Parerga e paralipomena [Vol. 1] 8845914224, 9788845914225

Il libro parallelo al "Mondo come volontà e rappresentazione", dove Schopenhauer parla delle questioni più alt

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Parerga e paralipomena [Vol. 1]
 8845914224, 9788845914225

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GLI

ADELPHI

Arthur Schopenhauer

Parerga e paralipomena *

A CURA DI GIORGIO COLLI

«Nelle intenzioni dell’autore, i Parerga dovevano servire di rifinitura al sistema del Mondo come vo­ lontà e rappresentazione, ne chiarivano gli svilup­ pi con un’esperienza arricchita, e commentava­ no in estensione, con una trattazione disunita, l’invadenza razionale esauriente di quella visio­ ne del mondo. L’opera invece fu afferrata per se stessa, fu una scoperta, perché in essa per la pri­ ma volta un grande pensatore riusciva a comu­ nicarsi, e soltanto in seguito divenne un’intro­ duzione alla più ardua costruzione, compressa, del Mondo. Anche ora, dopo un secolo, ritrovia­ mo nei Parerga qualcosa di essenziale, che il Mon­ do non dà, e accostiamo le due opere come com­ plementari, in ogni caso come le più importanti del filosofo». GIORGIO COLLI

In copertina: Wilhelm von Schadow, Ritratto di Felix Schadow (1830 ca). Collezione pri­ vata, Monaco.

€ 32,00 DUE VOLUMI INDIVISIBILI

ISBN 978-88-459-1422-5

9 788845 914225

GLI ADELPHI

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Apparsi nel 1851, i Parerga e paralipomena e quivalgono per ampiezza al Mondo come volon­ tà e rappresentazione e, assieme a questo, costi­ tuiscono i quattro quinti dell’intera opera di , Schopenhauer. L’autore vi lavorò sei anni, dal 1845 al 1850, e anche dopo la pubblicazione non cessò di apportarvi correzioni e aggiunte. Di Arthur Schopenhauer (1788-1860) sono apparsi presso Adelphi L’arte di ottenere ragione (1981), La filosofia delle università (1992), Sul mestiere dello scrittore e sullo stile (1993), Scritti postumi I (1996) e III (2004), L’arte di essere felici (1997), L’arte di farsi rispettare (1998), L’arte di insultare (1999), L’arte di trattare le donne (2000), Il primato della volontà (2002), L’arte di conoscere se stessi (2003), L’arte di in­ vecchiare (2006) e II mio Oriente (2007).

Arthur Schopenhauer

Parerga e paralipomena TOMO PRIMO

A cura di Giorgio Colli

ADELPHI EDIZIONI

titolo originale:

Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften

© 1981

ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO

I edizione gli adelphi: novembre 1998 III edizione gli adelphi: novembre 2007 www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-1422-5

PREFAZIONE di Giorgio Colli

Presentati con modestia da un filosofo che mode­ sto non era, questi « scritti filosofici minori » con­ quistarono un pubblico e fecero di Schopenhauer un avvenimento culturale non passeggero. Nelle in­ tenzioni dell’autore, i Parerga dovevano servire di rifinitura al sistema del Mondo come volontà e rap­ presentazione, ne chiarivano gli sviluppi con un’e­ sperienza arricchita, e commentavano in estensione, con una trattazione disunita, l’invadenza razionale esauriente di quella visione del mondo. L’opera in­ vece fu afferrata per se stessa, fu una scoperta, per­ ché in essa per la prima volta un grande pensatore riusciva a comunicarsi e soltanto in seguito divenne un’introduzione alla più ardua costruzione, com­ pressa, del Mondo. Anche ora, dopo un secolo, ri­ troviamo nei Parerga qualcosa di essenziale, che il Mondo non dà, e accostiamo le due opere come complementari, in ogni caso come le più importanti del filosofo. < Nei Parerga si ha, in un senso che dev’essere ben precisato, una popolarizzazione della filosofia, e la cosa non interessa soltanto la vita di Schopenhauer e la sua conquista della fama, ma è un evento im­ portante nella storia della cultura moderna. Popo­ lare la filosofia diventa già nel linguaggio semplice e aperto, in antitesi con un atteggiamento soltanto teoretico, o con un’esposizione matematizzante, o con un qualsiasi gergo astruso, e comunque in rot­ tura con ogni indirizzo specialistico. I filosofi non si rivolgono ai filosofi (sarebbe un pubblico troppo ristretto, poiché ne nasce uno ogni secolo), ma agli altri uomini. Ma popolare è soprattutto la natura delle questioni trattate — che cos’è il mondo? come dobbiamo vivere? — e la natura delle risposte: è la volontà dentro di noi — dobbiamo spegnere in noi

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questa volontà. Tutto questo è detto per la prima volta nel Mondo, ma sono appunto i Parerga che trovano una forma di esposizione adatta, perché questi contenuti appaiano non soltanto accessibili, ma tali da non poter essere allontanati dalla co­ scienza se non con uno sforzo colpevole. Un tempo erano in realtà i contenuti della religione, e una volta cadute in discredito le forme di questa — mito, dogma e così via — giacevano inoperosi ma intatti, in attesa di una nuova forma. Schopenhauer pensò che toccasse alla filosofia subentrare legittimamente, che anzi la ragione fosse la vera forma di quei con­ tenuti. Una ragione sana, educata dai moralisti francesi. E così troviamo che la religione più filo­ sofica, quella del Buddha, e la filosofia nel senso suddetto più religiosa si accordano in una dottrina di stupefacente universalità. Questo è l’urto massiccio impresso da Schopen­ hauer alla nostra cultura, e sinora non se ne sono visti che gli effetti iniziali. E’aver riunito nel qua­ dro indiviso dell’uomo, con una potenza espressiva adeguata, il pensiero dell’oriente e quello dell’occi­ dente, che per millenni hanno seguito corsi separati se non divergenti, non è impresa di poco conto. Ma, al di là della prospettiva storica, è capitale la sua formulazione rivolta all’uomo, come all’essere che pone a se stesso problemi di quello che per ciascuno è « il » problema, e che ciascuno, con o senza co­ scienza di esso, decide secondo la propria natura. Giacché, dall’affermazione della volontà di vivere nel più tracotante e cieco schiavo del principium individuationis alla sua negazione assoluta nel più distaccato asceta buddhistico, nel « superatore dei mondi » c’è la scala di tutti gli uomini, la cui esi­ stenza è vissuta secondo innumerevoli forme, tutte comprese però entro questi due estremi. Nella vita di ciascuno domina l’affermazione oppure la nega­ zione della volontà di vivere, sia pure negli aspetti

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più attenuati, più contorti, più contaminati: affer­ ma chi è posseduto, nelle configurazioni eccelse e infime della vita e della società umana, dal demone della bramosia, dell’attività, della potenza, così co­ me nega chi, anche nell’esistenza più modesta, è incline a rinunciare, a cercare un rifugio, a contem­ plare, a conoscere. Questo sostituirsi della filosofia alla religione, mentre prepara una grande ora alla filosofia e la impone agli occhi dell’uomo, ha anche per noi, nel nostro tempo, un grande interesse storico. In Scho­ penhauer parla l’intelligenza matura di una civiltà. È l’ultimo possessore di una ragione sana, di una ragione cioè che sta con la sua origine metafisica — la volontà — in un rapporto ben definito, costan­ te e armonico. Ciò è rappresentativo di civiltà ma­ tura, sul piano del pensiero, allo stesso modo che per una civiltà matura, sul piano politico, è rap­ presentativo il rapporto tra nomos e physis. La sta­ bilità di questa struttura si basa da un lato sul so­ lido convincimento dell’essenzialità — per una cul­ tura e una politica mature — di un elemento nor·* mativo, ragione o legge, per un altro verso sulla persuasione della supremazia della natura sulla ra­ gione, e infine sull’assegnazione di un rapporto ne­ cessario e preciso ai due termini, nessuno dei quali può scomparire di fronte all’altro, e ciascuno dei quali ha una posizione secondo una gerarchia, e una funzione vitale. La crisi della nostra civiltà tro­ va la sua definizione più profonda attraverso i ter­ mini schopenhaueriani. La ragione, anzi, non è che un aspetto del suo più vasto concetto di rappresen­ tazione, e in esso va inclusa. Si tratta di una scissio­ ne, che si osserva sul piano della cultura in gene­ rale, e su quello oggi così importante della scienza, tra volontà e rappresentazione. Già il corso stesso di ogni civiltà opera un progressivo allontanamento della rappresentazione dalla natura-volontà, che ne

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è la matrice. Una civiltà giunge a maturazione, quando in questo corso si è dispiegata compiutamente, in tutte le sue forme, la rappresentazione, un momento prima che l’inevitabile allontanamen­ to dalla natura, implicito in questo processo, abbia prodotto una frattura, un distacco completo dal­ l’origine. Oggi siamo al punto di rottura. Firenze, 1963

I Parerga und Paralipomena furono pubblicati nel novembre 1851 (2 voli., Berlin, Druck und Verlag von A. W. Hayn). Equivalenti per ampiezza al Welt als Wille und Vorstellung, assieme a questo essi costituiscono quasi i quattro quinti del­ l’intera opera di Schopenhauer. La composizione dei Parerga occupa il suo autore per sei anni, dal 1845 al 1850, ed anche dopo la pubblicazione Schopenhauer continua a dedicarsi a quest’opera, annotando correzioni ed aggiunte. Tale lavoro di ampliamento non era avvenuto se non in minima parte per gli scritti precedenti, che avevano preso senz’altro una figura compiuta sin dal loro primo apparire. La cosa è dovuta sia al fatto che i Parerga si presentarono subito agli occhi del filoso­ fo come la sua ultima opera, sia alla forma frammentaria e non sistematica di questi due volumi: per tali motivi numero­ so materiale si aggiunse negli anni seguenti il 1851, e si può dire anzi che quant’altro di nuovo scrisse Schopenhauer pri­ ma della morte fu espressamente dedicato ai Parerga. Una seconda edizione tuttavia, per quanto progettata, non vide più la luce durante la vita del filosofo. Questa circostan­ za ha reso assai laboriosa la costituzione di un testo definitivo dei Parerga, e proprio quest’opera ha fornito le maggiori dif­ ficoltà alle successive edizioni critiche dell’intero corpo schopenhaueriano. Il problema fu affrontato per primo da Frauenstädt, che fece pubblicare la seconda edizione nel 1862 (Pa­ rerga und Paralipomena, zweite, verbesserte u. beträchtlich verm. Auflage, hrsg. von J. Frauenstädt, Berlin, Hayn, 1862), con una notevole rapidità, ma a quanto hanno accertato gli studi successivi, altresì con una certa superficialità. Duplice è la fonte di questa edizione rielaborata: da un lato gli Hand-

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exemplare della prima edizione, in cui fogli manoscritti stava­ no inseriti tra le pagine stampate, e dall’altro i Manuskript­ bücher, com’è noto pubblicati più tardi da Grisebach nello Handschriftlicher Nachlass. Ciascuna di queste due fonti con­ tiene, oltre che l’annotazione di varianti, aggiunte ed amplia­ menti, un esplicito riferimento all’altra, con l’indicazione pre­ cisa della pagina e del passo. Era così lecito attendersi che tale edizione fosse definitiva, tanto più che Frauenstädt as­ sicurò di non aver modificato assolutamente in nulla il testo schopenhaueriano. Ma così non era, e anche a prescindere dal­ le deficienze di Frauenstädt dal punto di vista critico, il pro­ blema risultò più complesso del previsto, quando fu possibile vedere da vicino i manoscritti schopenhaueriani. Morto nel 1879 Frauenstädt, cui Schopenhauer aveva lasciato tutti i suoi manoscritti, gli Handexemplare furono venduti dagli ere­ di ad antiquari, ed i Manuskriptbücher finirono alla Biblio­ teca Reale di Berlino. Fu appunto attraverso lo studio di que­ sti ultimi che Grisebach si rese conto dei molteplici ostacoli: difficoltà di sutura tra i passi connessi da Schopenhauer, ripe­ tizioni, oscurità, incertezze di lettura, eccetera. Egli fornì dun­ que la prima edizione veramente critica: A. Schopenhauer, Sämtliche Werke in sechs Bänden, hrsg. von E. Grisebach (voll. 4 e 5, Leipzig, 1891). Neppure questa tuttavia poteva considerarsi definitiva poiché a Grisebach non fu possibile — se non fuggevolmente, per poche ore — l'accesso agli Hand­ exemplare, fonte come si è detto essenziale per il testo dei Parerga. Quest’ultimo passo fu compiuto da Deussen, che con la sua edizione monumentale, iniziata nel 1911, fornisce un testo dei Parerga che può ritenersi il più rigoroso: A. Scho­ penhauer, Sämtliche Werke, hrsg. von P. Deussen (voll. 4 e 5, München, 1913). La nostra traduzione, per quanto riguarda il primo tomo (trad. Giorgio Colli), non è tuttavia condotta sul testo del Deussen, bensì su di un’ulteriore edizione Grisebach, curata da Bergmann (dritte, mehrfach berichtigte Auflage, bearbeitet von Prof. Dr. Bergmann, Leipzig, Reclam, 1920-21). Quest’ultima tiene sostanzialmente conto dei miglioramenti apportati da Deussen. La sua scelta come base per una traduzione del primo tomo si rende poi anche consigliabile per motivi pratici: l’edizione del Deussen, infatti, traduce il suo rigore critico in una forma tipografica piuttosto disagevole, attraverso continue parentesi quadre per ogni aggiunta tratta dai manoscritti e da­ gli Handexemplare. La traduzione del secondo tomo (capp. 1-14, Mazzino Montinari; capp. 15-31, Èva Amendola Kuhn) è stata condotta a differenza di quella del primo tomo, sull’edi­ zione Deussen, perché — in primo luogo — Deussen ha inse­ rito proprio nel secondo tomo, in misura notevolmente mag-

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giore di Grisebach, materiale inedito tratto dai manoscritti e dagli Handexemplare (tanto da rendere il secondo tomo di estensione assai più vasta che nell’edizione Grisebach-Berg­ mann, mentre per il primo tomo l’estensione è identica nelle due edizioni), e — in secondo luogo — perché, dato il caratte­ re assai vario e meno organico degli scritti contenuti nel se­ condo tomo dei Parerga, il continuo inserimento di materiale nuovo (sia pure con le conseguenti inevitabili ripetizioni) non aveva da turbare quell’unità di trattazione che invece si tro­ va negli scritti del primo tomo. In questo caso, affinché il let­ tore italiano possa ricostruire il testo originario del secondo tomo dei Parerga (cioè il testo della prima edizione senza le aggiunte tolte dai manoscritti), è stato inevitabile porre tra parentesi quadre tutte le note e tutti i brani inseriti dal Deussen nel testo, sulla base dei manoscritti e degli Handexem­ plare. La presente traduzione tende a conservare nei limiti del possibile la massima aderenza al testo, alla cui integrità com’è noto Schopenhauer attribuiva un'importanza essenziale. Ab­ biamo cosi limitato le note alla traduzione delle citazioni gre­ che e inglesi e di alcune latine, francesi e spagnole: esse si trovano alla fine di ciascun tomo insieme alle note che conten­ gono le indicazioni dei passi e alcune osservazioni esplicative e critiche, da noi ridotte allo stretto necessario. Rispetto a molte di tali indicazioni siamo debitori all’edizione Deussen. Le no­ te a piè di pagina (contrassegnate nel testo da asterischi) sono di Schopenhauer.

PARERGA E PARALIPOMENA Scritti filosofici minori

Vitam impendere vero.

PREMESSA

Questi scritti minori, che si aggiungono alle ope­ re più importanti e sistematiche, sono costituiti in parte da alcune trattazioni su temi particolari e molto disparati, e in parte da pensieri staccati su oggetti ancora più vari. Tutto ciò è riunito qui, dal momento che non ha potuto trovare alcun posto, soprattutto a causa del suo contenuto, in quelle opere sistematiche; qualcosa poi è riportato qui sol­ tanto perché sorto troppo tardi per ottenere il po­ sto che gli spetterebbe in quella sede. Nel far questo, è vero, ho anzitutto tenuto pre­ senti i lettori, cui sono conosciute le mie opere più significative e tra loro concatenate, e proprio que­ sti troveranno qui forse ancora molti chiarimenti da loro desiderati; in complesso però il contenuto di questi volumi, eccettuati alcuni passi, sarà com­ prensibile e profittevole anche per coloro che non vantano una tale conoscenza. Tuttavia colui che ha confidenza con la mia filosofia avrà ancor sempre· qualche vantaggio poiché questa filosofia riflette continuamente la sua luce, anche se soltanto di lon­ tano, su tutto ciò che io penso e scrivo, allo stesso modo d’altro canto che essa riceve ancor sempre una qualche illuminazione da tutto quanto nasce dalla mia mente. Frankfurt am Main, dicembre 1850

SCHIZZO DI UNA STORIA DELLA TEORIA DELL’IDEALE E DEL REALE

Plurimi pertransibunt, et multiplex erit scientia.2 Dan., 12, 4

Cartesio è considerato a buon diritto il padre del­ la filosofia moderna, anzitutto ed in generale poi­ ché ha avviato la ragione a reggersi sulle proprie gambe, con l’insegnare agli uomini a servirsi del proprio cervello, sino allora duplicemente sostitui­ to dalla Bibbia e da Aristotele; in particolare poi ed in senso più ristretto, poiché è divenuto coscien­ te per la prima volta del problema dell’ideale e del reale, intorno a cui per lo più si aggira da allora ogni filosofare, cioè della questione su cosa vi sia di oggettivo e cosa di soggettivo nella nostra conoscen­ za, su cosa dunque in questa sia da attribuirsi ad eventuali oggetti diversi da noi, e cosa invece a noi stessi. Nel nostro cervello nascono delle immagini, determinate non dall’interno — come ad esempio dall’arbitrio o dalla connessione dei pensieri — ben­ sì da una causa esterna. Soltanto queste immagini costituiscono l’immediatamente conosciuto, il dato. Quale rapporto possono avere queste immagini cofl oggetti, che esistono pienamente separati e indipen­ denti da noi, e sono stati in qualche modo la causa di queste immagini? Siamo certi che in generale tali oggetti esistano e, in tal caso, le immagini ci dànno un chiarimento anche sulla loro natura? Tale è il problema, e come sua conseguenza da duecento an­ ni l’aspirazione essenziale dei filosofi è stata di sepa­ rare nettamente, con un taglio tracciato in linea retta, l’ideale, cioè quanto appartiene solo alla no­ stra conoscenza come tale, dal reale, cioè da quanto sussiste indipendentemente dalla conoscenza stessa, e in tal modo di stabilire il rapporto reciproco dei due termini. In realtà né i filosofi dell’antichità né gli Scola­ stici sembrano essere giunti a una chiara coscienza di questo fondamentale problema filosofico, sebbe-

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ne se ne possa trovare una traccia sotto forma di idealismo, e già anche di dottrina dell’idealità del tempo, in Plotino — propriamente in Enneade, ni, libro 7, cap. 10 — dove si insegna che l’anima ha creato il mondo, entrando dall’eternità nel tempo. Qui si dice, ad esempio, ού γάρ τις αύτοϋ τούτου τού παντός τόπος, ή ψυχή (neque datur alius huius universi locus, quam anima), come anche: δει δέ ούκ έξωθεν τής ψυχής λαμβάνειν τον χρόνον, ώσπερ ουδέ τον αιώνα εκεί έξω τοΰ δντος (oportet autem nequaquam extra animam tempus accipere, quemadmodum neque aeternitatem ibi extra id, quod ens appellatur); con ciò se vogliamo è già espressa l’idea­ lità del tempo di Kant. E nel capitolo seguente: ούτος ò βίος τδν χρόνον γεννρί· διό καί εϊρηται άμα τώδε τφ παντί γεγονέναι, δτι ψυχή αύτόν μετά τοΰδε τοΰ παντός έγέννησεν (haec vita nostra tempus gignit: quamobrem dictum est, tempus simul cum hoc uni­ verso factum esse; quia anima tempus una cum hoc universo progenuit).’ Tuttavia il suddetto proble­ ma, chiaramente riconosciuto e chiaramente espres­ so, rimane il tema caratteristico della filosofìa mo­ derna, dopo che l’intelligenza necessaria a questo scopo si rivelò anzitutto in Cartesio. Questi fu tutto preso dalla verità che noi siamo prima d’ogni altra cosa limitati alla nostra propria coscienza e che il mondo ci è dato soltanto come rappresentazione: con il famoso « dubito, cogito, ergo sum » egli volle porre in rilievo l’unica certezza della coscienza su­ biettiva, in contrasto alla problematicità di tutto il resto, ed esprimere la grande verità che l’unica cosa realmente e incondizionatamente data è l’autoco­ scienza. A rigore il suo celebre principio equivale al mio punto di partenza: « il mondo è la mia rap­ presentazione ». L’unica differenza sta nel fatto che egli pone in rilievo l’immediatezza del soggetto, ed io la mediatezza dell’oggetto. Le due proposizioni esprimono la medesima cosa da due lati, sono il ro-

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vescio luna dell’altra, e stanno cosi nello stesso rap­ porto della legge d’inerzia rispetto a quella di cau­ salità, quale risulta dalla mia esposizione nell’intro­ duzione all’Etica (I due problemi fondamentali del­ l’etica, trattati in due scritti accademici dal Dr. Ar­ thur Schopenhauer, Frankfurt a.Μ., 1841, pp. 24 sg.). Certamente da allora si è ripetuta innumerevo­ li volte la sua frase, avendo soltanto sentore della sua importanza, e non avendo una chiara compren­ sione del suo vero senso e del suo scopo (cfr. Carte­ sio, Meditationes, Med. n, p. 15). Egli dunque sco­ prì l’abisso che separa il subiettivo, o ideale, dall’o­ biettivo, o reale, ed espresse questa sua tesi nel dub­ bio sull’esistenza del mondo esterno: senonché con il suo misero espediente per uscirne — affermando cioè che il buon Dio non ci vorrà certo inganna­ re — egli mostrò quanto fosse profondo e difficile a risolversi il problema. Nel frattempo attraverso di lui, questo scrupolo era entrato nella filosofia e do­ veva continuar ad agire come elemento perturbatore, sino a che non fosse definitivamente eliminato. La coscienza che senza una conoscenza a fondo ed un chiarimento dell’esposta distinzione non è pos­ sibile alcun sistema sicuro e soddisfacente, fu pre­ sente da Cartesio in poi, e la questione non potè più essere ignorata. Ad eliminarla si provò anzitutto Malebranche, escogitando il sistema delle cause occasionali. Egli colse il problema in tutta la sua ampiezza, in modo più chiaro, più serio e più profondo di Cartesio (Recherches de la vérité, libro ni, seconda parte). Costui aveva accettato la realtà del mondo esterno, facendone credito a Dio; dal che invero risulta la stranezza, che mentre gli altri filosofi teisti si sfor­ zavano di dimostrare 1’esistenza di Dio dall’esisten­ za del mondo, Cartesio al contrario prova resisten­ za del mondo partendo dall’esistenza e dalla vera­ cità di Dio: è la prova cosmologica rovesciata. Ma-

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lebranche, facendo un passo in avanti anche su questo punto, insegna che noi vediamo tutte le cose immediatamente in Dio stesso. Ciò significa, è vero, spiegare una realtà sconosciuta con qualcosa di an­ cor più sconosciuto. Inoltre, secondo lui, non sol­ tanto noi vediamo tutte le cose in Dio, ma quest’ul­ timo è anche l’unica forza operante in esse, cosic­ ché le cause fisiche sono soltanto apparenti, pure « causes occasionnelles » (Rech, de la vérité, libro vi, seconda parte, cap. 8). In tal modo ci troviamo già qui in sostanza di fronte al panteismo di Spinoza, che sembra avere imparato più da Malebranche che non da Cartesio. In generale ci si potrebbe meravigliare che il pan­ teismo non abbia conseguito già nel secolo dicias­ settesimo una completa vittoria sopra il teismo, dal momento che le esposizioni europee più originali, più belle e più profonde del panteismo (certamente tutto ciò, in confronto alle Upanisad dei Veda, non è nulla) vennero alla luce tutte quante in quell’epo­ ca, cioè attraverso Bruno, Malebranche, Spinoza e Scoto Erigena. Quest’ultimo, dimenticato e perduto attraverso molti secoli, fu riscoperto a Oxford e stampato per la prima volta nel 1681, cioè quattro anni dopo la morte di Spinoza. Ciò sembra dimo­ strare che le vedute di uomini singoli non possono farsi valere sino a che lo spirito del tempo non è maturo per accettarle. Così d’altra parte ai nostri giorni il panteismo è divenuto la concezione domi­ nante dei dotti e persino degli uomini colti, per quanto esposto soltanto nella rielaborazione eclet­ tica e confusa di Schelling, e ciò è avvenuto perché Kant aveva appianato il terreno con l’abbattimen­ to del dogmatismo teistico e gli aveva fatto posto, in modo tale che lo spirito dell’epoca è stato pre­ parato al panteismo, come un campo arato alla se­ mina. Nel diciassettesimo secolo per contro la filo­ sofia lasciò nuovamente quella strada e giunse da

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un lato a Locke, che era stato preceduto da Bacone e da Hobbes, e dall’altro, attraverso Leibniz, a Christian Wolf; questi ultimi due dominarono poi, nel diciottesimo secolo, specialmente in Germania, se pure solo in quanto finirono di essere accolti nel­ l’eclettismo sincretistico. I profondi pensieri di Malebranche per altro han­ no dato la spinta immediata al sistema dell’/tarmonia praestabilita di Leibniz, la cui fama, ampia­ mente diffusa, e la cui alta considerazione ai suoi tempi dànno una prova che l’assurdo fa molto fa­ cilmente fortuna nel mondo. Per quanto io non possa vantarmi di avere delle idee chiare sulle mo­ nadi di Leibniz, che sono al tempo stesso punti matematici, atomi materiali ed anime, tuttavia mi sembra fuori dubbio che una tale tesi, una volta accettata, potrebbe servire a risparmiare tutte le ulteriori ipotesi per il chiarimento della connessio­ ne tra ideale e reale, e ad eliminare la questione, dato che questi due termini sono già pienamente identificati nelle monadi. (Per tale ragione anche ai nostri giorni Schelling, come autore del sistemi! dell’identità, ha nuovamente preso gusto a questo genere di soluzione). Tuttavia a questo famoso ma­ tematico, erudito e politico filosofante, non è pia­ ciuto utilizzare a questo modo le monadi, ed egli, per lo scopo suddetto, ha formulato appositamente Ì’armonia prestabilita. Quest’ultima ci presenta due mondi fondamentalmente diversi, ciascuno dei qua­ li è incapace ad agire in qualsiasi modo sull’altro (Principia philos., § 84 e Examen du sentiment du père Malebranche, pp. 500 sg. delle Œuvres de Leib­ nitz, edizione Raspe), ed è l’inutile doppione del­ l’altro, ma che pure devono coesistere, svolgersi esattamente l’uno parallelo all’altro ed essere sin­ cronizzati con grande esattezza; per questo l’autore di entrambi, proprio al principio, ha stabilito tra di loro la più precisa armonia, nella quale essi si

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sviluppano l’uno accanto all’altro nel migliore dei modi. Detto tra parentesi, Yharmonia praestabilita si può forse intendere nel modo migliore, quando la si paragoni alla rappresentazione scenica, là dove molto spesso Yinfluxus physicus sussiste solo in ap­ parenza, e la causa e l’effetto sono connessi unica­ mente attraverso un’armonia prestabilita dal regi­ sta, ad esempio quando uno spara e l’altro cade « a tempo». Con brevità e nel modo più grossolano, Leibniz ha esposto la cosa, nella sua mostruosa as­ surdità, attraverso i §§ 62 e 63 della sua Theodicea. Tuttavia in tutta questa costruzione egli non ha neppure il merito dell’originalità, poiché già Spi­ noza ha esposto abbastanza chiaramente Yharmonia praestabilita nella seconda parte della sua Ethica, precisamente nelle proposizioni sesta e settima, e nei loro corollari, ed ancora nella quinta parte, prop. 1, dopo che nella quinta proposizione della seconda parte aveva a modo suo espresso la dottrina molto affine di Malebranche, secondo la quale noi vediamo tutto in Dio.* Così Malebranche soltanto è l’autore di tutto questo corso di pensieri, che tan­ to Spinoza quanto Leibniz, ciascuno a modo suo, hanno utilizzato e sviluppato. Leibniz avrebbe an­ zi potuto fare a meno della cosa, poiché in tal mo­ do egli ha già abbandonato il puro dato di fatto, * Eth., parte n, prop. 7 : « Ordo et connexio idearum idem est, ac ordo et connexio rerum ». Parte v, prop. 1 : « Prout cogitationes rerumque ideae concatenantur in Mente, ita corporis affectiones, seu rerum imagines ad amussim ordinantur et concatenantur in Corpore ». Par­ te η, prop. 5 : « Esse formale idearum Deum, quatenus tantum ut res cogitans consideratur, pro causa agnoscit, et non quatenus alio attributo explicatur. Hoc est, tam Dei attributorum, quam rerum singularium ideae non ipsa ideata, sive res perceptas pro causa efficiente agnoscunt: sed ipsum Deum, quatenus est res cogitans».

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essenziale per il problema, che cioè il mondo ci è dato immediatamente soltanto come nostra rappre­ sentazione, e l’ha abbandonato per sostituirgli il dogma di un mondo materiale e di un mondo spi­ rituale, tra cui non è possibile alcun ponte, intrec­ ciando il problema del rapporto tra le rappresen­ tazioni e le cose in sé con la questione della possi­ bilità dei movimenti del corpo per opera della vo­ lontà, e risolvendoli a un tempo entrambi con la sua harmonia praestabilita (cfr. Système nouveau de la nature, in Leibniz, Opera, ed. Erdmann, p. 125; Brucker, Hist, ph., tomo iv, parte n, p. 425). La mostruosa assurdità di questa tesi fu già posta nella luce più chiara da alcuni suoi contemporanei, in particolar modo da Bayle, con una esposizione delle conseguenze che ne derivavano. (Si veda ne­ gli scritti minori di Leibniz, tradotti da Huth nel­ l’anno 1740, la nota a p. 79, in cui Leibniz stesso si vede costretto a esporre le conseguenze rivoltanti della sua asserzione). Tuttavia proprio l’assurdità della tesi, cui una persona d’ingegno fu sospinta dal presente problema, dimostra la grandezza, là difficoltà e la perplessità del medesimo, e quanto poco lo si possa eliminare e se ne possano distrug­ gere le difficoltà con una semplice negazione, come si è tentato di fare ai giorni nostri. Spinoza a sua volta prende le mosse immediata­ mente da Cartesio: egli mantenne quindi da prin­ cipio, presentandosi come cartesiano, il dualismo del maestro, e accettò di conseguenza una substan­ tia cogitans e una substantia extensa, quella come soggetto e questa come oggetto della conoscenza. Più tardi invece, quando trovò la propria indipen­ denza, egli scoprì che entrambe costituivano una medesima sostanza, vista da differenti aspetti e con­ cepita cioè da un lato come substantia extensa, dall’altro come substantia cogitans. Ciò significa propriamente che la differenza tra pensante ed este-

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so, o tra spirito e materia, è infondata e quindi inammissibile; di essa quindi non si sarebbe dovu­ to parlare ulteriormente. Egli però la mantiene sempre soltanto per ripetere instancabilmente che i due termini costituiscono un’unità. A ciò egli ag­ giunge ancora, con un semplice « sic etiam » che « modus extensionis et idea illius modi una eademque est res » (Eth., parte n, prop. 7, scolio); con il che s’intende che la nostra rappresentazione dei corpi e questi corpi stessi sono uria medesima cosa. Senonché il « sic etiam » stabilisce un insufficiente passaggio a una tale affermazione, poiché dal fatto che la differenza tra spirito e materia, oppure tra rappresentante ed esteso, è infondata, non segue in alcun modo che sia altresì infondata la distinzione tra la nostra rappresentazione e una cosa oggettiva e reale esistente al di fuori della medesima, ciò che costituisce per l’appunto il problema fondamentale impostato da Cartesio. Il rappresentante e il rappre­ sentato possono pure avere la stessa natura; rimane tuttavia la questione se da rappresentazioni del mio cervello si possa dedurre sicuramente la natura di esseri diversi da me, esistenti in se stessi, cioè indi­ pendentemente dalle rappresentazioni. La difficoltà non sta là, dove soprattutto Leibniz (per esempio Theodic., parte i, § 59) vorrebbe forzatamente ri­ trovarla, nel fatto cioè che non possa aver luogo alcuna influenza o comunione tra le anime suppo­ ste e il mondo materiale, in quanto due specie di sostanze assolutamente eterogenee, ragione per la quale egli negò l’influsso fisico: questa difficoltà in­ fatti è una pura conseguenza della psicologia razio­ nale, e basta quindi semplicemente eliminarla come una finzione, allo stesso modo che avviene in Spi­ noza. Inoltre contro il sostenitore della medesima, come argumentum ad hominem, si può far valere la sua dottrina, che Dio stesso, il quale pure è uno spirito, ha creato il mondo materiale e continua a

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governarlo, e che quindi uno spirito può agire im­ mediatamente sulla materia. Piuttosto la difficoltà è e rimane soltanto quella cartesiana, che cioè il mondo, l’unico dato a noi immediatamente, è sem­ plicemente un mondo ideale, costituito cioè da pu­ re rappresentazioni della nostra mente, mentre noi, andando oltre, tentiamo di giudicare un mondo reale, cioè esistente al di fuori delle nostre rappre­ sentazioni. Spinoza quindi, abolendo la distinzione tra la substantia cogitans e la substantia extensa, non ha ancora risolto questo problema, ma se mai ha nuovamente reso ammissibile l’influsso fìsico. Quest’ultimo peraltro non vale a risolvere la diffi­ coltà, potendosi dimostrare che la legge di causa­ lità è di origine soggettiva, e che quand’anche al contrario derivasse dall’esperienza esterna, essa do­ vrebbe pur appartenere a quel mondo posto in que­ stione, dato a noi soltanto idealmente: cosicché in nessun caso la causalità può stabilire un passaggio tra l’assolutamente oggettivo e il soggettivo, e rima­ ne piuttosto semplicemente il legame che congiunge tra di loro i fenomeni. (Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, voi. n, p. 12). Per spiegare tuttavia più da vicino la suddetta identità dell’estensione e della sua rappresentazione, Spinoza introduce qualcosa che comprende al tem­ po stesso l’opinione di Malebranche e quella di Leibniz. Proprio come in Malebranche, noi vedia­ mo cioè tutte le cose in Dio: « rerum singularium ideae non ipsa ideata, sive res perceptas, pro causa agnoscunt, sed ipsum Deum, quatenus est res cogi­ tans » (Eth., parte li, prop. 5); e questo Dio costi­ tuisce anche al tempo stesso ciò che vi è di reale e di operante in esse, proprio come in Malebranche. Dal momento tuttavia che Spinoza con il nome « Deus » indica il mondo, in tal modo in estrema analisi non viene spiegato nulla. Al tempo stesso però si trova in lui, come in Leibniz, un preciso

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parallelismo tra il mondo esteso e quello rappresen­ tato: « ordo et connexio idearum idem est, ac ordo et connexio rerum » (parte n, prop. 7 e molti pas­ si simili). Questa è Yharmonia praestabilita di Leib­ niz; soltanto che qui il mondo rappresentato e quello esistente in modo oggettivo non rimangono pienamente separati come in Leibniz, in corrispon­ denza reciproca soltanto attraverso un’harmonia re­ golata in precedenza e dal di fuori, ma sono real­ mente una sola e medesima cosa. Abbiamo dunque qui innanzitutto un completo realismo, in quanto l’essere delle cose corrisponde esattamente alla loro rappresentazione in noi, e i due termini anzi sono una cosa sola. Di conseguenza noi conosciamo le cose in sé: esse sono in se stesse extensa, e d’altron­ de, in quanto compaiono come cogitata, cioè nella rappresentazione che ne abbiamo, esse si presentano come extensa. (Detto incidentalmente, è questa l’origine dell’identità di Schelling tra il reale e l’ideale). Tutto ciò in realtà è fondato su di una semplice asserzione. L’esposizione non è chiara già per l’equivocità della parola « Deus », usata in sen­ so improprio, e anche per altri motivi; egli si perde quindi nell’oscurità e dichiara alla fine: « nec impraesentiarum haec clarius possum explicate ». La mancanza di chiarezza nell’esposizione nasce però sempre da una confusa comprensione ed elabora­ zione dei filosofemi. Vauvenargues ha detto molto giustamente: « La clarté est la bonne foi des philo­ sophes». (Cfr. «Revue des deux Mondes», 15 agosto 1853, p. 635). Ciò che è nella musica la « frase pu­ ra », è nella filosofia la completa chiarezza, in quan­ to conditio sine qua non, senza il cui adempimento ogni cosa perde il suo valore e noi dobbiamo dire: « quodcumque ostendis mihi sic incredulus odi». Se persino nelle questioni della vita comune e pra­ tica si debbono accuratamente prevenire, con la chiarezza, i possibili fraintendimenti, come ci si po-

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irebbe esprimere indeterminatamente e anzi enig­ maticamente nell’oggetto più difficile, più astruso, quasi irraggiungibile del pensiero, che è compito della filosofia? L’oscurità biasimata nella dottrina di Spinoza nasce dal fatto che egli non parte spon­ taneamente dalla natura delle cose, quale si presen­ ta, ma dal cartesianesimo, e di conseguenza da ogni genere di concetti presi a prestito, come « Deus », « substantia », « perfectio », eccetera, che egli per via indiretta si sforza di porre in accordo con la sua verità. Egli esprime quanto ha di meglio, so­ prattutto nella seconda parte dell'Et/iica, molto spes­ so solo indirettamente, parlando di continuo per ambages e quasi allegoricamente. D’altro canto, pe­ rò, Spinoza mette in luce un indiscutibile idealismo trascendentale, cioè una conoscenza, sia pure gene­ rica, delle verità chiaramente esposte da Locke e soprattutto da Kant, una reale distinzióne dall’ap­ parenza della cosa in sé e il riconoscimento che soltanto la prima è a noi accessibile. Si veda Eth., parte li, prop. 16 con il secondo corollario; prop. 17, scolio; prop. 18, scolio; prop. 19; prop. 23, che esten-· de quanto si è detto alla conoscenza di sé; prop. 25, che esprime tutto ciò chiaramente, e infine come rias­ sunto il corollario alla prop. 29, il quale afferma con chiarezza, che noi non conosciamo né noi stessi né le cose come sono in sé, ma soltanto come appaiono. La dimostrazione della prop. 27, parte ni, proprio all’inizio, esprime la cosa nel modo più chiaro. Ri­ guardo al rapporto tra la dottrina di Spinoza e quella di Cartesio, rimando a quanto ho detto sul­ l’argomento nella mia opera II mondo come volon­ tà e rappresentazione, voi. n, p. 639 (3* ed., p. 739). Senonché con quel partire dai concetti della filoso­ fia cartesiana non soltanto sono entrati nell’esposi­ zione di Spinoza molte oscurità e motivi di equivo­ co, ma in tal modo egli è incorso altresì in molti stridenti paradossi, evidenti falsità, e in tali assur-

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dità e contraddizioni, che quanto vi è di vero e di eccellente nella sua dottrina ha subito una spiace­ vole mescolanza con elementi assolutamente indige­ ribili, e il lettore è sospinto qua e là, tra l’ammirazione e il disgusto. Per altro, rispetto alla questione considerata qui, l’errore fondamentale di Spinoza sta nel fatto che egli ha condotto da un punto non giusto la linea di separazione tra l’ideale e il reale, cioè tra il mondo soggettivo e quello oggettivo. In altre parole, l’estensione non è per nulla il contra­ rio della rappresentazione, ma è compresa piena­ mente in quest’ultima. Noi rappresentiamo le cose come estese, e in quanto sono estese esse sono una nostra rappresentazione: la questione, invece, e il problema originario stanno nel determinare se mai si dia qualcosa di esteso, o anzi in generale di esi­ stente, indipendentemente dal nostro rappresenta­ re. Ciò fu risolto più tardi da Kant in modo inne­ gabilmente giusto, nel senso che l’estensione o la spazialità giacciono unicamente e soltanto nella rap­ presentazione, e ineriscono a questa, in quanto tut­ to lo spazio ne è semplicemente la forma; cosicché non può sussistere, e certissimamente non sussiste affatto, alcuna estensione indipendente dal nostro rappresentare. La linea di separazione di Spinoza è quindi caduta completamente nel lato ideale ed egli è rimasto nel mondo rappresentato, considerando quest’ultimo, contrassegnato dalla forma che gli è propria dell’estensione, come il reale, cioè come esistente in sé, indipendentemente dall’essere rap­ presentato. Egli ha allora ben ragione di dire che quanto è rappresentato — cioè la nostra rappresen­ tazione dei corpi e questi corpi stessi — sono un’identica cosa (parte II, prop. 7, scolio). Indub­ biamente le cose sono estese soltanto come rappre­ sentate e rappresentabili soltanto come estese: il mondo come rappresentazione e il mondo nello spazio sono una eademque res, noi possiamo conce­

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dere ciò senz’altro. Se ora l’estensione fosse una pro­ prietà delle cose in sé, la nostra intuizione conter­ rebbe una conoscenza delle cose in sé: egli la in­ tende proprio così e qui sta il suo realismo. Dal momento però che non lo giustifica e non dimostra come alla nostra intuizione di un mondo spaziale corrisponda un mondo spaziale indipendente da questa stessa intuizione, il problema fondamentale rimane insoluto. Ciò per altro deriva proprio dal fatto che la linea di divisione tra il reale e l’ideale, l’oggettivo e il soggettivo, la cosa in sé e l’apparen­ za, non è tracciata giustamente: egli conduce piut­ tosto, come si è detto, il taglio entro il lato ideale, soggettivo, fenomenico del mondo, cioè attraverso il mondo come rappresentazione, suddividendo quest’ultima nell’estensione o spazialità e nella nostra rappresentazione della medesima, e si preoccupa poi vivamente di mostrare che entrambe sono una stes­ sa cosa, come effettivamente è. Proprio perché Spi­ noza rimane completamente legato all’aspetto idea­ le del mondo, pensando di trovare già il reale nel­ l’estensione, che a questo stesso aspetto appartiene, » dal momento che secondo lui il mondo intuibile è l’unica realtà fuori di noi e ciò che conosce (cogitans) l’unica realtà in noi, così d’altro canto egli pone l’unico verace reale, la volontà, nell’ideale, fa­ cendone un semplice modus cogitandi, anzi identi­ ficandolo con il giudizio. Si vedano nella seconda parte dell’Ethica le dimostrazioni delle propp. 48 e 49, dove si dice: « per voluntatem intelligo affirmandi et negandi facultatem », e ancora: « concipiamus singulärem aliquam volitionem, nempe modum cogitandi, quo mens affirmât, très angulos trianguli aequales esse duobus rectis » ; cui segue il corollario: « voluntas et intellectus unum et idem sunt ». In generale Spinoza ha il grave difetto di servirsi a bella posta di certe parole per indicare concetti che sono universalmente espressi con altri

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nomi, e per contro di togliere loro il significato che hanno normalmente : così egli chiama « Dio » ciò che viene sempre detto « il mondo », « il diritto » ciò che è sempre chiamato « la forza », e « la volon­ tà » ciò che viene sempre detto « il giudizio ». Ci sentiamo del tutto autorizzati a ricordare a questo proposito il condottiero dei cosacchi del Beniowski di Kotzebue. Berkeley, anche se più tardi e dopo di aver cono­ sciuto Locke, si inoltrò conseguentemente su questa strada dei cartesiani e divenne in tal modo l’autore del vero e proprio idealismo, cioè della conoscenza che quanto è esteso nello spazio e lo riempie, in altre parole il mondo intuitivo in genere, può avere la Sua esistenza come tale solo ed esclusivamente nella nostra rappresentazione, e che è assurdo, anzi contraddittorio, attribuire a questo mondo intuitivo ancora un’esistenza al di fuori di ogni rappresenta­ zione e indipendente dal soggetto conoscente, e di conseguenza ammettere una materia esistente in se stessa.* È questa un’opinione molto giusta e pro­ fonda, ma è vero anche che in essa consiste tutta la sua filosofia. Egli ha còlto l’ideale e l’ha isolato nettamente; non ha però saputo trovare il reale, se * Ai profani in filosofia, tra cui vanno annoverati molti professori della medesima, si dovrebbe toglier del tutto la disponibilità della parola « idealismo > poiché non sanno cosa significhi, e con essa compiono ogni sorta di abusi; essi intendono con idealismo ora lo spiritualismo, ora all’incirca l’opposto del filisteismo, e sono rafforzati e confermati in quest’idea dai letterati dozzinali. Le parole « idealismo e realismo » non sono alla mercé di tutti, ma hanno il loro sicuro significato filosofico; chi intende qualcos’altro, deve anche usare un’altra parola. L’antitesi tra idealismo e realismo riguarda il conosciuto, l’oggetto, mentre quella tra spiritualismo e materialismo si riferi­ sce al conoscente, il soggetto. (Gli odierni ignoranti im­ brattacarte scambiano l’idealismo con lo spiritualismo).

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ne preoccupa anche poco e si esprime sull’argomen­ to solo occasionalmente, frammentariamente e in modo incompleto. La volontà e l’onnipotenza di Dio sono la causa immediata di tutti i fenomeni del mondo intuitivo, cioè di tutte le nostre rappresenta­ zioni. Un’esistenza reale tocca soltanto agli esseri conoscenti e volenti, quali siamo noi stessi: questi dunque, assieme a Dio, esauriscono il reale. Essi so­ no spiriti, cioè per l’appunto esseri conoscenti e volenti: anch’egli infatti considera volontà e cono­ scenza come assolutamente inseparabili. Con i suoi predecessori egli ha in comune anche il ritenere Dio qualcosa di più palese che non il mondo fenomeni­ co e il considerare quindi una spiegazione qualsiasi regresso e riduzione a lui. In genere il suo stato ec­ clesiastico, anzi di vescovo, gli impose troppo dure catene e lo limitò a una cerchia di pensieri soffo­ cante, ch’egli non riuscì mai ad allargare: Berkeley non potè quindi andare oltre, ma nella sua mente il vero e il falso dovettero accordarsi alla meglio. Ciò si può applicare addirittura alle opere di tutti questi filosofi, eccezion fatta per Spinoza: tutti1 quante sono distrutte dal teismo ebraico, inaccessi­ bile a ogni esame, insensibile a ogni indagine, che si presenta come un’idea fissa e si pone a ogni passo attraverso alla strada della verità; cosicché il danno che esso arreca qui nel campo teoretico è parallelo a quello arrecato durante un millennio nel campo pratico, intendo dire nelle guerre di religione, nei tribunali d’inquisizione e nelle conversioni di po­ poli con la forza della spada. L’affinità molto stretta tra Malebranche, Spinoza e Berkeley è indiscutibile: inoltre li vediamo par­ tire tutti da Cartesio, in quanto tengono fermo il problema fondamentale, da lui esposto sotto forma di dubbio sull’esistenza del mondo esterno, e tenta­ no di risolverlo sforzandosi di indagare la separa­ zione e il rapporto tra il mondo ideale, soggettivo,

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cioè dato soltanto nella nostra rappresentazione, e quello reale, oggettivo, indipendente dalla rappre­ sentazione, ed esistente quindi in sé. Questo pro­ blema, come si è detto, è dunque l’asse intorno al quale ruota tutta la filosofia dell'epoca moderna. Locke si distingue da quei filosofi, verosimilmen­ te a causa dell’influsso di Hobbes e di Bacone, per il fatto che si accosta per quanto può all'esperienza e all’intelletto comune, evitando il più possibile ipotesi oltrepassanti il mondo fisico. Il reale è per lui la materia, e senza curarsi dello scrupolo leibniziano sull’impossibilità di un collegamento causale tra la sostanza immateriale e pensante e quella ma­ teriale ed estesa, egli accetta addirittura un influsso fisico tra la materia e il soggetto conoscente. A tal proposito però, con rara assennatézza e onestà, egli va tanto oltre da confessare come possibile che quanto conosce e pensa sia esso stesso materia (On hum. underst., libro iv, cap. 8, § 6); ciò gli ha atti­ rato più tardi la ripetuta lode del grande Voltaire, e ai suoi tempi invece i maligni attacchi di uno scaltro prete anglicano, il vescovo di Worcester.* • Non vi è alcuna Chiesa pavida della luce quanto quel­ la inglese; e questo proprio per il fatto che nessun’altra ha in gioco interessi tanto ingenti come i suoi dato che le sue entrate ammontano a cinque milioni di lire sterli­ ne, somma superiore di quarantamila lire sterline a quanto incassa tutto il rimanente clero cristiano dei due emisferi messo insieme. D’altro canto non vi è alcuna na­ zione, che sia tanto doloroso vedere metodicamente istu­ pidita dalla più degradante superstizione, quanto quella inglese, che supera tutte le altre in intelligenza. La radi­ ce del male sta nel fatto che in Inghilterra non vi è alcun ministero della pubblica istruzione, cosicché quest’ultima è rimasta sinora nelle mani dei preti, i quali hanno avu­ to cura che i 2/3 della nazione non sappiano leggere né scrivere, e di tanto in tanto hanno persino la sfacciatag­ gine di abbaiare con la più ridicola presunzione contro

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Secondo lui il reale, cioè la materia, suscita nel co­ noscente, con un « impulso », cioè con un urto, del­ le rappresentazioni, ossia Yideale (ibid., libro i, cap. 8, § 11). Abbiamo dunque qui un realismo senz’al­ tro massiccio, che provocando proprio con la sua esorbitanza un’opposizione, ha determinato l’idea­ lismo di Berkeley, il cui particolare punto di par­ tenza sta forse in ciò che Locke espone alla fine del secondo paragrafo del cap. 21, libro n, dicendo tra l’altro con sorprendente mancanza di riflessione: « solidity, extension, figure, motion and rest, would be really in the world, as they are, whether there were any sensible being to perceive them, or not » (impenetrabilità, estensione, figura, movimento e stasi esisterebbero realmente nel mondo, come so­ no, vi sia o no un qualche essere senziente a per­ cepirli). Non appena quindi si riflette a ciò, lo si deve riconoscere come falso: a questo punto si pre­ senta l’idealismo di Berkeley, che è innegabile. Nel le scienze naturali. È quindi un dovere umano il contrab- · bandare in Inghilterra attraverso tutti i passaggi imma­ ginabili, luce, illuminismo e scienza, affinché i più ben pasciuti tra tutti i preti vengano infine tenuti a freno. Ci si deve opporre con franca derisione qui sul conti­ nente agli inglesi colti, quando mettono in mostra la loro ebraica superstizione del shabbat e consimili stupide bigotterie, « until they be shamed into common sense ». Cose del genere infatti sono uno scandalo per l’Europa e non possono essere tollerate più a lungo. Non si deve quindi mai più, anche nella vita comune, fare la minima concessione alla superstizione chiesastica inglese, ma oc­ corre muoverle immediatamente contro nel modo più re­ ciso, ovunque essa voglia farsi sentire. La sfrontatezza in­ fatti dei preti anglicani e dei loro servi, sino ai nostri giorni, è quasi incredibile: essa deve quindi rimanere confinata alla loro isola, e accorgersi immediatamente di essere fuori posto, non appena osi farsi vedere sul con­ tinente.

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contempo comunque anche Locke non trascura quel problema fondamentale, l’abisso tra le rappresenta­ zioni in noi e le cose esistenti indipendentemente da noi, cioè la distinzione tra l’ideale e il reale: in sostanza però egli se ne libera con argomenti del buon senso, ma in modo rozzo, richiamandosi alla sufficienza rispetto agli scopi pratici della nostra conoscenza delle cose {ibid., libro iv, capp. 4 e 9); ciò evidentemente non risolve la questione, e mo­ stra soltanto quanto poco sia qui all’altezza del pro­ blema l’empirismo. Senonché proprio il suo reali­ smo lo conduce a limitare quanto corrisponde nella nostra conoscenza al reale alle qualità inerenti alle cose, quali esse sono in se stesse, e a distinguere queste qualità da quelle appartenenti semplicemen­ te alla nostra conoscenza delle cose, cioè soltanto all’ideale: di conseguenza egli chiama queste ulti­ me qualità secondarie, e le altre invece primarie. Questa è l’origine della distinzione tra cosà in sé e fenomeno, che diverrà più tardi sommamente im­ portante nella filosofìa kantiana. Sta dunque qui il vero punto di riallacciamento genetico della dottri­ na kantiana con la filosofia precedente, vale a dire con Locke. Questa dottrina fu agevolata e determi­ nata più da vicino dalle obiezioni scettiche di Hume alle teorie di Locke: per contro essa fu in rapporto solo polemico con la filosofia di Leibniz e di Wolf. Come qualità primarie, che debbono essere esclu­ sivamente determinazioni delle cose in sé, e di con­ seguenza spettare loro anche al di fuori della nostra rappresentazione e indipendentemente da questa, risultano semplicemente quelle che non si possono astrarre dalle cose: vale a dire estensione, impene­ trabilità, figura, movimento o stasi, e numero. Tut­ te le altre sono riconosciute come secondarie, cioè come provocate dall’azione di quelle qualità prima­ rie sui nostri organi di senso, di conseguenza come pure impressioni in questi ultimi: tali sono colore,

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suono, gusto, odore, durezza, mollezza, levigatezza, ruvidità, eccetera. Queste non hanno quindi la mi­ nima somiglianza con la natura delle cose in sé che le suscita, e sono da ricondursi, in quanto alle loro cause, a quelle qualità primarie, che sole sono pura­ mente oggettive e realmente presenti nelle cose (ibid., libro I, cap. 8, §§ 7 sgg.). Di queste ultime quindi le nostre rappresentazioni sono realmente copie fedeli, che riproducono con precisione le qua­ lità sussistenti nelle cose in sé (loc. cit., § 15; mi rallegro con il lettore che sente davvero come qui il realismo diventi ridicolo). Noi vediamo così che Locke sottrae alla natura delle cose in sé, le cui rap­ presentazioni riceviamo dal di fuori, quanto è azio­ ne dei nervi degli organi di senso : un modo di con­ siderare facile, comprensibile e incontestabile. Su questa strada però Kant fece in seguito il passo in­ commensurabilmente più importante di sottrarre anche quanto è azione del nostro cervello (questa assai maggiore massa nervosa); in tal modo tutte quelle pretese qualità primarie si abbassano tosto a secondarie, e le supposte cose in sé a pure apparen-, ze, mentre la vera cosa in sé, liberata ora anche da quelle qualità, rimane come una grandezza assolutamente sconosciuta, una pura x. A questo scopo in­ dubbiamente fu necessaria un’analisi difficile, pro­ fonda, che doveva venire a lungo difesa contro gli assalti del malinteso e dell’incomprensione. Locke non deduce le sue qualità primarie delle cose, e non fornisce neppure alcuna ragione, per cui proprio queste e non altre siano puramente og­ gettive, se non quella che esse sono indistruttibili. Se ora noi ricerchiamo perché egli dichiari non sus­ sistenti oggettivamente le qualità delle cose, che operano nel modo più immediato l’impressione, giungendo di conseguenza proprio dal di fuori, e conceda al contrario ciò a quelle che (come dopo di allora è stato riconosciuto) sorgono dalle funzio-

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ni particolari del nostro intelletto, troviamo che la causa di tutto ciò sta nel fatto che la coscienza in­ tuente in modo oggettivo (cioè la coscienza di cose esterne) abbisogna necessariamente di un apparato complicato, di cui essa si presenta come funzione, e che per conseguenza le sue più essenziali e fonda­ mentali determinazioni sono già stabilite dall’inter­ no. Per tale ragione la forma generale, cioè la na­ tura e il modo dell’intuizione, onde soltanto può derivare quanto è conoscibile a priori, si presenta come la trama fondamentale del mondo intuito, e compare quindi come ciò che è assolutamente ne­ cessario, privo di eccezioni e in nessun modo elimi­ nabile, sussistendo anteriormente come condizione di tutto il resto e della sua molteplice disparità. Com’è noto, ciò è anzitutto tempo e spazio, e inol­ tre tutto quanto segue da essi ed è possibile solo attraverso di essi. In se stessi tempo e spazio sono vuoti, e se qualcosa vuole entrarvi, deve presentarsi come materia, in altre parole come un che di ope­ rante, dunque come causalità: la materia infatti è da cima a fondo pura causalità — il suo essere sta nel suo operare, e viceversa — e non è per l’appun­ to null’altro che la forma intellettuale della causa­ lità stessa, concepita oggettivamente. (Quadruplice radice d. pr. di ragione suff., 2’ ed., p. 77; e anche Mondo c. voi. e r., voi. t, p. 9 e voi. n, pp. 48 e 49; 3* ed., vol. I, p. 10 e voi. n, p. 52). Ne discende al­ lora che le qualità primarie di Locke sono sempli­ cemente quelle che non si possono estrarre dalle co­ se — il che dimostra per l’appunto abbastanza chia­ ramente la loro origine soggettiva, poiché esse sgor­ gano immediatamente dalla costituzione dell’appa­ rato stesso dell’intuizione — e che per conseguenza egli ritiene assolutamente oggettivo proprio ciò che, in quanto funzione cerebrale, è molto più sogget­ tivo ancora che non l’impressione sensibile, deter-

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minata direttamente dall’esterno, o quanto meno definita più da vicino. Per intanto è bello vedere come, attraverso tutte queste diverse concezioni e spiegazioni, il problema, sollevato da Cartesio, del rapporto tra l’ideale e il reale si sviluppi e si rischiari sempre più, mentre la verità ne rimane favorita. Ciò accadde indubbia­ mente con il favore delle circostanze di quel tempo, o per meglio dire della natura, che fece nascere in Europa e giungere alla maturità, nel breve volgere di due secoli, più di una mezza dozzina di cervelli realmente pensanti; al che si aggiunse ancora, come regalo del destino, il fatto che costoro, in mezzo a un mondo dedito soltanto all’utile e al piacere, e quindi di basso sentire, poterono seguire la loro no­ bile vocazione, senza curarsi dell’abbaiare dei preti e dei vaneggiamenti, oppure degli intenzionali ma­ neggi, dei professori di filosofia dell’epoca. Mentre poi Locke, secondo il suo rigido empiri­ smo, sostenne che anche il rapporto di causalità è da noi conosciuto soltanto attraverso l’esperienza, Hume non contestò, come sarebbe stato giusto, que­ sta falsa asserzione, ma oltrepassando immediata­ mente il segno negò la realtà stessa del rapporto di causalità, precisamente con l’osservazione, in se stes­ sa giusta, che l’esperienza, con la sua immediatezza sensibile, non può dare mai nulla più di una pura successione delle cose, e non un vero e proprio ri­ sultare e determinare, una connessione necessaria. È universalmente risaputo che questa obiezione scettica di Hume costituì lo stimolo per le ricerche molto più profonde di Kant sull’argomento, le qua­ li condussero quest’ultimo al risultato che la causa­ lità, assieme al tempo e allo spazio, è conosciuta da noi a priori, ci appartiene quindi anteriormente a ogni esperienza, e fa così parte del lato soggettivo della conoscenza; dal che inoltre segue, che tutte quelle qualità primarie, cioè assolute, delle cose,

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stabilite da Locke, poiché sono tutte quante costrui­ te da pure determinazioni del tempo, dello spazio e della causalità, non possono esser proprie delle cose in se stesse, ma ineriscono al nostro modo di conoscere le medesime, e di conseguenza non sono da annoverarsi nel reale, ma nell’ideale. La conclu­ sione ultima da tutto ciò è che noi sotto nessun punto di vista conosciamo le cose come sono in sé, ma le vediamo unicamente nella loro apparenza. Di conseguenza il reale, la cosa in se stessa, risulta del tutto un’incognita, una pura x, e tutto il mondo intuitivo va attribuito all’ideale, come una semplice rappresentazione, un fenomeno, al quale peraltro, proprio perché è tale, deve corrispondere in qual­ che modo un reale, una cosa in sé. Partendo da questo punto, io ho infine compiuto ancora un passo, e credo che sarà l’ultimo, poiché ho risolto il problema, attorno al quale si svolge da Cartesio in poi ogni filosofare, riconducendo ogni realtà e conoscenza ai due elementi della nostra autocoscienza, cioè a qualcosa oltre cui non può più darsi alcun principio esplicativo, essendo il più immediato e quindi il supremo. Io ho pensato pro­ priamente che, come risulta dalle indagini qui espo­ ste dei miei predecessori, l’assolutamente reale, cioè la cosa in se stessa, non può esserci data in nessun caso proprio dal di fuori, attraverso la pura rappre­ sentazione, poiché appartiene inevitabilmente al­ l’essenza di quest’ultima il fornire sempre soltanto l’ideale; e ho pensato per contro, dal momento che noi stessi siamo incontestabilmente reali, che la co­ noscenza del reale debba essere in qualche modo attinta dall’interno del nostro proprio essere. Que­ sto reale infatti si presenta qui alla coscienza in modo immediato, cioè come volontà. La linea di separazione tra il reale e l’ideale è quindi ormai da me tracciata in modo tale che tutto il mondo intui­ tivo, présentantes! oggettivamente, comprendente il

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corpo di ciascuno, assieme allo spazio, al tempo e alla causalità, e assieme anche all’estensione di Spi­ noza e alla materia di Locke, appartenga in quanto rappresentazione all’ideale, e come reale rimanga soltanto la volontà, che tutti quanti i miei prede­ cessori hanno gettato senza scrupoli e senza indagini nella sfera dell’ideale, come un semplice risultato della rappresentazione e del pensiero, e che anzi Cartesio e Spinoza hanno addirittura identificato con il giudizio.* In tale guisa anche per me l'etica è legata con la metafisica in modo del tutto imme­ diato e incomparabilmente più saldo che in alcun altro sistema: così il significato morale del mondo e dell’esistenza è posto più saldamente che non mai. Volontà e rappresentazione soltanto sono sostanzial­ mente differenti, in quanto costituiscono l’antitesi estrema e fondamentale in tutte le cose del mondo e non lasciano nulla all’infuori. La cosa rappresen­ tata e la sua rappresentazione hanno lo stesso si­ gnificato, ma sono anche soltanto la cosa rappresen­ tata, non la cosa in se stessa: quest’ultima è sempre volontà, sotto qualsiasi aspetto essa possa apparire nella rappresentazione.

• Spinoza, toc. cit.; Cartesio, Meditationes de prima philosophia, Med. iv, p. 28.

APPENDICE

I lettori che sono a conoscenza di quanto nel cor­ so di questo secolo è stato considerato come filosofia in Germania, potrebbero forse meravigliarsi di non veder citati, nel periodo che intercorre tra Kant e me, né l’idealismo di Fichte né il sistema dell’iden­ tità assoluta del reale e dell’ideale, che come tali pure sembrano ben appropriatamente entrare nel nostro tema. Io non li ho però potuti enumerare, poiché a mio avviso Fichte, Schelling ed Hegel non sono dei filosofi, mancando loro la prima condizio­ ne necessaria a questo scopo, cioè la serietà e l’one­ stà della ricerca. Essi sono dei semplici sofisti : han­ no voluto apparire, non essere, e hanno cercato non la verità, ma il loro proprio vantaggio e la riuscita nel mondo. Impieghi dai governi, onorari da stu­ denti e da editori, e come mezzo a questo scopo, quanto più chiasso e spettacolo possibile con la loro falsa filosofia : tali furono gli astri che guidarono e i geni che ispirarono questi scolari della sapienza. Di conseguenza essi non hanno superato il control­ lo di entrata e non possono quindi essere ammessi alla venerabile schiera dei pensatori per l’umanità. Essi si sono distinti peraltro in una cosa, cioè nel­ l’arte di abbindolare il pubblico e nel farsi valere per ciò che non erano; per giungere a tanto occorre indubbiamente del talento, non filosofico però. Che essi invece non abbiano potuto prodifrre nulla di solido nel campo della filosofia, è dipeso in estrema analisi dal fatto che il loro intelletto non si era liberato, ma era rimasto al servizio della volontà: in tal caso l’intelletto può invero conseguire dei ri­ sultati straordinari per la volontà e i suoi scopi, ma nulla per la filosofia e per l’arte. Queste infatti esi­ gono, proprio come condizione prima, che l’intel­ letto agisca unicamente di proprio impulso, e cessi

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di essere al servizio della volontà, cioè di tendere agli scopi della propria persona, durante il tempo di questa attività. L’intelletto stesso invece, se agisce soltanto di proprio impulso, non ha per sua natura alcun altro scopo se non la verità. Per essere un filo­ sofo, cioè un amante della sapienza (la quale non è altro se non la verità), non basta quindi amare la verità, in quanto questa sia conciliabile con il pro­ prio interesse, o con la volontà dei superiori, o con i comandamenti della Chiesa, o con i pregiudizi ed il gusto dei contemporanei: chi si appaga di tutto ciò, è soltanto un φίλαυτος, non un φιλόσοφος. Que­ sto titolo di onore infatti è bello e saggiamente tro­ vato proprio perché significa che si debba amare la verità seriamente e con tutto il cuore, cioè incondi­ zionatamente, senza riserve, sopra ogni cosa, anzi, in caso di necessità, contro ogni cosa. Il fondamento per altro di questa posizione è proprio quello ricor­ dato sopra, che cioè l’intelletto si è liberato, ed è giunto ad una situazione in cui non conosce né comprende nessun altro interesse se non quello del­ la verità: la conseguenza poi è il concepire tosto un odio insanabile contro ogni menzogna ed ogni in­ ganno, qualunque abito essi portino. In tal modo non si andrà davvero molto lontano nel mondo, ma si farà molta strada nella filosofia. Per contro è un cattivo auspicio per la filosofia quando, pretenden­ do di partire alla ricerca della verità, si comincia con il dire addio ad ogni sincerità, onestà e schiet­ tezza, e ci si preoccupa soltanto di farsi valere per quello che non si è. Si assume allora, proprio come quei tre sofisti, ora un falso pathos, ora un’alta e ar­ tificiosa serietà, ora l’atteggiamento di un’infinita superiorità, per imporsi quando si dispera di poter convincere; si scrive senza riflettere, poiché, pensan­ do soltanto allo scopo di scrivere, si era risparmiato il pensiero sino all’atto di scrivere: si cerca di far passare come dimostrazioni dei sofismi palpabili, di

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spacciare per profondi pensieri delle ciarle vuote e prive di senso; ci si richiama all’intuizione intellet­ tuale oppure al pensiero assoluto e all’automovimento dei concetti; si rifiuta espressamente il punto di vista della « riflessione », cioè della conoscenza razionale, della meditazione sincera e dell’esposizio­ ne onesta, si rifiuta cioè in generale l’autentico e normale uso della ragione, proclamando di conse­ guenza un disprezzo infinito nei riguardi della « fi­ losofia della riflessione », nome con cui viene indi­ cato ogni coerente corso di pensieri, che deduca gli effetti dalle cause, caratteristico di ogni filosofia pre­ cedente, e ci si esprime di conseguenza, quando si sia forniti di sufficiente impudenza, incoraggiata dalla minchioneria dell’epoca, all’incirca così su tut­ to ciò: « non è difficile scorgere, che la maniera di impostare una proposizione, di citare degli argo­ menti a suo favore, e di confutare allo stesso modo con degli argomenti la proposizione contraria, non è la forma in cui può presentarsi la verità. La ve­ rità è il movimento di quella in se stesso », eccetera. (Hegel, Prefazione alla Fenomenologia dello spiri­ to, p. Lvii; nella « Gesammtausgabe », p. 36). Io penso non sia difficile comprendere, che chi fa pre­ cedere alle sue opere cose del genere è un impuden­ te ciarlatano, che vuole abbagliare gli imbecilli e si accorge di aver trovato la gente che fa per lui nei tedeschi del diciannovesimo secolo. Quando dunque, pretendendo di correre verso il tempio della verità, si affidano le redini all’interesse della propria persona, interesse dai bassi fini e mi­ rante a ben diversi punti di riferimento, come al gusto e alle debolezze dei contemporanei, alla reli­ gione del paese, e soprattutto alle intenzioni ed ai cenni dei governanti, come si potrà allora raggiun­ gere quel tempio, posto su rupi alte, scoscese e nu­ de? Certo è possibile legare a sé, con il vincolo sicu­ ro dell’interesse, una schiera di scolari davvero di

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belle speranze, speranze cioè di protezione e di im­ pieghi, i quali costituiscono all’apparenza una con­ sorteria e in realtà una fazione, e dalle cui voci sten­ toree riunite viene gridato ormai ai quattro venti, come un programma inaudito: l’interesse della per­ sona è soddisfatto, quello della verità è tradito. Da tutto ciò si spiega la penosa impressione che ci coglie quando, dopo lo studio dei veri pensatori esaminati precedentemente, ci si rivolge agli scritti di Fichte e di Schelling, o addirittura alle assurdità di Hegel, scarabocchiate impudentemente, con una fiducia illimitata, ma giusta, nella niaiserie tedesca.* Presso quei primi si era ovunque trovata un’inda­ gine onesta della verità ed un altrettanto onesto sforzo di comunicare ad altri il proprio pensiero. Chi legge quindi Kant, Hume, Malebranche, Spi­ noza e Cartesio sente di elevarsi ed è penetrato di gioia: ciò è determinato dalla comunione con uno * La pseudofilosofia di Hegel è proprio quella macina nel capo dello scolaro, di cui ci parla il Faust. Quando si voglia a bella posta istupidire un giovane e renderlo del tutto incapace a ogni pensiero, non si potrà a questo scopo trovare alcun mezzo più efficace dello studio accu­ rato delle opere originali di Hegel: infatti questo mo­ struoso susseguirsi di parole che si annullano e si con­ traddicono — cosicché lo spirito si tormenta invano.per pensarvi qualcosa, sino a crollare alla fine estenuato — annienta in lui successivamente la capacità di pensare, in modo così completo, che d’ora innanzi egli conside­ rerà come pensieri delle vuote e vane fantasticherie. A ciò si aggiunga ancora la convinzione, confermata al gio­ vane dalle parole e dall’esempio di tutte le persone da lui rispettate, che quel profluvio di parole sia la vera e alta sapienza. Se per caso un tutore dovesse preoccuparsi che il suo pupillo non possa divenir tanto astuto da scor­ gere i suoi piani, un tal caso disgraziato potrebbe da lui essere prevenuto imponendo al giovane uno studio dili­ gente della filosofia hegeliana.

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spirito nobile, che ha pensieri e suscita pensieri, che pensa e fa pensare. Il contrario di tutto ciò si ve­ rifica nel leggere i sunnominati tre sofisti tedeschi. Un uomo imparziale, che apra un loro libro e si do­ mandi poi se questo sia il tono di un pensatore che voglia insegnare, oppure di un ciarlatano che vo­ glia ingannare, non può rimanere in dubbio in pro­ posito neppure per cinque minuti, tanto spira qui disonestà da tutto quanto. Il tono di serena inda­ gine, che aveva caratterizzato tutta la filosofia pre­ cedente, è sostituito dal tono, proprio della ciarlata­ neria di ogni specie e di ogni tempo, di un’incrol­ labile certezza, riposante in questo caso su di una pretesa intuizione immediata e intellettuale, oppu­ re su di un pensiero assoluto, cioè indipendente dal soggetto, e quindi anche dalla sua possibilità di er­ rore. Da ogni pagina, da ogni riga traspare la preoccupazione di abbindolare e di ingannare il lettore, e ora di sbalordirlo facendogli impressione, ora di assordarlo con frasi incomprensibili, anzi con vuote sciocchezze, ora di intontirlo con l’impudenza delle affermazioni, in breve la preoccupazione di gettargli polvere negli occhi e di mistificarlo per quanto è possibile. L’impressione che si prova nel campo dello spirito con la transizione di cui si sta parlando, può essere paragonata, nel campo prati­ co, all’impressione che uno può avere, giungendo da una società di uomini rispettabili e capitando in un rifugio di malviventi. Che degno uomo è pure quel Christian Wolf, così svalutato e deriso proprio da quei tre sofisti, se paragonato a loro! Egli con­ cepì e fornì dei pensieri reali : essi invece pure co­ struzioni di parole, frasi con l’intenzione d’ingan­ nare. Di conseguenza il vero carattere distintivo della filosofia di tutta quanta questa scuola, cosid­ detta postkantiana, è la disonestà, il suo elemento il darla a intendere, il suo fine l’interesse persona­ le. I suoi corifei si sono preoccupati di sembrare,

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non di essere·, essi sono quindi sofisti, non filosofi. Li attendono la derisione dei posteri, che si esten­ derà ai loro ammiratori, poi la dimenticanza. Alla citata tendenza di questa gente si aggiunga anche, detto tra parentesi, il tono di rimprovero e di di­ sputa che penetra ovunque, come un accompagna­ mento obbligato, gli scritti di Schelling. Se così non fosse, e costui si fosse posto al lavoro con one­ stà, anziché con il volersi imporre con le fanfaro­ nate, Schelling, che decisamente è il più dotato fra i tre, avrebbe potuto prendere nella filosofia il po­ sto subordinato di un eclettico, utile per il momen­ to, in quanto egli ha tratto dalle dottrine di Ploti­ no, di Spinoza, di Jacob Böhme, di Kant e della scienza naturale moderna un amalgama, che poteva per qualche tempo riempire il grande vuoto deter­ minato dai risultati negativi della filosofia kantia­ na, sino a che un giorno giungesse una vera filosofia nuova, tale da offrire davvero la soluzione soddisfa­ cente richiesta dalla dottrina kantiana. In partico­ lare egli ha utilizzato la scienza naturale del nostro secolo per rianimare l’astratto panteismo di Spino­ za. Questi infatti, senza alcuna conoscenza della na­ tura, aveva tranquillamente filosofato con semplici concetti astratti, e di conseguenza aveva innalzato il suo edificio dottrinale senza conoscere propria­ mente le cose come tali. L’aver rivestito questo sec­ co scheletro di carne e di colore, l’avergli dato alla meglio vita e movimento, applicandovi, per quanto spesso tendenziosamente, la scienza naturale accre­ sciutasi nel frattempo, tutto ciò insomma rappre­ senta l’innegabile merito di Schelling nella sua filo­ sofia della natura, che per l’appunto costituisce an­ che quanto vi ha di meglio tra i suoi molteplici ten­ tativi ed i suoi recenti slanci. Come i fanciulli giocano con le armi, destinate a scopi seri, o con altri strumenti degli adulti, così i tre sofisti presi in considerazione hanno fatto con

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l’oggetto, della cui trattazione sto riferendo, e han­ no offerto un comico contrasto alle faticose ricer­ che, protrattesi per due secoli, di sottili pensatori. Dopo che Kant ebbe spinto più che mai agli estre­ mi il grande problema del rapporto tra ciò che esi­ ste in sé e le nostre rappresentazioni, e l’ebbe in tal modo di molto avvicinato alla soluzione, si presentò Fichte, sostenendo che dietro alle rappresentazioni non vi è null’altro, e che queste sono soltanto dei prodotti del soggetto conoscente, dell’io. Tentando in tal modo di superare Kant, egli creò semplicemente una caricatura della sua filosofia, poiché con l’applicazione costante del metodo già lodato di quei tre pseudofilosofi abolì completamente il rea­ le, e non lasciò null’altro se non l’ideale. Venne allora Schelling, che nel suo sistema dell’assoluta identità tra reale e ideale proclamò come inesisten­ te quella contrapposizione, sostenendo che l’ideale è anche il reale, e riducendo dunque tutto all’unità; in tal modo egli si sforzò di confondere caotica­ mente e di mescolare nuovamente quanto era stato separato con fatica, attraverso un’assennata rifles­ sione sviluppatasi successivamente e gradualmente (Schelling, Vom Verhältnis der Naturphil. zur Fichte’schen, pp. 14-21). La distinzione tra ideale e reale è sfacciatamente negata, sulle tracce del­ l’errore, biasimato sopra, di Spinoza. Contempora­ neamente sono di nuovo riprese, esaltate con solen­ nità e chiamate in aiuto persino le monadi di Leibniz, questa mostruosa identificazione di due assurdità, cioè degli atomi e delle individualità in­ divisibili, conoscitive per origine e per essenza, chia­ mate anime (Schelling, Ideen z. Naturphil., 2“ ed., pp. 38 e 82). La filosofia della natura di Schelling prende il nome di filosofia dell’identità, poiché muo­ vendo sulle orme di Spinoza abolisce tre distinzioni che anche questi aveva abolito, cioè la distinzione tra Dio e mondo, quella tra corpo e anima, e infine

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quella tra ideale e reale nel mondo intuito. Quest’ultima distinzione però, come è stato mostrato sopra nel trattare Spinoza, non dipende per nulla dalle altre due; cosi poco ne dipende, che quanto più la si è posta in rilievo, tanto più quelle altre due sono state messe in dubbio, poiché le due pri­ me distinzioni sono fondate su dimostrazioni dog­ matiche (abbattute da Kant), mentre l’ultima si basa su di un atto semplice della riflessione. Con­ formemente a tutto ciò, anche la metafisica fu da Schelling identificata con la fisica, e di conseguenza ad una diatriba semplicemente fisico-chimica fu po­ sto il tronfio titolo « Sull’anima del mondo ». Tutti i veri problemi metafisici, che si affacciano instan­ cabilmente alla coscienza umana, furono sentenzio­ samente posti a tacere, con uno sfacciato rifiuto. Secondo questa prospettiva la natura è proprio per­ ché è, da se stessa e per se stessa; noi le attribuiamo la qualifica di Dio, essa è soddisfatta e chi desidera di più è un pazzo; la distinzione tra soggettivo e oggettivo è una pura pedanteria, e così pure tutta quanta la filosofia kantiana, la cui distinzione tra* a priori ed a posteriori è insignificante; la nostra intuizione empirica ci dà le vere e proprie cose in sé, eccetera. Si veda Ueber das Verhältnis der Na­ turphilosophie zur Fichte’schen, pp. 51 e 67, e an­ che a p. 61, dove vengono espressamente derisi colo­ ro « che veramente si meravigliano del fatto che non è vero non esista nulla, e non si stancano mai di stupirsi che realmente qualcosa esista ». Così dunque sembra al signor Schelling che tutto possa comprendersi facilmente. In fondo però, un discor­ so di questo genere non è altro che un appello, co­ perto da distinte perifrasi, al cosiddetto buon senso, cioè a una visione rozza. Del resto ricordo poi quan­ to ho detto nel secondo volume della mia opera principale, cap. 17, proprio all’inizio. Significativo per il nostro argomento, e del tutto ingenuo, è an-

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cora il passo a p. 69 del libro citato di Schelling: « Se l’empirismo avesse raggiunto pienamente il suo scopo, sparirebbe allora il suo contrasto con la filo­ sofia, e si annullerebbe, assieme a questo contrasto, la filosofia stessa, come sfera particolare o atteggia­ mento della scienza; tutte le astrazioni si risolve­ rebbero nell’immediata “ amichevole ” intuizione; ciò che vi è di più alto sarebbe un gioco del diletto e della semplicità, ciò che vi è di più difficile, faci­ le, quanto vi è di più immateriale, sensibile, e l’uo­ mo potrebbe, giocondo e libero, leggere nel libro della natura ». Ciò sarebbe indubbiamente la cosa migliore! Ma la nostra situazione non è questa: non si può a questo modo mettere il pensiero alla porta. L’austera e antica sfinge, con il suo enigma, è irre­ movibile, e non si può rovesciarla proclamandola uno spettro. Proprio per questo motivo, quando più tardi lo stesso Schelling notò che i problemi meta­ fisici non possono eliminarsi con affermazioni cate­ goriche, egli fece un vero e proprio tentativo meta­ fisico, nella sua trattazione sulla libertà, che tutta­ via rimane semplicemente un pezzo fantastico, un conte bleu; in tal caso quindi l’esposizione, ogni volta che assume un tono dimostrativo (per esem­ pio alle pp. 453 sgg.), ha un effetto decisamente co­ mico. Con la sua dottrina dell’identità tra il reale e l’ideale, Schelling aveva dunque tentato di risolvere il problema che, dopo la sua impostazione da parte di Cartesio, era stato trattato da tutti i grandi pen­ satori e infine era stato condotto alle sue estreme conseguenze da Kant, e il suo tentativo era consi­ stito nel tagliare il nodo, negando l’antitesi tra i due elementi. In tal modo egli entrò proprio in di­ retto contrasto con Kant, dal quale pretendeva di prendere le mosse. Nel contempo egli aveva quan­ to meno mantenuto l’originario e autentico signifi­ cato del problema, che riguarda il rapporto tra la

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nostra intuizione da un lato e l’essere e la natura, in sé, delle cose che in quell’intuizione si presenta­ no: senonché, attingendo la sua dottrina principal­ mente da Spinoza, egli assunse tosto da costui le espressioni pensare ed essere, che designando molto male il problema in questione, diedero più tardi lo spunto alle più assurde mostruosità. Con la sua teo­ ria che « substantia cogitans et substantia extensa una eademque est substantia, quae jam sub hoc jam sub ilio attributo comprehenditur » (n parte, 7, scolio); oppure che « scilicet mens et corpus una eademque est res, quae jam sub cogitationis, jam sub extensionis attributo concipitur » (in parte, 2, scolio), Spinoza aveva anzitutto voluto abolire l’an­ titesi cartesiana tra corpo e anima: egli può anche aver compreso che l’oggetto empirico non è diffe­ rente dalla nostra rappresentazione del medesimo. Schelling accolse da lui le espressioni pensare ed es­ sere, che sostituì gradualmente a quelle di intuire, o piuttosto di oggetto intuito, e di cosa in sé. (« Neue Zeitschrift für spekul. Physik », vol. i, par­ te i: Fernere Darstellungen eccetera). Ora il gran· de problema, la cui storia sto qui delineando, è costituito dal rapporto della nostra intuizione del­ le cose con la loro esistenza ed essenza in sé, e non già dal rapporto dei nostri pensieri, cioè concetti; questi infatti sono, in modo del tutto manifesto e innegabile, delle pure astrazioni da quanto è cono­ sciuto intuitivamente, nate da un’arbitraria elimi­ nazione, o l’abbandono di alcune proprietà, e dal mantenimento di altre — cosa di cui nessun uomo assennato penserà di dubitare.* Questi concetti e pensieri, che costituiscono la classe delle rappresen­ tazioni non intuitive, non hanno quindi mai un rapporto immediato con l’essenza e l’esistenza in sé * Sulla quadruplice radice del principio di ragione, 2* ed., § 26.

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delle cose, bensì in ogni caso soltanto un rapporto mediato, per il tramite dell’intuizione: questa è ciò che da un lato fornisce loro la materia, e dal­ l’altro sta in relazione con le cose in sé, cioè con la sconosciuta e più intima essenza delle cose, oggettivantesi nell’intuizione. La terminologia imprecisa, attinta da Schelling a Spinoza, diede più tardi lo spunto al ciarlatano Hegel, privo di spirito e di gusto, e che sotto que­ sto punto di vista si presenta come il pagliaccio di Schelling, per confondere talmente le cose, da iden­ tificare il pensiero stesso, e in senso proprio, cioè i concetti, con l’essenza in sé delle cose: cosicché il pensato in abstracto, in quanto tale e in modo im­ mediato, dovrebbe essere una cosa sola con ciò che sussiste oggettivamente in se stesso, e di conseguen­ za anche la logica dovrebbe allora essere al tempo stesso la vera metafisica. In tal modo, non avremmo che da pensare, o da lasciar dominare i concetti, per sapere com’è costituito assolutamente il mondo esterno. Quindi tutto ciò che a uno salta in mente sarebbe senz’altro vero e reale. Dal momento inol­ tre che la divisa dei filosofastri di questo periodo era: « tanto più si è pazzi, tanto meglio è», così questa assurdità fu appoggiata da una seconda, che cioè non saremmo noi a pensare, bensì i concetti da sé soli e senza la nostra opera compirebbero il pro­ cesso razionale; ciò fu dunque chiamato l’automovimento dialettico del concetto, e si propose di es­ sere una rivelazione di tutte le cose in et extra natu­ rane. Alla base di questa panzana ne stava veramen­ te ancora un’altra, che del pari era dovuta al cat­ tivo uso delle parole, e non fu mai chiaramente espressa, rimanendo tuttavia indubbiamente dietro alle quinte. Schelling, dietro l’esempio di Spinoza, aveva chiamato il mondo Dio. Hegel prese la cosa alla lettera. Poiché dunque la parola significava per la verità un essere personale, che tra le altre pro-

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prietà assolutamente incompatibili con il mondo ha anche quella dell’onniscienza, così pure quest’ultima fu da lui attribuita al mondo, in cui natu­ ralmente essa non poteva ottenere alcun posto, se non sotto l’inetta e goffa fronte dell’uomo; in tal modo costui non ha che da lasciare libero corso ai suoi pensieri (automovimento dialettico) per rive­ lare tutti i misteri del cielo e della terra, e questo nell’assoluta confusione della dialettica hegeliana. Una sola arte ha realmente avuto questo Hegel, cioè quella di menare per il naso i tedeschi. Non è però questa una grande arte. Possiamo anzi vedere con quali buffonerie egli è stato in grado di tenere in rispetto per trent’anni il mondo erudito tedesco. Che i professori di filosofìa prendano ancor sem­ pre sul serio questi tre sofisti e si diano arie di con­ cedere loro un posto nella storia della filosofia, si spiega proprio soltanto perché tutto ciò appartiene al loro gagne-pain, e perché in tal modo essi si pro­ curano del materiale per dettagliate esposizioni, orali e scritte, sulla storia della cosiddetta filosofia postkantiana, in cui le opinioni di questi sofisti son8 esposte diffusamente e seriamente soppesate. Per contro, a essere saggi, non ci si dovrebbe preoccu­ pare di quanto questa gente ha messo sul mercato, per apparire qualcosa; a meno che le scribacchiature di Hegel si volessero dichiarare medicinali, e si volesse farne provvista nelle farmacie, come vo­ mitivo agente psichicamente, dal momento che la nausea da esse provocata è davvero assolutamente specifica. Ma basta su costoro e sul loro capo, la cui venerazione vogliamo lasciare all’« Accademia Da­ nese delle Scienze », che in lui ha riconosciuto, a modo suo, un summus philosophas, e nei suoi con­ fronti esige quindi del rispetto, a quanto si afferma nel giudizio che ho fatto ristampare, perché ne ri­ manga duratura memoria, in calce al mio scritto, composto in occasione di un concorso accademico,

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sul fondamento della morale, giudizio che meritava di esser sottratto all’oblio tanto per la sua acutezza che per la sua notevole onestà, e infine anche per­ ché fornisce una luculenta conferma al bellissimo motto di Labruyère: « du même fonds, dont on néglige un homme de mérite, l'on sait encore admi­ rer un sot ».4

FRAMMENTI SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA

1. Sulla storia della filosofia

Leggere in luogo delle opere originali dei filosofi ogni sorta di esposizione delle loro dottrine, o in genere una storia della filosofia, è come farsi masti­ care da un altro il proprio desinare. Si leggerebbe forse una storia universale, se a ognuno fosse possi­ bile contemplare con i propri occhi gli avvenimen­ ti del passato che lo interessano? Riguardo alla sto­ ria della filosofia invece, una tale « autopsia » del suo oggetto è realmente attuabile, attraverso gli scritti autentici dei filosofi, e nel far ciò ci si può sempre limitare, per brevità, a capitoli fondamen­ tali e ben scelti, tanto più poi, in quanto tutti i fi­ losofi abbondano di ripetizioni, che ci si può ben risparmiare. In tal modo dunque s’imparerà a co­ noscere l’essenziale delle loro dottrine, autentica­ mente e senza falsificazioni, mentre dalle storie del­ la filosofia, pubblicate ora annualmente a mezze dozzine, si riceve soltanto ciò che di quelle dottri­ ne è entrato nel capo di un professore di filosofia, e per di più nella forma in cui quivi vuol mostrar­ si; dal che si comprende con facilità quanto note­ volmente debbano restringersi i pensieri di un grande spirito, per poter trovare posto nel cervello di tre libbre di un tale parassita della filosofia, on­ de dovranno nuovamente uscir fuori, ogni volta ri­ vestiti del gergo del momento e accompagnati dal­ la sua saccente valutazione. Inoltre si può calcolare che un tale storico della filosofia, intento com’è al guadagno, diffìcilmente può aver letto anche soltan­ to la decima parte degli scritti da lui citati: il loro studio reale necessita di tutta una lunga e laborio­ sa vita, quale già vi ha dedicato, in tempi antichi e scrupolosi, il valente Brucker. Come può invece

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aver indagato in profondità questa gentaccia, che impegnata da continue lezioni, affari d’ufficio, viag­ gi nelle vacanze e distrazioni, si presenta per lo più già negli anni giovanili con delle storie della filo­ sofìa? Oltre a ciò essi vogliono anche essere pram­ matici, approfondire e provare la necessità del sor­ gere e del susseguirsi dei sistemi, e persino voglio­ no giudicare, correggere, e far da maestri con quegli austeri e autentici filosofi dei tempi passati. E tutto questo si verifica in quanto essi trascrivono le opere dei più anziani, e si trascrivono tra di loro, per poi confondere sempre più le cose, allo scopo di occul­ tare il plagio, sforzandosi di dare ai problemi il co­ lorito di moda nel corrente quinquennio, come pure fornendo dei giudizi nello stesso spirito. Mol­ to opportuna al contrario sarebbe una raccolta, fat­ ta in comune e con coscienza da eruditi onesti e intelligenti, dei passi importanti e dei capitoli es­ senziali di tutti i principali filosofi, riuniti secondo un ordine cronologico-prammatico, pressappoco se­ condo quanto hanno fatto con la filosofia dell’anti­ chità dapprima Gedicke, e poi Ritter e Preller, ma occorrerebbe compiere una raccolta molto più dif­ fusa. Si tratterebbe dunque di una grande e gene­ rale crestomazia, portata a termine con cura e con cognizione di causa. I frammenti, che ora faccio seguire, non sono quanto meno ispirati a una tradizione, cioè copia­ ti; sono piuttosto pensieri, determinati dal mio proprio studio delle opere originali.

2. Filosofia presocratica

I filosofi eleati sono senz’altro i primi divenuti coscienti del contrasto tra intuito e pensato, tra φαινόμενα e νοούμενα. Il secondo termine soltanto co-

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stituiva per loro ciò che è veracemente, Γδντως öv. Al riguardo essi sostennero inoltre, che esso è uno, immutabile e immoto; la cosa non sta invece così per i φαινόμενα, cioè per quanto è intuito, apparen­ te, empiricamente dato, per cui sarebbe stato addi­ rittura ridicolo sostenere qualcosa di simile; onde a suo tempo l’affermazione così fraintesa fu confu­ tata nella maniera ben nota da Diogene. Essi pose­ ro dunque già la vera e propria distinzione tra ap­ parenza, φαινόμενον, e cosa in sé, όντως ον. Quest’ultima non poteva essere intuita dai sensi, ma sol­ tanto esser còlta dal pensiero, ed era di conseguen­ za νοούμενον. (Arist., Metaph., i, 5, p. 986 e Scholia, ed. Berol., pp. 429, 430 e 509). Negli scòli ad Ari­ stotele (pp. 460, 536, 544 e 798) è citato lo scritto parmenideo τα κάτα δόξαν, che avrebbe quindi con­ tenuto la dottrina dell’apparenza, la fisica: ad esso quindi avrà senza dubbio fatto riscontro un’altra opera, τά κατ’άλήθειαν, la dottrina della cosa in sé, cioè la metafisica. Di Melisso uno scolio di Filopono dice addirittura: έν τοϊς πρός Αλήθειαν êv είναι λέγων τό ον, έν τοϊς προς δόξαν δύο (avrebbe dovuto dire πολλά) φησίν είναι.5 L’antitesi degli Eleati vero­ similmente anche provocata da loro, è Eraclito, che insegnò l’incessante movimento di tutte le cose, mentre quelli avevano sostenuto l’assoluta stasi: egli si arrestò quindi al φαινόμενον. (Arist., De coelo, ni, 1, p. 298, ed. Berol.). In tal modo egli suscitò a sua volta, come propria antitesi, la teoria delle idee di Platone, a quanto risulta dall’esposizione di Ari­ stotele (Metaph., p. 1078). È degno di nota il fatto che le principali dottri­ ne conservatesi dei filosofi presocratici, dottrine fa­ cilmente enumerabili, si trovino ripetute infinite volte negli scritti degli antichi, mentre poi oltre a questo abbiamo assai poco: così per quel che ri­ guarda ad esempio le dottrine di Anassagora sul νους e le όμοιομερίαι, — quelle di Empedocle su φιλία

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καί νεϊκος e i quattro elementi, — quelle di Demo­ crito e di Leucippo sugli atomi e gli είδωλα, — quel­ la di Eraclito sul costante flusso delle cose, — quelle dei Pitagorici sui numeri, la metempsicosi, eccetera. Tuttavia può darsi senz’altro, che a ciò assommasse tutta quanta la loro filosofia: anche nelle opere dei moderni, ad esempio di Cartesio, Spinoza, Leibniz e persino di Kant, noi troviamo infatti i pochi prin­ cìpi fondamentali delle loro filosofie ripetuti infi­ nite volte, cosicché tutti quanti questi filosofi sem­ brano aver adottato il motto di Empedocle, il quale dev’esser già stato un amante delle ripetizioni, δίς καί τρις το καλόν (cfr. Sturz, Empedocl. Agrigent., p. 504).6 Le due dottrine ricordate di Anassagora sono del resto collegate con precisione. Πάντα έν πάσιν7 è in­ fatti la sua simbolica designazione della teoria delle omeomerie. Nella caotica massa originaria stavano secondo lui nascoste, pur sussistendovi in modo compiuto, le partes similares (in senso fisiologico) di tutte le cose. Per separarle, e per costituire, ordi­ nare e formare delle cose specificamente differenti (partes dissimiles), fu necessario un νους, che sceve­ rando le parti costitutive ordinasse la confusione, poiché il caos conteneva la più completa mescolan­ za di tutte le sostanze (Scholia in Arist., p. 337). Tuttavia il νους non ha condotto pienamente a ter­ mine questa prima separazione, e in ogni cosa si possono quindi ancor sempre ritrovare le parti co­ stitutive di tutte le altre, anche se ciò avviene in una misura più ridotta: πάλιν γάρ παν έν παντί μέμικται (ibid.).s Empedocle per contro, in luogo di infinite omeo­ merie, ammise soltanto quattro elementi, onde le cose dovevano sorgere non in quanto sceverate, co­ me in Anassagora, ma in quanto prodotte. La fun­ zione di negare e di separare, la funzione quindi ordinatrice del νους è rappresentata presso di lui da

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φιλία καί νεϊκος, dall’ainore e dall’odio. Questo du­ plice principio è davvero molto più giudizioso. Egli affida cioè l’ordinamento delle cose non ά\Υintellet­ to (νους), ma alla volontà (φιλία καί νεϊκος), e le va­ rie sostanze non sono, come per Anassagora, sem­ plicemente sceverate, ma realmente prodotte. Men­ tre Anassagora le aveva fatte costituire da un intel­ letto separatore, Empedocle invece le fa portare a compimento da un cieco impulso. Empedocle insomma è un uomo completo, e alla base del suo duplice principio di φιλία καί νεϊκος sta un profondo e vero aperçu. Già nella natura inorganica vediamo gli elementi cercarsi e fuggirsi vicendevolmente, congiungersi o separarsi, secondo le leggi dell’affinità elettiva. Quelli, però, che mo­ strano una fortissima tendenza a combinarsi chimi­ camente — tendenza tuttavia che può essere soddi­ sfatta soltanto nello stato di fluidità — si pongono nel più deciso contrasto elettrico, quando vengono a contatto reciproco in stato di solidità: in tale si­ tuazione si staccano ostilmente in opposte polarità, per ricercarsi tosto nuovamente e abbracciarsi. Che cos’altro in genere è il contrasto polare, che si pre­ senta costantemente sotto le forme più differenti in tutta la natura, se non una biforcazione di con­ tinuo rinnovata, cui segue la riconciliazione, passio­ nalmente desiderata? φιλία καί νεϊκος sono quindi davvero ovunque presenti, e soltanto a secondo del­ le circostanze si manifesta ora l’uno, ora l’altro dei due elementi. Di conseguenza anche noi stessi pos­ siamo istantaneamente diventare amici o nemici di qualsiasi uomo che ci si avvicini: la disposizione a entrambi i sentimenti sussiste, e non attende che le circostanze. Soltanto la prudenza ci dice di rimaner fermi al punto d’indifferenza, per quanto questo sia al tempo stesso il punto di congelamento. Così pure il cane sconosciuto, cui ci avviciniamo, è istan­ taneamente pronto a manovrare il regolatore del­

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l’amore, oppure quello dell’odio, e dall’abbaiare e dal ringhiare passa facilmente allo scodinzolare, o viceversa. Alla base di questo fenomeno generale di φιλία και νεϊκος in conclusione sta certamente il grande contrasto primordiale tra l’unità di tutti gli esseri, secondo la loro natura in sé, e la loro com­ pleta differenziazione nell’apparenza, che ha come forma il principium individuationis. Inoltre Empe­ docle ha riconosciuto come falsa la teoria atomisti­ ca, già a lui nota, e ha insegnato per contro l’infi­ nita divisibilità dei corpi, come ci riferisce Lucre­ zio, libro I, vv. 747 sgg. Tra le dottrine di Empedocle però, prima di ogni altra cosa, è degno di attenzione il suo deciso pessi­ mismo. Egli ha pienamente riconosciuto la miseria della nostra esistenza, e il mondo è per lui, così co­ me per i veri cristiani, una valle di lacrime, ’Άτης λειμών.9 Già lui, come più tardi Platone, lo parago­ na a un’oscura caverna, ove noi saremmo rinchiusi. Nella nostra esistenza terrena egli vede uno stato di esilio e di sventura, e il corpo è il carcere dell’ani­ ma. Queste anime si sono un tempo trovate in una situazione infinitamente felice e per propria colpa e peccato sono cadute nell’attuale rovina, in cui esse vanno implicandosi sempre più con una condotta peccaminosa, incorrendo nel cerchio della metem­ psicosi, mentre con la virtù e con la purezza dei costumi, cui appartiene anche l’astensione dalle carni degli animali, e con la rinunzia ai piaceri e ai desideri terreni, esse possono ritornare nuova­ mente alla situazione primigenia. Così anche que­ sto antichissimo greco ha raggiunto quella stessa sa­ pienza primordiale, che costituisce il nucleo di pen­ siero del brahmanesimo e del buddhismo, anzi, an­ che del vero cristianesimo (da non confondersi con l’ottimistico razionalismo giudaico-protestante); in tal modo il consensus gentium al riguardo è com­ pleto. Che Empedocle, considerato generalmente

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dagli antichi come un pitagorico, abbia ricevuto quest’opinione da Pitagora, è verosimile, tanto più che in fondo ne partecipa anche Platone, il quale del pari sta ancora sotto l’influsso di Pitagora. Em­ pedocle aderisce nel modo più deciso alla teoria della metempsicosi, che è connessa a questa visione del mondo. I passi degli antichi che, accanto ai suoi versi originali, testimoniano quella concezione della vita di Empedocle, possono trovarsi, raccolti con grande diligenza, in: Sturz, Empedocles Agrigentinus, pp. 448-458. L’opinione che il corpo sia un carcere, e la vita uno stato di sofferenza e di purifi­ cazione, onde ci redime la morte, se sappiamo libe­ rarci dalla trasmigrazione delle anime, è condivisa dagli egiziani e dai Pitagorici, da Empedocle, oltre­ ché dagli induisti e dai buddhisti. Tutto ciò è con­ tenuto anche nel cristianesimo, eccezion fatta per la metempsicosi. Questa opinione degli antichi è testimoniata da Diodoro Siculo e da Cicerone. (Cfr. Wernsdorf, De metempsychosi Veterum, p. 31 e Cic., Fragmenta, p. 299 [somm. Scip.] pp. 316, 319, ed. Bip.). Cicerone non riferisce, in questi passi, a* «piale scuola filosofica appartengano siffatte opinio­ ni; sembra tuttavia trattarsi di residui della sapien­ za pitagorica. Anche nelle altre dottrine di questi filosofi preso­ cratici si possono scoprire molte verità, di cui vo­ glio fornire alcuni esempi. Secondo la cosmogonia di Kant e di Laplace, la quale ha avuto un’effettiva conferma a posteriori dalle osservazioni di Herschel — conferma la cui saldezza Lord Rosse, con il suo gigantesco specchio, si sforza ora di scuotere, a consolazione del clero inglese — i sistemi planetari si formano, attraverso la condensazione, da nebulose lentamente coagulantisi, e poi ruotanti e luminose: ha dunque nuo­ vamente ragione, dopo millenni, Anassimene, che proclamò come sostrato materiale di tutte le cose

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l’aria e il vapore (Schol. in Arist., p. 514). Inoltre, anche Empedocle e Democrito trovano una con­ ferma, avendo già spiegato, proprio come Laplace, l’origine e la conservazione del mondo da un vor­ tice, una δίνη (Arist., Opera, ed. BeroL, p. 295, e Scholia, p. 351). Ciò fu criticato come un’empietà già da Aristofane, allo stesso modo che al giorno d’oggi la teoria di Laplace viene attaccata dai preti inglesi, i quali sono contrariati da ciò, come di fronte a ogni verità che si fa luce, temendo in estre­ ma analisi per le loro prebende. Anzi, persino la nostra stechiometria chimica si riconduce in certo modo alla filosofia pitagorica dei numeri: τα γάρ πάθη καί αί έξεις των αριθμών τών εν τοϊς ούσι παθών τε καί έξεων αίτια, οίον τό διπλάσιαν, τό έπίτριτον, καί ήμιόλιον (Schol. in Arist., pp. 543 e 829).10 Che il si­ stema copernicano fosse stato anticipato dai Pita­ gorici è cosa risaputa; anzi, risaputa dallo stesso Co­ pernico; che ha proprio attinto il suo pensiero fon­ damentale dal noto passo su Iceta in Cicerone, Quaestiones acad. (n, 39), e da quello di Filolao in Plutarco, De placitis philosophorum (libro in, cap. 13) (secondo Mac Laurin, Newton, p. 45). Questa antica e importante conoscenza fu più tardi riget­ tata da Aristotele, per essere sostituita dalle sue fandonie, di cui parleremo oltre, al § 5. (Cfr. Il mon­ do come volontà e rappresentazione, n, p. 342 del­ la 2’ ed.; n, p. 390 della 3* ed.). E le stesse scoperte di Fourier e di Cordier sul calore all’interno della terra sono conformi alle dottrine di quei filosofi: έλεγον δέ Πυθαγόρειοι πϋρ είναι δημιουργικόν περί τό μέσον καί κέντρον τής γής, τό άναθαλποΰν τήν γην καί ζωοποιούν (Schol. in Arist., p. 504).11 E se al gior­ no d’oggi, proprio in conseguenza di quelle sco­ perte, la crosta terrestre viene considerata come uno strato sottile tra due mezzi (atmosfera da un lato, e dall’altro metalli caldi e fluidi e metalloidi), il cui contatto deve provocare un incendio, tale da

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annientare quella crosta stessa, ciò conferma l’opi­ nione che il mondo alla fine sarà divorato dal fuo­ co. opinione su cui concordano tutti i filosofi anti­ chi, e che fu condivisa dagli indiani (Lettres édi­ fiantes, 1819, vol. 7, p. 114). Merita ancora di essere notato che, a quanto risulta da Aristotele (Metaph., I, 5, p. 986), i Pitagorici avevano inteso con il nome di δέκα άρχαί proprio il Yn e Yang dei cinesi. Che la metafisica della musica, quale ho esposto nella mia opera principale (voi. i, § 52 e voi. n, cap. 39), possa esser vista come un’interpretazione della filosofia pitagorica dei numeri, ho già accen­ nato brevemente in quella circostanza, e voglio qui spiegare ancora un po’ più da vicino. Nel far que­ sto peri) presuppongo che i passi citati allora siano presenti al lettore. Secondo quanto ho detto, dun­ que, la melodia esprime tutti i movimenti della vo­ lontà, quale si manifesta nell’autocoscienza umana, cioè tutti gli affetti, sentimenti, eccetera, mentre ['armonia indica i gradi dell’oggettivazione della volontà nel resto della natura. In questo senso, la musica è una seconda realtà, che corre del tutto pa­ rallela alla prima, ma per il resto è di tutt’altra na­ tura e costituzione, mostrando con quella una com­ pleta analogia, e tuttavia nessuna somiglianza. Inol­ tre la musica, in quanto tale, sussiste soltanto nei nostri nervi uditivi e nel nostro cervello, ed este­ riormente o in sé (inteso ciò in senso lockiano), essa consiste di puri rapporti numerici: cioè anzitutto, per quel che riguarda la sua quantità, rispetto alla battuta, e in seguito, per quel che riguarda la sua qualità, rispetto alle note della scala musicale, che sono basate sui rapporti aritmetici delle vibrazioni; o, in altre parole, tanto nel suo elemento ritmico quanto in quello armonico. Secondo ciò dunque tutta l’essenza del mondo, sia come microcosmo che come macrocosmo, si può indubbiamente esprimere con puri rapporti numerici, e di conseguenza si può

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in certo modo ricondurre a questi stessi rapporti: in questo senso avrebbe allora ragione Pitagora di porre nei numeri la vera e propria essenza delle co­ se. Ma cosa sono dunque i numeri? Dei rapporti di successione, la cui possibilità dipende dal tempo. Se si legge quello che sulla filosofia pitagorica dei numeri è detto negli scòli ad Aristotele (p. 829, ed. Berol.), si può giungere alla supposizione che l’uso così strano, misterioso, e confinante quasi con l’as­ surdo, della parola λόγος all’inizio del Vangelo at­ tribuito a Giovanni, come pure le precedenti ana­ logie in Filone, derivino dalla filosofia pitagorica dei numeri, cioè dall’uso della parola λόγος in un senso aritmetico, come rapporto numerico, ratio nu­ merica. Un tale rapporto infatti, secondo i Pitago­ rici, costituisce la più intima e indistruttibile essen­ za di ogni essere, cioè il suo primo e originario principio, la sua άρχή; sarebbe allora giustificato dire di ogni cosa: έν άρχή ήν ό λόγος. Si noti al ri­ guardo, che Aristotele dice (De anima, 1, 1): τά πάθη λόγοι ϊνυλοί εϊσι, e subito dopo: ό μέν γάρ λόγος είδος τοΰ πράγματος.12 In tal modo vien fatto di ri­ cordare anche il λόγος σπερματικός degli Stoici, su cui tosto ritornerò. Secondo la biografia scritta da Giamblico su Pi­ tagora, costui avrebbe ricevuto la sua educazione soprattutto in Egitto, dove soggiornò dai 22 ai 56 anni di età, e precisamente dai sacerdoti egiziani. Ritornato a 56 anni, egli ebbe per la verità l’in­ tenzione di fondare una specie di Stato sacerdotale, imitazione delle gerarchie religiose degli egiziani, per quanto con le modifiche necessarie per i greci, e la cosa, se non gli riuscì nella patria Samo, fu rea­ lizzata tuttavia in una certa misura a Crotone. Dal momento poi che la cultura e la religione egiziane derivarono indubbiamente dall’india, come lo di­ mostra la santità della vacca (Herod., n, 41), accan­ to a cento altri indizi, viene così a spiegarsi il pre-

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«etto di Pitagora sull’astensione dalla carne di ani­ mali, e specialmente la proibizione di macellare manzi (Jaml., Vit. Pyth., cap. 28, § 150), come pu­ re i riguardi prescritti nei confronti di tutti gli ani­ mali, la sua dottrina della metempsicosi, i suoi abi­ ti bianchi, la sua eterna mania di segretezza, che determinò i detti simbolici e si estese persino ai teo­ remi matematici, e ancora la fondazione di una spe­ cie di casta sacerdotale, con una disciplina stretta e un complesso cerimoniale, le preghiere al sole (cap. 35, § 256), e molte altre cose. Egli derivò dagli egi­ ziani anche i suoi più importanti13 concetti astrono­ mici. La priorità della dottrina sull’obliquità del­ l’eclittica gli fu quindi contestata da Enopide, che era stato con lui in Egitto. (Si veda al riguardo la ( hiusa del capitolo 24 del primo libro delle Ecloghe di Stobeo, con la nota di Heeren da Diodoro). In generale poi, quando si esaminano i concetti astro­ nomici elementari, raccolti da Stobeo (soprattutto libro I, capp. 25 sgg.), di tutti quanti i filosofi greci, si trova che essi hanno continuamente messo in cir­ colazione delle assurdità, con l’unica eccezione dei Pitagorici, i quali di regola hanno visto perfetta­ mente giusto. Indubitabile è il fatto che tutto ciò non fu scoperto con mezzi propri, ma derivò dal­ l’Egitto. La nota proibizione pitagorica delle fave inoltre ha la sua origine soltanto in Egitto, ma rap­ presenta peraltro semplicemente una superstizione importata di laggiù, poiché Erodoto (n, 37) riferi­ sce che in Egitto le fave sono considerate impure, e detestate, cosicché i sacerdoti non ne possono nep­ pure sopportare la vista. Che del resto la dottrina di Pitagora fosse un de­ ciso panteismo, è testimoniato, efficacemente e con brevità, da una sentenza pitagorica, conservataci da Clemente Alessandrino nella Cohortatio ad gentes, sentenza il cui dialetto dorico fa pensare all’auten­ ticità; essa suona: ούκ άποκρυπτέον ούδέ τούς άμφί τον

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Πυθαγόραν, ο'ί φασιν- ó μέν θεός εϊς· χ’ ούτος δέ ούχ, ως τινες ύπονοοϋσιν, έκτος τάς διακοσμήσιος, άλλ’ έν αύτρί, όλος έν δλφ τω κύκλψ, έπίσκοπος πάσας γενέσιος, κράσις των δλων· άεί ών, καί. έργάτας τών αύτοΰ δυνάμεων καί έργων άπάντων έν ούρανώ φωστήρ, καί πάντων πατήρ, νους καί ψύχωσις τφ δλφ κύκλφ, πάντων κίνασις.14 (Cfr. Clem. Alex., Opera, tomo i, p. 118 in Sanctorum Patrum oper. polem., voi. iv, Wirceburgi, 1778). È dunque bene convincersi in ogni occasione che il vero teismo e il giudaismo sono concetti equivalenti. Secondo Apuleio, Pitagora sarebbe addirittura giunto sino in India, e sarebbe stato ammaestrato dagli stessi brahmani. (Cfr. Apuleio, Florida, p. 130, ed. Bip.). Di conseguenza io credo che la filosofia e la conoscenza di Pitagora, certo altamente apprez­ zabili, non sono consistite tanto in ciò che egli ha pensato, quanto in ciò ch’egli ha imparato, e furo­ no quindi più derivate che originali. Questo è con­ fermato da un aforisma di Eraclito, che lo riguar­ da (Diog. Laert., libro viti, cap. 1, § 5). Altrimenti egli avrebbe scritto qualcosa, per salvare dall’oblio i suoi pensieri; e invece quanto non gli appartene­ va, ed egli aveva imparato, rimase assicurato alla sua fonte d’origine.

3. Socrate La sapienza di Socrate è un articolo di fede filo­ sofico. Che il Socrate platonico sia una persona ideale, e quindi poetica, la quale esprime pensieri platonici, è cosa evidente; nel Socrate senofonteo per contro non si può davvero trovare molta sapien­ za. Secondo Luciano (Philopseudes, 24) Socrate avrebbe avuto un grosso ventre, ciò che non fa dav­ vero parte dei segni distintivi del genio. Lo stesso

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dubbio tuttavia si può levare, rispetto alle più alte capacità spirituali, contro tutti coloro che non han­ no scritto, come si è visto poco fa con Pitagora. Un grande spirito deve pur riconoscere gradualmente la sua missione e la sua posizione di fronte all’uma­ nità, e giungere di conseguenza alla coscienza di non appartenere al gregge, bensì ai pastori, intendo dire agli educatori della stirpe umana. In tal modo gli si chiarirà l’obbligo di non limitare la sua in­ fluenza immediata e garantita ai pochi, che il caso ha condotto nelle sue vicinanze, ma di estenderla all’umanità, perché questo influsso possa raggiunge­ re, nell’umanità stessa, le sue eccezioni, gli ottimi, che sono quindi rari. L’organo peraltro, con cui si parla all’umanità, è solo lo scritto: a voce si parla unicamente a un numero determinato di individui. Quanto viene dunque detto in tal modo rimane una questione privata, nei confronti della stirpe umana. Tali individui infatti sono per lo più un terreno cattivo per il seme nobile, che in esso o non germoglia affatto, o degenera rapidamente nei suoi frutti: il seme stesso deve quindi essere conservato. E questo può avvenire non già con la tradizione, che di passo in passo va falsificandosi, ma soltanto con lo scritto, quest’unico fedele custode dei pen­ sieri. Oltre a ciò ogni spirito profondo ha necessa­ riamente l’impulso, per propria soddisfazione, a trattenere i suoi pensieri, dando loro nei limiti del possibile chiarezza e determinazione, e a incarnarli di conseguenza in parole. Ciò però si verifica com­ piutamente soltanto con lo scritto: l’esposizione scritta infatti è sostanzialmente diversa da quella orale, poiché solo essa permette la più alta preci­ sione e concisione, e una pregnante brevità, risul­ tando quindi il puro ectipo del pensiero. Per tutti questi motivi sarebbe una stupefacente tracotanza, in un pensatore, il non voler usufruire della più importante invenzione dell’umanità. In tal modo

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mi è difficile credere davvero nel grande valore di coloro che non hanno scritto, e sono piuttosto pro­ penso a ritenerli soprattutto degli eroi pratici, che hanno operato più con il loro carattere che con la loro mente. I nobili autori delle Upanisad dei Ve­ da hanno scritto, anche se i Sanhita dei Veda, che consistevano soltanto di preghiere, furono forse da principio tramandati solo oralmente. Tra Socrate e Kant è possibile dimostrare molte somiglianze. Entrambi rigettano ogni dogmatismo, entrambi confessano una completa ignoranza ri­ spetto alla metafisica, e hanno come caratteristica la chiara coscienza di questa ignoranza. Entrambi sostengono, che per contro il problema pratico, ri­ guardante ciò che l’uomo deve fare od omettere, è del tutto certo e sicuro, e risolubile per se stesso, senza un’ulteriore giustificazione teoretica. Entram­ bi ebbero il destino che i loro successori immediati e i loro discepoli dichiarati si allontanarono da essi proprio in quelle impostazioni fondamentali, ed elaborando la metafisica costruirono dei sistemi pie­ namente dogmatici; inoltre questi sistemi si mani­ festarono differentissimi, accordandosi comunque tutti nel sostenere di esser partiti dalla dottrina di Socrate, e rispettivamente da quella di Kant. Poi­ ché io stesso sono un kantiano, voglio in poche pa­ role caratterizzare il mio rapporto con lui. Kant in­ segna, che oltre l’esperienza e la sua possibilità noi non possiamo conoscere nulla: io lo concedo, ma sostengo che l’esperienza stessa, nella sua totalità, è passibile di un’interpretazione, che ho tentato di fornire, decifrando quest’esperienza come una scrit­ tura, e senza sforzarmi peraltro, come tutti i filosofi precedenti, a uscirne per mezzo delle sue pure for­ me, ciò che proprio Kant aveva dimostrato come inammissibile. Il vantaggio del metodo socratico, quale possia­ mo conoscere attraverso Platone, consiste nel farsi

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concedere singolarmente dall’interlocutore o dal­ l'avversario le premesse delle proposizioni, che si ha in animo di dimostrare, prima che quegli possa intravvederne le conseguenze, dal momento che con un’esposizione didattica, in un discorso continuato, egli potrebbe aver occasione di conoscere per quel­ lo che sono, le premesse e le conseguenze, e potreb­ be quindi attaccarle, se non gli piacessero. Per in­ tanto, tra le cose che Platone ci vuol dare a inten­ dere vi è anche questa, che cioè attraverso l’appli­ cazione di quel metodo i sofisti e altri buffoni avreb­ bero permesso con tutta calma che Socrate facesse risultare cosa in effetti essi erano. Ciò non è neppur pensabile, poiché all’ultimo pezzo di strada, o in genere non appena avessero notato dove si andava a finire, i sofisti, o saltando di palo in frasca, o ne­ gando quanto era stato detto prima, o fraintenden­ do a bella posta, e comunque applicando istintiva­ mente i sotterfugi e i cavilli della disonestà che vuol aver ragione, avrebbero distrutto a Socrate il suo gioco costruito ad arte e avrebbero strappato la sua rete; od altrimenti sarebbero divenuti così grossolani ed offensivi, che egli avrebbe trovato in qualche occasione più consigliabile di mettere la sua pelle al sicuro. Come poteva infatti non esser noto anche ai sofisti il mezzo con cui ciascuno può mettersi alla pari con ogni altro, e con cui si può equilibrare momentaneamente persino la più gran­ de diseguaglianza intellettuale? Tale mezzo è l'offe­ sa. Ad essa infatti la natura bassa sente una tenden­ za del tutto istintiva, appena avverte una superio­ rità spirituale.

4. Platone Già in Platone troviamo in qualche modo l’origi­ ne di una falsa dianoiologia, che s’introduce con una segreta intenzione metafisica, tendendo ad una psicologia razionale ed alla connessa dottrina del­ l’immortalità. La medesima si è più tardi rivelata una dottrina ingannevole dalla vita tenacissima, prolungando la sua esistenza attraverso tutta la fi­ losofia antica, medioevale e moderna sino a che Kant, lo stritolatore, la colpì infine al capo. La dottrina di cui intendo parlare è il razionalismo della teoria della conoscenza, con intenzione finale metafisica. Essa brevemente, può così riassumersi. La parte conoscitiva in noi è una sostanza imma­ teriale, fondamentalmente diversa dal corpo, chia­ mata anima: il corpo per contro è un impedimento alla conoscenza. Ogni conoscenza ottenuta quindi attraverso la mediazione del corpo è ingannevole: l’unica vera, giusta e sicura è quella libera e lonta­ na da ogni sensibilità (e quindi da ogni intuizione), in altre parole il pensiero puro, cioè l’operare uni­ camente con concetti astratti. Tutto ciò è compiuto dall’anima con i suoi propri mezzi: la situazione migliore si verificherà dunque quando essa si sarà separata dal corpo, e noi saremo morti. Cose di questo genere sono dunque messe dalla dianoiolo­ gia a disposizione della psicologia razionale, a van­ taggio della sua dottrina dell’immortalità. Questa dottrina, quale ho riassunto ora, si trova espressa in forma dettagliata e chiara nel cap. 10 del Fedo­ ne. Concepita un po’ diversamente è invece nel Timeo, onde la ricava con molta evidenza e preci­ sione Sesto Empirico con queste parole: παλαιά τις παρά τοϊς φυσικοϊς κυλιέται δόξα περί τοΰ τα δμοια τών όμοιων είναι γνωριστικά... Πλάτων δέ, έν τφ Τιμαίφ, πρός παράστασιν τού άσώματον είναι τήν ψυχήν, τψ αύτφ γένει τής άποδείξεως κέχρηται. Εΐ γάρ ή μέν δρασις,

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φησί, φωτός άντιλαμβανομένη, ευθύς έστί φωτοειδής, ή δέ άκοή άέρα πεπληγμένον κρίνουσα, δπερ έστί τήν φωνήν, εύθύς άεροειδής θεωρείται, ή δέ δσφρησις ατμούς γνωρίζουσα πάντως έστί άτμοειδής, καί ή γεϋσις, χυλούς, χυλοειδής· κατ’ άνάγκην καί ή ψυχή τάς άσωμάτους ιδέας λαμβάνουσα, καθάπερ τάς έν τοϊς άριθμοίς καί τάς έν τοϊς πέρασι τών σωμάτων (cioè nella matematica pu­ ra) γίνεται τις άσώματος (Adv. Math., vu, 116 e 119). (Vêtus quaedam, a physicis usque probata, versatur opinio, quod similia similibus cognoscantur. — Mox: Plato, in Timaeo, ad probandum, animam esse incorpoream, usus est eodem genere demonstrationis: «nam si visio», inquit, « apprehendens lucem statim est luminosa, auditus autem aërem percussum judicans, nempe vocem, protinus cernitur ad aëris accedens speciem, odoratus autem cognoscens vapores, est omnino vaporis aliquam ha­ bens formam, et gustus, qui humores, humoris habens speciem; necessario et anima, ideas suscipiens incorporeas, ut quae sunt in numeris et in finibus corporum, est incorporea »).15 Lo stesso Aristotele ammette, almeno ipotetica-, mente, questa argomentazione, dal momento che nel primo libro del De anima (cap. 1) dice che resi­ stenza separata deH’anima sarebbe assodabile, se quest’ultima si manifestasse in qualche modo, senza l’intervento del corpo, ciò che sembra verificarsi anzitutto nel pensiero. Ma se anche questo non può sussistere senza intuizione e fantasia, allora lo stesso pensiero non potrà presentarsi al di fuori del corpo (εϊ δ’έστί καί τό νοεϊν φαντασία τις, ή μή ανευ φαντασίας, ούκ ένδέχοιτ’ αν ούδέ τούτο άνευ σώματος είναι).16 Senonché Aristotele non riconosce per l’ap­ punto la condizione sopra riferita, che è la premes­ sa dell’argomentazione, ed insegna quanto più tar­ di venne formulato nel principio « nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensibus » ; si veda al riguardo De anima, ni, 8. Già lui dunque

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vide che tutto quanto è puramente e astrattamente pensato può attingere la sua materia e il suo con­ tenuto soltanto da ciò che è intuito. La cosa ha in­ quietato anche gli Scolastici. Di conseguenza già nel Medioevo ci si preoccupò di dimostrare la pre­ senza di pure conoscenze razionali, cioè di pensieri non riferibili ad alcuna immagine, di un pensare che assume da se stesso tutta la materia. I tentativi e le controversie su questo punto si trovano raccolti nel De immortalitate animae di Pomponazzi, il quale ne trae proprio il suo argomento principale. A soddisfare la suddetta esigenza dovevano servire gli universalia e le conoscenze a priori, concepiti come aeternae veritates. Quale sviluppo abbia poi avuto la questione in Cartesio e nella sua scuola, ho già esposto nella dettagliata nota al § 6 del mio scritto composto in occasione di un premio accade­ mico, sul fondamento della morale, dove ho ricor­ dato anche le parole originali, degne di esser lette, del cartesiano De la Forge. Proprio le dottrine fal­ se di ogni filosofo, infatti, si trovano di regola espresse nel modo più chiaro dai suoi scolari, poi­ ché questi non si preoccupano, come il maestro, di tenere per quanto possibile nell’oscurità i lati del sistema che potrebbero tradirne le debolezze, non avendo alcun motivo di malizia. Già Spinoza però contrappose al dualismo cartesiano la sua dottrina, secondo cui « substantia cogitans et substantia ex­ tensa una eademque est substantia, quae jam sub hoc, jam sub ilio attributo comprehenditur », e mo­ strò in tal modo la sua grande superiorità. Leibniz per contro se ne rimase buono buono sulla via di Cartesio e dell’ortodossia. Tutto ciò per altro su­ scitò tosto l’aspirazione, oltremodo salutare per la filosofia, dell’eccellente Locke, il quale si spinse in­ fine alla ricerca dell’origine dei concetti, e a fonda­ mento della sua filosofia pose, dopo averlo esau­ rientemente provato, il principio no innate ideas

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(non esistono concetti innati). I francesi, ai quali la sua filosofia fu presentata da Condillac, pur par­ tendo dalle stesse basi, andarono presto troppo ol­ tre, introducendo il principio penser est sentir, e insistendovi. Preso assolutamente, questo principio è falso, pure vi è insita la verità che ogni pensiero in parte presuppone l’impressione sensibile, quale ingrediente dell’intuizione, che fornisce la materia al pensiero stesso, ed in parte è esso medesimo con­ dizionato, allo stesso modo del sentire, da organi corporei. Come la sensazione è condizionata dai nervi sensoriali, così il pensiero lo è dal cervello, ed entrambi si riducono ad una attività nervosa. Senonché anche la scuola francese non si attaccò a quel principio per se stesso, ma parimenti ebbe un’intenzione metafisica, e in questo caso materia­ listica; allo stesso modo gli avversari platonico-cartesiano-leibniziani avevano tenuto fermo il princi­ pio falso che l’unica vera conoscenza delle cose con­ sista nel pensiero puro — anch’essi soltanto con un’intenzione metafisica — per dimostrare da ciò l’immaterialità dell’anima. Solo Kant guida versc^ la verità, allontanandoci da queste due vie false, e da una disputa in cui le due parti non si compor­ tano davvero onestamente; esse esibiscono la dianoiologia, ma tendono alla metafisica, falsando in tal modo la dianoiologia. Kant dice: certamente esi­ ste una pura conoscenza razionale, esistono cioè delle conoscenze a priori, precedenti ogni esperien­ za, e di conseguenza anche un pensiero, che non è debitore della sua materia ad alcuna conoscenza de­ rivante dai sensi; ma proprio questa conoscenza a priori, per quanto non attinta dal/’esperienza, ha però valore e validità soltanto ai fini dell’esperien­ za: essa infatti non è altro se non il divenire co­ scienti del nostro proprio apparato conoscitivo e della sua struttura (funzione cerebrale), o come si esprime Kant, la forma della stessa coscienza cono-

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scente, che solo dalla conoscenza empirica, che in­ terviene mediante l’impressiohe sensoriale, può ot­ tenere la sua materia, e che senza tale conoscenza empirica è invece vuota e inutile. Per ciò appunto la sua filosofia si chiama la critica della ragione pu­ ra. In tal modo cade tutta quella psicologia meta­ fisica, e con essa cade ogni attività pura dell’anima sostenuta da Platone. Noi vediamo infatti che la conoscenza, senza l’intuizione mediata dal corpo, non ha alcun contenuto, e che al tempo stesso, ciò che conosce, in quanto tale, senza il presupposto del corpo, non è altro se non una vuota forma, an­ che a prescindere dal fatto che ogni pensiero è una funzione fisiologica del cervello, proprio come il digerire lo è dello stomaco. Anche se l’esortazione di Platone a separare la conoscenza e a tenerla lontana da ogni comunione con il corpo, i sensi e l’intuizione, risulta quindi inopportuna, falsa, anzi impossibile, tuttavia pos­ siamo considerare come termine analogo modifica­ to della medesima la mia dottrina, secondo cui sol­ tanto la conoscenza purificata da ogni comunione con la volontà, pur rimanendo intuitiva, raggiunge l’obiettività e quindi la compiutezza più alte. A tale proposito rimando al terzo libro della mia ope­ ra principale.

5. Aristotele

Come carattere fondamentale di Aristotele si po­ trebbe ricordare la più grande acutezza d’ingegno, unita ad un’ampia prospettiva, a doti di osserva­ zione, a versatilità e mancanza di profondità. La sua visione del mondo è piatta, anche se elaborata con acume. La profondità trova il suo contenuto in noi stessi, l’acutezza deve assumerlo dal di fuori,

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per avere dei dati. Senonché a quei tempi i dati empirici erano in parte poveri, e in parte addirit­ tura falsi. Lo studio di Aristotele non è quindi al giorno d’oggi molto proficuo, mentre quello di Platone lo rimane ancora in altissimo grado. La mancanza di profondità che rimproveriamo ad Ari­ stotele è naturalmente soprattutto visibile nella me­ tafisica, dove il semplice acume non è sufficiente co­ me altrove; di conseguenza in questo campo egli soddisfa pochissimo. La sua Metafisica è in massi­ ma parte un parlare e riparlare delle teorie dei suoi predecessori, che egli critica e confuta dal pro­ prio punto di vista, per lo più basandosi su loro dichiarazioni staccate e senza penetrare veramente nel loro contenuto, ma piuttosto come uno che cer­ ca di sfondare dall’esterno le finestre. Egli introdu­ ce poche o punte dottrine originali, in ogni caso senza una connessione coerente. Il fatto che noi dobbiamo alla sua polemica una gran parte delle nostre conoscenze sui filosofemi più antichi rappre­ senta un merito fortuito. Egli attacca Platone per 10 più proprio quando costui è maggiormente a, posto. Le « idee » di Platone gli vengono continuamente in bocca come qualcosa che non possa dige­ rire: egli è deciso a non lasciarle sussistere. L’acu­ tezza è sufficiente nelle scienze dell’esperienza : Ari­ stotele ha quindi un indirizzo prevalentemente .em­ pirico. Dal momento però che la ricerca empirica, dai suoi tempi in poi, ha fatto tali progressi da pre­ sentarsi, rispetto alle condizioni di allora, come l’età virile rispetto agli anni d’infanzia, si può dire che le scienze sperimentali non ricavino direttamente molto, ai giorni nostri, dal suo studio, e ab­ biano dei vantaggi solo indirettamente, attraverso 11 metodo e l’atteggiamento veramente scientifico, che distingue Aristotele e da lui è stato introdotto. In zoologia comunque anche oggi egli è direttamen­ te utile, per lo meno in questioni singole. In gene-

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rale poi la sua tendenza empirica lo spinge sempre a diffondersi, e in tal guisa egli devia così facilmen­ te e così spesso dal corso di pensieri assunto, da essere quasi incapace a seguire un filo logico per lungo tempo e sino alla fine: senonché proprio in questo consiste il pensare profondamente. Egli al contrario va ovunque in caccia di problemi, ma li tocca soltanto, per passare tosto a qualcos’altro, sen­ za risolverli o anche solo discuterli a fondo. Il suo lettore pensa quindi spesso « ci siamo », ma non è così: quando egli ha suscitato un problema e l’ha seguito per breve tratto, sembra spesso che la verità gli sia giunta proprio sulla lingua, ed ecco che im­ provvisamente si rivolge a qualcos’altro, lasciandoci nel dubbio. Egli non può afferrare saldamente nul­ la, e salta da ciò che sta meditando a qualcosa che proprio ora gli viene in mente, come un bambino lascia cadere un gioco per afferrarne un altro non appena lo scorga. Questo è il lato debole della sua personalità: si tratta della vivacità di ciò che è su­ perficiale. Di qui si spiega come, nonostante Ari­ stotele fosse una mente oltremodo sistematica — es­ sendo partita da lui la partizione e la classificazione delle scienze — la sua esposizione manchi tuttavia continuamente di ordinamento sistematico, e vi si senta la mancanza di un progresso metodico, e per­ sino della separazione dell’eterogeneo e della riu­ nione dell’omogeneo. Egli tratta delle cose così co­ me gli vengono in mente, senza avervi riflettuto pri­ ma sopra ed essersi tracciato uno schema chiaro: pensa, si può dire, con la penna in mano, ciò che in verità è una grande facilitazione per lo scrittore, ma un peso grave per il lettore. Di qui l’improvvi­ sazione e l’insufficienza della sua esposizione; di qui il suo ritornare per cento volte su di un medesimo argomento, poiché nel frattempo è intervenuto qualcosa di nuovo a turbarlo; di qui la sua insof­ ferenza a rimanere su di una medesima questione,

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e il suo saltare di palo in frasca, di qui il suo trarre per il naso, come si è detto sopra, il lettore teso alla soluzione dei problemi suscitati; di qui il ricomin­ ciare improvvisamente la propria indagine, dopo di aver dedicato a un problema parecchie pagine, con un λάβωμεν ούν άλλην άρχήν τής σκέψεως17 e ciò per sei volte in un solo scritto; di qui si spiega come a tanti esordi dei suoi libri e dei suoi capitoli si adatti il « quid feret hic tanto dignum promissor hiatu >; questa, in una parola, è la ragione per cui tanto sovente egli è confuso e insufficiente. Ecce­ zionalmente si è però comportato in modo diverso: così per esempio i tre libri della Retorica sono ovunque un modello di metodo scientifico, anzi, mostrano una simmetria architettonica, che è forse stata l’archetipo di quella kantiana. L’antitesi radicale di Aristotele, tanto nel modo di pensare, quanto nell’esposizione, è Platone. Co­ stui tiene saldo il suo pensiero fondamentale, con mano ferrea, ne segue il filo, per quanto sottile di­ venga, in tutte le ramificazioni, attraverso i labi­ rinti dei più lunghi dialoghi, e lo ritrova di nuovo,· dopo tutti gli episodi. Si vede da ciò, che egli aveva riflettuto a fondo e ponderatamente sul proprio og­ getto, prima di accingersi a scrivere, e aveva trac­ ciato un ordine costruito per la sua esposizione. Ogni dialogo è dunque un’opera d’arte meditata, le cui parti hanno tutte una connessione ben calcola­ ta, sovente a bella posta celata per un certo tempo, e i cui frequenti episodi riconducono automaticamente e spesso inaspettatamente al pensiero fonda­ mentale, da essi ormai illuminato. Platone sapeva sempre, in tutto il significato dell’espressione, cosa voleva e a cosa tendeva, anche se per lo più non portò i problemi a una decisa soluzione, acconten­ tandosi di una loro discussione approfondita. Non vi è dunque molto da meravigliarsi se, come riferi­ scono alcune notizie, soprattutto in Ebano (Par.

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hist., in, 19; iv, 9, eccetera), si sia rivelata tra Pla­ tone e Aristotele una notevole disarmonia persona­ le. Può darsi anche che Platone a varie riprese ab­ bia parlato con un certo disprezzo di Aristotele, il cui gironzolare, muoversi come un fuoco fatuo, e saltare di palo in frasca, caratteri che derivavano per l’appunto dalla sua polymathia, debbono esse­ re risultati del tutto antipatici a Platone. Anche la poesia di Schiller Ampiezza e profondità può es­ sere applicata all’antitesi tra Aristotele e Platone. Nonostante questa tendenza speculativa empiristi­ ca, Aristotele non fu tuttavia un empirico conse­ guente e metodico; per tale motivo dovette esser rovesciato e bandito dal vero padre dell’empirismo, Bacone di Verulamio. Chi vuole intendere veramen­ te in quale senso e perché costui sia l’avversario e il superatore di Aristotele e del suo metodo, legga i libri di Aristotele De generatone et corruptione. Colà si possono trovare davvero degli arzigogoli a priori sulla natura, che vogliono intendere e spie­ gare i suoi fenomeni con dei semplici concetti : un esempio particolarmente stridente è dato nel li­ bro il, cap. 4, dove è costruita una chimica a priori. Contro questo si levò Bacone, con il consiglio di non considerare come fonte della conoscenza della natura l’astratto, bensì l’intuitivo, l’esperienza. Lo splendido risultato di tale consiglio è l’alto stadio attuale raggiunto dalle scienze naturali: da questo livello guardiamo sorridendo di compassione a que­ ste miserie aristoteliche. Rispetto a quanto si è det­ to, è assai notevole il fatto che proprio i surricor­ dati libri di Aristotele lascino scorgere in modo molto chiaro l’origine stessa della Scolastica, e che in essi sia già possibile riscontrare il metodo cavil­ loso e prolisso di quest’ultima. Al medesimo fine sono molto utili e degni di esser letti anche i libri De coelo. Proprio i primi capitoli sono un vero mo­ dello della tendenza a voler conoscere e determina-

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re con semplici concetti l’essenza della natura. Il fallimento del tentativo è evidente. Più oltre il ca­ pitolo 8 ci vuol dimostrare con semplici concetti e loci communes che non vi sono più mondi, e il ca­ pitolo 12 specula alla stessa maniera sul corso delle stelle. Tutto quanto è un conseguente sottilizzare, che parte da falsi concetti, è una dialettica della na­ tura del tutto particolare, la quale, muovendo da certe regole generali, che dovrebbero esprimere ciò che è razionale e conveniente, tenta di decidere a priori come debba essere e come debba comportar­ si la natura. Quando vediamo che una mente cosi grande, anzi stupenda, quale a parte tutto è quella di Aristotele, rimase implicata in errori di questa sorta, che sono stati affermati come verità ancora sino a un paio di secoli fa, ci si convince innanzi­ tutto quanto grata debba essere l’umanità a Coper­ nico, Kepler, Galilei, Bacone, Robert Hooke e New­ ton. Nei capitoli 7 e 8 dej secondo libro Aristotele ci espone tutto il suo assurdo ordinamento del cie­ lo: le stelle sono saldamente conficcate nella vuota sfera ruotante, il sole e i pianeti lo sono entro si-’ mili sfere più vicine, la terra è esplicitamente fer­ ma. Tutto ciò potrebbe andare, se prima non vi fosse stato nulla di meglio; ma dal momento che egli stesso, nel capitolo 13, ci ha esposto, per riget­ tarle, le giustissime opinioni dei Pitagorici sulla fi­ gura, posizione e movimento della terra, la cosa non può non suscitare la nostra indignazione. Tale indignazione aumenta quando ci volgiamo alle sue frequenti polemiche contro Empedocle, Eraclito e Democrito, poiché tutti costoro hanno avuto delle idee più giuste sulla natura, e l’hanno anche osser­ vata meglio del superficiale chiacchierone, cui ci troviamo qui di fronte. Empedocle anzi aveva già parlato di una forza tangenziale nascente dal moto rotatorio, e opposta alla gravità (il, 1 e 13; cfr. inoltre gli Scòli, p. 491). Ben lungi dal poter valu-

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tare come meritavano tali dottrine, Aristotele non riconosce neppure una volta le opinioni di quegli antichi sul vero significato del « sopra » e del « sot­ to », e anche su questo punto si accorda alla cre­ denza del volgo, basata sull’apparenza superficiale (iv, 2). Non solo, ma è da considerare ora il fatto che queste sue opinioni trovarono riconoscimento e si propagarono, soffocando le idee precedenti e migliori, e costituendo più tardi il fondamento per Ipparco e per il sistema tolemaico, sotto il cui peso l’umanità ha dovuto trascinarsi sino all’inizio del sedicesimo secolo. Tale sistema fu indubbiamente di grande vantaggio alle dottrine della religione giudaico-cristiana, che nella sostanza sono incompa­ tibili con il sistema copernicano del mondo: come può sussistere un Dio nel cielo, quando non vi è alcun cielo? Il teismo inteso seriamente presuppone di necessità che si divida il mondo in cielo e terra: su questa vanno aggirandosi gli uomini, e in quel­ lo ha sede il Dio, che la governa. Se ora l’astrono­ mia nega il cielo, essa viene al tempo stesso ad abo­ lire la divinità, con l’estendere in modo tale l’uni­ verso da non lasciare più alcun posto per Dio. Un essere personale — com’è inevitabile sia ogni Dio —■ il quale non abbia alcun luogo, ma sia ovunque e da nessuna parte, si può soltanto enunciare, non immaginare, e quindi neppure credere. Di conse­ guenza il teismo dovrà scomparire nella misura in cui sarà divulgata l’astronomia fisica, per quanto saldamente esso venga impresso negli uomini con i più instancabili e solenni suggerimenti. Anche la Chiesa cattolica ha subito compreso tutto ciò giu­ stamente, e ha perseguitato di conseguenza il siste­ ma copernicano: è quindi sciocco stupirsi tanto e levare alte grida sulle tribolazioni di Galilei, dal momento che « omnis natura vult esse conservatrix sui ». Chi può dire non sia stata una tacita cono­ scenza, o quanto meno un presentimento di questa

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congenialità di Aristotele con la dottrina della Chiesa, a contribuire durante il Medioevo all’ec­ cessiva venerazione nei suoi riguardi? Chi può dire non vi siano stati parecchi, i quali, ispirati dalle te­ stimonianze di Aristotele sui più antichi sistemi astronomici, già abbiano visto, molto tempo prima di Copernico, le verità che costui osò proclamare dopo molti anni di esitazioni e sul punto ormai di morire?

6. Stoici

Un bellissimo e profondo concetto degli Stoici è quello del λόγος σπερματικός, per quanto sarebbero desiderabili al riguardo notizie più dettagliate di quelle giunteci (Diog. Laert., vii, 136; Plut., De plac. phil., I, 7; Stob., Ecl., i, p. 372). È però chiaro che con tale termine s’intende quanto mantiene e conserva, nei successivi individui di una specie, la loro forma identica, mentre essi si succedono l’un l’altro, cioè per così dire il concetto della specie che ha preso corpo nel seme. Il Logos spermaticus è (piindi ciò dìe d’indistruttibile sussiste nell’indivi­ duo, è ciò attraverso cui esso si unifica con la spe­ cie, la rappresenta e la conserva. Questo Logos fa sì che la morte, annientatrice dell’individuo, non toc­ chi la specie; per mezzo di questa l’individuo con­ tinua a sussistere, a dispetto della morte. Si potreb­ be quindi tradurre λόγος σπερματικός: la formula magica, che in ogni tempo suscita alla vita questa figura. Strettamente connesso a questa espressione è il concetto della forma substantiate degli Scolastici, con cui viene inteso l’intimo principio del comples­ so di tutte le proprietà di ogni essere naturale: il suo contrario è la materia pura, la pura materia, senza alcuna forma e qualità. L’anima dell’uomo è

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per l’appunto la sua forma substantialis. A distin­ guere i due concetti sta il fatto che il λόγος σπερματικός tocca soltanto agli esseri viventi e procreantisi, la forma substantialis invece anche a quel­ li inorganici; inoltre, che quest’ultima tiene pre­ sente anzitutto l’individuo, quello per contro pro­ prio la specie: a parte ciò, entrambi sono evidente­ mente affini all’idea platonica. Chiarimenti sulla forma substantialis possono trovarsi in Scoto Erigena, De divis. nat., libro m, p. 139 dell’edizione di Oxford; in Giordano Bruno, Della causa, dial. 3, pp. 252 sgg., e dettagliatamente nelle Disputationes metaphysicae di Suarez (disp. 15, sez. 1), che costi­ tuisce l’autentico compendio di tutta la saggezza scolastica, cui è necessario ricorrere per approfondirvisi, lasciando in disparte le lunghe chiacchiere dei piatti professori di filosofìa tedeschi, quintessen­ za della noia e della scipitezza. Una delle fonti principali per la nostra conoscen­ za dell’etica stoica è la diffusissima esposizione, con­ servataci da Stobeo (Ecl. eth., libro n, cap. 7), in cui ci si illude di possedere la maggior parte degli estratti letterari da Zenone e da Crisippo. Se le cose stanno così, questa fonte non è certo appro­ priata a fornirci un’alta opinione sull’intelligenza e sullo spirito di questi filosofi; si tratta piuttosto di una presentazione della morale stoica che risulta pedantesca, scolastica, eccessivamente diffusa, incre­ dibilmente prosaica, piatta e priva di spirito, senza forza e senza vita, priva di pensieri notevoli, esatti e sottili. Tutto vi è dedotto da puri concetti, nul­ la invece è attinto dalla realtà e dall’esperienza. Conformemente a ciò l’umanità viene divisa in σπουδαίοι e φαύλοι, in virtuosi e viziosi, ai primi si attribuisce ogni bene e agli ultimi ogni male, cosic­ ché tutto alla fine viene a distinguersi nettamente in bianco e in nero, come in una garitta prussiana. Queste piatte esercitazioni scolastiche non possono

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quindi in alcun modo paragonarsi agli scritti di Se­ neca, così energici, meditati e originali. Le dissertazioni di Arriano sulla filosofia di Epitteto, composte circa 400 anni dopo l’apparizione della Stoa, non ci forniscono del pari alcuna noti­ zia fondata sul vero spirito e i princìpi autentici della morale stoica: il libro è al contrario insoddi­ sfacente nella forma e nel contenuto. In primo luo­ go, per quanto riguarda la forma, non è possibile ritrovarvi alcuna traccia di metodo, di trattazione sistematica, anzi di un modo di procedere regolare. In capitoli che si susseguono l’uno all’altro senza ordine né connessione viene incessantemente ripe­ tuto, che non si deve tenere in nessun conto tutto quanto non è espressione della nostra propria vo­ lontà, e che quindi dev’esser considerato senza al­ cun interesse tutto ciò che altrimenti muove gli uomini: in questo consiste per l’appunto Γάταραξία stoica. In altre parole, ciò che non è έφ’ήμΐν, non sarebbe neppure προς ήμάς.18 Questo colossale para­ dosso non è peraltro dedotto da un qualche prin­ cipio, e la più stravagante concezione possibile ci viene imposta, senza che le sia fornita una base. A sostituire questa si trovano infinite declamazioni, con modi di dire ed espressioni che si ripetono in­ stancabilmente. Infatti le deduzioni da quelle stra­ ne massime sono esposte nel modo più dettagliato e vivace, e di conseguenza si trova molte volte de­ scritto, come lo stoico si costruisca qualcosa nel mondo dal nulla. Nel corso dell’esposizione chiun­ que la pensi diversamente è di continuo insultato come schiavo e buffone. E vanamente noi speriamo che venga addotta una qualche ragione chiara e plausibile a sostegno di quello strano modo di pen­ sare; eppure ciò avrebbe avuto un’efficacia molto maggiore che non tutte le declamazioni e gli in­ sulti del voluminoso libro. Quest’ultimo al contra­ rio, con le sue iperboliche descrizioni dell’indiffe-

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renza stoica, con le sue lodi, instancabilmente ripe­ tute, dei patroni protettori Cleante, Crisippo, Ze­ none, Cratete, Diogene, Socrate, e con i suoi in­ sulti a tutti coloro che la pensano diversamente, si riduce a una vera predica da frate cappuccino. Proprio conforme a quest’ultima è certo poi anche la balorda improvvisazione e la discontinuità di tutta l’esposizione. Ciò che è indicato dal titolo di un capitolo rappresenta soltanto l’oggetto iniziale: alla prima occasione si salta di palo in frasca e così si continua a fare secondo il nexus idearum. Que­ sto per la forma. Per quanto ora riguarda il contenuto, quest’ulti­ mo, anche a prescindere dal fatto che gli manca del tutto un fondamento, non è in alcun modo autenti­ camente e semplicemente stoico, ma rivela una for­ te contaminazione, che fa pensare a una fonte giudaico-cristiana. La prova veramente innegabile di ciò è il teismo, che si ritrova in ogni pagina e ri­ sulta anche il fondamento della morale: il cinico e lo stoico agiscono qui per incarico di Dio la cui vo­ lontà è la loro norma; essi sono sottomessi a lui, sperano in lui. Cose di questo genere sono del tutto estranee alla Stoa primitiva e autentica per la quale Dio e mondo sono una cosa sola, e dove non si tro­ va traccia di un dio tanto somigliante a un uomo che pensa, vuole, comanda e provvede. Tuttavia, non soltanto in Amano, ma nella maggior parte degli scrittori filosofici pagani dei primi secoli cri­ stiani, si può veder trapelare il teismo giudaico, che tosto dovrà trasformarsi, come cristianesimo, in fe­ de popolare, proprio allo stesso modo che ai giorni nostri trapela dagli scritti degli eruditi il panteismo originario dell’india, che solo in avvenire dovrà tra­ sformarsi in fede popolare. Ex oriente lux. Per i motivi suddetti, anche la morale ivi esposta non è genuinamente stoica: parecchie sue massime anzi non sono tra loro compatibili, cosicché di tale

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etica non è possibile costruire un complesso di nor­ me fondamentali comuni. Allo stesso modo è fal­ sato il cinismo, attraverso la dottrina che il cinico debba esistere principalmente in vista degli altri, per agire cioè con il suo esempio su di loro, come un messaggero di Dio, e per guidarli, occupandosi delle loro faccende. Troviamo detto infatti, che « in una città di veri sapienti, nessun cinico sarebbe ne­ cessario », e inoltre, che quest’ultimo dev’essere sa­ no, forte, pulito per non disgustare la gente. Come siamo lontani dall’autosufficienza del vero cinico antico. Certamente Diogene e Cratete debbono es­ ser stati amici intimi e consiglieri di molte fami­ glie: tutto ciò era però secondario e accidentale, e in nessun modo rappresentava lo scopo del cinismo. I veri e propri pensieri fondamentali del cinismo, come pure dell’etica stoica, sono quindi compietamente sfuggiti ad Arriano: egli non sembra nep­ pure anzi averne sentito bisogno. Arriano predica la mortificazione di sé, poiché questa gli piace, e gli piace forse soltanto per il fatto che è dura e contraria alla natura umana, mentre il predicare è per il momento cosa facile. Egli non ha cercato i motivi della mortificazione di sé, e per questo cre­ diamo di udire ora un asceta cristiano e ora uno stoico. Indubbiamente le massime di entrambi que­ sti personaggi si accordano spesso, ma i princìpi su cui esse si fondano sono differentissimi. Rimando a questo proposito alla mia opera principale, vol. I, § 16 e voi. il, cap. 16, dove il vero spirito del cini­ smo e della Stoa è chiarito a fondo e per la prima volta. L’inconseguenza di Arriano si manifesta persino in una forma ridicola, poiché nel corso della descri­ zione ripetuta infinite volte dello stoico perfetto, si ritorna a dire ogni volta: «egli non biasima alcu­ no, non si lamenta né degli dèi né degli uomini, non rimprovera nessuno», mentre poi il libro è

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scritto in gran parte con tono di rimprovero, che spesso si trasforma in insulti. Con tutto ciò, si possono trovare qua e là nel li­ bro degli autentici pensieri stoici, che Arriano, o Epitteto, ha attinto dagli Stoici antichi, e così pure in singoli squarci viene descritto acutamente e vi­ vacemente anche il cinismo. Vi si ritrova inoltre di quando in quando molto buon senso, come pure descrizioni calzanti, e còlte dal vero, degli uomini e delle loro azioni. Lo stile è lieve e fluido, ma molto prolisso. L’Encheiridion di Epitteto sarebbe stato ugual­ mente composto da Arriano, a quanto ha assicurato nelle sue lezioni F. A. Wolf: io però non lo credo. In un minor numero di parole, vi è assai più spi­ rito e intelligenza che non nelle dissertazioni di Arriano; oltre a ciò esso dimostra ovunque una mentalità sana, senza vuote declamazioni, né osten­ tazione, è conciso e acuto, scritto con il tono di un amico benevolo che dà consigli : le dissertazioni per contro parlano per lo più con un tono di biasimo e di invettiva. Il contenuto dei due libri è in com­ plesso il medesimo: ì’Encheiridion però mostra ben poco del teismo delle dissertazioni. Forse Ì’Enchei­ ridion è il compendio autentico di Epitteto, da lui dettato ai suoi ascoltatori, mentre le dissertazioni costituiscono la rielaborazione fatta da Arriano del­ le lezioni di Epitteto, che commentavano quella prima opera.

7. Neoplatonici

La lettura dei Neoplatonici richiede molta pa­ zienza, poiché tutti quanti difettano nella forma e nel modo di esporre. Di gran lunga migliore degli altri è a questo riguardo Porfirio, l’unico che scriva

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con chiarezza e coerenza, tanto che lo si può leggere senza sforzo. Il peggiore è invece Giamblico, nel suo libro De mysteriis Aegyptiorum: egli è pieno di crassa su­ perstizione, e di goffa demonologia, e per di più ostinato. A dire il vero, egli possiede anche un’altra concezione, per così dire esoterica, sulla magia e sulla teurgia: i suoi chiarimenti in proposito sono però piatti e insignificanti. Tutto sommato, è uno scrivano cattivo e poco simpatico: limitato, strava­ gante, grossolanamente superstizioso, confuso e oscu­ ro. È facile comprendere come ciò che egli insegna non sia affatto sorto dalla sua propria riflessione, e come si tratti piuttosto di teorie altrui, spesso com­ prese solo a mezzo, e appunto per questo difese ac­ canitamente: per tale motivo egli è anche pieno di contraddizioni. Ora però si tende a rifiutare a Giamblico il suddetto libro, e io potrei aderire a tale opinione, tenendo presenti i lunghi estratti delle sue opere perdute, conservatici da Stobeo, i quali sono notevolmente migliori di quel libro De mysteriis, e che contengono realmente parecchi pensieri notevoli della scuola neoplatonica. Proclo a sua volta è un chiacchierone superficia­ le, prolisso e insulso. Il suo commentario all'A leibiade di Platone, uno dei dialoghi peggiori, e forse anche spurio, costituisce la più prolissa e più diffu­ sa ciarla di questo mondo. Egli chiacchiera quasi instancabilmente, e ricerca un senso riposto in ogni parola di Platone, anche la più insignificante. Quanto Platone dice miticamente e allegoricamen­ te, è preso qui in senso preciso e da un punto di vista strettamente dogmatico, e tutto viene ridotto alla superstizione e alla teosofia. È tuttavia innega­ bile che nella prima metà di quel commentario sia­ no ritrovabili alcuni ottimi pensieri, che del resto appartengono con maggior probabilità alla scuola che non a Proclo. Un passo addirittura importan-

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tissimo è quello che chiude il fasciculum primum partis primae: αί τών ψυχών εφέσεις τά μέγιστα συντελοΰσι προς τούς βίους καί ού πλαττομένοις έξωθεν έοίκαμεν, άλλ’ έφ’ έαυτών προβάλλομεν τάς αιρέσεις, καθ’&ς διαζώμεν (animorum appetitus, ante hanc vitam concepii, plurimam vim habent in vitas eligendas, nec extrinsecus fictis similes sumus sed nostra sponte facimus electiones, secundum quas deinde vitas transigimus).19 Ciò indubbiamente trae le sue radici da Platone, ma si avvicina anche alla dottrina kantiana del carattere intelligibile, e si libra notevolmente al di sopra delle piatte e limi­ tate teorie sulla libertà della volontà individuale — che ogni volta può determinarsi in un certo mo­ do oppure anche diversamente — con le quali i professori di filosofia, tenendo il catechismo sempre dinanzi agli occhi, si sono trascinati sino ai giorni nostri. Dal canto loro, Agostino e Lutero si erano aiutati con la predestinazione. La cosa era buona per quei tempi, sottomessi alla divinità, poiché al­ lora si era anche pronti, se piaceva a Dio, ad anda­ re all’inferno nel suo nome: ma ai nostri tempi si può trovare una soluzione soltanto nell’indipenden­ za e nella primordialità della volontà, e si deve ri­ conoscere, come dice Proclo, che ού πλαττομένοις έξωθεν έοίκαμεν. Plotino infine, il più importante di tutti, è dise­ guale e incostante, e le singole Enneadi sono di va­ lore e di contenuto differentissimi: la quarta è ec­ cellente. L’esposizione e lo stile tuttavia sono per lo più anche in lui cattivi: i suoi pensieri non sono ordinati, né elaborati, ed egli ha scritto alla rinfusa e improvvisando secondo l’ispirazione. Porfirio, nel­ la sua biografia, parla del modo disordinato e negli­ gente con cui egli si poneva al lavoro. La sua diffu­ sa e noiosa prolissità e la sua confusione oltrepas­ sano spesso i limiti della pazienza: ci si stupisce come abbia potuto una tale farragine giungere alla

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posterità. Per lo più egli ha lo stile di un predica­ tore, e riporta le dottrine platoniche con la stessa piattezza con cui quello ripete il Vangelo: nel far ciò anch’egli riduce a esplicita serietà prosaica quanto Platone ha detto miticamente, anzi quasi metaforicamente, e rimastica a lungo lo stesso pen­ siero, senza aggiungervi nulla di proprio. Plotino assume così l’atteggiamento di chi rivela, non di chi dimostra, e parla sempre ex tripode, raccontando le cose com’egli se le immagina, senza impegnarsi in una qualsiasi giustificazione. Si possono tuttavia trovare presso di lui delle grandi, importanti e pro­ fonde verità, indubbiamente penetrate da lui stesso dal momento che non è affatto privo di profondità. Plotino merita quindi pur sempre di essere letto, e la pazienza che è necessaria a questo scopo è am­ piamente ricompensata. Una spiegazione di queste qualità contradditto­ rie di Plotino si può trovare, a mio parere, nel fatto che egli, come in genere i Neoplatonici, non è un autentico filosofo, un pensatore indipendente. Ciò che essi espongono è una dottrina presa a prestito* da altri, che per lo più da loro è ben digerita e as­ similata. Si tratta cioè della sapienza indo-egiziana, che essi hanno voluto incorporare nella filosofia greca, servendosi, come termine adatto di collega­ mento, come mezzo cioè di trapasso, o menstruum, della filosofia platonica nella sua parte almeno che tocca il misticismo. La prova di questa origine in­ diana, trasmessa attraverso l’Egitto, dei dogmi neo­ platonici, si trova anzitutto e innegabilmente nella dottrina dell’Uno universale di Plotino, esposta in modo mirabile nella quarta Enneade. Proprio il primo capitolo del primo libro della medesima, περί ούσίας ψυχής fornisce molto stringatamente la dottrina fondamentale di tutta la sua filosofia, par­ lando di una ψυχή, che originariamente è unica e viene frantumata in molte parti solo per l’interven-

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to del mondo corporeo. Particolarmente interessan­ te è il libro ottavo di questa Enneade, in cui si de­ scrive come quella ψυχή sia caduta per un impulso peccaminoso, in questo stato di molteplicità: essa ha quindi una doppia colpa, la prima, che consiste nella discesa in questo mondo, e la seconda, per le sue azioni peccaminose nel medesimo. Essa paga per quella con la sua esistenza temporale in gene­ re, e per questa, che è la minore, con la metempsi­ cosi (cap. 5). Questo pensiero corrisponde evidente­ mente alla distinzione cristiana tra peccato origi­ nale e peccato individuale. Degno più di ogni altro di essere letto è però il libro nono, dove nel cap. 3, εί πάσαι αί ψυχαί μία, dall’unità di quell’anima del mondo vengono spiegati, tra l’altro, i miracoli del magnetismo animale, e in particolare il fenomeno, verificantesi anche oggi, di una sonnambula, la qua­ le intende da grandissima distanza una parola sus­ surrata lievemente, il che certo dev’essere mediato da una catena di persone che stiano in rapporto con lei. In Plotino, verosimilmente per la prima volta nella filosofia occidentale, compare persino Yidealismo, già allora da lungo tempo familiare nell’oriente, là dove si insegna (Enn., ni, libro 7, cap. 10) che l’anima ha fatto il mondo, entrando dall’eternità nel tempo. Plotino aggiunge a mo’ di spiegazione : ού γάρ τις αύτοΰ τοΰδε, τοΰ παντός τόπος, ή ψυχή (neque est alter hujus universi locus, quam anima), esprimendo anche l’idealità del tempo, nelle parole: δει δέ ούκ ’έξωθεν τής ψυχής λαμβάνειν τόν χρόνον, ώσπερ ούδέ τον αιώνα εκεί έξω τοΰ οντος (oportet autem nequaquam extra animant tempus accipere). Quel έκεΐ (mondo staccato) è il contrario di ένθάδε (questo mondo), il che costituisce un con­ cetto a lui molto familiare, spiegato più precisamente con κόσμος νοητός e κόσμος αισθητός, mundus intelligibilis et sensibilis, oppure anche con τα άνω καί τά κάτω. L’idealità del tempo riceve ancora ot-

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limi chiarimenti dai capitoli 11 e 12. A ciò segue la bella spiegazione, che nella nostra esistenza tem­ porale noi non siamo quel che dobbiamo e vorrem­ mo essere, e attendiamo quindi dall’avvenire sem­ pre qualcosa di meglio, aspirando al superamento della nostra insufficienza; da ciò nasce l’avvenire e la sua condizione, il tempo (capp. 2 e 3). Una pro­ va ulteriore della derivazione indiana ci è data dal­ la teoria della metempsicosi, qual è esposta da Giamblico (De mysteriis, sez. 5, cap. 6), dalla dot­ trina della liberazione e della redenzione finale dai vincoli della nascita e della morte (ψυχής κάθαρσις, καί τελείωσις, καί ή άπο τής γενέσεως άπαλλαγή e [cap. 12] τό έν ταϊς θυσίαις πϋρ ήμάς απολύει τών τής γενέσεως δεσμών),20 cioè proprio da quella promessa, esposta in tutti i libri religiosi indiani, che può tradursi in inglese con final emancipation, in quan­ to redenzione. A ciò si aggiunge infine (op. cit., sez. 7, cap. 2) la notizia di un simbolo egiziano, che rappresenta un dio creatore sedente sul loto: si tratta evidentemente di Brahma creatore del mon­ do, seduto sul fiore di loto, che germoglia dall’om­ belico di Visnù, secondo una frequente raffigura­ zione (come si può vedere ad esempio in Langlès, Monuments de l’Hindoustan, vol. 1, p. 175; in Coleman, Mythology of the Hindus, tav. 5, e altro­ ve). Questo simbolo è estremamente importante, tptale prova sicura di una origine indostana della religione egiziana; allo stesso proposito è pure note­ vole la notizia fornita da Porfirio (De abstinentia, libro li), secondo la quale in Egitto la vacca era sacra, e non poteva essere macellata. Persino la cir­ costanza narrata da Porfirio, nella sua vita di Pio­ tino, secondo cui quest’ultimo, dopo di esser stato per parecchi anni discepolo di Ammonio Sacca, aveva voluto andare in Persia e in India con l’eser­ cito di Gordiano, ma ne era stato impedito dalla sconfitta e dalla morte di Gordiano, è un indice

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del fatto che la dottrina di Ammonio sia stata di origine indiana, e che Plotino l’abbia poi voluta attingere autenticamente dalla fonte. Lo stesso Por­ firio ha dato una dettagliata teoria della metempsi­ cosi, che per quanto abbellita di psicologia plato­ nica, segue completamente lo spirito indiano: la si può trovare nelle Ecloghe di Stobeo, libro I, cap. 52, § 54.

8. Gnostici

La filosofìa cabbalistica e quella gnostica, i cui autori, in quanto ebrei e cristiani, consideravano il monoteismo come un presupposto incrollabile, sono dei tentativi di abolire la stridente contraddi­ zione tra la creazione del mondo per opera di un essere onnipotente, sommamente buono e onni­ sciente, e la situazione miserabile ed insufficiente di questo mondo. Esse introducono quindi tra il mondo e quella causa prima una schiera di esseri intermedi, la cui colpa ha determinato la caduta, e attraverso questa, il mondo. Esse rimandano dun­ que, per così dire, la colpa dal sovrano ai ministri. Tale procedimento era indubbiamente già sugge­ rito dal mito del peccato originale, che dopo tutto rappresenta il punto culminante del giudaismo. Quegli esseri sono, presso gli Gnostici, il πλήρωμα, gli eoni, la ΰλη, il demiurgo, eccetera. La serie ven­ ne allungata a piacimento da ogni gnostico. Tutto questo procedimento è analogo a quello tentato dai filosofi fisiologici, i quali, per attenuare la contraddizione proveniente dall’ammettere un collegamento e un influsso reciproco nell’uomo tra una sostanza materiale e una immateriale, inseriro­ no delle realtà intermedie, come la fluidità e l’etereità nervosa, gli spiriti vitali, eccetera. Nei due

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casi si è tentato di dissimulare ciò che non si è po­ tuto abolire.

9. Scoto Erigena Quest’ammirevole personalità ci fornisce l’inte­ ressante spettacolo della lotta tra una verità cono­ sciuta e contemplata in modo autonomo e certi dogmi limitati, fissati da una precoce inoculazione, sottratti a ogni dubbio o quanto meno ad ogni at­ tacco diretto, e al tempo stesso ci pone di fronte al­ l’aspirazione, che da tutto ciò sorge in una nobile natura, di accordare in qualche modo la dissonanza determinatasi. La cosa però può avvenire solo in quanto i dogmi siano plasmati, sforzati e se è ne­ cessario conculcati, sino a che nolentes volentes si adattino alla verità conosciuta in modo originale, la quale rimane il principio dominante, per quan­ to sia costretta a vestirsi di un mantello strano e anche molesto. Erigena porta ovunque a termine felicemente questo metodo, nella sua grande opera De divisione naturae, e giunge ad applicarlo per­ sino all’origine del male e del peccato, come pure alla minaccia delle pene infernali: a questo punto il metodo fallisce, e proprio a causa deH’ottimismo, che è conseguenza del monoteismo ebraico. Nel quinto libro egli insegna il ritorno di tutte le cose a Dio, e inoltre l’unità e l’indivisibilità metafisica di tutta l’umanità, anzi di tutta la natura. Ora si può chiedere: dove rimane il peccato? Esso non può esistere in Dio. Dov’è l’inferno, con il suo do­ lore senza fine, com’è stato promesso? Chi dovrà entrarvi? L’umanità è già redenta, e lo è compietamente. Su questo punto il dogma rimane insupera­ bile. Erigena cade deplorevolmente in prolissi sofi­ smi, che si riducono a delle parole, ed è costretto

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infine a contraddizioni e ad assurdità, soprattutto per il presentarsi inevitabile della questione sul­ l’origine del peccato, che non può radicarsi né in Dio, né nella volontà da lui creata. In caso contra­ rio Dio sarebbe l’autore del peccato, come Erigena vede acutamente (p. 287 deìl’editio princeps, Ox­ ford, 1681). In tale circostanza egli si trova spinto a delle assurdità; il peccato non deve avere né una causa né un soggetto: « malum incausale est... penitus incausale et insubstantiale est » (ibid.). La causa profonda di tale intrico sta nel fatto che la dottrina della redenzione dell’umanità e del mon­ do, evidentemente di derivazione indiana, presup­ pone del pari la dottrina indiana, secondo cui l’ori­ gine del mondo (il Samsära dei buddhisti) è già inficiata dal male, è quindi un atto peccaminoso di Brahma, il quale a sua volta si identifica pro­ priamente con noi stessi: la mitologia indiana in­ fatti è ovunque trasparente. Al contrario, nel cri­ stianesimo quella dottrina della redenzione del mondo ha dovuto essere inserita nel teismo giudai­ co, per il quale il Signore non soltanto ha fatto il mondo, ma, inoltre, dopo di averlo creato, lo ha trovato ammirevole: πάντα καλά λίαν. Hine illae lacritriae·. di qui nascono quelle difficoltà ricono­ sciute pienamente da Erigena, il quale tuttavia non osò nella sua epoca affrontare le radici stesse del male. Ciononostante egli possiede la mitezza indostana, rifiutando le condanne e le pene eterne sta­ bilite dal cristianesimo. Ogni creatura razionale, animale, vegetale ed inorganica, deve giungere, se­ condo la sua intima essenza pur attraverso il corso necessario della natura, alla beatitudine eterna: es­ sa infatti è sorta dalla bontà eterna. Ai santi e ai giusti soltanto è Concessa la completa unificazione con Dio, la deificatio. Del resto Erigena è tanto one­ sto da non dissimulare il grande imbarazzo in cui lo pone l’origine del male: egli anzi lo confessa

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chiaramente nel passo citato del quinto libro. In realtà l’origine del male è lo scoglio su cui, oltre die il panteismo, naufraga anche il teismo: entram­ bi infatti contengono implicitamente l’ottimismo. Il male ed il peccato, nella loro duplice e terribile grandezza, non possono per contro essere aboliti, e anzi il primo non è che potenziato dalle pene in­ flitte al secondo. Come può avvenire tutto ciò in un mondo, che sia o esso stesso un Dio, oppure l'opera benevola di un Dio? Se gli avversari teisti gridano contro il panteismo: «Come? tutti gli es­ seri cattivi, terribili, mostruosi, debbono essere Dio?», i panteisti possono ben ribattere: «Come? tutti quegli esseri cattivi, terribili, mostruosi deb­ bono esser stati creati, de gaieté de coeur, da un Dio? ». Nelle stesse difficoltà Erigena si trova an­ che nell’altra sua opera a noi giunta, il libro De praedestinatione, che tuttavia è nettamente infe­ riore al De divisione naturae; in essa infatti egli non si presenta come filosofo, ma come teologo. Anche ora egli si dibatte miseramente entro quelle contraddizioni, basate in estrema analisi sulTinne-w sto del cristianesimo nell’ebraismo. I suoi sforzi non fanno che porre ancor maggiormente in luce tali contrasti. Dio deve aver creato tutto, senza tra­ lasciare assolutamente nulla, non c’è dubbio: «di conseguenza anche la cattiveria ed il male ». Que­ sta inevitabile deduzione deve essere taciuta, ed Erigena si vede costretto a ricorrere pietosamente a quelle sofisticherie. Il male e la cattiveria non debbono esistere affatto, debbono quindi essere nulla. Ma andiamo! E allora la colpa deve ricadere sulla volontà libera, che è stata creata è vero da Dio, libera però: ciò che essa intraprende in segui­ to non riguarda dunque Dio, dato per l’appunto che la volontà è libera, cioè può essere in un modo oppure nell’altro, buona tanto quanto cattiva. Bra­ vo! La verità però è che Tesser libero e Tesser crea­

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to sono due attributi annullantisi a vicenda, e quin­ di contraddittori; l’affermazione quindi che Dio ha creato degli esseri, dando loro al tempo stesso la libertà del volere, significa propriamente che egli li ha creati e contemporaneamente non li ha creati. Infatti operavi sequitur esse, cioè gli effetti o le azioni di un qualsiasi oggetto possibile non posso­ no mai esser altro se non le conseguenze della sua costituzione, che è la sola ad essere conosciuta attra­ verso quelli. Per esser libero nel senso qui richie­ sto, un essere non dovrebbe avere allora alcuna co­ stituzione, dovrebbe cioè addirittura esser niente, essendo e non essendo allo stesso tempo. Ciò che è infatti deve anche esser qualcosa: un’esistenza sen­ za essenza non si può neppur pensare. Se ora un essere è creato, esso è creato così come è costituito-, quindi è mal creato, se è mal costituito, e mal co­ stituito, se agisce male, cioè determina un effetto cattivo. Per tale motivo la colpa del mondo è così pure il suo male, innegabile allo stesso modo di quella, ritorna sempre al suo autore, onde prima Agostino, e poi Scoto Erigena hanno tentato vana­ mente di allontanarlo. Se per contro un individuo dev’essere libero mo­ ralmente, non potrà esser creato, e dovrà possedere una indipendenza, cioè essere qualcosa di origina­ rio, esistente per una propria forza primordiale ed una pienezza di diritti, senza dover essere riferito a qualcos’altro. La sua esistenza è allora il suo pro­ prio atto creativo, che si sviluppa e si propaga nel tempo, ponendo in luce una definitiva e determi­ nata costituzione di questo essere, costituzione tut­ tavia che è sua propria opera. La responsabilità per tutte le manifestazioni di una tale natura pesano quindi su di lui. Se inoltre un individuo dev’essere responsabile delle sue azioni, deve cioè poter essere imputabile, sarà necessario che esso sia libero. Dal­ la responsabilità e dall’imputabilità, testimoniate

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nella nostra coscienza, si deduce sicuramente che la volontà è libera, ed in secondo luogo, che è addi­ rittura quanto vi è di più primordiale: non soltan­ to l’agire dunque, ma già l’esistenza e l’essenza del­ l’uomo sono sua propria opera. Riguardo a tutto ciò io rimando alla mia trattazione sulla libertà del­ la volontà, dove lo si può trovare esposto dettaglia­ tamente e inconfutabilmente; per questo appunto i professori di filosofia hanno tentato di segregare dietro la più inviolabile cortina di silenzio questo scritto premiato. La colpa del peccato e del male viene rimandata in ogni caso dalla natura al suo autore. Se ora quest’ultimo è la stessa volontà, che si manifesta in tutti i suoi fenomeni, si è davvero giunti a buon porto: se invece dev’essere un Dio, la creazione del peccato e del male contraddice alla sua divinità. Leggendo Dionigi l’Aeropagita, cui tanto sovente si richiama Erigena, ho trovato che egli dev’esser stato decisamente il suo modello. Tanto il pantei­ smo di Erigena, quanto le sue teorie sulla malva­ gità e sul male, si ritrovano nelle loro linee fonda­ mentali già in Dionigi, con la differenza che presso quest’ultimo è solo accennato quello che Erigena ha sviluppato, espresso arditamente e descritto con fuoco. Erigena possiede assai più spirito di Dionigi, e questi gli ha dato soltanto il materiale e la dire­ zione della ricerca elaborando tutto ciò vigorosa­ mente in anticipo. Che l’opera di Dionigi sia spu­ ria non interessa, ed è indifferente sapere come si chiamasse l’autore del libro De divinis nominibus. Dal momento tuttavia che egli è verosimilmente vis­ suto in Alessandria, penso possa anche esser stato, per un’altra via a noi sconosciuta, il canale attra­ verso cui è forse giunta sino ad Erigena una piccola goccia di sapienza indiana. Infatti, come ha osser­ vato Colebrooke nella sua trattazione sulla filosofia degli indù (in Colebrooke, Miscellaneous essays,

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vol. I, p. 244), la terza tesi delle Kärikä di Kapila si ritrova in Erigena.

10. La Scolastica

Potrei stabilire il vero carattere distintivo della Scolastica nel fatto che il suo supremo criterio di verità sta nella Sacra Scrittura, cui ci si può quindi ancor sempre appellare contro ogni deduzione ra­ zionale. Tra le sue particolarità va annoverato il carattere continuamente polemico del suo modo di esposizione: ogni indagine si trasforma ben presto in una controversia il cui pro et contra genera un nuovo pro et contra e fornisce in tal modo alla con­ tesa il materiale, che in caso contrario le verrebbe tosto a mancare. La radice nascosta ed ultima di questa particolarità sta però nel contrasto tra ra­ gione e rivelazione. La giustificazione dell’antitesi tra realismo e no­ minalismo, e la conseguente possibilità della con­ tesa tanto a lungo e così accanitamente condotta al riguardo, si possono chiarire nel modo seguente. Io do il nome di rosso agli oggetti più diversi, se essi hanno questo colore. Evidentemente rosso è un semplice nome, con cui indico questo fenomeno re­ standomi indifferente a quale oggetto esso appar­ tenga. Allo stesso modo tutti i concetti comuni so­ no dei semplici nomi, indicanti proprietà che com­ paiono in cose diverse: queste cose per contro sono valide e reali. In tal modo il nominalismo ha evi­ dentemente ragione. Al contrario, quando noi osserviamo che tutte quelle cose effettive, le sole cui or ora sia stata con­ cessa la realtà, sono temporali, e debbono quindi tosto perire, mentre le proprietà, come rosso, duro, molle, vivente, vegetale, cavallo, uomo, indicate da

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quei nomi, continuano a sussistere intangibili e di conseguenza sono presenti in ogni tempo, dobbia­ mo ammettere che queste proprietà, pensate attra­ verso concetti comuni, che vengono indicati da quei nomi, posseggono una molto maggiore realtà, in virtù della loro indistruttibile esistenza; quest’ultitna dev’esser quindi attribuita ai concetti, non agli individui e il realismo ha quindi ragione. Il nominalismo porta propriamente al materia­ lismo; infatti, abolite tutte le proprietà, rimane al­ la fine soltanto la materia. Se dunque i concetti so­ no dei semplici nomi, gli individui invece la realtà, e le loro proprietà, in quanto particolari, sono pe­ riture, soltanto la materia rimarrà come qualcosa di permanente, cioè come realtà. A essere precisi, la sopraesposta giustificazione del realismo non va veramente riferita a esso, ma alla dottrina platonica delle idee, di cui il realismo è un ampliamento. Le forme eterne e le proprietà delle cose naturali, είδη, sono ciò che permane at­ traverso ogni mutamento, e ad esse è quindi attri­ buibile una realtà di specie più alta che non agli individui, in cui esse si presentano. Per contro tale qualità non spetta alle semplici astrazioni, non ap­ prendibili intuitivamente: quale realtà ad esempio può ritrovarsi in concetti come « rapporto, diffe­ renza, separazione, danno, indeterminatezza », ecce­ tera? Una certa parentela, o quanto meno un paralle­ lismo delle antitesi, si rende evidente, quando si contrapponga Platone ad Aristotele, Agostino a Pe­ lagio, i realisti ai nominalisti. Si potrebbe sostenere che in certo modo si manifesti qui una separazione polare della mentalità umana; ciò per la prima vol­ ta e nel modo più netto si è verificato, cosa alta­ mente notevole, in due uomini grandissimi, vissuti nello stesso periodo e l’uno accanto all’altro.

11. Bacone di Verulamio In un senso diverso e più specificamente determi­ nato, l’antitesi dichiarata e intenzionale rispetto ad Aristotele è rappresentata da Bacone di Verulamio. Il primo aveva anzitutto esposto e indagato il giu­ sto metodo, per giungere dalle verità generali a quelle particolari, cioè la via discendente: tale è la sillogistica, YOrganum Aristotelis. Bacone al con­ trario mostra la via ascendente, esponendo il meto­ do per giungere dalle verità particolari a quelle ge­ nerali: tale è l’induzione in antitesi alla deduzione, e viene esposta nel Novum organum. Questa espres­ sione scelta da Bacone, per contrapporsi ad Aristo­ tele, vuol significare « una maniera affatto diversa di affrontare la questione ». L’errore di Aristotele e ancor più degli aristotelici, stava nel presupporre che già essi possedessero propriamente ogni verità, che questa fosse contenuta nei loro assiomi, cioè in certe proposizioni a priori, o ritenute tali, e che per ottenere le verità particolari non occorresse al­ tro se non una deduzione da quelli. Un esempio di tale atteggiamento aristotelico è dato dai suoi libri De coelo. Per contro Bacone mostrò ora, e con ra­ gione, che quegli assiomi non potevano avere un tale nucleo e che la verità non era contenuta nei sistemi anteriori del sapere umano; al contrario, essa ne era rimasta fuori, cosicché avrebbe dovuto esservi introdotta, non già dedotta, e di conseguen­ za soltanto con Y induzione dovevano essere acqui­ site proposizioni generali e vere, di grande e di ric­ co contenuto. Gli Scolastici, seguendo Aristotele, pensavano: noi vogliamo anzitutto stabilire l’universale, e il particolare ne sarà dedotto, o addirittura troverà qui in seguito un posto, alla meglio per sé. Voglia­ mo quindi in primo luogo mettere in chiaro ciò che spetta all’ens, alla cosa in generale: quanto è

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< aratteristico delle cose particolari può essere ag­ giunto a poco a poco in seguito, indubbiamente an­ che attraverso l’esperienza. In nessun caso comun(|ue tutto ciò può alterare in qualche modo l’uni­ versale. Bacone invece disse: noi vogliamo anzitutto imparare a conoscere le cose particolari nel modo più completo possibile: alla fine riconosceremo an­ che cosa sia la cosa in generale. Tuttavia Bacone è inferiore ad Aristotele per il latto che il suo metodo della via ascendente non è per nulla diritto, sicuro e infallibile, quanto quello di Aristotele per la via discendente. Bacone stesso anzi, nelle sue ricerche fisiche, ha messo in disparte le regole del suo metodo, quali erano state date dal Nuovo Organon. Bacone si rivolse soprattutto alla fisica. Ciò che egli fece per questa, cioè il rifarsi da capo, fu com­ piuto subito dopo, per la metafisica, da Cartesio.

12. La filosofia moderna

*

Nei libri d’aritmetica si è soliti provare la giu­ stezza della soluzione di un problema quando i cal­ coli tornano, quando cioè non rimane alcun resto. La situazione è analoga per quanto riguarda I4 so­ luzione dell’enigma del mondo. Tutti i sistemi so­ no calcoli che non tornano: essi lasciano un resto, oppure anche, se si preferisce un paragone chimico, un precipitato insolubile. Quest’ultimo consiste nel fatto che, quando dai princìpi di tali sistemi si continua a dedurre conseguentemente, i risultati non corrispondono al mondo reale che ci si pre­ senta di fronte, non vi si adattano, e anzi molti aspetti della realtà rimangono in tal modo affatto inesplicabili. Così per esempio, con i sistemi mate­ rialistici, che fanno sorgere il mondo da una mate-

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ria fornita di proprietà puramente meccaniche, in conformità alle leggi della medesima, non si accor­ dano né la finalità ovunque ammirabile della natu­ ra, né la struttura della conoscenza, in cui anzitutto si presenta anche quella materia. Tale è dunque nel loro caso il resto. Allo stesso modo, nei sistemi teistici, e in misura non minore anche in quelli panteistici, non è possibile trovare un posto per il prevalente male fisico e la corruzione morale del mondo: tale risulta il resto, o se si vuole il precipi­ tato insolubile. Certo in questi casi non si manca di dissimulare siffatti resti con sofismi, e se è neces­ sario anche con semplici parole e frasi: a lungo an­ dare però ciò mostra la corda: in tal caso si ricer­ cano singoli errori di calcolo, dato che il conto non torna, sino a che alla fine si deve confessare come falso il punto di partenza. Quando invece la gene­ rale precisione e coerenza di tutte le proposizioni di un sistema è accompagnata a ogni passo da un ac­ cordo altrettanto generale con il mondo dell’espe­ rienza, senza che fra i due termini possa essere mai avvertita una dissonanza, ci troviamo di fronte al criterio della verità, alla sospirata risoluzione esatta del problema di calcolo. D’altra parte, già l’impo­ stazione è stata falsa, quando non si è affrontato sin dal principio il problema secondo il suo giusto verso, cosi da esser condotti in seguito di errore in errore. Ci si deve comportare con la filosofia come con molte altre cose: tutto dipende dal prenderla per il giusto verso. Il fenomeno del mondo, che si tratta di spiegare, offre peraltro infiniti appigli, di cui uno soltanto può essere il giusto: esso assomi­ glia a un gomitolo imbrogliato, con molti falsi capi del filo che gli penzolano attorno. Solo chi riesce a scoprire quello vero può sbrogliare tutto quanto. In tal caso ogni cosa può essere sviluppata facil­ mente da un’altra, e si rende così manifesto che proprio quello è stato il capo giusto. Si può fare

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anche il paragone con un labirinto, munito di cen(o ingressi ad altrettante gallerie, che riconducono lutte alla fine di nuovo all’esterno, dopo lunghi e intricatissimi meandri, a eccezione di un unico cor­ ridoio, i cui avvolgimenti portano realmente al centro, dove sta l’idolo. Quando si infila questa en­ trata, non si può sbagliare di strada: attraverso nessun’altra però si potrà mai raggiungere il termine desiderato — non nascondo però di esser dell’opi­ nione che soltanto la volontà in noi è l’estremità vera della matassa, la vera entrata del labirinto. Cartesio al contrario, seguendo l’esempio della Metafìsica di Aristotele, partì dal concetto di so­ stanza, da cui anche tutti i suoi successori non riu­ scirono a liberarsi. Egli sostenne tuttavia due spe­ cie di sostanza: la pensante e l’estesa. Esse doveva­ no agire reciprocamente attraverso Vinfluxus physicus: ciò si rivelò tosto come il resto di Cartesio. Tale influsso si verificava non soltanto dall’esterno all’interno con la rappresentazione del mondo ma­ teriale, ma anche dall’interno all’esterno tra la vo­ lontà (attribuita senza scrupoli al pensiero) e le azioni del corpo. Un più preciso rapporto tra que­ ste due specie di sostanza divenne ora il problema fondamentale, intorno a cui sorsero così grandi diffi­ coltà, che si fu costretti di conseguenza al sistema delle causes occasionnelles e della harmonia praestabilita, dopo che gli Spiritus animales, i quali in Cartesio avevano fatto da mediatori, non seppero più oltre servire.* Malebranche ritenne impensabile • Del resto gli Spiritus animales compaiono già in Vanini (De naturae arcanis, dial. 49) come qualcosa di cono­ sciuto. Il loro autore è forse Willisius (De anima brutorum, Genevae, 1580, pp. 35 sg.).21 Flourens, De la vie et de l’intelligence, li, p. 72, li attribuisce a Galeno. Anzi, già Giamblico, in Stobeo (Eclog., libro I, cap 52, § 29), li cita abbastanza chiaramente come una dottrina degli Stoici.

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ì’influxus physicus, senza però considerare che il medesimo è da lui ammesso senza sospetti in una creazione e in un governo del mondo materiale da parte di un Dio, che è uno spirito. Egli ricorse dun­ que al rimedio delle causes occasionnelles e del nous voyons tout en Dieu : e questo è il suo resto. Anche Spinoza, seguendo le tracce del suo maestro, partì da quel concetto di sostanza, quasi esso fosse qual­ cosa di dato. Egli identificò tuttavia esplicitamente le due specie di sostanza, la pensante e l’estesa, in modo da evitare la suddetta difficoltà. Però la sua filosofia divenne così principalmente negativa, ridu­ cendosi a una semplice negazione delle due grandi antitesi cartesiane: egli estese infatti tale processo identificativo anche all’altro contrasto, posto da Cartesio, tra Dio e mondo. Quest’ultima identifica­ zione peraltro rappresentava veramente un sempli­ ce metodo didattico, o una forma di esposizione. Sarebbe infatti stato troppo scandaloso dire sen­ z’altro: « non è vero che un Dio abbia creato que­ sto mondo, bensì esso esiste per una propria pie­ nezza di diritti »; egli preferì così un’espressione indiretta e disse: « il mondo stesso è Dio ». Non gli sarebbe mai venuto in mente di sostenere ciò, se avesse potuto partire senza scrupoli invece che dal giudaismo, dalla natura stessa. Questo modo di esprimersi serve al tempo stesso per dare alle sue dottrine l’apparenza di positività, mentre esse in fondo sono soltanto negative, tanto che il mondo è lasciato da lui propriamente senza spiegazione. La sua dottrina infatti si riduce a: « il mondo è, per­ ché è; ed è come è, perché è così ». (Con questa frase Fichte era solito mistificare i suoi studenti). La deificazione del mondo, sorgente nel modo sud­ detto, non permetteva però alcuna vera etica ed era inoltre in stridente contrasto con i mali fisici e la scelleratezza morale di questo mondo. E qui sta il suo resto.

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11 concetto di sostanza onde parte anche Spino­ za, è da lui assunto, si è detto, come un dato. A dire il vero, egli lo definisce, conformemente ai suoi scopi; non si preoccupa però della sua origine. Fu Locke infatti il primo, subito dopo di lui, a soste­ nere la grande dottrina che un filosofo, il quale vo­ glia dimostrare o dedurre qualcosa da concetti, deve anzitutto indagare l’origine di ciascuno di tali con­ cetti; il loro contenuto, e ciò che può esserne de­ dotto, è determinato pienamente dalla loro origine, in quanto fonte di ogni conoscenza raggiungibile attraverso di essi. Se Spinoza avesse indagato l’ori­ gine di quel concetto di sostanza, avrebbe alla fine dovuto scoprire che essa si riduce unicamente alla materia, e che quindi il vero contenuto del concet­ to non può essere formato se non dalle proprietà essenziali e accertabili a priori di tale materia. In realtà tutto ciò che Spinoza attribuisce alla sua so­ stanza trova una conferma nella materia, e ivi sol­ tanto: la sostanza non è nata, è cioè senza causa, eterna, una e unica, e le sue modificazioni sono l’estensione e la conoscenza. Quest’ultima le spett^ in quanto esclusiva qualità del cervello, che è mate­ riale. Spinoza è dunque un inconscio materialista: la materia tuttavia, che realizza dettagliatamente il suo concetto e lo comprova empiricamente, non è quella concepita falsamente e atomisticamente da Democrito e dai posteriori materialisti francesi, sen­ za alcuna proprietà che non sia meccanica, ma quel­ la intesa giustamente e fornita di tutte le sue inspie­ gabili qualità. A proposito di queste distinzioni ri­ mando alla mia opera principale (voi. Il, cap. 24, pp. 315 sgg.). Questo metodo di accogliere senza in­ dagini il concetto di sostanza, assumendolo come punto di partenza, si può trovare già presso gli Eleati, come risulta soprattutto dal libro aristoteli­ co De Xenophane eccetera. Anche Senofane, cioè, parte dall’öv, dalla sostanza, le cui proprietà sono

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dimostrate, senza che prima sia indagato oppure detto alcunché intorno all’origine della conoscenza di un tale oggetto: se per contro avvenisse qual­ cosa di simile, risulterebbe chiaramente quale sia l’oggetto di cui in realtà egli parla cioè quale intui­ zione sia in definitiva alla base del suo concetto e gli attribuisca una realtà. Non rimarrebbe allora in conclusione che la materia, per cui possa valere tutto ciò che egli dice. Nei capitoli seguenti, riguar­ danti Zenone, l’accordo con Spinoza si estende an­ che all’esposizione e al modo di esprimersi. Difficil­ mente si può quindi fare a meno di pensare che Spinoza abbia conosciuto e utilizzato questo scritto: ai suoi tempi Aristotele, anche se attaccato da Ba­ cone, godeva ancor sempre di alta fama, e del pari erano disponibili buone edizioni di lui, con versio­ ne latina. Secondo questa prospettiva Spinoza sa­ rebbe allora un semplice rinnovatore degli Eleati, come Gassendi lo è di Epicuro. Ancora una volta possiamo sperimentare come la vera novità e la completa originalità siano straordinariamente rare, in tutti i rami del pensiero e del sapere. Del resto, e in particolare per quel che riguarda la forma, il partire, come fa Spinoza, dal concetto di sostanza si basa sul falso presupposto, ch’egli ac­ cetta dal suo maestro Cartesio e che a questi era giunto da Anseimo di Canterbury, secondo cui Yexistentia può risultare dalVessentia, cioè da un semplice concetto può esser dedotta una esistenza, la quale sarebbe di conseguenza necessaria, o in altre parole, secondo cui, per opera della natura, o definizione, di una cosa soltanto pensata, ne vie­ ne di necessità che non soltanto essa è semplicemen­ te pensata, ma anche realmente sussistente. Carte­ sio aveva applicato questo falso presupposto al con­ cetto di ens perfectissimum-, Spinoza invece accolse quello di substantia o di causa sui (quest’ultimo esprime una contradictio in adjecto)·. si veda la sua

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prima definizione, che è il suo πρώτον ψεύδος, all’ini­ zio deìYEthica, e inoltre la prop. 7 del primo libro. La distinzione tra i presupposti dei due filosofi si riduce quasi a un diverso modo di esprimersi: l’uso però di tali princìpi come punti di partenza, cioè come dati, si fonda nell’uno come nell’altro caso sull’aberrazione di far scaturire la rappresentazione intuitiva da quella astratta, mentre in realtà ogni rappresentazione astratta sorge da una intuitiva ed è basata su di essa. Ci troviamo qui di fronte a un fondamentale ύστερον πρότερον. Spinoza si è addossato una difficoltà di natura particolare, chiamando Deus la sua unica sostanza, dato che questa parola era stata usata sino allora per indicare un ben diverso concetto: egli deve dunque combattere continuamente contro gli equi­ voci sorti dal fatto che il lettore continua a colle­ gare con il concetto indicato, secondo le prime spie­ gazioni di Spinoza, attraverso tale nome, quell’altro concetto da esso altrimenti significato. Se egli non avesse usato tale parola, avrebbe potuto fare a me­ no della lunga e faticosa trattazione del primo li-« bro. Si comportò invece cosi, perché la sua dottri­ na suscitasse meno scandalo senza peraltro raggiun­ gere il suo scopo. In questa maniera una certa am­ biguità attraversa tutta la sua esposizione, la quale si potrebbe quindi chiamare in certo modo allçgorica, tanto più che egli si comporta allo stesso modo per un paio di altri concetti, come già si è osservato sopra (nella mia prima trattazione). La sua cosid­ detta Ethica sarebbe risultata ben più chiara, e di conseguenza migliore se egli avesse chiamato le co­ se con il loro vero nome, se cioè in generale avesse esposto i suoi pensieri con le loro ragioni, sincera­ mente e naturalmente, invece di presentarli calzati negli stivali spagnoli delle loro proposizioni, dimo­ strazioni, scòli e corollari, ossia rivestiti di questa uniforme presa a prestito dalla geometria, unifor-

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me che invece di dare alla filosofia la certezza di quella scienza perde piuttosto ogni suo valore, non appena cessi di rivestire la geometria e la sua co­ struzione di concetti. Anche qui può dirsi quindi: cucullus non facit monachum. Nel secondo libro Spinoza presenta i due modi della sua unica sostanza come estensione e rappre­ sentazione (extensio et cogitatio); ciò evidentemen­ te costituisce una falsa divisione, poiché l'estensio­ ne esiste di certo solo per e nella rappresentazione, e non si può quindi contrapporre a questa, bensì dev’esserle subordinata. Spinoza esalta ovunque espressamente e con insi­ stenza la laetitia, considerandola condizione e segno distintivo di ogni azione degna di lode, mentre ri­ fiuta incondizionatamente ogni tristitia, nonostante che il suo Antico Testamento gli dica: « la tristezza è migliore del riso, poiché attraverso la tristezza il cuore viene migliorato » (Eccl., 7, 4). Tutto ciò è da lui compiuto per amore di coerenza: questo mondo infatti è un Dio, ha il suo fine in se stesso, e deve quindi rallegrarsi e vantarsi della sua esi­ stenza: così, saute Marquis! Semper allegri, numquam tristi! Il panteismo è essenzialmente e neces­ sariamente ottimistico. Questo ottimismo obbligato costringe poi Spinoza a parecchie altre deduzioni, tra cui spiccano le assurde e spesso molto urtanti proposizioni della sua filosofia morale, che nel ca­ pitolo 16 del suo Tractatus theologico-politicus finiscono per diventare delle vere e proprie infa­ mie. Per contro egli lascia talvolta correre la coe­ renza, quando essa potrebbe suscitare delle opinio­ ni giuste, per esempio nelle sue affermazioni, tanto indegne quanto false, sugli animali (Eth., parte iv, Appendice, cap. 26; inoltre parte tv, prop. 37, sco­ lio). Qui egli parla proprio, come lo sa fare un ebreo, secondo i capitoli 1 e 9 della Genesi, tanto che noi, abituati a dottrine più pure e più degne,

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siamo sopraffatti dal foetor judaicus. Non sembra che egli abbia affatto conosciuto i cani. Alla tesi indisponente con cui ha inizio il suddetto capito­ lo 26: « Praeter homines nihil singulare in natura novimus, cujus mente gaudere et quod nobis amicitia, aut aliquo consuetudinis genere jüngere possumus », la miglior risposta è data da un uomo di lettere spagnolo dei nostri giorni (Larra, pseudo­ nimo Figaro, in Doncel, cap. 33): «El que no ha tenido un perro, no sabe lo que es querer y ser querido ». (Chi non ha tenuto con sé un cane, non sa cosa sia amare ed essere amato). I tormenti che, secondo Colerus, Spinoza era solito infliggere per proprio divertimento, e ridendo di cuore, ai ragni e alle mosche rispondono sin troppo bene ai prin­ cìpi sopra biasimati, come pure ai citati capitoli della Genesi. Per tutti questi motivi V Etica di Spi­ noza è una continua mescolanza di falso e di vero, di cose degne di ammirazione e di altre meschine. Verso la fine dell’opera, nella seconda metà dell’ul­ timo libro, lo vediamo invano sforzarsi per diven­ tare chiaro di fronte a se stesso: egli non ne è ca­ pace, e non gli rimane quindi null’altro se non di assumere un atteggiamento mistico, come infatti avviene. Per non essere ingiusti tuttavia verso que­ sto spirito indubbiamente grande, dobbiamo pen­ sare che prima di lui ancor troppo poco era stato fatto, e si può dire soltanto da Cartesio, Malebran­ che, Hobbes, Giordano Bruno. I concetti filosofici fondamentali non erano ancora sufficientemente elaborati, né i problemi convenientemente venti­ lati. Leibniz partì del pari dal concetto di sostanza, come da qualcosa di dato, insistendo principalmen­ te sul fatto che tale sostanza dev’essere indistrutti­ bile. A questo fine occorreva che essa fosse sempli­ ce, essendo ogni cosa estesa divisibile e quindi di­ struttibile. Essa era dunque priva di estensione,

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cioè immateriale. Non rimasero allora per la sua sostanza altri predicati, se non quelli spirituali, cioè percezione, pensiero e desiderio. Egli stabilì un numero infinito di tali sostanze spirituali semplici; esse dovevano giustificare il fenomeno dell’esten­ sione, per quanto esse stesse non fossero estese: fu­ rono quindi definite da lui come atomi formali, come sostanze semplici (Opera, ed. Erdmann, pp. 124, 676), e fu loro dato il nome di monadi. Que­ ste ultime devono così costituire la base del feno­ meno del mondo materiale, che si riduce dunque a una semplice apparenza, priva di una vera e imme­ diata realtà. La realtà per contro tocca solo alle monadi, che si nascondono nel fenomeno e dietro di esso. Tale fenomeno del mondo materiale viene poi ancora a costituirsi, per un altro verso, nella percezione delle monadi (cioè di quelle che real­ mente percepiscono, pochissime in verità, dal mo­ mento che per la maggior parte esse dormono con­ tinuamente), per opera dell’armonia prestabilita: lo spettacolo è messo in scena dalla monade cen­ trale, senza' aiuto e a proprie spese. A questo punto cominciamo a entrare nel buio. Comunque sia, la mediazione tra i semplici pensieri di queste sostan­ ze e l’estensione reale, in sé, è curata da un’armo­ nia, prestabilita dalla monade centrale. Qui, si po­ trebbe dire che tutto quanto è « resto ». Tuttavia, per rendere giustizia a’ Leibniz, dev’essere ricorda­ to il modo di considerare la materia, prevalente in quei tempi per opera di Locke e di Newton, secon­ do il quale cioè essa risulta assolutamente morta, puramente passiva e priva di volontà, soltanto do­ tata di forze meccaniche e unicamente sottomessa a leggi matematiche. Leibniz per contro rifiuta gli atomi e la fisica puramente meccanica, per sosti­ tuirvi una fisica dinamica, preparando il terreno in questo campo a Kant. (Cfr. Opera, ed. Erdmann, p. 694). Nel far ciò egli riprese anzitutto le formae

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substantiates degli Scolastici, giungendo in seguito a comprendere che persino le forze soltanto mec­ caniche della materia — le uniche, o quasi, che fos­ sero allora conosciute o ammesse — dovevano avere come base qualcosa di spirituale. Egli non seppe però chiarire altrimenti la cosa, se non con la fin­ zione assai goffa, secondo cui la materia sarebbe costituita semplicemente da animucce, le quali sa­ rebbero al tempo stesso atomi formali e si trovereb­ bero per lo più in uno stato di stordimento, pur possedendo un qualcosa di analogo alla perceptio e M’appetitus. A questo punto egli fu tratto in er­ rore — come tutti gli altri, senza eccezione — dall’aver posto come fondamento e conditio sine qua non di tutto ciò che è spirituale la conoscenza, in luogo della volontà: io per primo ho rivendicato a questa il primato che le spetta, rivoluzionando in tal modo tutto quanto nella filosofia. Comunque lo sforzo di Leibniz per porre un unico principio a fondamento dello spirito e della materia merita un riconoscimento. Si potrebbe anzi scorgere in ciò un presentimento tanto della dottrina kantiana quan­ to della mia, quas velut trans nebulam vidit. Alla base infatti della sua monadologia sta già il pensie­ ro che la materia non è affatto cosa in sé, ma sem­ plice apparenza; il fondamento ultimo dell’azione, anche soltanto meccanica, della materia, non deve quindi esser ricercato in qualcosa di puramente geometrico, cioè in quel che appartiene soltanto all’apparenza, come estensione, movimento, figura. Per conseguenza, già l’impenetrabilità non risulta una proprietà semplicemente negativa, ma l’estrin­ secazione di una forza positiva. La sullodata opinio­ ne basilare di Leibniz è espressa nel modo più chia­ ro in alcuni scritti minori in francese, come nel Système nouveau de la nature e in altri, che sono raccolti nell’edizione di Erdmann dal Journal des savans e dall’edizione di Diitens, e inoltre nelle

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Lettere, pubblicate da Erdmann, pp. 681-695. Una raccolta ben scelta dei passi di Leibniz riguardanti tale questione può anche trovarsi nelle pp. 335-340 dei suoi Kleinere philosophischen Schriften, tra­ dotti da Köhler e rivisti da Huth, Jena, 1740. In generale, però, in tutta questa catena di strane dottrine dogmatiche, possiamo vedere una finzione richiamarne sempre un’altra come appoggio, pro­ prio come nella vita pratica una menzogna pone la necessità di molte altre. Alla base sta la separazione cartesiana di tutto ciò che esiste in Dio e mondo, e dell’uomo in spirito e materia. In quest’ultima ri­ cade anche tutto il resto. A ciò si aggiunga l’errore, comune a questi e a qualsiasi altro filosofo, di porre la nostra intima essenza nella conoscenza, anziché nella volontà, e di assegnare quindi a quest’ultima la posizione secondaria, alla conoscenza invece quel­ la predominante. Tali furono gli errori primordia­ li, contro cui in ogni momento protestarono la na­ tura e la realtà delle cose, e per tenere in piedi i quali furono in seguito escogitati gli Spiritus ani­ males, la materialità degli animali, la causa occasio­ nale, il veder-ogni-cosa-in-Dio, l’armonia prestabili­ ta, le monadi, l’ottimismo, e quant’altro era possi­ bile: per me invece, che ho afferrato le cose per il loro giusto verso, tutto si adatta automaticamente, ogni oggetto si presenta in una luce appropriata, non è più necessaria alcuna finzione, ed il simplex è sigillum veri. Kant non fu toccato direttamente dal problema della sostanza. Egli è al di là. Per lui il concetto di sostanza è una categoria, cioè una semplice forma a priori del pensiero. Con essa però, applicata com’è necessariamente all’intuizione sensibile, nulla viene conosciuto così com’è in se stesso: in tal modo l’essenza, che sta alla base tanto dei corpi quanto delle anime, può davvero essere in se stessa un’uni­ ca ed identica cosa. Tale è la sua dottrina. Essa mi

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aprì la strada e mi aiutò a comprendere che il cor­ po di ognuno è soltanto l’intuizione, sorgente nel suo cervello, della sua volontà; questo rapporto, esteso poi a tutti i corpi, mi ricondusse alla ridu­ zione del mondo a volontà e rappresentazione. Quel concetto di sostanza per altro, che, sulle tracce di Aristotele, Cartesio stabilisce come con­ cetto fondamentale della filosofia, e dalla cui defi­ nizione quindi anche Spinoza, pur alla maniera de­ gli Eleati, prende le mosse, ad un’indagine precisa ed onesta si rivela una superiore ma ingiustificata astrazione del concetto di materia, che oltre a que­ sta deve anche riguardare il fanciullo sostituito di soppiatto, cioè la sostanza immateriale. Tutto ciò è stato da me dettagliatamente esposto nella Criti­ ca della filosofia kantiana, pp. 550 sgg. della secon­ da edizione (3 * ed., pp. 581 sgg.). Anche a prescin­ dere da questo, il concetto di sostanza non serve come punto di partenza della filosofia, già per il solo fatto di essere in ogni caso oggettivo. Tutto ciò che è oggettivo è per noi sempre solo mediato; ciò che è oggettivo soltanto è immediato, e non lo· si può trascurare, bensì da esso si deve assolutamen­ te partire. La cosa a dire il vero è stata fatta pro­ prio da Cartesio, il quale anzi fu il primo a ricono­ scerla ed a metterla in atto. Per questa ragione ap­ punto una nuova epoca fondamentale della filoso­ fia comincia con lui: senonché bisogna dire che egli si comporta a questo modo in via puramente preliminare, nel primissimo slancio. Dopo di ciò lo vediamo immediatamente accogliere, sul credito della veracità di Dio, l’obiettiva e assoluta realtà del mondo, e continuare d’ora in poi a filosofare in modo interamente oggettivo. Nel far questo egli si rende inoltre colpevole di un non trascurabile circulus vitiosus. Egli dimostra cioè la realtà oggettiva dei contenuti di tutte le nostre rappresentazioni in­ tuitive attraverso 1’esistenza di Dio, loro autore, la

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cui veracità non permette che egli possa ingannar­ ci : 1’esistenza di Dio viene secondo lui poi dimo­ strata dalla rappresentazione innata, che presumi­ bilmente dovremmo avere di lui come dell’essere perfettissimo. Uno dei suoi compatrioti dice di lui: « Il commence par douter de tout, et finit par tout croire ».22 Berkeley per il primo ha preso sul serio lo spunto soggettivo e ha esposto in modo perentorio la sua inevitabile necessità. Egli è il padre dell’idealismo, cioè è il fondamento di ogni vera filosofia, che da allora è stato costantemente mantenuto, almeno co­ me punto di partenza, anche se ognuno dei filosofi seguenti tentò al riguardo delle modulazioni e delle deviazioni. Così, ad esempio, già Locke era partito dal soggettivo, rivendicando alle nostre impressio­ ni sensibili gran parte delle proprietà dei corpi. Tuttavia bisogna osservare che la sua riduzione di tutte le distinzioni qualitative, come qualità secon­ darie, ad altre puramente quantitative, cioè gran­ dezza, figura, posizione, eccetera, come uniche qua­ lità primarie, ossia oggettive, si riporta in fondo alla dottrina di Democrito, il quale allo stesso modo aveva ricondotto tutte le qualità alla figura, al mo­ do di raggrupparsi ed alla posizione degli atomi. Ciò è espresso in modo particolarmente chiaro nel­ la Metafisica di Aristotele, libro primo, cap. 4, e in Teofrasto, De sensu, capp. 61-65. Locke sarebbe così un rinnovatore della filosofia democritea come Spinoza di quella eleatica. Inoltre egli ha realmen­ te preparato la strada al posteriore materialismo francese. Con questa provvisoria distinzione tra l’a­ spetto soggettivo e quello oggettivo dell’intuizione, egli ha peraltro anticipato immediatamente Kant, il quale seguendo su di un piano assai più elevato la sua traccia e la sua direzione, giunse a separare nettamente il soggettivo dall’oggettivo; in tale pro­ cesso per altro al soggettivo toccò una parte così

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prevalente che l’oggettivo rimase solamente un pun­ to assai oscuro, un qualcosa non ulteriormente co­ noscibile: la cosa in sé. Quest’ultima a sua volta è stata da me ricondotta all’essenza, che noi scopria­ mo come volontà nella nostra autocoscienza; nel far ciò io sono ritornato nuovamente alla fonte soggettiva della conoscenza. E non poteva andare diversamente, poiché, come si è detto, tutto ciò che è oggettivo rimane sempre qualcosa di secondario, cioè una rappresentazione. Noi non possiamo dun­ que cercare il più intimo nucleo degli esseri, la co­ sa in sé, al di fuori, bensì unicamente dentro di noi, cioè nel soggettivo, che solo è immediato. A ciò si aggiunge che per quanto riguarda l’aspetto oggettivo noi non possiamo mai pervenire ad un punto fermo, a qualcosa di ultimo e di originario, poiché siamo qui nella sfera delle rappresentazioni, e queste hanno tutte quante come forma essenziale il principio di ragione, nei suoi quattro aspetti : di conseguenza ogni oggetto deve senz’altro ricadere ed essere subordinato alle regole di tale principio. Ad esempio, quando si suppone una realtà oggetti­ vamente assoluta, si presenta immediatamente la domanda dissolvitrice « donde? perché? », e quel­ l’assoluto viene meno e deve cadere. Le cose vanno diversamente, quando ci immergiamo nella tran­ quilla, per quanto oscura, profondità del soggetto. Qui per altro ci minaccia il pericolo di cadere nel misticismo. Da questa fonte possiamo quindi attin­ gere soltanto ciò che è realmente vero, accessibile a tutti e a ciascuno, e di conseguenza assolutamente innegabile. La dianoiologia, che ha prevalso prima di Kant, come risultato delle indagini iniziate da Cartesio, si può trovare esposta en résumé e con ingenua chiarezza in Muratori, Della fantasia, capp. 1-4 e 13. Locke è presentato qui come un eretico. Il tutto è un complesso di errori, onde si può dedurre quan-

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to diversamente io abbia concepito ed esposto il problema, dopo di aver avuto come predecessori Kant e Cabanis. Tale dianoiologia e tale psicologia sono interamente costruite sul falso dualismo carte­ siano, e a esso in quest’opera tutto è ricondotto per fas et nefas, anche i molti dati di fatto giusti e interessanti che vi sono riportati. Tutto il procedi­ mento è interessante come tipo.

13. Alcuni chiarimenti ulteriori alla filosofia kantiana

Come motto della Critica della ragione pura sa­ rebbe molto adatto un passo di Pope (Works, voi. 6, p. 374, ed. di Basilea), scritto circa ottant’anni prima: « Since ’tis reasonable to doubt most things, we should most of all doubt that reason of ours which would demonstrate all things ».“ L’autentico spirito della filosofia kantiana, il suo pensiero fondamentale ed il vero suo significato possono essere còlti e rappresentati in molti modi; tali diverse prospettive ed espressioni del contenuto saranno però l’una più appropriata dell’altra, se­ condo la diversità delle intelligenze, a fornire al­ l’uno o all’altro individuo un retto intendimento di quella profondissima e quindi difficilissima dot­ trina. Quanto segue è un nuovo tentativo di que­ sta specie, il quale si sforza di applicare la mia chia­ rezza alla profondità di Kant.* Alla base della matematica stanno delle intuizio­ ni, su cui si appoggiano le sue dimostrazioni: dal * Una volta per tutte faccio osservare che la numerazio­ ne delle pagine nella prima edizione della Critica della ragione pura — secondo cui ho l’abitudine di citare — è riportata anche nell'edizione di Rosenkranz.

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momento però che queste intuizioni non sono em­ piriche, ma a priori, le sue dottrine risultano apo­ lli ttiche. La filosofia al contrario ha come dato, on­ de essa prende le mosse, e che deve fornire necessi­ tà (apoditticità) alle sue dimostrazioni, semplicemente dei concetti. Essa non può infatti basarsi sull’intuizione puramente empirica, poiché si pro­ pone di spiegare le cose nella loro universalità, non nella singolarità, e nel far ciò la sua intenzione è di oltrepassare il dato empirico. Non le rimane al­ lora altro se non i concetti universali, che non sono alcunché di intuitivo, di puramente empirico. Sif­ fatti concetti debbono quindi fornire il fondamento delle sue dottrine e delle sue dimostrazioni, e da essi occorre partire, come da qualcosa di sussistente e di dato. Di conseguenza la filosofia è una scienza di semplici concetti, mentre la matematica si fonda sulla costruzione (esposizione intuitiva) dei suoi concetti. Per esser precisi tuttavia, è soltanto il pro­ cedimento dimostrativo della filosofia che parte da semplici concetti. In verità tale procedimento non può partire, come quello matematico, da un’intui­ zione, poiché questa dovrebbe essere o pura, a prio­ ri, oppure empirica, mentre sappiamo che la se­ conda non fornisce alcuna apoditticità, e la prima invece dà luogo soltanto alla matematica. Se quin­ di la filosofia vuole giustificare in qualche modo le sue dottrine con una dimostrazione, questa dovrà consistere in un’esatta deduzione logica dai concetti posti come fondamento. In tal modo le cose erano andate lisce per tutto il lungo periodo della Scola­ stica e persino nella nuova epoca fondata da Carte­ sio, tanto che vediamo tale metodo seguito ancora da Spinoza e da Leibniz. Alla fine però era venuto in mente, a Locke, di indagare l’origine dei con­ cetti, e il risultato era stato che tutti i concetti ge­ nerali, per quanto ampi possano essere, si rivelano attinti dall’esperienza, cioè dall’immediato, intuiti-

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vo ed empirico mondo reale, oppure anche dal­ l’esperienza interna, quale è fornita a ciascuno dal­ l’osservazione empirica di sé. I concetti acquistano così tutto il loro contenuto unicamente da queste due fonti e di conseguenza non possono in nessun caso fornire più di quanto non abbiano ricevuto dall’esperienza esterna, oppure da quella interna. Da queste premesse a rigore si sarebbe già dovuto dedurre che i concetti non possono mai condurre al di là dell’esperienza, cioè non possono raggiungere il risultato finale: senonché Locke con dei princìpi attinti dall’esperienza, oltrepassò l’esperienza stessa. Contrapponendosi in modo più accentuato alle dottrine precedenti, e allo scopo di correggere quel­ la lockiana, Kant mostrò allora che esistono sì al­ cuni concetti facenti eccezione alla regola suddetta, ossia non derivanti dall’esperienza, ma che al tem­ po stesso proprio questi in parte sono attinti dal­ l’intuizione pura, cioè data a priori, dello spazio e del tempo, e in parte costituiscono le funzioni ca­ ratteristiche del nostro stesso intelletto, ai fini del­ l’esperienza, che con il loro uso si costituisce. In questo modo la loro validità si estende soltanto a un’esperienza possibile, e tale da esser mediata dai sensi, poiché essi stessi sono semplicemente desti­ nati a generare in noi, su eccitamento dell’impressione sensibile, tale esperienza, con tutto il suo svi­ luppo conforme a leggi; questi concetti dunque, in se stessi privi di contenuto, ricevono soltanto dalla sensibilità tutta la materia e il contenuto, per poi produrre in tal modo l’esperienza, e a prescindere da tale sensibilità non hanno né significato né con­ tenuto, essendo validi solo con il presupposto di un’intuizione basata su un’impressione sensibile, cui si riferiscono in modo essenziale. Da ciò segue che essi non possono servire di guida per condurci al di là di ogni possibilità dell’esperienza; onde ul­ teriormente si può dedurre che la metafisica, come

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scienza di ciò che sta al di là della natura, cioè per l’appunto al di là della possibilità dell’esperienza, è impossibile. Dal momento dunque che una parte costitutiva dell’esperienza, la parte cioè universale, formale e conforme a leggi, è conoscibile a priori, e proprio per questo si fonda sulle funzioni essenziali e neces­ sarie del nostro proprio intelletto, mentre l’altra parte, quella cioè particolare, materiale, e contin­ gente, sorge dall’impressione sensibile, si dovrà al­ lora dire che tutte e due sono di origine soggettiva. Di qui segue che tutta quanta l’esperienza, con il mondo che vi si presenta, è una semplice apparen­ za, cioè qualcosa che sussiste anzitutto e immediata­ mente solo per il soggetto che lo conosce: tale ap­ parenza accenna però a una qualche cosa in sé che le sta alla base, e che tuttavia, in quanto tale, è senz’altro inconoscibile. Questi sono i risultati ne­ gativi della filosofia kantiana. Devo ricordare al riguardo che Kant si comporta come se noi fossimo semplicemente degli esseri co­ noscenti, e non avessimo quindi affatto alcun dato * all’infuori della rappresentazione; occorre piuttosto dire che indubbiamente noi possediamo un altro ancora di questi dati nella volontà che sta in noi, differente toto genere dalla rappresentazione. A di­ re il Vero, egli ha preso in considerazione anche quest’ultima, non però nella filosofia teoretica, ma soltanto in quella pratica, che per lui è del tutto separata dall’altra. Egli ha fatto questo unicamente allo scopo di assodare l’importanza puramente mo­ rale del nostro agire, e per fondare su ciò una dottrina della fede morale, in contrapposizione al­ l’ignoranza teoretica, come pure, di conseguenza, l’impossibilità di ogni teologia, cui secondo quanto si è detto andiamo incontro. La filosofia di Kant è anche chiamata, con un nome che la distingua, anzi la contrapponga a ogni

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altra, filosofia trascendentale, e più particolarmente idealismo trascendentale. Il termine « trascenden­ te » non è di origine matematica, ma filosofica, poi­ ché già era frequente presso gli Scolastici. Leibniz per il primo l’introdusse nella matematica, per in­ dicare « quod Algebrae vires transscend it », cioè tutte le operazioni, a compiere le quali non sono sufficienti l’aritmetica e l’algebra comuni — ad esempio, la ricerca del logaritmo di un numero, o viceversa, oppure anche la determinazione, da un punto di vista puramente aritmetico, delle funzioni trigonometriche di un arco o viceversa — per indi­ care quindi in generale tutti i problemi risolubili soltanto con un calcolo esteso all’infinito. Gli Sco­ lastici invece chiamarono trascendenti i concetti su­ premi, cioè quelli ancor più generali delle dieci ca­ tegorie di Aristotele, e ancora Spinoza usa la parola in tale significato. Giordano Bruno (Della causa ecc., dial. 4) chiama trascendenti i predicati, la cui universalità è superiore alla distinzione tra sostanza corporea e incorporea, cioè quelli che toccano alla sostanza in generale: essi riguardano, secondo lui, quella radice comune, in cui si unificano il corpo­ reo e l’incorporeo, e che costituisce la vera e origi­ naria sostanza. Proprio in ciò anzi egli vede una dimostrazione che una tale sostanza deve sussistere. Kant intende con trascendentale anzitutto il rico­ noscimento dell’a priori, e di ciò che è semplicemente formale nella nostra conoscenza, proprio in quanto tale-, cioè il comprendere che siffatta cono­ scenza è indipendente dall’esperienza, e anzi impo­ ne ad essa la regola immutabile, secondo cui deve presentarsi. Tutto ciò è connesso poi alla compren­ sione del perché tale conoscenza sia questo e possa questo; il perché sta nel fatto che essa costituisce la forma del nostro intelletto, ossia la spiegazione va ricercata nella sua origine soggettiva: di conseguen­ za soltanto la critica della ragione pura è propria-

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mente trascendentale. In contrapposizione a ciò, egli chiama trascendente l’uso, o piuttosto l’abuso, di quel lato puramente formale della nostra cono­ scenza, la sua estensione al di là della possibilità dell’esperienza: la stessa cosa è da lui anche desi­ gnata con il termine « iperfisico ». A dirla in breve, trascendentale significa quindi « anteriormente a ogni esperienza », trascendente invece « al di là di ogni esperienza ». Kant riconosce dunque la meta­ fisica solo come filosofia trascendentale, cioè teoria dell’aspetto formale, in quanto tale, contenuto nel­ la nostra coscienza conoscitiva, e come dottrina del­ la limitazione in tal modo ottenuta, onde ci è pre­ clusa la conoscenza delle cose in sé, non potendoci l’esperienza fornire null’altro se non semplici appa­ renze. La parola metafisico non è tuttavia per lui un perfetto sinonimo di trascendentale: tutto ciò che è certo, a priori, ma riguarda l’esperienza, è da lui chiamato metafisico; per contro l’indicazione di ciò che è certo, a priori, unicamente per la sua ori­ gine soggettiva e come alcunché di puramente for­ male, ha solo il nome di trascendentale. Trascen­ dentale è la filosofia cosciente del fatto che le prime e più essenziali leggi del mondo che ci si presenta sono radicate nel nostro cervello, e vengono per tal motivo conosciute a priori. Essa si chiama trascen­ dentale, poiché oltrepassa ogni fantasmagoria del dato, per giungere alla sua origine. Per questo mo­ tivo dunque, come si è detto, soltanto la Critica della ragione pura, e in genere la filosofia critica (cioè kantiana), è trascendentale:* metafisici invece sono i Fondamenti iniziali della scienza naturale, come pure quelli della Dottrina della virtù, ecce­ tera. Il concetto di una filosofia trascendentale può es* La Critica della ragione pura ha trasformato l’ontolo­ gia in dianoiologia.

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ser tuttavia còlto in un senso più profondo, quando si tenti di concentrarvi il più intimo spirito della filosofia kantiana pressappoco nel modo seguente. Che tutto il mondo ci sia dato solo secondo una prospettiva secondaria, come rappresentazione, im­ magine nel nostro capo, fenomeno cerebrale, men­ tre la nostra propria volontà ci è offerta immedia­ tamente nell’autocoscienza, e che di conseguenza intervenga una separazione, anzi un’antitesi tra la nostra propria esistenza e quella del mondo, tutto ciò insomma è un semplice risultato della nostra esistenza individuale e animale, che con la cessazio­ ne di quest’ultima viene meno. Sino a quel mo­ mento però ci è impossibile abolire col pensiero quella forma fondamentale e originaria della no­ stra coscienza, ossia ciò che è chiamato la distinzio­ ne tra soggetto e oggetto : ogni pensiero e ogni rap­ presentazione infatti la presuppongono, e di conse­ guenza noi l’ammettiamo in ogni caso, concedendo­ le la validità di ciò che costituisce l’essenza primor­ diale e la qualità fondamentale del mondo. In real­ tà però essa è soltanto la forma della nostra co­ scienza animale e delle apparenze da questa media­ te. Di qui peraltro hanno origine tutte le questioni sul principio, la fine, i limiti e la nascita del mon­ do, sulla nostra sopravvivenza dopo la morte, ecce­ tera. Esse sono quindi tutte basate su di un falso presupposto, che attribuisce alla cosa in sé ciò che è soltanto la forma dell’apparenza — ossia delle rappresentazioni mediate da una coscienza animale e cerebrale — spacciando di conseguenza tutto ciò come struttura originaria e fondamentale del mon­ do. Tale è il significato dell’espressione kantiana: tutti questi problemi sono trascendenti. Essi non sono dunque suscettibili di alcuna soluzione, non soltanto subjective, ma in sé e per sé, cioè objective. Si tratta infatti di problemi, che cadono compietamente con l’abolizione della nostra coscienza cere-

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brale e dell’antitesi basata su di questa, e che pure vengono impostati come ne fossero indipendenti. Chi ad esempio si domanda se sopravviverà dopo la morte abolisce, in hypothesi, la sua coscienza ani­ male e cerebrale, pur domandandosi qualcosa, che ha senso soltanto quando si presupponga tale co­ scienza, e si basa infatti sulla forma di questa, cioè su soggetto, oggetto, spazio e tempo: la questione riguarda cioè 1’esistenza di tale individuo. Orbene una filosofia che si renda chiaramente conto di tutte queste condizioni e di queste limitazioni, in quanto tali, è trascendentale, e se rivendica al soggetto le determinazioni universali e fondamentali del mon­ do oggettivo, essa è idealismo trascendentale. A po­ co a poco si giungerà a vedere che i problemi della metafisica sono insolubili solo in quanto nelle que­ stioni stesse è già contenuta una contraddizione. L’idealismo trascendentale tuttavia non contesta affatto al mondo che ci si presenta la sua realtà empirica, e afferma soltanto che quest’ultima non è incondizionata — dal momento che essa ha come condizione le nostre funzioni cerebrali, onde sorgo­ no le forme dell’intuizione, cioè tempo, spazio e causalità — e che in tal modo questa stessa realtà empirica è soltanto la realtà di un’apparenza. Quando poi ci si presenta qui una molteplicità di esseri — alcuni dei quali continuamente muoiono e altri nascono — poiché noi sappiamo che la molte­ plicità è possibile solo attraverso la forma dell’in­ tuizione dello spazio, e che il morire e il nascere sono possibili solo attraverso quella del tempo, sa­ remmo allora in grado di riconoscere che un tale processo non ha alcuna realtà assoluta, cioè che esso non può appartenere all’essenza in sé che in quel­ l’apparenza si manifesta, essenza in sé la quale, se si potessero abolire quelle forme della conoscenza, to­ gliendole come un cristallo da un caleidoscopio, ci comparirebbe dinanzi piuttosto, con nostra mera-

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viglia, come qualcosa di unico, stabile, immortale, immutabile, e nonostante tutte le trasformazioni apparenti forse identico sin nelle più particolari determinazioni. In conformità a tale opinione si possono enunciare i tre princìpi seguenti: 1) L’unica forma di ciò che è reale è il presente. In questo soltanto può esser còlto immediatamente il reale, che vi è sempre contenuto in modo pieno e completo. 2) Il veramente reale è indipendente dal tempo, cioè uno e medesimo in ogni momento. 3) Il tempo è la forma dell’intuizione del nostro intelletto, ed è di conseguenza estraneo alla cosa in sé. Questi tre principi sono in fondo identici. Chi scorge chiaramente la loro identità, come pure la loro verità, ha compiuto un gran passo nella filo­ sofia avendo compreso lo spirito dell’idealismo tra­ scendentale. In conclusione, la dottrina di Kant sull’idealità del tempo e dello spazio da lui esposta così secca­ mente e senza ornamenti, è davvero ricca di grandi conseguenze; al contrario nulla vien fuori dalle chiacchiere pompose, pretenziose e intenzionalmen­ te incomprensibili dei tre ben noti sofisti, i quali hanno distolto da Kant e attirato su di sé l’atten­ zione di un pubblico indegno di quel grande filo­ sofo. Prima di Kant, si può dire, noi eravamo nel tempo: ora il tempo è in noi. Nel primo caso il tempo è reale, e noi, come tutto ciò che è in esso contenuto, ne siamo divorati. Nel secondo caso il tempo è ideale: esso sta in noi. Cade allora in pri­ mo luogo la questione riguardante l’avvenire dopo la morte. Se infatti io non sono, non esiste neppur più alcun tempo. Solo un’illusione ingannevole mi può mostrare un tempo che continui senza di me dopo la mia morte: tutte e tre le suddivisioni del tempo, passato presente e futuro, sono allo stesso

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modo un mio prodotto, e mi appartengono, né può dirsi al contrario che io appartenga di preferenza ill’una oppure all’altra di esse. Un’altra conseguen­ za poi, deducibile dal principio che il tempo non spetta all’essenza in sé delle cose, sarebbe questa, che in certo qual senso il passato non è trascorso, e tutto ciò che in un qualche tempo è esistito in modo reale e vero, deve in fondo esistere ancora. 11 tempo viene così a somigliare a una finta cascata da teatro, che sembra precipitare, mentre non si muove dal suo posto, non essendo altro che una semplice ruota; e del resto già molto tempo fa io ho paragonato in modo analogo lo spazio, nella mia opera principale, a un cristallo sfaccettato, che mol­ tiplica infinitamente ai nostri occhi quanto ci è presente in modo semplice. Anzi, se noi penetriamo più profondamente nella questione, a costo di pec­ care di lirismo, può avvenirci, attraverso un viva­ cissimo ricordo del nostro passato molto lontano, di acquistare una convinzione immediata, che il tempo non tocca l’essenza vera e propria delle cose, ma è soltanto inserito tra quest’ultima e noi, come * un semplice mezzo che rende possibile la percezio­ ne, abolendo il quale tutto ritornerebbe a esistere; e così del resto anche la nostra stessa facoltà tanto fe­ dele e vivace della memoria, in cui ciò che da lungo tempo è trascorso conserva un’esistenza imperitura, può fornire una prova che esiste altresì in noi qual­ cosa che non invecchia, e non rimane di conseguen­ za nel dominio del tempo. La tendenza fondamentale della filosofia kantia­ na è di esporre la completa diversità tra il reale e l’ideale, dopo che su questo punto già Locke aveva preparato la strada. Superficialmente si può dire: Videale è la figura intuitiva présentantes! spazial­ mente, con tutte le proprietà in essa percepibili, il reale per contro è la cosa in sé e per sé, indipen­ dentemente dal suo esser rappresentata nella no-

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stra mente o in quella altrui. È peraltro difficile tracciare la linea di separazione tra i due; eppure è proprio ciò che più importa. Locke aveva mostra­ to che tutto quanto in quella figura è colore, suono, levigatezza, ruvidezza, durezza, mollezza, freddo, cal­ do, eccetera (qualità secondarie), risulta semplicemente ideale, cioè non spetta alla cosa in sé. Tutto ciò perché attraverso tali proprietà non ci vengono dati l’essere e l’essenza, ma soltanto l’azione della cosa, e in verità un’azione determinata assai unila­ teralmente, quella cioè che opera sulla recettività — determinata in modo del tutto specifico, per cui ad esempio il suono non agisce sull’occhio e la luce non agisce sull’orecchio — dei nostri cinque organi di senso. Anzi, l’azione dei corpi sugli organi di sen­ so consiste semplicemente nel promuovere la loro particolare attività, quasi allo stesso modo, con cui io tiro il filo che mette in movimento il congegno sonoro di un orologio melodioso. Per contro Locke ammise ancora come qualcosa di reale, toccante cioè alla cosa in se stessa, estensione, forma, impe­ netrabilità, movimento o riposo, numero, e chiamò quindi tutto ciò qualità primarie. Con una rifles­ sione infinitamente superiore, Kant mostrò più tar­ di che anche queste qualità non toccano all’essenza puramente obiettiva delle cose, alla cosa in sé, e non possono quindi essere senz’altro reali. Esse in­ fatti sono condizionate da tempo, spazio e causalità, quali ci sono dati e conosciuti con precisione, in tutta la loro natura e necessità, anteriormente a ogni esperienza, e debbono quindi essere in noi preformati, allo stesso modo della costituzione spe­ cifica, della recettività e dell’attività di ciascuno dei nostri sensi. Conformemente a ciò, io ho addirittu­ ra affermato che quelle forme rappresentano la par­ tecipazione del cerueZ/o'-all’intuizione, come le spe­ cifiche impressioni sensibili rappresentano la parte-

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cipazione alla stessa dei rispettivi organi di senso.* Già secondo Kant dunque, l’essenza puramente obiettiva delle cose, indipendente dalle nostre rap­ presentazioni e dal loro apparato, che è chiamata da lui la cosa in sé, cioè il vero e proprio reale, in antitesi all’ideale, è qualcosa di essenzialmente di­ verso dalla figura présentantes! intuitivamente a noi, un qualcosa cui non sono da attribuirsi né l’estensione, né la durata, dal momento che dev’es­ sere indipendente dallo spazio e dal tempo. Occor­ re ammettere questo, nonostante che esso attribui­ sca la forza di esistere a tutto ciò che ha estensione e durata. Anche Spinoza ha in generale inteso la cosa, a quanto risulta dall’Ethica, parte n, prop. 16, Icon il secondo corollario, e inoltre dalla prop. 18, scolio. Il reale di Locke in antitesi all’ideale, è in fondo la materia, spogliata, è vero, di tutte le qualità, che egli mette da parte come secondarie, cioè come condizionate dai nostri organi di senso, ma pur sempre qualcosa esistente in sé e per sé, ossia alcun­ ché di esteso, eccetera, di cui la rappresentazione « che sta in noi è un semplice riflesso o una copia. A questo proposito ricordo di aver spiegato (Quadru­ plice radice ecc., 2a ed., p. 77 e meno dettagliatamente, nel Mondo come vol. e rapp., vol. i, p. 9, voi. il, p. 48; 3a ed., voi. i, p. 10, e voi. u, p. 52), come l’essenza della materia consista unicamente nel suo agire, — con il che la materia si riduce del tutto a causalità, — e come più precisamente essa sia l’agire, la pura causalità mancante di ogni ulte• Come il nostro occhio è ciò che produce il verde, il rosso e l’azzurro, così il nostro cervello è ciò che produce tempo, spazio e causalità (la cui astrazione obicttivata è la materia). La mia intuizione di un corpo nello spazio è il prodotto della mia funzione sensoriale e cerebrale per una X.

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riore determinazione, la causalità cioè in abstracto, poiché di fronte alla materia, pensata in quanto tale, si astrae da ogni qualità particolare, ossia da ogni specifico modo dell’agire. Per una compren­ sione più profonda di tutto ciò io prego di leggere quanto ho scritto altrove. Già Kant però aveva in­ segnato, nonostante la dimostrazione esatta sia stata data soltanto da me, che ogni causalità è solo forma del nostro intelletto, e quindi sussiste soltanto per l’intelletto e nell’intelletto. Vediamo così ora che quel presunto reale di Locke, la materia, si riduce completamente all’ideale, e di conseguenza al sog­ getto; vediamo cioè che esso esiste unicamente nel­ la rappresentazione e per la rappresentazione. In verità già Kant ha eliminato, nella sua trattazione, la materialità dal reale, o dalla cosa in sé: quest’ultima però è risultata per lui soltanto una x com­ pletamente sconosciuta. Io invece alla fine ho dimo­ strato come il veramente reale, ossia la cosa in sé, che solo ha un’esistenza effettiva, indipendente dal­ la rappresentazione e dalle sue forme, sia la volontà che sta in noi. Quest’ultima per contro era stata sino allora attribuita senza esitazioni M’ideale. Da quanto ho detto si può vedere che Locke, Kant e io siamo congiunti da un legame preciso, rappre­ sentando nello spazio di quasi due secoli il succes­ sivo sviluppo di un corso di pensieri coerente, anzi unitario. Come anello di congiunzione in questa catena dev’essere anche considerato David Hume, sebbene propriamente solo per quel che riguarda la legge della causalità. Nei rispetti di costui e del suo influsso, io debbo ora completare la precedente esposizione con quanto segue. Locke, come pure sulle sue tracce Condillac e i discepoli di quest’ultimo, mostrano dettagliatamen­ te che all’impressione intervenuta in un organo di senso deve corrispondere una causa all’infuori del nostro corpo, e inoltre che alle differenze di un

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tale effetto (impressione sensoriale) debbono anche corrispondere delle differenze nelle cause, conclu­ dendo con l’indicazione di quali siano presumibil­ mente siffatte cause. Di qui è sorta allora la distin­ zione ricordata sopra tra qualità primarie e secon­ darie. In tal modo per loro tutto è chiaro, e dinanzi a essi si presenta ora nello spazio un mondo ogget­ tivo, di pure cose in sé, che sono in verità prive di colori, di odori, di rumori, né calde, né fredde, ec­ cetera, ma in compenso hanno estensione, figura, impenetrabilità, movimento e numero. Soltanto oc­ corre dire che essi, come tutti i filosofi precedenti, hanno assunto, come evidente e non sottomesso ad alcuna prova della sua validità, l’assioma stesso, in virtù del quale si sono verificati quel passaggio dal­ l’interno all’esterno, e tutta quella deduzione e sta­ bilizzazione di cose in sé, cioè la legge di causalità. Contro questo punto Hume portò il suo assalto scettico, ponendo in dubbio la validità di tale leg­ ge: l’esperienza infatti, da cui, proprio secondo quella filosofia, dovrebbero sgorgare tutte le nostre conoscenze, non ci può mai fornire la connessione < causale stessa, ma in ogni caso soltanto la pura suc­ cessione nel tempo delle situazioni, cioè mai un conseguire, ma semplicemente un seguire, che in quanto tale si dimostra sempre come qualcosa di solo contingente, mai necessario. Questo argomen­ to, già contrastante al buon senso, e tuttavia non facilmente confutabile, spinse Kant a indagare la vera origine del concetto di causalità: egli scoprì allora che quest’ultimo risiede in una forma essen­ ziale e innata del nostro stesso intelletto, cioè nel soggetto e non nell’oggetto, poiché non perviene a noi dal di fuori. In tal modo tutto quel mondo og­ gettivo di Locke e di Condillac era di nuovo rien­ trato nel soggetto, poiché Kant aveva mostrato co­ me il filo conduttore, che aveva permesso la costru­ zione di quel mondo, fosse di origine soggettiva.

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Come infatti l’impressione sensibile è soggettiva, così pure è soggettiva la regola, secondo cui quel­ l’impressione dev’esser concepita come l’effetto di una causa. Peraltro è unicamente questa causa, che viene intuita come mondo oggettivo, poiché il sog­ getto riconosce un oggetto sussistente al di fuori semplicemente in conseguenza della particolarità, propria del suo intelletto, a presupporre una causa per ogni modificazione, cioè propriamente non fa che compiere una proiezione dal proprio interno all’esterno, in uno spazio che si offre a questo sco­ po; tale spazio a sua volta è un prodotto della costi­ tuzione propria e originaria del soggetto, allo stesso modo dell’impressione specifica degli organi di sen­ so, punto di partenza di tutto quanto il fenomeno. Quel mondo oggettivo lockiano di cose in sé fu dunque trasformato da Kant in un mondo di pure apparenze nel nostro apparato conoscitivo, e ciò in modo tanto più compiuto, in quanto, come lo spa­ zio in cui tali fenomeni si presentano, così anche il tempo in cui essi trascorrono, fu da lui innega­ bilmente rivelato di origine soggettiva. Nonostante ciò, Kant riconobbe ancora, allo stes­ so modo di Locke, la cosa in sé, cioè una realtà che dovrebbe sussistere indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, le quali ci forniscono delle sem­ plici apparenze, e che dovrebbero essere alla base, per l’appunto, di tali apparenze. In sé e per sé Kant aveva ragione anche su questo punto, ma dai prin­ cìpi posti per opera sua non era possibile trarre la giustificazione di una tale tesi. Qui stava dunque il tallone di Achille della sua filosofia, la quale, con la dimostrazione di quella inconseguenza, è ve­ nuta necessariamente a perdere il già ottenuto ri­ conoscimento di una validità e di una verità incon­ dizionata. In estrema analisi comunque non le fu a tale proposito resa giustizia. È ben certo infatti che il sostenere una cosa in sé al di là delle appa-

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lenze, un nucleo reale coperto da tanti involucri, non è per nulla falso, e anzi la negazione di questa tesi sarebbe assurda: difettoso era soltanto il modo con cui Kant voleva introdurre una tale cosa in sé, tentando di porla in accordo con i suoi princìpi. In fondo quindi soltanto la sua presentazione (pren­ dendo questa parola nel senso più vasto) della cosa, e non la cosa stessa, fu confutata dagli avversari, e in questo senso si potrebbe sostenere che l’argomenIazione fatta valere contro di lui sia risultata in realtà soltanto ad hominem, non ad rem. A ogni modo si può applicare qui nuovamente il prover­ bio indiano: «non vi è loto senza gambo». Kant fu guidato dalla verità, sentita saldamente, che die­ tro a ogni apparenza vi sia qualcosa di esistente in sé, onde il fenomeno trae la sua consistenza, che (ioè dietro alla rappresentazione vi sia un rappre­ sentato. Egli si sforzò però di dedurre quest’ultimo dalla stessa rappresentazione data, facendo interve­ nire le leggi — da noi conosciute a priori — di tale rappresentazione, le quali tuttavia, proprio per il fatto di essere a priori, non possono condurre a qualcosa d’indipendente e di diverso dal fenomeno, ossia dalla rappresentazione. Per tale ragione si de­ ve prendere una strada del tutto differente per giungere a questo scopo. Le inconseguenze, in cui Kant era caduto, prendendo una tale via falsa al riguardo, gli furono rinfacciate da G. E. Schultze, il quale trattò alla sua maniera pesante e prolissa la questione, dapprima anonimamente nell’Aenesidemus (soprattutto alle pp. 374-381), e più tardi nella sua Critica della filosofia teoretica (voi. 2, pp. 205 sgg.); per contro Reinhold sostenne la di­ fesa di Kant, pur senza un gran successo, tanto che ci si dovette accontentare dello « haec potuisse dici, et non potuisse refelli ». A questo proposito voglio porre molto chiara­ mente in rilievo, proprio alla mia maniera, l’essen-

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ziale della questione, ciò che veramente sta alla ba­ se di tutta quanta la controversia, e questo a pre­ scindere dalla concezione di Schultze. Kant non ha mai dato una rigorosa deduzione della cosa in sé, assumendo piuttosto quest’ultima dai suoi predeces­ sori, in particolare da Locke, e l’ha mantenuta co­ me qualcosa di evidente, della cui esistenza non è possibile dubitare. Tutto ciò, anzi, egli aveva in certo modo il diritto di affermarlo. Secondo le sco­ perte di Kant, la nostra conoscenza empirica con­ tiene un elemento di provata origine soggettiva, e un altro, per il quale non vale la stessa cosa: que­ st’ultimo rimane quindi oggettivo, non essendovi nessun motivo di ritenerlo soggettivo. Conforme­ mente a ciò, l’idealismo trascendentale di Kant ne­ ga, è vero, l’essenza oggettiva delle cose — ossia la realtà delle medesime a prescindere dal nostro mo­ do di conoscere — sin dove si estende Γα priori del­ la nostra conoscenza, non però oltre, dal momento che la ragione di tale negazione non va oltre: egli lascia quindi sussistere quanto è al di là, cioè tutte le proprietà delle cose, che non si possono costruire a priori. L’intera essenza delle apparenze date, cioè del mondo corporeo, non è infatti per nulla deter­ minabile da noi a priori; soltanto la forma univer­ sale di questo fenomeno lo è, la quale si riduce a spazio, tempo e causalità, e alla totale necessità di queste tre forme. Al contrario, ciò che non resta determinato da tutte quelle forme sussistenti a priori, ossia quanto risulta rispetto a esse contin­ gente, è per l’appunto la manifestazione della cosa in sé. Il contenuto empirico dei fenomeni, cioè ogni loro più precisa determinazione, ogni qualità fisica in essi affiorante, non può essere conosciuto se non a posteriori: queste qualità empiriche (o piuttosto la loro fonte comune) continuano dunque ad ap­ partenere alla cosa in sé, come manifestazioni della sua intima essenza, pur presentandosi nell’ambien-

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te di quelle forme a priori. Questo a posteriori, < he compare in ogni fenomeno, velato per così dire dall’a priori, e che pure fornisce a ogni essere il suo carattere specifico e individuale, è dunque la mate­ ria del mondo fenomenico, in contrapposizione alla sua forma. Dal momento che questa materia non è m alcun modo deducibile dalle forme dell’appa­ renza, così accuratamente indagate da Kant e sicu­ ramente individuate con il carattere dell’apriorità, ossia dalle forme inerenti al soggetto, continuando piuttosto a sussistere dopo che è stato sottratto tut­ to ciò che segue da tali forme, cioè rivelandosi co­ me un secondo elemento, pienamente distinto, dal­ l’apparenza empirica, come un’aggiunta estranea a quelle forme, e dal momento poi che essa non deri­ va per nulla dall’arbitrio del soggetto conoscente, opponendosi anzi sovente a quest’ultimo, Kant non ebbe alcuna esitazione nell’attribuire alla cosa in sé questa materia del fenomeno, e nel vederla quin­ di come qualcosa di proveniente del tutto dall’esterno. Da qualche parte deve infatti pur venire, o come si esprime Kant, essa deve pur avere un qual­ che fondamento. Poiché peraltro noi non possiamo in nessun modo isolare tali proprietà conoscibili soltanto a posteriori, né possiamo considerarle sepa­ rate e staccate da quelle certe a priori, dato che esse ci si presentano sempre in quest’involucro, Kant insegna allora, che noi conosciamo sì resistenza delle cose in sé, ma null’altro all’infuori di ciò, cioè sappiamo soltanto che esse sono, non cosa esse so­ no. L’essenza delle cose in sé rimane quindi per lui una grandezza sconosciuta, una x. La forma del fe­ nomeno infatti riveste e nasconde ovunque l’essen­ za della cosa in sé. Tutt’al più si potrebbe dire an­ cora questo: poiché quelle forme aprioristiche spet­ tano indifferentemente, essendo radicate nel nostro intelletto, a tutte le cose, in quanto apparenze, mentre le cose presentano differenze assai notevoli,

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ciò che determina tali distinzioni, cioè la disparità specifica delle cose, sarà allora la cosa in sé. Quando si prospetti così la questione, il fatto che Kant abbia accettato e presupposto le cose in sé, prescindendo dalla soggettività di tutte le nostre forme conoscitive, sembra del tutto appropriato e giustificato. Tale posizione si mostra però insoste­ nibile, se si esamina a fondo, seguendolo sino al­ l’origine, il suo unico fondamento, cioè il conte­ nuto empirico di tutti i fenomeni. Indubbiamente nella conoscenza empirica, e nella sua fonte, la rap­ presentazione intuitiva, sussiste una materia indi­ pendente dalla sua forma, di cui abbiamo coscien­ za a priori. Il problema che segue è di determinare se questa materia sia di origine oggettiva o sogget­ tiva, poiché soltanto nel primo caso essa può garan­ tire la cosa in sé. Se risaliamo dunque sino a tale origine, non la potremo individuare altrove se non nella nostra impressione sensoriale: infatti una mo­ dificazione verificantesi nella retina dell’occhio, nel nervo uditivo, oppure alle estremità delle dita, è ciò che dà inizio alla rappresentazione intuitiva, ossia fornisce a tutto l’apparato delle nostre forme conoscitive, già pronte a priori, lo spunto di un processo, il cui risultato è la percezione di un og­ getto esterno. A quella modificazione avvertita da­ gli organi di senso è infatti anzitutto applicata la legge di causalità, per mezzo di una necessaria e im­ mancabile funzione intellettiva a priori; questa leg­ ge riporta, con la sua sicurezza e certezza aprioristi­ ca, a una causa di quella modificazione, causa che, non dipendendo dall’arbitrio del soggetto, si pre­ senta ora come qualcosa di esterno a questo. Tale proprietà acquista il suo significato solo attraverso la forma dello spazio, fatta intervenire parimenti dall’intelletto a questo scopo; in tal modo quella causa, da presupporsi per necessità, si presenta to­ sto intuitivamente nello spazio come un oggetto, il

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quale porta in sé, come sue proprietà, le modifica­ zioni operate dalla causa nei nostri organi di senso. Tutto questo processo si trova esposto in modo det­ tagliato e approfondito nella seconda edizione del mio trattato sul Principio di ragione, § 21. Peral­ tro proprio l’impressione sensoriale, che fornisce il punto di partenza di un tale processo e dà senza dubbio tutta quanta la materia all’intuizione em­ pirica, è qualcosa di assolutamente soggettivo, e sic­ come tutte le forme della conoscenza, per opera delle quali la rappresentazione oggettivamente in­ tuitiva sorge da quella materia ed è proiettata al­ l’esterno, sono egualmente, secondo l’esattissima di­ mostrazione di Kant, di origine soggettiva, è chiaro che sia la materia quanto la forma della rappre­ sentazione intuitiva sgorgano dal soggetto. Di con­ seguenza tutta la nostra conoscenza empirica si ri­ duce a due parti costitutive, aventi entrambe la lo­ ro origine in noi stessi. Si tratta dell’impressione sensoriale e delle forme date a priori — poste nelle funzioni del nostro intelletto, ossia del cervello — di tempo, spazio e causalità, cui del resto Kant ave­ va ancora aggiunto altre undici categorie dell’in­ telletto, da me dichiarate superflue e inammissibili. In seguito a ciò, la rappresentazione intuitiva e la nostra conoscenza empirica che vi si appoggia non forniscono in verità alcun dato che possa condurre alle cose in sé, né Kant era autorizzato dai suoi princìpi ad ammetterle. La filosofia di Locke, come tutte quelle anteriori, aveva ancora accettato come qualcosa di assoluto la legge di causalità, e aveva in tal modo una giustificazione quando risaliva dall’impressione sensoriale a cose esterne, sussisten­ ti realmente e indipendenti da noi. Questo passag­ gio dall’effetto alla causa è comunque l’unico mez­ zo per giungere da ciò che è intimo e dato sogget­ tivamente a ciò che è esterno e sussistente oggetti­ vamente. Dopo che però Kant ebbe assegnato la

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legge di causalità alla forma conoscitiva del sogget­ to, tale via gli rimaneva preclusa: egli stesso aveva del resto abbastanza spesso ammonito a non fare della categoria di causalità un uso trascendente, oltrepassante cioè l’esperienza e la sua possibilità. In realtà, la cosa in sé non è affatto raggiungibile per questa via, né in generale attraverso la cono­ scenza puramente obiettiva, che rimane sempre rap­ presentazione, radicandosi in quanto tale nel sog­ getto, e non potendo mai fornire alcunché di real­ mente diverso dalla rappresentazione. Alla cosa in sé si può peraltro giungere solo spostando per una volta tanto il punto di vista, cioè partendo, contra­ riamente a quanto è avvenuto sinora, da ciò che è rappresentato, anziché da ciò che rappresenta. Tutto ciò è però possibile per chiunque solo rispet­ to a un unico oggetto, il quale è attingibile anche nell’interiorità, e si presenta così sotto una duplice forma: si tratta del nostro proprio corpo, che sus­ siste nel mondo oggettivo, per l’appunto come rap­ presentazione nello spazio, e che al tempo stesso si manifesta come volontà nell’autocoscienza. Esso for­ nisce in tal modo la chiave, anzitutto per compren­ dere tutte le sue azioni o i suoi movimenti deter­ minati da cause esterne (in questo caso motivi), i quali senza quest’intima ed immediata penetrazio­ ne nella loro essenza, ci sarebbero altrettanto in­ comprensibili ed inspiegabili, quanto le modifica­ zioni degli altri corpi, che ci si presentano soltanto nell’intuizione oggettiva, modificazioni verificantisi secondo leggi naturali e come manifestazioni delle forze naturali, ed inoltre per la comprensione del sostrato durevole di tutte queste azioni — in cui si radicano le forze che le producono — cioè del corpo stesso. Questa conoscenza immediata, che ciascuno ha dell’essenza del proprio fenomeno, datogli altri­ menti, come tutti i restanti fenomeni, soltanto nel­ l’intuizione oggettiva, deve susseguentemente esse-

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re estesa in modo analogo agli altri fenomeni, che si presentano soltanto nella maniera indiretta, e diventa tosto la chiave per la conoscenza dell’inti­ ma natura delle cose, cioè delle cose in sé. A tale conoscenza dunque si può giungere soltanto per una via diversissima dalla conoscenza puramente obiettiva, che rimane semplice rappresentazione, quando si prenda cioè in aiuto Yautocoscienza del soggetto — présentantes! in ogni caso soltanto come individualità animale — della conoscenza, e la si assuma come interprete della coscienza di altre cose, cioè dell’intelletto intuente. Questa è la via da me percorsa, l’unica giusta; questa è la stretta porta che apre l’accesso alla verità. Invece di percorrere questa strada, si preferì scambiare il modo di esporre di Kant con l’essenza della questione, si credette di confutare assieme a quello anche questa, si considerarono quelli che in fondo erano soltanto argumenta ad hominem come argumenta ad rem, e in conseguenza di quegli at­ tacchi di Schultze, la filosofìa di Kant fu quindi di­ chiarata insostenibile. In tal modo il campo fu or-* mai sgombro per i sofisti ed i fanfaroni. Il primo di questa schiera fu Fichte, il quale, dal momento che la cosa in sé era venuta in discredito, portò a termine in gran fretta un sistema del tutto privo di qualsiasi cosa in sé, e si rifiutò quindi di ammet­ tere nulla che non si riducesse pienamente alla no­ stra rappresentazione, attribuendo così ogni realtà al soggetto conoscente, dalla cui opera ogni altra cosa dovrebbe sorgere. A questo scopo egli abolì senz’altro quanto vi era di più meritorio e di essen­ ziale nella dottrina kantiana, la distinzione cioè tra a priori ed a posteriori, tra apparenza e cosa in sé, dichiarando tutto come a priori, naturalmente sen­ za dimostrare una tale affermazione mostruosa. In luogo di prove, in parte egli fornì delle dimostra­ zioni apparenti e sofistiche, anzi stravaganti, la cui

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assurdità si nascondeva dietro il velo della profon­ dità e dell’incomprensibilità, che da quella si pre­ tendeva fosse sorta, ed in parte si richiamò, in mo­ do aperto e sfacciato, ad un’intuizione intellettuale, cioè propriamente ad un’ispirazione. Tutto ciò ba­ stava di certo per un pubblico mancante di ogni discernimento e indegno di Kant: esso ritenne che l’offrire di più significasse superare, e proclamò quindi Fichte un filosofo molto più grande di Kant. Ancora ai giorni nostri, anzi, non mancano scrittori filosofici, desiderosi di abbindolare anche la nuova generazione con quella falsa gloria, divenuta tradi­ zionale, di Fichte, i quali assicurano molto seria­ mente che da Fichte sarebbe stato portato a compi­ mento quanto da Kant era stato semplicemente ten­ tato, e che ci voleva proprio lui. Questi signori met­ tono chiaramente in luce, con tale giudizio di Mida di seconda istanza, la loro completa incapacità a capire in alcun modo Kant, anzi in generale la loro deplorevole mancanza di intelligenza, in modo così palpabile, che la nuova generazione, alla fine delu­ sa, si guarderà bene, a quanto si può sperare, dallo sciupare tempo e cervello con le loro numerose sto­ rie della filosofia e altre scribacchiature. A tale pro­ posito, voglio richiamare alla memoria un piccolo scritto, onde si può vedere quale impressione abbia­ no fatto su contemporanei imparziali il modo per­ sonale di presentarsi di Fichte ed il suo comporta­ mento. Si tratta del Kabinett Berliner Charaktere pubblicato nel 1808, senza indicazione del luogo di edizione. Probabilmente è di Buchholz, ma non ne sono affatto sicuro. Si confronti con questo ciò che il giurista Anselm von Feuerbach dice di Fichte, nelle sue lettere pubblicate dal figlio nel 1852; si veda anche il Carteggio tra Schiller e Fichte, 1847, e si avrà un’idea esatta di questo pseudofilosofo. Sulle tracce di Fichte si pose tosto Schelling, de­ gno del suo predecessore; egli abbandonò per altro

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tale strada, per proclamare la sua propria scoperta, cioè l’assoluta identità tra il soggettivo e l’oggettivo, ossia tra l’ideale ed il reale. Il risultato di que­ sta scoperta fu che tutto quanto era stato separato con un impegno incredibile di perspicacia e di ri­ flessione da spiriti rari, quali Locke e Kant, fu ora nuovamente rovesciato nella poltiglia di quell’assoluta identità. La dottrina di questi due pensatori infatti si può definire in modo assai appropriato come la teoria dell’assoluta diversità tra ideale e reale, cioè tra soggettivo e oggettivo. Ora invece si degenerò gradualmente. Una volta introdotti da Fichte l’incomprensibile modo di esprimersi e la profondità apparente in luogo del pensiero, era gettato il seme, da cui dovevano germogliare una corruzione dopo l’altra, ed infine la completa de­ moralizzazione, evidente ai giorni nostri, della filo­ sofia, e con essa di tutta la letteratura.* A Schelling seguì poi una creatura filosofica mi­ nisteriale, cioè Hegel, uomo che perseguiva, e per di più senza successo, degli scopi politici, spacciato in tutto e per tutto come un grande filosofo, un* ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgu­ stoso, ignorante, il quale con una sfrontatezza, una stravaganza ed un’assurdità senza pari, scarabocchiò tutto quello che dai suoi seguaci mercenari fu strombazzato come sapienza immortale (e tale'in fatti venne considerato dagli sciocchi), facendo na­ scere un coro unanime di ammirazione, quale mai • Oggi lo studio della filosofia kantiana serve ancora in particolare a mettere in luce quanto in basso sia caduta la letteratura filosofica in Germania dopo la Critica della ragione pura, tanto forte è il contrasto tra le sue pro­ fonde indagini e le attuali chiacchiere grossolane, che quasi ci si ’presentano come discorsi tra candidati speran­ zosi e garzoni barbieri.

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era stato inteso prima. * Il vasto influsso spirituale, estorto da un siffatto uomo, ha avuto come conse­ guenza la corruzione intellettuale di tutta una ge­ nerazione erudita. Gli ammiratori di quella pseudo­ filosofia vanno incontro al disprezzo della posterità, anticipato per ora dalla derisione, piacevole a udir­ si, dei vicini. In effetti non dovrebbe forse essere gradito alle mie orecchie l’udire che la nazione — la cui classe erudita ha considerato per trent’anni le mie produzioni come insignificanti, e degne neppu­ re di uno sguardo — si è attirata dai vicini la fama di aver onorato, anzi divinizzato, per trent’anni, come suprema ed inaudita sapienza, cose di nessun valore, assurde, insensate, rivolte ad interessi mate­ riali? Devo forse come un buon patriota, pronun­ ciarmi in lode dei tedeschi e della tedescheria, e rallegrarmi di appartenere a questa e a nessun’altra nazione? Del resto, come dice il proverbio spagno­ lo: « cada uno cuenta de la feria, corno le va en ella » (ciascuno fa il suo racconto sulla fiera, secon­ do come gli è andata). Accostatevi agli adulatori della plebe e intonate lodi. Ciarlatani solenni, goffi, sostenuti da ministri, scribacchiatori spavaldi di as­ surdità, senza spirito e senza meriti: costoro fanno per i tedeschi, non per uomini come me. Questo è il certificato che ho da dare a loro, congedandomi. Wieland (Lettere a Merk, p. 239) considera una disgrazia Tesser nati tedeschi: Bürger, Mozart, Beethoven, ed altri ancora gli avrebbero dato ragio­ ne, ed io pure. Tutto ciò dipende dal fatto che σοφόν είναι δει τόν έπιγνωσόμενον τόν σοφόν,24 ossia « il n’y a que l’esprit qui sente l’esprit ». Aile pagine più brillanti e meritorie della filoso* Si veda la Prefazione dei miei Problemi fondamentali dell’etica.

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fia kantiana appartiene incontestabilmente la Dia­ lettica trascendentale, con cui egli ha annientato la teologia e la psicologia speculative, in modo così radicale, che da allora non si è più stati in grado, anche con la miglior volontà, di rimetterle in sesto. Grande beneficio, questo, per lo spirito umano! Non vediamo forse durante tutto il periodo che va dal rifiorire delle scienze sino a lui, che persino i pensieri degli uomini più grandi assumono una di­ rezione imprecisa, anzi spesso si smarriscono com­ pletamente, per opera appunto di quei due presup­ posti, i quali paralizzano tutto quanto lo spirito, sono sottratti e quindi indifferenti ad ogni indagi­ ne, risultando assolutamente intoccabili? Non sono forse stravaganti e falsate le concezioni prime, più essenziali, di noi stessi e di tutte le cose, se partiamo dal presupposto che tutto sia prodotto e governato dall’esterno, secondo concetti e scopi premeditati, da un essere personale, cioè individuale? E non av­ viene forse lo stesso, se noi crediamo che l’essenza profonda dell’uomo sia qualcosa di pensante, ed egli sia costituito di due parti affatto eterogenee, le quali dovrebbero riunirsi e saldarsi senza che si sap­ pia come, e dovrebbero in questa vita accordarsi tra loro alla meglio, per separarsi poi di nuovo nolentes volentes per sempre? È facile vedere quanto forte­ mente la critica kantiana di queste idee e dei loro fondamenti abbia influito su tutte le scienze, poi­ ché da allora, almeno nella migliore letteratura te­ desca, quei presupposti compaiono soltanto in senso figurato, senza ormai essere intesi seriamente: li si lascia piuttosto agli scritti popolari ed ai professori di filosofia, che in tal modo si guadagnano il pane. Soprattutto le nostre opere di scienza naturale si tengono lontane da idee del genere, mentre quelle inglesi perdono di valore ai nostri occhi con espres-

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sioni e diatribe o con apologie tendenti a quei fini.* Indubbiamente le cose stavano del tutto diversamente, a questo riguardo, ancora poco prima di Kant; possiamo infatti vedere, ad esempio, persino remittente Lichtenberg, la cui formazione giovani­ le è stata prekantiana, mantenere con serietà e con­ vinzione, nel suo articolo sulla fisiognomica, quel­ l’antitesi tra anima e corpo, rovinando in tal modo la sua impostazione. Chi considera questo alto valore della Dialettica trascendentale, non troverà superfluo che io mi ad­ dentri qui un po’ più particolarmente nell’argo­ mento. Presento dunque ai conoscitori e agli am­ miratori della Critica della ragione anzitutto il ten­ tativo seguente di concepire, e per conseguenza di criticare, in modo affatto diverso l’argomento, che nella Critica della psicologia razionale — qual è esposta nella sua completezza soltanto nella prima edizione, poiché nelle seguenti essa si presenta per così dire castrata — è criticato a pp. 361 sgg. sotto il titolo « Paralogismo della personalità ». L’espo­ sizione kantiana in proposito, indubbiamente pro­ fonda, non soltanto infatti è troppo sottile e diffi• Dal momento in cui quanto sopra è stato scritto, le cose sono da noi cambiate. In seguito alla rinascita del­ l’antichissimo materialismo, già esploso per una decina di volte, dalle farmacie e dagli ospedali sono usciti dei filosofi, individui che non hanno imparato nulla se non quanto appartiene al loro mestiere, e che ora innocentemente e rispettabilmente, come se Kant non fosse ancora nato, espongono le loro speculazioni da vecchie donnet­ te, disputano sul « corpo e l’anima » e sul loro reciproco rapporto, anzi indicano (crédité posteri!) come sede del­ la suddetta anima il cervello. La loro insolenza merita una lavata di capo: si deve aver imparato qualcosa per poter parlare, ed essi sarebbero più accorti se non si esponessero a spiacevoli accostamenti con il catechismo e la medicina da ciarlatani.

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cilmente comprensibile, ma presenta anche il di­ letto di assumere d’un tratto e senza ulteriore giu­ stificazione l’oggetto dell’autocoscienza, o nel lin­ guaggio di Kant del senso interno, come oggetto di una coscienza estranea, anzi di un’intuizione ester­ na, per giudicarlo poi secondo le leggi e le analogie del mondo corporeo. Tale difetto giunge sino ad ammettere due differenti tempi, l’uno nella coscien­ za del soggetto giudicato, e l’altro in quella del giudicante, senza che essi possano armonizzarsi. Vorrei quindi dare un tutt’altro indirizzo all’argo­ mento della personalità, e presentarlo così nelle due seguenti proposizioni : 1) Si può stabilire a priori rispetto ad ogni movi­ mento in genere, di qualunque specie possa essere, che esso diventa percettibile solo in paragone a qualcosa in riposo; dal che segue, che nel corso del tempo, con tutto ciò che vi è compreso, non potreb­ be essere percepito se non vi fosse qualcosa che non ne partecipasse affatto, e con la cui stasi noi potes­ simo paragonare il movimento di quello. Certo noi giudichiamo a questo riguardo secondo l’analogia del movimento nello spazio: senonché tempo e spa­ zio debbono sempre servire a chiarirsi vicendevol­ mente, motivo per cui dobbiamo rappresentarci per l’appunto anche il tempo con l’immagine di una retta, al fine di costruirlo a priori, cogliendolo in­ tuitivamente. In conseguenza di ciò, noi non pos­ siamo pensare che, se tutto nella nostra coscienza procedesse simultaneamente e complessivamente, nel flusso del tempo, questo processo dovrebbe tut­ tavia esser percepibile; dobbiamo invece presuppor­ re qualcosa di stabile, dinanzi a cui scorra il tempo con tutto il suo contenuto. Per l’intuizione del sen­ so esterno questo qualcosa è fornito dalla materia, in quanto sostanza permanente nel mutamento de­ gli accidenti: ciò si trova esposto anche in Kant nella dimostrazione della « Prima analogia del-

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l’esperienza », a p. 183 della prima edizione. Tutta­ via è proprio in questo passo che egli commette l’intollerabile errore, già altrove da me biasimato e persino contraddittorio rispetto alle sue dottrine, di dire che non già il tempo stesso scorre, ma sol­ tanto i fenomeni che vi sono contenuti. Che ciò sia fondamentalmente falso, lo dimostra la salda cer­ tezza, insita in noi tutti, che se anche tutte le cose del cielo e della terra si arrestassero ad un tratto, il tempo tuttavia continuerebbe indisturbato il suo corso; cosicché, se più tardi la natura riprendesse il suo movimento, la domanda circa la lunghezza della pausa intervenuta potrebbe ricevere in se stes­ sa una risposta del tutto precisa. In caso contrario il tempo dovrebbe arrestarsi o scorrere secondo che l’orologio è fermo o in movimento. Proprio questo rapporto effettivo delle cose, e assieme la nostra cer­ tezza a priori al riguardo, dimostrano incontestabil­ mente che il tempo compie il suo processo, cioè ha la sua essenza, nel nostro cervello e non all’esterno. Sul terreno dell’intuizione esterna, come ho detto, l’elemento stabile è la materia: rispetto al nostro argomento della personalità invece occorre parlare soltanto della percezione del senso interno, in cui viene riassorbita anche quella del senso esterno. Ho detto dunque che se la nostra coscienza con tutto il suo contenuto si muovesse uniformemente nel flusso del tempo, noi non potremmo percepire tale movimento. Nella coscienza stessa cioè dev’esservi qualcosa d’immutabile. Questo qualcosa pertanto non può essere altro se non il soggetto conoscente stesso, che contempla imperturbabile ed immutato il corso del tempo ed il fluire del suo contenuto. Dinanzi al suo sguardo la vita scorre verso la sua fi­ ne come uno spettacolo teatrale. Noi sentiamo anzi quanto poco esso stesso partecipi di questa corsa, quando ricordiamo vivamente nella vecchiaia le scene della gioventù e della fanciullezza.

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2) Internamente, nell’autocoscienza, o per dirla con Kant attraverso il senso interno, io mi ricono­ sco soltanto nel tempo. Senonché, secondo una con­ siderazione oggettiva, nel semplice tempo non può darsi alcunché di stabile; questo alcunché infatti presupporrebbe una durata, questa a sua volta una coesistenza, e questa infine lo spazio. (La giustifica­ zione di questo principio si può trovare nel mio trattato sul Principio di ragione, n, § 18, ed inoltre nel Mondo come vol. e rapp., vol. i, § 4, pp. 10, 11 e 531; 3* ed., pp. 10-12 e 560). Senza tener conto di ciò peraltro, io ritrovo me stesso in realtà come qualcosa di stabile, cioè come il sostrato ognora permanente delle mie rappresentazioni attraverso tutto il loro fluire, sostrato trovantesi con queste rappresentazioni nello stesso rapporto della mate­ ria con i suoi mutevoli accidenti. Di conseguenza esso merita allo stesso modo della materia il nome di sostanza, ed essendo al di fuori dello spazio, quindi inesteso, quello di sostanza semplice. Poiché dunque, come si è detto, nel puro tempo, per sé solo, non può presentarsi nulla di stabile, e d’altro canto la sostanza in parola non è percepita dal sen­ so esterno e di conseguenza non è nello spazio, noi dobbiamo allora assumerla come posta al di fuori del tempo, per poterla pensare tuttavia come qual­ cosa di costante in antitesi al flusso del tempo. Dob­ biamo dire allora: ogni oggetto è nel tempo, men­ tre il vero e proprio soggetto conoscente non lo è. Dal momento poi che al di fuori del tempo non esiste alcuna cessazione né fine, potremo ritrovare nel soggetto conoscente che sta in noi una sostanza permanente, pur senza essere né spaziale né tempo­ rale, una sostanza quindi indistruttibile. Per dimostrare ora come un paralogismo questo argomento della personalità, cosi concepito, si do­ vrebbe dire che la sua seconda proposizione ricorre all’aiuto di un dato di fatto empirico, cui si può

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contrapporre quest’altro, che cioè il soggetto cono­ scente è pur sempre legato alla vita, anzi alla ve­ glia, e la sua costanza durante questi due stati non dimostra affatto che esso possa sussistere anche al di fuori. Questa permanenza di fatto, per la durata dello stato cosciente, è ancora molto lontana, anzi tato genere differente, dalla costanza della materia (origine e unica realizzazione del concetto di so­ stanza). Quest’ultima noi la conosciamo nell’intui­ zione, e la comprendiamo a priori non soltanto nel­ la sua durata effettiva, ma nella sua necessaria indistruttibilità e neH’impossibilità del suo annien­ tamento. È appunto secondo l’analogia di questa sostanza veramente indistruttibile, che vorremmo accettare in noi una sostanza pensante, dotata con certezza di una persistenza senza fine. A prescindere ora dal fatto che tutto ciò offrirebbe un’analogia con un semplice fenomeno (la materia), l’errore commesso nella suddetta dimostrazione dalla ragio­ ne dialettica sta nell’avere essa trattato la costanza del soggetto, attraverso il mutamento di tutte le sue rappresentazioni nel tempo, allo stesso modo della costanza della materia dataci nell’intuizione, e nel­ l’avere quindi riunito i due termini nel concetto di sostanza, per attribuire poi anche a quella pre­ tesa sostanza immateriale tutto ciò che, secondo le condizioni dell’intuizione, può essere detto a priori della materia, specialmente il perdurare attraverso tutto il tempo. Senonché la permanenza di tale so­ stanza dipende unicamente dal fatto che si suppone come fissata del tutto al di fuori del tempo, anziché in ogni tempo, in modo che sono qui espressamente abolite le condizioni dell’intuizione (per opera del­ le quali è affermata a priori l’indistruttibilità della materia), e in particolare la spazialità. Su quest’ul­ tima per l’appunto è fondata — secondo i passi so­ pra ricordati dei miei scritti — la costanza della materia.

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Rispetto alle dimostrazioni dell’immortalità del­ l’anima in virtù di una accettata sua semplicità e di una conseguente indissolubilità, in modo da escludere l’unico modo possibile di estinzione, cioè il dissolvimento delle parti, si può in generale dire, che tutte le leggi sulla nascita, la morte, il muta­ mento, la persistenza, eccetera, da noi conosciute a priori oppure a posteriori, valgono esclusivamen­ te per il mondo corporeo datoci oggettivamente, e condizionato inoltre dal nostro intelletto. Non ap­ pena quindi ci stacchiamo da un tale mondo e par­ liamo di esseri immateriali, non abbiamo più alcu­ na giustificazione nell’applicare quelle leggi e quel­ le regole allo scopo di sostenere come siano possi­ bili o meno la nascita e la morte di tali esseri: in tal caso ci manca ogni norma. Sono così troncate tutte le dimostrazioni consimili deH’immortalità, partenti dalla semplicità della sostanza pensante. L’anfibolia pertanto sta nel fatto che si parla di una sostanza immateriale e si introducono poi le leggi di quella materiale, per applicarle alla prima. Ciononostante il paralogismo della personalità, come l’ho esposto, fornisce nel suo primo argomen­ to la dimostrazione a priori che nella nostra co­ scienza dev’esservi qualcosa di persistente, per pro­ vare poi la stessa cosa a posteriori con il secondo argomento. Tutto sommato, in ciò sembra essere ra­ dicata la verità, che di regola sta alla base di ogni errore, come pure di quello della psicologia razio­ nale. Tale verità consiste nel fatto che anche nella nostra coscienza empirica può indubbiamente es­ sere mostrato un punto eterno, soltanto però un punto, e per l’appunto soltanto mostrato, senza che se ne possa ricavare materia per un’ulteriore dimo­ strazione. Rimando qui alla mia dottrina, secondo cui il soggetto conoscente è ciò che conosce tutto, senza essere conosciuto: noi lo concepiamo tuttavia come il punto fermo, di fronte a cui scorre il tem-

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po con tutte le sue rappresentazioni, dal momento che proprio questo flusso può certo esser conosciu­ to solo in contrapposizione a qualcosa di perma­ nente. Ho chiamato questo il punto di contatto dell’oggetto con il soggetto. Il soggetto del cono­ scere è per me un fenomeno della volontà, allo stes­ so modo del corpo, dal momento che si presenta oggettivamente come funzione cerebrale di que­ st’ultimo; la volontà a sua volta, in quanto unica cosa in sé, è qui il sostrato del punto di riferimento di ogni apparenza, vale a dire del soggetto della co­ noscenza.25 Se ci volgiamo ora alla cosmologia razionale, tro­ viamo nelle sue antinomie delle espressioni signifi­ cative di quella perplessità, sorgente dal principio di ragione, che ha spinto in ogni tempo a filosofare. Lo scopo dell’esposizione seguente, che non si serve come quella kantiana di concetti astratti, in modo puramente dialettico, ma si volge con immediatezza alla coscienza intuente, è di rilevare tale perplessità per una via un po’ diversa, più chiaramente e con maggior disinvoltura. Il tempo non può avere alcun inizio e nessuna causa può essere la prima. Le due cose sono certe a priori, cioè indiscutibilmente: ogni inizio è in­ fatti nel tempo, ossia lo presuppone, ed ogni causa deve averne dietro di sé un’altra di cui essa è l’ef­ fetto. Come si sarebbe dunque mai potuto verifi­ care un primo inizio del mondo e delle cose? (Di conseguenza il primo versetto del Pentateuco sem­ bra davvero una petitio principii, nel senso più stretto della parola). D’altro canto però, se non vi fosse stato un primo inizio, l’attuale e reale presente non potrebbe esistere soltanto ora, ma dovrebbe già essere esistito da lungo tempo : tra di esso ed il pri­ mo inizio dobbiamo infatti assumere una certa du­ rata, fissa e limitata, la quale peraltro, se neghia­ mo il principio, cioè lo riportiamo indietro all’infi-

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nito, si riporta pure essa all’indietro. Ma anche se noi stabiliamo un primo inizio, le cose in fondo non cambiano, dal momento che pur tagliando in tal modo a piacere la catena causale, il puro tempo ci si rivelerà molesto. In particolare, la domanda sempre rinnovata : « perché quell’inizio non si sa­ rebbe già verificato prima? » sospingerà tale princi­ pio gradualmente sempre più indietro, nel tempo senza origine, e così la catena delle cause che stan­ no tra di esso e noi sarà spinta tanto oltre, da non poter mai essere lunga abbastanza per giungere sino all’attuale presente: in tal modo dunque non si sarebbe ancor mai giunti al nostro presente. Senonché, a ciò contrasta il fatto che quest’ultimo è ora purtuttavia sussistente, e costituisce anzi il no­ stro unico dato per tale calcolo. La giustificazione comunque della suddetta tanto molesta domanda nasce dalla circostanza che il primo inizio, in quanto tale, non presuppone alcuna causa precedente, e per questo appunto avrebbe potuto verificarsi allo stesso modo trilioni di anni prima. Se esso cioè non aveva bisogno per presentarsi di alcuna causa, non * avrebbe neppure dovuto attenderne alcuna, e avrebbe già quindi dovute essersi verificato infini­ tamente prima, non essendovi nulla a impedirlo. All’origine prima infatti non può precedere nulla come suo impedimento, così come non precede nulla come sua causa: essa non ha quindi da attendere assolutamente nulla, e non si verifica mai in un momento abbastanza remoto. In qualunque punto del tempo la si ponga, non è dunque mai possibile vedere perché non debba già essere esistita molto prima. Tutto questo la sposta così sempre più in­ dietro: siccome però il tempo non può avere asso­ lutamente alcun principio, è trascorso in ogni caso sino al momento presente un tempo infinito, un’e­ ternità; anche il ritrarsi addietro dell’origine del mondo sarà allora senza fine, cosicché ogni catena

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causale tra quella e noi risulterà troppo corta, e noi non potremo quindi mai ridiscendere da quel­ l’origine sino al presente. Ciò dipende dal fatto che a noi manca un punto d’appoggio (point d’atta­ che), dato e sicuro; si tenta allora di assumerlo ar­ bitrariamente in qualche modo, ed esso per contro ci scivola sempre di mano, risalendo all’infinito. Cosi dunque si presentano le cose, se noi suppo­ niamo un primo inizio e da questo partiamo: in tal caso non riusciamo mai a scendere in giù sino al presente. Se noi partiamo invece, in senso contrario, dal presente datoci positivamente, non riusciremo in nessun caso, come già si è detto, a risalire sino alla prima origine: ogni causa infatti, cui ci troviamo di fronte, dev’esser sempre stata l’effetto di un’altra anteriore, la quale a sua volta si trova nella mede­ sima situazione, cosicché il processo non può giun­ gere assolutamente a una fine. In questo caso il mondo ci si presenta senza principio, come il tempo stesso infinito; la nostra forza rappresentativa allora si stanca e il nostro intelletto non raggiunge alcuna soddisfazione. Queste due opinioni antitetiche sono quindi pa­ ragonabili a un bastone, un’estremità del quale, a scelta di ciascuno, può esser comodamente afferrata, mentre l’altra va sempre allungandosi all’infinito. L’essenza della questione peraltro si può riassumere nell’affermazione che il tempo, in quanto sempli­ cemente infinito, risulta sempre troppo grande per un mondo in esso assunto come finito. In fondo però, viene in tal modo a essere confermata una volta di più la verità dell’« antitesi » nell’antino­ mia kantiana. Infatti, se noi partiamo da ciò sol­ tanto che è certo e veramente dato, dal presente reale, ne risulta la mancanza di un’origine; per con­ tro, questa origine prima è semplicemente una sup­ posizione arbitraria, che in quanto tale non può

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accordarsi con la suddetta unica certezza e realtà, il presente; Per un altro verso, queste considerazio­ ni ci aiutano a svelare gli errori derivanti dall’ac­ cettazione di un’assoluta realtà del tempo, e noi dobbiamo quindi vederle come conferme della dot­ trina fondamentale di Kant. Il problema se il mondo sia limitato oppure illi­ mitato, per quanto riguarda lo spazio, non è sen­ z’altro trascendente, bensì in se stesso empirico, dal momento che la questione rimane pur sempre nel campo di un’esperienza possibile, la cui realizzazio­ ne ci è preclusa soltanto dalla nostra natura fìsica. Non esiste a priori alcun sicuro argomento dimo­ strabile né per l’una né per l’altra alternativa; il problema risulta allora molto simile a un’antino­ mia, in quanto si manifestano nell’una e nell’altra ipotesi delle notevoli difficoltà. In particolare un mondo limitato, per quanto grande possa essere, si riduce, in uno spazio infinito, a una grandezza in­ finitamente piccola, e sorge così la domanda, a qua­ le scopo sussista allora lo spazio rimanente. D’altro canto è inconcepibile che nessuna stella fissa debba» essere l’ultima nello spazio. Detto tra parentesi, i pianeti di questa stella estrema avrebbero un cielo stellato di notte solo durante una metà della loro rivoluzione, mentre durante l’altra metà possiederebbero un cielo privo di stelle : ciò farebbe sui loro abitanti un’impressione assai poco rassicurante. Ta­ le questione si può dunque esprimere anche così: esiste o meno una stella fissa i cui pianeti abbiano tale proprietà? Sotto questa luce il problema si ri­ vela evidentemente empirico. Nella mia Critica della filosofia kantiana ho di­ mostrato come tutta la teoria delle antinomie sia falsa e illusoria. Riflettendovi appropriatamente, ognuno riconoscerà sin da principio come impossi­ bile, che concetti tratti rettamente dai fenomeni e dalle loro leggi certe a priori e collegati poi in giu-

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dizi e in sillogismi, in conformità alle leggi della logica, debbano condurre a contraddizioni. Dovreb­ bero in tal caso esistere, nell’esperienza stessa data intuitivamente, oppure nella connessione conforme a leggi delle sue parti, delle contraddizioni, il che è un’ipotesi impossibile. L’intuitivo in quanto tale non conosce infatti alcuna contraddizione: quest’ul­ tima in rapporto all’intuitivo non ha né senso né significato. La contraddizione esiste soltanto nella conoscenza astratta della riflessione: si può certo al tempo stesso, apertamente o celatamente, porre e non porre qualcosa, cioè ci si può contraddire. Al tempo stesso però non può esistere e non esistere qualcosa di reale. Zenone di Elea, con i suoi noti sofismi, e anche Kant con le sue antinomie, hanno voluto indubbiamente dimostrare il contrario. Ri­ mando quindi alla mia critica delle antinomie. Il merito di Kant per quanto riguarda la teolo­ gia speculativa è già stato sopra toccato in genera­ le. Per rilevare ancor più tale merito, voglio ora tentare molto brevemente di chiarire alla mia ma­ niera l’essenza della questione. Nella religione cristiana l’esistenza di Dio è una cosa evidente e sottratta a ogni indagine. E questo a ragione: infatti tale esistenza appartiene a un campo particolare ed è fondata sulla rivelazione. Ritengo dunque uno sbaglio dei razionalisti il cer­ car di dimostrare nelle loro opere dogmatiche resi­ stenza di Dio altrimenti che attraverso la Scrittura: essi ignorano, nella loro innocenza, quanto sia pe­ ricoloso questo passatempo. La filosofia al contrario è una scienza, e in quanto tale non ha alcun arti­ colo di fede: di conseguenza nulla può venir in essa assunto come esistente, se non quanto è dato empiricamente, oppure è dimostrato attraverso de­ duzioni indiscutibili. Certo da lungo tempo si pen­ sava di possedere queste ultime, quando giunse Kant a disilludere il mondo al riguardo: egli anzi

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fece risultare così sicuramente l’impossibilità di tali dimostrazioni, che da allora nessun filosofo in Ger­ mania ha più tentato di ricostituirne di simili. A ciò Kant era perfettamente autorizzato, e in tal mo­ do egli compì per di più qualcosa di altamente me­ ritorio. Un dogma teorico, che tra l’altro ha la pre­ tesa di bollare come un briccone chiunque non lo ammetta, meritava davvero di essere per una volta tanto conciato a dovere. Per quel che riguarda quelle pretese dimostra­ zioni, le cose stanno nel modo seguente. Dal mo­ mento che la realtà dell’esistenza di Dio non può essere dimostrata con una documentazione empiri­ ca, il primo passo avrebbe dovuto far risultare la sua possibilità, e già su questo punto ci si sarebbe trovati piuttosto in difficoltà. Invece di far questo, ci si accinse a dimostrare la necessità di tale esisten­ za, a presentare cioè Dio come essere necessario. Senonché la necessità, come spesso ho mostrato, in ogni caso non è altro se non la dipendenza di una conseguenza dalla sua ragione, cioè il verificarsi o il porsi della conseguenza, poiché è data la ragione. « In tal modo si poteva scegliere tra le quattro figure, da me dimostrate, del principio di ragione, e sol­ tanto le prime due furono ritenute applicabili. Nacquero dunque due prove teologiche, la cosmo­ logica e l’ontologica, l’una secondo il principio di ragione del divenire (causa), l’altra secondo il prin­ cipio di ragione del conoscere. La prima presenta, secondo la legge di causalità, quella necessità come fisica, intendendo il mondo come un effetto che debba avere una causa. A questa prova cosmologica viene aggiunta tosto, come aiuto e sostegno, la fi­ sico-teologica. L’argomento cosmologico è espresso nel modo più vigoroso dalla concezione wolfiana, cioè come segue: « se un qualcosa esiste, esiste an­ che un essere semplicemente necessario » ; con ciò si può intendere o il dato stesso, oppure la prima

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delle cause, attraverso cui il dato è giunto a esistere. Viene scelta questa seconda ipotesi. Tale prova ha anzitutto il difetto di rappresentare una deduzione dalla conseguenza alla ragione, modo di dedurre cui già la logica contesta ogni pretesa di certezza. Essa ignora poi che, come ho mostrato spesso, noi pos­ siamo pensare alcunché come necessario solo in quanto esso sia conseguenza di qualcos'altro di da­ to, e non in quanto ne sia la ragione. La legge di causalità, applicata a questo modo, dimostra inol­ tre più di quanto dovrebbe: se infatti essa ci deve condurre dal mondo alla sua causa, non ci permet­ te peraltro di arrestarci a questa, ma ci guida oltre, alla causa della causa, e così spietatamente sempre più indietro, in infinitum. La sua natura infatti vuole così. In questa circostanza la nostra situazio­ ne è simile a quella dell’apprendista stregone di Goethe, la cui creatura si muove a ogni ordine dato, senza poi più arrestarsi. A ciò si aggiunga ancora, che la forza e la validità della legge di causalità si estendono soltanto alla forma delle cose, non alla loro materia. Essa è il filo conduttore dei muta­ menti delle forme, e nulla di più: la materia non rimane toccata né dalla nascita né dalla morte di tali forme. Noi comprendiamo tutto ciò anterior­ mente a ogni esperienza e teniamo quindi la cosa per certa. Infine la prova cosmologica soggiace al­ l’argomento trascendentale, per cui la legge di cau­ salità è sicuramente di origine soggettiva, e appli­ cabile quindi soltanto alle apparenze che si presen­ tano al nostro intelletto, non all’essenza delle cose in sé. * Alla prova cosmologica viene aggiunta sus• A guardar le cose in modo del tutto realistico e ogget­ tivo, è chiaro come il sole che il mondo si conserva da sé: gli esseri organici sussistono e si propagano in virtù della loro intima e propria forza vitale; i corpi inorganici por­ tano in sé le forze, che la chimica e la fisica debbono

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sidiariamente, come si è detto, quella fisico-teologi.30 Si potrebbe definire il mio sistema un dogmatismo immanente: le sue dottrine infatti sono dogmatiche, pur senza uscire dal mondo datoci nell’esperienza, poiché spiegano semplicemente cosa sia questo mondo, analizzando­ lo nelle sue ultime parti costitutive. L’antico dog­ matismo abbattuto da Kant (e similmente le tre fanfaronate dei moderni sofisti universitari) è tra­ scendente, andando oltre questo mondo, per tro­ varne la spiegazione in qualcos’altro: esso conside­ ra il mondo come conseguenza di una causa, la quale a sua volta è dedotta dal mondo stesso. La mia filosofia per contro prende le mosse dal prin-

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cipio che soltanto nel mondo e secondo i suoi pre­ supposti sussistono ragioni e conseguenze, dal mo­ mento che il principio di ragione, nelle sue quattro figure, è semplicemente la forma più generale dell’intelletto, in cui soltanto, in quanto vero locus mundi, sussiste il mondo oggettivo. Negli altri sistemi filosofici ci si comporta coe­ rentemente deducendo una proposizione dall’altra. Per far questo tuttavia il vero e proprio contenuto del sistema deve necessariamente già sussistere nelle primissime proposizioni, cosicché tutto il resto, in quanto dedotto da quelle, difficilmente può fare a meno di essere monotono, povero, vuoto e noioso, essendovi soltanto sviluppato e ripetuto ciò che già era stato espresso nei princìpi fondamentali. Que­ sta triste conseguenza della deduzione dimostrati­ va si può avvertire soprattutto in Christian Wolf, ma lo stesso Spinoza, che ha seguito rigorosamente tale metodo, non può sfuggirvi del tutto, per quan­ to abbia saputo con il suo ingegno compensare que­ sto difetto. Le mie proposizioni per contro si basa­ no per Io più non su catene di deduzioni, ma im­ mediatamente sullo stesso mondo intuitivo, e la stretta coerenza, presente nel mio sistema quanto in qualsiasi altro, non è di regola raggiunta per una via puramente logica. Si tratta piuttosto di una naturale concordanza delle proposizioni, che si manifesta inevitabile per il fatto che alla loro base sta la conoscenza intuitiva, cioè la concezione immediata del medesimo oggetto, visto successiva­ mente sotto differenti aspetti, in altre parole del mondo reale in tutti i suoi fenomeni, secondo la visuale della coscienza, in cui esso si presenta. Per questo motivo sono sempre rimasto tranquillo quanto alla coerenza dei miei princìpi, persino quando alcuni di essi, come talvolta si è verificato per un certo tempo, sembravano inconciliabili: la concordanza infatti risultò in seguito automatica-

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mente, man mano che le proposizioni si riunivano in modo compiuto. La mia coerenza non è altro se non quella della realtà con se stessa, che non può mai mancare. Ciò è analogo a quanto ci avvie­ ne talora, quando guardiamo un edificio per la prima volta e soltanto da un lato, non compren­ dendo ancora la connessione delle sue parti, eppure siamo sicuri che questa non manca e si mostrerà, non appena saremo passati dall’altra parte. Questa specie di coerenza, per la sua originalità, e poiché sta sotto il controllo costante dell’esperienza, è com­ pletamente sicura: per contro quell’altra, dedotta ed ottenuta soltanto con il sillogismo, può facil­ mente venir scoperta in qualche occasione come falsa, non appena cioè un termine della lunga ca­ tena risulti non autentico, poco sicuro o altrimenti difettoso. Conformemente a ciò, la mia filosofia pos­ siede un vasto terreno, su cui tutto si appoggia im­ mediatamente e quindi saldamente, mentre gli al­ tri sistemi assomigliano ad alte torri: se un solo so­ stegno vien meno, tutta la costruzione precipita. Tutto ciò che si è detto qui può ridursi all’afferma­ zione, che la mia filosofia è sorta ed è stata esposta per via analitica e non sintetica. Come carattere peculiare della mia filosofia posso considerare il fatto che in ogni caso io cerco di pe­ netrare nella radice delle cose, non tralasciando di perseguirle sino al dato ultimo e reale. Ciò avviene per una tendenza naturale, che mi rende quasi im­ possibile l’appagarmi di una qualsiasi conoscenza ancora generale ed astratta, ancora cioè indetermi­ nata, e di arrestarmi a semplici concetti, meno che mai poi a delle parole; tale tendenza mi spinge sino al punto in cui io abbia nudo di fronte a me l’ulti­ mo fondamento di tutti i concetti ed i princìpi, fondamento in ogni caso intuitivo, che io poi o am­ metto come fenomeno primordiale, o quando è pos­ sibile dissolvo ancora nei suoi elementi, perseguen-

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do in ogni caso l’essenza della cosa sino all’estre­ mo. Per tale motivo si riconoscerà un giorno (non però naturalmente sintanto che io vivrò), che la trattazione del medesimo oggetto da parte di un qualsiasi altro filosofo anteriore risulta piatta, in confronto alla mia. L’umanità ha quindi imparato da me molte cose che non dimenticherà mai, ed i miei scritti non moriranno. Anche il teismo fa provenire il mondo da una volontà, come pure fa guidare da una volontà i pianeti nelle loro orbite e attraverso una volontà suscita sulla superficie di questi una natura; senonché esso, in maniera infantile, pone questa volontà all’esterno; e la fa agire sulle cose, secondo l’esem­ pio umano, solo mediatamente, con l’intervento cioè della conoscenza e della materia. Per me inve­ ce la volontà non agisce tanto sulle cose, quanto in esse: anzi le cose stesse non sono altro, se non per l’appunto quella volontà resa visibile. Si vede tut­ tavia da questa relativa concordanza che tutti noi non possiamo pensare ciò che è originario se non come una volontà. Il panteismo chiama Dio la vo­ lontà operante nelle cose, ed io ho già abbastanza spesso e con vigore biasimato questa assurdità; per parte mia chiamo ciò volontà di vivere, poiché cosi si esprime quanto vi è contenuto, come oggetto su­ premo di conoscenza. Questa stessa distinzione tra mediatezza ed immediatezza, compare ulteriormen­ te nella morale. I teisti vogliono una compensazio­ ne tra ciò che uno fa e ciò che uno patisce: io pu­ re. Essi però l’assumono soltanto mediatamente, at­ traverso il tempo, un giudice ed un rimuneratore; io invece vedo una compensazione immediata, ri­ trovando la medesima essenza nell’autore e nel pa­ ziente. I risultati morali del cristianesimo, sino alla più alta ascesi, si trovano in me giustificati razio­ nalmente, nella connessione delle cose, mentre nel cristianesimo tale giustificazione avviene attraverso

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semplici favole. La fede in queste ultime va scom­ parendo ogni giorno di più: ci si dovrà quindi ri­ volgere alla mia filosofìa. I panteisti non possono avere alcuna morale intesa seriamente, dal momen­ to che per loro tutto è divino ed eccellente. Ho dovuto sopportare molti biasimi, per il fatto di aver presentato nella mia filosofia, teoricamente cioè, la vita come dolorosa e per nulla desiderabile: tuttavia chi mette in mostra praticamente il più deciso disprezzo per la medesima è lodato, anzi am­ mirato, mentre chi si sforza accuratamente di con­ servarla viene disprezzato. Si può dire che i miei scritti non hanno quasi neppure suscitato l’attenzione di uomini isolati, e riguardo al mio pensiero fondamentale si è persino udita una contestazione di priorità, venendo citato il fatto che Schelling avrebbe detto una volta « il volere è l’essere primordiale », senza contare quan­ to di simile ha potuto essere addotto. Riguardo a tale questione si deve dire che la radice della mia filosofia è ritrovabile in Kant, soprattutto nella sua dottrina del carattere empirico e intelligibile, in « generale poi nel fatto che, quando Kant offre qual­ che chiarimento più preciso riguardante la cosa in sé, quest’ultima in ogni caso trapela, per così dire attraverso un velo, come volontà; nella mia Critica della filosofia kantiana ho espressamente fatto no­ tare la cosa, e ho detto di conseguenza che la mia filosofia rappresenta soltanto l’approfondimento ra­ dicale della sua. Non ci si deve quindi stupire, se nelle filosofie di Fichte e di Schelling, che ugual­ mente partono da Kant, si possono ritrovare delle tracce del medesimo pensiero fondamentale; tali indizi però si presentano qui senza una coerenza e una continuità, né vengono sviluppati, e debbono quindi esser considerati come un semplice presagio della mia dottrina. In generale però bisogna dire a questo proposito, che per ogni grande verità, prima

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che venga scoperta, si manifestano un sentimento anticipatore, un presagio, un’immagine oscura, co­ me nebulosa, e un vano tentativo di coglierla, dal momento che proprio i progressi dell’epoca l’hanno preparata. Analogamente, seguono poi come prelu­ dio dichiarazioni staccate. Senonché, soltanto chi ha conosciuto nelle sue ragioni una verità e l’ha pensata nelle sue conseguenze, chi ha sviluppato tutto il suo contenuto, ha dominato l’ampiezza del suo campo, e l’ha in seguito esposta chiaramente e coerentemente con la piena coscienza del suo valo­ re e della sua importanza, costui soltanto è il suo autore. Il fatto al contrario che tale verità sia stata espressa eventualmente in epoca antica o recente, attraverso una semicoscienza e quasi come un di­ scorso nel sonno, e che di conseguenza la si possa ritrovare colà, se la si vuol cercare attentamente, si­ gnifica, anche se consiste totidem verbis, non molto più che se fosse totidem litteris; allo stesso modo lo scopritore di una cosa è soltanto colui che l’ha raccolta e serbata riconoscendone il valore, non in­ vece colui che casualmente l’ha presa in mano una volta e di nuovo l’ha lasciata cadere, o ancora lo scopritore dell’America è Colombo, non già il pri­ mo naufrago, gettato un giorno dalle onde laggiù. Tale per l’appunto è il significato dell’affermazione donatistica: « pereant qui ante nos nostra dixerunt ». Se per contro si vogliono far valere contro di me siffatte dichiarazioni casuali, considerandole come anticipazioni, già si dovrebbe risalire molto più addietro, potendosi ad esempio citare ciò che dice Clemente Alessandrino (Strom., π, cap. 17, p. 304) : προηγείται τοίνυν πάντων τό βούλεσθαι αί γάρ λογικαί δυνάμεις τοΰ βούλεσόαι διάκονοι πεφύκασι (Velie ergo omnia antecedit: rationales enim facultates sunt voluntatis ministrae. Cfr. Sanctorum Pa­ trum opera polemica, voi. v, Wirceburgi, 1779: Cle­ mentis Alex., Opera, tomo u, p. 304);31 come anche

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la dichiarazione di Spinoza: « Cupiditas est ipsa unius cujusque natura, seu essentia » (Eth., par­ te in, prop. 57), e quella precedente: « Hic conatus, cum ad mentem solam refertur, Voluntas appellatur; sed cum ad mentem et corpus simul refertur, vocatur Appetitus, qui proinde nihil aliud est, quam ipsa hominis essentia » (parte in, prop. 9, scolio, e infine parte in, defin. 1, spiegazione). Mol­ to giustamente ha detto Helvétius: « Il n’est point de moyens que l’envieux, sous l’apparence de la justice, n’emploie pour dégrader le mérite... C’est l’envie seule qui nous fait trouver dans les anciens toutes les découvertes modernes. Une phrase vide de sens, ou du moins inintelligible avant ces dé­ couvertes, suffit pour faire crier au plagiat » (De l’esprit, IV, 7, p. 228). Mi sia permesso di ricordare a questo proposito ancora un passo di Helvétius, la cui citazione tuttavia prego di non voler inter­ pretare come una mia vanità e presunzione, consi­ gliando di tener presente soltanto la giustezza del pensiero espressovi, senza badare se questo possa o meno applicarsi in qualche modo a me. « Quicon-· que se plait à considérer l’esprit humain voit, dans chaque siècle, cinq ou six hommes d’esprit tourner autour de la découverte que fait l’homme de génie. Si l’honneur en reste à ce dernier, c’est que cette découverte est, entre ses mains, plus féconde que dans les mains de tout autre; c’est qu’il rend ses idées avec plus de force et de netteté; et qu’enfin on voit toujours à la manière différente, dont les hommes tirent parti d’un principe ou d’une décou­ verte, à qui ce principe ou cette découverte appar­ tient » (De l’esprit, iv, 1). In conseguenza dell’antica e insanabile guerra, condotta ovunque e in ogni tempo dall’incapacità e dalla stupidità contro lo spirito e l’intelligenza — le prime difese da legioni, le ultime invece da isolati — chiunque afferma ciò che è degno e auten-

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tico, deve sostenere una dura lotta contro la man­ canza d’intelligenza, l’ottusità, il gusto corrotto, gli interessi privati e l’invidia, riuniti tutti in degna alleanza, in quella cioè di cui dice Chamfort: « en examinant la ligue des sots contre les gens d’esprit, on croirait voir une conjuration de valets pour écarter les maîtres Contro di me inoltre si ag­ giunse ancora un insolito nemico: una gran parte di coloro che avevano nel mio campo l’occasione, per il loro mestiere, di guidare il giudizio del pub­ blico, fu mobilitata e assoldata per propagare, lo­ dare, anzi innalzare alle stelle ciò che vi era di peg­ gio, ^hegelismo. Le cose non andranno però così, se al tempo stesso deve affermarsi, anche soltanto in una certa misura, ciò che ha valore. Da tutto que­ sto il futuro lettore potrà spiegarsi il fatto, altri­ menti per lui enigmatico, che io sia rimasto tanto estraneo ai miei propri contemporanei, come l’uo­ mo nella luna. Un sistema razionale tuttavia, che anche senza alcun interesse né simpatia da parte di altri, ha potuto occupare instancabilmente e appas­ sionatamente il suo autore per tutta una lunga vita, e ha potuto spronarlo a un lavoro continuato e senza ricompense, proprio per questo fornisce una testimonianza del suo valore e della sua verità. Sen­ za alcun incoraggiamento dall’esterno, l’amore per la mia opera soltanto ha sorretto la mia aspirazione lungo i miei numerosi giorni, e non mi ha lasciato stancare: nel far ciò ho guardato con disprezzo alla gloria chiassosa di ciò che è scadente. Quando feci l’ingresso nella vita, il mio Genio mi propose la scelta tra il conoscere la verità, senza con essa pia­ cere a nessuno, e l’insegnare assieme agli altri il fal­ so, con seguaci e applausi : tale scelta non mi fu diffìcile. Di conseguenza, il destino della mia filo­ sofia risultò antitetico a quello toccato all’hegelismo, in modo così completo che si può considerare tali sorti come le due facce di una stessa pagina,

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seguendo la natura delle due filosofie. L’hegelismo, privo di verità, di chiarezza, di spirito, anzi di sen­ so comune, mettendo inoltre in mostra la più di­ sgustosa confusione mai udita, divenne una filosofia cattedratica riconosciuta e privilegiata, e di conse­ guenza fu un’assurdità che nutrì il suo autore. La mia filosofia, comparsa al medesimo tempo di quel­ la, aveva tutte le qualità che mancavano all’altra: senonché essa non era affatto tagliata per quei fini superiori, non era adatta in quei bei tempi per una cattedra, e così, come si dice, niente da fare. Al che seguì, come il giorno segue alla notte, che l’hegelismo diventò la bandiera sotto cui tutti accorrevano, mentre la mia filosofia non trovò né applausi né seguaci e fu piuttosto concordemente e intenzional­ mente ignorata del tutto, messa a tacere e per quan­ to era possibile soffocata, dal momento che con la sua presenza quella farsa così vantaggiosa sarebbe andata distrutta, come un gioco d’ombre sul muro vien meno al sopravvenire della luce diurna. Di conseguenza così io divenni la maschera di ferro, ossia, come dice il nobile Dorguth, il Kaspar Hauser dei professori di filosofia; segregato dall’aria e dalla luce, perché nessuno mi vedesse e perché i miei di­ ritti innati non potessero essere riconosciuti. *

• Ora però l’uomo segregato in un silenzio mortale dai professori di filosofia è di nuovo risorto, con grande co­ sternazione degli stessi, i quali non sanno quale atteggia­ mento debbano assumere a questo punto.

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Ή άτιμία φιλοσοφία διά ταΰτα προσπέπτωκεν, δτι ού κατ’αξίαν αύτής άπτονται· ού γάρ νόθους εδει απτεσθαι, άλλά γνησίους.33 Platone, Repubblica, vu

Il fatto che la filosofia sia insegnata nelle uni­ versità, le riesce indubbiamente di vantaggio sotto molti punti di vista. In tal modo essa viene ad ac­ quistare un’esistenza pubblica, e il suo stendardo è piantato dinanzi agli occhi degli uomini, cosicché la sua esistenza è continuamente riportata alla me­ moria e posta in rilievo. Il vantaggio principale di questo sarà però che più di un cervello giovane e capace la potrà conoscere e sarà invogliato al suo studio. Bisogna tuttavia ammettere che chi ha atti­ tudine per la filosofia e ne sente il bisogno po­ trebbe accostarsi ad essa e conoscerla anche per al­ tre vie. Coloro infatti che si amano e sono nati gli uni per gli altri si ritrovano facilmente: le anime affini si salutano già vedendosi da lontano. Un ta­ le individuo sarà quindi attratto più potentemente e più efficacemente da qualsiasi libro di un vero filosofo, che gli venga tra le mani, piuttosto che dalle lezioni di un filosofo di cattedra, quale può udirsi comunemente. Oltre a ciò, al liceo si do­ vrebbe leggere con cura Platone, che è lo stimolan­ te più efficace dello spirito filosofico. In generale però, sono andato gradualmente convincendomi, che la suddetta utilità della filosofia cattedratica è superata dal danno che la filosofia come profes­ sione reca alla filosofia come libera indagine della verità o, in altre parole, che la filosofia al servizio del governo reca alla filosofia al servizio della na­ tura e dell’umanità. Anzitutto un governo non assolderà infatti della gente per contraddire direttamente, o anche indi­ rettamente, ciò che esso fa proclamare da tutti i pul­ piti per opera di migliaia di preti, o di insegnanti di religione, suoi impiegati; giacché una cosa simile, nella misura in cui riuscisse, dovrebbe, attraverso la

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sua azione progressiva, rendere inefficace quella pri­ ma organizzazione. Come è noto, infatti, i giudizi si annullano a vicenda non soltanto con la contraddi­ zione, ma anche con la semplice contrarietà: ad esempio il giudizio « la rosa è rossa » è contraddetto non soltanto da «essa non è rossa», ma anche da «essa è gialla», che al riguardo significa altrettanto, anzi di più. Di qui la parola d’ordine «improbant secus docentes». Date queste circostanze i professo­ ri d’università incorrono in una situazione tutta par­ ticolare, il cui segreto, noto a tutti, può essere qui una volta tanto messo in piazza. In tutte le altre scienze i professori hanno semplicemente l’obbligo d’insegnare, per quanto sta nelle loro forze e possi­ bilità, ciò che è vero e giusto. Soltanto per i profes­ sori di filosofia la cosa dev’essere intesa « cum grano salis». La filosofia, cioè, si trova qui in una situazio­ ne tutta particolare, e ciò perché in tale scienza l’og­ getto è quello stesso su cui, a suo modo, anche la religione fornisce un chiarimento: per tale motivo io ho chiamato quest’ultima la metafisica del popolo. Di conseguenza anche i professori di filosofia certa­ mente devono insegnare ciò che è vero e giusto: senonché questo dev’essere in fondo e nella sua so­ stanza la stessa cosa insegnata anche dalla religione di Stato, che in quanto tale sarà parimenti vera e giusta. Dal che nacque quell’ingenua espressione, già citata nella mia Critica della filosofia kantiana, di un professore di filosofia molto reputato, nell’an­ no 1840: «Se una filosofia nega le idee fondamen­ tali del cristianesimo, essa è falsa, oppure, anche se vera, inutile». Si vede da ciò che nella filosofia del­ le università, la verità prende soltanto un posto se­ condario, e, se risulta necessario, deve alzarsi in pie­ di, per dar luogo a un’altra qualità. Tutto questo, quindi, distingue nelle università la filosofia da tutte quante le altre scienze, che hanno colà delle catte­ dre stabili.

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In conseguenza, sino a che sussisterà la Chiesa, nelle università potrà venire insegnata soltanto una filosofia costruita con un riguardo costante alla re­ ligione di Stato, che corra parallelamente a questa nella sua sostanza, e che quindi - pur confusa nel­ l’aspetto, stranamente adornata e resa in tal modo difficilmente comprensibile - non sia in fondo mai null’altro che una parafrasi e un’apologià della re­ ligione di Stato. A coloro che insegnano con que­ ste limitazioni non rimane quindi null’altro che cercare nuove locuzioni e forme con cui esporre il contenuto della religione di Stato, rivestito di espressioni astratte e reso in tal modo insipido; ta­ le contenuto si chiamerà poi filosofia. Se tuttavia qualcuno vorrà fare ancora qualcosa d’altro, dovrà o divagare in rami vicini, o rifugiarsi in qualsiasi genere di piccole e innocenti buffonerie, ad esem­ pio in difficili calcoli analitici sull’equilibrio delle rappresentazioni nel cervello umano, o in diverti­ menti consimili. Nonostante tutto i filosofi univer­ sitari, pur limitati a questa maniera, rimangono nel far ciò di buon umore, poiché la loro autenti­ ca serietà sta nell’acquistarsi con onore un onesto reddito per sé, la moglie e i figli, e inoltre nel go­ dere una certa fama di fronte alla gente. Per con­ tro l’animo profondamente agitato di un vero filo­ sofo, la cui grande serietà sta nel ricercare una chiave della nostra esistenza, tanto enigmatica quanto scabrosa, viene da loro annoverato tra gli esseri mitologici, se pure colui che porta in sé ta­ le animo non sembra loro addirittura, caso mai vo­ lesse presentarsi di fronte ad essi, come affetto da monomania. Che infatti vi possa essere una tale amara e autentica serietà nella filosofia, nessuno, almeno di regola, potrebbe immaginare tanto po­ co quanto un docente della stessa, allo stesso mo­ do che il cristiano più incredulo è di solito il Pa­ pa. E quindi uno dei casi più rari che un vero filo-

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sofo sia stato al tempo stesso un docente di filo­ * sofia. Che proprio Kant rappresenti questo caso eccezionale ho già messo in chiaro nel secondo volume della mia opera principale, cap. 17, p. 162 (3a ed., p. 179), ricordando colà le ragioni e le conseguenze della cosa. Del resto 1’esistenza preca­ ria, qui posta in rilievo, di ogni filosofia universi­ taria è testimoniata dal ben noto destino di Fichte, anche se costui in fondo era un semplice sofista e non un vero filosofo. Egli aveva osato cioè tra­ scurare nella sua filosofia le dottrine della religio­ ne di Stato: la conseguenza di ciò fu la sua radia­ zione, e la ventura inoltre di essere insultato dalla plebe. La punizione ebbe effetto su di lui poiché, durante il suo incarico posteriore a Berlino, l’io assoluto si trasformò molto docilmente nel buon Dio, e tutta la sua dottrina in genere prese un co­ lorito assolutamente cristiano: prova ne è soprat­ tutto V Avviamento alla vita beata. Notevole nel suo caso è ancora la circostanza che gli si rimpro­ verò come delitto maggiore l’affermazione secon­ do cui Dio non sarebbe altro se non lo stesso or­ dinamento morale del mondo, mentre tale affer* E del tutto naturale che quanto maggiore è la devo­ zione richiesta a un professore, tanto minore sarà l’eru­ dizione che si esige da lui, proprio come ai tempi di Altenstein era ritenuto sufficiente che uno si dichiarasse convinto delle assurdità di Hegel. Da quando l’erudizio­ ne, nell’ottenere delle cattedre, può essere sostituita dal­ la devozione, questi signori non eccedono nella prima. I tartuffes dovrebbero piuttosto procedere cautamente, domandandosi: chi crederà, che noi crediamo in que­ sto? Che questi signori siano professori, riguarda coloro che li hanno nominati: io li conosco soltanto come cat­ tivi scrittori, contro il cui influsso mi adopero. Io ho cercato la verità, non un posto di professore: su di ciò è basata in estrema analisi la distinzione tra me e i co­ siddetti filosofi postkantiani. Si riconoscerà questo sem­ pre più, col tempo.

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inazione è soltanto di poco differente dall’espres­ sione dell’evangelista Giovanni: « Dio è amore ». * È dunque facile vedere che, in tali circostanze, la filosofia cattedratica non può fare a meno di comportarsi Come una cicala dalle lunghe gambe, che sempre vola e volando salta, e nell’erba canta la sua vecchia canzonetta.34

Il pericoloso della questione sta nella semplice possibilità, la quale dovrà pur sempre accordarsi, che la suprema visione raggiungibile dall’uomo della natura delle cose, dell’essenza di queste e del mondo, non coincida per l’appunto con le dottri­ ne, che in parte sono state rivelate all’antico pic­ colo popolo degli ebrei, e in parte sono comparse in Gerusalemme 1800 anni fa. Per evitare una vol­ ta per tutte questo pericolo, il professore di filo­ sofia Hegel inventò l’espressione « religione assolu­ ta», con cui raggiunse anche il suo scopo, dal mo­ mento che egli ha ben conosciuto il suo pubblico. Tale religione per il professore di cattedra è davw vero propriamente assoluta, cioè tale da essere as­ solutamente e semplicemente vera, e da doverlo essere, altrimenti...! * La stessa sorte ha avuto a Heidelberg, nel 1853, il li­ bero docente Fischer, cui venne ritirato lo jus legendi poiché insegnava il panteismo. La soluzione è dunque: «Mangia il tuo pudding, o schiavo, e considera la mito­ logia ebraica come filosofia!». Il divertente della cosa pe­ raltro si è che questa gente prende il nome di filosofi, e corne tale mi giudica anche con un atteggiamento di superiorità, anzi si dà nei miei riguardi grandi arie e per 40 anni non si è degnata neppure di guardarmi, non ri­ tenendomi degno di alcuna attenzione. Lo Stato deve però proteggere i suoi fedeli, e dovrebbe quindi pro­ mulgare una legge che proibisca di prendersi gioco dei professori di filosofia.

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Altri poi tra questi indagatori della verità fondo­ no filosofia e religione in un centauro, da loro chiamato filosofia della religione, e son soliti inol­ tre insegnare che la religione e la filosofia sono propriamente la stessa cosa: tale affermazione tut­ tavia sembra essere vera soltanto nel senso in cui Francesco I avrebbe detto in modo assai concilian­ te a Carlo V: « Ciò che vuole mio fratello Carlo, lo voglio anch’io», cioè Milano. Altri ancora non fan­ no troppi complimenti, e parlano addirittura di una filosofia cristiana; ciò equivale per così dire a parlare di una aritmetica cristiana, che consideri come pari il 5. Tali epiteti, tratti dalle dottrine del­ la fede, sono inoltre evidentemente sconvenienti al­ la filosofia, poiché questa si presenta come il ten­ tativo della ragione, di risolvere con mezzi propri e indipendentemente da ogni autorità il problema dell’esistenza. In quanto scienza, essa non ha asso­ lutamente a che fare con ciò che si può, o si deve, o è necessario credere, ma semplicemente con ciò che si può conoscere. Anche se quest’ultimo dovesse risultare qualcosa di completamente diverso da quanto si deve credere, la fede non verrebbe in tal modo ad essere ostacolata, poiché essa è fede in quanto contiene ciò che non si può conoscere. Se si potesse anche conoscere l’oggetto della fede, es­ sa risulterebbe del tutto inutile e persino ridicola, allo stesso modo che se si volesse imporre una dot­ trina della fede agli oggetti della matematica. Se per contro si è convinti, che la verità totale e pie­ na è contenuta ed espressa nella religione di Stato, ci si attenga allora a questa e si rinunzi ad ogni filosofia. Non si voglia però sembrare ciò che non si è. La pretesa di una sincera indagine della verità, unita alla decisione di fare della religione di Stato il risultato, anzi la misura e il controllo di tale in­ dagine, è insopportabile, e una tale filosofia legata alla religione di Stato, come il cane è incatenato al

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muro, è soltanto la spiacevole caricatura della più alta e nobile aspirazione dell’umanità. Tuttavia, una delle Sezioni principali della filosofia universi­ taria è per l’appunto quella filosofia della religio­ ne, che poco fa abbiamo paragonato a un centau­ ro, e che propriamente sfocia in una specie di gno­ si, ossia in un filosofare secondo certi presupposti arbitrari, che non sono assolutamente corroborati. Anche titoli di programmi, come «de verae philosophiae erga religionem pietate », una scritta molto adatta su di un simile ovile, indicano molto chiara­ mente la tendenza e i motivi della filosofia catte­ dratica. A dire il vero, questi mansueti filosofi pren­ dono talora uno slancio che pare pericoloso; senonché si può attendere con calma il risultato, con la convinzione che essi giungeranno pur sempre al­ lo scopo stabilito una volta per tutte. Talora anzi ci si sente tentati di credere, che le loro indagini filo­ sofiche serie siano già state compiute da loro pri­ ma del dodicesimo anno di età, e che già allora es­ si abbiano stabilito la loro concezione sull’essenza del mondo, e su quanto vi è connesso: essi infatti, dopo discussioni filosofiche e pericolosi sviamenti? con guide temerarie, giungono pur sempre al pun­ to, che suole essere plausibile se raggiunto a quel­ l’età, e sembrano assumerlo senz’altro come crite­ rio della verità. Tutte le dottrine filosofiche etero­ dosse, di cui hanno dovuto occuparsi nel corso della loro vita, a loro sembrano essere lì solo per venir confutate, in modo tale che possano essere stabilite quindi tanto più saldamente quelle prime. Ci si deve anzi meravigliare come essi, pur passan­ do la loro vita in mezzo a tante brutte eresie, ab­ biano tuttavia saputo mantenere così pura la loro intima innocenza filosofica. A chi dopo tutto questo avesse ancora un dubbio sullo spirito e lo scopo della filosofia universitaria, non rimane che da considerare il destino della

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pseudosapienza di Hegel. Forse che per essa è sta­ to in qualche modo di danno il fatto di trarre il suo pensiero fondamentale dalla più assurda tra le trovate, di rappresentare un mondo alla rovescia e una pagliacciata filosofica,* il fatto insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più priva di senso, di cui mai si siano pa­ sciuti gli imbecilli, e che la sua esposizione, nelle opere dello stesso autore, fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli, tale da ricordare anzi il delirio dei pazzi? No, per nulla! Essa è piuttosto fiorita per 20 anni e si è ingrassata come la più splendida delle filosofie cattedratiche, che mai ab­ biano procurato stipendi e onorari, è stata procla­ mata il culmine infine raggiunto e la filosofia del­ le filosofie, ed è stata anzi innalzata sino alle stel­ le: gli studenti furono esaminati su di essa e per esporla furono assunti dei professori. Chi non vol­ le saperne fu dichiarato un «pazzo volontario» dallo scimmiottatore, divenuto sfacciato, di un co­ sì grande autore, la cui opera, priva com’è di spi­ rito, si può interpretare a piacimento, e persino i pochi che arrischiarono una debole opposizione contro tali eccessi, presero tale posizione solo ti­ midamente, sempre riconoscendo il « grande spiri­ to e il genio prepotente » di quel filosofastro in­ sulso. La prova di quanto è detto qui è fornita da tutta quanta la letteratura di quella splendida scuo­ la, la quale, con i suoi atti ormai chiusi, si avvia, attraverso il vestibolo dei vicini sorridenti ironica­ mente, verso quel seggio del giudice, dove potre­ mo rivederci, verso il tribunale della posterità, che tra gli altri strumenti di punizione, possiede anche una campana di vergogna, che potrà risuonare per tutte le epoche. Cosa è dunque avvenuto alla fine, * Cfr. la mia Critica della filosofia kantiana, 2' ed., p. 572 (3J ed., p. 603).

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per troncare improvvisamente quella gloria, per condurre al crollo della « bestia triunfante » e per disperdere tutto il grande esercito dei suoi merce­ nari e dei minchioni, eccettuati pochi residui, che si sono riuniti come ritardatari e predatori sotto la bandiera degli « Halle’sche Jahrbücher», conti­ nuando ancora per un poco tra lo scandalo gene­ rale i loro disordini, ed eccettuati un paio di mi­ serabili sciocchi, che credono ancora oggi in quan­ to fu loro dato a bere negli anni di adolescenza e che vorrebbero andare in giro a vendere la loro merce? Nient’altro, se non che qualcuno ha avuto l'idea maligna di dimostrare che tutto ciò era una filosofia universitaria in accordo soltanto apparen­ te e letterale con la religione di Stato, non però in un senso reale e proprio. Tale rimprovero era in sé e per sé giusto, poiché ciò è stato in seguito dimostrato dal neocattolicesimo. Il cattolicesimo tede­ sco, o neocattolicesimo, non è altro se non uno he­ gelismo popolarizzato. Come quest’ultimo, anch’es­ so non spiega affatto il mondo, che rimane là, sen­ za ulteriori chiarimenti. Tale mondo ottiene · soltanto il nome di Dio, e l’umanità quello di Cri­ sto. Entrambi sono « fine a sé », cioè vivono per star bene, fino a che dura la breve esistenza. «Gaudeamus igitur! ». E l’apoteosi hegeliana dello Stato viene portata sino al comuniSmo. Un’esposi­ zione molto approfondita del neocattolicesimo in questo senso è data da: F. Kampe, Geschichte der religiösen Bewegung neuerer Zeit, vol. in, 1856. Il fatto però che una tale critica possa essere il tallone di Achille di un sistema filosofico domi­ nante, ci dimostra quale sia la qualità che prevale, sublima l’uomo,35

ossia quale debba essere il vero criterio della verità

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e della validità di una filosofia nelle università te­ desche, e di che cosa in realtà si tratti. A parte tut­ to questo, un simile attacco, anche a prescindere dalla bassezza di ogni accusa di eresia, avrebbe do­ vuto essere rintuzzato molto brevemente coll’oóSèv προς Διόνυσον. Chi abbia bisogno ancora di altre prove per verificare questa interpretazione, consideri lo stra­ scico della grande farsa hegeliana, cioè la conver­ sione immediatamente posteriore e davvero tem­ pestiva del signor Schelling dallo spinozismo al bigottismo, e il suo susseguente spostarsi da Mo­ naco a Berlino, con l’accompagnamento delle strombazzature di tutti i giornali, dai cui accenni si sarebbe potuto credere che egli portasse colà il Dio personale in tasca, quel Dio di cui si sentiva un così grande desiderio. L’affluenza degli stu­ denti fu allora tanto grande, che li si vide entrare nell’aula attraverso le finestre. Alla fine del corso venne il diploma di grande uomo offerto devota­ mente da un certo numero di professori dell’uni­ versità, che erano stati suoi ascoltatori, e si assi­ stette soprattutto alla sua attività berlinese molto brillante e altrettanto lucrativa, da lui condotta a termine senza rossore. Egli era allora in età avan­ zata, quando la preoccupazione della fama che si lascia dietro di sé prevale sopra ogni altra nelle nature più nobili. Ci si potrebbe davvero rattrista­ re un poco, di fronte a questi avvenimenti, e si po­ trebbe anzi quasi pensare che i professori di filo­ sofia dovrebbero arrossire di tutto ciò: ma queste sono follie. Chi però, dopo di avere assistito a un tale commercio, non aprirà gli occhi sulla filosofia cattedratica e i suoi eroi, è davvero inguaribile. L’equità tuttavia esige che si giudichi la filosofia universitaria non soltanto come si è fatto ora, dal punto di vista del suo presunto scopo, ma anche da quello del suo vero e autentico fine. Quest’ulti-

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ino propriamente tende a fornire ai futuri referen­ dari, avvocati, medici, candidati e pedagoghi, an( he nel più intimo delle loro convinzioni, la dire­ zione appropriata agli scopi che hanno nei loro ri­ guardi lo Stato e il suo governo. Io non ho nulla da obiettare in contrario e sotto questo rispetto mi I assegno. Non mi posso infatti dichiarare compe­ tente a giudicare sulla necessità o la dispensabilità di tali mezzi dello Stato; mi rimetto però a coloro, < he hanno il duro compito di governare degli uo­ mini, cioè di conservare la legge, l’ordine, la calma sì è avvenuto per ogni filosofia, quando a misu­ ra del suo modo di giudicare o a criterio dei suoi princìpi è stato assunto qualcosa di diverso dalla pu­ ra verità, da quella verità così difficile a raggiun­ gersi anche con la più grande onestà di ricerca e con ogni sforzo della più alta facoltà conoscitiva: in tal caso la filosofia diventa una semplice fable con­ venue, come Fontenelle chiama la storia. Non si procederà mai neppure di un passo nella soluzio­ ne dei problemi, che da ogni lato ci sono presen­ tati dalla nostra esistenza così infinitamente enig­ matica, quando si filosofi secondo uno scopo prefisso. Nessuno vorrà negare che questo sia il ca­ rattere generale di tutte le differenti specie del­ l’attuale filosofia universitaria: tutti i loro sistemi e i loro princìpi collimano fin troppo visibilmente, tendendo a un unico fine. Questo scopo inoltre non è costituito neppure dal vero cristianesimo del Nuovo Testamento, o comunque dal suo spirito, che sembra a questa gente troppo alto, etereo, ec­ centrico, estraneo a questo mondo, perciò troppo pessimistico, e quindi del tutto inadatto all’apoteo­ si dello «Stato», bensì è rappresentato soltanto dall’ebraismo, cioè dalla dottrina secondo cui il mondo deve la sua realtà a un essere suprema­ mente eccellente e personale, secondo cui quindi il mondo è una cosa molto carina, e πάντα καλά λίαν. Questo è per loro il nocciolo di ogni sapien­ za e a un simile fine deve condurre la filosofia, anche essendovi costretta, nel caso faccia resisten­ za. Di qui anche la guerra che tutti i professori conducono, dopo la caduta della tendenza hege­ liana, contro il cosiddetto panteismo, gareggiando nel mostrarsi indignati e condannandolo unani­ memente con grande severità. E forse sorto questo ardore dalla scoperta di ragioni plausibili e decisi­ ve contro il panteismo? Non si vede piuttosto con

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quale sconsideratezza e con quale ansia essi vada­ no cercando ragioni contro quell’avversario, che se ne sta tranquillamente con le sue forze intatte e sorride di loro? Si può forse ancora dubitare che non sia semplicemente l’incompatibilità di quella dottrina con la «religione assoluta», il motivo per cui essa non può essere vera, né lo potrebbe an­ che se tutta la natura lo proclamasse a squarcia­ gola? La natura deve tacere, affinché parli l’ebrai­ smo. Se qualcos’altro, oltre alla « religione assolu­ ta», deve essere ritenuto degno di attenzione tra loro, si comprende benissimo che ciò non può consistere se non negli ulteriori desideri di un al­ to ministero, cui spetta la facoltà di dare e di to­ glierò le cattedre universitarie. Proprio questa è la Musa che ispira costoro, dirige le loro elucubra­ zioni, ed è essa per l’appunto che d’ordinario vie­ ne invocata, attraverso una dedica, all’inizio dei lo­ ro libri. Tale è per me la gente che dovrebbe trarre la verità dal suo pozzo, strappare il velo dell’in­ ganno e disprezzare ogni oscurantismo. Seguendo la natura delle cose, nessun ramo d’in­ segnamento richiederebbe individui di superiori ca­ pacità pieni di amore per la scienza e di zelo per la verità, quanto la sfera dove i risultati dei più alti sforzi dello spirito umano, riguardanti il più impor­ tante di tutti i problemi, debbono esser consegnati sotto forma di parole vive alla parte migliore della nuova generazione, la sfera anzi attraverso cui dev’essere suscitato in questa gioventù lo spirito del­ la ricerca. D’altro canto tuttavia i ministri ritengono che nessun ramo d’insegnamento abbia tanto influs­ so quanto questo sui sentimenti più intimi della fu­ tura classe colta, che dovrà essere la vera classe diri­ gente dello Stato e della società. Per tale motivo questi posti debbono essere occupati dagli uomini più devoti, che adattino completamente la loro dot­ trina alla volontà e a tutte le eventuali opinioni del

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ministero. E naturale allora che sia la prima di queste esigenze quella destinata a essere soffocata. Chi peraltro non è al corrente di questo stato di cose, potrebbe forse trovare strano che proprio i più decisi imbecilli si siano dedicati alla scienza di Platone e di Aristotele. Non posso fare a meno qui di notare, inciden­ talmente, come una scuola preparatoria assai dan­ nosa per tale carriera professorale sia costituita dai posti di precettore, coperti per molti anni, dopo gli studi universitari, da quasi tutti coloro che so­ no destinati a quella carriera. Tali posti infatti so­ no una vera scuola di sottomissione e di adattabi­ lità. E in particolare ci si abitua colà a sottomette­ re del tutto le proprie dottrine alla volontà del padrone che fornisce il pane, e a non conoscere alcun altro scopo, se non gli scopi di costui. Tale abitudine, acquisita in gioventù, si radica e diven­ ta una seconda natura, cosicché in seguito, quan­ do si sarà professori di filosofia, non si troverà nul­ la di più naturale dell’adattare e del modellare an­ che la filosofia, secondo i desideri del ministero· che assegna le cattedre: da tutto ciò, alla fine, vengon fuori opinioni filosofiche, o addirittura si­ stemi, fatti come su ordinazione. La verità ha dun­ que un ottimo campo d’azione davvero! Risulta in­ dubbiamente di qui, che per rendere un omaggio incondizionato alla verità e per filosofare realmen­ te, a tante altre condizioni si aggiunge quasi inevi­ tabilmente anche quella di poter reggersi in modo autonomo senza riconoscere alcun padrone, cosic­ ché anche nel caso considerato dovrebbe in certo senso valere il δός μοι πού στώ. Quanto meno colo­ ro che hanno creato qualcosa di grande nella filo­ sofia si sono trovati per la maggior parte in questa situazione. Spinoza fu così chiaramente conscio della cosa che rifiutò proprio per tale motivo la cattedra offertagli.

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"Ημισυ γάρ τ’άρετης άποαίνυται εύρύοπα Ζευς Άνέρος, εύτ’άν μιν κατά δούλιον ήμαρ ελησιν.

Il vero filosofo esige l’indipendenza: Πας γάρ άνήρ πενίη δεδμημένος ούτε τι είπεϊν, Οϋθ’έ'ρξαι δύναται, γλώσσα δέ οί δέδεται. TEOGNIDE*’

Anche nel Gulistan di Sa’di, si dice che chi ha preoccupazioni per nutrirsi non può creare nulla (cfr. Sa’di, Gulistan, traduzione di Graf, Leipzig, 1846, p. 185). In compenso il vero filosofo è per sua natura un essere sobrio, e non ha bisogno di molto per vivere indipendentemente. Il suo motto sarà pur sempre la frase di Shenstone: « Liberty is a more invigorating cordial than Tokay» (la li­ bertà è un cordiale più forte che non il Tokay). Se dunque non si trattasse d’altro che di favori­ re la filosofia e di avanzare sulla strada della verità, io raccomanderei come cosa migliore, di porre un termine alla ciarlataneria che viene esercitata in questo campo nelle università. Queste infatti non sono davvero il luogo adatto per una filosofia in­ tesa seriamente e onestamente, il cui posto è pre­ so sin troppo spesso colà da una marionetta azzi­ mata, rivestita dei suoi abiti, che si mette in mo­ stra e gesticola come un « nervis alienis mobile lignum ». Quando una simile filosofia di cattedra vuol sostituire a pensieri reali delle frasi incom­ prensibili che intontiscono il cervello, delle parole di nuovo conio e delle idee inaudite, la cui assur­ dità viene chiamata speculativa e trascendentale, essa diventa allora una parodia della filosofia, che la discredita, come è avvenuto ai giorni nostri. In mezzo a tutte queste mene, come può sussistere anche solo lontanamente quella profonda serietà, che disprezza ogni cosa all’infuori della verità ed è

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la prima condizione della filosofìa? La via che con­ duce alla verità è scoscesa e lunga e nessuno la po­ trà percorrere con un ceppo al piede: sarebbero piuttosto necessarie delle ali. Io sarei dunque dell’i­ dea che la filosofìa debba cessare di essere un me­ stiere: l’elevatezza della sua aspirazione non lo per­ mette, come del resto gli antichi hanno già ricono­ sciuto. Non è affatto necessario che ogni università si tenga un paio di scipiti chiacchieroni, per far prendere in uggia ai giovani per il resto della loro vita tutta quanta la filosofia. Anche Voltaire dice molto giustamente: « Les gens de lettres, qui ont rendu le plus de services au petit nombre d’êtres pensans répandus dans le monde, sont les lettrés isolés, les vrais savans, renfermés dans leur cabinet, qui n’ont ni argumenté sur les bancs de l’univer­ sité, ni dit les choses à moitié dans les académies: et ceux-là ont presque toujours été persécutés ». Ogni aiuto offerto dal di fuori alla filosofìa è per la sua stessa natura sospetto: l’interesse infatti della filosofìa è di una qualità troppo alta per poter strin­ gere una sincera alleanza con le mene di questo mondo e con i suoi stessi sentimenti. Essa ha piutto­ sto la sua propria stella polare, che non tramonta mai. La si lasci dunque vivere, senza aiuti, ma anche senza ostacoli, e non si dia al serio pellegrino, con­ sacrato ed equipaggiato dalla natura per raggiunge­ re l’elevato tempio della verità, un compagno che si interessi soltanto di un buon giaciglio per la notte e di una cena per la sera: vi è da temere, infatti, che per poter cambiare rotta costui frapponga qual­ che ostacolo sulla strada del vero filosofo. In conseguenza di tutto ciò, prescindendo come si è detto dai fini politici e considerando soltanto l’interesse della filosofia, io ritengo auspicabile che ogni insegnamento della medesima sia nelle uni­ versità strettamente limitato alle lezioni di logica, intesa come scienza chiusa e rigorosamente dimo-

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strabile, e inoltre a una storia della filosofia, da esporsi in modo molto succinto e da esaurirsi com­ pletamente da Talete sino a Kant, in un solo seme­ stre, in modo che per la sua brevità e perspicuità conceda meno spazio possibile alle opinioni proprie del signor professore, e serva soltanto da filo con­ duttore per il futuro studio indipendente. Si può far veramente conoscenza con i filosofi solo attraverso le loro opere, e in nessun modo con esposizioni di seconda mano; ho già spiegato le ragioni della co­ sa nella prefazione alla seconda edizione della mia opera principale. Oltre a ciò, la lettura delle opere originali dei veri filosofi ha in ogni caso un influs­ so benefico e stimolatore sullo spirito, ponendolo in immediata comunione con simili intelligenze au­ tonome e superiori. In quelle storie della filosofia, per contro, lo spirito riceve unicamente il movi­ mento che gli è impresso dal legnoso corso di pen­ sieri di un cervello comune, che aggiusta le cose a modo suo. Vorrei quindi che quelle lezioni catte­ dratiche si limitassero a fornire un orientamento ge­ nerale nel campo delle passate creazioni filosofiche, mettendo da parte ogni dettaglio, e così pure ogni prammaticità dell’esposizione, con cui si voglia di­ mostrare qualcos’altro, oltre a individuare gli indi­ scutibili punti di contatto tra i sistemi anteriori e quelli posteriori. Queste mie intenzioni sarebbero quindi in contrasto con la pretesa degli storici he­ geliani della filosofia, i quali prospettano ogni siste­ ma come apparso necessariamente, e costruendo a priori la storia della filosofia ci dimostrano che ogni filosofo ha dovuto pensare proprio ciò che ha pen­ sato, e null’altro. Nel far ciò, il signor professore guarda con noncuranza dall’alto al basso tutti que­ sti filosofi, quando non li canzona addirittura, lo svergognato! Come se tutto ciò non fosse stato l’o­ pera di individui isolati e unici, i quali hanno do­ vuto aggirarsi per qualche tempo nella cattiva so-

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cietà di questo mondo, affinché questa potesse es­ ser salvata e redenta dalle catene della barbarie e dell’ottusità, cioè di individui tanto originali quan­ to rari, cosicché si possono applicare loro perfetta­ mente a proposito le parole di Ariosto: « natura il fece, e poi roppe la stampa»!47 E come se, suppo­ nendo che Kant fosse morto di vaiolo, anche un al­ tro avesse potuto scrivere la Critica della ragione pura, uno qualunque, scelto tra quella merce cor­ rente della natura, con in fronte il marchio di fab­ brica, uno qualunque con la sua normale razione di tre libbre di cervello grossolano - dal tessuto ben consistente, e ottimamente difeso da una sca­ tola cranica spessa un pollice - uno dall’angolo fac­ ciale di settanta gradi, dal fiacco battito del cuore, dagli occhi torbidi e investigatori, dalla mascella molto sviluppata, dalla lingua che s’inceppa, uno dal passo pesante e strascicato, che si accorda con l’agilità da rospo dei suoi pensieri! Già, già, non avete che da attendere ed essi vi faranno delle «critiche della ragione pura», e anche dei sistemi, non appena sia giunto il momento calcolato dal professore e sia venuto il loro turno: ciò avverrà senz’altro quando le querce daranno delle albicoc­ che. Questi signori hanno certo i loro buoni moti­ vi per attribuire quanto più è possibile all’educa­ zione e alla cultura, negando persino, come in realtà fanno alcuni, il talento innato, e schierando­ si comunque contro la verità, secondo cui tutto di­ pende da come uno è uscito dalle mani della na­ tura, da quale padre sia stato generato e da quale madre sia stato concepito, anzi persino in quale ora tutto ciò sia avvenuto. Nessuno quindi scriverà mai un'Iliade, se avrà avuto come madre un’oca e come padre un dormiglione, neppure nel caso che egli voglia studiare in sei università. Le cose non possono stare diversamente: la natura è aristocrati­ ca, più aristocratica di qualsiasi società feudale ba-

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saia su caste. La tirannide della natura parte quin­ di da una base molto ampia, per terminare in un vertice assai aguzzo, e anche se alla plebe e alla ca­ naglia, che non può tollerare nulla al di sopra di sé, riuscisse di abbattere tutte le altre aristocrazie, essa non potrà far nulla contro di questa, senza neppur meritare un ringraziamento, poiché tale ari­ stocrazia è davvero concessa dalla «grazia di Dio».

SPECULAZIONE TRASCENDENTE SULL’APPARENTE DISEGNO INTENZIONALE NEL DESTINO DELL’INDIVIDUO

Tò είκή ουκ έστι έν τη ζωη, άλλά μία άρμονία καί τάξις· Plotino, Enn. ιν, 4, 35