Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista [First ed.] 9788804687153


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Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista [First ed.]
 9788804687153

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ORIZZONTI

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Lucio Russo

PERCHÉ LA CULTURA CLASSICA La risposta di un non classicista

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Perché la cultura classica di Lucio Russo Collezione Orizzonti ISBN 978-88-04-68715-3 © 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano I edizione febbraio 2018

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INDICE

3 Premessa Parte prima 



LA CULTURA CLASSICA NEL NOSTRO PASSATO

9 I La Statua della Libertà 13 II Il caso dell’astronomia 22 III Il pensiero politico 34 IV Il diritto 39 V Filosofia antica e pensiero moderno 50 VI Gli studi sulla lingua 58 VII Il debito dei lessici europei verso il greco 67 VIII Cenni su arte, musica e letteratura 80 IX La duratura influenza di un’opera ellenistica 91 X Una sintesi

Parte seconda



LO STRAPPO DELL’ULTIMO SECOLO

107 XI La crisi della cultura generale 116 XII Il concetto di «cultura» 127 XIII La scienza 137 XIV La storia di qualche termine scientifico 147 XV Recupero e abbandono di Euclide 156 XVI Fisica e scienza esatta 172 XVII Linguistica, retorica e logica 184 XVIII La cultura giuridica 188 XIX La storia 201 XX Epilogo 2 15 Referenze iconografiche 217 Ringraziamenti Indice dei nomi 219

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PREMESSA

Da alcuni anni si è riaccesa in Italia, con toni singolarmente aspri, la polemica sul valore della cultura classica e, in particolare, sull’opportunità di mantenere in vita il nostro liceo classico, dato spesso per agonizzante (anche se negli ultimi tre anni ha invertito, con un leggero aumento, l’annosa tendenza alla diminuzione delle iscrizioni). Molti sono convinti che la cultura italiana sia caratterizzata da un peso eccessivo di discipline «inutili», quali a parer loro sono quelle umanistiche, e classiche in particolare, e vada quindi corretta con un’inversione di rotta, abolendo il liceo classico e l’insegnamento del latino nel liceo scientifico e dando uno spazio maggiore agli studi scientifico-tecnologici. Dalla parte opposta si levano voci di umanisti che si sentono assediati dal peso eccessivo attribuito alla cultura tecnico-scientifica, che in base a una concezione bassamente utilitaristica toglierebbe spazio ai valori umani e al sapere disinteressato. Chi pensa che la cultura classica vada difesa da una presunta invadenza della conoscenza scientifica sbaglia certamente avversario. Le conoscenze scientifiche, infatti, lungi dall’invadere alcunché, si stanno restringendo sempre più, dando spazio al dilagare dell’analfabetismo scientifico. D’altra parte, chi preferisce studi immediatamente utili evita accuratamente di impegnarsi in difficili studi scienti-

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Perché la cultura classica

fici, preferendo piuttosto temi come l’economia aziendale o le tecniche di marketing. Credo che nell’argomento del valore dello studio disinteressato (o, con un ossimoro spesso usato, dell’«utilità dell’inutile») confluiscano due linee di pensiero di valore molto diverso. È certamente condivisibile la polemica contro l’idea miope di privilegiare le conoscenze immediatamente monetizzabili (idea peraltro penetrata anche nell’ambito degli studi umanistici), ma al di là di questa polemica si intravedono anche tracce di un’antica tradizione, che, attraverso l’impostazione degli «studia humanitatis» del Quattrocento, si può far risalire fino ad antichi intellettuali latini. Mi riferisco alla tradizione dei progetti didattici studiati per un’aristocrazia che occupava il tempo lasciato libero dalla gestione del potere dilettandosi di argomenti di «varia umanità» e ostentava disprezzo verso le attività produttive e tutte le conoscenze che, come quelle scientifiche, possono essere anche indirettamente utili. Per difendere il valore degli studi classici, non basta comunque rifiutare il rozzo criterio dell’utilità immediata, ma bisogna evidentemente entrare nel merito della loro natura specifica. Molti difensori della cultura classica hanno illustrato soprattutto la bellezza delle lingue greca e latina e il valore formativo del loro studio. Sono convinto che l’apprendimento delle lingue classiche abbia realmente un grande valore formativo e rappresenti una delle poche occasioni di serio impegno intellettuale nei nostri licei. Non è però facile argomentare in modo persuasivo che non esistono alternative altrettanto formative e impegnative, ma preferibili per altre ragioni. Molti ritengono, per esempio, che uno studio più approfondito della matematica sia altrettanto formativo, ma molto più utile. La mia opinione è che si tratti di impegni intellettuali di carattere diverso, non interscambiabili, ma complementari, entrambi di grande valore. Tuttavia, anche nell’ambito più omogeneo dello studio delle lingue con una ricca struttura grammaticale e sintattica non è chiaro perché sceglie-

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Premessa

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re solo le lingue greca e latina, escludendo tutte le possibili alternative, dal sanscrito al tedesco. Credo che il greco e il latino debbano essere considerati innanzitutto strumenti che permettono di accedere alle opere scritte in queste lingue. Possono quindi avere per noi un valore particolare se, e solo se, lo hanno tali opere. Non avrebbe alcun senso studiare diligentemente le difficili coniugazioni dei verbi greci, se in quella lingua non vi fosse nulla di interessante da leggere. Se si vuole giudicare l’utilità degli studi classici occorre quindi innanzitutto interrogarsi sulla rilevanza, per la civiltà occidentale del passato e soprattutto per il nostro futuro, dei contenuti delle antiche culture greca e latina. Gli interventi più interessanti sono stati quindi certamente quelli che sono entrati nel merito di tali contenuti. Anche questi si sono però limitati quasi esclusivamente ai temi oggetto degli attuali interessi dei classicisti, ossia ad aspetti linguistico-letterari, con incursioni nel pensiero politico e nella filosofia morale, senza toccare altri argomenti altrettanto importanti della cultura classica, come la scienza, la logica, il diritto o la musica. Mi è sembrato, in definitiva, che nella polemica sul «classico» entrambe le parti abbiano assunto senza discuterla l’idea di «classico» sedimentata dalla tradizione degli studi compiuti sotto tale nome, accettando in particolare una contrapposizione tra «classico» e «scientifico» che sarebbe certo impossibile spiegare a un intellettuale dell’antica Grecia. Ho allora pensato che una persona che, dopo i lontani studi liceali, si è riavvicinata alla cultura classica partendo da interessi lontani da quelli usuali dei classicisti avrebbe potuto tentare di fornire una visione d’insieme di quella civiltà, se non altro non condizionata dalla tradizione delle ricerche specialistiche. È così che è nata l’idea di questo libro. Nella prima parte si mostra, con una serie di esempi, come il debito dell’Occidente verso le civiltà greca e romana sia di gran lunga superiore a quello usualmente riconosciuto, sia perché ha riguardato tutti gli aspetti della cultura e non solo quelli oggi classificati come «umanistici»,

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Perché la cultura classica

sia perché le fonti classiche hanno svolto un ruolo chiave di guida del pensiero europeo non solo nel Rinascimento e nel Seicento, come è universalmente noto, ma almeno fino a tutto il XIX secolo. Nella seconda parte si illustrano, anche qui con esempi, gli effetti del progressivo indebolirsi del rapporto con la civiltà classica nel mondo occidentale nel corso del Novecento e della contemporanea evoluzione della cultura verso una collezione di saperi disgiunti, i cui specialisti non condividono tra loro altro che la conoscenza dei prodotti dell’industria dell’intrattenimento. La tesi principale del libro è che la cultura classica, se profondamente rivisitata, potrebbe assumere di nuovo, pur se in modo diverso, quel ruolo unificante svolto in passato e per il quale non è mai stato trovato un valido sostituto.

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Parte prima LA CULTURA CLASSICA NEL NOSTRO PASSATO

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I

LA STATUA DELLA LIBERTÀ

La Statua della Libertà, donata dalla Francia agli Stati Uniti d’America come simbolo dei comuni valori conquistati dai due popoli con le loro rivoluzioni e inaugurata nel 1886, è uno dei monumenti più famosi del mondo ed è stata spesso considerata un simbolo della modernità, oltre che degli Stati Uniti; può perciò fornire un esempio significativo del tipo di influenza esercitata dalla cultura classica su quella moderna. L’idea di porre presso un porto una scultura colossale, visibile da lontano ai naviganti in arrivo, risale all’epoca ellenistica. Era stata realizzata a Rodi nel 293 a.C., con l’erezione del famoso Colosso, alto circa trentatré metri, opera di Carete di Lindo, allievo di Lisippo. Lo scultore francese Auguste Bartholdi (1834-1904), autore della Statua della Libertà, l’aveva concepita sul modello del Colosso di Rodi? O meglio, del suo ricordo tramandato dalle fonti a lui accessibili? L’opera di Bartholdi riprende in effetti dall’antico precedente sia l’idea generale di un monumento gigantesco offerto alla vista dei viaggiatori in arrivo dal mare, sia quella particolare di realizzarla sovrapponendo a una base formata da un parallelepipedo di roccia una scultura metallica cava, rinforzata da barre di ferro al suo interno.1 Inoltre 1

La principale fonte sull’antico Colosso è l’opera De septem orbis spectaculis, erroneamente attribuita a Filone di Bisanzio, in cui fra l’altro si precisa che erano stati impiegati 300 talenti di ferro (circa 12 tonnellate) per le strutture di sostegno interne.

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Il Colosso di Rodi, secondo le ricostruzioni di Johann Bernhard Fischer von Erlach (1721) e di Sidney Barclay (1880), e, a destra, la Statua della Libertà.

riproduce fedelmente le due caratteristiche del Colosso tramandate dalla tradizione: la testa raggiata e il fuoco (una torcia o un braciere) innalzato dalla statua. La prima caratteristica era quasi certamente presente nel Colosso, che rappresentava il dio Sole (la divinità protettrice di Rodi), in genere raffigurato con la testa sormontata da punte che simboleggiavano i raggi solari. La tradizione secondo la quale il Colosso avrebbe svolto anche la funzione di faro, grazie al fuoco innalzato dalla statua, non ha riscontri nelle fonti antiche oggi disponibili, ma era diffusa sin dal medioevo, trasmessa da molti scritti e raffigurazioni e comunemente accolta nell’Ottocento.2 La corrispondenza tra l’opera moderna e il ricordo del suo antico modello avrebbe dovuto riguardare anche l’uso. Bartholdi aveva infatti previsto che anche la Statua della Libertà fosse utilizzata come faro, grazie all’illuminazione elettrica della torcia, ma la luce emessa si rivelò troppo debole a questo scopo. L’unica novità della figura moderna 2

Questa tradizione era ancora considerata attendibile nel saggio di Albert Gabriel La construction, l’attitude et l’emplacement du Colosse de Rhodes, in «Bulletin de correspondance hellénique», 56, 1932, pp. 331-359 (considerato a lungo un testo di riferimento sull’argomento).

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La Statua della Libertà

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sembra il pesante drappeggio (peraltro di foggia classica) che ne riveste pudicamente il corpo fino ai piedi. Possiamo chiederci se vi sia qualche relazione anche tra i significati simbolici dei due monumenti. Il significato della scultura moderna è sintetizzato nel suo nome ufficiale, La Liberté éclairant le monde, in francese, e Liberty Enlightening the World, in inglese, ossia «La Libertà che illumina il mondo». A quale scopo era stato costruito il Colosso? Nel 305 a.C. Antigono Monoftalmo (uno dei generali che ambiva a succedere ad Alessandro Magno e all’epoca controllava tutta la parte asiatica di quello che era stato il suo impero) aveva cercato di conquistare l’isola di Rodi inviando una potente flotta al comando di suo figlio Demetrio, detto Poliorcete (ossia «espugnatore di città»): 200 navi da guerra e 160 da carico, che trasportavano 40.000 armati e poderosi ordigni di guerra. I rodii resistettero a un lungo assedio e costrinsero i nemici a ritirarsi, conquistandosi la fama di difensori della libertà e dell’autonomia in tutte le città greche che non volevano essere assorbite dalle grandi monarchie eredi dell’impero di Alessandro. Fu dopo quella vittoria che si decise di innalzare il Colosso, finanziandolo con la vendita delle macchine da guerra abbandonate dal nemico. Il significato simbolico dell’opera è chiarito dalla sua iscrizione dedicatoria, conservata nell’Anthologia Graeca: A te, o Sole, gli abitanti di Rodi dorica hanno innalzato all’Olimpo questo colosso di bronzo, quando, placate le onde della guerra, coronarono la patria con le spoglie dei nemici. Non solo sul mare, ma anche sulla terra l’eressero come splendido lume di libertà dalla schiavitù. Perché ai discendenti di Eracle spetta il dominio sulla terra e sul mare.3

3 Αὐτῷ σοὶ πρὸς Ὄλυμπον ἐμακύναντο κολοσσὸν / τόνδε Ῥόδου ναέται Δωρίδος, Ἀέλιε, / χάλκεον, ἁνίκα κῦμα κατευνάσαντες Ἐνυοῦς / ἔστεψαν πάτραν δυσμενέων ἐνάροις. / οὐ γὰρ ὑπὲρ πελάγους μόνον ἄνθεσαν, ἀλλὰ καὶ ἐν γᾷ / ἁβρὸν ἀδουλώτου φέγγος ἐλευθερίας· / τοῖς γὰρ ἀφ’ Ἡρακλῆος ἀεξηθεῖσι γενέθλας / πάτριος ἐν πόντῳ κἠν χθονὶ κοιρανία (Anthologia Graeca, VI, 171).

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Non vi è dubbio, quindi, che il colosso moderno con la testa raggiata e la torcia, innalzato presso il mare per raffigurare «la Libertà che illumina il mondo», avesse riprodotto l’antico modello, così come era presentato dalla tradizione, non solo nella struttura, nei dettagli costruttivi e iconografici e nella funzione pratica progettata, ma anche e soprattutto nel valore simbolico dell’antico «splendido lume di libertà» (parole dell’iscrizione che potrebbero avere originato la tradizione della torcia innalzata dalla statua). Per i tanti emigranti che nel primo Novecento sbarcavano negli Stati Uniti a Ellis Island la Statua della Libertà era la prima immagine significativa del Nuovo Mondo. Era però un’immagine difficilmente comprensibile. Se infatti, come in genere avviene, si ignora, si dimentica o si considera una curiosità erudita irrilevante l’antico modello, bisogna rassegnarsi a non capire il familiare monumento: la testa raggiata, in particolare, diviene del tutto incomprensibile, originando interpretazioni forzate e poco plausibili. Naturalmente non voglio sostenere che Bartholdi abbia fatto bene a ispirarsi al Colosso di Rodi, ma solo che, dato che l’ha fatto, se ignoriamo il suo modello non possiamo comprendere pienamente le caratteristiche della sua famosa opera. Il caso della Statua della Libertà, in sé irrilevante, può essere assunto come simbolo della condizione di tutta la cultura occidentale, che, come vedremo negli esempi considerati nei prossimi capitoli, si è formata attingendo in modo essenziale a fonti classiche, spesso non riconosciute, ed è poco comprensibile a chi le ignora.

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II

IL CASO DELL’ASTRONOMIA

Il debito della scienza moderna verso l’antica cultura greca è oggi in genere gravemente sottovalutato. Limitandoci qui a un solo esempio,1 consideriamo il caso della cosmologia e dell’astronomia. Secondo la vulgata usualmente accettata, l’idea base della cosmologia degli «Antichi» sarebbe stata quella di un cosmo finito e sferico, centrato in una Terra immobile e limitato da una sfera cristallina ruotante, nella quale le stelle fisse sarebbero state incastonate come gemme in un gioiello. Fra gli eventi che hanno caratterizzato il sorgere della modernità si è sempre dato gran peso ad alcune rivoluzioni scientifiche nell’ambito dell’astronomia. La prima e la più famosa è la «rivoluzione copernicana», che ha spodestato la Terra dal suo ruolo centrale a favore del Sole. La seconda, con conseguenze culturali ancora maggiori, abolendo la sfera cristallina delle stelle fisse, ha sostituito al cosmo finito e sferico un universo infinito o comunque immenso, in cui il Sole non era più che una delle innumerevoli stelle, tutte mobili. Alexandre Koyré ha visto in questa seconda rivoluzione l’essenza del passaggio dall’astronomia antica a quella moderna, sintetizzato nel titolo di un suo famoso libro: Dal mondo chiuso all’universo infinito. La terza rivolu1

Per un’esposizione generale dei rapporti tra scienza antica e moderna rinvio ai miei libri La rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 2013 (ultima edizione) e Stelle atomi e velieri, Milano, Mondadori Università, 2015.

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zione (che cronologicamente si intreccia con la seconda) è associata al nome di Newton che, grazie al concetto di gravitazione universale, avrebbe per primo fondato la meccanica celeste, spiegando il perché delle caratteristiche dei moti degli astri. Tutte e tre le rivoluzioni sarebbero state realizzate dagli scienziati moderni combattendo una dura lotta per scalzare le idee degli «Antichi». Il quadro precedente rispecchia la realtà dei fatti? In primo luogo: la cosmologia degli antichi greci è veramente quella in genere loro attribuita? Il quadro usuale, con un mondo finito e sferico centrato in una Terra immobile, descrive in effetti bene sia le idee cosmologiche di Aristotele (simili a quelle già presenti in Platone), sia quelle di Tolomeo, che, pur allontanandosi molto da Aristotele nei dettagli tecnici della sua astronomia, ne fa proprie le idee generali (ricordiamo che Aristotele è citato da Tolomeo all’inizio dell’Almagesto). Tolomeo scrive, però, intorno al 150 d.C., mentre Aristotele era morto nel 322 a.C. Cosa era accaduto nel mezzo millennio che li separa? Di tutto. Nei due secoli successivi alla morte di Aristotele, ossia durante il primo ellenismo, vi era stato un eccezionale sviluppo scientifico, guidato dai massimi scienziati dell’antichità, come Euclide, Erofilo di Calcedonia, Aristarco di Samo, Archimede, Eratostene, Apollonio di Perga e Ipparco. L’astronomia era stata al centro degli interessi di quasi tutti i maggiori scienziati: abbiamo un’opera astronomica elementare di Euclide (i Φαινόμενα) e sappiamo di opere astronomiche successive di Archimede, Aristarco di Samo, Apollonio e Ipparco, che tutte le fonti che precedono Tolomeo considerano il massimo astronomo mai esistito. Purtroppo di tutte queste opere si sono conservati solo due lavori secondari: un trattatello di Aristarco, di interesse più metodologico e matematico che astronomico (Sulle dimensioni e le distanze del Sole e della Luna),2 e il commento di 2

L’argomento dell’opera è essenzialmente geometrico; si può in effetti considerarla uno dei trattati in cui nasce la trigonometria.

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Il caso dell’astronomia

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Ipparco al poema astronomico di Arato (dal quale le sole informazioni scientifiche che possiamo trarre riguardano le coordinate di stelle fisse). Di altri studiosi di astronomia conosciamo poco più del nome. Per esempio, in alcuni versi di Callimaco si dice che i moti degli astri erano stati spiegati da uno scienziato oggi dimenticato: Conone di Samo.3 Potremmo dare scarso peso a questa affermazione per il suo carattere poetico, se non sapessimo che Archimede riteneva Conone il massimo scienziato dei suoi tempi4 e che teoremi di Conone sono citati da Apollonio nel suo famoso trattato di teoria delle coniche.5 Alla luce di queste testimonianze l’informazione trasmessa da Callimaco diviene credibile, ma sul reale contenuto delle scoperte di Conone possiamo solo avanzare congetture più o meno fantasiose, poiché di questo scienziato non sappiamo altro. L’ultima osservazione di Ipparco di cui abbiamo notizia (perché citata da Tolomeo) risale al 126 a.C. Dopo di allora le ricerche astronomiche si interrompono.6 Quasi tre secoli più tardi Claudio Tolomeo riprende la tradizione scientifica, in particolare in astronomia, scrivendo l’opera, nota soprattutto con il titolo Almagesto datole dagli arabi, che per quasi un millennio e mezzo è rimasta il trattato fondamentale sull’argomento. Torniamo alle tre rivoluzioni concettuali da cui è nata l’astronomia moderna. Qual è stata la loro origine? Nel caso della «rivoluzione copernicana», per appurarlo basta dare la parola allo stesso Copernico, che nell’epistola dedicatoria del De revolutionibus orbium coelestium scrive: Fui preso da irritazione per il fatto che nessun calcolo sicuro dei movimenti della macchina del mondo – creata per noi dal migliore e più perfetto artefice – fosse noto ai filosofi 3

Callimaco, Coma Berenicis, vv. 1-7. Archimede (ed. Mugler), Quadratura parabolae, 164, 1-12; De sphaera et cylindro, 9, 12-15; De lineis spiralibus, 8, 12-20. 5 Apollonio di Perga, Conica, prefazione al IV libro. 6 Questa interruzione è un aspetto di un collasso culturale sul quale torneremo nei capp. IX (pp. 81 sgg.) e X (pp. 93 sgg.). 4

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che pure avevano scrutato con tanta cura le minime cose di questo mondo. Perciò mi assunsi l’impresa di raccogliere i libri di tutti i filosofi, che potessi avere, al fine di indagare se mai qualcuno avesse opinato che i movimenti delle sfere del mondo fossero diversi da quelli che ammettono coloro che insegnano matematiche nelle scuole. E trovai così innanzi tutto in Cicerone che Niceto7 aveva pensato che la Terra si muovesse. Poi anche in Plutarco trovai che altri ancora erano della stessa opinione, e per rendere accessibili a tutti le sue parole pensai di trascriverle qui: Altri pensano che la Terra sia ferma, ma Filolao il Pitagorico ritiene che si muova ruotando intorno al fuoco con un cerchio obliquo, alla stregua del Sole e della Luna. Eraclide Pontico ed Ecfanto il Pitagorico fanno pure muovere la Terra, ma non attraverso lo spazio, bensì a guisa di ruota, da occidente a oriente, intorno al suo stesso centro.8 Di qui dunque, imbattutomi in questa opportunità, presi anch’io a pensare alla mobilità della Terra.9

La cosiddetta «rivoluzione copernicana» era quindi nata dallo studio di testi antichi. Trascurando i precedenti pitagorici, difficili da ricostruire, la teoria eliocentrica era stata certamente formulata nel III secolo a.C. da Aristarco di Samo. Anche se le sue opere sull’argomento sono perdute, ne abbiamo numerose testimonianze, fra l’altro negli scritti di Archimede10 e di Plutarco, che vi accenna più volte. Riportiamone un passo: [Aristarco di Samo] ha cercato di salvare i fenomeni11 ipotizzando che il cielo sia fisso e la Terra percorra un cerchio obliquo, ruotando allo stesso tempo anche intorno al proprio asse.12 7

Si tratta in realtà del pitagorico Iceta di Siracusa, vissuto nel IV secolo a.C., che sembra essere stato il primo ad attribuire moti alla Terra. 8 La citazione (che Copernico riporta in greco) è tratta dal De placitis philosophorum, che all’epoca era attribuito a Plutarco. 9 Ho usato la traduzione di Corrado Vivanti. 10 Archimede (ed. Mugler), Arenarius, 135, 8-18. 11 Torneremo su questa espressione a p. 49 e a p. 158. 12 Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 923A. Torneremo sull’uso antico dei termini «ipotesi» e «ipotizzare».

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Copernico, nell’epistola dedicatoria, stranamente tace su Aristarco di Samo, ma conosceva bene la sua teoria eliocentrica, che aveva citato in un passo del De revolutionibus soppresso nella stesura definitiva.13 Mentre Copernico era ben consapevole di riprendere un’idea antica,14 a partire dal Settecento l’eliocentrismo è stato visto come una teoria «moderna» nata in opposizione all’«astronomia antica», identificata con quella di Tolomeo, dimenticando che Tolomeo era stato superato recuperando idee di uno scienziato vissuto quattro secoli prima di lui. Anche dopo l’affermarsi dell’idea eliocentrica, la cosmologia non era cambiata troppo. La Terra era stata sostituita nel suo ruolo centrale dal Sole, ma l’universo aveva ancora un centro ed era ancora racchiuso da un guscio sferico sul quale erano incastonate le stelle fisse. Non solo Copernico, Galileo e Keplero, ma ancora Newton, nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, assume che le stelle fisse siano uniformemente distribuite su una superficie sferica con centro nel Sole.15 Il successivo passo importante dell’astronomia moderna consisté nello scoprire che le cosiddette «stelle fisse» in realtà si muovono e non possono quindi essere fissate ad alcuna sfera materiale. Questa scoperta fondamentale si deve a Edmond Halley (1656-1742), che nel 1718, confrontando le coordinate da lui misurate con quelle riportate da Tolomeo nell’Almagesto, si accorse che Sirio, Arturo e Aldebaran dovevano essersi spostate. Oggi sappiamo che Tolomeo aveva ricavato le sue coordinate dal più antico catalogo stellare 13

In questo passo (riportato nell’edizione del De revolutionibus pubblicata a Thorn nel 1873) Copernico, dopo aver ricordato che Filolao aveva attribuito moti alla Terra, aggiunge: «etiam nonnulli Aristarchum Samium ferunt in eadem fuisse sententia». Nell’edizione pubblicata della sua opera Copernico cita Aristarco tre volte, ma su argomenti astronomici diversi dall’eliocentrismo. 14 Copernico non si limitò ad affermare l’eliocentrismo, ma costruì un complesso modello dei moti planetari. Se però si prescinde dalla scelta eliocentrica, tutti gli altri elementi costitutivi del suo modello sono tratti da Tolomeo. 15 Isaac Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, libro III, proposizione XIV, secondo corollario.

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di Ipparco.16 Dunque, Halley aveva in realtà appurato che quelle tre stelle non avevano più le coordinate misurate da Ipparco. Se ci chiediamo perché mai Ipparco si fosse sobbarcato l’immane lavoro di compilare il suo catalogo misurando le coordinate di tutte le stelle visibili, possiamo trovare la risposta nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, dove è scritto: [Ipparco] si accorse che alla sua epoca era nata una nuova stella e dal suo moto, per il tratto in cui brillava, fu spinto a un interrogativo: se ciò non avvenisse più spesso, e non fossero in movimento anche le stelle che crediamo fisse e perciò si accinse a un’impresa ardua anche per un dio: enumerare le stelle a vantaggio dei posteri e registrare gli astri assegnando loro dei nomi, con strumenti da lui inventati, con i quali poteva determinare la posizione e la grandezza di ciascuno. Si sarebbe così potuto stabilire facilmente non solo se qualche stella nasce o muore, ma anche, in generale, se una di esse si sposta e passa, e inoltre se cresce o diminuisce. Così egli lasciò il cielo in eredità a tutti: solo che si trovasse qualcuno in grado di assumersi la successione!17

Ipparco aveva cioè compilato il suo catalogo perché il moto delle stelle fisse, da lui intuito, potesse essere verificato da un postero. Halley non aveva fatto altro che eseguire il compito assegnato dall’antico astronomo, completando inconsapevolmente un esperimento progettato e iniziato due millenni prima. Nel corso del Settecento si capì che il sistema solare costituiva un dettaglio minuscolo dell’universo e che il Sole non era che una delle innumerevoli stelle. Si trattò di una novità rivoluzionaria di grande importanza, tecnicamente realizzata soprattutto da William Herschel (1738-1822), il quale si accorse anche che le stelle si raggruppavano in galassie. Dal punto di vista concettuale, però, la «nuova» cosmologia era stata già introdotta da Giordano Bruno (1548-1600), 16 17

Gerd Grasshoff, The History of Ptolemy’s Star Catalogue, Heidelberg, Springer, 1990. Plinio, Naturalis Historia, II, 95.

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che, concependo un universo senza centro, con un’infinità di mondi equivalenti al nostro, era ben consapevole di riprendere un’idea antica. Fra i tanti passi in cui riconosce esplicitamente il suo debito su questo argomento verso gli antichi scienziati, sono particolarmente suggestive queste frasi dell’elogio che Bruno fa a sé stesso per bocca del personaggio Elpino: Sono amputate radici che germogliano. Son cose antique che rivegnono, son veritadi occolte che si scuoprono: è un nuovo lume che, dopo lungha notte spunta all’orizonte.18

Bruno non cita le sue fonti greche, ma probabilmente tra i passi che aveva letto vi era qualcuno dei seguenti: Una volta ammessa l’esistenza di infiniti mondi, Democrito affermò che solo per caso si è generato, in una parte del vuoto, il nostro mondo e, in un’altra, un altro mondo.19 Seleuco del Mar Rosso ed Eraclide Pontico [ritengono] il cosmo infinito.20 Eraclide Pontico e i Pitagorici [ritengono] che ciascuno degli astri sia un mondo che comprende terra e aria.21 Essendovi più mondi, in ciascuno è un proprio centro, con un moto proprio a ciascuno, con alcune cose che si muovono verso tale centro, altre che se ne allontanano e altre ancora che gli girano intorno.22 I globi delle stelle superavano di molto la grandezza della Terra e la stessa Terra mi sembrò così piccola da rattristarmi pensando ai nostri domini, che coprono poco più di un suo punto.23

Anche la terza rivoluzione, cioè l’idea «newtoniana» che gli astri si attirino fra loro e in particolare che il Sole attiri 18 Giordano Bruno, De l’infinito, universo et mondi (Londra, 1584), Dialogo quinto, p. 802. 19 Giovanni Filopono, In Aristotelis physicorum libros commentaria, 262, 2-5. 20 Stobeo, Eclogae, I, 21. 21 Ibid. 22 Plutarco, De defectu oraculorum, 425A. 23 Cicerone, De re publica, VI, xvi, §16.

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la Terra e gli altri pianeti, che per questo motivo gli girano intorno, era stata recuperata dalla scienza antica. Ho cercato di dimostrarlo altrove in dettaglio, sostenendo anche la tesi che su questi punti la principale fonte ultima fosse stata Ipparco.24 Qui basterà riportare questo passo di Isaac Newton: Perciò la Terra, il Sole e tutti i pianeti del nostro sistema solare, secondo il pensiero degli antichi, sono fra loro reciprocamente gravi, e per la forza reciproca di gravità cadrebbero l’uno sull’altro e concorrerebbero in un’unica massa, se tale caduta non fosse impedita dai moti circolari.25

Tutte e tre le rivoluzioni da cui è nata l’astronomia moderna erano state innescate dal recupero di idee provenienti da quel periodo, intermedio tra Aristotele e Tolomeo, del quale non ci restano opere astronomiche e che non contribuisce all’idea di «astronomia antica» entrata nell’immaginario collettivo. La trasmissione delle idee è avvenuta attraverso testimonianze indirette e a volte è stata inconsapevole, come in parte nel caso di Halley. In qualche caso è stata anche occultata; per esempio, il brano di Newton appena riportato (la cui fonte diretta sembra chiaramente Seneca, che dice di riferire idee di un autore di cui non fa il nome26) è rimasto inedito fino al 1981 e anche successivamente è stato notato da pochi. Poiché negli ultimi due secoli l’astronomia e l’astrofisica hanno compiuto enormi progressi, per i quali le antiche fonti non hanno potuto fornire alcun aiuto, può sembrare che il discorso svolto finora sia solo una curiosità erudita, senza alcun rilievo diretto per la cultura attuale. Non è così. Il mancato riconoscimento del debito dell’astronomia 24 L. Russo, The astronomy of Hipparchus and his time: a study based on pre-Ptolemaic sources, in «Vistas in Astronomy», 38, 1994, pp. 207-248 (disponibile a https:// www.academia.edu/2119678/The_astronomy_of_Hipparchus_and_his_time_A_ study_based_on_pre-ptolemaic_sources); L. Russo, Flussi e riflussi. Indagine sull’origine di una teoria scientifica, Milano, Feltrinelli, 2003. 25 P. Casini, Newton, gli Scolii Classici: presentazione, testo inedito e note, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1, LX, 7-53, 1981, p. 46. 26 Seneca, Naturales Quaestiones, VII, xxv, 6-7.

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moderna verso quella antica ha ancora pesanti conseguenze sulla didattica e sull’immagine della scienza penetrata nella cultura condivisa. Attribuendo infatti a Copernico la concezione eliocentrica, a Bruno quella della pluralità dei mondi e a Newton l’idea dell’attrazione reciproca tra i corpi, non vi è alcuna possibilità di capire come queste idee fossero sorte e bisogna necessariamente trasmetterle senza poterle motivare. Solo ricostruendo la loro reale genesi nell’antichità è possibile ripercorrere la strada che dalle osservazioni ha portato alle teorie. Nel caso dell’idea della gravitazione, in particolare, si tratta di un percorso complesso, ricostruibile sulla base di una serie di testimonianze indirette.27 Ma se lo si ignora, bisogna rinunciare a cogliere aspetti essenziali del metodo scientifico (accettando magari favole come quella della «mela di Newton»).

27 Una breve ricostruzione di questo percorso è in https://www.youtube.com/ watch?v=VnH9MORHB28.

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Per chiarire le origini e la specificità del moderno pensiero politico occidentale conviene confrontarlo con una concezione completamente diversa che risale alla stessa rivoluzione urbana. Nel IV millennio a.C., in Mesopotamia nacquero le prime strutture statali: si formarono cioè società basate su una netta divisione del lavoro, governate da un monarca attraverso la mediazione di personale stabile e specializzato. Sorse allora l’esigenza di legittimare il potere detenuto dal sovrano e giustificare le diseguaglianze sociali. Non abbiamo testi su questo argomento risalenti alla prima città-Stato, Uruk, perché all’epoca la scrittura era usata solo a scopi contabili e amministrativi, ma possiamo leggere la più tarda Lista Reale Sumerica, che inizia con le parole: Quando la regalità scese dal cielo la regalità fu a Eridu.1

La Lista è stata scritta intorno al 2000 a.C. e l’affermazione su Eridu probabilmente non corrisponde alla realtà storica (sembra che l’antichissima Eridu avesse avuto un importante ruolo religioso senza sviluppare strutture statali). L’idea però che la regalità fosse scesa dal cielo, l’idea cioè di legittimare il potere con una sua presunta origine divina, è certamente più antica e probabilmente risale alla stessa Uruk, come fanno pensare le funzioni di re-sacerdote del 1

Cito la traduzione di Giovanni Pettinato (I Sumeri, Milano, Rusconi, 1994, p. 67).

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suo monarca e lo straordinario sviluppo della zona templare di quella città-Stato. Perché ricordare idee tanto antiche? Perché hanno avuto una straordinaria longevità. Più di tremila anni dopo la Lista Reale Sumerica, il potere degli imperatori bizantini e dei califfi era ancora ritenuto di origine divina, così come quello dei re di Francia e d’Inghilterra, che su tale origine fondavano le loro presunte capacità taumaturgiche.2 La stessa idea ha continuato poi a essere accolta nell’età moderna e in quella contemporanea. Fino al 1945 l’imperatore del Giappone non si limitava a derivare il proprio potere dalla divinità, ma riteneva di essere divino egli stesso (solo le bombe di Hiroshima e Nagasaki lo hanno costretto a non affermarlo più). Alla stessa epoca, in Italia il titolo del sovrano era «re d’Italia per grazia di Dio» e solo dopo si aggiungeva «e per volontà della nazione». La concezione di una legittimazione religiosa del potere oggi non solo sopravvive in varie realtà (nello Stato della Città del Vaticano, nella natura teocratica della monarchia dell’Arabia Saudita e, in forma residuale, anche nel Regno Unito, la cui attuale regina è il capo supremo della religione anglicana e all’atto dell’incoronazione è stata unta nell’Abbazia di Westminster), ma appare rinvigorirsi minacciosamente, come ha mostrato il tentativo di Abu Bakr al-Baghdadi di restaurare l’istituzione del califfato. Nel mondo greco era invece apparsa l’idea, estranea a tutte le civiltà precedenti (e a tutte le successive non influenzate dalla cultura greca), che il potere avesse un’origine puramente umana e potesse essere detenuto da diverse forze sociali. Si era allora aperto il dibattito su pregi e difetti delle varie forme di governo, esistenti e concepibili, e sui possibili fondamenti razionali della loro legittimazione. Era cioè nato il pensiero «politico» (ovviamente un termine 2

La credenza che il re avesse il potere di guarire alcune malattie toccando il malato è stata documentata ed esaminata nel famoso saggio di Marc Bloch Les Rois thaumaturges: étude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royale particulièrement en France et en Angleterre, Strasbourg, Publications de la Faculté des lettres de Strasbourg, 1924.

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greco). Già nelle Storie di Erodoto (del V secolo a.C.) si immagina, con un evidente anacronismo, che dopo la morte di Cambise II (nel 522 a.C.) tre nobili persiani avessero discusso quale regime fosse preferibile instaurare in Persia: monarchico, oligarchico o democratico.3 Tra i vari regimi teorizzati e realizzati nel mondo greco, quello detto democrazia (ossia «governo del popolo») era una novità assoluta e nella nostra epoca, in cui ci sentiamo tutti democratici, è ovviamente quello che desta il maggiore interesse. La concezione alla base del nuovo sistema è espressa dalla formula con cui le leggi erano promulgate ad Atene: ἔδοξε τῇ βουλῇ καὶ τῷ δήμῳ («l’hanno deciso la Boulé e il popolo»). La formula fu ripresa dai romani, che individuarono i detentori del potere ne «il Senato e il popolo di Roma» (Senatus PopolusQue Romanus). Vi era però una differenza sostanziale: mentre ad Atene i membri della Boulé (l’organo cui spettava l’iniziativa legislativa) erano estratti a sorte fra tutti i cittadini, a Roma il Senato era riservato alla classe senatoria, ossia all’aristocrazia. Non bisogna naturalmente confondere lo Stato democratico, nato per la prima volta nella civiltà greca, con le molte società prive di Stato che sono in larga misura egualitarie. La democrazia non rende affatto eguali le funzioni e i poteri di tutti i membri della società (come avveniva nelle bande di cacciatori-raccoglitori e in molte altre strutture sociali primitive), ma cerca di realizzare il difficile obiettivo di far coesistere le diseguaglianze richieste dalla complessa organizzazione dello Stato (del quale il potere coercitivo è una caratteristica essenziale) con l’eguaglianza giuridica (e non di fatto) di tutti i cittadini, fondando il potere di pochi sul consenso della maggioranza. Tra le tante póleis democratiche, Atene è stata non solo la più importante, ma anche quella di cui conosciamo di gran 3

Erodoto, Storie, III, 80-82. Più precisamente, Erodoto non parla di democrazia, ma di isonomia (ossia «eguaglianza giuridica»): i due concetti sono però in larga misura equivalenti.

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lunga meglio le istituzioni. Due famosi passi possono illustrare l’idea che gli ateniesi avevano (o volevano dare) della propria democrazia. Il primo è di Euripide: La città [Atene] non è retta da uno solo: è libera. Da noi governa il popolo, con un turno di cariche annuali, senza mai dare al censo i privilegi: parità di diritti anche per i poveri […] Nulla c’è di peggio d’un monarca assoluto, ché il primato non spetta a leggi valide per tutti, ma un uomo solo impera, che s’è fatto lui per sé la sua legge, e l’uguaglianza in questo modo non c’è più. Se esistono leggi scritte, eguaglianza di diritti ha il ricco come il povero. E i più deboli hanno di che rispondere al potente, se oltraggiati, alla pari, e l’inferiore, quando ha ragione, vince anche il più forte. E poi la libertà sta tutta lì: «chi vuol parlare in pubblico (è la formula), se ha qualche consiglio vantaggioso per la città?». Chi vuole si distingue, e chi non vuole tace. Ci può essere un’eguaglianza maggiore di questa?4

La formula riportata nella parte finale del brano è quella con cui tutti i cittadini erano invitati a prendere la parola nell’assemblea generale (ecclesía). Il secondo passo appartiene all’encomio dei caduti fatto da Pericle, secondo il resoconto di Tucidide: Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini: ma siamo noi stessi un modello piuttosto che gli imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama democrazia: secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di far del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale.5 4 5

Euripide, Le supplici, vv. 404-408, 429-441 (traduzione di Filippo Maria Pontani). Tucidide, Le Storie, II, 37 (traduzione di Guido Donini).

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Questi brani esprimono concetti che oggi riscuotono un ampio consenso, ma i possibili entusiasmi generati dalla loro lettura possono essere raffreddati da due ordini di considerazioni. In primo luogo si può sostenere con buone ragioni che il quadro delineato da Euripide e Tucidide rappresenti più un ideale esposto a fini propagandistici che la realtà dei fatti.6 Nonostante la partecipazione all’assemblea generale fosse stata incoraggiata introducendo un gettone di presenza che fu aumentato due volte, di fatto solo una minoranza dei cittadini vi prendeva parte: probabilmente i più si rendevano conto di non poter influire realmente sulla gestione del potere. Lo stesso Tucidide afferma che il regime di Pericle «di nome era una democrazia, ma di fatto il potere era nelle mani del primo uomo».7 Non si può però sottovalutare l’importanza epocale della nascita delle idee che tutti i cittadini avessero gli stessi diritti e che la legittimazione del potere dovesse essere basata sul consenso, anche se si trattava di idee realizzate solo in parte. L’osservazione di Tucidide che l’Atene di Pericle non fosse una reale democrazia mostra che il nostro concetto di democrazia non differisce sostanzialmente dal suo. Anche le realtà politiche hanno significativi elementi comuni. Le idee espresse nei passi di Euripide e Tucidide che abbiamo riportato possono infatti entusiasmare proprio perché si accordano molto più con il nostro ideale di democrazia che con la realtà effettiva degli attuali paesi «democratici». Il secondo ordine di considerazioni riguarda la distanza fra il nostro concetto di democrazia e quello degli antichi greci, che la ritenevano compatibile sia con l’istituto della schiavitù sia con l’esclusione delle donne dai dirit6

Un buon antidoto contro eccessivi entusiasmi per la democrazia ateniese è fornito da Luciano Canfora in molti suoi libri (per esempio, Il mondo di Atene, Roma-Bari, Laterza, 2011, o La democrazia di Pericle, Roma-Bari, Laterza, 2012). 7 Tucidide, Le Storie, II, 65.

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ti politici. Non si tratta però di differenze tra democrazia moderna e democrazia antica. La democrazia moderna è infatti nata dalle rivoluzioni americana e francese, che avevano conservato entrambe sia l’istituto della schiavitù sia l’esclusione delle donne dai diritti politici. La democrazia antica differiva da quella nata dalle moderne rivoluzioni per altri aspetti: soprattutto perché era più diretta che rappresentativa. Solo poche magistrature, per le quali erano richieste competenze specifiche, erano elettive. Tutte le altre funzioni pubbliche erano affidate a persone non elette, ma estratte a sorte fra tutti i cittadini. Inoltre, le leggi proposte dalla Boulé dovevano essere votate dall’assemblea di tutti i cittadini (ecclesía). Nonostante queste importanti differenze, è indubbio che il rapporto tra la democrazia antica e quella dei rivoluzionari americani e francesi non si esaurisce nell’uso moderno dell’antico termine greco: si tratta di una reale vicinanza concettuale, avvertibile immediatamente leggendo brani come i precedenti. Questa vicinanza dipende semplicemente dalla familiarità dei rivoluzionari americani e francesi con la letteratura classica. I padri fondatori degli Stati Uniti d’America si richiamavano spesso esplicitamente ai precedenti greci. Per esempio, James Wilson (1742-1798) aveva predetto che «la gloria dell’America eguaglierà, anzi oscurerà la gloria della Grecia» e Thomas Paine (1737-1809) affermò più volte che «ciò che Atene fu in miniatura, l’America sarà in grande».8 Quanto a Thomas Jefferson (1743-1826), principale autore della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti del 1776, alla quale si ispirò la successiva Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino emanata in Francia nel 1789, una chiara idea dei suoi interessi culturali è data dalla lettera del 1785 in cui espone al quindicenne Peter Carr (de8

Entrambe le citazioni sono tratte da Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, trad. it. Torino, Einaudi, 2009, pp. 225-226.

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stinato a una carriera politica) il piano di studi che ha preparato per lui: Per il momento ti consiglio di cominciare un corso di storia antica, leggendo ogni testo in originale e non in traduzione. Leggi prima la storia della Grecia di Goldsmith, che ti darà una visione sintetica di questo argomento. Poi studia la storia antica in dettaglio leggendo i libri seguenti, in quest’ordine: Erodoto, Tucidide, Le Elleniche di Senofonte, l’Anabasi di Senofonte, Arriano, Quinto Curzio [Rufo], Diodoro Siculo, Giustino. […] Quanto alla poesia greca e latina, hai letto o leggerai a scuola Virgilio, Terenzio, Orazio, Anacreonte, Teocrito, Omero, Euripide, Sofocle.9

Certamente Jefferson (che aveva studiato la lingua greca dall’età di nove anni) conosceva in originale non solo i famosi passi di Euripide e di Tucidide che abbiamo riportato in traduzione, ma anche molte altre fonti sulla democrazia antica. Si trattava del resto di conoscenze all’epoca considerate fondamentali da tutta la classe dirigente. Nel rapporto della commissione per l’istituenda Università della Virginia, del 1818, di cui Jefferson faceva parte,10 si ammette che, nelle scuole secondarie frequentate da ragazzi che non intendono proseguire gli studi all’università, possa bastare che gli allievi leggano in originale solo gli scrittori latini e greci più semplici, ma si considera ovvio che la conoscenza della cultura classica debba essere approfondita nelle scuole secondarie che preparano all’università. Alla base di questa scelta vi era la constatazione (che non si riteneva necessario giustificare) che le lingue latina, greca ed ebraica fossero il fondamento comune di tutte le scienze.11 Non stupisce che i padri fondatori degli Stati Uniti, concependo la democrazia sul modello di quella greca, l’avessero ritenuta compatibile con l’istituzione della schiavitù 9

Thomas Jefferson, Writings, New York, The Library of America, 1984, p. 816. Ivi, pp. 457-473. 11 Ivi, p. 464. 10

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e l’esclusione delle donne dai diritti politici. Naturalmente, dovendo applicare l’antica istituzione a comunità enormemente più vaste, nelle quali era impossibile esercitare la democrazia diretta, dovettero modificarla: lo fecero generalizzando la pratica delle elezioni, che i greci avevano usato solo per alcune magistrature particolari. Nel caso dei rivoluzionari francesi, i richiami espliciti all’antichità riguardavano, molto più spesso che la Grecia, la repubblica romana (forse sentita più vicina per le ascendenze linguistiche e per il nome stesso di «repubblica»), ma certamente i loro ideali politici (peraltro traditi per diversi aspetti dalla prassi del Terrore) avevano poco in comune con il regime oligarchico romano e risalivano alla democrazia ateniese. Le democrazie americana e francese non nacquero, quindi, come riscoperta indipendente di un’istituzione in qualche senso naturale (come sembra credere chi è convinto che si tratti dell’inevitabile sbocco del progresso di qualsiasi civiltà umana), ma grazie alla familiarità dei protagonisti delle rivoluzioni con la cultura classica. Se ne ha una riprova constatando come l’idea di democrazia sia stata totalmente assente in tutti i paesi rimasti estranei a quella cultura, finché gli occidentali non hanno cercato di esportarla, ottenendo qualche successo e molti fallimenti. Nell’ambito del pensiero politico, come in molti altri, non si può isolare un pensiero tipico della grecità. La civiltà greca è stata estremamente ricca e complessa e ha generato molte idee diverse e lontane tra loro, che ci interessano non perché indichino una particolare direzione da seguire, ma per la loro varietà, profondità e fecondità. Non per nulla, come vedremo in vari esempi, hanno continuato per millenni a fornire il materiale intellettuale con cui sono state elaborate le diverse concezioni del pensiero occidentale. Platone era stato fortemente contrario alla democrazia, che riteneva destinata a degenerare sempre in demagogia. A suo parere, il potere deve essere legittimato non dal consenso della maggioranza, ma dalle superiori conoscenze dei

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suoi detentori. Ne concludeva che la migliore forma di governo fosse quella di «un tiranno giovane, dotato di buona memoria, pronto nell’apprendere, valoroso e magnanimo».12 Naturalmente, nell’opinione di Platone era essenziale che il tiranno, se non sapiente egli stesso, si circondasse di sapienti che potessero ben consigliarlo. Si tratta di idee che oggi possono indignare, come hanno indignato Popper,13 ma che hanno esercitato una profonda influenza almeno dall’epoca di Alessandro Magno fino al dispotismo illuminato dell’Europa del Settecento. D’altra parte, la triste storia del Novecento (in particolare la nascita del fascismo e del nazismo dopo l’introduzione del suffragio universale in Italia e in Germania) non permette di ritenere priva di fondamento l’idea di Platone che la democrazia tenda a degenerare in demagogia. Nel II secolo a.C., dopo la conquista della Grecia da parte dei romani, Polibio, riprendendo in parte idee già presenti in Tucidide e in Aristotele, nel VI libro delle Storie spiegò il successo di Roma con la superiorità del suo sistema politico. Roma aveva evitato tutte e tre le forme tradizionali di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia), destinate a degenerare rispettivamente in tirannide, oligarchia e oclocrazia, ossia governo della plebaglia, optando per una forma mista nella quale i poteri detenuti dai consoli, dal senato e dal popolo (espresso attraverso i comizi) si bilanciavano, impedendo la prevaricazione di una delle componenti sulle altre. La teoria polibiana dell’equilibrio fra i poteri è stata ripresa, tra gli altri, da pensatori come Machiavelli e Montesquieu e ha influenzato tutto il pensiero politico occidentale. Anche sul tema della schiavitù il mondo greco aveva espresso una varietà di posizioni molto diverse tra loro. È 12

Platone, Leggi, IV, 709e-710a. Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., trad. it. Roma, Armando, 1973-1974 (il primo volume è dedicato a Platone, individuato come primo e principale nemico della «società aperta»). 13

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falsa, in particolare, l’idea, abbastanza diffusa, che «i greci» giustificassero la schiavitù ritenendo che gli schiavi fossero tali «per natura». Questa idea aberrante si trova – è vero – in Aristotele, ma non è facile trovarla altrove (se non, come vedremo tra poco, in autori moderni). Per esempio, è completamente assente nei poemi omerici. Consideriamo la storia del fedele porcaio Eumeo raccontata nel XV libro dell’Odissea. Eumeo è in condizione servile ed è fedele ai suoi padroni, ma quando incontra Odisseo e, senza riconoscerlo, gli racconta la sua vita, gli dice di essere nato figlio di re e di essere divenuto schiavo perché rapito da bambino, con un inganno, dai mercanti fenici che lo avevano venduto a Laerte. La schiavitù è qui presentata come un male accettato con rassegnazione, ma non certo come una condizione di natura. Anche quando sente predire la schiavitù cui sarà soggetta Andromaca dopo la presa di Troia, il lettore (o l’ascoltatore) dell’Iliade non potrà certo pensare che si tratti di una schiava per natura.14 Nella pólis greca vi era una grande differenza di diritti tra chi era cittadino e chi non lo era (e a volte furono considerate ancora maggiori le differenze tra greci e barbari.)15 Anche su questo punto non mancarono però voci dissidenti. Quando chiesero al cinico Diogene di quale città fosse, egli rispose: «sono cosmopolita» (ossia «cittadino del mondo»). Molte altre testimonianze convergono nell’attribuire 14 Considerazioni analoghe si trovano in Cornelius Castoriadis, La montée de l’insignifiance, Paris, Édition du Seuil, 1996. 15 La convinzione che i barbari fossero inferiori ai greci non è stata accolta in tutta la cultura greca, come spesso si ritiene retrodatando l’atteggiamento romano. Per esempio, nell’Iliade i troiani non sono presentati in alcun modo inferiori ai greci e molti autori greci mostrano ammirazione per i persiani. Sappiamo da Strabone (I, 4, 9) che l’opposizione tra greci e barbari era stata rifiutata da Eratostene, che aveva sostenuto che vi erano greci pessimi e barbari civili. Quest’idea doveva essersi affermata in epoca ellenistica, poiché molti intellettuali non greci ebbero posizioni di prestigio. Ricordiamo, per esempio, che il fondatore dello stoicismo, Zenone di Cizio, era di origine fenicia e il filosofo cartaginese Clitomaco fu eletto a capo dell’Accademia di Atene.

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ai Cinici (dei quali non è stata conservata alcuna opera) l’idea del cosmopolitismo e il rifiuto del valore della cittadinanza.16 I Cinici avevano sviluppato forme molto avanzate di egualitarismo. Oltre a una radicale critica dell’autorità, avevano sostenuto l’esigenza di un completo ritorno alla natura e, come è implicato anche dal loro stesso nome, l’assenza di differenze sostanziali tra gli uomini e gli altri animali. (È interessante notare che, coerentemente con queste idee, preferirono non essere vegetariani, ma comportarsi come gli altri animali carnivori.) È logico supporre che avessero sviluppato anche una critica all’istituto della schiavitù. Anche perché due dei principali esponenti del movimento, Diogene di Sinope e Menippo di Gadara, erano stati schiavi, e il fondatore della scuola, Antistene, autore di un trattato perduto Sulla libertà e la schiavitù, era figlio di una schiava trace. Anche le testimonianze di Luciano su Menippo insistono nel presentare una concezione egualitaria, in cui le differenze di potere e di ricchezza tra gli uomini sono oggetto di sarcasmo.17 L’innaturalità della condizione servile, già chiara a Omero e ai suoi lettori, fu esplicitamente teorizzata da alcuni sofisti. Lo stesso Aristotele cita una frase di Alcidamante: Il dio lasciò tutti liberi. La natura non ha fatto nessuno schiavo.18

Più tardi, nel III secolo a.C., la stessa idea è espressa dallo stoico Crisippo: Nessun uomo è schiavo per natura.19

In definitiva gli autori greci potevano fornire diverse fonti di ispirazione agli abolizionisti. Per confronto, riportiamo 16 Su questo punto rinvio a John L. Moles, «Cynic Cosmopolitanism», in The Cynics. The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, a cura di R. Bracht Branham e Marie-Odile Goulet-Cazé, Berkeley, University of California Press, 1996, pp. 105-120. 17 Luciano, Dialoghi dei morti, Icaromenippo. 18 ἐλευθέρους ἀφῆκε πάντας θεός· οὐδένα δοῦλον ἡ φύσις πεποίηκεν (Aristotele, Retorica, 1373b, 17-18). 19 ἄνθρωπος γὰρ ἐκ φύσεως δοῦλος οὐδείς (Crisippo, Fragmenta moralia, fragm. 352).

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due brani sull’argomento della schiavitù di due esponenti dell’Illuminismo, considerati tra i fondatori del pensiero politico moderno. Voltaire scrive: Noi non compriamo schiavi domestici che presso i negri; ci si rimprovera questo commercio. Un popolo che vende i suoi figli è ancora più riprovevole di chi li compra. Questo commercio dimostra la nostra superiorità; chi si dà un padrone è nato per averne.20

Ecco le considerazioni di Montesquieu sull’argomento: Dovendo sostenere che abbiamo avuto il diritto di rendere schiavi i negri, ecco cosa direi: […] Lo zucchero sarebbe troppo caro se non si facesse lavorare dagli schiavi la pianta che lo produce. Questi di cui si parla sono neri da capo a piedi; e hanno il naso così schiacciato che è quasi impossibile compatirli. Non ci si può capacitare che Dio, che è un essere saggissimo, abbia messo un’anima, soprattutto un’anima buona, in un corpo tutto nero. […] È impossibile supporre che costoro siano uomini, perché se li supponessimo uomini, si comincerebbe a credere che noi stessi non siamo cristiani. Alcuni spiriti meschini esagerano troppo l’ingiustizia che si fa agli Africani. Infatti, se fosse quella che dicono, non sarebbe venuto in mente ai principi d’Europa, che fanno tra loro tante convenzioni inutili, di farne una generale a favore della misericordia e della pietà?21

I brani che abbiamo letto di Tucidide e di Euripide ci sembrano certo molto più vicini di queste due ultime citazioni (e il divino imperatore Hirohito ci appare ancora più lontano). Evidentemente la distanza tra le culture non può misurarsi in secoli.

20 21

Voltaire, Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, cap. 197. Montesquieu, L’esprit des lois, XV, cap. 5.

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Il primo codice di leggi a noi noto è quello emanato dal re sumerico Ur-Nammu intorno al 2100 a.C. (o forse da suo figlio Shulgi poco dopo). Né questo né i successivi codici mesopotamici testimoniano però una consapevole attività legislativa. Poiché il «legale» non era distinto dal «giusto», considerato immutabile e fondato su basi religiose, in questi «codici» il sovrano non intendeva introdurre novità, ma piuttosto descrivere in dettaglio come sotto la propria guida regnasse la giustizia, enumerando i giusti verdetti emessi a suo nome.1 Nel mondo greco le prime raccolte di leggi scritte appaiono nel VII secolo a.C. e, a differenza dei codici orientali, hanno soprattutto la funzione di porre un freno all’arbitrarietà dei giudici (all’epoca espressi solo dalle aristocrazie) garantendo l’uniformità delle sentenze. Anche in questo caso la legge (νόμος) non è considerata modificabile: l’intenzione dei legislatori è quella di mettere per iscritto norme eterne. Quando, con il sorgere dei regimi democratici, divenne chiara l’origine umana delle leggi e fu riconosciuto il potere di legiferare alla maggioranza dei cittadini, sorse il problema di come evitare leggi ingiuste, ossia del possibile contrasto fra la «norma», che poteva essere approvata in base 1

Questo punto è chiarito in Mario Liverani, Antico Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 286.

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a contingenze politiche, e la «giustizia», radicata in antiche tradizioni cui si attribuiva valore religioso. La questione è affrontata nella tragedia ateniese (l’esempio più famoso è l’Antigone di Sofocle) come contrasto tra le leggi scritte e le leggi non scritte, fissate dagli dèi. Il problema, nella forma di opposizione tra diritto di natura e diritto positivo, attraverserà i millenni successivi. Un tentativo di risolverlo nella prassi legislativa ateniese consisté nella netta distinzione tra il semplice decreto (ψήφισμα, termine che si riferisce a una decisione presa a maggioranza) e la vera legge (νόμος), considerata in linea di principio intangibile e in pratica modificabile solo con complesse procedure, paragonabili alle riforme costituzionali degli Stati moderni.2 Sul piano filosofico una soluzione drastica fu proposta nella seconda metà del V secolo a.C. da Crizia, che eliminò uno dei due termini contrapposti, sostenendo che la religione era stata inventata da un uomo astuto per assicurare l’obbedienza alle leggi:3 un’altra idea destinata a essere ripresa dopo più di due millenni. Una caratteristica importante della prassi giudiziaria ateniese (che è quella della Grecia classica meglio conosciuta) è la totale assenza di professionisti del diritto. Si era giudicati da ampie giurie popolari, formate da centinaia di cittadini senza preparazione specifica, e gli imputati (e le parti in causa nei processi civili) si difendevano da soli o con l’aiuto di un logografo che, senza avere alcun ruolo ufficiale nel processo, poteva preparare i loro discorsi. Anche i logografi, esperti nell’arte di convincere non giudici di professione ma comuni cittadini, erano tuttavia tecnici non del diritto, ma della retorica. Sorvolando sull’epoca ellenistica, accenniamo al diritto romano, che per generale consenso ha costituito il principale contributo dei romani alla civiltà. 2

Vedi, per esempio, Cinzia Bearzot, La giustizia nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2008, p. 43. 3 Il frammento di Crizia è riportato da Sesto Empirico (Adversus Mathematicos, IX, 54).

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Le prime leggi scritte apparse a Roma furono le «leggi delle XII tavole», pubblicate nel 449 a.C., delle quali abbiamo pochi frammenti e testimonianze. Ciò che oggi si intende per «diritto romano» si formò tuttavia molto più tardi, nel periodo imperiale (le prime opere giuridiche note risalgono al II secolo d.C.), e fu definitivamente sistematizzato a metà del VI secolo a Costantinopoli, per volontà di Giustiniano e sotto la guida di Triboniano, nel Corpus juris civilis. La principale novità introdotta dai romani consiste nella presenza di una serie di operatori professionali del diritto; non solo magistrati e avvocati, ma anche e soprattutto giureconsulti, con funzioni inizialmente solo consultive. Grazie a loro, Roma non ci ha lasciato solo leggi, ma anche trattati che spiegano come articolare il ragionamento giuridico per applicare le leggi ai vari casi specifici. Anche il Corpus juris civilis contiene delle Institutiones di contenuto didattico. Nell’alto medioevo, dopo la conquista di Ravenna a opera dei longobardi (nel 751), nell’Europa latina il Corpus giustinianeo fu sostanzialmente abbandonato e il livello del pensiero giuridico e dell’amministrazione della giustizia scese molto in basso. Ai tempi di Carlo Magno, ogni suddito dell’impero aveva diritto a essere giudicato secondo le leggi del proprio popolo, ma è dubbio che le leggi venissero applicate in modo coerente, data l’assenza di giuristi e giudici di professione. Le cause erano decise a livello locale dai conti e in ultima istanza dal sovrano. Inoltre sopravviveva la possibilità di decidere l’esito dei processi in base a un’ordalia (l’imputato veniva cioè assolto se vinceva un duello o superava una prova pericolosa, nella convinzione che in quei casi Dio stesso avesse mostrato la sua innocenza facendolo sopravvivere). Un importante rinnovamento del pensiero giuridico iniziò a Bologna intorno al 1100, grazie a Irnerio, e consisté nello studio del ritrovato Corpus juris civilis. Quando nacquero le università europee, una delle loro principali funzioni fu lo studio del diritto (nel quale Bologna continuò a lungo a primeggiare), ossia lo studio e il commento del

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Corpus di Giustiniano, considerato l’esposizione del diritto per antonomasia. Quando, per esempio, nel 1231 Federico II promulgò un suo corpo di leggi (le Costituzioni di Melfi), le basò sull’antico Corpus e per preparare i suoi funzionari, in particolare giudici e notai, istituì l’Università di Napoli, nella cui facoltà di giurisprudenza (dove cercò di attirare professori provenienti da Bologna) si studiavano il Corpus juris civilis e i suoi commenti. Nei secoli successivi nessun sovrano europeo osò sostituire la raccolta giustinianea che non solo, rimanendo a fondamento degli studi giuridici universitari, continuava a fornire l’impianto concettuale di base a tutti gli operatori del diritto, ma era anche applicata nei procedimenti giudiziari (con l’eccezione dell’Inghilterra, dove continuò a vigere l’antico diritto consuetudinario orale degli anglosassoni). Uno dei principali fondatori del moderno diritto internazionale (nato in larga misura dallo studio dello jus gentium dei romani), Alberico Gentili, scriveva nel 1598: Quel diritto contenuto nei libri di Giustiniano non appartiene a un unico Stato, ma è diritto delle genti e di natura, tanto idoneo all’universa natura che – estinto l’Impero e a lungo sepolto – poté risorgere ed espandersi a tutte le genti del genere umano. Dunque, esso vige anche per i prìncipi.4

Fino a quando è durata la convinzione di Gentili che il diritto romano avesse validità universale? I primi codici organici che sostituirono l’antico Corpus furono il codice civile prussiano del 1794 e il codice civile di Napoleone promulgato nel 1804 (ancora in vigore, a parte alcune modifiche, in Francia). Successivamente, anche gli altri paesi europei si dotarono di propri codici e l’applicazione diretta del Corpus juris civilis cessò del tutto in Europa nel 1900, con la promulgazione del codice civile tedesco. Il diritto romano continuava tuttavia all’epoca a fornire la base giuridica comune a tutta l’Europa continentale, poiché 4

Alberico Gentili, De jure belli libri tres, 1.3.

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i nuovi codici riprendevano dall’opera di Giustiniano non solo le idee fondamentali, ma anche la struttura del testo. L’Inghilterra era rimasta apparentemente estranea, conservando la tradizione della Common Law, basata più sui precedenti che sulle leggi scritte, ma in realtà anche la Common Law aveva finito con l’assorbire nei secoli molti elementi del pensiero giuridico continentale. La tradizione dello studio del diritto romano (che fu detto «romano-germanico» per gli importanti contributi dati dai moderni giuristi tedeschi) ha continuato a essere viva anche durante buona parte del Novecento. In Italia, per esempio, fino a qualche anno fa per laurearsi in giurisprudenza era necessario superare tre esami di diritto romano, il cui studio era considerato essenziale per impadronirsi degli strumenti fondamentali del ragionamento giuridico. Accenneremo nel capitolo XVIII alla recente rottura con questa antica tradizione.

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V

FILOSOFIA ANTICA E PENSIERO MODERNO

Il debito del moderno pensiero europeo verso la tradizione filosofica greca è universalmente riconosciuto. Alle dipendenze esplicite e ben note si aggiungono però influenze spesso dimenticate e altre ancora, essenziali e profonde ma indirette e a volte inconsapevoli, non facili da ricostruire e ancora per lo più ignorate. Solo una piccola parte delle opere dei filosofi greci si è conservata. Abbiamo tutte quelle di Platone, un vasto corpus di scritti di Aristotele e numerose opere filosofiche (per lo più di livello nettamente inferiore) del periodo imperiale e della tarda antichità. Dei pensatori anteriori a Platone (detti in genere presocratici) ci restano invece solo frammenti (anche se in qualche caso abbastanza estesi) e del pensiero filosofico ellenistico (contemporaneo al periodo aureo della scienza) ancora meno: a parte la Metafisica di Teofrasto, il primo successore di Aristotele alla guida della sua scuola, e tre lettere di Epicuro tramandate da Diogene Laerzio, ci resta solo un gran numero di testimonianze e brevi frammenti. Non stupisce che il debito riconosciuto verso i filosofi greci riguardi soprattutto i pensatori di cui ci sono rimaste le opere: in primo luogo Platone e Aristotele. Secondo un’affermazione spesso citata di Alfred Whitehead (1861-1947), tutta la tradizione filosofica occidentale consisterebbe di una serie di note a Platone.1 Un’opinione certamen1

L’affermazione originale è: «The safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato» (Alfred North Whitehead, Process and Reality: An Essay in Cosmology, New York, Macmillan, 1929, II, cap. 1, sez. 1).

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te non condivisibile, ma interessante alla luce della personalità di Whitehead, che non si era occupato solo di metafisica e di teologia, ma era stato fra i protagonisti del dibattito del primo Novecento sui fondamenti della matematica, scrivendo, tra il 1910 e il 1913, in collaborazione con Bertrand Russell, i Principia mathematica. Con la sua affermazione Whitehead testimonia il proprio platonismo, mostrando, se non altro, come questa corrente filosofica fosse arrivata in buona salute al XX secolo (in realtà mi sembra ancora in ottima salute nel XXI, ma su questo punto torneremo più avanti). Tutti sanno che le opere di Aristotele, dal momento del loro ritrovamento (tra XII e XIII secolo) fino al secolo XVII, hanno costituito un punto di riferimento essenziale del pensiero europeo, ma è forse meno noto il perdurare di tale influenza in epoche successive. Probabilmente pochi assocerebbero, per esempio, il nome di Aristotele ai diagrammi di Eulero-Venn usati nell’insegnamento della teoria elementare degli insiemi. Eppure Eulero (1707-1783) li aveva introdotti come espediente didattico per spiegare la teoria aristotelica dei sillogismi.2 L’influenza di Aristotele sembra tuttavia essere stata meno duratura di quella di Platone, e molte idee moderne sono nate in opposizione esplicita all’aristotelismo. Spesso però si dimentica che, proprio come era accaduto per Tolomeo,3 anche Aristotele è stato in genere superato grazie al recupero di idee di autori ellenistici. Facciamo, al solito, qualche esempio. Aristotele credeva nell’esistenza di «cause finali», immaginando, in particolare, che ogni organo degli animali fosse stato progettato per uno scopo specifico. Questa concezione fu fatta propria dal pensiero cristiano (sostituendo alla natura di Aristotele la provvidenza) e fu successivamente superata, in particolare grazie all’affermarsi della teo2

Eulero, Lettere a una principessa tedesca, lettere da 102 a 105. Basta sostituire all’implicazione «se p allora q» l’inclusione dell’insieme dei casi in cui p è vera in quello dei casi in cui è vera q, per tradurre le implicazioni della logica di Aristotele nel linguaggio della teoria degli insiemi. 3 Vedi sopra, pp. 16 sgg.

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ria dell’evoluzione. Non bisogna però pensare che le concezioni teleologiche di Aristotele siano state criticate per la prima volta in epoca moderna. Già Lucrezio aveva scritto: Questo in tali argomenti fortemente vogliamo che tu rifugga, che tu eviti assolutamente un errore: di supporre, cioè, che la chiara luce degli occhi sia stata creata perché noi possiamo vedere avanti: e, allo scopo di essere in grado di portare in avanti lunghi passi, possono piegarsi le sommità di cosce e gambe, appoggiate sopra i piedi, o ancora, che le braccia si appoggino ai robusti avambracci, e che le mani ci siano date come ancelle dalle due parti, perché possiamo fare ciò che serve alla vita. Tutte le cose di questo genere, quante vengono così spiegate, tutte si basano su un ragionamento errato che rovescia il processo, perché nulla è nato nel corpo perché noi possiamo farne uso, ma ciò che è nato, poi crea l’uso.4

Oltre alla chiara polemica contro la concezione teleologica, è qui presente l’idea specifica della preesistenza delle strutture organiche al loro uso attuale: un’idea ripresa in epoca moderna da Darwin e meglio precisata e sviluppata, in tempi recenti, con il nome di «esattamento»,5 da Stephen J. Gould (1941-2002).6 Gli organi animali derivano in effetti, in massima parte, da riadattamenti di strutture che precedentemente svolgevano una funzione diversa. Per esempio, gli organi dell’udito dei mammiferi derivano dalla linea laterale dei pesci: un organo con la funzione di percepire le variazioni della pressione dell’acqua dovute alle accelerazioni del pro4

Lucrezio, De rerum natura, IV, 823-835 (traduzione di Guido Milanese). Questo termine è un brutto neologismo-anglicismo (da exaptation), ma il termine usato precedentemente, «preadattamento» (pre-adaptation), era senz’altro peggiore, poiché sembrava reintrodurre stranamente nella terminologia evoluzionistica l’atteggiamento teleologico già combattuto da Lucrezio. Forse si potrebbe parlare semplicemente di «riadattamento». 6 Un’esposizione completa della teoria di Gould si trova in Stephen Jay Gould, The structure of evolutionary theory, Cambridge (MA) e London, Belknap Press of Harvard University Press, 2002. 5

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prio corpo, le variazioni di profondità e la presenza di correnti, ostacoli e predatori. D’altra parte, oggi sappiamo che tutti gli organi si sono formati grazie a successioni di mutazioni casuali, che hanno certamente preceduto il loro uso. In effetti, il pensiero moderno deve molto al ritrovamento (nel 1417, a opera di Poggio Bracciolini) dell’unica copia sopravvissuta del De rerum natura.7 L’opera di Lucrezio non solo fece risorgere le antiche concezioni del materialismo e dell’atomismo, ma permise anche di riscoprire diverse idee specifiche, come per esempio quella del contagio delle malattie infettive attraverso corpuscoli invisibili: un’idea che, nonostante fosse stata ripresa già da Girolamo Fracastoro nel suo De contagione et contagiosis morbis et curatione libri tres, del 1536, richiese secoli per essere accolta dalla comunità scientifica. La critica al finalismo aristotelico non aveva dovuto aspettare Lucrezio, ma era stata iniziata già dall’allievo prediletto di Aristotele, Teofrasto. Nella sua Metafisica aveva infatti scritto: A che fine i flussi e riflussi del mare? […] E anche negli stessi animali alcune cose sono come insensate, come le mammelle nei maschi e […] ancora la grandezza delle corna dei cervi, che ne sono danneggiati.8 Anche […] le trasformazioni della terra di cui abbiamo detto avvengono a caso, non per il meglio o a qualche fine, ma per conformarsi a una necessità; molte cose del genere avvengono sia nell’aria sia altrove.9

Ci si può chiedere se i pensatori moderni che hanno condiviso queste critiche al finalismo lo abbiano fatto indipendentemente da Teofrasto o guidati anche dai suoi scritti. Nell’Ottocento, fra i più vigorosi oppositori dell’idea di una 7

Un libro di facile lettura sul ritrovamento del De rerum natura è Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea (trad. it. Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2012). Per la profonda influenza dell’epicureismo sul pensiero moderno si può leggere Catherine Wilson, Epicureanism at the Origins of Modernity, Gloucester, Clarendon Press, 2010. 8 Teofrasto, Metaphysica, 10a28-10b13. 9 Ivi, 11b12-17.

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natura saggia e benigna, che avrebbe progettato a fin di bene i suoi prodotti, vi fu un grande pensatore a lungo confinato dalla critica nel solo ruolo di poeta: Giacomo Leopardi. Un passo dello Zibaldone mostra come le sue concezioni non fossero indipendenti dalle sue competenze di grecista: Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare. […] Io credo di essere il primo a notare che Teofrasto […] si accostò forse più di ogni altro alla cognizione di quelle tristi verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente ai dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigore naturale.10

Come altro esempio di concezione aristotelica superata in epoca moderna, ricordiamo una metafora, ai suoi tempi già non nuova, che Aristotele ha trasmesso con successo ai secoli successivi: In generale, riguardo a ogni sensazione, si deve ritenere che il senso è ciò che è capace di assumere forme sensibili senza materia, come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro.11

Anche se in seguito Aristotele accenna al passaggio dalla pura sensazione alla consapevolezza, tutto il processo resta per lui essenzialmente passivo: ciò che si avverte con uno dei sensi (se si esclude il caso di errori prodotti da patologie) è necessariamente e univocamente determinato dall’oggetto che provoca la sensazione, proprio come nel caso dell’impronta sulla cera. Questa concezione è stata falsificata dalla psicologia moderna, che ha mostrato come la percezione sia un processo attivo del soggetto senziente, che dipende dalla sua esperienza e da altri fattori. Oggi questa nuova concezione sembra ovvia, perché siamo abituati ai test delle macchie di Rorschach e alle immagini am10 11

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 316. Aristotele, De anima, 424a, 17-20.

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La figura di sinistra può essere vista come un coniglio che guarda a destra o un’anatra che guarda a sinistra. A destra sono i cubi reversibili (ogni vertice può apparire sporgente o rientrante): un motivo frequente nei mosaici ellenistici e ripreso in epoca romana.

bigue, percepibili in modi diversi da più soggetti o anche dallo stesso soggetto in momenti diversi. Tra le immagini ambigue, le più famose sono forse «la vecchia e la giovane» e «il coniglio e l’anatra», ma la più semplice è certamente quella formata dai «cubi reversibili», ossia da una serie di rombi che possono essere interpretati come facce di cubi in due modi alternativi, scambiando i vertici sporgenti con quelli rientranti. Anche in questo caso la concezione aristotelica, sostanzialmente accettata dai pensatori moderni fino al XIX secolo, era stata contestata molto presto; in particolare era stata rifiutata dal secondo successore di Aristotele alla guida della sua scuola: Stratone di Lampsaco, detto «il fisico». Le sue opere sono tutte perdute, ma su questo punto ci informa Plutarco: Vi è peraltro un argomento di Stratone il fisico che mostra come non sia assolutamente possibile percepire senza che intervenga il pensiero. Spesso infatti scritti scorsi con l’occhio e parole che colpiscono l’udito sono inavvertiti e ci sfuggono quando abbiamo la mente rivolta ad altro.12

La teoria della percezione (κατάληψις) fu poi sviluppata nell’ambito della scuola stoica, prima da Zenone e in seguito, soprattutto, da Crisippo. Secondo quest’ultimo, per la per-

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Plutarco, Terrestriane an aquatilia animalia sint callidiora, 961A.

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cezione occorrono due fasi. Innanzitutto è necessario che i messaggi provenienti dagli organi di senso modifichino lo stato della psiche (identificata essenzialmente con il sistema nervoso, da poco scoperto da Erofilo di Calcedonia). Questa prima fase, in cui il soggetto è passivo, non è però sufficiente: occorre anche un successivo eventuale atto di assenso (συγκατάθεσις), che può essere volontario o involontario. Purtroppo tutte le opere degli Stoici sono perdute e dobbiamo ricostruire le loro idee su questo argomento da testimonianze indirette, per esempio dai passi seguenti di Cicerone:13 Zenone aggiunge alle cose che sono viste dai sensi e quasi accolte da essi l’assenso, che considera interiore a noi stessi e volontario.14 Non ci soffermeremo a lungo sull’assenso e l’approvazione, che i Greci chiamano συγκατάθεσις, […] i sensi possono avere comprensione e percezione di molte cose, e ciò sarebbe impossibile senza l’assenso.15 Per quanto si abbia assenso solo in seguito a un oggetto percepito, tuttavia [secondo Crisippo] quest’ultimo costituisce una causa prossima e non principale.16

Un brano della Vita di Apollonio di Tiana, scritta da Filostrato l’Ateniese all’inizio del III secolo d.C., non solo mostra come a quel tempo la dottrina stoica della percezione attiva non fosse stata del tutto dimenticata (anche se Filostrato vi sovrappone elementi neoplatonici), ma fornisce anche un bell’esempio di una sua applicazione. Rivolgendosi al suo discepolo Damide, Apollonio dice: Allora, o Damide, la pittura è imitazione? E cos’altro? – disse lui – se non lo fosse, sembrerebbe una ridicola composizione di colori senza senso. E ciò che si vede nel cielo – disse [Apollonio] – quando le nuvole si separano tra loro, i centauri 13 Il nostro uso del termine «percezione» deriva dalla scelta di Cicerone di tradurre con il latino perceptio la κατάληψις di Crisippo. 14 Cicerone, Academica posteriora, I, 40. 15 Cicerone, Academica priora, II, 37. 16 Cicerone, De fato, 42.

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e gli ircocervi e, sì per Zeus, i lupi e i cavalli, cosa dirai di questi? Che non sono lavori di imitazione? Così sembra – rispose. Allora, Damide, il dio è un pittore […] Ma tu, Damide, non vuoi dire questo, ma che queste [forme] si muovono nel cielo a caso senza alcun significato […], mentre noi, portati per natura alla rappresentazione, le creiamo e le ricomponiamo. […] Perciò direi che a coloro che guardano le opere di pittura occorre la capacità di rappresentare; non si potrebbe infatti ammirare un cavallo o un toro dipinto se non si avesse già in mente l’animale rappresentato.17

Vista la popolarità dell’opera di Filostrato,18 non vi è dubbio che i passi precedenti abbiano contribuito, insieme alle testimonianze su Stratone e Crisippo, a orientare la filosofia e la psicologia moderne, aiutandole a superare la concezione aristotelica della passività della percezione. Si può osservare che la teoria della percezione attiva era sorta nell’antichità alla stessa epoca della diffusione del primo esempio di immagine ambigua: quei «cubi reversibili» che costituiscono un motivo ricorrente nei mosaici ellenistici. Fra le più importanti opere di Aristotele vi sono certamente gli scritti di logica, in cui è sviluppata in particolare la teoria dei sillogismi. Anche in questo settore il pensiero di Aristotele, il cui recupero aveva dato un contributo importante alla cultura del basso medioevo e degli inizi dell’età moderna, è stato poi superato dal sorgere della logica formale, che se ne è allontanata in due aspetti essenziali. In primo luogo, mentre Aristotele aveva considerato come variabili i termini usati nelle proposizioni, ma non la forma delle proposizioni stesse, che veniva analizzata 17

Filostrato l’Ateniese, Vita di Apollonio di Tiana, II, xxii. Poiché Apollonio di Tiana è stato considerato da molti una controparte pagana di Gesù, l’interesse per l’opera di Filostrato (che costituisce quasi l’unica fonte disponibile su Apollonio) è stato particolarmente vivo. Fra gli autori che nel Settecento e nell’Ottocento hanno attinto alla Vita di Apollonio di Tiana si possono ricordare il Marchese de Sade (nel suo Dialogo tra un prete e un moribondo), Jan Potocki (nel Manoscritto trovato a Saragozza), Alexandre Dumas padre (nel romanzo incompiuto Isaac Laquedem), Théophile Gautier (nel racconto Avatar) e Gustave Flaubert (nella Tentazione di Sant’Antonio). 18

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caso per caso, la logica moderna usa variabili che indicano proposizioni generiche ed è perciò detta logica proposizionale. Inoltre – e questo è un punto ancora più importante –, mentre Aristotele aveva individuato le forme corrette di sillogismo in base alla sola evidenza degli esempi, senza dimostrarne la validità, le teorie logiche moderne sono assiomatico-deduttive: dimostrano cioè teoremi di logica deducendoli da un piccolo numero di assunzioni iniziali. Fino alla metà del XX secolo la logica proposizionale, il cui principale artefice è considerato Gottlob Frege (1848-1925), era stata unanimemente ritenuta un tipico prodotto della modernità. Bisognò aspettare apparentemente il 1953 per scoprire che una teoria assiomatico-deduttiva della logica proposizionale, simile a quella di Frege, era stata già sviluppata da Crisippo nel III secolo a.C., come dimostrò nella sua brillante tesi di dottorato (pubblicata nel 1961) lo studente Benson Mates.19 Eppure i postulati logici di Crisippo e la struttura deduttiva della sua teoria erano riferiti in modo abbastanza chiaro, anche se sintetico, da Sesto Empirico, oltre a essere accennati da varie altre fonti. Evidentemente per chi non conosce la logica proposizionale è difficile accorgersi che un testo ne accenna (proprio come il dipinto di un toro difficilmente può essere ammirato da chi non ha mai visto l’animale reale). Nel mezzo secolo successivo alla tesi di Mates gli studi sulla logica stoica si moltiplicarono, ma nessuno aveva posto in dubbio che Frege (e i suoi contemporanei qui tralasciati per semplicità di discorso) fosse arrivato ai suoi risultati indipendentemente dai suoi antichi predecessori: si pensava evidentemente che vi fosse un solo modo di sviluppare una teoria scientifica della logica.20 Analogamente, come vedremo, gli architetti neoclassici avevano pensato che vi fos19 Benson Mates, Stoic logic, Ph.D. thesis, 1953; Berkeley, University of California Press, 1961. 20 Mi riferisco qui alle caratteristiche essenziali già accennate e non agli sviluppi tecnici, che sono stati diversi e molto più complessi nelle opere degli autori moderni (come è ovvio, se non altro per il numero degli studiosi coinvolti).

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se un solo modo di fare edifici belli, e i matematici avevano creduto che quella di Euclide fosse la sola geometria possibile. Nel 2009 tre studiosi tedeschi hanno però dimostrato l’influenza dei pensatori stoici su Frege, avvenuta soprattutto attraverso Rudolf Hirzel: un filologo classico studioso del pensiero stoico, intimo amico di Gottlob Frege, con cui coabitava.21 Non stupisce che Frege avesse tratto dalla scuola stoica anche importanti concetti relativi alla semantica.22 Non è chiaro se e quando contributi specialistici come quello appena citato potranno avere una ricaduta sulla cultura condivisa, cambiando la percezione diffusa dei rapporti tra modernità e cultura classica. Fra le correnti apparentemente secondarie della filosofia classica che hanno alimentato il pensiero europeo moderno, un ruolo significativo va assegnato alla scuola cinica, dalla quale gli illuministi avevano tratto temi come il ritorno alla natura (particolarmente caro a Rousseau), l’egualitarismo, il cosmopolitismo e l’atteggiamento dissacrante verso la religione.23 Le principali testimonianze disponibili sul pensiero cinico sono l’opera di Diogene Laerzio, che ha trasmesso i famosi aneddoti su Diogene di Sinope, e i Dialoghi di Luciano di Samosata, che ci informano sui cinici Demonatte e Menippo di Gadara24 e condividono con la tradizione cinica l’atteggiamento satirico verso la religione. Anche se successivamente vi è stata la tendenza a dimenticarla, nel Settecento l’influenza del pensiero cinico era riconosciuta in modo esplicito. Per esempio, Rousseau era usualmente paragonato a Diogene,25 e uno dei princi21

Gottfried Gabriel, Karlheinz Hülser e Sven Schlotter, Zur Miete bei Frege – Rudolf Hirzel und die Rezeption der stoischen Logik und Semantik in Jena, in «History and Philosophy of Logic», 30, novembre 2009, pp. 369-388. 22 Vedi avanti, pp. 55-56. 23 Su questo punto si può leggere Heinrich Niehues-Pröbsting, «The Modern Reception of Cynicism: Diogenes in the Enlightenment», in The Cynics. The Cynic Movement in Antiquity and its Legacy, a cura di R. Bracht Branham e Marie-Odile Goulet-Cazé, Berkeley, University of California Press, 1996, pp. 329-365. 24 Luciano, Vita di Demonatte, Icaromenippo, Dialoghi di morti. 25 Vedi Heinrich Niehues-Pröbsting, op. cit., p. 340.

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pali esponenti dell’Illuminismo tedesco, Christoph Martin Wieland, aveva divulgato l’antico pensiero cinico scrivendo degli immaginari Dialoghi di Diogene, pubblicati nel 1770: un’opera che ebbe diverse edizioni, fu tradotta in francese e fu molto apprezzata, fra gli altri, da Diderot. Chiudiamo questo capitolo con un ultimo esempio. Un importante risultato (probabilmente il maggiore) della filosofia della scienza del primo Novecento è stato il riconoscimento che le teorie scientifiche non sono determinate in modo univoco dai fenomeni studiati. La possibilità che uno stesso insieme di fenomeni possa essere spiegato da più teorie (detta sottodeterminazione delle teorie scientifiche) fu chiarita per primo da Pierre Duhem (1861-1916) e implica immediatamente che un esperimento può falsificare una teoria, ma mai garantirne la «verità». Duhem, oltre che epistemologo, era anche un fine storico della scienza antica e quindi certamente era stato guidato, nella sua scoperta, da passi come questo di Epicuro: Quando si accetta una [spiegazione] respingendone un’altra che è allo stesso modo in accordo con il fenomeno, è chiaro che si esce dall’investigazione scientifica e si scivola nel mito.26

Oppure quest’altro, di Simplicio: A volte [l’astronomo] attraverso un’ipotesi trova il modo di salvare i fenomeni. Per esempio perché il Sole, la Luna e i pianeti appaiono muoversi irregolarmente? Se supponiamo che le loro orbite circolari siano eccentriche o che gli astri si muovano su un epiciclo, l’irregolarità che appare sarà salvata e bisognerà investigare in quanti modi diversi si potranno rappresentare i fenomeni.27

26

Epicuro, Lettera a Pitocle, 87, 19-22. Simplicio, in Aristotelis physicorum libros commentaria, Commentaria in Aristotelem Graeca, vol. IX, 292, 13-19. 27

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VI

GLI STUDI SULLA LINGUA

Tra le prime conoscenze apprese nelle scuole dell’Occidente vi sono quelle grammaticali e in primo luogo la distinzione fra le diverse «parti del discorso»: articoli, avverbi, aggettivi e così via. A quando risale la grammatica e, in particolare, questa classificazione delle parole che abbiamo imparato fin dalla scuola elementare? Plutarco, verso la fine del I secolo d.C., scrive: Perché Platone dice che il discorso è una mescolanza di nomi e verbi?1 Sembra in effetti che Platone, tranne queste due, trascuri tutte le parti del discorso, mentre Omero, senza risparmiarsi, le aveva racchiuse tutte in un solo verso, questo: io stesso venendo alla tenda [prenderò] il tuo dono, ché tu lo sappia bene.2 E infatti vi sono un pronome, un participio, un nome, un verbo, una preposizione, un articolo, una congiunzione e un avverbio.3

L’enumerazione fatta da Plutarco coincide quasi perfettamente con quella che ne abbiamo derivato (fra l’altro, l’e1

Il riferimento è a Platone, Sophista, 262c. Omero, Iliade, I, 185. (È una frase detta da Agamennone ad Achille, preannunciandogli che gli avrebbe tolta la schiava prediletta Briseide.) Plutarco deve in realtà usare qualche forzatura per trovare nel verso tutte le parti del discorso e non ho cercato di tradurre conservando o migliorando questa caratteristica grammaticale da lui individuata. 3 Plutarco, Platonicae quaestiones, 1009B-C. Plutarco ritorna sull’argomento nella stessa opera in 1011E. 2

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spressione «le parti del discorso» è una traduzione letterale dell’espressione greca τὰ μέρη τοῦ λόγου). Plutarco nel seguito difende l’affermazione di Platone, in quanto gli elementi diversi da nomi e verbi sarebbero paragonabili a un condimento e non costituirebbero la sostanza del discorso, e non sembra consapevole del fatto che la classificazione delle parole in «parti del discorso» (che è cosa ben diversa dall’uso delle parole così classificabili) è un prodotto culturale storicamente determinato, del tutto ignoto a Omero e che ancora ai tempi di Platone non esisteva o, al più, era ancora in uno stato embrionale. A quando risale la classificazione delle parole nota a Plutarco? Anche se la più antica opera greca su questo argomento di cui abbiamo notizia è l’Arte grammatica di Dionisio Trace, del II secolo a.C., della quale rimane un compendio bizantino, vari frammenti e testimonianze permettono di farne risalire l’origine al secolo precedente, nell’ambito del pensiero stoico. La grammatica sembra apparire solo due volte nella storia: nella civiltà greca e in quella indiana, grazie alla grammatica sanscrita elaborata da Pāṇini. Probabilmente non si tratta di due scoperte indipendenti, ma la grande incertezza sulla datazione di Pāṇini non permette di sapere con sicurezza quale delle due abbia influenzato l’altra.4 L’opera di Dionisio Trace, che all’epoca di Tiberio fu adattata al latino da Remnio Palemone, ha continuato (senza modifiche sostanziali, salvo i necessari adattamenti alle lingue moderne, su cui torneremo) a fornire l’ossatura dell’insegnamento linguistico di base fino ad alcuni decenni fa. È per questa ragione che l’enumerazione delle parti del discorso fatta da Plutarco ci appare familiare e non certo per4

Per Pāṇini sono state proposte datazioni molto alte (facendolo risalire addirittura al VII secolo a.C.). Poiché però nella sua opera appare la parola «yavanānī», che si riferisce ai greci, ignoti in India prima dell’impresa di Alessandro, le datazioni anteriori al 330 a.C. devono ricorrere alla strana ipotesi che egli abbia usato nella sua opera, prendendolo forse in prestito dal persiano, un termine di cui ignorava il significato.

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ché rappresenti l’unico modo possibile di classificare le parole di una lingua. Il lettore però, se non è troppo giovane, ricorda probabilmente di avere studiato a scuola, dopo l’analisi grammaticale, anche l’analisi logica, che insegnava a distinguere i diversi complementi. Qual era la sua origine? Si trattava del principale adattamento dell’antica grammatica alle lingue moderne. In greco e in latino nomi, pronomi e aggettivi possono essere declinati in vari casi (in greco: nominativo, genitivo, dativo, accusativo e vocativo; in latino vi è in più il caso ablativo) a seconda della funzione svolta dalla parola nella frase. Le antiche grammatiche greche e latine, oltre a distinguere le parti del discorso, analizzavano anche le coniugazioni dei verbi e le declinazioni di nomi, pronomi e aggettivi. Mentre i verbi continuarono a essere analizzati seguendo il loro modello, non fu possibile attenersi sempre all’antico schema per nomi e aggettivi, poiché in diverse lingue moderne, come l’italiano, il francese e l’inglese, i casi sono quasi del tutto scomparsi5 (mentre si conservano, per esempio, in tedesco e in russo). Non si poteva però abolirne del tutto lo studio, perché nella scuola tradizionale europea di alto livello si apprendeva almeno la lingua latina, se non anche quella greca. Non era sufficiente insegnare solo i casi latini. Poiché a scuola ci si esercitava anche a tradurre dalla lingua moderna in latino, bisognava imparare a riconoscere, nella propria lingua, le parole che andavano tradotte in latino nei diversi casi. Nacque così l’insegnamento di quelli che potrebbero essere detti «casi virtuali» di lingue in cui i casi non esistono. Si dette loro il nome di «complementi»: il nominativo fu associato al soggetto, il genitivo al complemento di specificazione, il dativo al complemento di termine e così via (le cose erano leggermente più complesse nel caso dell’abla5

In italiano, francese e inglese un residuo dei casi sopravvive solo per i pronomi (per esempio, in italiano il primo pronome personale ha le due forme io e me e il terzo, se di genere femminile, le forme ella, lei e le).

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tivo, al quale furono associati diversi complementi). L’antica grammatica perse così la sua unità: la parte derivata dallo studio dei casi latini, che non aveva più una relazione diretta con la morfologia delle parole, ma insegnava ad analizzare le frasi moderne come se fossero frasi latine, fu detta «analisi logica».6 Nata come strumento didattico per insegnare a tradurre in latino, l’analisi logica era utile anche per l’analisi delle frasi di lingue moderne come il francese e l’italiano. Non solo perché permetteva di spiegare varie caratteristiche grammaticali (per esempio, i verbi concordano in numero e persona con il «soggetto», ossia con la parola che in latino avrebbe il caso nominativo) e perché in queste lingue i pronomi ancora si declinano. Il punto essenziale è un altro: l’analisi logica, pur con i suoi limiti e le sue ambiguità, permetteva una migliore comprensione della propria lingua e un suo uso più consapevole. Non bisogna però dimenticare che non si trattava di una teoria nata dal nulla e «scoperta» in base a oggettive necessità logiche indipendenti dalle lingue naturali, ma di un’eredità degli studi grammaticali sulle lingue greca e latina. Platone non avrebbe potuto nominare quelle che Plutarco chiama «parti del discorso» perché alla sua epoca non avevano ancora un nome (se non nel caso di nomi e verbi, per i quali era stato possibile usare termini tradizionali), né gli sarebbe venuto in mente di introdurre termini nuovi. Riteneva infatti che le parole fossero state stabilite una volta per tutte da «legislatori originari», che le avrebbero scelte in base alla loro «somiglianza» con le cose rappresentate.7 Aveva cioè una concezione statica della lingua, che a suo 6

L’analisi logica fu introdotta nel primo Settecento da alcuni grammatici francesi nell’ambito della didattica del latino e in particolare da César Chesneau Dumarsais (1676-1756), che nel 1722 pubblicò una Exposition d’une méthode raisonnée pour apprendre la langue latine. Fu Dumarsais a introdurre anche il termine «complément». 7 Platone espone questa sua concezione della lingua soprattutto nel Cratilo. Se si eccettua il caso delle onomatopee, non è facile capire cosa intendesse per somiglianza tra cose e parole.

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avviso rispecchiava fedelmente la realtà, concepita altrettanto statica. La nascita della grammatica, richiedendo l’introduzione di una nuova terminologia per denotare le diverse parti del discorso, i tempi e i modi dei verbi, i casi e gli altri concetti grammaticali, fu resa possibile da una rivoluzione concettuale di grande portata avvenuta nel mondo greco nel III secolo a.C. Gli uomini avevano sempre creato parole, ma in modo inconsapevole (per esempio, alterando progressivamente fonetica e significato di vocaboli preesistenti); ora per la prima volta si capisce che le parole possono essere create liberamente ex novo per esprimere significati nuovi. Appare cioè il convenzionalismo linguistico. Erofilo di Calcedonia, che aveva fondato l’anatomia introducendo la dissezione del corpo umano, crea una terminologia convenzionale per denotare le strutture anatomiche da lui scoperte, e alla stessa epoca non solo i grammatici, ma anche scienziati come Archimede, creano neologismi nel proprio campo; spesso si tratta di parole già esistenti che vengono usate in un significato nuovo, assegnato attraverso una definizione esplicita. Il convenzionalismo linguistico fu una delle condizioni che resero possibile lo straordinario sviluppo scientifico del primo ellenismo. Per fare scienza è infatti essenziale poter introdurre concetti nuovi, il che è possibile solo coniando i termini corrispondenti. Quando, dopo qualche secolo, il metodo scientifico entrò in crisi,8 si tornò alla concezione statica della lingua e il convenzionalismo fu dimenticato per quasi due millenni. Vi è un chiaro parallelismo tra il convenzionalismo linguistico e la consapevolezza, raggiunta per la prima volta nella cultura greca, che il potere politico abbia origine puramente umana e che la forma di governo possa essere discussa e scelta.9 Si tratta di due aspetti di una stessa straordi8

Torneremo su questa crisi (che abbiamo già incontrato in astronomia) alle pp. 81 sgg. e pp. 93 sgg. (capp. IX e X). 9 Vedi sopra, pp. 23 sgg.

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naria rivoluzione concettuale, che modificò profondamente tutta la cultura: oltre a permettere la nascita del pensiero scientifico, trasformò, fra l’altro, l’arte, rendendo possibile la coesistenza di stili diversi, tra i quali il singolo artista era libero di scegliere. Per la prima volta si capì che i vari elementi della cultura non sono dati esterni immodificabili, ma creazioni umane che possono divenire consapevoli.10 Un ulteriore aspetto di questa stessa rivoluzione concettuale è dato dallo sviluppo della semantica. Ne abbiamo qualche informazione da Sesto Empirico (che scrive intorno al 200 d.C.). Leggiamone un passo: [Gli Stoici] affermano che ci sono tre realtà collegate tra loro: il significato [τὸ σημαινόμενον], il significante [τὸ σημαῖνον] e ciò che si trova a essere [τὸ τυγχάνον]. Il significante è l’espressione vocale [τὴν φωνήν], per esempio [il suono della parola] Dione. Significato è la realtà che la parola pronunciata esprime e che noi comprendiamo […] Ciò che si trova a essere è poi l’oggetto esterno, per esempio lo stesso Dione. Di queste realtà due sono corpi come la voce e ciò che si trova a essere, e uno è invece incorporeo, come il significato, ossia il dicibile [λεκτόν].11

Non affrontiamo il difficile problema della ricostruzione della semantica stoica (sviluppata a partire dal III secolo a.C.) dai frammenti che ci sono rimasti (già Simplicio, nel VI secolo, aveva affermato che gli Stoici avevano lavorato molto sull’argomento, ma il loro insegnamento e la massima parte dei loro scritti erano perduti).12 Ricordiamo solo che l’importante distinzione tra il significato di una parola e l’oggetto a cui si riferisce fu recuperata per la prima volta in epoca moderna da un pensatore che abbiamo già incon10

Un’ulteriore manifestazione di questa rivoluzione concettuale è fornita dall’imporsi del concetto della relatività del moto, ossia dell’idea che l’uomo sia libero di scegliere il corpo a cui riferire il moto degli altri (vedi L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., cap. 13). 11 Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VIII, 11. 12 Simplicio, In Aristotelis categorias commentarium, 334, 1-3.

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trato: Gottlob Frege.13 Un’idea dell’influenza della dottrina stoica in epoche successive a Frege è data dal fondatore della moderna semiologia, Roland Barthes, che nei suoi Éléments de sémiologie, del 1964, criticando la teoria semantica di Ferdinand de Saussure (1857-1913), scrive: Sarà forse preferibile seguire l’analisi degli Stoici,14 i quali distinguevano scrupolosamente la φαντασία λογική (la rappresentazione psichica), il τυγχάνον (la cosa reale) e il λεκτόν (il «dicibile»); il significato non è né la φαντασία, né il τυγχάνον, ma il λεκτόν; né atto di coscienza né realtà, esso può essere definito solo all’interno del processo di significazione, in modo quasi-tautologico: è quel «qualcosa» che colui che impiega il segno intende con esso. In questo modo si perviene appunto a una definizione puramente funzionale.15

Questo brano mostra che non solo erano state tratte da fonti classiche la grammatica e l’analisi logica insegnate fino a qualche decennio fa nelle scuole europee, ma che i pochi frammenti sopravvissuti degli studi stoici sulla lingua avevano continuato a guidare il pensiero di illustri linguisti europei fino alla seconda metà del XX secolo. Gli Stoici, distinguendo tra il significato di un termine e l’oggetto reale cui si riferisce, avevano capito che il lessico di una lingua non rispecchia solo la vita materiale dei suoi parlanti e le loro istituzioni, ma soprattutto il mondo dei concetti usati per analizzare la realtà, ossia il loro universo culturale. Per questo motivo non è mai possibile tradurre con perfetta fedeltà un testo da una lingua a un’altra, e non è possibile conoscere veramente una cultura di cui si ignori la lingua. (Un’ovvia conseguenza è che l’attuale decimazione delle lingue è allo stesso tempo una distruzione di culture.) 13

Vedi sopra, pp. 47 sgg. Discussione ripresa da Borgeaud, Bröcker e Lohmann, «Acta Linguistica», III, I, 27 (NdA). 15 Roland Barthes, Éléments de sémiologie, Paris, Éditions du Seuil, 1964 (trad. it. Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966, p. 40). 14

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Va detto che le antiche idee appena esposte non sono condivise da chi crede nella possibilità di sistemi automatici perfetti di traduzione, né dai sostenitori di lingue universali, artificiali o naturali, che dovrebbero racchiudere l’intero universo dei significati possibili. Dalle considerazioni precedenti segue che si può avere un’idea del nostro debito culturale verso il mondo classico esaminando il lessico delle moderne lingue europee. Lo stretto legame con il latino è del tutto ovvio non solo per le lingue neolatine, ma anche per l’inglese, che ha ereditato dal latino circa una metà del proprio lessico.16 Nessuna delle attuali lingue europee (tranne ovviamente il greco moderno) discende invece dall’antico greco. In Europa si parlano lingue di diversi gruppi linguistici, non tutti indoeuropei, ma quasi sempre una parte consistente del loro lessico è di origine greca. Come mai? Il prossimo capitolo è dedicato a questo argomento.

16 Infatti la lingua inglese è nata, in seguito alla conquista normanna dell’Inghilterra, dalla fusione dell’anglosassone con il francese, dal quale ha tratto tutto il lessico colto.

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VII

IL DEBITO DEI LESSICI EUROPEI VERSO IL GRECO

Quasi tutte le lingue europee, pur non discendendo dal greco, hanno una considerevole presenza della lingua greca nel proprio lessico. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di neologismi moderni, costruiti con radici greche in base a un’abitudine sulla cui origine torneremo tra poco. Sono state costruite in questo modo intere terminologie scientifiche, tecnologiche e di altre discipline specialistiche (pensate a parole come «termodinamica», «microscopio», «omeopatico», «epistemologia», «paleolitico», «fotosintesi», «dodecafonia»). Si sente dire spesso che la conoscenza del greco antico è utile perché permette di capire il significato di queste terminologie, che fra l’altro costituiscono un importante terreno comune tra le lingue (e quindi le culture) europee. Ciò è certamente vero, ma il rapporto con la cultura classica in questo caso può sembrare introdotto artificialmente dai creatori dei neologismi, che a volte sembrano animati dalla perversa volontà di complicare le cose semplici (almeno è questa la sensazione che io provo quando mi imbatto in parole come «paraipotattico» o «paremiografico»). Prima di creare neologismi con radici greche, quasi tutte le lingue europee avevano assunto un consistente nucleo di lessico dal greco antico, con minimi adattamenti fone-

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tici e continuità di significato.1 Una parte di questi prestiti ha una motivazione ovvia: in particolare quelli usati in riferimento alla stessa civiltà greca (come «peplo», «acropoli», «metopa», «orfico», «pitagorico») e i termini relativi a regioni geografiche o a piante e animali che abbiamo conosciuto dai greci (per esempio, «Atlantico», «carota», «ciclamino», «crisantemo», «elefante», «cammello», «ippopotamo», «coccodrillo», «rinoceronte»). Inoltre, grazie al Nuovo Testamento e ai padri della Chiesa di lingua greca, molti termini greci sono stati assunti con un significato religioso nell’ambito del cristianesimo (pochi esempi: «angelo», «diavolo», «paradiso, «Bibbia», «Cristo», «cattolico», «eucarestia», «catechismo», «diacono», «cresima», «litania», «liturgia», «basilica», «monaco»). In questi casi, come in quello di alcuni termini relativi a manufatti tradizionali (come «sacco», «scafo», «aratro», «trono», ecc.), si tratta di prestiti del tutto analoghi a quelli avvenuti fra molte altre lingue. È per noi molto più interessante capire la motivazione dei tanti prestiti dal greco che, non rientrando in alcuna delle categorie precedenti, caratterizzano il rapporto del tutto particolare tra la cultura greca e la moderna cultura occidentale. Alla fine del capitolo ne propongo una lista, senza alcuna pretesa di completezza, che ho mantenuto in proporzioni contenute tralasciando la terminologia anatomica e i tanti vocaboli dotti di uso raro. Le parole elencate sono presenti, con leggeri adattamenti fonetici, in quasi tutte le lingue europee. Perché tante parole sono state importate dall’antica lingua greca in lingue che non ne discendono? 1

Una notevole eccezione è data dalla lingua olandese. Gli olandesi, infatti, invece di traslitterare i termini greci preferirono tradurli nella propria lingua. Questa scelta, che risale essenzialmente al XVII secolo, benché superficialmente possa dare l’impressione opposta, mostra in realtà un legame molto stretto con la cultura classica, in quanto esprime la volontà di trasferire integralmente i significati originali nella propria lingua. Un’altra eccezione è costituita dagli islandesi, che sono alquanto restii ai prestiti linguistici (hanno trovato anche il modo di tradurre computer unendo due termini vichinghi).

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I prestiti linguistici possono essere distinti in prestiti di necessità e prestiti di lusso. Mi sembra che questa distinzione, pur criticata,2 in prima approssimazione possa funzionare: anzi, si potrebbe parlare di prestiti necessari, utili e inutili. Se per esempio diciamo election day invece di «giorno delle elezioni» stiamo importando inutilmente, per pura subalternità culturale, un’espressione inglese: non c’è alcun altro motivo, infatti, per chiamare day, parlando in italiano, ciò che nella nostra lingua si dice «giorno». A volte i grecismi danno la stessa impressione. Vi è mai capitato di pensare che i medici chiamano «stomatite» quella che potrebbe essere detta equivalentemente «infezione della bocca» per trincerarsi dietro una terminologia dotta, un po’ come faceva don Abbondio con il suo latinorum? Un attimo di riflessione è però sufficiente a farci rendere conto che questa impressione non è mai generata da veri prestiti, ma sempre da neologismi moderni. La parola «stomatite», costruita artificialmente dagli studiosi moderni, può apparire inutilmente dotta proprio perché noi diciamo «bocca» e il vocabolo greco corrispondente, stóma, non è mai stato importato (se non come termine specialistico, con diverso significato). Tra i veri prestiti dal greco troviamo invece, per esempio, «tetano» e «diabete», che non possono apparire grecismi inutili, in quanto non abbiamo altro modo per designare queste malattie, che i greci avevano individuato per primi; non a caso si tratta di vocaboli che sono entrati sostanzialmente inalterati in lingue lontane tra loro e dal greco, come l’italiano, il tedesco, il bulgaro, l’estone e il basco. I prestiti dal greco sono quasi sempre classificabili come prestiti di necessità, in quanto – è questo il punto essenziale! – hanno significati non esprimibili in altre lingue, perché designano concetti elaborati per la prima volta nella cultura 2

Si è sostenuto che nessun prestito è un lusso totalmente inutile, poiché parole di lingue diverse non hanno mai significati perfettamente coincidenti. In alcuni casi è però difficile cogliere la differenza.

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greca. Per esempio, i termini greci nósos e iatrós (rispettivamente «malattia» e «medico») non sono stati mai importati in altre lingue, tutte già in possesso di termini equivalenti, se non come elementi di parole composte (per esempio, nel prestito greco «nosocomio» e nel neologismo «pediatra»). Abbiamo dovuto invece necessariamente usare prestiti greci per esprimere concetti per i quali le altre lingue non avevano concorrenti; nel campo della medicina è questo il caso di «sintomo», «diagnosi», «terapia» e «prognosi». Analogamente, in anatomia usiamo termini greci per indicare strutture scoperte e denominate in epoca ellenistica, come il «duodeno» o l’«epididimo», mentre i nomi greci di organi noti a tutti i popoli, come il cuore, il fegato e il polmone, sono usati solo nella costruzione di neologismi. Un altro esempio: la parola greca per guerra, pólemos, che aveva ovviamente equivalenti in tutte le lingue, non è mai stata importata (se non, ancora una volta, come tema usato in parole derivate), mentre sono stati assunti come prestiti i termini «strategia» e «tattica», che introducevano anch’essi concetti nuovi (non a caso, due parole entrate inalterate nel nostro campione di lingue: italiano, tedesco, bulgaro, estone e basco). Se si dà una scorsa alla lista a fine capitolo alla luce di queste considerazioni, ci si rende conto che la lingua greca ha permesso ai popoli europei di arricchire il proprio lessico con un nuovo strato linguistico, formato da vocaboli in grado di designare concetti senza precedenti, perché più specifici o più astratti rispetto a quelli già presenti nelle altre culture. Non mi riferisco solo alla medicina, all’anatomia, alla logica, alle scienze esatte e alla grammatica, basate su nuove terminologie in larga misura convenzionali, sorte soprattutto in epoca ellenistica. Penso anche ai tanti prestiti relativi ad altri prodotti culturali ereditati dalla civiltà greca, come «musica», «poesia», «teatro», «tragedia», «commedia», «filosofia», «filologia», «politica», «economia», «gastronomia», «estetica», e a termini oggi usati comunemente in relazione a sentimenti e all’organizzazione del pensiero e dell’azione di ogni giorno (per fare ancora

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qualche esempio, le lingue del nostro campione condividono parole greche come «fantasia», «melanconia», «simbolo», «programma», «categoria», «metodo», «sistema» e «idea»). Una parte dei prestiti dal greco risale all’antichità ed è stata ricevuta attraverso il latino. Molti altri sono stati introdotti nel basso medioevo o nel Rinascimento da studiosi di antichi testi greci. È questo il caso, per esempio, della terminologia matematica, introdotta dai traduttori dal XII al XVI secolo, e di gran parte di quella anatomica, che nel medioevo era un miscuglio, spesso incoerente, di termini latini, arabi e greci e fu uniformata in epoca rinascimentale. I greci erano riusciti a estendere le funzioni del proprio lessico in direzioni più tecniche o astratte, spesso flettendo a usi diversi parole tradizionali o loro derivati: per esempio, dal termine che indicava l’istituzione di sentinelle avanzate per prevenire gli attacchi del nemico fu tratto il vocabolo «profilassi», proprio del linguaggio medico. Per fare un altro esempio, il termine greco per «panchetta», trapézion, fu usato dai geometri anche per indicare un quadrilatero con due lati paralleli. Il contesto permetteva di capire se si stava parlando di una figura geometrica o di un oggetto concreto. Gli europei importarono dal greco molte parole, ma per secoli non assimilarono il metodo usato dagli antichi greci per formare nuovi significati. I matematici moderni, per esempio, non avrebbero mai accettato di dimostrare un teorema relativo a una «panchetta»; concepivano un solo modo per distinguere un ente della teoria geometrica da un oggetto concreto: usare per il primo un termine greco. Qualcosa di analogo avvenne per tutte le altre discipline. Per estendere il livello linguistico superiore ereditato dai greci apparve quindi naturale continuare ad attingere lessico dalla lingua greca, traendone anche la tendenza a costruire molte parole composte. Il nucleo iniziale di prestiti, dal quale abbiamo tratto la nostra lista, fu così progressivamente esteso, generando le terminologie costruite con temi greci che conosciamo (e che provocano a volte reazioni di rigetto).

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Il debito dei lessici europei verso il greco

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Per valutare l’entità del debito del lessico delle moderne lingue europee verso la lingua greca, dobbiamo considerare anche i tanti termini derivati da parole latine costruite sul modello di vocaboli greci (pochi esempi: «postulato», «dimostrazione», «punto», «circonferenza», «ascissa», «ordinata», «deduzione», «latitudine», «longitudine», «percezione», «probabilità», «insetto», «irrazionale», «congiuntivo», «aggettivo»). Otteniamo così quasi tutto il lessico colto, oltre a molte parole entrate anche nel lessico popolare. A scanso di equivoci, va ribadito che la lista comprende solo parole il cui significato, anche se non coincide con l’originale, si è evoluto da quello con continuità. Per esempio, «tisi» (ϕϑίσις), che originariamente in greco significava «consunzione», «deperimento», è stata inclusa perché aveva assunto uno specifico significato medico già nei trattati ippocratici. Analogamente, «afrodisiaco» è presente perché appare nel significato moderno nel trattato farmacologico di Dioscoride. Una parola come «anestesia» non è stata invece inclusa perché il suo significato originario è «insensibilità» e solo in epoca relativamente recente è stata ripresa per indicare l’abolizione della sensibilità ottenuta da un medico perché il paziente possa essere operato. Molti altri termini greci sono stati ripescati in tempi moderni per esprimere significati connessi a quello originale, ma più astratti o più specifici. Appartengono a questa categoria, per esempio, «cibernetica», «anamorfosi», «marsupio», «sinapsi», «apoptosi», «ostracismo» e «carisma» (termine, quest’ultimo, importato dal greco nel significato religioso, ma piegato al senso oggi usuale da Max Weber). Mentre la maggioranza dei vocaboli greci importati è usata oggi con un significato modificato rispetto a quello originale, una notevole eccezione è costituita dai termini scientifici introdotti da una precisa definizione: parole come «tetraedro», «iperbole», «parallasse» o «asintoto» hanno conservato intatto il loro significato. Torneremo più avanti (nel capitolo XIV) sulla metamorfosi dei significati in altri casi, discutendone qualche esempio particolare.

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UNA LISTA DI PRESTITI DAL GRECO

Poesia, poetica, idillio, elegia, ode, inno, mito, mitico, epica, eroe, eroico, rapsodia, rapsodico, lirica, epigrafe, epigramma, aforisma, aneddoto, apologia, encomio, panegirico, proemio, prologo, epilogo, antologia, silloge, sinossi, sinottico, poligrafo, parodia, satirico, satirizzare, ironia, ironico, sarcasmo, icastico, caustico, polemico, polemizzare, didascalico, teatro, commedia, tragedia, tragico, comico, dramma, drammatico, protagonista, coro, orchestra, musica, armonia, sinfonia, ritmo, polifonia, monodico, tono, tonico, sintonia, melodia, museo, biblioteca, pinacoteca, colosso, amorfo, polimorfo, plastico, mimo, mimica, mimetico, cromatico, policromia, monocromatico, icona, aroma, miasma, simposio, propinare, gastronomia, anatomia, fisiologia, fisiologico, patologico, igiene, profilassi, profilattico, sintomo, sintomatico, diagnosi, prognosi, nosocomio, terapia, terapeutico, eziologia, chirurgia, autopsia, clinico, farmaco, farmacopea, settico, tossico, cosmesi, cosmetico, afrodisiaco, antidoto, flebotomia, cataplasma, trombo, trauma, traumatico, ecchimosi, sistole, diastole, anemia, aneurisma, cefalgia, idrocefalo, epatite, nefrite, diabete, tisi, colera, tetano, sarcoma, idrofobia, artrite, scoliosi, psoriasi, catarro, miopia, oftalmia, cataratta, glaucoma, emorragia, emorroide, peristaltico, stipsi, diarrea, piorrea, spasmo, spastico, epilessia, asma, asmatico, reumatismo, asfissia, priapismo, satiriasi, paralisi, paralitico, sincope, paresi, paraplegia, trombosi, catalessi, atonia, atrofia, epidemia, narcosi, narcotico, anoressia, bulimia, eutanasia, prodromo, genesi, stasi, acme, crisi, apoteosi, cataclisma, catastrofe, effimero, ciclo, periodo, periodico, sporadico, metamorfosi, metastasi, metabolico, omogeneo, eterogeneo, autogeno, cristallo, cristallino, metallico, diafano, magma, caos, catalisi, dialisi, pletorico, stocastico, fisica, meccanica, dinamico, statico, cinetico, ottica, acustica, energia, idraulica, atomo, tecnico, automa, automatico, siderurgia, magnete, elica, orologio, macchina, sifone, diaframma, sincrono, sincronismo, isocrono, pneumatico, plasma, nautico, idioma, poliglotta, afasia, laconico,

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Il debito dei lessici europei verso il greco

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analfabeta, carta, grafico, grammatica, ortografia, calligrafia, fonema, fonetico, sillaba, dittongo, frase, strofa, parentesi, sintassi, filologia, apocrifo, autentico, autografo, lessico, etimologia, semantico, semeiotico, ermeneutico, esegesi, retorica, sinonimo, omonimo, pseudonimo, epiteto, eufemismo, pleonasmo, metonimia, parafrasi, perifrasi, analogia, metafora, allegoria, simbolo, simbolico, prosopopea, aulico, dialogo, dialettico, diatriba, filosofia, tesi, antitesi, sintesi, analisi, etico, estetico, critica, logica, sofisma, sofistico, apodittico, dicotomia, paradosso, aporia, sillogismo, paralogismo, tautologia, antinomia, ipotesi, fenomeno, teoria, teorico, pratico, empirico, prassi, pragmatico, assioma, assiomatico, eclettico, sincretismo, metafisica, dogma, ortodossia, ortodosso, eterodosso, apostasia, teologia, idolo, ateo, profeta, martire, olocausto, demiurgo, taumaturgo, neofita, proselito, epigono, metrico, isometria, simmetria, simmetrico, matematica, aritmetica, geometria, diagramma, lemma, teorema, problema, centro, cateto, ipotenusa, isoscele, scaleno, parallelo, perimetro, cilindro, sfera, parallelogramma, rombo, trapezio, poligono, pentagono, esagono, …, diametro, ellisse, parabola, iperbole, cicloide, asintoto, tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro, icosaedro, piramide, prisma, parallelepipedo, prostaferesi, astro, astronomia, pianeta, cometa, galassia, eclissi, zodiaco, eclittica, parallasse, sinodico, cosmo, etere, orizzonte, meteora, meteorologia, geografia, topografia, geodesia, polo, clima, zona, artico, tropico, antipodo, sisma, somatico, psiche, psichico, onirico, ipnotico, dolo, mnemonico, euforia, estasi, estatico, mistero, magia, nostalgia, melanconia, nausea, entusiasmo, zelo, acribia, estro, panico, simpatia, antipatia, empatia, apatia, patema, patetico, carattere, caratteristico, austero, isterico, mania, paranoia, flemmatico, monotono, monotonia, ipocrita, ipocrisia, scandalo, scandalizzare, ipocondriaco, stoico, cinico, scettico, epicureo, idiosincrasia, parassita, fantasia, fantastico, orgasmo, parossismo, orgia, erotico, catarsi, catartico, esoterico, pornografia, misoginia, oligarchia, aristocrazia, monarchia, autarchia, egemonia, plutocrazia, despota, tiranno, autocrate, autonomia, democrazia, demago-

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Perché la cultura classica

gia, anarchia, politica, monogamia, poligamia, economia, ipoteca, emporio, monopolio, sinergia, ecumenico, apolide, cosmopolita, nomade, autoctono, esotico, etnico, laico, metropoli, periferia, labirinto, anagrafe, amnistia, irenico, strategia, tattica, stratagemma, logistica, agonia, agonismo, antagonista, atleta, ginnastica, palestra, acrobata, stadio, ippodromo, orfanotrofio, elemosina, architetto, chimica, botanica, petalo, ornitologo, storia, epoca, episodio, cronaca, cronico, cronografia, anacronismo, archeologia, arcaico, enciclopedia, propedeutico, diploma, scuola, scolastico, accademia, liceo, ginnasio, aula, cattedra, pedagogia, beota, troglodita, tipo, tipico, prototipo, archetipo, canone, canonico, protocollo, organo, organico, sistema, schema, schematico, schematizzare, metodo, metodico, categoria, paradigma, programma, catalogo, elenco, anomalo, analogo, omologo, omologare, ipostasi, idea.

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VIII

CENNI SU ARTE, MUSICA E LETTERATURA

Il debito delle arti figurative moderne verso la cultura classica può apparire scontato, ma in realtà non sempre è stato riconosciuto. Per esempio, per secoli si è negato che la prospettiva del Quattrocento italiano fosse stata realizzata ricostruendo una tecnica antica. Eppure il massimo teorico della prospettiva rinascimentale, Piero della Francesca (≈ 1416-1492), aveva scritto: Et perché la pictura non è se non dimostrationi de superficie et de corpi degradati o acresciuti nel termine, posti secondo che le cose vere vedute da l’occhio socto diversi angoli […], però dico essere necessaria la prospectiva, la quale discerne tucte le quantità proportionalmente commo vera scientia, dimostrando il degradare et acrescere de onni quantità per forza de linee. La quale seguitando, molti antichi dipinctori aquistaro perpetua laude. Commo Aristomenes Thasius, Polides, Apello, Andramides, Nitheo, Zeusis, et molti altri.1

Nonostante la convinzione di Piero della Francesca, nei secoli successivi, e in particolare in epoca illuministica, quando ci si convinse della superiorità dei moderni sugli antichi, fra gli storici dell’arte si diffuse la tesi (ancora ripetuta in qualche libro) che i greci non avessero conosciuto la prospettiva. In realtà non è più possibile dubitare dell’esisten1

Piero della Francesca, De prospectiva pingendi, Firenze, Le Lettere, 1984, pp. 128-129.

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L’affresco nella «stanza delle maschere» nella Casa di Augusto, sul Palatino. Come si mostra nell’immagine a destra, tutti i segmenti che nella realtà sarebbero ortogonali alla parete di fondo, coerentemente alle regole della prospettiva, sono rappresentati convergenti esattamente in un punto.

za dell’antica prospettiva, poiché, oltre agli accenni più o meno vaghi di autori classici che erano sempre stati noti,2 oggi disponiamo di due tipi di documentazione: dipinti in cui le regole matematiche della prospettiva sono applicate in modo evidente, e brani di antichi trattati in cui si riportano in modo inequivocabile regole matematiche della prospettiva. Nella prima categoria è particolarmente importante l’affresco nella «stanza delle maschere», scoperto nel 1961 nella Casa di Augusto, sul Palatino. Alla seconda categoria appartengono le istruzioni date da Tolomeo per disegnare in prospettiva un globo terrestre con paralleli e meridiani,3 e il brano in cui Pappo, commentando l’Ottica di Euclide, individua il punto attraverso il quale occorre tracciare le rette di un piano perché appaiano parallele a una retta data da un determinato punto di vista, ossia costruisce ciò che oggi è detto «punto di fuga».4 2

Lucrezio, De rerum natura, IV, 426-431; Sesto Empirico, Adversus Dogmaticos, I, §244; Vitruvio, De architectura, I, ii, §2; Proclo (ed. Friedlein), In primum Euclidis elementorum librum commentarii, 40, 10-21. 3 Tolomeo, Geographia, VII, vi-vii; la rilevanza di questo passo per la teoria della prospettiva è stata notata per la prima volta da Kristi Andersen (The central projection in one of Ptolemy’s map constructions, in «Centaurus», 30, 1987, pp. 106-113). 4 Pappo, Collectio, VI, prop. 51. L’importanza di questo passo è stata sottolineata per la prima volta da Alexander Jones in una conferenza (non ricordo la data esatta, ma si era alla fine degli anni Ottanta).

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La riconquista rinascimentale era stata certo tutt’altro che banale, poiché era sopravvissuto solo il ricordo dell’antica prospettiva e non trattati che ne spiegassero in dettaglio la tecnica. Gli scienziati rinascimentali (non bisogna dimenticare che Piero della Francesca è stato probabilmente il migliore matematico della sua epoca) avevano avuto però un importante aiuto nella loro ricostruzione: l’Ottica di Euclide. Quest’opera, infatti, anche se non tratta esplicitamente la teoria della prospettiva, ne fornisce le basi concettuali (come mostra chiaramente Pappo nel suo commento). Non a caso Piero inizia il suo trattato sulla prospettiva (De prospectiva pingendi) riprendendo da Euclide non solo i postulati degli Elementi e i concetti fondamentali del­l’Ottica, ma anche una serie di teoremi di questa seconda opera. Lo stesso aveva fatto, prima di lui, Leon Battista Alberti (nel De pictura, in cui aveva esposto le tecniche della prospettiva in modo semiempirico) e farà, dopo di lui, Leonardo da Vinci.5 L’esempio della prospettiva ci interessa soprattutto per la tipica successione dei tre momenti, presenti anche in molti altri casi: la consapevolezza della propria dipendenza dalla cultura classica, diffusa nella prima età moderna, il successivo prevalere della tesi dell’originalità dei moderni e infine l’acquisizione della prova pienamente documentata dell’antica origine delle idee recuperate, che però è in genere nota solo agli specialisti di ciascun particolare settore. L’arte antica non è stata sempre conosciuta allo stesso modo. La massima parte delle opere oggi note è stata ritrovata in epoca moderna, e ci si può chiedere in quale misura tali ritrovamenti abbiano condizionato lo sviluppo degli stili artistici. Certamente in molti casi un’influenza vi è stata. 5

Per fare un solo esempio, in uno degli scritti raccolti con il titolo di Trattato della pittura Leonardo trascrive i teoremi di Euclide che dimostrano che se ci si avvicina a una sfera o a un cilindro, l’oggetto sembrerà più grande, ma se ne vedrà una porzione minore.

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Il Torso del Belvedere e il gruppo del Laocoonte.

Per esempio, è ben noto che opere come il Torso del Belvedere (copia in marmo realizzata da Apollonio di Atene nel I secolo d.C. di un bronzo del I secolo a.C.) e il gruppo scultoreo del Laocoonte (databile al II o I secolo a.C.) influenzarono profondamente gli scultori rinascimentali. Michelangelo, in particolare, che aveva assistito allo scavo che restituì la seconda opera, ne fu profondamente impressionato. Una serie di sue sculture ricordano talmente gli antichi capolavori che qualcuno ha avanzato la strana congettura che il Laocoonte fosse opera sua.6 All’inizio del Seicento a Roma, durante gli scavi di Villa Ludovisi, fu ritrovata una serie di copie romane di statue ellenistiche, tra le quali il Galata morente e il Galata suicida. 6

Questa teoria è stata avanzata dalla ricercatrice americana Lynn Catterson ed è stata ripresa da Alberto Cottignoli. A suo sostegno si è ricordato che Michelangelo giovane aveva venduto sue sculture come preziose statue antiche. Ma, appunto, le aveva vendute e non sotterrate. A parte molte altre considerazioni, non si capisce perché, dopo avere lavorato per anni per realizzare l’opera, Michelangelo avrebbe dovuto sotterrarla e farla scoprire da altri, senza ricavarne alcun guadagno. Nessuno ha potuto attribuire a Michelangelo il Torso del Belvedere, perché era noto dal primo Quattrocento.

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Galata morente.

Il ritrovamento destò molto interesse, soprattutto fra gli artisti italiani, e le statue furono ripetutamente copiate. L’attenzione alla psicologia e la tensione drammatica di queste opere hanno avuto un’influenza non sempre riconosciuta sulla successiva scultura barocca. Gli antichi artisti non avevano raffigurato solo soggetti «nobili», come quelli di argomento mitologico e storico particolarmente ammirati dai loro epigoni dell’arte rinascimentale e barocca. Plinio il Vecchio scrive: È quindi opportuno elencare qui i maestri del pennello celebri per pitture di categoria inferiore tra i quali fu Pireico; questi, pur essendo secondo a pochi in fatto di arte, si volle distinguere – non so se di proposito – poiché, pur trattando sempre soggetti umili, tuttavia conseguì la gloria nel campo dell’umiltà. Dipinse botteghe di barbieri e di calzolai, asini, vivande e simili per cui fu chiamato rhyparographos [pittore di volgarità]. In questi soggetti, d’altra parte, dimostrò abilità e determinazione se le sue opere furono vendute a maggior prezzo delle più grandi di molti altri. […] Anche Callicle fece cose minute, così pure Calate in quadretti con soggetti da commedia, e Antifilo si cimentò in entrambi

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Perché la cultura classica

i campi. […] Dipinse su quadretti scherzosi un tale di nome Grillo, di aspetto ridicolo.7

Plinio continua citando dipinti con paesaggi, scene di pesca, di caccia e di lavori agricoli. Queste «pitture di categoria inferiore» si erano sviluppate soprattutto in epoca ellenistica. A lungo i moderni hanno fatto proprio il giudizio di Plinio. Rubens, per esempio, nel 1621 scrive: Confesso che per istinto naturale sono più adatto a eseguire opere di grandi dimensioni che non piccole bizzarrie. Ciascuno secondo il proprio talento…8

Il ricordo delle «piccole bizzarrie», e in particolare delle nature morte, dipinte sin dal V secolo a.C., era comunque ben vivo in letteratura. Nel Rinascimento era spesso ripetuto, per esempio, l’aneddoto, anch’esso riferito da Plinio, della gara tra i pittori Zeusi e Parrasio, nella quale Zeusi avrebbe dipinto dell’uva con tale realismo da ingannare gli uccelli, che andavano a beccarla. La consapevolezza della possibile esistenza di quest’altro genere di pittura, anche se poco apprezzata da Plinio, favorì certamente la sua ripresa quando si realizzarono le opportune condizioni sociali e culturali, come avvenne nell’Olanda del Seicento. Gli scavi di Pompei, iniziati a metà del Settecento, rinnovarono l’interesse per l’arte antica, ampliandone notevolmente la conoscenza, grazie soprattutto ai ritrovamenti di affreschi e mosaici, ed ebbero grande risonanza in tutta Europa. Vennero alla luce, fra l’altro, molti paesaggi, nature morte e altri esempi dell’arte che Plinio aveva giudicato di categoria inferiore. In una prima lunga fase i moderni continuarono però a vedere l’arte antica attraverso il filtro della scala di valori trasmessa dagli autori di epoca imperiale, e l’interesse si concentrò sul genere di arte tradizio7

Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 112. Peter Paul Rubens, lettera a William Trumbull, citata in Hugh Trevor-Roper, Principi e artisti. Mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo (1517-1633), trad. it. Torino, Einaudi, 1980, pp. 189-190. 8

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nalmente considerato «superiore», generando il neoclassicismo, che fu teorizzato da Johann Winckelmann (1717-1768). Paradossalmente il neoclassicismo, proprio perché, nella sua venerazione per l’arte greca, vi vedeva la realizzazione di valori assoluti, occultava ai suoi esponenti la loro dipendenza dagli antichi modelli. Questi artisti, infatti, ritenendo che le opere greche avessero realizzato la Bellezza in senso assoluto, non pensavano di produrre imitazioni, ma semplicemente opere che, per la loro elevata qualità estetica, non potevano non essere simili agli antichi capolavori. In realtà le opere dell’arte greca ritrovate hanno determinato così totalmente il gusto moderno che per secoli abbiamo pensato che il candore del marmo fosse una componente essenziale della bellezza della statuaria (come Winckelmann aveva affermato esplicitamente). Gli scultori hanno continuato per secoli a realizzare statue bianche, come credevano fossero i loro modelli, e anche ora, dopo avere finalmente capito che le antiche statue erano colorate e ci sono arrivate bianche solo per la decolorazione dovuta al tempo, un’Afrodite policroma continua ad apparirci qualcosa di kitsch, in quanto dissonante con l’immagine in noi radicata dell’arte antica. In architettura il neoclassicismo, ancora più che in Europa, ebbe fortuna negli Stati Uniti. Uno dei padri fondatori della nazione americana che abbiamo già avuto occasione di ricordare, Thomas Jefferson, è considerato anche il fondatore dell’architettura statunitense, e la sua profonda cultura classica lo guidò in architettura non meno che nel pensiero politico. Un esempio di edificio da lui progettato è il Virginia State Capitol, completato nel 1788. La direzione indicata da Jefferson fu seguita a lungo. Il Palazzo della Corte Suprema degli Stati Uniti, inaugurato nel 1935, non differisce troppo dall’edificio progettato da Jefferson centocinquant’anni prima, né da molti edifici pubblici statunitensi costruiti nel frattempo (per esempio la Casa Bianca, il Campidoglio o la New York Public Library).

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Il Virginia State Capitol, progettato da Thomas Jefferson e completato nel 1788.

Siamo così abituati al neoclassicismo che ci appare normale che nel progettare opere come le precedenti ci si sia ispirati a edifici risalenti a circa due millenni e mezzo prima, costruiti da architetti greci a tutt’altro scopo. È un po’ come se i greci avessero eretto sull’acropoli di Atene, invece del Partenone che tutti conosciamo, un’imitazione della piramide di Cheope (che sarebbe stata circa mezzo millennio meno antica).

Il Palazzo della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (1932-35).

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È lecito chiedersi se la dipendenza delle opere rinascimentali, barocche e neoclassiche dall’arte greca abbia occultato altri debiti dell’arte moderna verso la civiltà classica e se, in particolare, i ritrovamenti archeologici abbiano condizionato anche lo sviluppo di stili lontani dal neoclassicismo, e fino a quando abbiano continuato a farlo. Non bisogna dimenticare che, dal Rinascimento in poi e soprattutto dopo il sorgere del neoclassicismo, una parte essenziale della formazione degli artisti europei consisteva nello studio dell’arte antica. All’inizio del periodo ellenistico si era sviluppata la pittura che i romani avrebbero detto compendiaria: una pittura eseguita velocemente, senza linee di contorno, affidata agli effetti di luce. Fino al primo Ottocento questo stile era noto essenzialmente da descrizioni letterarie, tutte denigratorie.9 Dalla metà dell’Ottocento in poi si scoprirono importanti opere di epoca romana che riprendevano lo stile compendiario. In particolare a Roma nel 1848 vennero alla luce gli affreschi della Casa di via Graziosa, sull’Esquilino, e nel 1869 quelli della Casa di Livia, scavata sul Palatino per ordine di Napoleone III. La presentazione ufficiale dell’impressionismo fu organizzata da Claude Monet, Auguste Renoir, Edgar Degas e Alfred Sisley nell’aprile 1874. Monet, Renoir e Sisley erano stati allievi del pittore neoclassico Charles Gleyre (1806-1874), nel cui atelier si studiavano con cura le opere antiche.10 9

Petronio, in particolare, fa dire a Encolpio che la pittura aveva fatto una brutta fine quando gli «egiziani» (il riferimento è evidentemente ai pittori alessandrini) avevano avuto l’impudenza di introdurre lo stile compendiario (Satyricon, 2). Plinio, che attribuisce l’introduzione della pittura compendiaria a Filosseno (Naturalis Historia, XXXV, 110-111), afferma che l’arte, in generale, si era arrestata dopo l’epoca di Alessandro Magno, per risorgere poi, sia pure a un livello inferiore, a metà del II secolo a.C. (Naturalis Historia, XXXIV, 52). Giudizi di questo tipo, propri del «classicismo» di epoca imperiale, hanno continuato a essere accolti fino a tempi recenti, determinando la sottovalutazione dell’arte ellenistica. 10 Gleyre aveva raccomandato a Monet: «Rappelez-vous donc, jeune homme, que, quand on exécute une figure, on doit toujours penser à l’antique» (citato in Florence Canard e Jean-Pierre Canard, Orsay, le goût d’une époque, Paris, Nathan, 1989, p. 110).

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Affreschi della Casa di via Graziosa con scene dell’Odissea: a sinistra, l’attacco dei Lestrigoni.

Il rapporto tra il moderno impressionismo e la pittura compendiaria è stato sempre sottolineato dagli storici dell’arte antica (nell’Enciclopedia Italiana del 1929, per esempio, alla voce «Affresco», si afferma che «la pittura compendiaria ellenistica può essere avvicinata alla tecnica impressionistica moderna»). Stranamente gli storici dell’arte moderna non sembrano avere però considerato la possibile influenza sull’arte dell’Ottocento delle opere antiche «avvicinabili alla tecnica impressionistica moderna» scoperte poco prima della nascita dell’impressionismo. Il fatto che gli impressionisti si presentassero come rivoluzionari oppositori della tradizione, identificata con il neoclassicismo, potrebbe ripetere uno schema che abbiamo già incontrato (per esempio in astronomia). Leggendo le pagine precedenti, l’amico compositore Willy Merz ha trovato forti analogie con un episodio della storia della musica anch’esso poco noto, sul quale mi ha inviato questo suo breve scritto: Il periodo che intercorre tra l’ultimo decennio del XIX secolo e l’inizio del XX è considerato un punto di svolta decisivo nella storia della musica, per l’allargamento progressivo e, successivamente, l’abbandono del sistema tonale. Nell’area francese tra i principali protagonisti di questa tendenza artistica si ricordano Gabriel Fauré e, in misura ancora più marcata, Claude Debussy e Maurice Ravel. La novità e la complessità del linguaggio di Debussy vengono generalmente analizzate dal punto di vista armo-

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nico, in particolare si sottolinea l’uso dell’undicesima naturale (DO-MI-SOL-Sib-RE-FA#) come accordo praticamente consonante. È però necessario rimarcare quanto la novità armonica sia a volte determinata da una nuova sensibilità melodica, decisamente diatonica e rifuggente le normali formule cadenzali tonali. Tale nuova sensibilità melodica viene abitualmente liquidata come fenomeno secondario, coerente con la volontà dichiarata di Debussy di «noyer le ton», annegare la tonalità, e ricondotta quindi a un progresso inarrestabile di disfacimento del sistema tonale, quasi una prima avvisaglia della nuova sistemazione dodecafonica di Schönberg. In questo quadro concettuale, mentre si trasmette volentieri l’aneddoto dell’ascolto del gamelan balinese durante l’Esposizione universale del 1889 e, più in generale, si sottolineano le suggestioni provenienti da civiltà extraeuropee, tutti i riferimenti al passato, in particolare alla Grecia antica, presenti in Debussy vengono sottovalutati e ricondotti a un ideale luogo e tempo completamente reinventati, dunque più contemporanei che antichi, data la mancanza di riferimenti musicali pre-medioevali. Brani in cui sin dal titolo ricorrono riferimenti all’antica Grecia, quali Syrinx, Six Épigraphes antiques, Danseuse de Delphes e altri, vengono quindi considerati più esotici che classici. A contrastare il quadro precedente vi sono però alcuni fatti decisamente trascurati dalla storiografia ufficiale, primo tra questi l’importanza che la musica della Grecia classica assumeva all’interno del curriculum di studi del Conservatorio di Parigi. La cattedra di Storia della musica della massima istituzione parigina venne infatti affidata con continuità a specialisti della musica greca quali Bourgault-Ducoudray, Maurice Emmanuel e Louis Laloy per più di sessant’anni, dal 1878 al 1944. Inoltre appare significativa la coincidenza temporale tra quanto si va esaminando e il primo, e tuttora più importante, ritrovamento di musica ellenistica. Nel 1893 Théodore Reinach, affascinante figura di uomo politico, archeologo, filologo, ritrova a Delfi, incisa nella pietra, la notazione musicale di due Peana ad Apollo, scritti da Ateneo e Limenio (II secolo a.C.).

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Perché la cultura classica

Il ritrovamento suscita grande interesse nell’ambiente del Conservatorio e Gabriel Fauré, che ne sarà direttore dal 1905 al 1920, ne appronta una versione per canto, arpa e due clarinetti, organico molto simile a quello delle Chansons de Bilitis di Debussy, e ancora una riduzione per canto e pianoforte. I brani in questione sono abbastanza lunghi, completi e complessi musicalmente, comprendendo tra l’altro alcune delle metabolái descritte da Aristosseno e Tolomeo, da poter suscitare più che un interesse esclusivamente filologico in un musicista dalla profonda curiosità intellettuale quale Debussy. In particolare la struttura della melodia ellenistica, se pure sicuramente prevedeva un accompagnamento polifonico, come testimonia lo Pseudo-Plutarco, risponde ovviamente a canoni completamente alieni alla successiva sistemazione tonale e doveva pertanto risuonare a un compositore di fine Ottocento come una linea decisamente fluttuante, libera e vaga. Ecco quindi che molti procedimenti melodici e alcuni espedienti armonici, si pensi ai raddoppi paralleli che aboliscono le funzioni tonali, introdotti da Debussy, dovrebbero essere considerati non come anticipazioni di un futuro, che prenderà per altro caratteristiche marcatamente differenti, ma piuttosto come una risorgenza di attitudini molto antiche. Le rivoluzioni hanno spesso un cuore antico.

Va notato che l’influenza della musica greca su Debussy, oggi generalmente ignorata, era ben nota all’inizio del Novecento.11 Può sembrare inutile ricordare il valore fondativo della cultura classica, e in particolare greca, per la letteratura dell’età moderna. È in effetti a tutti noto che la moderna letteratura europea ha ripreso dai modelli classici generi letterari, moduli stilistici, temi e contenuti. È del tutto ovvio che non sia possibile capire pienamente Dante, Shakespeare, 11 Su questo punto si può leggere un saggio di uno degli esperti di musica greca citati da Merz: Maurice Emmanuel, Le Rythme d’Euripide à Debussy, Genève, Congrès du rythme, 1926.

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Ariosto, Tasso, Milton o Leopardi (che era un finissimo filologo classico) senza conoscere le letterature greca e latina. L’influenza esplicita si è protratta fin nel XX secolo: per esempio, non si può cogliere la genesi dell’Antologia di Spoon River se non si conosce l’Anthologia Graeca. Ciò non significa però che i lettori moderni siano stati sempre in grado di capire la letteratura antica: analogamente a quanto accaduto per le arti figurative, alcuni modelli, come quello omerico, avevano occupato uno spazio così esorbitante nell’immaginario collettivo, da oscurare lo spirito di autori diversi e lontani, come i poeti ellenistici, considerati «minori». Nel 1986, introducendo Le Argonautiche di Apollonio Rodio, Guido Paduano ha scritto: Solo qualche decennio fa sono stati mossi i primi passi verso una corretta esegesi, col semplice ma decisivo riconoscimento che Le Argonautiche hanno al loro centro non il fallimento di uno statuto eroico, ma la realizzazione persuasiva di uno statuto antieroico.12

Detto in altre parole, fino almeno alla metà del XX secolo, non si era in grado di apprezzare un’opera del III secolo a.C. Proprio come nel caso della pittura, l’immagine della letteratura greca, saldamente modellata sulle opere di epoca arcaica e classica, impediva ai lettori moderni, paradossalmente, di apprezzare concezioni radicalmente diverse, più vicine alla modernità.

12

Cito dall’edizione delle Argonautiche curata da Paduano (Milano, Rizzoli, 1986).

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IX

LA DURATURA INFLUENZA DI UN’OPERA ELLENISTICA

If one would understand the Greek genius fully, it would be a good plan to begin with their geometry. SIR THOMAS HEATH

L’influenza della matematica greca su quella moderna è stata per vari aspetti simile a quelle cui abbiamo accennato nei capitoli precedenti. La matematica europea (come quella araba) è nata dallo studio dei trattati ellenistici sopravvissuti. Tra questi gli Elementi di Euclide, scritti ad Alessandria nella prima metà del III secolo a.C., hanno un’importanza particolare. Essendo rimasti il testo base per l’apprendimento del metodo scientifico per più di due millenni, sono stati certamente l’opera ellenistica con l’influenza più persistente. Un rapido esame delle sue principali caratteristiche e della sua fortuna nei secoli può offrire uno spiraglio da cui osservare alcuni importanti caratteri generali della storia della matematica. Il metodo dimostrativo era stato introdotto già nel IV secolo a.C., ma prima di Euclide i matematici si erano sentiti liberi, nelle loro dimostrazioni, di assumere come vera qualsiasi affermazione che apparisse tale intuitivamente (in genere per l’evidenza di una figura). Euclide introduce invece negli Elementi una novità metodologica di grande rilievo: fissa una volta per tutte i postulati (αἰτήματα), ossia le sole proposizioni che potevano (e dovevano) essere accettate senza dimostrazione e ne de-

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duce 465 proposizioni.1 L’idea di fissare le sole assunzioni che i matematici avrebbero dovuto usare poteva essere concepita solo dall’autore di un trattato che aveva ragionevoli probabilità di imporsi come testo di riferimento in tutto il mondo di lingua greca: una possibilità che si era creata per la prima volta nell’Alessandria dei primi Tolomei, grazie alla diffusione dei testi scritti e al ruolo guida assunto dall’attività editoriale della famosa Biblioteca, e che si realizzò rapidamente per gli Elementi. Verso la metà del II secolo a.C. una serie di avvenimenti produsse una frattura nella storia del mondo mediterraneo. Nel 145 a.C. vi fu una feroce persecuzione di tutti gli studiosi attivi ad Alessandria da parte del re Tolomeo VIII, il quale, scacciato dai suoi sudditi, era tornato a regnare con l’aiuto di Roma. Dopo la fuga di tutti gli intellettuali, alla direzione della famosa Biblioteca fu posto un ufficiale dell’esercito. L’anno precedente i romani avevano raso al suolo Cartagine e si erano impadroniti della Grecia distruggendo Corinto. Pochi anni più tardi l’altro maggiore Stato ellenistico, il regno dei Seleucidi, si disgregò, con due sovrani contrapposti residenti nelle capitali di Antiochia e Seleucia. In seguito a questi avvenimenti2 la vita culturale si interruppe in quasi tutto il mondo ellenistico.3 Quando, in epoca imperiale, l’opera di Euclide fu di nuovo studiata, era divenuto difficile capirla; si moltiplicarono 1

La priorità di Euclide nell’usare postulati può essere considerata ragionevolmente certa, dato il carattere delle dimostrazioni matematiche riferite da Platone e Aristotele (che non usano mai postulati, ma scelgono di volta in volta le assunzioni considerate evidenti da cui partire) e l’assenza di fonti che riportino postulati precedenti. Inoltre è avvalorata da un’analisi del modo in cui il contributo di Euclide è descritto da Proclo. 2 Nel prossimo capitolo torneremo su questa frattura nella storia del mondo mediterraneo, individuata dagli storici tedeschi di fine Ottocento e primo Novecento, ma oggi gravemente sottovalutata. Per una sua descrizione un po’ più estesa rinvio al mio L’America dimenticata, Milano, Mondadori Università, 2013, pp. 71-109. 3 Due parziali eccezioni riguardarono Rodi (per gli studi scientifici) e Pergamo (per quelli letterari e filologici). Questi due piccoli Stati riuscirono infatti momentaneamente a salvarsi ponendosi spontaneamente sotto la protezione di Roma. Dopo un paio di decenni, però, l’attività scientifica cessò anche a Rodi.

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allora i commenti esplicativi e le edizioni ricche di interpolazioni inserite per facilitarne lo studio.4 Nell’alto medioevo gli Elementi furono completamente dimenticati nell’Europa latina, e anche nell’impero bizantino, sebbene ne fosse conservato con cura il testo, erano studiati ben poco.5 L’opera riscosse un interesse molto maggiore nel mondo islamico, dove fu tradotta in arabo forse già nell’VIII secolo e certamente nel IX, quando ne furono preparate varie traduzioni via via più accurate. L’Europa latina riscoprì il capolavoro di Euclide nell’ambito della cosiddetta «Rinascita del XII secolo», quando, intorno al 1120, Adelardo di Bath ne trovò una versione araba e la tradusse in latino. Nei secoli successivi apparvero diverse altre traduzioni latine e il testo ebbe una diffusione crescente, che dal XV secolo si avvalse anche di edizioni a stampa. In quei secoli gli Elementi erano considerati il testo base per l’apprendimento della matematica, ma era possibile comprenderne solo le parti più elementari. Una delle prime difficoltà incontrate da chi affrontava lo studio dell’opera era l’assenza di figure comprensibili. Il problema era di facile soluzione per le proposizioni di geometria piana, che ogni lettore diligente era in grado di illustrare da sé sulla base del testo scritto, ma diveniva quasi insormontabile per le più complesse costruzioni di geometria solida. Le illustrazioni dei primi manoscritti si erano infatti irrimediabilmente degradate nel corso delle successive ricopiature e nessun editore era riuscito a ricostruirle prima che apparissero le traduzioni in latino e in italiano di Federico Commandino 4

Nel IV secolo d.C., per esempio, il matematico Teone di Alessandria (padre della più famosa Ipazia) preparò un’edizione degli Elementi in cui (a quanto egli stesso afferma nel suo commento all’Almagesto) aveva inserito dimostrazioni di propria mano. Si tratta dell’edizione contenuta in quasi tutti i manoscritti che ci hanno trasmesso l’opera di Euclide. 5 In Jean-Claude Cheynet et al., Géométrie du fisc byzantin, Paris, Lethielleux, 2001, si analizzano i manuali compilati per i funzionari bizantini del fisco, che includono formule errate per il calcolo di aree di quadrilateri, dando prova del livello estremamente basso delle conoscenze geometriche diffuse nell’impero.

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Una figura dell’edizione degli Elementi di Commandino, relativa alla costruzione dell’icosaedro regolare.

(pubblicate rispettivamente nel 1572 e nel 1575), nelle quali tutte le proposizioni di geometria solida erano finalmente corredate di chiare illustrazioni, realizzate in prospettiva. Non si era trattato di un lavoro banale, come si può capire dall’esempio in figura, ma è abbastanza impressionante notare che per ottenere questo risultato all’Europa latina erano occorsi più di quattro secoli e mezzo di studio. Dopo di allora, le traduzioni in lingue moderne si moltiplicarono. Nel 1607, grazie alla pubblicazione della traduzione in cinese dei primi sei libri degli Elementi curata da Matteo Ricci e Xu Guangqi, anche i matematici cinesi furono introdotti al metodo dimostrativo. Il neoclassicismo, come abbiamo visto, identificando l’arte greca con un ideale astorico di Bellezza assoluta, aveva reso difficile rendersi conto di quanto il gusto estetico europeo fosse debitore alla civiltà classica. Un fenomeno analogo si era verificato in matematica. L’influenza culturale dell’opera di Euclide, in particolare, era enorme ma inavvertita, perché la si considerava l’esposizione di un’astorica Verità assoluta. Per illustrare questo atteggiamento mentale, ne mostriamo un caso limite. Ecco come la sorella di

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Blaise Pascal, Madame Périer, ricostruisce, con candore disarmante, i primi passi del fratello undicenne nello studio della geometria: Mio padre era dotto nelle matematiche […] ma […] non volle che mio fratello ne avesse alcuna nozione per timore che ciò lo portasse a trascurare il latino e le altre lingue in cui voleva erudirlo. Per questa ragione, aveva rinchiuso tutti i libri che ne parlavano. […] Mio fratello gli chiese un giorno che cos’era codesta scienza e ciò che vi si trattava. Mio padre gli rispose che in essa era racchiuso il modo di costruire figure esatte e di stabilire le proporzioni tra loro; e, nel medesimo tempo, gli vietò di parlarne e di pensarci ancora. Ma [… mio fratello] si mise a fantasticare per conto proprio, e nelle ore di ricreazione, appartatosi in una stanza dove si divertiva coi suoi giochi, prese un pezzo di carbone e disegnò delle figure sul pavimento, […] e poiché in questo esercizio si passa facilmente dall’una cosa all’altra, egli spinse la sua ricerca così avanti da giungere alla trentaduesima proposizione del primo libro di Euclide. E mentre stava meditando su di essa, mio padre entrò per caso. […] Avendogli domandato che cosa faceva, gli rispose che cercava la tal cosa, che non era altro che la trentaduesima proposizione del primo libro di Euclide. Mio padre gli domandò come era arrivato a quel punto. Gli rispose che vi era giunto per mezzo del tale passaggio. E […] infine, tornando indietro […], gli disse le sue definizioni e i suoi assiomi.6

Madame Périer riteneva credibile che un ragazzino geniale, chiuso in una stanza senza contatti con l’esterno, potesse non solo riscoprire autonomamente il metodo assiomatico-deduttivo, ma anche ricostruire proposizioni degli Elementi così come le aveva scritte Euclide, dimostrandole a partire dalle definizioni e dai postulati, che avrebbe ritrovato indipendentemente. Poiché si tratta di convinzioni in parte ancora vive, anche se non certo nella forma estrema di Madame Périer, conviene aprire una parentesi chiedendoci in che misura 6

Madame Périer, Vita di Pascal, trad. it. Pisa, Edizioni della Normale, 2013, pp. 29-31.

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i risultati matematici abbiano validità universale e in che misura siano invece prodotti culturali, specifici di una determinata civiltà. Consideriamo, per esempio, l’enunciato del teorema usualmente detto «di Pitagora»:7 «Il quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è equivalente all’unione dei quadrati costruiti sui cateti». La sua verità appare universale: se non cambiamo il significato usuale delle parole «triangolo rettangolo» e «quadrato», ma ci riferiamo alle figure definite da Euclide e approssimabili con disegni eseguiti con riga e compasso su una superficie piana, certamente nessuna civiltà umana, e neppure un’eventuale cultura aliena, potrebbe contraddirlo.8 Ciò non significa però che in qualsiasi civiltà sufficientemente sviluppata si arrivi a dimostrare il teorema di Pitagora. Innanzitutto non è detto che in ogni cultura ci si debba interessare ai triangoli rettangoli e alle relazioni fra i loro lati. Anche se ci si pone proprio questo particolare problema, lo si potrebbe poi enunciare in modo diverso: per esempio, ponendo una relazione numerica tra le misure dei tre lati, senza pensare di costruire figure di forma quadrata. È quanto con ogni probabilità faremmo noi se non fossimo ancora influenzati dalla tradizione greca. È vero che l’enunciato appare nella stessa forma in civiltà diverse dalla greca, come quelle mesopotamica e cinese, ma non si tratta di civiltà indipendenti: i greci avevano costruito la loro matematica riflettendo sui risultati mesopotamici (che includevano appunto l’enunciato del «teorema di Pitagora»), e la Cina non era priva di contatti con il Medio Oriente, soprattutto attraverso la famosa «via della seta». 7

L’attribuzione del teorema a Pitagora è certamente inattendibile, perché alla sua epoca non era ancora apparso il concetto di «teorema». Probabilmente Pitagora era a conoscenza dell’affermazione (nota da molto tempo nella cultura mesopotamica) che costituisce l’enunciato del teorema. 8 L’affermazione del testo non è contraddetta, come potrebbe sembrare, dalle geometrie non euclidee. In tali geometrie, infatti, poiché non esistono quadrati, nessuna affermazione che riguardi quadrati può essere falsa.

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Anche se poi ci si pone il problema esattamente nei termini in cui l’abbiamo enunciato, ciò non significa certo che si debba risolverlo dimostrando un teorema. Dimenticavo che i lettori più giovani hanno imparato dai media che il termine «teorema» significa «castello di calunnie privo di riscontri concreti». Per loro conviene precisare che per ventitré secoli, fino a qualche decennio fa, il significato di questa parola era stato molto diverso. Dimostrare un teorema significava dedurre un’affermazione in modo inconfutabile da altre affermazioni già accettate. Il concetto di «teorema» è un tipico prodotto della civiltà greca, risale al IV secolo a.C., non è mai apparso indipendentemente in culture diverse e oggi rischia seriamente di essere dimenticato. Torneremo su questo punto. Si possono rintracciare le origini del concetto di «teorema» nell’incontro tra la riflessione sui risultati di «matematica empirica» egizi e mesopotamici, la tradizione filosofica greca, che già nel V secolo aveva prodotto ragionamenti raffinati su argomenti «matematici», come le famose aporie delle scuole eleatica e pitagorica,9 e la logica. Nella teoria dei sillogismi di Aristotele appare per la prima volta il termine «dimostrazione» (ἀπόδειξις) nel senso, che avrà anche in matematica, di deduzione irrefutabile. L’origine della logica può, a sua volta, essere rintracciata nella retorica (più antica di circa un secolo), come appare chiaramente dall’omonima opera di Aristotele, nella quale si esaminano e criticano le varie tecniche di persuasione usate dagli oratori,10 individuando come unico genere di argomentazione inconfutabile la dimostrazione sillogistica. Le scuole di retorica si erano sviluppate nelle póleis democratiche soprattutto per insegnare ai giovani con ambi9

Mi riferisco ai famosi paradossi di Zenone e alla scoperta dell’incommensurabilità. In entrambi i casi non si può parlare di teoremi, trattandosi di risultati puramente negativi; si giunge infatti a contraddizioni apparentemente insanabili. 10 Aristotele critica, in particolare, i precedenti autori di trattati di retorica perché si sarebbero occupati solo di come suscitare emozioni negli ascoltatori (Aristotele, Retorica, 1356a).

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zioni politiche l’arte del bene argomentare, indispensabile per convincere delle proprie tesi le assemblee che deliberavano a maggioranza. La relazione tra democrazia e metodo dimostrativo non si esaurisce nel rapporto fra le loro origini, ma è ben viva nella didattica. Mentre, infatti, la trasmissione di un risultato non dimostrato è necessariamente autoritaria (come era stata tutta la didattica in Mesopotamia e nell’Egitto faraonico), nello studio dei teoremi l’allievo è posto sullo stesso piano del maestro, in quanto deve accettare solo le affermazioni delle quali può controllare la correttezza delle dimostrazioni. Tornando al nostro esempio, supponiamo di aver elaborato il concetto di dimostrazione quale era concepito dai greci all’epoca di Platone e Aristotele. Dimostrare un’affermazione significherebbe allora dedurla da altre affermazioni rese evidenti da un disegno. Come abbiamo visto, l’idea di dedurre invece tutti i teoremi da un piccolo insieme fisso di postulati è un prodotto culturale specifico, che risale a Euclide (e non è mai riapparso indipendentemente). Se accettiamo anche questa particolare versione del concetto di dimostrazione, rimane la libertà di scegliere i postulati: quella di Euclide non è certo l’unica scelta possibile. Anche se, infine, accettiamo di partire proprio dai postulati enunciati da Euclide, resta da progettare, fra i tanti possibili, il cammino logico dai postulati al teorema che ci interessa.11 È in definitiva chiaro che, nonostante la validità «assoluta» (nel senso che abbiamo precisato) dell’enunciato, la dimostrazione del «teorema di Pitagora» contenuta negli Elementi è un prodotto culturale unico, caratteristico non solo della civiltà ellenistica, ma anche della personalità di Euclide. In generale, i risultati matematici, pur avendo una validità oggettiva, sono allo stesso tempo un tipico prodotto culturale. Si può sciogliere l’apparente contraddizione osservando che, una volta scelto un problema specifico, la sua 11 Negli Elementi il «teorema di Pitagora» è la quarantasettesima proposizione e per la sua dimostrazione vengono usate quasi tutte le proposizioni precedenti.

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soluzione può essere unica, ma sia la scelta dei problemi sia il metodo di soluzione sono determinati dalla cultura. Alla luce delle considerazioni precedenti, è evidente l’enorme debito della matematica moderna verso quella greca, ed ellenistica in particolare, dalla quale abbiamo tratto non solo concetti fondamentali come quelli di dimostrazione, teorema, postulato e così via, ma anche molti risultati specifici. (Per esempio, i nostri concetti di integrale e di infinitesimi di diverso ordine sono nati dallo studio delle opere di Archimede,12 e la famosa deduzione di Newton delle leggi di Keplero dalla legge di gravitazione universale è basata sulla teoria delle coniche di Apollonio di Perga.) Tornando agli Elementi, gli aspetti più complessi dell’opera rimanevano ben al di sopra delle possibilità di comprensione degli scienziati dell’epoca di Pascal. In particolare la teoria delle proporzioni, che non era stata capita da Galileo,13 continuò a essere inaccessibile agli scienziati per altri due secoli e mezzo. Nel XVIII secolo la matematica ebbe uno straordinario sviluppo: si aprirono interi settori nuovi, come l’analisi complessa e lo studio delle equazioni differenziali. Anche se il livello di rigore rimase nettamente inferiore a quello raggiunto in epoca ellenistica, i successi conseguiti furono sufficienti a cambiare radicalmente il rapporto con i classici greci. Opere considerate fino ad allora autorità indiscusse furono criticate nella convinzione di averle definitivamente superate. Il nuovo atteggiamento, in particolare verso gli Elementi, è bene illustrato da un brano dell’introduzione del famoso matematico francese Alexis Clairaut ai suoi Éléments de géométrie, del 1741: 12

Il concetto di integrale di Riemann (che era stato anticipato da Mengoli in casi particolari) consiste in una generalizzazione del procedimento usato da Archimede nel trattato Sulle spirali per calcolare l’area contenuta nel primo giro della curva oggi detta spirale di Archimede. Torneremo alle pp. 132 sgg. sul confronto tra infinitesimi di ordine diverso, che appare per la prima volta nella stessa opera. 13 Galileo completò i suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze con una giornata aggiunta sopra le proporzioni di Euclide, nella quale, criticando la definizione di proporzione contenuta negli Elementi, mostra di non averla capita.

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Qualcuno mi rimprovererà forse, in qualche luogo di questi Elementi, di basarmi troppo sulla testimonianza degli occhi, e di non attenermi abbastanza all’esattezza rigorosa delle dimostrazioni. […] Non sorprende che Euclide si prenda la pena di dimostrare che due cerchi che si tagliano l’un l’altro non hanno lo stesso centro o che la somma dei lati di un triangolo racchiuso da un altro è minore della somma dei lati del triangolo che lo racchiude. Questo geometra doveva convincere degli ostinati sofisti che si gloriavano di respingere le verità più evidenti, cosicché la geometria doveva, come la logica, basarsi sul ragionamento formale per respingere i cavillatori, […] ma la situazione è cambiata. Ogni ragionamento concernente ciò che il buon senso conosce in anticipo serve soltanto a nascondere la verità e a stancare il lettore, e viene perciò oggi ignorato.14

Clairaut, come gli altri matematici del suo tempo, riteneva che dovessero essere immediatamente accettate come vere tutte le affermazioni che il «buon senso» giudica evidenti; a suo parere, le dimostrazioni erano utili solo per ottenere proprietà non evidenti. Dobbiamo dedurne che il metodo euclideo, consistente nell’ammettere senza dimostrazione solo un piccolo numero di postulati, era stato accettato per secoli solo per l’autorità riconosciuta a Euclide, senza che se ne fosse compresa l’utilità. Appena ebbero acquisito abbastanza autonomia per affrancarsi dalla necessità di seguire l’antico modello, i matematici se ne erano avvalsi per… tornare al metodo pre-euclideo usato all’epoca di Platone e Aristotele.15 Per chiarire le ragioni della superiorità dell’uso euclideo dei postulati e individuare l’epoca del recupero di questo metodo, è utile considerare un esempio particolare. Euclide, nella proposizione 46 del primo libro degli Elementi (che precede immediatamente la proposizione usualmente detta «teorema di Pitagora»), dimostra come sia possibile costruire un quadrato su un segmento dato. La proposizione 14 15

A. Clairaut, Éléments de géométrie, Paris, 1741, pp. IX-XI. Vedi sopra, pp. 80 sgg.

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è naturalmente dedotta (attraverso molte proposizioni intermedie) dai suoi postulati. Si tratta di una dimostrazione che sarebbe apparsa certamente inutile sia a Platone16 sia ai matematici del Settecento che ritenevano di poter fondare la geometria sul «buon senso» (non v’è dubbio, infatti, che la possibilità di costruire quadrati fosse da loro considerata qualcosa «che il buon senso conosce in anticipo», per usare le parole di Clairaut). Quando si capì che è utile dedurre l’esistenza dei quadrati dai postulati di Euclide? Evidentemente quando furono sviluppate geometrie, basate su postulati diversi, nelle quali i quadrati non esistono. È quanto accadde intorno al 1830, con la nascita delle geometrie «non euclidee». Gli ideatori di queste nuove geometrie, János Bolyai e Nikolaj Lobacevskij (nonostante una terminologia fuorviante li contrapponga a Euclide), possono essere considerati i primi veri continuatori di Euclide. Furono loro, infatti, i primi matematici che, facendo proprio il metodo di Euclide, osarono seguire il suo esempio formulando, come lui, postulati su cui fondare la geometria. La fortuna degli Elementi in epoche più vicine a noi sarà considerata nel capitolo XV.

16 Infatti nel Menone, esponendo la sua teoria della conoscenza come reminiscenza, Platone mostra come un giovane schiavo ignorante di geometria possa convincersi di una dimostrazione geometrica proprio partendo dall’idea di quadrato, già presente nella mente del giovane. Egli ritiene evidentemente che la possibilità di costruire quadrati non richieda alcuna dimostrazione.

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Gli esempi visti finora mostrano come il debito del moderno pensiero occidentale verso le culture classiche, e quella greca in particolare, sia molto più esteso di quanto sia oggi generalmente percepito. In primo luogo, infatti, l’influenza della civiltà classica non si è limitata, come molti sembrano credere, all’ambito oggi detto «umanistico», ma si è estesa in profondità a tutti gli aspetti della cultura. In particolare la scienza europea è nata dallo studio dei pochi trattati ellenistici sopravvissuti. Essa deve alle antiche fonti non solo i suoi fondamenti metodologici, costituiti dai metodi dimostrativo e sperimentale1 (che non sono mai stati ritrovati indipendentemente) e da una serie di teorie scientifiche la cui origine greca è ben nota, ma anche molte idee specifiche in genere considerate moderne: ne abbiamo visto qualche esempio nel caso dell’astronomia, ma se ne potrebbero fare molti altri, come il concetto di molecola2 e 1 Per il debito del moderno metodo sperimentale verso la scienza antica, ricordiamo due soli esempi: i moderni esperimenti sui fenomeni termici iniziarono quando Galileo ricostruì il termoscopio descritto da Filone di Bisanzio; il primo esperimento moderno noto di fisiologia fu la riproduzione, da parte di Santorio Santorio, del famoso esperimento di Erasistrato di Ceo sul metabolismo. Per un’esposizione del metodo sperimentale ellenistico rinvio a L. Russo, La rivoluzione dimenticata, cit., in particolare pp. 229-232. 2 Il concetto di «molecola» è in genere considerato moderno ed è attribuito a Pierre Gassendi e Robert Boyle, che in realtà lo introducono in contesti che si rifanno esplicitamente alle antiche fonti da cui avevano tratto l’idea. Vedi L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., pp. 146-147.

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quello di selezione naturale,3 sul quale torneremo. Altri importanti settori della cultura, dalla linguistica al diritto, dalle arti figurative alla teoria musicale, hanno verso la civiltà classica debiti della stessa entità. Il luogo comune secondo cui nel mondo classico dovremmo vedere «le radici» della moderna civiltà occidentale fornisce un’immagine del tutto inadeguata. I moderni, infatti, non hanno usato semplicemente la cultura classica come base sulla quale costruire la propria, ma hanno continuato ad attingere in modo essenziale al serbatoio di idee fornito dalle antiche fonti almeno fino all’inizio del XX secolo. Inoltre il rapporto dell’Occidente, ossia dei popoli che parlano lingue europee, con la civiltà classica non è stato, se non in parte trascurabile, una relazione di filiazione diretta. Abbiamo visto come la massiccia presenza di termini greci nel lessico colto delle lingue europee sia dovuta a scelte consapevoli di studiosi che hanno deciso di introdurre nella propria lingua termini greci, tratti da antiche fonti, per designare concetti che non sapevano esprimere altrimenti. Più in generale, quella civiltà ci ha influenzato in parte attraverso la mediazione romana (per esempio, grazie alle traduzioni latine di termini filosofici greci dovute a Cicerone) e in parte maggiore (ne abbiamo visto diversi esempi) grazie alle antiche opere studiate nel basso medioevo e in epoca moderna da europei (e, nell’ultima fase, anche americani): in ogni caso, attraverso intellettuali che etnicamente non avevano nulla a che fare con i greci. Un debito verso la cultura greca simile al nostro l’ha avuto del resto anche la civiltà islamica dei suoi secoli migliori, e potrà averlo in futuro chiunque lo desideri. Se quindi si vuole usare l’immagine (a mio parere fuorviante) delle «radici», bisogna aver chiaro che si tratta di strane radici, non imposte dalla natura ma liberamente scelte. Come mai tante conquiste intellettuali non sono state tra3

Ivi, pp. 159-164. Vedi anche sopra, pp. 42-43, e avanti, p. 101.

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smesse con continuità, ma hanno dovuto essere recuperate a fatica dopo molti secoli? Lo straordinario sviluppo culturale greco non ha potuto essere ereditato perché fu arrestato e in larga misura cancellato alla metà del II secolo a.C., quando Roma conquistò la Grecia e i regni ellenistici,4 provocando il collasso culturale al quale abbiamo già accennato.5 I romani non avevano infatti all’epoca una cultura che li mettesse in grado di assimilare quella greca. Il diffuso luogo comune che afferma il contrario è basato su un errore di prospettiva. È spesso citata la frase di Orazio Graecia capta ferum victorem cepit, ossia «La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore» (Epistole, I, 156) per sostenere che i greci, sconfitti militarmente, avrebbero conquistato i romani sul piano culturale. Ma Orazio (che scrive più di un secolo dopo la conquista) può solo constatare che quasi tutta la cultura delle élite romane aveva origine greca, e non certo che tutta la cultura greca fosse stata assorbita dai conquistatori romani (che sa essere stati feri, ossia «selvaggi»). È vero che tra le due culture è avvertibile una certa continuità nell’ambito della poesia e della storiografia, ma i romani non assimilarono né la filosofia, né, ancor meno, la scienza. Non a caso l’epoca della dominazione romana ha lasciato sopravvivere solo pochi brandelli degli scritti filosofici e scientifici ellenistici. Conosciamo gli scritti di Aristotele portati a Roma da Silla come parte del bottino di guerra perché ne fu organizzata un’edizione,6 ma i romani non ci hanno trasmesso neppure una delle trecento opere di Crisippo (il principale esponente della scuo4

Mi riferisco alla conquista di fatto. L’incorporazione ufficiale dell’Egitto nello Stato romano dopo la battaglia di Azio del 31 a.C. non fece che sancire una dipendenza che era già totale; non a caso avvenne in seguito a una guerra civile tra romani. 5 Vedi sopra, p. 81. 6 I libri di Aristotele giunti a Roma destarono l’interesse del grammatico Tirannione che, giunto nella capitale come prigioniero di guerra, era riuscito a farsi apprezzare da Cicerone. Tirannione li fece avere ad Andronico di Rodi (all’epoca a capo della scuola aristotelica), che ne organizzò un’edizione.

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la stoica, fondatore tra l’altro della logica proposizionale), né alcuna altra opera filosofica ellenistica. Il motivo è chiaro: non si era più in grado di comprenderle; lo stesso Epitteto, cioè il principale dei pensatori che in epoca imperiale si erano autodefiniti «stoici», confessa candidamente di non essere in grado di capire gli scritti di Crisippo.7 La storia del pensiero moderno sarebbe stata certo del tutto diversa se avessimo potuto leggere le opere dei filosofi contemporanei all’esplosione della conoscenza scientifica. La selezione operata in epoca romana ha invece costretto gli europei a inseguire per secoli l’impossibile, cercando di inquadrare la scienza nata dallo studio delle fonti ellenistiche nell’ambito del pensiero filosofico pre-ellenistico di Platone e Aristotele. In epoca imperiale, soprattutto nel II secolo d.C., vi fu una ripresa degli studi scientifici, resa possibile dalla lettura dei trattati ancora disponibili in alcune biblioteche (in particolare si era fortunatamente conservata quella di Alessandria). Per esempio, Tolomeo poteva ancora leggere molte opere di Ipparco, e Galeno quelle di Erofilo di Calcedonia. Non erano però più in grado di comprenderle pienamente, perché si erano perduti elementi essenziali del metodo scientifico: fra l’altro l’anatomia non era più basata sulla dissezione del corpo umano ed erano stati dimenticati il convenzionalismo linguistico, la relatività del moto8 e l’eliocentrismo. Anche il livello tecnologico si era drasticamente abbassato: per esempio, Tolomeo non conosce più uno strumento come la diottra, che Ipparco aveva perfezionato e usato nelle osservazioni astronomiche. Nei secoli successivi si conservarono molte delle opere del periodo imperiale, ma quasi mai le loro fonti, che il più delle volte cessarono di essere copiate e scomparvero con la fine delle ultime biblioteche. 7 Epitteto scrive: «Ma io, che cosa voglio? Conoscere la natura delle cose e seguirla. Per questo cerco un interprete che possa spiegarmela; e quando ho appreso che Crisippo è in grado di farlo, ricorro a lui. Ma non capisco le cose che ha scritto; allora cerco un interprete» (Manuale, 49). 8 Vedi L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., cap. 13.

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L’esplosione culturale ellenistica aveva avuto ricadute anche esterne all’impero romano, in particolare in Mesopotamia e in India. Quando il mondo islamico, nel IX secolo, cominciò a sviluppare una cultura scientifica, lo fece recuperando non solo le opere greche presenti nel mondo mediterraneo, ma anche nozioni conservate in paesi lontani. Per esempio furono acquisiti dall’India la trigonometria e il sistema di numerazione posizionale: due strumenti matematici che gli indiani avevano importato dai regni ellenistici. In Europa le azioni di recupero dell’antica cultura, iniziate durante la cosiddetta «Rinascita del XII secolo» con le prime traduzioni in latino di testi greci (quasi sempre attraverso versioni arabe), hanno dato forma alla cultura occidentale, attraversando diverse fasi e protraendosi fino a tutto il XIX secolo. Nel basso medioevo ci si interessò soprattutto al diritto romano, alla logica aristotelica e al metodo dimostrativo usato in matematica: tre potenti strumenti intellettuali che permisero alla civiltà europea di compiere un salto di qualità. Successivamente l’intensificarsi dello studio di opere e idee della Grecia classica e soprattutto del periodo ellenistico (dovuto in larga misura all’emigrazione in Italia di intellettuali bizantini) rese possibile il sorgere dell’arte rinascimentale e della scienza moderna, che rinacque appunto nel Rinascimento italiano, ottenendo i primi risultati, fra l’altro, nella teoria della prospettiva,9 in anatomia10 e in botanica.11

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Vedi sopra, pp. 67 sgg. Per il recupero rinascimentale dell’anatomia, che si basò in modo essenziale sullo studio di opere ellenistiche, rinvio a L. Russo e E. Santoni, Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 80-89. 11 Per il recupero della botanica fu particolarmente importante, oltre allo studio dell’opera di Dioscoride Pedanio (del I secolo d.C.), la traduzione delle opere botaniche di Teofrasto eseguita nel 1451 da Teodoro Gaza, uno degli intellettuali bizantini che, emigrando in Italia, vi iniziarono la tradizione dello studio del greco e dettero un contributo fondamentale al Rinascimento. 10

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Nel secondo Quattrocento, in seguito al ritrovamento della Geographia di Tolomeo, si recuperarono elementi basilari della geografia matematica e della cartografia scientifica, e in particolare l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine). Divenne allora possibile tracciare rotte oceaniche che tenessero conto della curvatura terrestre, dando una svolta decisiva alle grandi scoperte geografiche da poco iniziate.12 Tra il XVI e il XVII secolo vi fu la riappropriazione del metodo sperimentale13 e di idee scientifiche importanti come la teoria delle coniche, l’eliocentrismo, i concetti di atomo e molecola e la gravitazione universale.14 La rivoluzione industriale fu resa possibile dall’incontro di condizioni socio-economiche senza precedenti con idee risalenti alla tecnologia ellenistica, in piccola parte conservatesi attraverso il medioevo (in particolare la tradizione ininterrotta di costruzione di mulini ad acqua aveva preservato le idee ellenistiche degli ingranaggi e dello sfruttamento dell’energia idraulica) e in parte molto maggiore ricavate dallo studio di testi antichi. Particolarmente importante fu la riscoperta di opere di Filone di Bisanzio (probabilmente attivo alla fine del III secolo a.C.) e di Erone di Alessandria (studioso di epoca imperiale che non sappiamo datare), che descrivevano, fra le altre cose, valvole, pistoni, cremagliere, alberi a camme,15 eliche, meccanismi automatici, conge12

La Geographia di Tolomeo fu portata in Italia nel 1397 da uno dei primi intellettuali bizantini che emigrarono nel nostro paese, Manuele Crisolora. Nel 1409 Iacopo Angelo la tradusse in latino e nel 1475 a Vicenza ne apparve la prima edizione a stampa. Paolo del Pozzo Toscanelli, dopo avere studiato l’opera e preparato una carta «tolemaica», concepì il progetto di raggiungere l’Asia navigando verso ovest e lo illustrò in una lettera a Cristoforo Colombo. Il lettore conosce bene il resto della storia. 13 Vedi sopra, p. 91 e nota 1. 14 Vedi sopra, p. 92 e nota 2 (per il concetto di «molecola») e pp. 19-21 (per quello di «gravitazione»). 15 Gli alberi a camme, che permettono di trasformare un moto rotatorio in un moto lineare alternato, sono stati considerati a lungo una scoperta moderna, ma sono descritti più volte da Erone: per esempio nel suo organo a vento, che è interessante anche per lo sfruttamento dell’energia eolica (Erone di Alessandria, Pneumatica, I, xliii).

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gni di retroazione, catene di trasmissione e meccanismi che sfruttavano la forza del vento e del vapore.16 Altre idee oggi considerate caratteristiche importanti della nostra civiltà, come quelle del contratto sociale e della democrazia, furono attinte dalla cultura greca nel corso del Settecento. Durante l’Ottocento il recupero continuò in tutti i campi: dall’analisi matematica17 alla psicologia,18 dalla logica19 alla linguistica,20 dalla filosofia della scienza21 alle arti figurative.22 La linfa che l’aveva alimentata provenendo dai testi classici aveva costituito la base della cultura europea, fornendo anche un comune lessico colto tratto dal greco e dal latino. In tutta Europa la formazione scolastica aveva una vasta zona comune: nella scuola di base il nucleo essenziale era formato da elementi culturali ellenistici come la grammatica, l’analisi logica e la geometria euclidea. Una serie di altre teorie con la stessa origine (come la statica, l’idrostatica, la geografia matematica, l’ottica geometrica e l’astronomia eliocentrica) formavano poi una parte consistente degli studi scientifici delle scuole superiori, nelle quali il nucleo centrale dell’insegnamento era basato sulla lettura in originale di opere classiche. 16 Le macchine di Erone che sfruttavano la forza del vapore furono studiate e divulgate da Giambattista Della Porta nella sua opera di pneumatica del 1601. Nel 1615 Salomon de Caus costruì la prima macchina a vapore, evidentemente ispirata da Erone (anche per il suo uso ludico: azionava una fontana intermittente). Durante tutto il Seicento continuarono a costruirsi macchine a vapore di ispirazione eroniana, finché nel 1705 Newcomen ne progettò il primo modello di uso industriale. Per il recupero della tecnologia ellenistica rinvio a L. Russo, La rivoluzione dimenticata, cit., dove si espongono anche le tesi che Erone di Alessandria avesse descritto sottoprodotti ludici di una tecnologia concepita per scopi utili nel periodo ellenistico, e che la conservazione delle sue opere in epoche di scarso interesse per la tecnologia sia dovuta proprio all’uso ludico degli apparecchi descritti. 17 Vedi avanti, pp. 148-149. 18 Vedi sopra, p. 46. 19 Vedi sopra, pp. 47-48 20 Vedi sopra, pp. 55-56. 21 Vedi sopra, p. 49. 22 Vedi sopra, pp. 75-76.

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Era stata questa cultura che, anche – ma non solo – per le ricadute tecnologiche della scienza, aveva dato all’Europa il primato culturale, economico e politico. È evidente che se si abbandona lo studio delle opere classiche, non si può capire nulla della storia della moderna cultura occidentale. Oggi in Italia si può conseguire una laurea magistrale in giurisprudenza superando un solo esame di tipo storico, scelto tra storia del diritto romano e storia del diritto moderno. Non si capisce, però, come, ignorando il diritto romano, si possa studiare seriamente il diritto dei secoli dell’età moderna in cui nei tribunali faceva testo il Corpus juris civilis di Giustiniano. Come è stato vissuto nell’età moderna il rapporto con questa «cultura madre» che nei secoli ha continuato ad alimentare la nostra? Ha assunto varie forme, molto diverse tra loro. Una prima forma è stata adottata da chi ha pensato che nel mondo classico si fossero realizzate opere di valore assoluto, da usare in eterno come modello. È l’atteggiamento che abbiamo notato negli artisti neoclassici e, per molti secoli, nei giuristi e nei matematici, che tuttavia, proprio perché credevano di usare idee di valore assoluto, non erano consapevoli di subire l’influenza di una cultura storicamente determinata. Poiché non è mai esistito un «mondo classico» omogeneo, chi ha assunto questa posizione (se non si è occupato di alcune teorie coerenti generalmente accettate, come la scienza esatta ellenistica e il diritto romano) ha dovuto in genere identificare la «cultura classica» con qualche suo particolare periodo, aspetto o tendenza, trascurando gli altri. Gli artisti neoclassici, per esempio, avevano dovuto dimenticare i soggetti e gli stili a loro parere non abbastanza «nobili», come le nature morte o la pittura compendiaria. Analogamente Whitehead, sottolineando il valore della filosofia greca come fonte della filosofia moderna, l’aveva identificata con il pensiero di Platone, considerando irrilevante l’influenza (in realtà enorme) di correnti come l’epicureismo, lo stoicismo o il cinismo.

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Più in generale, la sottovalutazione dell’ellenismo, visto come un periodo di decadenza rispetto alla Grecia «classica» (sottovalutazione che risaliva all’epoca romana, quando quasi tutti gli scritti ellenistici erano andati perduti perché incompresi), è stata universale fino a tempi recenti e in parte sopravvive ancora. Oggi una radicale rivalutazione dell’ellenismo può basarsi non solo sullo straordinario sviluppo scientifico di quell’epoca e sulla ricostruzione di teorie come la logica e la semantica stoiche, ma anche sulla migliore comprensione delle arti figurative e della letteratura ellenistiche.23 I luoghi comuni sedimentati da secoli sono però duri a morire. In uno dei più apprezzati manuali oggi usati, la storia dei greci è ancora descritta sin dall’introduzione come una parabola, politica e culturale, che tocca l’apice nel V secolo a.C. avanzato.24 Anche un pensatore progressista come Cornelius Castoriadis, vedendo nel pensiero dell’antica Grecia una possibile guida per il futuro, anche politico, non considerava interessante la civiltà greca successiva al V secolo a.C.,25 ritenendo evidentemente poco significativi prodotti culturali come l’arte, la scienza, la logica e la linguistica ellenistiche perché non realizzati in Stati democratici. Una forma di rapporto con il mondo classico molto diffusa e in qualche senso opposta alla precedente è consistita nel negare i nostri debiti verso quella civiltà. Idee importanti sono state attribuite a chi le aveva consapevolmente e dichiaratamente riprese dall’antichità, come abbiamo visto nei casi di Piero della Francesca e di Copernico, le cui affermazioni sull’antica origine, rispettivamente, della prospettiva e dell’eliocentrismo sono state a lungo ignorate. Quando le fonti degli studiosi moderni sono ricordate, si attribuisce loro in genere il ruolo di «precursori» dei moderni autori del recupero. 23

Ne abbiamo visto un esempio a p. 79. Domenico Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Roma-Bari, Laterza, 2006 (edizione aggiornata), pp. 4-5. 25 Vedi, per esempio, C. Castoriadis, op. cit., p. 196. 24

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In alcuni casi, nei quali l’influenza di antiche opere era palese e riconosciuta dagli studiosi, si sono diffuse leggende che l’hanno nascosta al grande pubblico. Per esempio, l’importanza decisiva, per le successive scoperte geografiche, dell’arrivo in Italia della Geographia di Tolomeo (che aveva permesso di ritrovare il sistema delle coordinate sferiche) non è mai entrata nella cultura condivisa, che ha piuttosto assorbito la bufala, ricorrente in varie opere popolari, che Cristoforo Colombo avesse dovuto difendere la sua idea innovativa della sfericità della Terra contro studiosi «tolemaici» che la credevano piatta.26 Una tecnica più volte usata per occultare l’origine di antiche idee recuperate è consistita nello scegliere, nel vasto ambito del pensiero classico, idee opposte da utilizzare come bersaglio polemico. Il recupero poteva così essere presentato come un originale ribaltamento moderno di idee tradizionali. L’eliocentrismo è stato, per esempio, presentato (non tanto da Copernico quanto dai suoi successori) non come una ripresa della teoria di Aristarco di Samo, ma come un vittorioso superamento delle concezioni di Tolomeo. Allo stesso modo Galileo polemizza sistematicamente ed esplicitamente contro gli aristotelici, ma non menziona sue fonti importanti come Erone di Alessandria o le testimonianze su Seleuco di Babilonia;27 analogamente i pittori impressionisti polemizzano contro la tradizione valorizzata dagli artisti neoclassici omettendo di ricordare la pittura compendiaria. Spesso gli autori moderni, quando citano una fonte antica che riporta idee molto simili alle proprie, concepiscono 26 L’assurda storiella che i dotti dell’Università di Salamanca avessero disapprovato il progetto di Colombo perché convinti che la Terra fosse piatta è apparsa per la prima volta nella biografia romanzata di Cristoforo Colombo scritta da Washington Irving (pubblicata nel 1828) ed è stata poi rilanciata da molti autori; tra gli ultimi da Umberto Eco, che ne ha fatto un apologo attribuendolo allo scrittore immaginario Temesvar (Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, p. 367). 27 Per l’influenza di Erone su Galileo, vedi L. Russo, La rivoluzione dimenticata, cit., pp. 405-406. Per Seleuco (dal quale Galileo aveva tratto l’idea di usare il fenomeno delle maree per provare l’eliocentrismo) vedi L. Russo, Flussi e riflussi, cit., pp. 90-92.

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la citazione come un’innocua digressione erudita nel campo della cultura classica, priva di reale valore. Ecco, per esempio, come Sigmund Freud, all’inizio dell’esposizione della sua teoria dei sogni come realizzazioni allucinatorie dei desideri, accenna in una nota a Erofilo di Calcedonia:28 Sono ben lontano dal cercare di sostenere che sono il primo autore ad avere l’idea di far derivare i sogni dai desideri […] Coloro che attribuiscono una qualche importanza a queste anticipazioni, possono risalire all’antichità classica e trovare Erofilo, il medico che visse sotto il primo Tolomeo.29

Per mostrare un secondo esempio dello stesso atteggiamento, bisogna ricordare che nella Physica di Aristotele, riportando un’obiezione alla concezione finalistica dell’autore, è esposta lucidamente l’idea alternativa della selezione naturale.30 Charles Darwin, in una nota a piè di pagina posta all’inizio dell’Origine delle specie per mezzo della selezione naturale, cita il passo di Aristotele affermando che vi è «adombrato» (shadowed forth) il principio della selezione naturale. Omette però di dire che il passo riporta un’obiezione alla teoria aristotelica; può così minimizzarne la rilevanza osservando che le affermazioni successive (con le quali Aristotele cerca di confutare l’obiezione) mostrano che Aristotele non aveva ben compreso tale principio. Spesso le influenze delle opere antiche non sono state riconosciute da autori moderni perché assimilate inconsapevolmente. La cultura classica è stata infatti considerata a lungo la base della cultura generale, che si assorbiva sin dagli anni di scuola e dalla quale era impossibile prescin28

Per il debito della teoria freudiana dei sogni verso Erofilo e Artemidoro di Daldi, rinvio a L. Russo, La rivoluzione dimenticata, cit., pp. 250-255. 29 Sigmund Freud, Die Traumdeutung, 19113. Il passo è in una nota posta a conclusione del cap. 3 («Il sogno come soddisfazione di un desiderio»). 30 Aristotele, Physica, 198b, 16-31. Ho esposto altrove la tesi che l’obiezione venisse dall’allievo di Aristotele Teofrasto, e che lo stesso Teofrasto (che sappiamo essere stato il redattore della Physica dopo la morte del maestro) avesse inserito questo brano per illustrare meglio il suo argomento, che Aristotele aveva solo accennato. Vedi Stelle, atomi e velieri, cit., pp. 161-163.

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dere, e proprio per questo motivo, come l’aria che respiriamo, rimaneva inavvertita. In quale misura il materialismo di Marx è stato influenzato da fonti antiche? Probabilmente egli stesso non ne aveva idea, ma certamente conosceva bene il materialismo degli antichi atomisti, perché si era laureato con una tesi in cui confrontava il pensiero di Democrito con quello di Epicuro. Per fare un esempio un po’ più vicino a noi, quando Werner Heisenberg discute i rapporti fra scienza antica e scienza moderna lascia trasparire la sua convinzione della profonda superiorità della seconda, ma termina l’esposizione della fisica antica con Aristotele, senza accennare a scienziati ellenistici come Archimede o Aristarco di Samo, né alla circostanza che egli stesso fosse stato iniziato al metodo scientifico studiando la geometria di Euclide.31 Probabilmente non pensava che si trattasse di un tipico prodotto del pensiero ellenistico, ma di risultati tecnici al di fuori della storia. Infine, come in qualche caso abbiamo già notato, molte idee provenienti da fonti perdute sono arrivate all’Europa moderna in modo indiretto, attraverso percorsi carsici che è stato facile ignorare, dimenticare o occultare. L’idea di gravitazione, per esempio, assente nei pochi antichi trattati scientifici sopravvissuti, era stata trasmessa da autori come Plutarco e Seneca, avidamente studiati dagli scienziati della prima età moderna, ma quasi sempre ignorati dai successivi storici della scienza.32 A volte, antiche teorie scientifiche perdute sono state ricostruite inconsapevolmente, sulla base delle testimonianze che ne trasmettevano frammenti. È questo il caso della teoria delle maree, che ebbe un ruolo importante nel superamento della dicotomia tra fenomeni terreni e celesti.33 Il rapporto di dipendenza dall’antica cultura, nonostante tutti gli strumenti usati per occultarlo, era così vistoso 31

Werner Heisenberg, Physics and philosophy: the revolution in modern science, London, George Allen and Unwin, 1958. 32 Vedi sopra, p. 20. 33 Per la ricostruzione di questa complessa vicenda rinvio a L. Russo, Flussi e riflussi, cit., e a L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., cap. 6.

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da provocare reazioni di rigetto che ricordano una sorta di complesso di Edipo collettivo. Questo effetto è particolarmente visibile in alcuni esponenti dell’Illuminismo, che pure aveva tratto dalle fonti antiche elementi essenziali.34 Voltaire si scaglia con violenza contro chi osava sostenere la superiorità della cultura antica, opponendo argomenti a suo parere decisivi e ai nostri occhi preoccupanti: Si trovano sempre piccoli compilatori che osano essere nemici della propria epoca […] Strombazzano la gloria degli antichi. Pretendono che questi antichi abbiano detto tutto, e sono abbastanza imbecilli da credere di condividere la loro gloria, perché la divulgano. […] Perché non dicono anche che i Greci avevano fucili migliori, cannoni più grandi dei nostri, che lanciavano bombe più lontano, […] etc., etc.?35

Grazie alle conoscenze accumulate nell’ultimo secolo, e soprattutto alle ricerche degli ultimi decenni, è stata possibile una parziale ricostruzione di importanti teorie antiche (come la logica stoica o il pensiero medico di Erofilo di Calcedonia), e sono stati anche individuati alcuni percorsi precedentemente ignorati che hanno trasmesso elementi della cultura classica al mondo moderno. Oggi dovrebbe quindi essere chiaro, più che in ogni epoca del passato, che non è possibile studiare la storia della cultura moderna, almeno fino alla fine dell’Ottocento, prescindendo da quella dell’antichità classica. In realtà è chiaro a pochi, perché la crescente specializzazione e il continuo abbassarsi del livello della cultura condivisa rendono molto difficile che contributi specialistici possano modificare la percezione diffusa del rapporto tra antico e moderno. Inoltre, molto lavoro resta da fare. Per esempio, nel settore della storia della scienza mancano sia raccolte di frammenti e testimonianze su scienziati di prima grandezza come Ipparco, sia raccolte di carattere tematico. 34 35

Per qualche esempio, vedi sopra, p. 48. Voltaire, Dictionnaire philosophique, s.v. Système.

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Nel corso del Novecento la cultura classica (la cui conoscenza, a partire dai paesi anglofoni, si è diradata, tendendo a concentrarsi in pochi gruppi di specialisti) ha progressivamente diminuito la sua importanza come fonte degli intellettuali occidentali, e quindi può sembrare che possa essere giustamente trascurata dai tanti che sono interessati solo alla cultura contemporanea. Nei prossimi capitoli esamineremo l’indebolirsi del nostro rapporto con la civiltà classica alla luce delle sue connessioni con aspetti preoccupanti dell’evoluzione culturale del Novecento, e in particolare con il crollo della cultura generale, e mostreremo perché lo studio di quella civiltà potrebbe svolgere ancora un ruolo essenziale in futuro.

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LA CRISI DELLA CULTURA GENERALE

Fino alla seconda metà dell’Ottocento i giovani appartenenti alle élite del mondo occidentale, prima dell’università, frequentavano impegnative scuole secondarie in cui acquisivano quella che era considerata la «cultura generale» di alto livello. Per avere un’idea del peso che in tale formazione avevano gli studi classici si possono leggere, per esempio, i quesiti della prova di ammissione all’Università di Harvard del 1869.1 A tutte le aspiranti matricole, indipendentemente dal percorso di studi prescelto, accanto a vari quesiti di matematica erano proposte domande di storia greca e romana, geografia (soprattutto europea) e grammatica latina e greca, nonché brevi prove di traduzione dall’inglese in latino e dall’inglese in greco. La cultura classica era evidentemente all’epoca ancora l’asse portante della formazione ritenuta necessaria alle classi sociali superiori. Per quanto abbiamo visto finora, era stata certamente una scelta fruttuosa. La conoscenza del mondo classico si è indebolita nella prima metà del Novecento ed è stata quasi completamente eliminata dalla cultura condivisa dell’Occidente nel corso della seconda metà del secolo (torneremo sulla parziale eccezione costituita dal nostro liceo classico). Gli studi clas1

La prova è disponibile all’indirizzo https://www.peterkrantz.com/wp-content/ uploads/2012/02/harvard-admission-1899.pdf.

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sici non sono stati sostituiti da alcun corpus di conoscenze di peso confrontabile, in quanto si sono progressivamente alleggeriti tutti gli studi di carattere generale compiuti nelle scuole secondarie. Questo processo, che ha cambiato in profondità la cultura occidentale, è stato il risultato di fenomeni convergenti di diversa natura, che vale la pena cercare di mettere a fuoco. In primo luogo la trasformazione dell’economia, con il continuo passaggio di lavoratori dal settore agricolo a quello industriale e da questo al terziario, provocando un crescente urbanesimo e lo sviluppo di movimenti politici di massa, ha creato spinte per l’accesso alle scuole secondarie di frazioni crescenti di giovani, sia per le esigenze del sistema economico sia per soddisfare le richieste dei ceti popolari. L’innalzamento del livello di scolarizzazione, tendenzialmente esteso a tutti i giovani, è stato in un primo tempo ottenuto con un sistema scolastico nettamente differenziato tra una minoranza di scuole secondarie destinate ai ceti dirigenti, in cui si compivano studi impegnativi finalizzati a una solida formazione di base e si conservava una componente classica (gymnasium in Germania, grammar schools in Inghilterra, licei classici in Italia2 e così via), e una maggioranza di scuole a carattere tecnico-professionale, destinate ai ceti subalterni. Nella seconda metà del Novecento si è invece imposta l’idea che ogni tipo di scuola secondaria dovesse caratterizzarsi per la scelta di un particolare settore di studi, eliminando o marginalizzando gli indirizzi finalizzati a una preparazione generale polivalente. (Anche il liceo classico italiano, che fino al 1969 era l’unica scuo2

In Italia dopo il 1923 vi è stato anche il «liceo scientifico», introdotto dalla riforma Gentile, nel quale gli studi scientifici erano alleggeriti rispetto alla precedente sezione fisico-matematica degli istituti tecnici, che fu abolita, ma erano accompagnati dallo studio del latino: una scuola ibrida che permetteva l’accesso all’università in tutte le facoltà a eccezione di quelle di lettere e giurisprudenza. Il liceo scientifico permise, per esempio, per la prima volta, di laurearsi in medicina senza avere mai studiato greco. Stranamente la riforma Gentile viene oggi associata più al liceo classico (che continuava la tradizione dell’unico liceo precedente) che non al liceo scientifico, che ne è stata la creatura principale.

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la che dava accesso a tutte le facoltà universitarie, è concepito sempre più come un particolare indirizzo specialistico, rivolto a studenti con una predilezione per l’antichità.) Allo stesso tempo il sistema, in seguito alla concentrazione e automazione della produzione industriale e alla successiva informatizzazione del settore terziario, ha drasticamente ridotto, insieme all’occupazione, anche la richiesta di competenze per la massima parte dei lavoratori, inducendo un progressivo abbassamento del livello degli studi in tutti i tipi di scuole. Le scuole secondarie, a partire dagli Stati Uniti, che hanno guidato queste trasformazioni, sono così divenute sempre più generici luoghi di intrattenimento e socializzazione. In Europa questo processo è stato agevolato dall’atteggiamento assunto dai partiti tradizionalmente «di sinistra». Molti politici convinti di essere progressisti, associando il tradizionale asse culturale riservato alle classi privilegiate al privilegio stesso, si sono infatti paradossalmente posti l’obiettivo non di fare accedere le classi popolari ai livelli più alti di istruzione (eventualmente da ridefinire nei metodi e nei contenuti), ma di eliminare tali livelli dalla scuola pubblica. I livelli superiori di formazione, richiesti a un esiguo numero di lavoratori, sono stati trasferiti prima alle università e poi alle scuole di dottorato, concentrandosi su singole specializzazioni, prive ormai del fondamento di una seria cultura generale comune. Il nuovo sistema economico aveva generato, accanto alla riduzione delle competenze richieste ai lavoratori, l’aumento del loro tempo libero e delle loro disponibilità economiche. Si è così aperto un vasto mercato per la produzione di merci culturali per il consumo di massa. Allo stesso tempo, per le imprese produttrici di merci tradizionali la formazione dei consumatori è divenuta più importante di quella dei produttori.3 Per entrambi i motivi la profonda trasformazione 3

Sulle trasformazioni della scuola indotte dalla crescente esigenza di formare consumatori più che produttori rinvio al mio Segmenti e bastoncini, Milano, Feltrinelli, 1998.

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della scuola si è accompagnata a uno sviluppo impetuoso dell’industria dell’intrattenimento. La produzione di massa di beni culturali di consumo destinati a essere usati nel tempo libero dalla generalità della popolazione è nata negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo, e si è diffusa in Europa e nel resto del mondo nel corso del Novecento, costituendo fra l’altro un formidabile strumento di assimilazione culturale e di esportazione del modello americano.4 Negli Stati Uniti si iniziò con mostre e spettacoli dal vivo: le prime star nacquero nel teatro del vaudeville (le cui origini risalivano alla Francia, ma che esplose come fenomeno di massa negli Stati Uniti del secondo Ottocento) e in spettacoli come quelli offerti dal circo Barnum o dal famoso Wild West Show di Buffalo Bill. Successivamente hanno acquistato via via più peso la stampa popolare periodica, con il nuovo genere del fumetto (nato sui quotidiani per poi dare vita a pubblicazioni autonome), il cinema, la radio, la televisione, canzoni e altra musica commerciale, videogiochi e, più recentemente, i siti Internet. I messaggi pubblicitari, essenziali per l’addestramento al consumo e l’omologazione culturale,5 hanno svolto un ruolo crescente in questa produzione, in una prima fase soprattutto in forma autonoma, poi affiancando i prodotti di altro genere, per costituirne infine spesso il nocciolo essenziale, come accade per molta stampa, la televisione commerciale e quasi tutti i siti Internet. È abbastanza recente la geniale invenzione dei social network, che hanno liberato il proprietario del medium dal bisogno di produrre o acquistare con4

Il sorgere dell’industria culturale e il suo primo diffondersi dagli Stati Uniti all’Europa sono descritti da Robert W. Rydell e Rob Kroes nell’interessante libro Buffalo Bill in Bologna: The Americanization of the World, 1869-1922, Chicago, University of Chicago Press, 2005. Sul processo di ulteriore americanizzazione dell’Europa nel corso del XX secolo può essere utile Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, Harvard, Harvard University Press, 2006. 5 Sulla centralità dell’evoluzione delle tecniche di vendita (più che dei metodi di produzione) per definire il modello americano, successivamente esportato a livello globale, è interessante leggere Walter A. Friedman, Birth of a Salesman. The Transformation of Selling in America, Harvard, Harvard University Press, 2004.

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tenuti da affiancare ai messaggi pubblicitari, lasciando questa incombenza agli stessi utenti bersaglio della pubblicità. Il termine «cultura» è spesso usato riferendosi esclusivamente alla produzione di cui stiamo parlando, che costituisce un settore di peso crescente dell’economia e ha sostituito la scuola come principale fonte della cultura condivisa. È quanto fa, per esempio, Donald Sassoon nel suo libro sulla cultura degli europei,6 nel cui indice analitico si cercherebbero invano Albert Einstein, Werner Heisenberg, Kurt Gödel, Marc Bloch o Karl Popper (i quali, essendo tutti europei, sono stati evidentemente considerati da Sassoon estranei alla cultura), mentre vi si trovano Brigitte Bardot, Adriano Celentano e anche la rivista «Grazia». Quella prodotta industrialmente e consumata da tutti i ceti è detta cultura di massa e spesso viene identificata con la cultura popolare (o pop) e contrapposta all’alta cultura. Credo che si tratti di una terminologia in parte fuorviante, perché tende a cancellare la differenza profonda tra le precedenti culture popolari e l’attuale cultura pop, prodotta (a volte anche con esiti apprezzabili) dall’industria dell’entertainment. Le culture popolari tradizionali, pur essendo state sempre influenzate pesantemente dalla cultura egemone, erano in parte elaborate dai ceti subalterni, che oggi consumano invece in modo quasi del tutto passivo i prodotti dell’industria culturale. Gli autori, le forme e gli scopi della produzione, profondamente diversi, comportano necessariamente differenze profonde anche nei prodotti. Dalla seconda metà del XX secolo, mentre, per i processi già accennati, le classi medie sono state falcidiate e la ricchezza e il potere si sono concentrati nelle mani di élite sempre più ristrette, la cultura si è distribuita in modo molto più egualitario, allentando progressivamente, fino a dissolverla del tutto, l’antica correlazione con il rango sociale. Il consumo dei prodotti dell’industria culturale è infatti largamente indipendente dalle differenze socio-economiche e, 6

Donald Sassoon, The Culture of Europeans, New York, HarperCollins Publishers, 2006.

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d’altra parte, le scuole private elitarie, riservate ai ceti privilegiati, in genere si distinguono dalle altre essenzialmente per il livello degli ambienti e dei servizi, e non per la particolare profondità degli studi. Il livello culturale delle élite economiche e politiche è così divenuto uguale o forse inferiore alla media generale, come innumerevoli esempi mostrano ogni giorno. Alla disgregazione della cultura generale, ossia di una cultura condivisa almeno dagli strati sociali superiori che fornisse la base comune su cui costruire le diverse conoscenze specialistiche, non hanno contribuito solo le ragioni socio-economiche e politiche appena accennate, ma anche dinamiche interne alla cultura stessa. Notiamo innanzitutto che la cultura classica, che tradizionalmente aveva fornito una parte essenziale della formazione dei ceti dirigenti, nel primo Novecento è stata messa in crisi dal riacutizzarsi dell’insofferenza (già presente nel pensiero illuministico) verso la dipendenza dalla civiltà antica. In un libro influente come Il tramonto dell’Occidente (1918 e 1923), Oswald Spengler ha scritto: Finora non è esistita altra civiltà che abbia avuto tanta venerazione per le creazioni di un’altra già da tempo estinta, e che nel campo della scienza di essa abbia tanto sentita l’influenza, come ne è appunto il caso per la civiltà occidentale nei confronti di quella antica. Occorse molto tempo prima che noi trovassimo il coraggio di pensare un pensiero nostro. Nel fondo persisteva sempre il desiderio di emulare l’antichità. E tuttavia, a ogni passo fatto in tal senso, in realtà ci si allontanava dall’ideale sognato. La storia del sapere occidentale è quella di una progressiva emancipazione dal pensiero antico, di una liberazione che fu imposta dalle profondità dell’inconscio. Così l’evoluzione della nuova matematica è stata una lunga, segreta e, infine, vittoriosa lotta contro il concetto di grandezza.7 7

Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, ed. it. a cura di Rita Calabrese Conte et al., Parma, Guanda, 1995, p. 127.

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Torneremo più avanti8 su quella che Spengler giudicava «la vittoriosa lotta [dei matematici moderni] contro il concetto di grandezza». Nel corso del Novecento, nonostante qualche tentativo di resistenza, la conoscenza della civiltà classica è stata progressivamente ridotta nei curricula scolastici, fino a una quasi totale eliminazione, prima nei paesi anglofoni9 e successivamente, in misura crescente, anche nel resto dell’Occidente. Mentre veniva così meno la tradizionale base comune della cultura generale, gli studi umanistici e scientifici prendevano strade divergenti, anche per la crescente complicazione tecnica dei secondi, rendendo incomunicabili i due mondi. Il libro di Charles Percy Snow, Le due culture, del 1959, che denunciò questo fenomeno con efficacia ed ebbe vasta eco, nei decenni successivi fu rapidamente superato dall’aprirsi di spazi crescenti di incomunicabilità anche tra singoli settori sia scientifici sia umanistici. Per sostituire gli studi classici nella funzione di base comune delle diverse conoscenze specialistiche, occorreva elaborare nuove sintesi in grado di unificare la cultura. L’esigenza è stata sentita in tutto il Novecento e in modo più acuto nella sua seconda metà, ma i tentativi di soddisfarla sono stati tutti fallimentari. Il più interessante è stato probabilmente il primo, ossia lo strutturalismo, che si propose di unificare quasi tutti i settori della conoscenza, dalla matematica alla linguistica, dall’antropologia all’architettura e alla critica letteraria, ed ebbe un’accoglienza entusiastica almeno fino agli anni Settanta del Novecento. Anche se nell’ambito definito «strutturalista» furono ottenuti risultati significativi, in particolare in linguistica e in antropologia, e nonostante il vasto uso del concetto di struttura in matematica lasciasse intravedere possibili convergenze, 8

Vedi p. 152. Per una descrizione del fenomeno e un tentativo di reazione si può leggere: Victor Davis Hanson e John Heath, Who killed Homer? The Demise of Classical Education and the Recovery of Greek Wisdom, New York, Encounter Books, 2001. 9

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tale concetto si rivelò troppo generico e ambiguo per fornire una reale base unificante agli studi nei diversi settori, che anche quando continuarono a usare l’etichetta «strutturalista» presero direzioni rapidamente divergenti. I successivi tentativi di unificazione della cultura possono essere divisi in due gruppi. Il primo comprende una serie di teorie provenienti dalle scienze esatte che si è creduto di poter applicare a quasi ogni ambito della conoscenza. Un esempio è dato dalla «teoria delle catastrofi» di René Thom, che ebbe grande popolarità negli anni Sessanta e Settanta del Novecento e pretendeva di studiare con nuovi strumenti matematici (in sé di grande pregio) quasi ogni cosa, dalle cardiopatie alle rivolte carcerarie, dalle strutture linguistiche all’embriologia, dalla forma e posizione delle isole alla psicologia animale. Sia la teoria di Thom, sia altri tentativi unificanti come la «teoria generale dei sistemi» o la più recente «teoria della complessità», nonostante abbiano ottenuto risultati anche importanti nel proprio ambito scientifico di provenienza, hanno clamorosamente mancato l’obiettivo (sul quale avevano attirato l’interesse mediatico) di fornire chiavi universali utili per interpretare fenomeni tradizionalmente studiati in campo umanistico. Un secondo gruppo di tentativi di unificazione è avvenuto a opera di filosofi e altri umanisti postmoderni, soprattutto francesi, che hanno cercato di far interagire i propri settori di interesse con le complesse teorie scientifiche del Novecento usando gli strumenti della metafora, dell’assonanza terminologica e delle libere associazioni d’idee. In questo caso gli esiti sono stati spesso grotteschi.10 La quasi totale eliminazione delle scuole secondarie di alto livello, insieme all’abbandono della cultura classica e al fallimento delle pretese nuove «teorie unificanti», hanno reso vincente l’idea che non possa più esistere una cultura 10 Un interessante campionario di assurdità prodotte in questo modo è raccolto in Alan Sokal e Jean Bricmont, Impostures Intellectuelles, Paris, Éditions Odile Jacob, 1997.

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generale unitaria, e che le conoscenze siano suddivisibili in tanti settori specialistici disgiunti, privi di base comune. Secondo questa concezione, ciascuno potrebbe formarsi la propria cultura semplicemente assemblando le conoscenze specialistiche che preferisce, così come si scelgono i prodotti in un supermercato.11 Le conseguenze disastrose di questa impostazione sono ormai evidenti. Fra l’altro si può notare che negli Stati Uniti, per mantenere alto il livello di alcune prestigiose scuole di dottorato, è stata essenziale l’importazione di docenti e studenti dai paesi (prima europei e poi asiatici) che non avevano ancora rinunciato alla cultura generale fornita da buone scuole secondarie. Il problema della ricostruzione di una cultura generale di qualità appare in conclusione più aperto che mai. Nei prossimi capitoli cercheremo di individuare almeno una parte dei contenuti utili per una tale possibile ricostruzione, alla luce dell’evoluzione di alcuni settori chiave della cultura nel corso del Novecento. Prima, però, dovremo intenderci con maggiore precisione sul concetto di «cultura».

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Per considerazioni più ampie su questo argomento rinvio al mio La cultura componibile, Napoli, Liguori, 2008.

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XII

IL CONCETTO DI «CULTURA»

Il termine latino «cultura», che originariamente si riferiva alla coltivazione dei campi, fu usato da Cicerone nel significato del greco παιδεία, cioè per indicare l’educazione dei fanciulli e il suo risultato, ossia le capacità e le conoscenze proprie di chi ha ricevuto una buona educazione.1 Nei secoli successivi il termine, entrato in tutte le lingue europee, ebbe una lunga storia; il carattere e il contenuto dell’educazione ritenuta necessaria per formarsi una cultura cambiò più volte, ma il termine mantenne una valenza positiva fino al primo Novecento, quando il significato neutro che aveva assunto nell’antropologia che fu appunto detta «culturale» cominciò a prevalere su tutti gli altri (anche se la versione tedesca Kultur conservò più a lungo il significato di «alta cultura»). Nel 1952, in un lavoro ormai classico, gli antropologi americani Clyde Kluckhohn e Alfred L. Kroeber, dopo aver discusso circa trecento diverse definizioni di cultura,2 individuano l’unica che considerano scientifica: Entrambi i termini, «cultura» e «civiltà», contenevano ini­zialmente l’idea di miglioramento, di avanzamento verso la perfezione; e ancora oggi in molti casi conservano questo significato, sia nell’uso comune che nell’uso letterario. 1

Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 13. Cito dall’edizione italiana: Clyde Kluckhohn e Alfred L. Kroeber, Il concetto di cultura, trad. it. Bologna, il Mulino, 1972. Traggo la cifra 300 dalla nota 22 a p. 303. 2

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Tuttavia in campo scientifico, a partire dal 1852, la parola cultura ha acquisito un significato nuovo e specifico (talora condiviso dalla parola civiltà) che può essere indicato come il suo unico significato, a livello, appunto, scientifico: quello di un insieme di attributi e di prodotti delle società umane – e perciò del genere umano – che sono extra-somatici e trasmissibili con meccanismi diversi da quelli dell’ereditarietà biologica: essi mancano nelle specie sub-umane in quanto caratteristici della specie umana intesa come aggregato di individui che vivono in società.3

La connotazione positiva di «cultura» si è conservata solo quando, in contesti non antropologici, è riferita a un singolo individuo; la parola «civiltà» mantiene invece ancora oggi in genere un giudizio di valore positivo. Forse è questo il motivo per cui non viene usata quasi mai per le popolazioni una volta dette «selvagge», poi «primitive», e oggi indicate con una terminologia oscillante («di interesse antropologico», «a economia primitiva» o semplicemente «tradizionali»). L’eliminazione della valenza positiva dal termine «cultura» ha determinato la delegittimazione di ogni giudizio comparativo fra culture diverse, che si è ritenuto di dover considerare sempre equivalenti. Questa scelta è stata motivata soprattutto dal rifiuto della pretesa, propria del razzismo, di ricondurre le diversità fra culture giudicate «superiori» e «inferiori» a diversità biologiche delle rispettive popolazioni e, dopo la decolonizzazione, è stata rafforzata dalla cattiva coscienza degli europei ex colonialisti. Se si considerano tutte le culture equivalenti fra loro, occorre naturalmente anche negare che nella storia le società abbiano mai attraversato fasi di progresso o regresso culturale. La definizione scelta da Kluckhohn e Kroeber, che caratterizza la cultura come l’insieme di attributi e prodotti extra-somatici trasmissibili con meccanismi diversi da quelli dell’ereditarietà biologica, è ancora sostanzialmen3

Ivi, pp. 295-296.

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te accettata,4 ma è stata superata in un punto: nella restrizione del concetto alla sola specie umana. Oggi sappiamo, infatti, che anche altre specie sono formate da comunità di individui che interagiscono fra loro e trasmettono comportamenti con meccanismi di apprendimento. Per esempio, gli scimpanzé hanno comportamenti variabili da popolazione a popolazione (come il modo di «salutarsi» quando si incontrano), che i piccoli apprendono dagli adulti. Alcuni studiosi del comportamento degli scimpanzé, mutuando concetti dell’antropologia culturale, le hanno affiancato la «primatologia culturale», per la quale hanno rivendicato una parità di status, accusando di arroganza i colleghi che volevano riservare questo genere di studi alla sola specie umana.5 Il settore della paleoantropologia che si occupa delle prime industrie litiche sviluppate da specie diverse da H. sapiens (forse non appartenenti neppure tutte al genere Homo) può essere considerato intermedio fra la primatologia culturale e l’antropologia culturale. Non vi è però motivo per restringere il concetto di «cultura», secondo la definizione data, ai soli primati. Sappiamo, per esempio, che i canti delle balene cambiano seguendo «mode» variabili di anno in anno, e tali variazioni sono certamente trasmesse da un individuo all’altro con meccanismi non biologici. Fenomeni analoghi sono stati studiati in molte altre specie. A questo punto è però difficile negare che alcune culture siano, in qualche senso da precisare, più sviluppate di altre. Affrontiamo ora un problema spinoso, ma ineludibile: è pos4

Trascrivo, come esempio, la prima parte della definizione di culture data in The Cambridge Dictionary of Human Biology and Evolution (di Larry L. May, Marcus Young Owl e M. Patricia Kersting, Cambridge, Cambridge University Press, 2007): «System of shared meanings, symbols, customs, beliefs, and practices that are learned either through teaching or by imitation and that are used to cope with the environment, to communicate with others, and to transmit information from one generation to the next; learned rather than instinctive and genetically transmitted behavior». 5 Questa tesi è sostenuta con forza, per esempio, in William McGrew, The Cultured Chimpanzee. Reflections on Cultural Primatology, Cambridge, Cambridge University Press, 2004.

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sibile a volte giudicare, anche fra culture umane, quali sono più sviluppate? Si può, in particolare, parlare legittimamente di progressi e regressi culturali? Si tratta naturalmente di confronti di carattere del tutto diverso. Le differenze fra la nostra cultura e quella di una popolazione di scimpanzé, o anche di H. abilis, hanno uno stretto rapporto con le differenze biologiche. Nel caso di società pienamente umane (con questo termine intendo le società formate da H. sapiens a partire dal paleolitico superiore; per i periodi precedenti non credo vi possano essere certezze assolute) non esiste invece alcuna relazione fra i dati culturali e quelli biologici: sostenere il contrario significa, per definizione, essere razzisti. Il razzismo deve essere respinto non tanto per le ragioni etiche che lo rendono odioso, quanto per le ragioni scientifiche che lo dimostrano falso, possibilmente senza confondere i due piani. Il rifiuto del razzismo implica che gli eventuali giudizi comparativi tra diverse culture nulla possano dire sulle potenzialità degli individui delle rispettive popolazioni. Il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza scrive: Nel secolo appena finito gli antropologi hanno preferito evitare l’espressione evoluzione culturale, forse sperando di non incorrere negli errori degli antropologi razzisti del XIX secolo e dei loro allievi della prima metà del XX. […] Solo la genetica di popolazioni, nel corso del suo sviluppo nella seconda metà del XX secolo, ha cominciato a occuparsi del razzismo e lo ha dichiarato inaccettabile. A questo punto il tabù dell’espressione evoluzione culturale dovrebbe essere superato.6

Più avanti precisa: Il timore che il termine «evoluzione» includa necessariamente la nozione di progresso dovrebbe essere facile da superare […] Non vi è identità tra evoluzione e progresso […] Gli unici progressi effettivamente avvenuti su cui possiamo trovarci tutti d’accordo sono quelli della complessità.7 6

Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Torino, Codice edizioni, 2010, pp. 12-13. 7 Ivi, pp. 46-47.

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Possiamo riconoscere, seguendo Cavalli Sforza, che alcune culture abbiano un grado superiore di complessità rispetto ad altre, senza che ciò implichi alcuna superiorità né biologica né morale degli individui che ne fanno parte, e senza escludere che culture più «primitive» (nel senso di «meno complesse») possano aver esplorato direzioni diverse di sviluppo e siano quindi in grado di arricchire quelle più complesse. Naturalmente, poiché in questo ambito una misura quantitativa della complessità è molto difficile, non è certo possibile ordinare tutte le culture in una scala, ma in qualche caso si possono dare giudizi ragionevolmente condivisibili. Credo, per esempio, che pochi obietterebbero all’affermazione che nella Bassa Mesopotamia, all’epoca della cosiddetta «rivoluzione urbana» (quando cioè nacquero la città, lo Stato e la scrittura), sia sorta una cultura più sviluppata (nel senso di più complessa) di quelle neolitiche che l’avevano preceduta. Veniamo a un esempio più recente. Nel 1803 un gruppo di inglesi provenienti dall’Australia (formato da galeotti e guardie carcerarie) creò il primo insediamento europeo in Tasmania (scoperta dall’olandese Abel Tasman già nel 1642, ma fino ad allora priva di insediamenti stabili di europei). Il contatto fra inglesi e indigeni si concluse nei decenni successivi con il genocidio dei secondi. L’ultima aborigena presente in Tasmania, Truganini, morì nel 1876.8 Volendo dare un giudizio di natura etica, confrontando barbarie e civiltà delle due etnie che si erano scontrate, non vi è dubbio che dobbiamo considerare barbari gli inglesi autori del genocidio e rispettare profondamente la dignità umana delle vittime. Queste considerazioni non possono però nascondere il dato oggettivo che la cultura degli inglesi fosse molto più complessa di quella degli aborigeni tasmania8

Sopravvissero tuttavia alcuni aborigeni che erano emigrati dalla Tasmania e un numero maggiore di individui con qualche antenato tasmaniano. I loro discendenti in anni recenti hanno tentato di dar vita a una rinnovata comunità di aborigeni tasmaniani (Lyndall Ryan, Tasmanian Aborigenes. A history since 1803, London, Allen and Unwin, 2012).

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ni (che non avevano imbarcazioni in grado di raggiungere l’Australia, né vestiti, né abitazioni, e usavano solo strumenti di pietra scheggiati in modo rudimentale).9 Non avrebbe potuto essere diversamente, perché la piccola popolazione tasmaniana (costituita da più o meno diecimila individui) era rimasta totalmente isolata per circa diecimila anni. Se avessero sviluppato una civiltà evoluta, avremmo dovuto dedurne che l’isolamento non limiti le possibilità di sviluppo. Lo stato estremamente primitivo in cui si era ridotta la cultura dei tasmaniani conferma invece l’importanza degli scambi. La cultura di una società umana, a seconda della sua complessità, può essere in rapporti diversi con la cultura dei singoli individui. Nelle società più semplici, formate da tribù di cacciatoriraccoglitori, vi è una coincidenza pressoché completa fra la cultura collettiva e quelle individuali, in quanto, con la notevole eccezione delle competenze riservate a uno dei due generi, quasi tutti gli individui condividono la totalità degli elementi della cultura di appartenenza, avendo una conoscenza completa della lingua, delle tecniche di caccia e raccolta, delle usanze della tribù e dei rapporti sociali. Dove appare la divisione del lavoro le cose cambiano, perché almeno le conoscenze specialistiche usate nel lavoro non sono diffuse ma distribuite. Insieme alla divisione tra le diverse specializzazioni lavorative, appare inoltre una differenziazione tra classi sociali con diverso livello di potere, prestigio, ricchezza e, tradizionalmente, anche cultura. Alle élite è riservata l’«alta cultura», formata da mezzi linguistici più estesi e raffinati e strumenti concettuali più complessi, usati per meglio comprendere la realtà naturale e sociale e per arricchire la propria esperienza di vita e i rapporti interpersonali. Si forma allora l’idea di «cultura», nel senso positivo della parola, che a volte ancora sopravvive. 9

Alcune notizie sulla cultura degli aborigeni tasmaniani (oltre che nel libro della nota precedente, molto impegnato ideologicamente) sono in The story of Tasmanian Aboriginals, Hobart, Tasmanian Museum & Art Gallery, 1970.

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Oggi le conoscenze virtualmente a disposizione dell’umanità hanno raggiunto un livello senza precedenti. Quanto alla cultura condivisa da gran parte della popolazione del mondo occidentale, formata quasi esclusivamente da quella che abbiamo chiamato «cultura di massa», esistono opinioni molto diverse, ampiamente giustificate dalla presenza di fenomeni divergenti. Se si considera il livello quantitativo del consumo di prodotti dell’industria culturale, si deve certamente sostenere che viviamo in un’epoca di espansione senza precedenti della diffusione della cultura. Le divergenze riguardano la qualità di tale cultura. Nel 1964 ebbe vasta risonanza un saggio di Umberto Eco in cui erano abilmente presentate le opposte posizioni di critici ed entusiasti della cultura di massa: Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa. Pur ridicolizzando gli «apocalittici» denigratori di televisione e fumetti, Eco aveva ben chiara l’origine tutt’altro che popolare di quella che un giorno sarebbe stata chiamata «cultura pop». Scriveva per esempio: L’ascesa delle classi subalterne alla partecipazione (formalmente) attiva alla vita pubblica, l’allargarsi dell’area di consumo delle informazioni, ha creato la nuova situazione antropologica della «civiltà di massa». Nell’ambito di tale civiltà, tutti gli appartenenti alla comunità diventano, in misure diverse, consumatori di una produzione intensiva di messaggi a getto continuo, elaborati industrialmente in serie e trasmessi secondo i canali commerciali di un consumo retto dalle leggi della domanda e dell’offerta.10

Più recentemente le riserve verso la cultura di massa prodotta in base alle esigenze del mercato, ancora presenti in Eco, sono scomparse in molti umanisti esperti di «alta cultura». Nel 2009 Claudio Giunta, brillante italianista specialista di letteratura medievale, scrisse un breve intervento intitolato L’irragionevole processo alla cultura di massa, che merita di es10

U. Eco, op. cit., p. 22.

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sere riportato perché espone in modo particolarmente limpido le ragioni degli «integrati» (nella terminologia di Eco): Che cosa si dirà di noi, della nostra vita oggi, fra cento [novantuno per chi legge (NdR)] anni? Probabilmente si dirà che abbiamo avuto la fortuna di vivere non soltanto in tempi pacifici, i più pacifici della storia dell’uomo, ma anche in tempi illuminati dalla cultura. Tempi in cui ogni individuo ha avuto finalmente accesso all’istruzione, almeno nei paesi sviluppati; e tempi in cui l’arte, tutta l’arte (romanzi, poesia, pittura, scultura) è stata messa a disposizione di tutti attraverso i mass-media, gli audiovisivi, Internet. Un nuovo Rinascimento: ma, a differenza di quello di mezzo millennio fa, un Rinascimento per tutti. E allora perché tanta ansia, insoddisfazione, dubbi – soprattutto da parte degli intellettuali odierni, cioè di coloro che più di tutti gli altri dovrebbero gioire di questo Rinascimento? Claude Lefort ha scritto, in Écrire à l’épreuve du politique: «Fare il processo alla cultura di massa o all’individualismo senza capire che questi fenomeni sono irreversibili, senza cercare di vedere qual è la contropartita dei loro vizi, decidere per esempio che la diffusione dell’informazione, la scoperta di paesi stranieri, la curiosità per gli spettacoli e per le opere un tempo riservate a pochi eletti, il considerevole ampliamento dello spazio pubblico, non hanno altra conseguenza se non quella di fare apparire in piena luce la stupidità dell’uomo moderno, tutto questo significa dar prova di un’arroganza che non è, lei stessa, esente da stupidità». Che cosa si può replicare a questa analisi così ragionevole e, nei fatti, così vera? Cioè, in sostanza: di fronte a questo inaudito progresso nella circolazione dell’informazione e della cultura, che cosa abbiamo da lamentarci?11

Se si cerca di prendere posizione nella polemica fra critici ed entusiasti della cultura di massa, ci si scontra con la difficoltà, apparentemente insormontabile, di emettere giudi11 http://www.hevelius.it/webzine/leggi.php?codice=63 (si tratta di un intervento nella discussione che era stata aperta dal webzine sul mio pamphlet già citato La cultura componibile).

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zi di valore in questo campo. Credo però che vi sia un importante e vasto settore della cultura che ammette giudizi di valore ragionevolmente condivisibili: quello costituito dagli strumenti intellettuali ritenuti utili per comprendere la realtà, naturale, tecnologica e sociale in cui si è immersi ed eventualmente trasformarla. Le conoscenze linguistiche, scientifiche, tecnologiche e storiche rientrano certamente in questa categoria (che comprende anche elementi ritenuti utili, ma privi di reale efficacia, come la magia e l’astrologia), mentre ne sono in larga parte esclusi altri settori importanti della cultura, come la musica e le arti figurative. (Le opere artistiche possono anche fornire importanti strumenti conoscitivi, che non ne costituiscono però il principale criterio di valutazione.) Trascureremo anche la letteratura, che è in una situazione intermedia. Molti di noi si sentirebbero di considerare certe opere superiori ad altre anche in campo musicale e artistico, ma in questa direzione si finisce necessariamente per impantanarsi in interminabili diatribe senza riuscire a identificare un criterio di giudizio generalmente condivisibile. Se invece ci si limita alle conoscenze ritenute utili, mi sembra che un criterio poco contestabile sia fornito appunto dalla loro reale utilità (purché si sia in grado di valutarla). È probabilmente impossibile dimostrare con argomenti razionali che le musiche degli aborigeni australiani siano, in qualche senso da definire, «inferiori» alle composizioni di Bach, ma è innegabile che la loro capacità di prevedere le piogge sia inferiore a quella fornita dalla scienza della meteorologia. D’ora in poi con il termine «cultura» ci riferiremo solo al particolare settore che abbiamo scelto, per il quale sembra legittimo parlare di livello più o meno elevato senza usare il criterio neutro della complessità, ma dando reali giudizi di valore, basati sull’efficienza degli strumenti conoscitivi. Per esempio, un rito magico eseguito per guarire un malato può essere più complesso, ma meno efficace di una terapia medica, che in questo caso, secondo il nostro criterio, deve essere considerata superiore. Diviene allora possibile parlare anche di progresso o regresso culturale.

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Se ci si limita al settore della cultura che abbiamo scelto, molti dati oggettivi rendono difficile accogliere i diffusi inviti a gioire. Per quanto riguarda la cultura scientifica, è di qualche anno fa, per esempio, l’indagine che rivelò che la grande maggioranza dei quindicenni dei paesi sviluppati non ha idea del perché il giorno si alterni alla notte. Se si considera la diffusione degli strumenti linguistici nel nostro paese, possiamo basarci sulla terza indagine comparativa internazionale gestita dall’OCSE sull’alfabetizzazione dei paesi membri, giunta a compimento nel 2014. Secondo questa indagine, che ha definito cinque livelli di alfabetizzazione delle popolazioni in età di lavoro (16-65 anni), il 70 per cento degli italiani sono «analfabeti funzionali», sono cioè incapaci di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Il noto linguista, nonché ex ministro dell’Istruzione, Tullio De Mauro, recentemente scomparso, commentando questi dati per «il Fatto Quotidiano», ha affermato che è in atto «un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante». Senza moltiplicare pareri e dati statistici, si può tranquillamente affermare che la grande maggioranza dei membri delle nostre società, lungi dal partecipare a un «nuovo Rinascimento», è del tutto priva degli strumenti intellettuali indispensabili per comprendere la complessa realtà (naturale, tecnologica e sociale) in cui è immersa. È quindi ragionevole affermare che la cultura condivisa, nel senso in cui stiamo qui usando il termine «cultura», sia oggi a un livello estremamente basso, e che i prodotti dell’industria culturale contribuiscano ben poco a elevarlo. Nei prossimi capitoli cercheremo di individuare alcuni strumenti intellettuali di base essenziali per comprendere la realtà di oggi, cioè gli elementi con cui si potrebbe ricostruire una seria cultura generale unitaria. Non ci occuperemo del problema politico di chi e come dovrebbe avervi accesso, ma solo di identificarne alcuni dei principali contenuti.

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Cercheremo in particolare di capire quale ruolo, nell’ambito di una possibile futura cultura generale, possa essere svolto dalla conoscenza della civiltà classica, anche alla luce degli esiti delle tendenze che nel corso del Novecento se ne sono allontanate. È bene precisare esplicitamente che non mi riferisco alle conoscenze trasmesse dagli attuali licei classici né a quelle oggi possedute dai classicisti, ma al pensiero sviluppato nel mondo greco-romano. Fra gli strumenti intellettuali che abbiamo selezionato, un posto importante spetta certamente alla scienza.

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XIII

LA SCIENZA

Vi è una diffusa consapevolezza dell’importanza della scienza e, allo stesso tempo, del preoccupante analfabetismo scientifico diffuso anche fra persone per altri aspetti colte. Si insiste spesso sulla particolare gravità della situazione italiana, ma il problema riguarda in realtà, anche se con qualche differenza locale, tutto l’Occidente. Poiché la scienza consiste di teorie in grado di prevedere fatti osservabili, la cultura scientifica, oltre che da una complessa rete di nozioni specifiche, peraltro indispensabile, dovrebbe essere formata soprattutto da tre elementi: a. Capacità di esplorare fenomenologie con l’osservazione e la sperimentazione. b. Capacità di muoversi all’interno delle teorie con deduzioni logiche e (nel caso delle scienze esatte) dimostrazioni rigorose. c. Comprensione delle relazioni tra fenomeni e teorie, che consistono sia nelle applicazioni pratiche delle teorie sia, inversamente, negli stimoli alla formazione delle teorie provenienti dall’esigenza di risolvere problemi concreti. Il terzo punto è particolarmente importante, ma, essendo in genere molto carente nella didattica, è quasi sempre del tutto assente in chi non ha una formazione scientifica universitaria (e lascia a desiderare anche in molti laureati in discipline scientifiche). Tutti sanno ripetere che la Ter-

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ra gira intorno al Sole, che la materia è costituita da atomi e che i caratteri ereditari sono trasmessi dal DNA, ma fra i non specialisti ben pochi sanno come facciamo a saperlo, o (il che è quasi la stessa cosa) saprebbero usare queste affermazioni per dedurne qualche fatto osservabile. In realtà, quindi, quasi nessuno conosce il vero significato di queste affermazioni, che consiste appunto nella loro capacità di prevedere fenomeni.1 Queste nozioni sono in genere apprese in tenera età in modo acritico e accettate solo per l’autorità di chi le ha trasmesse. Questo tipo di conoscenze è agli antipodi della vera scienza e, più in generale, del pensiero critico. Non può stupire lo scarso interesse per le materie scientifiche di molti studenti intelligenti delle scuole secondarie, né l’aumento del numero di coloro che, consapevoli di essere stati indottrinati passivamente, divengono scettici anche verso le nozioni scientifiche più elementari. Trovo particolarmente impressionante, per esempio, il proliferare di siti Internet in cui, coniugando un’encomiabile esigenza critica con un’abissale ignoranza, si sostiene che la Terra è piatta perché non si conosce alcuna prova della sua sfericità. Questa forma di analfabetismo scientifico sorge come reazione spontanea all’usuale didattica autoritaria, che abitua i bambini alla «vera» forma della Terra mostrando loro mappamondi, senza motivarla in alcun modo, e può combattersi solo ricostruendo il percorso attraverso il quale, partendo da fenomeni osservabili da chiunque,2 si arrivò a capire la sfericità della Terra e a misurarne il raggio.3 1

Un tentativo di introduzione elementare al metodo scientifico che illustra soprattutto il rapporto tra teorie e fenomeni è: A. Della Corte e L. Russo, La bottega dello scienziato. Introduzione al metodo scientifico, Bologna, il Mulino, 2016. 2 Questo punto mi sembra essenziale. Per accettare come prova della sfericità della Terra una foto in cui la Terra è fotografata dallo spazio, occorre infatti lo stesso grado di fiducia nell’autorità che è sufficiente anche per accettare che un globo mostri la vera forma della Terra. 3 Si tratta di un percorso tutto interno alla cultura greca. Nessun’altra civiltà vi è arrivata indipendentemente. I cinesi, per esempio, hanno appreso la sfericità della Terra da Matteo Ricci nel XVII secolo.

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Il massimo livello di cultura scientifica è raggiunto da chi riesce a elaborare nuove teorie in grado di spiegare fenomeni. Si tratta di un livello riservato agli scienziati. Come è possibile formarne? Anche se i salti creativi dai fenomeni alla teoria non rispettano alcuna ricetta di validità universale che possa essere insegnata, a questo scopo lo studio più utile e stimolante consiste certamente nell’esame dei salti di questo tipo già compiuti con successo in passato. Se si insegnano solo le teorie scientifiche attuali, come se si trattasse di verità definitive, senza spiegare come e perché sono sorte, non si può dare alcuna idea di come potranno sorgere le teorie future. La storia della scienza (ossia lo studio di come «si fa» scienza) non è solo essenziale al futuro ricercatore per capire in cosa dovrà consistere il suo lavoro, ma può avvicinare al metodo scientifico anche chi non ha intenzione di usarlo professionalmente, mostrandogli come ha funzionato finora il lavoro degli scienziati. Che relazione ha tutto ciò con la cultura classica? Torniamo agli esempi dell’eliocentrismo e della teoria atomica. Se vogliamo capire perché queste teorie debbano essere accettate, dobbiamo conoscere le motivazioni con cui sono sorte. Se proviamo a farlo nell’ambito della scienza moderna, arriviamo ad appurare che Copernico aveva scoperto l’eliocentrismo in biblioteca, consultando antichi testi,4 e che lo stesso avevano fatto scienziati della prima età moderna come Galileo o Boyle per la teoria atomica: l’avevano accettata perché era trasmessa da una tradizione autorevole, anche se all’epoca non si sapeva usarla per spiegare alcun fenomeno.5 Abbiamo visto che lo stesso era avvenuto per l’idea (qualitativa) di gravitazione.6 Il rapporto di queste teorie con i fenomeni diviene invece chiaro se risaliamo alla loro origine nella cultura classica. Scopriamo allora che l’eliocentrismo era stato concepito da Aristarco di Samo 4

Vedi sopra, pp. 15-16. Vedi L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., pp. 144-147. 6 Vedi sopra, pp. 19-21. 5

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per spiegare le retrogradazioni planetarie,7 che l’antico atomismo rendeva conto di una serie di fenomeni, fra l’altro termici,8 e possiamo anche ricostruire il percorso che portò all’idea di un’attrazione reciproca fra tutti i corpi. Facciamo un altro esempio, relativo allo studio dei fenomeni. Tutti sappiamo che un sasso lasciato cadere accelera. Si tratta di un risultato, spesso attribuito a Galileo, che oggi gli studenti di fisica possono verificare accuratamente in laboratorio, facendo analizzare da un computer i dati ottenuti fotografando a piccoli intervalli di tempo un grave in caduta nel vuoto. Lo studente si limita però in questo caso a leggere i risultati, come avrebbe potuto fare trovandoli in un libro, e non può intervenire sulla complessa apparecchiatura, da lui non controllata, che glieli fornisce. Soprattutto non gli viene fornita alcuna idea di come, in linea di principio, avrebbe potuto scoprire l’accelerazione dei gravi in modo autonomo. Galileo aveva effettuato importanti esperimenti, non facilissimi da riprodurre usando i suoi sistemi per misurare i tempi, lasciando rotolare biglie lungo un piano inclinato; aveva così confermato la tesi, già sostenuta nel 1555 da Domingo de Soto,9 che l’accelerazione di un grave in caduta fosse costante. Sia Galileo sia de Soto si basavano però sulla conoscenza del dato qualitativo che i gravi in caduta accelerano, che potevano leggere in antiche opere. È particolarmente interessante conoscere la prima prova sperimentale dell’accelerazione dei gravi, ottenuta da Stratone di Lampsaco nel III secolo a.C. e largamente dimenticata. All’epoca non esistevano né contasecondi né macchine fotografiche multiflash; Stratone, in mancanza d’altro, aveva dovuto usare soprattutto il suo cervello, del cui buon funzionamento non possiamo dubitare. Aveva capito che, 7

Vedi avanti, p. 139. Vedi L. Russo, Stelle, atomi e velieri, cit., pp. 142-144. 9 Domingo de Soto, Super octo libros Physicorum Aristotelis quaestiones, Salmanticae, 1555. 8

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invece della caduta di un corpo solido, era più conveniente osservare la forma di un filo d’acqua in caduta da una grondaia. Si nota infatti facilmente che il filo d’acqua non ha una sezione costante, ma si assottiglia verso il basso, fino a rompersi in gocce (se è abbastanza sottile). Poiché durante la caduta la forma della colonna d’acqua non cambia, e quindi la quantità d’acqua contenuta tra due piani orizzontali è costante, il flusso (ossia la quantità d’acqua che passa nell’unità di tempo) deve essere lo stesso attraverso tutti i piani orizzontali attraversati. Poiché, d’altra parte, il flusso è direttamente proporzionale sia alla sezione del filo d’acqua sia alla sua velocità, Stratone aveva dedotto dal restringersi della sezione l’aumento della velocità. Gli era così bastato osservare un fenomeno apparentemente statico, come la forma di una colonna d’acqua in caduta libera, per ottenere un risultato dinamico sull’accelerazione dei gravi. Il fenomeno è facilmente osservabile anche oggi e, ricostruendo il procedimento di Stratone, che aveva individuato nel restringersi della sezione la caratteristica utile per esplorare il modo in cui cadono i gravi, si ottiene un ottimo esempio della capacità che avevamo chiamato di tipo a). Per quanto riguarda il tipo b), è universalmente noto che il metodo dimostrativo risale ai matematici greci, ma credo sia importante riflettere anche sul modo in cui era allora usato. Federigo Enriques, in un bell’intervento sulla didattica della matematica, distingue tra pensiero vivo e pensiero morto.10 Un esempio può chiarire i due concetti. Durante le prime lezioni di scuola guida dobbiamo riflettere se è il caso di abbassare la frizione o il freno, ricordare quale dei pedali dobbiamo usare in ciascun caso e comportarci di conseguenza: tutta la nostra attività mentale è concentrata su questi compiti. La guida avviene allora grazie a pensiero vivo. Se invece sappiamo già guidare, lo facciamo usando pensiero 10 Federigo Enriques, Insegnamento dinamico, a cura di F. Ghione, Livorno, Pubblicazioni del Centro Studi Enriques, 2003.

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morto, cioè in modo automatico, mentre pensiamo ad altro. È evidente il vantaggio di poter automatizzare compiti ripetitivi, liberando la mente per scopi più utili e gratificanti. Nel caso della guida è però utile essere in grado di tornare al pensiero vivo se e quando lo si vuole fare. È bene, per esempio, sapere qual è il pedale della frizione e a cosa serve, anche se quasi sempre lo usiamo senza rifletterci (è, in particolare, indispensabile se vogliamo insegnare a guidare). In matematica avviene qualcosa di analogo. Ragionamenti matematici che dovrebbero essere ripetuti innumerevoli volte sono stati automatizzati dal formalismo moderno: possiamo, per esempio, calcolare facilmente il valore di un’espressione algebrica senza riflettere a ogni passaggio sulle proprietà delle operazioni che lo rendono lecito. Se invece dimostriamo un teorema di geometria, dobbiamo necessariamente usare pensiero vivo. In matematica è però essenziale, molto più che nella guida automobilistica, sapere usare entrambi i tipi di pensiero. Innanzitutto perché solo usando (anche) pensiero vivo possono ottenersi risultati matematici originali. Inoltre, solo usando pensiero vivo anche chi non intende divenire un matematico di professione può capire la logica della materia e sviluppare le proprie capacità di ragionamento, mentre l’apprendimento di routine automatiche immotivate, utile a chi dovrà usarle nel lavoro, a scuola rischia di rendere sgradevole lo studio della matematica agli studenti più intelligenti. I matematici ellenistici, poiché alla loro epoca non era ancora capitato di dover ripetere innumerevoli volte gli stessi ragionamenti, usavano quasi esclusivamente pensiero vivo e ciò rende assai utile recuperare i loro metodi per penetrare la natura del ragionamento matematico. Per chiarire questo punto, facciamo un esempio un po’ tecnico. Consideriamo, come in figura, una circonferenza di centro O e raggio R, una retta tangente alla circonferenza in un suo punto P e un punto arbitrario Q della retta tangente. Congiungiamo O con Q e diciamo A il punto in cui il segmento OQ interseca la circonferenza. Se ora spostiamo il punto Q lungo la retta tangente, facendolo tendere a P, le lun-

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Q

P A

O

ghezze dei segmenti AQ e PQ tenderanno entrambe a zero. Non è però difficile convincersi che tenderanno a zero in modo diverso. AQ diventerà infatti comunque piccola non solo in assoluto, ma anche rispetto a PQ. In termini più rigorosi (indicando per semplicità con gli stessi simboli i segmenti e le loro lunghezze), fissata una qualsiasi quantità positiva ε, il rapporto AQ/PQ diviene minore di ε quando Q è abbastanza vicino a P. Nel linguaggio moderno si dice che AQ è un infinitesimo di ordine superiore rispetto a PQ. (Si tratta in effetti del primo caso noto in cui sono stati individuati infinitesimi di diverso ordine.) Come lo si può dimostrare? Probabilmente un bravo studente di oggi, usando un po’ di algebra e di trigonometria, eseguirebbe i passaggi seguenti:11 AQ/PQ = (OQ – R)/PQ = (1 – R/OQ)/(PQ/OQ) = = (1 – cosα)/senα,

avendo detto α l’angolo POQ. A questo punto lo studente potrebbe considerare terminato il suo compito, perché ricorda che al tendere di α a zero (o, equivalentemente, al tendere di Q a P lungo la retta tangente) il rapporto (1 – cosα)/senα tende a zero. Se gli 11 Se il lettore non ricorda (o non conosce) gli ingredienti usati dal «bravo studente di oggi», può passare a leggere la dimostrazione di Archimede, che è molto più semplice.

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si chiede di dimostrarlo, egli, usando pensiero morto, può calcolare il limite o usando la regola di de l’Hôpital (ricordando a memoria le derivate delle funzioni trigonometriche, ma dimenticando di averle dimostrate proprio applicando il risultato che interessa), oppure, più correttamente, ricorrendo a formule di trigonometria (come la formula di bisezione) che pure ricorda a memoria senza conoscerne, il più delle volte, la dimostrazione. In definitiva, il risultato è ottenuto usando una serie di «scatole nere» che solo con molto tempo e fatica i migliori studenti saprebbero aprire ricostruendone fino in fondo il contenuto. Vediamo ora come lo stesso problema è risolto da Archimede con puro pensiero vivo.12 Egli traccia attraverso il centro del cerchio la retta parallela alla tangente e prolunga il segmento PA fino a incontrare tale retta nel punto B. Q

P A

O

B

Poiché gli angoli del triangolo PQA sono uguali a quelli del triangolo BOA, i due triangoli sono simili. Il rapporto che ci interessa, AQ/PQ, è quindi uguale al rapporto AO/OB; questo secondo rapporto, d’altra parte, può essere reso comunque piccolo, perché il numeratore AO è costante (essendo sempre il raggio del cerchio) e il denominatore OB può essere scelto arbitrariamente grande (si può infatti fissare B dove si vuole sulla retta e ricavarne la posizione di A e Q). Fine della dimostrazione. 12

Archimede, De lineis spiralibus, proposizione 5.

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Sono convinto che, dovendo spiegare il concetto di infinitesimi di diverso ordine, sia didatticamente molto più efficace usare l’esempio considerato da Archimede e la sua limpida dimostrazione, immediatamente visualizzabile, che ricorrere alle tante scatole nere cui i nostri studenti sono abituati. Se confrontiamo la geometria analitica, che permette di risolvere problemi geometrici con routine algebriche, con l’antica geometria sintetica, con la quale i problemi si risolvono immaginando una dimostrazione, troviamo di nuovo pregi e difetti del pensiero morto e vivo: qualcosa di analogo alla differenza tra produzione industriale e prodotti artigianali di qualità. I procedimenti automatici sono molto utili, perché mettono in grado anche persone poco brillanti di risolvere rapidamente molti problemi, laddove l’uso del pensiero vivo richiede una dose ben maggiore di intelligenza. Mentre però conviene certamente usare procedimenti automatici per risolvere in poco tempo problemi ripetitivi di natura pratica, credo che nella didattica possa essere utile, di quando in quando, anche mostrare dove si può arrivare usando fantasia e intelligenza. Tornando al rapporto tra fenomeni e teorie, i moderni scienziati europei, almeno fino al primo Novecento, avevano imparato sin da ragazzi, attraverso lo studio (diretto o indiretto) degli Elementi di Euclide, la stretta relazione e, allo stesso tempo, la profonda differenza tra i concetti teorici e gli oggetti concreti. Chiunque abbia studiato geometria euclidea ha assorbito infatti, per lo più inavvertitamente, un elemento essenziale del metodo scientifico, imparando a distinguere enti geometrici come segmenti e triangoli dagli oggetti concreti di cui costituiscono il modello. Si tratta di una distinzione tutt’altro che ovvia, nata nella civiltà greca e rimasta estranea a tutte le culture che non ne dipendono. Nella fisica moderna l’assenza di un’antica tradizione analoga a quella ancora viva in geometria spesso non consente di distinguere con la stessa chiarezza gli oggetti reali

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dai loro modelli teorici. L’espressione «onda elettromagnetica», per esempio, è usata sia per l’oggetto fisico captato dai nostri cellulari sia per il suo modello teorico, rendendo difficile distinguere tra i due piani. Sintetizziamo il contenuto di questo capitolo osservando che, come per impadronirsi di una singola teoria scientifica è bene conoscerne l’origine, così, allo stesso modo, per impadronirsi del metodo scientifico è bene conoscerlo alla sua origine, cioè in quella civiltà classica in cui la scienza è nata. Ci si può chiedere se sia sufficiente studiare i risultati scientifici classici in traduzione o se sia anche utile conoscere la lingua greca. Un accenno di risposta (solo un accenno: una vera risposta può venire solo dallo studio dei testi antichi in originale) sarà dato nel prossimo capitolo.

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XIV

LA STORIA DI QUALCHE TERMINE SCIENTIFICO

Abbiamo notato che le parole prestate dal greco antico alle moderne lingue europee nella maggior parte dei casi hanno cambiato significato. Mostriamo ora con qualche esempio, scelto fra termini di interesse scientifico, come la conoscenza dei significati originali possa essere spesso illuminante. Come primo esempio consideriamo la parola «clima». Cosa significa? La definizione data dal dizionario Olivetti on line è: «L’insieme delle condizioni atmosferiche locali da cui dipende la vita delle piante, degli animali, dell’uomo». Questa definizione corrisponde abbastanza bene all’uso attuale della parola, ma non fornisce alcun indizio sul perché le condizioni atmosferiche dovrebbero variare da luogo a luogo. Il nostro «clima» è una traslitterazione del termine greco κλίμα (strettamente legato al verbo κλίνω, «inclino»), che originariamente significava «inclinazione» e in epoca ellenistica aveva assunto anche un significato simile a quello attuale. Il ponte tra i due significati era fornito da un tipico prodotto culturale ellenistico: la geografia matematica. Scienziati come Eratostene avevano capito che la latitudine di un luogo (ossia l’«inclinazione» della verticale locale rispetto al piano equatoriale)1 influenza grandemente la temperatura e le altre caratteristiche meteorologiche delle 1

Questa inclinazione è facilmente misurabile, poiché coincide con l’angolo che la direzione in cui si vede la stella polare (ossia la direzione dell’asse terrestre) forma con il piano orizzontale.

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POLO NORD

POLO NORD

NOTTE

Ciclo di illuminazione

LAT L O NG EQUATORE



Equatore

Raggi solari

MERIDIANO DI G REEN

WI CH

N

TERRA S

POLO SUD

POLO SUD

A sinistra, la latitudine del punto P; a destra, gli stessi fasci di raggi solari alle diverse latitudini si distribuiscono su zone di diversa ampiezza.

diverse zone della Terra. La latitudine determina infatti le inclinazioni dei raggi solari in ogni ora e giorno dell’anno e quindi l’estensione della superficie colpita da un dato fascio di raggi e l’energia solare assorbita dall’unità di superficie. Il significato originale del termine «clima» era quindi innanzitutto quello di latitudine, al quale era strettamente associato il significato di «zona climatica». Naturalmente il «clima», nel senso attuale della parola, non dipende solo dalla latitudine, ma anche dall’altitudine, la distanza dal mare, l’orografia delle regioni circostanti e tanti altri elementi, ma la complessità di una spiegazione esauriente dei diversi microclimi non giustifica l’abbandono di un concetto semplice, in grado di spiegare perché la temperatura in genere scenda spostandosi dai tropici verso i circoli polari. Il fatto che oggi il significato originale della parola spesso non sia conosciuto è un aspetto dell’attuale diffusa ignoranza degli elementi basilari della geografia matematica: una delle prime e più semplici applicazioni della scienza ai fenomeni della vita d’ogni giorno. Un altro termine scientifico di uso comune è «pianeta». Il dizionario già citato ne dà la definizione seguente: «Corpo celeste che gira intorno al Sole, da cui riceve luce». L’originario termine greco πλανήτης significava «vagante», «errante». Quelli che noi chiamiamo «pianeti» erano infat-

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ti detti stelle erranti. Questi astri si distinguono dalle stelle fisse perché si muovono in modo apparentemente irregolare: dopo essersi spostati in una certa direzione sullo sfondo delle stelle fisse, rallentano, si fermano e tornano indietro (compiendo le cosiddette stazioni e retrogradazioni planetarie), per poi fermarsi di nuovo e riprendere il moto nel verso precedente. Aristarco di Samo per primo aveva capito che le apparenti retrogradazioni dei pianeti potevano essere spiegate supponendo che la Terra e i pianeti ruotassero tutti intorno al Sole. In tal caso infatti, i pianeti, come è mostrato nella figura nel caso di un pianeta esterno, appaiono tornare indietro quando nel girare intorno al Sole sono superati dalla Terra. Naturalmente le retrogradazioni planetarie possono essere spiegate anche in altri modi e in particolare supponendo, come suppose Tolomeo, che ciascun pianeta si muova

3

4

TERRA 2

5 1 2 3 4

1 SOLE

6 7 8 5

9 10

6 7

1

13 12 11

2

8

10 3

6 4 12 13

8

9

10

11 12 13

Una retrogradazione di un pianeta esterno. La Terra si muove sulla circonferenza interna e il pianeta su quella esterna. Le posizioni indicate con lo stesso numero sono contemporanee. La freccia che congiunge la Terra con il pianeta ruota in senso antiorario tra le posizioni 1 e 6; poi, tra le posizioni 6 e 9, inverte il senso di rotazione e il pianeta appare retrocedere; dalla posizione 9 riprende a ruotare in senso antiorario. La traiettoria osservata dalla Terra è ricostruita a destra, dove sono riportate le posizioni del pianeta relative alla Terra considerata fissa.

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di moto circolare intorno a un punto che, a sua volta, giri intorno alla Terra. La teoria eliocentrica è però molto più economica, in quanto un solo moto di rivoluzione, quello della Terra, può spiegare le retrogradazioni di tutti i pianeti. Gli astronomi greci, anche dopo essere riusciti a descrivere e prevedere il moto dei «pianeti» con efficienti modelli matematici, lasciarono loro il nome che alludeva alla iniziale incapacità di prevederne il comportamento. Mentre quindi la definizione moderna caratterizza i pianeti in base al moto loro assegnato dalla teoria eliocentrica, il termine greco richiama le complesse caratteristiche direttamente osservabili del moto di questi astri, allude cioè al problema di cui la teoria eliocentrica fornisce la soluzione. Chi apprende la definizione moderna senza conoscere i fenomeni osservabili inverte allo stesso tempo l’ordine storico e logico, memorizzando la soluzione di un problema che ignora e accettando l’eliocentrismo senza capirne le motivazioni e l’utilità: un atteggiamento quasi impossibile per chi al termine «pianeta» associ il suo significato originale. Veniamo ora a un termine matematico: «problema». Il significato originario è quello di «sporgenza», dal quale deriva quello di «difficoltà». Il termine era poi entrato nel lessico matematico con un significato, molto diverso da quello attuale, che è spiegato con cura da Proclo.2 L’antico «problema» (πρόβλημα) era analogo al «teorema» (θεώρημα), in quanto entrambi avevano un enunciato e una dimostrazione. Mentre però l’enunciato del «teorema» riguardava una proprietà, che doveva essere dimostrata, di figure considerate già esistenti, l’enunciato del «problema» richiedeva di costruire figure con determinate proprietà. Per la soluzione del «problema» occorrevano due passi: bisognava prima trovare il procedimento per costruire le figure volute e poi dimostrare che le figure così costruite effettivamente possedessero le proprietà richieste. Euclide, negli Elementi, non usa il termine «proble2

Proclo (ed. Friedlein), In primum Euclidis elementorum librum commentarii, 77-81.

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ma», ma distingue le due categorie di proposizioni non solo con la diversa struttura delle dimostrazioni, ma anche con la formula finale, che nel caso dei teoremi è la familiare come si doveva dimostrare (ὅπερ ἔδει δεῖξαι) e, nell’altro, la formula dimenticata come si doveva fare (ὅπερ ἔδει ποιῆσαι). La perdita dell’antico significato può apparire a prima vista un dettaglio tecnico irrilevante, ma testimonia in realtà un fenomeno di grande rilievo culturale. Il significato originale del termine è stato infatti dimenticato perché i moderni manuali di geometria hanno eliminato tutti gli antichi «problemi», ossia tutti i procedimenti costruttivi che, permettendo di realizzare le figure geometriche di cui si parla, ne dimostrano l’esistenza. Si tratta di un importante cambiamento delle basi stesse della matematica, su cui torneremo, che ha reso problematica l’idea di esistenza degli enti matematici. Un’attenta riflessione mostra una notevole analogia fra i tre esempi fatti. La teoria eliocentrica era nata per spiegare i moti osservabili dei pianeti; la geometria di Euclide è una teoria rigorosa dei disegni eseguibili con riga e compasso. I percorsi seguiti dalle parole «pianeta» e «problema» in entrambi i casi hanno finito con lo spezzare il legame tra la teoria e l’esperienza che ne aveva motivato la nascita: in un caso l’osservazione del cielo e nell’altro l’esecuzione di disegni. Anche con la parola «clima» l’evoluzione del significato è approdata allo stesso risultato, ma in questo caso, invece di dimenticare l’esperienza concreta, dalla parola si è cancellato il riferimento alla teoria. Con i due prossimi esempi entriamo nel cuore del metodo scientifico. Consideriamo la parola «ipotesi». Il termine greco originale (ὑπόθεσις) è composto dalla preposizione ὑπό («sotto») e dal sostantivo θέσις, che significa «collocazione», «posizione». L’ipotesi era quindi ciò che è posto sotto, ossia la base, il fondamento. Teofrasto, per esempio, in un trattato di botanica, scrive che il tronco è la ὑπόθεσις degli alberi, ossia ciò che sostiene il resto della pianta.3 3

Teofrasto, Historia plantarum, 4, 13, 11-12.

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In ambito scientifico il termine era usato più o meno nel senso in cui oggi si usano i termini «principio» e «postulato». Sesto Empirico, per esempio, usa il termine in riferimento ai postulati della geometria.4 Quando Archimede riferisce che Aristarco di Samo aveva pubblicato le «ipotesi» che il Sole fosse fermo e la Terra e i pianeti gli girassero attorno,5 intende riportare le assunzioni iniziali (noi diremmo i princìpi) della sua teoria. Il diverso significato attuale della parola «ipotesi» risale all’epoca di Newton ed è documentato nella prefazione di Roger Cotes alla seconda edizione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, dove è scritto: Coloro che [come Newton] professano la filosofia sperimentale […] non costruiscono ipotesi, né le accettano in filosofia se non come affermazioni la cui verità è oggetto di discussione.

Per capire il motivo della trasformazione del significato del termine «ipotesi», occorre ricordare che gli scienziati ellenistici erano consapevoli che possono esistere più teorie in grado di spiegare le stesse osservazioni.6 Se quindi si formula un’«ipotesi» (nel senso antico della parola, ossia un principio) in grado di spiegare una fenomenologia nota, non si può affermare che tale «ipotesi» sia assolutamente vera, perché non si può escludere che altre teorie, basate su diverse assunzioni iniziali, possano spiegare i fenomeni con efficacia eguale o superiore. Questa consapevolezza dell’inevitabile provvisorietà delle teorie scientifiche non era condivisa da scienziati moderni come Newton, che ritenevano che la scienza, seguendo l’esempio della teologia,7 dovesse enun4

Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, III, 1. Archimede (ed. Mugler), Arenarius, 135, 8-19. 6 Vedi sopra, p. 49. 7 La teologia era uno dei principali interessi di Newton, che se ne era occupato in molte sue opere, per esempio nel Trattato sull’Apocalisse. Le contaminazioni tra scienza e religione, che erano state del tutto eliminate in epoca ellenistica, riemergono nella prima età moderna e, come vedremo, ora stanno riacquistando forza. 5

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ciare Verità assolute. Era divenuto inconcepibile basare le proprie teorie su affermazioni sulla cui verità occorreva sospendere il giudizio. Le «ipotesi», delle quali, come era chiaro dai testi antichi, non si poteva asserire la verità assoluta, furono allora considerate, più banalmente, affermazioni provvisorie in attesa di conferma: assunsero cioè il significato attuale. È ben noto come Newton rifiutasse di basare le proprie teorie su «ipotesi» (rifiuto espresso con la famosa affermazione «Hypotheses non fingo», contenuta nello Scolio Generale alla seconda edizione dei Principia), preferendo fondarle su princìpi ritenuti assolutamente veri, che credeva di poter dedurre in modo univoco dai fenomeni. La prefazione già citata di Cotes ai Principia continua chiarendo questo punto: Procedono perciò, secondo un duplice metodo, l’analitico e il sintetico. Mediante l’analisi deducono le forze della natura e le leggi più semplici delle forze da certi scelti fenomeni, per mezzo dei quali in seguito espongono, mediante la sintesi, la costituzione delle cose restanti. Questo è quel modo di filosofare, senz’altro il migliore, che a preferenza di altri il nostro celeberrimo autore stabilì di abbracciare.

La conoscenza del significato originale del termine «ipotesi» permette quindi di recuperare una profondità di pensiero che si era perduta nella prima età moderna. L’ultimo brano citato ci porta a esaminare un altro termine importante, logicamente connesso al precedente: «fenomeno». L’originale greco φαινόμενον (al plurale φαινόμενα) significa «apparenza». Per chiarire l’uso di questo termine negli antichi contesti scientifici, riportiamo due passi, rispettivamente di Erofilo di Calcedonia (III secolo a.C.) e di Sesto Empirico (tra II e III secolo d.C.): … Come osserva […] Erofilo dicendo: «siano descritti per primi i φαινόμενα, anche se non sono primi».8

8

Anonimo Londinese, Iatrica, 21-23.

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Noi [scettici] non contestiamo ciò che induce involontariamente il nostro assenso [συγκατάθεσις]9 su un’impressione sensibile, e cioè i φαινόμενα.10

Nel primo passo Erofilo enuncia un’importante regola delle scienze osservative e sperimentali: bisogna descrivere innanzitutto ciò che si è effettivamente osservato, anche se si è convinti che si tratti di effetti di cause non direttamente osservabili. Il secondo passo, di Sesto Empirico, chiarisce che le apparenze (φαινόμενα, che costituivano il punto di partenza euristico di ogni indagine scientifica), in quanto tali, in epoca ellenistica non erano contestate da nessuno: neppure dagli scettici! Platone aveva avuto un atteggiamento molto diverso, svalutando le apparenze rispetto al mondo delle idee eterne. (Notiamo, tra parentesi, che oggi molti scienziati preferiscono tornare a Platone.) In età moderna il significato della parola «fenomeno» è divenuto profondamente diverso. Il vocabolario Treccani ne spiega prima il significato «in filosofia» (che è, in buona sostanza, quello del termine greco originario) e poi aggiunge: Nel linguaggio scientifico, il termine è genericamente usato come sinonimo di evento; più precisamente, sono fenomeni i fatti, gli eventi provocati o spontanei, ma comunque suscettibili di osservazione e di studio.

Gli scienziati moderni hanno cioè dimenticato che ciò che si osserva è sempre un’apparenza, cioè il risultato dell’interazione tra l’evento osservato e l’osservatore: un’idea chiara agli antichi scienziati, che è stata recuperata solo nel XX secolo, in seguito all’imporsi della fisica quantistica. Un’alterazione di significato simile alla precedente ha riguardato il termine «ottica». Il termine greco ὀπτική è un aggettivo che significa «relativa alla visione» e poteva essere riferito sia al sostantivo ἐπιστήμη (ossia «scienza»), sia a τέχνη (ossia, grosso modo, «tecnica» o «arte»). Esistevano 9

Su questo concetto, vedi sopra, p. 45. Sesto Empirico, Pyrrhoneae hypotyposes, I, X, §19.

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La storia di qualche termine scientifico

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cioè, con il nome di «ottica», un’antica scienza e un’antica tecnica, che si occupavano entrambe delle sensazioni visive. L’ottica antica corrispondeva quindi più alla nostra ottica fisiologica che all’attuale ottica fisica. Gli scienziati della prima età moderna, che avevano identificato le apparenze con gli eventi, avevano creduto, allo stesso modo, di poter fondare una scienza della luce (la moderna ottica) prescindendo completamente dal modo in cui i fenomeni luminosi erano osservati. Anche in questo caso la conoscenza dell’originario significato greco permette di recuperare la consapevolezza, a lungo dimenticata, del ruolo indispensabile dell’osservatore. Qualcosa di parzialmente analogo ai casi precedenti è avvenuto con il termine «meccanica». La nostra parola è la traslitterazione del termine greco μηχανική, aggettivo (derivato dal sostantivo μηχανή, «macchina») che significava «relativa alle macchine» e poteva essere riferito anch’esso sia alla corrispondente scienza sia alla tecnica. La «meccanica» antica aveva quindi un significato trasparente e ben circoscritto, che, come nel caso precedente, si riferiva a un’interazione tra l’uomo e il mondo esterno. In questo caso non si trattava di percezioni, ma di azioni sulla realtà esterna, compiute grazie alla tecnologia. Gli scienziati moderni sono stati molto più ambiziosi. La definizione di meccanica riportata dall’enciclopedia Treccani on line è: «Scienza che studia il moto e l’equilibrio dei corpi». Poiché nel Settecento si riteneva che l’universo fosse costituito solo da corpi e questi potessero modificarsi solo muovendosi, con il meccanicismo si pensò di ridurre tutte le scienze della natura (incluse, fra le altre, l’astronomia e la fisiologia) a meccanica, che fu perciò considerata la scienza universale.11 Solo quando si capì che non si potevano spiegare in termini puramente meccanici né tutti i fenome-

11 Anche le ricerche chimiche del Settecento erano compatibili con questa concezione, poiché le trasformazioni chimiche possono essere viste come il risultato del movimento e della riaggregazione degli atomi.

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ni astronomici, né i fenomeni chimici e biologici, ci si poté rendere conto che in realtà la meccanica aveva continuato essenzialmente a studiare le macchine costruite dall’uomo, anche se, in assenza dell’antica consapevolezza, si era creduto di poter estendere a tutta la natura la descrizione della tecnologia dell’epoca. Va detto che anche successivamente la tecnologia nota ha continuato a essere proiettata sulla natura, che, dopo essere stata considerata un enorme meccanismo, è stata vista via via come un insieme di fenomeni elettromagnetici, di reazioni nucleari o, più recentemente, di processi informatici. Possiamo sintetizzare il contenuto degli ultimi due capitoli affermando che la conoscenza della scienza dell’epoca in cui essa è nata può svolgere un ruolo importante nella formazione della cultura scientifica, perché consente di mettere a nudo alcune componenti essenziali dei procedimenti usati per ottenere risultati scientifici, spesso dimenticati nella didattica moderna perché nascosti in «scatole nere» usate in modo automatico. Lo studio della scienza elaborata nella civiltà ellenistica non ha però solo un interesse didattico, ma anche un più profondo valore epistemologico, come abbiamo intravisto in qualche caso. Metteremo meglio a fuoco questo secondo aspetto nei prossimi due capitoli.

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XV

RECUPERO E ABBANDONO DI EUCLIDE1

Come abbiamo già accennato,2 il lento recupero della matematica euclidea si era arrestato per molti secoli davanti alla difficoltà di penetrare la teoria delle proporzioni esposta nel V libro degli Elementi. Il problema di Euclide è quello di definire il significato di un’espressione del tipo a : b = c : d

dove a, b, c, d sono grandezze geometriche (per esempio, quattro segmenti). Il problema sorge perché sia a e b, sia c e d possono essere tra loro incommensurabili (cioè privi di sottomultipli comuni), come si era scoperto nell’ambito della scuola pitagorica. Ciò accade, per esempio, se a è il lato di un quadrato e b la sua diagonale. In questo caso, secondo i matematici precedenti Euclide, le due grandezze non hanno rapporto e non si può quindi dare un senso all’espressione a : b. Se però c e d sono rispettivamente il lato e la diagonale di un secondo quadrato, disegnando i due quadrati con le loro diagonali, si ottengono figure simili, per le quali è intuitivamente chiaro che il rapporto tra lato e diagonale deve essere lo stesso. In questo caso vorremmo quindi poter scrivere a : b = c : d. Per trasformare que-

1

Questo capitolo riprende concetti esposti nell’introduzione all’edizione del primo libro degli Elementi, da me curata con G. Pirro ed E. Salciccia (Roma, Carocci, 2017). 2 Vedi sopra, p. 88.

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sta intuizione in un’affermazione dotata di significato matematico occorre fondare una teoria rigorosa dei rapporti tra grandezze incommensurabili; cioè, traducendo il discorso nei termini numerici oggi più familiari, occorre fondare una teoria rigorosa dei numeri irrazionali, ossia dei numeri non esprimibili con frazioni. Euclide, basandosi probabilmente su idee precedenti di Eudosso, lo fa in modo geniale. La sua teoria rimase incompresa per molti secoli, finché Karl Weierstrass e Richard Dedekind, nel 1872, la tradussero nel linguaggio numerico, che si era affermato nel frattempo, fondando l’attuale teoria dei numeri reali. Uno dei massimi studiosi moderni di matematica greca, Sir Thomas Heath, commentando la definizione euclidea di proporzione, scrive: Max Simon osserva (Euclid und die sechs planimetrischen Bücher, p. 110), seguendo Zeuthen, che la definizione di Euclide di rapporti eguali è parola per parola la stessa della definizione di Weierstrass di numeri eguali. […] È certo che vi è corrispondenza esatta, quasi una coincidenza, tra la definizione di Euclide di rapporti eguali e la moderna teoria degli irrazionali dovuta a Dedekind.3

La «quasi coincidenza» fra la teoria degli irrazionali introdotta da Dedekind e Weierstrass negli anni Settanta del­ l’Ottocento e quella di Euclide (che Weierstrass e Dedekind avevano studiato a scuola), prima che da Heath, era stata quindi già notata almeno da Zeuthen e da Simon. Questi autori però, stranamente, non ne avevano dedotto che la matematica greca avesse continuato a svolgere una funzione di guida verso i matematici moderni fino alla loro epoca (le osservazioni di Zeuthen risalivano alla fine dell’Ottocento, il libro di Simon è del 1901 e quello di Heath del 1908). Lo stesso Heath, nella sua storia della matematica greca, usa la coincidenza tra Euclide e Dedekind per dedurne la 3

Euclid’s Elements translated with introduction and commentary by Sir Thomas L. Heath, second edition, New York, Dover Publications, Inc., 1956, vol. II, p. 124.

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grandezza di Euclide, che avrebbe anticipato risultati posteriori di millenni.4 Si riteneva evidentemente (e spesso si ritiene ancora) che la natura astorica dei risultati matematici permettesse la loro riscoperta in forma identica a distanza di millenni, trascurando la circostanza che tali riscoperte siano state sempre effettuate da persone che avevano studiato con cura i loro «precursori». Analogamente, lo stesso Heath identificava la grandezza di Aristarco nell’essere riuscito a precorrere Copernico.5 Anche oggi una sorta di pudore impedisce in genere di affermare con chiarezza (e forse anche di prendere atto) che nella seconda metà dell’Ottocento importanti teorie matematiche potevano ancora essere ricavate dalla lettura di testi del primo ellenismo. Alla fine dell’Ottocento il metodo, proprio di Euclide, di fondare teorie su un piccolo numero di postulati fu finalmente accettato da tutti i matematici e, ribattezzato «metodo assiomatico»,6 fu esteso a molti settori della disciplina (per esempio Giuseppe Peano l’applicò all’aritmetica). Allo stesso tempo, però, coerentemente con il distacco dalla civiltà classica che avveniva in quegli anni in tutti gli altri campi, si iniziò a criticare Euclide sia sul piano scientifico sia su quello didattico. Nonostante vi fossero stati autorevoli sostenitori dello studio diretto degli Elementi (tra i quali il fondatore della gloriosa scuola italiana di geometria algebrica, Luigi Cremona), alla fine del secolo XIX l’uso diretto di Euclide nella didattica fu abbandonato quasi ovunque (i manuali moderni di geometria, almeno fino alla prima metà del XX secolo, consistevano però essenzialmente in adattamenti di sezioni del trattato di Euclide, che continuava a costituirne il modello). 4

Thomas L. Heath, A History of Greek Mathematics, New York, Dover Publications, Inc., 1921, vol. I, pp. 326-327. 5 Come si evince dal titolo del suo libro Aristarchus of Samos, the ancient Copernicus. 6 Il metodo antico, in realtà, fu adottato con qualche variante, che vedremo tra poco.

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Nel 1899 David Hilbert ritenne di avere definitivamente superato l’opera di Euclide sul piano scientifico con le sue Grundlagen der Geometrie, nelle quali è esposta una nuova sistemazione della geometria. Al fine di rendere esplicite tutte le assunzioni necessarie per sviluppare la geometria euclidea, i cinque postulati di Euclide vi sono sostituiti da venti assiomi. Il metodo di Euclide poggiava però su due gambe: la prima, accolta con entusiasmo dopo tanti secoli di incomprensione e perfezionata da Hilbert, consisteva nel metodo ribattezzato «assiomatico», che garantiva la coerenza interna della teoria. L’altra gamba era costituita dall’uso sistematico, accanto ai teoremi, dei problemi, cui abbiamo già accennato,7 che assicuravano l’esistenza degli enti matematici di cui si occupava la geometria, in quanto costruibili con riga e compasso, fornendo così il collegamento tra teoria e oggetti concreti. Nel Novecento questa seconda gamba fu completamente abbandonata non solo sul piano scientifico, ma anche nella didattica, eliminando dai manuali moderni tutte le proposizioni costruttive (ossia quelle che Euclide concludeva con la formula «come si doveva fare»). Fu così reciso il legame tra la geometria e il disegno e, più in generale, fu eliminato, in linea di principio, ogni collegamento tra la matematica e il mondo reale. Nelle Grundlagen di Hilbert gli enti «geometrici» fondamentali, anche se, in omaggio alla tradizione, sono ancora detti «punti», «rette» e «piani», sono totalmente privi di significato. Interessano solo le «regole del gioco» che permettono di usarli in proposizioni dedotte correttamente da assiomi, che (a differenza degli antichi postulati) non hanno alcun rapporto con il mondo reale. È famosa l’affermazione di Hilbert che nella teoria assiomatica della geometria, invece di punti, rette e piani si potrebbe parlare di tavoli, sedie e boccali di birra.8 7 8

Vedi sopra, pp. 140-141. L’affermazione è riferita da Otto Blumenthal nella sua biografia di Hilbert.

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Hilbert, come quasi tutti i matematici suoi contemporanei, riteneva che gli enti matematici esistessero del tutto indipendentemente dal mondo reale. Sarebbe bastato dimostrare che le teorie fossero non contraddittorie perché gli enti in esse considerati acquistassero una sorta di «esistenza», analoga a quella delle idee di Platone. Non meraviglia che alla stessa epoca, come abbiamo già ricordato, uno dei due autori dei Principia Mathematica, Whitehead, fosse esplicitamente platonico.9 All’origine del nuovo punto di vista vi erano stati senza dubbio gli sviluppi moderni che avevano introdotto molti enti matematici non immediatamente visualizzabili, il cui rapporto con il mondo reale, pur essendo in realtà essenziale, era difficilmente individuabile, perché mediato da lunghe e complesse catene di concetti che attraversavano settori specialistici tra loro diversi e lontani. Dagli anni Trenta agli anni Ottanta del Novecento il gruppo di matematici francesi raccolti sotto lo pseudonimo di Nicolas Bourbaki perseguì l’ambizioso progetto di risistemare tutta la matematica nella direzione già indicata da Hilbert. I bourbakisti ebbero in Francia anche una profonda influenza sulla didattica, che a loro avviso doveva eliminare ogni concessione all’intuizione visiva e ogni ruolo al disegno. Uno dei principali esponenti del gruppo, Jean Dieudonné, lanciò il significativo slogan «abbasso Euclide!». Divenne difficile capire come mai, se la matematica è una costruzione priva di qualsiasi relazione con il mondo reale, i suoi metodi fossero applicati con successo alla fisica. Nel 1960 Eugene Wigner (che tre anni dopo avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica) si chiese in effetti in un famoso articolo come mai la matematica avesse un irragionevole potere esplicativo nelle Scienze Naturali.10 9

Vedi sopra, pp. 39-40. Eugene Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, in «Communications on Pure and Applied Mathematics», 13, 1960, pp. 1-14. 10

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Il programma di Hilbert, ripreso dai bourbakisti, sul piano scientifico era in realtà già fallito negli anni Trenta, in seguito ai famosi teoremi di incompletezza di Gödel,11 mentre il fallimento didattico dell’impostazione bourbakista, che aveva danneggiato un paio di generazioni di studenti, soprattutto francesi, è divenuto chiaro tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Gli effetti di un secolo di divorzio dal classico metodo euclideo sono stati bene illustrati da uno dei massimi matematici del nostro tempo, Vladimir Arnold (1937-2010), in un articolo del 1998. Una frase basta a dare l’idea del tono dell’articolo: Dei fanatici della «matematica astratta» con disturbi mentali buttarono fuori dall’insegnamento tutta la geometria (attraverso la quale ha per lo più luogo la connessione della matematica con la fisica e la realtà).12

Oltre alla degeometrizzazione della matematica, un altro contributo alla rottura dei ponti tra la matematica e la realtà fisica era stato dato dalla «vittoriosa lotta contro il concetto di grandezza» che tanto aveva entusiasmato Spengler.13 Nella matematica greca svolgevano un ruolo essenziale le grandezze (come lunghezze, tempi, pesi, …), delle quali Euclide aveva esposto una raffinata teoria. Ciò che noi chiamiamo «numero reale» era concepito come rapporto fra due grandezze omogenee, ossia come misura di una grandezza rispetto a un’unità di misura. I matematici moderni hanno invece studiato i numeri in sé, abbandonando la teoria delle grandezze e disinteressandosi del fatto che i numeri che appaiono nelle applicazioni sono il risultato o di un conteggio (se si tratta di numeri naturali), oppure della misura di qualche grandezza. È questo il motivo per 11 In estrema sintesi, tali teoremi mostrano infatti come la matematica non possa autofondarsi con i propri metodi. 12 V. Arnold, On teaching mathematics, in «Russian Math. Surveys», 53, 1998. La traduzione italiana, pubblicata su «Punti critici» nel maggio 2000, si trova a: http://blog. petiteplaisance.it/category/punti-critici/punti-critici-n-3/. 13 Vedi sopra, p. 112.

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cui ci si laurea in matematica ignorando in genere l’analisi dimensionale.14 Nel Novecento il diffondersi dell’assoluto relativismo ha generato anche la tendenza a negare l’oggettività di qualsiasi risultato scientifico. Un buon esempio, attinente alle opere di Euclide, è fornito da Erwin Panofsky (1892-1968). Secondo le tesi esposte nel suo fortunato saggio del 1927 La prospettiva come forma simbolica, ogni cultura sarebbe libera di scegliere le regole della prospettiva che preferisce; la prospettiva greca, in particolare, sarebbe stata diversa da quella rinascimentale. L’ultima affermazione era basata sulla convinzione che una delle regole esposte da Piero della Francesca contraddicesse un teorema dell’Ottica di Euclide. Nonostante Panofsky avesse tratto la sua convinzione da un grossolano fraintendimento,15 la sua tesi ha continuato a lungo a essere accettata e riproposta. In realtà la libera scelta, determinata dalla cultura, riguarda il problema da porsi, ma se si sceglie di voler raffigurare gli oggetti su un piano in modo che da un determinato punto siano visti sotto gli stessi angoli con cui sono visti gli oggetti reali, vi è un solo modo per raggiungere lo scopo: seguire le regole della prospettiva centrale. Oggi molti condividono l’idea che la matematica non possa essere insegnata prescindendo dal mondo reale. Si 14 Per esempio, molti studenti di matematica non sanno perché nella descrizione di fenomeni periodici appaia spesso l’espressione senωt, ma mai sent (dimenticano cioè che non è possibile calcolare il seno, per esempio, di mezz’ora, ma solo di un numero puro, qual è il rapporto tra due tempi). 15 Piero della Francesca sostiene che l’altezza di una figura dipinta debba essere inversamente proporzionale alla distanza rappresentata. Questa affermazione sembrò a Panofsky contraddire il teorema di Euclide secondo cui le grandezze apparenti dei corpi non sono inversamente proporzionali alla distanza (Ottica, proposizione 8). Piero si riferiva però alle dimensioni lineari della figura sul dipinto, mentre Euclide parlava di grandezze angolari. Non vi è quindi alcuna contraddizione (né avrebbe potuto esservi, visto che Piero deduce la sua teoria dall’Ottica di Euclide). Se, per esempio, devo dipingere un uomo a distanza doppia, dovrò dipingerlo alto la metà, ma non lo vedrò sotto un angolo dimezzato. Il fatto che un intellettuale di grande valore come Panofsky avesse confuso angoli con segmenti la dice lunga sull’ignoranza matematica diffusa tra i non matematici.

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potrebbe pensare che la diffusione di questa consapevolezza abbia restituito alla matematica le due gambe su cui si poggiava all’epoca di Euclide. Invece non è andata così, perché si sta perdendo di nuovo la prima, ossia il metodo dimostrativo. Molti matematici di professione continuano per la verità a dimostrare teoremi, ma sono confinati in un’isola il cui terreno è continuamente eroso. Le dimostrazioni di teoremi sono infatti quasi del tutto scomparse nel mondo occidentale, non solo nella didattica delle scuole secondarie (l’Italia è una delle ultime isole di resistenza), ma anche nei corsi universitari di matematica per biologi, economisti, ingegneri e altri non matematici, mentre in quelli per matematici tendono progressivamente a ritrarsi nei corsi di dottorato.16 Sul piano della storia della scienza vi è inoltre la forte tendenza a rivalutare i contributi delle culture estranee al metodo dimostrativo, e perfino nella ricerca matematica uno spazio crescente è occupato da lavori empirici di tipo numerico realizzati da ricercatori che non usano più dimostrazioni. Il disprezzo dilagante nell’opinione pubblica verso i ragionamenti astratti e in particolare verso le dimostrazioni, oltre che dall’evoluzione del significato del termine «teorema»,17 è mostrato dall’analoga evoluzione del termine inglese demonstration, ormai usato quasi solamente nella forma abbreviata demo per indicare la versione parziale di un prodotto concessa gratuitamente a scopo, appunto, dimostrativo e pubblicitario. In questa situazione la rilettura di un classico come gli Elementi di Euclide può essere molto utile, non solo sul piano didattico, come modello ineguagliato di equilibrio tra rigore dell’argomentazione verbale e intuizione visiva, ma anche su quello epistemologico. L’idea di conside16

Quest’ultimo processo è in larga parte già compiuto negli Stati Uniti. In Italia ci si comincia a muovere in questa direzione, per esempio tendendo a sostituire i tradizionali corsi di Analisi matematica con corsi di Calculus di stampo statunitense. 17 Vedi sopra, p. 86.

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rare esistenti gli enti matematici «costruibili» con gli strumenti a disposizione sembra infatti ancora praticabile (pur di aggiornare, ovviamente, gli strumenti, sostituendo, per esempio, in molti casi, la riga e il compasso di Euclide con i nostri computer)18 e permetterebbe di liberare finalmente la matematica dal neoplatonismo in cui è rimasta avvolta dall’epoca imperiale a oggi.

18 Il concetto di «costruibilità» va naturalmente precisato. Per esempio, nel caso dei numeri reali, seguendo Kolmogorov e Chaitin, è ragionevole considerare costruibili i numeri per i quali è possibile scrivere un programma che, disponendo di sufficiente tempo, possa calcolarne un qualsiasi numero di cifre decimali. È immediato dimostrare che i numeri reali costruibili in questo senso costituiscono al più un’infinità numerabile. (Tutti i programmi sono infatti un sottoinsieme dell’insieme numerabile costituito da tutti i testi finiti.) Ne segue che l’insieme di tutti i reali di cui si parla nei testi di analisi matematica contiene un insieme non numerabile di oggetti non costruibili, che «esistono» solo nella mente dei matematici neoplatonici. Sarebbe possibile (anche se tutt’altro che banale) riformulare l’analisi evitando l’uso di questo genere di mostri.

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XVI

FISICA E SCIENZA ESATTA

I fenomeni fisici noti nell’antichità erano ben pochi non solo rispetto a quelli conosciuti oggi, ma anche in confronto a quelli noti due secoli fa. Ciò non deve però far credere che il metodo degli scienziati antichi non avesse dato preziose indicazioni ai fisici fino alla rottura con la tradizione avvenuta nel Novecento, e soprattutto che non ne possa dare ancora. Si legge spesso che i greci avevano sviluppato la matematica, ma non la fisica. Credo che una delle principali origini di questa falsa opinione sia banalmente terminologica. Entrambe le parole «fisica» e «matematica» sono greche, ma la notevole differenza tra il loro significato attuale e quello originale ha tratto spesso in inganno. Il sostantivo φύσις corrisponde più o meno al significato originale del termine latino natura e indica tutto ciò che nasce, vive, cresce, diviene. Diversi filosofi presocratici avevano scritto un poema cui fu dato il titolo Περὶ φύσεως, ossia Sulla natura. L’aggettivo corrispondente, φυσικός, cioè «naturale», al neutro plurale (τὰ φυσικά) ha generato il nostro termine «fisica» (anche per l’influenza della famosa opera di Aristotele con questo titolo). Aristotele e i suoi predecessori che avevano usato lo stesso termine si erano occupati di filosofia della natura, con particolare interesse per gli esseri viventi, e le loro indagini, sia per l’oggetto sia soprattutto per il metodo, avevano ben poco in comune con ciò che oggi chiamiamo «fisica». Non a caso in inglese, accanto a physicist («fisico»), esiste il termine physician («medico»), con la stessa etimologia, il cui

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significato è altrettanto vicino (o lontano) a quello dell’originale termine greco. Se si cercano i contributi dei greci alla fisica tra le opere da loro etichettate con lo stesso nostro termine (ossia fra gli scritti di filosofia naturale), si arriva facilmente alla conclusione che la fisica fosse rimasta quasi completamente estranea al loro orizzonte culturale: è quanto si ricava, per esempio, dalla lettura di uno dei rari libri dedicati alla «fisica» dei greci, dovuto a Samuel Sambursky.1 La vera fisica dei greci va cercata altrove e precisamente nell’ambito della scienza che all’epoca era detta «matematica» (τὰ μαθηματικὰ) e corrispondeva più o meno all’attuale scienza esatta. L’antica «matematica», che secondo il pitagorico Archita (vissuto tra il V e il IV secolo a.C.) includeva l’aritmetica, la geometria, la teoria musicale e l’astronomia (cioè le discipline che nel medioevo avrebbero formato il quadrivio), in epoca ellenistica aveva incorporato diverse nuove scienze oggi considerate interne alla fisica, come la meccanica, l’ottica e l’idrostatica. Si faceva «matematica» quando, dimostrando teoremi basati su postulati, si costruivano modelli rigorosi di fenomeni reali. Consideriamo, per esempio, il trattato Sui galleggianti di Archimede: si tratta di un’opera dell’antica «matematica», poiché si basa su un postulato e procede dimostrando teoremi. L’enunciato del primo teorema è: «La superficie degli oceani a riposo è una superficie sferica con il centro nel centro della Terra». Non siamo più abituati a studiare teoremi che riguardino direttamente il mondo reale. È probabilmente questo il motivo per cui oggi è raro trovare uno studente di fisica o di matematica che sappia perché la Terra è (approssimativamente) sferica.2 La lettura del trattato di Archimede è interessante per diversi motivi: in particolare perché in quasi tutta l’opera (dedicata al galleggiamento di 1

Samuel Sambursky, The physical world of the Greeks, London, Routledge, 1956. Questa, almeno, è l’esperienza che ho fatto con i miei studenti dell’Università Tor Vergata di Roma. 2

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vari corpi e soprattutto alla determinazione delle condizioni di stabilità delle loro posizioni di equilibrio) la superficie dell’acqua è assunta piana, contraddicendo apparentemente il teorema iniziale. Archimede è evidentemente consapevole di non esporre teorie che rispecchiano perfettamente la realtà, ma modelli del mondo reale che ne colgono gli aspetti che lo interessano. Può perciò usare nella stessa opera due diversi modelli per lo stesso oggetto: uno in cui dimostra che la superficie dell’acqua a riposo è sferica e un altro, utile per studiare il galleggiamento di corpi piccoli rispetto al raggio della Terra, in cui la stessa superficie è assunta piana. Il metodo usato da Euclide negli Elementi (e nell’Ottica) non differisce in nulla da quello usato da Archimede in idrostatica. Anche Euclide, infatti, costruisce modelli di fenomeni reali, quali sono le forme e dimensioni dei corpi rigidi, i disegni eseguibili con riga e compasso e la visione. Questo punto è stato espresso con grande chiarezza da Albert Einstein: Se, comunque, la geometria di Euclide è vista come la scienza delle possibili relazioni mutue di corpi praticamente rigidi nello spazio, cioè se la si tratta come una scienza fisica, evitando di astrarre dal suo originale contenuto empirico, l’omogeneità logica tra geometria e fisica teorica diviene completa.3

L’antica scienza esatta unitaria (detta allora «matematica») non conosceva la distinzione tra le attuali matematica e fisica ed era fondata su due pilastri: il metodo dimostrativo, usato all’interno della teoria, e il rapporto fra teoria e fenomeni riassunto nell’affermazione che scopo delle teorie è salvare i fenomeni (φαινόμενα σῴζειν). I fenomeni (letteralmente le apparenze, ossia ciò che è osservato)4 costituivano il necessario punto di partenza euristico di ogni indagine scientifica, ma una volta costruita la teoria dovevano essere deducibili dai suoi postulati. Per esempio Plutarco, intro3

La citazione è tratta da una conferenza tenuta da Einstein a Oxford il 10 giugno 1933, pubblicata con il titolo On the Method of Theoretical Physics, in «Philosophy of Science», Chicago, University of Chicago Press, vol. 1, n. 2 (aprile 1934), pp. 163-169. 4 Vedi sopra, pp. 143-144.

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ducendo l’eliocentrismo, afferma che Aristarco aveva formulato la sua teoria per salvare i fenomeni,5 intendendo che aveva formulato princìpi dai quali potevano essere dedotti i moti osservabili dei pianeti. Quelle appena descritte sono caratteristiche proprie di uno stadio primitivo, irrimediabilmente superato, della scienza o si tratta di elementi che potrebbero essere utilmente recuperati, indicando una direzione per il futuro? Osserviamo che la differenza di status epistemologico tra matematica e fisica non è affatto ovvia come in genere si ritiene. Essa viene meno se, come abbiamo già osservato più volte, da un lato si riconosce che le teorie matematiche non nascono in modo completamente avulso dal mondo reale, ma attraverso processi di astrazione che, per quanto complessi, hanno la loro base ultima nelle esperienze concrete, e dall’altro che gli enti della fisica non sono oggetti reali ma enti teorici che ne forniscono un modello. La differenza di status tra le due discipline viene cioè meno se, abbandonando tendenze che si sono dimostrate fallimentari, si recupera il metodo dell’antica scienza esatta unitaria. Nella prima età moderna l’unità, anche terminologica, della scienza esatta fu conservata: per esempio, Copernico e Galileo si consideravano entrambi «matematici»,6 e anch’essi, come gli antichi scienziati, avevano costruito teorie in grado di salvare i fenomeni. Un primo divorzio tra fisica e matematica si realizzò con Newton, che, respingendo l’uso delle «ipotesi» e credendo di poter basare la propria scienza su «princìpi» univocamente determinati dai «fenomeni» (da

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Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 923A. Copernico, all’inizio del De revolutionibus, scrive «mathemata mathematicis scribuntur», afferma cioè che chi scrive di matematica deve rivolgersi ai matematici (e non ai profani). Evidentemente, essendo rimasto fedele alla terminologia antica, egli riteneva che la sua opera astronomica fosse un testo di matematica. Galileo mostra la stessa convinzione quando si meraviglia che la sua scienza del moto non fosse stata già elaborata da Euclide, Archimede o Apollonio (Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Edizione nazionale delle opere di Galileo Galilei, Firenze, Barbera, 1890-1909, vol. VIII, pp. 266-267). 6

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lui considerati «fatti»),7 aveva costruito una «filosofia della natura» (ossia una «fisica» nel senso originario del termine) che usava il linguaggio della matematica, ma metodologicamente era lontana dall’antica scienza esatta unitaria. Nei secoli successivi i principali esponenti della scienza esatta continuarono tuttavia a fare ricerche trasversali rispetto alla divisione tra «matematica» e «fisica»: sarebbe spesso difficile decidere se etichettare come «matematici» o «fisici» i risultati di Eulero, Gauss, Fourier o Poincaré. Più di recente anche molti scienziati della scuola russa erano laureati sia in matematica sia in fisica e ottenevano risultati che attraversavano i confini tra le due discipline. Un illustre esponente di questa tradizione, Vladimir Arnold, nel 1998, nell’articolo che abbiamo già citato,8 ha scritto: Verso la metà del ventesimo secolo si provò a dividere fisica e matematica. Le conseguenze si rivelarono catastrofiche.

In realtà la divisione era stata ben più antica, ma Arnold si riferisce qui all’ulteriore allargamento della frattura, provocato dalla degeometrizzazione della matematica di cui abbiamo già parlato.9 Alla divisione tra fisica e matematica si è sovrapposto nell’Ottocento un crescente allontanamento tra fisica sperimentale e fisica matematica (concepita come disciplina rigorosa che dimostrava teoremi all’interno dei modelli elaborati per spiegare i fenomeni scoperti con il metodo sperimentale). All’inizio del Novecento scienziati come Poincaré ed Einstein erano stati tuttavia ancora vicini all’antica tradizione di una scienza esatta unitaria, coniugando il rigore delle teorie con il loro stretto rapporto con i fenomeni di cui fornivano il modello. Allo stesso tempo l’epistemologia raggiungeva nuovi livelli di profondità, soprattutto grazie a Poincaré e Duhem, il quale aveva recuperato l’antica idea 7

Vedi sopra, pp. 141-142 (per il termine «ipotesi») e 143-144 (per il termine «fenomeno»). 8 Vedi sopra, p. 152, nota 12. 9 Vedi sopra, pp. 151-152.

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che fu detta della sottodeterminazione delle teorie, ossia l’idea che una stessa fenomenologia potesse essere prevista da diverse teorie.10 Nel corso del XX secolo la distanza dal modello classico è aumentata nell’ambito della fisica teorica (nata in Germania alla fine dell’Ottocento): un nuovo settore della fisica che, come la fisica matematica, non si occupava di esperimenti, ma nel quale si affermò la prassi di rinunciare al rigore. Negli anni Venti e Trenta del Novecento fu elaborata la complessa struttura della meccanica quantistica. La nuova teoria era nata, secondo le migliori tradizioni, per «salvare» una serie di fenomeni scoperti nell’ambito della microfisica e vi era riuscita così bene, ottenendo ottimi accordi fra i risultati sperimentali e i valori calcolati teoricamente, da imporsi ben presto come irrinunciabile. Allo stesso tempo l’interpretazione del modello teorico aveva però sollevato difficili problemi, ancora irrisolti, che lasciarono spazio a posizioni lontane dalla razionalità classica. Non è questo il luogo per entrare nei delicati problemi dei fondamenti della teoria, ma un accenno al cosiddetto dualismo (o complementarità) onda-corpuscolo ci permetterà di introdurre il problema, che ci interessa particolarmente, dell’irrazionalismo che cominciò allora a insinuarsi nella comunità dei fisici e negli ultimi decenni ha conquistato uno spazio rapidamente crescente. Le esperienze di diffrazione degli elettroni avevano mostrato che queste particelle non sono descrivibili né con la classica teoria corpuscolare né con quella ondulatoria, anche se entrambe le teorie possono spiegare alcuni aspetti degli esperimenti. Uno dei padri della nuova teoria, Max Born, descrive con grande lucidità la situazione: 10 Vedi sopra, p. 49. Ricordiamo che Pierre Duhem, epistemologo e storico della scienza (in particolare antica), nel 1908 aveva pubblicato un libro dal titolo significativo: Sozein ta phainomena. Essai sur la Notion de Théorie physique de Platon à Galilée, Paris, Librairie Scientifique A. Hermann et Fils.

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L’origine ultima della difficoltà è nel fatto (o principio filosofico) che quando vogliamo descrivere un fenomeno non attraverso l’analisi logica o matematica ma con una descrizione visualizzabile siamo costretti a usare le parole del linguaggio ordinario. Il linguaggio ordinario si è sviluppato sulla base dell’esperienza quotidiana e non può mai superare questi limiti. La fisica classica si è limitata all’uso di concetti di questo tipo; analizzando i moti visibili ha sviluppato due modi per rappresentarli con processi elementari: particelle in moto e onde. Non essendovi altri modi per descrivere moti in modo visualizzabile, dobbiamo applicarli anche nel caso di processi atomici, dove la fisica classica fallisce. Ogni processo può essere interpretato in termini di corpuscoli o di onde, ma d’altra parte è al di là delle nostre possibilità dimostrare che abbiamo realmente a che fare con corpuscoli o onde, poiché non possiamo determinare simultaneamente tutte le altre proprietà che sono caratteristiche di un corpuscolo o di un’onda. Possiamo perciò dire che le descrizioni ondulatoria e corpuscolare possono essere viste come modi complementari di considerare un unico processo obiettivo, che solo in particolari casi limite ammette un’interpretazione completamente visualizzabile.11

Onde e corpuscoli forniscono quindi due descrizioni parziali fra loro contraddittorie, entrambe incomplete ma utili perché visualizzabili, dei fenomeni osservati. Nell’esposizione di Born è del tutto chiaro che la «complementarità» non riguarda gli enti fisici, ma le nostre due descrizioni, entrambe nate in riferimento a fenomeni macroscopici e inadeguate alla nuova fenomenologia. La lucidità di Born non fu però condivisa da tutti i suoi colleghi. Attribuendo alla natura, con un processo antropomorfico, categorie relative ai discorsi umani, cominciò a farsi strada (dilagando soprattutto all’esterno della comunità scientifica) l’idea di una realtà in sé contraddittoria. Invece di prendere atto che gli elettroni, per esempio, non sono né onde né particelle classiche (come mostra la struttura della mecca11

Max Born, Atomic Physics, London-Glasgow, Blackie & Son Ltd, 1935 (19627), p. 99.

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nica quantistica, ben diversa dalle classiche teorie corpuscolare e ondulatoria), qualcuno attribuì loro entrambe le nature. Questa concezione non poteva non scontrarsi con la tradizione filosofica greca, alimentando, in particolare, crescenti critiche al principio di non contraddizione enunciato da Aristotele. La diffusione di concetti tanto lontani dal pensiero classico come la doppia natura, allo stesso tempo corpuscolare e ondulatoria, delle particelle era stata certamente favorita dalla loro affinità con idee presenti da secoli nella teologia cristiana (per esempio nel dogma cattolico della Trinità e nella consustanziazione affermata dalla dottrina luterana dell’eucarestia). Diversi fisici, cercando una base ideologica alla loro interpretazione, preferirono però rivolgersi altrove, richiamandosi soprattutto al misticismo orientale. Erwin Schrödinger si occupò di induismo;12 Wolfgang Pauli cercò analogie tra il principio di complementarità ed esperienze mistiche.13 Anche l’autore del principio di complementarità, Niels Bohr, aveva indicato possibili analogie tra il suo principio e l’antico pensiero indiano e cinese.14 Si può immaginare che lo sfondo ideologico che Bohr diede alla sua interpretazione della meccanica quantistica, così lontano dalla tradizione razionale della scienza classica, contribuì ad alimentare l’ostinata opposizione di Einstein (che, secondo l’interpretazione tradizionale, uscì sconfitto dalla lunga polemica con Bohr).15

12 Walter Moore, Schrödinger: Life and Thought, New York, Cambridge University Press, 1992, pp. 169-177, 252. 13 Vedi, per esempio: Wolfgang Pauli, Science and western thought (1955), ristampato in W. Pauli, Writings on Physics and Philosophy, a cura di C.P. Enz e K. Von Meyenn, New York, Springer, 1994, pp. 137-148. 14 Vedi, per esempio: Niels Bohr, «The Unity of human knowledge», in Essays 1958-1962 on Atomic Physics and Human Knowledge, New York, Vintage, 1966. 15 Un’opinione diversa è in Roger G. Newton, How Physics Confronts Reality: Einstein Was Correct, But Bohr Won The Game, World Scientific, 2009. Più recentemente Leonard Susskind ha scritto: «La maggior parte degli scienziati riteneva che Bohr avesse ragione, Einstein torto. La mia opinione, che reputo condivisa da un numero sempre maggiore di scienziati, è che questo atteggiamento non renda giustizia al punto di vista di Einstein» (L. Susskind e A. Friedman, Quantum Mechanics. The Theoretical Minimum, pref. di Susskind, London, Penguin, 2015).

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Nel 1933 Simone Weil aveva osservato: La scienza, che aveva il compito di far comprendere con chiarezza ogni cosa e dissipare ogni mistero, è diventata essa stessa il mistero per eccellenza, al punto che l’oscurità, e finanche l’assurdità, appaiono oggi, in una teoria scientifica, come segni di profondità.16

Mezzo secolo più tardi, un fisico geniale come Richard Feynman, nell’introduzione alle sue lezioni divulgative sull’elettrodinamica quantistica, avrebbe apparentemente incoraggiato nel pubblico l’atteggiamento deprecato da Simone Weil: Mi auguro quindi che riuscirete ad accettare la Natura per quello che è: assurda. Per me parlare di questa assurdità è un divertimento, perché la trovo incantevole. […] Ascoltatemi fino in fondo, e vedrete che alla fine ne sarete incantati anche voi.17

Dopo la seconda guerra mondiale i problemi interpretativi e fondazionali della meccanica quantistica interessarono un’esigua minoranza di fisici (alcuni dei quali, soprattutto David Bohm e John Stewart Bell, dettero tuttavia contributi importanti). Quasi tutta la comunità scientifica trascurò invece come scientificamente irrilevanti le questioni interpretative, contentandosi dell’accordo tra i risultati sperimentali e le predizioni della teoria. L’interesse per gli strani aspetti concettuali della meccanica quantistica si risvegliò negli anni Settanta a San Francisco nel Fundamental Fysiks Group, un gruppo di aderenti alla New Age del quale facevano parte fisici come Fred Alan Wolf e Jack Sarfatti ed estrosi autodidatti come Werner Erhard. (Il venditore di auto Jack Rosenberg aveva assunto il nome di Werner Erhard quando aveva deciso di cambiare vita lasciando famiglia e lavoro; in pochi anni si era arricchito trasformandosi in guru e fondando lo Human 16

Simone Weil, Sur le livre de Lénine «Matérialisme et empiriocriticisme», in «La Critique Sociale», novembre 1933. 17 Richard P. Feynman, qed. The Strange Theory of Light and Matter, Princeton, Princeton University Press, 1985, p. 10.

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Potential Movement, che superò rapidamente il mezzo milione di aderenti paganti. In seguito ha ottenuto anche un notevole successo accademico: molte università americane lo hanno invitato a tenere corsi su «come divenire un leader» e «come esercitare la leadership».) Il Fundamental Fysiks Group rilanciò ed estese i collegamenti, già indicati da alcuni dei padri fondatori, tra nuova fisica, esperienze esoteriche e religioni orientali (con particolare interesse al buddismo e allo yoga). Il rappresentante più noto del gruppo è stato Fritjof Capra, autore del popolare best seller The Tao of Physics: An Exploration of the Parallels Between Modern Physics and Eastern Mysticism.18 Il gruppo studiava la fisica quantistica insieme a vari fenomeni paranormali. Alcuni di loro avevano cercato, per esempio, di spiegare con la meccanica quantistica i presunti poteri paranormali di Uri Geller;19 altri si convinsero che il fenomeno quantistico dell’entanglement permettesse di trasmettere istantaneamente informazioni a distanza20 e cercarono connessioni tra questa possibilità e la telepatia. Si deve respingere la tentazione di considerare questo gruppo estraneo alla storia della fisica, non solo per l’attenzione che attirò su importanti aspetti concettuali della meccanica quantistica e per il successo e l’influenza di libri come quello citato di Capra, ma anche perché l’insuccesso dei ripetuti sforzi di membri del gruppo di usare la meccanica quantistica per la trasmissione istantanea di informazione generò come sottoprodotto l’efficace crittografia quantistica.21 18

Il Tao della fisica, trad. it. Milano, Adelphi, 1982. Uri Geller è un illusionista israeliano che ha sostenuto di possedere poteri paranormali. Ebbe vasto successo negli anni Settanta esibendosi in una serie di trasmissioni televisive in cui fra l’altro fingeva di piegare cucchiai con la forza della mente. 20 Anche se una cattiva divulgazione continua a diffondere tra i profani l’idea opposta, il fenomeno dell’entanglement non implica affatto il trasferimento istantaneo di informazioni, né, a maggior ragione, quello di materia (trasferimenti che violerebbero entrambi la teoria della relatività). 21 Sulle idee e attività del gruppo si può leggere David Kaiser, How the Hippies Saved Physics. Science, Counterculture, and the Quantum Revival, New York, W.W. Norton & Company, 2012. 19

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In quegli anni l’irrazionalismo si estese notevolmente nella comunità dei fisici, coinvolgendone esponenti di prestigio anche in Europa. Per esempio Brian Josephson (1940-), subito dopo avere vinto nel 1973 il premio Nobel per la fisica per la scoperta dell’effetto che porta il suo nome, decise di dedicarsi totalmente ai fenomeni paranormali, fondando e guidando un gruppo di ricerca (Mind Matter Unification Project) sulle connessioni tra meccanica quantistica, parapsicologia e varie forme di misticismo orientale. Non si è trattato di uno sbandamento individuale, come qualcuno potrebbe pensare, poiché il gruppo è stato attivo per decenni all’Università di Cambridge (UK), ricevendo fondi di ricerca per occuparsi di meditazione trascendentale, telepatia, telecinesi e percezioni extrasensoriali. Naturalmente non tutti i fisici hanno condiviso queste tendenze. Una critica particolarmente interessante ai tentativi di contaminare la scienza con il misticismo orientale e la New Age è venuta da George Sudarshan, un importante fisico teorico che è anche un profondo conoscitore della cultura indiana, dalla quale proviene.22 Le contaminazioni tra irrazionalismo e fisica teorica (che, come abbiamo visto, risalivano almeno alla nascita della meccanica quantistica) da allora hanno continuato tuttavia a estendersi, manifestandosi a diversi livelli. All’esterno della comunità dei fisici si sono moltiplicati i truffatori che hanno usato il linguaggio della meccanica quantistica per pubblicizzare presunti interventi miracolosi sulla salute fisica e mentale delle persone. Tra i primi va ricordato il medico e guru indiano Deepak Chopra, autore di molti best seller tradotti in tutto il mondo, che ha costruito una fortuna lanciando un nuovo metodo di cura: il misticismo quantistico. Chopra, che fra l’altro sosteneva di produrre creme che, avendo incorporato tachioni, provo22

Tony Rothman e George Sudarshan, Doubt and Certainty, New York, Basic Books, 1998. Credo che questo bel libro (mai tradotto in italiano) non abbia avuto la diffusione e il successo che avrebbe meritato.

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cavano il ringiovanimento,23 ha avuto schiere di seguaci e oggi siamo continuamente bombardati da messaggi che promettono miracoli usando una terminologia tratta dalla fisica quantistica (se qualcuno è miracolosamente riuscito a sottrarsi può rendersene conto cercando con Google i siti in cui si parla di Mente Quantica, Cervello Quantico, Guarigione Quantica, Terapia Quantistica Emozionale, Riequilibrio Quantico Integrato e tante altre espressioni simili). I profani rischiano ormai di associare gli aggettivi quantistico e quantico soprattutto a questo tipo di ciarlatanerie. Può sembrare che questo genere di truffe sia estraneo al nostro tema e alla storia della cultura. In realtà non è così, poiché esiste un continuum che, attraverso varie fasce intermedie, si estende dalla ciarlataneria fino alla crisi metodologica della vera ricerca fisica. Nella fisica dell’ultimo mezzo secolo si è allargata la forbice tra una ricerca applicata strettamente legata alla tecnologia e fondata, in ultima analisi, sulle teorie di almeno cinquant’anni fa e l’esplorazione di costruzioni concettuali prive di qualsiasi rapporto con fenomeni osservabili. Questa situazione, se ha permesso lo sviluppo spettacolare della tecnologia che tutti conosciamo, ha anche favorito la penetrazione di tendenze irrazionalistiche fra i ricercatori impegnati nel secondo tipo di ricerca. Alcuni fisici accademici hanno abbandonato del tutto il metodo scientifico per proporre teorie costruite con ingredienti tratti da fisica, fantascienza e religione. Ricordo, a titolo di esempio, Frank Tipler, professore di Fisica matematica alla Tulane University (a New Orleans). Costui, sviluppando uno spunto presente nel racconto di fantascienza L’ultima domanda di Isaac Asimov, ha creato la Teoria del Punto 23

La possibile esistenza di tachioni (ovvero particelle che si muoverebbero sempre a una velocità superiore a quella della luce) non è in contraddizione con la teoria della relatività (che esclude che la velocità di una particella possa attraversare la velocità della luce). Tali particelle, grazie a un effetto relativistico, invertirebbero il verso del tempo. Naturalmente non si capisce come i tachioni, anche ammettendone l’esistenza, potrebbero rimanere nelle creme preparate secondo le ricette di Chopra.

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Omega, una presunta generalizzazione della relatività generale con la quale sarebbe possibile dimostrare la resurrezione dei morti. Ecco i titoli di alcuni paragrafi del suo libro di maggior successo:24 Perché saranno risuscitati i morti?; Quando saranno risuscitati i morti?; Descrizione della vita in Paradiso; Il Punto Omega (probabilmente) non è un Dio uno e trino; La teologia e la religione non sono branche dell’etica, ma della scienza. Tipler è certamente un caso limite, ma ci interessa perché non è affatto isolato. Molti suoi colleghi, membri a pieno titolo della comunità scientifica dei fisici, aderiscono a teorie che ammettono l’esistenza di universi paralleli, del tutto inaccessibili all’osservazione e alla sperimentazione, e un fisico di riconosciuto successo come David Deutsch (professore a Oxford, premio Dirac e pioniere della computazione quantistica) ha usato l’idea di questi fantomatici universi proprio per difendere la teoria di Tipler,25 che quindi, pur essendo evidentemente estranea alla scienza, non lo è alla comunità dei fisici. Anche l’idea di invertire il classico rapporto fra scienza e fantascienza, traendo dalla fantascienza idee per lavori scientifici, si è diffusa sempre più: per esempio, il termine «teletrasporto», al quale ci avevano abituato le serie di Star Trek, appare sempre più spesso non solo nei resoconti giornalistici di esperimenti scientifici, ma anche in articoli accademici, pubblicati su riviste tradizionalmente autorevoli, che si occupano del fenomeno dell’entanglement. In questo caso è facile tracciare il confine tra scienza e fantascienza: non è, infatti, possibile alcun dubbio sulla piena scientificità degli esperimenti sull’entanglement e della relativa teoria, mentre la fantascienza è chiamata in causa solo dall’uso improprio e allusivo del termine «teletrasporto», che vuole evidentemente attirare l’attenzione del pubblico 24 The Physics of Immortality, New York, Doubleday, 1995, tradotto in varie lingue. (Mondadori ne ha pubblicato nel 1996 un’edizione italiana con il titolo La fisica dell’immortalità. Dio, la cosmologia e la risurrezione dei morti.) 25 David Deutsch, La trama della realtà, trad. it. Torino, Einaudi, 1997, pp. 313-329.

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(e dei finanziatori) suggerendo che gli esperimenti sull’entanglement permetterebbero di compiere i primi passi nella direzione di Star Trek. In altri casi il confine è difficilmente discernibile. Ci si può chiedere, per esempio, se la teoria che prevede la possibilità di viaggi nel tempo attraverso cunicoli spazio-temporali creati da materia con massa negativa sia scientifica o fantascientifica. A favore della prima possibilità si deve dire che si tratta di una teoria compiutamente matematizzata elaborata da illustri fisici teorici sulla base della relatività generale. D’altra parte i viaggi nel tempo sono un topos della fantascienza classica, non si sono mai realizzati e non vi è alcuna evidenza sperimentale né dei cunicoli spazio-temporali che dovrebbero renderli possibili né della materia a massa negativa che dovrebbe generare i cunicoli. La teoria non è quindi nata per salvare alcun fenomeno, né alcun fenomeno l’ha confermata a posteriori; non si tratta perciò certamente di una teoria «scientifica» nel senso classico del termine. Questo genere di fisica teorica, ricca del fascino proveniente dall’esplorazione di possibilità finora contemplate solo in ambito fantastico o magico, non ha potuto essere applicata alla tecnologia, ma trova comprensibilmente crescenti sbocchi applicativi nell’industria dell’entertainment. Da tempo fisici impegnati in questa direzione avevano raggiunto il successo con libri che, descrivendo aspetti misteriosi e suggestivi di teorie prive di riscontri sperimentali e del tutto incomprensibili ai lettori, avevano sostituito nel gradimento del pubblico la fantascienza classica. Ora alcuni cominciano a lavorare anche nel cinema come produttori e sceneggiatori. Il primo è stato il principale sostenitore della teoria dei cunicoli spazio-temporali, Kip Stephen Thorne (uno dei vincitori del premio Nobel per la fisica nel 2017 per la scoperta delle onde gravitazionali), che ha collaborato, non solo come consulente scientifico, ma anche come produttore esecutivo, alla realizzazione del film di fantascienza Interstellar, del 2014, la cui trama si basa ap-

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punto su viaggi nel tempo compiuti attraverso i cunicoli da lui ipotizzati. Thorne ha annunciato che in un prossimo film di fantascienza avrà anche il ruolo di sceneggiatore in collaborazione con Stephen Hawking.26 Anche se si evitano le teorie più fantasiose e ci si limita al cuore dell’attuale fisica teorica, si deve constatare che molti scienziati hanno abbandonato l’antica idea di costruire teorie per salvare i fenomeni, preferendo sviluppare concezioni astratte che fondano le loro pretese di validità essenzialmente su ragioni estetiche.27 In particolare la teoria delle stringhe, considerata per diversi decenni il settore di punta della ricerca, non ha mai fornito alcuna previsione verificata sperimentalmente e solo una decina di anni fa ha cominciato a essere contestata.28 L’affermarsi delle «nuove» tendenze negli ambienti della fisica ufficiale è bene illustrato a livello simbolico dalla statua di Shiva (una delle principali divinità dell’induismo) che i fisici del CERN hanno installato a Ginevra all’ingresso del loro famoso centro di ricerca. Ogni possibile dubbio sul significato della scultura è dissipato dalla targa che l’accompagna, commissionata dal CERN a Fritjof Capra (l’autore del Tao della fisica). Vi si spiega come la danza cosmica di Shiva simbolizzi la convergenza tra la moderna fisica e l’antica religione induista.29 26

L’annuncio è stato pubblicato in italiano da «La Stampa» il 22 giugno 2016. Come esempio di questo tipo di argomentazione, che potrebbe forse dirsi di stampo neopitagorico ed è oggi molto diffuso, riportiamo questa affermazione del fisico Henry Tye: «String theory is too beautiful, rich, creative, and subtle not to be used by nature. That would be such a waste» (citato in Shing-Tung Yau e Steve Nadis, The Shape of Inner Space. String Theory and the Geometry of the Universe’s Hidden Dimensions, New York, Basic Books, 2010). 28 Per una violenta critica della teoria delle stringhe si possono leggere Peter Woit, Not Even Wrong: The Failure of String Theory and the Continuing Challenge to Unify the Laws of Physics, London, Jonathan Cape, 2006; Lee Smolin, Rien ne va plus en physique! L’échec de la théorie des cordes, Paris, Dunod, 2006. 29 Il CERN non ci ha concesso l’autorizzazione a riprodurre l’immagine della statua, che può comunque essere vista in molti siti Internet (basta fare una ricerca con Google usando le parole chiave «Shiva» e «Cern»). 27

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Il crescente allontanamento di una parte dei fisici teorici dal metodo scientifico è ormai riconosciuto da molti: perfino un famoso scienziato come Roger Penrose, che pure condivide in buona parte le «nuove» tendenze, si è mostrato allarmato dai loro eccessi.30 In sintesi, fra gli aspetti non secondari dell’indebolimento dei nostri legami con la civiltà classica verificatosi nel corso del XX secolo dobbiamo includere, accanto al progressivo abbandono del metodo dimostrativo di cui abbiamo già parlato, l’ampliarsi della frattura tra matematica e fisica, l’incrinarsi del rapporto classico tra teorie e fenomeni e il diffondersi dell’irrazionalismo in importanti settori della comunità dei fisici. Un punto va sottolineato con forza: gli esponenti delle «nuove» tendenze (come del resto il movimento New Age) non hanno affatto tagliato i ponti con l’antichità. Mentre molti matematici, abbandonando Euclide, sono ricaduti in filosofie implicite di stampo neopitagorico o neoplatonico, una parte consistente dei fisici tende a sostituire il legame che per secoli ci aveva unito al pensiero greco con il richiamo ad altre tradizioni, come l’induismo e il taoismo, altrettanto o ancora più antiche, ma del tutto estranee alla scienza. Evidentemente l’esigenza di inquadrare i risultati tecnici in un vasto ambito concettuale unitario dotato di solide radici è insopprimibile e, poiché la scienza è nata una sola volta, nella civiltà greca, se viene meno la cultura classica, le alternative disponibili non possono che allontanare dalla razionalità scientifica.

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Roger Penrose, Fashion Faith and Fantasy in the New Physics of the Universe, Princeton, Princeton University Press, 2016.

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XVII

LINGUISTICA, RETORICA E LOGICA

Nella cultura occidentale gli strumenti intellettuali di base del settore linguistico erano forniti tradizionalmente dalle analisi grammaticale e logica. La seconda, come abbiamo già ricordato, era sorta adattando la parte della grammatica latina relativa ai casi alle lingue moderne prive di casi, come il francese e l’italiano.1 Benché questa origine fosse ovvia, per un fenomeno che abbiamo già incontrato più volte, i grammatici tradizionali non erano consapevoli di quanto la loro costruzione dipendesse dalla struttura di una particolare lingua. Come è indicato dal nome stesso di analisi logica, essi, idealizzando implicitamente la lingua latina, ritenevano che i «complementi» derivati dai casi latini2 identificassero le diverse funzioni logiche svolte dalle parole di una frase e avessero pertanto un valore assoluto. Finché l’analisi logica era usata come conoscenza propedeutica allo studio del latino, questa impostazione non poteva comportare alcun inconveniente. Le cose cambiarono nel Novecento per due ragioni. Innanzitutto si moltiplicarono, in Europa e in America, gli indirizzi di studio che non includevano il latino fra le materie 1

Vedi sopra, pp. 52-53. I complementi erano in numero maggiore dei casi latini perché, come abbiamo già notato, al caso ablativo corrispondevano più complementi, a seconda delle eventuali preposizioni usate in latino. Per esempio il «complemento di agente» era distinto dal «complemento di causa efficiente», perché il primo (usato per agenti animati) si traduceva in latino con l’ablativo preceduto dalla preposizione a o ab, mentre il secondo si traduceva con l’ablativo semplice. 2

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obbligatorie. Si pose allora l’esigenza didattica di costruire una vera analisi logica, cioè un’analisi che identificasse le diverse funzioni logiche svolte dalle parole indipendentemente dalle costruzioni della lingua latina o di qualsiasi altra lingua naturale. Inoltre questo nuovo indirizzo didattico era coerente con le tendenze della ricerca linguistica inaugurate dal famoso Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, pubblicato postumo nel 1916 sulla base di appunti delle sue lezioni, da cui si fa usualmente iniziare lo strutturalismo. Senza tentare di riassumere la complessa storia degli studi linguistici del Novecento, notiamone solo alcune caratteristiche generali. Mentre nell’Ottocento al centro delle ricerche in questo campo vi era stata la linguistica comparata, il cui principale risultato era stato la ricostruzione della famiglia delle lingue indoeuropee, nel corso del Novecento l’attenzione si è progressivamente spostata verso la linguistica generale, ossia lo studio teorico delle strutture di tutte le possibili lingue, inaugurato da de Saussure e, dopo di lui, affrontato soprattutto cercando di mutuare concetti dalle scienze «dure». Per alcuni decenni molti linguisti, seguendo lo strutturalista americano Leonard Bloomfield (1887-1949), avevano cercato di importare in linguistica metodi della fisica. Su questa tendenza, che dominò le ricerche americane negli anni Quaranta e Cinquanta, riportiamo il giudizio di Giulio C. Lepschy: Oggi queste posizioni sono generalmente screditate e non risulta ben chiaro come sia stato possibile che, per quasi tre decenni, i linguisti abbiano seriamente pensato di poter dire qualcosa di interessante sul linguaggio, e sui fenomeni psicologici a esso inestricabilmente pertinenti, in base a una impostazione quale sarebbe difficile immaginare più incongrua e disadatta all’oggetto studiato.3 3

Giulio C. Lepschy, La linguistica del Novecento, Bologna, il Mulino, 1992, p. 76.

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Certamente più interessanti erano state le ricerche del linguista francese, anch’egli strutturalista, Lucien Tesnière (1893-1954), che aveva iniziato come slavista, ma deve la sua fama soprattutto agli Éléments de syntaxe structurale, pubblicati postumi nel 1959. Tesnière vi fonda la grammatica valenziale, ispirata a concetti presenti in autori come Apollonio Discolo (II sec. d.C.) e Prisciano di Cesarea (VI secolo d.C.), ma presentata in un linguaggio tratto dalla chimica. La classica divisione dei verbi in transitivi e intransitivi viene sostituita infatti dal concetto di valenza, data dal numero di elementi linguistici che il verbo può aggregare. Per esempio, il verbo piovere ha valenza zero, mentre il verbo tradurre ha valenza quattro, in quanto si può indicare chi traduce, cosa traduce, da quale lingua e in quale lingua. (Si può però notare che, a differenza di quanto avviene in chimica, i nessi tra un verbo e i diversi elementi aggregati non sono affatto equivalenti fra loro.) Più spesso che dalla fisica e dalla chimica, la linguistica novecentesca ha attinto idee dalla matematica. Negli anni Settanta René Thom aveva cercato, per esempio, di applicare alla linguistica la topologia differenziale (e in particolare la sua teoria delle catastrofi, che abbiamo già incontrato),4 proponendo una strana «semantica topologica».5 Il fatto che una costruzione bislacca di questo tipo, che non aveva portato ad alcun risultato, avesse destato qualche interesse illustra bene lo spirito dell’epoca. In effetti Thom non era affatto isolato. Ai suoi tentativi di applicare buona matematica in ambiti, come la linguistica, in cui non poteva essere di alcun aiuto, corrispondeva la moda, diffusa tra molti studiosi di estrazione umanistica, di dare una vernice di «scientificità» ai propri scritti introducendo terminologie matematiche 4

Vedi sopra, p. 114. René Thom, Modèles mathématiques de la morphogénèse, Paris, Union générale d’éditions, 1974. I capitoli VI, VIII, IX, X, XI, XIII e XIV sono dedicati alle applicazioni della teoria delle catastrofi alla linguistica. 5

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senza conoscerne il significato. Per esempio, la filosofa e psicoanalista Julia Kristeva aveva inserito in lavori di linguistica stravaganti riferimenti a complesse teorie matematiche,6 e Jacques Lacan aveva creduto di matematizzare la psicoanalisi usando termini tratti dalla topologia differenziale.7 La speranza ingenua di poter inquadrare tutti i fenomeni linguistici in rigidi schemi esatti ed esaustivi è bene illustrata dalla fiducia con cui negli anni Cinquanta e Sessanta si pensava di poter costruire efficienti algoritmi in grado di tradurre automaticamente da una lingua all’altra. Alla metà degli anni Cinquanta, fra i giovani impegnati in progetti di traduzione automatica vi era Noam Chomsky (1928-), che avrebbe dominato la linguistica del secondo Novecento. Il suo primo libro importante, Syntactic structures, del 1957, traendo ispirazione anche dalla «Grammatica di Port Royal» del XVII secolo, contiene un tentativo di importare in linguistica i metodi della teoria delle comunicazioni e della teoria dei sistemi dinamici. Chomsky ha elaborato poi la grammatica generativa e la grammatica trasformazionale, cioè modelli formali di analisi della frase che hanno avuto molto successo tra i linguisti, ma non hanno portato a una soluzione completa del problema. Ecco come la situazione attuale è descritta da Giorgio Graffi: L’analisi della frase è un campo di studio ancora aperto, del quale le nozioni introdotte dall’analisi logica tradizionale costituiscono una premessa indispensabile: la linguistica moderna le ha sottoposte e continua a sottoporle a una revisione critica, ma finora le ha sempre assunte come punto di partenza.8

Gli sviluppi della linguistica novecentesca ricordano per vari aspetti i contemporanei sviluppi della matematica. Sono iniziati rompendo i rapporti con la tradizione risalente alla 6

J. Kristeva, Semeiotikê. Recherches pour une sémanalyse, Paris, Seuil, 1969. J. Lacan, The Languages of Criticism and the Sciences of Man, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 1970, pp. 186-200. 8 Giorgio Graffi, La frase: l’analisi logica, Roma, Carocci, 2015, p. 121. 7

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cultura classica; hanno ottenuto una gran messe di risultati (fra l’altro in fonologia e anche in linguistica comparata, nonostante questo settore attraesse una frazione sempre minore di studiosi);9 hanno però perseguito obiettivi ambiziosissimi (come i progetti di traduzione automatica e di analisi completa ed esaustiva delle frasi di tutte le lingue possibili), che possono ricordare il programma di Hilbert di autofondazione della matematica e che, come quello, si sono rivelati irrealizzabili. L’analogia si estende alla didattica: il distacco dall’analisi logica tradizionale portò prima a una sua crescita ipertrofica (la grammatica di Forestali, per esempio, elencava un’ottantina di complementi)10 e poi alla totale eliminazione di concetti come «complemento» e «analisi logica», sostituiti da complicati e oscuri schemi didattici basati sullo strutturalismo linguistico (che aveva chiari legami con il bourbakismo, le cui applicazioni alla didattica erano state altrettanto rovinose). A differenza di quanto accaduto in matematica, vi è stato per qualche tempo il tentativo di tornare semplicemente alla tradizione, a cui sembra essere infine seguito un atteggiamento più moderato che, come risulta dalle parole di Graffi, riconosce nell’analisi logica tradizionale (cioè nell’analisi basata di fatto sulla lingua latina) un punto di partenza da cui non è stato possibile prescindere ricorrendo a teorie astratte, come si è cercato di fare per più di un secolo, con pesanti conseguenze sulla didattica. Mentre infatti le moderne teorie sull’analisi della frase si avvicendavano, le competenze linguistiche degli studenti (e degli ex studenti) sono crollate. In Italia, in particolare, l’incapacità di diplomati e laureati di esprimersi e scrivere correttamente nella propria lingua materna è diventata un argomento di interesse mediatico, e neppure i tentativi di insegnare un po’ 9

Il calo di interesse per la linguistica comparata si è accompagnato alla costante diminuzione delle lingue conosciute dagli specialisti in linguistica generale, che può essere paragonata alla crescente divaricazione tra fisica teorica e fisica sperimentale. 10 P. Forestali, Dizionario grammaticale, Milano, Carroccio, 1964.

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di lingua italiana agli studenti universitari (italiani) hanno avuto risultati apprezzabili.11 Nella cultura classica si passava con continuità dagli studi che oggi diciamo linguistici alle altre discipline che si occupavano dei discorsi, ossia la retorica e la logica. Un aspetto importante dell’insegnamento della retorica, ossia dell’arte dell’argomentazione, consisteva nello sviluppo della capacità di esporre punti di vista contrapposti, padroneggiando le ragioni a favore e contro una tesi, come è documentato già dagli anonimi Discorsi Duplici (Δισσοὶ λόγοι), risalenti a circa il 400 a.C. Questa tecnica finì per essere considerata una disciplina a sé, la dialettica (che insieme alla grammatica e alla retorica formò il trivio), e rimase viva molto a lungo. Gli studenti delle scuole dei gesuiti la praticavano ancora sistematicamente, sembra con ottimi risultati.12 Abbiamo visto che dalla retorica, distillandone gli strumenti più efficaci, si era generata la logica.13 Come la geometria di Euclide, nata dalle argomentazioni sui disegni eseguibili con riga e compasso, non aveva mai tagliato i ponti con gli oggetti concreti da cui la teoria era stata astratta, così l’antica logica (etimologicamente «[arte] del discorso»), anche dopo gli sviluppi che avevano portato alla logica proposizionale,14 non aveva rotto i legami con l’analisi delle af11 Oggi, nel tentativo di far recuperare almeno ai futuri insegnanti di materie letterarie le lacune accumulate nella scuola dell’obbligo, sono stati istituiti corsi basilari di grammatica italiana in molti corsi di laurea (anche magistrali) in lettere. È però assai improbabile che chi ha «studiato» per tredici (o sedici) anni senza imparare la grammatica della propria lingua materna la apprenda in qualche mese all’università. 12 Si può dare un’idea del livello della formazione fornita dai gesuiti ricordando che Matteo Ricci (1552-1610), che aveva studiato prima nel collegio dei gesuiti di Macerata e poi a Roma al Collegio Romano (cioè nella massima istituzione educativa della Compagnia di Gesù), quando fu inviato come missionario in Cina assorbì così bene la cultura cinese da farsi riconoscere dagli intellettuali confuciani come uno di loro. Senza sottovalutare le eccezionali capacità personali di Ricci, credo che un simile risultato gli sarebbe stato impossibile se non avesse avuto una formazione culturale di base molto duttile. 13 Vedi sopra, p. 86. 14 Vedi sopra, p. 47.

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fermazioni esprimibili nella lingua naturale, come mostra l’ampia letteratura dedicata ai paradossi (che spesso sono di natura linguistica). L’idea, in entrambi i casi, era quella di partire dalle forme usuali di argomentazione, basate sull’osservazione, la lingua naturale e il buon senso, per poi affinarle e rafforzarle progressivamente, in particolare eliminando le ambiguità, isolando pochi punti di partenza su cui tutti fossero d’accordo e analizzando le forme migliori di deduzione, senza mai inseguire l’utopia di un metodo di validità assoluta che pretendesse di autofondarsi prescindendo da ogni forma di esperienza concreta. All’inizio del Novecento la logica matematica (o logica formale), che risaliva alla metà del secolo precedente e aveva reso obsolete le altre forme di logica, si sviluppò in stretto rapporto con il dibattito sulla crisi dei fondamenti che aveva investito la matematica, attirando anche matematici impegnati su temi centrali della propria disciplina (per fare un solo nome, ricordiamo Giuseppe Peano). Lo sviluppo successivo della logica, dopo la vasta eco suscitata dai risultati di Gödel (anche all’esterno degli ambienti in cui erano compresi nei loro aspetti tecnici), è invece uscito dal campo di interesse della grande maggioranza dei matematici e, nonostante qualche interazione con la teoria dell’informazione, l’ha resa sempre più una disciplina autonoma, di interesse pressoché esclusivo dei logici di professione. La retorica era stata nel frattempo quasi del tutto abbandonata. Nella didattica della prima metà del Novecento ne sopravviveva solo uno squallido brandello, consistente nell’apprendimento mnemonico dei nomi delle cosiddette «figure retoriche». Non stupisce che il termine «retorica» fosse usato quasi esclusivamente in senso dispregiativo. La crescente divaricazione tra gli sviluppi tecnici della logica e le forme di argomentazione usate da tutti coloro che non erano logici di professione portò alla fine degli anni Cinquanta a un tentativo di recupero della retorica. Nel 1958 Chaïm Perelman (che proveniva da studi di logica formale, ai quali aveva successivamente affiancato la teoria

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del diritto) e Lucie Olbrechts-Tyteca, studiosa di psicologia sociale, pubblicarono un testo che ebbe notevole risonanza e influenza: il Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica.15 Vi è un’importante differenza tra la retorica antica e quella qui proposta. Mentre tra le forme di argomentazione usate dagli oratori antichi era presente anche la dimostrazione, che anzi Aristotele aveva privilegiato in quanto unica irrefutabile, Perelman e Olbrechts-Tyteca, seguendo il percorso inverso, esclusero esplicitamente il metodo dimostrativo dalla loro «nuova retorica», ritenendolo utile solo in matematica. A loro avviso i logici, concentrandosi su procedimenti usati unicamente in un ambito specifico, avevano lasciato che in tutti gli altri settori la razionalità fosse abbandonata. In realtà i rapporti fra le argomentazioni retoriche e le dimostrazioni matematiche erano stati vivi a lungo. Quintiliano, per migliorare la qualità delle argomentazioni degli oratori (il cui scopo, a suo parere, è quello di ottenere dimostrazioni inconfutabili), consiglia loro lo studio della geometria;16 diciotto secoli più tardi lo studio degli Elementi di Euclide era ancora raccomandato per rafforzare le capacità argomentative dei giovani.17 Naturalmente nelle 15 Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, la nouvelle rhétorique, Paris, Presses universitaires de France, 1958. 16 Quintiliano, Institutio oratoria, I, X, 38. 17 Per esempio, nella relazione conclusiva dell’ispezione effettuata il 23 giugno 1877 dagli ispettori Giosuè Carducci e Francesco Rossetti al liceo Petrarca di Arezzo (conservata nel liceo) si consiglia la lettura diretta degli Elementi di Euclide con questa motivazione: «Perché noi crediamo che l’insegnamento liceale della matematica debba dare non dei matematici propriamente detti, ma piuttosto menti dallo studio matematico disciplinate e rafforzate al ragionamento, al quale scopo i libri d’Euclide furono giudicati meglio acconci». Pochi giorni prima, il 14 giugno 1877, Eugenio Beltrami, nella relazione conclusiva di un’analoga ispezione al liceo Galvani di Bologna, aveva affermato che «avuto riguardo al carattere della scuola liceale e al compito che in un liceo è assegnato alla matematica, sia da eliminare tutto ciò che ha carattere più tecnico che razionale, per esempio col dare negli esercizi una parte maggiore a quelli di geometria che a quelli analitici». Aveva poi disapprovato l’abbandono dello studio diretto di Euclide, scrivendo elegantemente che «lasciava al professore di constatare l’utilità e la legittimità della sostituzione dell’Amiot all’Euclide». Ricordiamo che Beltrami è ricordato dagli storici della matematica soprattutto per i suoi importanti contributi alle geometrie non euclidee.

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argomentazioni estranee alla scienza esatta, sviluppate per sostenere l’opportunità di una particolare scelta, non ci si può basare su postulati condivisi e non si può quindi «dimostrare» che l’opzione sostenuta sia la migliore, ma spesso è possibile, e anche molto utile, dimostrare che da certe scelte derivino determinate conseguenze. Una retorica totalmente purgata dalle argomentazioni razionali, ossia lo studio delle tecniche psicologiche di persuasione, era in realtà nata negli Stati Uniti sin dagli anni Venti, anche se sotto altro nome. Tra i suoi principali fondatori vi era stato il figlio di una sorella di Freud, emigrato con la famiglia da Vienna a New York: Edward Louis Bernays, autore di molte campagne pubblicitarie e consulente del comitato per la propaganda bellica del governo degli Stati Uniti durante la Grande Guerra. Il suo libro più influente, Propaganda, pubblicato nel 1928, inizia con la seguente affermazione: La manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica; coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese.18

Ecco qualche altro passo interessante: Il problema politico più grave della democrazia moderna è quello di far sì che i governanti possano operare in modo soddisfacente. Vox populi, vox Dei, il vecchio adagio ha ben presto contribuito a rendere gli eletti docili servitori del corpo elettorale. […] I sociologi più seri tuttavia non credono che la voce del popolo esprima una volontà divina o una particolare forma di saggezza e di pensiero elevato. Per fortuna la propaganda offre al politico abile e sincero uno strumento di qualità per modellare la volontà del popolo.19 18

Cito dalla traduzione italiana di Augusto Zuliani (Bologna, Fausto Lupetti editore, 2008), p. 25. 19 Ivi, p. 101.

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Non stupisce che scritti di Bernays, considerato uno dei principali fondatori delle PR, fossero utilizzati da Goebbels per le sue campagne.20 La ricerca degli strumenti di persuasione più efficaci in campagne unidirezionali, pubblicitarie o politiche, di cui si era occupato Bernays, è rimasta in tutto il Novecento la branca più rigogliosa, e di gran lunga più finanziata, fra quelle generate dalla tradizione dell’antica retorica, mentre lo studio delle tecniche argomentative utilizzabili in un dibattito (studio divenuto estraneo anche agli sviluppi della logica formale) ha attirato molto meno interesse. Pubblicità e propaganda, già uniti nell’attività di Bernays, sono divenuti poco distinguibili tra loro. La propaganda politica, a cominciare dagli Stati Uniti, è stata affidata sempre più ad agenzie pubblicitarie e si è modellata sugli schemi della pubblicità commerciale. La J. Walter Thompson, che per buona parte del Novecento è stata la principale agenzia pubblicitaria del mondo (gestiva, fra l’altro, la pubblicità di marchi come Kellogg’s, Kodak, Coca-Cola e Gillette), fu usata dal governo statunitense anche per la propaganda bellica in entrambe le guerre mondiali, e negli anni Cinquanta le fu affidato l’incarico di rendere più popolare la Nato tra gli alleati europei. Nel 2001 l’amministrazione Bush reagì agli attentati dell’11 settembre con una duplice azione: mentre portava la guerra in Afghanistan, allo stesso tempo stanziò un miliardo di dollari per una campagna diretta a promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo e in particolare nei paesi islamici. La campagna fu affidata a Charlotte Beers, che aveva diretto a lungo la J. Walter Thompson. Gli esiti furono deludenti: alla fine del 2003 un sondaggio rivelò che i giudizi positivi sugli Stati Uniti non solo erano rimasti estremamente rari nei paesi islamici, ma erano crollati anche fra gli alleati occidentali. (Nel frattempo Bush 20

Bernays scrive nella sua autobiografia di averlo saputo dal giornalista Karl von Weigand (ivi, p. 23).

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aveva mosso guerra anche all’Iraq e Charlotte Beers aveva rinunciato all’incarico.)21 La diffusione pervasiva di messaggi pubblicitari e propagandistici, dai quali sono quasi del tutto assenti forme di argomentazione razionale, ha dato un formidabile contributo al declino delle capacità argomentative diffuse. Razionali metodi scientifici sono invece usati dagli esperti autori delle campagne per valutarne l’efficacia. A questo fine, sempre più spesso ci si avvale oggi della collaborazione di neuroscienziati, in particolare facendo analizzare campioni di persone con raffinati sistemi di neuroimaging, cioè visualizzandone l’attività cerebrale indotta dai vari messaggi.22 Mentre un tempo l’uso di metodi scientifici per ottimizzare l’effetto delle campagne pubblicitarie era visto con comprensibile sospetto,23 oggi i convegni scientifici sul neuromarketing, anche quelli finanziati dai contribuenti, sono pubblicizzati con orgoglio. Anche se in qualche paese, come in Francia, nelle scuole secondarie si studiano tecniche argomentative, la ricaduta nella didattica delle scuole occidentali dei settori di cui abbiamo parlato è stata nel complesso modesta. In Italia negli anni Ottanta e Novanta, quando si credeva che fosse importante insegnare elementi di programmazione, vi era la tendenza a inserire nei corsi di matematica qualche nozione elementare di logica formale, mentre più o meno alla stessa epoca, seguendo l’onda lunga dell’interesse suscitato dal lavoro di Perelman e Olbrechts-Tyteca, diversi 21

V. De Grazia, Irresistible Empire, cit., p. 506. Su questo punto è particolarmente interessante leggere Marco Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, e in particolare i capp. 9 (Neuroni specchio e marketing) e 10 (Neuropolitica). In questi capitoli l’autore (che, prima di emigrare negli Stati Uniti, era stato un membro del gruppo di neuroscienziati, diretto da Rizzolatti, che ha scoperto i neuroni specchio) spiega a manager e politici con dovizia di esempi perché sia loro conveniente avvalersi di neuroscienziati nel progettare campagne pubblicitarie e politiche. 23 Ricordiamo la vasta risonanza che ebbe il libro-denuncia del 1957 di Vance Packard The Hidden Persuaders (tradotto in italiano con il titolo I persuasori occulti, Torino, Einaudi, 1958). 22

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insegnanti hanno provato a trattare tecniche argomentative nei corsi di italiano.24 Credo però che entrambe le esperienze (che non avevano avuto alcuna interazione fra loro) non abbiano prodotto grandi risultati. Continuano a essere pubblicati molti libri su questo tema,25 ma la loro ricaduta sulla pratica didattica mi sembra alquanto limitata. In sintesi, fra i settori sorti dalle analisi dei discorsi compiute da retorica e logica classiche, l’ultimo secolo ha visto un rapido estendersi, da una parte, di raffinate teorie di logica matematica note a pochissimi specialisti e, dall’altra, di sottili tecniche di marketing (incluse quelle, recenti, di neuromarketing) subite dalla totalità della popolazione. Nessuno di questi due sviluppi ha giovato alla diffusione delle capacità argomentative, che sono crollate, soprattutto negli ultimi decenni (come è evidente a chi, conservando qualche memoria del passato, ascolti, per esempio, un dibattito politico). Credo che per invertire la tendenza sarebbe importante recuperare dalla cultura classica l’antico stretto rapporto fra retorica, logica e tecniche dimostrative.

24 Tra le pubblicazioni che cercarono di trasferire a livello didattico il rinnovato interesse per le forme di argomentazione ricordo I pro e i contro, a cura di Adriano Colombo, Quaderni del Giscel, n. 11, Firenze, La Nuova Italia, 1992. 25 Un solo esempio: Adelino Cattani e Manuele De Conti, Didattica, dibattito, fallacie. E altri campi dell’argomentazione, Napoli, Loffredo, 2011.

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XVIII

LA CULTURA GIURIDICA

Analogamente a quanto accaduto in tutti gli altri settori della cultura europea, anche il pensiero giuridico, che per molti secoli si era basato in modo essenziale sulla tradizione del diritto romano, se ne è allontanato nel corso del Novecento. È stato un progresso, che ci ha affrancato da inutili retaggi del passato, oppure abbiamo perduto qualcosa? Consideriamo un esempio, che ritengo particolarmente importante. Nel Corpus juris civilis giustinianeo, e più precisamente nelle Institutiones, i beni sono divisi in quattro categorie: a) res divini juris; b) res communes omnium; c) res publicae; d) res privatae.

Le res divini juris, ossia i «beni di diritto divino», comprendevano oggetti di culto, come i templi, gli altari e le tombe, e anche le mura e le porte della città. Le res communes omnium, cioè i «beni comuni a tutti», erano a disposizione di chiunque, schiavi e stranieri inclusi. Appartenevano a questa categoria risorse naturali come l’aria, l’acqua che scorre nei fiumi, il mare e le coste. Le res publicae, ovvero i «beni pubblici», appartenevano al popolo romano; vi rientravano, in particolare, i terreni compresi nell’ager publicus, che includeva anche i letti dei fiumi (a differenza dell’acqua che vi scorre, che rientrava nella categoria precedente).

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Infine le res privatae, ovvero i «beni privati», erano quelli di proprietà di una persona. Solo questi erano commerciabili. Tutti gli altri beni erano extra commercium, non potevano cioè essere oggetto di compravendita. Neppure l’imperatore, che aveva a sua disposizione grandi risorse economiche, sia a titolo personale sia in ragione della sua carica, poteva disporre di alcun bene extra commercium, né, a maggior ragione, avrebbe potuto venderlo. La distinzione fra le diverse categorie di res era connessa con le diverse forme di diritto riconosciute dai romani: lo jus naturale, lo jus gentium e lo jus civile. Le «cose di tutti», ossia le res communes omnium, erano tali in base allo jus naturale, cioè al diritto di natura, che non dipendeva da scelte umane e secondo alcuni autori era condiviso anche dagli animali;1 nessuna legge avrebbe potuto pertanto cambiarne, appunto, la natura. Lo jus gentium era formato dalle norme ritenute comuni a tutti i popoli e quindi neanche esso, a differenza del moderno diritto internazionale (che pure in larga misura ne è stato derivato), era modificabile. L’imperatore e il senato intervenivano solo nell’ambito dello jus civile, emanando leggi che non potevano essere in contrasto con le norme proprie delle altre due forme di diritto. Un’importante caratteristica del diritto romano era quindi il riconoscimento di ambiti sottratti ai poteri economico e politico. Esistevano norme immodificabili, radicate in antiche tradizioni e vissute come «naturali», e beni non appropriabili da nessuno. Nonostante l’introduzione di molte modifiche, anche importanti, il diritto romano era stato in buona parte incorporato nei codici moderni. Per esempio, il codice civile italiano aveva conservato, in larga misura, sia la nozione di beni extra commercium sia l’individuazione di tali beni. Negli articoli 822 e 823, in vigore fino alla fine del secolo scorso, era infatti scritto: 1

Ulpiano, Institutiones, 1, 1, 1.

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Perché la cultura classica

Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia. I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili.

L’ideologia neoliberista attualmente dominante, che ha liberato il mercato da qualsiasi limite o regola e non concepisce beni che non siano merci, per imporsi ha dovuto operare una frattura con la tradizione del diritto romano. In Italia, forse proprio perché la tradizione romanistica era più radicata ed era durata più a lungo, la frattura è stata particolarmente violenta, come se i nostri politici volessero farsi perdonare il ritardo con cui si sono adeguati ai nuovi valori. Dopo il 2000 una serie di leggi ha infatti stravolto gli antichi princìpi, permettendo la privatizzazione dei lidi e dell’acqua corrente: due tipici beni che il diritto romano aveva considerato res communes omnium e le leggi moderne beni demaniali inalienabili.2 Anche le riserve auree dello Stato, che per il diritto romano avrebbero costituito un caso tipico di res publica, cioè di bene appartenente al popolo, sono state privatizzate in seguito alla privatizzazione delle banche che detengono la maggioranza del capitale della Banca d’Italia. L’antica idea (presente anche nel diritto greco)3 dell’esistenza di norme immodificabili, basate sul diritto naturale e sul consenso dei popoli, era entrata in crisi da tempo nella cultura occidentale, ma sopravviveva parzialmente nel riconoscimento, da parte di tutti gli Stati dell’Occidente, che l’attività legislativa dei parlamenti e i meccanismi elettorali dovessero seguire norme basate sul consenso generale e difficilmente modificabili. Nel Regno Unito, in assenza di 2

Su questo argomento è interessante leggere: Stefano Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, il Mulino, 2013; Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Roma, Donzelli, 2014. 3 Vedi sopra, p. 35.

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una costituzione scritta, non è previsto alcun sistema con cui si possano modificare le norme consuetudinarie. Negli altri paesi le complesse procedure necessarie per modificare le costituzioni (che prevedono, in particolare, maggioranze molto ampie) le rende notevolmente stabili. Anche da questo punto di vista il nostro paese è divenuto il più attivo nella direzione del cambiamento. Ormai sembra normale che il potere esecutivo possa prendere l’iniziativa di tentare di modificare la costituzione, e che all’approssimarsi di ogni elezione si approvi (o almeno si discuta) una nuova riforma della legge elettorale, scritta a vantaggio della maggioranza del momento. Continuando a considerare il caso dell’Italia, è evidente, più in generale, che nei decenni in cui si è prima indebolito e poi spezzato il rapporto con la tradizione romanistica il livello di civiltà giuridica del paese si è drasticamente abbassato, come si può verificare leggendo le leggi approvate dal parlamento e confrontandole con quelle di trenta o quarant’anni fa. Il punto più grave mi sembra il declino della capacità di astrazione. Un buon esempio è fornito dalla legge sul cosiddetto «omicidio stradale» (DDL 23 marzo 2016). In base alla nuova legge, un conducente brillo che con la propria auto provochi la morte di una persona sarà giudicato in modo molto più severo di chi, altrettanto brillo, uccida qualcuno azionando una qualsiasi macchina diversa da un motoveicolo. Comincia evidentemente a farsi strada la rozza idea che un omicidio non debba essere giudicato usando concetti come la premeditazione, il dolo, il dolo eventuale e altre categorie astratte, ma, più semplicemente, in base allo strumento materiale usato, aumentando le pene nel caso di strumenti che, per essere stati usati più spesso, hanno sollevato più allarme nell’opinione pubblica: un criterio che richiede certamente un minore impegno intellettuale e lascia intravedere l’estinzione definitiva di un’antica civiltà giuridica.

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XIX

LA STORIA

La cultura generale, anche se ci limitiamo ai settori di cui ci stiamo occupando, non può non includere qualche forma di cultura storica. Non è possibile, infatti, progettare il futuro senza una profonda comprensione del presente, che a sua volta non può non basarsi sulla conoscenza della genesi delle attuali strutture materiali, sociali e culturali, cioè sulla conoscenza del passato. Una conoscenza (vera o presunta) del passato recente e lontano ha fatto parte di tutte le culture umane, incluse quelle illetterate (che affidavano il compito alla memoria di specialisti). Narrazioni scritte delle vicende dell’umanità sin dalle loro origini apparvero in molte civiltà; le più antiche sono quelle mesopotamiche ed egizie, mentre la Genesi degli ebrei ci è particolarmente familiare. In nessuno di questi casi si può però parlare di «storia», poiché si trattava di ricostruzioni mitiche, con la funzione di rafforzare l’identità culturale e la compattezza ideologica della popolazione fornendo punti di riferimento condivisi. La stessa funzione è stata svolta anche dai poemi omerici. Una vera storiografia inizia solo nella civiltà greca classica,1 quando appare l’idea (incipiente in Erodoto e 1

Le cronache cinesi non possono essere considerate vere opere storiche, essendo relazioni ufficiali scritte da funzionari per ordine del potere centrale e non il risultato di ricerche di intellettuali indipendenti.

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compiuta in Tucidide) di ricostruire il passato mediante la ricerca e il vaglio di documenti e testimonianze; fra l’altro la nostra parola «storia» (come l’inglese history, più vicina all’originale greco) deriva dal titolo dell’opera di Erodoto Ἱστορίαι (il cui significato era «Ricerche»). In epoca ellenistica Eratostene affrontò anche il problema di datare con certezza gli avvenimenti passati, fondando su basi critiche la cronologia. Da allora la tradizione storiografica non si è mai interrotta. Nell’ultimo secolo la storiografia si è dotata di metodi di ricerca sempre più raffinati, che includono strumenti ausiliari forniti dalle scienze naturali ed esatte, e oggi la quantità di informazioni disponibili sul nostro passato ha raggiunto un massimo senza precedenti. Allo stesso tempo, però, le conoscenze storiche diffuse sono crollate a un minimo anch’esso senza precedenti. Non si tratta solo di un aspetto particolare della forbice che si è aperta in ogni campo tra la somma delle conoscenze disponibili e la cultura condivisa, ma anche dell’effetto di cause specifiche, interne alla disciplina. Fino alla metà del XX secolo tra gli storici occidentali vi era un vasto consenso su quali fossero le conoscenze che costituivano il contenuto della disciplina «storia». Alle poche nozioni allora disponibili sulla preistoria e la protostoria seguivano la storia pre-classica dell’Egitto, della Mesopotamia e di altre civiltà del Medio Oriente e poi quella dell’antichità greco-romana e dell’Europa medievale e moderna. Il resto del mondo, con la parziale eccezione dell’Islam medievale, entrava nella storia solo con la colonizzazione europea.2 Per storia di un paese si intendeva essenzialmente un’esposizione delle vicende politico-militari, arricchita di elementi di storia della cultura e dell’economia. 2

Un quadro di questa concezione della storia è offerto dalle autorevoli opere collettive edite dalla Cambridge University Press con i titoli di The Cambridge Ancient History, The Cambridge Medieval History e The Cambridge Modern History (anche nelle edizioni più recenti in cui al titolo si aggiunge un New).

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Le conoscenze realmente possedute dalle «classi colte», ossia da chi aveva frequentato un liceo, erano centrate sulla propria storia nazionale e comprendevano una parte del quadro precedente, di estensione molto variabile da paese a paese. La tradizione italiana si distingueva in positivo, poiché la brevità della storia nazionale successiva all’unificazione politica lasciava molto spazio all’antichità classica e all’Europa nel suo insieme. All’estremo opposto vi era la prassi statunitense, che, dopo aver lasciato cadere la passione per il mondo classico che abbiamo visto in Jefferson e che era ancora viva nel XIX secolo,3 nella prima metà del Novecento aveva finito con il ridurre le conoscenze storiche insegnate in gran parte delle scuole essenzialmente alle vicende degli Stati Uniti, a partire dalla Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Nella seconda metà del Novecento il quadro precedente è crollato. La perdita di peso politico dell’Europa, la cattiva coscienza degli ex colonialisti seguita alla decolonizzazione e il processo di rapida globalizzazione hanno innanzitutto reso palese l’inadeguatezza dell’eurocentrismo della storiografia tradizionale. La critica si è poi estesa, con qualche eccesso, a ogni storiografia che privilegiasse particolari regioni. Gli studiosi che si occupavano della rivoluzione urbana, per esempio, sono stati accusati di mesopotamocentrismo, e alcuni hanno anche pensato che fosse ingiusto dare particolare peso alla civiltà greca, che sarebbe stata poco originale, limitandosi a trasmettere idee africane e asiatiche.4 Si è diffusa l’idea che la storia fosse costituita da un enorme numero di «storie», largamente indipendenti tra loro, tutte di eguale valore e significato, relative a ciascun popolo 3

Vedi sopra, pp. 27-28 e p. 107. L’esempio più noto di questa tendenza è fornito dal libro di Martin Bernal Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick, Rutgers University Press, 1987-2006. Per una critica alle tesi di Bernal si può leggere Mary R. Lefkowitz, Guy MacLean Rogers (a cura di), Black Athena revisited, Chapel Hill (ca), University of North Carolina Press, 1996. 4

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della Terra. Inoltre, storici tradizionali, etnologi, paleoantropologi, archeologi, filologi, studiosi di storia orale e altri specialisti aumentavano enormemente la quantità di informazioni disponibili sul passato, anche perché le ricerche si sono estese a molti ambiti trascurati dalla storiografia tradizionale, come la tecnologia e la vita quotidiana delle persone comuni. A questo punto il concetto di «storia» appariva disintegrato in un enorme ammasso di informazioni, non dominabile da menti umane. Allo stesso tempo Michel Foucault e altri esponenti del postmodernismo, abbracciando un totale relativismo, hanno attaccato il pensiero storico tradizionale anche sul piano metodologico, sostenendo l’impossibilità di stabilire verità storiche, l’inadeguatezza della «razionalità occidentale» e l’impossibilità di tracciare un confine tra opere storiche e narrazioni fantasiose.5 Si rischiava di rendere paradossalmente l’epoca contemporanea (che aveva accumulato una massa di informazioni storiche senza precedenti) l’unica con una cultura condivisa del tutto priva di conoscenze sul proprio passato. L’esigenza di costruire una nuova sintesi storica da trasmettere alle future generazioni è divenuta così ineludibile. Si è tentato di soddisfarla in vari modi. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in analogia con le tendenze affermatesi in linguistica,6 si diffuse tra gli archeologi la cosiddetta processual archaeology, che tentava un approccio «scientifico», nel senso delle scienze esatte, alla storia di lungo periodo. L’idea era di considerare i singoli sviluppi storici delle popolazioni umane in modo analogo a esperimenti effettuati da fisici o biologi, cioè come casi particolari utili per estrarne le leggi ge5

Per un’esposizione di queste tendenze e un tentativo di reazione si può leggere Keith Windschuttle, The Killing of History. How Literary Criticism and Social Theorists are Murdering our Past, New York, The Free Press, 1996. 6 Vedi sopra, pp. 173 sgg.

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nerali dell’evoluzione umana, sulle quali si sarebbe dovuta concentrare l’attenzione degli studiosi. La storia si sarebbe potuta così trasformare da disciplina descrittiva a scienza esatta (o quasi).7 I cultori della processual archaeology avevano creduto di identificare la principale legge dell’evoluzione delle società umane nel progressivo aumento della loro complessità. Si sarebbe trattato di un caso particolare di un comportamento condiviso da un’ampia classe di sistemi non isolati, dalla biosfera alle galassie a vari sistemi fisico-chimici, che avrebbero tutti rispettato un presunto principio generale dell’allora nascente teoria della complessità.8 Nel caso della preistoria e protostoria, in particolare, tutte le società umane, seguendo ineluttabili leggi deterministiche, avrebbero attraversato successivamente gli stessi stadi, costituiti nell’ordine da bande, tribù, chiefdom (ossia organizzazioni sociali dotate di un «capo» e ranghi sociali differenziati, ma senza strutture amministrative permanenti) e «chiefdom complessi», per approdare infine alla formazione di Stati. Questi studiosi volevano analizzare l’evoluzione delle società verso la formazione di Stati con metodi modellati su quelli usati dai biologi in laboratorio, cioè «in vivo» e in assenza di perturbazioni esterne. Privilegiarono perciò lo studio di moderne società isolate, scegliendo per esempio isole del Pacifico. Il principale difetto di questa impostazione è illustrato efficacemente da Mario Liverani: 7

Un’esposizione programmatica della processual archaeology è in Patty Jo Watson, Steven A. LeBlanc e Charles L. Redman, Explanation in Archaeology: An Explicitly Scientific Approach, New York, Columbia University Press, 1971. Per una storia e una dura critica di questo indirizzo si possono leggere: Norman Yoffee, Myths of the Archaic State. Evolution of the Earliest Cities, States and Civilizations, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2005, e Philip L. Kohl, The Making of Bronze Age Eurasia, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2007, pp. 1-8, ai quali si rimanda anche per una bibliografia sull’argomento. 8 A questo «principio» (mai enunciato in termini rigorosi) fu dato il nome di «secondo principio della complessità», non perché nella presunta teoria della complessità fosse presente un «primo principio», ma per richiamare il fondamentale secondo principio della termodinamica, che prevede il comportamento opposto per sistemi isolati.

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Un panorama mondiale come quello messo insieme da Claessen e Skalnik nel 1978 opera su un’impressionante molteplicità di casi di studio che però sono quasi tutti moderni, sospettati di secondarietà (cioè di nascere per influenza e sul modello di esperienze precedenti), mentre vistosamente mancano proprio quei casi che avevano fatto la storia del problema nel corso del secolo e mezzo di riflessioni e di ricerche sulla questione. In questo modo – come è stato già notato da Norman Yoffee – l’origine dello Stato viene di fatto studiata su una campionatura di casi dei quali positivamente sappiamo che non hanno dato origine allo Stato!9

Nel corso degli anni Ottanta la processual archaeology si estinse sotto il peso dei suoi insuccessi e delle critiche ricevute. Un altro tentativo di nuova sintesi storica, in parte convergente con il precedente ma certamente più interessante, è venuto dagli antropologi. Nel 1989 l’antropologo Marvin Harris scriveva: La scoperta che moltissimi studenti non sanno riconoscere i confini del loro paese su una cartina muta, o dire con chi era alleata la Russia durante la seconda guerra mondiale, ha provocato accesi dibattiti riguardo a ciò che ognuno deve sapere per essere considerato una persona colta. […] Come antropologo credo che il primo compito di qualunque moderna riforma educativa sia impartire una prospettiva comparativa, globale ed evoluzionistica, di quello che è la nostra specie e di ciò che possiamo o meno aspettarci dalle nostre culture. […] Ha senso conoscere la storia di alcuni Stati, ma non sapere nulla sull’origine dello Stato? È utile studiare le guerre combattute da un paese senza sapere nulla della guerra in generale?10

In vari libri di successo11 Harris ha spiegato in termini antropologici e naturalistici l’introduzione dei sacrifici umani, il formarsi dello Stato e delle cosiddette «civiltà idrauliche» 9

Mario Liverani, Uruk, la prima città, Bari, Laterza, 1998, pp. 10-11. Marvin Harris, La nostra specie, trad. it. Milano, Rizzoli, 1991, pp. 7-8. 11 Oltre al libro menzionato nella nota precedente ricordiamo (cito ancora l’edizione italiana) Cannibali e re. Le origini delle culture, Milano, Feltrinelli, 1979. 10

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(in Egitto, Mesopotamia e nella valle dell’Indo), l’origine del capitalismo, la rivoluzione industriale e altre importanti svolte della storia. Tra gli studiosi che si sono mossi nella stessa direzione, il massimo successo di pubblico è stato riscosso da Jared Diamond: un naturalista (per la precisione ornitologo) divenuto prima antropologo culturale e poi studioso di storia globale. Diamond ha attribuito, fra l’altro, i diversi percorsi storici delle popolazioni dell’Eurasia e delle Americhe a ragioni geografiche e naturalistiche,12 e i numerosi collassi di civiltà umane a cause ecologiche.13 Egli ha così proposto una nuova sintesi, valida per tutto il genere umano, che, trascurando dettagli come le date e gli avvenimenti usualmente considerati essenziali dalla storiografia, offre una spiegazione «scientifica» dei principali fenomeni storici. Dal nostro punto di vista, la sua opera più significativa è probabilmente il recente Il mondo fino a ieri,14 dove la contemporanea società occidentale è confrontata direttamente con le popolazioni di cacciatori-raccoglitori nomadi, dette «società tradizionali».15 L’idea suggerita implicitamente è che le differenze siano riconducibili in sostanza alla moderna tecnologia sviluppata in Occidente dopo la rivoluzione industriale. Nel programma di riduzione della storia ad antropologia vi sono certamente alcune idee vincenti. In primo luogo quella di allargare gli orizzonti temporali, spostando il centro dell’attenzione dagli eventi delle singole storie na12

J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, trad. it. Torino, Einaudi, 1998. J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, trad. it. Torino, Einaudi, 2005. 14 J. Diamond, Il mondo fino a ieri, trad. it. Torino, Einaudi, 2013. 15 Anche se Diamond parla spesso di «società occidentali», in realtà con questo termine intende soprattutto le società anglofone. Gli occidentali non anglofoni sono infatti più volte associati alle «società tradizionali» dei cacciatori-raccoglitori. È quanto fa, per esempio, a p. 221 per le popolazioni dell’Italia meridionale e messicane (riguardo al rispetto tributato agli anziani, condiviso anche dai coreani) e a p. 350 per gli israeliani (riguardo alla loro devozione religiosa). 13

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zionali a svolte che interessino tutta l’umanità, come l’origine della stessa cultura umana o di fenomeni come la guerra e lo Stato. Inoltre è senz’altro giusto sottolineare l’importanza di elementi di tipo naturalistico, come la rottura di equilibri ecologici, spesso sottovalutati dalla storiografia tradizionale. Il limite di questa impostazione, a mio parere, è nella sottovalutazione della storia della cultura, vista implicitamente come un semplice epifenomeno della base naturalistica, un po’ come certi marxisti di una volta la consideravano una sovrastruttura determinata in modo più o meno meccanico dalle strutture economiche. La cultura umana dipende certo fortemente dalle condizioni naturali ed economiche, ma ha anche una sua complessa storia, non riconducibile esclusivamente a tali condizionamenti, sviluppatasi quasi del tutto in quell’intervallo, che Diamond salta a piè pari, tra il paleolitico, in cui ancora vivono le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, e la civiltà contemporanea. In tale enorme arco di tempo si sono formati, fra l’altro, tutti i nostri strumenti culturali (scientifici, storiografici e anche antropologici), che possono essere usati in modo critico e consapevole solo conoscendone la genesi e la storia. Non è quindi certo possibile ridurre la storia a pura antropologia. Probabilmente non è un caso se Harris, Diamond e gli altri studiosi che hanno condiviso la loro impostazione sono quasi tutti statunitensi. Vedere come passato della storia contemporanea direttamente le culture di cacciatori-raccoglitori nomadi è più naturale per uno statunitense dei nostri tempi, abituato dagli anni di scuola a conoscere, da una parte, la propria storia nazionale dal 1776 in poi e, dall’altra, le culture degli indiani d’America, che non per chi (come un europeo, un indiano o un cinese) sia consapevole di avere alle proprie spalle millenni di sviluppo culturale. Mi sembra che oggi si cominci a intravedere una nuova sintesi degli studi storici alla quale gli studiosi di formazione antropologica apportano elementi importanti: in primo luogo il progetto (giustificato dagli enormi progressi realizzati negli ultimi decenni da paleoantropologi e archeo-

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logi) di considerare la storia umana su una scala di tempi più lunga di quella usata finora.16 Anche se la storia di lungo periodo certamente non rispetta leggi deterministiche del tipo immaginato dai cultori della processual archaeology, se ne possono individuare alcune caratteristiche generali. La più importante è probabilmente la presenza di quelle discontinuità nello sviluppo storico che sono state chiamate «rivoluzioni». La prima a essere individuata, già nella prima metà dell’Ottocento, fu la rivoluzione industriale; Vere Gordon Childe (1892-1957) elaborò poi nel 1937 i concetti di rivoluzione neolitica e rivoluzione urbana. Anche se in seguito alcuni storici hanno preferito parlare di «transizioni», temendo che la parola «rivoluzione» evocasse processi troppo rapidi, il termine continua a essere usato, in quanto si riferisce a processi effettivamente rapidi rispetto alla scala dei tempi coinvolta; per esempio, la «rivoluzione urbana» si è svolta nell’arco di qualche secolo: un tempo breve rispetto ai millenni di permanenza delle società neolitiche precedenti e di quelle urbane successive. Analogamente, in biologia i processi di speciazione possono essere descritti come discontinuità in quanto brevi rispetto alla durata media della vita di una specie. In epoca più recente sono state proposte almeno altre due «rivoluzioni»: quella che, intorno a 40.000 anni fa, portò al paleolitico superiore (detta a volte Grande Balzo in Avanti) e quella avvenuta nel V millennio a.C., che affiancò ai prodotti primari (vegetali esistenti in natura, carne e latte) i prodotti secondari, ottenuti con procedimenti di trasformazione 16 È appena il caso di accennare alla tendenza inversa, di chi ha ridotto il peso della storia antica nella didattica, nella convinzione ingenua che gli avvenimenti fossero tanto meno interessanti quanto più lontani nel tempo. Andò in questa direzione la riforma dei programmi di storia decretata in Italia nel 1996 dal ministro Berlinguer, che per introdurre (come era doveroso fare) la storia più recente, invece di riorganizzare, come sarebbe stato logico, la materia relativa agli ultimi tre o quattro secoli, dimezzò lo studio della storia antica, lasciando sostanzialmente inalterati i tempi dedicati alle epoche successive.

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come la metallurgia, l’ibridazione di piante diverse, l’uso del lievito e della fermentazione alcolica e la lavorazione del latte per ottenerne prodotti caseari.17 Luigi Luca Cavalli Sforza scrive: Oggi cominciamo a capire meglio l’evoluzione culturale e anche il suo procedere per balzi.18

Le «rivoluzioni» appena citate hanno avuto un carattere progressivo, se non altro nel senso che hanno provocato una crescita della complessità delle civiltà coinvolte. Nella storia (in analogia con l’evoluzione biologica, che comporta non solo la nascita, ma anche la morte delle specie) sono però avvenuti anche molti «balzi all’indietro», spesso detti collassi. Per esempio la prima urbanizzazione, guidata dalla città di Uruk, finì con un tracollo che ridusse tutti gli insediamenti al livello di villaggio,19 e un collasso simile segnò la fine dell’età del bronzo. Oltre al loro procedere entrambe per balzi in entrambi i versi, vi sono probabilmente altre analogie tra l’evoluzione biologica e la storia umana. Sappiamo che sia il genere Homo sia la specie H. sapiens, come tutti gli altri generi e specie, si sono formati una sola volta, come risultato di una serie di eventi contingenti a priori impredicibili.20 Secondo una scuola di pensiero con autorevoli sostenitori, anche la vita avrebbe avuto un’origine dello stesso genere.21 Può dirsi lo stesso 17 La trasformazione del V millennio è illustrata in David Wengrow, What Makes Civilization?, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 54-65. Questa «rivoluzione», aumentando di molto la varietà dei prodotti, rese convenienti specializzazioni locali e commercio a lunga distanza, creando i presupposti per la successiva rivoluzione urbana. 18 L.L. Cavalli Sforza, op. cit., p. 6. 19 M. Liverani, Antico Oriente: storia, società, economia, cit., pp. 539-565. 20 Un libro che sottolinea questo aspetto sin dal titolo: Gianfranco Biondi e Olga Rickards, Uomini per caso. Miti, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva, Roma, Editori Riuniti, 2003. 21 Vedi, per esempio, Pier Luigi Luisi, Sull’origine della vita e della biodiversità, Milano, Mondadori Università, 2013, pp. 23-28. La tesi opposta è in Eric Smith e Harold J. Morowitz, The Origin and Nature of Life on Earth. The Emergence of the Fourth Geosphere, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2016.

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per i «balzi» dell’evoluzione storica o almeno per alcuni di essi? La rivoluzione industriale, che è la «rivoluzione» più vicina e meglio conosciuta, è certamente un evento unico. La rivoluzione urbana del Vecchio Mondo, che un tempo si riteneva fosse avvenuta almeno tre volte indipendentemente, nella Bassa Mesopotamia, in Egitto e nella valle dell’Indo, dopo i ritrovamenti archeologici dell’ultimo mezzo secolo (che hanno portato alla luce importanti città in Iran e nell’area siro-palestinese) appare interessare un’unica grande regione connessa, già da tempo percorsa da rotte commerciali, che dall’Egitto si estende fino alla valle dell’Indo.22 Più in generale, mentre il tentativo di analizzare le tante storie ritenute indipendenti delle società umane per scoprirne le leggi comuni si è risolto in un fallimento, le ricerche recenti mostrano che un’altra caratteristica importante della storia umana di lungo periodo è la presenza, sin dalla più lontana antichità, di interazioni a lunga distanza che lasciano intravedere la possibilità di costruire una storia almeno in parte unitaria. Per esempio, è sempre più chiara la funzione di mediazione culturale tra la Cina e il Medio Oriente svolta sin da tempi antichissimi dalle culture delle steppe.23 David Anthony scrive: Tra circa il 2300 e il 2000 a.C. le forze del commercio e della conquista cominciarono a stringere insieme le parti più remote del Vecchio Mondo in un solo sistema interagente.24

Anche la possibilità di antiche interazioni tra Vecchio e Nuovo Mondo, finora sempre scartata, è stata riproposta sulla base di nuovi argomenti.25 22

D. Wengrow, What Makes Civilization?, cit., pp. 90-91; L. Russo, L’America dimenticata, cit., pp. 15-38. 23 Philip L. Kohl, The Making of Bronze Age Eurasia, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2007; Michael D. Frachetti e Lynne M. Rouse, «Central Asia, the Steppe, and the Near East, 2500-1500 B.C.», in D.T. Potts (a cura di), A Companion to the Archaeology of the Ancient Near East, Hoboken, Wiley-Blackwell, 2012, pp. 687-705. 24 David W. Anthony, The Horse, the Wheel, and Language: How Bronze-Age Riders from the Eurasian Steppes Shaped the Modern World, Princeton, Princeton University Press, 2007, p. 412. 25 L. Russo, L’America dimenticata, cit.

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Si può immaginare che nel futuro la cultura storica, accogliendo gli stimoli provenienti da antropologi e archeologi, darà maggiore spazio alla storia di lungo periodo, privilegiando quelle discontinuità che, rendendo possibile l’attuale civiltà globalizzata, sono nel passato di tutta l’umanità. Occorre però rifiutare il determinismo naturalistico e riconoscere una parziale autonomia allo sviluppo culturale, che oltre a essere influenzato dalle condizioni materiali è anche capace, a sua volta, di modificarle profondamente, come è avvenuto sempre e come oggi è reso particolarmente evidente dalla nostra potente tecnologia basata sulla scienza. Fra le due ultime «rivoluzioni» individuate, quella urbana e quella industriale, si svolge quasi tutta la storia, nel senso tradizionale del termine. Senza affrontare il problema generale di come realizzarne una sintesi accettabile in un mondo globalizzato, possiamo chiederci se in questo arco di tempo, che copre più di cinque millenni, sia individuabile qualche discontinuità meritevole del termine «rivoluzione» allo stesso titolo di quelle già ricordate, sulla quale concentrare l’interesse. Salta allora all’occhio la profonda trasformazione culturale, avvenuta nel mondo greco ed ellenistico, che, creando tra l’altro la filosofia, la scienza, la tecnologia scientifica,26 il pensiero politico e la storiografia, ha reso possibile la civiltà attuale. Una volta si parlava di «miracolo greco», ma questa espressione, che alludeva a un evento unico collegandolo all’etnia dei suoi protagonisti, è stata criticata e abbandonata, anche perché non è difficile rintracciare in civiltà precedenti i presupposti dello sviluppo culturale greco, sottraendogli ogni aspetto miracolistico. Se però si abbandona ogni riferimento etnico (fra l’altro, come abbiamo già notato, un importante contributo alla civiltà ellenistica è venuto da intellettuali di origine non greca), non dovrebbero esservi difficoltà nel classi26

Per qualche elemento della tecnologia scientifica ellenistica, vedi sopra, pp. 96-97. Un’esposizione più ampia è in L. Russo, La rivoluzione dimenticata, cit., pp. 123-168.

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ficare l’evento di cui stiamo parlando non certo nel genere dei «miracoli», ma, più semplicemente, come uno dei «balzi» o «rivoluzioni» che hanno punteggiato la storia umana. Solo studiando questa particolare rivoluzione potremo conoscere veramente la nostra civiltà, che non differisce da quella degli indigeni dell’Amazzonia solo per la potenza della tecnologia, ma anche per la scienza che l’ha resa possibile, e gli altri strumenti culturali che ci hanno permesso, fra l’altro, di studiare le culture amazzoniche meglio di come quegli indigeni avrebbero potuto studiare la nostra.

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EPILOGO

È giunto il tempo di tirare le fila dei discorsi svolti finora, sintetizzando ciò che è accaduto nell’ultimo secolo al nostro rapporto con la cultura classica e cercando di immaginare qualche possibile scenario per il futuro. Nel mondo occidentale tutti i settori della cultura, dalla scienza alla letteratura, dalla musica alle arti figurative, dal pensiero politico alla filosofia, hanno attinto elementi essenziali dalla civiltà greca, nella quale la cultura era fondamentalmente unitaria: i vari ambiti erano connessi tra loro da mille legami, di cui abbiamo potuto dare solo qualche esempio, e un intellettuale poteva dominarli tutti. Ecco perché gli studi classici hanno potuto fornire a lungo alla formazione di alto livello una base comune di cui oggi si sente la mancanza. Nel 1902 il grande filologo Ulrich von Wilamowitz-­ Moellendorff (1848-1931), coadiuvato da una commissione di esperti nominati dal ministero della Cultura del Regno di Prussia, pubblicò un libro di Letture greche1 a uso delle scuole, che spaziava in tutte le discipline. Luciano Canfora, ricordando quell’impresa, ha scritto fra l’altro: 1

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Griechisches Lesebuch, 2 Baende in 4 Halbbaenden, Berlin, 1902. Trad. it. Letture greche, ridotte a uso delle scuole italiane per cura di C.O. Zuretti, 2 voll., Milano-Palermo-Napoli, 1905.

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Già nella «Filologia e riforma scolastica» [di Wilamowitz] si trova un pensiero guida, che si troverà a fondamento delle Letture greche: la conoscenza del mondo greco in tutti i suoi aspetti, letterari, filosofici, politici e scientifici, non tanto come disciplina in sé ma piuttosto come punto di partenza verso le diverse discipline. Allo stesso modo vi si trova la conseguente polemica contro la [citazione diretta di Wilamowitz] «accecante assurdità che la scuola debba servire a introdurre nello spirito dell’antichità. Come se l’antichità avesse avuto un singolo spirito, come se gli scrittori da leggere a scuola avessero tutti lo stesso spirito…».2

Dopo la cesura provocata dalla prima guerra mondiale, le idee di Wilamowitz sono state pesantemente sconfitte e la conoscenza del mondo classico si è concentrata quasi esclusivamente in chi l’ha scelta come proprio settore di specializzazione (la principale parziale eccezione è forse costituita dai pochi italiani che ancora frequentano il liceo classico per poi proseguire gli studi in direzione diversa). D’altra parte i tentativi di sostituire la funzione svolta tradizionalmente dalla cultura classica con le nuove costruzioni unificanti che abbiamo ricordato, dallo strutturalismo alla teoria della complessità, sono tutti falliti. La cultura generale, rimasta priva di qualsiasi base unitaria, ha subito un crollo che ha abbassato a livelli un tempo inconcepibili anche le conoscenze delle élite. Jefferson non avrebbe certo mai sospettato che dopo due secoli un suo successore potesse avere il livello culturale di Trump. Uno degli effetti della rottura con la tradizione classica è stata la diffusione dell’idea di poter creare dal nulla una serie di teorie di validità universale senza rapporto con le esperienze concrete:3 la matematica bourbakista, le teorie di linguistica generale fondate su basi matematiche, la fisica teorica aprioristica rispetto ai dati sperimentali e le teo2

Luciano Canfora, «Wilamowitz und die Schulreform: das “Griechische Lesebuch”», in Wilamowitz nach 50 Jahren, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985, pp. 632-648. 3 Per la distanza di quest’idea dalla cultura classica, vedi sopra, pp. 177-178.

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rie «scientifiche» della storia che volevano trovare le leggi generali dell’evoluzione delle società umane prescindendo dall’esame della storia reale. Il fatto che nessuno di questi tentativi abbia mai raggiunto il suo obiettivo costituisce un aspetto importante della crisi culturale iniziata nel Novecento. Nella Parte seconda del libro ci siamo occupati solo delle conoscenze «utili», come quelle scientifiche, linguistiche e storiche, ma l’opinione che negli ultimi cento anni anche settori della cultura come la musica e le arti figurative siano entrati in crisi è condivisa da molti. I vari ambiti della conoscenza, pur espandendosi ancora a velocità crescente, sono divenuti incapaci di connettersi fra loro, come rami di un albero privato del tronco, e spesso hanno perso anche il contatto con il proprio fondamento concettuale. In medicina, per esempio, mentre le singole specializzazioni continuano a svilupparsi ottenendo molti nuovi risultati, soprattutto grazie ai progressi della tecnologia, il diradarsi dei bravi medici generalisti spinge sempre più pazienti ad abbandonare la «medicina occidentale» per affidarsi a una delle tante «medicine alternative», e gli stessi medici si convertono in numero crescente (e con crescente successo) o ad antiche credenze estranee alla tradizione scientifica (come le medicine tradizionali cinese o tibetana) oppure, con una scelta ancora meno difendibile, a moderne dottrine create dal nulla da fantasiosi eterodossi: dalla medicina antroposofica all’omeopatia, dai «fiori di Bach» alla «nuova medicina germanica». Anche in questo campo i tentativi di difendere la razionalità scientifica sembrano essersi ormai arresi alle inesorabili leggi del mercato. Due elementi tratti dalla cultura classica che molti consideravano definitivamente acquisiti (spesso dimenticandone anche l’origine) hanno oggi un futuro che ottimisticamente può dirsi incerto: il metodo della scienza esatta (minato, come abbiamo visto, dalla doppia crisi del metodo dimostrativo e del rapporto fra teorie e fenomeni) e la democrazia (un istituto nato nelle póleis greche che probabilmente alla lunga non ha sopportato il trapianto negli enormi Stati moderni).

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Vi è un’evidente relazione tra la crisi culturale dell’Occidente e il suo declino politico ed economico. La condanna del colonialismo non deve impedirci di riconoscere che la capacità della Gran Bretagna di conquistare e controllare il proprio impero era dovuta anche alla cultura della sua classe dirigente. Ricordiamo, per fare un solo esempio, l’abilità con cui ancora all’inizio del Novecento Thomas Edward Lawrence (reso popolare dal film di successo Lawrence d’Arabia) riuscì a farsi accettare dalle tribù arabe suscitando, guidando e usando il loro nascente nazionalismo in funzione antiottomana a vantaggio del proprio paese. (Notiamo incidentalmente che Lawrence, uomo di vasta cultura, era anche archeologo e fra l’altro aveva tradotto l’Odissea dal greco in inglese.) Inversamente, nell’ultimo mezzo secolo l’impressionante serie di insuccessi della politica estera degli Stati Uniti (che hanno sostituito il vecchio colonialismo con forme nuove di imperialismo) dipende certamente in misura notevole dal deficit culturale di politici e diplomatici. La comprensione delle situazioni politiche e sociali dei vari paesi, necessaria per prevederne gli sviluppi e inserirsi nel gioco delle forze locali, richiede infatti cultura, che non si è mostrata sempre sostituibile con raffinate tecniche di marketing.4 Allo stesso tempo la perdita dell’egemonia scientifica ha rapidamente annullato la superiorità dell’Occidente sul piano tecnologico, ponendo le premesse per la fine del primato economico. Le considerazioni svolte nei capitoli precedenti mostrano che, se si volesse invertire la tendenza alla disgregazione della cultura ricostruendone una solida base unitaria, non sarebbe possibile prescindere dalla cultura classica. L’idea di Wilamowitz di vederla non come settore specialistico, ma come terreno comune a tutti i settori è ancor più valida oggi, grazie alle tante ricerche compiute nel frattempo, che non solo permettono una ricostruzione del pensiero classico significativamente più ricca di quella realizzabile 4

Vedi sopra, pp. 181-182.

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nel primo Novecento, ma lasciano intravedere la possibilità di un rapporto completamente nuovo con quel passato. Per molti secoli la cultura occidentale si è sviluppata usando materiali intellettuali tratti dalla civiltà classica, ma senza averne piena consapevolezza. Molte idee antiche sono state assorbite indirettamente, in genere in maniera deformata, come sottoprodotto di studi intrapresi a tutt’altro scopo. Abbiamo visto, per esempio, che opere matematiche come gli Elementi di Euclide, studiate per i risultati tecnici che contengono, hanno assuefatto gli studiosi moderni a elementi essenziali del metodo scientifico, che, pur rimanendo a lungo incompresi, hanno finito con l’imporsi (almeno finché il rapporto diretto con i classici non è venuto meno). Analogamente l’analisi logica, derivata dalle grammatiche antiche come strumento didattico per insegnare il latino, ha fornito come sottoprodotto involontario un utile strumento di analisi delle lingue moderne, che non siamo stati in grado di sostituire in modo didatticamente efficace quando è venuto meno come effetto imprevisto della fine dello studio delle lingue classiche (con il conseguente crollo delle competenze linguistiche diffuse). Oggi potremmo porci l’obiettivo di far tesoro delle esperienze passate, evitando di occultare le influenze della civiltà classica sulla nostra e acquistandone piena consapevolezza. Solo così saremo liberi di decidere in che modo usare il prezioso patrimonio di idee proveniente dal mondo antico. È immaginabile un’inversione di tendenza, che permetta la realizzazione di questo obiettivo? Alla luce dell’attuale diffuso disinteresse per il passato e della tenace opera di eliminazione della cultura dalla scuola in atto da decenni, bisogna riconoscere che si tratta di un sogno. I sogni, però, a volte si avverano e alcune esperienze, soprattutto esterne all’Europa, possono alimentare qualche speranza. In molti Stati dell’India è stato introdotto lo studio del sanscrito sin dalle scuole elementari. In Cina, mentre all’epoca della rivoluzione culturale la volontà di rompere i ponti con il passato sembrava irreversibile, oggi non solo è ripreso lo studio appassionato della tradizione culturale autocto-

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na, ma è apparso anche un nuovo interesse per la civiltà che noi diciamo «classica»: l’attenzione cinese per il diritto romano, per esempio, è stata testimoniata qualche anno fa dalla prima traduzione integrale in cinese del Corpus juris civilis di Giustiniano. Dobbiamo fare una parentesi sulle opere latine. Finora abbiamo sempre parlato di «civiltà classica», ma, escludendo il caso del diritto, abbiamo citato solo risultati greci. Potrebbe quindi sembrare che ci si possa limitare alle opere greche, trascurando quelle latine. Anche se non è mai esistita una civiltà greco-romana omogenea,5 non è però oggi possibile studiare la cultura greca ignorando quella latina. Non solo per l’interesse delle opere letterarie, storiografiche e giuridiche latine e perché alcuni autori latini, il più grande dei quali è certamente Lucrezio, ci hanno trasmesso testi di grande valore, imbevuti di scienza e filosofia greche, ma anche perché la perdita della massima parte delle opere originali rende spesso indispensabile ricostruire la cultura greca attraverso il filtro latino. Conosciamo la scultura ellenistica soprattutto grazie alle copie romane, e molte idee scientifiche e filosofiche possono essere parzialmente recuperate solo esaminando le testimonianze di autori latini che o non ne capivano quasi nulla, come nel caso di Plinio,6 oppure potevano coglierne solo una parte. Se quindi è vero che nell’antichità non è esistita una cultura greco-romana omogenea, questo ibrido con il trattino deve essere necessariamente usato per descrivere lo stato attuale delle fonti.

5

Vedi sopra, pp. 93-94 L’incapacità di Plinio di seguire gli argomenti delle sue fonti scientifiche greche è sempre stata chiara agli storici della scienza (Otto Neugebauer, per esempio, parlando della trattazione di Plinio dell’astronomia, scrive che «it is obvious that Pliny had no real understanding of this topic»). Ciononostante molti intellettuali di formazione umanistica, evidentemente del tutto ignari delle vere opere scientifiche antiche, lo hanno considerato un tipico esponente della «scienza antica». È questa, per esempio, l’opinione espressa da Italo Calvino nella prefazione all’edizione della Naturalis Historia pubblicata da Einaudi. 6

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Tornando al sogno di rinnovare il nostro rapporto con la civiltà classica, per la sua realizzazione occorre superare obiezioni e ostacoli di varia natura. Molti ritengono di vivere in un mondo caratterizzato da un ritmo velocissimo di trasformazioni (soprattutto tecnologiche) che tolgono ogni interesse al passato, soprattutto se antico di millenni. Credo che occorra distinguere fra le diverse scale temporali relative a fenomeni culturali di diverso genere. Mentre molte mode durano una o poche stagioni, vi sono costruzioni intellettuali che restano valide per decenni o secoli, e altre ancora che esercitano la loro influenza per millenni. Un computer di vent’anni fa è oggi un oggetto da museo, ma miliardi di persone trovano attuali i Vangeli, il Corano o l’Antico Testamento, e forse altrettanti credono nell’astrologia, che ha origini ancora più antiche. Gli Elementi di Euclide, più di due millenni dopo essere stati scritti, sono stati usati efficacemente come libro di testo ritenuto di validità assoluta, al di fuori della storia. In realtà, gli stessi Elementi, come ogni altra opera, vanno contestualizzati (abbiamo cercato di farlo anche in questo libro), senza confondere la loro influenza millenaria con una presunta astoricità, ma usando una scala temporale adeguata. Chi pensa che la scienza e la filosofia greche siano troppo antiche per poterci interessare dovrebbe riflettere sul successo con cui sono state accolte le pretese convergenze tra la meccanica quantistica e l’antica religione induista. Oggi sono presenti anche influssi provenienti da antichità ancora più remote: per esempio, un atteggiamento verso i defunti che sarebbe certamente apparso primitivo a Omero è riproposto, soprattutto al cinema, attraverso il concetto di zombi, tratto da credenze vudù derivate da religioni risalenti al paleolitico. La dipendenza della tradizione culturale europea dal passato classico, come notava Spengler,7 è un caso unico e genera comprensibilmente ancora molta insofferenza. All’origine di questa anomalia non vi è stata però una particolare 7

Vedi sopra, p. 112.

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passività degli europei, ma la straordinaria creatività di una civiltà i cui resti (non bisogna mai dimenticare che conosciamo solo una parte minima delle opere originali) hanno continuato a nutrire la nostra cultura per più di due millenni. È un fatto, per trarre un esempio da un settore che finora abbiamo ignorato, che Atene, ovvero una città che aveva meno abitanti dell’attuale Verona, nell’arco di una settantina d’anni (quanti ne sono passati dal primo lavoro di Eschilo all’ultimo di Euripide) ha creato tragedie i cui pochi testi superstiti8 hanno avuto un’influenza determinante sul teatro dei due millenni e mezzo successivi, e ancora ci coinvolgono e ci fanno riflettere. È questo il fenomeno senza analogie di cui occorre prendere atto. Sarebbe ben strano considerare un limite degli europei l’aver saputo usare i relitti di quel passato per alimentare il pensiero scientifico, filosofico e politico che ha assicurato loro l’egemonia mondiale per tre secoli. In ogni caso, se ci si vuole liberare dalla dipendenza dal passato, la strategia peggiore è senz’altro quella di tentare di ignorarlo. In questo modo si finisce infatti con il continuare ad assorbire passivamente residui di antiche idee attraverso molti intermediari, mentre il contatto diretto con le fonti del pensiero moderno consente di analizzare con maggiore profondità il mondo attuale. È questa la base reale dell’idea, spesso ripetuta senza giustificazione, che la cultura classica sviluppi il pensiero critico. Naturalmente ciò non riguarda chi considera la cultura classica un mondo a sé, che ha scelto come proprio settore specialistico. Un grosso ostacolo all’azione di rinnovamento che stiamo auspicando viene in effetti dallo specialismo, che domina l’attuale panorama culturale e naturalmente non ha risparmiato neppure i classicisti, che non solo hanno rinunciato a tentare di dominare tutti gli aspetti della civiltà classica, ma si sono anche divisi tra latinisti e grecisti, guardando 8

Abbiamo, per esempio, solo sette delle ottantasei tragedie di Eschilo di cui conosciamo i titoli. Si può immaginare che di molti autori di tragedie non conosciamo neppure il nome.

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spesso con sospetto chi tenta di studiare testi in entrambe le lingue. Molti di loro si occupano di storia o di filosofia, di arti figurative o di poesia, di diritto o di pensiero politico, ma raramente tutti questi interessi si trovano riuniti nella stessa persona. Ciò che accomuna quasi tutti i latinisti o i grecisti è la competenza linguistica (chiave d’accesso necessaria per leggere testi di qualsiasi natura), l’idea che il «pensiero antico» sia qualcosa di specifico ed estraneo al mondo moderno (generalmente accettata, perché costituisce un presupposto necessario al riconoscimento dell’autonomia del proprio settore accademico) e la completa estraneità alla scienza esatta. Questi studiosi possono ricordare gli intellettuali bizantini del Quattrocento, gelosi custodi del glorioso passato di un mondo che sapevano agonizzante. Molti intellettuali bizantini decisero però di attraversare il mare, emigrando in Italia e confrontandosi con tradizioni culturali diverse, dando così un contributo essenziale al sorgere del Rinascimento. C’è da sperare che una parte dei classicisti prenda oggi una decisione simile, senza lasciarsi fermare dal mare che separa le «due culture». Potrebbero allora incontrarsi con gli studiosi di estrazione diversa e lontana che, partendo ciascuno dalle proprie competenze, hanno riscoperto con stupore la ricchezza della cultura classica. L’Italia ha un legame con la cultura classica del tutto particolare, confrontabile solo con quello della Grecia. Abbiamo già messo in guardia contro l’uso della metafora fuorviante delle «radici». Nel Cilento di oggi non è certo presente alcuna eredità culturale della scuola eleatica, né a Siracusa si avverte traccia del pensiero di Archimede. È però vero che l’Italia è ricca di monumenti romani e greci e vi si parla una lingua che ha uno stretto rapporto con il latino. Quanto alla lingua greca, l’antica eredità culturale della Magna Grecia è scomparsa da tempo (a parte possibili residui linguistici del tutto marginali in Puglia e Calabria, che non è chiaro se risalgano all’antichità o a emigrazioni d’epoca medievale), ma esiste una tradizione colta di studio del greco antico, sorta nel Quattrocento e ancora viva nel nostro liceo classico.

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Può sembrare che questa tradizione non produca risultati apprezzabili. Per esempio, nel settore degli studi classici le più autorevoli pubblicazioni, sia fra le edizioni di testi sia fra le riviste specialistiche, non sono italiane, ma di paesi in cui quegli studi sono coltivati solo in dipartimenti universitari. La presenza della cultura classica nelle scuole secondarie del nostro paese è però avvertibile in più modi: per esempio, nella formazione di molti non classicisti o constatando che i più prestigiosi dipartimenti di studi classici, pur non essendo in Italia, vantano una significativa presenza di italiani fra studenti di dottorato, ricercatori e docenti. Alla luce di quanto abbiamo visto finora, la tradizione italiana dello studio delle lingue classiche da parte di non specialisti potrebbe fornire un prezioso punto di partenza al progetto culturale di cui stiamo parlando. Purtroppo il provincialismo e l’autolesionismo diffusi nel nostro paese fanno percepire a molti ogni nostra caratteristica culturale come un ritardo e un ostacolo sulla via dell’omogeneizzazione planetaria, perseguita con forza dai protagonisti del mercato globale. Non stupisce che i più decisi e violenti sostenitori di questo atteggiamento siano economisti di formazione statunitense. Ecco, per esempio, il primo argomento portato contro l’insegnamento delle lingue classiche da un economista laureato alla Bocconi e addottorato al MIT: Che io sappia, siamo rimasti l’unico Paese al mondo in cui, nelle scuole tradizionalmente di élite, gli studenti dedicano il massimo delle loro energie a studiare latino, greco e materie umanistiche.9

Era il 2013. L’anno successivo, in ottobre, un altro economista italiano, emigrato negli USA, in un video girato a Washington ha benevolmente spiegato ai compatrioti rimasti in Italia come debbano cambiare la cultura del paese. 9

http://www.corriere.it/scuola/secondaria/13_ottobre_31/meglio-studiaremitocondri-che-l-aoristo-passivo-eb6f7106-4242-11e3-8636-110cb2716567.shtml.

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Onde evitare la «maledetta cultura del liceo classico» – ha affermato – «gli italiani si debbono ficcare in testa che i licei classici vanno chiusi».10 Va detto che negli ultimi anni il calo dell’entusiasmo per la globalizzazione e il declino dell’impero americano hanno dato spazio anche in Italia alla difesa della diversità culturale. In particolare l’idea che bisognasse abbandonare al suo destino la lingua italiana, destinata a soccombere con le altre in un mondo monoglotta anglofono, che qualche decennio fa sembrava dominare incontrastata e ancora nel 2012 aveva guidato la scelta del Politecnico di Milano di adottare l’inglese come propria lingua ufficiale, incontra crescenti resistenze.11 Molti si stanno convincendo del valore del plurilinguismo (analogo a quello della biodiversità) e si comincia a capire che le nostre scuole e università, adottando l’inglese come unica lingua dei propri corsi, non si avvicinerebbero a Oxford o Harvard, ma piuttosto alle università di regioni africane prive di una propria lingua di cultura. In questo nuovo quadro la cultura classica trova più sostenitori. Anche tra coloro che sono consapevoli del valore di molte opere classiche, vi è però chi pensa che a scuola sia sufficiente introdurle in «buone traduzioni». Certamente molte opere è preferibile conoscerle in traduzione piuttosto che non conoscerle affatto, e sarebbe opportuno che gli studenti di tutte le scuole secondarie leggessero in traduzione almeno qualche capolavoro delle letterature greca e latina. Non si può però trascurare la profonda differenza tra un’opera originale e una sua traduzione. Chi ha qualche dubbio in proposito probabilmente non ha mai 10

http://www.oilproject.org/lezione/michele-boldrin-la-luce-in-fondo-altunnel-una-balla-e-aboliamo-il-liceo-classico-11600.html. 11 Ne fanno testimonianza, per esempio, il successo della petizione «dillo in italiano» rivolta all’Accademia della Crusca e gli interventi raccolti nel libro L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, a cura di Maria Agostina Cabiddu, Milano, Guerini e Associati, 2017.

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letto Dante in una «buona traduzione» inglese. Il problema non riguarda solo la poesia; un traduttore in ogni caso trasmette una sua interpretazione, che non può coincidere con l’originale (per i motivi discussi nel capitolo VI) e può contenere anche gravi fraintendimenti (come è frequente, per esempio, nelle digressioni di carattere scientifico contenute in opere letterarie). L’opportunità di un indirizzo della scuola secondaria in cui si insegnino le lingue classiche può essere sostenuta con due considerazioni. Innanzitutto, se ci si vuole opporre alla disgregazione della cultura, bisogna riservare almeno un percorso della scuola secondaria non a una singola specializzazione, ma alla formazione di base più completa oggi possibile, e, per quanto detto finora, una tale formazione non può non includere una conoscenza diretta della cultura classica. Certo, sarebbe magnifico se una scuola di questo genere fosse frequentata da tutti gli studenti. Poiché però non si possono obbligare tutti i ragazzi a dedicarsi a studi faticosi e impegnativi e poiché la maggioranza delle famiglie non desidera una scuola di questo tipo, limitare questa opzione a un solo indirizzo è l’unica scelta possibile. Chi pensa che in questo modo si riproponga l’idea di una scuola elitaria ha ragione solo in parte. Si tratterebbe infatti di una scuola riservata a chi aspira ad acquisire strumenti intellettuali più efficaci, cioè a una categoria oggi molto lontana dalle élite politiche ed economiche. La seconda considerazione è di carattere sociale e riguarda coloro che non frequenteranno questo particolare indirizzo di studi. Se si vuole che molti possano ascoltare buona musica dal vivo, occorre formare un numero adeguato di musicisti. Analogamente, se si è convinti che le opere classiche siano per noi importanti, anche se la maggioranza potrà leggerle al più in traduzione, occorre che una parte di noi possa leggerle in originale per trasmetterne qualcosa a tutti gli altri. Poiché tali opere riguardano tutti i settori dello scibile, questa parte deve comprendere necessariamente studiosi di tutte le discipline. Non può quindi trattarsi di persone formate come classicisti nelle università, ma

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di studiosi che, prima di scegliere il proprio settore di studio specialistico, abbiano studiato le lingue classiche nella scuola secondaria. Molti pensano che lo studio delle lingue classiche, e gli studi umanistici in genere, vadano scoraggiati perché lontani dalle competenze richieste dal mondo del lavoro. Credo che si tratti di un argomento molto serio, ma solo se viene riferito a percorsi di studi professionalizzanti. È forse una buona idea introdurre il numero chiuso ai corsi di laurea in lettere per evitare di laureare troppi futuri disoccupati (anche se i confronti internazionali non sembrano convalidare la diffusa impressione di un eccesso di lauree umanistiche in Italia). In un sistema come il nostro, che richiede ormai una laurea quinquennale per accedere a quasi tutti i lavori per cui in un tempo non lontano bastava un diploma, e nel quale si cerca in ogni modo di incrementare il numero di laureati, la scuola secondaria è però frequentata in larga misura da ragazzi intenzionati a proseguire gli studi all’università. A loro, anche in vista dei rapidi mutamenti delle realtà lavorative, non si deve offrire un percorso di studi specialistico, ma una formazione generale e polivalente, i cui contenuti vanno decisi in base a scelte culturali e non alle richieste del mercato del lavoro. Finiamo con poche parole sul nostro liceo classico, che ha dato l’occasione di scrivere questo libro. È certamente una scuola diversa dall’indirizzo di studi che stiamo auspicando. In primo luogo per la sua popolazione studentesca. L’attuale liceo classico (a differenza di quello di mezzo secolo fa) è infatti percepito sempre meno come una scuola di formazione generale, adatto a preparare agli studi in qualsiasi direzione, e sempre più come una scuola specialistica nella direzione degli studi letterari. Vi si iscrivono ragazze (per circa il 70 per cento) e ragazzi che molto raramente proseguiranno gli studi in facoltà scientifiche (anche se i pochi che lo fanno hanno in genere ottimi risultati). Inoltre, il liceo classico merita molte delle critiche che gli vengono fatte. Vi si studia troppo la grammatica del greco e del latino e troppo poco il lessico (anche se oggi parecchi docenti

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stanno correggendo il tiro) e soprattutto si leggono troppo pochi testi e nell’ambito di un canone che andrebbe profondamente rivisto e ampliato (in particolare includendo opere scientifiche, come in qualche liceo si comincia a fare). È anche vero che l’usuale esercizio della traduzione di un breve testo decontestualizzato potrebbe essere vantaggiosamente sostituito da pratiche più interessanti e formative. L’attuale situazione della scuola italiana può però essere paragonata all’equilibrio precario di una massa poggiata su un piano inclinato: ogni tentativo di migliorarne l’assetto rischia di tradursi in uno scivolamento verso il basso. L’eventuale abolizione della traduzione dal greco e dal latino, che molti propongono anche con argomenti molto seri, finirebbe oggi fatalmente per trasformarsi nell’abolizione di fatto dello studio di quelle lingue, portando allo stesso risultato della soppressione del liceo classico: una soppressione che, eliminando il prezioso capitale di competenze costituito in Italia dai professori di latino e greco, provocherebbe un danno culturale gravissimo, che vanificherebbe qualsiasi tentativo successivo di invertire la tendenza. Nell’ambito del quadro attuale, è però possibile introdurre nel nostro liceo classico qualche aggiustamento nelle direzioni già indicate, che lo avvicini all’indirizzo di studio auspicato. Soprattutto andrebbero incoraggiati a frequentarlo i giovani che intendono proseguire gli studi nell’ambito scientifico. Credo che per loro si tratti della migliore scuola oggi disponibile.

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REFERENZE ICONOGRAFICHE

Colosso di Rodi nella ricostruzione di Johann Bernhard Fischer: © Mondadori Portfolio/Akg-images Statua della Libertà: © Mondadori Portfolio/AGE Anatra/coniglio: IPA/Alamy Mosaico con prospettiva cubica, I secolo a.C., Museo di Palazzo Massimo alle Terme, Roma: © Mondadori Portfolio/Bridgeman Images Affresco nella Casa di Augusto: © Mondadori Portfolio/ Akg-images Torso del Belvedere, I secolo a.C., Musei Vaticani, Città del Vaticano: © Mondadori Portfolio/Album. Per concessione dei Musei Vaticani Gruppo del Laocoonte, Musei Vaticani, Città del Vaticano: © Mondadori Portfolio/Album. Per concessione dei Musei Vaticani Galata morente, copia marmorea di epoca romana, Musei Capitolini, Roma: © Mondadori Portfolio/Bridgeman Images Virginia State Capitol: © W.Scott McGill/Shutterstock Palazzo della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America: © Mondadori Portfolio/Akg-images Affreschi dalla casa di via Graziosa con scene dell’Odissea, I secolo a.C., Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano: © Getty Images

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RINGRAZIAMENTI

Sono grato a Willy Merz per il contributo incluso nel capitolo VIII e ad Alessandro Della Corte, Sandro Graffi e Stefano Isola per molti preziosi suggerimenti. Tra gli amici che hanno letto versioni preliminari di questo libro, segnalandomi sviste e consigliandomi miglioramenti, vorrei ringraziare in particolar modo Francesca Romana Capone, Donatella Cortellini e Andrés Voicu.

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INDICE DEI NOMI

Adelardo di Bath, 82 Al-Baghdadi, Abu Bakr, 23 Alberti, Leon Battista, 69 Alcidamante, 32 Alessandro Magno, 11, 30, 51n, 75n Amiot, Antoine, 179n Anacreonte, 28 Andersen, Kristi, 68n Andronico di Rodi, 93 Anthony, David W., 198 e n Antifilo, 71 Antigono Monoftalmo, 11 Antistene di Atene, 32 Apollonio di Atene, 70 Apollonio di Perga, 14, 15 e n, 88, 159 Apollonio Discolo, 174 Apollonio di Tiana, 45, 46n Apollonio Rodio, 79 Arato di Soli, 15 Archimede, 14, 15 e n, 16 e n, 54, 88 e n, 102, 133n, 134 e n, 135, 142 e n, 157-158, 159n, 209 Archita di Taranto, 157 Arendt, Hannah, 27 Ariosto, Ludovico, 79 Aristarco di Samo, 14, 16, 17 e n, 100, 102, 129, 139, 142, 149, 159 Aristosseno di Taranto, 78

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Aristotele, 14, 20, 30-31, 32 e n, 39, 40 e n, 41-42, 43 e n, 44, 46-47, 81, 86 e n, 87, 89, 93 e n, 94, 101 e n, 102, 156, 163, 179 Arnold, Vladimir, 152 e n, 160 Arriano, 28 Artemidoro di Daldi, 101n Asimov, Isaac, 167 Ateneo, compositore, 77 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 68 Bach, Johann Sebastian, 124 Barclay, Sidney, 10 Bardot, Brigitte, 111 Barnum, Phineas Taylor, 110 Barthes, Roland, 56 e n Bartholdi, Auguste, 9-10, 12 Bearzot, Cinzia, 35n Beers, Charlotte, 181-182 Bell, John Stewart, 164 Beltrami, Eugenio, 179n Berlinguer, Luigi, 196n Bernal, Martin, 190n Bernays, Edward Louis, 180, 181 e n Biondi, Gianfranco, 197n Bloch, Marc, 23n, 111 Bloomfield, Leonard, 173 Blumenthal, Otto, 150n

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Bohm, David, 164 Bohr, Niels, 163 e n Bolyai, János, 90 Born, Max, 161, 162 e n Bourbaki, Nicolas, 151 Bourgault-Ducoudray, Louis-Albert, 77 Boyle, Robert, 92n, 129 Bracciolini, Poggio, 42 Bracht Branham, Robert, 32n, 48n Bricmont, Jean, 114n Bruno, Giordano, 18, 19 e n, 21 Buffalo Bill (William Frederick Cody), 100 e n Bush, George W., 181 Cabiddu, Maria Agostina, 211 Calabrese Conte, Rita, 112n Calate, 71 Callicle, 71 Callimaco di Cirene, 15 e n Calvino, Italo, 206n Cambise II, re di Persia, 24 Canfora, Luciano, 26n, 201 Capra, Fritjof, 165, 170 Carducci, Giosuè, 179n Carete di Lindo, 9 Carlo Magno, imperatore, 36 Carr, Peter, 27 Casini, Paolo, 20n Castoriadis, Cornelius, 31n, 99 e n Cattani, Adelino, 183n Catterson, Lynn, 70n Caus, Salomon de, 97n Cavalli Sforza, Luigi Luca, 119 e n, 120, 197 e n Celentano, Adriano, 111 Chaitin, Gregory, 155n Cheynet, Jean-Claude, 82n Childe, Vere Gordon, 196 Chomsky, Noam, 175 Chopra, Deepak, 166, 167n Cicerone, Marco Tullio, 16, 19n, 45 e n, 92, 93n, 116 e n

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Claessen, Henri J.M., 193 Clairaut, Alexis, 88, 89 e n, 90 Clitomaco, 31 Colombo, Adriano, 183n Colombo, Cristoforo, 96n, 100 e n Commandino, Federico, 82-83 Conone di Samo, 15 Copernico (Mikołaj Kopernik), 15, 16n, 17 e n, 21, 99-100, 129, 149, 159 e n Cotes, Roger, 142-143 Cottignoli, Alberto, 70n Cremona, Luigi, 149 Crisippo, 32 e n, 44, 45 e n, 46-47, 93 e n Crisolora, Manuele, 96n Crizia, 35 e n Curzio Rufo, Quinto, 28 Damide di Ninive, 45-46 Dante Alighieri, 78, 211 Darwin, Charles, 41, 101 Debussy, Claude, 76-78 De Conti, Manuele, 183n Dedekind, Julius Wilhelm Richard, 148 Degas, Edgar, 75 De Grazia, Victoria, 110n, 182n De l’Hôpital, Guillaume-FrançoisAntoine, 135 Della Corte, Alessandro, 128n Della Porta, Giambattista, 97n De Mauro, Tullio, 125 Demetrio Poliorcete, 11 Democrito di Abdera, 19, 102 Demonatte, 48 e n Deutsch, David, 168 e n Diamond, Jared, 194 e n, 195 Diderot, Denis, 49 Dieudonné, Jean, 151 Diodoro Siculo, 28 Diogene di Sinope, 31-32, 48 Diogene Laerzio, 39, 48 Dionisio Trace, 51

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Indice dei nomi Dioscoride, Pedanio, 63, 95n Donini, Guido, 25n Duhem, Pierre, 49, 160, 161n Dumarsais, César Chesneau, 53n Dumas, Alexandre (padre), 46n Ecfanto di Siracusa, 16 Eco, Umberto, 100n, 122 e n, 123 Einstein, Albert, 111, 158 e n, 160, 163 e n Emmanuel, Maurice, 77, 78n Enriques, Federigo, 131 e n Epicuro, 39, 49 e n, 102 Epitteto, 94 e n Eraclide Pontico, 16, 19 Erasistrato di Ceo, 91n Eratostene, 14, 31n, 137, 189 Erhard, Werner (Jack Rosenberg), 164 Erodoto, 24 e n, 28, 188-189 Erofilo di Calcedonia, 14, 45, 54, 94, 101 e n, 103, 143-144 Erone di Alessandria, 96 e n, 97n, 100 e n Eschilo, 208 e n Euclide, 14, 48, 68, 69 e n, 80, 81 e n, 82 e n, 83-85, 87, 89-90, 102, 135, 140141, 147-152, 153 e n, 154-155, 158, 159n, 171, 177, 179 e n, 205, 207 Eudosso di Cnido, 148 Eulero (Leonhard Euler), 40 e n, 160 Euripide, 25 e n, 26, 28, 33, 208 Fauré, Gabriel, 76, 78 Federico II, imperatore, 37 Feynman, Richard, 164 e n Filolao di Crotone, 16, 17n Filone di Bisanzio, 9n, 91n, 96 Filosseno, 75n Filostrato l’Ateniese, 45, 46 e n Fischer von Erlach, Johann Bernhard, 10 Flaubert, Gustave, 46n Forestali, Piero, 176 e n Foucault, Michel, 191

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Fourier, Jean-Baptiste-Joseph, 160 Fracastoro, Girolamo, 42 Frachetti, Michael D., 198n Frege, Gottlob, 47-48, 56 Freud, Sigmund, 101 e n, 180 Friedman, Art, 163n Friedman, Walter A., 110n Gabriel, Albert, 10n Gabriel, Gottfried, 48n Galeno, 94 Galilei, Galileo, 17, 88 e n, 91, 100 e n, 129-130, 159 e n Gassendi, Pierre, 92n Gauss, Karl Friedrich, 160 Gautier, Théophile, 46n Gaza, Teodoro, 95n Geller, Uri, 165 e n Gentile, Giovanni, 108 Gentili, Alberico, 37 e n Ghione, Franco, 131n Giovanni Filopono, 19n Giunta, Claudio, 122 Giustiniano I, imperatore bizantino, 36-38, 98, 206 Giustino, Marco Giuniano, 28 Gleyre, Charles, 75 e n Goebbels, Paul Joseph, 181 Gödel, Kurt, 111, 152, 178 Goldsmith, Oliver, 128 Gould, Stephen J., 41 e n Goulet-Cazé, Marie-Odile, 32n, 48n Graffi, Giorgio, 175 e n, 176 Grasshoff, Gerd, 18n Greenblatt, Stephen, 42n Guangqi, Xu, 83 Halley, Edmond, 17-18, 20 Hanson, Victor Davis, 113n Harris, Marvin, 193 e n, 195 Hawking, Stephen, 170 Heath, John, 113n Heath, Thomas, sir, 148, 149 e n Heisenberg, Werner, 102 e n, 111

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Perché la cultura classica

Herschel, William, 18 Hilbert, David, 150 e n, 151-152, 176 Hirohito, imperatore del Giappone, 33 Hirzel, Rudolf, 48 Hülser, Karlheinz, 48n Iacoboni, Marco, 182n Iacopo Angelo, 96n Iceta di Siracusa, 16n Ipazia, 82n Ipparco di Nicea, 14-15, 18, 20, 94, 103 Irnerio, 36 Jefferson, Thomas, 27, 28 e n, 7374, 190, 202 Jones, Alexander, 68n Josephson, Brian, 166 Kaiser, David, 165n Keplero (Johannes Kepler), 17, 88 Kersting, M. Patricia, 118n Kluckhohn, Clyde, 116 e n, 117 Kohl, Philip L., 192n, 198n Kolmogorov, Andrej Nikolaevic, 155n Koyré, Alexandre, 13 Kristeva, Julia, 175 e n Kroeber, Alfred L., 116 e n, 117 Kroes, Rob, 110n Lacan, Jacques, 175 e n Laloy, Louis, 77 Lawrence, Thomas Edward, 204 LeBlanc, Steven A., 192n Lefkowitz, Mary R., 190n Lefort, Claude, 123 Leonardo da Vinci, 69 e n Leopardi, Giacomo, 43 e n, 79 Lepschy, Giulio C., 173 e n Limenio, compositore, 77 Lisippo, 9 Liverani, Mario, 34n, 192, 193n, 197n

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Lobacevskij, Nikolaj, 90 Luciano di Samosata, 32 e n, 48 e n Lucrezio Caro, Tito, 41 e n, 42, 68n, 206 Luisi, Pier Luigi, 197n Machiavelli, Niccolò, 30 MacLean Rogers, Guy, 190n Maddalena, Paolo, 186n Marx, Karl, 102 Mates, Benson, 47 e n May, Larry L., 118n McGrew, William, 118n Mengoli, Pietro, 88n Menippo di Gadara, 32, 48 Merz, Willy, 76, 78n Michelangelo Buonarroti, 70 e n Milanese, Guido, 41n Milton, John, 79 Moles, John L., 32n Monet, Claude, 75 e n Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, 30, 33 e n Moore, Walter, 163n Morowitz, Harold J., 197n Musti, Domenico, 99n Nadis, Steve, 170n Napoleone I, imperatore dei francesi, 37 Napoleone III, imperatore dei francesi, 75 Neugebauer, Otto, 206n Newcomen, Thomas, 97n Newton, Isaac, 14, 17 e n, 20-21, 88, 142 e n, 143, 159 Newton, Roger G., 163n Niceto, v. Iceta di Siracusa Niehues-Pröbsting, Heinrich, 48n Olbrechts-Tyteca, Lucie, 179 e n, 182 Omero, 28, 32, 50 e n, 51, 207 Orazio Flacco, Quinto, 28, 93 Owl, Marcus Young, 118n

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Indice dei nomi Packard, Vance, 182n Paduano, Guido, 79 e n Paine, Thomas, 27 Panini, 51 e n Panofsky, Erwin, 153 e n Pappo, 68 e n, 69 Parrasio, 72 Pascal, Blaise, 84, 88 Pauli, Wolfgang, 163 e n Peano, Giuseppe, 149, 178 Penrose, Roger, 171 e n Perelman, Chaïm, 178, 179 e n, 182 Pericle, 25-26 Périer, Gilberte (n. Pascal), 84 e n Petronio, 75n Pettinato, Giovanni, 22n Piero della Francesca, 67 e n, 69, 99, 153 e n Pireico, 71 Pirro, Giuseppina, 147n Pitagora, 85n Platone, 14, 29, 30 e n, 39-40, 50 e n, 51, 53 e n, 81n, 87, 89, 90 e n, 94, 98, 144, 151 Plinio il Vecchio, 18 e n, 71, 72 e n, 75n, 206 e n Plutarco, 16 e n, 19n, 44 e n, 50 e n, 51, 53, 102, 158, 159n Poincaré, Jules-Henri, 160 Polibio di Megalopoli, 30 Pontani, Filippo Maria, 25n Popper, Karl, 30 e n, 111 Potocki, Jan, 46n Potts, Daniel T., 198n Prisciano di Cesarea, 174 Proclo Licio Diadoco, 68n, 81n, 140 e n Quintiliano, Marco Fabio, 179 Ravel, Maurice, 76 Redman, Charles L., 192n Reinach, Théodore, 77 Remnio Palemone, Quinto, 51

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Renoir, Auguste, 75 Ricci, Matteo, 83, 128n, 177n Rickards, Olga, 197n Riemann, Bernhard, 88n Rizzolatti, Giacomo, 182n Rodotà, Stefano, 186n Rorschach, Hermann, 43n Rossetti, Francesco, 179n Rothman, Tony, 166n Rouse, Lynne M., 198n Rousseau, Jean-Jacques, 48 Rubens, Peter Paul, 72 e n Russell, Bertrand, 40 Russo, Lucio, 20n, 55n, 81n, 91n, 92n, 94n, 95n, 97n, 100n, 101n, 102n, 109n, 115n, 123n, 128n, 129n, 130n, 198n, 199n Ryan, Lyndall, 120n Rydell, Robert W., 110n Sade, Marchese de, 46n Salciccia, Emanuela, 95n, 147n Sambursky, Samuel, 157 e n Santoni, Emanuela, v. Salciccia, Emanuela Santorio Santorio, 91n Sarfatti, Jack, 164 Sassoon, Donald, 111 e n Saussure, Ferdinand de, 56, 173 Schlotter, Sven, 48n Schönberg, Arnold, 77 Schrödinger, Erwin, 163 Seleuco del Mar Rosso, v. Seleuco di Babilonia Seleuco di Babilonia, 19, 100 e n Seneca, Lucio Anneo, 20 e n, 102 Senofonte, 28 Sesto Empirico, 35n, 47, 55 e n, 68n, 142 e n, 143, 144 e n Shakespeare, William, 78 Shulgi, re mesopotamico, 34 Silla, Lucio Cornelio, 93 Simon, Max, 148 Simplicio, 49 e n, 55 e n

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Perché la cultura classica

Sisley, Alfred, 75 Skalnik, Peter, 193 Smith, Eric, 197n Smolin, Lee, 170n Snow, Charles Percy, 113 Sofocle, 28, 35 Sokal, Alan, 114n Soto, Domingo de, 130 e n Spengler, Oswald, 112 e n, 113, 152, 207 Stobeo, Giovanni, 19n Strabone, 31n Stratone di Lampsaco, 44, 46, 130-131 Sudarshan, George, 166 e n Susskind, Leonard, 163n Tasman, Abel, 120 Tasso, Torquato, 79 Teocrito, 28 Teofrasto di Ereso, 39, 42 e n, 43, 95n, 101n, 141 e n Teone di Alessandria, 82n Terenzio Afro, Publio, 28 Tesnière, Lucien, 174 Thom, René, 114, 174 e n Thorne, Kip Stephen, 169-170 Tiberio, Claudio Nerone, 51 Tipler, Frank, 167-168 Tirannione, 93n Tolomeo VIII, re d’Egitto, 81 Tolomeo, Claudio, 14-15, 17 e n, 20, 40, 68 e n, 78, 94, 96 e n, 100-101, 139 Toscanelli, Paolo del Pozzo, 96n Trevor-Roper, Hugh, 72n Triboniano, 36 Truganini, 120 Trumbull, William, 72n Trump, Donald, 202

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Tucidide, 25 e n, 26 e n, 28, 30, 33, 189 Tye, Henry, 170n Ulpiano, Domizio, 185n Ur-Nammu, re mesopotamico, 34 Venn, John, 40 Virgilio Marone, Publio, 28 Vivanti, Corrado, 16n Voltaire (François-Marie Arouet), 33 e n, 103 e n Watson, Patty Jo, 192n Weber, Max, 63 Weierstrass, Karl, 148 Weigand, Karl von, 181n Weil, Simone, 164 e n Wengrow, David, 197n, 198n Whitehead, Alfred North, 39 e n, 40, 98, 151 Wieland, Christoph Martin, 49 Wigner, Eugene, 151 e n Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von, 201 e n, 202, 204 Wilson, Catherine, 42n Wilson, James, 27 Winckelmann, Johann, 73 Windschuttle, Keith, 191n Woit, Peter, 170n Wolf, Fred Alan, 164 Yau, Shing-Tung, 170n Yoffee, Norman, 192n, 193 Zenone di Elea, 86n Zenone di Cizio, 31n, 44-45 Zeusi, 67, 72 Zeuthen, Hyeronimus Georg, 148 Zuliani, Augusto, 180n

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Mondadori Libri S.p.A. Questo volume è stato stampato presso ELCOGRAF S.p.A. Stabilimento - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy

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