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Italian Pages 352 Year 1984
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STORIA E SOCIETÀ
Nello Ajello
Natalia Aspesi
Omar Calabrese Domenico Porzio
Giuseppe Turani
Gianni Borgna
Mino Monicelli Alberto Statera
Paolo Murialdi Lietta Tornabuoni
Sergio Turone
Sergio Valentini
PERCHÉ LORO ARMANI
DALLA
DE
BAUDO
BENEDETTI NICOLINI
BERLUSCONI
ECO
PERTINI
Editori Laterza
FALCAO SCALFARI
1984
BIAGI
FORATTINI
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 1984 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL. 20-2511-6
ISBN 88-420-2511-9
Perché loro, perché proprio loro? Sono i dodici personaggi divenuti, negli ultimi anni, emblematici nei più diversi campi della vita civile, politica e culturale italiana. E perciò, sebbene siano figure molto differenti tra di loro, tutte rappresentano nuovi modelli e simboli, tutte riflettono nostre aspirazioni. Fra le mille contraddizioni della società di massa, c’è infatti anche quella che quanto più la società è massificata, tanto più spiccano pochi personaggi nei quali ognuno si rispecchia e si riconosce.
Gli idoli che riscuotono
maggiore popolarità sono
calciatori o cantanti rock, ma in ogni campo
gendo personalità
che noî stessi creiamo
sono
perlopiù
andate emer-
e che riflettono,
nel
bene e nel male, la nostra mentalità.
Perciò siamo andati oltre i calciatori e i cantanti: dal politico Sandro Pertini nel quale tutti gli italiani si riconoscono, perché è lui e non perché sia il primo cittadino italiano, al giornalista, dall’industriale allo stilista, dallo scrittore al caricaturista, dal finanziere allo show man. Dal complesso di questi dodici ritratti, ricostruiti da giornalisti e studiosi più attenti alla storia che alle cronache, si può cogliere come sia cambiato il costume della società in cui viviamo. Capire perché loro significa, in definitiva, capire meglio come siamo not. gli editori
ENZO
BIAGI
di Nello Ajello
1. L'azienda Biagi In termini di produzione, vendita, fatturato, pubblicità, ricavi, utili e prelievo fiscale, Enzo Biagi anziché a un solitario artigiano della penna fa pensare a una media azienda ben avviata. La gamma di cui dispone l’Editoriale Biagi — chiamiamola così — è delle più ampie, e tende a soddisfare ogni possibile domanda nel campo dei mass media. Proviamo a scotrerne il catalogo. Rubriche di commento per quotidiani (Strettamente personale, prima sul « Corriere della Sera » e ora sulla « Repubblica ») e per settimanali (Testizzone
del tempo su « Panorama »), generalmente raccolte in volume. Prestazioni per emittenti televisive pubbliche e private, dalla Rai (Film-dossier) a Retequattro. Libri di divulgazione culturale,
a metà fra il giornalismo di costume e il turismo aneddotico: si tratta della Geografia di Biagi che spazia su tre continenti toccando per ora Italia, Francia, Inghilterra, Germania Est e Ovest, Scandinavia,
Russia,
America,
Cina.
Libri
di storia, vari per
periodo trattato e per argomento: Storia dei greci, Storia delle invenzioni. Raccolte d’interviste con personaggi celebri o d’attualità, a uso di lettori adulti (Dicono di lei, Il Crepuscolo degli dei, L’uomo non deve morire), o di ragazzi curiosi (E tu lo sai?). Monografie su contemporanei, da Enzo Ferrari a Gianni Agnelli. Radiografie di popoli, come il recente volume Gli americani. Opere narrative d’indole storico-rievocativa (1935 e dintorni, 1943 e dintorni, Mia bella signora, Mamma Svetlana, nonno Stalin), autobiografica (Disonora il padre) o di pura immaginazione (Una signora così così). Un’antologia di articoli di grandi giornalisti (Dai nostri inviati in questo secolo). Un libro-reportage dall’Europa dell’est, Cardinali e comunisti. Un volume per far capire l’Italia agli italiani (I/ duon paese) e un altro, sotto
Perché loro
4
forma di dialogo epistolare con Eugenio Scalfari, per aiutarli a decifrarne i misteri etico-politici (Corze andremo a incominciare?).
Fumetti: la Storia d’Italia è stata raccontata da Biagi in tre volumi con la collaborazione di uno stuolo di disegnatori. Scuola: s'intitola Storie di questi giorni un manuale d’attualità da lui concepito per le « medie ». Teatro: Biagi ha scritto una commedia, E vissero felici e contenti, a quattro mani con Giancarlo Fusco, e altre due da solo: Giulia viene da lontano ed E noi moriamo sotto la pioggia. Dischi: sono rimasti famosi (e sono
oggi introvabili) tre longplaying da lui incisi in collaborazione con Sergio Zavoli, sulle vicende italiane dal fascismo in poi e su « cinquant'anni d’amore ». Citiamo alla rinfusa, non mirando alla completezza ma a rendere l’idea. E in ciò ci soccorre qualche cifra. Per la. serie Geografia lo stesso Biagi parla della vendita d’un milione e mezzo di copie !. La serie storica a fumetti — dicono alla Mondadori — ha venduto sulle 800 mila copie. Quando in tv compare la faccia di Biagi, informa un settimanale, « fino a venti milioni di spettatori sintonizzano il televisore su di lui » ?. Sono soltanto alcuni esempi.
2. Organizzazione o miracolo?
A questi imponenti risultati produttivi e commerciali corrisponde una struttura organizzativa molto elementare e dai costi presumibilmente assai ridotti: un ufficio a Milano, prima presso la Rizzoli ora presso la Mondadori, con una segretaria, Pierangela Bozzi, che lavora con Biagi da tanti anni; uno studio nella casa di Sasso Marconi, alle porte di Bologna, pieno di ritagli, ammucchiati dal giornalista con un attento lavoro di forbici e forse in attesa di venire schedati pet argomento o per data. Gli impianti di cui dispone Biagi si compendiano così in 1 Enzo Biagi, Ero partito da Bologna piangendo, intervista a cura di Paolo Martini, « Bologna Incontri », 5, maggio 1982. Vedi anche Giampaolo Pansa, E allora caro Enzo diciamoci tutto, intervista con Biagi, nel volume Diciamoci tutto, Mondadori, Milano 1984,
2 Antonangelo 14 febbraio 1983.
Pinna, Vi dico come
si fa ad esser Biagi, « Europeo »,
N. Ajello - Enzo Biagi
5
Biagi stesso, più qualche modesta appendice modellata a sua immagine. Semplicità di strutture, chiarezza di funzioni, duttilità operativa, prontezza nell’aderire alle esigenze del mercato, capacità di « riconversione » da un ramo produttivo all’altro, efficace destrezza nel riciclare i materiali: non sono forse questi i requisiti comuni alle miriadi di imprese che lavorano e prosperano in Emilia, la regione in cui questo scrittore è nato? Dietro la sagoma di Biagi sembra quasi fisicamente di scorgere le contrade-leader del miracolo economico di alcuni decenni fa, le stesse che vengono addotte oggi a simbolo di una non meno
prodigiosa
opetosità
« sommersa ». Come
i suoi
conter-
ranei che producono piastrelle o pullover, culatelli o Lambrusco, Biagi utilizza i propri impianti al cento per cento, anche più di quanto ci si potrebbe aspettare da un uomo di 64 anni, professionalmente sulla breccia da oltre quaranta, col cuore in disordine, portatore di vari by-pass, bisognoso di periodici controlli sanitari da effettuarsi all’estero e avvezzo a dire di se stesso, con bonaria immagine sportiva non scevra da scaramanzia:
« Ormai sto giocando i tempi supplementari ». Dunque: il miracolo Biagi, ovvero Fenomeno, come lo chiama con ironia — ma quale ironia potrebbe danneggiarlo, ormai, e non invece giovare al suo mito? — Sergio Saviane. Biagi padroncino insonne e ingegnoso di una microindustria padana. Biagi marchio di fabbrica stampigliato su una fetta non trascurabile dell’universo dell’informazione. Tutto giusto. Siamo ancora, però, all’enunciazione di un fatto. Che Biagi dia l’impressione di racchiudere in sé (anche più di quanto capiti ad altri giornalisti assai attivi come Indro Montanelli o Giorgio Bocca ‘o Oriana Fallaci, giù giù fino a un Luca Goldoni a un Nantas Salvalaggio o a un Roberto Gervaso) l'imprenditore e il prestatore d’opera, che sia un po’ il Berlusconi di se stesso, è un dato pacifico. Che la gente acquisti, ascolti, legga, osservi e — in misura notevole — ammiri questo eroe giornalistico del nostro tempo non è notizia revocabile in dubbio neppure da quegli intellettuali che ne fanno la bestia nera dei propri umori o furoti elitari e lo tacciano di furberia, qualunquismo, grossolanità, patetnalismo, ipocrisia deamicisiana, moralismo opportunista e piagnone, avidità di danaro, incontinenza scrittoria, eccesso di presenzialismo: tutti «capi d’accusa », per dirla con Giampaolo
6
Perché loro
Pansa, più o meno centrati « attorno alla parola “troppo” »®. La vera controversia comincia quando ci si domanda il perché di tanto successo. È a quel punto che l’esplorazione di un personaggio in apparenza così epidermico e povero di misteri risulta meno facile del previsto. O magari facile, ma disarmante.
3. Un paesello vicino a Bologna
Partire dalle radici biografiche nel caso di Biagi è fatale, così come è inevitabile il sospetto che ci sia poco da scoprire. Non esiste figura di contemporaneo più nota della sua, nel disegno complessivo e nei particolari. Egli parla sempre in prima persona e si racconta innumerevoli volte. Si direbbe anzi che non faccia altro. L’elemento personale, la dimensione della testimonianza ricorrono in ciò che egli scrive, a partire dai titoli delle sue rubriche, con un’insistenza quasi programmatica. L’aneddotica, ingrediente basilare della sua ricetta, anche quando spazia su altre varietà umane e si applica a paesi lontani, in realtà non ammette che un protagonista: Biagi Enzo, nato a Pianaccio, frazione di Lizzano in Belvedere (Bologna), il 9 agosto 1920,
figlio di un operaio dello zuccherificio bolognese. Stato civile: coniugato — sua moglie si chiama Lucia Ghetti — mai divorziato, padre di tre ragazze allevate all’antica, Bice, Carla e Anna, che Biagi elegge ogni tanto destinatarie dei suoi scritti moralmente più impegnativi e che comunque ci sembra di conoscere fin da piccole, quando negli anni Cinquanta si intravedevano di scorcio nelle gustose note di cronaca televisiva che il capofamiglia, direttore di « Epoca », dedicava su quel settimanale ai fasti nascenti di un Mike Bongiorno. Se la famiglia è avara di eventi di cronaca che esorbitino da una blanda cornice aneddotica, il paesaggio d’origine non stride al confronto. La preistoria di questo instancabile operatore della comunicazione (definizione che giustamente lo farebbe inorridire) è assimilabile a un film di Fellini del tipo Amarcord o a un raccontino fra i meno convenzionali di Guareschi. C’è la stessa mitizzazione dell’infanzia trascorsa nel « mondo piccolo » della 3 Giampaolo Pansa, La rabbia di Biagi, introduzione a Enzo Biagi, Strettamente
personale, n.e., Rizzoli, Milano
1979.
N. Ajello - Enzo Biagi
3
provincia emiliana. Si passa attraverso un’analoga galleria di figurine o macchiette dall’apparenza casereccia, ma monumentalizzate nel ricordo come prototipi di un’umanità non artefatta e degna in fondo di affettuoso rimpianto. Siamo al centro di una saga regionale i cui pezzi sono intercambiabili, al di là dell’attitudine descrittiva o del talento artistico di chi, volta per volta, se ne fa cronista o apologeta. Il nonno di Biagi vale quello di Fellini. Così il papà antifascista. Così lo zio-cugino Domenico, avvocato, fascista, che « abitava a Roma, e Mussolini gli assegnava incarichi importanti, diventò anche ministro ». Non diversamente lo zio Gigi, pure lui « fascista della prima ora, per essere precisi della seconda, squadrista nell’ordinamento gerarchico », il quale, però, « sveniva regolarmente davanti al trapano del dentista ». E anche la vecchia Lutgarda, «che faceva stregonerie » finché « diventò matta e vennero a prenderla i carabinieri » *. I fossi in cui il piccolo Biagi andava a caccia di rane possono almeno confondersi con quelli in cui, anche da adulto, continuò a specchiarsi l’autore di Don Camillo. E lo stesso può dirsi degli altri piaceri dell’infanzia, come li racconta Biagi: « Quando ero ragazzo passavo interi pomeriggi a vedere alzare il tendone dei circhi. [....] È bello veder portare gli alberi, o insaccare il maiale, o assistere a quegli esercizi di bravura che compiono i meccanici delle auto in corsa quando cambiano le gomme » 5. Si chiami Elide o porti un nome analogo di estrazione strettamente padana, è inoltre fatale che la donna che iniziò Biagi (o Guareschi o il Fellini di Amarcord) ai misteri del sesso lo abbia fatto «dietro la stalla », dopo averlo invitato decisamente « a giocare al dottore » non senza avergli prima « slacciato i pantaloncini ». Salvo errore, ci sembra da escludere che Fellini, Guareschi o — se vogliamo citare uno scrittore assimilabile al gruppo per motivi etnici — Leo
Longanesi
da Bagnacavallo
(Ravenna),
nel
rievocare
un
evento-cardine nell’Italia della loro infanzia, potessero usare un procedimento narrativo molto diverso da quello di Biagi: « Una volta mio padre portò da Bologna un settimanale illustrato e disse: ‘“ Hanno ammazzato Matteotti ” » 9. E chissà quanti altri 4 Questa citazione, e quelle che precedono, sono tratte da Enzo Biagi, Disonora il padre, ivi, 1975. 5 I quieti piaceri di Yves Montand, « Panorama », 21 marzo 1983. 6 Disonora il padre cit., passim.
Perché loro
8
Biagi, nati un po’ più su o un po’ più giù, ma sempre originari di quella fetta d’Italia che si stende fra l’Appennino e l’Adria-
tico, comincerebbero a raccontare la propria vita con le sue stesse parole, cambiando soltanto il nome dei luoghi: «Il mio paese si chiama Pianaccio. Non cercatelo sulle carte. Pochi sanno dirvi dove si trova. Sull’appennino emiliano, sessanta abitanti. Credo che siano tutti, magari alla larga, miei parenti... » ”. Tutto questo per concludere che la formazione di un Biagi, i contorni della sua psicologia, il modo di rievocare se stesso e di farsi il verso ricalcano stampi riconoscibili e consacrati dall’uso. Le sue mzadeleines proustiane sono ciccioli, salsicce, ragù e grappa; se deve sintetizzare la propria natura franca e sanguigna può capitargli di dire che « il salame » gli piace « tagliato grosso ». Una convenzione letteraria che si direbbe tutelata dall’Ente regione Emilia-Romagna impone la conclamata vicinanza alla terra, l’attaccamento ai suoi sapori forti e sani e la passione struggente per le sue nebbie. E insieme, come caratteri derivati ma costanti, l’inclinazione all’umorismo e alla nostalgia, l’insofterenza per le ideologie astratte e astruse e la diffidenza pet chi le pratica, l’impazienza per i discorsi difficili o pomposi e l’avversione per chi li fa, la fiducia o addirittura la pretesa che la realtà si presenti sempre in maniera tale da lasciarsi raccontare con immagini rapide senza dover ricorrere a procedimenti elucubrati e ad analisi concettose. i 4. Il clan degli emiliani Non che questa confraternita emiliano-romagnola,
che Biagi
rappresenta con tanta onnipresente autorità nei mass
media, sia
a sua volta immune da qualche retorica. Anzi. Facendo dello scetticismo una regola e della « facilità » l’unico tramite per conoscere e spiegare lo scibile, si rischia il luogo comune. In odio all’ipocrisia, ci si può trovare prigionieri della banalità magari travestita da umorismo. E a proposito di humour, a volte gli articoli di Biagi ricordano qualche film meno riuscito di Woody Allen, dove le battute d’un dialogo brillante si susseguono e si accavallano l’una all’altra in maniera così precipitosa ? Strettamente
personale cit., p. 258.
N. Ajello - Enzo Biagi
3)
da dare allo spettatore un senso di sconcerto o di sazietà eccessiva. Un'altra scorciatoia rischiosa passa per i « sentimenti ». Quando non è irridente o liquidatorio, Biagi può essere crepuscolare. Per una vena lirica o elegiaca che in più occasioni s'insinua nella sua scrittura si è tentati di adattargli la definizione che venne data del suo collega Sergio Zavoli, romagnolo di Rimini, all’epoca in cui lavorava come telecronista: « il commosso
viaggiatore ».
Basti un solo esempio. Una volta — era il Natale del 1970 — Biagi, scrivendo
sul « Resto del Carlino » di cui era direttore,
si rivolse da « incallito peccatore » a Gesù Bambino per informarlo « di come stavano andando, più o meno, le cose di questo
mondo » *. È fuori di dubbio la sincerità di simili accenti cristiani; e tuttavia è difficile sottrarsi all’impressione che in casi come
questo
la sua
stessa
« maniera » forzi la mano
a Biagi,
suggerendogli un tono edificante di troppo facile presa. Sono, in fondo, gli incerti di una vocazione letteraria fondata essenzialmente sugli umori e sviluppatasi all'insegna del « troppo ». Riflettendo sull’accusa di grafomania che perseguita il giornalista bolognese, Giampaolo Pansa l’ha fatta risalire a certe invidie che circolano fra colleghi e che si concretano nel gioco di « fare il processo a chi è riuscito meglio degli altri » ? E lo stesso Biagi, con palese allusione a se stesso, osserva: « il successo suscita, da queste parti, profonde diffidenze », e ricorda quella che ai suoi occhi è un’altra specialità nazionale: « Una volta Diego Fabbri mi disse: ‘In Francia d’uno scrittore o d’un regista tengono in mente l’ultimo trionfo. Da noi tutti parlano, semmai, dell’ultima volta che t’è andata male” »?°. Sfoghi che si potrebbero supporre dettati da un certo vittimismo d’autore, anzi da best seller che mal sopporta il giudizio dei critici o degli « specialisti » e aspira al colloquio senza intermediari con «la gente ». Di fatto, mentre fra i membri della corporazione giornalistica (che pure lo recensiscono con favore, quando capita, e gli tributano onori ufficiali appena possibile) Biagi non annovera molti ammiratori sinceri, al pubblico cosiddetto « grosso » piace nonostante le sue debolezze, o forse proprio a 8 Lettera al Bambino, «Il Resto del Carlino », 24 dicembre 9 Prefazione a Strettamente personale cit., p. 5. 10 Testimonianza all’autore di Enzo Biagi.
1970.
Perché loro
10
causa di esse. Agli occhi dei lettori, l’avverbio « troppo » non è un capo d’imputazione ma un dato di carattere, una garanzia d’affabilità e naturalezza, una prova di genuinità. Biagi non si risparmia, « ce la mette tutta », com'è obbligatorio che faccia un grande cronista; trasmette sempre «in diretta » con la leggerezza, l'abbondanza e il margine d’errore che la situazione comporta. Se è rapido nello scrivere, il suo pubblico lo sorpassa in rapidità nel leggerlo. L'articolo di Biagi lo si scorre, non. lo si consulta come capita di fare — ed è un suo merito — con Ronchey; né gli si chiede (come. si fa con Scalfari) di offrire uno spaccato della congiuntura politica. È una distinzione fra generi che la gente tacitamente stabilisce e rispetta; l’impottante è che a sua volta ciascun fornitore non trasgredisca la propria « maniera » e rispetti il patto stipulato con la clientela. Immaginare Biagi come un freddo ragionatore o come uno scrittore sorvegliato e avaro di sé avrebbe d’altronde poco senso. Sarebbe come voler sfogliare i numerosi capitoli della sua Geografia con l’animo con cui uno studioso legge la « Geographical Review » o compulsa un trattato di cartografia. Il rigore di questo giornalista, l’unico che possa consentirsi, risiede nella corrispondenza della sua pagina alle regole della comunicazione di massa come egli le intende e interpreta per istinto, recitando un copione sempre diverso e sempre uguale.
5.
La sua ricetta
C'è dunque, nelle prestazioni giornalistiche di Biagi, un pericolo di monotonia? Non è escluso, specie quando si legge tutto di seguito, raccolto in un libro, ciò che è stato composto a pezzetti, lungo il tempo, per una rubrica di giornale. E tuttavia, per uno scrittore che ha tanti fas !!, la monotonia può rivelarsi un ulteriore motivo di successo. Essa serve a creare subito un’area di complicità fra chi produce e chi consuma, a ribadire 11 Uno di questi, tale Renzo Pagani, è stato arrestato e condannato nel marzo 1984 per aver rubato un libto di Biagi al Motta Grill sull’autostrada Torino-Milano (vedi «Il Giornale nuovo », 31 marzo 1984). Nelle classifiche della popolarità degli italiani — il dato è riferito da Giampaolo Pansa (E allora caro Enzo diciamoci tutto cit.) — Biagi figurerebbe al sesto posto, dopo Pertini, papa Wojtyla, la Carrà, Agnelli e Craxi.
N. Ajello - Enzo Biagi
11
il marchio di fabbrica, quasi a trasformare ogni intervento — un articolo, un’apparizione sul video — nel frammento d’un discorso ininterrotto di cui si offre un «riassunto delle puntate precedenti »; un
riassunto
ovviamente
non
scritto, ma
che emerge
dalla stessa uniformità di temi e di linguaggio. Il ricettario di Biagi è inconfondibile. Cerchiamo di elencarne le principali specialità, senza alcuna pretesa di rivelare al pubblico — o, peggio, a eventuali falsari — « come si fabbrica un Biagi ».
6. L'Italia vista dal bar di Pianaccio
È, quasi alla lettera, il titolo d’un pezzo di rubrica pubblicato nel 1979 sul « Corriere della Sera » !. La dimensione strapaesana, e lo sforzo di adeguarvisi con naturalezza, sono due componenti visibili della « maniera » di Biagi. Più che gli effettivi utenti della sua prosa (« Credo —
egli, anzi, avverte
—
che non abbiano mai letto un mio articolo »), c'è da pensare che i vecchi compagni di scuola, incontrati ormai di rado nelle gite al paese natale, siano gli ideali destinatari delle sue riflessioni. Di certo sono il metro sul quale l’autore valuta la propria scrittura per depurarla da astruserie o compiacenze culturali. È su questa piccola gente (la quale, se le dicessero che Biagi è diventato un « opinionista », chiederebbe « sghignazzando: ‘ Che cos'è: una malattia? ” ») che si gioca la sua scommessa espositiva e si modella il suo stile « parlato ». Si tratta d’altronde di suggerimenti tecnici che provengono da una scuola di giornalismo tutt'altro che improvvisata: Giulio De Benedetti, despota della « Stampa » di Torino fra gli anni Quaranta e Sessanta e giudicato a ragione da Biagi — che con lui lavorò a lungo — il miglior direttore di quotidiano del dopoguerra, considerava la « prova portineria » il test più valido per saggiare l'efficacia di un articolo.
12 L'Italia vista oggi dal bar di Pianaccio, « Corriere della Sera », 24 agosto 1979. Vedi anche Tra la gente di Pianaccio, «la Repubblica », 23 agosto 1984.
Perché loro
12
7.
L’autoironia
«Mi guardo, e nella mia faccia da sei pose lire cinquecento non trovo i segni dell’eccezionale » 5. In Biagi l’autoironia assume l’aspetto di una sorridente, bonaria modestia, che contribuisce a livellarlo ancora di più col suo pubblico. Lo scrittore potrebbe fare propria la definizione che gli diede di se stesso Giulio Andreotti, forse (come vedremo)
l’unico politico italiano
vivente che riesca a meritare la sua considerazione: « Una persona consapevole dei suoi limiti anche sicura di non vivere in un mondo di giganti » !*. Ma gli accenni a quei limiti sono così ripetuti e perentori da diventare quasi un « fishing for compliments ». Pigmeo fra i pigmei, Biagi parla volentieri della sua « trascurabile importanza » ®. Allude spesso alla sua « irrilevante biografia » !9, sostiene che essa « offre pochi argomenti» !”. I propri scritti gli appaiono, di volta in volta, « irrilevanti considerazioni » !, « trascurabili idee » !, « opinabili visioni » 2°, « sensazioni approssimative e ottenebrate dal dubbio » ?. Sulla sua vita privata non ama intrattenersi: « Al di fuori del lavoro non ho altri hobby o passioni, sono una persona limitata, banale » 2. I lettori vengono associati in questo gioco di urderstatement: «Spero che mi seguirete con leggerezza senza darmi troppo peso: grazie fin d’ora per la cortese disattenzione » ?. 8. L’odio per le statistiche
Fu il giornalista Giovanni Russo, ai tempi in cui era un giovane collaboratore del settimanale « Il Mondo » di Mario 13 Strettamente personale cit., p. 11. 14 Dicono di lei, Sei, Torino 1974, p. 15.
15 Ivi, p. 6. 16 Ibidem. 17 Lettera al lettore, «Il Resto del Carlino », 22 giugno 1970. ì
18 Strettamente personale cit., p. 89. 19 Nuovo concorso: il fesso dell’anno, « Corriere della Sera », 8 marzo
SHE). 20 Strettamente personale cit., p. 96.
21 Citato da Giampaolo Pansa, ivi, p. 8. 2 Donata Righetti, Il pubblico mi segue perché non « Il Giorno », 25 ottobre 1982. 23 Strettamente personale cit., p. 13.
so imbrogliarlo,
N. Ajello - Enzo Biagi
13
Pannunzio, a registrare con ironica compunzione un evento scon-
volgente per il lavoro dei giornalisti italiani: la scoperta del « per cento », l'avvento cioè delle statistiche. Sono passati trent'anni e più, ma per Enzo Biagi quella rivoluzione è come se non fosse mai scoppiata. Le statistiche lo lasciano freddo, diffida delle « ricerche », non si piega ad ammettere — come ha osservato Montanelli — che «il mondo sia fatto di strutture, sovrastrutture e infrastrutture ». Più in generale, «fra Biagi e la
sociologia c’è assoluta incompatibilità di carattere » 24. All’espressione « per cento », quando gli capita di adoperarla, dà il significato prevalente nel lessico del malcostume italiano: «Si rafforza il sospetto che il termine “ cinque per cento ”’ stia diventando il motto della Repubblica. Libertà, fraternità, percentuale » 7. Sommerso dagli « umori », Biagi resiste ai numeri. Proclamandosi « uno specialista in niente », dichiara guerra agli specialisti in tutto. Tra i rimproveri che rivolge alla sua epoca spicca la constatazione che « questo è il tempo degli esperti. O si è competenti o è la fine». Deride gli economisti, specie se targati con tessere di partito: « Il Pci pare ne abbia uno solo, si chiama Peggio, ed è sempre citatissimo: Peggio ha detto, secondo Peggio. Non aspettatevi che l’economista, intervistato, riveli molte cose: precisa, di solito, che ‘il problema non è tecnico ma politico ”’ e così si tira fuori » 7. Lo irrita l’esperto in psicologia che scruta l’orizzonte col cannocchiale dei complessi, cercando di dimostrare che chi «si butta su tre piatti di pasta e fagioli » lo fa « perché non gli vogliono abbastanza bene » 8. Per non parlare delle « pretese scientifiche » di certi sondaggi d’opinione: « Figuriamoci se i miei compatrioti, che
nascondono tutto alla moglie e al fisco, e sono anche guardinghi come penitenti, si abbandonano con un gelido compilatore di schede... » ??.
24 Indro Montanelli,‘ Testimone del tempo, dicembre 1970. 25 Strettamente personale cit., p. 129.
26 Ivi, p. 86. ZIRIVI DORIA
28 Ivi, p. 193.
29 Ivi, p. 194.
« Corriere della Sera », 1°
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Perché loro
9. Le facce dei politici L’unica cosa sulla quale Biagi non professi incredulità sono « le facce ». Su questo terreno si misurano le sue capacità e i suoi poteri di opizion maker. I sottotitoli dei suoi libri ruotano spesso intorno a questa realtà fisionomica (« figure e figurine », « tanti volti, tante storie »). Prezzolini, dando conto del suo volume sull'Unione Sovietica, osservò che «in realtà è un libro sui russi, non sulla Russia » °°. Lo stesso potrebbe dirsi, cambiando il nome dei popoli, di ogni pagina della Geografia di Biagi. Le sue rubriche sulla « Repubblica » e su « Panorama » sono antologie straripanti di facce d’italiani, corredate dalle generalità anagrafiche dei loro possessori: «In un paese dove: si tende solo a fare delle questioni di principio », egli proclama l’obbligo di « citare qualche nome »*. In realtà, di
nomi ne cita a decine. All’interno di questo catalogo nominativo, il suo vero pane sono gli uomini politici. Non c’è forse giornalista che ne abbia effigiati altrettanti: i soli che in questo possano gareggiare con lui sono i vignettisti più fecondi, da Giorgio Forattini a Tullio Pericoli. In gran parte, la galleria parlamentare di Biagi è un museo degli orrori. A totalizzare il massimo dei sarcasmi è il Psdi,. per il quale Biagi nutre un’avversione quasi « lombrosiana »: « L’alpino [...] ha la testa larga, il sardo piccola, il socialdemocratico superflua » *. Pietro Longo, questo « Robespierre all'amatriciana » *, gli « fa venire in mente L’Incompiuta: ha una faccia sbozzata e approssimativa, come quella dei burattini. [...] Gli va riconosciuta, senza ironia, molta abilità: è a capo di una specie di Armata Brancaleone, in perenne marcia
alla conquista di clienti... » *. Quanto a demeriti storici, il gruppo
socialdemocratico è capeggiato dall’ex-ministro Mario Tanassi, a suo tempo coinvolto nello scandalo Lockheed. Un dramma che Biagi rievoca 30 Giuseppe Prezzolini, La Russia, o meglio i Russi, «Il Borghese », 22 dicembre 1974. 31 Strettamente personale cit., p. 12. 32 Ivi, p. 287. 33 Buoni postali di lire mille, «la Repubblica », 13 ottobre 1983. 3 Pietro il grande (secondo lui), « Panorama », 17 agosto 1981.
N. Ajello - Enzo Biagi
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in poche battute meno pietose di un’esecuzione sommaria: « “ Non penserete mica — ha detto l’onorevole ai commissari dell’Inquirente — che io sia un cretino? ”. C'è stato un attimo d’imbarazzato silenzio, poi il presidente che in gioventù fu boy-scout, ha compiuto la sua buona azione quotidiana: ‘ Ma no, si vede benissimo ”’ » ®. Luigi Preti, un altro socialdemocratico la cui trentennale attività di ministro si è interrotta soltanto di recente,
è «il piccolo Kennedy della Valle Padana » *. Definizione che risulta benevola in paragone con quella riservata a Mariano Rumor, « lo smemorato di Vicenza » #”, con allusione ai numerosi procedimenti giudiziari nei quali è apparso reticente; del resto, l’ex-presidente del Consiglio « è tanto bisognoso d’affetto. Gentile, grazioso, dimostra una qualche attitudine per il ricamo » *. Fra i democristiani dal passato illustre e dal presente patetico, Giovanni Leone viene ricordato per essere « assai bravo dicitore del repertorio napoletano. Chissà che una volta non si decida a cantare » ®. Le vicende che lo costrinsero a lasciare il Quirinale vengono comunque archiviate in fretta, con ferocia: « Non siamo a un Watergate ma a un watercloset » ‘. Intorno
a Carlo Donat Cattin, con quella sua « aria da vecchio massaggiatore di ciclisti » ‘, si addensa secondo Biagi « uno dei vari problemi del nostro tempo », essendo « moltissimi quelli che si domandano ‘che cosa ci sarà nella testa di quello lì?” »£.
10. Avanti
un altro
Non esiste praticamente uomo davanti all’obiettivo fotografico di giudicando le sue uscite, mi viene Trotzki (ahimè, sbagliando) dava
politico che non sia passato Biagi. Piccoli: « Molte volte, in mente la definizione che di Stalin: ‘la più eminente
mediocrità del partito ” » *. Zaccagnini: « È al di sopra di ogni 35 Strettamente personale cit., p. 37. s308]v1p:8295: 37 Ivi, pp. 136-7. 38 Ivi, p. 141. 39 Ivi, p. 169. 4 Ivi, p. 235. 41 Le fatiche di Ciriaco, «la Repubblica », 22 marzo 4 Strettamente personale cit., pp. 183-4. ‘43 Enrico il ragazzaccio, «la Repubblica », 6 maggio
1984. 1982.
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sospetto ma al di sotto di ogni ragionevole aspettativa » *. Nel caso di Marco Pannella non si esce molto da un cliché già visto (« Non dovrebbe mortificare la gola, ma la lingua ») ©, e così per Ugo La Malfa: « Bravissimo in stotia. Sa a memoria tutte le_ sconfitte » ‘. Fanfani, detto « il Pollicino della politica » 47 ‘”, stupisce Biagi per la destrezza acrobatica con cui riesce a tornare in auge dopo periodi di eclissi, pur mancandogli visibilmente il carisma dello statista: « Fa pensare più a Biancaneve che a Giolitti o a Gladstone, a un elfo birichino e non al principe Bismarck » *. Di Andreotti gli piacciono le doti di scrittore arguto, lo colpisce l’intelligenza prelatizia e insinuante, con un che di felino (« gli va riconosciuto il passo felpato, l’agilità, è di sicuro provvisto di unghielli, di certo ronfa, ma non miagola »), e lo impressionano le capacità di governo: « Ragazzi, ma uno come lui dove lo troviamo? È meglio del mago Binarelli che piega le. forchette... » ®. Nel caso di Spadolini si entra nel più puro « colore » giornalistico. Biagi lo ritrae ad esempio all’indomani delle elezioni del giugno 1983 (elezioni favorevoli al Pri), « giocondo, ilare, lievitante », tanto che, « se Mammì e Visentini non corrono a legarlo agli ormeggi, decolla. Al tempo del Mundial alzò due dita in segno di vittoria, come se fosse Paolo Rossi... » ®. Più meditata la reazione che gli suscitava Enrico Berlinguer. Incapace di ispirarlo letterariamente, il segretario del Pci sembrò piacergli per ciò che fece durante i governi di « solidarietà nazionale », sormontando mille diffidenze. Ma negli ultimi tempi anche il capo del Pci gli procurò qualche delusione: « Come fa un partito a tenersi un segretario che in dieci anni ha cambiato tre volte politica? » . E poi « purtroppo i comunisti », ha detto di recente a Giampaolo Pansa, « non hanno degli esempi rassicuranti da proporci ». Ciriaco De Mita, invece, non riesce neppure a illuderlo. « Pro4 Il baccalà di Garibaldi, « Corriere della Sera », 30 settembre 45 Strettamente personale cit., p. 138.
1979.
46 Ivi, p. 141. # 4 4 S0 51 5
Anche Pollicino fa quel che può, « la Repubblica », 7 aprile 1983. E arrivata l’ora di Craxi, «la Repubblica », 21 luglio 1983. Andreotti gatto o tigre, « Corriere della Sera », 15 marzo 1979. Strettamente personale cit., p. 161. Riflessioni post-elettorali, « la Repubblica », 30 giugno 1983. Domandine alla panna, « Panorama », 29 agosto 1983.
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mette
una
nuova
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marcia,
ma
ha a che fare con
una
vecchia
macchina » ®. « Vuol dare una botta alle correnti: è come prendere a schiaffi dei panetti di burro » *. 11. Socialista all’antica
Socialista sì, ma atipico: così si potrebbe definire Biagi politicamente. « Atipico », s'intende, rispetto al socialismo com'è praticato dai dirigenti venuti dopo Nenni, nei quali non si riconosce, tanto da decidersi a votare, alle elezioni del giugno 1983, scheda bianca, e tanto da ripetere un vecchio, amaro motto di Filippo Turati: « Come sarebbe bello il socialismo senza i socialisti! ». Con Giacomo Mancini ingaggiò una strenua contesa giudiziaria oltre che pubblicistica. Quanto a De Martino, osserva che, « di lui, a suo tempo si parlava di più come cacciatore che come segretario del Psi » ©. Di Craxi, in fondo, diffida. A suo parere questo cognome « Craxi » è passato a designare una moda: « va molto il rosa Craxi », egli scriveva qualche anno fa, intendendo riferirsi fra l’altro all’ultima reincarnazione di un ambiente composto « da ‘ fantastici” o da sociologi o da impegnati, che non ti fanno venire in mente Marcuse o Brecht, ma Pierre Cardin: cambiano modello a seconda della stagione » *. Al segretario socialista, in sostanza, Biagi riconosce « il merito di aver reso il suo partito autonomo ed efficiente », ma gli rimprovera i metodi spregiudicati, la rissosità, la prepotenza, la soverchia e sospetta modernità, l’eccessiva mancanza di inibizioni, il fatto di considerare il codice penale « una questione di stato d’animo » ”. Tutte doti o difetti che gli hanno consentito di adagiarsi « in poltrona, mentre anche Nenni, il maestro, aveva
dovuto accontentarsi di uno strapuntino » ®. Non c’è da meravigliarsi: per «il vecchio Pietro, il socialismo era una visione che oggi può sembrare retorica: invece, presupponeva un sentimento religioso. ‘ Se non è umano ”, diceva, ‘“ non è niente” » 53 54 55 56 5 58 59
La mia scheda sarà bianca, «la Repubblica », 12 maggio 1983. Le fatiche di Ciriaco cit. Quella strada aperta da Nenni, «la Repubblica », 29 marzo 1984. Strettamente personale cit., p. 272. «la Repubblica », 27 agosto 1981. Caro Bettino..., Ed è arrivata l’ora di Craxi, ivi, 21 luglio 1983. Quella strada aperta da Nenni cit.
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Se Craxi ha tralignato, certi suoi seguaci sembrano appartenere addirittura a un altro mondo: «Se ne è fatta di strada — lamenta Biagi — dagli scamiciati di Pellizza da Volpedo alle cravatte regimental della giovane guardia Psi ». Martelli? « Porta, di solito, golfini azzurri e fa spesso dichiarazioni ai giornali che poi Craxi smentisce o ridimensiona » ®. De Michelis? «Lo vedrei meglio come torero; bellissimo, forse, come gaucho... » *. Formica? « Un eminente politico delle sue parti, il popolare Gaetano Scamarcio, ha detto: ‘A uno così non si dovrebbe affidare neppure una salumeria’ [...] Bene: a un personaggio che non sarebbe in grado di affettare decentemente tre etti di prosciutto, il Psi ha attribuito, nientemeno, il compito di capogruppo a Montecitorio. Indegno per gli insaccati, ma idoneo per il parlamento » £. Questa avversione per i socialisti di nuovo conio non impedisce tuttavia a Biagi di provare disagio di fronte al culto, spinto ai confini della piaggeria, che taluni riservano al socialista più antico disponibile su piazza, Sandro Pertini (che peraltro egli venera): « Pertini antifascista, Pertini soldato, Pertini
resistente;
e la serie continua,
e fa venite
in mente,
col dovuto rispetto, i primi cortometraggi di Charlie Chaplin: Charlot alla guerra, Charlot pompiere, Charlot al circo » È.
12. Il qualunquismo non è più peccato
Quelli di Enzo Biagi sono giudizi giusti e sensati, al di là dell’effetto parodistico cui mirano? Certo, non sempre. Ma il criterio per giudicare la loro efficacia e la loro corrispondenza agli umori del pubblico è un altro. Col peggiorare del comportamento della classe politica s'è andata notevolmente attenuando l’avversione dei lettori « progressisti » verso ciò &he nel loro ambiente era convenuto definire, spesso indiscriminatamente, « qualunquismo ». La maldicenza nei riguardi dell’establisbment, sia di governo che di opposizione, che nei primi decenni del dopoguerra era stata retaggio della pubblicistica di destra — dal « Borghese » al « Candido » — ottiene, ormai da parecchio 60 61 € 6
Kamasutra nello spazio, «la Repubblica », 21 aprile 1983. È carnevale ogni trucco vale, ivi, 1° marzo 1984, Una trama da Formica, « Panorama », 23 luglio 1984. Da Pietro Micca al nostro Pertini, ivi, 26 aprile 1984.
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tempo, pieno diritto di cittadinanza nei giornali che si riconoscono nell’« arco costituzionale ». Comunque lo si giudichi, è un fatto (a sancire il quale — sia detto fra parentesi — ha notevolmente contribuito uno scrittore di sinistra, Pier Paolo Pasolini, coi suoi « scritti corsari » pubblicati, fra il 1973 e la morte, sul « Corriere della Sera » * e centrati sulla critica al « Palazzo »). La ventata radicale, assai forte sulla metà degli anni Settanta, all’epoca del referendum sul divorzio, ha lasciato nel pubblico italiano un residuo d’irriverenza verso le gerarchie, i valori costituiti, le « idee ricevute » in materia politica. Caduti molti dei tabù che li proteggevano, i notabili della democrazia italiana si trovano ora esposti in prima persona alla satira; la quale, per la persistente assenza di giornali specializzati, si sparge nell’intero panorama della comunicazione. Di questa svolta intervenuta nella sociologia del lettore italiano, autori come Biagi sono i principali beneficiari. La loro vena se ne avvantaggia,
il loro pubblico si dilata reclutando, oltre ai tradizionalisti e ai « benpensanti », scettici di umore radicale, protestatati apolitici, scontenti d’origine o inclinazione « liberal », pentiti di ogni provenienza.
Questo pubblico, ormai imponente, sostiene che in Italia «i clown sono sempre in pista » ©, e nella categoria non comprende soltanto gli inquilini del Palazzo (quasi tutti) ma anche i residui sessantottini, cioè coloro (sempre più pochi) che continuano a mimare l’« impegno » per darsi un contegno « di sinistra» e sollecitare indulgenze ideologiche che nessuno è più disposto a concedere. Biagi li chiama «i rivoluzionari extra », e li descrive per il piacere dei suoi lettori: « Portano le Clark e comperano i giacconi usati dell’U.S. Navy. Per dare forza al discorso, bestemmiano ». « Sono, è naturale, per la coppia aperta». «In attesa di gestire il potere, gestiscono il corpo ». « D'estate vanno in Grecia e al ritorno raccontano soddisfatti: “Ho: visto anche la Luciana Castellina”. La loro compagna è femminista. Collaborano a una radio libera », libera «in certi casi anche dagli impacci della sintassi ». « Quasi tutti, per loro, sono fascisti », dal papa a « quel revisionista di Berlinguer » ®. 64 Pasolini esordì nel « Corriere della Sera » il 7 gennaio 1974 con una « tribuna aperta » intitolata Contro i capelli lunghi. 65 Strettamente personale cit., p. 157. 6 Ibidem. 1
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Ma di questa varietà umana lo stesso Biagi comincia ben presto
a discorrere col verbo al passato: « Ricordate quando bastava parlare di ‘opposti estremismi” per sentirsi battezzare fascisti? » ®”, Quanti fra coloro che nel 1976 consideravano — ingiustamente — Biagi un fascista, magari senza nemmeno leggerlo, oggi lo leggono con entusiasmo nella « Repubblica » di Scalfari? Ecco un sondaggio che, se qualcuno lo avesse fatto, ci esimerebbe dal proporci tanti interrogativi sul perché d’un successo che sembra crescere con gli anni.
13. Le cose
col loro nome
In genere, gli autori di epigrammi (e l’articolo di Biagi è spesso una sequela di epigrammi) cortono il rischio di puntare tutto su una battuta, anche se disadatta a un palato mediamente raffinato. Nel caso di Biagi quel rischio aumenta. Egli è infatti un
epigrammista
« di massa ».
Le
sue
capacità
di autosorve-
gliarsi sono condizionate dal tipo di dialogo che intreccia col suo pubblico: un dialogo fra gente adulta, incurante di sinonimi, intessuto di allusioni trasparenti. E, qualche volta, troppo saporito. Come quando, nel primo articolo scritto per «la Repubblica » dopo l’abbandono del « Corriere della Sera » in seguito al caso Gelli-P2, l’autore di Strettamente personale riferì di un dibattito aperto dal quotidiano « Il Manifesto » sul tema: « L’omosessualità è di destra o di sinistra? ». « Per me — fu il suo commento — è sempre stata di centro » £. Stupì il fatto che un uomo della sua esperienza non si rendesse conto dell’inopportunità di esordire con una frasetta del genere su un giornale che — riflusso a parte — si rivolge pur sempre a lettori aggiornati in materia di costume, e pertanto disadatti ad apprezzare, su temi come l’omosessualità, il ricorso a un repertorio vecchio stile. Oppure si trattava di una sfida del tipo: io sono Biagi e non c’è « Repubblica » che tenga?
67 Ivi, p. 201.
6 Orfanelli della P2, «la Repubblica », 16 luglio 1981. Sul tema del sesso « problema di centro », Biagi tornerà nella nota Il moro di Venezia, «la Repubblica », 30 agosto 1984.
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14. Lui e gli intellettuali
Con gli intellettuali in quanto categoria, Enzo Biagi non lega. Lo blocca in questo il suo moralismo. Non gli piacciono gli uomini di cultura che si precipitano a firmare appelli contro questo o a favore di quello: una volta, per ottenere «un po’ di calma e un po’ di misura » in questo campo, propose che «ogni autografo » fosse « accompagnato da un consistente’ obolo » ®. Quelle che predilige sono sempre figure a tutto tondo, gente che « ha pagato di persona » o che presenta qualche tratto di anticonformismo. Ignazio Silone, Corrado Alvaro, per ragioni diverse Longanesi, Brancati e Flaiano, per altre ancora Fenoglio. Tra i viventi stima un narratore come Domenico -Rea, ama un vecchio saggio come Mino Maccari, si sente vicino a' Fellini, a Sciascia, a Bocca; apprezza Umberto Eco («uno scrittore geniale ») ”; ha simpatia per Bacchelli, il patriarca bolognese che ha scritto « almeno dieci milioni di parole » ”; rispetta Norberto Bobbio, uno «che era antifascista anche prima del 25 luglio » ??, e nutre ammirazione per Pajetta — la cui autobiografia, Rio Fosso; è uscita presso Mondadori per suo suggerimento — come a suo tempo per Amendola. Fra gli scrittori stranieri
pensa
di somigliare,
come
carattere,
a Faulkner,
che
conobbe in America. « Mi piaceva tutto di lui il fatto che vivesse in campagna lontano dalla società letteraria, che i suoi amici fossero un droghiere, uno stalliere (ma anche un professore molto colto); che non parlasse quasi mai — magari per civetteria — di ciò che scriveva; che quando aveva un po’ di soldi si comprasse un trattore come ho fatto io... » ?.. Ma forse quelli che gli capita di ricordare in maniera più solidale sono alcuni artisti o critici italiani che hanno avuto pochi riconoscimenti dai posteri — Marino Moretti, Alfredo Panzini, Massimo Bontempelli, Vincenzo Cardarelli, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Pietro Pancrazi, Giuseppe Marotta — e anche alcuni giornalisti ritenuti prodigiosi ai loro tempi, da Orio Ver69 70 N 7. 73
Perché non firmo mai, « L'Espresso », 2 dicembre 1979. La mia scheda sarà bianca cit. Dicono di lei cit., p. 27. «la Repubblica », 3 febbraio 1983. Noi giornalisti tanto lobbisti, Testimonianza all’autore di Enzo Biagi.
3
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Perché loro
gani a Curzio Malaparte, e oggi ugualmente dimenticati, a dimostrazione di un triste assioma che Biagi suole ripetere: « L’autore italiano muore sempre due volte, una per lo stato civile e l’altra in libreria ». Nelle sue citazioni — Biagi ne fa largo uso — ricorrono di preferenza gli scrittori-moralisti (Orwell, Bernanos, Mauriac, Camus) ma vi si trova di tutto, da. Wagner a Pitigrilli, da Goéthe a Petrolini, da Maupassant a Brecht, da Verdi a Cechov. Comunque, invitato a rispondere alla domanda «chi sono gli intellettuali? », Biagi pensa subito « a Lussu, ai Rosselli, a Leone Ginzburg ». L'elenco è sparuto, « ma neppure la Chiesa ha avuto milioni di santi». Un ossequio rituale all’antifascismo storico? Esso proviene, tuttavia, da un uomo che — anche. se non ne parla mai — ha fatto la Resistenza nell’appennino toscoemiliano con le brigate Giustizia e Libertà, cioè in sostanza con quel Partito d’Azione che fu — come ha detto a Pansa nella citata intervista — «il sogno della mia giovinezza ».
15. Le scene
madri
Biagi sa toccare la « corda civile ». Prendiamo il caso Moro: alcuni fra gli articoli più degni usciti nella primavera-estate del 1978 portano la sua firma; eppure in altri tempi egli non aveva mostrato soverchia simpatia per Aldo Moro. La commozione.
è il rovescio della medaglia Biagi. È l’altra faccia dell’ironia, così come lo sdegno. In qualche momento — per esempio quando s’intrattiene sulla P2 oppure sul caso Tortora — la sua prosa, di solito svagata e immune da enfasi, diviene veemente. C'è infine il « pudore » di Biagi. Pensiamo a un paio di articoli dedicati a un’operazione chirurgica cui lo scrittore venne sottoposto sei anni fa per sistemare il cuore, « un accessorio che perdeva qualche colpo ». Qui Biagi riesce ad avvicinare a sé il lettore con mano più leggera e in maniera più efficace che mai, «anche perché stavolta la sigla « strettamente personale » non è un pretesto "9, 74 Strettamente personale, p. 103. 7 Vedi A cuore aperto parlando di me e La farina è sempre la stessa ma le uova non sono fresche, « Corriere della Sera », 30 novembre 1978 e 1° marzo 1979.
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16. Giornalista
25,
con le bretelle
« Faccio il giornalista da quando ero ragazzo e [...] potrei essere considerato anche un grafomane » 7. « Sono nato con gli occhiali e con la biro » 7. « Ho preso il giornalismo sul serio » ®. Pur riconoscendo che la categoria cui appartiene presenta « dei grandi rischi » ?, e pur diffidando delle tradizioni di moralità di questo « mestiere impudico », Biagi gli scioglie appena possibile un inno riconoscente. Tutto sommato, la sua biografia professionale — che sarà argomento d’un nuovo volume ora in preparazione, Mille camere — è in linea con queste premesse. Direttore successivamente d’un settimanale (« Epoca », dal 1953 al 1960), del telegiornale (dall’autunno del 1961 all’estate del 1962) e d’un quotidiano (« Il Resto del Carlino », dal 22 giugno 1970 al 30 giugno 1971), ne è uscito ogni volta per
evitare un compromesso inaccettabile o perché vittima di una prevaricazione « padronale ». Ciò gli capitò a Milano, quando il vecchio Arnoldo Mondadori, dal quale « era adorato », concesse alla Dc la sua testa per punirlo della severa obiettività con cui « Epoca » aveva raccontato i fatti di Genova del luglio 1960. Gli capitò di nuovo a Roma nel 1962, quando abbandonò gli uffici di via Teulada non riuscendo a sopportate le pressioni politiche che si addensavano intorno al telegiornale. La cosa si sarebbe ripetuta a Bologna, allorché Biagi decise di respingere le insistenze del commendator Attilio Monti perché licenziasse alcuni redattori politicamente scomodi, rimettendoci il posto di | direttore. La rinunzia alla sua colonna sul « Corriere della Sera », dopo il caso Gelli-P2, e il successivo passaggio alla « Repubblica » sono storia recente. Certo, non rimane mai disoccupato. Ma è doveroso sottolineare che lo scetticismo in cui sembrano avvolte le sue note di costume non si risolve mai in cinismo pratico, com'è stata tradizione di certi giornalisti italiani dalla firma illustre, da Mario Missiroli a Giovanni Ansaldo (tanto per fare qualche nome), né contrasta con un’intensa passione di cronista che a quei « gran76 Strettamente personale cit., p. 11.
Ti Ivi, p. 104.
78 Enzo Biagi, Testimone del tempo, n.e., Rizzoli, Milano 1980, p. 6. 79 Il buio oltre lo scoop, « Panorama», 6 febbraio 1984.
Perché loro
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di» mancò. Le mormorazioni anti-Biagi che si ascoltano nei corridoi dei giornali vengono smentite con calore da chi ha lavorato con lui. Nei racconti dei testimoni oculari la sua dedi-
zione al mestiere sfiora l’iperbole. « Suscitatore di incandescenti atmosfere
redazionali » ®, lo definisce
Enzo
Bettiza
rievocando
gli anni in cui Biagi dirigeva « Epoca ». « È un ciclone di lavoro a sessant'anni », ha scritto Guido Gerosa, « potete immaginare come fosse a trenta. [...] Ricorda sua moglie, la signora Lucia, che alla sera, quando tornava a casa, Biagi si gettava sul tappeto del salotto buono e si addormentava. “ È il mio miglior modo di riposare ’’, diceva » *!. Qualunque cosa gli dessero da dirigere, Biagi era « popolatissimo fra la truppa », la quale era spesso costituita da giornalisti scoperti da lui, « personaggi pescati fellinianamente dalla strada e dalla provincia ». Uno di questi, Aldo Falivena, cotrispondente da Salerno di un quotidiano napoletano, che Biagi chiamò prima a « Epoca » e poi in televisione, non esita a definirne «religiosa » la passione professionale. « C'è una frase — dice Falivena — che Biagi adopera quando vuole farti un complimento: ‘Tu sei un giornalista con le bretelle”. Si riferisce a uno di quei personaggi alla Mark Twain, che lavorano in piccole redazioni della provincia americana. Il loro aspetto è dimesso, ma sono loro il meglio di quel giornalismo. Magari la sede del giornale è a un passo da una centrale di Cosa Nostra, ma essi continuano a indagare e a scrivere sui delitti della mafia, ogni mattina. Senza essere degli eroi; solo per passione di
mestiere » ©, 17. Il fattore video
Fabiano Fabiani, che nel 1962 lavorò per qualche mese alle dipendenze di Biagi come caporedattore del telegiornale prima di sostituirlo come direttore, racconta che proprio in quel frangente scoppiò il terremoto in Irpinia. Enzo Biagi era fuori sede, stava girando un servizio in Polonia. La notizia s'era diffusa 80 Testimonianza all'autore di Enzo Biagi. 8! Guido Gerosa, L’ultima spiaggia di « Epoca», gennaio-febbraio 1984, p. 84. 8 Testimonianza
all’autore
di Aldo
Falivena.
« Mass
Media », 1 LI
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da poco quando Fabiani venne chiamato al telefono. Era Biagi. Le sue prime parole furono: «Che fortuna, ragazzo!» (ma l’espressione era più colorita). Era un modo di fargli gli auguri, ma forse nascondeva anche un po’ di invidia, del tutto naturale in un vecchio cronista come lui che ama ripetere una frase di Tommaso Besozzi, il più grande e temerario inviato del dopoguerra: « A una certa ora anche nel deserto può accadere una storia meravigliosa.
Basta esserci » *. Più tardi, nel 1970, con
Fabiani direttore dei programmi culturali della tv, Biagi preparò una delle sue serie televisive più tipiche e fortunate, Terza B. Consisteva nel rintracciare un certo numero di personaggi noti che erano stati insieme a scuola venti o trent'anni prima, e nel farli sedere sui banchi di una classe di liceo « simulata » in studio, invitandoli a rievocarsi. Di quella esperienza, e di altre avute con Biagi, Fabiani conserva un ricordo vivo: « Come autore
di programmi
in tv, Biagi è una presenza
impegnativa,
vulcanica. Non rinunzia mai a un’idea: è capace di aggiungere all’ultimo istante un pezzo di filmato a una trasmissione che sta per andare in onda. Con lui puoi fare il direttore solo fino a un certo punto: al massimo accetta qualche consiglio » **. Giornalista « multimedia » per eccellenza e invadente per istinto o destino più che per calcolo (« Diavolo d’un Biagi », ha scritto Massimo Fini su un quotidiano, « ho l’impressione che se continua a fare inchieste per la televisione rimarrà ben poco spazio per chi fa lo stesso lavoro sui giornali »)®, egli si adegua con prontezza al tramite tecnico che utilizza. Dal Biagi scritto al Biagi visto e ascoltato c’è, in particolare, un notevole calo di temperatura satirica e anche di tensione polemica. Sul video, non è aggressivo come Giovanni Minoli, non ammicca come Emilio Fede, non prevarica come Maurizio Costanzo, non fa domande interminabili come accade a tanti giornalisti invitati a « Tribuna politica ». È rispettoso con l’intervistato (anche quando si tratta di un Toni Negri, al quale si può escludere che lo leghi soverchia simpatia) e rassicurante verso il pubblico. Anziché caustico appare clemente — tranne che in qualche raro scatto di nervi — quasi che il contatto diretto con l’interlocu8 Donata Righetti, art. cit. i i i 84 Testimonianza all’autore di Fabiano Fabiani. 85 Massimo Fini, Diritto o delitto di cronaca, «Il Giorno », 5 maggio
1984.
Perché loro
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tore lo plachi. Punta più sulla credibilità che sul brio. Quasi mai sorride. Parla a bassa voce. Si limita a esibire, per dirla con Prezzolini, « quel suo volto benevolmente immobile che non si stupisce né pare commuoversi di nulla » *. Fra l’altro, ha per consuetudine di apparire più anziano della sua età. «I maligni — osservava parlando di lui quattordici anni fa Indro Montanelli — sostengono che per captare la fiducia dell’interlocutore, insinuarsi nel suo animo ed esplorarne con tutto comodo i più riposti risvolti, si è rifatto tingendosi i capelli di bianco e attribuendosi delle grosse lenti di cui non ha nessun bisogno. Posso testimoniare che non è così. Quella faccia è proprio la faccia di Biagi. Gli occhiali li porta perché è orbo. La sua canizie è precoce, ma autentica. E autentica è anche la sua bonarietà. Biagi disarma perché è disarmante » ®. Chiunque altro, dopo tanti anni impiegati a girare il mondo, avrebbe almeno tentato di acquistare una pronunzia più plausibile dei cognomi stranieri: lui no, tetragono nel recitarli con l’inflessione di Pianaccio. È semplice mancanza di orecchio per le lingue o meditata convinzione che ciò « paghi » in termini di popolarità? Anche qui interviene la testimonianza di un suo amico che è anche un suo far, Mario Spagnol: « Biagi è forse la persona meno snob che io conosca. È un dono che lo aiuta ad andare naturalmente incontro alla gente » **. 18. Qualche goccia di arsenico
Questo istintivo abbandono nelle braccia del pubblico rende Biagi assai suscettibile alle critiche, anche quando provengono da chi non sembrerebbe in grado di impensierirlo. Chiunque può farlo offendere. La sua stessa incapacità di tener. conto delle gerarchie e di rispettare l’establisbment si riverbera in questo aspetto — che chiameremo « democratico » — delle sue ire. Non sempre Biagi riesce a dosare l’arsenico che versa nel suo inchiostro. Quando si rivolge alla giustizia per ottenerne ragione — come nella citata contesa con l’ex-segretario socialista 8 Giuseppe Prezzolini, art. cit. Montanelli, art. cit. 88 Testimonianza all’autore di Mario Spagnol. 87 Indro
N. Ajello - Enzo Biagi
Giacomo Mancini —
ZII
è puntiglioso come un leguleio. Non meno
aspre, e a tratti sproporzionate, sono le sue offensive «in carta
semplice », affidate agli articoli di giornale. La franchezza lo induce a consentire con chi lo definisce « permaloso ». « Ammetto di esserlo — ha risposto per esempio a Giampaolo Pansa — e l’ho scritto. È un difetto tipico di quelli che prendono in giro gli altri: se poi capita a loro, s’arrabbiano come dei
matti » ©. Come un matto s’arrabbiò, per esempio, nel febbraio 1983 quando l’idea balenatagli durante una puntata di Film-dossier — organizzare una specie di referendum sulla pena di morte, invitando gli spettatori « favorevoli » ad accendere una lampadina in casa propria —
suscitò reazioni severe (e a nostro parere,
giustificate). Spingendosi al contrattacco, Biagi ruppe gli argini. Per Gianni Baget Bozzo coniò una dura definizione: « missionario da superattico ». A Luigi Pintor, giornalista di lampante intelligenza, attribuì dei « lampi d’imbecillità ». A proposito di Luca Pavolini, Biagi ricordò due versi che Maccari aveva dedicato quarant’anni prima a un altro Pavolini, Paolo Emilio, nonno dell’esponente comunista: « Eccellenza, facciam voti/che sian meglio i nipoti ». E concluse: « Ho l’impressione che l’auspicio
non si sia realizzato » ”. 19. Sulle orme di una generazione Per Biagi, il fatto di appartenere a una leva di italiani che avevano su per giù vent'anni nell’estate del 1940 e che hanno fatto in tempo a «perdere tutte le guerre » vivendo molti fra i drammi del secolo non è una semplice connotazione anagrafica, ma un dato psicologico decisivo. Di questa sua generazione si direbbe che egli si consideri una specie di delegato permanente. I suoi interessi giornalistici ne sono fortemente segnati; ne risulta accresciuta l’attitudine a fissare le scene-cardine di un’epoca e di farsene testimone. Lamberto Sechi, bolognese e amico di Biagi da sempre — « abbiamo “la fissa” » dice 89 Dalla prefazione (in forma d'’intervista) di Giampaolo Pansa a Enzo ] Biagi, Diciamoci tutto, Mondadori, Milano 1984. 9% Sono il boia della lampadina, «la Repubblica », 17 febbraio 1983.
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nel gergo dei giornali per significare che si telefonano almeno una volta al giorno — racconta l’entusiasmo provato da Biagi nel fare una delle sue scoperte più ghiotte: di recente è riuscito a individuare in un medico residente negli Stati Uniti quel lacero bambino ebreo col viso semicoperto da un berretto di operaio che venne fotografato quarant’anni fa nel ghetto di Varsavia, e che di quel luogo e di quei tempi sarebbe diventato
il tragico emblema”. Sono questi gli scoop che Biagi preferisce. È nota la votacità con cui raccoglie le ultime confidenze dei protagonisti di eventi importanti dell’ultimo mezzo secolo, dai sopravvissuti dell’era nazista agli anziani vincitori del secondo conflitto mondiale, dai superstiti m4îtres-d-penser del ’900 alle maliarde sfiorite di un’Europa che non c’è più. Per lui il mito della femminilità continua a incarnarsi in Michèle Morgan, in Arletty o — se vogliamo restare in Italia — in una Clara Calamai o un’Alida Valli. I suoi entusiasmi e le sue malinconie restano confinati in questi orizzonti cari alla sua epopea di ragazzo di provincia. Un’epopea nella quale il trasferimento da Bologna a Milano, nel 1952, segna «un grosso salto dal punto di vista umano », come Biagi stesso ha detto in un’intervista. « Sono partito da Bologna piangendo. A Milano vivevo come un emigrante. [...] Quando
uscivo con la famiglia ci tenevamo
per mano,
io, mia
moglie e le bambine; andavamo fino a piazza del Duomo e poi tornavamo a casa in tutta fretta perché ci sentivamo smarriti..»?. Quanti italiani nati in provincia non hanno subìto lo stesso trauma migratorio, negli stessi anni Cinquanta? Anche in questo caso, la pretesa di rappresentare una generazione, cui accennavamo, non appare del tutto campata in aria. Per Biagi
quel trasloco segnò il debutto nel grande giornalismo #; ma in lui il residuo provinciale, crepuscolare, deamicisiano è rimasto 9 Testimonianza all’autore di Lambetto Sechi. % Ero partito da Bologna piangendo cit. 93 Biagi aveva cominciato a scrivere, di cinema, su « Architrave» e sull’« Assalto », che era il giornale della federazione fascista di Bologna. Era poi entrato al «Resto del Carlino » (dove diventò professionista nel 1942) come cronista e, per molti anni, vice critico cinematografico. Nel 1945, tornando dalla guerra partigiana, fondò il settimanale « Cronache », con la collaborazione di Lamberto Sechi, Giorgio Vecchietti, Massimo Dursi, Sandro Bolchi. Nel 1952 diventò caporedattore, e poi direttore, di « Epoca ».
N. Ajello -Enzo Biagi
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intatto. « Quante volte ho detto, mentre parlavo con un signore che si chiamava Adenauer o Kennedy, o che era il nipote di Stalin: “in fondo, per essere uno di Pianaccio, me la sono cavata abbastanza bene ” » *.
20. Più italiano degli altri? Non è escluso che proprio in questo modo di presentarsi come un piccolo italiano che ha fatto fortuna fino a poter parlare da pari a pari con « quelli che contano », rivelandone a volte le miserie, risiedano la forza persuasiva di Biagi e il suo successo popolare: un successo sorretto in buona parte dal fascino che esercita sui nostri connazionali il mestiere di giornalista, l’ultimo forse — ai loro occhi — che consenta di percorrere e di raccontare l’antico viaggio « dall’ago al milione ». Di questa favola Biagi è riuscito a farsi protagonista, sorretto dalla convinzione di essere più italiano degli altri. E chissà quanti lettori, scorrendo le migliaia di pagine che egli scrive, si sorprendono a pensare che un po’ è vero.
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GIORGIO
ARMANI
di Natalia Aspesi
1. Un
successo
nel successo
Due partiti importanti gli avevano offerto la candidatura alle elezioni europee, assicurandogli il seggio; il regista Michelangelo Antonioni ha rimandato oltre il limite del possibile la realizzazione di un suo film sulla moda, nella speranza di ottenere la sua indispensabile collaborazione; un incaricato della Biennale di Venezia ha tentato di convincerlo a sponsorizzare la sezione cinema. In un recente convegno letterario, Salvatore Veca ha usato il suo nome come termine di paragone pet quello che ha definito «l’argomento Armani/Croce »: « Dopo Croce, nessun Armani in filosofia, il made in Italy in filosofia non funziona ». Vestirà la nazionale di calcio, disegnerà un nuovo telefono per l’Italtel, farà i vestiti per il prossimo film di Dario Argento, Phoenomena, interpretato da tutte donne e un solo uomo. Da quando la moda è entrata nei sogni di tutti, gli stilisti sono diventati i nuovi profeti, circondati dalla stessa luce carismatica delle stelle del cinema di un tempo. In uno delle centinaia di ritratti a lui dedicati, l'americano Richard de Combray ha scritto: Nessuno meglio di Giorgio Armani incarna questa nuova immagine di divo. Ha tutto: talento, bell’aspetto, modo di fare impeccabile. Quello che gli manca ha provveduto ad attribuirglielo la fantasia popolare. Il suo valore di simbolo si è ingigantito al di là della vita stessa, lasciando ai suoi fans un ampio spazio da colmare a loro piacimento. La sua‘reticenza può essere interpretata come un elemento di mistero, i suoi rari sorrisi hanno il potere di illuminare una stanza e le sue dichiarazioni vengono accolte dallo stesso tipo “di attenzione che si riserva di solito agli uomini politici. È ricco, è fotografato, la sua compagnia è ambita, e non appena capita l’occasione, tutti si precipitano a stendergli la mano.
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« In Italia c'è il papa e Armani », ha detto una ragazza che lavora in una sua boutique a New York. Giorgio Armani è nato a Piacenza l’11 luglio 1934: come Brigitte Bardot e Sophia Loren, nel 1984 ha compiuto 50 anni. La carriera delle più celebri star europee degli anni Cinquanta si è chiusa o sta dignitosamente finendo. Armani è in pieno fulgore, la sua carriera, e anche la sua vita, sono cominciate a 40 anni. Da un po’ di tempo la smania attorno alla moda si è dilatata e incattivita, l’ha resa essenziale e incerta, prepotente e appassionante,
causa
e culturale:
e vittima
di un
violento
sfruttamento
economico
si sono massificati la sua produzione, la sua distri-
buzione, il suo consumo, e contemporaneamente si è mitizzata la sua immagine di esclusività, lusso, raffinatezza, ricchezza. Il desiderio di moda ha travolto la diffidenza maschile (e infatti
in Italia gli uomini spendono per abbigliarsi più delle donne), ha investito ceti e persone refrattari a ogni lusinga estetica, ha dato l’illusione di un accesso generale a un bene che rassicura e promette magie, ha reso vistosa, più di ogni altra merce, la ricchezza diffusa e nascosta degli italiani, ha travolto ogni snobismo estetico, contagiando anche chi ha cercato sempre di distinguersi dagli altri, di sottrarsi alle mode, di affidare il proprio senso della differenza e dell’eleganza a pochi capi essenziali e tradizionali. Poiché l’immagine è diventata un valore più significativo del consumo, il consumo si risolve soprattutto in funzione dell’immagine che permette di raggiungere; e la moda diventa il più accessibile, il più appassionante, il più facile valore espressivo. In modo vicino all’eccesso, non l’abbigliamento, ma la moda, appare come un impegno creativo per il suo utente: attraverso una delle tante mode a disposizione e in continuo apparente cambiamento, che fanno parte di uri unico sistema della moda, chiunque sente di partecipare a un’immagine, di creare un'immagine, di rappresentare un’immagine. Invece il margine consentito all'invenzione individuale è ormai praticamente inesistente: tutto è già stato progettato da altri, prodotto da una rete industriale, commerciale e pubblicitaria per la quale lavorano in Italia più di un milione di persone, offerto con la sapiente illusione della scoperta, della libera scelta, della con-
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trapposizione perfettamente suddivisa di mostrarsi, a milioni, diversi da altri milioni. La rivista « Time » ha dedicato la copertina e la cover story del 5 aprile 1982 a Giorgio Armani: uno dei rari italiani (Berlinguer, Agnelli) e degli ancor più rari creatori di moda (Cardin, Klein) ad aver attirato l’attenzione del popolare settimanale americano. Dentro l’acte e agguerrito divismo della moda italiana, questa scelta è stata il segnale di un privilegio, di una consacrazione, di un’investitura. Da quel momento, tra i trionfanti nomi del vestire che da anni avevano conquistato il mondo (immutabilmente gli stessi, — Missoni, Krizia, Valentino, Versace, Ferrè, Fendi, Biagiotti, Coveri), Giorgio Armani, se non una sua superiorità, segnava certo una sua differenza, il punto fermo di un’ascesa tardiva e veloce, dentro uno spazio molto breve, sette anni, nel quale è passato dall’anonimato alla celebrità, in una carriera che intreccia spettacolarità, produzione, business, effimero, variabili sociali, industria, creatività, divismo
e durissimo impegno di lavoro. Senza la fortuna mondiale della moda italiana, del « made in Italy» come etichetta del bello, del ben fatto, del nuovo, del geniale, dell’elegante, dello chic, Giorgio Armani avrebbe
un successo meno incontrastato: ma senza il successo e la disponibilità a un divismo più agguerrito, avventuroso e organizzato come quello di Giorgio Armani, anche la moda italiana avrebbe avuto, se non minor fortuna, certo una meno luminosa risonanza, un più pacato boom. È difficile che l’uno e l’altra riconoscano il reciproco debito, perché il sistema industriale della moda è frantumato da passioni, gelosie, narcisismi, insicurezze. Resta il fatto che è impossibile raccontate la strada del successo percorsa da Giorgio Armani senza avere sempre sullo sfondo il successo non solo degli altri stilisti italiani (celebri e non), ma di tutta la capacità produttiva e imprenditoriale dell’industria italiana dell’abbigliamento; la quale in compenso continua ad affermarsi, sia pure tra le incertezze del mercato, trascinata anche dall'immagine e dal nome di Giorgio Armani: nel 1983 confezioni e maglieria hanno ‘avuto un fatturato complessivo di 17.400 miliardi, hanno esportato per più di 7000 “miliardi, raggiungendo ancora una volta un saldo attivo nella bilancia. dei pagamenti di poco più di 6000 miliardi, subito dopo le automobili.
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2.
Gli anni della Rinascente
Carriere come quella di Giorgio Armani possono apparire fortuite, legate al caso, per non dire alla fortuna. Sono invece il risultato di un intreccio indispensabile e raro che si compone molto prima di aspirare al successo. Sin dall’inizio c’è il talento, ma è latente, c’è un carattere schivo che non si concede ambizioni,
un’educazione
non
aggressiva
né
prepotente,
un
senso
profondo della dedizione al lavoro, della necessità di faticare per compiere il proprio dovere più che per farsi strada, una serietà rigorosa che impedisce i sogni ma poi li realizza. C'è insomma una personalità che appare inattuale, sfasata rispetto all’irruenza, alla determinazione, all’improntitudine, all’esibizionismo, alla violenza, al sapersi vendere, che sembrano oggi indispensabili per isolarsi dagli altri, nel successo personale. Eppure è proprio il tessuto silenzioso e poco appariscente del personaggio ad averlo predestinato a diventare un vincitore. Avrebbe potuto esserlo probabilmente in altri campi, lo è di certo in quello della moda anche se non ha mai sentito nessun interesse verso il mondo dell’abbigliamento, nessuna vocazione per‘il mestiere dell’eleganza. È proprio questa assenza di richiamo mistico, tipico di molte biografie di couturier uomini e donne (da bambino vestivo le bambole, da bambina indossavo gli abiti della mamma, da ragazza mi facevo gli abiti da sera con le tende, da ragazzo sognavo di conoscere Balenciaga, in casa c'erano i disegni di Poiret, i modelli di Chanel, le fotografie del guardaroba di Katherine Hepburn), a contribuire all’originalità di Armani e a segnare il suo fortunato incontro non con la moda ma con l’industria della moda, non con le forbici ma con la macchina, non con il cliente ma con l’organizzazione di vendita, non con i desideri delle belle signore ma con i problemi della produzione, non con la società da vestire ma con la società dell’informazione, della pubblicità del vestire. Alla fine degli anni Cinquanta Giorgio Armani è un giovanotto timido e di buona educazione, di aspetto gradevole, modi gentili, l’innata capacità di scegliersi bene le camicie, che cerca un lavoro qualunque. Ha terminato il liceo scientifico, ha interrotto l’università, facoltà di Medicina: sognava di fare il medico condotto, oppure di raggiungere il dottor Schweitzer, ma gli
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studi si sono rivelati troppo pesanti, troppo lunghi. È cresciuto a Piacenza in una famiglia modesta e per bene: un nonno artigiano mobiliere, l’altro artigiano di parrucche’ teatrali. Il padre Ugo è un buon uomo impiegato alla federazione del fascio, la mamma Maria una donna molto bella, brava a vestire i tre figli, Sergio, Giorgio e Rosanna, identici a lei, con scampoli di stoffa per divise militari. Alla fine della guerra il padre deve lasciare Piacenza e trova un lavoro a Milano, in una ditta di autotrasporti: la famiglia dopo un po’ lo raggiunge. Continua la piccola vita modesta e severa, accentrata sulla riservatezza e sul senso del sacrificio, sul rifiuto dello spreco e dell’esteriorità. Alla Rinascente cercano giovani
volonterosi, che si presentino bene, che abbiano voglia di affrontare lavori nebulosi, non ancora codificati. Assumono anche lui, anonimo ragazzo, fratello maggiore di Rosanna, allora e tuttora una ragazza speciale, bella, vivace, estroversa, con un senso della libertà che non l’ha mai resa soggetta a nessuno. A 17 anni era già una piccola celebrità, talmente splendente da diventare « la ragazza di Arianna »: la sua faccia luminosa, a cuore, il naso all’insù, i capelli neri corti e ricciuti, apparivano ogni mese sulla copertina di quella che era allora una bella rivista vivace e nuova; di casa se ne era già andata per fare solo quello che le pareva. Chi ricorda la Rinascente di quegli anni sa che era qualcosa di più di un grande magazzino: era un luogo di iniziative commerciali che non si sottraevano a un bisogno di cultura, di ricerca di novità non solo merceologica ma di gusto e di costume, con l’ambizione di essere all’avanguardia. In quell’epoca ancora povera, il mondo atrivava a Milano, e quindi all’Italia, attraverso le grandi mostre della Rinascente, allestite da Munari,
da Huber, da Sambonet, da Iliprandi, da Bordoli, dal giovane Ortelli. L'America, quell’America oggi invasa ‘dal « made in Italy », era ancora mitica e lontana, ma irrompeva da noi con i nuovi oggetti, i nuovi manifesti, un nuovo spirito giovane di ricerca, di cambiamento, di curiosità. Armani, uomo dai ricordi scarni e reticenti, come se non avesse passato, ha memoria invece per quegli anni magici anche per lui: lavorando come assistente vetrinista, assistente fotografo, assistente agli allestimenti, accanto a uomini colti, entusiasti, ingegnosi, imparava non solo a conoscere un mondo crea-
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tivo che non aveva mai avvicinato, ma anche a trovare in sé, oltre la sua insicurezza sileriziosa, oltre i limiti oscuri della sua timidezza, della sua impreparazione culturale, la ricchezza dell’osare, dell’immaginare, del fare. Poi lo passano all’ufficio acquisti di abbigliamento maschile, in mezzo a quella imperturbabile e immutabile casta che erano allora i compratori, gente disinvolta e non sempre irreprensibile che per conto del grande magazzino acquistava dalle industrie ciò che doveva essere conveniente mettere in vendita. Scelto ancora una volta per il suo aspetto signorile e la sua eleganza innata, nella nuova responsabilità mette tutto il suo rigore, inimicandosi subito i colleghi: per lui non bisognava accontentarsi, affidarsi ai soliti, compiacenti fornitori, ma cercare, trovare il nuovo, il meglio, il giovane, a buon prezzo. Stava inventando, imparando, un lavoro straordinario, allora assolutamente nuovo: distinguere tra il bello e il brutto, tra ciò che poteva star bene e ciò che stava male, soprattutto nell’abbigliamento maschile, legato a vecchi schemi di praticità industriale e di assoluta impraticità umana, camuffati dal concetto di vecchia e goffa dignità maschile.
3. L'esperienza con Cerruti
Nel 1965 Nino Cerruti è un giovane industriale biellese che fabbrica tessuti e abbigliamento maschile e femminile già raffinati: trova che quel compratore da grande magazzino è serio, puntiglioso, ben vestito, capace di riflettere a lungo sulla scelta basilare dei tessuti. Gli offre un posto alla Hitman, industria di confezioni maschili, gli dice di pensare all’eleganza, alla praticità, comincia a presentarlo come «il mio stilista », qualifica che allora significava poco o niente. Cerruti è uno specialista, una specie di maestro quasi coetaneo, che gli dà la massima libertà. Armani non ha esperienza, vuole imparare, non deludere, cercare di capire se quel lavoro gli piace, ci è portato. Cerruti gli dà fiducia, gli insegna a innamorarsi della fabbrica, a rendersi conto di che cos'è il lavoro dell’operaio. Comincia a percepire la sua capacità, ad amare l'affermazione personale, ad aver voglia di sentirsi ambizioso, di esprimere e imporre le sue idee.
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Alla Hitman si occupa solo di abbigliamento maschile, più industrializzato e diffuso di quello femminile ma ancora simbolo di un modo di vestirsi affrettato, declassato, senza eleganza. Per le collezioni da donna, Cerruti si serve ancora solo degli imbattibili francesi. Però nel suo negozio di Parigi mette in vendita qualche capo disegnato da Armani per le signore. E già si intuisce quella sua puntigliosa ricerca dei contrasti che diventeranno poi la ragione più vistosa del suo successo: se per gli uomini riesce, sia pure con fatica, a imporre tessuti definiti da donna, in quanto non rigidi, non pesanti, non grossolani, i suoi primi modelli femminili non sono che giacche maschili adattate a una figura più piccola e più sinuosa. Sta già sconvolgendo e intrecciando le definizioni di virile e femminile, generalizzando una linea disadorna, pratica, morbida, l’uso dei tessuti maschili nel disegno e femminili nella consistenza, col risultato sorprendente di enfatizzare la virilità dell’uomo e la femminilità della donna. Per capire l’originalità e l’ascesa di Armani basta pensare a cosa era una giacca, da uomo o da donna, a metà degli anni Sessanta, senza ricorrere a motivi culturali, storici, sociologici, artistici che negli anni successivi si abbatteranno instancabilmente sulla moda. L’inizio della sua carriera si appoggia su una sua sottile rivoluzione, lo smantellamento inesorabile della giacca tradizionale. A Silvia Giacomoni, per il suo libro L'Italia della moda, ha raccontato: Mi sono posto il problema di fare delle giacche che stessero bene sulle persone e non si limitassero a coprirle. Io per i miei vestiti andavo dal sarto e ho voluto riprodurre nell’industria certe tecniche sartoriali. Spesso ho dovuto calare le brache, rinunciare al corno vero e mettere quello imitazione. Ma mi imponevo poi su una giacca che fosse adatta a una sola taglia e avesse una certa morbidezza. Allora gli abiti venivano incollati e poi cuciti: l’abito era quasi appiattito in forme prefissate. Con il sistema che cercavo di applicare io siamo arrivati a una via di mezzo rispetto alla pratica sartoriale.
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4. L'immagine del suo tempo Il ’68 è già in agguato e in Italia contano ancora i sarti d’alta moda: le sorelle Fontana, Irene Galitzine, Simonetta, Fabiani, Veneziani, Marucelli, Biki e Valentino, incerto se dedicarsi soprattutto alla moda industriale. L’alta moda ha appena deciso di sfilare a Roma, mentre a Firenze si installano, due volte l’anno, le collezioni pronte. Ma le aziende italiane non sono ancora celebri, e per di più si fidano solo degli stilisti francesi: chiamano Christiane Bailly, Karl Lagerfeld, Emmanuelle Kahn: gli italiani lavorano umilmente per le grandi sartorie dal nome celebrato, solo Walter Albini, allora giovanissimo, si sta facendo un nome come creatore per l’industria. Cominciano a farsi conoscere i Missoni, Krizia, Basile, ma lo spazio attorno all’attesa di moda, sospesa e già pronta a precipitare nel rifiuto di se stessa, è grande. La fortuna di Armani è quella di scoprire la sua capacità di fare moda contemporaneamente al lavoro di fabbrica, alla produzione di quella che prima si chiama confezione, poi assume la più nobile definizione di prét-à-porter e che oggi si chiama alta moda pronta o addirittura couture di serie. La sua carriera agli inizi è metodica, non folgorante, in ombra, la buona carriera di un dipendente laborioso che inventa giorno per giorno una professione nuova, negli anni del boom economico, dei miracoli individuali, dell’inizio delle fortune sociali e finanziarie della moda. È il momento in cui l’eleganza, intesa come couture, cioè come creazione esclusiva per pochi eletti, diventa industria del lusso: opposta all’industria di massa, un modo di produrre raffinatezza, stile, moda (magari stracciona ma costosa) per la nuova classe emergente sempre più ricca, che si diffonderà in modo esplosivo qualche anno dopo. Il sarto si ritira definitivamente nel suo atelier a vestire su misura un migliaio di donne in tutto il mondo e perde il suo ruolo quasi magico di rinnovatore, di creatore che impone ovunque uno stile (le gonne accorciate di Chanel, il rew look di Dior, il tubino di Balenciaga). Le mode ormai verranno lanciate dallo stilista e dalla macchina,
e non a caso una delle ultime rivoluzioni l’ha fatta negli anni Sessanta, con la minigonna, una stilista inglese legata alla produ: zione di serie, Mary Quant.
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Nato professionalmente nella fabbrica, Armani impara subito a fare i conti con l’operaio, la macchina, i tempi di produzione, l’adattamento alla moltiplicazione, le consegne. Il gusto, l’intuito, le idee non bastano più, rischiano di diventare secondari: il modello anche di lusso, anche costoso, deve adattarsi alle macchine, deve essere prodotto in un numero di minuti il più possibile ridotto, in cento, mille, diecimila copie: piacere a tanti, adattarsi a tanti. In Italia gli anni Settanta sono percorsi dal giovanilismo, dal femminismo, dal dilagare del terrorismo e della droga, dal concatenarsi degli scandali politici e finanziari, dalla criminalità in abito di gala, dall’affermazione comunista, dalla tensione sociale, dalla crisi economica, dagli annunci apocalittici di fine del mondo, da speranze di cambiamento, da terrori di cambiamento. La moda è più alla moda che mai, ma camuffata da antimoda: si importano cumuli di veli indiani, i jeans e il surplus americani per le manifestazioni antiamericane, si fabbricano tute, giacche a vento, giubbotti, gonnone, gli abiti della rinuncia all’abito, della sconfitta del perbenismo estetico, dell’eleganza raffinata. Ne sono particolarmente entusiaste le signore che chiudono in cantina pellicce, gioielli, abiti da sartoria e partecipano alla rivoluzione imminente, al rumore della liberazione collettiva, magari col solo guardaroba da manifestazione o comunque da adesione al paese che cambia: si trovano spiazzate le donne della maggioranza silenziosa che faticano a trovare, nella marea di nuove boutique liberate, un solo capo adatto ai loro dignitosi rifiuti. Sta per scoppiare la rivoluzione e non ho nulla, o fin troppo, da mettermi, è lo slogan estetico di quegli anni. Succedevano in quel periodo cose più importanti o certe volte solo più vistose di una giacca che da corazza informe diventava antropomorfa, anche se contemporaneamente le cose più importanti,
o più vistose,
avevano
cercato
e trovato
una
loro
divisa, un loro segnale attraverso il modo di vestire. Chiuso in fabbrica a lavorare, apparentemente estraneo a ciò che fuori stava accadendo, isolato dalla vita collettiva, dall’accanimento politico, dalle emozioni, dalle speranze, dai fermenti culturali e sociali dei suoi contemporanei, Armani partecipava invece al cambia< mento, preparava il colore, la forma, l’immagine più immediata, accettata e visibile del suo tempo. Andava già oltre, inseguiva un
tipo di abbigliamento da uomo che avrebbe ridato fisionomia e
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novità ai giovani stanchi di eskimo e del loro significato; componeva un guardaroba da donna in fuga dalla vita promiscua e precaria e già ansiosa di affermarsi e di competere; predisponeva un prodotto per un’industria capace di produrre milioni di capi di lusso pet un mercato ansioso di comprare milioni di capi di lusso. id 5. Come
nasce la Armani s.p.a.
Gli incontri determinanti di una carriera possono anche avvenire alla Capannina di Forte dei Marmi, una sera d’agosto. Di quel momento Sergio Galeotti ricorda Giorgio Armani: « Era un uomo molto chic, molto milanese »; Giorgio Armani ricorda se stesso: « Portavo bermuda blu, camicia di lino bianco, scarpe Saxone senza calze ». Galeotti ha dieci anni di meno, è nato a Pietrasanta, in provincia di Lucca, a Milano ha lavorato nello studio d’architettura più famoso, quello di Banfi, Belgioioso, Peressuti e Rogets, ma già è impaziente, gli sembra che il mondo sia lì ad aspettare di dargli tutto quello che desidera: non ha le idee chiare, ma sente l’aria del tempo, capisce che chi è giovane e ha voglia di arrivare, ha tutte le opportunità. Lo spazio c'è, anche perché tanti coetanei stanno inseguendo altri ideali, altre ambizioni, vogliono cambiare il mondo. Mentre il giovane Galeotti vuole solo cambiare la sua vita. Ci impiega anni a convincere Giorgio Armani, che tiene molto alla sicurezza, al buon stipendio e all’immancabile tredicesima, a tentare, a osare: il suo è un vero talento, perché tenerlo ingabbiato in una fabbrica altrui, perché restare in ombra, perché non decidere di diventare, come in un film, ricco e famoso? Finalmente il loro sodalizio d’affari si concretizza: lo stilista lascia il posto, e insieme all’aspirante busizessman apre un ufficietto di consulenza in uno scantinato milanese di corso Venezia: pagano un affitto di un milione e mezzo l’anno e il prudente Armani di notte non dorme pensando a quella cifra che gli appare enorme. È il 1973, due anni dopo, soci al cinquanta per cento, fondano una società, la Giorgio Armani s.p.a. In quel primo anno, il 1975, la società per azioni fa un fatturato di 800 milioni; nel 1984, meno di dieci anni dopo, la stessa società, con
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gli stessi soci, informa che il fatturato ha superato i 250 miliardi. A vedere la prima collezione per donna, le giornaliste italiane non vanno, non c’è tempo per un nuovo stilista quasi sconosciuto; le americane invece, soprattutto quelle del potente quotidiano di moda « Women's Wear Daily », sempre a caccia di novità, non lo trascurano, e subito festeggiano la loro scoperta: hanno sfilato gonne, pantaloni, camicette e giacche molto semplici, nuove per i tessuti impalpabili e per la gamma di colori. Per nervosismo, Galeotti ha sbagliato disco, ha messo su uno degli Inti Illimani: ma la musica elettrizza le modelle, che cominciano a muoversi con i loro seveti veli multicolori come se danzassero. L’irresistibile carriera di Giorgio Armani è cominciata. Poco dopo, nel 1976, un giornale inglese scriverà: « Armani è stato per la moda ciò che Picasso è stato per la pittura. L’ha emancipata, rivoluzionata e, così facendo, hastabilito linee di comportamento del tutto nuove, audaci ». E un altro: « Si ha sempre la sensazione che dentro i suoi abiti la gente “si muova” ». Ricorda Down Mello, vicepresidente del grande magazzino Bergford Goodman, di New York: Armani ha proposto un tipo di moda di cui tutte sentivamo il bisogno, una moda animata da uno spirito diverso. Provare una delle sue prime giacche è stata per me una rivelazione. Prima in una giacca mi sentivo costretta, con addosso quella di Armani mi sono accorta improvvisamente di stare più dritta e ho pensato: ecco come deve sentirsi un uomo con la giacca! Poi mi sono appoggiata allo schienale della sedia ed è stato un sollievo constatare che la giacca seguiva i miei movimenti e si adattava alle mie posizioni.
6. Dove la moda è più moda
Il lungo — talvolta appassionato, talvolta astioso — abbraccio tra Giorgio Armani e la stampa specializzata è cominciato allora, con le sue prime sfilate. Il successo della moda italiana è molto legato all'attenzione, all’entusiasmo e spesso al delirio della stampa, soprattutto americana, che anche sui quotidiani dà < grande spazio agli avvenimenti di moda. Ma certamente è stata la società Armani a capire fino in fondo il ruolo indispensabile
dei giornali nella costruzione di una star, nella moltiplicazione
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Perché loro
della fama, nel consolidamento del grande business dell’abbigliamento. Appena possibile ha creato un grande ufficio di pubbliche relazioni con a capo Barbara Vitti, la migliore esperta di rapporti col mondo instabile e inquieto del giornalismo di moda. Un'altra intuizione è stata quella di ritenere importante quanto gli articoli redazionali anche la pubblicità: poiché la moda è immagine, essa si qualifica allo stesso modo sia in una pagina pubblicitaria firmata dal grande fotografo che in una redazionale firmata dalla venerata giornalista. L’ultima idea geniale è stata quella di invadere Milano con giganteschi cartelloni e murales raffiguranti magnifici gruppi di ragazzi molto eleganti. L’interesse giornalistico per la moda ha avuto la spinta definitiva con la disponibilità di società come la Armani a investire miliardi nella pubblicità. Anche per questo la moda è diventata un soggetto intelligente e ricercato persino da quei settimanali di attualità e politica un tempo molto sprezzanti, e che adesso rincorrono stilisti e industriali della scarpa o della pelliccia, sia per riempire i sempre più vasti spazi destinati al costume,
cioè a scemenze e invenzioni, sia per partecipare al festoso saccheggio di denaro generosamente prodigato dall’industria della moda. Sui grandi investimenti pubblicitari della Armani e delle altre firme italiane e straniere della moda prospera e si moltiplica l’editoria specializzata, che ha creato anche un nuovo tipo di giornalista e soprattutto di direttore di giornale, di grande capacità manageriale, che ha consentito folgoranti carriere, finalmente soprattutto femminili, e il cui target è, non tanto il lettore quanto l’inserzionista. È di secondaria importanza che queste riviste, sempre più numerose, vendano 3000 o 50 mila copie: ciò che conta è che comunque facciano circolare un’informazione, un desiderio, un bisogno, una convinzione, fotografati e spiegati in modo splendido, accurato, intelligente, all’interno di un mondo chiuso, il mondo della moda; composto da industriali tessili e della confezione, da stilisti noti e ignoti distributori, negozianti, pubblicitari e ancora giornalisti del settore. D’altra parte, è proprio dentro questo mondo chiuso che la moda è più moda, vive di più, è più vistosa, è più seguita: il mondo della moda si veste alla moda, quindi ne è il suo principale, e più vistoso, consumatore e propagatore. Se questi imperi editoriali che producono
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ormai le immagini più belle, si servono delle più prestigiose firme del giornalismo italiano, dei migliori scrittori, accaparrano fotografi internazionali e costosi come divi del cinema, si atricchiscono sui pesanti budget pubblicitari delle aziende di moda, è anche vero che gli stilisti, molto più degli industriali, ne hanno molto bisogno, al di là della convenienza commerciale. Le belle riviste dove tutto è stupendo, facile, ricco, sereno, perfetto (e che settimanali e quotidiani tentano malamente di imitare nelle sezioni «tempo libero ») sono rassicuranti, confortanti, entusiasmanti: forniscono solo elogi, inchini, troni, corone, vittorie, primati. Il gioco è semplice e facile: tante pagine di pubblicità corrispondono ad altrettante pagine. di devozione lucente. In quelle copertine rilegate e accattivanti il cuore e il cervello degli stilisti stanno al sicuro, in cassaforte.
7. «Italys
first man
of fashion»
Giorgio Armani non ha soltanto capito, prima e più di altri, il potere fondamentale della pubblicità e dell’editoria specializzata per consolidare il successo nel grande, lussuoso, aspro zoo dei divi della moda. Si è reso subito conto della necessità di conquistare, di sedurre, di stringere legami di amicizia con il giornalismo di moda, un tempo giudicato con sufficienza da chi nei giornali si occupava di argomenti « nobili », la politica e l'economia, gli spettacoli e lo sport, la letteratura e la cronaca, e ora diventato una casta potente a cui tanti vorrebbero appartenere. Chi scrive di moda, organizza servizi di moda, decide la moda nei giornali, ha accesso e onori nel mondo opulento di chi crea, produce, pubblicizza la moda: per i compratori italiani e stranieri, ma soprattutto per le giornaliste italiane e straniere, si organizzano le feste più belle, i pranzi più splendidi, in case private incantevoli o in palazzi antichi e celebri presi in affitto. L'illusione di far parte, di contare, addirittura di dominare in un mondo di assoluto privilegio, di grazia, di dovizia, di lusso, di alta mondanità, che rappresenta la gran vita, sia pure a scopo ‘promozionale, è irresistibile. Alla giornalista è consentito di sentirsi una star, come lo è lo stilista: per lei si aprono le porte di case patrizie a Milano, a Roma, a New York, a Parigi, in
Perché loro
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cui aristocratiche dame, dai nomi trionfanti, appositamente stipendiate, mostrano i tavoli babillées, le porcellane cinesi, le insipide gelatine, una gelida affabilità. Più emotivo, più coinvolto, più istintivo, anche se meno comprabile di quello politico, economico, sportivo, il giornalismo di moda raramente sa essere imparziale, distaccato; difende gelosamente e inconsciamente la sua fortuna, si schiera, diventa fazioso, esprime devozione oppure rifiuto:
per ammirazione
e'non
pet corruzione,
per sentimento
e non per calcolo. L’instancabile rivalità tra i grandi nomi della moda italiana apparentemente legati dall’impreciso ma fruttuoso termine italian look si è andata accentuando soprattutto tra le firme maschili, per il bisogno invincibile non di essere tra i più bravi, i più famosi, quelli che vendono di più, ma il più bravo, il più famoso, quello che vende di più: le giornaliste si sono talvolta lasciate coinvolgere e frastornare: anche perché gli stilisti sono uomini e la stampa specializzata è donna. È una vera storia di seduzione, anche se esente da ogni connotato sessuale. Gli stilisti, uomini e scapoli, sono generosi del loro tempo e delle loro attenzioni con le giornaliste: i patti sono chiari, l’interesse è reciproco, ma tutto è più prezioso perché avviene tra uomini da una parte, astuti cavalieri, e donne, disponibili comunque al ruolo di dama, dall’altra. Il rapporto di lavoro si carica di sentimenti, di emozioni; basta assistere all’evento fondamentale dell’organizzazione della moda, cioè la sfilata, per capirlo. Il pubblico che si ritiene privilegiato è composto dai più potenti compratori, da giornalisti specializzati, da qualche personaggio in veste promozionale che sarà poi ricompensato con modelli a scelta: l’attore, la cantante, la moglie del politico, lo sportivo, lo scrittore. L'atmosfera è tesa, carica di emozione, come per un evento storico; dietro le quinte non c’è un uomo, una persona di talento, ma un genio, un Dio, da innalzare o da far precipitare. Come nelle partite di calcio, si schierano le parti, lui è il più bravo, no, questa volta è meglio l’altro, gli applausi, le grida, le lacrime, i baci segnaleranno alla fine la partecipazione, l’approvazione del pubblico. Il momento della sfilata è, per lo stilista, drammatico, perché nello spazio di un disco si bruciano sei mesi di lavoro e di vita, si realizzano, e si frantumano, le possibilità di far lavorare centinaia di operai, di produrre e vendere per miliardi, di con-
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solidare la propria mitologia. Giorgio Armani « Amica »:
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ha ricordato
ad
To sono stato viziato: a ogni sfilata c'è sempre stata una corrente tra il mio lavoro e il pubblico: il. senso dell’attesa, la voglia dell’evento, il calore di chi si aspetta da me qualcosa di ignoto, di nuovo, ma anche di certo, di sicuro. Eppure non riesco a impeditmi un senso di sofferenza, di timore, attimi in cui mi sembra di precipitare. In quei momenti diventi di una sensibilità eccessiva: oltre la musica che accompagna le modelle, percepisci ogni fruscio, ogni mormorio, la terribilità del silenzio. Misuri a ogni uscita dei modelli la consistenza sonora degli applausi, il cuore si scioglie quando sono scroscianti, il cervello si abbuia quando sono pigri e incerti.
Sono più sensibile di un regista teatrale, di un direttore d’orchestra: loro hanno le repliche, io esaurisco la fatica di mesi in pochi minuti, senza appello.
La folgorante strada del successo di Giorgio Armani è lastricata di articoli, di titoli esclamativi, del massiccio entusiasmo che ha travolto la potente stampa americana. Il lusso italiano non vende negli Stati Uniti che il 10% della sua produzione: ma sono loro la vetrina, la cassa di risonanza più grande, la loro consacrazione si riflette ovunque, in Italia, in Giappone, in Germania, in Francia, i due nostri massimi mercati di esportazione dell’eleganza. Giorgio’s Gorgeous Style, The sweet smell of success, Italys first man of fashion sono alcuni dei titoli trionfanti che dall’America hanno contribuito a consolidare la fortuna di Armani, a viziarlo ancora più del successo. Più di uno scrittore, di un regista, di una star televisiva, più ancora dei suoi colleghi e, in proporzione alla sua preminenza rispetto agli altri, Armani non accetta giudizi tentennanti e tanto meno critiche. Dicono che sia la sola debolezza sua e del socio Galeotti: per fortuna non gli capita spesso di dover constatare questa loro
fragilità; anche perché più fragile è chi scrive e teme di essere privato della loro benevolenza e del loro affetto.
8. I suoi clienti, veri o potenziali
AI di là del suo talento professionale, Giorgio Armani è riuscito a costruire una sua immagine che aderisce perfettamente
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Perché loro
a ciò che il pubblico, differenziato, si aspetta da un progettatore di vestiti. Di lui come persona arriva alla gente la fotografia o la ripresa televisiva di un uomo dal viso bello e dall’espressione seria, dall'aria semplice, non artefatta, autorevole: i capelli sono grigi e tagliati corti, gli occhi molto azzurri, il naso all’insù, marchio di famiglia e quindi vero, non ottenuto con un intervento chirurgico. Il suo aspetto è molto rassicurante, anche se non confidenziale, o forse rassicurante proprio per questo, perché non ammicca e non familiarizza con i suoi anonimi devoti: come è rassicurante il fatto che abbia 50 anni senza peso, senza tempo, un’età matura che evita la finta giovinezza e sfugge contemporaneamente agli anni. Sfata ogni malinteso attorno agli uomini che fanno i vestiti, rende evidente che non il sarto, ma
un imprenditore deve occuparsene: appare, in più giovane, simile a Gianni Agnelli, niente potrebbe collegarlo a Dior. In una professione che crea e industrializza l’estetica, la sua immagine è piacevole e virile, priva di artifici, aperta eppure lontana: è un'immagine in cui gli uomini possono identificarsi senza timori, ma anche senza reticenze o rimpianti, mentre le donne lo possono giudicare seducente, una star di cui si può tenere la fotografia in ufficio, l’esperto cui affidarsi a occhi chiusi per ogni suggerimento di eleganza. Armani è riuscito anche a mutare a suo vantaggio le regole della popolarità: se ancora, anche se con minor frenesia, regine della telenovela, presentatori televisivi, attori comici, discocantanti, e persino politici, scrittori, scienziati, devono rendere conto
della loro vita privata, lui è riuscito a neutralizzare ogni curiosità. Titolare della raffinatezza, del lusso, dell’affermazione estetica, ha imposto le buone maniere anche nel non parlare di sé. Del resto, al suo desiderio di riservatezza corrisponde una rispettosa indifferenza anche dei più accaniti ammiratori. È infatti superfluo identificare lo stilista con un ruolo, di marito, padre, figlio, amante: perché il privato è ciò che gli altri possono condividere, cioè la sua genialità creativa, o ciò che si può sognare, cioè i segni esteriori della sua fortuna, dei suoi gusti, del suo denaro. Il divismo di Giorgio Armani è la moltiplicazione diffusa del suo lavoro, cioè i milioni di etichette che segnano
vestiti,
scarpe,
camicie.
I suoi
ammiratori
sono
suoi
clienti, veri o potenziali, fans della sua moda. Non è lui che vogliono toccare, avvicinare, conoscere, come capita con gli altri
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personaggi popolari: è dei suoi capi firmati che la gente vuole impossessarsi. Non è Armani che sognano, ma gli Armani. 9. La popolarità dello stilista Armani, uomo
atrivato a 50 anni, è per i giovani e i giova-
nissimi il simbolo più seducente di quello che è oggi il successo. Un tempo gli ingenui e gli ambiziosi sognavano di diventare attori o cantanti: oggi il protagonismo giovanile, la voglia di partecipare al grande spettacolo della notorietà e della ricchezza, si indirizza verso la figura dello stilista, verso colui che meglio la rappresenta, Giorgio Armani. Armani vuole dire moda, vuole dire lavoro accessibile, vuole dire denaro. La moda è diventata una passione collettiva, il suo valore sta nella sua mutevolezza, nella sua precarietà, nella sua obsolescenza che è già matura nel momento in cui si impone. Il vestito è onnipresente, invade ogni angolo del mondo, è sempre in scena: ovunque negozi tradizionali, dagli antiquari ai falegnami, dagli ortolani alle librerie, cedono il passo davanti al vestito, in cambio di centinaia di milioni di buonuscita che solo l’opulenta moda può assicurare: le strade sono divorate dalle boutique, come se il primo bene della sopravvivenza fosse l’abbigliarsi, come se vendere abiti fosse la più remunerativa delle
occupazioni e comprarli l’unico divertimento rimasto in città, l’unica affermazione disponibile. Nei miti giovanili, nella simbologia degli adulti, l’estetica individuale o di un gruppo rispetto all’altro ha soppiantato il movimento, l'appartenenza, il corteo, il concerto: nessuna manifestazione di massa ha più il compito di rappresentare un’idea, un bisogno, una protesta, un’emergenza: la spettacolarità la danno l’individuo e il suo vestito. Sono i vestiti ad acconsentire la partecipazione più facile alla società delle immagini. La moda diventa quindi un valore determinante, vestire moda un mezzo per rendersi visibile, fare moda entrare nella più ambita stanza dei bottoni, impossessarsi di un potere. Qualunque ragazza si senta in grado di scegliere una cintura in un negozio, qualunque ragazzo dalle lunghe ciglia. e il dono di piacere agli uomini, pensano di avere tutti i diritti e tutti i talenti per progettare moda, per diventare come Armani. Il
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suo divismo è fatto anche di questo: rappresentare un modello di affermazione che sembra facilmente raggiungibile, che chiunque può ottenere perché non richiede né studi, né qualità specifiche, se non una vaga genialità che tutti credono di possedere. La sua professione appare come la scorciatoia più facile verso l’agognata fortuna e anche l’immagine più eloquente, più allettante, dei valori, o disvalori, contemporanei. Al fascino della moda in sé e dell’errata convinzione che progettarla sia facile, è strettamente connessa la sua capacità di produrre ricchezza. Se non tutte le industrie hanno bilanci molto fiorenti (alcune guadagnano sempre di più, altre vanno male, malissimo vanno le imprese d’abbigliamento controllate dallo Stato), i maggiori profitti li ottengono i nomi più in vista, senza responsabilità produttive, cioè gli stilisti. Lo stilismo, quando è quello di una grande firma di successo, è forse la sola professione assolutamente onesta che renda tanto denaro in così breve tempo; tutto ciò che consente il possesso e l’uso di ricchezza ha un glamour speciale, anche quando ha origini ambigue o oscure o addirittura illegali. Figuriamoci quindi quanto appaia meravigliosa una professione ad altissimo profitto e senza ombre. Anche per questo Armani ha una sua petsonale popolarità; è un eroe onesto, e ricco, come se improvvisamente Sandro Per-
tini fosse ringiovanito e si svegliasse seduto su una montagna di monete d’oro, sosia di Paperon de’ Paperoni.
10. L'azienda Armani
La Giorgio Armani s.p.a. ha avuto nel 1983 un utile netto di 10 miliardi: li ha guadagnati con il talento creativo e di immagine di Armani, con il talento degli affari di Sergio Galeotti. Sia l’uno che l’altro sono molto attenti al dusizess, sono d’accordo che la creatività ha senso solo se piace e vende, l’idea dell’artista sommo costretto ad adattarsi alle leggi del mercato fa ridere tutti e due. Entrambi sono contenti, soddisfatti, solo se un progetto dimostra la sua perfezione rendendo molto denaro: altrimenti era brutto, era sbagliato, era velleita-
rio; il cliente ha sempre ragione. Per capire la fortuna economica della società Armani, come di altre aziende di stilismo, bisogna sapere che è solo un ufficio
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di consulenza che vende ad alto prezzo idee ad altre aziende. Galeotti dice che sarebbe stato irresponsabile farsi la propria fabbrica, visto che ce ne sono già tante e perfettamente organizzate, trasformarsi in industriali, mestiere cui nessuno di loro era preparato. I milioni di capi e oggetti che vengono venduti in tutto il mondo con il marchio di Giorgio Armani sono progettati dalla loro società, ma prodotti e distribuiti da industrie specializzate. La collaborazione avviene attraverso: contratti ferrei che stabiliscono la consistenza delle royalties, cioè la percentuale su ogni capo od oggetto venduto, che andrà alla Armani: che si riserva anche la responsabilità dell'immagine, sia con la
stampa che con la pubblicità. Giorgio Armani e la sua équipe progettano adesso 28 collezioni l’anno; alta moda pronta maschile e femminile, moda maschile e femminile in vendita a un prezzo più contenuto, moda giovane e sportiva, maschile e femminile, per la loto catena di empori, moda per bambini, moda in pelle, maglieria, camiceria, jeans. 18 aziende licenziatarie, compreso il Gruppo finanziario tessile di Torino che dà lavoro a quasi 6000 operai, producono abbigliamento Giorgio Armani: portano la firma di Armani profumi, cravatte, scarpe, cinture, foulard, borse, ombrelli, guanti, cappelli. Su ogni golf, su ogni foulard, su ogni flacone di profumo venduto in Italia o negli Stati Uniti, in Giappone o in Sudamerica, la Armani percepisce una royalty. Tutti i contatti produttivi e distributivi vengono tenuti attraverso una serie di consociate. In Italia ci sono 8 negozi Giorgio Armani (di cui 4 di proprietà), 6 all’estero (e uno solo è loro, il bellissimo palazzetto art déco a più piani nella Madison Avenue di New York). In Italia ci sono altri 87 punti vendita, in negozi che tengono anche altre marche, all’estero ce ne sono 91. Gli empori, che vendono abbigliamento ricercato, ma giovane e a buon prezzo, sono 84, di cui 14 di proprietà.
11. Lusso e gusto
Improvvisamente, alla fine degli anni Settanta, il poverismo terminò: non era più elegante, non era più nemmeno intelligente, non era più italiano. Un altro poverismo nell’abbigliamento era alle porte, quello giapponese, ma di tale suprema,
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cerebrale, costosa raffinatezza da renderlo accessibile — nella sua incongrua, martellante capacità di imbruttimento e desolazione — solo a un gruppo molto ristretto e privilegiato di donne: le ricchissime despote di qualche salotto politico-intellettuale, le coraggiose ragazze del giornalismo di moda, le aggressive commercianti che aprivano nuove boutique glaciali e monastiche in qualche città di provincia, artiste minimali o compagne di transavanguardisti. La voglia di spreco, di ricchezza, di lusso diventò ossessiva ovunque. Nessuno come gli italiani era in grado di fabbricare opulenza, grazia, classe, raffinatezza, esclusività. Arrancavano le aziende organizzate per produrre moda destinata al consumatore definito
medio
e medio-basso;
era
come
se
un
intero
ceto,
quello che si veste al risparmio, fosse stato cancellato. Solo la produzione costosa diventava remunerativa, bloccava i licenziamenti, limitava la cassa integrazione, portava l’esportazione a livelli superiori ai 7000 miliardi, faceva calare drasticamente le importazioni. Per un po’ i moralisti stigmatizzarono, si stupirono, si addolorarono, minacciarono: ma poi, mentre l’industria italiana dell’abbigliamento, superava velocemente quella francese e diventava il marchio migliore del « made in Italy », la nuova faccia ammirata ed esaltante dell’Italia produttiva, anche loro cominciarono a cedere. Si videro alle tavole rotonde filosofi con giacconi di Missoni, alla televisione uomini integerrimi della politica con il giubbotto di Versace, ai consigli di amministrazione amministratrici delegate con la giacca di Armani, ai convegni antidroga le relatrici con gli abiti di seta di Krizia, a riunioni ristrette sul degrado urbano sociologhe con la pelliccia di Fendi, alle grandi mostre internazionali pittori citazionisti con i maglioni di Ferrè. Il bisogno di lusso celebrava le nuove inquietudini, i muovi disincanti, le nuove ribellioni, le nuove rapacità: tutto e subito, ma alla grande, alla conquista di affermazione, potere, ricchezza attraverso qualunque strada. Il vestito di lusso, più accessibile, malgrado il suo alto costo, di qualsiasi altro bene di lusso, consentiva, con sacrifici o addirittura svendita di sé, anche a commessi di negozio e a segretarie d’azienda di segnalare una partecipazione alla grande festa, un progetto di personale ascesa. Il lusso si identificò con la moda italiana, la moda italiana con le grandi firme dello stilismo: dalle grandi fabbriche ai
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piccoli laboratori in nero, cominciarono a partire milioni di oggetti con etichetta prestigiosa, diretti a Los Angeles e a Palermo, a Osaka e ad Avezzano, a Bogotà e a Treviso. Come dice Richard de Combray, « per gli stilisti l’unico limite è il cielo ». In cambio di royalties, essi davano il proprio nome a qualsiasi cosa, dagli alberghi alle piastrelle, dagli aerei ai piatti, rendendoli più preziosi, costosi, appetibili. Giorgio Armani va subito contro corrente, riesce a dire di no alla propria fama, restringe i prodotti cui dare il proprio nome a ciò che sa fare, che può personalmente controllare. Impone il ‘suo prestigio comunicando, attraverso i suoi vestiti, le indicazioni per una moda di lusso che eviti tutte le trappole del lusso. Dopo qualche tentennamento (come lo stile Kaghemusha, da lui stesso rinnegato), il suo gusto si fa più sicuro, più imperativo. . Immagina un guardaroba per uomini belli, giovani, forti, che riscattano le ombrose bruttezze, le artificiali leziosità, le ilarità banali, l’ammuffito perbenismo degli imperanti maschi televisivi, politici, comici,
presentatori,
cantanti,
dispensatori
di filosofie,
sociologie, moralismi, veline. Li veste in modo sempre più comodo, toglie pieghe e strettezze ai pantaloni, struttura alle giacche, accentua la virilità ironica da eroe dei fumetti, con le grandi spalle e la vita stretta dei giubbotti, li arricchisce con i costosi e rari intrecci dei tessuti e dei grigi, aizza il narcisismo maschile impegnandoli nel gioco delle camicie abbondanti, rigate, leggere. Immagina donne esangui e fisicamente fragili, destinate al sicuro imperio della femminilità continuamente sottratta e perciò più preziosa, più seducente,
più inquietante.
Donne
in panta-
loni, donne in giacca, donne separate dalle altre dai colori spenti, dal rifiuto dell’ornamento, dalla valutazione di sé come persone preziose, intoccabili, che non rinunciano alla seduzione ma non vogliono emettere segnali di interesse, di offerta, di consenso. Il grande talento di Armani, uomo contemporaneo che ha capito
i bisogni espressivi dei movimenti giovanili e del femminismo senza mai conoscerli, è quello di suggerire, ai milioni di persone che in tutto il mondo si esprimono, si divertono, si rassicurano o si camuffano
con i vestiti, un'immagine
di sé forte e tran-
quilla, dai connotati sessuali ben definiti, non ambigui, ma disponibili alla libertà, attenta al lusso ma senza esibizionismo, prona alla lusinga della grande firma, ma propensa al riserbo, all’invi-
Perché loro
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sibilità. Vestire Armani vuole : dire privilegiare la giovinezza dell’uomo e la maturità della donna, il bisogno maschile di bellezza e naturalezza e quello femminile di mimetismo e di sicurezza, confermare l'appartenenza a un’élite nell’élite. Possedere un capo firmato Armani, anche a costo di un disastro economico, vuole dire partecipare in qualche modo all’estetica del successo, all’attuale mitologia della spettacolare affermazione di sé. In realtà è Armani a proiettare se stesso, e quindi il suo attaccamento al lavoro, la sua fortuna, il suo denaro e la sua fama, nella moda. Non veste al buio gente mondana e ricca o che vorrebbe esserlo, pensando solo ai gusti più diffusi ed emergenti dei nuovi esibizionisti, degli eterni arrampicatori, degli arroganti e dubbi miliardari. Il suo avveduto senso degli affari gli suggerisce di vestire la sua immagine, uomini e donne che vorrebbero assomigliargli almeno nel successo e nei guadagni, ma anche gente come piace a lui, che dovrebbe avere denaro conquistato solo con il talento personale, che sfugge alla volgarità, alla promiscuità, all’ostentazione.
12. Antipatia per le mode « Il solo lusso che mi concedo è la casa. Rinuncio a qualunque cosa pur di vivere in uno spazio che mi piaccia, pur di avere una persona in più che ne assicuri il perfetto funzionamento », dice Giorgio Armani. Gli piace essere citcondato dal vuoto, dal non colore, dall’assenza di oggetti. In ogni ufficio o casa nuova, ha subito provveduto a estirpare ornamenti, camuffare colonne, togliere tutto l’inutile, esattamente come fa con i vestiti. Si capisce sino in fondo lo stilista solo se si vedono i luoghi dove vive e lavora, che rappresentano ancora più della moda il suo bisogno quasi maniacale di sobrietà, di rigore, il rifiuto del superfluo, il fastidio per il carino, la forte antipatia per le mode fortuite e instabili dell’arredamento, che tanto incantano chi si trova in poco tempo con tanto denaro a disposizione. Affida le strutture essenziali dei suoi spazi a un architetto, per esempio a Giancarlo Ortelli che lavorava con lui alla Rinascente, ma
sa esattamente
cosa vuole, con una
meticolosità
cui
non sfugge nessuna deviazione, nessuna distrazione. Disegna i suoi divani, le sue lampade, i suoi tavoli e li vuole perfetti. Accetta
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solo i grigi, i bianchi, i neri: anche le pentole devono essere in tinta, la disposizione della tavola irreprensibile, i fiori nei grandi vasi di vetro quasi invisibili sempre freschi e sempre bianchi. Ogni oggetto che non abbia un’immediata utilità, una funzione essenziale, urta contro la sua ricerca di razionalità, il suo purismo.
Non possiede un quadro, una scultura, non colleziona oggetti d’arte. Gli piacciono le opere di contemporanei ma non ne acquista perché non vuole sbagliare; non si sente in grado di scegliere, con sicurezza, il meglio, quindi preferisce non avere nulla. Mentre suoi colleghi sono diventati accaniti collezionisti di neoclassico, di Biedermeier, di art déco, lui confessa di aver orrore dell’antico: Gli stili del passato non mi appartengono perché non sono cresciuto in palazzetti carichi di storia. Ho vissuto da bambino e da ragazzo in case modeste e disadorne; mi sentirei ridicolo se mi inventassi un’opulenza familiare che non c’è stata. Le cose antiche si ereditano, si impara a viverci in mezzo sin dalla nascita. Altrimenti sono
un’ostentazione,
una
stortura,
un
esibizionismo.
Passano di mano le fortune, passano di mano le dimore dei potenti di un tempo o di quelli che comunque se ne vogliono sbarazzare. La moda ha il denaro per raccoglierne i resti. Mariuc-cia Mandelli di Krizia ha acquistato per farne i suoi uffici il cinquecentesco palazzo appartenuto ai Melzi d’Eril in via Manin, Gianni Versace ha appena acquistato per abitarla una buona parte di casa Rizzoli in via Gesù a Milano. Giorgio Armani ha comprato da Attilio Monti la sua enorme villa con pini secolari e piscina olimpionica a Forte dei Marmi e ha preso in affitto per vent’anni il palazzo di via Borgonuovo da cui Felice Riva dovette fuggire dopo la bancarotta del cotonificio Vallesusa. Quella che era stata una delle più pacchiane e ridondanti case della ricchezza milanese degli anni Cinquanta, e che ora appartiene a Angelo Guido Terruzzi, è ormai irriconoscibile. Tutto il superfluo è stato smantellato, ogni volgarità inesorabilmente eliminata. Gli uffici, i due appartamenti (uno per ogni socio) e l’eccezionale
teatro
(l’unico privato
a Milano),
dove
avven-
gono le sfilate, sono tecnologicamente perfetti, gelidamente raffinati, linearmente sontuosi.
Perché loro
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13. Come
Come
vive un
neomiliardario?
vive un neomiliardario
di popolarità internazionale?
Nel caso di Giorgio Armani è, come si dice, tutto casa e lavoro. Quando non lavora ama chiudersi in una delle sue case (Milano, Forte dei Marmi, Pantelleria), con il piccolo clan dei suoi amici
che sono anche i suoi collaboratoti professionali. Non ama viaggiare, non ama uscire, raramente, e solo per necessità promozio-
nali, accetta inviti. Guarda la televisione, sfoglia i libri che possono servirgli per lavoro. È molto legato alla famiglia, ama particolarmente sua madre che circonda di tutti gli agi e l’amore possibili. Va raramente al ristorante anche perché-ha un’ottima cuo-. ca, vive solo con un gatto persiano. Non fuma, da un po’ ha smesso completamente di bere, è diventato vegetariano non per una ragione dietetica ma per un rifiuto psicologico alla carne. Non ha tempo' per lo sport anche se sponsorizza due squadre di football americano, però ogni mattina fa dieci minuti di ginnastica e nion rinuncia al massaggio. Tutte le sue scelte sembrano regolate in funzione del lavoro, anche il guardaroba riflette la sua netessità di muoversi comodamente, senza costrizioni. Possiede una ventina di giacche tutte blu, ma raramente lo si vede con la cravatta: porta maglioni di cachemire blu oppure magliette leggere di felpatino, con pantaloni sempre grigi, che sembrano comprati usati. Raramente usa lo smoking che lui considera uno strumento di lavoto: lo indossa infatti per trasmissioni televisive e serate formali in cui deve rappresentare professionalmente Giorgio Armani. Lavora in uno studio molto vasto, color crema, dall’alto soffitto, dominato da un affresco del Tiepolo, l’unico addobbo che ha lasciato della vecchia casa Riva e che il cotoniere aveva fatto strappare a qualche antico palazzo. Le pareti di specchio sono cariche di libri; una, tutta di vetro, dà sul cortile coperto della casa e
guarda il piccolo giardino che fa da fondale. Lo studio è occupato da due tavoli immensi, lunghi più di quattro metri, fatti con la tecnica dei Maggiolini, ovviamente moderna, di intarsi di legno grigio. In un altro salone vicino lavora la sua équipe creativa, composta da una decina di ragazzi e ragazze giovani, votati a giornate durissime. Per avere il privilegio di stargli vicino e quindi imparare il mestiere bisogna lasciarsi bruciare dalla sua stessa
N. Aspesi - Giorgio Armani
DI
passione intransigente, condividere il: suo senso totale e sacrificale della professione, essere abbastanza umili da assoggettarsi alla sua tirannia. Come tutte le persone che, dopo una lunga gavetta, hanno avuto un’improvvisa, folgorante carriera, Armani è ossessionato dal lavoro, ne ha un culto quasi maniacale: è un accentratore, si fida solo di se stesso, non ha indulgenze, non concede errori, non ammette che la devozione. Persegue con ostinazione il meglio, non si accontenta mai, non fa mai complimenti, non si entusia-
sma né del suo né del lavoro degli altri. In un tempo in cui tutto deve essere facile, niente deve essere impegnativo, è un perfezionista a oltranza, non si concede, e non concede, tregue. Tutta la gente che lavora alla Armani è bella, dalla centralinista alla segretaria quadrilingue, dal portiere agli autisti: tutti sono adoranti, consci del privilegio che vivono, un po’ spaventati. A uno dei suoi tavoli, Giorgio Armani lavora ininterrottamente, velocemente, con efficienza; riempie fogli di carta nera con matite colorate, circondato da pile di campioni di tessuto sparsi dovunque, in un ordine esemplare, nel silenzio concentrato dei suoi collaboratori. Non guarda mai fuori della finestra, non può attendere l’ispirazione: compie, severamente, un lavoro di alta tecnologia manuale e intellettuale.
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LUCIO
DALLA
di Gianni Borgna
1. Quale follia... Nei Sovversivi
dei fratelli Taviani,
un
film del 1967
che
racconta la crisi di alcuni militanti comunisti all'indomani della morte di Palmiro Togliatti, Lucio Dalla interpreta la parte di Ermanno, un giovane in perenne rivolta contro tutto e tutti che non è ancora riuscito a trovare la sua strada. In una sequenza molto
bella del film Dalla-Ermanno, dopo aver assistito alla proiezione di Pierrot le fou di Godard, tenta di imitarne la scena finale, quella del suicidio di Belmondo. Solo che il nostro, invece di candelotti di dinamite, attorno alla testa si avvolge un semplice asciugamano e, quando sta per... dargli fuoco, rivela al pubblico, con un gesto tipicamente partenopeo, le sue reali intenzioni: che sono poi quelle, nonostante tutto, di un disperato, frenetico, spasmodico attaccamento alla vita. In questa sequenza c’è già tutto Lucio Dalla. La sua follia e il suo anarchismo istintivo. Il suo genio e la sua sregolatezza. Il suo vitalismo e la sua insofferenza per le mode culturali, per la tradizione come per l’avanguardia. Dalla nasce — chi non lo sa? — il 4 marzo del 1943 a Bologna, alle 8 di mattina. E già questa è una follia, « la follia — come lui stesso dice — di mio padre e mia madre di pensare di far nascere un figlio proprio allora, sotto i bombardamenti »'. 1 Per una bibliografia essenziale, cfr. Lucio Dalla, a cura di Simone Dessì, Savelli, Roma 1977; Lucio Dalla Canzoni, a cura di Stefano Micocci, Lato Side, Roma 1979. E inoltre: Lucio Dalla racconta la sua vita, « Sorrisi e Canzoni», numeri 7 e 8 del febbraio 1977; I cantautori si raccontano — Lucio Dalla, ivi, n. 41 dell’ottobre 1978; Lucio Dalla, « Tutto », n. 21 del marzo 1979; Dalla & Co. I canta-poeti alla riscossa, di Leonardo Vergani e Mario Luzzatto Fegiz, « Corriere della Sera Illustrato » del 19 aprile: 1980; Ve la conta Dalla, di Ludovica Ripa di Meana, « Europeo » del 18 ottobre 1982.
Perché loro
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Fin dall’età di 3 anni e mezzo — e questa, se vogliamo, è un’altra « follia» — dimostra una spiccata attitudine per il palcoscenico. Sono gli anni in cui nelle città usano ancora i « caffè-concerto », una maniera economica
per non
andare a teatro e al cinema
e
con 30 o 40 lire prendere una bibita o un gelato e starsene un’infinità di tempo a far passare la noia. Proprio in uno di questi (il caffè Centrale di piazza Re Enzo) una sera sfugge al controllo dei suoi e, salito sul palco, canta in dialetto bolognese Ehi, Carolla, una canzone che gli aveva insegnato suo padre. Fu un successo, sottolineato dal fatto che un signore di nome Dalostra, che gestiva una compagnia di ragazzi che si chiamava « Primavera d’arte » (una compagnia dapprima sgangherata ma poi con gli anni affermatasi anche a livello nazionale), gli propose di lavorare pet lui. I tempi duri della guerra si riproponevano sempre perché il gruppo era costretto a provare in una specie di rifugio diroccato di profughi istriani. Qualche tempo dopo Dalla è già al Valle di Roma. Riceve offerte persino da De Sica, da Nino Taranto. Prosa, prosa cantata, operetta: queste le sue specializzazioni di allora. E poi ancora trasferte: da Bologna a Modena, a Pieve di Cento, a Brisighella, a Ferrara. « Si facevano le ore piccole e mi ricordo i ritorni in pullman. Io, stavo sempre dietro. Ero sempre a caccia di sensazioni amorose con tutte le bambine che recitavano e che facevano le soubrettine in compagnia. A un certo punto per rimediare al fatto che io crescessi come un cavallo selvaggio, come un somaro da aia, mia madre mi mise in collegio nel Veneto, a
Treviso. Lì frequentai le medie e feci la quarta ginnasio e lì persi tutti i miei connotati, un angolo buio della mia memoria. Mi sentivo un demonio rispetto ai miei coetanei, proprio perché io avevo già vissuto, avevo
recitato, cantato.
E poi, improvvisamente,
mi
incominciarono a crescere dei peli enormi, sulle gambe, sulle braccia... a 13 anni avevo la barba. Avvenne un isolamento totale ».
Il collegio lo sradicò dalla realtà, al punto di credere di essere ormai « assolutamente disadattato a qualsiasi pratica normale ». Riuscì a ottenere il diploma ginnasiale, ma i tentativi di ritornare sulle scene si rivelarono un vero disastro. A quegli anni, per di più, risale la sua scoperta dell’erotismo. « Ora sembra una cosa stupida, in realtà. [...] Erano gli anni Cinquanta, quindi si viveva nelle strade, c'erano molte bambine, situazioni strane, i più
G. Borgna - Lucio Dalla
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grandi erano più avanti, più svegli di noi, quindi smisi decisamente di essere il bambino prodigio quando cominciai ad avere i primi rapporti, i primi stimoli: tutto ciò mi bloccò completamente. Durò sino all’età di 12-13 anni ». Intanto Dalla continuava a coltivare la sua passione per la fisarmonica e, soprattutto, per il clarinetto. Faceva dei progressi enormi, nel giro di poche settimane riusciva a fare quello che solitamente si fa dopo molti mesi di studio. E tutto questo da solo, senza maestro, in un rapporto quasi medianico con lo strumento.
Così a 15 anni con il consenso della madre (il padre era già morto da un pezzo) Dalla decide di emigrare. Arriva a Roma e si mette a suonare con la Seconda Roma New Orleans Jazz Band. Il suo compito è arduo: gli tocca infatti di sostituire Gianni Sanjust, il più grande clarinettista italiano dell’epoca. Se la cava
bene. Solo che l’orchestra è affermata, lui no. E perciò continua a fare la fame, sia pure — come racconta lui stesso — « con grande dolcezza e divertimento ». Nel ’58, d’estate, dorme
abi-
tualmente su una poltrona di vimini di un bar di via Veneto. D'accordo, sono gli anni della « dolce vita », ma vivere con 145 lire (cappuccino, maritozzo e giornale) è duro le stesso. Poi il gruppo si scioglie e Dalla torna a Bologna « con un’angoscia dietro l’altra »: la paura di morire, la paura delle malattie, la crisi mistica... La sua « follia » comincia ad accentuarsi. Forse per questo (oltre al fatto che, facendo la sarta, non aveva i soldi per poterlo accudire) sua madre decide allora di mandarlo
a Ostia,
dove una sua amica aveva una pensione. « D’inverno abitavo lì, era una cosa spaventosa perché era una pensione emiliana a Ostia, dove non c’era nessuno; mi presi un esaurimento talmente forte. [...] D’altronde ero sempre lì perché non avevo un lavoro... poi c'era uno che faceva il cameriere e era cartomante. Io avevo sempre avuto paura di queste cose; una sera che c’era il temporale mi beccò, mi fece le carte e mi disse le cose più spaventose. Da quella sera presi una sbandata, scappai, tornai a Bologna e dissi: ‘“ io voglio morire nella mia terra” ». Passati due mesi e passato lo spavento, Dalla, però, prende il coraggio a due mani e torna a Roma (« proprio il giorno che morì papa Giovanni ») per suonate con un complesso allora famoso, I Flippers. Comincia a stare un po’ meglio, a guadagnare di più. E proprio suonando con i Flippers, al Cantagiro del 1963,
64
Perché loro
incontra Gino Paoli, il suo « talent-scout », colui che per primo gli farà la proposta apparentemente insensata di trasformarsi in cantante. È lo stesso Paoli ad accompagnarlo alla Rca e a scegliere per il suo debutto, in un periodo in cui furoreggiano Stessa spiaggia, stesso mare e Guarda come dondolo, uno « spiritual » da lui stesso tradotto:
Careless love, che in italiano diventa Lei.
Un fiasco colossale! La critica ne parlò discretamente, ma i dischi venduti furono davvero pochi. Per non dire che al Cantagiro del °64, dove la canzone venne proposta, accadde il finimondo. In ogni tappa Dalla raccolse una messe di fischi da far paura. A Salerno, poi, un signore distintissimo gli tirò una mela verde e dura come
il marmo
direttamente
nello stomaco,
con una
tale
forza da farlo rimanere senza fiato. Episodi che si ripeteranno ancora per molto e di cui il più memorabile resta probabilmente quello del Palalido di Milano, dove il nostro aveva accettato di cantare per una manifestazione di parrucchieri convenuti da tutta Italia. Quelli, che si aspettavano Orietta Berti o qualcosa del genere, accolsero Dalla, all’epoca oltretutto barbuto e capellone (quale oltraggio alla loro professione!), con urlacci e insulti incredibili.
2. Dalla polvere agli altari
La « follia » Dalla l'aveva probabilmente ereditata dalla madre, una donna — come lui stesso dirà — « assolutamente geniale, fuori dal comune proprio perché era un essere umano assolutamente privo di regole. Passava dalla ferocia assoluta alla dolcezza; dall’immaginazione continua della vita secondo lei, secondo i suoi schemi, alla imposizione continua agli altri di questo metodo di vita. Era divertente, simpatica, irripetibile... Mi divertivo moltissimo con lei. E credo di essere in parte quello che era mia madre: quella sua assoluta mancanza di prudenza è una
mia caratteristica istintiva; mi ha insegnato a non aver paura di nulla, se non proprio di paure banali che tutti noi utilizziamo inconsciamente
proprio per esorcizzare la paura
cosmica ».
E follia fu — non ci sono dubbi in proposito — l’idea di debuttare come cantante con un brano irrimediabilmente « fuori mercato », non solo mille miglia lontano dalle mode correnti, ma più ostico persino della più ostica canzone degli emergenti can-
G. Borgna - Lucio Dalla
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tautori. Follia fu presentarsi alle platee di allora indossando i vestiti più strani o rinchiudersi in sala di registrazione senza nemmeno quelli, nudo come un verme, con le scarpe appese al microfono e la maglietta avvolta attorno alla testa. Follia fu, conciato a quel modo, sfidare nel lontano 1966 — quando la contestazione dei giovani era ancora di là da venire e i più arditi dei nostri musicisti non andavano oltre la proposta di fare la rivoluzione mettendo fiori nei cannoni — il pubblico del festival di Sanremo con un brano addirittura privo di testo, con un brano che era puramente e semplicemente un pretesto per i suoi voca-
lizzi e le sue accensioni di derivazione jazzistica: Pafff... bum, che portava la firma di due autori importanti ma ignoti alle grandi platee, Bardotti e Reverberi. Dalla, per di più, obbligò in quell’occasione i coristi a non cantare ma a fischiare, tanto che uno pianse dalla vergogna. E naturalmente fu rifiutato e non andò in finale. Non ne fece però un dramma e diede alle stampe una semiseria dichiarazione programmatica in cui traspariva il suo gusto amaro dell’autoironia e anche il piacere tipicamente petroniano dello sberleffo violento all’indirizzo di un pubblico che non era riuscito a capirlo. Suonava così: « Pieno di traumi infantili, gravemente esaurito, Lucio Dalla ha iniziato da poco una psicoterapia, senza peraltro raggiungere risultati apprezzabili. Il suo traguardo più rimarchevole finora toccato è stato l’acquisto di due maiali ad un’asta pubblica nei pressi di Budrio. Impegnato in mille cose, ha petò trovato in una sera di gennaio la forza morale di presentarsi al Festival di Sanremo, dove, com’era nelle previsioni, ha subìto un’onta gravissima, essendo stato escluso dalla finale al primo colpo. Onta che non è stata completamente cancellata neppure dal successo e dagli unanimi consensi ottenuti dai due maiali in un’impottante mostra suina... ». Ma — come si sa — non tutto il male viene per nuocere. L’itrequietezza di Dalla, la non ufficialità di Dalla, questa mancanza di drammaticità nella partecipazione e nell’interpretazione di un brano che aveva rotto tutti gli schemi, a poco a poco cominciarono a funzionare. e a conquistare una parte almeno del pubblico: quella che stravedeva per la musica «beat », per il « flower power » e per la « rivoluzione psichedelica ». Poi venne