestazione dei pensieri. Vorrei anche aggiungere che la Chiesa istituì soltanto la Sa-

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peraltro coinvolto proprio in quegli anni in un procedimento presso la congregazione dell’Indice a proposito della sua Storia Universale,37 Taparelli ripropone la necessità della piena sottomissione all’autorità ecclesiastica, unica maestra infallibile, che sarà la cifra connotativa di tutti i successivi interventi della «Civiltà Cattolica» su questo tema.38 La morte di Luigi Taparelli nel 1862 ed il consolidamento dello stato italiano non fermano la polemica né modificano la posizione del giornale dei gesuiti, che sembra anzi radicalizzarsi anche in presenza della crescita progressiva di una opinione cattolica che, se pure ancora minoritaria all’interno della gerarchia, si mostra disponibile all’accettazione delle nuove istituzioni civili, sia pure in un contesto normativo che garantisca alla Chiesa cattolica il libero esercizio del proprio magistero. Questo atteggiamento appare evidente agli inizi degli anni settanta quando appare sulla «Rivista Universale» di Firenze, uno dei più accreditati ed equilibrati periodici dei conciliatoristi italiani, un vasto articolo sul tema de La libertà della stampa.39 L’ottica dell’estensore Raffaele Foglietti, storico locale e soprattutto esponente del gruppo dei cattolici liberali aperti ad una partecipazione attiva alla vita pubblica, è quella di dimostrare con prove inoppugnabili l’assoluta inutilità della censura preventiva, che non riesce ormai a sconfiggere la diffusione delle opere immorali e potrebbe anzi essere utilizzata dai governi contro le pubblicazioni della Chiesa. Appoggiandosi ad alcune citazioni tratte dalle opere di Antonio Rosmini e Cesare Balbo, Foglietti afferma in primo luogo che la libertà di pensiero e di stampa come «facoltà di esprimere ragionando […] i propri sentimenti e le proprie opinioni […] è un diritto sacro della cra congregazione dell’Indice per dinotare i libri pericolosi già stampati: e per quanto parmi, non è di fede nemmeno la sua decisione» (lettera dell’8 maggio 1855, in Carteggi del p. Taparelli, p. 542; il corsivo è mio). In varie occasioni il moderato Cantù si pronuncia a favore di una libertà di stampa temperata dalle leggi: tra queste, il dibattito milanese promosso dal Premio Ravizza nel 1878, come si ricorda in Palazzolo, Una libertà non voluta?. 37. Si veda Palazzolo, «Scrivendo in paese libero». 38. «Rispetto poi alla censura vescovile che Ella troverebbe inopportuna, che vuol Ella ch’io le dica? Si tratta di una istituzione della Chiesa; Ella capisce che ho detto tutto» (lettera del 29 maggio 1855, in Carteggi del p. Taparelli, p. 547). 39. Foglietti, La libertà della stampa. La «Rivista Universale», nata dall’esperienza degli «Annali Cattolici» di Genova, si ricollega al movimento cattolico liberale europeo, che ha avuto un primo momento organizzativo nel congresso di Malines in Belgio del 1863 e si riconosce in Italia nel motto «Cattolici con il Papa, liberali con lo Statuto». Si veda a questo riguardo Confessore, I cattolici e la «fede nella libertà».

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persona umana». Ma questa piena riaffermazione di un diritto individuale non è solo una rivendicazione ideologica, ma ha una significativa valenza sociale e politica poiché è funzionale all’idea di uno spazio pubblico nel quale possano liberamente confrontarsi le opinioni dei singoli ed in cui anche l’operato dei governi centrali venga sottoposto al vaglio della pubblica opinione. Togliete la libertà della stampa, e avrete tolto una parte vitale dell’organismo di un governo libero, ed insieme il mezzo più potente per correggere gli abusi dei pubblici funzionari […] La stampa, come avverte il Sismondi […], ha tratto il governo al cospetto si può dire di tutta quanta la nazione.40

La stampa quindi, in particolare ovviamente i periodici d’informazione politica, svolge un ruolo essenziale e socialmente rilevante di garante delle libertà dei cittadini e del rispetto delle leggi, secondo una linea che dall’illuminista Gaetano Filangieri41 arriva appunto sino al protestante Sismondi. Inutile allora la riproposizione dei vecchi apparati censori, siano essi ecclesiastici o statali. Nella visione decisamente ottimistica del liberale Foglietti, la cattiva stampa non va censurata poiché «uccide irrimediabilmente sé stessa», mentre può finalmente svilupparsi senza remore una stampa autenticamente cristiana che sappia costruire, anche nel confronto dialettico, una opinione condivisa. Sorga, o val meglio dire si diffonda una stampa cristiana, od onesta, o moderata, che getti un poco di luce su tante questioni così rabbiosamente dibattute, e quel che è più s’adoperi a calmare le passioni e conciliare gli animi […] La giustizia influirà tanto beneficamente diventando opinione nazionale e tale diventerà, come abbiamo già veduto, mercé una lunga e libera discussione, ossia mercé in gran parte la libertà di stampa.42

Come si nota, l’articolo si conclude con una sorta di auspicio, che è anche un invito alle forze in campo nel mondo cattolico perché tendano finalmente ad una visione conciliativa che eviti contrapposizioni laceranti, accettando il confronto con le istituzioni della modernità. 40. Foglietti, La libertà della stampa, p. 50. La citazione di Sismondi è tratta liberamente da Études sur les constitutions des peuples libres, p. 253, anche se in realtà il pesciatino, esaltando la funzione della stampa libraria, mostra qualche scetticismo nei confronti dei periodici, spesso a suo dire eccessivamente scandalistici. 41. È proprio Gaetano Filangieri a parlare di un «tribunale della pubblica opinione», come si legge ne La scienza della legislazione, p. 339. 42. Foglietti, La libertà della stampa, p. 128.

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Ma questo richiamo non sembra sortire molti effetti almeno tra i redattori della «Civiltà Cattolica» che, in un lungo articolo di risposta dal titolo La libertà della stampa e una sua difesa, non solo mettono in discussione «il preteso diritto della libera stampa» secondo la lettera delle encicliche di Gregorio XVI e di Pio IX, ma citando il Sillabo riaffermano che la Chiesa, in quanto istituzione cui è affidata la custodia dell’ordine morale, è l’unica autorità legittimata al controllo della stampa, cui anche i governi devono sottostare senza riserve.43 2. La «Civiltà Cattolica» e la congregazione dell’Indice In questo quadro si comprende bene come la «Civiltà Cattolica» si faccia paladina dell’operato della congregazione dell’Indice, supremo organo della curia romana per il controllo della stampa e il disciplinamento della lettura dei cattolici. Vedremo in dettaglio, nel capitolo dedicato al dibattito europeo sul ruolo della congregazione, i contenuti specifici delle risposte del giornale agli attacchi polemici dei suoi detrattori. Ma in generale si può dire che negli ultimi decenni del XIX secolo, in un momento di grave crisi dell’istituzione preposta alla censura ecclesiastica, stretta ormai tra straordinario sviluppo della produzione editoriale e oggettiva assenza di strumenti coercitivi, la «Civiltà Cattolica» non sembra sposare linee problematiche, peraltro presenti anche all’interno della curia, che mirano ad un ripensamento dell’intera normativa o almeno ad una sua mitigazione. Anche su questo tema infatti il periodico dei gesuiti, che si considera interprete autentico del pensiero del pontefice, accentuando i pericoli provenienti dalle cattive letture e «dallo spirito anticristiano dei tempi», si fa 43. [F. Berardinelli], La libertà della stampa e una sua difesa, in «C.C.», s. VIII, XXIV/10 (1873), pp. 273-288; pp. 385-405: «se l’ordine morale ha diritto ad essere tutelato contro gli attentati della stampa […] ne viene per conseguenza che quell’autorità, a cui è affidata la custodia dell’ordine morale, ha pure il diritto della censura preventiva sulla stampa» (p. 288); «La suprema autorità che dee moderare la stampa non risiede nei Governi, ma nella Chiesa» (p. 395), e ancora «La tessera della nostra unità è il Sillabo della Chiesa Cattolica, che bandisce una sola religione, una sola fede, una sola morale in un medesimo vincolo di carità e lasciamo a chi lo voglia il Sillabo del liberalismo, che pretende l’unione degli animi e degli affetti sopra il fondamento del dissenso delle menti e delle discordie dei cuori, in che necessariamente si risolve la libertà del pensiero» (p. 405; il corsivo è dell’autore).

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portavoce delle tesi intransigenti volte alla riproposizione pedissequa delle regole censorie ed alla loro rigorosa applicazione.44 Ne consegue una rigida difesa di tutte le condanne della congregazione, anche quelle che hanno suscitato maggiori perplessità nel dibattito pubblico. Se infatti Taparelli sin nel 1850 lancia un duro monito nei confronti del cattolico Terenzio Mamiani della Rovere, reo di avere osato protestare contro la censura ecclesiastica alle sue opere dalle colonne de «Lo Statuto» di Torino,45 altrettanto vivace è la difesa dell’inserimento nell’Indice delle Operette morali di Giacomo Leopardi, che negli anni ha suscitato e continua a suscitare acerbe discussioni tra gli intellettuali del tempo. Ancora a distanza di quasi cinque decenni dalla condanna, emessa nel 1850 su parere di Gavino Secchi Murro, un articolo di Alessandro Gallerani risponde ad uno scritto del deputato Emilio Faelli sulla «Nuova Antologia»46 con una strenua difesa dell’operato della congregazione, 44. [Berardinelli], Il giornalismo liberale e la coscienza dei cattolici, in «C.C.», s. VIII, XXIII/6 (1872), pp. 641-658. Si veda anche l’articolo, dal taglio esclusivamente didascalico, di [J. Hilgers], L’Indice dei libri proibiti. Lo svolgimento storico, in «C.C.», s. XVII, LIII/7 (1902), pp. 20-35. Il saggio, illustrando la nuova redazione dell’Index successiva alla riforma avviata dalla costituzione Officiorum ac munerum del gennaio 1897 di Leone XIII, tende a dare di quest’ultima un’interpretazione apertamente repressiva: «Tale sollecitudine non fu vana, finché nel governo degli stati la legge divina servì di norma alle leggi, e i due poteri, Stato e Chiesa, mirarono unanimi allo stesso scopo […] Ma col crescere i pericoli delle cattive letture, per lo spirito anticristiano dei tempi a noi più vicini, e per la grande massa di libri perniciosi spaventevolmente crescente, la Chiesa si trovò costretta di applicare al male il necessario rimedio. Con questo [Indice] essa afferma di nuovo […] il diritto che possiede e però il sacrosanto dovere di difendere efficacemente la fede e i costumi di fronte alla letteratura dotta e non dotta» ( p. 35). 45. Condannato dalla congregazione dell’Indice per numerose opere, Mamiani aveva elevato una protesta pubblicata su «Lo Statuto» del 19 aprile, professandosi fedele cattolico ed al contempo rivendicando il suo impegno contro «il servaggio d’Italia». [Taparelli d’Azeglio], Sulla protesta del conte Mamiani, in «C.C.», s. I, I/1 (1850), pp. 443-445. Nell’affermare che non basta dichiararsi buon cattolico,Taparelli sostiene: «O io credo fermamente a tutto ciò che la Chiesa dichiara esser rivelato da Dio, ed obbedisco a tutto ciò ch’Ella comanda, e sono cattolico» (p. 445, le sottolineature compaiono nel testo). 46. Dopo una minuziosa analisi del parere di Secchi Murro, l’articolo di Faelli, contiene una chiusura sarcastica: « In Italia sono ancora purtroppo molte biblioteche senza cataloghi costruiti sapientemente ed utilmente: anzi talune senza indici affatto. In compenso abbiamo un indice senza biblioteca, ed è appunto l’indice dei libri proibiti. Che grande, che solenne biblioteca, qual monumento all’arte e alla dottrina combattenti contro la reazione e la violenza si potrebbe ergere sulla scorta di quell’indice, ov’è intiera la storia delle persecuzioni del pensiero umano!», Faelli, Leopardi all’Indice, p. 743. Su

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sottolineando che gli scritti di Leopardi possono ancora pervertire l’anima dei giovani, spingendoli ad un esasperato e disperato scetticismo.47 Ed ancora nel 1927, quando ormai da un decennio la congregazione dell’Indice è stata sciolta e le sue attribuzioni affidate alla suprema congregazione del Sant’Uffizio, è Pietro Pirri in un lungo intervento ad affermare che la condanna all’Indice delle opere di Vincenzo Gioberti non è stata motivata, come sostengono i liberali, da ragioni politiche ma da gravissime deviazioni dottrinali; in questo ultimo caso, naturalmente, oltre che una difesa dell’Indice, lo scritto del gesuita appare come un ultimo colpo di coda della polemica della Compagnia di Gesù contro l’estensore del Gesuita moderno.48 In realtà la «Civiltà Cattolica» non si limita affatto alla difesa dell’azione censoria della congregazione ma, come si nota sin dall’inizio della sua attività e come dimostrano le già studiate vicende esemplari di Gioberti e Rosmini,49 mira a condizionare direttamente le deliberazioni dell’organo della curia, indicando dalle pagine del giornale i libri pericolosi da sottoporre ad esame. Tutto questo non stupisce. Un periodico infatti per sua natura riesce a formulare un giudizio più rapidamente di quanto possa farlo una congregazione cardinalizia, oberata dalle molte denunzie e imbrigliata in procedure assai rigide e complesse. Sono numerosi i casi nei quali un giudizio negativo della «Civiltà Cattolica» ispira l’inizio del procedimento di esame, a cominciare dalla dura ed ampia recensione critica apparsa nei fascicoli del 1851 all’operetta di Niccolò Tommaseo, Roma e il mondo nella quale lo scrittore dalmata, pure professandosi apertamente cattolico, si rivolEmilio Faelli, deputato liberale relatore del disegno di legge sull’abolizione del sequestro preventivo nel 1906, cfr. De Longis, Faelli, Emilio, in DBI. 47. A. Gallerani, Il Leopardi all’Indice, in «C.C.», s. XVII, XLIX/3 (1898), pp. 21-36. Su questo tema si veda Giuliano, Giacomo Leopardi e la Restaurazione. 48. P. Pirri, Vincenzo Gioberti e la congregazione dell’Indice, in «C.C.», LXXVIII/4 (1927), pp. 11-28; pp. 201-219. Una attenta ricostruzione delle condanne delle opere di Gioberti per opera delle congregazioni dell’Indice e del Sant’Uffizio riunite insieme si trova nel volume di Malusa, Mauro, Cristianesimo e modernità, che riporta anche i pareri e i verbali delle riunioni. Sull’attività della congregazione del Sant’Uffizio che dopo il 1917, com’è noto, assume le attribuzioni della congregazione dell’Indice per l’esame e la condanna dei libri si veda Verucci, Idealisti all’Indice. 49. Si è scelto consapevolmente di non soffermarsi sulla contrapposizione tra i gesuiti e Rosmini e Gioberti, perché queste vicende sono state ampiamente descritte in Antonio Rosmini e la congregazione dell’Indice; Chiesa e pensiero cristiano nell’ottocento e Malusa, Mauro, Cristianesimo e modernità.

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ge «Alla coscienza di Pio IX» chiedendogli di rinunciare di sua spontanea volontà al potere temporale.50 In questo caso, non solo il parere del revisore, il benedettino irlandese Bernard Smith, prende le mosse dall’articolo del periodico, ma di quell’articolo vengono riportati ampi stralci per suffragare la proposta di condanna,51 mostrando chiaramente che al tribunale della congregazione si accosti ormai un altro tribunale altrettanto, se non più potente e severo, che è quello del giornale della Compagnia di Gesù.52 Analogo, pur se molto più tardo, il caso del volume Fatalità di Ada Negri, recensito con un duro giudizio dalla «Civiltà Cattolica» nel maggio del 1893 e successivamente denunciato utilizzando le stesse parole del periodico.53 In altri casi, l’azione della «Civiltà Cattolica» non è così evidente. Pure, confrontando le date delle recensioni con quelle delle condanne si 50. Roma e il mondo alla coscienza di Niccolò Tommaseo, in «C.C.», s. I, II/7 (1851), pp. 129-148; 270-291; 418-444; 525-547; 639-658. 51. Censura all’opera Roma e il mondo di Niccolò Tommaseo alla coscienza di Pio IX, ACDF, Index, Protocolli 1852-53, 129. Si tratta di un fascicolo a stampa datato 1 aprile 1852, che riportando ampi stralci della recensione afferma: «Quando dunque il sig. Tommaseo asserisce che il dominio temporale de’ Papi è contrario all’insegnamento di Gesù Cristo, ed allo Spirito del Cristianesimo, afferma una proposizione contraria all’universale ed esplicito insegnamento della Chiesa Cattolica» ( p. 7). L’opera viene inserita nell’Indice con decreto del 20 aprile 1852. Sulla condanna all’operetta di Niccolò Tommaseo si veda Palazzolo, Tommaseo e il problema della censura. Su Bernard Smith (1812-1892), cfr. Prosopographie von Römischer Inquisition, II, pp. 1390-1398. A proposito dei “suggerimenti” della «Civiltà Cattolica» alla congregazione, si possono fare numerosi esempi, tra i quali si veda il caso del volume del sacerdote Ambrogio Garavaglia, Della Educazione religiosa e civile delle Fanciulle, contestato duramente dalla «C.C.», s. XII, XXXVI/9 (1885), pp. 63-75, e immediatamente dopo condannato dall’Indice (ACDF, Index, Protocolli 1885-89, 2). C’è da dire che in questo ultimo caso il vecchio sacerdote si sottomette alle autorità con la formula di rito auctor laudabiliter se subiecit et opus reprovabit. 52. In realtà, l’uso della definizione «tribunale supremo della Civiltà Cattolica», con un’accentuazione volutamente sarcastica, si deve a Giuseppe Buroni ed è contenuto nel suo libello Antonio Rosmini e la Civiltà Cattolica, p. 5, nel quale il lazzarista e filorosminiano Buroni ricostruisce la lunga controversia relativa alle condanne delle opere di Rosmini. A parte infatti le due opere, Le cinque piaghe della Santa Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale condannate nel 1849 insieme a quelle di Gioberti e Gioacchino Ventura, una commissione della congregazione aveva esaminato a lungo il pensiero del filosofo, concludendo nel 1854 l’esame con la formula «Dimittantur» che di fatto costituiva una piena assoluzione. I gesuiti, ma anche altri prelati tra cui il domenicano cardinal Zigliara, giudicarono diversamente quella formula e continuarono nella «Civiltà Cattolica» una dura battaglia contro il pensiero rosminiano. Su questa vicenda e soprattutto sul ruolo svolto dai gesuiti si veda ora Antonio Rosmini e la congregazione dell’Indice. 53. Cfr. a questo riguardo Disegni, Emile Zola all’Indice, p. 55.

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può agevolmente supporre che, in mancanza di altri soggetti accusatori esplicitamente indicati nei procedimenti, sia stato proprio il giudizio del periodico dei gesuiti a dare origine all’intera operazione, come nel caso della Storia dei Musulmani in Sicilia di Michele Amari, giudicata assai severamente in un articolo della fine del 1853 e condannata con decreto del 22 marzo 1855.54 Si comprende bene come questa forma di pressione possa essere stata avvertita da alcuni settori della curia non tanto come una collaborazione all’interno dell’impegno comune contro la stampa pericolosa, ma più spesso come una indebita intromissione negli affari interni di una secolare istituzione della Chiesa e come quindi abbia generato talvolta, come vedremo nei successivi capitoli, aspri conflitti tra il periodico dei gesuiti ed esponenti autorevoli della congregazione. D’altra parte, proprio la natura del mezzo giornalistico utilizzato con sagacia dalla Compagnia di Gesù garantiva una inedita potenzialità comunicativa e consentiva di raggiungere e forgiare l’opinione dei cattolici ben prima e più ampiamente di qualsiasi decreto canonico, costituendo di fatto un ulteriore strumento di interdizione e di indirizzo, forse più efficace e diretto. Non a caso, come altri periodici vicini alla Chiesa romana, la «Civiltà Cattolica» fungeva anche da cassa di risonanza della congregazione dell’Indice, pubblicando con tempestività i decreti appena emanati, e assicurando quindi quella diffusione dell’informazione ormai indispensabile per la sopravvivenza stessa della censura ecclesiastica.55 3. Una buona stampa? Come si è mostrato, il tema della censura ecclesiastica ha un posto centrale nella battaglia ideologica e politica condotta dalla «Civiltà Cattolica». Nella visione apocalittica del mondo moderno disegnata dai gesuiti soltanto 54. Storia dei Musulmani in Sicilia scritta da M. Amari, in «C.C.», s. II, IV/9 (1853), pp. 70-91. Nell’articolo, che accusa Amari di ignoranza, si afferma tra l’altro che «si trovano nel Corano tutti i semi delle dottrine protestantiche e dei moderni novatori» (ivi, p. 76). 55. Si tratta di un uso assai diffuso non solo in Italia, ma anche presso alcuni giornali francesi, come ad esempio gli «Annales de philosophie chrétienne». Da notare comunque che, contraddicendo la linea ispiratrice del giornale, la «Civiltà Cattolica» inserisce l’elenco dei libri proibiti all’interno della rubrica Cronaca contemporanea. Cose Italiane. Stato Pontificio, facendone quindi, per la sua collocazione, più una notizia interna allo stato ecclesiastico che una informazione di interesse universale.

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la buona censura esercitata dalla Chiesa e dai suoi pastori, con il pieno accordo delle autorità civili, può impedire efficacemente la contaminazione delle cattive letture e salvare quindi le anime dei buoni cattolici. Ed in questo senso tutte le energie sane, dalla gerarchia ai ministri del clero ai singoli fedeli, devono in prima istanza essere attivamente mobilitate per combattere le istituzioni liberali e ripristinare con tutti i mezzi quell’antica alleanza del Trono e dell’Altare, modellata sull’epoca medioevale, che garantiva alla Chiesa di Roma il controllo delle coscienze e a tutti i fedeli la serenità dello spirito. In effetti quello che colpisce nella descrizione del mercato librario italiano dell’Ottocento fatta dai gesuiti, del resto in piena consonanza con le parole contenute nelle numerose encicliche di Pio IX su tale argomento,56 è la radicalità dello scontro, tra bene e male, vita e morte, che esclude qualsiasi ipotesi conciliativa ed impone la più vigile attenzione. L’Italia è allagata da un diluvio di stampe d’ogni forma e colore, foglietti, opuscoli, giornali, strenne, romanzi, lunari, storiette piene a ribocco di oscenità e di mortifere dottrine. Ove la congiura della menzogna è più che mai tremenda, ivi la circospezione ha da essere infaticabilmente desta. Niuno si fidi dei frontespizi e delle apparenze.57

O ancora: I cattivi libri fanno un male grandissimo alla religione e alla prosperità dei popoli, perché nel diffonderli gli empi sono legati insieme da una cospirazione generale; alla congiura empia e irreligiosa bisogna contrastare con una resistenza cattolica che prenda le sue forze dall’organismo e dall’associazione.58 56. Dopo la durissima denuncia contenuta nella Nostis et Nobiscum del 1849, non diversa è l’ispirazione della Cum nuper annua del gennaio 1858 in cui si chiede ai vescovi la massima «pastorale sollecitudine poiché si pubblicano ovunque, emersi dalle tenebre, libri pestilenziali per mezzo dei quali abilissimi fabbricatori di menzogna si sforzano di portare alla depravazione, con perverse e malvagie opinioni di ogni genere, le menti e i cuori di tutti, confondendo ogni realtà umana e divina, onde far crollare le fondamenta stesse della società cristiana e civile», Enchiridion delle Encicliche 2, p. 395. 57. Si tratta di una recensione a Letture di famiglia e scritti per fanciulli, raccolta di scritti originali di educazione, istruzione e ricreazione intellettuale, Firenze, Tip. Galileiana, in «C.C.», s. IV, XI/8 (1860), pp. 712-725 (il brano a p. 725). La pubblicazione, ideata da Pietro Thouar, vuole istruire i giovani alla cittadinanza e al culto della Patria, concetti ovviamente contestati dal recensore che sottolinea negativamente l’assenza di ogni riferimento alla trascendenza. 58. [Curci], La diffusione dei rei e dei buoni libri, in «C.C.», s. I, III/9 (1852), pp. 650-664. Al contrario del politico Taparelli, Curci sembra più interessato al tema della produzione della buona stampa.

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In questa visione catastrofista, confermata dalla scelta di un lessico tendente a creare allarme nella comunità – si pensi all’uso di parole come «congiura, cospirazioni, resistenza» – la lettura individuale non possiede alcuna connotazione positiva, anzi costituisce una fonte di pericolo per la salvezza del singolo e per l’equilibrio sociale. Più che azione consapevole e meditata, è divenuta in questo secolo decimonono «smania di leggere», desiderio sfrenato che può generare solo disordine collettivo e dilagante immoralità.59 Convinti quindi che il loro dovere primario sia una pressione squisitamente politica sulle classi dirigenti ed il ceto civile per il ritorno all’ordine, i gesuiti si dimostrano di fatto scarsamente sensibili al grande tema dell’istruzione popolare che si impone nella seconda metà del secolo e che coinvolge nel mondo cattolico non solo alcuni individui ma soprattutto intere congregazioni religiose, molto attive nell’elaborazione di una nuova pedagogia della lettura, orientata all’educazione religiosa e al disciplinamento sociale dei ceti meno privilegiati. Si pensi, ad esempio, alla grande tradizione educativa dei padri scolopi, presenti nel mercato con una produzione di fortunati libri di testo per le scuole, o ancor più all’azione di don Giovanni Bosco e dei suoi salesiani le cui «Letture cattoliche» dalla fine degli anni cinquanta si spandono da Valdocco in tutta la penisola.60 Prevale probabilmente, come si è sottolineato in precedenza, in questo atteggiamento della rivista, l’antica diffidenza della Chiesa cattolica nei confronti della lettura dei ceti subalterni. E non è un caso che, in questo quadro, vengano giudicati negativamente – o peggio, con evidente sarcasmo – tutti i tentativi, largamente diffusi alla metà del secolo anche nell’area dei cattolici moderati, volti alla promozione dei diritti e alla crescita culturale di settori socialmente emarginati, le donne in primo luogo o i ceti popolari. Purché la plebe, anche più minuta, bene o male, apprenda a leggere, a scrivere e a far di conti, il liberalismo si tiene per pago, batte le mani e scioglie un 59. Ibidem, p. 657. Si veda, sempre ad opera di Curci, Della vita e della morte dei giornali, in «C.C.», s. IV, X/1 (1859), pp. 5-19. 60. Sulla produzione dei padri scolopi, proprietari a Firenze della Tipografia di S. Giuseppe Calasanzio, si veda Brotini, Catalogo della Tipografia Calasanziana. Su Don Bosco e i salesiani esiste una vasta produzione saggistica; in particolare sulle iniziative editoriali si veda Stella, Don Bosco nella storia economica; Don Bosco nella storia della cultura popolare. Sulla prima collana, rivolta ad artigiani contadini e giovanissimi, denominata «Letture cattoliche», cfr. Giovannini, Le «Letture Cattoliche» di Don Bosco. Sulla nascita della SEI, filiazione della salesiana Società internazionale per la diffusione della buona stampa, si veda ora Targhetta, Serenant et illuminant.

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inno al popolo uscito di pupillo, rigenerato, sedente al banchetto della scienza […] Adunque, effetto ordinario di questa istruzione è, o di destare l’orgoglio del sapere in una plebe ignorante, che si stima addottorata solo perché non confonde l’acca con la zeta, e non iscambia il numero sei col numero nove; o di spostare una turba di poveri e presuntuosi disgraziati dal luogo in cui la Provvidenza li aveva fatti nascere, per indurli a cercare pane e ventura nella riboccante greppia dello Stato, dei municipi e delle private compagnie o famiglie; col doppio utile di empire le città e le terre di oziosi affamati, pronti sempre a vendersi per ogni impresa. Nel concetto liberalesco, questa così fatta istruzione popolare deve essere inseparabile dalla libertà di stampa […] Si vuole il popolo capace di leggere, acciocché divenga capace di cominciare un poco a pensare colla testa dei liberali.61

In questo brano, quanto mai rivelatore, la «Civiltà Cattolica» sembra sposare senza ambiguità e infingimenti le tesi più reazionarie sul tema dell’istruzione popolare e nel contempo dà voce alle preoccupazioni di quanti, tra i ceti privilegiati, individuano in questo scorcio del secolo XIX proprio nella crescita di una consapevolezza identitaria dei ceti subalterni l’origine dei conflitti sociali che fatalmente portano al socialismo e al «mostro del comunismo». Del resto, nella lunga ed accurata recensione alle opere di Caterina Franceschi Ferrucci sull’educazione femminile62 o anche nell’articolo più tardo su un volume di Samuel Smiles,63 ambedue fortemente critici, sono disegnati efficacemente i tratti di una gerarchia sociale profondamente statica nella quale il riscatto e la promozione individuale 61. Della istruzione popolare, in «C.C.», s. IX, XXVII/9 (1876), pp. 261-262. Il corsivo è mio. 62. Intorno a due scritti sulla educazione femminile per Caterina Franceschi Ferrucci. Lettere di Filalete a Sofia, in «C.C.», s. II, III/10 (1852), pp. 465-78; pp. 616-626; 11, pp. 39-53. Anche se la Franceschi Ferrucci non può certo essere definita una teorizzatrice dell’emancipazione delle donne, il recensore con toni spesso derisori afferma che la crescita del bagaglio culturale della donna può creare disagio all’interno del matrimonio, poiché la cultura è un attributo di chi ha il comando, non di chi è soggetto. 63. Si tratta de Il Carattere di Samuel Smiles, prima traduzione italiana di P. Rotondi, Firenze 1875, in «C.C.», s. IX, XXVII/12 (1876), pp. 709-713. Sulla produzione selfhelpista si vedano i volumi di Chemello, La Biblioteca del buon operaio, e Ead., Libri di lettura per le donne, che riportano un ampio elenco di titoli di autori italiani, da Michele Lessona a Girolamo Boccardo, riconducibili a questo modello pedagogico, molti dei quali recensiti negativamente dal periodico dei gesuiti, ma nessuno dei quali esaminato dalla congregazione dell’Indice. Si veda anche De Franceschi, Istruzione, libri e biblioteche, e Tasca, Galatei.

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non si ottengono, come vorrebbero gli educatori progressisti o gli esponenti della pedagogia selfhelpista attivi anche in Italia, attraverso l’appropriazione diretta degli strumenti della conoscenza, ma soltanto con la piena e incondizionata adesione al messaggio salvifico della Chiesa cattolica ed al ruolo assegnato ab initio a ciascuno dalla provvidenza divina. Lungi dal fornire ai poveri ed agli esclusi una istruzione utile per l’inserimento nel processo di modernizzazione sociale, la buona stampa secondo i gesuiti è tale quindi solo se educa all’obbedienza alle leggi della Chiesa ed al rispetto del proprio stato. Da qui molte significative stroncature sulla più diffusa e nota produzione istruttiva per il popolo, come la dura recensione a Il libro dell’operaia di Caterina Pigorini Beri, a cui certo non possono essere attribuite posizioni emancipazioniste o per altri versi socialisteggianti,64 o l’esplicita e reiterata condanna del programma educativo enunciato nel Giannetto da Luigi Alessandro Parravicini, cui si imputa addirittura la volontà di «arruolar comunisti» per combattere i nemici del nuovo stato liberale e del progresso.65 Se, come si vede, cadono sotto la mannaia della «Civiltà Cattolica» anche le elaborazioni più moderate sull’alfabetizzazione e la formazione professionale dei ceti subalterni, spesso messe in campo da personaggi che rivendicano più di una contiguità con la Chiesa ed i suoi pastori, c’è da chiedersi allora quale siano i modelli di stampa autenticamente cattolica additati dal periodico dei gesuiti. Certo, dalle colonne della rivista si danno puntualmente informazioni della nascita in Italia di nuove associazioni per i buoni libri, nate per iniziativa dei vescovi spesso con l’appoggio finanziario del notabilato locale; ma analizzando nel dettaglio tali notizie si nota che la produzione editoriale, comprendente testi che vanno da Segneri a Ozanam 64. «Di femmine politicastre e politicanti l’Italia ne ha troppe, nella classe che dicono colta perché ricca e agiata. Non occorre quindi che se ne moltiplichi il numero, facendo girare il cervello alle donne del popolo. Si formino operaie veramente cristiane, e si avranno buone operaie italiane. Qui sta tutto il segreto dell’educazione popolare maschile e femminile», Il libro dell’operaia di Caterina Pigorini Beri, premiato alla Esposizione dei lavori femminili di Firenze, in «C.C.», s. IX, XXVII/9 (1876), pp. 451-459; si tratta della conclusione a p. 459 (il corsivo è mio). Sui pregiudizi della Chiesa nei confronti dell’educazione femminile, cfr. L’educazione delle donne. Sulle letture per le donne cfr. anche Scattigno, Letture devote. 65. Questo giudizio compare in una recensione ad un’altra opera di Parravicini, L’Ordinamento dell’educazione popolare (come riportato in Del Corno, Alle origini del long-seller, p. 51). Successivamente nella «C.C.» s. IX, XXVII/9 (1876), pp. 318-320, compare una netta stroncatura di una delle numerosissime nuove edizioni del Giannetto, che ne sottolinea l’adesione al verbo liberale e l’assenza di espliciti riferimenti alla religione cattolica.

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al polemista oltremontano De Maistre, è rivolta in prevalenza ad un pubblico colto mentre alla lettura del popolo sono dedicati al massimo brevi testi devozionali o piccole narrazioni edificanti a carattere agiografico.66 Più che nelle rituali elencazioni delle iniziative per la buona stampa, le preferenze ideologiche dei redattori emergono nelle recensioni dove alcuni testi vengono additati come modelli di lettura sana, a cominciare dal ponderoso e truculento Fabiola, o la Chiesa delle catacombe, scritto nel 1854 dal primate d’Inghilterra Nicholas Wiseman ben noto agli ambienti romani per essere stato egli stesso membro della congregazione dell’Indice, il più fortunato romanzo cattolico di quegli anni, nel quale alle note archeologiche a carattere erudito si accompagna una descrizione a forti tinte della persecuzioni dei cristiani ad opera di Diocleziano.67 La scelta non è casuale; la piccola comunità di cristiani, accerchiata da una società romana in pieno disfacimento morale, non è altro che il simulacro della sede apostolica e del suo pastore, anch’essi assediati nel XIX secolo da un mondo malvagio governato da forze demoniache, dal liberalismo al socialismo alla irreligiosa massoneria, che tuttavia non riusciranno a prevalere e ad imporre il loro nefasto dominio. Più ancora, i gesuiti si riconoscono nelle narrazioni opulente che Antonio Bresciani scrive a puntate per la «Civiltà Cattolica» sin dall’inizio delle sue pubblicazioni. Non è questa la sede per un’analisi dei romanzi di Bresciani, arricchendo un filone critico che ha visto numerosi interventi autorevoli, da Francesco De Sanctis ad Antonio Gramsci ed oltre. Ma 66. Le Associazioni cattoliche per la diffusione dei buoni libri in Italia, in «C.C.», s. II, III/11 (1852), pp. 681-693. Nell’articolo si dà conto delle collane editoriali nate nei diversi stati della penisola per iniziativa di ecclesiastici o singoli cattolici militanti. Si veda anche [Curci], Gl’indifferenti per la buona stampa, in «C.C.», s. III, IX/12 (1858), pp. 641-654, e Invito ai zelanti cattolici per la instituzione e propagazione di una Società preservatrice della corruzione dei cattivi libri e giornali, posta sotto il patrocinio di Maria Auxilium Christianorum, in «C.C.», s. V, XIV/7 (1863), pp. 198-213, in cui, dando conto degli obiettivi e dei caratteri della nuova società, si enumerano alcune iniziative similari nate in Belgio, Francia, Ungheria. Per le pubblicazioni cattoliche nei paesi francofoni, oltre le rapide notazioni contenute nel volume di Savart, Les catholiques en France, si veda Artiaga, Des torrents de papier. 67. [Curci], Un romanzo storico di genere nuovo, in «C.C.», VII (1856), s. III, 1, pp. 129-193. Dopo aver esaltato il testo di Wiseman come un «vero romanzo storico», evidentemente in polemica con la fortuna del genere in tutta Europa, Curci ne offre un ampio compendio. Il romanzo viene pubblicato per la prima volta a Milano nel 1854 dall’editrice di Paolo Carrara ed avrà numerosissime edizioni successive all’interno delle collane di narrativa cattolica.

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certo appare significativo che i fondatori del periodico abbiano voluto accostare agli articoli di taglio eminentemente politico delle opere narrative apparentemente più leggere, con lo scopo palese di attrarre anche i lettori abituati ai moderni romanzi d’intrattenimento. Del resto, è lo stesso Bresciani a ricordare che nell’ambito della redazione il compito a lui affidato dai primi numeri fu proprio quello di «sonar la trombetta», di catturare l’attenzione dei lettori con invenzioni narrative strutturalmente non dissimili da quelle imposte dalla moda del tempo ed osteggiate con forza dalle colonne del giornale.68 Distinguendosi dai romanzieri più in voga del tempo, a cominciare da Walter Scott o Tommaso Grossi che avevano ambientato le loro storie in un passato medioevale,69 Bresciani attualizza fortemente le sue storie che narrano vicende contemporanee o appena trascorse, come viene evidenziato sin dai titoli che si preoccupano di datare con precisione l’azione descritta: L’ebreo di Verona. Racconto storico dall’anno 1846 all’anno 1849 (1850-51), Ubaldo e Irene. Racconti storici dal 1790 al 1814 (185355), Lorenzo o il coscritto. Racconto ligure dal 1810 al 1814 (1856) etc. Questa scelta consente allo scrittore di centrare la sua attenzione sulla modernità, rappresentandola, in coerenza col messaggio del giornale, come un tempo nel quale sette segrete, in cui convivono valdesi massoni ebrei e liberali sovversivi, coinvolgendo con l’inganno giovani inesperti, congiurano contro le autorità legittime per «scoronare gli aviti monarchi, spogliare la Chiesa de’ suoi Stati, rimuovere dall’augusta sua Sede il Vicario di Cristo».70 Anche qui quindi, un conflitto planetario, rappresentato spesso con toni cupi e un’aneddotica fosca, in cui alle diaboliche forze della rivoluzione si contrappongono soltanto le fragili energie della Chiesa di Roma e del suo pastore. In questa chiave, anche la rappresentazione del medioevo ne La contessa Matilde di Canossa, il solo romanzo ambientato nei secoli di mezzo, è funzionale ad un’interpretazione della storia contemporanea in chiave 68. Sulla produzione letteraria di Antonio Bresciani, oltre alla già citata voce del DBI a cui si rimanda per la vasta bibliografia in merito, per gli studi successivi si vedano i saggi citati nella nota 4, ed ancora Iannace, Conservatorismo cattolico in Antonio Bresciani. 69. Da notare che, ne L’ebreo di Verona sono citati il Marco Visconti di Tommaso Grossi, la Margherita Pusterla di Cesare Cantù e il Niccolò de’ Lapi di Massimo d’Azeglio come strumenti della propaganda settaria (Del Corno, Letteratura e antirisorgimento, p. 26). 70. Il brano, tratto da Olderico, ovvero il zuavo pontificio. è riportato in Del Corno, Letteratura e antirisorgimento, p. 31.

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apocalittica, nella quale allo sfacelo morale e politico del mondo «ammodernato» si contrappone l’antica serenità della società medievale, nella quale il popolo semplice e devoto senza tema di pericoli si stringeva al papa ed all’imperatore. Si ha l’impressione che i romanzi di Bresciani costituiscano, per i redattori della «Civiltà Cattolica», il massimo delle concessioni possibili alle mode di lettura del momento. Strutturati come gli esecrati feuilletons di derivazione francese, essi mantengono tuttavia una pesante cornice moralistico/didascalica che, se spesso toglie unità all’azione drammatica, veicola con martellante uniformità il messaggio antimoderno: istruzione e progresso economico non migliorano le vite dei singoli ma anzi, diffondendo falsi miti di eguaglianza, conducono all’immoralità ed alla disgregazione delle società naturali.71 In questo quadro si delinea con nettezza una scala sociale rigidamente ordinata; da una parte i ceti colti – peraltro i potenziali lettori dei romanzi di Bresciani – sempre in bilico tra tentazioni cospirative ed adesione alle direttive della vera Chiesa, dall’altra il popolo “naturalmente” buono, dotato di pulsioni elementari ma sane, sottomesso alle leggi e fedele alla religione dei padri, unico depositario autentico quindi della identità della nazione italiana.72

71. Interessante in questo quadro la svalutazione dei luoghi di istruzione e di lettura, come le sedi dei giornali i gabinetti di lettura o anche le università, considerati centri di sedizione e di dilagante immoralità (ibidem p. 30). 72. Nella visione di Bresciani «Il popolo e il popolare vi si trovano raffigurati come il luogo per eccellenza nel quale si trovano conservati i tratti costitutivi di una società tradizionale, la cui cultura si risolve nell’adesione “naturale” alla religione, al suo sistema di valori preso in senso eminentemente a-storico, e come tale tradotto in senso comune. Si tratta di un’idea di popolo e di cultura popolare che getta, in parte, le sue radici nel tradizionalismo controrivoluzionario e che assume come suo preminente obiettivo la contrapposizione all’intero universo culturale del liberalismo» (Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, p. 194).

2. I vescovi in trincea. Pastorali e cattive letture

Nell’ottobre del 1770 Serafino Filangieri, ancora arcivescovo di Palermo, indirizza ai fedeli e ai parroci della sua diocesi una Istruzione pastorale sul tema della lettura dei libri pericolosi.1 L’argomento, come è stato sottolineato di recente,2 è ricorrente negli scritti episcopali di quegli anni e manifesta in forma pubblica la preoccupazione dei vertici della Chiesa cattolica e del clero ordinario per la diffusione delle idee e della cultura illuministe, ritenute potenzialmente capaci non solo di intossicare le coscienze dei fedeli ma anche di sovvertire l’ordine politico e sociale esistente. Ma in questo caso interessa sottolineare la conclusione del periodare dell’arcivescovo: Che se alcun di voi [coloro che leggono libri temerarj] non si arrenderà alle nostre amorevoli insinuazioni, e imperversando sempre più gli anatemi della Chiesa, e i fulmini cento volte minacciati audace disprezzerà, allora non esiteremo punto, a vista di così grande ostinazione, di far giungere le nostre voci e i nostri lamenti per fino al real Trono del nostro Religiosissimo Monarca, il quale costituito il Custode, e il Difensore della Fede, saprà col potente suo braccio vendicare il torto fatto a Dio, fatto alla Chiesa, fatto a se stesso.3

Al di là degli inusuali toni apocalittici di colui che è stato definito «il più cortigiano degli arcivescovi napoletani»,4 l’aspetto più degno di nota è l’esplicito e fiducioso appello al braccio secolare per la repressione della 1. Filangieri, Istruzione pastorale. Sulla figura di Serafino Filangieri, vescovo di Palermo dal 1763 al 1776, poi vescovo di Napoli, si veda la voce di Chiosi, Filangieri, Serafino, in DBI. 2. Sulla funzione delle lettere pastorali nel secolo XVIII nell’orientare le letture dei fedeli si è soffermata Delpiano, Il governo della lettura, in particolare pp. 188-201. 3. Filangieri, Istruzione pastorale, pp. 25-26. 4. Chiosi, Chiesa e editoria a Napoli, p. 324.

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propaganda antiecclesiastica e in generale per evitare il proliferare della produzione di libri “philosophiques”, pericolosi per la salute delle anime e il benessere dello stato. Non che questa scelta di campo sia estranea alle pratiche politiche del vescovo palermitano che ha sempre sottolineato con esemplare lungimiranza l’oggettiva identità degli interessi di Chiesa e monarchia nel combattere il nemico comune; del resto questa linea era stata già sostenuta da papa Rezzonico che, nella sua enciclica Christianae reipublicae salus del 1766, aveva disegnato un modello di nuova alleanza nel quale «coniuncta sacerdotii et imperii auctoritate», autorità civile ed autorità religiosa combattevano insieme contro la sovversione diffusa dai Lumi.5 Ma in realtà questo schema di collaborazione tra i due poteri è tutt’altro che maggioritario in questi anni sia negli ambienti ecclesiastici che soprattutto tra i governi assolutistici, nei quali ultimi sembra prevalere al contrario un acceso giurisdizionalismo che trova, com’è noto, proprio sul terreno della censura e del controllo della diffusione libraria uno dei terreni di scontro più aspro con la Chiesa di Roma.6 Negli anni che vedono, negli stati italiani di antico regime dalla Lombardia asburgica alla Toscana granducale ed al Regno borbonico, sia un riordinamento complessivo delle legislazioni civili in vista di una riduzione dell’ingerenza ecclesiastica e di un più diretto controllo statale in materia di stampa, che l’aumento esponenziale dei conflitti tra Chiesa e stati sui limiti dei rispettivi campi di intervento censorio, è indubbio che l’invocazione del braccio secolare da parte di un vescovo nell’esercizio della sua attività pastorale appare quanto meno isolata. Sembra avere, tuttavia, un valore di premonizione. Nei toni da crociata infatti, ma soprattutto nell’appello alla funzione del monarca come primo «Defensor Fidei», Serafino Filangieri prefigura quel modello di alleanza organica tra Trono e Altare, nato dalle esperienze traumatiche delle repubbliche giacobine e poi dell’espansione napoleonica, auspicato dal cancelliere austriaco Metternich, che verrà inaugurato efficacemente all’indomani della Restaurazione e che darà i suoi frutti, anche in tema di controllo e repressione delle idee pericolose, per oltre trent’anni sino alle rivoluzioni del 1848.7 Solo dopo il ’49, come vedremo, questo equilibrio si spezzerà, dando luogo ad una nuova fase dei rapporti tra la Chiesa e gli stati italiani. 5. Si veda a questo riguardo Menozzi, Tra riforma e restaurazione, p. 773 e sgg. 6. Su questo tema, oltre alla bibliografia contenuta nel volume di sintesi di Infelise, I libri proibiti, si vedano in particolare i volumi citati nella nota 3 dell’Introduzione. 7. A tale riguardo cfr. Palazzolo, I libri il trono l’altare.

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1. Le Pastorali dei vescovi Come hanno messo in luce i repertori pubblicati negli anni novanta da un gruppo di ricerca coordinato da Daniele Menozzi,8 la lettera pastorale è uno strumento di comunicazione tra il vescovo ed i suoi fedeli, che vive alterne vicende nella lunga storia del magistero ecclesiastico nei territori italiani. Nata come «forma di esercizio dell’autorità episcopale» sin dall’epoca borromaica,9 in realtà viene utilizzata con grande parsimonia sino alla metà del Settecento, quando con la cancellazione progressiva delle figure inquisitoriali locali ad essa viene attribuito il compito di trasmettere capillarmente ai fedeli la volontà e le prescrizioni delle autorità ecclesiastiche centrali in alcune occasioni canoniche.10 Dagli inizi del secolo XIX sino al biennio 1848-49 comunque, le lettere pastorali dei vescovi italiani sono in generale prive di un effettivo interesse legato all’attualità politica; redatte ed inviate ai parroci ed ai fedeli in particolare in occasione della quaresima, contengono soprattutto delle meditazioni religiose ispirate dal testo evangelico, riflessioni apologetiche o anche direttive morali tratte dalle vite dei santi, che si concludono con alcune puntigliose prescrizioni legate all’indulto sul digiuno e l’astinenza per la preparazione al precetto pasquale. Probabilmente, come è stato notato, proprio il clima di rinnovato accordo con i governi della penisola nel quadro di una comune difesa degli equilibri politici e dell’ordine sociale – sul modello già evidenziato dall’arcivescovo Filangieri – rende sostanzialmente pleonastico un intervento diretto dei vescovi sulle questioni mondane, lasciate in esclusiva alle direttive dell’autorità civile.11 8. Si deve all’iniziativa di questo gruppo la raccolta e la pubblicazione di alcuni repertori delle pastorali dei vescovi italiani dal periodo napoleonico agli anni del Concilio Vaticano II. I volumi sono divisi per aree regionali. Sino ad ora sono stati pubblicati: Lettere pastorali dei Vescovi dell’Emilia Romagna; Lettere pastorali dei Vescovi di Bolzano; Lettere pastorali dei Vescovi della Toscana; Lettere pastorali dei Vescovi della Lombardia; Lettere pastorali dei Vescovi dell’Umbria; Lettere pastorali dei Vescovi di Terra d’Otranto; Lettere pastorali dei Vescovi del Veneto. Ad essi si aggiunge un volume che raccoglie, circa con gli stessi criteri, le pastorali dei vescovi del Piemonte, Lettere pastorali dell’episcopato piemontese. 9. Menozzi, Introduzione, in Lettere pastorali dei Vescovi dell’Emilia Romagna, p. XI. 10. L’uso delle pastorali dei vescovi con funzioni di ammaestramento morale sul tema della lettura si diffonde contestualmente e con le stesse modalità anche in Francia, come si evince dal volume di Chartier, Hebrard, Discours sur la lecture, che ricorda le periodiche condanne dei giornali fatte dai vescovi. 11. Come nota Menozzi: «Sembra comunque di poter dire che una chiesa che ha riacquistato la sicurezza di un accordo di fondo coi poteri mondani non appare particolarmente attenta all’uso della pastorale» (Menozzi, Introduzione, p. XX).

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Certo, questo non elimina le potenziali ragioni di frizione tra vescovi e poteri locali, né le comprensibili preoccupazioni degli apparati di polizia in materia di ordine pubblico. Lette pubblicamente al popolo dei fedeli dai parroci durante la celebrazione della liturgia della domenica o delle altre occasioni festive, affisse in tutte le chiese della diocesi, le lettere sono in realtà un formidabile strumento di intervento e di direzione delle coscienze nelle mani dell’autorità clericale, e possono quindi divenire una notevole fonte di allarme per il potere civile nei momenti di conflitto e di tensione. Non è un caso ad esempio che nella Toscana granducale, erede della tradizione leopoldina, le pastorali vengano valutate con grande attenzione, ed ancora nei primi decenni dell’Ottocento venga ribadita la necessità, secondo una norma settecentesca già contenuta nella legge sulla stampa del 1743 e praticata per più di mezzo secolo, di sottoporle in via preventiva al controllo della Regia Censura, per evitare che gli interventi ecclesiastici possano interferire con gli affari pubblici o risultare in stridente contrasto con la giurisdizione civile.12 Ma, a parte alcuni casi isolati, come ad esempio quello del vescovo di Bertinoro – la cui diocesi ricade in parte in territorio granducale – che arriva a comminare nel 1818 pene pecuniarie per coloro che non hanno ottemperato al precetto pasquale,13 in generale i prelati toscani durante gli anni della restaurazione si astengono dall’intervenire su materie che non riguardino direttamente questioni di natura strettamente spirituale, evitando scontri troppo accesi con le autorità civili, che a lungo andare potrebbero danneggiare il sereno esercizio dell’attività pastorale. Sostanzialmente analoga appare la scelta dei granduchi, che garantisce in tal modo un clima di reciproca tolleranza. Tutto questo ha un riscontro anche sul tema del controllo e della disciplina della lettura. In verità sin dal marzo 1825 il pontefice Leone XII, con un Mandatum esplicito che ha avuto soltanto una diffusione interna alle gerarchie, aveva ribadito ai vescovi l’invito a vigilare con estrema attenzione sulle stampe pubblicate nelle loro diocesi, in modo da distogliere i fedeli 12. La legge del granducato di Toscana sul controllo delle stampe, promulgata nel 1743, prevedeva che le pastorali dei vescovi fossero sottoposte prima della diffusione all’esame del Regio Diritto. A questo riguardo, oltre a Landi, Il governo delle idee, si veda Timpanaro Morelli, Autori stampatori librai. Dopo un periodo di relativa libertà, coincidente con gli anni dell’influenza francese, con la Restaurazione ritorna l’obbligo del controllo del potere civile che suscita le proteste dei vescovi toscani. Si veda al riguardo De Rubertis, Rapporti tra Stato e Chiesa in Toscana. 13. Ibidem, pp. 40-41.

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dalla tentazione delle cattive letture. Le motivazioni sono chiarissime e dimostrano, già in quella data, la straordinaria consapevolezza del papa e degli ambienti della curia sia degli effetti del rapido sviluppo dell’industria libraria che soprattutto dei limiti delle pratiche delle tradizionali istituzioni censorie, nate in epoca tridentina: Poiché è del tutto impossibile inserire nell’Indice tutti i libri cattivi, che continuamente si stampano, [i vescovi] procurino di toglierli di propria autorità dalle mani dei propri fedeli, ammaestrandoli intorno al modo di conoscere il pascolo salutare o mortifero, affinché nelle scelte delle letture non siano ingannati dalle apparenze, o traviati da perversi allettamenti.14

Che tra i compiti dei vescovi vi fosse anche il controllo delle letture per evitare il traviamento delle coscienze dei fedeli loro affidati era un principio già evidenziato nelle regole dell’Indice sin dai primi anni della loro promulgazione.15 Ma in verità quelle norme prevedevano dei seri limiti all’azione episcopale, che veniva comunque sottoposta al controllo severo delle congregazioni romane in un complesso sistema piramidale che aveva al suo vertice il pontefice ed il Sant’Uffizio. Agli inizi del XIX secolo il panorama è irrimediabilmente mutato e di questi mutamenti sono evidentemente ben consapevoli sia i vescovi che le stesse autorità della curia. Quel sistema di controllo così rigido ed efficiente messo in piedi sin dalla metà del Cinquecento, malgrado i successivi numerosi tentativi di riforma – l’ultima in ordine di tempo quella di Benedetto XIV, che con la sua costituzione Sollicita ac provida aveva modificato alcune norme generali dell’Indice16 – mostra di essere totalmente inadatto a reggere la pressione dell’enorme mole di materiale a stampa che si diffonde nelle più varie forme e presso tutti i ceti nell’intero mondo ci14. Il Mandatum viene pubblicato nel decreto della congregazione dell’Indice del 26 marzo 1825 e stampato e diffuso in lingua italiana. A tale documento fanno riferimento esplicito numerosi vescovi in occasione di condanne di singoli volumi o periodici: si veda a proposito della condanna del giornale piemontese «L’Ape» l’articolo contenuto nell’«Armonia della religione colla civiltà», V/6 (1852), pp. 26-27. Ancora nel 1873 il vescovo di Crema Francesco Sabbia si appella a questo Mandatum, riportando nella lettera pastorale il testo originale latino (Sabbia, Istruzione pastorale del Vescovo di Crema sulla Quaresima dell’anno 1873, 9 febbraio 1873, conservata in AFSCIRE, Lettere Pastorali, Lombardia, 18, Crema I). Sull’attività della congregazione dell’Indice nell’Ottocento si veda Wolf, Storia dell’Indice, e anche Palazzolo, L’ultimo secolo dell’Indice. 15. A questo riguardo si veda Frajese, Nascita dell’Indice. 16. Si veda a questo riguardo Rebellato, La fabbrica dei divieti, pp. 186-230.

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vilizzato; in particolare, come nota con lucidità il Mandatum di papa Della Genga, la congregazione dell’Indice non riesce a svolgere con tempestività il compito affidatole di esaminare tutti i libri denunciati e di additare ai fedeli quelli più pericolosi. È proprio sull’onda di una sconfitta quindi, o se si vuole di una crisi radicale, che si chiede ai singoli vescovi di intervenire nei confronti dei volumi e soprattutto dei periodici pubblicati nei territori loro affidati con esplicite azioni di condanna che, per la loro rapidità ed insieme per la prossimità dei soggetti coinvolti, dovrebbero risultare più efficaci delle sentenze promulgate dall’Indice, spesso tardive e di fatto poco divulgate presso il popolo dei fedeli. Tuttavia, malgrado i periodici pronunciamenti dei pontefici succedutisi sul trono di Pietro contro la libertà di stampa, che consente la diffusione di «quella sterminata moltitudine di libri, di opuscoli e di scritti piccoli certamente di mole ma per malizia grandissimi, dai quali vediamo con le lacrime agli occhi uscire la maledizione e inondare tutta la terra» – sono parole di Gregorio XVI contenute nella enciclica Mirari Vos del 183217 – di fatto i vescovi delle diocesi italiane si mostrano estremamente cauti nell’aderire all’invito pontificio. Se pure talvolta nelle lettere e negli altri documenti episcopali si fa riferimento alle letture pericolose, il richiamo appare genericamente rivolto ai parroci ed agli educatori perché siano vigilanti, ma ci si astiene dalla menzione esplicita di quel tal libro o di quel tal giornale di cui concretamente impedire la diffusione presso i fedeli. La motivazione di questo comportamento assai cauto è da ricercare nelle stesse parole di papa Cappellari. Se è la libertà di stampa, corollario degli ordinamenti degli stati liberali, la responsabile primaria della diffusione dei libri pericolosi, in una situazione politica come quella dei territori italiani nei primi decenni del XIX secolo dove essa non è riconosciuta ed al contrario vige ancora un rigido sistema di censura preventiva e di controllo della circolazione gestito dagli apparati di polizia dei vari stati regionali con il pieno accordo delle autorità religiose, meglio affidarsi al più temibile e severo braccio secolare, vigilando se mai con accuratezza perché non vi siano cedimenti di sorta. Certo i vescovi, come del resto le stesse autorità di curia, sono consapevoli che questo comportamento ha il respiro corto, poiché tende a vedere la penisola italiana come l’ultima frontiera da difen17. Enchiridion delle Encicliche 2, p. 43. Il pontefice imputa a «quella pessima né mai abbastanza esecrata e aborrita libertà di stampa nel divulgare scritti di qualunque genere; libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore».

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dere contro la minacciosa invasione delle idee liberali che ormai prendono piede in ogni parte d’Europa; ma è indubbio che in ogni caso, l’esistenza di una censura preventiva di stato e l’accordo con i governi per il controllo alle dogane costituiscono delle più che solide barriere e non rendono necessario ed urgente un intervento diretto delle singole autorità episcopali, le quali si limitano infatti in questa fase a richiamare i fedeli ad una lettura attenta e consapevole. La vera svolta nei comportamenti dei vescovi si avrà con il 1849, vero annus horribilis per la Chiesa di Roma che vede, insieme alla seconda profanazione della sede di Pietro per mano dei rivoltosi della repubblica romana, anche il definitivo insediamento nella penisola di uno stato, il Piemonte sabaudo, che si ispira apertamente alle idee liberali e che ammette nei propri ordinamenti, sia pure ancora con alcune incertezze e ambiguità, la libertà di espressione e di stampa ed insieme quella che dalla Chiesa viene definita «l’inaccettabile» libertà di culto.18 Da questo momento niente sarà più come prima; non solo non avrà più senso appellarsi al binomio Trono/Altare per difendere la società cristiana e le prerogative della Chiesa di Roma, ma al contempo questa si sente minacciata da una guerra che, partita dalla riforma luterana, vuole imporre in tutto il mondo i principi dell’Ottantanove e in definitiva, con l’attacco al potere temporale, mettere in discussione l’esistenza stessa della Chiesa cattolica e del suo pastore.19 Non è un caso che i toni e le parole utilizzate da Pio IX nell’enciclica Nostis et Nobiscum del dicembre 1849 siano quelli di una nuova crociata. Archiviate del tutto le aperture dei primi anni del pontificato,20 nel chiamare a raccolta vescovi e religiosi nella lotta contro la modernità, Mastai Ferretti usa accenti apocalittici: delineando la genealogia degli errori moderni, il papa mette in luce lo strettissimo nesso tra riforma protestante, che ha per prima aperto la strada alla pretesa del libero esame e quindi all’esercizio delle libertà individuali e alla secolarizzazione dei comportamenti non più guidati dai pastori ecclesiastici, e sviluppo delle idee sovversive sino alla diffusione di massoneria, socialismo e comunismo. 18. Sui contenuti legislativi si vedano, oltre al già citato Lazzaro, La libertà di stampa, anche Ponzo, Le origini della libertà di stampa. Sulle reazioni della Chiesa cfr. Battelli, Santa Sede e Vescovi nello Stato unitario e Id., Clero secolare e società italiana. 19. Menozzi, Tra riforma e restaurazione, p. 806. 20. Sulle tenui aperture di Pio IX in tema di libertà di stampa, cfr. Monsagrati, Una moderata libertà di stampa.

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Ma ciò che interessa sottolineare in questa sede è il forte richiamo papale alla vigilanza nei confronti dell’«uso perverso della nuova [sic] arte libraria»,21 fatto da liberali, protestanti e massoni. Già l’aggettivo «nuova», utilizzato per un’attività produttiva nata da più di tre secoli, sembra voler accentuare la distanza da un prodotto della modernità che, oggi più che mai, va guardato con sospetto; mostrando di dimenticare l’abile uso fattone dalla Chiesa a fini di propaganda lungo l’arco della sua storia, è tutta la stampa ed il suo straordinario sviluppo nell’epoca industriale a suscitare forti preoccupazioni per il potenziale uso pervertitore delle coscienze, soprattutto nel momento in cui essa si diffonde capillarmente anche presso i ceti meno privilegiati e culturalmente meno avveduti. Sotto accusa, in particolare, le conseguenze delle leggi liberali piemontesi che liberalizzando i culti hanno agevolato la diffusione, anche al di fuori dei confini sabaudi, della propaganda protestante, anticlericale o genericamente sovversiva: si dedicano incessantemente a spargere tra il volgo e a moltiplicare ogni giorno senza sosta empi libelli, giornali, fogli pieni di menzogna, di calunnie e di seduzioni. Anzi, valendosi dell’appoggio delle società bibliche, che già sono state condannate da questa santa sede, non si fanno scrupolo di diffondere anche la sacra Bibbia tradotta nelle lingue vive contro le regole della chiesa e per di più corrotta e con nefanda audacia alterata con erronea interpretazione; e osano raccomandarne la lettura al popolo fedele, sotto il pretesto di religione. In virtù della vostra sapienza ben comprendete, venerabili fratelli, con quanta sollecitudine dovrete impegnarvi affinché le pecore fedeli si tengano lontane dalla pestifera lettura.22

Al di là della ritualità del richiamo alla vigilanza, l’enciclica evidenzia un grumo di problemi certamente inediti per la Chiesa cattolica nei territori italiani. La parificazione dei diritti, concessa ai valdesi dallo statuto albertino, congiunta alla libertà di stampa ha fatto emergere alla luce del sole quei fenomeni di proselitismo che in passato venivano gestiti dalle comunità pro21. Anche nel testo latino si trova la frase «novae Artis librariae». Si veda Enchiridion delle Encicliche 2, pp. 226-227. 22. Ibidem, p. 227. Come si nota, malgrado l’approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica della traduzione settecentesca del Vecchio e del Nuovo Testamento del vescovo di Firenze Antonio Martini, ancora a metà dell’Ottocento era fortissima la resistenza della Chiesa cattolica ad accettare la lettura della Bibbia in volgare da parte dei singoli fedeli. Su questo tema centrale, per il Cinquecento si veda Fragnito, La Bibbia al rogo.

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testanti in assoluta clandestinità.23 Già in precedenza, come Pio IX ricorda apertamente, le gerarchie cattoliche avevano condotto un’aspra guerra contro la British and Foreign Bible Society diffusa largamente nelle regioni italiane anche per l’intervento e l’iniziativa finanziaria di molti cittadini inglesi temporaneamente residenti nella penisola;24 ma in quei casi la Chiesa aveva potuto contare sull’appoggio incondizionato dei governi, che vedevano nell’estensione della dottrina protestante un potenziale veicolo di insubordinazione alle autorità costituite ed al potere assolutistico.25 In questo caso il fenomeno è sostanzialmente diverso; l’avallo delle autorità sabaude, pur con alcune ambiguità dovute al mantenimento nello statuto della religione cattolica come religione di stato, consente ai valdesi di uscire finalmente dalle loro valli per intraprendere un’amplissima opera di propaganda e proselitismo che si intreccia ormai strettamente con la diffusione delle rivendicazioni liberali e nazionali ed in generale con la nascita di una nuova coscienza civile, sempre più autonoma dalle direttive imposte dalla Chiesa di Roma.26 Gli strumenti di questa propaganda sono quelli additati da un pontefice ormai in piena sindrome da accerchiamento; opuscoli, giornali, almanacchi vengono diffusi non soltanto attraverso i canali tradizionali della vendita libraria, ma soprattutto per mezzo di zelanti e motivati colporteurs che con le loro gerle attraversano le città, ma soprattutto i paesi e le zone rurali, luoghi dove secondo Roma ancora resiste una autentica religiosità popolare non contaminata dai miti ingannevoli della modernità e da dove potrebbe partire di nuovo una vera revanche cattolica. 23. Sulle vicende che hanno portato all’emancipazione dei valdesi in Piemonte nel febbraio del 1848 si veda in particolare Movimenti evangelici in Italia; Dalle Valli all’Italia; La Bibbia, la coccarda e il tricolore. 24. Sull’attività della British and Foreign Bible Society fondata a Londra nel 1804 si veda Howsam, Cheap Bibles. 25. A questo riguardo si veda la posizione del governo del Lombardo-Veneto illustrata in Berti, Censura e circolazione delle idee, pp. 90-93. 26. Come nota acutamente Gabriella Solari, la storiografia sul Risorgimento, anche quella più recente, ha misconosciuto o almeno sottovalutato la vastità e l’importanza politica del progetto ideologico protestante negli anni che precedono l’unificazione italiana. La puntuale ricerca della Solari mette in luce soprattutto le iniziative della Claudiana, casa editrice evangelica nata nel 1858, che svolge la sua efficiente e capillare attività di propaganda attraverso tutto l’Ottocento con una produzione rivolta soprattutto verso il mercato popolare. Si veda Solari, Produzione e circolazione del libro evangelico; e Papini, Tourn, Claudiana 1855-2005. Più in generale sullo stesso tema si veda Spini, Risorgimento e protestanti.

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Il fenomeno in realtà non è esclusivamente italiano. Come ricorda un campione dell’ortodossia francese, il vescovo di Luçon Jacques Marie Joseph Baillès nella sua Instruction pastorale del 1852, anche le campagne ed il territorio francese erano giornalmente attraversati negli stessi anni da venditori itineranti che offrivano a prezzi stracciati agli ignari contadini libri di devozione protestanti, almanacchi divulgativi e Bibbie in volgare non approvate dalla Chiesa di Roma.27 Vedremo successivamente quali siano le opere che attirano maggiormente gli strali e le esplicite condanne dei vescovi, dagli almanacchi ai periodici, dalle Bibbie in lingua italiana – ancora la vecchia Bibbia tradotta ai primi del Seicento da Giovanni Diodati28 – ai mille opuscoli rivolti al mercato popolare e quali le modalità di contrasto utilizzate dal clero cattolico, soprattutto negli anni di maggiore diffusione successivi all’unificazione italiana. La chiamata alle armi del pontefice di Roma non è comunque senza effetti. I vescovi italiani, da Ferdinando Pignatelli di Palermo a Giulio Arrigoni di Lucca, da Tommaso Ghilardi di Mondovì a Luigi Ferrari vescovo di Modena ed ancora molti altri, approfittano dell’occasione quaresimale per lanciare, con le lettere pastorali del febbraio 1850, un durissimo monito contro la diffusione dei «libri perversi». Gli accenti sono sostanzialmente simili e ricalcano quelli dell’enciclica papale; se il cardinale Pignatelli ammonisce i palermitani, risalendo sino alla filosofia illuminista e a quella Enciclopedia piena di errori che «ha cospirato di scattolicizzare la Francia»,29 il vescovo di Modena Luigi Ferrari esce dalla genericità consueta per richiamare alle loro responsabilità i diversi addetti ai mestieri del libro, i tipografi e i venditori di libri modenesi perché, rinunciando ad un facile lucro, si attivino per impedire la circolazione delle stampe condannate dalla Chiesa. Voi sopra ogni altro ceto di persone, voi potete, o tipografi dilettissimi, efficacemente cooperare al bene della Religione e della Società, e dovete farlo per non essere in faccia a Dio e agli uomini responsabili dei grandi mali che conseguono la stampa di libri alla Fede perniciosi e alla morale cristiana. Chiudete, o Negozianti, l’adito a questi libri perversi, impeditene la circolazione; non vi lusinghi a tradire il dover vostro, la vostra coscienza un lucro che vi renderebbe gravemente colpevoli. 30 27. Baillès, Instruction pastorale. 28. Su Giovanni Diodati e la sua opera si veda Fiume, Giovanni Diodati. 29. Pignatelli, Lettera pastorale di S. Eminenza, pp. 5-6. 30. Ferrari, Indulto per la Quaresima dell’anno 1850, Modena, 8 febbraio 1850, in AFSCIRE, Lettere Pastorali, Modena I.

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Non sappiamo quanti librai abbiano fattivamente raccolto il richiamo del vescovo di Modena. In ogni caso, gli appelli episcopali si fanno via via più accorati, uscendo anche dalla ritualità del periodare retorico, quanto più il pericolo sembra cogente e minacciosamente attuale. E se Ferrari può tutto sommato dormire sonni tranquilli perché la circolazione di libri antiecclesiastici a Modena è comunque impedita di nuovo, dopo l’esplosione rivoluzionaria, dalle severe leggi del duca Francesco V, strumentalmente ossequioso ai dettami pontifici,31 è dai territori del Regno di Sardegna che partono gli allarmi più cupi sul futuro della Chiesa e dei suoi ministri in una società liberale. 2. I vescovi del Regno di Sardegna in prima linea Alcuni elementi caratterizzano i molti pronunciamenti dei vescovi dello stato sabaudo. In primo luogo, si tratta in genere di pronunciamenti collettivi, frutto di una meditazione e di una decisione comune elaborata nei sinodi provinciali;32 questa scelta accentua il vigore del richiamo, rivolto – ed è la seconda caratteristica – non solo ai parroci e ai fedeli ma anche, sia pure in forma non sempre evidente ed esplicita, alle autorità e in primo luogo alla dinastia del regno. C’è un sottile filo di ambiguità che sottende le pastorali piemontesi; se da una parte si accentuano i toni duri nei confronti delle leggi liberali lesive dei diritti e dei privilegi goduti sino ad allora dalla Chiesa romana, dall’altro emerge in molti degli scritti episcopali l’attaccamento quasi affettivo alla dinastia, alle singole personalità che compongono la famiglia reale, che denota una contiguità ed una consuetudine di rapporti vissuta a lungo nelle stanze della corte. Nelle parole dei vescovi sembra prevalere, soprattutto nei primi mesi dopo l’insediamento di Vittorio Emanuele II, una sorta di spaesamento per il tradimento subito, per le drammatiche vicende che coinvolgono alcuni membri delle stesse gerarchie torinesi – si ricordi il caso dell’intransigente arcivescovo di Torino Luigi Fransoni, in conflitto con il governo sin dal 1844, imprigionato a Fenestrelle e poi esule a Lione per il 31. Cfr Bertuzzi, La censura nel Ducato di Modena, in Potere e circolazione delle idee, pp. 260-272. 32. Sulla diffusione dell’uso dei pronunciamenti collettivi dei vescovi a cavallo dell’unificazione cfr. Demofonti, Fede religiosa.

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suo estremismo reazionario33 – che sembra non intaccare in ogni caso la fedeltà ai regnanti di casa Savoia. Questi atteggiamenti non riguardano soltanto la sfera emotiva ma divengono in realtà una precisa opzione politica. Il caso di Luigi Fransoni, e del suo radicale rifiuto di sottomettersi alle nuove leggi del regno sembra tutto sommato un episodio isolato. I vescovi piemontesi sanno di avere ormai assai limitati margini di manovra; così, pur ribadendo la fedeltà alle direttive della Chiesa e del suo pastore, scelgono di sfruttare tutti gli spazi lasciati aperti dallo statuto albertino, chiamando come garante lo stesso cattolicissimo re Vittorio Emanuele II. È del 29 luglio 1849, a pochi mesi dal giuramento di fedeltà del nuovo re allo statuto avvenuto il 29 marzo, il primo pronunciamento episcopale nel quale, ricordando che nella legge fondamentale la religione cattolica è stata proclamata «sola Religione dello Stato», si afferma: Protestiamo soprattutto contro la sfrenata licenza della stampa […] Perciò, mentre raccomandiamo a tutti i fedeli di uniformarsi alle istruzioni della Chiesa col non far istampare veruna opera, che tratti solo incidentalmente della Religione senza averla prima sottomessa all’esame del Vescovo: Noi, per dovere del nostro sacro ministero tutti concordi dichiariamo ai nostri rispettivi Diocesani; 1° Essere proibita sotto le pene stabilite dai sacri canoni la stampa di tutta la Bibbia o di una parte di essa, di un catechismo religioso, o di un libro di Liturgia senza l’approvazione ecclesiastica; 2° Essere proibita la pubblicazione di un’opera qualsiasi, che tratti ex professo di Religione, senza la licenza del Vescovo; 3° Essere proibiti tutti quei Giornali grandi o piccioli, che manifestandosi apertamente irreligiosi portano seco la propria condanna senza che sia d’uopo nominarli.34

In realtà la lettera, malgrado il tono iniziale, appare un piccolo miracolo di diplomazia. I primi due punti, che ribadiscono vigorosamente le prerogative della Chiesa, sono sostanzialmente pleonastici poiché non fanno che ricalcare l’articolo 28 dello statuto albertino nel quale si riaffer33. Si veda Griseri, Fransoni, Luigi in DBI. Sul caso Fransoni e il dibattito politico/ religioso a Torino dal 1849 si veda la ricostruzione di Mellano, Il caso Fransoni; e i contributi di Pietro Stella e di Giuseppe Talamo in Storia di Torino 6. Qualche accenno al caso Fransoni anche in Gorresio, Risorgimento scomunicato. 34. I Vescovi della Provincia Ecclesiastica di Torino insieme congregati al venerabile Clero e al dilettissimo popolo delle loro diocesi salute e benedizione nel nostro Signore Gesù Cristo, in Lettere pastorali dell’episcopato piemontese, p. 87.

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mava l’obbligo della revisione vescovile per i catechismi ed i libri liturgici.35 L’ultimo punto, al contrario, appare palesemente una interpretazione volutamente forzata della normativa, tutta a favore della Chiesa cattolica; ma in realtà, la stessa scelta di non nominare esplicitamente i giornali apertamente anticlericali che sempre più numerosi si pubblicano nella capitale piemontese – a cominciare da «L’Opinione» di Aurelio Bianchi Giovini, nata già nel 1848 – sembra quasi ancora una apertura di credito, per non scontentare con un esplicito conflitto le autorità civili. Interessante e degna di nota è la conclusione nella quale i vescovi, che riconfermano senza ambiguità la loro piena fedeltà alla dinastia sabauda, si dicono sicuri che le forze antiecclesiastiche non potranno prevalere «sotto il felice dominio della Casa di Savoia, appellata da’ Sommi Pontefici casa di Santi; e all’ombra del Trono, dove regna S.M. Vittorio Emanuele II».36 Un richiamo e un monito implicito alla casa regnante perché, con i suoi comportamenti, si renda ancora degna della benevolenza papale senza la quale sarebbe difficile l’esercizio del governo. In generale comunque, le vicende del regno di Sardegna – vero laboratorio politico in questi anni e luogo dello scontro più duro tra Chiesa e autorità civile – spingono progressivamente ad un mutamento di segno della lettera pastorale che, da strumento del magistero ecclesiastico, viene sempre più spesso utilizzata come un’arma della lotta politica tra opposti schieramenti.37 Certo, questa non è responsabilità esclusiva dei vescovi sabaudi. Non è un caso infatti che i documenti episcopali, non solo quelli piemontesi, vengano pubblicati integralmente anche dall’«Armonia della religione colla civiltà», il periodico torinese che, nato nel luglio del 1848 per iniziativa del canonico teologo Guglielmo Audisio e di Gustavo Benso di Cavour agli albori della libertà di stampa, dopo una primissima fase sostanzialmente moderata diviene, sotto la direzione di don Giacomo Margotti, il parallelo della «Civiltà Cattolica» in Piemonte, sposando le posizioni intransigenti e la difesa a oltranza del potere temporale.38 Mal35. Nell’articolo si dichiara. «La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiera non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del vescovo». 36. I Vescovi della Provincia Ecclesiastica di Torino, p. 91. 37. È Alberto Monticone a sottolineare questa mutazione progressiva della lettera pastorale; cfr. Monticone, L’episcopato italiano, p. 264 e sgg. 38. Il giornale pubblica stabilmente le lettere pastorali e i documenti sia dei vescovi piemontesi che quelli di altre diocesi, come ad esempio Genova, Ravenna etc. Nel n. 45 (I,

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grado il titolo, che sembra voglia felicemente esprimere la possibilità di una conciliazione tra la Chiesa ed il mondo moderno, il giornale diviene progressivamente l’organo di quella parte della pubblica opinione meno disponibile ad accettare la svolta della monarchia sabauda e soprattutto i nuovi provvedimenti legislativi in materia di libertà civili.39 Quello che poteva apparire allora come un servizio alla Chiesa piemontese ed ai suoi pastori per rendere nota, anche al di fuori della ristretta cerchia dei fedeli, la voce dei vescovi trasforma in realtà questa voce in uno strumento dello schieramento reazionario in funzione nettamente antigovernativa. Due episodi, ambedue generati dagli interventi dei vescovi piemontesi in materia di stampa, hanno anche un’immediata eco nel dibattito politico. Il primo nasce dalla diffusione della lettera pastorale del vescovo di Saluzzo, monsignor Giovanni Antonio Gianotti; contraddicendo la linea di cautela sposata ancora dai suoi colleghi e sodali, il prelato risponde nel gennaio del 1850 al noto richiamo del pontefice romano con un durissimo attacco alle leggi liberali del governo piemontese. La novità, più che nei ridondanti toni apocalittici che sembrano escludere qualsiasi possibilità di conciliazione tra religione cattolica e norme dello stato, sta nell’esplicito invito rivolto ai parroci e ai membri del clero regolare a distruggere, anche con il fuoco, alcune ben individuate testate giornalistiche particolarmente diffuse nel regno e considerate nemiche della Chiesa, dalla «Gazzetta del popolo» di Felice Govean e Alessandro Borella alla «Concordia» del democratico Lorenzo Valerio, dal popolare e filogovernativo «Almanacco Nazionale» alla «Opinione» dell’inviso Bianchi Giovini. E alzando la voce contro quest’orrendo abuso di libertà, non abbiate timore di nominare specificamente i libri, gli scritti, i giornali, che un cattolico non può leggere, né ritenere, né imprestare senza colpa, quali sono tra gli altri: «La Gazzetta del popolo», «L’Opinione», «La Concordia», «L’Almanacco nazionale» e simili; anzi eccitate tutti coloro ritenessero tali scritti a deporli nelle vostre mani, onde consegnarli alle fiamme.40 1848, 15 novembre ) la redazione chiede a tutti i vescovi d’Italia che inviino i loro documenti per la diffusione. Sul periodico torinese si veda Montale, Lineamenti generali per la storia dell’«Armonia»; Lucatello, Don Giacomo Margotti; Talamo, Stampa e vita politica, p. 567 e sgg. Più in generale sul dibattito giornalistico cfr. La nascita dell’opinione pubblica in Italia. 39. Nota la battaglia dell’«Armonia» contro l’emancipazione dei protestanti. Si veda Cozzo, La polemica antiprotestante dell’«Armonia» e Id., Protestantesimo e stampa cattolica nel Risorgimento. 40. La lettera è riprodotta in Interpellanza del deputato Brofferio, p. 629.

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Il pesantissimo attacco alla libertà d’informazione, che evoca tristi rituali di un passato inquisitoriale, trova una pronta eco nelle stanze del parlamento subalpino che si trova, proprio in quei giorni, a discutere sulle linee ispirative delle leggi Siccardi. La dura requisitoria di Angelo Brofferio, che trae spunto dalla lettura di brani dello scritto di Gianotti per chiederne esplicitamente l’incriminazione,41 trova in realtà accordi e plauso ben oltre i banchi della sinistra, come si evince dai toni preoccupati di tutti i partecipanti al dibattito parlamentare. Sono le scadenze dell’agenda politica probabilmente a consigliare cautela al ministro Siccardi per evitare, in un passaggio delicatissimo per la vita costituzionale del piccolo regno, di aprire con le autorità ecclesiastiche locali un nuovo fronte polemico, che avrebbe immediatamente un rilievo internazionale;42 ma certo, se il parlamento decide di non dare corso alla denuncia proposta da Brofferio, sembra sempre più chiaro che sul terreno della libertà dell’informazione e dell’accesso alla lettura si sta giocando una partita durissima nella quale la Chiesa cattolica, sia a livello centrale che periferico, vuole esercitare tutto il suo pesante potere di interdizione. Un altro esempio delle nuove modalità che assume il conflitto tra poteri nella nuova società della libera comunicazione si ha nei primi anni cinquanta con il caso Nuytz. Giovanni Nepomuceno Nuytz, professore di diritto canonico all’ateneo torinese sin dal 1844, appartiene alla numerosa schiera di giuristi educati alla scuola del giurisdizionalismo; autorevole consigliere di Carlo Alberto, fin dagli anni quaranta aveva esposto nelle Ecclesiastici iuris institutiones edite nel 1844 le sue tesi che, volendo regolare i rapporti tra Stato e Chiesa, tendevano ad attribuire a quest’ultima solo poteri spirituali sottoponendola, per tutto ciò che riguarda le questioni mondane, all’obbligo del regio exequatur. Condannato da Pio IX solo nel 1851 – si badi bene, a vari anni di distanza dalla pubblicazione dei suoi libri, ma in pieno conflitto con lo stato liberale sabaudo – con un Breve durissimo che minaccia 41. «Il vescovo di Saluzzo ha violato l’articolo 24 della legge sulla stampa, in cui è detto, che è delitto «ogni provocazione all’odio tra le varie condizioni della società»; e che altro sono le parole che ho lette che una flagrante provocazione all’odio tra cittadini e cittadini?» (ibidem, p. 629, il corsivo è nel testo). Brofferio cita anche gli articoli 616 e 617 del Codice Penale sulla diffamazione di singoli individui. 42. Cfr. Atti del Parlamento. L’intervento di Siccardi, invitando i parlamentari a non generalizzare, plaude alla maggior parte dei vescovi che ha usato toni moderati «rispettando tutti i riguardi e tutte le convenienze […] senza alcuna maniera di provocazione» (ibidem, p. 632). La vicenda è narrata in parte in Gorresio, Risorgimento scomunicato, pp. 22-24.

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la scomunica per gli eventuali lettori, il professore pubblica un volumetto difensivo dal titolo emblematico Il professor Nuytz ai suoi concittadini che costituisce anche un modello esemplare di appello diretto all’opinione pubblica della sua città.43 Anche questo pamphlet viene proibito, questa volta dai vescovi piemontesi che si accodano senza distinzioni alla scelta pontificia, minacciando anch’essi la scomunica. Quest’ultima decisione episcopale, nella forma di lettera pastorale, viene amplificata ed enfatizzata dalla solita «Armonia» che ne fa uno degli argomenti per giustificare la richiesta che il professore venga privato dall’insegnamento universitario o almeno passi ad un altro incarico, ritenuto meno pericoloso per la Chiesa e per la salute delle anime dei suoi allievi.44 Sotto la pressione dei giornali conservatori, sarà lo stesso Nuytz a scegliere successivamente di insegnare una diversa disciplina, questa volta il più innocuo diritto romano, nell’ateneo torinese. Bisogna dire, come del resto notava lo stesso ministro Siccardi, che il fronte dei vescovi piemontesi non è certo monolitico. O almeno, se tutti mostrano di aderire alla linea romana difendendo le prerogative della Chie43. Tra l’altro Nuytz denuncia con chiarezza che «la mira […] di chi provocò il breve era di volgere contro il governo, il quale cammina nelle vie del progresso, la pubblica opinione, dar a credere che quei principii dai quali esso prende le mosse, siano irreligiosi ed empi, contrastare alla nazione il pacifico possesso di leggi testé fatte» (Il professore Nuytz ai suoi concittadini, pp. 8-9). Nel libro il professore ribadisce le sue tesi, favorevoli al matrimonio civile ed in generale alla fine del potere temporale del papato. Si veda anche una nota comparsa nella Corrispondenza da Torino della «C.C.», s. I, II/6 (1851), pp. 580-588. Parlando con toni ironici di «masse plaudenti» riunite davanti alla casa del professore per omaggiarlo, denuncia il tentativo di sottoporre il giudizio inappellabile del papa al volere del popolo: « l’Autore condannato da Roma si è rivolto Ai suoi concittadini; e gli ha preso siccome arbitri, siccome giudici in appello nella causa che egli crede tuttora pendente tra lui e il papa […] È in petto e in persona la sovranità popolare, trasportata nella Chiesa ed esercitata in maniera ben più sommaria e singolare di quello che facciasi in politica» (ibidem, p. 583). 44. «Nell’interesse della salute delle anime che ci sono confidate, ci crediamo obbligati a proibirlo e condannarlo: e quindi per le presenti, dopo aver invocato i lumi dello Spirito Santo, lo proibiamo e condanniamo per tutta questa provincia ecclesiastica, sotto pena di scomunica maggiore da incorrersi pel solo fatto da tutti quelli che lo leggeranno o che lo riterranno senza permesso» (Lettera pastorale dei Vescovi della provincia ecclesiastica di Savoia). I vescovi ricordano che Pio IX aveva già condannato con un Breve pontificio – pubblicato nell’«Armonia», IV/118 (1851) pp. 469-470 – due precedenti opere di Nuytz; ricollegandosi a questo, minacciano le pene più gravi. Della questione, comunque, il giornale continuerà ad occuparsi fino a quando lo stesso professore passerà ad altro insegnamento. Un libello contro Nuytz viene pubblicato dallo stesso responsabile dell’«Armonia»; si veda Margotti, Processo di Nepomuceno Nuytz. Sulla figura del giurista cfr. Bertola, Nuytz Giovanni Nepomuceno.

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sa in materia di controllo della stampa come un impegno imprescindibile per tutelare la salute delle anime loro affidate dalla diffusione delle cattive letture, nei confronti del governo e delle nuove normative da esso adottate le posizioni sembrano divergere: se c’è una linea – ben rappresentata da Fransoni, Gianotti e altri, che trova anche una sponda giornalistica nella diffusissima «Armonia» – che vede lo stesso statuto liberale come un abuso da cancellare, c’è un altro schieramento certamente maggioritario che mostra di volere sfruttare tutti gli spazi offerti dalla legge per salvaguardare come normale prassi consolidata gli interventi censori dei vescovi. Fra tutte emerge, con numerosi interventi, la voce di Giovanni Tommaso Ghilardi, vescovo di Mondovì, già individuato dalla curia come uomo della mediazione nei mesi più cupi della vicenda Fransoni.45 Certo, Ghilardi non può essere imputato di collateralismo e subalternità nei confronti delle autorità civili piemontesi; nell’arco di pochi anni infatti, dal 1852 al 1854, vieta ai propri fedeli con apposite notificazioni la lettura di numerosi periodici distribuiti nella sua diocesi, dai foglio protestante «La Buona novella» alla «Gazzetta delle Alpi» già condannata dal vescovo di Cuneo.46 È significativo ad esempio il comportamento tenuto dal presule nei confronti de «L’Ape», periodico anch’esso di ispirazione evangelica nato a Mondovì; in un primo tempo, pur se conteneva articoli pericolosi o ritenuti immorali, si era evitata una condanna per non suscitare nei lettori ulteriore curiosità per un foglio di fatto scarsamente diffuso. Solo quando il giornale comincia a fare propaganda esplicita a favore di libri condannati dall’Indice «come sono principalmente le Opere tutte di Casti, Gustavo, Corrispondenze religiose, De Sanctis, La Confessione» interviene la dura condanna vescovile con la conseguente minaccia delle pene canoniche per chiunque si renda colpevole della lettura o ancor peggio della diffusione.47 Interessanti le modalità di queste condanne che diversamente da quelle promulgate dalle istituzioni romane caratterizzate dalla segretezza, o anche dall’astioso ma immotivato anatema del già ricordato vescovo di Saluzzo, rendono pubbliche ed esplicite le motivazioni del divieto, sia pure con brevi accenni al contenuto, insistendo vistosamente sulle tematiche 45. Griseri, Ghilardi, Giovanni Tommaso, in DBI. Da notare che Ghilardi, uno dei più strenui difensori del dogma dell’infallibilità nel Concilio Vaticano I, tra le varie opere fu l’autore di un trattato dal titolo Vantaggi religiosi e sociali della dommatica definizione dell’infallibilità pontificia, pubblicato a Torino nel 1870. 46. Il decreto pubblicato per intero si trova in Condanna de «L’Ape». 47. Ibidem.

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morali; se si pensa che le parole delle istruzioni pastorali venivano lette in occasione delle messe e delle funzioni domenicali, si comprende come l’obiettivo sia quello di coinvolgere i fedeli non solo nell’esecrazione ma anche nell’esercizio del controllo. Questi obiettivi appaiono evidenti nell’ampia Istruzione pastorale dedicata da Ghilardi nel 1852 alla lettura dei libri proibiti.48 In essa, l’opera dei vescovi non viene dipinta come un assalto alle nuove leggi costituzionali, ma come un «dovere» sociale irrinunciabile che comporta un sicuro «benefizio per il paese»; nell’assenza ormai di autorità riconosciute che siano in grado di disciplinare le menti ed i cuori dei giovani o dei meno fortunati, spetta alla Chiesa ed ai suoi pastori il compito di indicare il pericolo insito nelle cattive letture, che possono generare come conseguenze non solo privato disordine morale ma soprattutto insanabili conflitti sociali. Ad esempio, in stretta sintonia con gli umori di una consistente fetta dell’opinione pubblica ed insieme con una secolare tradizione che vede nella diffusione della lettura presso le donne un potenziale pericolo per la moralità e la stabilità sociale, Ghilardi descrive con vivezza di particolari gli effetti travianti della passione per i romanzi nei comportamenti di una fanciulla inesperta49 e ad essi accosta, in una ideale contiguità, i disordini e gli sconvolgimenti sociali nella vicina Francia, anch’essi a suo dire frutto perverso della diffusione dei libri malvagi e antireligiosi.50 Nel rivendicare quindi come dovere morale irrinunciabile dei pastori l’opera di disciplinamento delle letture dei fedeli, lo scritto di Ghilardi ha 48. Ghilardi, Istruzione pastorale. 49. Ibidem, p. 14. Bisogna dire che contro la lettura delle donne si mobilita una vasta corrente di pensiero che ha origine sin dall’età moderna in tutta Europa, costituita certamente non solo da esponenti della cultura reazionaria, ma anche da politici ed educatori del fronte laico. Esemplare del pregiudizio diffuso anche negli ambienti rivoluzionari francesi il testo scritto dal giacobino Sylvain Marèchal nel 1801, Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere. Il topos della donna fuorviata dalla lettura è largamente presente anche nella letteratura satirica dell’Ottocento; si veda per tutti il sonetto di Belli, Er legge e scrive, in I sonetti., vol. III, p. 1681. La bibliografia degli studi a questo riguardo è molto vasta; si veda solo a titolo esemplificativo Pearson, Women’s reading in Britain. Per la situazione italiana cfr. Palazzolo, Le donne e la lettura; Chemello, Libri di lettura per le donne; e Plebani, Il «genere» dei libri. 50. «Si fu per opera speciale, e diremmo, unica dei malvagi libri, che il secolo decimottavo vide venir meno fra i popoli le religiose credenze, rovesciarsi tutti i sani principii» (Ghilardi, Istruzione pastorale, p. 17). Nel passo successivo, Ghilardi cita Voltaire come responsabile di tutti i mali di Francia.

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l’ambizione al contempo di disegnarne la cornice istituzionale nel nuovo contesto legislativo. È grossolano errore, che non meriterebbe di essere accennato, se non si fosse letto in qualche foglio, che sia lecito scrivere, stampare quanto pare e piace in materia di religione, di buon costume e di fama altrui, in grazia della libertà sancita dallo Statuto; cosicché debba riputarsi contraria ad esso la proibizione che si faccia di giornali o di libri qualunque dall’Autorità ecclesiastica. Nulla invero può dirsi di più opposto alla lettera ed allo spirito dello statuto e delle patrie leggi, non meno che a’ principj più volgari del pubblico diritto. Essendo infatti distinte le due Autorità, ecclesiastica e civile […] sono per conseguenza reciprocamente indipendenti. Ora, ai Vescovi […] compete il giudicare gli scritti che contenessero errori contrarj all’insegnamento ortodosso, e proibirli. Quando ciò fanno esercitano un’attribuzione propria del loro ministero. I fedeli perciò sono tenuti a obbedir loro, qualunque sia la forma di governo che li regge, e qualunque sia la mutazione avvenuta nelle leggi di questo. […] La libertà conceduta della stampa non potè disobbligarli, perché al potere civile non appartengono gli attributi del potere ecclesiastico: né egli può far sì che i cittadini cessino di essere soggetti a quelle discipline che la Chiesa non ha abrogate. In quanto alle nostre leggi, l’editto sulla stampa stabilisce (art.16, 17, 27 e sgg) le pene che s’incorrono per reati contro la religione cattolica, che è religione dello Stato […] Per questo articolo, non solo è riconosciuto, ma deve essere protetto l’atto di proibire gli scritti malvagi, che è nello stesso tempo un diritto e un dovere esercitato sempre dal Capo e dai Vescovi della Chiesa cattolica.51

La lettera appare più una puntuale confutazione delle dominanti interpretazioni laiche delle norme statutarie che uno scritto di insegnamento pastorale rivolto ai parroci ed ai fedeli della diocesi; come tale, gli interlocutori privilegiati appaiono in primo luogo i vertici delle istituzioni civili o i consulenti giuridici della monarchia sabauda. Assente qualsiasi evocazione nostalgica dell’antico regime, Ghilardi entra nel merito delle leggi liberali piemontesi – definite quasi affettivamente «le nostre leggi» per allontanare qualsiasi fantasma di sedizione – per evidenziare gli spazi che queste lasciano ancora all’attività della Chiesa cattolica e dei suoi vescovi; questi ultimi del resto, impedendo la diffusione dei libri pericolosi per la morale e l’ordine sociale, compiono un’opera non soltanto meritoria per il bene dello stato ma soprattutto protetta dalle leggi e garantita dalle disposizioni normative. 51. Ibidem, pp. 45-46.

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Com’è noto, il dibattito sui rapporti tra stato e Chiesa e sui confini dell’azione della Chiesa cattolica all’interno del nuovo stato liberale va ben al di là della specifica questione della legittimità dell’interdizione dei libri e dei giornali pericolosi attuata dalle autorità ecclesiastiche. Nei fatti comunque l’interpretazione di Ghilardi, tesa a rassicurare l’autorità civile ma anche a ribadire la «necessità» imprescindibile dell’azione pastorale, sembra non scontentare le due parti ed al contempo offre un quadro normativo accettabile, all’interno del quale collocare l’attività quotidiana dei vescovi cattolici. Non è un caso infatti che, mentre dal 1852 si susseguono con puntuale regolarità le condanne dei libri e di molti periodici di attualità politica da parte dei vescovi sabaudi, nei loro scritti successivi al testo del vescovo di Mondovì resta sullo sfondo la questione della libertà di stampa e dello statuto che l’ha sancita: più che combattere contro la legge fondamentale del regno una sterile battaglia, invisa al governo e foriera di ulteriori conflitti, i prelati preferiscono concentrarsi sull’azione dissuasiva, stabilendo le regole irrinunciabili che i chierici ed i fedeli cattolici devono seguire per la scelta delle buone e oneste letture evitando in tal modo le gravi sanzioni spirituali imposte dalle autorità ecclesiastiche. In questo quadro si inscrive la Notificazione dei vescovi della provincia ecclesiastica di Torino sui libri e giornali proibiti, elaborata e sottoscritta collettivamente il 2 ottobre del 1852 dai presuli di Torino, Saluzzo, Alba, Acqui, Ivrea, Asti, Mondovì, Cuneo, Susa, Toffano52 e attesa con grande preoccupazione dalle autorità civili, che schierano all’uscita delle 52. La Notificazione viene pubblicata dall’«Armonia» (1852), che contrariamente alla esplicita volontà dei vescovi le dà una cornice politica, attaccando apertamente le leggi liberali. Lo scritto dei vescovi ha comunque un’eco anche nei giornali d’oltralpe e viene riportata per intero da «L’Ami de la Religion. Journal et Revue ecclésiastique, politique, littéraire», t. 159, 23 nov. 1852, e dall’«Univers» del 21 novembre 1852, a conferma del grande interesse suscitato nella Francia cattolica dalle vicende italiane. Ad essa fa anche esplicito riferimento il vescovo di Luçon Baillès nella già citata Instruction pastorale (p. 119). Il documento genera anche un piccolo giallo, poiché non viene firmato dal vescovo di Pinerolo, sotto la cui giurisdizione si trova il territorio della comunità valdese. Il giornale liberale «Il Risorgimento» nel numero del 19 novembre 1851 non manca di sottolineare questa assenza, ipotizzando delle divergenze tra i prelati piemontesi. Solo successivamente il vescovo di Pinerolo scrive una sua pastorale sui libri proibiti, nella quale però non menziona, evidentemente per evitare un conflitto aperto con i valdesi il cui territorio cade nella sua diocesi, i singoli testi scritti da Luigi Desanctis e dagli altri evangelici, già citati dagli altri presuli, «C.C.», s. I, III/11 (1852), pp. 665-676 e p. 707. Vescovo di Pinerolo dal dicembre

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chiese la forza pubblica per evitare eventuali disordini e sommosse di popolo.53 Assente qualsiasi riferimento alle nuove leggi liberali, nel documento i vescovi ribadiscono puntigliosamente che non sono state abrogate dalla Chiesa le regole promulgate dalla congregazione dell’Indice e dal pontefice in materia di libri proibiti. A questo riguardo, elaborano una interessante lista di volumi che, pur condannati con decreto dell’Indice, risultano essere largamente diffusi tra i lettori piemontesi; accanto ai consueti libri, distribuiti dall’apostolato protestante come l’onnipresente Bibbia di Diodati o dalla propaganda anticlericale, come le opere del solito Bianchi Giovini, compaiono gli scritti dei riformatori cattolici da Lamennais a Gioberti e Rosmini, ma anche i Misteri di Parigi inseriti nell’Indice solo nel gennaio del 1852 insieme a tutti gli altri romanzi di Eugène Sue, come anche altre opere della narrativa contemporanea soprattutto francese.54 Nessuna cautela dei presuli anche nella proibizione delle opere che, pubblicate in quegli anni in Piemonte, cadono sotto la primaria giurisdizione vescovile. Dimostrando di voler fare uso fino in fondo delle attribuzioni concesse dal Mandatum di Leone XII e poi dai numerosi pronunciamenti di Pio IX, i prelati diffidano i fedeli dalla lettura di un lungo elenco di libri e di periodici contemporanei che trattano dell’attualità politica, rei di «corrompere i costumi e la fede nel cuore dei fedeli e di diffamare la gerarchia ecclesiastica e i principi». Anche in questo caso, è evidente l’allarme causato dai decreti sulla liberalizzazione dei culti che consentono la propaganda protestante, in un territorio in cui la presenza delle chiese riformate ha una secolare tradizione, sia pur sotterranea, di radicamento sociale. Ma se in prima istanza vengono quindi condannati i testi che a quella tradizione del 1848 era Lorenzo Guglielmo Maria Renaldi (1808-1878), in rapporto con Rosmini e strettamente legato alla dinastia sabauda, dei cui membri scrive alcuni elogi funebri. 53. È la «Civiltà Cattolica» ad enfatizzare l’allarme in funzione antigovernativa: «in ogni chiesa dove presumevasi dover avvenire la lettura della Notificanza episcopale furono appostati in buon numero Carabinieri ed agenti di sicurezza pubblica, la cui presenza bastasse a prevenire ogni disordine. La Dio mercè i parrochi fecero degnamente il loro dovere senza che perciò nascessero turbolenze, da cui i libertini si guardarono gelosamente, sia perché s’avvidero di non avere consenzienti i depositari della forza pubblica, sia perché fermassero il proposito di vendicarsene per altro modo meno arrischiato», Corrispondenza da Torino, in «C.C.», s. I, III/11 (1852), p. 582. 54. Com’è noto, la congregazione dell’Indice ha dedicato alla letteratura francese una grande attenzione condannando la gran parte della produzione di romanzi dell’Ottocento. Si veda a questo riguardo Amadieu, La littérature française.

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si ispirano, come i volumetti polemici dell’ex camilliano Luigi Desanctis55 o il saggio storico sui valdesi curato da Amedeo Bert,56 tra i testi a stampa proibiti figurano anche i classici della polemica anticattolica come Gli orrori dell’Inquisizione e I misteri di Torino e di Roma ed un lungo elenco di periodici, dai già menzionati «L’Opinione» e «Gazzetta del popolo» ai foglietti satirici di stampo ministeriale come «Il Fischietto» e l’annuale «Strenna del Fischietto». L’insieme delle opere a stampa, interdette a tutti coloro che non possiedono una licenza di lettura concessa dal vescovo, consente di fare una riflessione sulle linee guida dell’intervento pastorale. Se infatti è indubbio che i primi strali vengano rivolti contro la propaganda protestante e anticlericale che conosce una brusca impennata nel Piemonte degli anni cinquanta, è altrettanto vero che la presenza di opere narrative di larga diffusione, spesso di argomento amoroso, dimostra anche efficacemente la volontà di contrastare la diffusione di comportamenti secolarizzati, soprattutto sul piano della morale sessuale e delle pratiche sociali. Con queste scelte ad ampio raggio si vuole ribadire, non solo alle autorità ma anche in generale a fette consistenti di un’opinione pubblica spesso allarmata o disorientata, costituite in prevalenza dalle famiglie e dagli educatori, l’utilità dell’azione disciplinante della Chiesa cattolica, necessaria per il mantenimento dei buoni costumi – soprattutto femminili – e per la salvaguardia dell’ordine sociale soggetto in questi anni a tensioni disgregatrici, a cominciare dalle proposta di legge sul matrimonio civile e sul divorzio. Il richiamo, pacato ma nella sostanza molto severo, rivolto dal pulpito a tutti coloro che hanno una responsabilità nella diffusione della stampa – dagli editori ai librai ai singoli lettori – non ha soltanto un generico valore dissuasivo ma vuole esercitare una pressione perché anche i fedeli si impegnino attivamente, esercitando in tutte le sedi una oculata funzione di controllo. Certo, è difficile verificare l’impatto che questi richiami, così autorevolmente amplificati in tutte le scadenze liturgiche, hanno sui concreti comportamenti di lettura. Le uniche notizie in tal senso infatti vengono fornite 55. Luigi Desanctis appartiene alla numerosa schiera, da Alessandro Gavazzi al discusso Giacinto Achilli, dei religiosi convertiti negli anni del risorgimento al credo evangelico ed agli ideali patriottici. Sacerdote camilliano, membro dell’Accademia di Religione Cattolica e qualificatore del Sant’Uffizio, scriverà numerosi scritti polemici contro il primato del vescovo di Roma e contro i riti cattolici. Cfr. Vinay, Luigi Desanctis e il movimento evangelico. Si veda anche la voce di Fantappiè, Desanctis, Luigi, in DBI. 56. Bert, I valdesi. Si veda anche Santini, Bert, Amedeo, in DBI.

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sempre dai giornali attivamente impegnati nei fronti avversi e sono quindi abilmente manipolate in funzione della battaglia politica; così, mentre i fogli contestati affermano di aver aumentate le vendite dopo le condanne vescovili,57 la «Civiltà Cattolica» sostiene che un’altra rivista, l’evangelica «Ape», è stata costretta a chiudere i battenti dopo il duro pronunciamento di Ghilardi. Informazioni più attendibili possono essere rintracciate nelle fonti che trattano della pratica quotidiana dei librai e dei venditori ambulanti, costretti spesso nelle loro estenuanti peregrinazioni tra villaggi e fiere di paese ad un duro confronto con gli esponenti del basso clero. Le notizie, assai scarse e in forma rapsodica, si possono reperire nei resoconti, in forma di diario, dei colporteurs evangelici, ma fanno riferimento ad un periodo successivo quando, come vedremo più avanti, con l’unificazione italiana e la nascita contestuale della casa editrice che raccoglie le varie chiese protestanti, la Claudiana, l’intero territorio della penisola sarà percorso in lungo e in largo da questi oscuri mediatori di fede e di cultura.58 3. Aspettando l’unificazione Rispetto agli allarmi contenuti nelle lettere pastorali dei vescovi del regno di Sardegna, sono molto diversi i toni utilizzati negli anni cinquanta negli scritti degli altri pastori delle diverse province italiane. Certo non mancano gli anatemi lanciati contro «il pravo abuso della stampa», contro la dilagante diffusione di opere che attaccano la Chiesa cattolica ed il pontefice romano ma, provenendo da luoghi dove ancora vige un severo controllo sulla stampa saldamente nelle mani delle istituzioni statali, questi sembrano più dei rituali e generici esercizi retorici che degli 57. I giornali proibiti. È lo stesso giornale clericale a riportare la notizia che i periodici, come «L’Opinione» e «La Buona novella» mentre si lamentano delle proibizioni, affermano che queste hanno avuto l’effetto di rilanciare le vendite. Sottolineando quella che, a loro avviso, è una palese contraddizione, i redattori del periodico cattolico ribadiscono che i fedeli hanno invece seguito docilmente le indicazioni vescovili, allontanandosi dalla lettura dei giornali già condannati. Altro esempio è la dissociazione, opportunamente amplificata dall’«Armonia», di due lettori che, venuti a conoscenza della pericolosità del Corso Completo di Diritto Pubblico di Diego Soria, denunciata dal provicario di Ventimiglia, chiedono di non essere più associati alla pubblicazione, «Armonia», IV/140 (1851), p. 559. 58. A questo riguardo si veda ancora Solari, Produzione e circolazione del libro evangelico, pp. 77-114.

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effettivi pronunciamenti volti ad evitare la diffusione di questa o quella pubblicazione, rea di seminare vizio e disordine nelle menti dei fedeli.59 L’allarme contro la propaganda laica e antireligiosa si mantiene vivo, ma si può ancora contare – dal Lombardo-Veneto austriaco alla Toscana Granducale sino al Regno Borbonico – sulla presenza del robusto braccio secolare a cui delegare le funzioni di censura e di controllo sulla circolazione dei libri pericolosi, come prevedono ancora gli ordinamenti di quegli stati. Il modello di rapporti tra Chiesa e istituzione civile evocato dai vescovi italiani non è, come abbiamo avuto già modo di sottolineare, tanto quello di antico regime che ha conosciuto momenti di aspri conflitti tra la Chiesa cattolica e gli stati assolutisti, ma quello dell’organica alleanza tra Trono e Altare lungamente praticato nei difficili anni successivi alla Restaurazione. Non a caso, uno degli eventi maggiormente enfatizzati è il concordato con l’impero austriaco del novembre del 1855 che, per i dirigenti della curia romana e le autorità ecclesiastiche italiane, può divenire un valido quadro di riferimento per accordi diplomatici futuri in altri territori a prevalenza cattolica.60 Di questo patto, lungamente preparato tra i vertici della diplomazia austriaca e la curia romana, vengono esaltati dai vescovi proprio quegli elementi di definitiva rottura con la stagione del giuseppinismo che hanno consentito l’apertura di una fase nuova, che sancisce la piena libertà della Chiesa nei territori asburgici. Saranno ovviamente soprattutto i vescovi del Lombardo-Veneto a salutare con grande enfasi gli effetti positivi dell’accordo per la repressione della «stampa periodica eterodossa e rivoluzionaria», esaltando al contempo la figura del giovane sovrano che, come sottolinea il vescovo di Brescia, chiede il concordato: 59. Esemplari i toni della Lettera per la Quaresima dell’anno 1853 di Giovan Battista Baluffi, vescovo di Imola che, a proposito della stampa pericolosa, usa accenti retorici di notevole effetto: «Pigliano forme e nomi diversi, dove in palese, dove in occulto, ora in giornali periodici, ora in fogli volanti, ora in libri di maggiore o minore mole, quando col fascino della poesia o del romanzo, quando con la forza di tribunizia invettiva o di popolare dialogo, oggi atteggiandosi alla gravità di religiosa o filosofica disputa, domani al cinico sorriso della commedia e dell’epigramma va per città e villaggi, cacciasi nelle case de’ grandi o nei tuguri de’ poveri, entro ai fondachi del mercante o l’officina dell’artigiano, tra le mani della gioventù studiosa e nei crocchi degli operai, e dappertutto sparge il dubbio e la menzogna, la bestemmia e il rancore». 60. A questo riguardo si veda Zanotti, Il concordato austriaco del 1855.

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e lo chiese e l’ottenne, senza averne avuto l’esempio da’ suoi maggiori, e che è più, mentre altri Stati senza paragone meno potenti rompeano la fede data al pontefice e metteansi sotto i piedi i concordati già fatti e in pieno vigore.61

Le allusioni sono chiarissime e ancor più i motivi di plauso del prelato lombardo. Non solo il pur giovane Francesco Giuseppe rompe con quella tradizione giurisdizionalista che aveva caratterizzato i rapporti dell’impero con le autorità ecclesiastiche romane sin dal regno di Maria Teresa, ma dimostrando di muoversi in una prospettiva radicalmente diversa dagli stati di orientamento liberale, a cominciare dal piccolo e meno potente regno sabaudo, afferma il diritto della Chiesa sia all’autonomia di giurisdizione che di magistero; garantisce quindi tra l’altro ai vertici religiosi locali la piena libertà nella gestione dell’istruzione e nel controllo dei libri proibiti, ambedue settori cruciali per l’orientamento delle coscienze e la creazione del consenso.62 Da notare che il testo del vescovo di Brescia, dai toni volutamente encomiastici, è inviato a pochi giorni dalla stipula del patto, a conferma della grande attesa suscitata da questa novità all’interno della Chiesa lombarda. Girolamo Verzeri infatti non è il solo a salutare con evidenti segni di giubilo il nuovo corso della politica imperiale. La preoccupazione per la propaganda liberale, protestante o massonica, i continui echi di fermenti rivoluzionari che giungono dalle più varie regioni d’Europa spingono presuli ed autorità romane ad enfatizzare il concordato con l’impero, considerandolo come un segno di svolta in grado di imprimere una direzione diversa all’intera politica europea. È quindi chiarissimo che la Chiesa ha sempre riguardato la libertà di stampa e del commercio librario come di gran pericolo ai fedeli; che ha creduto perciò di potere e di dovere regolarla con opportune leggi; e che fatto una volta queste leggi essa non ha mai cessato un momento di esigerne l’intera osservanza. Che se in questi ultimi tempi nel nostro paese non furono os61. Verzeri, Per la Grazia di Dio e della Sede Apostolica Vescovo di Brescia, 22 nov. 1855 (AFSCIRE, Lettere Pastorali, Lombardia 6, Brescia). Lo scritto iniziava affermando: «L’importanza e l’utilità del concordato Voi la conoscerete ancora dall’esultanza di tutti i buoni e dal fremere che fanno i cattivi e massime la stampa periodica eterodossa e rivoluzionaria d’altri paesi». Sulla politica dei governi austriaci nel Settecento in Lombardia cfr. Tarchetti, Censura e censori; e Montanari, il controllo della stampa. 62. Zanotti, Il concordato austriaco del 1855, p. 163. In realtà, come fa notare Zanotti, il concordato enfatizzato dalla Chiesa a fini di propaganda estera viene denunciato dal governo austriaco dopo pochi anni.

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servate che imperfettamente, ciò successe contro la volontà della Chiesa, devesi attribuire ad ostacoli che la Chiesa cercò sempre di respingere, e che essendo ora rimossi pel Concordato devono alle leggi medesime lasciare affatto libero il corso. 63

Il vescovo di Bergamo sembra qui ribadire che, se negli ultimi decenni omissione di controllo vi è stata, questa non è da attribuire alla responsabilità della Chiesa, ma alle incertezze della politica asburgica, tentata periodicamente dalle sirene del giurisdizionalismo. Nei fatti comunque, per i vescovi lombardi, l’ombrello protettivo dell’impero garantisce ormai una più ferma repressione nei confronti della propaganda anticlericale e consente di guardare alle leggi liberali del vicino Piemonte come scelte temporanee, destinate a portare il piccolo stato ad una sicura e rapida rovina. Stupisce in questo quadro la netta divergenza tra il comportamento dei prelati lombardi e quello dei vescovi toscani, coinvolti già nel 1851 in un analogo processo diplomatico che si conclude con il concordato tra la Santa Sede ed il granduca Leopoldo II.64 Malgrado i contenuti dell’accordo siano sostanzialmente simili – completa autonomia dei vescovi, censura ecclesiastica per le opere religiose – i prelati toscani preferiscono non enfatizzare in alcun modo l’importanza del concordato, evitando quindi una strumentalizzazione politica che avrebbe potuto creare problemi al governo e mantenendo quella linea di cauta moderazione che aveva caratterizzato nel tempo la loro azione pastorale. 4. Un allarme generale Le speranze della Chiesa lombarda sono, com’è noto, destinate a durare assai poco; la formazione dello stato italiano, garantendo libertà e diritti civili ai cittadini della penisola, costringe i vescovi di tutte le parti d’Italia ad orientare in modo diverso gli interventi pastorali. In realtà, le vere novità negli indirizzi dei presuli locali sono assai esigue. Le linee generali della politica ecclesiastica in Italia sono state tracciate con grande nettezza dal pontefice romano sin dal 1849 nella No63. Speranza, Per la grazia di Dio Vescovo di Bergamo, 16 gennaio 1856 (AFSCIRE, Lettere pastorali, Lombardia 6, Bergamo). 64. A questo riguardo si veda Bettanini, Il concordato di Toscana; e Martina, Pio IX e Leopoldo II.

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stis et nobiscum, che segna infatti l’inizio dell’aspro conflitto con il nuovo stato liberale sabaudo e con il suo progetto di unificazione nazionale. Al di là di singoli tatticismi presto isolati o condotti ad unità, condanna del liberalismo di matrice protestante, difesa intransigente dei privilegi ecclesiastici e soprattutto del potere temporale come condizione ineliminabile per l’esercizio del potere spirituale sono stati i principi cardine di tutti i pronunciamenti delle autorità religiose, sia laddove le leggi liberali sono già operanti, sia dove ancora la Chiesa cattolica gode di ampi spazi di immunità. Se mai, i lunghi anni di contesa con lo stato piemontese, eliminando progressivamente forze ed ipotesi di mediazione, hanno ancor di più radicalizzato le posizioni di Pio IX che si prepara a lanciare, con la Quanta Cura ed il Sillabo, i suoi anatemi contro la modernità e le sue degenerazioni ideologiche e politiche e a riaffermare più tardi nel Concilio Vaticano la centralità del potere romano, contro ogni pretesa autonomistica delle chiese locali.65 In questo quadro lo spazio per voci dissonanti è praticamente inesistente. E in effetti i vescovi italiani parlano in questi anni con una voce sola, ricalcando tematiche ed accenti che sono stati in precedenza caratteristiche peculiari dei presuli piemontesi. L’allarme nei confronti della diffusione delle cattive letture si fa generale; e se ormai a nulla valgono le desuete e sterili condanne di una libertà di stampa divenuta non solo norma di legge ma pratica quotidiana, i vescovi si attrezzano ad una lunga ed estenuante battaglia per sottrarre i fedeli, ogni fedele, alle tentazioni degli scritti disonesti e pericolosi che possono intaccarne la fede in Dio, la devozione al papa ed ai suoi ministri e comprometterne i buoni costumi. Massima attenzione è dedicata, in questa fase della battaglia ideologica, a quel popolo delle campagne e dei villaggi, che fedele alle tradizioni dei padri sembra ancora sottratto alle insidie della modernità e della propaganda miscredente; l’obiettivo della Chiesa diventa quello di una “riconquista” che, partendo proprio dall’“incontaminata” Italia rurale in gran parte arcaica e premoderna, possa divenire il nucleo forte di una revanche cattolica in tutta la nazione italiana. In verità sino all’unità gli appelli dei vescovi per una sana e regolata lettura non contengono distinzioni di classe o di censo; è il popolo dei fedeli, nella sua interezza, ad essere chiamato alla vigilanza perché si astenga dall’uso dei libri pericolosi o semplice65. A questo riguardo si vedano Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione; Verucci, La Chiesa Cattolica in Italia e Menozzi, Rusconi, Contro la secolarizzazione.

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mente sospetti. Se mai, le varie citazioni di libri e giornali da condannare senza appello, molto numerose come si è notato soprattutto nelle lettere dei presuli piemontesi, fanno ritenere che il richiamo sia in prevalenza rivolto verso chi ha effettive capacità e lunga consuetudine alla lettura e può quindi accostarsi a scritti spesso complessi e di non immediata interpretazione, come sono la gran parte dei testi elencati, dagli studi di diritto di Diego Soria ai volumi di Gioberti sino ai periodici di matrice protestante o alle narrazioni storiche in chiave polemica della corruzione della curia romana. Sono del resto le stesse cifre dell’alfabetizzazione,66 ancora estremamente modeste soprattutto al di fuori dei centri urbani, a far sì che il controllo delle autorità ecclesiastiche e laiche si eserciti soprattutto verso quel ceto medio intellettuale, costituito da professionisti funzionari ed educatori, che ha capacità di scelta dei libri e che al contempo può esercitare un potere di indirizzo culturale sui più giovani o inesperti. Che questo ceto sia anche il più pericoloso per l’ordine sociale e la sicurezza pubblica, come hanno puntualmente dimostrato i periodici moti rivoluzionari e le successive repressioni statali, è naturalmente un corollario che desta la massima attenzione nei vertici istituzionali. Negli anni successivi all’unificazione, l’interesse prevalente dei vescovi sembra spostarsi. L’occhio vigile del clero secolare si rivolge più direttamente verso il consumo di quei ceti che, esclusi da una pratica consapevole di lettura, incontrano il mondo della cultura scritta in forme rapsodiche ed incerte, nelle fiere dei paesi o nelle veglie contadine, appropriandosene liberamente spesso al di fuori dei canoni ufficiali. Questa attenzione certo non è nuova, come hanno dimostrato gli studi di Gigliola Fragnito e di Marina Roggero; sin dai primi passi dell’attività di censura, la Chiesa ha guardato con sospetto alla lettura dei ceti subalterni, tanto da rendere inaccessibile l’approccio e la comprensione del testo sacro a chi non avesse la piena conoscenza della lingua latina.67 Ma in questo caso ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso. Sono gli stessi presuli a denunciare, con meraviglia e preoccupazione, che gli spazi della socialità contadina, le vie le piazze ed i mercati dove si incontrano greggi e venditori, massaie e saltim66. Si veda a questo riguardo Sallmann, Les niveaux d’alphabétisation. 67. Sul divieto della Bibbia in volgare si veda Fragnito, La Bibbia al rogo. Sull’uso del latino come lingua di comunicazione liturgica e sulle conseguenze di questa scelta per la cultura italiana nei secoli successivi cfr. Ead, Proibito capire. Sulle diverse forme dell’utilizzo di testi letterari classici anche da parte di lettori inesperti di origine popolare si veda Roggero, Le carte piene di sogni.

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banchi, prima territorio inespugnabile controllato dal clero cattolico, sono ora attraversati da nuovi personaggi che per pochi spiccioli distribuiscono opuscoli, libretti a un soldo e fogli volanti che, con una veste accattivante e contenuti didascalici di immediata comprensione, seminano diffidenza nei confronti della religione e del clero. Numerosi emissarj viaggiano per le nostre contrade seminando per ogni dove la seduzione, offrendo a prezzo vile ed anco gratuitamente alle donne, ai fanciulli, agli uomini semplici delle campagne ignobili prodotti, libercoli pretesi religiosi che maliziosamente mentendo, illudono, infettano e corrompono tutte le classi della società. Con tali scritture marcate col suggello dell’errore e del vizio, si perverte di leggieri la credenza dei popoli, si risvegliano le più furibonde passioni, s’infrangono i vincoli di ogni subordinazione, e s’inspira alla gioventù uno spirito d’indipendenza e di rivolta.68

Coprendo l’invettiva con il consueto velame retorico, il vescovo di Pisa descrive il fenomeno ma preferisce non additarne i responsabili. Molto più precisi altri prelati che sin dalla fine del 1860 denunciano dal loro pulpito la diffusione, nelle campagne del Nord come del Sud Italia, di numerose operette popolari tra cui spicca l’«Amico di casa», un almanacco pubblicato dalla Claudiana e distribuito da venditori ambulanti insieme agli altri opuscoli della propaganda protestante.69 Ciò posto, vi raccomandiamo per prima cosa […] a non ritenere presso di voi né libro né stampa veruna che offenda la Fede, la morale cattolica e il cristiano pudore. Soprattutto denunziamo al vostro zelo, alla vostra esecra68. Corsi, Lettera pastorale, pp. 8-9. Sulla figura di Cosimo Corsi si veda Martina, Corsi, Cosimo, in DBI. Sulla funzione del commercio librario ambulante in Europa si veda Fontaine, Histoire du colportage en Europe; Colportage et lecture populaire. Sul commercio ambulante in Italia, cfr. Braida, Il commercio delle idee, particolarmente il cap. IV; Infelise, I Remondini di Bassano e Fietta Ielen, Con la cassela in spalla. 69. «L’Amico di casa. Almanacco popolare illustrato» nasce a Torino nel 1854 da una idea di Costantino Reta, ed è finanziato dalle associazioni evangeliche in Italia. Pubblicato all’inizio dalla Stamperia della UTET, sarà rilevato nel 1858 dalla Claudiana, casa editrice nata per iniziativa delle chiese riformate anche con finanziamenti provenienti dalla Gran Bretagna. Sarà diretto dal 1858 al 1869 da Luigi Desanctis, che ne compila la gran parte degli articoli, in seguito da Augusto Meille; sarà pubblicato sempre dalla casa editrice evangelica sino al 1942. Contiene rubriche simili agli almanacchi tradizionali, dal calendario a varie informazioni di economia domestica, botanica etc. a cui venivano accostate narrazioni storiche della Chiesa primitiva, biografie e racconti edificanti. Notizie sulla diffusione dell’almanacco in Papini, Tourn, Claudiana, pp. 119-125.

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zione e allo sdegno vostro cristiano l’eretico Almanacco che – l’Amico di casa – impudentemente s’intitola, il vero nome astutamente coprendo di nemico e traditore.70

In realtà l’«Amico di casa» era solo la punta dell’iceberg di una produzione popolare, fatta di racconti edificanti, libretti educativi e manualetti di vita pratica che, diffusa al di fuori dei circuiti tradizionali, offriva soprattutto alla gente delle campagne e dei piccoli borghi informazioni utili per l’agire quotidiano – dalla coltivazione all’igiene personale alla medicina familiare – e insieme modelli nuovi di virtù civili. Contrapponendosi apertamente all’ideologia cattolica, che esaltava come valori la sottomissione all’autorità e l’accettazione passiva del proprio status in nome di un riscatto in una vita futura, i libretti evangelici raccontano un’altra storia, di uomini che raggiungono con l’istruzione una promozione sociale, di giovani donne industriose che salvano con il loro lavoro la famiglia da sicura rovina, di giovani che si rendono utili alla società ed alla patria riscattandosi da una condizione di subalternità ed ignoranza.71 È l’ideologia selfhelpista, l’etica del lavoro e della responsabilità individuale di chiara matrice anglosassone che si tenta di far assorbire in un contesto italiano, a partire da quel popolo delle campagne che, spesso in condizioni di estrema indigenza, rischia di essere tagliato fuori dai processi di modernizzazione e secolarizzazione che hanno coinvolto in gran parte le società urbane.72 I contenuti, contrassegnati dal forte tono didascalico e dalla dura polemica contro le superstizioni e l’oscurantismo ignorante, in realtà non sono troppo diversi da quelli che hanno caratterizzato altre iniziative analoghe in anni non lontani; si pensi, per non andare troppo indietro nel tempo, ai numerosi almanacchi toscani – tra i quali il più noto è «Il Nipote del Sesto Caio Baccelli», compilato a Firenze negli anni trenta da Pietro Thouar – nati nell’ambiente fertile del Gabinetto letterario di Giovan Pietro Vieusseux, anch’egli del resto maturato in ambito calvinista.73 Al di là della loro 70. Buffetti, Notificazione sull’indulto. Al suo Dilettissimo Clero e al Popolo, Bertinoro, 21 dicembre 1860, in AFSCIRE, Lettere Pastorali, Bertinoro (il corsivo è nel testo). 71. Solari, Produzione e circolazione del libro evangelico, pp. 70-72. 72. Si vedano in generale a questo riguardo Chemello, La Biblioteca del buon operaio e De Franceschi, Istruzione, libri e biblioteche. 73. A questo riguardo si veda Almanacchi lunari e calendari toscani. Sin dal Settecento comunque era iniziata la diffusione di almanacchi di divulgazione scientifica, che si ponevano l’obiettivo di una educazione complessiva dei ceti subalterni, di preferenza rurali. Su questo tema in generale si veda Braida, Le guide del tempo. Come nota Elide

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scarsa diffusione presso i ceti popolari cui si rivolgevano, è certo che questi ultimi mantenevano un tono genericamente moraleggiante del tutto compatibile con il tradizionale ossequio nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. Nel caso delle pubblicazioni riformate al contrario la polemica antioscurantista si fa palese, esce dal vago individuando precise responsabilità; sono i vertici della Chiesa cattolica, secondo la vulgata popolare di marca protestante, ad aver impedito l’affrancamento dei ceti popolari dalla miseria e dall’ignoranza subalterna e ritardato colpevolmente il loro inserimento nel processo di modernizzazione sociale. Si tratta di un’idea certo non nuova e che ha avuto nel tempo svariate formulazioni. Basti pensare più in generale all’interpretazione sismondiana dell’intera storia d’Italia, ed alle discussioni che questa ha suscitato agli inizi del risorgimento nazionale.74 Ma ciò che preme notare è che questa idea esce qui dai confini del dibattito intellettuale, tra libri e giornali di cultura, per essere declinata in chiave popolare, divenire propaganda spicciola, informazione capillare presso chi non ha strumenti di cultura, parole comprensibili anche da chi non ha alcuna familiarità con la lettura. Spesso si tratta di narrazioni di piccoli e grandi abusi compiuti dal clero cattolico ai danni di contadini o giovani inesperti, o di colossali fandonie inventate ad arte per favorire la credenza nelle virtù miracolistiche di un santo, lette ad alta voce dagli stessi venditori. Le cifre dell’iniziativa sono imponenti; l’«Amico di casa», pubblicato dal 1855, ha ogni anno tirature che si aggirano in media intorno alle 50.000 copie, l’«Amico dei fanciulli» strenna prima dedicata solo alle scuole evangeliche poi distribuita in tutte le scuole del Regno arriva alla considerevole cifra di 60.000 copie, mentre non sono molto distanti i nuCasali «Nell’Italia risorgimentale, come in quella dell’età dei Lumi, la produzione a stampa dell’almanacco popolare costituiva un’industria tanto fiorente da non far pensare alla sua soppressione, quanto piuttosto a credere ad essa come un prezioso strumento per la pubblica educazione nazionale» (Casali, Le spie del cielo, p. 268). 74. Ci si riferisce in particolare alla Storia delle repubbliche italiane (pubblicato per la prima volta in francese dal 1809 al 1818) che contiene, particolarmente nel capitolo CXXVII un duro atto d’accusa contro la Chiesa cattolica, responsabile della fine della libertà nei territori italiani. L’opera, com’è noto, suscitò un vasto dibattito in cui intervenne tra l’altro Alessandro Manzoni che confutò le tesi sismondiane nelle Osservazioni sulla morale cattolica. Il testo sismondiano venne condannato dalla congregazione dell’Indice. Si veda a questo riguardo Palazzolo, Le censure e la Storia delle repubbliche di Sismondi.

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meri della diffusione dei numerosi periodici di divulgazione, dall’«Eco della verità» divenuta nel 1875 «Famiglia cristiana», alla «Rivista cristiana» ed altri fogli minori.75 Si vanno infatti e con parole e con empj libelli disseminando nuove e perverse massime contrarie agli eterni principii della dottrina insegnataci da Dio e dall’infallibile Magistero della sua Chiesa per corromper il cuore e la mente di molti. Fra tali libelli specialmente è da notarsi il famoso Almanacco intitolato «L’Amico di casa» che ribocca di eresie, di bestemmie e di menzogne. Né mancano altri che diconsi «Letture di famiglia e scritti pei Fanciulli». Si spargono a vil prezzo, ed anco gratuitamente.76

La straordinaria diffusione dell’almanacco è del resto indirettamente confermata da un profluvio di opuscoli cattolici, nati per iniziativa di vescovi e religiosi per confutarne i contenuti. Se di uno di questi si anticipa con enfasi l’uscita dallo stesso vescovo di Bertinoro, altri denunciano sin dal titolo i loro propositi; da «Il vero Amico di casa», pubblicato a Roma all’«Amico di casa smascherato» compilato ogni anno in luoghi e stamperie diverse con identica veste tipografica, sino al «Pierpaolo. Strenna per l’anno» pubblicato a Modena dal 1861.77 Uniformandosi ai dettami del 75. Le cifre sono contenute in Solari, Produzione e circolazione del libro evangelico, p. 68 e sgg. 76. G.B. Folicaldi, Notificazione, Faenza, 6 febbraio 1861 (AFSCIRE, Lettere Pastorali, Faenza). Interessante anche la lettera pastorale per la quaresima del 1861 di Michele Celesia, vescovo di Patti in Sicilia; il prelato parla esplicitamente di «una propaganda di Protestanti Valdesi» che «profittando della rivoluzione, percorreva tutti i Comuni dell’isola» diffondendo «letteratura popolare» (Celesia, Lettera pastorale al clero). 77. Al contrario de «L’Amico di casa», conservato integralmente dall’Archivio della Tavola Valdese di Torre Pellice e presente in molte biblioteche italiane, gli almanacchi cattolici sono di difficilissima reperibilità, probabilmente a causa del loro carattere effimero. Se ne sono reperiti pochi esemplari delle serie. Tra di essi «Il vero Amico di casa» (Roma, Tipografia Forense in via della Stamperia, conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma Vittorio Emanuele II); «Pierpaolo. Strenna per l’anno […] che contiene molte altre bagatelle, una raccolta di fatti storici, aneddoti favolette moralità ecc. parte in versi parte in prosa composta da alcuni giovani modenesi e dedicata a tutti quelli che la vorranno comprare coll’aggiunta di una confutazione dell’almanacco l’Amico di casa» (conservato nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma). La partizione rivela che i brani degli almanacchi cattolici, pubblicati dopo il rivale, sono una piatta smentita di ogni singolo brano del libretto protestante, secondo i modelli tradizionali della controversistica post-tridentina. Oltre agli almanacchi numerosi sono i libretti che mirano ad insegnare al popolo a difendersi dalla propaganda evangelica. Si veda ad esempio l’operetta di Franco, Errori del protestantesimo, raccomandata dai vescovi. Nel libretto si

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pontefice, che aveva individuato proprio nella diffusione dell’eresia protestante l’origine degli errori moderni, i redattori degli almanacchi cattolici mettono in guardia i fedeli dal prestare ascolto ad insegnamenti morali non radicati nella storia millenaria del cattolicesimo, che portano alla perversione delle anime e alla dissoluzione del corpo sociale. Nessuno di questi opuscoli comunque, che si configurano come delle pedisseque confutazioni dell’almanacco protestante, raggiunge tirature e soprattutto durata del rivale protestante, segno di una fortuna di mercato difficile da scalzare. L’allarme dei vescovi – l’ultima citazione è tratta da una pastorale del vescovo di Faenza Giovanni Benedetto Folicaldi – è quindi più che comprensibile. La scarsa informazione dei contadini e la difficoltà a discernere consente ai colporteurs evangelici di giocare sull’ambiguità; presentandosi come campioni della vera fede, questi conquistano la fiducia del popolo per poi diffondere libretti, almanacchi e l’amatissima Bibbia di Diodati, sorta di talismano identificativo della propaganda riformata.78 L’azione di contrasto non tarda ad arrivare e vede in primo luogo come protagonista il basso clero che, sotto la pressione dell’autorità vescovile, contende fisicamente agli evangelici il territorio.79 Lo spazio dove si svolge questo conflitto è in genere la piazza del mercato o l’area davanti la chiesa, luoghi usuali della socialità contadina. Le narrazioni ingenue di queste tenzoni popolari, tratte tutte dai diari dei colporteurs, sarebbero esilaranti se non fossero l’espressione di uno scontro drammatico che può sfociare descrivono i colporteurs che «vi presentano certi libricciuoli galanti, pieni zeppi di veleno e ve li danno anche gratis, tanta è la loro carità. Questi libri sono: primieramente la Scrittura Sacra ma tradotta male dal Diodati […] poi certi scrittarelli di varii Apostati, come il Desanctis» (ibidem, p. 329). 78. Da notare che questa propaganda preoccupa anche i settori della destra reazionaria rappresentata in Parlamento, contraria ad un’effettiva libertà dei culti. Si veda a questo riguardo Proto Carafa, La propaganda eterodossa, p. 9, che afferma polemicamente: «i governanti nostri permettono si vendano ad ogni canto delle contrade, pubblicamente esposti su picciole panche, le Bibbie del Diodati, Il ritratto di Maria nei cieli, scellerato libro contro alla Verginità della Madonna e ‘L’Amico di casa’, almanacco popolare nel quale il veleno delle massime protestanti è insensibilmente inoculato ad ogni pagina». 79. Si veda quanto studiato da Gambasin a proposito di queste «battaglie» rurali nel Veneto dell’Ottocento: «Ne nasce uno scontro tra la parrocchia che respinge il ‘Predicatore matto’ a suono di ‘batterie musicali’ con strepiti di bande e di secchi, agitando ‘batterie di campagna, cioè falci e forche’ e la microscopica comunità di apostati che invoca il braccio secolare in difesa della libertà di coscienza e di riunione» (Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto). Sull’evoluzione della figura del parroco cfr. Rusconi, Predicatori e predicazione e Miccoli, “Vescovo e re del suo popolo”.

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in violenza privata e tumulto di piazza; sotto la minaccia della scomunica, i parroci ed i preti cattolici non solo diffidano i fedeli dall’acquistare i libri dei miscredenti ma spesso li chiamano alla mobilitazione che arriva sino alla distruzione con il fuoco dei libri e della “carrozza biblica”, come è pomposamente chiamato il carro del malcapitato venditore.80 Il colportore andò, espose i libri su di un tavolo, molti comprarono. I preti fecero il loro dovere, suonarono le loro campane e alla gente accorsa in chiesa predicarono contro il libraio ed i suoi libri: avvenne che gli ingenui consegnarono ai preti i Vangeli comprati e i preti li bruciarono dinanzi la porta della chiesa.81

A volte si è meno fortunati e si arriva sino alla minaccia fisica come nel caso di quel prete di S.Michele di Ganzaria in Sicilia che, diffidando l’ambulante Angelo Deodato dal continuare, afferma che altrimenti: «domani mattina, celebrando la S. Messa, dirò che se lo vedono, lo lapidino».82 È probabile che queste narrazioni siano state enfatizzate, per amplificare i pericoli e dipingere quindi i colporteurs evangelici, figure ambigue a cavallo tra venditori al minuto e predicatori, come i martiri moderni di una nuova stagione dell’oscurantismo cattolico; ma è indubbio che i richiami dei vescovi alla mobilitazione popolare, il loro evocare le fiamme dell’inferno per coloro che osano accostarsi ai libri proibiti dalla “vera” Chiesa, esasperano il conflitto e rendono difficile la pratica effettiva della tolleranza religiosa, formalmente garantita dalla legge dello stato italiano. Ma c’è di più. In realtà in questo volgere di anni sembra riemergere con vigore, sia a livello dei vertici delle chiese locali che nei comportamen80. È Angelo Deodato a raccontare un incontro avvenuto nel 1862 a Enna con un colporteur che vendeva la Bibbia di Diodati a poco prezzo: «Pochi mesi passarono che venne una circolare del Vescovo della Diocesi, un certo Monsignor Sajeva che metteva in guardia contro l’introduzione della Sacra Scrittura di provenienza protestante […] La maggioranza di quei preti cadde dalle nuvole. Molti si disfecero di quei libri col martirio del fuoco» (Deodato, Vicende di un colportore). L’edizione raccoglie, a cura del nipote Achille, alcuni episodi tratti dal diario del nonno Angelo Deodato, colporteur valdese attivo nel mezzogiorno d’Italia nella seconda metà del secolo XIX. Nell’Archivio della Tavola Valdese sono raccolti numerosi diari che i venditori erano tenuti a redigere giornalmente, dando un resoconto accurato sia della loro attività che dei risultati finanziari. 81. Deodato, Vicende di un colportore, p. 43. 82. Ibidem, p. 50. Ulteriori narrazioni di queste vicende in Solari, I colportori evangelici, e Ead., La Bibbia in piazza.

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ti quotidiani del basso clero, quella diffidenza nei confronti della diffusione della cultura e delle pratiche intellettuali che aveva caratterizzato le scelte della Chiesa romana sin dalla prima diffusione delle dottrine riformate, e che aveva di fatto impedito l’accesso alla comprensione dei testi sacri, ed in genere al sapere, di larghi strati della popolazione italiana.83 Negli atti dei parroci di campagna prima descritti sembra di ritrovare la sprezzante volgarità del prete romano di belliana memoria, che con apparente bonomia affermava lapidariamente: «Li libbri nun zò robba da cristiano: /fiji, pe carità, nun li leggete»;84 se i libri condannati dalla Chiesa possono portare alla perdizione delle anime, meglio scoraggiarne la lettura ed impedirne fisicamente l’uso. Del resto questi comportamenti non stupiscono se anche i vertici della gerarchia affermano senza remore: Il leggere cagiona il pensare, e i pensieri tendono naturalmente a prender corpo nel mondo dei fatti. Ora qual sarà senza meno l’effetto della moderna mania di leggere qualunque libro capiti tra le mani, e di abbeverarsi senza nessun discernimento a queste fonti sì spesso avvelenate? […] Meglio mille volte un’anima semplicetta, che sa nulla; anziché un dottorone, il quale dai libri perversi non apprese altro che a perdere se stesso, ed a trascinar seco il prossimo nella medesima perdizione.85

Non diversamente del resto si esprimono in questi anni i vescovi francesi nei loro indirizzi ai fedeli: Mieux vaudrait mille fois pour elles [ le anime] etre restées dans l‘ignorance, en gardant la foi, la simplicité, la droiture, la probité antique, que de payer, au prix de ces biens sacrés, la faculté de lire des journaux irréligieux, des contes obscenes ou des romans socialistes.86

Contrapponendosi al messaggio utilitarista di laici illuminati e protestanti, che vede nell’abitudine alla lettura uno strumento di emancipazione e promozione sociale, vescovi e clero secolare esaltano sempre più apertamente i semplici, gli incolti, coloro che per evitare la colpa si astengono dalle tentazioni mondane provenienti dai libri, dai giornali, dai più diversi 83. Su questo tema si veda il già citato volume di Fragnito, Proibito capire. 84. Si tratta del sonetto, ampiamente citato dagli studiosi, Er mercato de Piazza Navona, in Belli, I sonetti, vol. II, p. 1120. 85. Il brano è tratto dalla lettera pastorale scritta in occasione della quaresima del 1878: Morteo, Cattive letture, p. 106. 86. Si tratta di una lettera del vescovo di Le Puy del 25 gennaio 1865, riportata in Savart, Les catholiques en France, p. 325.

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materiali a stampa. Mentre Giulio Arrigoni, vescovo di Lucca, denigra con accenti sprezzanti ma purtroppo largamente condivisi le «femminelle prese alla vanità di fare professione di lettere»,87 sorprendono ancora di più le affermazioni del vescovo di Crema che chiamando i preti della diocesi all’azione, spiega perentoriamente: Debbono allontanare i giovanetti da questo pericolo anche a costo di farli rinunciare ad una coltura scientifica più elevata, ed a carriere più nobili e lucrose.88

In questo caso, nelle parole del vescovo Pietro Maria Ferrè, il disvalore diventa lo stesso avanzamento nella scala sociale se conseguito a scapito della salvezza eterna. Ma non basta la promessa dell’al di là per restituire dignità ad un’esistenza segnata dalla marginalità sociale. In effetti la condanna cattolica della modernità e del progresso in tutte le sue declinazioni – secondo le indicazioni del Sillabo – può divenire un fattore penalizzante per quei ceti meno privilegiati che proprio nel progresso economico e civile hanno visto in questi anni delle opportunità di riscatto individuale e di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Per questo la strada tracciata da questi ultimi interventi pastorali sembra in realtà sostanzialmente perdente, poco praticabile a lungo per una Chiesa che non voglia condannarsi ad una presenza catacombale e che anzi, con il nuovo pontefice Leone XIII, tende a riprendere l’egemonia sulle masse popolari cattoliche. Non è un caso allora che, accanto al martellante messaggio tendente a denigrare la cultura sottolineandone i pericoli, comunque sempre presente negli scritti dei vescovi, si fa strada faticosamente all’interno di alcuni settori della Chiesa una scelta più dinamica, che vuole rispondere alle esigenze di informazione e di promozione sociale dei ceti popolari con una rete di iniziative editoriali a carattere divulgativo dal chiaro e riconoscibile contenuto etico/religioso.89 Le prime avvisaglie di questo atteggiamento si hanno sin dagli anni cinquanta, soprattutto per iniziativa di alcuni vescovi toscani che, pur allineandosi alla condanna pontificia dei libri cattivi, si adoperano attivamente per istituire all’interno delle singole diocesi delle commissioni miste, di prelati e laici, volte alla promozione ed al finanziamento della buona stampa.90 Si 87. Arrigoni, La lettura dei libri proibiti, p. 217. 88. Ferrè, Lettera Pastorale per la Quaresima del 1866, Crema, febbraio 1866 (AFSCIRE, Lettere Pastorali, Lombardia 18, Crema I). 89. Cfr. Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste. 90. Arrigoni, Per la diffusione delle buone letture, pp. 521-23.

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tratta di interventi locali, inizialmente privi di un effettivo coordinamento, tendenti a creare delle Pie Associazioni, come vengono denominate, con lo scopo duplice di contrastare la propaganda anticlericale ed antireligiosa creando al contempo nuovi strumenti di lettura devota, adatti ad un pubblico popolare.91 Avevano la stessa ispirazione del resto, pur tra limiti ideologici e scarsità di mezzi, le già citate pubblicazioni contro il protestante almanacco «L’Amico di casa», spesso nate proprio dall’iniziativa finanziaria di alcuni presuli, e non a caso stampate all’interno delle tipografie vescovili.92 È certamente vero che, come nota Traniello, il proliferare disordinato di queste proposte editoriali, nate spesso sotto il segno dell’improvvisazione artigianale e della contrapposizione ideologica, non giova alla loro diffusione poiché la gran parte di queste difficilmente riesce a raggiungere una tiratura consistente e ad imporsi in maniera non episodica sul mercato nazionale. Più complessa ed adeguata ai tempi appare invece l’iniziativa editoriale nata nell’alveo delle congregazioni religiose espressamente finalizzate all’istruzione dei ceti meno fortunati, dagli Scolopi ai Salesiani.93 In questo caso si tratta di una sorta di self-help cattolico, dai contenuti certo meno innovativi sul piano del modello sociale proposto, condizionato pesantemente dall’assistenzialismo paternalistico di lunga tradizione per la Chiesa romana, ma dalla straordinaria capacità di penetrazione, il cui prototipo può essere rintracciato sin dalla metà degli anni cinquanta nelle Letture cattoliche di Don Bosco, non a caso nate a Torino da un’esperienza di opposizione militante alla dominante ideologia laica.94 91. Falconi, Per gli stati del Papa; Mazzanti, Lettera pastorale al venerabile Clero, p. 18 e sgg. Anche Giovan Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, esorta: «Vi raccomandiamo poi caldamente il sostegno e la diffusione della buona stampa, non essendovi oggi mezzo di questo più acconcio per far argine al torrente degli errori che va dapertutto diffondendosi da una stampa senza legge e senza pudore» (Scalabrini, Lettere pastorali 1876-1905, p. 268). 92. Sarà pubblicato nel 1873 dalla Tipografia Vescovile di Mantova fondata dal vescovo Pietro Rota il libretto «L’Almanaccomachia contro l’Amico di casa. Almanacco per l’anno 1874», conservato nella Biblioteca Comunale di Mantova. Le tipografie vescovili, oltre a pubblicare testi per uso del clero, nell’Ottocento curano edizioni di libretti devozionali o operette edificanti; in seguito curano la pubblicazione dei bollettini diocesani, foglietti informativi sulle iniziative delle chiese locali. 93. Sulla produzione educativa delle congregazioni religiose cfr. De Giorgi, Le congregazioni religiose dell’ottocento. De Giorgi evidenzia tra l’altro i variegati atteggiamenti delle vecchie e nuove congregazioni nei confronti dell’istruzione. 94. A questo riguardo Giovannini, Le Letture Cattoliche di Don Bosco, Si veda ancora Traniello, La cultura popolare cattolica e Id., Religione cattolica e Stato nazionale, pp.

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Non è questa la sede per l’esame di questo fenomeno, anche perché ne sono scarsi gli echi nelle pastorali dei vescovi, non sempre in sintonia con le pratiche educative dei salesiani o degli altri gruppi editoriali di ispirazione cattolica. Certo, il passaggio negli ambienti ecclesiali dalla pura condanna censoria alla proposta di contenuti che siano in grado di adeguarsi al nuovo contesto sociale non sarà senza effetti anche per l’insegnamento pastorale, costretto a misurarsi con una realtà in rapida evoluzione nella quale i concetti di istruzione per tutti, libero accesso all’informazione e alla cultura, lavoro come mezzo di autopromozione e mobilità sociale sono ormai acquisiti nella coscienza di molti. 5. La Vie de Jésus di Ernest Renan Una menzione particolare, nell’ambito delle proibizioni di lettura dei vescovi, merita il caso Renan. La pubblicazione nella prima metà del 1863 de la Vie de Jésus presso l’editore parigino Michel & Calmann Levy suscita com’è noto uno straordinario allarme presso le gerarchie ecclesiastiche romane, convinte della necessità di una reazione durissima ed insieme corale a quello che considerano un attacco frontale del pensiero laicista, parte di «una vasta cospirazione contro Dio e la sua Chiesa».95 In questa sede non si vuole fare una disamina dei numerosissimi interventi, in gran parte ispirati dalla gerarchia, diretti alla confutazione delle tesi dello storico francese, ma soltanto sottolineare la complessità della strategia di risposta che prevede una serie articolata di contributi di differente autorevolezza ed efficacia. Se infatti ai teologi ed ai controversisti cattolici viene affidato il compito di confutare puntualmente le asserzioni di Ernest Renan, soprattutto laddove lo storico francese mette in discussione la natura divina del Cristo e la storicità dei suoi miracoli, ai vescovi spetta la funzione di dissuadere il gregge dei fedeli dall’accostarsi per qualsiasi motivo ad un’opera considerata come letale per le coscienze cristiane.96 193-219. Si vedano ancora i contributi di Piazza, «Romanzo a modo mio», con utili note bibliografiche; Ead., Lo strumento editoriale e Ead., Buoni libri per tutti. 95. Sono le parole usate da Francesco Emilio Cugini, vescovo di Modena in una lettera pastorale del 20 ottobre 1863 (AFSCIRE, Lettere pastorali, Modena I). Da notare che lo stesso Renan, in una lettera all’editore del 24 agosto 1863, giudica la condanna della Chiesa come una pubblicità che farà aumentare le vendite (Lettres inédites d’Ernest Renan à ses éditeurs, p. 54-55). 96. Sulla risposta dei vescovi francesi si veda Savart, Les catholiques en France, p. 312 e sgg.

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Bisogna dire che nella vicenda della Vie de Jésus la Chiesa cattolica dimostra un’inedita rapidità di reazione ed una notevole capacità di utilizzare i nuovi strumenti della comunicazione. Oltre alle numerose operette di polemica apologetica – veri e propri instant book – come a titolo di esempio L’Esame critico della Vita di Gesù scritta da E. Renan, firmato dall’abate Freppel, professore di eloquenza alla Sorbona, e tradotto in italiano già nell’ottobre del 1863,97 in Italia la risposta più complessa ed insieme più acuta viene fornita ancora una volta dalla «Civiltà Cattolica». In verità, all’inizio, i redattori della rivista dei gesuiti dedicano solo un articolo sintetico al testo di Renan ritenendo che un’enfatizzazione eccessiva possa giovare alla diffusione del libro più di un autorevole silenzio; nei fatti, come afferma esplicitamente l’estensore dell’articolo Carlo Maria Curci, sperano che l’opera non venga tradotta in Italia.98 Quando però si ha notizia della comparsa sempre nel ’63 dell’edizione Daelli curata da Filippo De Boni, che firma anche il Proemio dai forti accenti antitemporalisti,99 la «Civiltà Cattolica» ritiene necessario intervenire con una serie di ponderosi articoli attribuiti anch’essi a Curci che non si limitano ad una confutazione in chiave apologetica, ma offrono una interpretazione politica del testo, evidenziando la pericolosità del messaggio nel contesto storico esistente. La preoccupazione è che il libro fondi una sorta di «programma della moderna incredulità», trasformando la religione rivelata in un modello che Curci definisce di Cristianesimo civile «senza templi, senza sacerdoti, senza riti, senza dommi»; un riconoscimento quindi dell’importanza della 97. Freppel, Esame critico della Vita di Gesù. La traduzione italiana, datata Roma 5 ottobre 1863, consta di circa 100 pagine divise in sette capitoli nei quali l’autore accusa Renan di «ignoranza costante» e di «tranelleria studiata», definendo l’opera «un puro romanzo» (ibidem, p. 14). In realtà nello stesso 1863 vengono pubblicate numerose operette contro Renan sia in Francia che in Italia; tra di esse Plantier, Instruction pastorale de M.P. e Felix, Confutazione della Vita di Gesù. Si veda a questo riguardo Milsand, Bibliographie des publications. 98. Dopo aver definito Renan «omiciattolo schifoso, che nulla ha di grande che l’audacia dell’orgoglio» Curci scrive: «se le arti della miscredenza, istigate dalla sete del guadagno, giungeranno anche in Italia a dar voga a questa nequitosissima scrittura, sicché la inconsulta e non incolpevole curiosità di molti vi s’inchini, noi vediamo la necessità di porgere ad un siffatto veleno un qualche antidoto. Tuttavia v’ha chi pensa che il lavoro di Renan nella medesima Francia non avrà vita più lunga di qualche mese», [Curci], Due parole sopra un libro di Ernesto Renan, in «C.C», s. V, XIV/7 (1863), p. 644. L’articolo non è firmato ma l’indice della rivista lo attribuisce a Carlo Maria Curci; in esso compare anche un’allusione ai grandi guadagni di «Michele Levi ebreo editore». 99. Renan, Vita di Gesù. Su Filippo De Boni, si veda Sestan, De Boni, Filippo, in DBI.

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figura storica di Cristo, unito ad una generica adesione emotiva ai valori da essa espressi, che non comporti però obblighi morali o rituali e ancor di più che non preveda la sottomissione alle direttive delle autorità ecclesiastiche.100 Come i gesuiti comprendono bene, nella seconda metà del XIX secolo la vera minaccia all’autorità della Chiesa non sta tanto nell’aperto e conclamato ateismo, ma in quel processo di secolarizzazione che, autonomizzando i singoli e relegando la religione a puro sentimento individuale, rende sempre più labili i vincoli con le prescrizioni ecclesiastiche. Rispetto a questo grumo di problemi ed al livello di consapevolezza evidenziato, le pastorali dei vescovi pur numerosissime appaiono ancora imbrigliate nei tradizionali modelli retorici, e in larga misura sostanzialmente inadeguate. Venendo poi al particolare astenetevi, vi diremo, di leggere il libro testé uscito alla luce in Francia dove l’empio autore Ernesto Renan s’attenta di spogliare Gesù Cristo della sua divinità. È ben vero che l’autore medesimo con le sue contraddizioni distrugge la stessa sua opera, ma dovendo noi altamente abbominare il sacrilego attentato vi diciamo abbandonate da voi un’opera, che degrada ed avvilisce la ragione dell’uomo e di cui i medesimi Increduli non sono rimasti contenti.101

D’altra parte ad esse viene affidato il compito non di confutare le tesi di Renan, ma di trasmettere celermente a tutti i fedeli quella condanna papale, emessa con grande enfasi a due mesi di distanza dalla pubblicazione in Francia. Il Breve di condanna infatti, emanato da Pio IX il 13 agosto 1863 e reso pubblico in varie sedi, costituisce una sorta di chiamata alle armi a cui si adeguano prontamente tutti i vescovi italiani.102 Nelle lettere, promulgate tra l’ottobre ’63 e la quaresima del ’64, oltre alle varie accuse 100. Come dice tra l’altro Curci: «Il libro di Renan, quanto alla vita sociale, è ordinato a fornire il suo Cristo a quel Cristianesimo civile, il quale dalla incredulità moderna è giudicato per unicamente appropriato alla società del secolo decimonono», [Curci], L’incredulità moderna studiata in un libro intitolato la Vita di Gesù, in «C.C.», s. V, XIV/8 (1863), pp. 257-271, 263; pp. 385-401; pp. 562-579; pp. 688-705. Il corsivo è nel testo. 101. G.B. Folicaldi, Lettera Pastorale, 2 febbraio 1864, in AFSCIRE, Lettere Pastorali, Faenza. 102. Tra di essi oltre ai già citati, Gioacchino Pecci (Perugia, 20 nov. 1863); Giulio Arrigoni (Lucca, 21 nov. 1863); Pietro Buffetti (Bertinoro, 21 dic. 1863); Gioacchino Antonielli (Fiesole, 14 dic. 1863); Giacomo Breschi (Pistoia, 15 dic. 1863); Antonio Belli, vice (Città di Castello, 21 dic. 1863); Salvatore Valentini (Amelia, 6 febbr. 1864). Da notare che l’argomento sarà ripreso anche successivamente in occasione di nuove edizioni, come

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di empietà per Renan, si riafferma la minaccia della scomunica per tutti coloro che osano leggerlo «anche solo per soddisfare una vana curiosità». Naturalmente le pressioni dei vescovi e delle gerarchie non possono in alcun modo impedire la libera circolazione delle numerose traduzioni nel nuovo stato italiano. Differente la situazione nelle province venete ancora soggette all’impero austriaco, dove il concordato ancora in vigore consente alla Chiesa ben più ampi margini di manovra. Infatti, dopo aver organizzato solenni tridui di riparazione ed anche un simbolico rogo del libro a campo San Zulian, il patriarca di Venezia Luigi Trevisanato fa esplicite pressioni sulla luogotenenza e sul governo centrale di Vienna perché l’opera di Renan venga sequestrata e tolta dal commercio, secondo le norme concordatarie che garantiscono alla Chiesa cattolica, all’art. IX, l’appoggio del braccio secolare per impedire la diffusione di libri «funesti alla religione».103 Tuttavia i dieci anni dagli accordi tra la Chiesa e lo stato asburgico non sono passati invano e le mutate condizioni politiche interne ed internazionali, che porteranno nel 1868 alla revoca del concordato, consigliano prudenza alle autorità austriache che si limiteranno ad opporre alle gerarchie ecclesiastiche un eloquente silenzio. 6. Dopo Pio IX Con la fine del lungo pontificato di papa Mastai, che segna il momento di più alta conflittualità tra Chiesa e Stato nel territorio italiano, si può forse fare un primo bilancio degli scritti dei vescovi sui libri proibiti e soprattutto indicare quali siano state le principali linee dell’intervento pastorale su questo tema. Difesa del potere temporale ed in generale difesa del ruolo centrale della Chiesa nella società italiana, condanna severissima del pensiero liberale e delle istituzioni civili che ad esso si ispirano, lotta contro la propaganda anticlericale, sembrano essere i cardini ispiratori della politica di controllo esercitata dai vescovi sulle stampe pubblicate nella loro diocesi. E se, come abbiamo già notato, sin dai primi interventi dei presuli piemontesi, gran parte dell’attenzione iniziale viene assorbita dalla testimoniano le lettere pastorali di Antonio Briganti (Orvieto, 17 gennaio 1880) e Enrico Carfagnino (Gallipoli, 25 gennaio 1889). 103. Zanotti, Il concordato austriaco del 1855, p. 163. Sull’intera vicenda si veda anche Briguglio, Lo spirito religioso nel Veneto.

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propaganda evangelica presso i ceti popolari, additata dagli stessi pontefici come massimamente pericolosa perché mette in discussione la centralità delle istituzioni cattoliche nella società italiana, emarginando il cattolicesimo come una delle tante possibilità di espressione della religiosità, in seguito sono altre le urgenze che sembrano condizionare gli interventi vescovili. Il vero pericolo da contrastare, in questo scorcio di secolo, è ormai in generale la progressiva secolarizzazione dei comportamenti individuali e collettivi, il distacco crescente tra insegnamenti ecclesiastici e pratiche sociali, foriero secondo la Chiesa di Roma di disordini morali e disgregazione sociale, come dimostrano le tragedie della Comune parigina e le ricorrenti insurrezioni socialiste. Di fronte all’acutizzarsi dello scontro tra le classi nella moderna società industrializzata – è il nuovo messaggio – solo la Chiesa cattolica, pur colpita dalla perdita del potere temporale, può offrire quel cemento spirituale, capace di impedire disgregazione morale e conflitti all’interno del corpo della nazione.104 In questo quadro si comprende bene come muti il rapporto con lo stato liberale, considerato non più, o non soltanto, come un nemico da battere ma come una realtà con cui convivere e nella quale operare fattivamente per difendere gli interessi della Chiesa e del popolo dei fedeli.105 Tuttavia questo atteggiamento, condiviso ormai sia pure in forme diverse non solo da poche avanguardie conciliatoriste ma anche dai più avanzati vertici delle chiese locali, pone problemi inediti. Durante il pontificato piano, la contrapposizione frontale con lo stato italiano culminata con la presa di Roma, il rifiuto di qualsiasi accordo politico che era arrivato sino alla proclamazione del non expedit del 1874, aveva consentito alla Chiesa di mantenere l’immagine di una radicale diversità rispetto alle 104. Si vedano le parole pacate del vescovo di Milano, Luigi Nazari di Calabiana, già nel 1869: «No, la Chiesa non avversa una ben intesa libertà, non astia la diffusione dei lumi, non impone freno all’ingegno; ma quando di questi preclari doni l’uomo abusa, quando egli lascia la via della libertà, allora essa gl’insegna i confini, entro ai quali ha da stare, onde non abbia a trovare nocumento là dove sperava di conseguire la scienza e la vita» (L. Nazari di Calabiana, Lettera pastorale per la quaresima dell’anno 1869, 31 gennaio 1869, in AFSCIRE, Lettere Pastorali, Lombardia 35, Milano 2). Luigi Nazari rappresenta al meglio la tradizione della chiesa ambrosiana. Precettore catechistico dei figli di Vittorio Emanuele II, diventa vescovo di Casale; successivamente, nominato senatore del Regno dal 1848, interviene contro l’abolizione del foro ecclesiastico e contro il matrimonio civile. Diverrà vescovo di Milano dal 1867. 105. Su questo lento mutamento di rotta si veda Miccoli, Chiesa e società in Italia e Battelli, Santa Sede e Vescovi nello Stato unitario, p. 817 e sgg.

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questioni mondane, impedendo la compromissione con la politica locale; di fatto, si era cercato di evitare che le posizioni dei vescovi venissero piegate volta a volta alle scadenze della vita pubblica, ad uso e consumo di interessi e schieramenti di partito. Non che i pronunciamenti dei vescovi non intervenissero su precise tematiche politiche, tanto da echeggiare nelle stesse aule del parlamento, come del resto lo stesso caso di Luigi Nazari di Calabiana, senatore del Regno poi vescovo di Milano, rammenta; ma si trattava di grandi questioni di principio, come il caso del matrimonio civile, sulle quali la Chiesa attraverso i suoi pastori faceva sentire direttamente la sua voce come un diritto irrinunciabile. L’allentamento progressivo del divieto ai laici cattolici della partecipazione alla vita pubblica, soprattutto nelle elezioni amministrative, l’avvento sulla cattedra di Pietro di un nuovo papa progressivamente meno arroccato e sensibile al contrario agli interventi nei campi della cultura e della solidarietà sociale, mutano anche gli scenari entro i quali si colloca l’attività pastorale.106 Da ora in poi sarà difficile non leggere i pronunciamenti episcopali, anche quelli sulle stampe pericolose che qui specificatamente si esaminano, come ispirati dall’agenda politica ed in un certo senso strettamente funzionali alla polemica tra i diversi partiti che si contendono il potere nelle realtà locali. Vietando questo o quel libro, o ancor di più questo o quel giornale che è in genere organo o espressione di precisi gruppi sociali, il vescovo non fa soltanto un richiamo spirituale ma entra a pieno titolo nell’agone politico, tanto che molto spesso il suo intervento viene valutato come un aperto appoggio ad uno schieramento, quello conservatore che è quello che in questi anni sembra garantire, in cambio di una investitura ecclesiale, la difesa degli interessi ecclesiastici e delle numerose istituzioni – scuole religiose, gabinetti di lettura, circoli e associazioni assistenziali – ad essi collegate. Sotto questo aspetto una vicenda emblematica avviene a Milano, a ridosso delle elezioni politiche del maggio 1886. Nel numero del 22 aprile – giorno in cui ricorre quell’anno il Venerdì Santo – «Il Secolo» di Sonzogno, legato alle correnti del radicalismo democratico, riporta una traduzione dagli Châtiments di Victor Hugo, dal polemico titolo Parole di un 106. A questo riguardo si veda Mellano, Cattolici e voto politico in Italia. La Mellano pubblica documenti tratti dall’Archivio della congregazione per gli Affari ecclesiastici Straordinari dai quali risulta che già dalla fine del 1876 si stava studiando un modo per uscire dall’astensionismo cattolico.

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conservatore a proposito di un disturbatore.107 Si tratta di un dialogo, nel quale lo scriba Elizab giustifica al suo anonimo interlocutore la condanna a morte di Cristo, dipingendolo come un sovversivo, pericoloso per l’ordine e la stabilità sociale.108 La rappresentazione di un Cristo socialisteggiante, certamente cruda nei toni ma non inusuale a quel tempo presso ampi settori del radicalismo, suscita malumori e sdegno nell’opinione pubblica milanese di tendenze clericali, che ne approfitta per lanciare una durissima campagna contro il giornale ed i suoi sostenitori, ben orchestrata e diretta da don Davide Albertario.109 Se Nazari di Calabiana sceglie la strada di un prudente silenzio, tanto più significativo in quanto la vicenda si svolge nella diocesi da lui diretta, non altrettanto cauti sono altri vescovi di zone limitrofe, che sferrano un durissimo attacco contro «Il Secolo», accusato di eresia ed empietà, vietandone la lettura ai propri fedeli sotto la minaccia di gravi sanzioni. In prima linea in questa crociata sono i vescovi di Bobbio, Crema e Genova che con straordinario tempismo si pronunciano contro «l’esecrando insulto alla Religione dei Cattolici di tutto il mondo ed alla vera libertà e civiltà apportata agli uomini dal figlio di Dio», chiedendo ai propri fedeli di non leggere e diffondere l’empio periodico «per non rendersi colpevoli di peccato mortale».110 107. Cronaca Milanese. Venerdì Santo. Sull’attività del periodico milanese si veda Barile, Il Secolo. 1865-1923. 108. «Si trascinava dietro una specie di prostituta, andava perorando, scalzando la famiglia, la religione e l’ordine, minando la morale e la proprietà; il popolo lo seguiva lasciando i campi incolti. Era pericolosissimo. Egli attaccava i ricchi e metteva su i poveri; affermava che quaggiù gli uomini sono uguali a fratelli: che non vi sono grandi e piccoli, dei servi e dei padroni: che il frutto della terra appartiene a tutti; in quanto poi ai preti li demoliva addirittura: insomma egli bestemmiava» (Cronaca milanese. Venerdì Santo). Sulla nascita e lo sviluppo in Italia, tra gli anni ottanta dell’Ottocento ed il primo ventennio del nuovo secolo, di un filone di cultura popolare che salda socialismo religioso e istanze antiecclesiastiche si veda il datato Nesti, «Gesù socialista». 109. Sull’attività di don Albertario si veda Fonzi, Albertario, Davide, in DBI. 110. I brani sono tratti dalla lettera pastorale di G.B. Porrati, Lettera Pastorale. Annunzio della Seconda Visita Pastorale. Proibizione del Giornale – Il Secolo – di Milano, 16 maggio 1886. (AFSCIRE, Lettere Pastorali, Bobbio I). Nel documento si dice che il periodico è stato anche proibito dall’Arcivescovo di Genova il 7 maggio. Successiva la lettera di F. Sabbia, Lettera pastorale del vescovo di Crema in riparazione delle offese recate a N.S. Gesù Cristo, 13 giugno 1886 (AFSCIRE , Lettere Pastorali, Crema) che vietando la lettura de «Il Secolo» il quale «nel dì sacro all’anniversaria commemorazione dell’umano riscatto […] osava gittare una manata di fango contro l’adorabile Persona del divin Salvatore», conclude con enfasi «la guerra dunque […] è a Cristo» (p. 5).

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Naturalmente la vicenda viene strumentalmente amplificata dal giornale milanese che nel descrivere minutamente le diverse iniziative messe in campo dai settori clericali, dalle celebrazioni liturgiche di riparazione alla raccolta dell’obolo di San Pietro, ipotizza una alleanza organica tra clericali e moderati/trasformisti a scopo elettorale, sotto l’egida di alcuni settori dell’episcopato nazionale.111 Da notare che, appena un mese dopo, ai primi di giugno del 1886, il giornale viene sequestrato e poi messo sotto processo per una frase irriverente nei confronti del pontefice definito, con evidente ritardo sugli eventi storici, papa re.112 La vicenda milanese è quanto mai esemplare non solo del clima di scontro in atto, ma anche del peso sempre più forte che hanno i giornali nel rappresentare interessi di parte e nel dirigere e orientare l’opinione pubblica, anche ai fini di una mobilitazione sociale. Di fronte a questo potere, le armi tradizionalmente utilizzate dai vertici della Chiesa locale – i divieti di lettura, sino alla minaccia della scomunica – non solo si rivelano oggettivamente inefficaci data l’ormai radicata abitudine al consumo dei periodici d’informazione, ma perdono anche l’aura di appello morale e vengono ormai ricondotte a precise logiche di schieramento. Non che nei decenni precedenti non si siano verificate oggettive collusioni tra vertici ecclesiali e gruppi politici; si ricordi, ad esempio il caso già citato del torinese «Armonia» diretto da don Margotti, vero organo del partito antiliberale piemontese, che sfrutta abilmente ai propri fini le lettere episcopali. Ma in quel caso, le dimensioni ridotte del fenomeno consentivano ancora alla Chiesa di muoversi in relativa autonomia, mostrando di non subire ricatti o pressioni. Alla fine del XIX secolo, l’evolversi della sfera pubblica e l’emergere di schieramenti politici in rappresentanza di precisi interessi economici e sociali restringe di fatto gli spazi di autonomia dei vescovi che, volendo conservare ruolo e potere di intervento nel contesto civile, devono anch’essi divenire «parte» di quella modernità prima esecrata. Mentre si espandono sul terreno sociale le diverse iniziative promosse dalla Chiesa locale, dalle scuole per il popolo alle «buone letture», dagli oratori alle associazioni per i laici, si fanno sempre più rari da parte dei vescovi proibizioni e divieti. 111. Cronaca milanese. Ilarità; L’adunanza dei Clericali; La guerra dei Clericali; Carte in tavola; La poesia di Victor Hugo. 112. Si veda Barile, Il Secolo 1865-1923, p. 153.

3. Il ruolo dell’Indice nelle società liberali*

Intorno alla metà del XIX secolo, all’indomani della svolta intransigente del pontificato di Pio IX, si apre in Europa un’aspra discussione sulla funzione dell’Indice dei libri proibiti, vale a dire sulla validità dei divieti di lettura emanati dalla Chiesa di Roma, e sulla legittimità dell’azione di controllo ecclesiastico nei paesi dove è ormai in vigore la libertà di opinione e di stampa. In controluce ovviamente, il problema investe i rapporti tra Chiesa cattolica e stati liberali in un contesto politico e sociale ormai sempre più secolarizzato, nel quale atti pubblici e comportamenti individuali tendono ad affrancarsi anche in tema di consumo di lettura dalle rigide prescrizioni ecclesiastiche, nate negli anni della controriforma e considerate in larga misura ormai anacronistiche. Lo spazio di questo pubblico confronto è europeo, o per essere più precisi coinvolge organi di stampa, uomini di cultura ed esponenti del clero provenienti da tre paesi dell’Europa continentale, Francia Germania e Italia, società caratterizzate da esperienze storiche molto diverse e da differenti regimi politici, ma accomunate da una complessa transizione al sistema liberale ed al contempo da una ingombrante presenza delle gerarchie cattoliche. Non è un caso che manchi del tutto in questo quadro una voce proveniente dal mondo anglosassone, dove la libertà di stampa è un dato acquisito sostanzialmente da più di un secolo e dove d’altra parte la presenza dei cattolici è largamente minoritaria; in Inghilterra infatti sono gli stessi vescovi cattolici, dopo la riconquista alla metà del secolo di una rappresentanza istituzionalmente riconosciuta, ad evitare di imporre prescrizioni * Il testo è una rielaborazione della comunicazione al convegno Le livre et la censure en Europe de L’Encyclopédie au modernisme (Parigi, giugno 2006), ora in corso di stampa nei MEFRIM (Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée).

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di lettura troppo rigide che sarebbero inevitabilmente disattese dai fedeli, abituati da sempre ad accostarsi a libri e giornali d’ogni tipo senza alcuna preclusione e senza preoccupazione per la salute delle proprie anime. La prassi sinora seguita dai Vescovi nostri è stata sempre quella di silenzio in proposito, poiché non si è creduto né espediente né prudente l’informare i fedeli dell’esistenza in particolare di leggi delle quali essi sono per la maggior parte ignoranti. Ciò specialmente vista la quasi insuperabile difficoltà di rendere stringente in questo paese l’osservanza di esse. Io stesso sono in grado di testificare che tale fu l’opinione dell’Emo Card. Wiseman che cercava sempre di evitare qualsiasi necessità di parlare delle leggi dell’Indice dicendo a chi gliene chiedevano (sic!) spiegazioni […] non mi domandate niente di ciò. L’Emo Card. Manning era anche lui dello stesso avviso. Si teme che l’informare i Cattolici in Inghilterra dell’esistenza e dell’obbligazione sub gravi di dette leggi riuscirebbe piuttosto dannoso che al pro della religione, convertendo in peccato formale la loro materiale trasgressione delle leggi della S. Cong […] Ove i Vescovi insistessero sulla osservanza di d. leggi la stampa pubblica se ne occuperebbe di certo rendendo di pubblica ragione tutte quelle leggi, e quindi nascerebbero discussioni poco edificanti e controversie iniziate e mantenute da persone malevoli (sic!) a scopo di far sprezzare l’autorità della Chiesa.1

La lettera dell’arcivescovo di Westminster Herbert Vaughn al segretario della congregazione dell’Indice è scritta solo nel 1895, quindi in un periodo ben lontano dalle discussioni che prenderemo in esame, ma è interessante perché illustra con dovizia di particolari, e qualche evidente ingenuità, quale sia stato il comportamento dei vescovi cattolici in Inghilterra, 1. Il brano è tratto da una lettera inviata da Londra l’8 ottobre 1895 dal card. Vaughan, al segretario della congregazione Marcolino Cicognani sull’osservanza dei precetti dell’Indice in Inghilterra, e conservata in ACDF, Index, Protocolli 1894-98, 243. Da notare che Herbert Alfred Vaughan (1832-1903) arcivescovo di Westminster dal 1892, dal 1893 era anche membro della congregazione dell’Indice. Su di lui si veda Prosopographie, II, pp. 1526-1528. La lettera continua con un parere più che esplicito sulla conservazione delle vigenti regole dell’Indice: «Io però non credo che il modo più efficace di raggiungere il nostro scopo resti nell’insistere sulle leggi dell’Indice come stanno adesso. Con tutta umiltà desidererei suggerire a V.E. che si faccia una completa revisione di d.e leggi rendendole così più adattate ai bisogni attuali dei nostri tempi. Ed a mio parere sarebbe per ora sufficiente l’inculcare ai nostri fedeli l’obbligazione di non leggere ciò che essi riconoscano come pericoloso alla loro fede». Il primate della Chiesa cattolica in Inghilterra quindi ritiene che i fedeli siano in grado di discernere da soli ciò che è pericoloso per la salute delle anime, senza la necessità di esplicite prescrizioni ecclesiastiche.

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almeno sin dal tempo del vicariato apostolico di Nicholas Wiseman negli anni cinquanta.2 Contraddicendo nei fatti – se non nello spirito – il carattere di universalità delle norme emanate dall’Indice, i prelati cattolici inglesi hanno preferito adottare un basso profilo, evitando conflitti troppo accesi con un’opinione pubblica ostile da secoli alle prescrizioni papiste e nello stesso tempo precetti incomprensibili per gli stessi fedeli che, tradizionale minoranza in un paese riformato, hanno da sempre adottato comportamenti più liberi e aperti nelle scelte di lettura. Ma allora, proprio i confini geografici della discussione sulla validità dell’Indice dimostrano che gli spazi di intervento della Chiesa romana si sono nel tempo progressivamente ridotti e che questa intorno alla metà dell’Ottocento ha ormai di fatto rinunciato a svolgere quel ruolo planetario anticamente rivendicato nel campo delle interdizioni di lettura, accontentandosi di non perdere ulteriormente posizioni nei territori di tradizionale osservanza cattolica. Nella stessa direzione vanno, del resto, anche le denunzie prese in esame dalla congregazione dell’Indice; mentre risulta del tutto irrilevante il numero delle opere provenienti dal mondo anglosassone – spicca tra le pochissime il racconto antischiavista La capanna dello zio Tom, non a caso denunziato al Sant’Uffizio in una delle numerose traduzioni italiane3 – l’attenzione dei consultori si concentra in particolare sulla produzione intellettuale di Francia, Italia e Germania. In un breve volgere di anni, sotto il vaglio dei membri della 2. Sul cardinale Nicholas Patrick Wiseman si veda la voce in Boutry, Souverain et pontife. In generale sulla Chiesa cattolica in Inghilterra nel XIX secolo cfr. Norman, The english catholic church. 3. Le opere in lingua inglese condannate nell’Ottocento sono circa una trentina. Da notare che la maggior parte di esse, come la Vita di Leone X di William Roscoe o i vari scritti di Bentham, vengono condannate solo dopo la pubblicazione della traduzione francese o italiana. La vicenda del romanzo antischiavista della bostoniana Harriet Beecher Stowe è oltremodo significativa. Una delle tante traduzioni italiane, datata Firenze 1852, viene denunciata al Sant’Uffizio dall’inquisitore di Perugia; tale denuncia passa per competenza alla congregazione dell’Indice che, dopo aver raccolto due divergenti pareri di lettura, decide di non condannare l’opera. Da notare che, in precedenza, l’opera era stata aspramente criticata in una recensione della «Civiltà Cattolica» – La schiavitù in America e la capanna dello zio Tom, in «C.C.», s. II, IV/13 (1853), pp. 481-499 – soprattutto perché in essa si descriveva una pratica di lettura dei testi sacri non guidata dal clero. Una ricostruzione del caso in Wolf, Storia dell’Indice, pp. 141-168, che prende in esame, oltre alla Beecher Stowe, soltanto le condanne di opere di autori tedeschi, da Heine a Ranke a Reusch; ancora su questo argomenti cfr. Palazzolo, Libri proibiti, libri pericolosi.

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congregazione romana passano non solo opere di autori considerati eterodossi sul piano dottrinale, dall’italiano Rosmini ai tedeschi Döllinger e Froschammer ma anche gran parte della produzione narrativa, in prevalenza francese, da George Sand a Dumas padre e figlio, da Stendhal a Hugo e Sue, oltre a numerosi scritti di divulgazione tecnico/scientifica e ad enciclopedie come il Dictionnaire universel di Larousse sino ai libri di testo per le scuole.4 Logico quindi che questo accanimento censorio nei confronti della cultura contemporanea non passi inosservato nei luoghi di pubblicazione delle opere incriminate e che intorno ad esso si generi una discussione serrata sul significato ed il valore prescrittivo di queste condanne in un momento di aspro conflitto tra Chiesa cattolica e stati liberali. E se anche c’è chi, come Ferdinand Gregorovius, nei primi anni settanta sembra quasi rallegrarsi della menzione dell’Indice perché questa garantisce alla sua Storia della città di Roma nel Medioevo una sorta di pubblicità indiretta e quindi un sicuro successo di vendite,5 non tutti sembrano condividere l’indifferenza sarcastica dello storico tedesco, considerando proprio quelle condanne comminate da un organo della Chiesa romana non solo un inaccettabile vulnus ai diritti individuali di libertà ma anche un attacco diretto all’autonomia legislativa dei singoli stati. In realtà sbaglierebbe di grosso chi considerasse l’attivismo dei censori della curia romana nella metà dell’Ottocento soltanto come un residuale colpo di coda di un’istituzione ormai condannata dalla storia.6 Al di là degli effetti immediati sulle singole pubblicazioni, esso appare al contrario come un importante tassello di una complessa strategia di ripresa dell’iniziativa politica e pastorale del pontificato di Pio IX, che ha la sua data di inizio all’indomani della caduta della Repubblica Romana ed il suo manifesto 4. Cfr. su questo tema Amadieu, La littérature française e Artiaga, Des torrents de papier. 5. Wolf, Storia dell’Indice, p. 3. In realtà Gregorovius non è il solo a ritenere la menzione dell’Indice utile all’incremento delle vendite. Anche Renan, in una lettera al suo editore del 24 agosto 1863, afferma: «pour moi, je ne doute pas que grace à l’incroyable rage des évèques, la vente ne continue longtemps encore comme de plus belle»: Renan, Lettres inédites d’Ernest Renan à ses éditeurs, pp. 54-55. 6. In tal modo la curia romana ed in particolare la congregazione dell’Indice viene raffigurata da numerosi scrittori francesi. Se Chateaubriand, in Mémoires d’Outre-Tombe, p. 252, definisce la congregazione «temoin des anciens temps au milieu des temps nouveaux», Emile Zola la chiama «bastille du passé» (Zola, Rome, p. 534) preconizzando evidentemente una sua drammatica fine. Su quest’ultimo si veda Disegni, Emile Zola all’Indice.

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programmatico nell’enciclica Nostis et nobiscum del dicembre 1849 che chiama, come si è già sottolineato, vescovi clero e fedeli all’offensiva contro le «perverse dottrine», diffuse proprio attraverso «libelli, giornali e fogli pieni di menzogne», che vogliono sovvertire l’ordine sociale e, con l’attacco diretto al potere temporale, mettere in pericolo l’esistenza della Chiesa cattolica e del suo pastore.7 Non è un caso che l’avvio del dibattito abbia luogo in Francia, dove i primi anni cinquanta segnano un forte rilancio dell’iniziativa del cattolicesimo reazionario. In verità, come sottolinea Claude Savart, sino a quella data nei manuali e nei vari trattati in uso nei seminari si affermava esplicitamente che l’Index romano aveva un valore prescrittivo per i cattolici francesi solo nel caso in cui le sue proibizioni fossero state esplicitamente convalidate dai vescovi locali, subordinando quindi le decisioni romane alla ratifica dei capi delle singole diocesi.8 Era l’orgogliosa rivendicazione dell’autonomia della Chiesa gallicana rispetto allo strapotere della curia romana; ma al di là della posizione ideologica, certamente sino ad allora le proibizioni erano largamente disattese in territorio francese e nessun presule si sognava di chiedere ai propri fedeli la stretta osservanza delle regole romane sulla lettura. Dal cinquanta in poi si assiste invece ad un progressivo allineamento alle posizioni papali. E mentre si susseguono le convocazioni dei sinodi diocesani, da Avignone nel 1849 ad Auch nel 1851, che ribadiscono nei loro documenti finali l’obbligo dell’obbedienza al pontefice anche in materia di letture, dal territorio francese viene diffuso nel 1852 un focoso libello a firma di Jacques Marie Baillès, vescovo di Luçon, che nella forma dimessa di una Instruction pastorale rivolta al clero ed ai parroci conferma la forza di legge dei decreti dell’Indice per tutti i fedeli della Chiesa universale. La condammnation faite par le Saint – Siège a un poids et une autoritè qu’aucun catholique ne peut être tentè de méconnaitre; elle oblige tous les fideles dans toute l’Église. La condamnation épiscopale, au contraire, ne dépasse point les bornes du diocèse; mais, pour etre moins étendue, elle ne laisse pas d’avoir une grande autorité dans le diocèse où elle est portée. 9 7. Enchiridion delle Encicliche 2, pp. 226-227. 8. Savart, Les catholiques en France. Si veda anche Petit, L’Index, pp. 89-91. 9. Baillès, Instruction pastorale, p. 15. Jacques Marie Joseph Baillès (1798-1873) studia al seminario di Tolosa, è vescovo di Luçon dal 1845 al 1856, in seguito si trasferisce a Roma dove diviene dal 1856 consultore della congregazione dell’Indice e della congregazione dei Riti. Si veda la voce in Prosopographie, I, pp. 96-102.

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In una sorta di rigida gerarchia delle condanne, la condanna romana vale quindi per tutti i fedeli dell’orbe mentre quella episcopale si rivolge esclusivamente ai membri della diocesi. In realtà il testo di Baillès, lungo e spesso farraginoso nelle sue argomentazioni, ha due obiettivi; contestare le posizioni gallicane di molti prelati, accusati addirittura di eresia giansenista, ma nello stesso tempo riaffermare la preminenza della giurisdizione ecclesiastica nel campo del controllo della stampa, contro ogni «indebita» intromissione del potere civile.10 Non si citano qui per caso le opinioni di Baillès; protagonista negli anni cinquanta di accese polemiche in terra di Francia, e costretto successivamente ad abbandonare la guida della diocesi nel 1856 a motivo delle sue posizioni intransigenti, in seguito si rifugia a Roma dove viene nominato immediatamente consultore della congregazione dell’Indice. Se i suoi pareri su gran parte della letteratura francese contemporanea costituiranno la base delle condanne di autori largamente diffusi come George Sand, Victor Hugo o Flaubert,11 i suoi numerosi scritti improntati ad una radicalità dottrinaria saranno puntualmente ripresi dagli organi di stampa italiani di differenti tendenze politiche e segneranno le tappe, anche nella penisola, di una discussione serrata, spesso dai toni accesi. Egli stesso del resto cita puntualmente nell’Instruction il documento dei Vescovi della provincia ecclesiastica di Torino del 2 ottobre 1852 sulla lettura dei libri e dei giornali proibiti, ripubblicato anche in Francia su l’«Univers» del 21 novembre 1852, confermando quella circolarità dell’informazione su questi temi che abbiamo evidenziato in precedenza.12 In Italia la discussione comincia effettivamente solo nel 1853 quando due giornali torinesi, l’«Opinione» di tendenze liberali e «La Buona 10. Il vescovo lancia anche una sorta di avviso dal sapore apocalittico al potere statale: «La France fut grande et heureuse lorsque les doctrines perverses y furent combattues: mais le protestantisme d’abord, le jansénisme ensuite, le philosophisme un peu plus tard ayant versé les poisons d’une presse coupable, la société tomba dans une dissolution presque complète» (Baillès, Instruction pastorale, p. 153). 11. Baillès esamina tra l’altro opere di George Sand, di Flaubert, Les Miserables di Hugo, e numerose opere di Balzac proponendole per la condanna dal 1863 al 1864. Notizie sull’attività di Baillès in Boutry, Papauté et culture au XIXe siècle, e in Artiaga, Des torrents de papier, pp. 34-36. Sulla condanna delle opere di George Sand (pseud. di Amandine Louise Aurore Dupin), si veda Paoli, Lelia de George Sand. 12. Si tratta della Notificazione dei Vescovi della provincia ecclesiastica di Torino, sottoscritta da numerosi vescovi, di cui si è parlato nel cap. 2. Cfr. Baillès, Instruction pastorale, pp. 119.

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novella», nata dopo l’emancipazione protestante, prendendo spunto dalle proibizioni più recenti, attaccano contemporaneamente l’operato della congregazione dell’Indice.13 Che siano due organi di informazione piemontesi certo non stupisce; unico stato italiano a conservare nei propri ordinamenti la libertà di stampa, prima ammessa e poi ritirata tra il ’48 e il ’49 anche nello stato pontificio,14 il Piemonte liberale è impegnato in una difficile ridefinizione dei suoi rapporti con la Chiesa cattolica, in cui il tema della legittimità delle censure ecclesiastiche sulla stampa, come si è già notato a proposito delle condanne episcopali, ha certamente un posto non marginale. In questo caso, comunque, non si tratta di contestare la liceità dei comportamenti dei presuli piemontesi che, in ottemperanza ai dettami pontifici, scagliano i loro anatemi contro l’uno o l’altro periodico locale, accusato di anticlericalismo e sovversione. L’articolo dell’«Opinione» infatti, prende di mira direttamente l’attività di un organo centrale della Chiesa romana, la congregazione dell’Indice, e ne mette in discussione ruolo e utilità nel contesto sociale della metà del XIX secolo, dove allo straordinario sviluppo dell’industria della carta stampata si accompagna anche la diffusione dei principi liberali e la difesa del diritto individuale all’informazione e alla lettura. Vale la pena evidenziare gli argomenti e i toni utilizzati. Il giornale piemontese infatti sembra tenersi volutamente lontano dalle polemiche sull’oscurantismo ecclesiastico, né si addentra in una ricostruzione a forti tinte dei processi e delle censure inquisitoriali in antico regime, tematica peraltro ricorrente in questi anni in molti pamphlets della propaganda anticlericale. L’esposizione si muove su due piani: da una parte si sottolinea con forza l’oggettiva contraddizione tra norme liberali elaborate dallo stato e mantenimento dell’Indice cattolico.15 Dall’altra si evidenzia 13. I libri proibiti, in «L’Opinione», 25 settembre 1853; «La Buona novella», 23 settembre 1853. Sul giornalismo in Piemonte si veda Talamo, Stampa e vita politica, e più in generale La nascita dell’opinione pubblica in Italia. 14. Cfr. Monsagrati, Una moderata libertà di stampa, pp. 147-199. Sulle vicende che portarono al riconoscimento della libertà di stampa durante il biennio rivoluzionario si veda Ponzo, Le origini della libertà di stampa. Un’analisi puntuale dell’editto albertino in materia di stampa si trova in Lazzaro, La libertà di stampa. 15. L’articolo si domanda: «Come conciliare la libertà di stampa con siffatti rigori? Né dicasi quei decreti abrogati, poiché non solo Leone XII li confermò nel 1825 e Gregorio XVI condannò la libera stampa nel 1832; ma lo stesso Pio IX, quando la faceva da liberale, non poté esimersi dal dichiarare tuttavia sussistenti le regole dell’Indice e concedeva per derisione la libertà della stampa mentre ordinava la censura preventiva pei libri di teologia,

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l’inutilità di leggi e pratiche che, nate nel contesto dei conflitti religiosi nel Cinquecento, si rivelano oggi radicalmente inadeguate ad impedire la circolazione dei libri cattivi ed ancor più le letture pericolose da parte dei più giovani ed inesperti. La congregazione dell’Indice continua la pubblicazione dell’elenco dei libri ch’essa condanna di quando in quando in odio della civiltà e della scienza, senza badare se i lettori seguono le sue prescrizioni, paga, siccome è, di adempiere al suo dovere, avvenga che vuole. Se quella congregazione fosse soltanto un magistrato consulente, il suo ufficio non potrebbe meritare l’attenzione se non di coloro i quali si affidano ai suoi giudizi […] Ma tale non è la missione della congregazione dell’Indice, non consiglia, ma prescrive, non avverte ma ordina.16

L’anonimo articolista sembra tacciare l’organo della curia di una sorta di oggettiva autoreferenzialità. Paga di perpetuare rituali plurisecolari, la congregazione non si interroga sulla sua funzione e sui riflessi delle sue condanne «in un tempo in cui i torchi stampano seimila fogli all’ora» tanto che molto spesso la proibizione non solo si rivela sostanzialmente inefficace ma diviene al contrario una forma di propaganda indiretta «per la gioventù inesperta, l’eccita a letture dannose e contribuisce alla pubblica e privata scostumatezza». Come si nota, nell’articolo non sembra esservi nessun velleitario ottimismo sulla produzione a stampa contemporanea, o ancora nessuna ingenua fiducia, tipica del liberalismo nascente, sulle spontanee capacità del mercato di autoregolarsi per emarginare opere considerate pericolose o genericamente dannose per l’educazione morale e civile delle generazioni più giovani. Libri meritevoli di proibizione, periodici scarsamente educativi, sembra dire l’articolista de «L’Opinione» sono largamente diffusi nel panorama culturale italiano, ma gli anatemi dell’Indice non solo non producono alcun effetto ma, attirando l’interesse di lettori poco avveduti, generano soltanto risultati controproducenti. In generale quindi lo scritto de «L’Opinione», dai contenuti e toni sostanzialmente moderati, non contesta il diritto della Chiesa ad esercitare il proprio magistero, ma mantiene la denuncia sul terreno dell’opportunità, terreno dove è più facile trovare ampie convergenze non solo tra i di diritto canonico, di storia ecclesiastica e di etica, per guisa che ben poco veniva sottratto alla revisione ecclesiastica […] Il mantenimento dell’Indice contraddice perciò alla libertà di stampa» (I libri proibiti, in «L’Opinione», 25 settembre 1853; il corsivo è mio). 16. È l’incipit dell’articolo de «L’Opinione». Il corsivo è mio.

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cattolici-liberali, ma anche nei settori del clero e persino, come vedremo, nei membri più lucidi della curia, preoccupati della progressiva perdita di credibilità dell’istituzione romana. Le prime reazioni comunque non vengono dall’interno delle gerarchie romane, ma da coloro che della svolta antiliberale di Pio IX sembrano essere i più strenui difensori. È infatti l’organo dei gesuiti, la «Civiltà Cattolica» a rispondere con grande tempestività alle tesi del giornale piemontese con un articolo dallo stile volutamente spigliato e poco dottrinario, spesso sarcastico nei toni.17 Dato atto a «L’Opinione» di aver affrontato il tema con una sostanziale pacatezza nei modi,18 il periodico gesuita dà vita ad un singolare contraddittorio dall’evidente funzione didascalica; alle argomentazioni del periodico torinese si risponde con brevi affermazioni apodittiche, ma di grande efficacia, più consone però ad un almanacco popolare o ad un pamphlet propagandistico che ad una rivista rivolta ad un pubblico colto.19 L’obiettivo è quello di togliere forza alle tesi dell’avversario, dimostrandone incongruenza e parzialità. Ad esempio, a proposito della funzione quasi promozionale delle condanne: 5° arg. Il frutto proibito è sempre il più gustoso […] Dunque l’Indice eccita le letture dannose, e contribuisce alla scostumatezza. R. E non dovrà più l’autorità avvertire i cittadini che la peste regna nel tale quartiere perché ci sono dei pazzi che andranno a cercarla? La Chiesa avvisa i fedeli che quella lettura è dannosa. Se altri vuol danneggiarsi, peggio per lui. La colpa è sua.20 17. [G. Oreglia di Santo Stefano], L’Opinione del 25 settembre e la Buona Novella del 23 settembre, ossia dell’opportunità della Sacra congregazione dell’Indice, in «C.C.», s. II, IV/4 (1853), pp. 352-355. Il giornale dei gesuiti ricorda anche rapidamente che «La Buona novella», giornale protestante, ha polemizzato con la condanna delle Lezioni sull’evidenza del Cristianesimo del vescovo anglicano di Dublino; probabilmente si tratta dell’opera Truth of Cristianity pubblicata a Dublino nel 1850 di cui Richard Whately, vescovo di Dublino è autore, insieme ad altri. Di fatto, comunque, tutto l’articolo è una risposta all’articolo de «L’Opinione». 18. «L’Opinione […] tratta la tesi generale dell’opportunità della Congregazione dell’Indice, e senza piangere e strillare reca posatamente parecchie ragioni per dimostrare che la Chiesa cattolica starebbe meglio senza quella Congregazione», ibidem, p. 353 (il corsivo è mio). 19. Ad esempio: «2° arg. La Congregazione […]. contraddice alla libertà di stampa. R. È vero, ma questo non dimostra l’inopportunità dell’Indice […]3° arg. Queste proibizioni espongono la Chiesa a sfregi e offese. R. Anche i dieci Comandamenti, eppure non si propone di abolirli», ibidem, p. 354. 20. Ibidem.

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A parte la rituale e ben nota metafora della peste per indicare la contaminazione proveniente dalle stampe malsane, l’attività censoria della congregazione viene riproposta come una imprescindibile necessità pastorale, inscritta in maniera irrinunciabile nel mandato ecclesiastico. In questo quadro, non sono possibili riforme o miglioramenti che tengano conto delle differenti condizioni nelle quali quel mandato viene esercitato; in un certo senso, quella autoreferenzialità denunciata da «L’Opinione» viene riproposta autorevolmente anche dal periodico gesuita. Nei dieci anni successivi, non si registrano interventi significativi sugli organi di stampa sul solco di quelli già descritti, mentre la congregazione dell’Indice intensifica considerevolmente la sua attività, esaminando e condannando le opere più diverse, dai testi narrativi considerati pericolosi per la morale comune, ai saggi più schiettamente politici che auspicando la fine del potere temporale, chiedono un ritorno della Chiesa all’azione esclusivamente pastorale.21 In realtà all’interno della curia si sta conducendo in questi anni una sorda battaglia per l’egemonia, di difficile decifrazione da parte di occhi esterni, tra alcuni membri dell’Indice, difensori dei principi garantisti della Sollicita ac provida di Benedetto XIV tra i quali si annoverano lo stesso prefetto della congregazione Girolamo D’Andrea dimessosi poi nel 1861,22 insieme a consultori più aperti come Vincenzo Tizzani23 e 21. Gli ultimi studi sugli atti della congregazione evidenziano che negli anni successivi al sessanta il ritmo delle condanne aumenta in maniera significativa, registrando un picco nel 1864, anno del Sillabo. Cfr. Artiaga, Des torrents de papier, pp. 38-39. 22. Sulla figura di Girolamo D’Andrea, figlio di un ministro borbonico ed egli stesso diplomatico prima di assumere dal 1853 la carica di prefetto della congregazione si veda il profilo biografico di Monsagrati, D’Andrea, Girolamo, in DBI; e Boutry, Souverain et pontife, pp. 540-542. La Sollicita ac provida di papa Lambertini aveva elaborato alcune norme che tendevano a tutelare gli autori cattolici i cui testi erano sottoposti ad esame dalla congregazione dell’Indice. In particolare l’autore doveva essere ascoltato e poteva anche difendersi dalle accuse prima che venisse data pubblicità al decreto di condanna. Sulla mancata osservanza di tali norme nell’arco dell’Ottocento cfr. Mauro, Le procedure delle condanne. Sulla riforma dell’Indice di Benedetto XIV, si veda Rebellato, La fabbrica dei divieti, pp. 186-230. 23. Vincenzo Tizzani (1809-1892), dopo aver conseguito il titolo di dottore in Teologia alla Sapienza, diviene professore di Storia della Chiesa nel 1837 e nello stesso anno viene nominato consultore della congregazione dell’Indice. Vescovo di Terni dal 1843 al 1848, ritorna successivamente a Roma dove diviene consultore della commissione per la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1850, arcivescovo in partibus di Nisibi nel 1855 e consultore della congregazione del Concilio nel 1868. Nel 1886 viene nominato titolare del patriarcato di Antiochia. Numerosi i pareri espressi per conto della

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Antonio da Rignano24, e la fazione che risulterà poi vincente, che esprime la linea più intransigente e antimoderna, rappresentata dai gesuiti, ispiratori del Sillabo, e dalla congregazione del Sant’Uffizio. La partita si gioca in particolare attorno ad alcune cause di interesse teologico, come quella che si occupa della dottrina dell’università di Lovanio e di Gerhard Casimir Ubaghs, che si snoda con alterne vicende per quasi trent’anni e che si conclude con la condanna definitiva nel 1866 comminata dalle due congregazioni riunite.25 Se pure queste vicende non hanno un’immediata ricaduta nel dibattito che stiamo delineando, poiché nessuno dei protagonisti si sogna di mettere in dubbio in modo pubblico il ruolo della congregazione e l’importanza delle sue deliberazioni, né risulta credibile dipingere lo stesso prefetto D’Andrea come un campione della lotta della libertà contro l’oscurantismo della Compagnia di Gesù,26 è pur vero che esse dimostrano la vivacità non omologabile del dibattito interno e la risonanza che le questioni politiche e i problemi posti nel contesto civile congregazione, tra cui quelli su La donna saggia ed amabile di Anna Pepoli (1839), e su varie opere di Balzac e Sand, Francesco Lomonaco e Carlo Botta. Si vedano i profili biografici in Boutry, Souverain et pontife, pp. 757-758, e Prosopographie, II, pp. 1472-1479. 24. Antonio Fania (1804-1880), che si firma come Antonio da Rignano dal suo luogo di nascita, dell’Ordine dei Frati minori, dopo aver frequentato il seminario di Manfredonia, diventa docente di teologia a Lucera. Segretario generale dell’ordine dal 1839 al 1844, diviene consultore dell’Indice dal 1846, del Sant’Uffizio dal 1850 e membro della commissione per la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione dal 1851, infine sarà vescovo di Potenza dal 1867. Esprime pareri su varie opere di Terenzio Mamiani, su Gioberti e si occupa del caso Ubaghs dal marzo al luglio 1861. Cfr. Boutry, Souverain et pontife, pp. 693-694 e Prosopographie, I, pp. 549-555. 25. Ickx, La Santa Sede. L’autore sottolinea efficacemente il ruolo dei gesuiti nell’affermare il predominio della curia e del nunzio apostolico sull’autonomia della Chiesa belga e del vescovo di Bruxelles Engelbert Sterckx. A questo riguardo cfr. Scwedt, Le “cause maggiori”. 26. Sembra in qualche modo accreditare questa tesi Hubert Wolf che tra l’altro attribuisce la mancata condanna de La capanna dello zio Tom proprio alle aperture del consultore da Rignano, difeso da D’Andrea contro lo strapotere del Sant’Uffizio (Wolf, Storia dell’indice, pp. 166-167). In realtà, come dimostra anche la vicenda della proposta di condanna della Storia Universale di Cesare Cantù, D’Andrea accreditandosi come difensore degli interessi degli intellettuali cattolici difende soprattutto il suo ruolo di potere di prefetto della congregazione all’interno della curia, dove stava sempre più prendendo piede la fazione dei gesuiti appoggiati dal Sant’Uffizio. Si veda proprio su questa polemica il libello di D’Andrea, La curia Romana e i Gesuiti, nel quale sono assemblate alcune lettere del prefetto a giustificazione del proprio operato, dopo le dimissioni nel luglio del 1861. Sulla questione di Cantù, cfr. Palazzolo, «Scrivendo in paese libero».

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hanno all’interno di quel mondo apparentemente chiuso e refrattario alle novità che è la curia romana. Di un altro libello fortemente polemico nei confronti dell’operato dell’Indice si ha notizia dagli stessi atti della congregazione, che nel settembre del 1864 prende in esame un’operetta tedesca dal titolo Die römische Indexcongregation und ihr Wirken. Il titolo completo, e la sua traduzione, lo apprendiamo da un opuscolo a stampa di una ventina di pagine, firmato dall’uditore e consultore Francesco Nardi che, analizzando accuratamente il testo anche con largo uso di citazioni tendenti a dimostrarne l’intento oltraggioso nei confronti della chiesa romana e dello stesso pontefice, lo propone per la condanna.27 Come si vede quindi, il dibattito si estende in questi anni ad altri territori europei. In questo caso, ci si trova di fronte ad un testo volutamente anonimo, anche se lo stesso Nardi sembra per motivi polemici accreditare la tesi che provenga dagli ambienti del teologo Jakob Frohschammer, insegnante alla facoltà di Teologia di Monaco, già condannato dall’Indice nel 1857 per le sue posizioni contro il creazionismo e successivamente sospeso a divinis per l’opposizione all’infallibilità pontificia.28 Diversamente dai precedenti articoli apparsi negli organi di stampa italiani, il libretto proviene dall’interno stesso della Chiesa cattolica ed appare quindi molto ben informato sulle pratiche censorie ma anche più viru27. Die römische Indexcongregation und ihr Wirken, historische-kritische Betrachtungen zur Aufklärung des gebildeten Publikums, Munchen 1863, cioè La congregazione Romana dell’Indice, e il di lei operare. Considerazioni storico-crtiche per istruzione del colto pubblico, Monaco 1863 (opuscolo a stampa, datato 18 luglio 1864 dell’Uditore e Consultore Francesco Nardi in ACDF, Index, Protocolli 1861-64, I). Francesco Nardi (18081877) compie i suoi studi all’università di Padova dove diviene professore di Filosofia e Diritto Canonico. Prelato domestico dal 1858, diviene consultore della congregazione dell’Indice dal 1862. Suoi numerosi pareri su volumi di Dumas, Froschammer e sul Grand Dictionnaire di Larousse. Si veda la voce in Prosopographie, II, pp. 1038-1045. 28. Come afferma Nardi: «Questo libercolo è un fiero attacco contro la Sacra congregazione dell’Indice, attacco che non deve sorprendere in un tempo in cui la più sfrenata libertà della stampa è ridotta a supremo principio politico. Benché la nostra congregazione non sia neppure una censura preventiva, ma solo repressiva con mezzi puramente morali e religiosi, benché sia una conseguenza necessaria del sacro magistero e della materna tutela della Chiesa, e proceda colla più prudente riserva e cautela, pure non si cessa di calunniarla come un ostacolo alla scienza, come un tribunale ingiusto e tirannico che pronuncia senza giudizio, senza motivi, senza discernimento. Tale è lo scopo che si propone l’autore di questo libercolo composto certamente a Monaco o dal famigerato prof. Frohschammer, o da chi gli sta vicino e il sostiene» (ibidem, p. 1; il corsivo è mio). L’attribuzione a Frohschammer è ancora discussa, come si evince da Boutry, Papauté et culture au XIX siècle, p. 48.

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lento e duro nel denunciarne le finalità oppressive, soprattutto nei confronti di quegli scritti che tendono a ridisegnare l’azione della Chiesa in un’ottica di delimitazione dei poteri ecclesiastico e civile. La parzialità della congregazione dell’Indice manifestasi massimamente contro opere giuridiche e storiche […] È costante osservazione che tutti gli scritti che difendono la separazione dei due poteri, ovvero il principio, che il poter civile nelle cose civili non sottostà alla curia Romana, vennero proibiti, come pure tutti gli scritti storici un po’ importanti […] nei quali si riferivano storicamente i misfatti e le nefandezze di alcuni Papi.29

Il brano, tradotto e riportato da Nardi, disegna efficacemente le paure della Chiesa romana che, da Sarpi in poi, ha costantemente condannato sia gran parte delle opere storiografiche – da Botta e Sismondi a Roscoe e Ranke, per citare solo autori ottocenteschi – sia quei testi che tendevano a limitare i privilegi ed il potere di intervento del papato nella sfera pubblica; in particolare nell’ultimo secolo le sanzioni hanno colpito duramente tutti i classici del giurisdizionalismo settecentesco30 sino ad arrivare ai testi di quei pensatori cattolici, come Rosmini o Tommaseo, che mettevano in dubbio legittimità e utilità storica del potere temporale, auspicando una riforma radicale della Chiesa e, sia pure con diversità di accenti, il ritorno ad una funzione puramente pastorale.31 Secondo l’anonimo autore tedesco, le condanne dell’Indice non sono affatto ispirate, come vorrebbero far credere le gerarchie, da insopprimibili necessità del magistero, ma da più terrene e cogenti esigenze di difesa delle proprie prerogative, sempre più minacciate dai nuovi assetti politici in Europa. Fin qui, non c’è molto di nuovo nell’elaborazione di Frohschammer, o chi per lui, che tra l’altro attacca duramente il giornale dei gesuiti, la «Civiltà Cattolica» definendola «l’organo più diffuso degli adulatori della curia Romana». Degna di nota appare la parte finale del libello nel quale l’autore denuncia con una punta di sarcasmo, ricollegandosi forse inconsapevolmente agli altri polemisti francesi o italiani, l’assoluta inefficacia dell’azione repressiva in un momento di straordinario sviluppo del mercato librario, nel 29. Die Römische, p. 5, in ACDF, Index, Protocolli 1862-64, I. 30. Delpiano, Il governo della lettura, pp. 75-154. 31. Sulle condanne di Rosmini, si veda il documentato volume Antonio Rosmini e la congregazione dell’Indice. Sulla condanna a Roma e il mondo di Niccolò Tommaseo si veda la n. 50 del cap. 1. In generale sulle censure a Tommaseo si veda anche Palazzolo, Tommaseo e il problema della censura.

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quale libri giornali e pamphlets si diffondono rapidamente per ogni dove, scavalcando le frontiere, per raggiungere sempre nuovi e motivati lettori. All’illegittimità dell’azione censoria, si accompagna ormai, secondo l’anonimo autore, la sostanziale inutilità dell’intero apparato repressivo, come dimostra per tutti il caso di quell’Alexandre Dumas le cui opere – condannate singulatim negli anni quaranta e poi nella loro globalità il 23 giugno 1863 – «corrono da trenta anni il mondo in tutte le lingue, e in tutte le edizioni».32 1. Il caso Rouland. La congregazione si difende Come si vede, le accuse mosse all’operato della congregazione romana si concentrano intorno a due grandi blocchi tematici, l’arbitrarietà delle proibizioni comminate in un contesto liberale ed al contempo la loro sostanziale inefficacia. Il primo si ricollega idealmente alle tradizionali critiche all’oscurantismo ecclesiastico, sposandone in toto le usuali argomentazioni; da qui, come si è già notato, la denuncia di una Chiesa cattolica sostanzialmente contraria da Copernico in poi allo sviluppo del pensiero scientifico, nemica di ogni idea di progresso sociale e culturale, capace solo di difendere i propri privilegi temporali e di lanciare i propri anatemi contro chi vi si oppone. Ma accanto a questo già noto armamentario della polemica anticattolica nato sin dagli anni della temperie luterana, si accosta anche una nuova consapevolezza tutta moderna, frutto del diffondersi dei principi della libertà di coscienza e di opinione come diritti irrinunciabili degli individui razionali. Anche la libertà di stampa, acquisita ormai in gran parte degli stati europei, appare un attributo ineliminabile della modernità, perché consente soprattutto attraverso l’uso dei giornali e della produzione a basso costo la circolazione delle informazioni e la crescita del patrimonio delle conoscenze anche negli strati inferiori della popolazione. Si tratta di una visione certo ottimistica messa duramente in crisi alla fine del secolo, ma non v’è dubbio che questa cognizione fatta esperienza quotidiana sembra confliggere con le periodiche condanne emesse dal tribunale ecclesiastico, le quali se costituiscono una sfida alle norme liberali dello stato sembrano ormai anche sempre più estranee al sentire comune. 32. Ibidem, p. 15. L’ autore afferma che Dumas viene condannato «per la sua stretta amicizia verso Garibaldi», quindi più per le sue opzioni politiche che per i contenuti anticlericali o licenziosi dei suoi romanzi. Nel giugno del 1863, comunque vengono condannate Omnes fabulae amatoriae dei due Dumas, padre e figlio.

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In gran parte nuovo e legato all’esperienza ottocentesca è invece l’altro grande tema, attorno a cui si coagulano le critiche all’azione repressiva dell’Indice, e cioè la radicale inefficacia delle sanzioni in un mondo nel quale lo sviluppo editoriale sembra inarrestabile, immettendo su un mercato ormai senza confini una marea di carta stampata per tutte le età e tutti i ceti sociali. Se nel primo caso si invocavano grandi principi per chiedere a gran voce la fine dell’Indice, chi ne sottolinea l’inefficacia – spesso dall’interno della Chiesa romana, se non dalla stessa curia – mantiene un tono basso, talvolta menziona come Froschammer cifre e dati per evidenziare la sostanziale inutilità delle lunghe e farraginose procedure che spesso si muovono in ritardo, non danno alcun risultato, quando non costituiscono, per una sorta di eterogenesi dei fini, un’oggettiva pubblicità per l’autore, l’opera o il giornale incriminato. Naturalmente i due argomenti, figli della stessa temperie culturale e sociale, sono strettamente connessi tra loro. L’oggettiva inefficacia delle condanne infatti è dovuta all’assenza di un reale potere coercitivo, frutto della rottura di quella alleanza tra governi assolutisti e Chiesa romana che aveva consentito, ancora nei primi decenni dell’Ottocento, il prolungarsi di un’azione censoria in alcuni stati europei;33 senza l’ausilio della repressione statale, appare velleitario qualsiasi tentativo di controllare la stampa, la diffusione o anche soltanto la lettura dei libri pericolosi. È ancora dalla Francia, la cui produzione intellettuale è costantemente sotto il tiro delle condanne romane, che proviene uno dei più autorevoli – ed inusuali – interventi contro la congregazione dell’Indice ed il suo operato. Nelle aule del senato imperiale nel marzo del 1865 risuona la voce di Gustave Rouland, governatore pro tempore della Banca di Francia, già ministro dell’Istruzione pubblica e dei Culti che, contro quelle che considera le prevaricazioni costanti della curia romana, rivendica l’autonomia della Chiesa francese, e dei suoi pastori in nome dell’antica tradizione gallicana. Il n’y a rien de plus déplorable qu’un tribunal qui juge sans entendre les prévenus, sans motiver ses décisions, sans règles certaines d’information, et qui peut aussi flétrir prêtres et laïques, ruiner moralement les hommes et le doctrines: le tout en vertu d’un pouvoir abusif que, pur moi, je repousse de toutes les forces de ma raison.34 33. A questo riguardo si veda Palazzolo, I libri il trono l’altare. 34. Il senatore difende le tradizioni della Chiesa gallicana e dei suoi vescovi, affermando in polemica con gli organi di curia che «les affaires religieuses se traitaient avec le

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È evidente che il duro intervento dell’anziano ministro si colloca tutto all’interno della lotta politica francese e che l’attacco alla congregazione dell’Indice, cioè ad uno degli organi della curia romana, è parte di una strategia tendente a ridimensionare le pretese del partito ultramontano che in un momento cruciale della vita del secondo impero «appelle liberté religieuse la suprematie absolue de la papauté, la subordination des pouvoirs temporels».35 Ma nel difendere la cultura e gli scrittori francesi dalle ingiuste condanne romane e nel rivendicare l’autonomia dello stato dalle ingerenze ecclesiastiche, il discorso di Rouland, che si autodefinisce con orgoglio «cattolico gallicano», mette in discussione l’esistenza stessa dell’organo ecclesiastico di censura ed ha quindi una valenza universale che va ben al di là delle specificità nazionali; come tale infatti viene letto dai polemisti e commentatori cattolici, che vi scorgono una minaccia ai poteri di intervento costantemente rivendicati dal magistero ecclesiastico. Con una rapidità inconsueta negli uomini di curia, alle accuse di Rouland rispondono alcuni qualificati consultori della congregazione a cui si accoda presto anche la «Civiltà Cattolica».36 Difficile cogliere in questi interventi diversità di accenti o nuove argomentazioni; in grave sindrome di accerchiamento, i membri dell’Indice serrano le fila rivendicando ancora, senza marcare distinzioni e men che meno espliciti dissensi, l’azione censoria come un attributo imprescindibile della pastorale, ed un servizio socialmente utile a salvaguardia dell’ordine naturale e della salute delle anime. Del resto, sono gli anni del Sillabo e della Quanta pape» (Rouland, Discours de M.R. sénateur dans la séance du 11 mars 1865, extrait du «Moniteur Universel» 12 mars 1865, pp. 42-43). Gustave Rouland (1806-1878) fu ministro dell’Istruzione Pubblica e dei Culti dal 13 agosto 1856 al 23 giugno 1863, poi vicepresidente del senato, presidente del Consiglio di Stato ed infine governatore della Banca di Francia dal 1864 alla fine della sua vita. Definito da Milza «cattolico gallicano», come ministro dell’istruzione tra l’altro autorizza l’istruzione religiosa protestante. Cfr. Dutacq, Gustave Rouland; e Milza, Napoleone III, pp. 264 e 375. 35. All’interno della chiesa cattolica francese vi era un intenso dibattito tra coloro che, come gli eredi del gallicanesimo, ritenevano necessaria una ratifica dei vescovi delle singole condanne romane e chi, come gli ultramontani radicali, considerava i decreti dell’Indice come universalmente validi. A questo riguardo si veda Savart, Les catholiques en France, pp. 254-274. Più in generale sul dibattito in atto tra i cattolici francesi si veda L’Anticléricalisme croyant. 36. L’intervento dell’organo dei gesuiti è contenuto in una recensione al volume di Baillès; [B. Palomba], La Congrègation de l’Index mieux connue et vengée, par J.M.J. Baillès, ancien Evèque de Luçon, in «C.C.», s. VI, XVIII/9 (1867), pp. 459-470.

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cura ed almeno nello spazio pubblico vescovi e prelati di curia sembrano esprimersi con un’unica voce, a difesa del pontefice e delle prerogative della sua Chiesa. Il primo a rispondere è ancora Baillès che, attivo consultore pur ormai lontano da più di dieci anni dalla sua terra di origine, continua ad avere una costante attenzione nei confronti degli umori che si agitano negli ambienti politici francesi. La sua confutazione è contenuta in un farraginoso e pesante volume di più di 600 pagine pubblicato a Parigi, dal titolo significativo La Congrègation de l’Index mieux connue e vengée e dai toni fortemente aggressivi e polemici. Scritto con l’intento esplicito di replicare alle accuse di Rouland, il testo accosta insieme toni apologetici e impostazione didascalica per riaffermare l’obbligatorietà dell’azione repressiva da parte della Chiesa romana, considerata ormai l’unico baluardo a difesa della fede e dei buoni costumi contro il dilagare della propaganda anticattolica e dell’immoralità. La Congrégation […] est la gardienne infatigable de la foi, de la pureté et de l’innocence. Enfin, elle oppose, par sa supreme autorité, la barrière la plus forte à l’impetuosité des passions et aux fougues du jeune âge.37

Il testo ripropone tutto il ben noto bagaglio delle argomentazioni intransigenti, che del resto Baillès aveva ampiamente utilizzato già nella sua Instruction pastorale del 1856. Se in quel caso suoi interlocutori erano parroci e fedeli francesi, in questo caso l’anziano vescovo sembra rivolgersi in prima istanza alle autorità civili sia per condannarne l’indebita intromissione nelle questioni che riguardano la moralità individuale, sia per riaffermare l’utilità dell’azione disciplinante della Chiesa cattolica anche ai fini di un ordinato sviluppo sociale della nazione. Ma la risposta a Rouland non proviene solo dalle fila dei prelati di curia di origine francese. Preoccupati dalla durezza di un intervento irrituale 37. Baillès, La Congrègation de l’Index, p. 129. Baillès riporta ampi stralci del discorso di Rouland, ma la sua trascrizione pur non alterando complessivamente il senso del testo del vecchio senatore risulta tutt’altro che fedele, poiché ne accentua per motivi polemici i toni aggressivi. Tra l’altro attribuisce a Rouland l’affermazione: «Qu’est ce que la congrégation de l’Index? L’incarnation du despotisme, un tribunal qui condamne sans entendre». (ibidem, p. 10). Da notare che proprio su questa affermazione si soffermano in seguito i polemisti cattolici, che evidentemente hanno conosciuto il discorso di Rouland solo attraverso il testo dell’antico vescovo di Luçon. Su quest’opera di Baillés si veda Boutry, Papauté et culture au XIX siècle, p. 50; e Artiaga, Des torrents de papier, pp. 34-35.

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che potrebbe trovare ascolto e risonanze anche presso gli organi rappresentativi di altri stati europei – a cominciare dal nuovo stato italiano – ed in generale presso un’opinione pubblica laica ormai sempre più insofferente nei confronti dei dettami ecclesiastici, intervengono nel dibattito polemico altri esponenti della congregazione. Contestuale al testo di Baillès è infatti il parere di un altro consultore, il già citato giurista e uditore della Sacra Rota Francesco Nardi, steso in forma di lettera rivolta in maniera esplicita «Al sig. Rouland, Senatore».38 Lontano dai toni apocalittici del vescovo di Luçon, l’opuscolo di Nardi contiene un’accurata e puntuale descrizione delle procedure adottate in seno alla congregazione sulla base dell’ultima riforma dell’Indice, contenuta nella Sollicita ac provida di Benedetto XIV. L’obiettivo in questo caso è quello di dimostrare che i pareri e le condanne, lungi dall’essere frutto di pregiudizi o decisioni affrettate, sono le determinazioni finali di una analisi attenta e di una decisione collegiale, che non disdegna di tenere conto anche delle autodifese dei principali accusati, gli autori sottoposti a giudizio, nel caso in cui essi siano di provata fede cattolica. Affermando che, secondo la lettera della costituzione lambertiniana, si giudica il libro non l’autore, Nardi aggiunge che in generale il compito della congregazione nel proibire i libri non è quello di offendere, ed ancor meno disonorare gli autori, ma di custodire e guardare i fedeli a lei commessi dalle insidie tese ai loro massimi beni, la morale e la fede.39

Quello che Nardi non dice è che queste norme, effettivamente contenute nella costituzione di Benedetto IV, sono state costantemente disattese nelle più importanti cause discusse nell’arco dell’Ottocento; il caso – certo non l’unico – di Rosmini e Gioberti, condannati insieme a Gioacchino Ventura in una seduta a dir poco anomala tenutasi a Napoli il 30 maggio 1849 senza un vero esame delle opere incriminate e senza un confronto dialettico, dimostra che la violazione delle norme “garantiste” è una prassi costante quando sono in gioco preoccupazioni pastorali e soprattutto urgenze politiche.40 A Baillès si collega direttamente infine un opuscolo scritto da Antonio da Rignano, anch’egli come si è detto consultore dell’Indice e membro at38. Nardi, Intorno alla Sacra congregazione dell’Indice. 39. Ibidem, p. 5. 40. Sulle procedure delle condanne di Rosmini e Gioberti si veda in particolare Mauro, Le procedure delle condanne. Più in generale cfr. Antonio Rosmini e la congregazione dell’Indice e Malusa, Mauro, Cristianesimo e modernità.

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tivo delle discussioni interne alla curia.41 Costruito con un artifizio retorico fin dal titolo come una bonaria lettera ad un amico, il testo del francescano mostra di condividere le argomentazioni di Baillès, tanto da consigliarne la lettura all’anonimo interlocutore per contrastare i suoi dubbi sull’utilità dell’Indice.42 Sia pure sinteticamente vengono riproposte le opinioni del vescovo di Luçon, sia quelle nelle quali si proclama la necessità dell’azione censoria sia quelle nelle quali se ne riafferma la validità universale e quindi l’obbligo della piena obbedienza da parte di tutti i fedeli. Divergono però i toni, più tipici di un colloquio pastorale che di un’accesa invettiva contro le insidie della modernità; l’intento sembra quello di sottolineare che le condanne sono il frutto della materna sollecitudine della Chiesa cattolica per la salute spirituale dei fedeli. Chi vorrà mai negare al magistero della Chiesa il diritto, e il dovere ad un tempo, d’illuminare ed avvertire i fedeli de’ pericoli che corrono di false dottrine, e di scandali di men che onesti costumi che insegnano, e con mille arti insinuano nel cuore de’ male accorti, libri e scritture d’ogni argomento? Depositum custodi […] argue, increpa, diceva l’Apostolo al suo Timoteo: questo è dovere sacro del magistero ecclesiastico e per tutta l’Universalità de’ fedeli sparsi per l’universo mondo è il magistero supremo, il cui oracolo è la parola apostolica di Pietro, che parla in tutti i secoli per la bocca de’ suoi successori. 43

Non sappiamo se questa diversità di toni nel definire le attribuzioni dell’Indice sia effettivamente riconducibile ad opinioni e soprattutto a schieramenti diversi nella curia e nella stessa congregazione. Certo, come già si è avuto occasione di notare, da Rignano è tra i consultori uno dei meno rigidi e più disponibili al confronto, nei limiti consentiti all’interno di un mondo complesso come la curia romana dove conflitti di potere e contrasti anche gravi vengono spesso ammantati da un corale ossequio alle tradizioni e risultano quindi di difficile interpretazione; si ricordi, solo a titolo di esempio, la sua difesa di Ubaghs nella causa di Lovanio 41. Fania (nome secolare di A. da Rignano), Ad un amico sopra l’Indice. 42. «solo ho in animo in questo piccolo scritto d’invitarti a leggere il detto libro, che è veramente prezioso, e soprammodo utilissimo in questi tempi di sì generale e facile andazzo di tener dietro ad ogni licenza, fino a rompere o ad astiare quale che si fosse pur santissimo freno, che la prudenza cristiana mette a’ disordini della mente, del cuore e della vita, in pensare, in vagheggiare, e che è peggio, praticare le più matte cose del mondo», ibidem, p. 3. 43. Ibidem, pp. 4-5.

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o ancora il già citato parere sul La capanna dello zio Tom che impedisce che il libretto antischiavista della Beecher Stowe, dopo la denuncia al Sant’Uffizio, sia definitivamente inserito nell’Indice dei libri proibiti.44 Probabilmente il carattere pubblico dell’intervento non consente maggiori aperture, né l’esternazione di un esplicito dissenso. Ma in realtà, come vedremo, l’orizzonte delle opinioni è tutt’altro che monolitico; la stessa rapidità nel rispondere alle tesi denigratorie mostra distintamente la paura ormai diffusa che queste possano fare breccia anche nelle menti e nelle coscienze dei fedeli cattolici. 2. Il dibattito interno In realtà la diffusione della libertà di stampa insieme allo sviluppo dell’industria editoriale e in generale alla crescita della domanda di lettura nell’intera Europa rendono sempre più inefficaci le prescrizioni ed i divieti di lettura provenienti dalla Chiesa di Roma. Logico quindi che anche all’interno dell’apparato di curia ci si interroghi sul senso delle interdizioni censorie che non solo rischiano di essere dipinte dagli ambienti della cultura laica e liberale come nemiche di ogni idea di progresso, ma che soprattutto, in assenza di una effettiva forza coercitiva, rimangono affidate esclusivamente alla coscienza dei fedeli e possono rimanere del tutto inascoltate. Naturalmente, come si è già notato, poco o nulla trapela nello spazio pubblico: anzi, nel momento in cui si attiva un circuito polemico, consultori, vescovi e prelati di curia come si è già notato sembrano rispondere agli attacchi in maniera sostanzialmente univoca, uniformandosi senza riserve ai dettami del pontefice e ribadendo le tesi intransigenti. Se si vogliono registrare disagi e dubbi delle gerarchie bisogna addentrarsi quindi nel dibattito interno alle congregazioni, spesso contraddittorio e di difficile decifrazione, dove trovano spazio e si discutono puntualmente i numerosi quesiti, dai toni spesso accorati o confusi, inoltrati dai vescovi della periferia alle prese con le difficoltà della pastorale quotidiana in un contesto sempre più secolarizzato. L’ambito geografico di questi confronti si è ulteriormente ridotto. La parte di gran lunga più consistente dei quesiti e delle problematiche sollevate e discusse all’interno della congregazione riguarda infatti i rapporti 44. Cfr. Wolf, Storia dell’Indice, pp. 141-167.

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con il nuovo stato italiano. Tutto questo del resto non stupisce, sia per la prossimità degli eventi che hanno dato vita ai moderni assetti istituzionali, sia soprattutto perché la Chiesa ha sempre considerato l’Italia come l’ultima decisiva frontiera da difendere e nascita dello stato laico e perdita del potere temporale sono stati avvertiti da Pio IX come un gravissimo vulnus all’autonomia della Chiesa cattolica e del suo pastore. Da qui la necessità di ribadire l’obbligatorietà dell’ossequio alle norme ecclesiastiche anche quando queste entrino in grave conflitto con le leggi elaborate dal nuovo stato. Uno dei luoghi simbolici dove il conflitto tra norme dello stato e dettami ecclesiastici in campo librario emerge in maniera esemplare è la biblioteca, lo spazio dove si conservano le raccolte librarie, aperto a tutti con il passaggio della proprietà allo stato nazionale o ad altri enti pubblici locali.45 In realtà durante l’antico regime le biblioteche italiane, sia quelle dipendenti dalle diverse amministrazioni statali che quelle appartenenti agli ordini religiosi o alle istituzioni accademiche erano per definizione aperte esclusivamente ai ceti privilegiati ed agli studiosi; tutti componenti a vario titolo di quella repubblica delle lettere nella quale erano largamente rappresentati anche gli ecclesiastici, tutti comunque dotati delle opportune licenze di lettura, divenute nel tempo più un simbolo di appartenenza ad uno status di privilegio che la reale certificazione dell’adesione ai precetti della Chiesa.46 In tal modo si era progressivamente consolidata una gerarchia dei lettori; solo ad alcuni era permesso leggere quello che ad altri, la gran massa degli uomini e soprattutto delle donne, era vietato. Tuttavia, 45. Sul concetto di biblioteca pubblica e la sua attuazione in Europa si veda Traniello, La biblioteca pubblica e Id., Storia delle biblioteche. Sul tema delle biblioteche e del consumo di lettura tra Sette e Ottocento, si veda l’ampia bibliografia contenuta nei contributi a Biblioteche nobiliari e circolazione del libro. 46. Come si evince dalla documentazione d’archivio, secondo i decreti del 1826 e 1832 del segretario di Stato cardinal Bernetti per ottenere la licenza di lettura era necessario versare in quegli anni la somma di tre paoli, corrispondenti a 30 bajocchi . Tale versamento è stato probabilmente confermato in qualche modo anche dopo il 1870, anche se si afferma che, per evitare le maldicenze in questi tempi di «malignità sfrenata», il papa «si è degnato decretare che d’ora in poi nei rescritti relativi non si faccia menzione alcuna del titolo pel quale la medesima [tassa ] viene percepita» (ACDF, Index, Protocolli 1894-1898, 207). Il tema delle licenze di lettura è stato studiato soprattutto per l’età moderna: si veda Frajese, Le licenze di lettura e Baldini, Il pubblico della scienza. Per le licenze nell’Ottocento cfr. Palazzolo, I circuiti dello scambio librario, in cui si evidenzia che anche nella Roma pontificia la licenza di lettura veniva accordata a notabili, possidenti e professionisti in vario modo legati alla curia.

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con i mutamenti istituzionali e l’aumento dell’alfabetizzazione, gran parte di queste raccolte librarie aprono le loro porte anche agli esclusi, consentendo potenzialmente a tutti coloro che ne fanno richiesta l’accesso alle collezioni di opere spesso considerate pericolose dalla Chiesa di Roma. Come si deve comportare allora un bibliotecario stipendiato dallo stato, per obbedire alle leggi della sua Chiesa senza incorrere nelle sanzioni dell’autorità civile? Può concedere i libri in lettura a tutti coloro che lo chiederanno, anche se questi non risultano provvisti della licenza concessa dalle autorità religiose? 1° – Se il Bibliotecario di una Biblioteca pubblica debba a tutti indistintamente, quando domandano libri proibiti, chiedere se sono muniti della relativa licenza? 2° – Se possa farsi qualche distinzione fra opera, ed opera, od anche fra persona e persona. 3° – Se il timore che taluno si rechi ad offesa quella domanda, o il sospetto che mentisca, od anche la probabilità che faccia ricorso all’autorità civile, od ecciti qualche altro scandalo sia motivo sufficiente ad astenersi dalla domanda.47

Si tratta di uno dei tanti quesiti, posti nei primi mesi dopo l’unità alle autorità romane dai vescovi della periferia, che anche nella sua formulazione sembra suggerire una mitigazione della normativa in modo da venire incontro alle esigenze dei numerosi bibliotecari cattolici, stretti tra le richieste della Chiesa e gli obblighi del proprio impegno professionale. In effetti la discussione che su questo tema si apre tra i consultori non è di secondaria importanza. Rispondere positivamente, liberando i bibliotecari dalla responsabilità di una scelta, significa di fatto consentire il libero accesso alle opere proibite e vanificare quindi l’intero apparato censorio. Le risposte sono quanto mai ambigue e mostrano una estrema varietà di posizioni. C’è chi, come il consultore frate cappuccino Eusebio da Montesanto, per evitare rimorsi di coscienza al bibliotecario zelante, propone una gerarchia delle proibizioni, artificiosa e del tutto priva di fondamento normativo. [ Vi sono libri] nocivi per se stessi, indipendentemente da ogni legge umana […] come sarebbero quelli che trattano cose oscene e contro ogni religione […] Ora trattandosi di libri di tal sorta, per la lettura dei quali non si dà né può darsi 47. È una sintesi di un quesito proveniente da vari vescovi, raccolto insieme ad altri di argomento e date diverse insieme ai pareri espressi dai consultori in un fascicolo a stampa di 8 facciate, a cura del segr. Vincenzo Gatti dal titolo Soluzione di vari quesiti in materie di competenza della Sacra Congregazione dell’Indice, in ACDF, Index, Protocolli 1870-72, 103.

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licenza veruna perché proibiti iure naturae, io risponderei al Bibliotecario che non deve domandare licenza alcuna a nessuno, perché non deve darli a nessuno […] Vi sono altri libri che sono proibiti dalla Chiesa perché contrari ai dogmi od ai principii della Religione Cristiana; e per questi in quanto alle persone farei una distinzione: se i richiedenti non sono sudditi della Chiesa perché Ebrei, non domanderei loro se abbiano la licenza, poiché come tali non sono obbligati alle leggi della Chiesa, di cui non sono sudditi […] Se poi quelli che domandano, fossero Cristiani, e molto più se Cattolici, osserverei: se i libri richiesti sono di quelli più gravemente proibiti, e che hanno per la lettura annessa qualche censura; in tal caso sono di parere che il bibliotecario debba domandare se chi li richiede ha, o no, la licenza; perché: o chi vuol leggere è veramente cattolico e dabbene, ed in tal caso sarà edificato che il Bibliotecario adempia il suo dovere: o non è tale, ed il Bibliotecario non avrà cooperato alla sua maggiore rovina, e non si sarà fatto complice della sua colpa. Ma se i libri che si domandano, sono proibiti, ma nei gradi minori, come appunto Colletta e Botta, e simili, in tal caso io sarei di parere di accordare al Bibliotecario l’autorizzazione di permettere tali letture, purché però se ne serva il meno che può; abbia un prudente discernimento fra le persone a cui quelle letture possono essere nocive, od innocue; ed a tutti avverta che consegna quel libro quantunque proibito, per speciale facoltà concessa dalla Santa Sede.48

Il lungo e cavilloso brano del cappuccino contiene numerosi motivi di interesse, a cominciare da quella graduatoria delle condanne che, a parte la nota distinzione per i libri ereticali per i quali è comminata la scomunica, non trova riscontri in effetti nelle regole dell’Indice in vigore. Anche la citazione dei due storici Pietro Colletta e Carlo Botta, a meno che fatta da coloro stessi che richiedono il parere, cosa che non risulta, stupisce non poco; dei due infatti, Botta è condannato per varie opere tra cui solo due con la formula del donec corrigatur a cui non segue peraltro alcuna correzione o pentimento da parte dell’autore,49 l’altro è condanna48. Ibidem, p. 3 (il corsivo finale è mio). Su Eusebio da Montesanto, al secolo Vincenzo Magner (1823-1884), consultore della congregazione dell’Indice dal 1859, autore di vari pareri su Dumas, Luigi Martini ed altri, si veda Prosopographie, I, pp. 531-534. 49. Di Carlo Botta sono condannate con il donec corrigatur la Storia d’Italia dal 1719 al 1814 con decreto 26 marzo 1825 e Histoire des peuples d’Italie con decreto 11 giugno 1827, mentre la Storia d’Italia, continuata da quella di Guicciardini sino al 1789 è condannata il 5 agosto 1833 senza la formula precedente. Naturalmente Botta non mise mai mano ad alcuna correzione. In realtà la formula del donec corrigatur, diversamente dai primi secoli dell’Indice, sembra avere la valenza di una condanna minore ed è al contempo

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to senza appello.50 Perché quindi menzionare i due storici come esempi di una proibizione «di grado minore» se non perché, nella coscienza di molti, consultori e non, si riteneva che alcune delle proibizioni fossero eccessive e quindi potevano essere aggirate senza un grave danno per la salute delle anime? Il parere del frate suscita evidentemente numerosi dissensi all’interno della congregazione, tanto che lo stesso segretario mons. Vincenzo Gatti ritiene necessario intervenire nella discussione, ribadendo la linea intransigente. Nell’Indice de’ libri proibiti, e neppure nella proibizione di essi, non si fa questa gradazione di più grave o meno grave: onde un Bibliotecario non può da ciò aver norma. Io direi: o i chiedenti libri proibiti hanno licenza di leggerli: ed ei può e deve, se null’altro osti, consegnarglieli e può concorrere attivamente. Ma se non hanno la licenza, a me sembra, ch’ei debba rimanere passivo. Può aprire gli armari o sportelli delle scanzie ove sono i libri; e non impedire che se li prendano quando la legge laica dà loro il diritto di prenderseli ed obbliga il Bibliotecario a non rifiutarli. Ma non pare possa prestarsi attivamente e attivamente consentire alla violazione della legge ecclesiastica; anzi deve avvertire che i libri chiesti sono dalla Chiesa proibiti.51

Come si vede i due consultori, pur mostrando ambedue una sostanziale indifferenza per le leggi del nuovo stato, esprimono valutazioni differenti, non solo sui comportamenti che i bibliotecari cattolici devono assumere, ma anche sullo stesso peso delle proibizioni ecclesiastiche. In ogni caso gli espedienti proposti da Gatti – aprire gli armadi senza porgere i libri al potenziale lettore – possono far sorridere per la loro sostanziale ipocrisia, ma non vengono incontro alle esigenze del malcapitato funzionario dello stato, che certo non può appellarsi, in nome di superiori istanze morali e religiose, all’obiezione di coscienza, garanzia inesistente nell’ordinamento giuridico postunitario. un richiamo all’autore che, se cattolico, può assoggettarsi alle richieste della congregazione ed eliminare dal testo i brani condannabili. Sono pochi i casi in cui comunque tale richiamo sortisce reali effetti nel XIX secolo. 50. La Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825 del generale Pietro Colletta, pubblicata postuma per i tipi della Tipografia Elvetica di Capolago nel 1834, è condannata con decreto del 7 luglio 1835. Si veda Caldelari, Bibliografia ticinese, I, p. 204. 51. Vincenzo Maria Gatti (1811-1881), domenicano, è consultore dell’Indice dal 1858, dal 1870 segretario della congregazione e dal 1872 Maestro del Sacro Palazzo. Su di lui si veda la voce di Cattaneo, Gatti, Vincenzo Maria, in DBI e Prosopographie, I, pp. 653-656.

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La vicenda, che ancora una volta ha un orizzonte solo italiano, si conclude solo nel 1872 quando lo stesso Pio IX concede un’autorizzazione con la formula liberatoria onorata conscientia et durante munere oratoris, che di fatto permetterà ai bibliotecari cattolici dipendenti dello stato, per evitare di perdere l’impiego, l’esercizio della loro professione senza alcuna restrizione.52 Ma certo questo episodio evidenzia bene quanto siano ristretti i margini di manovra della pastorale ecclesiastica quando questa entri in conflitto con le leggi dello stato e come essa sia costretta a continui arretramenti, per evitare perdita di credibilità o disagi eccessivi per i fedeli. Un’altra tematica polarizza intorno agli anni settanta la discussione interna alla congregazione, e cioè il comportamento da tenere nei confronti delle pubblicazioni periodiche, a cominciare dai quotidiani. In questo caso il problema nasce dall’inadeguatezza della normativa ecclesiastica che, creata per esaminare una modesta produzione di libri, si trova a far fronte ad una massa di materiale a stampa non solo imprevedibilmente più consistente, ma anche del tutto differente sia per la veste tipografica esterna che soprattutto per le modalità di uso. Non v’è dubbio infatti che l’enorme diffusione della stampa periodica lungo l’arco dell’Ottocento testimonia un mutamento radicale nelle abitudini e nelle modalità della lettura, che diviene sempre più strettamente funzionale alle esigenze specifiche di informazione e di aggiornamento professionale imposte dall’accelerato sviluppo economico e sociale.53 L’approccio al testo periodico dei lettori e delle lettrici del XIX secolo evidenzia rispetto al libro a stampa un consumo sempre meno sacrale, e sempre più impegnato a soddisfare esigenze immediate e circoscritte. Su questo tema, il discrimine all’interno delle gerarchie ecclesiali passa quindi tra coloro che si mostrano consapevoli di questa “rivoluzione della lettura” e ritengono quindi necessario approntare 52. «Avviene che da diverse parti d’Italia si domanda alla santa Sede dai bibliotecari di pubbliche biblioteche l’autorizzazione a dare il permesso di leggere libri proibiti a coloro i quali vi si recano per cagione di studio. Adducono per motivo le circostanze de’ tempi, la legge che li obbliga a consegnare qualunque libro venga richiesto, la speranza d’impedire qualche male e influire più facilmente anche nella scelta de’ libri nella compra di essi e soprattutto la quiete di coscienza. Il Santo Padre a cui la prima volta io la domandai per il Bibliotecario della Biblioteca pubblica di Padova, si degnò annuire onorata coscientia et durante munere oratoris» (Soluzione di varii quesiti, in ACDF, Index, Protocolli 18701872, 103, p. 5-6). 53. Si veda Wittmann, Una “rivoluzione della lettura” e Lyons, I nuovi lettori nel XIX secolo. Un punto sulla ricerca su tale argomento in Histoires de la lecture.

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nuovi e più sofisticati strumenti di analisi e chi invece questa rivoluzione non riconosce, ritenendo giusto applicare in modo automatico ai periodici le norme tradizionali adottate in precedenza per i singoli volumi. Nella discussione si pronuncia sin dal 1872 con la consueta solerzia la «Civiltà Cattolica» che, nella speranza di condizionare ancora una volta dall’esterno l’operato dei consultori, fa pressioni perché si arrivi all’interpretazione più restrittiva delle regole dell’Indice, affermando che libri e giornali non sono strumenti di lettura diversi e devono quindi essere giudicati allo stesso modo.54 Per l’organo dei gesuiti, la lettura dei giornali “liberali”, cioè non dei periodici che abbiano contenuti ereticali ma in generale di tutti quelli che si uniformano ai principi del nuovo stato, è da considerarsi illecita per chi si professa cattolico e crea scandalo presso il popolo dei fedeli. In verità, pure se il problema dell’atteggiamento da assumere nei confronti dei giornali è largamente presente nei resoconti della congregazione, il parere della «Civiltà Cattolica» viene comunque sostanzialmente ignorato. La linea emersa tra le gerarchie ecclesiastiche, e adottata come si è già visto sin dagli anni cinquanta, infatti era quella di affidare ai vescovi il controllo dei periodici pubblicati nelle rispettive diocesi. Questi, a diretto contatto con gli umori delle popolazioni e gli orientamenti dei fedeli, potevano con maggiore rapidità ed efficacia individuare i giornali pericolosi e sconsigliarne la lettura attraverso gli strumenti usuali della pastorale, a cominciare dalle circolari ai parroci e dalle lettere quaresimali.55 Tuttavia 54. «Ci sembra non potersi dubitare che quelli almeno tra i giornali, i quali sono soliti d’impugnare direttamente i dommi cattolici o anche i fondamenti del Cristianesimo, sieno compresi nella citata regola dell’Indice. Nè vale il dire che la condanna colpisce i libri e non i giornali. Poiché se è da fare in questo alcuna differenza tra libri e giornali, la differenza è in ciò che i giornali sono più atti a diffondere l’errore, e i libri meno. Nel rimanente i giornali, considerati in sè, non si differenziano punto dai libri: non si differenziano formalmente […] e non si differenziano neppure materialmente» [F. Berardinelli], Il Giornalismo liberale e la coscienza dei cattolici, in «C.C.», s. VIII, XXIII/6 (1872), pp. 641-658. 55. All’interno della congregazione preparatoria si discute la proposta di Nardi di sollecitare al pontefice una lettera apostolica in cui si chiamano i vescovi ad una rinnovata vigilanza «a questa terribile peste dei cattivi libri, e dei cattivi giornali. I mezzi che soli possono usarsi sono che nelle loro pastorali al clero ed al popolo, nelle loro visite e in circolari confidenziali a parrochi e confessori, inculchino ad essi di avvertire cò modi più energici i fedeli ad astenersi da questa fatale lettura indicandone i terribili danni per la fede, i costumi, e tutto l’ordine sociale» (Lettera del Cons. Francesco Nardi al Segretario, 15 febbraio 1873, in ACDF, Index, Protocolli 1872-75, 7).

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a lungo andare questo orientamento non sembra soddisfare alcuni settori della curia, sia perché questi si sentono esautorati da un loro compito istituzionale, sia perché d’altra parte la maggioranza dei vescovi appare progressivamente restia a perpetuare uno sterile conflitto con le autorità locali ed il notabilato intellettuale. Nel giugno del 1879 la questione viene di nuovo sollevata nella congregazione da un quesito del padre generale dei Passionisti che, in linea con la «Civiltà Cattolica», chiede se coloro che leggono giornali «che propugnano l’eresia» – leggi giornali anticlericali – incorrano nella scomunica papale, alla stessa stregua di coloro che leggono «scientemente» i libri degli eretici. A rispondere in prima istanza è il consultore Giuseppe Pennacchi che non solo boccia, con accenti non privi di sarcasmo, il parere del giornale dei gesuiti ma soprattutto si mostra quanto mai lucido e consapevole dei mutamenti ormai largamente diffusi nelle pratiche di lettura. Né in forza delle parole della legge, né in vista del fine, né per ragione della Piana Allocuzione sembrano i giornali propugnanti eresia potersi annoverare fra i libri degli apostati ed eretici […] Non può tuttavia negarsi esservi autori, i quali tengono l’opposta sentenza, e fra questi la Civiltà Cattolica; ma i loro raziocini non mi sembrano troppo saldi. Imperciocché quel che dice la Civiltà Cattolica, che intanto i giornali differiscono dai libri, perché quelli si compongono di piccoli o brevi fogli che escono a luce in ciascun giorno, questi di più fogli stampati insieme (serie VIII vol VI, p. 648) non dimostra altro se non che quei piccoli fogli non sono libri sintantoché non si uniscano insieme, e gli altri solo sono libri propriamente detti. Oltre a ciò si potrebbe generalmente negare la supposizione della Civiltà Cattolica, poiché quantunque si ammetta che i giornali possano legarsi in un volume, tuttavia quelli dei quali si tratta, né sono destinati a far volume, né comunemente si pigliano a questo fine; argomento ne sono le latrine e i pizzicagnoli. Aggiungo che il fine principale di cosifatti giornali è pubblicare le notizie che occorrono alla giornata, e non far corpo di dottrina […] [ i libri] manent diutius, et maioris sunt auctoritatis, al contrario né tutti prendono i giornali per leggere e molto meno considerare quegli articoli, sebbene per cognizione delle notizie politiche etc. né li comprano generalmente per conservarli, ma i più letti che li abbiano, li adoperano a vilissimi usi, né specialmente i cattolici, almeno molti, nel leggere tali articoli prendono stima, o si affezionano all’eresia […] ma li disprezzano. Aggiungo che molti e molti, i meno istruiti, e i più curiosi, contenti di aver letti i telegrammi, le fasi politiche, e qualche altra notizia, il resto del giornale non lo leggono punto […] Al contrario chi compra e si pone

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a leggere libri di manifesti eretici, o nominatamente condannati con lettere apostoliche, comunemente li compra e legge con cattiva disposizione, legge attentamente i punti più rafforzati di raziocinio, li legge tutti, e lettili non li butta via, ma li conserva.56

Certo, i toni usati da Pennacchi sono l’ulteriore conferma dell’insofferenza di alcuni settori della curia per le continue ingerenze della «Civiltà Cattolica» che, forte del rapporto privilegiato con il defunto Pio IX, pretende di orientare ancora la politica della Chiesa anche sotto il pontificato del nuovo papa Leone XIII. Nello specifico poi, il lungo intervento tende a dimostrare che l’acquisto e la lettura di un giornale, a differenza di un libro, non comporta necessariamente un’effettiva adesione alle tesi e al programma politico propugnato dal periodico, ma rientra nelle pratiche usuali per accedere all’informazione utile all’organizzazione della vita quotidiana o allo svolgimento di un’attività lavorativa. Le pacate parole di Pennacchi non servono comunque a fugare dubbi e perplessità largamente diffuse ormai tra i consultori ed i membri dell’Indice, consapevoli della difficoltà ad emanare direttive inequivoche valide per l’azione pastorale dei vescovi italiani. Dai verbali delle sedute preparatorie infatti, emerge come la congregazione sia divenuta sempre di più una sorta di collettore dei malesseri e dello spaesamento dei vescovi locali, costretti a misurarsi con problematiche inedite, nei confronti delle quali non possono valere norme elaborate in contesti sociali e culturali diversi. E mentre in tempi ormai lontani si era consolidata una storica dialettica tra i prelati di curia, intransigenti nel difendere le regole del magistero ecclesiastico ed i vescovi, a contatto con i fedeli e quindi più duttili e aperti al confronto con l’esterno, sono ora gli stessi uomini di curia ad interrogarsi sulla praticabilità delle proibizioni, e sulla loro reale efficacia. Non è un caso, a questo riguardo, che affiori vistosamente nelle parole dei consultori la nostalgia dell’antico regime – protrattosi nei territori 56. Voto su alcuni dubbi proposti dal generale dei Passionisti riguardo a quelli che leggono giornali contenenti o propugnanti eresia, fascicolo a stampa datato 4 giugno 1879, in ACDF, Index, Protocolli 1878-81, 114. Giuseppe Pennacchi (1831-1913), nato a Nazzano, diviene nel 1865 supplente di Tizzani nella cattedra di Storia della Chiesa alla Sapienza, poi professore dello stesso insegnamento al collegio di Propaganda. Nel 1870 diviene consultore della congregazione dell’Indice, successivamente nel 1879 professore di Storia della Chiesa a Sant’Anselmo. Durante le sedute della congregazione è l’estensore di numerosi pareri su opere di Mantegazza, Stefanoni, Gregorovius e Renan. Cfr. Prosopographie, II, pp. 1153-1159.

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italiani sino alla nascita del nuovo stato – quando censure statali e censura ecclesiastica cooperavano insieme per impedire la diffusione delle idee pericolose, contrarie alla religione dominante, al governo dello stato ed ai buoni costumi. Finché la stampa era ristretta e per le censure preventive dei governi e per quelle delle Curie ecclesiastiche era facile denunziare le opere alla nostra S. C. o per parte dei Nunzii o per parte dei Vescovi e fedeli. Ma ora che le pubblicazioni degli stampati sonosi moltiplicate a josa, riesce difficile per non dire impossibile denunziarli tutti quando sian meritevoli di censura.57

L’appoggio del braccio secolare, almeno nella realtà italiana, aveva per lunghi decenni garantito alla Chiesa cattolica un ruolo privilegiato ed egemone nel controllo delle coscienze, impedendo la diffusione della stampa anticlericale e garantendo la repressione. L’adozione anche in Italia dei principi liberali modifica radicalmente questo quadro e vanifica nei fatti anche tutto l’impianto dell’azione censoria della Chiesa romana. Un altro quesito, inoltrato da un prelato di sentimenti conciliatoristi, dimostra che le armi della censura possono essere invocate, ed utilizzate, come del resto era sempre avvenuto, anche come uno strumento della lotta politica interna al mondo ecclesiastico, diventando così un mezzo per tentare di chiudere la bocca ad un avversario scomodo. Nell’agosto del 1882 infatti l’arcivescovo di Cremona Geremia Bonomelli chiede, non si sa se con ingenuità o malizia, in un ampolloso latino se siano ancora valide le norme in merito alla «censura librorum», in particolare quelle che attribuiscono ai vescovi il controllo della stampa periodica della diocesi. In realtà il quesito volutamente generico di Bonomelli, che mostra quanto sia ormai desueto lo strumento invocato, nasconde il proposito di utilizzare la propria autorità vescovile non per condannare un periodico anticlericale, sibbene per vietare nella sua diocesi, cosa che avverrà nel gennaio del 1883, la lettura dell’«Osservatore Cattolico», diretto a Milano da don Albertario, da sempre fortemente ostile alla linea aperturista sostenuta dal prelato lombardo.58 57. Voto di Mons. Tizzani Consultore sopra tre quesiti di Monsignor Bonomelli arcivescovo di Cremona, fascicolo a stampa del 19 novembre 1882, in ACDF, Index, Protocolli 1881-1884, 88, p. 4. 58. In una lettera del 13 agosto 1882 a Giovan Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza ed amico personale, Bonomelli scrive: «Sappiate che io ho formulato alcuni quesiti alla S. Congregazione dell’Indice che si riducono a questo: ‘La stampa è soggetta ai Ve-

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La risposta è affidata al vecchio Tizzani, decano dei consultori ed esperto dei segreti di curia, il quale ignora, o mostra di ignorare, le effettive finalità della richiesta di Bonomelli. Il suo testo è degno di interesse non tanto per i contenuti specifici, e cioè la riaffermazione della validità dei canoni e delle regole anche per ciò che concerne le attribuzioni dei vescovi, quanto per il tono generale, ormai del tutto scettico sulle effettive capacità della Chiesa di incidere in alcun modo sulla circolazione di libri e giornali pericolosi. La pubblica stampa è senza freno, le leggi civili hanno sanzionato la libertà della stampa, mentre restano tuttora in piedi le leggi della Chiesa. Le quali sono quasi da per tutto calpestate per la crescente incredulità, frutto senza dubbio degli attuali civili ordinamenti. In presenza della libertà di stampa e delle leggi della Chiesa riesce assai difficile impedire i mali che dalla libera stampa provengono. Egli è perciò necessario fare per nostra parte il possibile e lasciare alla Divina Provvidenza il resto.59

È un’esplicita confessione d’impotenza. Di fronte all’impossibilità di conciliare norme della Chiesa e leggi dello stato non resta che salvare il salvabile, per evitare la totale e definitiva emarginazione della Chiesa cattolica nel contesto della società italiana. Naturalmente l’anziano prelato, ora vescovo di Nisibi, non si esime dal fornire proposte precise in merito alle numerose questioni sollevate, a cominciare dall’annoso problema dei giornali.60 Ma lo stesso conflitto Bonomelli-Albertario, scovi sì o no?’ Aspetto la risposta, che deve essere positiva e poi comincerò a parlare e a fare» (Carteggio Scalabrini-Bonomelli, p. 64). Su Bonomelli, la sua linea di apertura nei confronti dello stato italiano ed i suoi continui contrasti con Davide Albertario, si veda Bellò, Geremia Bonomelli, pp. 60-76; e la voce di Malgeri, Bonomelli, Geremia, in DBI. Fautore della fine del non expedit e contrario alla perpetuazione del conflitto sulla questione romana, Bonomelli scrive nel marzo del 1889 in forma anonima un articolo, poi pubblicato in opuscolo, sulla «Rassegna Nazionale» dal titolo Roma, l’Italia e la realtà delle cose, che sarà condannato dall’Indice il 19 aprile dello stesso anno; ad appena due giorni di distanza Bonomelli fa un atto pubblico di sottomissione, che gli consentirà di restare alla guida della sua diocesi. Sulla figura di don Albertario, prima intransigente poi aperto alle tematiche sociali tanto da essere coinvolto nella repressione dei moti di Milano del 1898, cfr. Fonzi Albertario, Davide, in DBI; e Canavero, Albertario e l’«Osservatore Cattolico». 59. Voto di mons. Tizzani, p. 3 (il corsivo è mio); cfr. la nota 57 di questo capitolo. 60. Le proposte di Tizzani, non solo macchinose ma soprattutto impraticabili, contrastano con il tono generale del parere. Infatti, attribuendo ancora la responsabilità del controllo dei giornali ai vescovi, il consultore afferma che per i giornali religiosi e morali

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concluso per il momento con il sostanziale fallimento dell’operazione tentata dal vescovo di Cremona che può condannare dal suo pulpito l’ «Osservatore Cattolico» ma non potrà mai impedirne l’uscita, dimostra efficacemente quanto la libertà di stampa sia ormai penetrata nell’agire quotidiano dei singoli e sia consapevolmente utilizzata da tutti, a qualsiasi fronte ideologico appartengano, come un dispositivo indispensabile anche nella battaglia politica e culturale.

«dovrebbesi insistere onde sia loro applicata la censura preventiva dell’Ordinario» (ibidem, p. 5). Naturalmente non si esplicita chiaramente quale sia l’istituzione, ovviamente laica, che dovrebbe consentire all’autorità ecclesiastica la revisione censoria.

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L’ampiezza e la complessità del dibattito interno alla curia, i profondi motivi di malessere espressi talvolta con inusuale chiarezza dalle autorità delle più diverse diocesi potrebbero far pensare che, almeno alla conclusione del pontificato di Pio IX, i tempi fossero maturi per la definitiva abolizione di un organo di controllo volto a sorvegliare la produzione e la diffusione delle stampe nell’orbe, la congregazione dell’Indice, e per un confronto più libero e pubblico con la cultura moderna attraverso i normali canali e gli spazi offerti dallo sviluppo dell’informazione. Tuttavia le scadenze della Chiesa romana non sono sempre riconducibili a comprensibili logiche mondane; e se certamente c’era da tempo chi, tra i prelati romani ed ancor più tra i vescovi delle periferie, considerava ormai concluso il ciclo di vita della censura ecclesiastica attrezzandosi al dibattito civile, vi erano ancora gruppi di potere consolidati ed autorevoli, a cominciare dai gesuiti e dal loro organo di stampa, i quali ritenevano anzi necessario, in un momento di così aspro conflitto con le autorità statali, rinserrare le fila e rinvigorire tutti gli strumenti tendenti a ribadire l’autorità della Chiesa e l’imprenscindibilità del suo ruolo di controllo delle coscienze. In questo quadro ancora incerto, l’abolizione dell’Indice non appare quindi, malgrado alcune autorevoli ma minoritarie pressioni che vedremo, nell’ipotetico calendario della curia romana, mentre al contrario si affollano le richieste di aggiornamento, di rinnovamento sia per ciò che riguarda la prima parte dell’Indice – le regole generali, mai modificate dal tempo della Sollicita ac provida di Benedetto XIV a metà del Settecento – sia per porre mano in maniera organica ad un riordinamento complessivo del catalogo dei testi proibiti, vero coacervo di notizie bibliografiche, spesso scorrette o prive di un effettivo riscontro.

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Di queste esigenze sembra farsi carico una commissione, appositamente istituita da Pio IX sin dal gennaio del 1868 a latere dei lavori del Concilio Vaticano I, che aveva il compito precipuo di formulare delle proposte operative in merito alla revisione delle regole e del catalogo, in vista di una forte decisione conciliare, simile per respiro dottrinario e forza coercitiva, a quelle del concilio tridentino, cui si vuole esplicitamente collegare. Questo, almeno, appare l’obiettivo del pontefice che del resto, anche nella bolla di convocazione del concilio, si esprimerà duramente contro la diffusione pericolosamente dilagante di cattivi libri e perniciosi periodici.1 C’è da dire però che, malgrado la consistenza degli atti e della documentazione, conservata in forma forse non adeguata nell’Archivio della congregazione della Dottrina della Fede,2 dei lavori di tale commissione non si ha alcuna notizia né negli atti del concilio né nelle numerose memorie coeve o nelle ricostruzioni storiche dell’assise ecumenica; e del resto i risultati del lungo lavoro di confronto, che si conclude con uno schema di decreto, non troveranno spazio nell’acceso dibattito conciliare, che verrà com’è noto bruscamente interrotto il 20 ottobre del 1870, ad un mese esatto dalla presa di Roma.3 1. «Innumera nempe esse mala quae ab impiis omnis generis libris et pestiferis ephemeribus» (Aeterni Patris, Bolla di Convocazione del Concilio 29 giugno 1868, in Acta et decreta, p. 3). 2. Gli atti della commissione sono raccolti in un faldone titolato Atti della Commissione speciale per la correzione delle Regole in preparazione del Concilio Vaticano, in ACDF, Index, Cause celebri, Vol. VIII. All’interno si trovano i verbali manoscritti in italiano, normalmente stesi dal segretario Francesco Nardi, numerosi fascicoli a stampa con i pareri su singole questioni dei vari commissari ed un fascicolo a stampa in latino, titolato De iis, quae in Conventu speciali ad reformandas S.C. Indicis regulas praecipue agebantur che raccoglie la sintesi del dibattito e lo schema di decreto da sottoporre al concilio. L’inserimento in una serie che raccoglie gli atti della congregazione dell’Indice in merito ad alcune cause cosiddette celebri, come le questioni riguardanti le opere di Rosmini, di Gioberti o dei teologi di Lovanio, ha probabilmente reso difficile il reperimento e la consultazione da parte degli studiosi. Di tale commissione infatti non fa cenno ad esempio Hubert Wolf nella sua recente Storia dell’Indice nella quale peraltro si parla della successiva riforma di Leone XIII e si descrive il lavoro di revisione dell’Index, svolto alla fine dell’Ottocento, che porterà alla nuova edizione del 1900. 3. Come ricordano i numerosi studi sull’argomento, le commissioni ufficiali che dovevano riferire ad una congregazione direttrice che fungeva da organo di raccolta per l’esame del concilio furono cinque: dommatica, politico-ecclesiastica, missioni e chiese orientali, disciplina e religiosi. Il lavoro preparatorio portò a 60 schemi di decreti, «dei quali solo una parte venne approvata dalla congregazione direttrice, mentre unicamente due, rielaborati, portarono alle due costituzioni dommatiche del concilio», Martina, Pio IX, p.157. Nessun cenno alla commissione sull’Indice anche in Rondet, Vatican I e Aubert, Il pontificato di

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I motivi del silenzio dei contemporanei, su cui torneremo, sono immediatamente comprensibili. Maiora premunt. A Pio IX ed alla maggioranza dei padri premeva in prima istanza la definizione del primato e dell’infallibilità del pontefice di Roma, da cui ovviamente derivavano sia la ripresa dell’iniziativa della curia che la sconfitta delle temibili spinte autonomistiche interne alla Chiesa, espresse con più vigore da settori dei vescovi di alcuni paesi occidentali;4 risolta tale questione, con una spaccatura consistente all’interno del corpo conciliare che avrà conseguenze ben oltre la scadenza ecumenica, gli altri punti all’ordine del giorno – tra i quali questo non sembra certo il più cogente – possono essere agevolmente rimandati sine die, senza che la vita della Chiesa ne risenta eccessivamente. Malgrado i suoi risultati siano quindi nell’immediato pressoché nulli, la commissione riveste comunque un’importanza significativa poiché, raccogliendo dubbi e perplessità interni ed esterni agli ambienti di curia, rappresenta il momento di riflessione più completo e articolato sulla censura ecclesiastica, sulle modalità e l’efficacia della sua azione nel mondo cattolico, attraversato al contempo dalle inquietudini delle chiese orientali e dalle aperture alla modernità di talune diocesi d’occidente. Non è un caso, come vedremo, che le questioni additate dalla commissione costituiranno la base, a distanza di quasi un trentennio, della riforma delle regole operata da Leone XIII con la costituzione Officiorum ac munerum.5 Poco si sa delle effettive attribuzioni iniziali, desumibili solo da un appunto del prefetto della congregazione dell’Indice, Antonino De Luca, che funge anche da presidente,6 ma che rivestirà anche il ruolo, insieme Pio IX. Stupisce infine il silenzio su questo tema di uno dei più lucidi osservatori del concilio, egli stesso anziano consultore della congregazione dell’Indice, Vincenzo Tizzani nel suo prezioso, ed urticante, diario Il Concilio Vaticano I. 4. Dopo una conversazione con alcuni vescovi contrari all’infallibilità come Darboy di Parigi o l’arcivescovo di Vienna Rauscher, Tizzani commenta nel diario: «sembrava esser l’unico scopo del concilio la infallibilità del papa. Eppure nella bolla di convocazione nello enumerarsi delle materie da trattarsi in concilio, non solo nulla dicevasi della infallibilità papale, ma neanche da lunge facevano allusioni», ibidem, p. 92. 5. Il testo della costituzione apostolica di Leone XIII, Officiorum ac munerum è riprodotto interamente in Boudinhon, La nouvelle législation de l’Index, pp. 11-39, che contiene anche un ampio commento. Cfr. anche Gennari, Della nuova disciplina. Anche questo volume riproduce integralmente, da p. 5 a p. 17, la costituzione apostolica; per il tono didascalico, quest’ultimo testo, la cui prima edizione è pubblicata a Napoli nel 1898, sembra rivolto ai parroci e a chi ha responsabilità pastorali. 6. «Nell’udienza privata concessa al sottoscritto il 17 gennaio 1869 [ma più plausibilmente 1868], Sua Santità si degnò di approvare per la terza volta la lista di Consultori

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ad altri quattro cardinali, di presidente e moderatore delle generali sedute conciliari. La composizione della commissione ci dice forse qualcosa di più: accanto a De Luca, prestigioso rappresentante della diplomazia pontificia, membro di diritto in quanto prefetto della congregazione interessata, oltre ad alcuni nomi quasi obbligati per le funzioni ricoperte – dal già noto intransigente Baillès a Francesco Nardi, che svolgerà le funzioni di segretario verbalizzatore sino a Mariano Spada, Maestro del Sacro Palazzo – si notano alcune presenze prestigiose ed autorevoli, indizio di un’attenzione non rituale a questioni di natura più strettamente filologico/culturale. Ci si riferisce in particolar modo al barnabita Carlo Vercellone, esperto di studi filologici e biblici,7 al polacco Piotr Semenenko, conoscitore del dibattito filosofico contemporaneo8 o ancora, ed è forse la presenza politicamente più controversa, al canonico Guglielmo Audisio, noto per le sue aperture liberali e per le tendenze schiettamente conciliatoriste, che gli varranno successivamente una condanna del Sant’Uffizio.9 Sin qui, comunque, si tratta di scelte significative certo, ma tutte all’interno del foltissimo corpo dei consultori dell’Indice; ad esse, lo stesso pontefice aggiunge di sua volontà il gesuita Johannes Bollig, della congregazione di Propaganda Fide, docente di sanscrito e di arabistica, confermando in tal modo l’interesse del concilio per le questioni che si più sopra notati, e ingiunse il proseguimento dei lavori intorno alla revisione delle Regole dell’Indice, e alla preparazione di una nova ed emendata Redazione del medesimo, dal quale si dovranno espungere que’ libri che per le mutate circostanze de’ tempi non meritano ora mai censura», in ACDF, Index, Cause Celebri, vol VIII, I. Su De Luca si veda la voce di Monsagrati, De Luca, Antonino, in DBI. 7. Su Vercellone, oltre la voce in Prosopographie, II, pp. 1539-1546, si veda anche Fiorani, Semeria romano. Di lui si ricordano in particolare gli studi filologici sui testi della Vulgata. Suo anche un giudizio assolutorio su Gioberti, come ricorda Pagano, Carlo Vercellone. 8. Cfr. Prosopographie, II, pp. 1361-1365. Dell’ordine dei Resurrezionisti, fu professore di Teologia al Collegio Romano e rettore del Collegio Polacco. Suoi alcuni pareri su Renan, Froschammer e La psicologia come scienza positiva di Roberto Ardigò. 9. Cfr. Corvino, Audisio, Guglielmo, in DBI. Fondatore dell’«Armonia» di Torino, si allontana progressivamente dalle posizioni intransigenti di don Margotti, collaborando successivamente agli «Annali cattolici», divenuti poi «Rivista Universale»; vicino alle posizioni rosminiane, sospettato di simpatie liberali, pubblica a Firenze un corposo trattato nel 1876 Della società politica e religiosa rispetto al secolo decimonono favorevole alla conciliazione tra Stato e Chiesa. Condannato per tale opera dal Sant’Uffizio con decreto dell’aprile 1877, si sottomette come Rosmini al volere papale, conducendo una vita ritirata sino alla morte avvenuta nel 1882.

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dibattono all’interno delle chiese del vicino e dell’estremo oriente, ed il canonico Wilhelm Molitor, segretario del vescovo di Spira Nikolaus von Weis.10 Difficile identificare precisi schieramenti nell’ambito di un gruppo così ampio e composito,11 mentre si può affermare che vi erano rappresentate autorevolmente le diverse anime del dibattito curiale, sia quella più aperta alle innovazioni culturali come Vercellone e Montesanto che quelle più rigidamente intransigenti, espresse da Baillès e dallo stesso Nardi. Significativo poi il riferimento frequente nei verbali alle argomentazioni del gesuita Giovanni Perrone, anch’egli consultore dell’Indice ma non facente parte della commissione, che sembra esercitare, anche per la sua vasta preparazione teologica e per la contiguità con il pontefice, un rilevante ruolo di condizionamento esterno.12 Scartata sin dall’inizio la proposta di Baillès che il proprio volume polemico, La Congregation de l’Index mieux connue et vengée, pubblicato nel 1866, possa costituire la base di discussione su cui elaborare singole proposte13 – bisogna dire, con malcelata insofferenza da parte di tutti – viene al contrario votata all’unanimità l’idea dello stesso De Luca di interpellare preliminarmente tutti i vescovi per ottenere pareri e proposte operative, basate sulla concreta esperienza pastorale. Una volontà di coinvolgimento “democratico” che, tuttavia, si rivelerà difficilmente praticabile anche per la lentezza delle comunicazioni e la volontà dello stesso prefetto di arrivare in tempi rapidi a determinazioni certe.14 In realtà, che i pronunciamenti e le risoluzioni di singoli vescovi o di consessi sinodali abbiano un carattere puramente consultivo e non 10. Paolo Petruzzi lo definisce «uno degli esponenti più in vista dell’ultramontanismo tedesco», Petruzzi, Chiesa e società civile, pp. 77-79. Durante il concilio, riafferma la funzione della Chiesa come fondamento principale dell’ordine sociale. 11. Della commissione facevano anche parte Eusebio da Montesanto, il cappuccino Luigi Puecher Passavalli, arcivescovo di Iconio, l’irlandese Bernardo Smith, il redentorista Francesco Cirino ed il segretario della congregazione Vincenzo Gatti. 12. Su Giovanni Perrone, che partecipa attivamente al dibattito teologico della seconda metà dell’Ottocento contribuendo a definire i dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’infallibilità pontificia, cfr. Boutry, Giovanni Perrone, in Souverain et pontife, pp. 733-734. 13. Seduta del 12 marzo 1868, Appunti del Segr. F. Nardi, in ACDF, Index, Cause Celebri, vol. VIII. 14. In realtà i pareri dei vescovi, spesso espressi collegialmente, arriveranno in forma sparsa e saranno valutati singolarmente, tranne quelli che, saltando la commissione, saranno acclusi come Postulata agli Acta del Concilio.

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possano divenire la base effettiva di discussione di un organo di curia è reso evidente da una delle prime questioni che la commissione deve affrontare: l’obbligatorietà dell’obbedienza alle regole dell’Indice in tutto il mondo cattolico e quindi, in ultima istanza, l’esistenza stessa di una istituzione centrale di censura ecclesiastica. Si tratta, ovviamente, di una questione cruciale, che potrebbe mettere in discussione tutto l’articolato apparato di controllo e che, espressa già in sedi ufficiose, era stata anche dibattuta in alcuni sinodi provinciali, almeno sulla base delle notizie che, pur in forma filtrata, arrivano sul tavolo di lavoro del prefetto Antonino De Luca. Sono già note le perplessità e i dubbi espressi dalla Chiesa gallicana, ma ad esse si aggiungono i forti malumori dei vescovi d’Inghilterra o degli Stati Uniti d’America, mentre arriva dalla diocesi di Treviri la esplicita richiesta, poi pubblicata negli atti del concilio, di abolire definitivamente la congregazione e con essa lo stesso catalogo dei libri proibiti.15 Preso atto delle diverse posizioni emerse nel mondo cattolico, la commissione pone il problema, ma in forma molto rapida decide: Se convenga che il Concilio inculchi novellamente che la proibizione pontificia obbliga tutta la Chiesa […] essendosi sollevati quà e là dei dubbi e delle contraddizioni sulla universale autorità, e forza obbligatoria dell’Indice, questa domanda sembra richiedere una seria disamina. La Commissione unanime risponde affermativamente, cioé ritenere utile che il Concilio di nuovo inculchi essere universalmente obbligatoria la proibizione de’ libri.16

Evidentemente non vi era alcuno spazio, all’interno del dibattito preconciliare, per affrontare una riforma così radicale, tale da inficiare del resto l’insediamento e la stessa prosecuzione dei lavori della commissione. Non per discutere la liceità delle prescrizioni romane in tema di stampa essa era stata istituita, ma solo per aggiornarne e affinarne gli strumenti d’intervento in un momento particolarmente critico per la vita della Chiesa. Così, pur sottolineando con franchezza l’esistenza di perplessità e dubbi provenienti da molte diocesi, anche il documento finale preparato da Nardi riafferma l’obbligo per tutti i fedeli cattolici di uniformarsi senza riserve ai decreti censori. 15. Litterae confluentibus ad Episcopum Treverensum a quibusquam eius diocesis laicis catholicis missae, in Acta et decreta sacrorum conciliorum, pp. 1175. 16. Seduta del 5 maggio 1868, Appunti del Segr. F. Nardi, in ACDF, Index, Cause Celebri, vol. VIII.

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An expediat per Concilium declarationem renovari, librorum damnatorum prohibitionem per hanc S.I. Congregationem editam universos fideles et ubique obligare? Ut huius Consilii capiendi utilitas omnino pateret, mentionem in Conventu Consultores fecerunt de dubiis hinc inde obortis, de discrepantibus Catholicorum Scriptorum hac de re sententiis, praesertim si de Germania, Britanniae Insulis et de foederatis Americae Septentrionalibus regionibus agatur. Quamobrem Consultorum coetus unanimi suffragio censuit, utillimum fore, si Concilium Vaticanum ediceret, universalem vim obligatoriam decretis S.I. Congregationis inesse.17

Superato senza un’approfondita discussione lo scoglio più gravoso, il dibattito si concentra sulle innovazioni da apportare alle regole generali. Tre i temi di maggiore interesse, sui quali il confronto appare più serrato: le pene canoniche, la Bibbia e la sua lettura ed infine la funzione dei vescovi nell’esercizio del controllo censorio. Sul primo tema – le pene da comminare ai trasgressori – bisogna registrare una sostanziale cautela, espressa dalla maggioranza dei consultori, sia nei riguardi di coloro che si accostano alla lettura dei libri proibiti senza gli adeguati permessi, sia nei confronti degli autori cattolici, rei di avere pubblicato opere contrarie alla Chiesa o al suo pastore. A parte il noto Baillès che ripropone la scomunica per tutti, lettori venditori e diffusori di testi condannati, gli altri mostrano grande prudenza, proponendo di adeguare le pene alla gravità della colpa; la scomunica, secondo la proposta finale largamente prevalente, deve essere comminata esclusivamente nei casi di lettura e diffusione di testi condannati «per Summum Pontificem, vel per Concilium Oecumenicum expressis verbis».18 Analogo atteggiamento si registra a proposito delle pene da imporre agli autori cattolici che, pur condannati, non si vogliano sottomettere alle richieste di emendazione provenienti dalle gerarchie ecclesiastiche e dalla 17. De iis, quae in Conventu speciali ad reformandas S.C. Indicis regulas praecipue agebantur, in ACDF, Index, Cause celebri, vol. VIII, p. 6, che contiene anche lo schema di decreto proposto da Nardi per la discussione durante il concilio. 18. Alla Quaestio 3 «Quaenam paene vel censurae servari vel mitigari deberent circa librorum prohibitorum lectionem, detentionem, editionem etc.» si risponde nel verbale finale «Inter quas diversas sententias illa omnino praevaluit: censuram tunc tantummodo adesse, si vel per Summum Pontificem, vel per Concilium Oecumenicum expressis verbis alicuius operis lectioni, detentioni, editioni, venditioni etc. legatur irrogata», De iis, in ACDF, Index, Cause Celebri, vol. VIII, p. 7.

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congregazione.19 Evidentemente, i rifiuti di molti scrittori, – si ricordino i casi molto recenti degli italiani Niccolò Tommaseo o Terenzio Mamiani – pure notoriamente buoni cattolici e fedeli ossequenti delle prescrizioni ecclesiastiche, consigliano prudenza per evitare lacerazioni troppo vistose nel corpo della Chiesa. Maggiore spazio di discussione viene dedicato al contrario alle questioni attinenti alla lettura e alla diffusione della Bibbia, vero nervo scoperto all’interno della Chiesa romana che, com’è noto, ha sempre guardato con sospetto una diffusione indiscriminata della lettura del testo sacro, senza la vigilanza delle gerarchie.20 Alla preoccupazione nei confronti della straordinaria diffusione nei paesi europei delle Bibbie in volgare – a cominciare dalla italiana Bibbia del Diodati – finanziata nell’Ottocento dalle protestanti società bibliche,21 si aggiunge adesso il nuovo pericolo per il proliferare di testi biblici nelle lingue orientali, spesso pubblicati in edizioni arbitrariamente ridotte, decurtate e filologicamente scorrette. Il lamento nei confronti di una situazione che appare sempre più ingovernabile viene espresso da padre Bollig che sottolinea anche, con asprezza, la colpevole arretratezza degli studi biblici in ambito cattolico e la necessità di una loro vigorosa ripresa per evitare la subalternità nei confronti delle più sofisticate e meno frenate ricerche provenienti dal mondo protestante o ebraico. urgenza massima che c’era di riparare ai danni incalcolabili che ne venivano dal circolare da per tutto le bibbie dei protestanti e degli eterodossi. [Bollig] disse che mezzo efficace e radicale sarebbe il rimmettere [sic!] qui in Roma in onore lo studio profondo delle lingue orientali per apparecchiare con gli uomini adatti a pubblicare edizioni corrette e fedeli della Bibbia nella lingua originale e tenere egli per fermo che ove ciò si facesse nello spazio di 10 o 12 anni si otterrebbero tali risultati da poter porre subito la mano all’opera.22

La discussione si prolunga per numerose sedute. I severi divieti di lettura avevano di fatto ritardato lo sviluppo degli studi di carattere storico, esegetico o filologico, costringendo spesso i vescovi cattolici delle 19. Ibidem, pp. 7-8. La commissione decide di non modificare, per questo aspetto, il testo della Sollicita ac provida, sottolineando comunque che le censure e le eventuali condanne riguardano i libri e non le persone. 20. A questo riguardo cfr. Fragnito, La Bibbia al rogo. 21. Per questi temi si rimanda al cap. 2. 22. Seduta del 22 maggio 1868, Appunto del segr. Passavalli, in ACDF, Index, Cause Celebri, vol. VIII.

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terre di più recente evangelizzazione – dagli Stati Uniti alla Cina – in mancanza di altri più adeguati strumenti ad utilizzare per la pastorale quotidiana testi provenienti da differenti culture religiose, o ad autorizzare la pubblicazione di controverse edizioni del testo sacro. È il caso numerose volte citato, ad esempio, del vescovo di Baltimora Francis Patrick Kenrick, che ha autorizzato la pubblicazione di una Bibbia nel 1862, su cui si sono concentrate le critiche degli altri vescovi americani.23 Si tratta di riaprire l’orizzonte degli studi, come viene auspicato autorevolmente in primo luogo da Vercellone, ma al contempo è necessario stabilire regole certe per il futuro. Deve essere concessa a ricercatori ed uomini di scienza la possibilità non solo di accedere ai testi sacri nelle lingue più diverse, ma anche a tutti quegli strumenti – lessici, concordanze – già approntati e trasmessi da tradizioni di studi meno impaurite o represse? E soprattutto quale autorità ecclesiastica ha in ultima analisi il compito di scegliere ed approvare una edizione della Bibbia?24 Solo la Santa Sede o anche i vescovi delle diocesi interessate? Bisogna dire che il confronto su questo argomento all’interno della commissione appare franco e certamente non frenato da rigide pregiudiziali. Ma se sul tema delle ricerche, i consultori si allontanano dalla tradizionale linea intransigente chiedendo per gli studiosi la più ampia facoltà di indagine, aprendo in tal modo finalmente la strada ad una crescita degli studi biblici secondo i rigorosi criteri della scienza moderna, per le versioni della Bibbia la proposta finale ricalca le antiche riserve delle gerarchie cattoliche. Così, nel condannare chiunque si accosti arbitrariamente alle edizioni protestanti del testo biblico, si riafferma la vulgata come base di ogni volgarizzamento futuro che deve in ultima istanza essere approvato soltanto dalla Santa Sede.25 23. Del caso del vescovo di Baltimora, l’irlandese Francis Patrick Kenrick (17961863) si parla in De iis, p. 11. Su questi temi si veda anche Stella, Produzione libraria religiosa, pp. 1-23. 24. «An, et sub quibus conditionibus expediat Episcopis, praesertim in dissitis regionibus, facultatem concedere versiones Bibliorum vulgari lingua exaratas, vel exarandas approbandi, et quaenam regulae statuendae circa adnotationes e probatis auctoribus eruendas, et huiusmodi versionibus adiiciendas? Vel si potius magis consultum videatur soli Summo Pontifici talem facultatem reservare?», De iis, p. 10. 25. «Translationum in lingua vernaculas usum licitum esse vult, dummodo Vulgatae latinae fideliter adhaereant, et opportunis adnotationibus e catholicis piisque viris desumptis, instruantur. Solemnis et definitiva approbatio cuiusque vernaculae tranlationis penes Sanctae Sedis sit», De iis, p. 22.

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L’approvazione delle versioni della Bibbia appare l’unico caso nel quale la commissione, ribadendo la necessità dell’intervento supremo dell’autorità pontificia, pone un limite gerarchico allo spazio di intervento dei vescovi. In realtà, infatti, ciò che colpisce ad una attenta lettura degli atti è il carico complessivo di responsabilità che si propone sia affidato all’autorità vescovile. Mentre la congregazione dell’Indice confessa più o meno apertamente la propria impotenza ad esercitare il controllo su tutte le pubblicazioni – libri opuscoli giornali – che vengono immesse giornalmente sul mercato, ai vescovi viene demandato il compito gravoso non solo di evitare che all’interno della diocesi vengano stampate opere contro la religione cattolica, contro la Chiesa ed il suo pastore ma anche di concedere permessi di lettura ed in ultimo di sviluppare la buona stampa, considerata come l’unico efficace baluardo per la crescita di una sana coscienza cristiana. Su questa linea, i consultori manifestano un accordo unanime. Oltre alle tradizionali funzioni del proprio magistero, i vescovi infatti dovrebbero esercitare in prima istanza una sorta di censura preventiva sui libri «qui fidei vel moribus perniciosi appareant»; nello specifico, secondo tale proposta, essi avrebbero l’obbligo di esaminare per l’eventuale approvazione non solo i libri liturgici, devozionali o di catechesi ma tutte le pubblicazioni di argomento latamente religioso, cioè teologia dogmatica, diritto canonico, storia ecclesiastica «quoties in publicis scholis adhibeantur». A questa già corposa lista di materie da esaminare qualcuno dei consultori vorrebbe aggiungere anche le scienze filosofiche, ma per motivi di opportunità tale parere viene accantonato.26 Più complessa l’azione di condanna nei confronti dei libri che si considerano genericamente dannosi o immorali.27 In questo caso, si cerca di graduare l’intervento dell’autorità vescovile, tenendo conto della personalità 26. «Consultores […] in hanc sententiam venerunt, praeviae approbationi Episcoporum non solum libros liturgicos, precum, indulgentiarum, catechesium etc. subdendos esse, sed eos quoque qui de Theologia dogmatica, vel morali, exegesi, iure canonico, et historia ecclesiastica tractant, quoties in publicis scholis adhibeantur. Discutitur: an etiam libri de philosophicis scientiis agentes huic legi subiici debeant, et maior Consultorum pars negavit. Difficultates etenim hanc praeviam approbationem circa hos libros obtinendi plures animadvertebant», De iis, p. 13. 27. Tra le proposte discusse, quelle provenienti dalle diocesi di Spagna, in particolare Leon, Saragozza e Tarragona, che chiedono l’insediamento in ogni diocesi di una commissione di censura che valuti, con l’aiuto dei laici, i libri perniciosi; Brevi Cenni per mostrare l’utilità di rivedere e modificare le regole della S. C. dell’Indice, Appunto del pref. A. De Luca, in ACDF, Index, Cause Celebri, vol. VIII.

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dello scrittore ed insieme della pericolosità del testo; così, dopo un tentativo di dissuasione dell’autore, il vescovo può e deve intervenire «prompte et directe», lasciando l’intervento della Santa Sede sia ai casi dubbi che a quelli che non abbiano una pericolosità immediata per la salute delle anime. In ultimo, si sollecitano i vescovi a dotarsi di strumenti attraverso i quali comunicare con i fedeli e l’opinione pubblica; bollettini diocesani, fogli volanti, riviste cattoliche possono divenire non solo il mezzo per fare conoscere volontà e prescrizioni del capo della diocesi – secondo il modello già esistente delle lettere pastorali – ma gli strumenti ideali di una nuova alfabetizzazione cattolica. L’insieme di tali proposte, contenute anche nello schema di decreto finale, non perverranno mai alla discussione conciliare e quindi, nella forma in cui sono state descritte, non diverranno operative. Tuttavia, poiché esse costituiscono una condivisa base di discussione per sviluppi futuri, meritano alcune riflessioni. In primo luogo si deve notare che tutto questo complesso di funzioni, insieme repressive e propositive, attribuite ai pastori diocesani rischia di generare quotidianamente un conflitto con le autorità civili nei paesi, e sono molti, dove ormai vige un regime di libertà di stampa. Certo, le parole della congregazione hanno una dimensione planetaria, ma se ad esempio le si adatta al caso italiano si nota come le materie che si pretenderebbe soggette al controllo preventivo dell’autorità vescovile – dal diritto canonico alla storia della Chiesa – sono certamente molto più ampie e numerose di quelle menzionate e concesse dallo statuto albertino che, elencando le opere vincolate a imprimatur ecclesiastico, parla in maniera esplicita soltanto di «bibbie, catechismi, libri liturgici e di preghiera». Quindi, tranne nei casi di una precisa volontà degli editori di accreditarsi presso le autorità religiose per raggiungere il vasto mercato dei fedeli cattolici, richiedendo un permesso non necessario e sostanzialmente pleonastico,28 sembra difficile che il vescovo possa ottenere di esercitare una forma di revisione legalmente non richiesta. 28. Da notare che alcuni dei consultori parlano esplicitamente di rapporti privilegiati degli ambienti ecclesiastici con taluni editori, citando i casi dello svizzero Herder, operante anche in Italia, o della ditta Mame di Tours, i quali possono trarne un consistente vantaggio commerciale (De iis, pp. 13-14). In Italia sono numerosi i casi di editori che volendo, per motivi di schieramento ideologico e per interesse mercantile, ingraziarsi le autorità religiose, richiedono essi stessi i permessi di stampa per opere che statutariamente non lo richiedevano. È il caso, ad esempio, dei fratelli Marietti che nel novembre del 1863 chiedono l’approvazione della curia per pubblicare una riduzione per le scuole dell’opera di Carlo

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Più facile che il suo compito si riduca – come è del resto suggerito tra le pieghe del discorso dei consultori – ad un generico richiamo pastorale ai fedeli, in particolare ai genitori e a tutti coloro che rivestono funzioni educative, perché vigilino attentamente sugli scritti che circolano tra le mani della gioventù. In effetti, nel documento della curia, si ripropone un principio per la Chiesa non derogabile, il diritto alla vigilanza e al controllo, ma al contempo si richiede ai vescovi massima moderazione e cautela. Le invettive o gli anatemi sembrano far parte di un rituale, in parte già archiviato; di fatto, prendendo atto di una realtà politica difficilmente modificabile, da parte delle autorità vaticane si consiglia ai vescovi, ai parroci ed a tutti coloro che sono impegnati nella pastorale quotidiana di evitare inopportuni e non giustificati conflitti e di impegnarsi attivamente soprattutto sul versante della produzione religiosa in modo da contrastare sul campo la diffusione delle opere anticattoliche o semplicemente immorali. Su quest’ultimo tema i consultori si dilungano;29 d’altronde già da tempo, in primo luogo in Francia e poi nel resto d’Europa i cattolici, superando paure e subalternità si erano impegnati capillarmente con una propaganda spicciola ma aggressiva, tesa soprattutto alla riconquista dei ceti meno privilegiati. Sembra consolidarsi quindi – ed è un altro dato rilevante – una tendenza, già evidenziata, che vede uno spostamento del potere e della funzione di controllo dal centro alla periferia, dalla curia romana – sede delle due congregazioni del Sant’Uffizio e dell’Indice – alle singole diocesi. Ai vescovi infatti è demandato il compito di vigilare su tutto ciò che viene stampato diffuso o letto all’interno del territorio di competenza; non solo quindi approvare o condannare libri e giornali, ma anche ammonire gli autori, intrattenere rapporti con gli editori, concedere permessi di lettura, promuovere anche con finanziamenti diretti periodici cattolicamente orientati. Alla curia romana spetta, in questa articolata gerarchia del controllo, la funzione di tribunale di seconda istanza; essa infatti interviene per esaminare le edizioni della Bibbia o di altre opeBotta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, già condannata col donec corrigatur (ACDF, Index, Atti e Documenti 1862-64, 29). 29. «Ubi piae Societates ad bonos libros diffundendos existunt, eas Episcopi dilatari satagant, et ubi adhuc non exstant, institui. Benemeritos auctores, vel editores bonorum librorum vel ephemeridum, debita laude et favore prosequantur, et subsidiis ubi opus sii, vel propriis, vel e charitate fidelium colectis adiuvent», De iis, p. 23.

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re di rilevante contenuto teologico in vista della diffusione, ed anche, come del resto già determinato in precedenza dalla Sollicita ac provida, su richiesta esplicita dell’autore che si ritenga ingiustamente giudicato dall’autorità periferica.30 A questo riguardo, è indispensabile un’ultima riflessione sul contesto nel quale la commissione si appresta a consegnare e discutere i risultati del proprio lavoro. Se è vero che la bozza di decreto, come gli altri scritti elaborati, rappresenta all’interno della curia il più alto punto di equilibrio condiviso sul tema, il conflitto con le successive deliberazioni conciliari appare innegabile. Mentre con la Pastor aeternus si afferma infatti con forza una visione gerarchica della Chiesa di matrice medievale, che ribadendo il primato del vescovo di Roma limita di fatto gli spazi di autonomia dei vescovi «ridotti al rango di semplici funzionari, meri esecutori delle direttive pontificie»31 – e come tale essa fu letta da molti padri conciliari – nello stesso tempo una commissione insediata dal pontefice propone al contrario di affidare ai pastori diocesani la gran parte delle attribuzioni in precedenza affidate agli organi di curia in tema di censura, in ultima analisi il giudizio ed il controllo sulla cultura contemporanea diffusa attraverso la stampa ed i mezzi d’informazione. Certo, questa discrepanza non va enfatizzata come ipotetica svolta in vista di una maggiore democrazia interna. Non si possono mettere sullo stesso piano infatti, ai fini delle conseguenze per la complessiva vita della Chiesa, una deliberazione conciliare, espressa con tutta la solennità del caso, e i risultati di una commissione consultiva, per giunta mai discussi e approvati in via definitiva da una istanza superiore. E del resto, se è vero che con il Sillabo e la Quanta Cura Pio IX aveva provveduto a definire con chiarezza gli errori moderni e le deviazioni dottrinarie, ai vescovi restava di fatto un assai esiguo margine di manovra per giudicare testi e correnti di pensiero attuali. Pure, quegli appunti – sia pure informali – sono l’indizio di un nuovo orientamento all’interno delle stanze vaticane e probabilmente l’inizio di un processo inarrestabile che porterà progressivamente alla definitiva abolizione dell’Indice. 30. «Supremum vero de quibuslibet libris iudicium semper apud S. Sedem maneat, quae iis sapientioribus modis procedet, qui diversis temporum, locorum, et personarum adiunctis melius convenient. A iudicio Episcoporum libros proscribentium ad S. Sedem appellandi ius auctoribus integrum sit», De iis, p. 20. 31. Cfr. Martina, Pio IX, p. 169.

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1. La preparazione della riforma. L’Officiorum ac munerum In realtà, oltre alla commissione conciliare, altre autorevoli voci dall’interno della Chiesa chiedono con forza che il concilio prenda atto dei mutamenti radicali avvenuti in ambito sociale e politico e si esprima in maniera esplicita per una revisione radicale della disciplina in materia di censura. Si tratta di un nutrito gruppo di vescovi francesi e tedeschi che, evitando di passare attraverso un organo curiale come la commissione – che avrebbe potuto edulcorare le loro lagnanze, stemperandone la portata – mandano direttamente le loro pressanti richieste al consesso ecumenico. Ancora una volta, nessuno richiede un’abolizione definitiva, ma i due documenti, regolarmente pubblicati tra i Postulata negli atti del concilio, usano accenti incredibilmente simili nel descrivere gli scrupoli e il disagio dei buoni cattolici di fronte alle inattuali – e inattuabili – prescrizioni dell’Indice. Perlegenti cuique regulas Indicis librorum prohibitorum, quae generales dicuntur, facile, ut videtur, apparebit, ex illis regulas multas […] nunc, statu societatis humanae, maxime vero rei litterariae, ubique et radicitus mutato, partim iam sat inutiles, partim observatu maxime difficiles, aliquas etiam impossibiles evasisse. Inde fit, ut catholicorum coscientiae plusquam aequum esse graventur, scrupulis innumeris anxientur, gravissimaeque exponantur tentationi leges praesenti rerum statui ita parum accomodatas praetermittendi.32

Il vocabolo “ansia” nelle sue varie declinazioni ricorre spesso nelle carte vescovili del tempo, documentando efficacemente lo stato d’animo di molti cattolici, stretti tra le rigide direttive ecclesiastiche e le attrattive della secolarizzazione. Ma certo, se i presuli si preoccupano per le inquietudini dei fedeli più osservanti, sono maggiormente allarmati per la frattura ormai sempre più grave con i settori avanzati della cultura contemporanea e della stessa opinione cattolica laica. Il grido d’allarme non suscita tuttavia una risposta immediata. Nei concitati anni che seguono il Concilio Vaticano I, i nuovi e sconvolgenti 32. Postulata a pluribus galliarum episcopis, in Acta et decreta sacrorum conciliorum, p. 843-844; il corsivo è mio. Il documento continua affermando la necessità e l’urgenza («necesse et urgens esset») di una riforma che si adegui ai nuovi tempi. Preoccupazione viene espressa anche nei confronti delle condanne delle opere di autori cattolici, troppo spesso sanzionati senza un reale confronto. Analoghe preoccupazioni emergono dai Postulata complurium Germaniae episcoporum […], in Acta et decreta sacrorum conciliorum, p. 874.

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scenari politici in Europa – non solo la caduta del residuo stato del papa, ma anche la rivolta della Comune e la nascita della terza repubblica in Francia o gli aggressivi orientamenti della politica prussiana – sembrano ingessare il dibattito all’interno della curia, impedendo che vengano alla luce in forma esplicita anche quei progetti di riforma della censura ecclesiastica elaborati in precedenza. Difficile anche solo ipotizzare una radicale correzione delle regole dell’Indice nel momento in cui la Chiesa romana appare sotto scacco, sia nella sede stessa del suo potere millenario che in Francia o nell’impero prussiano, dove il KulturKampf riduce progressivamente gli spazi di intervento ecclesiastico, dando inizio ad una battaglia culturale fortemente intrisa di toni anticlericali. Solo a distanza di due decenni dalla fine del pontificato di Pio IX, con un nuovo pontefice che mostra una maggiore attenzione e una nuova sensibilità nei confronti delle ragioni della cultura e dell’indagine scientifica,33 sembrano maturarsi i tempi per una riforma dell’Indice, che tenga conto in certa misura delle doglianze e dei malumori che si agitano ormai da tempo anche all’interno del mondo cattolico. L’Officiorum ac munerum, promulgata da Leone XIII nel gennaio del 1897, rappresenta l’ultimo consistente progetto di riforma organica della censura ecclesiastica e delle sue storiche istituzioni. Dopo di essa infatti a distanza di pochi anni, nel 1917 un altro papa, Benedetto XV, abolirà definitivamente la congregazione dell’Indice, fondata sin dal 1571, affidandone tutte le attribuzioni alla suprema congregazione del Sant’Uffizio, custode tradizionale dell’ortodossia cattolica.34 Un atto che, ufficialmente motivato dalla sovrapposizione delle funzioni e dalla necessità di uno snellimento degli uffici, segna di fatto un mutamento di prospettiva nell’azione censoria e insieme una nuova dislocazione dei poteri interni alla curia; 33. Com’è noto, Leone XIII dimostra sin dall’inizio del suo pontificato grande apertura nei confronti delle esigenze degli studiosi e degli uomini di scienza; del 1880 è infatti l’apertura dell’Archivio segreto vaticano, mentre egli stesso si fa promotore dello sviluppo degli studi di esegesi biblica con l’enciclica Providentissimus Deus del 1893 e la creazione nel 1901 di una Pontificia Commissione Biblica. Sull’attività di Leone XIII cfr. Malgeri, Leone XIII, in DBI; Soderini, Il pontificato di Leone XIII. 34. Nel Motu proprio del 22 marzo 1917, De attribuenda Sancto Officio Censura Librorum et poenitentiariae Apostolicae concessione Indulgentiarum si legge: «Quod fuit usque adhuc proprium munus S. Congregationis Indicis, erit posthac Sanctii Officii de libris ceterisque scriptis censuram facere» (Acta Apostolicae Sedis, p. 167). Si veda su questo atto Bernareggi, La congregazione dell’Indice.

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vanificata la pretesa di un controllo su tutti i campi del sapere, emerge più nettamente la preminenza del ruolo del Sant’Uffizio, a cui viene affidato non solo il compito della vigilanza sulla dottrina, sul “depositum fidei” ma più in generale la definizione degli orientamenti della Chiesa romana nei confronti delle correnti filosofiche e culturali contemporanee, come accadrà con il modernismo e più ancora con il neoidealismo italiano.35 Con la costituzione Officiorum, al contrario, siamo ancora del tutto all’interno dell’impalcatura tradizionale disegnata in epoca controriformista, né appare in alcun modo una volontà di rottura. Tuttavia l’intervento leonino, per i principi che lo ispirano e la consapevolezza manifestata, si potrebbe definire la riforma dell’Indice all’epoca della libertà di stampa; non certo perché sposi le ragioni dei liberali, ma perché mostrando un sano spirito pragmatico, prende atto in maniera esplicita della nuova realtà politica in cui la Chiesa cattolica si trova ad operare alle soglie del XX secolo e si sforza di adattarvi prescrizioni e divieti, senza arretramenti dottrinari ma anche senza accorati o vocianti anatemi.36 Il preambolo della costituzione apostolica descrive con chiarezza l’ambito nel quale si vuole collocare l’azione del pontefice. Il nodo centrale resta il rapporto con i governi degli stati sovrani. Nei secoli passati l’accordo tra il Trono e l’Altare, anzi – come recita il testo leonino – l’accettazione di una legge eterna a cui si sono uniformate anche le prescrizioni e i divieti delle autorità civili in vista del bene comune, ha garantito ordine sociale e stabilità politica. Il pontefice constata la rottura di questo accordo ma – diversamente dal suo predecessore – non attribuisce responsabilità, né condanna in forma esplicita i nuovi ordinamenti liberali che, cancellando i privilegi in precedenza garantiti alla Chiesa di Roma in tema di censura, hanno consentito a tutti la libera espressione del pensiero. Non sembra esservi nelle parole del papa né la nostalgia per l’antico regime, né la riprovazione per i sistemi attuali; solo la consapevolezza di 35. Sulla funzione del Sant’Uffizio nella condanna del modernismo si veda il volume collettaneo «In Wilder Zügellaser Jagd Nacht Neuem»; e Bedeschi, La curia romana. Per le condanne all’Indice successive all’abolizione della congregazione si veda Verucci, Idealisti all’Indice. 36. La stessa moderazione ispira del resto l’enciclica Libertas del 20 giugno 1888, che tratta anche della libertà di stampa, distinguendo tra «supremi e verissimi dettati di natura, che debbono riverirsi qual nobilissimo e comune patrimonio del genere umano» quindi non discutibili e «verità opinabili lasciate da Dio alla discussione degli uomini». Cfr. Enchiridion delle Encicliche 3, p. 461.

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un mutamento radicale per il quale è necessario approntare nuovi e più efficaci strumenti di intervento.37 In questo quadro si colloca anche il riferimento esplicito sia alla commissione che agli altri documenti elaborati in vista del dibattito conciliare, che hanno già avuto il merito di indicare la necessità improrogabile di un cambiamento ed i contenuti da modificare. Praeterea, propinquo jam Concilio magno Vaticano, doctis viris, ad argumenta paranda delectis, id negotium dedit, ut expenderent atque aestimarent Regulas Indicis universas judiciumque ferrent, quid de iis facto opus esset. Illi commutandas, consentientibus sententiis, judicavere. Idem se et sentire et petere a Concilio plurimi ex Patribus aperte profitebant. Episcoporum Galliae extant hac de re litterae, quarum sententia est, necesse est et sine cunctatione faciendum, ut illae Regulae et universae res Indicis novo prorsus modo nostrae aetati melius attemperato et observatu faciliori instaurarentur. Ideo eo tempore judicium fuit Episcoporum Germaniae, plane petentium, ut Regulas Indicis recenti revisioni et redactioni submittantur. Quibus Episcopi concinunt ex Italia aliisque e regionibus complures.38

Sono passati solo trent’anni, ma sembrano lontanissimi i tempi nei quali Jacques Marie Joseph Baillés accusava di eresia giansenista quei vescovi francesi che osavano mettere in dubbio l’adesione alle regole dell’Indice. Adesso le richieste di mutamento che provengono dalle più diverse regioni del mondo cattolico sono definite ampiamente legittime, tanto da meritare una risposta ispirata dalla materna ed amorevole sollecitudine della Chiesa.39 Ma quali sono le novità delle linee direttive di questo progetto di riforma e quali effetti producono? In primo luogo, come sottolineano i commentatori, si passa sempre più da una condanna singulatim cioè del singolo testo valutato e nominato singolarmente, ad una condanna per categorie. In effetti, già nelle precedenti disposizioni pontificie contenute nelle regole dell’Indice, vi erano numerose serie di libri condannati globalmente per il loro contenuto pericoloso, a cominciare dalle versioni non autorizzate del37. «Quae postea consecuta sunt, nemo nescit. Videlicet cum adjuncta rerum atque hominum sensim mutavisset dies, fecit id Ecclesia prudenter more suo, quod perspecta natura temporum, magis expedire atque utile esse hominum saluti videtur», Boudhinon, La nouvelle législation de l’Index, p. 14. 38. Ibidem, p. 15. 39. Si dice esplicitamente: «sane aequa postulant et cum materna Ecclesiae sanctae caritate convenientia», ibidem, p. 15.

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la Sacra Scrittura o dai libri di magia, per i quali quindi non si richiedeva un esame specifico della congregazione. Nella consapevolezza dell’impossibilità di esaminare singolarmente tutte le opere sospette l’Officiorum, pur mantenendo in vigore il catalogo, amplia massicciamente le categorie di libri proibiti, inserendo nuove tipologie di testi ritenuti perniciosi, per lo più legati all’attualità politica;40 si va dai testi che recano offesa alla Chiesa e alla gerarchia ecclesiastica, con chiaro riferimento ai libelli anticlericali e antipapali, ai libri che affermano la liceità del duello, del suicidio o del divorzio, «vere piaghe de’ tempi nostri».41 Tra le categorie inserite per la prima volta compaiono anche quei giornali, fogli ed opuscoli periodici che, con piena consapevolezza, «religionem aut bonos mores impetunt». Si tratta della novità più vistosa, ed insieme quella sulla quale convergeranno discussioni e contrasti anche tra gli stessi commentatori dell’Officiorum;42 e se taluni di questi tentano, ai fini dell’insegnamento pastorale, di identificare i singoli periodici condannabili sulla base degli schieramenti ideologici o degli attuali orientamenti politici,43 altri sottolineano l’arbitrarietà di prescrizioni che, non potendosi in alcun modo basare su tradizioni e prassi consolidate, rischiano di essere facilmente contestate da coloro stessi che dovrebbero rispettarle.44 La verità è che l’ampliamento delle categorie del proibito lascia di fatto al singolo lettore il potere discrezionale di decidere se il testo – o ancor più il periodico – eventualmente acquistato o preso in lettura debba essere 40. Come spiega il commentatore Gennari: «Non tutti questi [libri] possono esaminarsi giuridicamente ed inserirsi nell’Indice. A tal difetto soccorrono le così dette Regole dell’Indice, le quali proscrivono in genere quelle categorie di libri che non si devono leggere dai fedeli, e questi libri, tuttoché non nominati in individuo, devono considerarsi come inseriti nell’Indice», Gennari, Della nuova disciplina, p. 20. 41. L’espressione è ancora di Gennari, ibidem, p. 53. 42. Tale norma sarà naturalmente difesa dalla «Civiltà Cattolica» in una recensione all’opera di Gennari, «C.C.», s. XVII, XLIX/1 (1898), pp. 449-456. 43. È Gennari a fare una distinzione tra periodici cattolici e periodici liberali: «gli uni che stanno colla Chiesa e col romano pontefice: gli altri che seguono i dettami della massoneria e della rivoluzione. È chiaro che questi ultimi […] vanno inclusi nella proibizione, essendo manifesta la guerra che alla vera religione sta facendo la massoneria», Gennari, Della nuova disciplina, p. 74. Per contrasto lo stesso Gennari fa una distinzione assai artificiosa tra coloro che leggono «fogli volanti» e coloro che leggono giornali in «fascicoli da formarne giusti volumi», ibidem, p. 121. 44. Tale preoccupazione è espressa chiaramente da Boudhinon, La nouvelle législation de l’Index, p. 184 e sgg.

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inserito tra le opere condannate. Proprio per bilanciare questo effetto, e ridurre l’ampiezza delle scelte dei singoli fedeli in un momento di grande espansione della domanda di cultura, viene potenziata nell’Officiorum la responsabilità dei vescovi; in linea con le tendenze già espresse nella commissione conciliare, alle autorità ecclesiastiche locali viene infatti affidato il compito di vigilare sulla produzione dei libri e dei giornali nella diocesi e di denunciarne attivamente la pericolosità, impedendone con savio discernimento la diffusione presso i fedeli.45 Anche per Leone XIII quindi dovranno essere i vescovi, in prima istanza, a valutare e a decidere sulla nocività delle opere, ad ammonire librai ed editori sull’importanza del loro ruolo, a comminare le pene ed infine a rilasciare i permessi di lettura, tenendo conto delle esigenze degli studiosi e dei progressi delle scienze.46 Non è ovviamente un’innovazione da poco. Spostando gradualmente il potere censorio dagli organi della curia ai capi delle diocesi, l’attenzione alla lettura diventa, secondo l’Officiorum, parte consistente della pastorale quotidiana e verrà gestita autonomamente dalle autorità vescovili con i mezzi e le modalità da esse ritenuti opportuni. Questa scelta, auspicata da molti presuli soprattutto laddove si sono affermati i nuovi ordinamenti liberali e quindi un più ampio accesso all’informazione e alla cultura, porterà inevitabilmente all’estinguersi del sotterraneo conflitto con i ceti dirigenti intellettuali e con l’opinione pubblica locale e all’apertura di un libero confronto civile; più facile appare, come avviene ormai in molti stati europei, cercare di difendere le ragioni della Chiesa e della religione cattolica attraverso le efficaci armi della persuasione e del consenso. 2. Un nuovo Indice L’Officiorum ac munerum non è l’unico provvedimento di Leone XIII che interviene a modificare l’assetto della censura romana. Il pontefice in45. «Ordinarii, etiam Delegati Sedis Apostolicae, libros, aliaque scripta noxia in sua Diocesi edita vel diffusa proscribere, et e manibus fidelium auferre studeant», ibidem, p. 30. 46. Sulle pene, spiega autorevolmente la «Civiltà Cattolica» che oltre alla scomunica comminata dal Papa: «Per tutte le altre trasgressioni […] le quali pur devono ritenersi oggettivamente colpe gravi, il papa ha tolto ogni tassazione concreta di pena, rimettendo ai Vescovi la cura di ammonire i trasgressori, e di procedere ove fosse conveniente ed opportuno, alle pene canoniche», Della Nuova disciplina, in «C.C.», p. 455. Pone l’accento sulla importanza della funzione dei vescovi Periés, L’Index. Commentaire.

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fatti abroga anche in modo definitivo tutte le disposizioni dei precedenti capi della Chiesa, normalmente pubblicate e facenti parte organica dell’Index librorum prohibitorum, confermando solo la validità della Sollicita ac provida di Benedetto XIV che riguarda più direttamente il rapporto con gli autori e le garanzie concesse agli scrittori cattolici. Scompaiono quindi le regole tridentine, come le Osservazioni sulla regola IV di Clemente VIII, precedentemente parte organica dell’Indice;47 una scelta in vista di una semplificazione delle norme, per evitare quelle gravi incertezze e confusioni nella loro attuazione, che si erano spesso verificate nell’arco dei secoli. Alle due costituzioni, che rappresentano i testi basilari su cui si regolerà da ora in poi la censura romana, è necessario comunque aggiungere un nuovo catalogo dei libri proibiti, un nuovo indice che rispecchi le novità emerse nell’Officiorum ed al contempo sia emendato dai numerosi errori accumulati nel tempo. C’è da dire che, come hanno già evidenziato i recenti studi sull’argomento, la redazione di un Indice è questione molto più complessa e ardua della scrittura di una costituzione apostolica; non a caso gli indici spesso vengono pubblicati dopo anni dalla promulgazione delle nuove disposizioni pontificie. Anche in questo caso, dalla data di emanazione della Officiorum – 25 gennaio 1897 – alla pubblicazione del nuovo Indice, passano ben tre anni. Ma in verità la storia della sua compilazione è molto più tormentata e complessa e comincia molti anni prima; ripercorrerne le tappe può essere utile per verificare se esista una corrispondenza tra le problematiche già emerse nelle varie sedi e la nuova redazione, se e in quale misura quindi il nuovo catalogo rispecchi le volontà espresse nella costituzione apostolica e le esigenze di mutamento del mondo cattolico. Già tra gli esponenti della commissione conciliare, consultori ma anche esperti studiosi, si era palesata la piena consapevolezza dei gravi errori presenti nel catalogo e la necessità di una revisione che elimini titoli ormai ritenuti innocui dai più: Praeterea negari nequibat ipsum librorum prohibitorum catalogum correctione aliqua indigere, tum quod nonnulli libri falso inscripti legantur; tum 47. Si tratta delle Regulae Indicis Sacrosanctae synodi tridentinae jussu editae e delle Observationes ad regulam quartam et nonam Clementis papae VIII jussu factae. Sull’evoluzione degli indici tra Sei e Settecento sul piano strutturale e catalografico si veda Rebellato, La fabbrica dei divieti, che parla anche della preparazione della Sollicita ac provida (pp. 198-230). Su questo tema cfr. anche Delpiano, Il governo della lettura.

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quod alii omnimoda oblivione obruti, vel etiam prorsus depertiti sunt; alii demum nunc temporis penitus innocui ibidem recenseantur, quos omittere prudentior videretur.48

Consapevolezza non nuova, visto che più di un secolo prima durante il pontificato di Lambertini si era provveduto alla correzione delle mende più gravi.49 Tuttavia, per i motivi già noti, anche la redazione del nuovo catalogo, come la riforma delle regole generali, resta solo un auspicio dei consultori. A distanza di pochi anni, sarà un editore di Roma a sollevare il problema. In una lettera inviata nell’agosto del 1872 al segretario dell’Indice Vincenzo Gatti, il direttore della Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide a nome del gestore Marietti, chiede il permesso di pubblicare «una nuova edizione ufficiale, introducendovi quelle emende, variazioni ed aggiunte che saranno necessarie per completare questo importantissimo lavoro».50 Pietro Marietti, figlio dell’editore torinese Giacinto Marietti uomo di stretta osservanza religiosa e di rigida ortodossia, legato agli ambienti della curia romana, era stato chiamato sin dal 1865 dallo stesso Pio IX a gestire la prestigiosa Tipografia di Propaganda Fide, specializzata nelle pubblicazioni ad uso delle missioni. Ovvio che, con la caduta di Roma e la privatizzazione della Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, tradizionale editrice di tutti gli atti ufficiali della curia,51 l’editore si senta legittimato a ricoprire il ruolo di stampatore privilegiato della Santa Sede, curandone tutte le pubblicazioni, tra cui anche l’Index librorum prohibitorum. La richiesta trova subito udienza e consenso presso Gatti, che del resto aveva fatto parte pochi anni prima della commissione conciliare, e che si dimostra pienamente consapevole delle problematiche suscitate da una eventuale nuova pubblicazione.52 C’è prima di tutto bisogno di fare ordi48. De iis, p. 4. 49. Rebellato, La fabbrica dei divieti, p. 228-230. 50. Si tratta di una lettera a stampa del 24 agosto 1872, firmata dal sig. Melandri, direttore ed amministratore della Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide, conservata in ACDF, Index, Protocolli 1870-1872, 102; copia di una lettera manoscritta in ACDF, Index, Protocolli 1870-1872, 130. Il corsivo è nel testo. 51. Dopo il 20 settembre, la Stamperia della Camera Apostolica rimane nelle mani dell’appaltatore Salviucci, che lavorerà soprattutto con le committenze del comune di Roma. Sulle dinamiche editoriali nella capitale si veda Palazzolo, L’editoria romana. 52. Lettera del Segretario della Cong. dell’Indice: Progetto di una nuova edizione officiale dell’Indice de’ Libri proibiti, 30 agosto 1872, in ACDF, Index, Protocolli 1870-72, 102. Si tratta di una lettera a stampa firmata da Vincenzo Gatti.

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ne nelle molte edizioni dell’Indice già esistenti; mentre l’ultimo catalogo ufficiale pubblicato dalla Stamperia della Camera Apostolica e redatto dal segretario Tommaso Antonino Degola risale infatti al 1841, in circa trent’anni sono uscite sul mercato numerose edizioni dell’Indice, pubblicate da diverse stamperie di Napoli Mondovì o di altre città d’Italia senza il controllo delle istituzioni ecclesiastiche centrali.53 Evidentemente, era un affare pubblicare l’elenco dei libri proibiti dalla Chiesa, richiesto probabilmente da molti ingenui e sprovveduti parroci di provincia, desiderosi di contrastare sul campo la propaganda di protestanti e anticlericali. Ma, oltre a questo, Gatti si domanda se da parte della curia non sia necessario intervenire in maniera più drastica ed incisiva, sia operando con opportune correzioni nei casi di vistosi errori bibliografici sia eliminando i libri «che per la mutazione de’ tempi o pel progresso delle scienze naturali» non sono ritenuti più pericolosi. La domanda è pleonastica; anche al pur moderatissimo Gatti è evidente che non è più rinviabile una riforma del catalogo, che espunga definitivamente dall’intero corpus del proibito quei testi che, per la bellezza dello stile letterario o sulla base delle nuove acquisizioni della scienza, sono ritenuti ormai da studiosi ed eruditi, ma anche dalla pubblica opinione, classici del sapere. Malgrado le sollecitazioni del segretario, la nuova edizione dell’indice, pubblicata nel 1881 dalla Tipografia di Propaganda, non contiene alcuna innovazione e mantiene inalterata sia la struttura tradizionale che il catalogo dei divieti.54 Ma a questo punto, un nuovo e significativo stimolo ad una drastica revisione viene non dagli ambienti curiali, troppo lenti forse nel passare dalla consapevolezza dei problemi alle decisioni operative, ma dalla pubblicazione dal 1883 di un’opera fortemente critica nei confronti dell’azione censoria della Chiesa romana, il monumentale lavoro in più volumi Der Index der verbotenen Bücher di Franz Heinrich Reusch, già 53. In realtà nel 1861 era stata pubblicata dalla Stamperia della Reverenda Camera Apostolica una ristampa che conteneva un’appendice con le proibizioni sino al 1855. Successivamente, vi erano state anche altre pubblicazioni che, pur contenendo l’imprimatur vescovile, non potevano dirsi ufficiali; tali ad esempio l’Index pubblicato a Napoli nel 1862 dal sacerdote Giuseppe Perella con la committenza del vescovo partenopeo, o altre stampate a Mondovì dallo stampatore vescovile Pietro Rossi. Da notare che Gatti si dimostra anche preoccupato per la carenza di strumenti di informazione rimasti in mano alla curia: afferma infatti che «i decreti dall’invasione al dì d’oggi non vennero, né vengono pubblicati nella forma consueta: e non s’è peranco stabilito un modo che abbia carattere officiale». 54. Index librorum prohibitorum Sanctissimi Domini Nostri Leonis XIII.

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scomunicato nel 1872 per l’opposizione all’infallibilità pontificia, denunciato alla congregazione nel 1885.55 In effetti la ricerca di Reusch, anche se non è basata sugli atti della curia, evidenzia tutta l’approssimazione con cui per secoli si è lavorato all’interno delle stanze dell’Indice, approssimazione tanto più colpevole in quanto si è ammantata di rigore e intransigente difesa dell’ortodossia cattolica. Se quindi, come si è avuto modo di mettere in luce, sin dalla fine degli anni sessanta era chiaro a tutti, consultori prelati e uomini di curia, l’improrogabile necessità di un intervento radicale sul catalogo, la puntuale opera del “vecchio cattolico”, che denuncia senza infingimenti errori palesi e colpevoli omissioni, impone al lavoro di revisione una improvvisa accelerazione.56 In tale quadro la risposta a Reusch diviene parte della più generale e complessa iniziativa di riforma di Leone XIII e, come già ai tempi di papa Benedetto XIV, la costituzione pontificia stabilisce la cornice di riferimento in cui si colloca anche il nuovo catalogo. Non è un caso infatti che nel preambolo al nuovo indice dei libri proibiti, redatto da Thomas Esser, neonominato ed ultimo segretario della congregazione,57 si faccia esplicitamente allusione ai principi che, secondo il pontefice, dovranno guidare tutti coloro che si apprestano al lavoro di revisione; temperare la severità delle antiche regole ed al contempo adeguare ai nuovi tempi l’intera ratio dell’indice.58 55. Reusch, Der Index der Verbotenen Bücher. Sull’erudito tedesco, cfr. McCuaig, Franz Heinrich Reusch, che definisce l’opera «uno dei capolavori della storiografia ecclesiastica tedesca» (p. 570). Anche il Reusch incorre in alcuni errori; ad esempio attribuisce le edizioni dell’Index di Monteregali, antico nome di Mondovì, alla cittadina siciliana di Monreale nella quale non vi è mai stata un’edizione dell’Indice; cfr. Reusch, Der Index der Verbotenen Bücher, p. 879. 56. A questo riguardo si veda Wolf, Storia dell’Indice, pp. 199-214, che ricostruisce puntigliosamente le reazioni dei censori all’opera di Reusch e le modalità della revisione dell’Indice che sarà pubblicato nel 1900. In realtà Wolf enfatizza eccessivamente il ruolo del lavoro di Reusch, come se la redazione del nuovo indice leonino fosse esclusivamente una conseguenza delle critiche dell’erudito tedesco, mentre misconosce e ignora di fatto sia tutto il complesso lavoro preparatorio all’interno e all’esterno della curia che lo stretto rapporto tra la riforma dell’Officiorum e le modifiche dell’Indice. Del resto della riforma di papa Pecci, Wolf mette in luce esclusivamente le novità del catalogo, la cui revisione attribuisce solo all’opera di studiosi tedeschi, mentre non ne analizza ed evidenzia le novità delle linee generali. 57. Sul domenicano Thomas Esser si veda ibidem, pp. 209-211. 58. Index librorum prohibitorum Leone XIII. La Praefatio di Esser precede nel catalogo le costituzioni di Leone XIII e di Benedetto XIV (pp. XI-XXIII). Su questo indice

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Una attenta verifica consente di valutare quali siano le effettive novità. Un mutamento in qualche modo più esterno, annunciato da Esser con qualche enfasi, riguarda l’inserimento di tutte le opere già citate nelle appendici all’interno di un unico elenco e l’adeguamento alle norme della più moderna scienza bibliografica; da qui un unico ordinamento alfabetico per cognomi, normalizzando ed uniformando le singole voci, che consente finalmente una rapida ed efficace consultazione del catalogo. All’interno della singola voce poi, i decreti sono ordinati cronologicamente mentre un sistema di rinvii permette un facile accesso alla singola informazione. Sin qui naturalmente siamo di fronte ad un’opera meritoria che ha richiesto da parte di Esser e dei suoi colleghi un esame accurato in numerose biblioteche europee, ma che certo mostra aperture solo formali alle innovazioni della scienza e della cultura moderna. In realtà i cambiamenti rispetto ai precedenti indici sono significativi, e vanno giudicati nel loro complesso per decifrare quali siano, alle soglie del XX secolo, le nuove paure che agitano i sonni dei vertici della Chiesa romana, i moderni pericoli da cui si vogliono difendere e preservare i fedeli cattolici. Certo, dal riordinamento di Esser, possiamo comprendere subito ciò che per le gerarchie non è più fonte di ansia e di pericoli per la fede. Prendendo come riferimento l’indice clementino del 1596, i revisori eliminano tutte le opere condannate prima del 1600 dal catalogo dei libri proibiti, che così contiene solo le singole opere espressamente condannate in epoca successiva.59 Ciò non significa naturalmente ammettere alla lettura le opere notoriamente eretiche pubblicate in precedenza, le quali infatti continuano ad essere escluse dalla lettura come detta il titolo I dell’Officiorum,60 ma consente di eliminare definitivamente un gran numero di titoli, ormai introvabili perché fuori mercato, veri fantasmi bibliografici che devono la loro esistenza alla sola menzione nell’indice. si vedano i due articoli di Hilgers, L’Indice dei libri proibiti. Lo svolgimento storico, in «C.C.», s. XVIII, LIII/8 (1902), pp. 20-35, e I dotti e il nuovo Indice, in «C.C.», s. XVIII, LIV/10 (1903), pp. 400-414. 59. A questo riguardo si veda in particolare Index librorum prohibitorum 1600-1966. 60. «Libri apostatarum, haereticorum et quorumcumque scriptorum haeresiam vel schisma propugnantes, aut ipsa religionis fundamenta etcumque evertentes, omnino prohibentur», Boudhinon, La nouvelle législation de l’Index, p. 18. Da notare anche che vengono permessi, ancora secondo l’Officiorum, tutti i libri degli eretici che non sono manifestamente contro la religione e la gerarchia cattolica.

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Naturalmente il problema più grosso si pone per tutte le opere letterarie, com’è noto falcidiate lungo il corso del secolo XVI da una cieca e talvolta ottusa censura, che sono diventate al contrario nel tempo nei vari paesi europei i cardini fondativi dell’identità nazionale, elementi costitutivi di un canone culturale ormai accreditato tanto da divenire oggetto esemplare di studio. Che fare, per citare solo la situazione italiana, dei testi di Boccaccio, Petrarca, Machiavelli, condannati dalla Chiesa ma insegnati ormai quotidianamente nelle scuole di ogni ordine e grado? Svanita l’illusione espurgatoria,61 le gerarchie vaticane prendono atto che quegli autori sono dalla pubblica opinione considerati ormai “classici” da imitare per l’eleganza e l’accuratezza dello stile;62 cancellandone la menzione nell’Indice, ne permettono la lettura invitando però educatori e studiosi alla vigilanza perché non vadano nelle mani della gioventù inesperta, se non con la necessaria prudenza. La condanna indiscriminata cede qui il posto alla sorveglianza dei singoli, dal divieto si passa al controllo nella pratica educativa; e non è certo un caso che in questi anni si svilupperanno numerosissime imprese tipografiche, di ispirazione cattolica, che appronteranno nuovi libri di testo per le scuole nei quali l’espurgazione – che verrà chiamata scelta antologica per le scuole o riduzione ad uso dei fanciulli – diventerà normale e vincente prassi editoriale.63 Oltre ai testi condannati prima del 1600, si eliminano comunque dal catalogo dei libri proibiti altre opere non più considerate pericolose, o perché fuori commercio o perché cadute in disuso. Si tratta in genere di indulgenze, uffici della Vergine, operette agiografiche edite tra Sei e Settecento, 61. A questo riguardo si veda Rozzo, L’espurgazione dei testi letterari. 62. «Libri auctorum, sive antiquorum, sive recentiorum, quos classicos vocant […] propter sermonis elegantiam et proprietatem, iis tantum permittuntur quos officii aut magisterii ratio excusat», brano riportato in Boudhinon, La nouvelle législation de l’Index, p. 21. Da notare che ancora negli anni quaranta dell’Ottocento nella Roma pontificia è reato passibile di arresto detenere, senza esplicita autorizzazione, più di una copia del Decameron di Boccaccio (la vicenda è documentata in ASR, Direzione generale di Polizia, Archivio Segreto, b, 115). Su questo aspetto cfr. [C. Bricarelli], Il nuovo Indice dei libri proibiti, in «C.C.», s. XVIII, LII/1 (1901), p. 574. 63. Un episodio iluminante riguarda i Discorsi sulle deche di Tito Livio di Machiavelli, consigliati dal Ministro Guido Baccelli per la lettura nelle scuole negli anni ottanta. Nel condannare un’edizione Barbera, si consiglia un’altra edizione epurata, curata da Monsignor Bartoli vescovo di Senigallia (ACDF, Index, Protocolli 1881-1884, 6). Sulle case editrici cattoliche si veda in generale Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste. In particolare sulla SEI, cfr. Targhetta, Serenant et illuminant.

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diffuse tra i ceti popolari ma difficilmente conservate nelle biblioteche.64 Per le opere di maggior peso, una menzione particolare meritano le edizioni italiane della Cyclopedia ovvero Dizionario universale delle arti, delle scienze di Ephraim Chambers, già condannata nel 1760 insieme a molte altre opere enciclopediche,65 ma in realtà già allora versione edulcorata ed ortodossa dei saperi settecenteschi, ed ormai in gran parte superata dalle nuove acquisizioni scientifiche e dal dibattito filosofico. Da notare d’altra parte che, mentre vengono espunte queste voci, permettendone la lettura, si continua a vietare sia il ben più acuto e dirompente Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle – di cui è condannata l’Opera Omnia – che l’Encyclopédie nelle sue varie edizioni, segno non solo che la battaglia contro i Lumi non si considera affatto conclusa ma che si mantiene una grande diffidenza nei confronti di un sapere scientifico che non sia guidato dalla fede nella trascendenza. E non è un caso, proprio nel quadro della produzione enciclopedica, che venga mantenuta la recente condanna del Grand Dictionnaire Universel du XIX siècle di Pierre Larousse, considerata pericolosissima poiché la sua grande diffusione tra gli scolari semina scetticismo ed immoralità.66 Le aperture quindi sono poche e timide e talvolta non sempre facili da decodificare, come nel caso della riammissione alla lettura di un testo come Il Paradiso perduto di John Milton; in questo caso probabilmente pesa la rassicurante consapevolezza che il poema, per la sua ampiezza e per la complessa struttura allegorica, sarà letto esclusivamente da studiosi o persone di cultura, ceti privilegiati a cui da tempo la Chiesa cattolica consente ciò che invece continua a negare al volgo e ai giovani. Una vera apertura, la più consistente per i lettori italiani, va sottolineata, ed è la cancellazione della condanna, peraltro molto recente, dell’«Archivio storico italiano», la rivista nata nell’alveo culturale del gabinetto di lettura 64. Si cita per tutte Corona d’oro a Maria Vergine contenente i dodici privilegi che gode in cielo. Aggiuntavi una divota orazione alla passione di Gesù Cristo e le quindici orazioni di S. Brigida, Lucca, Salvatore e Gian Domenico Marescandoli, 1734 (era stata condannata nel 1737). 65. Sulle condanne delle opere enciclopediche ed in particolare delle edizioni italiane di Chambers cfr. Delpiano, Il governo della lettura, pp. 98 e 260 con la relativa bibliografia. 66. Nel parere di Francesco Nardi si parla della «straordinaria irreligiosità e immoralità dell’opera, nella quale al valore scientifico che manca, si supplì largamente con frivolezze contro le cose più sante, con uno scetticismo ributtante in filosofia e con oscenità schifose», ACDF, Index, Protocolli 1872-75, 2, A.

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di Giovan Pietro Vieusseux, destinata nelle esplicite intenzioni del suo fondatore a favorire la crescita di una coscienza storica della nuova nazione italiana.67 Il divieto di lettura non ha certamente impedito la diffusione del periodico in Italia, né ha fermato l’intensa indagine storiografica, condotta con criteri rigorosamente scientifici dal gruppo di intellettuali che aspira a divenire la classe dirigente del nuovo stato italiano. L’eliminazione della condanna appare quindi da parte della curia il riconoscimento unilaterale di una realtà non più modificabile; con lo stato liberale, rafforzatosi nonostante le ipotesi apocalittiche dei clericali intransigenti, e con i suoi ceti più illuminati e moderati è necessario mantenere spazi di dialogo per evitare degenerazioni e laceranti conflitti. A questo punto non ci si può esimere da una riflessione generale sulla riforma dell’Indice di Leone XIII, auspicata da tutti fuori e dentro la Chiesa cattolica e preparata in molte sedi ecclesiastiche sin dalla seconda metà del XIX secolo. Se si misura l’Officiorum, e l’Index da essa ispirato, con le aspettative del mondo moderno e le esigenze dei ceti intellettuali più avanzati non si può che consentire con chi la definisce sostanzialmente una nuova occasione mancata.68 Infatti, malgrado le pressioni di molti vescovi e alcune voci dissonanti interne alla curia, si riafferma il ruolo della congregazione dell’Indice nella definizione del proibito ed al contempo si ribadisce, con una tutto sommato lieve operazione di restauro, la validità dei divieti elencati nel catalogo dei libri proibiti. La Chiesa conferma dunque ancora senza abiure il suo diritto a dire cosa può essere o non essere letto, per la tutela delle anime e la salvaguardia dei buoni costumi. Se invece si guarda alle innovazioni di fondo espresse nei due testi, ci si accorge che non poco è cambiato. In primo luogo, e non è un mutamento irrilevante soprattutto per la situazione italiana, la libertà di stampa non è più il nemico principale da combattere per ripristinare il vecchio ordine, ma una realtà con la quale convivere e nella quale operare con accortezza; se mai, viene condannata la sua degenerazione, in linea del resto con gli ambienti moderati di tutti gli stati europei. 67. Il periodico viene condannato il 5 marzo del 1857. Su questa rivista cfr. Porciani, L’«Archivio Storico Italiano». In generale sulla ricerca storica in Italia si veda Berengo, Cultura e istituzioni nell’ottocento italiano. 68. Si tratta di un giudizio espresso da Herman Schwedt, riportato in Wolf, Storia dell’Indice, p. 212.

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In secondo luogo, come si è avuto modo di sottolineare, l’effettivo controllo della stampa e della lettura passa dalla struttura centrale, la curia, agli organi periferici e cioè i vescovi. Eccettuate le grandi questioni riguardanti il deposito della fede, controllate stabilmente dalla suprema congregazione del Sant’Uffizio, ai pastori diocesani spetta ormai il compito pastorale di vigilare sulle letture dei propri fedeli, impedire che si accostino ad opere immorali o oscene, persuadere alle buone letture. Una innovazione radicale a ben vedere che porterà in pochi anni alla dissoluzione definitiva della congregazione dell’Indice.

Conclusione

Alla fine di questo percorso che comprende circa cinquant’anni di storia italiana, è lecito chiedersi cosa sia cambiato nei rapporti tra Chiesa di Roma e società moderna sul terreno specifico che ci riguarda della libertà di stampa e del controllo della lettura. Se abbiamo fissato come termine a quo della nostra indagine il 1849, anno simbolico che con la svolta intransigente del pontificato di Pio IX e con la riconferma dei diritti di libertà nello stato sabaudo segna l’inizio di un conflitto spesso aspro e dilacerante, il termine ad quem di questa ricerca è la costituzione apostolica Officiorum ac munerum, promulgata da Leone XIII nel gennaio del 1897, che chiude una stagione di aspra contrapposizione, modificando anche dall’interno le strutture ecclesiastiche che sovrintendono al controllo della lettura. Non si vuol dire certo che con questo atto siano state eliminate le ragioni del contrasto, ideologico e politico, o che si inauguri nel nuovo secolo una stagione di concordia e di proficuo dialogo; basti pensare alla grave crisi modernista che, durante il pontificato di Pio X, coinvolgerà drammaticamente anche in Italia i gruppi intellettuali cattolici più aperti e impegnati, costringendoli al silenzio o all’emarginazione dalla comunità ecclesiale. Ciò che appare evidente tuttavia, non solo dal documento pontificio ma soprattutto dalle pratiche diffuse delle gerarchie ecclesiastiche, è che alla fine dell’Ottocento la libertà di stampa è ormai anche per la Chiesa di Roma un dato acquisito; non più quindi obiettivo da combattere con ogni mezzo, non più oggetto di anatemi apocalittici, ma una realtà con cui fare i conti e nella quale operare con lungimiranza per il bene delle anime e soprattutto per la difesa dei sempre più corposi interessi ecclesiastici. In questo quadro si comprende meglio il complesso dell’iniziativa di Leone XIII che, prendendo atto dei mutamenti sociali e delle trasforma-

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zioni già avvenute anche all’interno della Chiesa, sposta l’asse del potere di controllo sulla stampa dalla congregazione dell’Indice, organo centrale della curia attivo sin dalla metà del Cinquecento, ai vescovi affidando a questi ultimi un ruolo primario nell’orientare e dirigere le letture dei fedeli loro affidati. È una sanzione di una funzione già svolta da tempo, come si è largamente avuto modo di notare, che esalta la figura pastorale, maggiormente a contatto con gli umori e le esigenze della popolazione; nei fatti, più che svolgere un effettivo compito di controllo preventivo delle pubblicazioni – richiesto formalmente dallo statuto soltanto per le opere religiose pubblicate nella diocesi – il vescovo allontana i credenti dai pericoli, intrattiene rapporti con gli editori cattolici, sostiene insieme al laicato locale le buone letture. La promozione del ruolo dei prelati diocesani, che interpretando le norme generali contenute nell’Officiorum diventano in sostanza gli arbitri ultimi nella definizione di ciò che è proibito, riduce progressivamente lo spazio di intervento della congregazione dell’Indice, già oggetto di attacchi pesanti nel corso del secolo anche dall’interno del mondo cattolico per la lentezza dei suoi pronunciamenti e la sostanziale inefficacia della sua azione. La scelta di Benedetto XV di abolirla definitivamente nel 1917 affidandone i compiti al Sant’Uffizio sembra quindi già inscritta fatalmente in questo processo. Secondo il disegno delineato dalla curia all’alba del XX secolo, ai vescovi spetta l’incarico del controllo del sapere a stampa che quotidianamente circola tra le mani dei fedeli, mentre alla suprema congregazione è affidata ancora la custodia del “depositum fidei”, la difesa della dottrina cattolica dalle spinte disgregatrici fuori e dentro la Chiesa. Naturalmente al di fuori della curia, c’è ancora chi ritiene che le libertà civili, come figlie del protestantesimo, siano le fonti principali dell’instabilità sociale e della corruzione delle coscienze e contro di esse continua a lottare, sperando in un ritorno all’ordine. Non a caso, ancora ai primi del Novecento, nella «Civiltà Cattolica» appaiono articoli che esaltano la censura preventiva, vagheggiando i tempi nei quali l’accordo fra stati e Chiesa cattolica garantiva il pieno controllo sulla stampa ed impediva la diffusione dei testi pericolosi.1 Ma in realtà anche le posizioni del giornale si sono modificate nell’arco di un cinquantennio e se periodicamente compaiono vaghi accenti nostalgici, i gesuiti hanno ormai ben chiaro che la 1. J. Hilgers, L’Indice dei libri proibiti, in «C.C.», s. XVIII, LIII/8 (1902), pp. 20-35.

Conclusione

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lotta contro le pretese degenerazioni della cultura moderna si conduce più efficacemente con le armi della critica e del giornalismo militante che con quelle della censura, preventiva o repressiva che sia. Un esempio a questo riguardo ci è fornito da alcuni articoli contro la diffusione del romanzo moderno2. È una posizione largamente nota; la lettura dei romanzi contemporanei è stata considerata per secoli fonte di corruzione da parte di educatori e moralisti, e di questa condanna la «Civiltà Cattolica» si è fatta spesso portavoce, offrendo anche ai propri lettori come modello di sana e onesta narrazione i racconti storici di padre Bresciani. Motivando in modo articolato questi giudizi, l’estensore dell’articolo stila una lunghissima lista di proscrizione nella quale compaiono pressoché tutti i narratori italiani e francesi del XIX secolo, dai più famosi Dumas e Balzac a Feuillet, Ohnet, Anatole France per la Francia agli italiani Verga, Invernizio, Rovetta, D’Annunzio e Fogazzaro. A questi si aggiungono alcuni autori inglesi, come Dickens, Thackeray, Brontë – pochi, data la ben nota scarsa dimestichezza dei prelati romani con la lingua e la cultura inglese – e persino alcuni russi, come Tolstoj e Dostojeswskji. Certo colpisce vedere accomunati nell’esecrazione e nella condanna scrittori tanto diversi; basti citare il caso di Giovanni Verga accostato alla narratrice per servette Carolina Invernizio. Ma ciò che è interessante notare è che vengano qui insieme elencati autori già presenti nell’Indice – Dumas, Balzac ambedue con l’Opera omnia – insieme a scrittori come Verga, mai esaminati dall’Indice e quindi apparentemente considerati innocui alla lettura. Tutto questo non stupisce. I gesuiti hanno ormai compreso che, per contrastare la diffusione di un’idea o dissuadere i buoni cattolici dalle letture pericolose, è molto più efficace una recensione critica sul giornale, che metta in luce oscenità ed errori, che una menzione sconosciuta ai più e spesso tardiva nel catalogo dei libri proibiti dalla Chiesa. Sotto lo scudo della libertà di stampa, che garantisce a tutti libertà di parola, e sostituendosi di fatto alla congregazione dell’Indice, la «Civiltà Cattolica» continua ad esercitare un formidabile potere di interdizione e di direzione dell’opinione cattolica.

2. Genesi storica del decadimento del romanzo, in «C.C.», s. XVII, LI/9 (1900), pp. 170-187; 399-416.

Opere citate*

Abbreviazioni ACDF

Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede

AFSCIRE

Archivio della Fondazione delle Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna

ASR

Archivio di Stato di Roma

DBI

Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-

Prosopographie

Prosopograhie von Römischer Inquisition und Indexkongregation 1814-1917, von H.H. Schwedt unter Mitarbeit von T. Lagatz (Römische Inquisition und Indexkongregation Grundlagenforschung III: 1814-1917), 2 voll., Paderborn, Schöning, 2005

«C.C.»

«Civiltà Cattolica»

Fonti e studi Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, vol. IX, Romae, Typis Poliglottis Vaticanis, 1917 Acta et decreta sacrorum conciliorum recentiorum. Collectio Lacensis T. VII. Acta et decreta sacrosancti oecumenici concilii vaticani. Accedunt permuta alia documenta ad concilium eiusque historiam spectantia, Friburgi Brisgroviae, sumptibus Herder, Typographi Editoris Pontificii, 1890 * Poiché si è proceduto ad uno spoglio sistematico della «Civiltà Cattolica» dalle origini al 1900, si è scelto di citare in nota i singoli articoli esaminati.

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La perniciosa lettura

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Opere citate

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La perniciosa lettura

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Opere citate

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La perniciosa lettura

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Opere citate

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La perniciosa lettura

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Opere citate

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La perniciosa lettura

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Indice dei nomi

Achilli, Giacinto, 68n Albergoni, Gianluca, 10n Albertario, Davide, 90 e n, 121, 122 e n Amadieu, Jean Baptiste, 67n, 96n Amari, Michele, 38 e n Antonielli, Giuseppe, vescovo di Fiesole, 86n Antonio da Rignano (al secolo Antonio Fania), 103 e n, 110, 111 e n Ardigò, Roberto, 128n Arrigoni, Giulio, vescovo di Lucca, 56, 82 e n, 86n Artiaga, Loïc, 17n, 43n, 96n, 98n, 102n, 109n Aubert, Roger, 126n Audisio, Guglielmo, 59, 128 e n Baccelli, Guido, 149n Baillès, Jacques Marie Joseph, vescovo di Luçon, 56 e n, 66n, 97 e n, 98 e n, 108n, 109 e n, 110, 111, 128, 129, 131, 141 Balbo, Cesare, 32 Baldini, Ugo, 113n Ballerini, Raffaele, 28n Baluffi, Giovan Battista, vescovo di Imola, 70n Balzac, Honoré de, 98n, 103n, 155 Barbera, editore, 149

Barile, Laura, 90n, 91n Bartoli, Ignazio, vescovo di Senigallia, 149n Battelli, Giuseppe, 53n, 88n Bayle, Pierre, 150 Beecher Stowe, Harriet, 95n, 112 Bedeschi, Luciano, 140n Belli Antonio, vescovo vicario di Città di Castello, 86n Belli, Giuseppe Gioachino, 64 n, 81 e n Bellò, Concetto, 122n Bencivenni, Federico, vescovo di Bertinoro, 50 Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa, 51, 102 e n, 110, 125, 144, 145, 147 e n Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), papa, 139, 154 Bentham, Jeremy, 95n Berardinelli, Francesco, 34n, 35n, 118n Berchet, Giovanni, 20 e n Berengo, Marino, 151n Bernareggi, Adriano, 139n Bernetti, Tommaso, segretario di Stato, 113n Bert, Amedeo, 68 e n Berti, Giampietro, 9n, 10n, 55n Bertola, Arnaldo, 62n

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La perniciosa lettura

Bertuzzi, Giordano, 57n Bettanini, Antonio Maria, 72n Bianchi Giovini, Aurelio (Angelo Bianchi), 59, 60, 67 Boccaccio, Giovanni, 149 e n Boccardo, Girolamo, 41n Bollig, Johannes, 128, 132 Bonaparte, Luigi Napoleone, poi Napoleone III, 27 Bonomelli, Geremia, 121 e n, 122 e n, 123 Borella, Alessandro, 60 Borsa, Mario, 27n Bosco, Giovanni, santo, 40 e n, 83 n Botta, Carlo, 103n, 105, 115 e n, 116, 135n, 136n Boudinhon, Auguste, 127n, 142n, 148n, 149n Boutry, Philippe, 95n, 98n, 102n, 103n, 104n, 109n, 129n Braida, Lodovica, 10n, 18, 75n, 76n Breschi, Giacomo, vescovo di Pistoia, 86n Bresciani, Antonio, 19n, 20 e n, 43, 44 e n, 45 e n, 155 Bricarelli, Carlo, 149n Briganti, Antonio, vescovo di Orvieto, 87n Briguglio, Letterio, 87n Brofferio, Angelo, 61 e n Brontë, Charlotte 155 Brotini, Maurizio, 40n Buffetti, Pietro, vescovo di Bertinoro, 76n, 78, 86n Buroni, Giuseppe, 37n Caldelari, Callisto, 116n Canavero, Alfredo, 122n Cantù, Cesare, 20n, 30, 31 e n, 32n, 44n, 103n Cappellari, Mauro, v. Gregorio XVI

Carfagnino Enrico, vescovo di Gallipoli, 87n Carlo Alberto, re di Sardegna, 61 Carrara, Paolo, editore, 43n Casali, Elide, 77n Cattaneo, Massimo, 116n Cavazzoni Pederzini, Fortunato, 27n Cavour, Gustavo Benso, marchese di, 59 Celesia, Michele, vescovo di Patti, 78n Chambers, Ephraim, 150 e n Chartier, Anne Marie, 49n Chateaubriand, François René de, 96n Chemello, Adriana, 41n, 64n, 76n Chiosi, Elvira, 47n Cicognani, Marcolino, segretario della Congregazione dell’Indice, 94 e n Cirino, Francesco, 129n Claudiana, casa editrice, 55n, 69, 75 e n Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 144 Clemente XIII (Carlo Rezzonico della Torre), papa, 48 Colletta, Pietro, 115, 116 e n Compagna, Luigi, 26n Confessore, Ornella, 32n Contratto, Luigi Eugenio, vescovo di Acqui, 66 Copernico, Niccolò, 106 Corsi, Cosimo, vescovo di Pisa, 75 e n Corvino, Francesco, 128n Coviello Leuzzi, Anna, 19n Cozzo, Corrado, 28n Cozzo, Paolo, 60n Cugini, Francesco Emilio, vescovo di Modena, 84n Curci, Carlo Maria, 15n, 19 e n, 20n, 21n, 23n, 24n, 30n, 39n, 40n, 43n. 85 e n, 86n D’Andrea, Girolamo, prefetto della Congregazione dell’Indice, 102 e n, 103 e n

Indice dei nomi

D’Annunzio, Gabriele, 155 d’Azeglio, Massimo, 24 e n, 44n Dante, Francesco, 19n Darboy, Georges, arcivescovo di Parigi, 127n De Boni, Filippo, 85 e n De Franceschi, Loretta, 41n, 76n De Giorgi, Furio, 83n Degola, Tommaso Antonino, segretario della Congregazione dell’Indice, 146 Del Chiaro, Giuseppe, 30n Del Corno, Nicola, 20n, 21n, 42n, 44n Della Genga, Annibale, v. Leone XII De Longis, Rosanna, 36n Delpiano, Patrizia, 10n, 47n, 105n, 144n, 150n De Luca, Antonino, prefetto della Congregazione dell’Indice, 127, 128 e n, 129, 130 De Maistre, Joseph Marie, 43 Demofonti, Laura, 57n Deodato, Achille, 80n Deodato, Angelo, 80 e n De Rosa, Gabriele, 19n, 20n, 22 e n De Rubertis, Achille, 21n, 50 n De Sanctis, Francesco, 20n, 43 Desanctis, Luigi, 66n, 68 e n, 75n Dickens, Charles, 155 Diocleziano, imperatore, 43 Diodati, Giovanni, 56 e n, 67, 79, 80n, 132 Di Ricco, Alessandra, 20n Di Rosa, Luigi, 19n Disegni, Silvia, 37n, 96n Di Simone, Maria Rosa, 19n Dollinger, Ignaz von, 96 Dostojeswskij, Fëdor Michailovič, 155 Dumas, Alexandre, padre, 96, 104n, 106 e n, 115n, 155 Dumas, Alexandre, figlio, 96, 106n Dutacq, François, 108n

177

Esser, Thomas, segretario della Congregazione dell’Indice, 147 e n, 148 Eusebio da Montesanto (al secolo Vincenzo Magner), 114, 115 e n, 116, 129 e n Faelli, Emilio, 35 e n, 36n Falconi, Giandomenico, vescovo di Eumenia, 83n Fania, Antonio, v. Antonio da Rignano Fantappiè, Carlo, 68n Fantoni, Giuseppe, 30n Fea, Costanzo Michele, vescovo di Alba, 66 Felix, Celestin Joseph, 85n Ferdinando II, re delle Due Sicilie, 22 Ferrara, Francesco, 11 Ferrè Pietro Maria, vescovo di Crema, 82 e n Ferrari, Luigi, vescovo di Modena, 56 e n, 57 Feuillet, Octave, 155 Fietta Ielen, Elda, 75n Filangieri, Gaetano, 33 e n Filangieri, Serafino, vescovo di Palermo, 47 e n, 48, 49 Fiorani, Luigi, 128n Firpo, Luigi, 11n Fiume, Emanuele, 56n Flaubert, Gustave, 98 e n Fogazzaro, Antonio, 155 Foglietti, Raffaele, 32 e n, 33 e n Folicaldi, Giovanni Benedetto, vescovo di Faenza, 78n, 79, 86n Fontaine, Laurence, 75n Fonzi, Fausto, 90n, 122n Fragnito, Gigliola, 12 e n, 16n, 54n, 74n, 81n, 132n Frajese, Vittorio, 51n, 113n Franceschi Ferrucci, Caterina, 41 e n France, Anatole, 155

178

La perniciosa lettura

Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 30n, 70, 71 Francesco V, duca di Modena, 57 Franco, Serafino, 78n Fransoni, Luigi, 57, 58 e n, 63 Freppel, Charles Emile, 85 e n Frohschammer, Jakob, 96, 104 e n, 105, 107, 128n

Hilgers, Joseph, 35n, 148n, 153n Howsam, Leslie, 55n Hugo, Victor, 89, 96, 98 e n

Gabriele, Nicola, 10n, 28n Gallerani, Alessandro, 35, 36n Gambasin, Angelo, 79n Garavaglia, Ambrogio, 37n Garibaldi, Giuseppe, 106n Gatti, Vincenzo, segretario della Congregazione dell’Indice, 114n, 116 e n, 129n, 145 e n, 146 e n Gavazzi, Alessandro, 68n Gennari, Casimiro, 127n, 142n Ghilardi, Giovanni Tommaso, vescovo di Mondovì, 56, 63 e n, 64 e n, 65 e n, 66, 69 Gianotti, Giovanni Antonio, vescovo di Saluzzo, 60, 61, 63 Gigli Marchetti, Ada, 18 Gioberti, Vincenzo, 26n, 36 e n, 37n., 67, 74, 103n, 110 e n, 126n, 128n Giovannini, Luigi, 40n, 83n Giuliano, Antonio, 36n Giuseppe II, imperatore d’Austria 30, 70 Gorresio, Vittorio, 58n, 61n Govean, Felice, 60 Gramsci, Antonio, 43 Gregorio XVI (Mauro Cappellari), papa, 24, 34, 52 Gregorovius, Ferdinand, 96 e n, 120n Griseri, Giuseppe, 58n, 63n Grossi, Tommaso, 44 e n

Kenrick, Francis Patrick, arcivescovo di Baltimora, 133 e n

Habermas, Jürgen, 20n Heine, Heinrich, 95n Hebrard, Jean, 49n

Iannace, Florinda Maria, 44n Ickx, Johan, 103n Infelise, Mario, 9n, 18, 48n., 75n Invernizio, Carolina, 155

Lambertini Prospero, v. Benedetto XIV Lamennais, Hugue Félicité Robert de, 67 Landi, Sandro, 10n, 20n, 50n Larousse, Pierre, editore, 96, 104n, 150 Lazzaro, Giorgio, 27n, 53n, 99n Le Breton, Pierre-Marc, vescovo di Le Puy, 81n Leone XII (Annibale della Genga), papa, 50, 51, 52, 67 Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 16, 17n, 35n, 82, 86n, 89, 120, 126n, 127 e n, 139 e n, 140, 143 e n, 147 e n, 151, 153 Leopardi, Giacomo, 35, 36 Leopardi, Monaldo, 21 Leopoldo II di Asburgo Lorena, granduca di Toscana, 50, 72 Lessona, Michele, 41n Levy Michel & Calmann, editori, 84 e n Lomonaco, Francesco, 103n Lyons, Martyn, 117n Lucatello, Enrico, 60n Machiavelli, Niccolò, 149 e n Magnasco, Salvatore, vescovo di Genova, 90n Magner, Vincenzo, v. Eusebio da Montesanto

Indice dei nomi

Malgeri, Francesco, 122n, 139n Malusa, Luciano, 36n, 110n Mamiani della Rovere, Terenzio, 35 e n, 103n, 132 Mancini, Pasquale Stanislao, 11 Mantegazza, Paolo, 120n Manzini, Clemente, vescovo di Crema, 63 Manzoni, Alessandro, 77n Marechal, Sylvain, 64n Margotti, Giacomo, 59, 62n, 91, 128n Maria Teresa, imperatrice d’Austria, 71 Marietti, editore, 135n, 145 e n Marietti, Giacinto, 145 Marietti, Pietro, 145 Martina, Giacomo, 15n, 19n, 72n, 75 n, 126n, 137n Martini, Antonio, 54n Martini, Luigi, 115n Mastai Ferretti, Giovanni Maria, v. Pio IX Mauro, Letterio, 36n, 102n, 110n Mazzanti, Marcello, vescovo di Pistoia e Prato, 83n Mazzini, Giuseppe, 28n McCuaig, William, 147n Meille, Augusto, 75n Melandri, direttore della Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide, 145 e n Mellano, Maria Franca, 58n, 89n Menozzi, Daniele, 13n, 17n, 18, 23n, 25n, 48n, 49 e n, 53n, 73n Metternich, Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von, 30, 48 Miccoli, Giovanni, 79n, 88n Milsand, Philibert, 85n Milton, John, 150 Milza, Pierre, 108n Mirabeau, Honoré Gabriel Riqueti, conte di, 25n Molitor, Wilhem, 129 e n

179

Monsagrati, Giuseppe, 18, 53n, 99n, 102n, 128n Montale, Bianca, 60n Montanari Anna Paola, 71n Monticone, Alberto, 59n Moreno, Luigi, vescovo di Ivrea, 66 Morteo, Giuseppe, vescovo di Massa e Populonia, 81n Mucci, Giandomenico, 15n, 19 n Napoleone I Bonaparte, imperatore, 10n Napoli, Maria Consiglia, 10n Nardi, Francesco, 104 e n, 105, 110 e n, 118n, 12n, 128, 129, 130, 150n Nazari di Calabiana, Luigi, arcivescovo di Milano, 88n, 89, 90 Negri, Ada, 37 Nesti, Arnaldo, 90n Norman, Edward Robert, 95n Novaro, Giacinto, inquisitore di Perugia, 95n Nuytz, Giovanni Nepomuceno, 61, 62 en Odone, Giovanni Antonio, vescovo di Susa, 66 Ohnet, Georges, 155 Oreglia di Santo Stefano, Giuseppe, 26n, 101n Ozanam, Frédéric Antoine, 42 Pagani, Luciana, 10n Pagano, Sergio, 128n Palazzolo, Maria Iolanda, 9n, 14n, 28n, 29 n, 32n, 37n, 48n, 51n, 64n, 77n, 95n, 103n, 105n, 107n, 113n, 145n Palomba, Beniamino, 108n Paoli, Anna Rosa, 98n Papini, Carlo, 55n, 75n Parravicini, Luigi Alessandro, 42 e n Pearson, Jacqueline, 64n

180

La perniciosa lettura

Pecci Gioacchino, vescovo di Perugia, v. Leone XIII Pennacchi, Giuseppe, 119, 120 e n Pepoli, Anna, 103n Perella, Giuseppe, 146n Periés, George, 143n Perrone, Giovanni, 129 e n Petit, Louis, 97n Petrarca, Francesco, 149 Petruzzi, Paolo, 129n Piazza, Isotta, 17n, 84n Pignatelli, Ferdinando, vescovo di Palermo, 56 e n Pigorini Beri, Caterina, 42 Plantier, Claude Henri Augustin, vescovo di Nimes, 85n Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 10, 13, 15, 17n, 19, 22, 24, 25, 27, 34, 39, 53, 54, 55, 60, 61, 62n, 67, 72, 73, 79, 86, 87, 88, 96, 101, 104, 112, 113, 117, 118n, 120, 125, 126, 127, 137, 139, 145, 153 Pio X (Giuseppe Sarto), papa, 153 Pirri, Pietro, 36 e n Plebani, Tiziana, 64n Pomba, Giuseppe, editore, 11 Ponziani, Daniel, 18 Ponzo, Giovanni, 53n, 99n Porciani, Ilaria, 151n Porrati, Giovan Battista, vescovo di Bobbio, 90 e n Proto Carafa, Francesco, 79n Puecher Passavalli, Luigi, arcivescovo di Iconio, 129n Raggi, Barbara, 19n Ranke, Leopold von, 95n, 105 Rauscher, Joseph Othmar Ritter von, arcivescovo di Vienna, 127n Rebellato, Elisa, 51n, 102n, 144n Renaldi, Lorenzo Guglielmo Maria, vescovo di Pinerolo, 66n, 67n

Renan, Ernest, 84 e n, 85 e n, 86, 87, 96n, 120n, 128n Reta, Costantino, 75n Reusch, Franz Heinrich, 95n, 146, 147 en Rezzonico della Torre, Carlo, v. Clemente XIII Roggero, Marina, 74n Romagnani, Gian Paolo, 24n Rondet, Henri, 126n Roothaan, Joannes Philippe, 19 Roscoe, William, 95n, 105 Rosmini, Antonio, 32, 36 e n, 37n, 67 e n, 96, 105 e n, 110 e n, 126n, 128n Rossi, Pietro, stampatore, 146n Rota, Pietro, vescovo di Mantova, 83n Rouland, Gustave, 107 e n, 108 e n, 109 e n Rovetta, Gerolamo, 155 Rozzo, Ugo,149n, Rusconi, Roberto, 17n, 18, 73n, 79 n Sabato, Milena, 10n Sabbia, Francesco, vescovo di Crema, 51n, 90 e n Sale, Giovanni, 19n Sallmann, Jean Michel, 74n Salviucci, editore, 145n Sand, George (Amantine Aurore Lucile Dupin), 96, 98 e n, 103n Santini, Luigi, 68n Sarpi, Paolo, 10, 105 Savart, Claude, 26n, 43n, 81n, 84n, 97 e n, 108 e n Scalabrini, Giovan Battista, vescovo di Piacenza, 83n, 121n Scattigno, Anna, 42n Sclopis, Federico, 27n Scott, Walter, 44 Schwedt, Herman, 103n, 151n Secchi Murro, Gavino, 35 e n Segneri, Paolo, 42

Indice dei nomi

Semenenko, Piotr, 128 e n Sestan, Ernesto, 85n Siccardi, Giuseppe, 61 e n, 62 Sismondi, Jean Charles Leonard Simonde de, 33 e n, 77 e n, 105 Smiles, Samuel, 41 e n Smith, Bernard, 37 e n, 128n Soderini, Ernesto, 139n Solari, Gabriella, 55n, 69n, 76n, 78n, 80n Sonzogno, editore, 89 Soria, Diego, 69 n, 74 Spada, Mariano, Maestro del Sacro Palazzo, 128 Speranza, Pietro Luigi, vescovo di Bergamo, 72 e n Spini, Giorgio, 55n Stefanoni, Luigi, 120n Stella, Pietro, 40n, 58n, 133n Stendhal (Henri-Marie Beyle), 96 Sterckx, Engelbert, 103n Sue, Eugéne, 67, 96 Thackeray, William Makepeace, 155 Talamo, Giuseppe, 58n, 60n, 99n Taparelli d’Azeglio, Luigi, 15n, 19 e n, 20 e n, 21, 22, 23 e n, 24 e n, 26n., 27 e n, 28 e n, 30 e n, 31 e n, 32, 35 e n, 39 n Taparelli d’Azeglio, Roberto, 24n Taradel, Ruggero, 19n Tarchetti, Alcesti, 71n Targhetta, Fabio, 40n., 149n Tasca, Luisa, 41n Tazzoli, Enrico, 29 Thouar, Pietro, 39n, 76 Timpanaro Morelli, Maria Augusta, 50n Tizzani, Vincenzo, 102 e n, 120n, 122 e n, 127n Tolstoj, Lev Nicolaevič,155 Tommaseo, Niccolò, 36, 105 e n, 132

181

Tortarolo, Edoardo, 10n, 20 n Tourn, Giorgio, 55n, 75n Traniello, Francesco, 13n, 24n, 45n, 82n, 83 e n, 149n Traniello, Paolo, 113n Trevisanato, Luigi, patriarca di Venezia, 87 Turi, Gabriele, 18 Ubaghs, Gerard Casimir, 103 e n, 111 Utet, editore, 75n Valentini, Francesco, 19n, 23 n Valentini, Salvatore, vescovo di Amelia, 86n Valerio, Lorenzo, 60 Vaughn, Herbert Alfred, arcivescovo di Westminster, 94 e n Ventura, Gioacchino, 37n, 110 Vercellone, Carlo, 128 e n, 129, 133 Verga, Giovanni, 155 Verucci, Guido, 17n, 36n, 73 n, 140n Verzeri, Girolamo, vescovo di Brescia, 70, 71 e n Vieusseux, Giovan Pietro, 21, 76, 151 Vinay, Valdo, 68n Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, poi d’Italia, 11, 25, 57, 58, 88n Voltaire (François Marie Arouet), 64n Whately, Richard, vescovo di Dublino, 101n Weis, Nikolaus von, 129 Wiseman, Nicholas Patrick, 43 e n, 95 en Wittmann, Reinhard, 117n Wolf, Hubert, 14n, 51n, 95n, 96n, 103n, 112n, 126n, 147n Zanotti, Andrea, 12n, 30n, 70n, 71n, 87n Zigliara, Tommaso Maria, 37n Zola, Émile, 96n