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Italian Pages [142] Year 2015
VITTORIO DEMETRIO MASCHERPA
PER UNA NUOVA MASSONERIA OPERATIVA Principi e metodi per l'efficacia nel lavoro massonico
ATANÒR
©by Atanòr s.r.l. -Via Avezzano n. 16- 00182 Roma www.atanoreditrice.it- [email protected] Grafica: Cristina Carbonari
PREFAZIONE
Tre i pegni che ci siamo posti nell'intraprendere questo lavoro: chiarezza, concretezza, semplicità. Tre parole che abbiamo assunto come guida; tre criteri ai quali abbiamo guardato ogni volta in cui la stesura del testo ci ha posto di fronte alle inevi tabili difficoltà, piccole e grandi, che si accompagnano all'intento di tradurre le idee in concetti, e questi in parole e frasi capaci di rappresentarli. La chiarezza, dunque, in primo luogo, come antidoto ai veleni del nar cisismo e dell'auto-celebrazione. Perché ogni scritto, inevitabilmente, parla anche del suo autore, e così quella di usarlo per rappresentare se stessi, la propria presunta levatura culturale o interiore e la complessità del proprio pensiero, è una tentazione sempre in agguato, ancorché non sempre coscien te.
È
in questa chiave che il criterio della chiarezza assume per chi scrive il
ruolo di un vincolo e di un impegno: quello di superare i confini ristretti dell'ego personale per assumere un'ottica che forse non è esagerato definire " di servizio " , in quanto subordina l'attore al compito. E poiché la vocazione di questo libro è quella di fornire un contributo di stimoli, idee e strumenti per il recupero dell'efficacia nel lavoro massonico, il suo compito sarà svolto solo se - e nella misura in cui - tale contributo sarà effettivamente reso disponibile, fruibile e praticabile. Secondo pegno: la concretezza. Scrivere, così come parlare, significa muoversi sul piano mentale, nel ter ritorio dei concetti e delle rappresentazioni, dove è vero ciò che è verosimile e reale ciò che è realistico.
Per questo è fin troppo facile per c,h i scrive - o per chi parla - confron
tarsi con le idee più che con i fatti, considerando l'analisi, il ragionamento o la testimonianza di citazioni autorevoli come garanzia sufficiente per le proprie tesi. Ciò è ancor più frequente nell'ambito della letteratura esoterica e sapien-
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ziale, laddove il ricorso a presupposti condivisi e a fonti tradizionali, benché lecito o addirittura, in alcuni casi, obbligatorio, finisce spesso con l'essere l'unico argomento addotto a sostegno di affermazioni perentorie o intere impalcature concettuali. Per parte nostra, pur senza nulla togliere, in termini di rispetto e di riconoscenza, a quanti ci hanno fornito nel tempo stimoli, ispirazione e conoscenza, abbiamo scelto di limitare al minimo indispensabile citazioni e rimandi, e di non inserire in queste pagine nulla che non abbiamo sperimen tato in prima persona o che, quanto meno, non abbiamo potuto constatare in modo diretto nell'esperienza altrui. In questo si esprime il pegno di concretezza, e per questo non chiediamo al lettore alcuna forma di credito, se non quello sufficiente ad accogliere con mente aperta e libera da preconcetti quanto esporremo, fino a che l'esperien za gli consentirà di stilare un giudizio certo. Le argomentazioni che cercheremo di fornire, dunque, non hanno la pretesa di essere esaustive, ma avranno raggiunto il loro scopo se e quando porteranno al desiderio di metterle alla prova per verificarle personalmente e nei lavori di loggia . A l contrario, questo libro avrà fallito il s u o scopo s e quanto è i n esso contenuto verrà unicamente fatto oggetto di discussione: e non importa se per criticarlo o per esaltarlo. E infine la semplicità, laddove il concetto di " semplice " è per noi qual cosa di più che un sinonimo di " chiaro " o " privo di complicazioni " , ma rimanda piuttosto all'accezione del termine propria della Magia Spagirica e dell'Alchimia, che consideravano semplice ciò che sottende alla complessità, e che dunque è più vicino alla natura originaria delle cose. In questo senso il vincolo di semplicità ci impegna a rifiutare l'ombrello dei presupposti, delle parole d'ordine e dei luoghi comuni che affollano spes so la retorica massonica, e che portano a tenere per vero ciò che è solo ripe tuto - magari da secoli - e per questo divenuto consensuale e acquisito, per cercare piuttosto di risalire alle origini stesse del Dogma e della Tradizione. E dunque, ogni volta in cui ci troveremo a muoverei nel regno dei simboli e degli archetipi, non sarà per creare inutili sovrastrutture intellettuali alle tesi esposte, ma piuttosto per cercare ragioni e conferme nel territorio di ciò che è ultra-intellettuale e ultra-razionale. Per parte nostra, infatti, riteniamo che la Tradizione non sia e non debba essere considerata un serbatoio di verità dogmatiche al quale attingere in
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modo acritico, e nemmeno il metro con cui misurare idee e postulati per valutarne la bontà e l'ortodossia, ma piuttosto una strada, un sentiero. Una via che procede dall'Origine per immergersi nel regno della comples sità e della manifestazione. Una via che deve necessariamente essere mantenuta sgombra e agibile attraverso i secoli, le culture e le ideologie: per questo la Tradizione deve essere trasmessa, accettata e rispettata in forma integrale, al riparo da ogni interpretazione o sistema di credenze. D 'altra parte non avrebbe alcun senso garantire l'agibilità e l'integrità di un sentiero che poi nessuno percorre. E in questo senso - a nostro parere trasmettere, accettare e rispettare la Tradizione non significa percorrere la via, ma solo custodirla .
È
solo nel tentare di comprendere la Tradizione stessa - laddove però
"comprendere " , come meglio vedremo in seguito, è ben più che costringere un'idea all'interno delle categorie della ragione - che se ne può realizzare il senso e lo scopo.
È
solo nel tentativo di contenere ciò che è più grande, che la mente si
espande oltre ai propri confini, e diviene capace di contemplare anche ciò che la ragione non arriva a comprendere. Proprio questa forma di percezione diretta, che trascende i limiti delle categorie mentali e comprende " per contatto " - potremmo dire - o piuttosto per intima fusione fra chi contempla e la cosa contemplata, fino ad annullare la distinzione fra soggetto e oggetto, rappresenta a nostro avviso lo strumen to più idoneo per accostarsi al mondo degli archetipi originari. Uno strumento semplice in se stesso, in quanto estraneo alla complessità del ragionamento, e dunque adatto a cogliere, in modo diretto e non media to, i principi che sono origine e anima della Tradizione . Con la guida di questi tre criteri - chiarezza, concretezza e semplicità - ci accingiamo dunque a un lavoro che ci auguriamo possa essere con gli stessi criteri accolto e utilizzato, e cioè cercando la chiarezza, anche laddove, per limiti del testo e del suo autore, questa non sia immediata; sperimentando concretamente, prima di accettare o rifiutare in modo definitivo; e infine
lasciando spazio alla riflessione personale, nella ri c!e rca di ciò che può essere
compreso e intuito in modo diretto, prima di sottoporre idee e concetti al vaglio tranchant dei " sacri testi " , dell'ortodossia massonica e dell'opinione comune .
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PARTE I
L'OPERATIVITÀ IN MASSONERIA
PERCHÉ UNA MAS SONERIA O PERATIVA ?
Una domanda, quella che dà il titolo a questo capitolo, che siamo con vinti apparirebbe del tutto superflua - o forse addirittura senza senso - se non dovesse confrontarsi con una visione corrente della Massoneria che da quasi trecento anni definisce se stessa " speculativa " , in contrapposizione a un'altra, precedente, che definisce invece come " operativa " . Tanto è stato detto, e tanto è stato scritto, sull'origine di tale distinzione : per spiegarla, interpretarla, giustificarla alla luce di necessità storiche, socia li, esoteriche. Al di là di tutte queste, sta di fatto che a un certo punto della storia della Massoneria (e poco importa, ai nostri fini, che fosse il 1 7 1 7 o qualche de cennio prima o dopo tale data ) , accanto alle logge di mestiere, riservate a chi effettivamente e concretamente svolgeva il lavoro muratorio come attività materiale - se conoscendone o meno il valore simbolico non ci è dato sa perlo con certezza -, hanno iniziato a costituirsi logge dedite soprattutto alla spe
culazione, e cioè allo studio, alla riflessione e alla discussione. Il lavoro materiale, così, è stato in qualche modo sublimato e ritualizzato, enfatizzandone gli aspetti simbolici e traducendoli ora in senso esoterico, ora in senso filosofico, ora in senso culturale, etico, sociale, politico. Sulla ragione e sul significato di tale evento le voci sono troppe e troppo diverse perché si possano trarre conclusioni univoche. Quello che invece, semmai, varrebbe la pena chiedersi - ai fini pratici che guidano il presente lavoro - è perché la speculazione abbia sostituito l'operatività, anziché integrarsi in essa. Come mai, cioè, la conoscenza e l'approfondimento del valore simbolico della pratica muratoria non si siano innestati su tale pratica, per arricchirla o per completarla, ma abbiano irrve ce preso le distanze da questa, qualificandosi a tutti gli effetti - da allora in poi - come un 'altra cosa, oppure, nella migliore delle ipotesi, come un altro
modo di fare la stessa cosa. La risposta più semplice e immediata - la prima che forse sarebbe balzata in mente a quel bimbo che, unico, si accorse che il re non indossava magiche vesti invisibili, ma era semplicemente nudo - è che i nuovi massoni colti, e
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dunque appartenenti a ceti sociali più elevati rispetto a muratori e scalpellini, non avevano nessuna voglia di rimboccarsi le maniche e darsi a sgrezzare pietre, pur conoscendo a fondo il portato simbolico e iniziatico di tale ope razione, e hanno dunque preferito parlarne invece che praticarla. Occorre poi senz'altro tener conto di quella sovrastima della ragione che sarebbe di lì a poco esplosa nell'epoca dei lumi, fondata sulla credenza (o sul preconcetto ) che la mente razionale sia uno strumento di per se stesso supe riore o più idoneo a determinare il vero e il giusto, rispetto ad altre strutture e facoltà che consentono all'uomo di entrare in contatto col reale . A queste, siamo certi, si potrebbero aggiungere decine di altre ipotesi che in ogni caso, al di là del valore storico o culturale, non modificherebbero la sostanza della questione. Sta di fatto che la distinzione fra " operatività " e " speculazione" - ar tificiosa o necessaria che fosse - ha finito col sancire una corrispondente separazione fra due modi di concepire e di svolgere il lavoro massonico, uno dei quali ormai relegato all'ambito della storia e l'altro tenuto come unico attuale e praticabile nella nostra realtà e nella nostra epoca . I concetti di " operatività " e di "speculazione " , così, sono stati in qualche modo fissati e radicalizzati: il primo portato a coincidere con l'intera sfera del fare
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un fare ancora grezzo e privo della luce della conoscenza, forse
implicitamente saggio ma ancora non consapevole della propria saggezza - e il secondo identificato con il pensiero in quanto emblema delle facoltà superiori dell'uomo. Questo nuovo e diverso modo di concepire e di praticare il lavoro mas sonico ha portato nel tempo a una progressiva intellettualizzazione della Massoneria stessa, non solo per quanto concerne i suoi contenuti ma anche - e forse soprattutto - nei modi per realizzarli, sia sul piano individuale che nei lavori di loggia . La maggior parte delle tornate, ormai, ruota quasi interamente intorno alla lettura e alla discussione delle tavole. E questo al di là dei proclami dotti e altisonanti con i quali si afferma la necessità del rito, la sua fondamentale importanza, e se ne esaltano il valore formativo e i contenuti sapienzia li.
È emblematico,
a tal proposito, constatare che anche in queste occasioni
tutto nasce, vive e si esaurisce sul piano teorico e concettuale. Si parla, cioè, del rituale, dando per scontato che la comprensione intellettuale sia elemento sufficiente a garantirne la validità e l'efficacia. Un'ipotesi, questa, drammaticamente smentita dall'osservazione che
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poi - nella pratica e nella sostanza - il rituale viene agito esattamente come prima . E, ahimé, funziona (o meglio: non funziona ) esattamente come prima ! Già . . . perché nonostante la gran parte dei massoni dia l'impressione di averlo dimenticato, la ragion d'essere di ogni pratica - e il rituale, come ben vedremo in un apposito capitolo a ciò dedicato, rientra senz'ombra di dub bio in tale categoria - è quella di produrre effetti ! Effetti reali, e non teorici. Effetti sensibili, e non presunti. Riscontrabili, e non ipotetici. Una delle conseguenze più tristi del degrado che affligge la Massoneria moderna, a nostro avviso, è proprio questa perdita di aspettative, che si tra duce, a sua volta, in una perdita di motivazione e di entusiasmo, e dunque di energia. Un massone - di fatto - non si aspetta, oggi, di cambiare davvero. O per lo meno, non come se lo aspettava un qualsiasi adepto dell'Al chimia, dell'Ermetismo, della Fraternitas Rosaecrucis e di tutte le tradizioni delle quali l'istituzione massonica si dice erede, e che avevano, quale loro obiettivo prioritario, senz'altro qualcosa di più che diventare persone mode
ratamente migliori sul piano civile e morale, o più edotte sui contenuti e sul significato della loro Arte. A piccoli obiettivi piccoli sforzi. E piccoli sforzi non possono che produr re piccoli risultati. Così come a un approccio puramente teorico non possono che corrispon dere risultati altrettanto teorici.
Virtuali, potremmo dire, come è virtuale il mondo nel quale sembra muo versi l'istituzione massonica: un mondo che inizia sì ad ogni tornata quando viene tracciato il contorno del Tempio, ma che anche ahimé cessa di esistere con la chiusura dei lavori . E si ha un bel sostenere che quello - e solo quello - è il mondo reale, men tre l'altro, quello pro-fanum ed extra-fanum, è solo illusorio. Peccato che anche questa convinzione non superi le porte del tempio, e non lasci traccia di sé in quell'altro mondo nel quale, ancorché illusorio, si muovono i fratélli per i 14 giorni e le 23 ore che li separano dalla prossima tornata . Ascoltate ciò che viene affermato ad ogni passaggio di grado sul lavoro svolto dagli iniziandi, e sui successi che hanno ottenuto per meritarsi la mag gior luce che stanno per ricevere. E poi lasciate che quel bimbo ingenuo e impertinente - lo stesso di prima - si chieda e vi chieda : "Ma è vero ? Questo fratello ha fatto davvero tutto quanto gli si attribuisce ?
È davvero,
adesso,
così come viene descritto ? "
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Una domanda scomoda, da rintuzzare con la voce autorevole e incontro vertibile di chi sa, asserisce e spiega, magari chiamando in causa dinamiche occulte, movimenti energetici, piani sottili, dimensioni altre. Qualcosa, in ogni caso, di cui occorre convincersi oppure a cui occorre credere, in fiducia, nell'impossibilità di poterlo constatare personalmente e in modo diretto. Non così nell'altro mondo - quello della quotidianità - nel quale conti nuano a valere regole ben diverse, e nel quale non basta evocare principi, ideali e valori per avere successo e ottenere risultati. Risultati, peraltro, che - positivi o negativi che siano - si vedono, si sen tono e si toccano, al di là di ogni ipotesi teorica e di ogni discussione. Due universi ben distinti: uno all'insegna delle cose alte e delle cose oc culte e di quello che in linea di principio si ritiene giusto e corretto, l'altro dominato da leggi di necessità, contingenza e concretezza che non di rado chiedono pesanti patteggiamenti con ciò che pure viene sostenuto con grande convinzione e dovizia di ragionamenti nei lavori di loggia. Due realtà che possono coesistere nello stesso individuo solo a patto di una vera e propria schizofrenia coscienziale, oppure - più semplicemente - in virtù di quella diffusa, sottile, accettata e perciò quasi incolpevole ipocrisia che consente di far convivere i due mondi - quello dei principi e quello della vita quotidiana - mantenendoli su due piani rigorosamente separati e limitando al minimo i punti di contatto, così da scongiurare ogni possibile confronto e ogni eventuale conflitto . Conflitto che peraltro, ove si presentasse, potrebbe comunque essere legittimato con la sconsolata ammissione della debolezza umana e reso tollerabile - quasi meritorio - attraverso una professione di umiltà, e con il riconoscimento che il viaggio verso la perfezione è lungo e difficile . . . Gli stessi passaggi di grado, d'altra parte, non valutano, nel modo di essere e di fare del candidato, un cambiamento complessivo, ma unicamente relativo all'ambito massonico, e, all'interno di questo, il parametro di valuta zione coincide sostanzialmente con il livello di conoscenza dei contenuti del grado in cui ha "lavorato " , livello di conoscenza che - significativamente gli si chiede di dimostrare attraverso una "tavola di passaggio " . I l cambiamento profondo che autorizzerebbe u n aumento d i salario, quel cambiamento nell'essenza e nella sostanza che potrebbe giustificare una superiore iniziazione, è attestato dunque - di fatto - dalla partecipazione a un sufficiente numero di tornate, dalla conoscenza del rituale di grado, dalla
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qualità degli scritti e dei commenti prodotti durante i lavori di loggia, e da una tesina di un paio di cartelle, a sigillo del cammino percorso. Il tutto, nella stragrande maggioranza dei casi, senza alcun riferimento al mondo esterno (quello dei 14 giorni e 23 ore ) , laddove tutto procede come al solito e laddove - anche questo merita di essere considerato ! - nessuno sembra accorgersi della straordinaria trasmutazione cui è andato incontro il marito, padre, figlio, parente, amico, collega, vicino di casa.
È così che, anno dopo anno,
si accumulano gradi, iniziazioni e conoscen
ze teoriche, senza che, di fatto, nulla cambi realmente. E questo, purtroppo, fino ai livelli di autorità e di responsabilità più elevati, teoricamente - ma anche, ahimé, praticamente - raggiungibili da qualunque fratello che abbia maturato una sufficiente anzianità massoni ca, valutata in numero di anni di frequentazione regolare, disponga di una discreta cultura generale e abbia tenuto un comportamento, se non proprio irreprensibile, quanto meno abbastanza corretto da non aver meritato san zioni, né all'interno dell'istituzione né fuori.
È evidente come una Massoneria che si regge e si regola - di fatto - su tali
principi, non possa realisticamente aspirare ad altro che a un moderato mi glioramento culturale, civile e morale, ciò che la pone - di fatto, e nonostante le premesse dalle quali muove e i contenuti teorici dei quali si occupa - su un piano non dissimile da quello su cui si muovono e operano altre istituzioni religiose e laiche. Da un punto di vista metodologico, a nostro avviso e nella logica che gui da il presente lavoro, l'errore di fondo della Massoneria moderna è dunque quello di ritenere che un approccio speculativo-intellettuale sia sufficiente a produrre cambiamenti reali ed efficaci. " Reali " : vogliamo sottolinearlo ancora una volta, intendendo, con il ter mine " realtà " , il piano di coscienza nel quale un essere umano vive, e cioè il mondo del quale è cosciente e all'interno del quale, perciò, pone la propria
coscienza. E poiché l'unico o il principale piano di coscienza per la quasi totalità degli esseri umani è quello della realtà sensibile, è qui che il lavoro deve ini ziare, ed è qui che deve svolgersi.
È
questo il kurukshetra, il campo di battaglia . Questo il laboratorio.
Questa la vera officina . Qui, e qui soltanto, infatti, vi può essere esperienza cosciente, sia del lavoro che dei risultati del lavoro.
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Il resto - tutto il resto, e non importa quanto sia nobile, elevato o esote rico - non potrà mai riguardare la vita vera, e non potrà perciò che rimanere confinato nell'ambito coscienziale delle "cose di cui si parla " . Cose che pure si ritengono in linea di principio vere, giuste e auspicabili, ma comunque destinate a cedere nel confronto con le istanze della quotidianità, inevitabil mente percepite e vissute come più reali e cogenti. La Massoneria speculativa lavora con le idee e sulle idee. Gli effetti che può realisticamente aspettarsi, dunque, non potranno che essere relativi al piano delle idee, nei termini di un aumento delle idee (e cioè una maggiore conoscenza, intesa come acquisizione di concetti prima sconosciuti ) , oppure di un cambiamento delle idee preesistenti.
È
così che un fratello liberomuratore, col passare del tempo, rendendosi
conto di sapere cose che prima non sapeva, e di aver modificato il proprio punto di vista su temi importanti, può in buona fede ritenere di essere profondamente cambiato, mentre la sua vita è - di fatto - sostanzialmente uguale a prima : dominata dalle leggi della meccanicità, dai condizionamenti sociali, da tempeste emotive incontrollate e incontrollabili. Vi sono pure - è innegabile - circostanze nelle quali la ragione, plasmata dai valori massonici, riesce ad avere la meglio sulle pressioni del mondo profano e della "natura inferiore " , ma questo non è affatto diverso da ciò che accade nella vita di qualsiasi essere umano che si sia emancipato anche solo di poco dallo stato della pura brutalità istintuale, e abbia adottato una qualunque forma di codice etico. La stessa storia dell'uomo e della civiltà si è svolta all'insegna dell'eterno conflitto fra la volontà di aderire ai valori superiori del bene e la pulsione ad assecondare le " tentazioni del male " . Ed è proprio l a storia - ma sarebbe già sufficiente l'esperienza personale - a dimostrare che non è certo la bontà o la levatura degli ideali a decidere le sorti del conflitto . Se così fosse, le religioni non avrebbero alcun bisogno di ricorrere al consolidato schema premio-punizione per indurre i loro seguaci a un comportamento corretto e in linea con i principi sui quali si fondano. Ognuno dei fedeli che ascoltano le parole del sacerdote durante la messa certamente è - e non può che essere - pienamente convinto della bontà e della verità di quanto vie rie affermato, spiegato e proposto . E certamente continuerà ad esserlo - in linea di principio - anche quando, nel resto della settimana, adotterà comportamenti che si discostano, in modo più o meno rilevante, dai dettami della sua religione. L'equivoco di fondo, anche in questo caso, è sempre il medesimo, perfet-
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tamente espresso nel detto: " Dio è nel cielo, mentre il diavolo è sulla terra " . E l'uomo, nonostante aspiri a l cielo, è qui, sulla terra, che vive, s i muove e lavora. Per questo un principio, per elevato che sia, non può rendersi efficace se non incarnandosi, e cioè assumendo una veste adatta al piano di coscienza sul quale deve operare e produrre effetti. Abbiamo già definito in precedenza cosa intendiamo con l'espressione "piano di coscienza " , e cioè quella parte di realtà della quale l'essere umano è cosciente e che costituisce, perciò, la sua realtà. Ora: ogni essere umano è cosciente anzitutto della materia, che sperimen ta attraverso il suo corpo fisico; delle emozioni, che sperimenta attraverso una struttura percettiva psicofisica che possiamo genericamente definire come " corpo emotivo " , e dei contenuti della propria mente, che percepisce in forma di pensieri strutturati e di idee. Il piano di coscienza entro il quale si muove l'umanità, dunque, è costitu ito da ciò che può essere percepito in forma di pensieri, emozioni, sensazioni . Qualunque azione volta a produrre effetti reali, pertanto, dovrà agire all'interno di questo piano di coscienza, avvalendosi di strumenti attivi sul livello mentale, emotivo e fisico. Nella misura in cui questi saranno efficaci, gli effetti potranno dirsi reali, in quanto inerenti alla realtà soggettiva di chi li sperimenta . Produrre effetti su altri piani diversi da quello di cui un soggetto ha co scienza - anche ammesso di averne la possibilità - sarebbe del tutto inutile, in quanto non riguarderebbero la realtà di quel soggetto, ma un'altra realtà che non gli appartiene e alla quale egli stesso non appartiene. Un esempio può rendere forse più esplicito quanto abbiamo appena af fermato . Immaginate di insegnare a una scimmia a battere sui tasti di una mac china per scrivere, ricompensandola in modo specifico ogni volta in cui la sequenza di lettere composta corrisponda a una parola di senso compiuto: ad esempio con un frutto quando la sequenza sia " frutto " , con un dolce quando la sequenza sia " dolce " e così via . Dopo qualche tempo la scimmia imparerà a chiedere ciò che desidera digitando la corrispondente sequenza, così che a un osservatore esterno potrebbe sembrare che questa abbia imparato a comunicare per iscritto nella nostra lingua, e potrebbe interpretare questo fatto come il segno di
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uno straordinario progresso evolutivo, quando in realtà per l'animale non è cambiato proprio nulla. Ciò che dal nostro punto di vista è " scrivere " , infatti, nel suo piano di coscienza e di realtà viene tradotto come " compiere certe azioni in sequen za " , né più né meno come in migliaia di altre situazioni della sua normale vita individuale e sociale. Di fatto scrive, ma poiché non sa di farlo, è come se non lo facesse ! Il concetto di "parola " le rimane comunque estraneo, in quanto nella sua realtà viene decodificato come " sequenza di azioni " . L a sua vita, l a sua mente, i l suo stato d i coscienza, la sua realtà non sono per nulla cambiati rispetto a prima, dato che quella che pure potrebbe essere considerata una funzione superiore, è stata decodificata, nei termini del suo attuale piano di coscienza, come un semplice rapporto di causa-effetto a livello comportamentale. Allo stesso modo, qualunque effetto fosse eventualmente possibile pro durre su ipotetici piani sottili nel caso di un essere umano, non produrrebbe di fatto in lui alcun reale cambiamento, nella misura in cui estraneo al suo piano di coscienza e dunque alla sua realtà . Da qui la necessità di interventi che si svolgano entro tale piano di co scienza, così che gli effetti prodotti possano avere una reale efficacia .
È in
questo senso che i percorsi di trascendenza - le Vie della Tradizione
orientale e occidentale - si differenziano dai sistemi di pensiero religiosi e laici. Accanto a una dottrina e a un sistema teorico, infatti, ogni Via neces sariamente prevede una pratica, e cioè una serie di operazioni strutturate in modo tale da coinvolgere il piano fisico, quello emotivo o quello mentale, nella consapevolezza che solo operando attraverso questi è possibile modifi care la realtà soggettiva (coscienziale) di un essere umano. Occorre però, a questo proposito e ai fini dell'efficacia della pratica, considerare che dei tre piani che abbiamo appena menzionato, ciascun essere umano è cosciente in modo diverso, e tende perciò a considerarli più o meno reali in ragione della coscienza che ne ha. Così ad esempio una persona profondamente calata nel piano fisico - e cioè intensamente cosciente di ciò che appartiene a tale piano, e scarsamente cosciente delle proprie emozioni e della propria attività mentale - tenderà a considerare " vero " sostanzialmente solo quello che può vedere o tocca re, mentre potrà giudicare come irrilevante, poco più che "sciocchezze " o
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" fantasie " , tutto ciò che chiami in causa le " ragioni del cuore " , la logica o la filosofia. Allo stesso modo, sarebbe del tutto inutile cercare di muovere dalla sua posizione un fedele devoto a qualche religione utilizzando la forza della logica, così come, d'altra parte, un filosofo o un matematico difficilmente prenderebbero in considerazione una tesi solo perché qualcuno afferma di " sentire dentro di sé" che è vera e giusta . Per ciascuno, cioè, la realtà è in vario grado collegata ai piani dei quali ha maggiore coscienza, e sarà in questi, pertanto, che il lavoro dovrà eletti vamente svolgersi per poter produrre effetti. Ora: da una semplice analisi che chiunque può svolgere osservando in modo oggettivo e senza preconcetti il mondo e la gente che incontra ogni giorno, è evidente che il livello di coscienza attuale dell'umanità è distribuito maggiormente sul piano fisico e su quello emotivo, e in misura minore su quello mentale. Basterà considerare, per averne una conferma al di là di ogni discussione, quanto poco possa un ragionamento sensato nel contrastare un'emozione (come ad esempio l 'elencare tutti i buoni motivi per cui in una certa situa zione non converrebbe arrabbiarsi ) , o nel modificare una condizione fisica, come il dolore, la stanchezza, la fame, il sonno.
È
facile comprendere, a questo punto, perché i nobili intenti e le eleva
tissime considerazioni intorno ai quali ruotano i lavori della moderna Mas soneria speculativa, non abbiano alcuna speranza di successo nel confronto con una realtà profana ancora in gran parte strutturata sul piano fisico emotivo, laddove " stare coi piedi per terra " e "produrre risultati concreti " senza " perdersi in chiacchiere " sono ancora concetti che improntano in modo sostanziale l'agire quotidiano. Ma allo stesso modo è facile comprendere anche il senso e lo scopo delle
pratiche intorno alle quali si sviluppano le Vie della Tradizione orientale e occidentale, e che hanno quale loro ragion d'essere non tanto quella di di chiarare una verità, quanto quella di dar modo a ciascuno di raggiungerla, a partire dalla propria peculiare condizione e avvalendosi di strumenti dei quali effettivamente dispone. Lo stesso rituale, d'altra parte - e questo vale per ogni tipo di rituale, da quelli magici a quelli religiosi - prevede una parte fisica : non è sedersi a riflettere, ma poggia anzitutto su un fare. Azioni precise, da agire col corpo all'interno di uno spazio fisico. Oggetti
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da muovere o da modificare nella loro struttura materiale. Segni da tracciare in modo da renderli concretamente percepibili ai sensi. Formule da pronun ciare ad alta voce (e non soltanto concetti da evocare nella mente) . E poi musiche, scenografie, apparati concepiti e messi in atto con i l preci so scopo di coinvolgere gli attori, per portarli in una ben definita condizione emotiva funzionale ai contenuti e agli obiettivi del rituale stesso. Anche la mente può e deve partecipare, secondo il rituale da agire, in vario modo e in relazione alle sue diverse possibilità e funzioni. Possibilità e funzioni che non si esauriscono, però, né si compendiano nella sola comprensione razionale, ma devono includere in primo luogo
l'attenzione, e poi la creatività, la cognizione analogica e simbolica, fino all'intuizione ultra-razionale, che consente alla mente stessa di affacciarsi sul piano degli archetipi. Pensare che il rito sia più efficace unicamente nella misura in cui lo si capisce (e cioè lo si interpreta secondo le categorie della ragione) è la tipi ca deformazione da Massoneria illuminista che serve solo a degradarlo a oggetto di studio storico o culturale, trattandolo proprio come farebbe un qualunque studioso profano. Al contrario, solo quando tutti i piani di coscienza siano stati coinvolti, si può parlare di una esecuzione corretta del rito, al di là dell'averne ripetuto pedissequamente (e meccanicamente ) la forma esterna, o dell'averne compre so intellettualmente gli scopi e i contenuti. Non solo " cosa " e "perché " , dunque, ma anche e soprattutto " come " , laddove i l " come " specifica l e modalità i n cui corpo, emozioni e mente par tecipano all'azione rituale. Abbiamo aperto questo capitolo definendone il titolo - che si chiede " Perché una Massoneria operativa " - come una domanda senza senso. E in effetti, nel momento in cui l'istituzione massonica si qualifica come un sistema concepito allo scopo di indurre una trasformazione reale nell'es sere umano (in senso coscienziale, evolutivo, morale e spirituale ) , e non come un'accademia di studi storici e filosofici, può apparire davvero superfluo chiedersi le ragioni di una pratica, così come potrebbe essere lapalissiana una risposta in tal senso. Tanto varrebbe chiedersi perché sia utile allenarsi in una qualsiasi disci plina sportiva - anziché accontentarsi di un approfondito approccio teorico - oppure perché esercitarsi nella conversazione e nella lettura, ai fini dell'ap-
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prendimento di una lingua, invece di limitarsi a uno studio grammaticale e filologico. Un'opzione non esclude l'altra: è logico ed evidente. Per questo riteniamo non soltanto artificiosa e anacronistica, ma anche francamente deleteria addirittura contraria alla stessa ragion d'essere della Libera Muratoria - la distinzione fra una Massoneria " operativa " e una " speculativa " . Fare, sentire, comprendere, intuire non sono che parti - o momenti - di un unico processo dinamico attraverso il quale l'uomo interagisce con la realtà utilizzando gli strumenti di cui dispone, né sarebbe possibile stabilire, in assoluto, gerarchie o priorità. Sulla scorta di queste considerazioni, i capitoli che seguono si sviluppe ranno con l'obiettivo di restituire al lavoro massonico la sua originaria e naturale integrità, anzitutto recuperandone gli aspetti pratici legati all'opera tività rituale ed extra-rituale, e in secondo luogo provando a identificare e a delineare alcune linee guida per il lavoro nei tre gradi, sulla base dei relativi contenuti simbolici.
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PARTE I I
IL RITO
L ' ES SENZA DEL RITO
Il rito è il fulcro del lavoro massonico. Il rito è, sostanzialmente, il lavoro massonico .
È il
simbolo nella s u a forma dinamica.
Nel rito la potenza del simbolo si fa atto per opera di un attore che agisce il simbolo stesso. Così nella prassi rituale uomo e simbolo diventano una sola entità indivi sibile, poiché il simbolo senza un celebrante che lo agisca è solo potenzialità non dispiegata, mentre ogni azione che non sia vitalizzata dal potere trascen dente del simbolo non è che semplice " attività " , che nasce e vive e muore sempre sul palcoscenico dell'illusione, totalmente scollegata dal mondo
reale. Quel mondo reale per il quale il simbolo è ponte, interfaccia e chiave d'accesso. Prima però di passare a esaminare più concretamente e nel dettaglio i modi per una progressiva realizzazione del rito all'interno della prassi mas sonica, è necessario un passaggio preliminare. Ancora una volta, infatti, l'accesso al nuovo richiede prima l'abbandono del vecchio, e la tazza dell'intelletto deve prima essere svuotata di sapere, per poter poi essere riempita di conoscenza . Dobbiamo cioè " fare spazio " , purificare la mente eliminando le scorie e i sedimenti di una cultura profana - per sua natura utilitaristica e riduttiva che tende a spiegare la realtà piuttosto che a comprenderla. Così nell'accezione essoterica il concetto di rito è invariabilmente asso ciato all'idea di ripetitività nell'esecuzione di un atto o di una serie di atti, in funzione dell'adesione - volontaria o inconscia - a uno schema compor tamentale prefissato. Che a interessarsene siano l'antropologia o la giuri sprudenza, la sociologia o la psichiatria, ciò che cambia è la motivazione o la finalità che al rito viene attribuita, mentre rimangono costanti gli attributi qualificanti del comportamento rituale: la ripetitività e la conformità a uno schema che preesiste all'azione contingente. Ma possiamo andare molto oltre, seguendo un procedimento - caro
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all'esoterismo - che non è né induttivo né deduttivo, ma piuttosto un per corso a ritroso, verso le origini: un percorso dall'esterno all'interno, dai fenomeni all'essenza. E ancora una volta, in questo percorso, è guida specifica e preziosa l'eti mologia, che cerca l 'anima e il senso dei concetti attraverso l'origine delle parole nel tentativo di recuperare l'identità originaria di Verbo e manifesta ZIOne. Scopriamo così che il termine " rito " ( dal latino ritus) contiene la stessa radice indoeuropea ARE- che troviamo nel sanscrito rtàm (
=
prescritto dalla
religione) ma anche nel greco arithmòs (numero) come nel verbo arithmeo (io conto ) . E d è proprio l'azione del contare che fornisce una chiave d'accesso a quel la comune radice primitiva che può permetterei di collegare fra loro numero, rito e religione.
Arithmòs, " numero " , ma anche " quantità " , " novero " , " misura " , " scan sione quantitativa " . E i l verbo corrispondente - arithmeo- che vale come "contare " , " nume rare " , " misurare " , "scandire attraverso il numero " . M a cosa facciamo, realmente, ogni volta i n cui contiamo ? Immaginiamo d i stare d i fronte a una qualsiasi moltitudine d i oggetti. La percezione visiva ci può soltanto informare della loro pluralità, cioè del fatto che si tratta di un gruppo e non di un singolo oggetto, e anche, in certa mi sura, dell'entità dimensionale del gruppo stesso ( una " grande " moltitudine o una " piccola " moltitudine) . Ora immaginiamo d i contarli, quegli oggetti, e d i arrivare a determinare che sono, ad esempio, 25. Cos'è accaduto ? Gli oggetti sono esattamente gli stessi di prima, la loro condizione non essendo affatto mutata in conseguenza dell'essere stati contati e numerati. Eppure nella nostra percezione qualcosa è cambiato: adesso non sappiamo soltanto " che ci sono " , ma anche " quanti sono " . Conosciamo i l loro numero. La nostra percezione di quegli oggetti è mutata, ha acquisito una struttu razione che possiamo senz' altro definire " legge " . L a realtà non è mutata, ma, i n virtù del nostro contare, una visione di caos si è trasformata in una visione di ordine. Venticinque lo erano anche prima ( qualunque cosa significhi "venticin-
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que " ! ) , ma solo il nostro contare ha reso manifesta e intelligibile questa qualità. " Ho fatto ogni cosa con numero, peso e misura " dice l'Eterno nella Gene si. E così numero, peso e misura sono le strutture attraverso le quali la parte può rapportarsi al tutto. Sono il " finito " attraverso il quale l'uomo può rappresentarsi l'infinito, riducendolo a misura della sua comprensione per potersi muovere all'interno della manifestazione. Numero, peso e misura sono gli strumenti che il Grande Architetto ha donato all'uomo perché sia signore del mondo finito, così come Egli lo è di quello in-finito. E allora il rito sta all'azione come il numero sta alla quantità. Se il numero è scansione ordinata della quantità, il rito è scansione ordi
nata dell'agire. Non semplice quantità indeterminata, ma numero. Non semplice agire, ma azione che rivela una legge. Azione con un'anima, con una ratio che la spiega, la sostiene e la " con testualizza " rispetto al tutto, proprio come il numero 25 permette di conte stualizzare quel gruppo rispetto ad ogni altra molteplicità che venga, a sua volta, numerata. Il numero è ordine nella quantità. Il rito è ordine nell'azione. Il numero scandisce la quantità attraverso l'applicazione di una legge nu merica. Il rito scandisce l'azione attraverso l'applicazione della prassi rituale. Non sappiamo che quegli elementi sono 25 finché non li vediamo attra verso il numero. Non sappiamo che l 'atto di accendere una fiamma ripete l'origine della creazione finché non lo vediamo attraverso un rito. Certamente il gesto può esistere (ed esiste ) indipendentemente da ogni ottica rituale, così come la quantità esiste indipendentemente dal nostro numerarla : manca la luce e accendiamo una candela, torna la luce e la spe gniamo soffiandoci sopra . Oppure accendiamo
-
ritualmente
-
una candela nel Tempio, all'inizio
dei lavori, o davanti a un'immagine che rappresenta un aspetto del divino in manifestazione. Magari la stessa candela che abbiamo usato quando mancava la luce . Dunque non è l'atto in sé ad essere casuale o rituale, relativo o assoluto, profano oppure sacro.
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Accendere una candela oppure agire il rito della creazione dell'Universo. Una fiamma accesa nel buio porta la luce. Non solo è luce, ma anche
illumina l'ambiente. È luce che porta la luce, e così rende manifesto ciò che, nel buio, era già presente ma immanifesto.
La creazione è il dispiegarsi delle potenzialità contenute nell'uno origina rio, come una spirale che procede da un punto che è la sua origine. Come luce che si irradia da una fiamma. La creazione rende manifesto ciò che era immanifesto, come la luce rende visibile ciò che era immerso nel buio. Questa consapevolezza ha il potere di trasformare l'azione. La fiamma è diventata un simbolo, e l'azione dell'accenderla un rito. E l'uomo che accenda ritualmente una fiamma ripete l'atto della creazio ne. Non soltanto lo evoca, come una citazione, ma realmente ripete - a livello microcosmico - la stessa opera creatrice del Grande Architetto dell'Universo. Eppure l'azione in sé è la stessa che compie chi, semplicemente, vuole procedere in una stanza buia senza inciampare. Non è cambiata l'azione, ma il modo di intenderla e di agirla . Ed ecco allora, da quella comune radice ARE- che collega numero e rito, un nuovo e più profondo significato per il nostro tema. Un significato che può aggiungere luce tanto alla comprensione delle ra gioni essenziali della ritualità, quanto - come vedremo - all'impostazione e all'esecuzione degli aspetti più immediatamente operativi della prassi rituale:
Ogni rito nasce dalla comprensione di un aspetto del disegno insito nella manifestazione, e consiste nella sua riproposizione consapevole. Così, nell'agire un rito, il celebrante dichiara la propria adesione cosciente e volontaria a un frammento dell'opera del Grande Architetto dell'Universo. E allora ogni esecuzione non è altro che una ri-creazione di quel fram mento.
È l'uomo - signore
del microcosmo - che scandisce gli eventi della mani
festazione attraverso il rito, che è ordine, cioè numero, peso e misura.
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LE FUNZIONI DEL RITO
In base ai presupposti che abbiamo fin qui cercato di definire e di rendere espliciti, le funzioni del rito appaiono essere principalmente due. Una funzione propria, primaria, che possiamo definire " celebrativa " , di rettamente connessa all'origine e all'essenza dell'atto rituale, e una funzione
derivata e indiretta che, restituendo al termine il suo significato più ampio, definiamo " didattica " . Una funzione, quest'ultima, che in qualche modo procede i n senso in verso rispetto alla prima, quella generandosi da una comprensione, questa avendo la stessa comprensione come obiettivo finale: quasi un processo di
scendente l'una, ascendente l'altra. Celebra, attraverso il rito, chi ha compreso, ma, allo stesso tempo, l'ese cuzione del rito è strumento di progressiva comprensione.
LA FUNZIONE CELEBRATIVA DEL RITO
È
pura manifestazione.
Senza alcuno scopo né alcuna finalità che non sia l'azione rituale in sé e per sé.
È il rito come musica,
danza, canto, poesia .
Chi sta imparando a suonare un qualsiasi strumento suona principalmen te per imparare, l'apprendimento di una abilità essendo il suo scopo. Ma perché suona un musicista ? Certamente a volte per esercitare e perfezionare la sua tecnica, certamente a volte per essere ascoltato e per condividere qualcosa, ma altre volte no. Altre volte suona semplicemente per fare musica, per esprimere, per ma nifestare e per manifestarsi. La musica in questo caso è insieme una causa, un mezzo e un fine. Non ha bisogno d'altro: il fare musica basta a se stesso, è un atto che tro va pienezza e completezza nella sua stessa esecuzione, e che nell'esecuzione ha la sua ragion d'essere.
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Così, il rito che nasce dall'aver compreso un aspetto della manifestazione è pura celebrazione. " Comprendere " significa contenere, portare dentro di sé, prendere per unire e per unirsi, a bbracciare fino a diventare una sola cosa con ciò che è stato abbracciato. Ho compreso un concetto: prima mi era oscuro, estraneo, non mi appar teneva. Ma ora che l'ho compreso è un possesso stabile: l'ho assimilato e così ora è parte di me. E allora comprendere un frammento dell'universo significa contenerlo, o scoprirlo in sé: significa contenere - o scoprire in sé - un frammento del Tutto, un frammento di Dio. Eppure anche questa comprensione, così totale, così profonda, così com pleta, non è ancora sufficiente, proprio come non è sufficiente all'artista il possesso dell'arte . Proprio come al musicista non basta contenere in sé la musica, né sapere di saper suonare, ma ha bisogno di farla, la musica . Ha bisogno di crearla (o di ri-crearla, nella misura in cui già la contiene ) , perché solo in questo modo la porterà da dentro a fuori di sé, dalla potenza all'atto, e dunque solo in questo modo la renderà realmente parte del mondo. Allo stesso modo, anche la percezione di un frammento della Verità ha bisogno di esprimersi, di manifestarsi, di passare dalla potenza all'atto, di venire in essere attraverso un gesto che, nel rappresentarla, la renda esplicita : un gesto cioè che valga a realizzar/a. Il punto onni-potente rende reale ciò che contiene attraverso la spirale della manifestazione. Il divino esprime la sua creatività creando l'universo. L'architetto si realizza in quanto tale attraverso l'edificazione di un tempio. E colui che ha compreso, colui che ha portato dentro di sé e ora compren
de, rende reale questa comprensione agendola attraverso un rito . Attraverso un'azione che è pura e assoluta, che non ha altro scopo oltre a quello di manifestare un aspetto della realtà reale che sta al di là del velo dell'illusione . Un atto che è umano nella forma ma divino nella sostanza . Pura celebrazione. Una funzione dunque, quella celebrativa, che possiamo a tutti gli effetti considerare come causa prima e sorgente dell'atto rituale, in quanto non nasce dalla ripetizione di una prassi preesistente ma scaturisce direttamente dal contatto con la Verità .
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Inevitabile, come è inevitabile per una fiamma diffondere luce nell'am biente. Spontanea, in quanto non richiede studio, valutazione, decisione ma pro cede da una comprensione in modo diretto e non mediato. Senza scopo, poiché non persegue un risultato ma trova realizzazione nel suo stesso esprimersi. Una funzione che non ripete un rito, ma continuamente lo crea e lo ri crea, proprio come ad ogni accensione la stessa candela non diffonde una ripetizione della luce precedente, ma semplicemente, in quell'istante, senza un "prima " né un " dopo " né un " perché " , celebra la propria capacità di illuminarsi e di illuminare.
LA FUNZIONE DIDATTICA DEL RITO Se la funzione celebrativa del rito nasce da una comprensione, la funzione didattica ha quella stessa comprensione come suo scopo e punto d'arrivo.
È
proprio per questo che abbiamo definito " discendente " la prima, in
quanto discende dalla Verità, e " ascendente " questa, che si propone come un mezzo per raggiungerla. Un percorso inverso che spiega e giustifica le differenze fra le due funzioni e consente, nello stesso tempo, di distinguere aspetti che risulteranno determinanti ai fini della pratica rituale. Inevitabile il rito che procede dalla comprensione, ma direttamente e necessariamente conseguente a una scelta e a un atto di volontà quello che muove a partire dalla non-conoscenza . Spontaneo e naturale - anche se assolutamente simbolico - il gesto che celebra, ma regolata e scandita fin nei minimi dettagli una prassi rituale che ha nella forma il suo primo e più sicuro supporto. E, infine, senza alcuno scopo il rito in quanto atto che si auto-realizza, ma direttamente dipendente dalla motivazione - dalla qualità e quantità della tensione che muove e sostiene l 'attore - il rito in quanto strumento di realizzazione.
È
dunque di questa seconda funzione che maggiormente ci occuperemo
nella parte riservata alla pratica, la funzione celebrativa non necessitando per sua natura - di alcuna istruzione. Ciò non significa che solo la funzione didattica spieghi e giustifichi la pre senza centrale del rito nel lavoro massonico. Anzi, come vedremo, le due fun-
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zioni tendono ben presto ad integrarsi - anche se in diversa misura - poiché, man mano che aumenta la comprensione, progressivamente nell'esecuzione del rito, trova spazio espressivo la componente celebrativa . Ed è allora che, naturalmente, la forma diventa spontaneità pur man tenendosi uguale in ogni più piccolo particolare, mentre l'intenzione e la volontà vengono sostituite dall'intensità. Ma è qualcosa che avviene da sé, che non può essere né simulato né costretto, proprio come non si può simulare o forzare la comprensione, ma solo lavorare per attenerla. Un processo che non è dissimile, peraltro, da quello che si svolge durante l'apprendimento di una qualsiasi abilità artistica, quando lo studio e la tec nica, venendo progressivamente assimilati (e dunque compresi) consentono un'espressione che è libera e spontanea pur derivando dalla tecnica e di que sta stessa avvalendosi. Così nella danza - tanto simile al rito in quanto utilizza la corporeità come mezzo e strumento - l'apprendimento, l'esecuzione e la progressiva assimilazione di un movimento portano a una graduale comprensione non solo dell'atto in sé, ma anche del suo "contenuto " , della sua qualità, del suo
spirito, dell'Arte che il creatore della danza in quel movimento ha espresso. Dunque, anche in questo caso, un percorso discendente per l'artista, che manifesta un frammento d'arte attraverso una danza, e un percorso ascen dente per l'allievo, che dall'esecuzione e attraverso l'esecuzione, può arrivare a comprendere quel frammento, diventando così egli stesso artista. Dallo spirito alla forma, e dalla forma allo spirito. La forma come mezzo d'espressione per l'artista; la forma come veicolo e come via per chi artista aspira a diventarlo. Allo stesso modo, nel rito, quei movimenti che sono scatuntl come spontanea e necessaria rappresentazione sensibile di un frammento di Cono scenza, diventano una forma precisa, indiscutibile e immodificabile, vero e proprio strumento di lavoro - insieme tecnica e mezzo - per chi quella stessa Conoscenza, non possedendola ancora, aspira a realizzarla . La cattedrale, già presente nella mente dell'architetto, prende forma in un progetto, attraverso il quale potrà realizzarsi. Per l'architetto, dunque, progetto e realizzazione discendono da un'idea e contemporaneamente la realizzano, portandola qui, nel mondo delle cose. E il progetto consiste allora, per lui, in una sequenza precisa di atti che trovano coerenza e ragion d'essere nell'idea che li precede e che li anima.
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Ma per gli operai, che ancora non contengono l'idea, il progetto sarà una guida, uno strumento e una via: l'unica in grado di portarli con sicurezza a conoscere la cattedrale, realizzandola. Progressivamente, pietra dopo pietra, rispettando e agendo le istruzio ni contenute nel progetto, vedranno realizzarsi l'opera mentre la portano avanti, arrivando così a comprendere una parte sempre maggiore dell'idea originaria e della cattedrale che va prendendo forma e sostanza . Anche i loro stessi gesti, così, acquisiranno via via sempre più senso, tra sformandosi da semplice esecutività in azioni sempre più coerenti, precise, efficaci e in sintonia con lo spirito e il fine del progetto che si va man mano dispiegando davanti ai loro occhi. Anche il rito è un progetto . Nasce da un'idea, da un lampo di luce che disperde per un istante le te nebre della non-conoscenza e permette di vedere e di comprendere qualcosa di ciò che nelle tenebre era già presente ma invisibile. Nasce da un'idea e si distende in avanti (pro-iectus) verso la sua realiz zazione. Prende una forma e così diventa una forma, fatta di cose e di atti, di og getti e di gesti, di simboli e di azioni simboliche. Ma la forma mentre esprime ri-vela, e così questi gesti e questi simboli, mentre realizzano l'idea nello stesso tempo la coprono con la sostanza della concretezza: nel darle un corpo la celano all'interno di quel corpo. Così il rito, luminosa e palese celebrazione di Conoscenza per il suo crea tore originario, diventa una qualunque sequenza di gesti - a volte ordinaria, a volte curiosa - per chi del mondo coglie solo la forma fine a se stessa . M a i l rito è u n progetto . A chi già contiene l'idea, serve per realizzarla, e a chi non la contiene serve per arrivare man mano a comprenderla, e dunque a contenerla. Una funzione celebrativa per l' architetto che crea il progetto, una funzio ne didattica per l'operaio che, lavorando in aderenza al progetto, ne cono scerà sempre più il senso. E non gli sarà richiesto, all'inizio, nient'altro che una semplice e puntuale osservanza del progetto stesso. Non di capirlo a priori (ciò che implicherebbe l ' applicazione di categorie mentali improprie, in grado di determinare errori nell'esecuzione ) , e nemmeno di discuterlo (in quanto ciò che dà un senso al progetto è ancora sconosciuto all'operaio), ma soltanto di iniziare a eseguire i passaggi previsti, rispettandoli nella forma e con il necessario impegno.
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Questo significa che, grazie al rito, chiunque - nessuno escluso!
-
è po
tenzialmente in grado di ottenere la conoscenza, senza alcuna limitazione di cultura, istruzione o precedente esperienza. Proprio come chiunque può, grazie a un progetto, lavorare alla realizza zione della sua cattedrale.
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LA PRATICA RITUALE
Tre sono gli elementi essenziali della pratica rituale: la FORMA, che costituisce in qualche modo il "corpo fisico " del rito e lo rende perciò agibile la sosTANZA, costituita dalla conoscenza che è all'origine del rito stesso e dalla quale questo è scaturito l'ATTORE, e cioè colui che agisce il rito rendendo così operativa la forma Tre elementi ugualmente necessari e determinanti, la carenza di uno solo inevitabilmente compromettendo il valore del rito in sé, e dunque anche la sua efficacia in quanto progetto di realizzazione.
LA FORMA DEL RITO
È fatta di simboli e gesti simbolici - e cioè di simboli statici e simboli dinamici - sistemati in una precisa sequenza nello spazio e nel tempo . Poiché il rito è conoscenza fatta carne e materia, la s u a forma non può che essere modellata su parametri spazio-temporali, che sono gli assi carte siani del mondo manifesto. Dunque la forma del rito è materia (cioè oggetti) , spazio (movimenti ) e tempo (ritmo, durata e sequenzialità ) . E questo c i porta a una prima fondamentale considerazione d i ordine pratico: se nello svolgimento di un rito tutto fa parte della sua forma, allora tutto deve essere considerato ugualmente importante . Ogni oggetto e ogni persona, ogni movimento e ogni immobilità, ogni priorità e ogni sequenza che siano parte della forma del rito sono - di fatto - elementi ugualmente indispensabili alla sua realizzazione . Non ci sono, nel rito, elementi " di contorn o " , elementi secondari o marginali e per questo trascurabili. Non ci sono fatti " centrali " e altri fatti " accessori " o " periferici " . Esistono, certamente, nella forma d i ogni rito alcuni elementi che è più
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facile decodificare in chiave simbolica, e per questo il loro ruolo risulta più evidente nell'economia generale del rito stesso. Si può essere portati allora a considerarli più " importanti " e a dedicare a questi più cura e attenzione, trascurando o addirittura dimenticando altri elementi, classificati come su perflui o comunque non necessari o non altrettanto pregnanti. Ma si tratta di un errore gravissimo. Forse il più grave dal punto di vista della reale efficacia del rito . Un errore che può addirittura portare - come spesso ha portato - alla progressiva degenerazione e poi alla perdita di riti antichi e preziosi.
È il rito interpretato
e rimodellato " dal basso " , da chi ancora non ne ha
compreso l'origine e la sostanza .
È il progetto giudicato e
rivisitato dagli operai che, sulla base di una loro
parziale e incompleta comprensione, decidono essere alcuni passaggi meri tevoli di maggior attenzione e altri poco importanti, e dunque trascurabili.
È
il peccato di superbia della ragione, troppo orgogliosa del livello rag
giunto - qualunque esso sia - per ammettere che esistano livelli superiori da cui poter guardare e comprendere la realtà. Ma il rito - lo ripetiamo - è un progetto. Un progetto che serve all'architetto per dare corpo e sostanza a un'idea che già contiene, e serve agli operai per ottenere, attraverso l'esecuzione, la comprensione di quell'idea . Attraverso l'esecuzione, e non attraverso il giudizio e l'interpretazione arbitraria. E d'altra parte, è possibile giudicare quale pietra sia più importante nella costruzione di una cattedrale, oppure quale giorno sia il più importante nei nove mesi di gestazione di una vita ? O cosa sia più o meno importante nell'economia dell'universo ? In un progetto non ci sono dettagli trascurabili, poiché tutto concorre al raggiungimento di un unico scopo. E così nello svolgimento di un rito nessuno dei partecipanti è più im portante di altri, né un dettaglio, un gesto, la disposizione o la rimozione di un oggetto possono essere modificati o trascurati per semplice giudizio arbitrario . Chiunque v i s i a coinvolto è da tenersi come elemento essenziale: tanto chi agisce direttamente le azioni previste quanto chi assiste stando in piedi all'ordine o seduto fra le colonne, poiché tutti - nessuno escluso - sono parte
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integrante del rito, e perciò ugualmente responsabili della sua attuazione e della sua efficacia. Il rito è, per chi lo segue in senso ascendente, un percorso dal noto verso l'ignoto. Un percorso che consente di conoscere solo il cammino che già si è lasciato alle spalle, e non quello che ancora resta da percorrere, né tantome no la meta da raggiungere.
È
una mappa, le cui indicazioni trovano un senso e una conferma solo
dopo essere giunti a destinazione, mentre prima di allora possono solo essere seguite nel dettaglio e con la massima cura . Perché solo chi ha compilato la mappa o ha già raggiunto la meta conosce l'intero percorso. Così "misurare " il rito con il metro della profanità, vederlo e spiegarlo con gli occhi della scienza essoterica, interpretarlo e agirlo sulla base di ciò che del rito stesso già si è compreso, e non sulla base di ciò che ancora resta da comprendere, è ridurre il nuovo a misura del conosciuto : un ottimo modo per vanificarne appieno il potenziale in termini di conoscenza, di cambia mento e di evoluzione. Dunque, secondo quella chiave che abbiamo definito " didattica " , non si esegue un rito perché lo si conosce ma per conoscerlo. E non lo si esegue così come lo si è capito, ma così come è prescritto di eseguirlo. Al di là di ogni giudizio, di ogni riflessione e di ogni interpretazione . Ciò non significa - si badi bene - che non sia importante riflettere e sfor zarsi costantemente di capire ogni gesto e ogni dettaglio della pratica rituale: tutt'altro ! La mente è - e lo vedremo bene - un elemento assolutamente indispensabile e prezioso nella fruizione del rito . Ciò che è essenziale comprendere, d'altra parte, è che la mente deve se
guire il rito, e non preceder/o ! Deve comprenderlo, e non spiegarselo. Deve progressivamente crescere fino a poterlo contenere, e non ridimensionarlo a misura della propria capacità attuale. Non si realizza una cattedrale studiandone il progetto e immaginando come potrebbe essere, ma solo lavorando concretamente e in aderenza a quanto previsto dal progetto stesso. Né si conosce una destinazione ignota studiando la mappa che indica la via da seguire, ma solo attenendosi - un passo dopo l'altro - al percorso segnato . Così non si raggiunge il contenuto del rito interrogandosi o dissertando sulla sua forma, ma prima di tutto e soprattutto praticando/o, nella piena e assoluta osservanza di ogni suo aspetto formale.
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LA SO STANZA DEL RITO
È la cattedrale nel progetto, la meta nella mappa,
la musica nella partitu
ra, la danza nello schema dei passi.
È
la conoscenza che il rito contiene, quella stessa conoscenza da cui è
scaturito e a cui consente di arrivare, origine e destinazione di un percorso che procede dalla verità per farvi ritorno, causa e fine di un processo che è manifestazione in un senso e trascendenza in un altro . Una conoscenza però - ancora una volta - che non va assolutamente confusa con le diverse spiegazioni che del rito si possono dare, e che non rappresentano altro che punti di vista, ciascuno relativo alla cultura e alla posizione di chi l'ha fornito. La conoscenza contenuta nel rito è di tipo realizzativo, e non culturale. Ciò significa che concerne l'intero essere umano, e non solo la sua mente. Significa che i suoi effetti si manifestano come un cambiamento complessivo della struttura-uomo, ad ogni livello della sua costituzione.
È
un cambiamento che riguarda l'essere, e non il sapere .
Si può spiegare l'amore attraverso la chimica, la religione, la psicologia, l'astrologia, il karma o la filosofia. Ma per conoscerlo realmente si può solo .
.
mnamorars1. Così, allo stesso modo, né una né mille spiegazioni possono chiarire la sostanza del rito, né possono sostituirsi alla pratica diretta e personale, unica vera via di comprensione e di realizzazione di quanto il rito stesso contiene . Il rito non è una metafora offerta alla ragione, ma prima di tutto e so prattutto una pratica. Non è " un esempio " per ridurre a misura delle capacità della mente fatti altrimenti inconcepibili, ma essenzialmente un mezzo di realizzazione, e come tale inevitabilmente destinato a rimanere totalmente o parzialmente incomprensibile fino a realizzazione avvenuta . In caso contrario, se cioè lo studio, la riflessione e una cultura specifica fossero sufficienti alla comprensione del contenuto del rito, perché mai rac comandarne la pratica ? Perché non trasformare il Tempio in un'aula oppure, ancor più semplicemente, consigliare la lettura e lo studio di testi teorici in grado di spiegare tutto quel che c'è da sapere ? La risposta è semplice, e diretta conseguenza di quanto abbiamo fin qui espresso: perché lo scopo del rito non è sapere, ma essere!
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Dobbiamo allora considerare ogni spiegazione inutile, superflua o addi rittura dannosa ai fini dell'efficacia nella pratica rituale ? Assolutamente no ! E vogliamo affermarlo con forza ! Ogni spiegazione di uno specifico rito rappresenta un punto di vista, spes so derivante dalla maggiore comprensione ottenuta praticandolo con serietà, dedizione ed efficacia. Se il rito è il progetto per la costruzione di una cattedrale, allora ogni spiegazione è il resoconto offerto da chi ha già lavorato ad altri progetti simili, e ne propone la sua specifica esperienza . E se è una mappa, le spiegazioni sono la voce di chi è già più avanti nel cammino, e voltandosi indietro descrive la strada percorsa e ciò che ora vede intorno a sé. Contributi utili e preziosi, ma che non devono e non possono in nessun modo sostituirsi alla pratica, né condizionarne la sperimentazione diretta, che è poi il suo unico e reale scopo. L'abbiamo già visto: non si esegue un rito perché lo si è capito ma per ca pirlo. Non sono le spiegazioni a renderlo efficace, ma la qualità della pratica. Garanzia del rito, infatti, non è la sua intelligibilità, né possono esserlo spiegazioni, teorie o testimonianze. Garanzia del rito è e può essere solo la Tradizione .
È la Tradizione il collegamento fra
un progetto e l'architetto che origina
riamente l'ha steso. Dunque solo la Tradizione può garantire del contenuto del rito. E solo il rispetto della Tradizione può salvaguardarne la continuità, l'in tegrità e l'efficacia.
L'ATIORE
È il reale motore e protagonista
del rito, colui che concretamente lo agisce
rendendolo con ciò operativo ed efficace.
È
dunque chi, a qualunque livello e in qualunque ruolo, partecipa
all'azione rituale e contribuisce, con l'azione o con la presenza, alla realiz zazione del rito . Non solo chi agisce le azioni prescritte - come abbiamo già visto - ma chiunque vi prenda parte. Non basta il sole, per mettere in scena lo spettacolo dell'alba, perché sen-
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za l'orizzonte della terra o del mare, e senza il cielo che si colora e si illumina, non vi sarebbe alba. Così nessuno è spettatore, nessuno è passivo durante lo svolgimento di un rito, e nessuno è esentato dal prendervi parte attivamente, né dalla responsa bilità della sua realizzazione. Qualcuno è attivo attraverso il movimento, qualcuno attraverso la pre senza. O meglio: qualcuno è attivo attraverso la qualità dei movimenti che ese gue, e qualcuno attraverso la qualità della sua presenza. " Qualità " : un elemento essenziale e irrinunciabile. Non basta sapere cosa fare e farlo, quali movimenti eseguire nelle diverse fasi dell'azione rituale, quali parole pronunciare o quali posizioni assumere . Tutto questo fa parte della forma del rito, ma all'attore è richiesto qual cosa di più. Non soltanto di attenersi alla forma, ma anche una qualità, un atteggiamento, un modo di essere e un modo di fare. Se il " cosa " del rito (cosa fare) riguarda l'aspetto formale, è indubbio che il "come " ( come farlo) è di specifica pertinenza dell'aspetto umano. E allora è nel "come " che l'attore svolge realmente la sua funzione e con tribuisce alla realizzazione e all'efficacia del rito. Perché è nel "come " che l'uomo riversa la sua umanità e la sua specificità . L'abbiamo visto : non basta accendere una candela per agire il rito dell'ac censione del fuoco. Senza una precisa qualità rituale dell'operatore - che è
consapevolezza, è attenzione, è intensità- non c'è rito ma solo attività . E allo stesso modo non basta essere presenti a un rito per parteciparvi . La stessa consapevolezza, la stessa attenzione e la stessa intensità devono intridere, permeare e animare tanto l'agire quanto il non agire, tanto il mo vimento quanto l'immobilità . Giustamente, nell'istruzione muratoria, una particolare enfasi è riservata al rispetto della forma, la forma stessa essendo la guida più solida e sicura per procedere lungo la via della ritualità . Può accadere però che, proprio a causa di questa enfasi sull'aspetto for male, il valore dell'atteggiamento passi - nella pratica dei lavori di loggia un po' in secondo piano, così che l'attenzione degli operai finisce con l'essere diretta per gran parte sulla ricerca di un'esecuzione formalmente corretta, nella convinzione che questo sia sufficiente a rendere il rito giusto e perfetto. Ma non è così. Se la forma è il corpo fisico del rito, e se il suo contenuto
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di conoscenza ne rappresenta lo spirito, allora l'atteggiamento dell'operatore è l'anima del rito stesso, il principio vitale, vivo e vivificante. E in un'esecuzione che sia solo formalmente corretta non c'è anima, e dunque non c'è vita . Il rito non è completo in tutte le sue componenti, e perciò, di fatto, non è pienamente efficace. Diventa cerimonia. Rimane la forma e rimane il contenuto, ma è venuto meno l'operatore in quanto elemento umano, cuore e protagonista dell'azio ne. Un'opera di Shakespeare letta da un sintetizzatore vocale: la forma è perfettamente rispettata e non si può certo dire che il contenuto sia andato perso. Eppure manca qualcosa di essenziale: manca il sentimento, il cuore, l'anima, la vita che può soltanto scaturire dalla partecipazione e dall'umanità di un attore .
È
così che l'atteggiamento dell'operatore si rivela come un elemento
centrale e irrinunciabile non solo per l'efficacia del rito, ma per la sua stessa esistenza, in quanto è proprio la qualità di tale atteggiamento a determinare se l'azione sarà rituale oppure semplice cerimonia. D'altra parte - occorre ammetterlo - un conto è lavorare sull'aspetto for male, per sua natura evidente ed esplicito, e un conto lavorare su qualcosa di indefinito e vago come una qualità, un modo di essere, un atteggiamento, soprattutto nella misura in cui questi stati d'animo sono abitualmente con sigliati o prescritti senza peraltro che venga fornita alcuna indicazione in merito a come raggiungerli o mantenerli.
È per questo che
riteniamo senz'altro utile tentare un approccio più con
creto, più definito, quasi "tecnico " al tema dell'atteggiamento rituale. E lo facciamo proponendo anzitutto un esperimento . Prendete un bicchiere, riempitelo d'acqua e bevetene un sorso . Ora deponete quello stesso bicchiere di fronte a voi e provate a riflettere sul principio " Acqua " che contiene . Consideratene appieno il valore simbo lico, in termini di rigenerazione e di purificazione. L'acqua rende fertile la terra e lava le impurità prendendole in sé e trasci nandole via con il suo scorrere. La prima vita sulla terra è uscita dall'acqua del mare, come ogni essere umano, alla nascita, esce dall'acqua in cui, per nove mesi, si è preparato alla vita . E così quell'acqua che avete di fronte, e che state per bere, renderà possi-
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bile la vita di ogni cellula del vostro corpo, e contemporaneamente, scorren do, porterà via con sé ciò che è inutile, superfluo o dannoso. Vita e purificazione. Ora prendete il bicchiere con la mano destra - che è volontà, energia solare e attiva - sollevatelo fino all'altezza degli occhi, guardate l'acqua che contiene e rievocate tutto il suo valore simbolico. Poi, mantenendo quella co scienza in forma di pensiero o di sensazione, lentamente portate il bicchiere alle labbra e bevete un secondo sorso. Ora chiudete gli occhi e sentite l'acqua scendere nel vostro corpo: vita e purificazione. Ecco: forse la seconda volta che avete bevuto non avete eseguito un rito (o almeno non un rito " ufficiale " ) , ma quasi certamente il vostro atteggiamento e la qualità del vostro agire sono stati, a tutti gli effetti, rituali. Esaminiamo nei dettagli le due diverse esecuzioni dello stesso atto - la prima, ordinaria, e la seconda, rituale - con lo scopo di individuare alcuni criteri da formalizzare come linee guida. Consideriamo anzitutto la velocità. L'azione rituale appare spesso più lenta rispetto ad analoghe azioni ordi narie. Rallentata, ma anche più fluida, più armonica, più uniforme nell'alter narsi di pause e movimento. Quasi indipendente dal vincolo della durata che dirige e scandisce l'attività quotidiana. Quasi scivolasse sulle onde del tempo anziché essere trascinata dalla sua corrente.
È
il tempo del rito.
Come una barca a vela si muove nel vento e per effetto del vento, pur senza esserne in balìa, così il rito si appoggia sul tempo e si muove n e l tempo pur senza esserne condizionato, ma seguendo unicamente una rotta ch e è dettata dal suo contenuto di conoscenza.
È nel tempo
ma non del tempo.
Una qualità che è insieme un effetto dell'atteggiamento r i t u a l e m a a nche un mezzo per attenerlo. E comincia, nella pratica, proprio con un s e m p l ice
ra l l e n t a m ento
dell'azione . Questo certamente non vale - di per sé - a rendere l ' a z i o n e r i t u a le, ma contribuisce a spezzare la catena dell'abitudine che v i ncola le a z i o n i ordina rie alla meccanicità e all'inconsapevolezza . Quello del rallentare è solo un trucco: n ie n te d i p i Ì I . ( � u a l u n q u e atto,
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fosse anche il più comune e quotidiano, per il solo fatto di essere rallentato diventa " strano " , diverso, inconsueto. Si impone all'attenzione, così che risulta difficile non esserne coscienti mentre lo si esegue. La lentezza non è necessaria al rito ( il rito stesso essendo indipendente dallo scorrere del tempo, lento o veloce che sia ) ma solo utile a ripulirlo dall'abbondante polvere della superficialità profana, così da renderne più evidenti le caratteristiche intrinseche. Più che di " rallentare " , allora, si potrebbe parlare di " eliminare la fretta " , quella fretta che normalmente brucia i l presente nel futuro, e consuma ogni azione nel fuoco dell'ansia del conseguimento. Ma non si può gustare un vino pregiato ingurgitandolo a grandi sorsa te. E questo perché lo scopo del gustare non è il bere, ma lo stesso atto del gustare. Se lo scopo fosse il bere, questo si realizzerebbe solo a conclusione dell'at to ( " ho bevuto, dunque ho raggiunto lo scopo " ) , mentre se è il gustare, allo ra si realizza mentre l'azione è in corso ( " sto gustando " ) . Così l o scopo dell'azione rituale non s i identifica con un " dopo " , m a con un " durante " . Non è nel futuro, ma nel presente. Se accendo una candela perché manca la luce, il mio gesto troverà un senso e comincerà a dispiegare i suoi effetti soltanto dopo che sarà stato completato. Ma se compio lo stesso atto - come nell'esempio che a bbiamo visto in precedenza - per celebrare e ripetere l'atto della prima manifestazio ne, allora il senso è nello svolgimento, e non nella conclusione. Allora non è più importante farlo nel minor tempo possibile, ma farlo nel
miglior modo possibile . Allora non è più il tempo a condizionarne l'esecuzione, ma il contenuto . Così il rito, benché temporale nella sua forma, scivola nel non-tempo per trasformarsi in azione assoluta . E dopo quello di rallentare l'azione per affrancarla dai vincoli del tempo, un altro " trucco " per entrare nell'atteggiamento rituale è l'attenzione ai
dettagli. I dettagli sono parte integrante della forma - l'abbiamo visto - e il rispet tarli con assoluta precisione è condizione essenziale per la realizzazione del rito . Ma dal punto di vista della qualità dell'operare, di cui ci stiamo qui oc cupando, il dedicare la massima attenzione a ogni singolo dettaglio formale acquista un risalto ulteriore e peculiare, quale fondamentale strumento di
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sviluppo della consapevolezza, una qualità che - da sola - potrebbe riassu mere in sé tutto quanto occorre all'attitudine rituale. D 'altra parte è del tutto inutile esaltare il valore della consapevolezza o raccomandarne la pratica, se poi le indicazioni si riducono a una generica esortazione " ad essere più consapevoli " . Né valgono spiegazioni dotte, scientifiche o ispirate, poiché anche l a con
È un muscolo dell'es sere, e come tale può essere allenata e sviluppata solo attraverso la pratica. sapevolezza, come il rito, più che capita va praticata .
E la cura dei dettagli è il primo e più immediato strumento . Interessarsi ai particolari impedisce, di fatto, di distrarsi. O bbliga ad essere lì dove si è, con la mente oltre che con il corpo.
È
un aiuto per non
allontanarsi dal " qui e ora " , per non fuggire nel futuro e per non perder si inseguendo i pensieri che in ogni istante si accavallano nella mente.
È
un'ancora che tiene in contatto con il reale e impedisce all'immaginazione di prendere il posto della realtà . Solo attraverso un'attenzione costante e instancabile possiamo cogliere, giorno dopo giorno, esecuzione dopo esecuzione, come la pratica del rito, benché codificata, fissa e immutabile da secoli, sia in realtà differente ogni volta in cui viene agita. E come noi stessi cambiamo ad ogni celebrazione. Ma per accorgersene - per accorgersene davvero - occorre essere svegli e presenti, curiosi e attenti alle sfumature, ai segnali deboli, ai dettagli che solo la superficialità e la distrazione fanno apparire come insignificanti . In fondo sono solo dettagli quelli che permettono di distinguere un dia mante da un'imitazione, o un quadro d'autore da un falso. E sono dettagli quelli che rendono le note di un pianoforte diverse da quelle di un sintetiz zatore elettronico. Dettagli per qualcuno, differenze macroscopiche e sostanziali per qualcun altro . Segnali deboli che l'attenzione e la cura possono rendere forti attraver so una crescente sensibilizzazione, un processo di progressivo affinamento della percezione che porta a distinguere con sempre maggiore chiarezza ele menti e qualità sottili nel mondo esterno e in quello interno.
È
l'attenzione ai dettagli che porta a prenderne coscienza .
" Attenzione " e " coscienza " : le due colonne poste all'ingresso del tempio della consapevolezza. Quando facciamo attenzione a qualcosa ne diventiamo coscienti, e quan do siamo coscienti anche del nostro essere coscienti, allora siamo anche
consapevoli. Fate attenzione a un oggetto qualsiasi e ne diverrete coscienti . Ora fate
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attenzione a voi stessi mentre fate attenzione a quell'oggetto, percepite cioè insieme all'oggetto anche voi stessi mentre lo state osservando, e sperimen terete qualcosa che è consapevolezza.
Meta-coscienza: coscienza del proprio essere coscienti. Il campo visivo che si allarga fino a comprendere anche l'osservatore. La mano che sente se stessa insieme all'oggetto che stringe. L'orecchio che ha coscienza del suono e del proprio udire. Questa è consapevolezza: l'elemento senz'altro più delicato e forse più importante fra quelli che sono richiesti all'operatore per la realizzazione e l'efficacia del rito. E l'attenzione, l'attenzione ai dettagli, è la via più semplice e immediata, ma insieme anche la guida più sicura e stabile per cercarla e raggiungerla . Ancora u n elemento, infine, per completare i l quadro che definisce l a qualità dell'atteggiamento rituale. Un elemento che non riguarda il piano fisico, come la velocità dell'ese cuzione, né quello mentale, cui fanno riferimento l'attenzione e la cura dei dettagli, ma che soprattutto concerne la sfera dei sentimenti e delle emozioni, e dunque ciò che - forse più di ogni altra cosa - rende l'uomo umano. Partecipare al rito significa prendervi parte ed esserne parte. Significa portare all'interno dell'azione rituale l 'intero proprio essere, che è corpo, mente, sentimento, emozione. Solo da questo coinvolgimento totale potrà nascere l'intensità, un'ener gia tangibile, viva e vibrante, in grado di esaltare ad ogni livello gli effetti dell'azione. Va considerato, a tale proposito, che l'apparato rituale e la stessa forma del rito sono il più delle volte sufficientemente " forti " da determinare un notevole livello di coinvolgimento, e questo indipendentemente dalla predi sposizione e dalla volontà dei partecipanti. Esiste d'altra parte tra gli uomini - e conviene non trascurarne il potere - un nemico subdolo e insidioso che ha nome " abitudine " , e che è in grado, in modo inapparente ma progressivo, di svuotare di significato ogni atto e ogni evento secondo un'equazione che lega la consuetudine alla banalità . Abbiamo già visto come l'attenzione ai dettagli consenta di scoprire il nuovo e il differente sotto alla ripetitività della forma, ma c'è ancora un al leato che possiamo mettere in campo per contrastare il potere dell'abitudine . Ricordate quando, nell'esperimento del bicchier d'acqua, vi abbiamo chiesto di considerare il valore simbolico dell'elemento Acqua quale porta-
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tore di vita e di purificazione, e di tenerne il pensiero nella mente durante tutta la durata del " rito " ? Non vi è sembrato che fosse questo il fattore che maggiormente ha reso la seconda esecuzione differente dalla prima, quando semplicemente avete bevuto, come migliaia di altre volte, un " semplice sorso d'acqua " ? Un pensiero, certo, ma un pensiero che ha determinato uno stato d'ani mo, un sentimento, una qualità emotiva ben definita, anche se forse non definibile, ma in ogni caso capace di riscattare quell'atto dal carcere grigio e anonimo nel quale l'abitudine l'aveva rinchiuso. Ed ecco allora, finalmente, il reale valore che spiegazioni e interpretazioni possono acquistare rispetto alla prassi rituale. Non un valore diretto, in quanto nessuna spiegazione può sostituirsi alla conoscenza personale del contenuto del rito, ma un valore indiretto, in quan to fattori capaci di creare e rinnovare uno stato d'animo e un coinvolgimento che possono, a loro volta, determinare partecipazione e intensità . Ciò che abbiamo espresso in merito all'elemento Acqua, in realtà, è ben poca cosa rispetto a ciò che se ne potrebbe dire. D'altra parte il nostro scopo non era né poteva essere quello di esaurire l'argomento (la conoscenza non può essere comunicata, ma solo raggiunta personalmente ! ) , bensì quello di offrire spunti ed elementi perché si creasse, in chi stava per portare il bicchie re alle labbra, lo stato d'animo più opportuno. La spiegazione di un rito - l'abbiamo già detto - è la voce di chi è già più avanti nel percorso indicato sulla mappa: non può in nessun modo farci esse re già là da dove proviene, ma può rassicurarci nel dubbio, darci stimolo ed energia quando siamo stanchi e scoraggiati, coinvolgerci e motivarci quando la determinazione sembra venir meno. Nessuna spiegazione è la verità ma ciascuna è una parte della verità, e per questo ne contiene il profumo. Qualcuno si contenta di adorarlo, quel profumo, e di goderne coi sensi. Qualcun altro coglie, attraverso il profumo, la realtà del fiore che lo emana: ne nasce un desiderio, che diverrà ricerca e poi conseguimento. Allo stesso modo, per qualcuno le spiegazioni sono sufficienti, esaurisco no il tema, possono essere fatte proprie e riproposte ad altri quali testimo nianze del proprio sapere e prove di una raggiunta realizzazione . Ma è solo profumo, non è il fiore.
È È
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solo una spiegazione, non è la verità . un reportage fotografico, un racconto di viaggio che parlandoci di una
regione sconosciuta non deve esaurire il nostro desiderio di partire, ma al contrario stimolarlo. Così la spiegazione di un rito non vale ad esaurirlo, ma può avere il pote re di stimolare la curiosità, il rispetto, la meraviglia, la sensazione di trovarsi al cospetto di qualcosa di grande e di sacro: in una parola, può modificare
l'atteggiamento nei confronti dello stesso rito, e dunque anche la qualità con cui verrà affrontato e agito.
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CONSAPEVO LEZZA E RITO
Abbiamo accennato nel precedente capitolo alla qualità della consape volezza, definendola come l'elemento più importante fra quelli che sono richiesti all'operatore per la realizzazione e l'efficacia del rito.
È
per questo che riteniamo utile riprendere l'argomento, per trattarlo in
modo più approfondito e con specifico riferimento ad alcuni aspetti centrali della prassi rituale.
Lo STATO DI CONSAPEVO LEZZA Nel linguaggio quotidiano l'espressione " essere consapevole" è il più del le volte intercambiabile con " sapere " , nel senso di "essere a conoscenza di qualcosa " , come ad esempio quando si afferma di " essere consapevoli delle conseguenze di una decisione " , oppure quando si fa riferimento alla " consa pevolezza nei consumi " o ad una " alimentazione consapevole " . In questi casi i l concetto d i consapevolezza coincide con i l possesso di sufficienti informazioni in merito a un evento o ad un comportamento, con in più una qualità di piena comprensione del significato di tali informazioni in tutta la loro estensione temporale, che abbraccia il passato (le cause ), il presente (implicazioni, collegamenti ) e il futuro (effetti possibili o probabili ) . Una comprensione migliore, più estesa e più approfondita d i quella che viene applicata nella riflessione ordinaria, dunque, dalla quale peraltro la consapevolezza sembra differire - in questa accezione corrente - solo in termini quantitativi, dato che la qualità dell' attività mentale rimane fonda mentalmente la stessa. "Ne sei pienamente consapevole ? " , cioè " Ci hai pensato bene ? Hai ana lizzato fino in fondo la questione ? " . Oppure, nel caso di un'azione passata : " Sei consapevole d i ciò che hai fatto ? " , cioè " Sei al corrente delle implicazioni e delle conseguenze del tuo atto ? "
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Decisamente diverso il modo in cui intendiamo qui il concetto di "con sapevolezza " . E l a differenza sostanziale sta nel fatto che, rispetto a l pensiero ordinario, non prendiamo in considerazione aspetti di tipo quantitativo - come la pro fondità o l'ampiezza della riflessione - ma facciamo riferimento piuttosto a una diversa qualità dell'attività mentale, se non addirittura a qualcosa che la supera (o la trascende ) : un processo che si avvale della mente pur svolgendosi al di là di essa, così come la mente, a sua volta, si avvale del cervello pur senza identificarsi con questo o senza esaurirsi in esso. Non tanto una forma di pensiero, dunque, ma un modo di usare la mente che è qualitativamente diverso dal pensare ordinario. Qualcosa che non passa attraverso il " capire " ma somiglia più a un " ac corgersi " . Un " prendere coscienza " che non coincide necessariamente con l'assegnazione di un significato all'esperienza o con la sua catalogazione, ma implica piuttosto un contatto dell'io con l'esperienza stessa.
È
proprio questa " presenza " dell'io allo svolgersi delle funzioni menta
li, che distingue la consapevolezza dai processi di pensiero ordinario, nei quali la gran parte dell'attività sembra attivarsi e procedere in automati co, secondo schemi innati o acquisiti: arriva uno stimolo, dall'esterno o dall'interno del corpo, e subito viene registrato e classificato, in base alle caratteristiche che più appaiono significative . La classificazione determina l' avvio di sequenze mentali e comportamentali che costituiranno la risposta adeguata . L'intero processo può svolgersi - e di fatto il più delle volte si svolge anche in assenza dell'io. D 'altra parte, poiché l'intera sequenza viene registrata nella memoria ed è disponibile al ricordo, si genera l'illusione di una "coscienza contempora nea " laddove invece vi è solo un prendere atto di ciò che è accaduto e che la memoria stessa restituisce. Un esempio evidente può essere quello di un pranzo consumato mentre si sta discutendo di questioni di lavoro particolarmente delicate e importanti . Alla fine ciascuno dei commensali potrà ricostruire con buona approssima zione l'intero svolgimento del pasto, ma di sicuro la sua attenzione mentre lo consumava era impegnata altrove. Sarà cosciente di " aver mangiato " , ma certamente non era cosciente di mangiare mentre lo faceva. Poi forse si congederà dagli altri, pagherà il conto del ristorante, salirà in macchina e guiderà fino a casa, senza che in tutto questo tempo la sua mente
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smetta un istante di rievocare le varie fasi della discussione, commentarle, elaborare ipotesi, evocare scenari. Tutto, peraltro, si svolgerà correttamente. I diversi programmi " gireran no" senza problemi, dando l'illusione, a posteriori, di essere stati coscienti per tutto il tempo. Una semplice auto-analisi potrà farci rendere conto che questa è la con dizione in cui si svolge la gran parte della nostra giornata. La mente è quasi sempre altrove: ben raramente è lì dove siamo e su ciò che stiamo facendo . E anche quando è presente, sta un passo avanti o un passo indietro rispet to a noi . Prevede, immagina, programma, oppure rievoca, analizza, elabora.
È occupata
a giudicare, definire, commentare gli eventi, più che a prenderne
atto momento per momento. Così il contatto con la realtà è mediato dall'interpretazione e dal giudi zio, e ciò che definiamo "coscienza dei fatti " corrisponde, il più delle volte, a prendere atto di una loro rappresentazione. Una cronaca registrata, in cui la memoria restituisce eventi modellati appunto dal giudizio e dall'interpre tazione. Consapevolezza e mvece, anzitutto, la realtà in diretta. Prima che gli stimoli vengano analizzati e classificati .
È
coscienza dei fatti. Non solo di
quelli esterni, ma anche di tutto ciò che accade nel nostro ambiente interno: .
.
.
.
sensazwm, emozwm, pens1en. Dei fatti, e non di un racconto dei fatti . Ecco perché la consapevolezza non può che essere contemporanea. Di solito siamo coscienti di aver fatto e non di fare. Sappiamo ciò che è stato, e non ciò che " sta essendo " . Guardiamo alla memoria, più che ai dati della percezione, ma ciò che troviamo nella memoria non è più la realtà di prima mano, bensì il prodotto di un'ela borazione, compiuta spesso secondo criteri interpretativi acquisiti e standardizzati che non richiedono un nostro intervento cosciente. D 'altra parte, poiché i dati sono comunque disponibili - benché elaborati - possiamo dire di esserne coscienti, in quanto " sappiamo " di loro . Ma sapere non è la stessa cosa che essere coscienti . Uno si avvale della memoria, l'altro di un contatto della coscienza con gli strumenti della percezione .
Sappiamo di aver salito le scale, ma non siamo stati coscienti di farlo mentre superavamo ogni singolo gradino. 51
Più corretto, allora, sarebbe affermare, in questo caso, che siamo coscien ti del ricordo di aver salito le scale, ammettendo con ciò, implicitamente, che tale ricordo è il frutto di una elaborazione. Ma l'io non può essere presente a qualcosa che è accaduto, bensì solo a ciò che sta accadendo. Si può essere consapevoli del ricordare, ma non delle esperienze che si ricordano . Di queste, infatti, è possibile avere consapevolezza solo nel tempo in cui accadono. Essere consapevoli, dunque, non è la stessa cosa che sapere . Un piccolo esperimento può aiutare a comprendere meglio questo fonda mentale concetto . Provate a prendere coscienza di un piede o di un ginocchio, senza guar darli e senza muoverli. Fatelo adesso, e poi provate a chiedervi cosa è successo, e cioè cosa real
mente si fa, nel prendere coscienza di una parte del proprio corpo Non c'è niente che si è attivato a livello periferico, come quando spostia mo lo sguardo su un oggetto attivando così il meccanismo della percezione visiva, dato che tutte le strutture nervose implicate nel processo erano già attive e stavano già comunque trasmettendo informazioni al cervello. Però lo facevano, in qualche modo, in vostra assenza. Senza che voi ve ne rendeste conto. Poi ve ne siete accorti. Ne siete diventati coscienti. Di avere un ginocchio lo sapevate anche prima, ma adesso, per diven tarne coscienti, avete dovuto uscire dall'archivio della memoria, dove sono contenute tutte le precedenti esperienze circa questa parte del vostro corpo, e abbandonare anche la biblioteca in cui è custodito tutto il vostro sapere in forma di informazioni acquisite e accettate. Avete dovuto portarvi lì, dov'era l'oggetto della vostra indagine, e prova re a stabilire un contatto in quel preciso momento. Ma " stabilire un contatto " tra chi e cosa ? Quali sono i termini ? Chi sono i protagonisti ? Il vostro ginocchio - certo - e poi i recettori periferici, la catena delle vie nervose che portano le informazioni al cervello, e qui le strutture deputate a riceverle e ad elaborarle . E poi . . ? Tutti questi elementi erano già attivi e funzionali anche prima . Anche prima che ne diventaste coscienti.
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Cos'è cambiato, dunque ? Quale elemento o funzione sono intervenuti a fare la differenza ? Possiamo individuare la causa nell'attivazione di alcune aree della cortec cia cerebrale - e recenti studi di neurobiologia sono in grado di informarci con estrema precisione su quali siano quelle interessate a questa particola rissima funzione - ma ciò che più ci sta a cuore, data la vocazione di questo scritto, è evidenziare la qualità esperienziale e soggettiva di questo stato, per definire il quale abbiamo fatto ricorso all'espressione "prendere coscienza " .
È
qualcosa d i diverso dal " sapere di " . Qualcosa che implica non tanto
il recupero di un'informazione precedente, quanto piuttosto la creazione di un'esperienza che nasce nel momento stesso in cui decidiamo di spostare vo lontariamente su un oggetto la nostra attenzione e, insieme con essa, anche il nostro io cosciente . Caratteristica peculiare dell'esperienza consapevole, infatti, è quella
dell'identità , intesa come il contemporaneo esperire dei dati della percezione e, insieme, anche dell'io che esperisce.
È
proprio la presenza dell'io cosciente a differenziare la consapevolezza
da altri stati che si qualificano per un intenso direzionamento dell'attenzione. Qui non è presente alla coscienza solo l'oggetto, ma anche - e nello stesso tempo - il soggetto . Consapevolezza, dunque, è essere presenti a ciò che sta accadendo ma insieme essere anche presenti a se stessi.
È
renderei conto di qualcosa e anche renderei conto che ce ne stiamo
rendendo conto. Ancora un esempio, per aiutarci a superare i limiti delle parole e dei concetti. Immaginate lo spettatore di un film che, nel buio della sala cinematogra fica, sia completamente preso da una preoccupazione inerente il suo lavoro. Gli occhi vedono le immagini sullo schermo e queste vengono trasmesse al cervello, così come i suoni che le sue orecchie sentono. In questo caso possiamo dire che non è cosciente del film al quale sta assistendo, in quanto la sua attenzione e la sua mente non sono lì ma altrove. Poi però qualche immagine può interessarlo, distraendolo dallo scenario mentale nel quale era totalmente assorbito, finché pian piano arriva a inte ressarsi della vicenda, dimenticando tutto il resto. La sua attenzione adesso è tutta lì con lui, ed è anche - senza ombra di dubbio - contemporanea agli eventi che si svolgono sullo schermo.
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Possiamo dunque affermare che quello spettatore è ora intensamente co sciente di ciò che i suoi occhi e le sue orecchie percepiscono, e probabilmente anche delle emozioni che via via la vicenda evoca in lui.
È presente a ciò che accade e cosciente dei dati che il suo cervello registra.
Ma ancora non possiamo definirlo consapevole secondo il significato che abbiamo delineato per questo termine. E questo perché manca appunto quella qualità di identità ( "1-iness " ) d eli' esperienza.
È presente a ciò che accade ma non è presente a se stesso. È cosciente dei dati che percepisce ma non del proprio percepirli.
In altre e più semplici parole: è cosciente del film ma non di essere al cmema. Certo, interrogato in qualunque momento - se cioè qualcuno gli chie desse " dove ti trovi ? " o "cosa stai facendo ? " - lo diverrebbe all'istante, ma
mentre sta assistendo alla proiezione non lo è. Mentre è preso dalla vicenda, è questa a riempire lo scenario della sua mente e della sua coscienza, non lasciando spazio ad altro. E come potrebbe, allora, il nostro spettatore rendere consapevole la sua esperienza relativa alla visione del film ? Innanzitutto dovrebbe "ricordarsi " di essere seduto in una sala cinemato grafica, e dovrebbe " accorgersi " del fatto che sta guardando delle immagini, ascoltando parole e suoni, e probabilmente anche provando delle emozioni. Poi dovrebbe tornare a calarsi nella vicenda proprio come lo era prima, senza però per questo abbandonare se stesso. Dovrebbe cioè mantenere nella sfera della sua coscienza sia il film che ciò di cui si è " ricordato " e " accorto " riguardo al proprio assistervi. Dunque i dati ma anche il percettore dei dati. Gli oggetti e il soggetto.
CONSAPEVO LEZZA E RITUALITÀ Abbiamo considerato nelle righe precedenti come la qualità centrale dello stato di consapevolezza sia la presenza dell'Io all'esperienza, ciò che qualifica quest'ultima come esperienza cosciente. Possiamo allora affermare, rovesciando tale considerazione, che in ogni esperienza vissuta in stato di non-consapevolezza, l'Io è assente, proprio co me il ginocchio del nostro esperimento prima di essere portato alla coscienza.
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Dunque quando non siamo coscienti di noi stessi, a tutti gli effetti è come
se non ci fossimo. Le cose accadono, ma in nostra assenza, anche se è il nostro corpo ad agirle e il nostro cervello a guidarle. Sono verbi all'infinito, nei quali esiste l'azione ma non il soggetto agente.
È
"camminare " , e non "io cammino " .
È pronunciare
frasi e parole, e non
"io parlo, io dico " . Ora: nel descrivere gli elementi sui quali s i fonda l a pratica rituale, abbia mo definito l'officiante ( l 'attore ) come il reale motore e protagonista del rito, in quanto concretamente lo agisce, rendendolo con ciò operativo ed efficace. D'altra parte va da sé, per quanto appena considerato, che nel momento in cui l'officiante svolge le azioni previste in modo meccanico e inconsape vole, pur nel pieno rispetto della forma, di fatto al rito manca l'attore. E dunque non solo la sua efficacia, ma anche la sua stessa natura sono inevi tabilmente compromesse, essendo venuto meno uno degli elementi necessari alla sua realizzazione. Il rito, proprio per il suo ripetersi in modo sempre uguale a se stesso almeno dal punto di vista formale - favorisce la tendenza umana a conside rare come noto e acquisito ciò che non presenta variazioni evidenti rispetto al passato, e ad allentare conseguentemente lo stato di vigilanza, affidando il controllo delle azioni in corso al "pilota automatico " che si occuperà di attivare le routine comportamentali necessarie per portarle a termine. In questo modo a un osservatore esterno potrà anche sembrare che l'azio ne rituale si svolga in maniera impeccabile, mentre in realtà non è che un guscio formale vuoto, e perciò sostanzialmente inefficace. Da qui la necessità di un vero e proprio allenamento alla consapevolez za, in quanto condizione imprescindibile per la pratica rituale, e da questa inscindibile. Un allenamento alla presenza mentale che possiamo paragonare a un
continuo accorgersi di se stessi e di ciò che accade, proprio come se fosse la prima volta in cui ne prendiamo coscienza . Certamente in questo ci può venire in aiuto l'esercizio - che recenti studi in ambito neurofisiologico hanno dimostrato essere in grado di modificare la stessa struttura fisica del cervello, relativamente ad alcune aree collegate alla qualità della consapevolezza - così come l'attenzione ai dettagli, grazie alla quale si può arrivare a rendersi conto che in realtà, proprio come la stessa
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acqua non può passare due volte sotto al medesimo ponte, analogamente il rito non è mai uguale a se stesso. Né lo può essere, dal momento che non soltanto le persone e le circo stanze sono necessariamente diverse, ma l'intero universo è dinamico e in continuo divenire. Solo un'ottica miope e una mente meccanica e priva di consapevolezza possono portare ad abituarsi al rito e ad agirlo in modo automatico, ripeten do sequenze di frasi e di azioni la cui guida è affidata alla memoria anziché alla coscienza . Una nota ci sembra opportuna, a questo punto della discussione .
È
quasi un luogo comune, quando si parla del rito, fare riferimento a un
" tempo ciclico " all'interno del quale si svolgerebbe l'azione rituale, giustifi cando con ciò il suo ripetersi in modo " sempre uguale a se stesso " . A nostro parere questa concezione è sostanzialmente inesatta, o quanto meno può condurre a interpretazioni errate, a loro volta causa di quell'abi tudine che abbiamo indicato come una delle principali ragioni della mecca nicità e dell'inconsapevolezza nello svolgimento della prassi rituale. La ciclicità cui si fa riferimento, infatti, non dovrebbe essere letta come una riproposizione identica di eventi passati - così come abitualmente la si intende - ma piuttosto come un annullamento del tempo, prodotto dall' iden tificazione fra passato, presente e futuro. Non dunque: "ciò che accade oggi è uguale a ciò che è accaduto ieri e che accadrà domani " , ma piuttosto, essendo gli eventi sostanzialmente identici ( almeno dal punto di vista simbolico), è la stessa cosa che accade nello "ieri ", nell' "oggi " e nel "domani ". In questo modo viene meno la radice stessa del tempo, e cioè il cambiamento . Non dunque un "tempo ciclico " ma un non-tempo: una dimensione a temporale in cui le cose semplicemente accadono, senza alcun riferimento al passato o al futuro, e dunque in una prospettiva assoluta. Ecco allora che nessun evento può essere " sempre uguale " , dato che non esiste nessun altro riferimento ( né precedente né successivo ) con cui compa rarlo . La visione del tempo del rito come una collana di perle tutte uguali, in cui la fine si allaccia all'inizio, può essere considerata, a nostro avviso, come un'interpretazione in chiave temporale del non-tempo di cui stiamo parlan do, la comprensione del quale stenta a trovare spazio entro i confini di una ragione dominata dalla temporalità .
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È
così che il serpente Ouroboros - che in realtà inghiotte il suo stesso
corpo a partire dalla coda, provocando in questo modo un collasso del tem po nel non-tempo - viene " bloccato " , nelle sue rappresentazioni, nell'atto di mordersi l'estremità della coda, creando così l'illusione di un "tempo ciclico " nel quale gli eventi ritornano e si ripetono, indubbiamente più digeribile per la mente razionale. Conseguenza pratica di questo equivoco - e motivo che ci ha indotto a trattarne in questa sede - è proprio il concetto di "ripetitività " che ne scatu risce, e che porta a considerare l'azione rituale in corso come sostanzialmente uguale a tante (infinite ) altre che già si sono verificate in precedenza, ciò che inevitabilmente spiana la strada a un'esecuzione a sua volta ripetitiva, abitu dinaria, meccanica e perciò inconsapevole. Al contrario, la scoperta che ogni azione è - e non può che essere - unica e irripetibile, così com'è possibile verificare scoprendone i dettagli, induce a collocare gli eventi del rito in una dimensione a-temporale e dunque assoluta, e perciò ad agirli con più attenzione e consapevolezza : la stessa che normal mente viene dedicata a ciò che è nuovo, ancora non conosciuto e perciò ancora tutto da scoprire . Una conseguenza secondaria, anche se tutt'altro che trascurabile, di un'esecuzione ripetitiva e meccanica delle azioni rituali, è quella carenza di pathos e di intensità che affligge le tornate " ordinarie " ( definizione triste mente appropriata ) e quel che è peggio anche quelle iniziatiche, tutte nella maggior parte dei casi condotte e portate a termine all'insegna di quella rassicurante, leggermente ipnotica monotonia che premia la partecipazione a un evento già noto e prevedibile, come una messa di Natale. Anche l 'enfasi che in buona fede alcuni fratelli si sforzano di esprimere nei momenti più drammatici, risulta comunque simulata, messa in scena, e non realmente sentita. E come potrebbe esserlo, nel momento in cui il cervello registra e clas sifica l'evento appunto come una messa in scena e non come una realtà in effettivo svolgimento, così come peraltro è su un piano diverso da quello intellettuale ! La magia del gioco, così come quella della tragedia - così vicina al rito, quest'ultima, da giustificare l'ipotesi di un'origine comune - sta proprio nel
creare la realtà, e non nel riprodurla. Non è una fotocopia, ma un documento originale, indipendentemente dal
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fatto che il suo contenuto somigli più o meno a quello di altri documenti che sono e rimangono, comunque, diversi da questo. La nascita di un figlio, la morte di una persona cara, l'amore che esplode, quando ci riguardano da vicino, non risultano meno intensi solo per il fatto che sono già successi infinite altre volte ! Sono già successi, ma non a noi ! Ne abbiamo avuto notizia, e non esperienza. L'io, cioè, non era coinvolto nel loro accadere. La fruizione che ne abbiamo avuto era rappresentativa, e non partecipa tiva. Ma quando le stesse cose iniziano a riguardarci più da vicino, e cioè a coinvolgere in misura crescente l'io, allora progressivamente la partecipazio ne si sostituisce alla rappresentazione. Nasce il pathos, che rende quegli eventi uguali a prima eppure diversi. Sono, eppure non sono più, gli stessi. Ancora una volta, dunque, è la presenza dell'io - ciò che a bbiamo identi ficato con l'attributo della consapevolezza - a definire la qualità di un'espe rienza, a renderla unica e a consentire a chi la vive di coglierne appieno i contenuti e il significato.
LA CONSAPEVO LEZZA DEL CORPO Il corpo rappresenta, nell'economia del rito, la componente fisica dell'of ficiante : l'elemento attraverso il quale egli agisce sul piano della materia e at traverso il quale manifesta, sullo stesso piano, la propria valenza simbolica . La sua importanza nell'azione rituale, dunque, è pari a quella degli stru menti simbolici con i quali interagisce nello svolgimento di questa. Forse addirittura maggiore ( ove mai avesse senso stilare una graduatoria fra ele menti tutti comunque essenziali e indispensabili) in quanto non si limita a manifestare un principio in modo statico, ma può esprimersi anche in forma dinamica. Un corpo privo di consapevolezza, d'altra parte, è un guscio vuoto. Un
golem in grado di muoversi, di eseguire compiti, di portare a termine azioni in sequenze ordinate e coerenti, ma privo di anima. Senza la consapevolezza del proprio corpo, l'officiante costruisce, nel rito, un gigante con i piedi argilla . Quando non siamo coscienti del nostro corpo, questo di fatto non c'è
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(ricordate l'esperimento del ginocchio ? ) , e dunque viene meno la base stessa attraverso la quale l'attore partecipa alla realizzazione dell'evento rituale. Sul piano pratico, questo si manifesta con una gestualità macroscopica mente conforme a quella prescritta, ma del tutto casuale nei dettagli e del tutto priva di quell'intensità dell'esserci e dell'agire che viene a volte espressa - con straordinaria precisione - come "presenza " . M a i l rito, l o ripetiamo, non è una rappresentazione. Non è una messa in scena allestita sommariamente per accontentare un pubblico di bocca buona.
È qualcosa che
deve " funzionare " , e, se non è completo in ogni dettaglio,
non può farlo. Se dobbiamo rappresentare, nella scena di un film, il motore di un'au tomobile, possiamo anche accontentarci di accostarne i pezzi in modo che
sembri finito, ma se quello stesso motore lo dobbiamo utilizzare, allora anche una singola vite non sufficientemente stretta può fare la differenza, e una differenza sostanziale ! Allo stesso modo, nel corpo, in quanto elemento simbolico del rito attivo sul piano della materia, nulla può essere casuale. Nulla può essere inconsa pevole. Per raggiungere l'obiettivo di una maggiore consapevolezza corporea degli attori, d'altra parte, non è sufficiente codificare in modo più minuzioso gesti e atteggiamenti - anche se, come abbiamo visto, la cura dei dettagli rappresenta un valido stratagemma per impedire alla mente di divagare - ma occorre anche imparare a sentire il proprio corpo, o meglio a sentirsi in esso, durante lo svolgimento delle varie fasi del rito, sia di quelle che richiedono movimento, sia di quelle che prevedono invece l'immobilità . Questo sarebbe già ampiamente sufficiente a scongiurare la distrazione, la superficialità e il " pressapochismo " che di fatto spezzano l'azione rituale, snaturandola e togliendole energia ed efficacia.
LA CONSAPEVOLEZZA DEL RESPIRO Non sembri eccessivo questo breve paragrafo, che fa riferimento a ciò che molte tradizioni operative considerano come uno strumento prioritario per veicolare l'energia e per collegare la sfera della materia ai piani più alti della mente e dello spirito. Anche senza rifarsi a tradizioni orientali - come lo yoga e il taoismo che notoriamente tengono in massimo conto le tecniche basate sull'uso del
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respiro, basterà considerare la pratica dell'esicasmo, o alcuni degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola per poter avere una conferma di quanto ab biamo affermato nell'aprire la discussione su questo tema . Se da un punto di vista simbolico il respiro è direttamente connesso con il principio della dinamica e con l'archetipo della dualità, nella sua manifesta zione sul piano sensibile corrisponde alla vita ed è alla base del potere della parola, della quale rappresenta la componente dinamica - rispetto a quella statica, rappresentata dagli organi fisici della fonazione. Il respiro, quindi, è il veicolo attraverso il quale l'energia si manifesta come movimento, mentre la forma attraverso la quale si manifesta è quella del ritmo, in quanto alternanza fra due condizioni polari e opposte, ripeten do così " in basso" ciò che " in alto " corrisponde all'archetipo della dualità. Il rituale, in quanto espressione dinamica di simboli e principi, è governa to da un ritmo, che si esprime nei movimenti, nelle parole, nei suoni. E il respiro è il modo per entrare in questo ritmo, per sincronizzarsi con esso e per parteciparvi attivamente, insieme a tutti quelli che, a loro volta, lo faranno, trasformando così l'intera dimensione fisico-energetica - persone, oggetti e luogo - in un unico corpo dinamico: ciò che a buon diritto (e solo a queste condizioni) potrebbe meritare la definizione di "corpo di loggia " . Torneremo più avanti - e i n modo purtroppo insufficiente, data l a nostra scarsa preparazione tecnica sull'argomento - a occuparci della musica, e delle straordinarie potenzialità di questo poderoso strumento nel governare l'energia nei lavori di loggia. Lo citiamo soltanto, all'interno di questa discussione, in quanto mani festazione - la più pura e la più chiara - del potere del ritmo, sia quando espresso nel suono strumentale, sia quando incarnato nella voce. Respiro della materia in un caso, respiro umano nell'altro. Oltre che al suono e alla parola, d'altra parte, il respiro è direttamente connesso al movimento: in forma di ritmo - come nella marcia - ma anche, come presenza simbolica, in tutte le altre espressioni dinamiche del rituale. Ma che significa, in pratica, consapevolezza respiratoria nello svolgimen to della prassi rituale ? Anzitutto " ricordarsi" del proprio respiro, accorgersi di respirare e cerca re di mantenere stabilmente questa consapevolezza. E poi provare a sincronizzarsi, tramite questo, con le azioni che via via si vanno svolgendo.
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Potremmo facilmente, a questo proposito, fornire qualche esempio, ma preferiamo non farlo, per non dover rinchiudere all'interno di spiegazion i, prescrizioni e teorie qualcosa che può, ben più utilmente, essere sperimentato e scoperto in modo diretto. Al di là di quanto l'esperienza rivelerà, in ogni caso, il solo intento di cer care analogie e corrispondenze sarà sufficiente a creare uno stato di maggiore attenzione e di maggiore sensibilità nei confronti di questo ulteriore " lato nascosto " della ritualità, rendendo nel contempo - come siamo certi sarà facile constatare di persona - ogni atto agito con questa qualità più intenso, coinvolgente e completo.
LA CONSAPEVO LEZZA DELL'AMBIENTE Non poteva mancare, in conclusione di capitolo, un richiamo alla consa pevolezza dell'ambiente entro il quale il rito stesso prende forma e si svolge, nella doppia accezione di ambiente fisico - il tempio - e di ambiente umano, rappresentato dagli altri partecipanti all'azione rituale. Anche in questo caso, però, consapevolezza del luogo non è semplicemen te "sapere dove siamo " , né consapevolezza degli altri è "sapere che ci sono " e " chi sono " . Quella particolare forma d i coscienza cui facciamo riferimento con il termine di consapevolezza, infatti - l'abbiamo ben visto - non è soltanto " sapere " , e cioè aver immagazzinato un dato nella memoria, bensì continua
re a sapere. Se possiamo permetterei un paragone un po' ardito, " sapere " equivale ad aver depositato un file sul disco fisso di un computer, mentre " esserne consapevoli " è come averlo aperto sullo schermo. Due modi diversi di esistere, per lo stesso file: uno teorico, affidato alla memoria e alla ragione - ricordiamo di averlo salvato, e poiché non vi è stato alcun crash di sistema, ragionevolmente deduciamo che vi sia ancora - l'altro direttamente riscontrabile nel qui-e-ora attraverso i sensi e la coscienza. Del primo ci potremmo anche dimenticare, e in questo senso, per noi, sarebbe come se non esistesse, mentre il secondo non lo possiamo ignorare, dato che l'abbiamo adesso davanti agli occhi. Analogamente, essere consapevoli di trovarsi all'interno di un tempio, equivale a ricordarsene in continuazione, a sentirne in ogni istante la presen za, la qualità, il valore simbolico, il potere.
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E così per quanto riguarda le persone, ciascuna presente nella sua indi vidualità fisica e psicologica, ma anche in un ben preciso ruolo simbolico.
È
attraverso questa coscienza, in primo luogo, che nasce e si manifesta il
principio della fratellanza, un principio troppo spesso ridotto a un concetto da affermare, un obbligo da rispettare o un tema sul quale dissertare, ma privo poi di ogni riscontro concreto .
Sentire gli altri significa portarli dentro di sé. Attenuare, se non eliminare, la distanza fra io e tu. E la fratellanza, allora, non è più un concetto, ma un'esperienza.
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ALCUNE NOTE TECNICHE PER L ' O PERATIVITÀ RITUALE
Concludiamo questa parte, dedicata a una rilettura della prassi rituale in chiave operativa, evidenziando alcuni aspetti che vengono spesso sotto valutati, e che pure, a nostro avviso, possono contribuire in maniera non irrilevante alla qualità complessiva e all'efficacia del rito. Anche se ci auguriamo che per la maggior parte dei lettori - e delle logge nelle quali lavorano - le piccole note pratiche che seguono saranno del tutto inutili, in quanto relative a questioni già affrontate e risolte, abbiamo ugual mente deciso di inserirle, in ossequio al pegno di concretezza che ci guida nella stesura di queste pagine.
IMPARARE IL RITUALE Considerazione ovvia ma non scontata : se la mente è impegnata nella lettura di frasi che non ricorda, o nel tentare di ricostruire movimenti che non conosce, vi sarà ben poco spazio per l'esercizio della consapevolezza e ben poca energia da dedicare ad altri aspetti più sottili. Su un piano ancora più pratico, la necessità di avere sott'occhio il testo del rituale obbliga di fatto gli officianti ad atteggiamenti e gestualità che certamente non sono congrui ai contenuti simbolici del rito, ma alla pura esigenza di leggerne il copione. Allo stesso modo, la conoscenza approssimativa o lacunosa dei movi menti, con errori e correzioni, inevitabilmente spezza il ritmo dell'azione in corso, con ricadute altrettanto inevitabili sulla qualità e l'efficacia. E ancora, nelle occasioni di maggiore pathos, come le iniziazioni o i pas saggi di grado, una lettura stentata, imprecisa, chiaramente " letta " e perciò innaturale, con pause dovute alla necessità di voltare pagina (e relativo ru more di carta sfogliata . . . ), certamente non giova all'intensità di un'atmosfera che dovrebbe essere, a tutti gli effetti, drammatica! Da qui la necessità di imparare a memoria il testo dei rituali, o perlomeno
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di quelli più frequenti o che richiedono azioni complesse e tali da impedire una lettura agevole, esercitandosi - per tutti gli altri casi - fino ad acquisire una sufficiente conoscenza dei testi e la necessaria disinvoltura nel leggerli.
CAPIRE I L RITUALE Abbiamo utilizzato il verbo "capire " , anziché il più ampio e complesso "comprendere " , proprio per sottolineare la natura elementare di ciò che intendiamo esprimere. Stiamo parlando infatti del livello lessicale e semantico, e del significato più immediato dei testi associati ai diversi rituali. Un livello di comprensione, quello che li riguarda, che conviene non dare per scontato. Giustamente l'istituzione massonica accoglie qualunque persona moti vata e di buoni costumi, indipendentemente da ogni precondizione di tipo sociale e culturale. I testi dei rituali, d'altra parte, forse proprio in virtù (o per colpa ) di quella progressiva intellettualizzazione che già abbiamo avuto modo di considerare come effetto improprio della " svolta speculativa" della Massoneria moderna, contengono spesso termini e riferimenti di non facile né immediata comprensione per chi non abbia una cultura miratamente umanistico-esoterica. In questo caso è fin troppo evidente che i fratelli in questione leggeranno senza un adeguato livello di comprensione, ciò che si rifletterà sulla qualità della loro partecipazione - in primo luogo - e secondariamente sulla qualità complessiva del rito. Un problema, questo, tutt'altro che difficile da risolvere, dato che ba sterebbero poche tornate bianche per un'analisi volta a chiarire in modo sufficiente termini e concetti, in modo da garantire a tutti quel livello basico di comprensione che ci pare propedeutico e necessario allo svolgimento dell'azione rituale.
MANTENERE LA CONDIZIONE RITUALE Dal punto di vista operativo, il rito non è, come già abbiamo avuto modo di considerare, una metafora con la quale si rappresenta un 'altra realtà, ben sì un evento in sé autosufficiente e completo dal punto di vista del proprio esistere.
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Non è un modo per " dire " , " far capire " o rendere intelligibile una q u a l che verità d i natura troppo astratta o troppo elevata per poter essere fru i ta dall'uomo, ma qualcosa che succede nel preciso momento in cui l'azione rituale viene agita . Non è una messa in scena, una simulazione, ma un accadimento reale. Allo stesso modo, gli officianti che lo pongono in essere non sono " atto ri " (in senso teatrale) che si calano all'interno di un personaggio per recitare una parte, ma piuttosto, nel momento in cui esprimono un principio, sono quel principio. Il rito, dunque, non è una finzione, ma una realtà.
È proprio
per questo che risulta del tutto fuori luogo, e perciò non tolle
rabile, quel continuo " uscire di scena " - per comunicare, commentare, dare o chiedere istruzioni e bassa voce o a cenni - che comunemente affligge le tornate ordinarie e straordinarie, rendendole di fatto molto più simili a delle rappresentazioni teatrali che a eventi rituali. A teatro c'è un pubblico da " ingannare " , e dunque è del tutto lecito che esistano comportamenti " da retroscena" e sotterfugi di vario genere, purché sul palcoscenico e agli occhi del pubblico stesso tutto si svolga come previsto dal copione. Ma durante lo svolgimento di un rito, chi è il pubblico da ingannare e di fronte al quale salvare le apparenze ? Gli altri fratelli ? Certamente no, dal momento che - almeno in teoria nello svolgimento di un rito nessuno dovrebbe essere un fruitore passivo, ma tutti sono, in vario modo, parte attiva e ugualmente coinvolti nella sua realizzazione . All'interno del tempio, inoltre, non esiste un " dietro le quinte " e tutti sono " in scena " , e dunque non possono non accorgersi dei bisbigli, dei richiami, delle occhiate, del parlottio, dei cenni, dei movimenti furtivi che indicano come un attore sia momentaneamente uscito dalla parte che stava interpretando per trasformarsi, di volta in volta, in spettatore, critico, sugge ritore, regista o servo di scena. Quello che tutti sembrano dimenticare, in questi casi, è che ciò che con ta, e che deve essere salvaguardato, non è la forma esterna del rito, bensì la sua sostanza, che è fatta di forma, contenuto simbolico e attore, uniti in un unico evento dinamico che non ammette cadute a nessun livello, pena una riduzione della sua efficacia.
È
davvero significativo, a questo proposito, sentire fratelli che, al ter
mine di una tornata particolarmente impegnativa dal punto di vista della
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sua realizzazione, si complimentano fra loro perché "è andato tutto bene " , riferendosi al fatto che non vi sono stati errori formali che ne hanno turbato lo svolgimento. Questo però, alla luce di quanto abbiamo precedentemente discusso, non può affatto essere considerato sufficiente se non è stata salvaguardata la qualità complessiva del rito, direttamente collegata alla sua integrità . La condizione rituale degli operatori, che ci siamo sforzati fin qui di descrivere, non consiste nell'indossare una maschera simbolica, che può al bisogno essere tolta e poi rimessa, ma nel diventare - e nel rendersi conto di
essere - a tutti gli effetti e intensamente, un simbolo o un principio. E d'altra parte - ci si passi l'esempio - cosa penserebbe qualcuno nell'ac corgersi che il suo partner, nel bel mezzo di un appassionato rapporto erotico, sta gettando intorno occhiate furtive per controllare che " tutto sia a posto " ? O nel momento in cui questo improvvisamente si alzasse per an dare clandestinamente a regolare l'intensità della luce o a cambiare un CD musicale, per poi tornare a gemere, come al culmine della passione, fra le sue braccia ? Semplice: penserebbe che sta fingendo ! Esattamente come l'officiante di un rito nel momento in cui si preoccupa più dell'apparenza esterna e del livello formale del rito stesso, che della pro pria qualità rituale. Una qualità che non gli impedirebbe, peraltro, di occuparsi anche degli aspetti pratici, o di risolvere eventuali " inconvenienti " che dovessero pre sentarsi, senza per questo interrompere o alterare la qualità simbolica ed energetica dell'azione che si sta svolgendo. Se cade un candelabro nel bel mezzo di una iniziazione, questo va consi derato e trattato, a tutti gli effetti, come un evento accaduto all'interno della stessa realtà rituale che abbiamo creato e nella quale stiamo agendo: non c'è alcun bisogno di uscirne, di " chiedere una pausa " , o di " sospendere momen taneamente la rappresentazione " , per rimediare e poi riprenderla ! S i può tranquillamente raddrizzare quel candelabro all'interno dell'azio ne rituale, o sospendere per qualche istante la recitazione di una formula e chiedere a qualcuno di farlo. All'interno del momento rituale è caduto un candelabro, e all'interno del momento rituale è stato rimesso in piedi: che c'è di strano o di " indecoroso " in questo ? Un fratello non ricorda una formula ? Non c'è alcun bisogno di sugge rirgliela con bisbigli da cospiratore, o di fargli scivolare furtivamente in
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mano un fascicolo che questi, altrettanto furtivamente, occhieggerà prima di riprendere, imbarazzato, la " recitazione" ! Basterà suggerirgli, palesemente, ciò che ha scordato, oppure fornirgli, di nuovo palesemente, il testo del rituale, che potrà così, altrettanto palesemen te, leggere. Il tutto senza alcun nocumento per l'integrità del rito, a patto, ovviamente, che non siano gli stessi partecipanti a uscire dalla qualità rituale, con pensieri, comportamenti, giudizi o stati d'animo "da retroscena " . Qualcuno h a un dubbio riguardo a un passo o a un movimento ? Può alzare la mano per interrompere l'azione (l'azione, e non il rito ! ) e chiedere lumi al Maestro Venerabile oppure al Maestro delle Cerimonie, attenerli e poi riprendere . Non c'è bisogno di alcun sotterfugio, né si deve pensare che, in questi casi, l'azione rituale sia stata interrotta, o in qualche modo compromessa. Il rito riguarda chi lo agisce, e nessun altro . Non ci sono spettatori ! Non c'è un pubblico davanti al quale esibirsi, e del quale temere il giudizio! Il valore del rito non deriva dalla sua conformità a un copione, bensì dalla sua capacità di evocare, nella coscienza dei partecipanti (gli attori ) , un principio (il contenuto ) , attraverso una sequenza di atti (la forma ) , compiute in una ben precisa condizione (che abbiamo definito come " qualità rituale " ) . Ben s i comprende - c i auguriamo - a questo punto, come garantire la prima al prezzo di sacrificare la seconda, non abbia altro risultato che quel lo di trasformare il rito in una vuota, sterile, cerimonia di stampo profano, all'insegna dell'apparire e non dell'essere.
LA SCELTA DEGLI OGGETTI Come tutto ciò che partecipa alla realizzazione del rito, anche gli oggetti non hanno soltanto una funzione rappresentativa o metaforica, ma sono a tutti gli effetti strumenti destinati a produrre effetti su tutti i piani di mani festazione dei quali l'essere umano ha coscienza, e cioè - allo stato attuale - quello fisico, quello emotivo e quello mentale. Questo significa che tanto nella scelta degli arredi quanto in quella degli oggetti da utilizzare nelle operazioni rituali, non è sufficiente badare al " de coro " o all'estetica, e nemmeno alla correttezza formale, ma occorre chieder si - e comprendere - quale ne sia la funzione pratica ai fini della ritualità ad essi collegata, e di questa tenere anzitutto conto. Proviamo a spiegarci meglio con un esempio.
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Il gabinetto di riflessione ha, nei confronti dell'iniziando, uno scopo ben preciso, la realizzazione del quale passa principalmente attraverso la creazio ne di un altrettanto ben precisa condizione emotiva. Gli oggetti presenti nel gabinetto di riflessione, dunque, non possono essere soltanto "citazioni " , atte a richiamare alla mente un concetto, ma devono anche (o meglio: soprattutto) essere attivi sul piano emozionale. Non devono semplicemente " far pensare " , ma piuttosto spaventare, destabilizzare, creare una condizione critica, una frattura nella coscienza ordinaria che renderà possibile l'accesso a una coscienza e a una realtà non ordinarie . Non è ammissibile perciò trovare all'interno di questo luogo, destinato a produrre un vero e proprio shock attraverso l'evocazione della morte e del disfacimento della personalità profana, teschi di plastica sottratti a qualche Amleto da oratorio, lenzuola tinte alla bell'e meglio o sagome di bare in compensato ! E allo stesso modo, gli ostacoli che il neofita dovrà incontrare e superare nel corso dei viaggi in cui sarà guidato, non possono essere - anche questi - " citazioni " di ostacoli, sufficienti a "rendere l'idea " , ma devono effettiva mente destabilizzare e minare la sicurezza anche sul piano fisico. In caso contrario, l'iniziando entrerà fin da subito nell'ordine di idee che quanto gli sta capitando è soltanto una finzione, un gioco intellettuale al quale rispondere e al quale partecipare usando lo stesso registro. Addirittura ci è capitato di assistere a iniziazioni nel corso delle quali, in uno dei momenti più drammatici, in cui una lama è accostata al polso del neofita e gli si chiede se sia disposto a versare il proprio sangue per tener fede alle promesse fatte, sentire l'officiante bisbigliare all'orecchio dell'iniziando: " Non ti preoccupare . . . è solo una finta .. ! " Oppure, nel momento in cui gli si annuncia che i beni di cui è stato spo gliato verranno destinati a un'opera di carità, cogliere lo stesso bisbiglio : " Stai tranquillo . . . dopo te li restituiremo . . ! " Com'è possibile, con tali premesse, che tutto ciò che seguirà all'iniziazio ne venga preso sul serio, e considerato e sentito come qualcosa che riguarda la vita reale, e non come una sorta di gioco di ruolo culturale al quale dedi care qualche ora al mese ? Alla base di questo, come di altri dei comportamenti disfunzionali che ab biamo considerato, c'è probabilmente, in molti casi, un'errata accezione del termine " simbolico " , di fatto considerato e utilizzato correntemente come un
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sinonimo di " metaforico " , e cioè come qualcosa che rappresenta - in forma ridotta, schematica o semplificata - qualcos'altro . Una raffigurazione in sedicesimo, si potrebbe dire, destinata a sostituire pur richiamandolo alla mente - un oggetto che per ragioni diverse non può essere presente nella sua forma e natura originarie. Basterebbe d'altra parte rifarsi all'etimologia del termine1 per compren dere che la funzione propria e prima del simbolo è quella di riunire ciò che
è stato separato. Il simbolo stesso, quindi, può essere considerato un'interfaccia, una
possibilità di collegamento, il mezzo attraverso cui le due parti di un intero possono riconoscersi e riunirsi.
È
evidente allora che, in una chiave operativa, la funzione del simbolo
sarà espletata nella misura in cui sarà in grado di produrre efficacemente tale riunificazione nella coscienza di chi lo percepisce. Se dunque un oggetto deve richiamare il principio della morte, il suo va lore simbolico sarà direttamente proporzionale alla sua capacità di produrre, nella coscienza di chi si trova di fronte ad esso, la medesima reazione che questi proverebbe nel trovarsi di fronte alla stessa morte. Oggetto e morte, cioè, dovrebbero essere per lui la stessa cosa, quanto meno relativamente all'effetto che si desidera produrre ai fini dell'azione rituale. Lo stesso criterio, com'è evidente, potrà essere applicato nella scelta di tutti gli oggetti che si trovano nel tempio e coinvolti, a qualunque titolo, nello svolgimento di pratiche rituali.
LA CURA DEGLI OGGETTI Direttamente collegato a quanto abbiamo appena espresso in merito al valore simbolico degli oggetti, questo breve paragrafo - al quale dedichiamo L'origine della parola, infatti, è il verbo greco " sun-ballo " , che si può tradurre con: "metto insieme " , " metto in relazione " , " faccio convergere " , " riunisco " . E " simbolo " , infatti, era detta anticamente la tessera ospitale, un anello o una tavoletta di terracotta che veniva spezzata a seguito di un atto di ospitalità, e le cui parti venivano conservate dalla famiglia dell'ospitante e dell'ospitato, come segno e prova di una relazione, temporaneamente interrotta, che la ricon giunzione dei due frammenti avrebbe immediatamente ricostituito.
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davvero poche righe e che speriamo superflue - vuole richiamare l'attenzione sulla cura e sul rispetto che a tali oggetti deve essere dedicato. Per quanto riguarda la pulizia del tempio, in primo luogo, e la manuten zione dei suoi arredi. Ma non tanto e non soltanto, ancora una volta, per una questione di de coro o di immagine, bensì anche e soprattutto ai fini di quell'atteggiamento rituale sul quale tanto abbiamo insistito, al quale contribuisce certamente anche l'ambiente fisico nel quale il rito stesso si svolge . Un ambiente che - val la pena di ricordarlo - non è un contenitore, una scatola all'interno della quale avvengono una serie di azioni, ma è parte
integrante del rito. Una nota a parte, prima di abbandonare l'argomento, per le insegne e l'abbigliamento rituale. Abbiamo purtroppo constatato in più occasioni l'usanza di arrivare in loggia con il grembiule stipato in qualche modo in contenitori di fortuna, se non addirittura appallottolato in tasca. Ora, è evidente che, a livello rituale, il momento della vestizione rap presenta un evento cruciale, corrispondendo all'ingresso in una dimensione sacrale: passaggio del quale l'abbigliamento rituale è simbolo . E lasciamo a ciascuno dedurre quale potrà essere la dimensione sacrale simboleggiata da un povero cencio spiegazzato .. !
LA MUSICA Ultimo, ma non certo per importanza, il paragrafo dedicato alla musica. Come già abbiamo dichiarato in precedenza, ci mancano purtroppo le competenze tecniche per entrare nel merito di un tema che non esitiamo a definire essenziale nell'economia generale della ritualità massonica. Ci limitiamo dunque a qualche considerazione di base, auspicando che l'argomento possa essere ripreso e approfondito all'interno di ogni obbedien za e di ogni loggia che intendano procedere sulla via dell'operatività. La musica, infatti, rappresenta uno strumento insostituibile - forse il più diretto e potente - per influire sul piano emotivo degli esseri umani. E poiché questo rappresenta, come abbiamo visto, uno dei più importanti - se non il più importante - nella determinazione del piano di coscienza en tro il quale vive e si muove l 'umanità, è facile comprendere come un'azione
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rituale che si proponga di essere anzitutto efficace non possa prescindere da tale strumento e dalle sue potenzialità. Allo stesso modo, è facile comprendere con quale criterio debba essere scelta e riprodotta la colonna d'armonia nei diversi momenti dei lavori di loggia, e anche come verificarne la validità .
È evidente, d 'altra parte, come, nell'ottica operativa che ci siamo proposti
e che ci guida, non possiamo essere d'accordo con chi si preoccupa soprattut to dell'ortodossia massonica nella scelta dei brani, preferendo quelli di autori massoni o comunque di contenuto affine alle tematiche muratorie e riducen do così la scelta delle musiche a un mero e freddo esercizio intellettuale di stampo storico o bibliografico - in linea peraltro con la " deriva cerebralista " della muratoria contemporanea. Per parte nostra, e nella logica che guida queste pagine, riteniamo che non sia nemmeno possibile stabilire regole universali o univoche, l'unico criterio veramente importante essendo quello che collega la validità della scelta al risultato ottenuto. Occorrerà dunque, in estrema sintesi, chiedersi in primo luogo quale sia la qualità emotiva che si desidera produrre in un dato momento di uno specifico rituale, e successivamente quale possa essere - tenute in debito conto le caratteristiche dei partecipanti - la musica più adatta a produrla, affidandosi in ciò senz'altro ai fratelli più competenti, pur non escludendo a priori l'opinione di altri, magari meno colti ma dotati di un buon livello di sensibilità, e perciò adatti a fungere da " cavie" nella determinazione degli effetti di uno specifico brano. Ciò che conta, in ogni caso, è restituire a questo preziosissimo e potente strumento il suo valore e la sua piena dignità, riscattandolo dal ruolo pura mente accessorio e decorativo nel quale è stato relegato dalla dittatura della ragione e della parola . Il rito, per sua natura, non ha una struttura logica bensì quasi totalmente analogica, e nella stessa chiave richiede di essere svolto e fruito . E la musi ca - lo sanno da sempre le tradizioni religiose e misteriche di ogni paese, e ne danno conferma, oggi, la psicologia e le neuroscienze - rappresenta uno degli strumenti elettivi per risvegliare le funzioni analogiche del cervello e della mente, consentendo un diverso modo di cogliere la realtà, al di là dei concetti e dei limiti della razionalità ordinaria.
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PARTE I I I
LA REGOLA
ORDINE, REGO LA, O B BEDIENZA*
La Società dei Liberi Muratori è un Ordine. Non soltanto un'associazione, dunque, non soltanto individui che si ag gregano per affinità o scopi comuni, ma qualcosa di più. Un ordine, e cioè una struttura ordinata secondo regole precise, il rispetto delle quali - e cioè l'obbedienza - è tenuto come condizione essenziale per l'appartenenza all'Ordine stesso.
Ordine, regola, obbedienza: tre termini e tre concetti che recuperano nell'accezione iniziatica un significato ben più vasto e profondo di quello attribuito loro dal linguaggio corrente. Tre termini e tre concetti ai quali accostarsi in una prospettiva di conoscenza e di operatività, per recuperarne il senso originario e - attraverso questo - le implicazioni simboliche in grado di fondare la prassi che ne deriva . A partire proprio dalla definizione di " ordine " che qualifica un tipo di sodalizio come quello massonico: un termine che, nel linguaggio corrente, è utilizzato come sinonimo di "comando " - come quando si ordina qualcosa a qualcuno - oppure per indicare la qualità di un insieme che, nella sua di sposizione, rispecchia un qualche criterio di razionalità o di armonia, come quando si fa ordine su una scrivania o in una stanza, o si dispone qualcosa in modo ordinato. D 'altra parte, sarebbe quanto meno riduttivo pensare che istituzioni, co me quella massonica, che traggono sostegno e linfa vitale dalla conoscenza esoterica, abbiano scelto di definirsi " Ordini " solo per evidenziare la presen za al proprio interno di una struttura formale ordinata, e ancor più riduttivo pensare che abbiano inteso, con questo, esprimere una vocazione a l l 'uso dell'autorità e del comando. Abbiamo allora bisogno di fare un passo indietro. O meglio, com'è pro prio della prassi iniziatica, di fare " un passo avanti verso le origini " . I l presente capitolo riprende in gran parte u n nostro contributo al testo di Marco Materassi "Pratica di sé. Propedeutica massonica " , Tiphereth, 2 0 1 2
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E scopriamo così che il verbo latino ordiri - da cui il sostantivo ordo e il nostro " ordine " - ha principalmente il significato di " ordire " , e cioè disporre sul telaio i fili della tessitura oppure sistemare le corde che verranno intrec ciate per la costruzione di un canestro, ma anche quello di "cominciare " , " esordire " , " avviare " . Il senso globale, dunque, è quello di dar principio a qualcosa che avrà nel prosieguo un ben preciso svolgimento, una trama che è già nota a chi avvia il processo benché ancora non attuata né esplicitata, proprio come il tessuto finito, che già esiste nelle intenzioni del tessitore come idea o come disegno, è causa e origine della trama stessa. Alla luce di questa acquisizione, allora, un ordine che viene impartito non è più la semplice manifestazione di volontà imposta da un'autorità superiore, ma diviene l'avvio di un processo, il primo passo di una trama il cui svol gimento è già chiaro nel progetto di chi ordina, ancorché sconosciuto a chi deve operare per attuarlo concretamente. Non il potere, dunque, ma la conoscenza è ciò che può fondare l'autorità di un ordine. E non una sottomissione passiva, bensì la fiducia è ciò che può assicurarne l'attuazione. Chi ordina, cioè, traduce in forma di richiesta operativa una delle fasi di realizzazione del disegno complessivo, e chi esegue ciò che è stato ordinato lo fa nella consapevolezza di essere parte di tale disegno e di contribuire con il proprio operato alla sua realizzazione . Quanto all'altro significato del nostro " ordinare " - quello, per intender ci, che fa riferimento al disporre gli elementi di un insieme secondo una ben precisa struttura, che appaia, appunto, ordinata - occorre anzitutto conside rare come lo stesso concetto di " ordine " non possa essere riferito a parametri assoluti ma solo a criteri soggettivi.
" Ordine e Caos non sono nel mondo ma negli occhi con cui guardiamo il mondo " . Una foresta tropicale è caotica e selvaggia solo per chi non conosca le leggi che ne regolano con precisione assoluta la vita e lo sviluppo, proprio come le stelle nel cielo " acquistano " una struttura e " diventano" costellazio ni quando a guardarle è un astronomo. Una sequenza di numeri è " casuale " e " irrazionale " finché non riuscia mo a identificare una ratio che ne sveli la regolarità e la renda, da questo momento e ai nostri occhi, ordinata . La sequenza in questo caso è la stessa
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eppure è cambiata, in funzione di un nostro cambiamento nel modo di os servarla e di rappresentarcela . Non sono i numeri ad essersi disposti secondo legge: siamo noi ad aver colto una legge nella loro disposizione. E allo stesso modo, cos'è che può guidarci nel fare ordine fra gli oggetti su una scrivania o in un cassetto, se non la presenza in noi di uno schema preesistente, una trama ideale, una regola alla quale cerchiamo di far corri spondere la disposizione degli oggetti stessi ? Ecco allora, di nuovo, lo stesso concetto di ordinare inteso come l'atto di dare attuazione a un disegno ancora non manifesto ma già noto a chi ordina, proprio come nel caso dell'ordine che viene impartito. Abbiamo visto, d'altra parte, come ai fini dell'esecuzione di un ordine ricevuto non sia determinante la comprensione dell'intera trama che si va così avviando e svolgendo, ma piuttosto la fiducia verso chi l'ha impartito, che viene riconosciuto come depositario dell'intero disegno e dunque, impli citamente, capace di dirigerne l'attuazione. Considerazione, questa, che è alla base del concetto stesso di "obbedien za " nella sua accezione iniziatica. Dal prefisso latino oh ( " dinnanzi " , " di fronte " ) e dal verbo audire ( " udi re " , " ascoltare " ) , il termine "obbedienza" porta in sé un significato che va oltre il semplice e letterale " ascoltare chi sta di fronte " : un significato che traspare in alcune espressioni come " dare ascolto " , che è qualcosa di più del solo stare a sentire chi parla, o " dare udienza " , che vale come " accogliere " , " lasciar entrare " , "considerare " .
È
lo stesso verbo audire - che nella sua radice [au-] contiene valori di
apertura e di propensione - a dare un senso all'obbedire inteso non più come passiva esecuzione di un comando, ma prima di tutto e soprattutto come un " lasciar entrare " le parole espresse da chi sta di fronte. Un invito a non giudicare prima di capire, a non porre filtri che siano d'ostacolo allo svolgi mento della trama o che possano interferire con la realizzazione del disegno che è già noto al tessitore . Non un'esortazione alla passività, dunque, ma una richiesta di fiducia, apertura e disponibilità verso chi ordina, perché le sue parole possano farsi efficaci e produrre effetti. Non un incitamento alla sottomissione, ma uno stimolo a mettere da parte ogni pre-giudizio per non pre-giudicare l'attuazione di un progetto. Non una mortificazione dell'io, infine, ma la consapevole accettazione
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del proprio ruolo attivo in un insieme più vasto e complesso che solo una progressiva realizzazione renderà via via evidente e intelligibile. Una pratica, allora, quella dell'obbedienza nell'ambito delle società ini ziatiche, che nasce e trae vigore non dalla rinuncia alla propria libertà di pensiero e di azione, ma dalla purezza, virtù che l'adepto impara ed esercita
purificando la propria mente, in modo da poter esercitare quell' o b audire -
che è insieme far spazio, accogliere e mettere in pratica, e che rappresenta perciò il necessario collegamento fra un disegno - un progetto - e la sua piena realizzazione. Ma se la pratica dell'obbedienza rappresenta un requisito indispensabile per l'efficacia di un ordine, l'esistenza e il rispetto di una regola sono condi zioni prime della sua stessa nascita e della sua sopravvivenza. La regola è anima, cuore e mente dell'Ordine, in quanto ne contiene cause e finalità, ne delinea e ne esplicita il disegno generale, ne stabilisce la forma in relazione ai contenuti e la prassi in relazione al progetto . Per comprendere appieno ragione e funzione della Regola all'interno di un Ordine Iniziatico, però, occorre ancora una volta andare oltre il signifi cato più superficiale, che la vede e la intende come una semplice raccolta di precetti volti a fissare ed esprimere la volontà dell'Ordine stesso. E così, cercando ancora una volta l'essenza del concetto attraverso l'ori gine del termine che lo definisce, scopriamo che il termine regula designava in primo luogo una lista di legno dritta, usata come guida e come misura di linearità - proprio come la nostra riga - e che la sua origine etimologica è nel verbo regere, che amplia il significato di " reggere " e " sostenere " con quello di " dirigere " , "guidare " , " governare " ( da cui il rex, inteso come "colui che guida con la regola " ) . L a regola, dunque, è primariamente uno strumento che consente d i con formare un percorso o un tracciato a una direzione rettilinea. Se desideriamo tracciare una linea retta e lo facciamo a mano libera, infatti, il risultato sarà quanto meno incerto, mentre non incontreremo alcuna difficoltà se potremo disporre come guida di una riga . La riga stessa, dunque, in qualche modo " incarna " e rende concreto il concetto astratto di linea retta, fornendo con ciò un appoggio e una guida per ogni tracciato che voglia svolgersi in modo rettilineo . E allo stesso modo la Regola non è u n Principio (così come la riga i n quanto strumento fisico non è l'idea d i retta ) , bensì il tramite che p u ò ren derlo concreto e agente: un mezzo e un supporto per chi desideri conformare
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a quel Principio la propria condotta rettificandola, e cioè facendola recta (ancora da rectum, participio di regere) in quanto modellata sulla Regola e dunque, a sua volta, espressione dello stesso Principio che della Regola è ispiratore. Emerge da ciò un concetto fondamentale: la regola è un mezzo, e non un
fine. Della linea tracciata utilizzando una riga diciamo che è retta, e non che è " conforme alla riga " , benché su questa sia stata modellata ! Così lo scopo del rispetto di una Regola non è quello di uniformarsi alla Regola stessa, bensì al Principio che ne costituisce lo spirito. Ogni Regola che sia davvero tale - e non una semplice raccolta di pre scrizioni - conosce e contiene un Principio. E l'aderire alla Regola porta a conoscerlo per via realizzativa, e cioè mentre lo si rende reale.
È
proprio questo uno dei più importanti significati di quell'invito a rec
tificare contenuto nel V.I.T.R.I. O.L. del gabinetto di riflessione, e indicato quale azione necessaria per arrivare alla scoperta di quella "pietra occulta "
(occultum lapidem ), che è anche, allo stesso tempo, realizzazione di ciò che nella pietra è celato (occultum lapidis) .
Rectificare, e cioè rectum facere, fare secondo l a Regola, per diventare specchio e manifestazione dei Principi che in essa sono contenuti. Dalla progressiva scoperta e assimilazione dei Principi ispiratori della Re gola, e dalla loro applicazione al comportamento, nasce l'etica, che è dunque la via per la rettificazione dell'intera vita dell'adepto . L'etica dunque, dal punto di vista iniziatico, è anzitutto uno strumento per l'applicazione delle Leggi che si vanno man mano svelando agli occhi dell'iniziato, ed assume, in ciò, il ruolo di un vero e proprio strumento di
magia operativa, in quanto rende efficace la Conoscenza . L'iniziato che vive e agisce in conformità con i Principi della Regola, infatti, produce un doppio ordine di effetti, operando su di sé e sul mondo .
È
attivo su di sé, in quanto estende l'opera di rettificazione ad ogni circo
stanza della vita, per arrivare a rendere l'intera sua esistenza recta, ed essere dunque rex di se stesso. Ed è attivo sul mondo, in quanto diviene testimone attivo di Principi e Leggi universali, che rende espliciti nel suo agire e che rende operativi realiz zandoli attraverso il suo stesso operare .
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LA REGO LA COME STRUMENTO OPERATIVO
Sulla base di quanto abbiamo visto nel capitolo precedente si compren de perché l'etica vada intesa, nel contesto di una Massoneria operativa, soprattutto come uno strumento, in quanto rappresenta una possibilità preziosissima e insostituibile - per proseguire il lavoro iniziatico anche fuori dal tempio e dal contesto rituale, estendendo l'efficacia della Regola anche ai territori e agli ambiti dove più fortemente si manifesta la pressione della profanità . Durante il rito, infatti, quando " tutto è giusto e perfetto " e ogni cosa è
regolata nei dettagli, non v'è alcuna necessità di un'etica, essendo la parte cipazione al rito stesso - se estesa a tutti i piani di coscienza, e non semplice ripetizione meccanica di gesti e parole - sufficiente a garantire la piena e totale aderenza ai Principi che informano l' Ordine. Ma quando, al termine di una tornata, i lavori vengono sospesi e l'opera io esce dal Tempio " svelato " della Loggia per entrare in quell'altro Tempio - ancora velato - che è il mondo della quotidianità e della realtà ordinaria, è allora che lo spirito dell' Ordine, incarnato in norme di comportamento, può continuare a guidarlo e a sostenerlo, consentendogli una continuità nel lavoro muratorio che può così proseguire, anche se in altra forma, fino alla ripresa dei lavori rituali.
È
evidente d'altra parte che, in base a quanto fin qui considerato, l'etica
massonica non può essere fatta coincidere con il semplice possesso dei diritti civili - condizione minima per l'accesso all'Istituzione - o con il rispetto delle norme proprie della società e del mondo profano - condizione minima per poter condurre un'esistenza civile. Né riteniamo sinceramente possibile, ai fini della necessaria efficacia che dovrebbe perseguire ogni via operativa, accontentarsi delle generiche dichiarazioni di principio con le quali troppo spesso vengono identificati (e liquidati ) i fondamenti dell'etica massonica. Affermare - pure con grande enfasi e dovizia di argomentazioni a so stegno - che un massone deve essere rispettoso, tollerante, onesto, umile,
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so l i d a l e , gi usto, compassionevole, aperto al dialogo, integro, incorrotto e incorrutti bile, non è certamente sbagliato in sé: è solo totalmente inutile! Praticamente ogni associazione, ente o sodalizio, religioso o laico, poli tico o sportivo, professionale o ricreativo, da qualche parte all'interno dei propri statuti afferma di mirare primariamente alla realizzazione degli stessi valori. O forse ne conoscete qualcuno che si proponga, e chieda ai suoi adepti, di perseguire l'ingiustizia, la corruzione, la disonestà, l'orgoglio cieco e la prevaricazione dei propri simili ? E allora dove sta la differenza ? Forse nelle ragioni profondamente esoteriche che u n libero muratore può addurre per giustificare la necessità di una scelta etica ? Oppure nel risalto che i liberi muratori danno alla questione etica e al rispetto dei valori nelle loro discussioni ? O forse nel fatto - peraltro da dimostrare - che sono mediamente più etici rispetto al resto del genere umano ? Riteniamo di aver sufficientemente chiarito, trattando nel capitolo pre cedente la regola e la sua funzione nell'ambito di un ordine iniziatico, quali siano le reali ragioni che stanno alla base della necessità di un'etica in Mas sonena. Questo però non basta. Non basta affermare la necessità o l'opportunità di un comportamento, per garantire che questo venga adottato. Tutti noi sappiamo come dovremmo essere e cosa dovremmo fare pres soché in ogni occasione.
È
da tutta una vita che qualcuno ce lo spiega : dai
genitori agli insegnanti, dalla società ai media, dalle linee guida messe a punto da qualche team di esperti ai manuali che abbondano in ogni campo, dai sacerdoti di una qualche religione ai superiori sul posto di lavoro. E con molti di questi, certamente, siamo d'accordo, ne comprendiamo e ne condi vidiamo a fondo le ragioni . Come mai allora la nostra vita non è totalmente scandita su tali principi? E come mai non lo è la società, se tutti sono ugualmente d'accordo su di essi ? Se l'occidente è in gran parte cristiano, come mai non è retto dai principi del cristianesimo ? E se ogni libero muratore giura, nel corso della sua prima e più importan te iniziazione, di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su
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tutta la superficie della terra, di lavorare incessantemente al proprio perfezio namento e di consacrare tutta la propria esistenza al bene e al progresso della sua patria e dell'umanità intera, come mai poi, di fatto, non lo fa ? E qui è inutile sospirare e tirare in ballo la debolezza umana, o provare a dimostrare che " in fondo " e " in qualche modo " , "in linea di massima " o " qualche volta " questo succede . . . Non si tratta di giustificare, giudicare o condannare, ma di capire. Capire perché il semplice consenso e l'adesione a un principio non funzionino. E pensare a qualcosa che, invece, possa funzionare ! Da secoli ormai la Massoneria si dedica ad approfondire i propri con tenuti sapienziali, mostrando ben poco o nessun interesse nei confronti dei metodi per portarli a compimento. La stessa istruzione dei liberi muratori, nei vari gradi, si limita a descri vere a questi la natura, i contenuti e i doveri del grado cui appartengono - e cioè come " dovrebbe " essere e cosa " dovrebbe " fare un Apprendista, o un Compagno o un Maestro - senza peraltro preoccuparsi di fornire loro stru menti reali, pratici e concreti per realizzarli, ancora una volta nell'illusione che sia sufficiente capire per poter fare o per poter diventare. Un'illusione, questa, che è fin troppo facile smontare e che di fatto non trova riscontro in alcuno dei settori di esperienza della vita quotidiana, e che pure continua caparbiamente, nonostante tutto, a sopravvivere e a imperare. Un'illusione che non sarebbe tale, peraltro, se il comportamento uma no fosse determinato solo dall'adesione razionale a un principio etico o di convenienza, e non dovesse scontrarsi poi con avversari quali l'inconsape volezza, la meccanicità, le dinamiche dell'inconscio, e determinanti di tipo emotivo, sociale, fisico. La questione, allora, si fa più tecnica, e pone una serie di domande. Perché un essere umano non si comporta in modo pienamente conforme ai valori che pure afferma di condividere ? Perché non vuole o perché non può ? E se è vera la prima delle due ipotesi, perché non lo vuole ? O meglio: perché non vuole voler/o ? Se è solo una questione di volontà, e la volontà è, per definizione, una funzione sotto il controllo volontario dell'io cosciente, come mai lo stesso " io cosciente " non decide di impegnarla per produrre quei comportamenti con i quali pure è totalmente allineato ?
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Forse perché la "volontà " - qualunque cosa si celi sotto a questa defini zione - è insufficiente o troppo debole ? E allora, in questo caso, come si può accrescerla o rinforzarla ? Fornendo altre spiegazioni, altre buone ragioni ? Ma il problema non è nella mancanza di queste. L'accordo c'è già : è solo che non basta . . ! E allora esortando, prescrivendo, ordinando, minacciando ? Ma tutte queste sono azioni che agiscono " dall'esterno " , e che, in qualche modo, "spingono " verso una direzione, aiutando così forse la realizzazione di un comportamento, ma senza alcuna garanzia che questo venga adottato in modo permanente, né che si potrà realizzare ancora, in futuro, anche in mancanza di aiuti o pressioni esterne . E dunque non si potrebbe parlare, in questo caso, di una reale scelta etica, e nemmeno affermare che l'autore del comportamento abbia realmente subito un'evoluzione in senso etico. Quale può essere, dunque, una soluzione valida? Se spostiamo il problema sul piano fisico, le cose diventano subito chiare. Nessuno penserebbe che per spostare un armadio di duecento chili sia sufficiente voler/o fare ( e nemmeno volerlo davvero ! ) , o avere una buona ragione per farlo, fosse anche la più nobile e la più elevata. Entro certi limiti - è vero - la motivazione può fare miracoli, ma superati questi, nessun buon motivo può supplire alla mancanza della forza fisica che sarebbe necessaria. Dunque per riuscire nell'impresa è inutile cercare di convincersi che " sa rebbe giusto " spostare quell'armadio, o che " si dovrebbe davvero " farlo, ma occorre piuttosto cercare di acquisire quella forza fisica che lo consentirebbe. Non è affatto diverso per ciò che riguarda le scelte comportamentali. Anche qui occorrono "muscoli " di un qualche tipo, e se questi non ci sono, oppure sono insufficienti, è inutile ogni altra soluzione che non sia quella di svilupparli attraverso un allenamento appropriato.
Allenamento: ecco tutto . Niente di più e niente di meno . E con gli stessi criteri di razionalità, costanza e progressività che sono richiesti per lo sviluppo di un gruppo muscolare o di una qualsiasi abilità fisica .
È esattamente questo il senso dell'esistenza di una regola all'interno di un
cammino iniziatico di tipo operativo. Modificare gradualmente la struttura emotiva e mentale del praticante, modellandola su un preciso schema etico e valoriale . E per farlo, la regola propone una serie di esercizi, adatti alle varie occa sioni della vita.
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Va da sé che, proprio come in qualsiasi altra forma di allenamento, i risultati saranno funzione della serietà e della costanza con cui l'allenamento stesso è stato portato avanti, e del tempo e dell'energia che ad esso sono stati riservati .
È per questo che,
all'interno di un percorso muratorio, i momenti dedicati
alla pratica rituale - per intensi ed efficaci che siano - ben difficilmente po tranno, da soli, produrre un reale e profondo cambiamento . Presenti, come sono, in ragione di un paio d'ore scarse ogni settimana (nella migliore e più rara delle ipotesi) o ogni quindici giorni, ben difficilmente potranno riuscire a competere efficacemente con le pressioni, le esigenze, i ricatti e le ingan nevoli promesse di felicità consumistica che la quotidianità esercita in modo incessante nel resto del tempo. Ed ecco allora che l'etica, codificata in un corpo di norme comportamen tali, esce dal tempio e va ad affrontare gli avversari sul loro stesso terreno, quello della "normalità " , della vita di ogni giorno, della strada, della fami glia, della fab brica o dell'ufficio. L'intera giornata, in questo modo, diventa luogo e occasione di pratica; diventa palestra, officina. Perché l'allenamento funzioni, d'altra parte, deve potersi basare su eser cizi validi, concepiti e messi a punto razionalmente per poter essere eseguiti con successo . O r a : nessun istruttore invita genericamente un atleta a " rinforzare i bi cipiti " o a " fare più fiato " , ma si preoccupa piuttosto di fornire precise e dettagliate istruzioni pratiche su come farlo attraverso specifici esercizi. E allo stesso modo, non è sufficiente invitare i liberi muratori a " pratica re le virtù massoniche " anche fuori dalle mura del tempio, o esortarli " alla purezza " , " al rispetto dei diritti altrui " , a "mantenere un comportamento corretto " , o a essere " buoni e onesti cittadini " . Questi non sono esercizi, m a prescrizioni generiche, destinate a lasciare il tempo che trovano . Che significa, in pratica, " praticare le virtù massoniche " ? Come si può allenarsi a farlo ? In quali comportamenti può essere tradot to e declinato questo principio ? Cosa occorre fare o non fare - e quando, e in quali occasioni - per essere in linea con esso ? Questi sono criteri per un " training " efficace ! Questi sono esercizi. Le altre sono solo buone intenzioni. E non vale argomentare che " dentro di sé" ciascuno sa bene " cosa è giusto e cosa non lo è " .
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Lo sa, ma poi se ne dimentica. Lo sa prima - mentre si propone, in teoria, di agire in modo virtuoso - e lo sa ( forse ) dopo, quando si rende conto ( for se) di esser venuto meno ai propositi fatti, e allora può pentirsi, impegnarsi "per la prossima volta " , oppure, più facilmente, cercare responsabilità ester ne, vincoli contingenti, o invocare cause di forza maggiore. In ogni caso, non lo sa durante, quando la sua mente è troppo presa da " quello che c'è da fare " e dagli obiettivi che nell'immediato devono essere raggiunti, per ricordarsi dei principi che ha sposato e ai quali dovrebbe at tenersi. In questo senso la regola, tradotta in un codice, è una guida, tanto più sicura ed efficace quanto più specifica, precisa e dettagliata. Si tratta, in pratica, di passare dai principi ai comportamenti. Dai criteri alla loro applicazione. Non tanto in funzione di vincolo etico - come fa la religione - quanto piuttosto di esercizio. Nell'ottica operativa che stiamo adottando non c'è alcuna colpa nel venir meno al dettato di un codice, né alcun merito nel rispettarlo, proprio come non c'è merito o colpa nello svolgere o meno il programma stilato da un trainer in qualunque disciplina. Ciò che conta è che il programma sia possibile, chiaro, preciso e detta
gliato . N e è u n ottimo esempio, a nostro avviso, la regola dei cavalieri templari, stilata sulle indicazioni di Bernardo di Chartres. In essa non vengono forniti solo i principi generali che la informano, ma viene codificato in modo minuzioso pressoché ogni momento della giornata del cavaliere e ogni aspetto della sua vita : dalla dieta all'abbigliamento ( do ve vengono prescritti colori, foggia e tessuti degli indumenti da indossare) , all'acconciatura, al modo di interagire nelle varie occasioni c o n compagni d'armi, servi, scudieri e persone esterne all' Ordine, fino al modo di praticare la caccia o di confezionare il sacco per la biada dei cavalli. Un esempio estremo - certo - adatto per la scelta radicale di un monaco guerriero, ma proprio per questo utile a rendere evidente il concetto del quale stiamo discutendo . Anche alcune sezioni delle cosiddette Costituzioni di Anderson, d'altra parte, si propongono in questa veste, non limitandosi a indicare principi astratti di " correttezza massonica" ma illustrando concretamente quali com portamenti tenere e quali evitare in alcune specifiche situazioni. Si tratterebbe forse di riprenderle, almeno nello spirito, integrandole e adattandole ai tempi e alle situazioni della vita contemporanea.
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E questo - lo ripetiamo un'ultima volta vincoli, o di limitare la libertà e il libero arbi- non con la volontà di creare massonica difende e propugna, ma unicamtrio dell'uomo, che l'istituzione aiuto concreto e un supporto al lavoro muraente nell'intento di fornire un tempio e del contesto strettamente rituale. ttorio al di fuori delle mura del
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PARTE IV
' L O PERATIVITÀ NEI GRAD I S I M B OLI C I
IL LAVORO NEI GRADI: PERCHÉ E QUALE
Pur confermando con piena convinzione quanto abbiamo precedente mente sostenuto in merito alla centralità del rito e dell'etica - quest'ultima codificata come regola - nella prassi liberomuratoria, riteniamo oltremodo utile, se non addirittura indispensabile, che in un'ottica operativa a questi due essenziali strumenti ne possano essere associati altri, specificamente mi rati ai contenuti e agli scopi di ciascuno dei tre gradi simbolici. E questo non certo perché il rito e la regola non siano in sé sufficienti e
sufficientemente efficaci.
È
anzi proprio per consentire a tali mezzi di di
spiegare appieno le loro potenzialità, che riteniamo opportuno prepararli o sostenerli con tecniche e strumenti adeguati. Un esempio, per chiarire il nostro pensiero in merito. Abbiamo ampiamente discusso, trattando del rito come strumento ope rativo, di quanto sia importante che questo venga agito in stato di intensa consapevolezza: consapevolezza di se stessi, anzitutto - del proprio esserci, dell'essere completamente presenti nell'assoluto qui-e-ora dell'azione rituale - ma anche consapevolezza del luogo in cui ci si trova, della sua natura sacra e
simbolica, e poi degli altri partecipanti, nella loro triplice essenza di esseri
umani, fratelli e parte attiva del rito che si va svolgendo. Orbene: per quanto possano essere chiari e chiaramente compresi il ruolo e
l'importanza di tale condizione, questo non è affatto sufficiente a produrla. Non è sufficiente voler essere consapevoli per diventarlo. La consapevolezza, infatti, è una precisa qualità della coscienza, un modo
di essere coscienti che non basta comprendere sul piano teorico, ma che oc corre anzitutto scoprire e sperimentare, per poterlo conoscere e ri-conoscere, e
che poi è necessario allenare, per poterlo indurre volontariamente e volon
tariamente poterlo mantenere nel tempo. Ecco dunque che un adeguato training alla consapevolezza, da proporre miratamente a ciascun grado in funzione degli specifici contenuti di questo, non deve essere visto come un'alternativa al rito, e nemmeno come una sua integrazione - quasi il rito stesso fosse in qualche modo incompleto o mancante - bensì come uno strumento atto a rinforzare la struttura basica
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dell'essere umano, o piuttosto a re-integrarla in tutte le sue componenti, così da consentire al celebrante di svolgere pienamente la sua funzione. Analogamente, per quanto riguarda l'etica e il rispetto della regola, molto spesso non sono scelte precise e decisioni ponderate a contrastarne o a impe dirne il rispetto e l'applicazione, quanto piuttosto l'abitudine, la meccanicità e una generale " debolezza " della coscienza che porta a " dimenticare " i buoni propositi, lasciando che a prevalere siano ragioni d'altro tipo. Ecco dunque che anche in questo caso un rafforzamento della coscienza - intesa però in senso proprio, come " facoltà dell'essere coscienti " , e non come organo etico - può servire a contrastare le pressioni esterne e interne provenienti dal mondo profano. Ben raramente, infatti, accade che volontariamente si scelga, in piena consapevolezza, di agire in modo difforme dai propri principi . Molto più frequente è invece il caso in cui questi semplicemente scompaiono, a seguito di un momentaneo oscuramento selettivo della coscienza, per cui all'atto in cui si decide di agire, semplicemente . . . non ci sono. Non sono lì, nella nostra mente cosciente . Non sono cioè presenti alla coscienza. In questo, dunque, quell'allenamento alla consapevolezza di cui si diceva può contribuire all'osservanza della regola, ponendosi in ciò come parte integrante dell'operatività massonica. Le stesse considerazioni possono valere per altri strumenti che abbiano lo scopo di rinforzare o raffinare la struttura dell'adepto, sul piano fisico, energetico, emotivo o mentale. Quasi una forma di " preparazione atletic a " - se ci è consentito il parago ne - che non mira certo a sostituirsi all'allenamento sul campo (rappresen tato, nel nostro caso, appunto dal rito e dall'osservanza della regola ) ma ne costituisce piuttosto una premessa necessaria e un supporto indispensabile. Avremo modo più avanti di svolgere altre considerazioni in merito ai cri teri di scelta per le tecniche da proporre nei vari gradi: ciò che qui premeva esplicitare e chiarire è il modo in cui queste devono essere intese nell'ambito del percorso massonico, e il ruolo che devono svolgere per potersi inserire all'interno di questo in modo armonico ed efficace. Un'ultima precisazione, che immaginiamo superflua ma che comunque non possiamo esimerci dal fare, prima di concludere questo capitolo intro duttivo all'operatività nei gradi, riguarda l'istruzione massonica propria mente detta, quella cioè che ha per oggetto i significati simbolici del grado e
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di tutto ciò che ad esso è correlato, svolta normalmente attraverso apposite tornate bianche o mediante specifiche tavole nel corso delle tornate ritual i . V a da sé che questa n o n perde certo il s u o valore anche all'interno di un'ottica operativa, ma continua ad essere uno strumento formativo ugual mente indispensabile e prezioso. Dovrebbe infatti essere evidente, a questo punto, che tale ottica non ri fiuta certo a priori l'insegnamento teorico, ma tende piuttosto a integrare in un unico processo teoria e pratica, che considera come le due facce di una stessa moneta, l'una inesistente senza l'altra . In base a quanto premesso, cercheremo dunque anzitutto di arrivare, nel prossimo capitolo, a una definizione generale degli ambiti di operatività pro pri a ciascuno dei tre gradi simbolici della Massoneria secondo la Tradizione iniziatica, per poi arrivare, in quelli successivi, a definire alcune line guida per il lavoro nei tre gradi. Abbiamo scelto invece di non inserire un repertorio di tecniche specifiche, se non quelle relative allo sviluppo della consapevolezza, che abbiamo ripor tato in appendice e che consideriamo - oltre che oltremodo utili e preziose - comunque trasversali a ogni orientamento o visione. Riteniamo infatti che la scelta degli strumenti operativi non possa pre scindere da una molteplicità di fattori, primo fra i quali l'esperienza di chi ne dovrà consigliare l'adozione e poi controllare l'esecuzione. Così, ad esempio, sarebbe del tutto inutile e incongruo consigliare per il grado di Compagno una pratica di rafforzamento energetico basata su speci fiche tecniche yogiche o taoiste, quando la guida che dovrà verificarne la cor retta esecuzione e gli effetti non ne abbia una specifica e diretta esperienza . Alla base di ogni sistema tecnico, inoltre, c'è il più delle volte una ben pre cisa cultura e una visione del mondo che potrebbero non essere in linea con quelle adottate dalle guide o dagli adepti, rendendo di fatto problematica, se non impossibile, l'adozione di alcune pratiche. Il gran numero di tecniche e di possibilità, infine, ci avrebbe obbligato a
una scelta del tutto arbitraria oltre che necessariamente parziale e incom
pleta . Per tutti questi motivi abbiamo scelto dunque di non stilare un elenco di esercizi, preferendo invece focalizzarci sui criteri generali da adottare nell'in dividuazione e nella scelta delle tecniche adatte al lavoro in ciascun grado, nel pieno rispetto della libertà e della specificità di ogni individuo e di ogni loggia.
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l TRE GRADI DELLA MAS SONERIA AZZURRA
ARCHETIPI DEL PERCORSO INIZIATICO
Sono stati spesso, i tre gradi simbolici, assimilati ai tre momenti dell'Ope ra alchemica - nigredo, albedo e rubedo - allo scopo di evidenziarne con maggior forza la portata e il significato nel più ampio contesto della Tradi zione iniziatica occidentale. Questa tripartizione dell' Opera, d'altra parte, supera ampiamente i con fini di una singola linea tradizionale, potendosi a tutti gli effetti considerare come un archetipo del percorso evolutivo dell'essere umano lungo la via iniziatica. La stessa Alchimia, infatti, rappresenta, all'interno della Tradizione occi dentale, una delle tre Scienze Sacre, insieme con Astrologia e Mistica. Tre Scienze Sacre . Tre modi di percorrere la Via . Tre sistemi di trascen denza. Tre atteggiamenti operativi nei confronti dell'uomo e delle sue poten zialità realizzative . Studia le costellazioni e i movimenti degli astri l'astrologo, per identifi care le leggi che reggono e che regolano la manifestazione e per poter a sua volta regolare, in virtù di questa conoscenza, il proprio agire nel mondo . Leggi intese come immutabili ed eterne - si badi bene - alle quali l'uomo non può che essere sottomesso. Può forse arrivare a pre-vedere gli eventi fu turi, ma non vuole né può modificarli, poiché anche il futuro è scritto nelle pagine della legge. Non così l'alchimista, che conosce per experimentum, poco interessato alla conoscenza della legge in sé ma ben determinato ad applicarla per uno scopo prectso. Non gli basta conoscere: vuole operare. Vuole cambiare ciò che parrebbe immutabile; vuole trasformare la sua natura, diventare altro da ciò che è nato, trans-mutare i metalli in oro e trans-mutarsi egli stesso nell'oro dello spirito. Vuole dunque conoscere la legge per conformarvisi l'astrologo, vuole
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possederla per agire l'alchimista, quasi incurante di ciò che è scritto, ma audace aspirante artefice del proprio futuro . Cerca di conoscere il "volere di Dio " l'uno, cerca di diventare simile a un dio l 'altro. Ancora differente la via del mistico che, nella sua accezione reale ed esoterica, ha ben poco a che vedere con gli stereotipi proposti dalla religio ne e dall'iconografia popolare intrisa di senso comune . E basterebbe, per rendersene conto, accostarsi alle figure dei " folli divini " della Tradizione orientale, mediorientale e occidentale: esseri dolci e terribili, liberati da ogni vincolo e per questo liberi di decidere istante per istante della loro vita, liberi di conformarsi volontariamente a ogni legge o regola umana così come di infrangerle tutte senza un fremito di esitazione, incomprensibili e indefinibili, tremendi nella loro portata destabilizzante e per questo temuti, osteggiati, ignorati o perseguitati dagli esponenti dell'ortodossia . Scopo primario dei mistici, infatti, non è l a conoscenza delle leggi e nemmeno il loro possesso. Comprendendo - o meglio realizzando
-
che
la natura ultima della realtà è assoluta, e che dunque " Dio è tutto, e tutto è Dio " , semplicemente testimoniano con la loro vita e in ogni atto questa consapevolezza. E quell'annullamento in Dio, quella fusione col Tutto così spesso malcompresa o espressa con le parole limitate di una fede religiosa, non è altro che percezione chiara, certa e assoluta dell'essere . Non dunque astrologi sottomessi a leggi immutabili, né titani alchimisti alla conquista dell'oro dell'Olimpo, ma semplici e perfette espressioni consa pevoli dell'essere in ogni sua forma di manifestazione . E tre sono anche le vie di trascendenza offerte all'uomo secondo l'antica Tradizione tibetana pre-buddhista dello Dzog-Chen: la via del sutra, quella del tantra, e poi una terza, propria di tale Tradizione, e definita "pura come il diamante ma sottile come la lama più sottile " . La prima è la via del monaco, scandita dalla regola ( sutra ) la cui stretta osservanza consente di purificare il corpo, l'energia e la mente. Presupposto e base di questo sistema è che la natura umana sia fatta di puro e impuro, e che la purezza possa essere raggiunta solo attraverso la progressiva eliminazione di ogni impurità : un principio di purificazione, cioè, da attuarsi per mezzo della rinuncia volontaria. Ciò che spetta al monaco, dunque, è " separare con grande cura il sottile dal denso " , e la via per farlo passa attraverso la sottomissione totale e indi scussa a regole date e non modificabili.
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Ben diverso l'atteggiamento del praticante tantrico, il quale - ben coscien te del principio di corrispondenza fra "ciò che sta in basso e ciò che sta in alto " - lavora attivamente per trasformare l'uno nell'altro . Alla luce di tale proposito, allora, questi non troverà nulla di impuro o di rinunciabile nella propria vita come nel mondo, vedendo ciò che per il monaco è impurità unicamente come materiale da lavorare: metallo da trasmutare in oro. Così una passione o un desiderio non sono nemici da vincere o scorie da eliminare per far emergere la natura luminosa dell'uomo, bensì espressioni di un'unica energia che può essere guidata e trasformata da brama terrena in virtù spirituale, essendo il profano nient'altro che l'opposto del sacro, e dun que a questo collegato da un legame di polarità : un legame che può essere percorso come una via, per sacralizzare ogni aspetto della vita . E poi la terza delle tre vie, quella dello Dzog-chen, che non elimina e non trasforma, poiché riconosce che "tutto è perfetto fin dall'origine, né ha mai cessato di esserlo " . Una via percorribile da pochi, da pochissimi, poiché non ha una forma né una regola né un codice per comprenderla, essendo tutt'uno con la vita così com'è, già sacra e divina nella sua essenza, incorrotta poiché non vi è spazio altro che per la perfezione, e perché ogni cosa che esiste non è altro che uno degli infiniti modi di manifestazione dell'essere. Ed ecco allora, dal confronto fra due tradizioni solo apparentemente lontane, delinearsi ambiti di ricerca e pratica della trascendenza che molto hanno in comune nella loro essenza, e dei quali già possiamo intuire i legami con la tripartizione della via massonica: - un primo ambito scandito da principi di purificazione, rinuncia, sotto missione e accettazione acritica della legge - un secondo ambito il cui spirito è la trasformazione di ciò che è mate riale, impuro e profano nel suo corrispondente spirituale, puro e sacro - un terzo ambito, infine, che è essenzialmente consapevolezza del reale e della sua natura ultima; che non è chiedere (come fa il monaco) né diventare (come vuole l'alchimista o il praticante tantrico ) ma essere, e che consente di muoversi nel mondo senza essere del mondo. M a questi che abbiamo appena iniziato a definire non sono altro che: - l'ambito della religione (dal latino "religio " , che ha appunto il signifi cato di obbligo religioso, dovere sacro, vincolo, prescrizione, culto esterno o esteriore [ exoterismo] )
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- l'ambito della magia (intesa come taumaturgia o operazione di prodigi attraverso la conoscenza e la sottomissione delle forze occulte della natura, scienza mesoterica nella sua essenza, in quanto si muove ed opera a cavallo fra l'ambito naturale-ordinario e quello soprannaturale-extra-ordinario) - l'ambito dell'esoterismo propriamente detto (dal greco esòteros
=
"più all'interno " , " interiore " , " intimo " , da cui esotericòs: "ciò che sta più all'interno " , proprio come esotèrion era detta la tunica interula, camicia o veste interna ) . L'esoterismo, dunque, inteso come conoscenza del cuore della realtà, di quel mondo reale che sta dentro al mondo apparente : più un'appartenenza che una pratica. Un concetto ben lontano, come si vede, dall'accezione - non solo profana ! - che identifica l'esoterismo con la magia cerimoniale, confondendo in un unico calderone esoterismo, occultismo e pratica del soprannaturale. Adatta per la pratica del monaco, allora, è la basilica romanica dai volu mi compatti e saldamente ancorati al suolo, chiusa da una volta a botte che chiaramente definisce e delimita lo spazio dell'uomo sulla terra e quasi lo obbliga a chinare il capo nel rapportarsi a quel Dio da cui la legge promana, e che sta oltre il limite della volta stessa, su nel cielo. Ma vero emblema magico-operativo lo slancio - quasi eretico, se con trapposto alla visione precedente - dell'architettura gotica, a sfondare i sof fitti con volte e archi che proiettano la terra nel cielo, promettendo all'uomo un'elevazione che non è il risultato di una grazia implorata e ottenuta, bensì l'effetto di una trasformazione dall'uomo stesso operata sulla sua propria na tura intima: una vera e propria trasmutazione alchemica, come palesemente attesta l'abbondanza di simboli e rimandi a tale arte nelle cattedrali gotiche. E quale architettura, allora, - viene da chiedersi - quale luogo elettivo per la pratica della terza via, quella della consapevolezza e dell'esoterismo ? La risposta è evidente e implicita in quanto già considerato : può esistere un luogo elettivo per sperimentare o praticare la consapevolezza che tutto è uno e che tutto è perfetto, pur nella sua complessità e nelle innumerevoli forme della molteplicità ? Sacre dunque sono la cattedrale e la basilica, ma anche un prato o un bo sco, una piazza, un mercato o una sala cinematografica, poiché la presenza del divino e dell'assoluto non è legata a un luogo specifico bensì alla capacità dell' uomo di coglierlo. Luogo di pratica, d'altra parte, non è soltanto uno spazio fisico, ma anche
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uno spazio sociale nel quale sperimentare e attuare le modalità operative proprie di ciascuna delle tre vie attraverso la propria stessa vita . Ed ecco allora la tripartizione delle caste nella Tradizione induista, con: - i vaishiya, mercanti e artigiani, esponenti del mondo economico e pro duttivo e deputati alla gestione dei beni materiali; strettamente connessi alla materia e perciò ancora vincolati dalle sue leggi - gli kshatriya, i guerrieri, votati al combattimento e alla conquista - i brahmana, sacerdoti deputati all'insegnamento della dottrina e ai rapporti fra l'uomo e il divino nelle sue diverse forme Tre caste che, a loro volta, sono espressione dei tre guna, gli stati della prakrti - la sostanza primordiale in manifestazione - che "legano alla forma l'Immortale che vi si trova dentro " ( Bhagavadgita, 1 4-5 ) : - tamas guna, l 'inerzia propria della materia e del corpo fisico ( m a non è questa la natura "metallica " contro cui deve lottare l'Apprendista ? )
- rajas guna, l'energia, l'impulso all'azione e a l cambiamento (ma non è il lavoro, finalizzato all'auto-trasformazione, la missione del Compagno muratore ? )
- sattva guna, l'equilibrio, l a conoscenza ( obiettivi e doti del Maestro) Corpo, energia, mente. Conoscere le leggi della materia per muoversi in esse a proprio favore, nella metafora dell'artigiano. Saper dirigere l'energia per vincere le leggi e governare l'azione e il cam biamento, nella metafora del guerriero . Esprimere la conoscenza suprema, nella metafora del sacerdote. Così nel Rig-Veda: "Di Purusha [lo spirito universale] il Brahmana fu la
bocca, lo Kshatriya le braccia, il Vaishiya le anche " . Le anche, sede della forza basica e indifferenziata . Le braccia, strumenti dell'azione. La bocca, veicolo dell'espressione e della trasmissione. E da qui, di nuovo, tre vie di trascendenza, tre sistemi di conquista dell'Assoluto :
- hatha yoga, per il dominio del corpo e la sua purificazione - raja yoga, per il controllo dell'energia, che viene portata dal basso in alto per operare una raffinazione dell'essere umano - jnana yoga, la via della comprensione e della conoscenza, che culmina 99
con la pratica del dhyana yoga, la meditazione di pura consapevolezza, testi monianza dell'essere, senza forma e senza scopo. Ancora solo un accenno, prima di provare a tirare le conclusioni, ai tre gradi dell'iniziazione cavalleresca:
- valletto ( o paggio, o donzello), un grado interamente votato alla pre parazione di base e al servizio, al rafforzamento del carattere e all'apprendi mento delle qualità morali necessarie per proseguire lungo la via del cavaliere
- scudiero (o armiger) , con diritto a custodire e maneggiare le armi - tran ne la spada, di esclusiva pertinenza del cavaliere - per addestrarsi nell'arte del combattimento e per apprendere gli usi della Cavalleria
- cavaliere, finalmente libero di agire e di disporre di se stesso, affrancato da ogni dovere che non sia iscritto nella regola cui ha liberamente scelto di sottomettersi Ed eccoci finalmente pronti per tornare ai tre gradi della Massoneria simbolica, ma solo per prender atto che, in realtà, non li abbiamo mai la sciati. Solo per riconoscere, nelle figure dell'Apprendista, del Compagno e del Maestro, lo stesso sentiero tripartito che è modello e archetipo di ogni percorso iniziatico. Figure però che possiamo, alla luce di tale riconoscimento, forse arric chire di significato, e dalle quali forse possiamo trarre nuovi e più definiti spunti pratici. Così per il grado di Apprendista, analogo ad ogni altro che parli di sotto missione a leggi e principi non discutibili, di addestramento all'autodominio, di purificazione attraverso l'eliminazione di tutto ciò che è profano, di raffor zamento della struttura umana e caratteriale di base intesa come necessario fondamento per l'addestramento che seguirà .
" . . . avevo impiegato il tempo del mio tirocinio a vincere le mie passioni, a sottomettere la mia volontà " afferma il Compagno, nel ricordare il suo precedente percorso. E proprio come il monaco, infatti, l'Apprendista si muove in un mondo di principi ben distinti, un mondo in cui ciò che è impuro e profano deve essere eliminato . Non così il Compagno, che interrogato su cosa abbia imparato nel se condo grado, risponde: " Ho imparato a conoscere me stesso e a correggere
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i miei difetti col cesello della morale " . " Correggere " , si badi bene, e non " eliminare " : un processo, dunque, che non è più di purificazione ma già esplicitamente trasformativo, tantrico e alchemico. Un processo che non rinuncia a nulla di ciò che è umano, poiché tutto può essere trasformato, proprio come afferma la massima secondo cui " nul la di quanto ha rapporto con l'Umanità deve restare estraneo alla Libera Muratoria " . Una massima certamente riservata ai compagni e taciuta agli apprendisti, ancora troppo impegnati a distinguere fra sacro e profano. Svincolato da ogni processo e da ogni obbligo, trascesa la differenza fra sacro e profano, solo il Maestro è libero di muoversi " sopra tutta la super ficie della terra " , addirittura percorrendola " dall'oriente verso l'occidente " , i n una volontaria immersione nell'umanità e nel regno dell'illusione che lo assimila perfettamente al bodhisattva della Tradizione buddista, colui che, raggiunta la soglia della liberazione ultima, volontariamente rinuncia a var carla finché non avrà aiutato anche l'ultimo degli esseri a emanciparsi dalla sofferenza. Saranno dunque l'umiltà, l'obbedienza, l'apertura e la fiducia verso le guide, l'attenzione e l'ascolto, la perseveranza e la capacità di rinunciare ai propri attaccamenti, le doti maggiormente utili al lavoro in grado di Ap prendista . Ma saranno il coraggio, l'efficacia, l'intelligenza, la versatilità, l'audacia e la capacità di " andare oltre " , le caratteristiche che il Compagno userà per impadronirsi del mestiere . E saranno consapevolezza e compassione le doti che coroneranno la rea lizzazione del grado di Maestro. Deve imparare 1' Apprendista, e cioè ricevere precetti ai quali adeguarsi. Ed ecco perché a lui viene semplicemente enunciato cosa le arti insegnino e di quale vantaggio esse siano per i liberi muratori : non gli è richiesto infatti di operare ma solo di prepararsi. Deve invece capire il Compagno (nel senso originario del latino "ca pere " , che porta i n s é i significati d i "prendere, afferrare, catturare " ) , e cioè padro neggiare l'arte, in quanto suo compito è quello di avvalersene per costruire se stesso, realizzando l'uomo reale che ancora non è. Ed è per questo, infatti, che gli viene spiegato l'utilizzo pratico delle arti. Deve, infine, comprendere il Maestro ( anche qui con riferimento al senso
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proprio del verbo, che è " prendere e portare dentro di sé " ) , allo scopo di diventare egli stesso la regola, e così testimoniarla con le parole e traducen dola nelle azioni. Non fa altro che sgrezzare la pietra il fratello muratore nel suo primo grado di istruzione, occupandosi con ciò solo di eliminare ciò che è superfluo o di ostacolo all' Opera . Ma la squadra, quella pietra, nel secondo grado, dandole una forma - o piuttosto consentendo alla forma che è in essa di manifestarsi . E infine, nello stadio finale della sua evoluzione, esprime la conoscenza acquisita cementando se stesso, in quanto pietra, nella costruzione di un tempio Un tempio che però non costruisce per sé, bensì per chi vi si recherà a cercare risposte e guida . L'Opera, per il Maestro, è infatti - come abbiamo visto - da un lato ade sione volontaria alla legge superiore e dall'altro servizio verso tutti gli esseri, proprio come impone la regola del cavaliere, che è fedeltà al signore (e cioè al principio assoluto ) e protezione dei deboli. E allo stesso modo sarà il dovere la guida dell'Apprendista, poiché negli strati più bassi dell'essere non esiste libertà, ma soltanto necessità. Sarà il potere la guida del Compagno, poiché "può " soltanto chi è pa drone della propria energia e sa veicolarla verso una meta da conquistare . E sarà l'amore quella del Maestro: un amore che solo può nascere dalla comprensione della fondamentale unità del tutto e della essenziale perfezione di ogni essere e di ogni cosa. Così riceve l'Apprendista, prende il Compagno, dona il Maestro. Non è certo il caso, qui, di proseguire ancora con altre analogie che, sia mo certi, ognuno potrà trovare ancora numerose e stimolanti usando queste o altre suggestioni. Ciò che preme considerare, invece, e che costituisce di fatto la vera ragio ne di queste righe, è l'opportunità di considerare il lavoro nei tre gradi non tanto dal punto di vista dei contenuti - le cose da dire e quelle da non dire, gli argomenti da trattare e quelli da evitare - quanto piuttosto da quello degli obiettivi da raggiungere, obiettivi che, come si è cercato di mostrare, rappre sentano veri e propri archetipi inscritti nel DNA di ciascun grado. Così, ad esempio, per quanto riguarda le tornate in grado di Apprendista,
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non si tratterà di decidere " se " parlare di simboli, o " come " parlarne, ma piuttosto perché parlarne. Dal " perché " scaturirà il " come " . L'Apprendista deve capire ? No . Questo spetterà a l Compagno, che dovrà capire per poter fare. E allora in primo grado non servono tanto le spiegazioni, quanto l'enun ciazione chiara di regole e principi. L'Istituzione non è un circolo culturale, e la cultura non è che uno degli strumenti massonici. L'Apprendista deve operare ? No, nemmeno questo gli compete. E dunque nemmeno la discussione e l'interpretazione, strumenti attraverso i quali " l 'al chimista " Compagno, invece, potrà impadronirsi della regola. Deve piuttosto, l'Apprendista, prepararsi moralmente e caratterialmen te. E allora la sua istruzione dovrà necessariamente essere di basso profilo rispetto ai contenuti (exoterica ) e quasi leggibile in un'ottica di morale pro fana. E puntuale, a questo proposito, il rituale di iniziazione al primo grado addita chiaramente quale sia il livello di istruzione più adatto all'Apprendi sta, quando il Maestro Venerabile, pur ricordando al recipiendario che " i tre viaggi simbolici hanno u n significato connesso ad un'antica Tradizione trascendentale " , poi preferisce spiegarne il valore morale, con un linguaggio semplice e ben più adatto agli scopi del lavoro di grado. Concludiamo qui la discussione sugli archetipi del percorso mlZlattco, ben consapevoli di non averne esplorato tutte le possibili implicazioni, né, peraltro, di averne esaurito le potenzialità . Il nostro scopo, infatti, come dichiarato in precedenza, era quello di arri vare a una definizione generale degli ambiti di operatività propri a ciascuno dei tre gradi simbolici della Massoneria secondo la Tradizione iniziatica. Per arrivare a questo abbiamo considerato solo alcune delle sue espres sioni, e solo relativamente ad alcuni aspetti che ci sono sembrati particolar mente significativi ai fini del lavoro che desideravamo impostare, e non certo concludere. Ciò che raccomandiamo a quanti vorranno tenerne conto o proseguirlo, è di non trasformarlo in un semplice esercizio culturale o in un banco di prova per la propria o l'altrui conoscenza teorica, tradendone così la vocazione e vanificandone il potenziale. Al contrario, il suo scopo sarà raggiunto se - e nel momento in cui - le suggestioni che contiene e quelle che potrà stimolare non saranno soltanto
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fatte oggetto di discussione, ma potranno condurre alla definizione di stru menti e metodi pratici per arricchire il bagaglio operativo a sostegno del percorso liberomuratorio.
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LINEE GUI DA PER UN APPRO C C IO OPERATIVO AI TRE GRADI S IMBO LICI
IL PRIMO GRADO (APPRENDISTA)
PURIFICAZIONE
È
la base di ogni percorso di trascendenza: una fase preliminare e neces
saria che di regola precede e prepara tutte le altre che seguiranno. All'inizio del percorso, infatti, si assume che l'adepto sia una mescolanza di fattori " puri " e " impuri " , variamente connotati in base alle diverse visioni ( spirito e materia, sacro e profano, pulsioni divine e diaboliche, spinta evo lutiva e involutiva, natura originaria e degradata ) . D a qui l a necessità d i isolare i primi eliminando gli altri, ciò che rappre senta l'obiettivo primo e centrale di ogni pratica di purificazione. In una chiave operativa e all'interno del percorso massonico questa fase può essere declinata e applicata su vari livelli. Quello fisico, anzitutto. Non staremo certo a discutere, in questa sede, degli effetti che un corpo inquinato può indurre su tutti i piani dell'essere. Ci limitiamo a ricordare come un regime alimentare appropriato - o in alcune fasi il digiuno - unito a specifiche pratiche di igiene rituale ed energe tica, costituisca elemento irrinunciabile in gran parte delle tradizioni religiose e iniziatiche . Doveroso quindi raccomandarne l'applicazione non solo nel periodo che precede l'iniziazione, ma anche - pure se in forme diverse - per tutto il periodo dell'apprendistato . La purificazione, d'altra parte, non può limitarsi al solo livello fisico energetico, e per questo sarà senz'altro utile estendere l'ambito di pratica anche ad altri piani. Quello emotivo, ad esempio, insegnando all'Apprendista anzitutto a
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prendere coscienza delle proprie emozioni, e quindi a distinguere fra emozio ni positive e negative, per poi esercitarsi a coltivare le prime e ad eliminare le altre. (cfr. " La consapevolezza delle emozioni " , in appendice ) Anche il livello mentale - di regola ampiamente inquinato - non può essere certo trascurato. Anche in questo caso, dunque, sarà opportuno fornire istruzioni e tecniche atte a "ripulire la mente " , come la pratica di
auto-distanziamento tramite l'osservazione dei pensieri che abbiamo inserito in appendice. Un caso del tutto speciale di purificazione è infine quello che riguarda la
morte dell'io profano, ampiamente evocata nel gabinetto di riflessione e nel rituale di iniziazione al primo grado. Un evento simbolico che può - e a nostro avviso deve - proseguire anche durante l'apprendistato, e che consiste essenzialmente nell'aiutare l'adepto a riconoscere le sovrastrutture e i condizionamenti che nel tempo ha integrato e con i quali si è identificato nella costruzione di quella maschera che defi nisce "personalità " . Ciò che l e guide dovranno indurlo a d attuare, dunque, è u n vero e pro prio smantellamento progressivo di questa personalità profana. Si tratterà cioè di aiutarlo a riconoscere tutte le influenze che hanno agito e agiscono in lui, e che lo condizionano a livello psicologico e comportamentale, e di portarlo così a scoprire "cosa non è " e " chi non è " . Non s i tratta qui - s i badi bene - d i costruire o scoprire u n io reale: questo competerà al Compagno, che a tale scopo riceverà idonei strumenti. Qui il lavoro è " al nero " , e passa attraverso morte e putrefazione del falso io.
CoNTROLLO Un principio, quello del controllo, da esercitarsi sui vari piani dell'essere, e che in un'ottica operativa adempie a due funzioni. La prima è quella di rendere disponibili le risorse che l'iniziato potenzial mente possiede - a livello fisico, energetico e mentale - sottraendole all'in fluenza di fattori estranei agli scopi che si è prefissato . La seconda coincide con un generico e a-specifico rafforzamento della volontà . Una volontà, peraltro, che non gli è ancora richiesto di esercitare
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in modo mirato - lo farà poi, nel secondo grado - ma solo di preparare e in qualche modo di garantire per scopi futuri. Il controllo, dunque, per l'Apprendista è essenzialmente sacrificio nel senso comune e più essoterico del termine - non è il sacrum facere esercita to, pur se in modi diversi, dal Compagno e dal Maestro - e consiste essen zialmente nel contrastare pulsioni istintuali e condizionamenti di vario tipo attraverso la pratica della rinuncia e della volontaria privazione.
È ovvio che non stiamo qui proponendo cilici, autoflagellazioni o qualche
altra sorta di tortura auto-inflitta ! Qui non si tratta di mortificare la carne e i sensi, o di espiare una qualche colpa attraverso la sofferenza cercata o subita, ma piuttosto di rinforzare la volontà attraverso quelli che potremmo chiama re " esercizi di contrasto " , che consistono essenzialmente nel creare un polo di autodeterminazione da opporre all'istinto, all'abitudine, alla meccanicità o ad altre determinanti esterne e interne. Il silenzio imposto all'Apprendista, d'altra parte, pur rispondendo ad altre finalità delle quali avremo modo fra poco di discutere, può senz'altro essere visto come una forma di controllo da esercitarsi nei confronti dell'im pulso ad esprimersi, a prendere una posizione e a manifestare così se stessi, il proprio punto di vista e la propria personalità.
OBBEDIENZA Abbiamo già ampiamente illustrato in precedenza significati e valori del concetto di obbedienza : un concetto che qui, però, vorremmo restituire alla sua accezione più superficiale e comune : quella cioè che fa riferimento all'esecuzione acritica di quanto richiesto da un'autorità riconosciuta e ac cettata come superiore alla propria. All'adepto del primo grado, infatti, è richiesto anche questo genere di obbedienza . Non si tratta certo, con ciò, di attentare alla dignità umana dell' Appren dista, né di negare i valori libertari dell'istituzione massonica: l'obbedienza così intesa, infatti, non è altro che una pratica. Un esercizio, dunque, assimilabile da un lato a una forma di controllo dell'ego, e dall'altro a una vera e propria purificazione, in quanto richiede, attraverso la sottomissione a una volontà esterna, una vera e propria morte simbolica dell'ego e della personalità profana. Anche in questo caso - è evidente - lo scopo non è quello di una inutile
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passiva subordinazione, quanto quello di dar modo all'Apprendista di pren dere coscienza delle pressioni egoiche che condizionano il suo comportamen to e di superarle. Sarà perciò cura delle guide calibrare in tal senso la qualità, la quantità e l'intensità delle richieste, eventualmente - ma non necessariamente - spie gandone il senso e gli scopi.
APERTURA, FIDUCIA " Ricevere " , come abbiamo visto, è il verbo che si addice al primo grado, così come peraltro indica chiaramente la denominazione di " apprendista " che la Massoneria assegna in tale grado all'adepto . Una funzione, quella dell'app rendere che può realizzarsi solo nella misura in cui il flusso della trasmissione da chi offre a chi riceve può scorrere senza incontrare filtri o barriere di sorta. Nell'esperienza comune, d'altra parte, la fiducia e l'apertura della mente e dell'anima che ad essa corrisponde, sono sentimenti che insorgono in mo do spontaneo a seguito di alchimie sottili, spesso ignote e comunque non controllabili. Proprio per questo è totalmente inutile esortare qualcuno ad " avere fiducia " , così come a mantenere " un atteggiamento di apertura " : ottimi consigli ma del tutto sterili dal punto d i vista d i una reale efficacia.
È per questo che
in un'ottica operativa è preferibile concentrarsi, anziché
sulla creazione di uno stato di fiducia, sulla rimozione degli ostacoli che lo impediscono. E poiché tali ostacoli vengono per lo più prodotti o comunque supportati dalla mente - in forma di dubbi, pregiudizi, sospetti, fantasie e interpreta zioni - ecco che la pratica del silenzio, inteso soprattutto come silenzio della mente, può svolgere un ruolo di primo piano nel facilitare l'instaurarsi di una condizione di apertura e fiducia. Anche in questo caso, però, non è sufficiente, da parte delle guide, un intervento di tipo prescrittivo o esortativo. Non serve a nulla, infatti, racco
mandare il silenzio della mente, dal momento che la gran parte dell'attività mentale non è ordinariamente soggetta ad alcuna forma di controllo volon tario, e perciò ben poco si può fare per respingere o rifiutare un dubbio, un sospetto o un pensiero negativo nel momento in cui si presenta . Risultano invece oltremodo utili, in tal senso, alcune pratiche meditative - come quelle derivate dallo zen e dalla vipassana, e genericamente indicate
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come "meditazione vigile " o " meditazione di consapevolezza" - che consen tono di raggiungere uno stato di profonda quiete mentale senza contrastare i pensieri o cercare di eliminarli, ma semplicemente imparando a !asciarli " sullo sfondo " , liberi di presentarsi e di svanire " come nubi che passano nel cielo della mente " .
IL SECONDO GRADO (COMPAGNO D ' ARTE) Senz'altro più difficile da circoscrivere, l'ambito operativo del secondo grado corrisponde, di fatto, al lavoro svolto su se stessi in chiave trasforma tiva, e cioè per mutare la propria natura attuale - percepita e considerata, secondo le varie visioni, come " incompleta " , " imperfetta " o "inferiore " nel suo corrispondente alto: perfetto, superiore, completo. Non si tratta più, dunque, di eliminare ciò che è inutile, superfluo o di ostacolo, come ha fatto l'Apprendista sgrezzando la pietra, ma di squadrarla, e cioè di trasformare un oggetto informe in uno formato, e cioè con-forme a una legge geometrica . Nel grado precedente il lavoro era " al negativo " : l'adepto cioè non aveva un obiettivo definito verso il quale tendere (non esiste una pietra sgrezzata ideale ), ma doveva piuttosto focalizzarsi sulle parti da rimuovere. Qui, al contrario, il lavoro è " al positivo " , in quanto indirizzato verso una meta ben precisa e ben definita. Proprio per questo gli strumenti dei quali l'iniziato potrà avvalersi in que sta fase del suo percorso sono tanti quante sono le potenzialità che possiede, e che dovrà anzitutto scoprire per poi utilizzarle con profitto. Da qui il precetto simbolico di studiare tutte le arti liberali, impartito nel rituale di iniziazione, che non vuole certo essere un invito generico ad accrescere la propria cultura, quanto piuttosto un'esortazione a considerare l'intero patrimonio di conoscenze e di possibilità che è stato reso disponibile nei secoli dalle diverse tradizioni e dalla ricerca e dall'esperienza di chi l'ha preceduto . Un patrimonio vastissimo e oltremodo differenziato, nel quale l'adepto dovrà essere accompagnato da una guida che sappia tener conto da un lato della propria esperienza, e dall'altro delle attitudini e delle propensioni del fratello che dovrà consigliare, indirizzare e, al bisogno, sostenere . Le linee guida per l'operatività nel grado, dunque, non potranno che
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essere generiche e trasversali, così da potersi adattare alle diverse possibilità da esplorare e da adottare.
C ONSAPEVOLEZZA ( SCOPERTA ) DELLE PROPRIE RISORSE Se nel primo grado il focus per l'attenzione e poi per il lavoro era rap presentato da " ciò che non serve " , qui, al contrario, consiste nella scoperta di "ciò che serve" . Propedeutica a ogni forma d i lavoro specifico, dunque, è l a presa di coscienza delle proprie caratteristiche, delle proprie risorse e delle proprie potenzialità, rappresentate nella simbologia del grado dai cinque sensi in quanto strumenti che consentono di cogliere la realtà per rapportarsi ad essa e con essa interagire.
È in questo senso che
abbiamo riportato in appendice alcuni esercizi atti
ad acquisire una maggiore consapevolezza sensoriale, un obiettivo questo che, nel dare applicazione a quanto espresso dal rituale di iniziazione al grado, offre una guida di base, non solo simbolica ma anche pratica, per scoprire le proprie modalità di interazione con la realtà. Oltre a questo lavoro aspecifico, sarà poi certamente utile stimolare l'adepto a manifestare i propri interessi e le proprie propensioni, e a esplora re le varie vie e tradizioni per consentirgli di scegliere gli strumenti a lui più congeniali nel lungo e complesso lavoro che lo aspetta.
SVILUPPO E RAFFORZAMENTO Se un obiettivo del primo grado era quello di purificare la struttura psico fisica, energetica e mentale dell'iniziato, rimuovendo da questa tutto ciò che poteva risultare superfluo o essere di ostacolo al lavoro, nel secondo grado occorrerà invece renderla efficace. Chiavi operative a questo livello, dunque, saranno lo sviluppo e il raffor zamento esercitati sui diversi piani coinvolti: quello fisico, quello energetico e quello mentale. In base alle propensioni e all'esperienza delle guide, potranno essere uti lizzati strumenti e proposte tecniche di vario tipo, il cui fine sarà comunque quello di potenziare le risorse dei fratelli che sono stati loro affidati. Il nostro consiglio, a questo proposito, è quello di procedere in modo
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equilibrato e armonico, non trascurando il livello basico, fisico-energetico, per focalizzarsi unicamente sui " piani alti " della mente o addirittura espa triare nei territori dell'occultismo e della parapsicologia. Se infatti può essere oltremodo utile che l'adepto del secondo grado svi luppi abilità mentali importanti, come la concentrazione e la visualizzazione, non lo è certamente di meno che possa contare su una base fisica ed energe tica solida e funzionale.
APPRENDIMENTO A differenza dell'Apprendista, chiamato a ricevere con fiducia, in modo aperto e acritico - quasi passivo, o per meglio dire " attivamente ricettivo " - il Compagno d'arte deve prendere, possedere, fare proprio ciò che l'istitu zione e le guide gli propongono. Per questo non sarà sufficiente enunciare principi, regole e prescrizioni, ma occorrerà spiegar/e, fornire cioè elementi che possano consentirgli non solo di mettere in pratica quanto ha ricevuto, ma di farlo comprendendone gli scopi e le dinamiche. Non solo strumenti, dunque, ma strumenti supportati dalle relative co noscenze . Per lo stesso motivo, sarà cura delle guide verificare che quanto da loro comunicato sia stato effettivamente e correttamente compreso. Il Compagno, ricordiamolo, ha ricevuto la facoltà di parola, e questo non solo per potersi esprimere - fatto questo in sé importante ma di scarsa rilevanza dal punto di vista formativo e operativo - bensì anche per poter interagire con chi ha maggiore esperienza: per chiedere, in primo luogo, e poi per manifestare la propria comprensione, ed essere in questa confermato o corretto .
LIBERTÀ E RES PONSABILITÀ Pur vincolato al principio di obbedienza, come ogni altro fratello, il Com pagno necessita, rispetto all'Apprendista, di un maggior grado di libertà . Deve spaziare, conoscere, provare, sperimentare. Il secondo è un grado essenzialmente dinamico, essendo, a tutti gli effetti,
il grado del lavoro massonico. E ogni lavoro richiede uno spazio di manovra, 111
all'interno del quale poter esercitare le proprie competenze e rispetto al quale prendersi le proprie responsabilità. Anche il controllo delle guide, perciò, dovrà essere sempre vigile ma allentato in modo proporzionale all'aumento di capacità e di esperienza dell'adepto, così da consentirgli di "procedere con le proprie gambe " e an che, eventualmente, di " sbagliare senza farsi troppo male " , così da rendere comunque costruttive le esperienze che va facendo, sia quelle positive che quelle negative .
IL TERZO GRADO ( MAESTRO ) Obiettivo e contenuto del terzo grado inziatico è l'autorealizzazione. Un termine, questo, al quale sono state assegnate le più diverse interpre tazioni, identificandolo ora con lo sviluppo di attitudini e poteri superiori, ora con uno stato di beatitudine estatica, ora con il conseguimento di una condizione semi-divina. Il senso di questo concetto, in realtà, è già tutto dichiarato nel termine che lo designa e nel simbolo della pietra squadrata e utilizzata nella costruzione del tempio, che la Tradizione massonica gli associa.
Auto-realizzarsi, e cioè " rendersi reali", in contrapposizione a ciò che reale non è, essendo frutto dell'ignoranza e dell'illusione . Scoprire e comprendere cosa si nasconde sotto a quel termine-concetto sentimento che definiamo "io" e che abitualmente associamo a una forma fisica, a una storia o a una serie di tratti e comportamenti con i quali ci identifichiamo per creare l'illusione di un'identità individuale. Fin qui l'operaio ha fatto emergere ciò che era nascosto - ma già presente - nella pietra . La legge, espressa dalla forma che ha svelato eliminando ciò che ne impediva la percezione. Il lato occulto e divino della materia ( occul
tum lapidis) . S i tratta ora, dopo averne scoperto l a qualità celeste a l d i sotto d i quella materiale, di restituire alla pietra la sua natura reale, integra e originaria: insieme divina ma anche umana, celeste ma anche terrestre, così come espres so nell'archetipo della TETRADE, che spiega come la manifestazione sia allo stesso tempo illusione e realtà .
" Prima che iniziassi a calcare la Via, le montagne erano solo monta gne, e i fiumi erano solo fiumi. " afferma un celebre aforisma " Poi, mentre avanzavo lungo il sentiero della ricerca della Verità, le montagne non erano 1 12
più montagne, né i fiumi erano fiumi. Ora che sono giunto al termine della Via, le montagne sono di nuovo solo montagne, e i fiumi di nuovo soltanto fiumi. " La pietra che è stata purificata, morendo a se stessa, e poi sublimata per svelarne il lato occulto e divino, e infine reintegrata nella sua completezza originaria, può ora prendere consapevolmente il suo posto nel tempio della manifestazione.
Samsara e nirvana coincidono nell'unica realtà dell'essere e dell'esistere. " Bisogna diventare veramente uomini, per poter essere degli dei o dei buddha " , ricorda il Maestro Taisen Deshimaru, primo patriarca zen d'oc cidente. Un compito, questo, che coincide di fatto con l'obiettivo ultimo di ogni via di trascendenza . Il terzo grado iniziatico, dunque, non prevede uno specifico lavoro su se stessi, ma indica piuttosto il possesso di una condizione e ciò che ne conse
gue.
È per questo che le linee guida per il grado di Maestro si identificano più
con dei principi che con vere e proprie indicazioni operative. Possiamo così riassumerli:
ESSERE E cioè manifestare, attraverso il proprio semplice esistere, la condizione raggiunta . Un'espressione di consapevolezza, questa, che non riguarda solo se stessi ma l'intero universo, proprio come l'accendersi di una fiamma porta luce in tutto l'ambiente in cui questa è immersa . Tecnicamente, questo stato d i pura esistenza consapevole viene esercitato attraverso la più alta forma di pratica meditativa, definita come "meditazio ne senza oggetto " , che abbiamo provato a descrivere in appendice.
FARE
È il corrispettivo dinamico dell'essere,
sua naturale controparte e necessa-
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rio completamento perché il Maestro possa partecipare pienamente al gioco della manifestazione, ed essere così pienamente e attivamente nel mondo . Proprio come rappresentato nella sequenza degli Arcani Maggiori, l'iso lamento dal mondo dell'Eremita ( nono arcano) è solo un passaggio, dopo il quale potrà riprendere il suo posto sulla ruota della manifestazione ( decimo arcano ) e potrà esprimere, attraverso il proprio agire, la " forza che vince tutte le forze " ( undicesimo arcano) .
È il paradigma dell' azione perfetta, quella che trova
la sua ragion d'essere
nel suo stesso compimento, e non nel raggiungimento di un qualche obietti vo. L'intera manifestazione, infatti, non ha uno scopo che le sia esterno, un obiettivo o un traguardo da raggiungere, ma è pura espressione delle poten zialità contenute nel Tutto, e in se stessa contiene la propria ragion d'essere.
È
ciò che riproduce l'agire " senza scopo né profitto " (mushotoku) del
buddhismo zen, il dominio sulla materia che si ottiene essendo nel mondo ma non del mondo, il segreto della non-azione efficace, il colpo di katana che è comunque impeccabile, sia che venga vibrato contro un avversario in combattimento, una pianta di bambù o nell'aria . La danza senza scopo dell'oltre-uomo. Pura celebrazione. Un'affermazione dinamica - potremmo dire - del concetto per cui "tutto è perfetto fin dall'origine " , che regola l'agire nel mondo degli esseri realiz zati.
INSEGNARE
È
l'azione che realizza il principio dell'amore e della compassione, e si
concretizza nel dono come condizione esistenziale. Non per averne un ritorno, come nello scambio proprio del mondo pro fano e degli stati più lontani dalla realizzazione, e nemmeno per aderire a un volere divino - di nuovo in cambio della promessa di un premio spirituale - o come strumento di lavoro su di sé, ma piuttosto per spontanea sintonia con il senso stesso della manifestazione, con l'espiro del Brahman che procede dall'uno ai molti. Non c'è un "perché " nell'insegnare del Maestro, come non c'è un "per ché " nel colore o nel profumo di un fiore. L'insegnare è parte integrante del suo essere, e dunque non sceglie di farlo, e nemmeno può non farlo.
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Al contrario, tutto ciò che fa è insegnamento, e dunque deve conside r a rs i " in servizio a tempo pieno " . Non p u ò essere, quello del Maestro, un r u o l o nel quale entrare e uscire, o u n a funzione da svolgere a intermittenza, poiché la sua stessa vita è esempio e testimonianza per chi guarda a lui come
a
una
guida.
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A LCUNI CRITERI GENERALI DA ADOTTARE NELL ' INDIVIDUAZIONE E NELLA S CELTA DELLE TECNICHE PER IL LAVORO NEI GRADI
ESPERIENZA DIRETTA
È
senz'altro il primo e più importante dei criteri da adottare nella scelta
o nella creazione di tecniche adatte agli scopi formativi di ciascun grado. Riteniamo infatti che sia fondamentale - per chi dovrà occuparsi di inse gnarle, guidarne ed eventualmente correggerne l'esecuzione, e infine verifi carne gli effetti - non soltanto un'ottima conoscenza teorica, ma soprattutto una grande esperienza pratica. Siamo fermamente convinti, infatti, che nessuno, lungo la Via, possa trasmettere più di quanto abbia personalmente sperimentato e realizzato . Non ciò che ha letto o studiato (e non importa la credibilità delle fonti ) né ciò in cui ha fede (e non importa quanto la sua fede sia intensa) e nemmeno ciò che ha dedotto (e non conta quanto la sua logica sia ferrea e i ragiona menti inoppugnabili ) . L'esperienza, a differenza d i qualunque approccio d i tipo intellettuale, intride di sé tutti i piani dell'essere, e questo dà luogo a una forma di tra smissione del tutto differente da ogni altra forma di insegnamento . Non è solo " affermare " o " sostenere " , ma soprattutto dare testimonianza diretta di quanto si afferma. E questo ha un potere di penetrazione incomparabilmente maggiore rispetto a qualunque argomentazione. Del tutto differente anche il rapporto che si crea fra insegnante e pratican te, nel momento in cui può avvalersi di un'esperienza comune. Questa infatti consentirà al primo di comprendere meglio i dubbi, le difficoltà e le esigenze che si possono presentare lungo il percorso di pratica, mentre il secondo, sapendo di avere come interlocutore e guida qualcuno che ha già affrontato e superato gli ostacoli che lui stesso si trova di fronte, potrà affidarsi a questo con maggiore apertura e maggior fiducia.
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Proprio per questo l'esperienza diretta non può che essere il primo e più importante fra i criteri di scelta lungo una via operativa. Ogni Maestro Venerabile, ogni Sorvegliante, e ogni altro fratello che, a qualunque titolo, venga incaricato dell'istruzione di altri, dunque, non potrà esimersi dall'avere, a sua volta, praticato ciò che propone, e fino al consegui
mento dei risultati che ritiene necessari o auspicabili. In aderenza con questo principio abbiamo perciò scelto di indicare, in ap pendice, solo alcune tecniche, a titolo di esempio, lasciando ciascuno libero di adottarle o integrarle avvalendosi dei contenuti della propria esperienza, oppure di sostituirle con altre che ritenesse più adatte - anche in relazione ai criteri che fra poco discuteremo - eventualmente anche delegandone l'inse gnamento a fratelli più esperti.
NEUTRALITÀ D OTTRINARIA Sarà importante, in ogni caso, che le tecniche scelte siano assolutamente
neutre - dal punto di vista dottrinario - rispetto ai presupposti e ai conte nuti del percorso massonico, allo scopo di evitare inopportune interferenze o sovrapposizioni, che potrebbero confondere o creare inutili questioni di carattere teorico, soprattutto nei primi gradi. Non si vuole mettere in dubbio qui la validità di altre vie o di altre di scipline, né certamente delle metodologie operative delle quali queste si av valgono . Ciò che preme sottolineare, è soltanto il rischio che comporterebbe l'introduzione nei lavori di loggia - o addirittura nel rituale - di elementi che trovano ragione e sostegno in una ben precisa visione metafisica dell'uomo e del mondo, visione che occorrerebbe necessariamente rapportare al percorso massonico e ai presupposti che lo fondano, il che aprirebbe la strada a inter minabili e sterili discussioni teoriche, schieramenti ideologici e confronti che non possono comunque in alcun modo essere risolti . La neutralità dottrinaria, dunque, è il secondo criterio nella scelta delle tecniche.
C ONCRETEZZA E PRATICABI LITÀ Altrettanto fondamentale, anche se su un piano più applicativo, che una tecnica sia concreta e praticabile.
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È
del tutto inutile proporsi e proporre obiettivi grandiosi, se poi questi
non possono essere effettivamente perseguiti e raggiunti. Per gli scopi che qui ci siamo proposti, non servono antichi e complessi rituali magici, i quali, al di là dell'indubbio fascino che possono esercitare quando se ne discute, finiscono inevitabilmente per non trovare spazio nella vita reale degli adepti. Ne è un triste esempio la sorte toccata all'Alchimia, ormai quasi total mente degradata da purissima via operativa a semplice - e ahimé ben poco produttivo - argomento di discussione. Se dunque una tecnica non è concretamente praticabile, in relazione ai tempi, ai luoghi e alle persone cui è rivolta, viene meno la sua stessa ragion d'essere. Una piccola regola, spietatamente efficace, sulla quale può senz'altro far conto ogni istruttore, è quella che impone di non chiedere a un praticante nulla che l'istruttore stesso non sia o sia stato in grado, a sua volta, di fare .
VERIFICABILITÀ E infine l'ultimo criterio pratico: la verificabilità. Ogni praticante deve essere in grado di valutare e verificare l'andamento delle tecniche che sta applicando . Non solo deve poterlo fare il suo istruttore, per meglio paterne seguire lo svolgimento, ma anche lo stesso praticante deve potersi rendere conto in prima persona e in modo certo degli eventuali risultati raggiunti, così come della mancanza di risultati. Pena un percorso scandito e sostenuto unicamente dalla fiducia nella gui da: un elemento questo indubbiamente necessario - specialmente all'inizio di ogni pratica - ma non autosufficiente. La fede, a nostro avviso, è un dono prezioso e una grandissima fortuna per chi ne beneficia . D'altra parte, per la sua stretta connessione con il piano emotivo, rischia di esserne condizionata, sia nel bene che nel male . Accade spesso, infatti, che l'unico - o il principale - metro per la valuta zione dei risultati raggiunti nello svolgimento di una qualche tecnica di tipo metafisica sia il credere che questi siano reali, o la volontà che lo siano, a sua volta derivanti dall'adesione a una fede o un sistema di pensiero, oppure dalla fiducia nella guida che l'ha proposta .
È
inevita bile, in questi casi, che al venir meno della fede o della fiducia,
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anche i progressi virtualmente raggiunti seguano lo stesso destino, lasciando nel praticante l 'idea di aver solo sprecato tempo ed energia senza aver otte nuto nulla in cambio. Al contrario, quando i risultati sono soggettivamente ma chiaramente percepiti, questo non solo rafforzerà la fiducia nella tecnica e nella guida, ma contribuirà alla creazione di un diverso e più solido livello di fiducia, coinvolgendo anche altri piani di coscienza al di là del solo emotivo.
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C O N C LU S IO NE
QUALE MAS SONERIA O PERATIVA ?
Ci rendiamo conto a conclusione del presente lavoro - e non senza un certo disagio - che la Massoneria cui abbiamo fatto ideale riferimento in queste pagine, trattando dei principi e dei metodi per un nuovo e più efficace approccio operativo, è assai diversa da quella rappresentata nella maggior parte delle logge attuali. Riteniamo dunque opportuno, perché quanto fin qui considerato non rimanga lettera morta - sconfitto nel confronto con un contesto sostan zialmente inadeguato ad accoglierlo e a tradurlo in pratica -, descrivere brevemente quali dovrebbero essere, nella visione che ci ha guidati, i tratti caratteristici di una nuova Massoneria operativa. E allora, al primo posto, c'è la necessità che quella di intraprendere la via muratoria si qualifichi a tutti gli effetti come una scelta di vita, e cioè come una scelta che investe e riguarda l'intera vita dell'adepto, con riflessi in ogni aspetto di questa, così come peraltro i rituali di iniziazione indicano chiaramente. Non è certo in linea con il modello delle grandi tradizioni orientali e occi dentali - né a nostro avviso avrebbe il diritto di definirsi iniziatica - un'orga nizzazione che si accontenta dello stesso livello di appartenenza e di impegno di un circolo culturale o di una di quelle associazioni che, nel tempo, la stessa Massoneria ha emanato quali sue rappresentazioni nel mondo profano.
È
una semplice questione di priorità: quanto più il livello di coinvol
gimento è scarso, superficiale e marginale, tanto più gli impegni di tipo massonico verranno subordinati ad altri considerati di fatto, anche se non esplicitamente, più importanti. E ciò significa, sostanzialmente, che le priori tà massoniche verranno subordinate a quelle profane. L'operatività così come se n'è parlato in queste pagine, al contrario, ri chiede tempo ed energia: tempo ed energia che, necessariamente, dovranno essere sottratti ad altri ambiti : familiare, lavorativo, sociale, ricreativo. E questo imporrà delle scelte. E dei criteri per guidarle. Ecco perché sarà necessario, già in sede di tegolatura, presentare l'appar-
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tenenza alla Massoneria come qualcosa di estremamente serio e destinato a occupare un ruolo centrale nella vita del candidato (e va da sé che tale av vertimento dovrà poi trovare conferma nei fatti e, soprattutto, negli esempi ) . S i potrà obiettare che u n eccessivo rigore i n tal senso avrebbe l 'effetto di scoraggiare i meno determinati, e portare così a una selezione troppo rigida, quando invece l'accesso all'istituzione massonica deve essere consentito a chiunque sia " nato libero e di buoni costumi " . Pur ritenendo che a questo riguardo vi sarebbero ben altre considerazioni da fare3, ci limitiamo a ricordare a quanti ritengano di dover applicare criteri di ammissione meno selettivi che il grado di Apprendista potrebbe in ogni caso essere equiparato al "cerchio esterno " di molte istituzioni iniziatiche, e come tale tollerare un grado di appartenenza e un livello di impegno minori rispetto a quelli richiesti ai gradi successivi. Gradi che, peraltro, non dovranno necessariamente essere raggiunti da
ogni Apprendista, rappresentando niente più che una possibilità destinata a chi effettivamente si trovi nelle condizioni e abbia i requisiti per paterne trarre profitto. E questo ci introduce al secondo punto e alla seconda necessità: quella di
restituire una dignità ai gradi simbolici, ciò che si può ottenere iniziando a considerarli in termini di qualità, e non di valore. Il grado di Apprendista, in altre parole, non deve essere considerato come "inferiore " a quello di Compagno, né questo a quello di Maestro .
È solo qualitativamente diverso. Adatto ad alcune tipologie di esseri uma
ni e non ad altre, così come i gradi successivi. Il passaggio di grado, in senso iniziatico, non è una "promozione " otte nuta per meriti, e nemmeno un traguardo da raggiungere a tutti i costi. Pro prio come non lo è l'adolescenza rispetto all'infanzia, o l'età adulta rispetto ali' adolescenza . Non c'è alcun merito nel diventare adolescenti, e nemmeno si può consi derare questa come un'età in qualche modo migliore rispetto ad altre . Solo diversa. Inevitabile. Conseguenza naturale e necessaria del variare di alcune con3
Rimandiamo senz'altro, in proposito, alla lucida e intensa analisi svolta dal Gran Maestro
della Gran Loggia Regolare d'Italia Fabio Venzi nella sua allocuzione "I cinque segni della decomposizione dell'angelo " ( disponibile all'indirizzo: http://www . glri.it/pdf/allocuzioni/cin quesegni. pdf)
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dizioni e del verificarsi di alcuni cambiamenti . Cambiamenti che, si badi bene, sono contenuti nel tempo, e non prodotti da questo. Non è il tempo che passa a trasformare un bimbo in un adolescente, ma le modificazioni che il suo corpo subisce. Analogamente, non è il tempo trascorso nel grado di Apprendista o di Compagno, a sancire l'idoneità al grado superiore - come invece purtroppo sembra essere la regola - ma i reali cambiamenti sopravvenuti. Senza gli eventi della pubertà un infante non diventerà mai adolescente, nemmeno in cento anni . E allo stesso modo un Apprendista può rimanere tale per tutta la vita. Senza rammarico e senza vergogna. Quello che conta non è un'insegna da esi bire invece di un'altra, ma essere al proprio posto sulla scena del teatro della manifestazione, laddove essere un perfetto Apprendista è senz'altro più prezioso e meritevole che essere un Maestro solo di nome e per anzianità . Al contrario, la logica di un carrierismo tutto profano che ha ormai contagiato in profondità l'istituzione massonica, porta a vedere il percorso iniziatico come una sorta di competizione in cui ciò che soprattutto conta è raggiungere un traguardo dal quale verranno onori, prestigio e potere, nella totale ignoranza che lo scopo reale di ciascun grado non è quello di raggiun gere il grado successivo, bensì quello di realizzare alcuni specifici contenuti. Ed eccoci così giunti, come conseguenza delle considerazioni precedenti, alla terza e forse più importante condizione necessaria per la nascita di una nuova Massoneria operativa : una condizione che si identifica con l'esigenza che il conseguimento del terzo grado corrisponda al possesso di una reale
maestria. Quasi in ogni capitolo abbiamo avuto modo di far riferimento ai compiti delle guide nell'istruzione degli apprendisti e dei compagni, dando per scon tato che queste siano in grado di svolgere il ruolo che compete loro . Ciò che invece, purtroppo, non corrisponde alla realtà. La conseguenza forse più drammatica della perdita di dignità dei gradi concessi per normale iter burocratico a seguito del raggiungimento di un nu mero minimo di tornate, o, nel migliore dei casi, come premio per l'impegno dimostrato o per le conoscenze teoriche acquisite - è senz'altro quella che ha portato a riempire le camere di mezzo di " anziani apprendisti " e " anziani compagni" che ostentano le insegne della maestria senza averne, in realtà, alcun titolo né alcuna competenza. E come potrebbero, dal momento che nei gradi precedenti non hanno
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fatto nulla per produrre reali cambiamenti nella loro struttura umana e inte riore, al di là di quel poco-e-niente che è la partecipazione a qualche tornata e la stesura di qualche "compito a casa " di natura prettamente teorica ? Come potrebbero, dal momento che i " maestri " che li hanno guidati prima, e poi giudicati pronti per essere introdotti al terzo grado iniziatico, si trovavano nelle loro stesse identiche condizioni ? Né riteniamo sia sostenibile l'escamotage - spesso addotto a giustifica zione della mancanza di maestria degli appartenenti al terzo grado - per cui essere iniziati al grado di Maestro non significa essere maestri, ma solo " aver
iniziato un percorso che porterà ( non si sa quando) a diventarlo " . Questa ci sembra, piuttosto, una vera e propria dichiarazione di fallimento, oltre che l'inaccettabile svuotamento di significato di un grado iniziatico la cui stessa essenza è costituita dal principio della trasmissione. E, come già abbiamo avuto modo di ricordare in precedenza, nessuno può dare più di ciò che possiede . Insignire del grado - e del ruolo - di Maestro chi ancora non lo è, ma sta lavorando per diventarlo, è dunque, in una prospettiva di operatività e di efficacia, incongruo tanto quanto affidare la salute dei pazienti di un ospe dale a studenti iscritti alla facoltà di medicina, in virtù del fatto che " forse " o "probabilmente " (ma non si sa quando) diventeranno medici. Quasi scontato, a questo punto, obiettare che, nel rispetto dei contenuti del terzo grado, ben pochi sarebbero allo stato attuale i massoni che potreb bero accedervi a pieno diritto. Ora, a prescindere dal fatto che questo, a nostro avviso, non rappresenta affatto un problema - convinti come siamo che l'ambito del lavoro masso nico propriamente detto sia quello corrispondente al secondo grado, e che la nomina di un Maestro debba essere considerata come un evento eccezio nale - non ci pare, in ogni caso, che la soluzione al problema sia quella di abbassare il profilo del grado, così da consentire l'accesso anche a chi non ne abbia titolo con il solo scopo di " laureare " un maggior numero di maestri ! Né ci pare abbia senso - e neppure effettivi riscontri di efficacia - prolun gare il " corso di studi " demandando ai vari Riti l'ulteriore perfezionamento del Maestro. E questo per due motivi. Il primo è che, essendo applicati di fatto anche per i gradi del Rito gli stessi criteri di progressione che sono stati utilizzati
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per i gradi simbolici\ non c'è alcuna garanzia che questi porteranno a un effettivo e reale cambiamento dell'adepto, contribuendo solo, semmai, ad aumentare in lui l'illusione di una crescita interiore . Il secondo è che l'istruzione e la guida degli appartenenti ai primi due gradi è subordinata, in ogni caso, al possesso del grado di Maestro, e non al completamento di un Rito . Quale dunque la soluzione al problema ? Quale la via per restituire, nel tempo, dignità, significato e valore anche al più importante dei tre gradi azzurri ? Per parte nostra - e crediamo di averlo dimostrato con questo lavoro che ormai sta per concludersi - non vi è altra soluzione che la pratica, resa possibile e sostenuta, nel caso degli attuali maestri, da una grande umiltà, necessaria per accettare il fatto che ancora non sono pronti per il ruolo che ricoprono e che devono, in primo luogo, lavorare su se stessi per acquisire la possibilità di svolgerlo con efficacia. Questo non significa, dal punto di vista pratico, che apprendisti e com pagni dovranno essere lasciati a se stessi fino al conseguimento di una reale maestria da parte degli attuali appartenenti al terzo grado. Come in ogni cambiamento, anche quello verso la creazione del modello di Massoneria che a bbiamo provato a delineare in queste pagine richiederà una lunga e non facile fase di transizione, durante la quale i maestri più pre parati potranno iniziare a trasmettere quei contenuti che provengano dalla loro reale esperienza - e non da un mero apprendimento teorico - così da creare i presupposti per un cambiamento effettivo e una reale crescita dei loro fratelli di primo e secondo grado. Nello stesso tempo, avranno cura di elevare al grado di Maestro solo ed esclusivamente quei compagni che avranno dimostrato - non importa in quanto tempo - di aver messo a profitto l'insegnamento ricevuto e di averne tratto vantaggi concreti, così da poterlo trasmettere, a loro volta, con piena cognizione di causa. Si realizzerà, in questo modo, una progressiva eliminazione dei veleni che hanno portato la Massoneria a perdere, nei secoli, il significato originario di 4
Si pensi soltanto, a questo proposito, ai gradi del Rito Scozzese, ciascuno dei quali - com
presi quelli opportunamente " oscurati " per non rendere troppo lungo e complesso l'iter verso il 33° e ultimo - richiederebbe almeno una vita di studio e di pratica per realizzarne in modo sufficiente i contenuti.
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via di trascendenza e di perfezionamento, per trasformarsi in un movimento di tipo etico, culturale, sociale. Quasi una fase di purificazione, dunque, che l'attuale istituzione masso nica dovrà attraversare con lo spirito dell'Apprendista libero muratore, per poi realizzare al proprio interno una profonda ristrutturazione che la renderà simile al Compagno d'arte che lavora alla trasmutazione e alla sublimazione della propria natura intima, per recuperare infine pienamente il ruolo che le compete nel vasto, luminoso Tempio della Tradizione Iniziatica occidentale.
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APPEND I C E
TECNICHE PER LO SVILUPPO DELLA C ONSAPEVO LEZZA
LA BASE DELLA CONSAPEVO LEZZA: IL CORPO E IL RESPIRO Consideriamo questa come una pratica assolutamente indispensabile, non solo per i motivi che già abbiamo esaminato nel dettaglio trattando della pratica rituale, ma anche per la portata dei suoi effetti sull'intera struttura dell'essere umano, dal piano fisico a quello energetico, da quello emotivo a quello mentale, da quello esistenziale a quello spirituale. Oltre che individualmente, in ogni momento della giornata, la pratica della consapevolezza si presta senz'altro per una preparazione complessiva alla tornata rituale. Per questo è oltremodo consigliabile dedicare ad essa almeno una decina di minuti prima dell'entrata nel tempio. Questa la tecnica . Sedete su u n a sedia con la schiena dritta, l'addome rilassato, l e spalle aperte e rilassate, le mani appoggiate alle cosce, il mento appena rientrato e la nuca distesa, la fronte e il viso rilassati, gli occhi chiusi o semichiusi in modo da non essere distratti dall'esterno. Inspirate ed espirate profondamente per tre volte, lasciando uscire libera mente l'aria e immaginando di esalare, insieme con questa, tensioni, pensieri e tutto ciò che potrebbe disturbare la pratica. Questi tre respiri segneranno l'inizio formale dell'esercizio: dopo di essi cercherete di restare immobili fino alla sua conclusione, evitando aggiustamenti e cambi di posizione che non siano realmente necessari . Cercate una percezione chiara del corpo e della sua posizione, se occorre, anche passandolo in rassegna con l'attenzione dai piedi al capo . Stabilizzate questa percezione del corpo, tenendola per qualche minuto al centro dell'attenzione. Allo stesso modo, recuperate una piena coscienza del respiro naturale, come un processo continuo e ritmico. Dopo qualche istante di osservazione del respiro, provate a redervi con-
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temporaneamente coscienti del corpo e del respiro: questo sarà il principale supporto per la consapevolezza. L'ancora a cui far ricorso ogni volta in cui vi accorgerete di esservi distratti, e che userete per riportare la mente lì dove realmente siete e nel presente in cui realmente state vivendo . Proseguite così, con l'attenzione " adagiata " sul corpo i n posizione e sul flusso del respiro fino al termine del periodo che avete previsto di dedicare alla pratica. Poi, per concludere, prendete un profondo respiro, quindi lentamente sciogliete la posizione ed eseguite qualche movimento con le braccia, le gam be, il busto e il capo. La qualità di "presenza di sé " e di autoconsapevolezza che in questo mo do è stata prodotta, andrà mantenuta - nella misura del possibile - per tutta la durata dei lavori, e, in ogni caso, dovrebbe essere richiamata di tanto in tanto, e soprattutto prima dello svolgimento di una qualsiasi azione rituale.
LA CONSAPEVOLEZZA DEL LUOGO E DELLE PERSONE Anche di questo aspetto ci siamo già interessati nel discutere di quello che abbiamo definito come "atteggiamento rituale " e della sua importanza per ogni officiante. La tecnica che qui descriviamo è finalizzata proprio all'acquisizione di tale forma di consapevolezza, e può essere considerata come un'integrazione - o un'evoluzione - dell'esercizio precedente. Proprio in relazione al suo obiettivo, la naturale sede di svolgimento per questa pratica non potrà che essere il tempio, dopo che tutti i fratelli avranno preso posto e prima dell'inizio dei lavori. Altrettanto utile ne riteniamo l'esecuzione dopo aver formato la catena d'unione, e prima dell'esecuzione di eventuali altre ritualità ad essa collegate. Dopo aver creato, così come spiegato nell'esercizio precedente, una " ba se" per la consapevolezza di sé attraverso la percezione e l'osservazione del proprio corpo e del proprio respiro, si potrà allargare la sfera della perce zione fino a prendere coscienza dell'ambiente nei suoi aspetti fisici - la luce, la temperatura, i profumi, gli oggetti e gli arredi - ma anche della qualità simbolica e sacra del luogo. Per far questo, però, non si dovrà ricorrere a un approccio di tipo men-
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tale, evocando nozioni precedentemente acquisite in merito alla natura del tempio e dei suoi simboli, ma piuttosto mettersi nello stesso stato di quando si cerca di percepire un suono leggero, quasi al limite dell'udibile. Non si tratta infatti di " farsi venire in mente qualcos a " , ma di scoprire qualcosa che effettivamente c'è, anche se non facile né immediato da perce pire. Allo stesso modo si farà in modo di includere nella sfera della propria coscienza anche i fratelli presenti, eventualmente prima scoprendone la pre senza individuale, e poi accorpandoli tutti in un'unica percezione che include anche se stessi. Anche questa consapevolezza del luogo e delle persone - che possiamo definire come fisica, metafisica e relazionale - andrà mantenuta per qualche minuto in modo esclusivo, allo scopo di consolidarla, e poi, se possibile, conservata come un " sottofondo " per tutta la durata dei lavori. Un consiglio, prima di passare ad altro : poiché si tratta di una pratica che, se ben condotta, può avere effetti molto intensi, conviene sia guidata, almeno per le prime esecuzioni, da un fratello che ne abbia sufficiente esperienza .
LA CONSAPEVOLEZZA DELLE EMOZIONI Se è vero che il piano emotivo è, all'attuale livello di evoluzione del ge nere umano, quello più fortemente connesso con la gestione dell'energia, è altrettanto vero che, ordinariamente, un suo controllo volontario è pressoché impossibile. E questo perché, di regola, ci accorgiamo delle emozioni mentre le stiamo vivendo con una certa intensità, e dunque quando già ne siamo stati coinvol ti, ciò che rende di fatto difficile, se non impossibile, governarle. Mentre stiamo vivendo un'emozione, infatti, noi siamo quell'emozione, e dunque chi potrebbe controllarla ? Chi potrebbe valutarne la qualità - se positiva o negativa - ed eventualmente decidere di continuare a viverla, op pure, al contrario, di contrastarla o di eliminarla ? Anche nel parlarne, il più delle volte non diciamo " in me è in atto uno stato di gioia, o di rabbia, o di tristezza " , bensì " io sono felice, arrabbiato, triste " , esprimendo con ciò il fatto che consideriamo le emozioni come degli
stati dell'io, e non come accadimenti che lo interessano. E se io sono triste, quale altro "io" può agire per modificare tale condizione ? 133
Se io sono immerso in un'emozione, chi può allungarmi una mano e aiutarmi a uscirne ? Capita spesso di invocare "la ragione " , ma la ragione non è un'entità autonoma, in grado di agire automaticamente come un meccanismo antin cendio pre-programmato. La ragione è una possibilità, una funzione che
qualcuno deve attivare e utilizzare. E se al momento non c'è nessuno che possa farlo, dato che l'operatore è impegnato altrove, a sguazzare - o ad affogare - in una qualche emozione, le pur notevolissime potenzialità del la ragione sono inevitabilmente destinate a restare tali. E a restarlo fino a quando l 'emozione sarà scemata, e l'io potrà rendersi conto di ciò che è già accaduto, e di come avrebbe potuto o dovuto comportarsi. Senza scomodare le neuroscienze - che pure hanno spiegato dettaglia tamente come e perché ciò accada a livello anatomo-fisiologico - è più che sufficiente l'esperienza quotidiana a darcene sufficiente conferma . L a prossima volta che sarete davvero arrabbiati, o davvero felici, infatti, provate a decidere di non esserlo, o di esserlo un po' meno. Non di fingere - badate bene - adottando un comportamento "come se " ; non di modificare gli effetti dell'emozione, ma l'emozione stessa. Occorre dunque che le emozioni, se vogliamo farne oggetto di un qualsiasi intervento, vengano " scorporate" da noi, che vengano "estratte" dall'Io e resti tuite alla loro reale natura: sono eventi che ci riguardano, ma che non sono noi. Il modo per realizzare questa indispensabile dis-identificazione fra sog getto e oggetto consiste, metaforicamente, nel fare un passo di lato al fine di poterle osservare . Prendere le distanze dall'emozione per guardarla, un po' come quando ci si allontana da qualcosa per metterlo a fuoco.
Auto-distanziarsi quanto basta per vedere dal di fuori com'è fatta un'emozione, e nel frattempo realizzare che " io sono io e lei è lei " . Che io sono quello che guarda e lei è ciò che viene guardato . Due le conseguenze di questa osservazione a distanza. La prima è quella di trasformare le emozioni in oggetti, togliendo a queste l'identificazione con l'lo agente . La seconda è la creazione di un testimone-osservatore-regista, capace di inserirsi nella dinamica che coinvolge razionalità ed emozione. Quanto alle modalità pratiche per l 'esecuzione, poiché le emozioni non rappresentano una presenza costante, più che di un esercizio a sé stante si
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tratterà di una modalità di rapportarsi alle emozioni stesse nel momento in cui queste insorgono, sia nelle circostanze della vita quotidiana che durante le sessioni di pratica per lo sviluppo della consapevolezza. Va da sé che queste ultime, proprio per la natura del contesto di pratica e per la qualità di attenzione che questa richiede, rappresentano un contesto decisamente elettivo per l'osservazione. Si tratterà dunque, nel momento stesso in cui ci si accorge dei primi se gnali di una qualsiasi emozione, di provare a fare il " passo di lato " di cui si diceva poc'anzi, e di osservare la forma delle emozioni, prima di giudicarne la qualità e il contenuto.
Com 'è fatta, quell'emozione, prima che decidiamo di quale emozione si tratta ?
Dove e come si manifesta ? Dove compaiono i segnali che ci permette ranno poi di decidere che si tratta, ad esempio, di noia o di speranza, e non piuttosto di tristezza, gratitudine o rancore ? E di quali segnali si tratta ?
Cosa, di fatto, le qualifica e le differenzia ? Cosa ci consente di stabilire che alcune sono positive e altre negative ? Non si tratta però - è essenziale ricordarlo - di cercare ragioni scientifiche o di fornire risposte logiche a tali domande. Quello che conta è arrivare a sco prire direttamente e in modo esperienziale com 'è fatta un'emozione: che poi si riesca a spiegarsi o meno gli esiti di questa scoperta, è del tutto irrilevante. Quest'osservazione, se praticata con impegno e costanza, può portare a sperimentare qualcosa di nuovo e di determinante. Le emozioni ci sono, ci sono ancora. Ci sono e noi le stiamo provando, anche se, in qualche modo, la cosa non ci riguarda o ci riguarda di meno. Vediamo tutte le emozioni che insorgono, ma non siamo obbligati a vi vede. O meglio: possiamo viverle, se vogliamo, ma evitare che siano loro a .
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vivere no1. Possiamo decidere di !asciarle crescere e di coltivarle, se positive, costrut tive e nutrienti, oppure, in caso contrario, di " staccare la spina " , di portarci
altrove e !asciarle esaurire.
L'OS SERVAZI ONE DEI PENSIERI Una tecnica di consapevolezza, questa, che per analogia con la precedente potremmo definire come "prendere le distanze dai propri pensieri " , e che
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consiste nel rendere l'attività mentale oggetto di un'osservazione attenta ma distaccata . Anziché " entrare " nei pensieri - come di solito si fa, per elaborarli, giu dicarli, discuterli - ci preoccuperemo piuttosto di accorgerci di essi, proprio come abbiamo fatto con il corpo e con il respiro nell'esercizio della consa pevolezza di base. Diventeremo cioè spettatori di ciò che accade nella nostra mente . Una finestra sulla strada. Ci affacciamo e guardiamo cosa succede di sot to: la gente che passa, le auto, le biciclette. Se qualcuno si ferma a parlare lo ascoltiamo, ma senza farci "tirare dentro " alla discussione. Sullo schermo della mente passeranno pensieri, ricordi, fantasie, fram menti più o meno strutturati e coerenti . Ne prenderemo atto: senza cercare di dar loro un senso, senza fare collegamenti, senza cercare di capire. Con curiosità, come osserveremmo i pensieri di un'altra persona. Senza applicare alcuna forma di " gestione " e senza trattenerli. Potrà accadere che, proprio a seguito di questo modo di rapportarsi all'attività mentale, i pensieri si diradino fino a scomparire . In questo caso semplicemente prenderemo atto dell'assenza di contenuti mentali, e conti nueremo a osservare il cielo della mente, adesso vuoto anziché attraversato da stormi di pensieri. Nel caso poi che ci si accorga - com'è praticamente inevitabile - di essere stati " rapiti " da un pensiero, e di non essere più spettatori ma attori del film che si sta svolgendo sullo schermo della mente, non occorrerà far altro che prendere atto anche di questa circostanza, cercando di cogliere la qualità propria di questo " accorgersi " , che è, a tutti gli effetti, un istante di intensa consapevolezza. A causa della sua intrinseca difficoltà, dovuta soprattutto allo scarso controllo esercitato sulla mente, questo esercizio non potrà essere svolto per un lungo periodo di tempo, almeno all'inizio. Per questo è consigliabile non farne un esercizio a sé stante, ma integrarlo nell'esercizio di base, alternando l'osservazione dei pensieri a quella del corpo e del respiro.
ESERCIZI DI CONSAPEVOLEZZA SENSORIALE L'utilità di questo tipo di esercizi, oltre a quella di contribuire allo svi luppo complessivo della consapevolezza, consiste nella possibilità di non dover dividere la propria attenzione fra sé e un oggetto o un evento esterno,
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quali possono essere, ad esempio, un interlocutore o un compito che si sta svolgendo . In questi casi ordinariamente si impone una scelta nella direzione dell'at tenzione, che potrà essere estrovertita (attenuando così la coscienza di sé e del proprio agire ) , oppure introvertita, diminuendo il livello di vigilanza sull'ambiente e sugli altri. La terza possibilità - quella che viene più comunemente adottata - è quella di un continuo spostamento dell'attenzione, come quando si devono tenere d'occhio due oggetti che non entrano insieme nel campo visivo. Lo sviluppo di una consapevolezza globale, al contrario, consente un vero e proprio ampliamento del campo percettivo, che potrà così includere in un solo moto dell'attenzione e della coscienza sia gli oggetti esterni - ambiente e persone - che i dettagli relativi allo svolgimento dell'azione in corso. Proprio per questo, oltre a un ruolo specifico nella prassi operativa del secondo grado, gli esercizi di consapevolezza sensoriale consentono di svi luppare un approccio al rito più completo ed efficace, portando ad essere contemporaneamente e pienamente presenti a se stessi e all'azione rituale in corso.
Esercizio percettivo tipo (per il senso della vista) Ponete davanti a voi, alla distanza di un paio di metri, una candela accesa. Prendete anzitutto coscienza del vostro corpo e del respiro, così come ab biamo già descritto, in modo da creare una base stabile per l'auto-percezione e l'auto-coscienza. Quindi spostate l'attenzione all'esterno di voi, portatela sulla candela e osservatene minuziosamente ogni dettaglio: il colore, la forma, le dimensio ni, i riflessi, le sfumature e i movimenti della fiamma. Proseguite l'osservazione per qualche minuto, lasciando che la vostra attenzione sia completamente assorbita dall'oggetto che state osservando. Poi prendete coscienza dei vostri occhi. Sentiteli, immaginateli, ascolta teli. Percepiteli nel modo più chiaro che vi è possibile ancora per qualche minuto. E ora provate a includere nello stesso atto della percezione sia la candela che i vostri occhi mentre la stanno osservando. Siate coscienti nello stesso tempo di ciò che state osservando e dello strumento che utilizzate per farlo. Infine tornate alla base corpo-respiro, e diventate coscienti di voi stessi, nella vostra interezza, dei vostri occhi e della candela che state guardando . Osservatore, strumento di osservazione e oggetto osservato, tutto in
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una volta. Come una cosa sola. In un unico moto della percezione e della coscienza.
Esercizi per gli altri canali sensoriali Lo stesso procedimento che abbiamo descritto per il senso della vista può essere adattato agli altri sensi, utilizzando idonei stimoli sensoriali. Per l'udito si potrà utilizzare un campanello, oppure un piccolo gong, spostando l'attenzione dai dettagli del suono alle orecchie che lo ricevono, e infine integrando entrambi in una sola percezione con il corpo e il respiro. Per il tatto si potrà tenere in mano una pallina da tennis, dapprima esplo randone la forma, la superficie e la consistenza, e poi prendendo coscienza dell'epidermide e della mano che rilevano tali dati, per finire con la consueta percezione complessiva. E ancora si potrà usare un bastoncino di incenso profumato per l'olfatto - passando dal profumo alle narici che lo ricevono - e un qualsiasi cibo per il gusto, cogliendone prima il sapore e poi spostando l'attenzione alla lingua, al palato, alla gola.
LA CONSAPEVOLEZZA SENZA OGGETIO
(PRATICA DELLA PURA PRESENZA) Una pratica, questa, che riassume in sé il senso stesso del terzo grado ini ziatico, esprimendo il principio della realizzazione in quanto testimonianza
consapevole dell'esistere nella sua forma più pura ed essenziale. Un modo di esistere in cui l'essere non ha bisogno di appoggiarsi ad alcun predicato per rendersi reale, ma si compendia in un semplice e auto sufficiente " io sono " che pure non rifiuta alcuna delle infinite modalità di manifestazione attraverso le quali l'uno si riflette nei molti . Non è essere qualcosa invece che qualcos'altro, o essere in un modo in vece che in un altro.
È
essere e basta .
Essere, in qualsiasi modo si sia. Come lo stato di realizzazione che esprime, d'altra parte, anche questa pratica rappresenta un punto d'arrivo nel percorso sulla via della consape volezza, né ci si può aspettare di poterla attuare soltanto perché sembra di averne compreso il senso.
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Ciascuna delle pratiche precedenti, infatti, può essere considerata come un allenamento, o piuttosto come la parte di un unico esercizio completo il cui obiettivo è quello di sperimentare, porre in essere e mantenere questa condizione di pura presenza. Ecco dunque l'esercizio completo . Sistemate il corpo nella posizione seduta che abitualmente adottate per gli altri esercizi: a terra a gambe incrociate oppure sulla sedia, curando in modo particolare i dettagli (schiena dritta, addome rilassato, spalle aperte e rilassate, mento appena rientrato e nuca distesa, arcate dentali dischiuse, fronte e viso distesi ) . Inspirate ed espirate profondamente per tre volte, lasciando uscire libera mente l'aria e immaginando di esalare, insieme con questa, tensioni, pensieri e tutto ciò che potrebbe disturbare la pratica. Questi tre respiri segneranno l'inizio formale dell'esercizio: dopo di essi cercherete di restare immobili fino alla sua conclusione, evitando aggiustamenti e cambi di posizione che non siano realmente necessari. Cercate una percezione chiara del corpo e della sua posizione e stabiliz zatela, tenendola per qualche minuto al centro dell'attenzione. Allo stesso modo, recuperare una piena coscienza del respiro naturale, prima esplorandolo nei dettagli e poi nella sua complessità, come un proces so continuo e ritmico. Create la " base " , rendendovi contemporaneamente coscienti del corpo e del respiro : questa sarà l'ancora a cui far ricorso ogni volta in cui vi accorge rete di esservi distratti, e che userete per riportare la mente lì dove realmente siete e nel presente in cui realmente state vivendo. Proseguite così, con l'attenzione " a dagiata " sul corpo in posizione e sul flusso del respiro . Poi, dopo qualche tempo, lasciate andare anche corpo e respiro . Non forzate più l'attenzione, non indirizzatela su un oggetto in particolare, ma !asciatela fluida, e rimanete solo presenti.
Semplicemente ma intensamente presenti. Aperti a cogliere tutto ciò che entra nel vostro campo percettivo, ma liberi da ogni intenzione o finalità. Non c'è niente che dovete fare o non fare. Siete testimoni di ciò che acca de, ma solo se e quando accade. Non c'è un " luogo " o una condizione che dovete raggiungere. Solo accor gervi pienamente di dove siete .
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Potete !asciarvi esistere e rendervi conto che esistete. Non perché lo dedu cete con un ragionamento, ma perché lo sentite. Sentite di esistere: in diretta, istante dopo istante. Ogni volta in cui compare un pensiero, osservatelo come osservereste i pensieri di un'altra persona : senza entrare nel merito, senza giudicarlo, senza discuterne i contenuti. Poi, dopo averne preso atto, !asciatelo andare senza seguirlo. Allo stesso modo, se insorgono delle emozioni di qualsiasi tipo - positive, negative, neutre - prendetene nota : rilevatene la qualità, l'intensità, gli effetti sul corpo, sulla posizione, sul respiro, come osservereste le emozioni espresse da un attore nella scena di un film, poi lasciate andare anche queste: lasciate che si esauriscano. Nel corso dell'esercizio vi accorgerete di sensazioni diverse, prodotte da stimoli esterni o interni: accogliete anche queste in modo auto-distanziato e non-giudicante . Osservate come sono fatte. Cercate di conoscerle nella loro forma e nella sostanza, prima che nel loro significato. " Come sono fatte " , prima che " cosa vogliono dire " . I n caso d i eventi esterni imprevisti, come u n rumore o il movimento di altri partecipanti a una sessione di pratica collettiva, applicate gli stessi criteri che avete sperimentato negli esercizi sensoriali, evitando di riflettere sull'origine dello stimolo, e focalizzandovi piuttosto sulla sua percezione. Se è un rumore, focalizzatevi sul rumore in sé e sul sentir/o, anziché su ciò che l'ha provocato . Ogni volta in cui vi accorgerete di aver perso la presenza, e di esservi lasciati rapire da un pensiero, un'emozione o una sensazione, ricordatevi del vostro corpo e del vostro respiro, e usateli per ritornare a voi stessi. Poi, dopo aver ristabilito lo stato di consapevolezza, di nuovo abbando nate anche questi, e tornate al semplice esistere. Proseguite così fino al termine del periodo che avete previsto di dedicare alla pratica. Infine, per concludere, prendete un profondo respiro, quindi lentamente sciogliete la posizione.
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IND I CE DEI CAPITO LI
PREFAZIONE
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PARTE I - L'OPERATIVITÀ IN MASSONERIA Perché una Massoneria operativa ?
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L'essenza del rito
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Le funzioni del rito
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La pratica rituale
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Consapevolezza e rito
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Alcune note tecniche per l'operatività rituale
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PARTE II - IL RITO
PARTE III - LA REGOLA Ordine, regola, obbedienza
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La regola come strumento operativo
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PARTE IV - L'OPERATIVITÀ NEI GRADI SIMBOLICI Il lavoro nei gradi: perché e quale I tre gradi della Massoneria Azzurra (Archetipi del percorso iniziatico)
Linee guida per un approccio operativo ai tre gradi simbolici >> Alcuni criteri generali da adottare nell'individuazione e nella scelta delle tecniche per il lavoro nei gradi
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CONCLUSIONE Quale Massoneria operativa ?
APPENDICE Tecniche per lo sviluppo della consapevolezza
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