Paradosso sull'attore 9788855292559, 9788855292566

L'arte, secondo Diderot, trova il suo modello nella natura, ma nel Paradosso sull'attore afferma che il teatro

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Italian Pages 170 Year 2022

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Table of contents :
Il paradosso dello spettatore
Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale?
Nota editoriale
Bibliografia
Postilla su Giasone e Medea di Carle van Loo
Indice
Canone europeo
Collana diretta da Andrea Tagliapietra
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Paradosso sull'attore
 9788855292559, 9788855292566

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Denis Diderot Paradosso sull’attore A cura di Valentina Sperotto e Andrea Tagliapietra

C an o n e e u r op eo

Collana diretta da: Andrea Tagliapietra

Comitato scientifico: Giovanni Bonacina, Catherine Douzou, Nicola Gardini, Helmut Karl Kohlenberger, Leonel Ribeiro dos Santos.

Canone europeo | 8

Denis Diderot Paradosso sull’attore Prefazione di Andrea Tagliapietra Traduzione italiana, saggio introduttivo e cura di Valentina Sperotto

Pubblicazione del Centro di Ricerca Interdisciplinare in Storia delle Idee (CRISI) e del Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine (ICONE)

Titolo originale Paradoxe sur le comédien, 1830

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Canone europeo ISSN: 2533-1329 n. 8 - ottobre 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-255-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-256-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Charles-André van Loo (1705-1765), Signorina Clairon come Medea (grande versione)

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Il paradosso dello spettatore Prefazione di Andrea Tagliapietra

Sulla soglia di questo libro e in buona compagnia con le schiere di lettori che, nel corso del tempo, ne hanno fatto l’opera di Diderot più letta e commentata, anche noi ci interrogheremo sul significato del paradosso che ne anima il titolo. È il paradosso, infatti, che ha attirato su questo breve scritto l’attenzione delle donne e degli uomini di teatro, perché la questione sembra minare alla radice il segreto delle loro pratiche, ovvero quella capacità di immedesimazione dell’attore nel personaggio che sta al centro del meccanismo della messa in scena e della sua concreta efficacia. Ma che inoltre si rispecchia nell’ana­logo processo di partecipazione innescato nell’animo degli spettatori, che corrisponde alla loro capacità di farsi coinvolgere intimamente dall’azione drammatica. In che misura, tuttavia, la tagliente critica diderottiana della sensibilità dell’attore riguardi l’immedesimazione e, per dirla con Stanislavskij, il lavoro dell’attore su se stesso1, non è facile

1.  K.S. Stanislavskij, An Actor’s Work. A Student’s Diary (1938), tr. ingl. a cura di J. Benedetti, Routledge, London-New York 2008; tr. it., Il lavoro dell’attore su se stesso, a cura di G. Guerrieri, pref. di F. Malcovati, Laterza, Roma-Bari 2000, in part. pp. 134-170 (Il senso del vero).

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stabilirlo dal referto del testo e dal significato che il tema assume nel nostro autore e nel contesto storico della cultura teatrale del XVIII secolo. Per la chiarificazione di tali questioni rinviamo alle pagine del saggio introduttivo di Valentina Sperotto, curatrice e traduttrice di questa edizione del Paradosso. D’altra parte, la riduzione del plesso dialettico fra l’attore e il personaggio a mera questione tecnica, ossia alla piena capacità di controllo da parte dell’attore del complesso psichico-corporeo dei suoi strumenti espressivi, sembra risolvere il paradosso in superficie, trasformando il comédien in uno specchio, in un burattino meraviglioso a disposizione del drammaturgo, in un medium ideale per far giungere agli spettatori gli insegnamenti morali, politici e sociali del teatro. Eppure, la sostanza del paradosso si ripropone a un livello più generale e si sposta sulla funzione stessa dello spettacolo e, in particolare, sul suo obiettivo, vale a dire la formazione dello spettatore. Perché il paradosso sull’attore mira a ridisegnarne le qualità inserendo nell’attore stesso una sorta di spettatore ideale: Esigo che abbia molto giudizio; ho bisogno che in quest’uomo ci sia uno spettatore freddo e tranquillo, di conseguenza esigo da lui acume e nessuna sensibilità; l’arte di imitare tutto o, che è lo stesso, la medesima attitudine a ogni sorta di caratteri e di ruoli.2

Nell’età dei Lumi l’antica metafora del theatrum mundi, del mondo come teatro, viene rioccupata3. Dio perde il posto dello spettatore assoluto che ha conservato fino alla fine dell’età barocca e la sua posizione viene occupata dalla figura ideale di uno spettatore umano collettivo, che tuttavia, in analogia 2.  Qui e di seguito le citazioni sono tratte dal testo della presente edizione, vedi infra, p. 77; il corsivo è mio. 3.  Cfr. L. Christian, Theatrum Mundi. The History of an Idea, Garland Publishing, New York 1987.

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con il suo predecessore, si vuole perfettamente indipendente dalla scena che osserva. «The Spectator» è, del resto, il nome del famoso settimanale fondato da Joseph Addison e Richard Steele nel 1711 e divenuto fonte d’ispirazione e di emulazione per molte altre pubblicazioni europee. Lo spettatore dello spazio sociale, che va a costituire il personaggio collettivo dell’opinione pubblica, poggia sulla separazione strutturale di contemplazione e azione, ovvero su un impegno che, per essere legittimo, dev’essere libero da legami comunitari o interessi personali. Si tratta di uno spettatore che è di volta in volta proiettato all’esterno, giungendo, alla fine del secolo, ad assumere l’identità di un soggetto collettivo formale, l’humanité, e insieme interno, a volte indossando i panni di una specie di coscienza morale a cui i filosofi si affaticheranno di dare consistenza teorica. Lo spettatore interiorizzato non prova, ossia non sente ciò che l’altro prova, ma può solo offrire a se stesso la rappresentazione dei sentimenti e delle sensazioni altrui. Lo troviamo teorizzato, sulla falsariga di Hutcheson e Hume, in Adam Smith: Quando mi sforzo di esaminare la mia condotta – scrive il filosofo scozzese –, quando cerco di emettere una sentenza su di essa, e l’approvo o la condanno, è evidente che, in tutti questi casi, è come se mi sdoppiassi in due persone, e che l’io esaminatore e giudice rappresenta un personaggio differente dall’altro io, e cioè dalla persona la cui condotta viene esaminata e giudicata. Il primo è lo spettatore: io mi sforzo di prender parte ai suoi sentimenti sulla mia condotta mettendomi nella sua situazione, e riflettendo su come mi apparirebbe da quel particolare punto di vista. Il secondo è l’agente, la persona che propriamente chiamo me stesso, e sulla cui condotta stavo sforzandomi, da spettatore, di esprimere un’opinione.

Allora, conclude Smith, «il primo è il giudice, il secondo la persona giudicata. Ma che il giudice possa sotto ogni riguardo essere tutt’uno con la persona giudicata è una cosa impos-

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sibile quanto che la causa possa, sotto ogni riguardo, essere tutt’uno con l’effetto»4. Nello spettatore ideale di Smith l’immaginazione viene ridotta alla funzione rappresentativa ed è questa oggettivazione universale di sé e degli altri, questa loro riduzione in immagine, ossia l’impossibilità di uscire dalla scissione atomistica dell’individuo come protagonista isolato dello spettacolo sociale, il ponte fra la Teoria dei sentimenti morali e l’opera che lentamente, già nel corso del XIX secolo, eclisserà, nei suoi lettori, la produzione dello Smith moralista, ovvero l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni5. Lo spettatore disinteressato diventa così, per impiegare la nota metafora marxiana (non a caso di provenienza teatrale), la perfetta dramatis persona del capitale, la cellula indifferente dell’agire sociale ricompreso nella traduzione utilitaristica della giustizia individuale e collettiva, in cui anche i vizi privati si trasformano, all’occorrenza, in pubbliche virtù. L’insistenza dei philosophes e dei drammaturghi dell’età dei Lumi sull’educazione morale degli spettatori, sul valore civilizzante del teatro, nasconde così un doppio fondo. Dietro la messa in scena degli ideali del teatro borghese, appena ricoperta dagli stucchi e dalle pitture di scena, ecco affiorare quell’economia che «non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse [das nackte Interesse], il freddo “pagamento in contanti”». Il capitale, scriverà Marx nel Manifesto, «ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha

4.  A. Smith, The Theory of Moral Sentiments (1759), III, I; tr. it. di S. Di Pietro, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano 1995, p. 257. 5.  A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776); tr. it. di F. Bartoli, C. Camporesi, S. Caruso, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, intr. di M. Dobb, Isedi, Milano 1973.

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disciolto la dignità personale nel valore di scambio [Tauschwert]»6. Come non scorgere un velo di nostalgia nelle parole di questo appassionato lettore ed estimatore di Shakespeare? Si parla di attori e di teatro, di tecnica e di estetica drammaturgica, ma la partita dell’agire metapolitico dell’illuminismo è lo spettatore, è il significato ideologico dello spettacolo. Come leggiamo nelle pagine del Paradosso: Vale per lo spettacolo quello che vale per una società ben ordinata, in cui ciascuno sacrifica i suoi diritti originari per il bene dell’insieme e del tutto. Chi apprezzerà di più la misura di questo sacrificio? L’entusiasta? Il fanatico? Certo che no. In società sarà l’uomo giusto; a teatro, l’attore che avrà la testa fredda. La vostra scena nelle strade sta alla scena drammatica, come un’orda di selvaggi a un’assemblea di uomini civilizzati.7

Si tratta, allora, di formare lo spettatore. Anzi, per certi versi, di reinventarlo. Qui la storia delle idee, con la sua attenzione per le discontinuità profonde, soccorre le continuità superficiali della teoria. La figura dello spettatore è, per la cultura contemporanea, qualcosa di assolutamente ovvio, che sembra appartenere al mondo della vita e a una stilizzazione dell’esperienza umana valida al di là dei confini culturali, presente in modo irriflesso in tutte le epoche e in tutte le latitudini. L’esistenza di uno spettatore è a tal punto data per scontata nelle abitudini culturali degli abitatori della società dello spettacolo in cui viviamo che solo il genio di Nietzsche, nel momento in cui cerca di scorgere la vita dell’ori­ginario teatro di Dioniso dietro i capo-

6.  K. Marx - F. Engels, Manifest der Kommunistischen Partei (1848), ora in Iid., Werke, Karl Dietz Verlag, Berlin 1972, vol. IV, pp. 459-493; tr. it., Manifesto del Partito comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 58. 7.  Infra, p. 91.

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lavori della tragedia greca, già imbiancati dal gesso borghese del gusto neoclassico nella seconda metà del secolo di Diderot e degli illuministi, intuisce l’importanza cruciale del problema: «un pubblico di spettatori come lo conosciamo noi era sconosciuto ai Greci»8. In generale, un pubblico di spettatori appare impensabile e concretamente inesistente anche per molte delle forme drammaturgiche “primitive” ed extraeuropee di cui ci parlano gli etnologi e gli antropologi. Per esempio, presso gli aborigeni australiani, quando il teatro non è connesso con cerimonie iniziatiche, esso si svolge nell’area centrale del villaggio, o in qualsiasi altro posto; tutti gli spettatori fungono da coro, ma chi desidera esibirsi, o ha qualcosa da dire, interviene liberamente nello spettacolo. A volte non ci sono spettatori: per rappresentare la navigazione della canoa, o la lotta fra il pescecane e il pescespada, rappresentati entrambi da catene di uomini, c’è bisogno di un numero minimo di partecipanti, ma non è fissato un massimo: tutti perciò possono prendervi parte attivamente.9

La parola italiana “spettacolo” deriva dal verbo latino spectare che è variante intensiva di specere, ossia “guardare”. Guardare non è mai soltanto vedere, ma strutturare ciò che si vede secondo una prospettiva. In particolare, nel termine spectaculum il suffisso indica l’azione di un mezzo, di uno strumento che orienta e modella il vedere, che lo trasforma in theoria per l’educazione di uno spettatore. Allora, sin da Platone e dalla nascita della filosofia, l’attenzione, se non l’esplicita ostilità di quest’ultima per il teatro, con la sua conseguente trasforma-

8.  F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, oder Griechentum und Pessimismus (1872), § 1; tr. it. di S. Giametta, La nascita della tragedia, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. III/I, Adelphi, Milano 1973; ed. vol. singolo, Adelphi (PBA 48), Milano 1977, p. 58. 9.  C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 11.

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zione in mero spettacolo – il teatro come théatron10 –, mira alla costruzione di uno spettatore ideale, ossia all’immunizzazione rispetto al fenomeno epidemico dell’immedesimazione di coloro che partecipano agli eventi drammaturgici. La società moderna si apre come la scena di un teatro, avendo nella città e nella moltiplicazione, nella tensione e sovrapposizione dei ruoli e delle professioni a cui essa dà vita rispetto alla relativa semplicità delle società premoderne, il suo autentico centro generatore. L’espansione demografica, la crescita economica e l’urbanizzazione che caratterizzano la modernità, la mobilità sociale e i nuovi mestieri sorti con lo sviluppo dell’artigianato, dei commerci e del mercato, inducono al confronto fra i singoli soggetti e fra le classi sociali. Come ha scritto Lionel Trilling, «nel brulichio d’uomini delle città […] la società si imponeva ai sensi: ancor prima che un’idea a cui pensare, era una cosa da vedere e da sentire»11. Nel XVIII secolo questo sviluppo borghese della società moderna giunge a uno stadio avanzato ed entra nel palcoscenico dei teatri, in ciò che si mette in scena e in chi vi assiste, portando a termine la trasformazione degli spettatori in pubblico. Di qui l’accresciuta importanza strategica del ruolo dello spettatore, la posta in gioco ideologica del controllo delle sue passioni e del suo ammaestramento morale in chiave politica. Nel febbraio del 1758 Jean-Jacques Rousseau scrive la sua Lettera a d’Alembert sugli spettacoli12. Apparentemente il filoso10.  Per questa distinzione tra “teatro come drâma” e “teatro come théatron” rinvio ad A. Tagliapietra, Il velo di Alcesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 21-92. 11.  L. Trilling, Sincerity and Authenticity, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1972; tr. it., Sincerità e autenticità, a cura di R. Ariano, intr. di A. Tagliapietra, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, p. 73. 12.  J.-J. Rousseau, Lettre à M. d’Alembert sur les spectacles (1758), ed. critica a cura di M. Fuchs, Librairie Droz, Lille-Genève 1948; tr. it., Let-

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fo ginevrino sembra dare ragione a Platone e alla sua critica dell’immedesimazione. Ma ciò è vero solo in parte. Rousseau, infatti, attacca il teatro in quanto spettacolo pubblico. Nella riflessione di Rousseau sul teatro non è in discussione né il punto di vista estetico, né quello moralistico, né, tantomeno, quello metafisico. È il punto di vista sociale quello che gli interessa e che interessa ai suoi contemporanei. Il teatro è un evento immediatamente collettivo, sicché la sua riduzione a spettacolo, che rispecchia ciò che la società si attende da esso e che, proprio da ciò, trae il suo piacere, ne mina, alla base, ogni possibile autenticità e valore. «Si dice che una buona commedia ha sempre successo», nota Rousseau, «ne sono veramente convinto, perché non si dà mai una buona commedia contraria ai costumi del suo tempo»13. Lo spettacolo è, quindi, ciò che riproduce i sentimenti, i costumi e le passioni della società: li rappresenta – «regge lo specchio alla natura (the mirror up to nature)»14, come affermava il principe Amleto nel dramma di Shakespeare –, ma non è assolutamente in grado di cambiarli, né di rivoluzionarli, ossia di produrre un effettivo mutamento della condizione ideologica ed emotiva degli spettatori. Anzi, emblematico dell’effetto dello spettacolo è il ruolo dell’attore che, abituandosi ad “appassionarsi a freddo”, dicendo ciò che non pensa con tanta naturalezza, come se lo pensasse realmente, a forza di prendere le parti degli altri, dimentica infine anche chi è e cosa prova veramente. Rousseau, una quindicina d’anni prima del Paradosso di Diderot, sembra rovesciare il paradigma del controllo dell’attore-spettatore diderottiano.

tera a d’Alembert sugli spettacoli, a cura di D. Balestra, La Nuova Italia, Firenze 1987. 13.  J.-J. Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, cit., p. 13. 14.  W. Shakespeare, Amleto (1600-1601), atto III, sc. 2, 22.

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Ecco allora che per Rousseau lo spettacolo travolge la spontaneità della prassi sociale dei comportamenti umani, la loro intima adesione alla situazione pratica, assecondando il processo di esteriorizzazione e di superficializzazione delle emozioni. Quando un uomo è andato ad ammirare delle belle azioni in una favola e a piangere disgrazie immaginarie – conclude il filosofo ginevrino – che cosa si può ancora esigere da lui? Non è contento di se stesso? Non si congratula con se stesso per la sua bella anima? Non si è forse sdebitato di tutto ciò che deve alla virtù con l’omaggio che le ha reso? Che cosa dovrebbe fare di più? Praticarla lui stesso? Ma egli non ha nessuna parte da recitare: non è un attore.

«Più ci rifletto», commenta in epigrafe Rousseau, «e più trovo che tutto ciò che è oggetto di rappresentazione non ci viene avvicinato, ma allontanato»15. Insomma, lo spettacolo produce distacco e, alla lunga, l’abitudine all’indifferenza16. Quella stessa indifferenza di cui parlerà Goethe, in un articolo nel quale, criticando le regole di unità drammatica aristoteliche in vigore nel teatro classico – un residuo formale dell’arcaica messa in scena come evento dell’immedesimazione –, rivendica la libertà di chi assiste ad uno spettacolo di non identificarsi né con l’attore, né con il personaggio, ossia di non partecipare all’azione scenica, rinunciando all’illusione che essi condividano, nell’intreccio della trama, lo spazio e il tempo che lo spettatore impiega per guardare ed ascoltare. Il buon spettatore – aggiunge Goethe – rifletta sul fatto che gli attori sul palco talora si prendono a bastonate di cui egli

15.  J.-J. Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, cit., p. 18. 16.  Sul tema il rinvio d’obbligo è a S. Ghisu, Storia dell’indifferenza. Geometrie della distanza dai presocratici a Musil, Besa, Nardò (LE) 2006, vedi anche Id., Elogio dell’indifferenza, Edizioni Controluce, Nardò (LE) 2009.

18 non sente nulla, e che, dopo che essi si sono scannati, egli torna a casa a cenare in pace; quindi potrebbe concedere loro di muoversi da un luogo all’altro e, quantomeno, di attraversare il tempo con gli stivali delle sette leghe.17

Se ripercorriamo la storia del ruolo dello spettatore dall’epoca della nascita della filosofia fino ad oggi non possiamo che constatare l’affiorare di un movimento ambiguo, una ricerca della posizione sovrana dell’indifferenza e del controllo che sospende l’immedesimazione e la tiene a bada, che ne isola il contagio e la portata collettiva, insieme alle sue riprese strumentali, in funzione cioè della manipolazione, dell’efficacia della mobilitazione sociale mediante lo stereotipo dei sentimenti morali e l’impiego inflazionistico degli shock emotivi. Il verso forse più bello o, comunque, più famoso del Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, «Lisbona è distrutta e a Parigi si balla», prosegue con «Spettatori tranquilli, spiriti intrepidi, / che dei vostri fratelli morenti contemplate il naufragio»(vv. 23-25) calcando significativamente la mano sulla posizione dello spettatore. Voltaire mostra, sulla scena della catastrofe che inaugura la modernità spettacolare in cui ancora viviamo18, la provocazione iperestetica dello spettatore, finalizzata alla sua mobilitazione, al catechismo morale della nascente opinione pubblica, alle “politiche della pietà” che, a partire dalla seconda metà del Settecento – e ovviamente con l’apoteosi della bella Rivoluzione di fine secolo –, serviranno a ridisegnare la retorica delle politiche moderne pour l’humanité. 17.  J.W. Goethe, Theater-Einheit, in Bezug auf vorstehendes Trauerspiel ausgesprochen, in Über Kunst und Altertum, 1821, III, 1; tr. it. di P. Necchi e M. Ophälders, in J.W. Goethe, Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di S. Zecchi, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 224. 18.  Cfr. Voltaire - J.-J. Rousseau - I. Kant, Filosofie della catastrofe, a cura di A. Tagliapietra, Cortina, Milano 2022.

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Del resto è impossibile non vedere la gemellare convergenza della Lettera di Rousseau e del Paradosso di Diderot al di là delle contrapposizioni superficiali e il sotterraneo concorso dei due testi nel delineare la figura dello spettatore. Il comédien diderottiano può indossare ogni maschera perché non cessa mai di essere se stesso. Il paradosso dell’attore nasconde in sé il paradosso di uno spettatore ideale – di uno spettatore trascendentale, verrebbe a dire – come apoteosi del controllo. Come l’attore egoistico della scena economica prospettata da Smith l’immaginazione dell’attore-spettatore opera non sul piano della condivisione, ma su quello dello scambio misurato. Per questo su di lui, qualora non si desse ascolto al moi del controllo (e sappiamo come su questo punto Diderot operi del tutto ironicamente), incombe lo spettro di una rovinosa somiglianza, quella con il delirio metamorfico del neveu de Rameau, personaggio-­limite del teatro sociale della coscienza aperta sulle sue intermittenze oniriche, sulle sue maschere e, infine, sulla catastrofe della follia. Così il presunto sdoppiamento dell’attore non è la perdita di sé in un’unità più ampia con l’altro e con il diverso, ma anzi l’utopia estrema di un parsimonioso e raziocinante controllo – esigo che abbia molto giudizio, raccomanda infatti Diderot –, ovvero il trionfo dell’anestesia e dell’indifferenza scettica dello spettacolo calata nel rapporto tra l’attore e il personaggio e proiettata sul pubblico degli spettatori. Ma questo è solo il lato diurno dello spettatore, quello che corrisponde alla figura della soggettività formale, all’“io penso” elaborato dalla filosofia moderna da Cartesio a Kant e oltre. In contrappunto, ma in sotterraneo accordo con il testo diderottiano del Paradosso, la Lettera di Rousseau ci presenta lo spettacolo ideale, quello che diverrà il paradigma stesso della società dello spettacolo: Piantate un palo adorno di fiori in mezzo ad una piazza – scrive il filosofo ginevrino – riunitevi intorno il popolo e avrete

20 una festa. Ancor meglio: offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti.19

L’attore-spettatore di se stesso di Diderot, che ben rappresenta il soggetto isolato da qualsiasi contagio con l’alterità, è qui diventato lo spettatore-attore di Rousseau: un soggetto isolato che, alla ricerca di una pienezza e di un’autenticità sociale che avverte come carenza, nostalgicamente pensa alle feste degli antichi, al Carnevale premoderno o ai rituali misteriosi dei popoli extraeuropei e, assistendo allo spettacolo di se stesso, fa nascere, per una moltiplicazione di solitudini, quel soggetto collettivo formale, fantasmatico ed edificante che, alla fine del secolo dei Lumi – è pur sempre questo il secolo in cui si inizierà a parlare di “diritti dell’uomo”! –, fa il suo stabile ingresso nel discorso culturale e politico dell’Occidente per non uscirne più, ossia l’umanità. Si tratta di un’astrazione che assume, nel corso del XVIII secolo e con l’illuminismo, un carattere proiettivo, “a venire”. L’umanità non è più l’humanitas dei classici. È sempre futura e si rivela una sorta di idea regolativa per tenere insieme, verso uno scopo comune, i singoli esseri umani, individualmente destinati a perire nella prospettiva della generalità della storia, travolti dalla mobilitazione capitalistica del “progresso”. Tuttavia, al di là di questa forma diafana che, come ha magistralmente spiegato Foucault20, catalizza l’organizzazione dei saperi e dei poteri del XIX e XX secolo, l’ideologia dello spettacolo rivela il vuoto vertiginoso che si insedia al suo centro. «Ma quali saranno, insomma, i temi di questi spettacoli?», s’inter-

19.  J.-J. Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, cit., p. 84. 20.  M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; tr. it., Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1978.

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roga Rousseau nella Lettera, «Che cosa vi si mostrerà? Niente, se si vuole»21. Ciò che rende così vaghi e lacunosi certi discorsi sul teatro come partecipazione degli spettatori, sull’abolizione della tirannide del testo scritto, sul ruolo dell’attore, ma anche sull’essenzialità della presenza ridotta alla corporeità o alla performance del virtuoso, sta tutto in quel niente se si vuole, in quel vuoto di visibilità e conoscenza, in questa vertigine, in questo autentico stordimento, che, per compensazione rispetto al persistere dell’isolamento e della solitudine degli spettatori, la modernità pone al centro dello spettacolo. Così lo spettacolo anche quando gioca con le antiche figure dell’immedesimazione e afferma, soprattutto dopo la lezione nietzscheana, di ispirarsi a Dioniso, non può uscire dalla gabbia della rappresentazione, dalla prestazione di una collettività che si riunisce per rappresentare e per rappresentarsi, senza nessun altro significato che la somma dei soggetti isolati e la loro eventuale successiva obliterazione in una caotica folla solitaria. Il niente che Rousseau poneva al centro dello spettacolo della festa è divenuto, nell’esperienza storica che ci riguarda, il vedersi vedere della massa che, come Narciso, si rispecchia nella sua stessa immagine, negli schermi e nelle superfici riflettenti che si affollano ovunque nell’esperienza contemporanea della quotidianità, dalle architetture a specchio dei grandi edifici delle città alla pratica dei selfie di quegli oggetti intimi e devozionali, ormai indispensabili per la vita quotidiana, che sono diventati gli smartphone, producendo continue identificazioni fittizie, frustranti ricerche dell’autenticità che concludono nel nulla della fantasmagoria delle merci. Così, alla fine di un percorso che inizia proprio nell’epoca di Diderot e Rousseau, con la comparsa di quella figura dello spettatore che ci è tanto familiare da non attribuirle alcuna storia, suo-

21.  J.-J. Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, cit., p. 84.

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nano ormai banali le parole con cui Guy Debord descriveva la società capitalistica come società dello spettacolo: «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini»22.

22.  G. Debord, La Société du spectacle, Éditions Buchet-Chastel, Paris 1967; tr. it., La società dello spettacolo, intr. e cura di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena (VT) 2002, § 4, p. 44.

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Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale? Saggio introduttivo di Valentina Sperotto

Ma l’abate si sentiva svuotato e stanco come un attore che ha tenuto ruolo principale in una commedia di successo: per sere e sere lo stesso personaggio, la stessa maschera. E non che ne fosse allucinato, smarrito, fluttuante nella doppia identità: ché un tale stato d’animo non era stato ancora inventato; e anche se fosse stato in voga l’abate avrebbe ritenuto al suo temperamento e al suo caso più adatto il Paradoxe sur le comédien, allora ugualmente ignoto. (L. Sciascia, Il consiglio d’Egitto)

1. L’opera più discussa ed enigmatica Nonostante siano passati più di due secoli dalla sua pubblicazione (1830), il Paradosso sull’attore non cessa di alimentare il dibattito in ambito teatrale e filosofico. Si tratta quasi certamente dell’opera più commentata e discussa di Diderot, constatazione che faceva già Paul Vernière nel 1959, giustamente ripresa in seguito da Paolo Alatri nell’edizione italiana del 1989. Oggi non possiamo che ribadirla e, anzi, osservare che anche i recentissimi lavori di indagine sul campo mettono in luce il fatto che gli attori e le attrici trovano ancora nelle riflessioni diderottiane sul teatro motivo di meditazione, ispirazione o critica1. 1.  Su questo si vedano, per esempio: M. Valmer, Diderot, le théâtre et la compagnie Science 89, in «Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie»

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Composto tra il 1769 e il 1777 il Paradosso è un dialogo, uno tra i molti scritti da Diderot e, tuttavia, in apparenza uno dei meno dialettici. I personaggi ci vengono presentati come Il Primo interlocutore e Il secondo interlocutore e le loro voci si susseguono in modo disomogeneo, con una netta prevalenza dello spazio riservato al Primo rispetto al secondo. Il secondo interlocutore è colui che sollecita l’espressione delle idee, critiche e paradossali, del Primo, inizialmente reticente, e che lo spinge a precisare i punti cruciali delle sue riflessioni. Nonostante lo spazio ristretto occupato dalle sue battute, è possibile interpretare il secondo interlocutore come il portavoce delle idee espresse da Diderot negli scritti precedenti sul teatro: i Dialoghi sul Figlio naturale (1758) e Sulla poesia drammatica (1759). Questa è una sintesi degli aspetti formali del dialogo e un’interpretazione possibile del testo che, tuttavia, può rivelare anche altri elementi che emergono in filigrana: le affermazioni apparentemente secondarie e i rinvii talvolta taciti permettono, infatti, di darne altre letture, considerandolo in una prospettiva di diversa complessità e stratificazione. Sul piano formale, possono essere utili alcune ulteriori considerazioni relative al titolo originale dell’opera, Paradoxe sur le comédien. Innanzitutto, il termine “comédien” che Diderot distingue nel testo da “acteur” in modo abbastanza preciso. In (on-line), n. 47, 2012, pp. 135-146; P. Quintili, Filosofie a teatro. Studi di messa in scena filosofica delle idee. Con l’opera teatrale È buono? È malvagio? di Denis Diderot, Biblion, Roma 2021; C. Uberti-Foppa, L’unica risposta è la prossima domanda. L’esperienza teatrale e il suo mistero: conversazione fra Denis Diderot e Carmelo Rifici, in «Itinera. Rivista di filosofia e teoria delle arti», n. 20, 2020, pp. 175-197, e Id., Il teatro e l’indagine sull’umano. L’attore moderno in scena… all’ombra di Diderot, ivi, n. 22, 2021, pp. 102-134; A. Pellois - T. Gonzalez, Apprendre en copiant: l’acteur/ actrice et ses modèles dans les pratiques de copie, d’imitation et de réactivation, in «Methodos» (on-line), n. 21, 2021.

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italiano si è scelto di tradurre con “attore” entrambi i termini perché attualmente il sostantivo “commediante” ha una connotazione spregiativa del tutto assente nel XVIII secolo (si affermerà, in italiano, solo verso la fine del Settecento), che non aiuterebbe a chiarire il modo in cui il filosofo distingue i due usi. L’importanza della scelta del termine “comédien” è dettata dalla consapevolezza con cui Diderot ne ha fatto uso nel Paradosso. Sappiamo, infatti, che il testo di partenza era una recensione dell’opera di Michel Sticotti, The Actor2 (1751), redatta da Diderot nel 1769 su richiesta di Grimm per la «Correspondance littéraire» e pubblicata nel 1770. Rimaneggiando questo scritto per trasformarlo nel dialogo che leggiamo con il titolo di Paradosso sull’attore Diderot passa dal menzionare il termine “acteur” quindici volte e “comédien” trenta volte a una seconda revisione in cui le occorrenze di “comédien” aumentano ulteriormente e con un valore semantico non interscambiabile: mentre “comédien” assume il valore artistico della professione, “acteur” è spesso accompagnato da aggettivi dispregiativi come “mediocre”, “cattivo”, ecc.3 Secondo le definizioni fornite nell’Encyclopédie, inoltre, con il termine “Acteur” si intende «un uomo che interpreta un ruolo in un testo drammaturgico, in cui rappresenta qualche personaggio o un tipo»4, a questa definizione segue una breve storia del ruolo 2.  È ormai accertato che l’opera di Sticotti fosse un adattamento per il pubblico inglese del testo intitolato Le Comédien di Rémond de Sainte-Albine, pubblicata in Francia nel 1747, ma con un successo così scarso che Diderot stesso non se ne avvede nel leggere il testo di Sticotti. 3.  Cfr. J.M. Dieckmann, Introduction, in D. Diderot, Paradoxe sur le comédien, in Id., Œuvres complètes, ed. critica dir. da H. Dieckmann, J. Proust, J. Varloot (da qui in poi abbreviata come da prassi DPV), vol. XX, Critique II, Hermann, Paris 1995, p. 14. 4.  E.F. Mallet, art. Acteur, in D. Diderot - J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751-1780), vol. I, Le Breton-Briasson-David-Durand, Paris 1751, p. 117a-b. Dove non

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dell’attore a partire dal teatro antico in cui era presente solo il coro, fino a discutere del numero di attori previsti secondo le convenzioni teatrali. La voce Acteur si chiude con alcune considerazioni sullo status sociale degli attori che, onorati ad Atene, venivano cacciati dalle tribù e privati del diritto di suffragio dai Censori presso gli antichi Romani. L’autore, ovvero l’abate Mallet, infine, ricorda che mentre gli Inglesi sembrano avere degli attori la stessa nobile opinione degli antichi Greci, nella Francia del tempo il discredito di tale professione era paragonabile a quello dell’epoca romana. Dello stesso Mallet è la voce Comédien, pubblicata nel 1753, in cui a una prima definizione, che sembra corrispondere a quella di “acteur”, segue una specificazione: persona che per professione interpreta dei testi drammaturgici, composti per l’istruzione e il divertimento del pubblico. Si attribuisce questo nome, in generale, agli attori e alle attrici che calcano la scena teatrale e interpretano dei ruoli tanto nella commedia, quanto nella tragedia, negli spettacoli in cui si declama: perché all’opera si attribuisce il nome di attori o attrici, danzatori, coriste [filles des choeurs], ecc.5

Anche qui a qualche accenno storico fa seguito una chiosa sugli onori tributati in Inghilterra agli attori e la scarsa considerazione di cui godono in Francia, con l’aggiunta che la Chiesa Romana «li scomunica e rifiuta loro la sepoltura cristiana se non rinunciano al teatro prima della loro morte»6. Tale distinzione è quasi coincidente con quella che Diderot riprende nella stesura del Paradosso: l’attore inteso come “acteur” è colui o colei che interpreta un solo tipo di ruolo, mentre l’attore diversamente indicato la traduzione è nostra. Gli articoli dell’Encyclopédie sono consultabili nell’edizione critica virtuale sul sito: http://enccre.academiesciences.fr/encyclopedie. 5.  E.F. Mallet, art. Comédien, ivi, vol. III, 1753, p. 671b. 6.  Ibidem.

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come “comédien” è colui o colei che è in grado di rappresentare sulla scena tipi diversi, incarnando tanto personaggi della commedia, quanto della tragedia7. Non è secondario ricordare che proprio nell’articolo Comédien sia presente un’integrazione segnata con l’asterisco (*), simbolo che nell’Encyclopédie indica i testi scritti da Diderot8. Vale la pena di leggere integralmente questa parte di testo: Se si considera lo scopo dei nostri spettacoli e i talenti necessari in chi sa interpretare con successo un ruolo, la condizione dell’attore [comédien] prenderà necessariamente in ogni spirito ben fatto, il livello di considerazione che gli è dovuto. Si tratta ora, a proposito del teatro Francese in particolare, di suscitare la virtù, di ispirare l’orrore per il vizio, e di mostrare ciò che è ridicolo: quelli che lo occupano sono i rappresentanti dei più grandi geni e degli uomini più celebri della nazione: Corneille, Racine, Molière, Renard, Voltaire, ecc. la loro funzione esige, per eccellervi, figura, dignità, voce, memoria, gesto, sensibilità, intelligenza, anche la conoscenza dei costumi e dei caratteri, in una parola un gran numero di qualità che la natura riunisce così raramente in una sola persona, che si contano più grandi autori che grandi attori [comédiens]. Malgrado tutto ciò, sono stati trattati molto duramente da alcune delle nostre leggi, che esporremo nel seguito di questo articolo, per soddisfare la natura della nostra opera. Si vedano Gesto, Declamazione, ecc.9

Innanzitutto potremmo dire che in quest’articolo Diderot torna su alcuni punti già toccati in precedenza nei Gioielli indiscreti (opera pubblicata clandestinamente nel 1748), inoltre, 7.  Per ulteriori riflessioni sui termini “acteur” e “comédien” si rinvia a P. Alatri, Introduzione, in D. Diderot, Paradosso sull’attore (1830), tr. it., Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 20-25. 8.  Com’è noto Diderot non ha scritto solo gli articoli che riportano l’asterisco, ma anche molti altri pubblicati anonimi. 9.  D. Diderot, art. Comédien, cit., p. 671b.

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tratteggia rapidamente alcune delle questioni relative alla riforma del teatro che elaborerà in modo compiuto pochi anni dopo sia nelle opere teoriche, sia nelle sue pièce: Il figlio naturale (1757), Il padre di famiglia (1758) e, anche se pubblicata postuma, È buono? È malvagio?. Uno degli elementi messi in evidenza da Diderot come da Mallet, come si è visto, è la scarsa considerazione – se non la vera e propria condanna – di cui godevano gli attori in alcuni paesi e in particolare in Francia nel XVIII secolo. Non si trattava certo di una prerogativa francese, poiché anche in Italia, e in particolare nella Repubblica di Venezia, attori e attrici erano disprezzati, spesso trattati alla stregua degli istrioni addirittura dagli spettatori, che non di rado andavano a teatro per motivi relativi più al prestigio sociale, che al piacere dell’arte drammatica10. Del resto, se al tempo dei Romani il pubblico disprezzava gli attori è vero anche che «il popolo abbandonava le commedie di Terenzio per andare dai saltatori, i funamboli e altri acrobati di questa specie»11. A tal proposito, come ha osservato Yvon Belaval12, anche se non è l’idea principale del testo, si può leggere tra gli intenti del Paradosso quello di riabilitare, anzi di nobilitare, la professione dell’attore e di far vedere che si tratta di un artista a pieno titolo. Certo, l’attore deve riassumere in sé numerose qualità: «figura, dignità, voce, memoria, gesto, sensibilità, intelligenza, anche la conoscenza dei 10.  Cfr. R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 6-13. 11.  D. Diderot, Réfutation suivie de l’ouvrage d’Helvétius intitulé «L’homme» (1773-1775); tr. it. di P. Quintili e M. Marcheschi, Confutazione dettagliata dell’opera di Helvétius intitolata «L’Uomo», in D. Diderot, Opere filosofiche, romanzi e racconti, con testo a fronte, a cura di P. Quintili e V. Sperotto, Bompiani, Milano 2019, p. 757. 12.  Y. Belaval, L’esthétique sans paradoxe de Diderot, Gallimard, Paris 1973.

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costumi e dei caratteri», ma il paradosso sostenuto in questo dialogo da Diderot è che, a differenza dell’elenco di caratteristiche individuate nel 1753, la sensibilità non è più tra quelle richieste per una recitazione di qualità; all’opposto l’attore più freddo sarà migliore dell’attore sensibile. Ecco dunque la tesi tanto discussa, il «bel Paradosso», che ci pone già di fronte a una prima questione: davvero tutto il testo è costruito per aggiungere una qualità trascurata nella definizione fornita dal filosofo all’Encyclopédie? Relativamente al titolo, un altro aspetto su cui interrogarsi è che cosa intenda esattamente Diderot con “paradosso”? L’articolo Paradoxe scritto da d’Alembert per l’Encyclopédie definisce un paradosso come «una proposizione apparentemente assurda, perché contraria alle opinioni ricevute e che nondimeno è fondamentalmente vera, o almeno può assumere un’aria di verità»13; l’esempio di paradosso che viene fornito è quello del sistema copernicano che appare assurdo agli occhi del volgo, ma di cui le persone còlte riconoscono la verità. Il termine è usato da Diderot anche nell’articolo Certitude14 dove quello che sembra un paradosso, una volta analizzato non è più tale, e la sua verità si impone. Un’altra occorrenza si trova nella parte conclusiva dell’articolo Philosophie Phyrronienne ou Sceptique15, dove Diderot si riferisce alla tesi di Condillac-Berkeley secondo cui non abbiamo mai a che fare con le cose al di fuori di noi, ma sempre e solo con le nostre sensazioni, “paradosso” di cui egli sente tutta “l’assurdità e la profondità”, intendendo con questo di riconoscere la difficoltà del problema che viene posto, senza tuttavia essere in gra13.  J. Le Rond d’Alembert, art. Paradoxe, in D. Diderot - J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie, cit., vol. XI, 1765, pp. 894b-895a. 14.  D. Diderot, art. Certitude, ivi, vol. II, 1765, p. 850a. 15.  D. Diderot, art. Phyrronienne ou Sceptique (Philosophie), ivi, vol. XIII, 1752, p. 614a.

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do di trovare una soluzione (né, come specifica nelle righe seguenti, volersi impegnare su una questione metafisica non fondamentale). Questo è quello che Diderot potrebbe definire un “cattivo paradosso” o un sofisma. L’accezione positiva con cui intende un paradosso è sicuramente corrispondente alla definizione di d’Alembert, non solo per come viene intesa nell’articolo Certitude, ma anche perché così viene presentata, per esempio, la tesi fondamentale secondo cui «abbiamo molteplici sensazioni contemporaneamente»16 nella Lettera sui sordi e muti a uso di coloro che sentono e parlano. Si aggiunga che in Jacques il fatalista e il suo padrone, a un certo punto, il padrone sostiene che sulla faccia della terra non c’è una testa che contenga altrettanti paradossi quanti ce ne sono in quella di Jacques, affermazione a cui questi risponde: «E ci sarebbe qualcosa di male in questo? Un paradosso non sempre è una falsità»17. Questo scambio riguarda l’affermazione da parte di Jacques, portavoce dell’autore, che di rado quello che viene detto è inteso correttamente da chi ascolta, tesi dal fondo scettico, che attraversa l’opera diderottiana e che non è estranea alla questione del “paradosso” perché mostra, appunto, quanto il filosofo fosse cosciente del problema della comprensione. Si aggiunga a questo che nell’opera nota con il titolo di Confutazione di Helvétius egli definisce Helvétius un 16.  «Io mi occupo di formare nubi piuttosto che di dissiparle, e a sospendere i giudizi piuttosto che giudicare, vi dimostrerò ancora che se il paradosso che ho appena avanzato non è vero, se non abbiamo molteplici sensazioni contemporaneamente, è impossibile ragionare e discorrere; perché discorrere o ragionare è comparare due o più idee. Ora come comparare delle idee che non sono presenti allo spirito nello stesso momento?» (D. Diderot, Lettre sur les sourdes et muets à l’usage de ceux qui sentent et qui parlent [1751]; tr. it. di V. Sperotto, Lettera sui sordi e muti a uso di coloro che vedono e parlano, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., p. 327). 17.  D. Diderot, Jacques le fataliste et son maître (1771-1780); tr. it. di P. Quintili, Jacques il fatalista e il suo padrone, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., p. 2369.

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«uomo amante del paradosso» al pari di Rousseau, sostenendo che da questo tipo di autori «c’è sempre qualcosa da imparare». Per tale ragione i paradossi sono più interessanti rispetto alle verità comuni, perché «la loro insensatezza» fa pensare e così, sostiene Diderot, «se non mi fanno cambiare parere, quasi sempre temperano la temerarietà delle mie asserzioni»18. Un paradosso nelle opere diderottiane è dunque, spesso, una tesi fondamentale e coerente con il suo pensiero e, anche quando se ne fosse dimostrata la falsità, un “buon paradosso” ha pur sempre il merito di mettere alla prova la tesi contraria. A tal proposito se la lettura di Yvon Belaval è volta a mostrare che il paradosso del Paradosso sull’attore non è contraddittorio rispetto alla sua estetica e, dunque, la sua verità non è in realtà paradossale, è importante che non venga considerata come l’unica possibile interpretazione19. Come suggerito da Philippe Lacoue-Labarthe, infatti, possiamo considerare questo testo come realmente dialettico e chiederci come s’insedia il paradosso nel Paradosso20?

18.  D. Diderot, Confutazione dettagliata, cit., p. 757. 19.  Accanto alla già citata interpretazione di Y. Belaval, si ricorda quella di M. Hobson che insiste sull’importanza di considerare seriamente la paradossalità del paradosso in Le Paradoxe sur le comédien est un paradoxe, in «Poétique», n. 15, 1973, pp. 320-339; su questo anche P. Lacoue-Labarthe (vedi nota seguente). Si segnalano anche le interpretazioni di G. Bremner, An Interpretation of Diderot’s Paradoxe sur le comédien, in «Journal for Eighteenth-Century Studies», n. 4, 1981, pp. 28-43; A. Strugnell, Diderot, Garrick and the Maturity of the Artist, ivi, n. 10, 1987, pp. 13-26. Infine, molto interessante la lettura del testo da parte di S. Chaouche, Formes du théâtral diderotien, in «Recherches sur Diderot et l’Encyclopédie», n. 47, 2012, pp. 105-117. 20.  Cfr. P. Lacoue-Labarthe, Diderot, le paradoxe et la mimésis, in «Poétique», n. 43, 1980, pp. 267-281; tr. it., Diderot, il paradosso e la mimesis, in R. Barthes - S.M. Ejzenštejn - J.-F. Lyotard, Diderot e il demone dell’arte, a cura di M. Bertolini, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 89.

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2. La questione teatrale nel XVIII secolo: elementi per una cornice dell’opera Prima di addentrarsi nel testo diderottiano è utile fare qualche cenno al contesto culturale in cui il Paradosso sull’attore è stato concepito. Dopo la grande stagione del teatro classico francese nel Seicento e le elevate vette raggiunte da Corneille, Racine e Molière, nel secolo in cui si susseguono importanti querelle (quella sugli “Antichi e i Moderni” è forse la più nota, ma altrettanto importante fu quella sulla musica francese, la cosiddetta “Querelle des Bouffons”) si apre in Francia una stagione di dibattito e rinnovamento anche in ambito teatrale, che vide il coinvolgimento oltre che di Voltaire, Diderot e d’Alembert, di altri pensatori e letterati di primo piano come Rousseau, Marmontel, Mme Riccoboni (figlia di Luigi Riccoboni), Grimm, ecc. Il dibattito non era ristretto al territorio francese, anche in Italia e in Germania si sentiva l’esigenza di un rinnovamento e presero parte attiva nel dibattito, sia sul piano teorico, sia nella scrittura teatrale, tra gli altri Scipione Maffei e Luigi Riccoboni oltre a Carlo Goldoni e oltralpe figure di spicco come Johann C. Gottsched e Gotthold E. Lessing. Si trattava di superare il classicismo delle pièce, ma anche di riformare la scena e la sala teatrale, la recitazione stessa, ecc. La discussione intorno al tea­ tro, insomma, lo investiva nella sua totalità. Occorre innanzitutto ricordare che nel Settecento il teatro non accoglieva quel pubblico di massa che lo frequenterà nel secolo successivo, anzi, fino alla Rivoluzione Francese la borghesia era per lo più estranea a questo tipo di spettacoli. Le persone che lo frequentavano costituivano un microcosmo in cui venivano ribaditi i ruoli sociali e spesso il pubblico aristocratico si recava nelle sale teatrali per «fare a se stesso spettacolo di se stesso»21. Addirittura in Francia il problema si poneva dal 21.  R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, cit., p. 7.

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punto di vista spaziale: fino al 1759 era infatti possibile che la nobiltà prenotasse dei posti collocati sul palcoscenico. Come osserva lo stesso Diderot nel Paradosso, questo comportava un notevole ingombro della scena che, non solo comprimeva la capacità di movimento degli attori e la loro disposizione sul palco, ma limitava anche la possibilità di costruzione di una scenografia adeguata22. Per quanto riguarda il ruolo giocato dagli spettacoli teatrali in società, una delle battaglie dell’illuminismo, fonte di impegno di filosofi e autori, sarà proprio quella di estendere la platea degli spettatori, ma anche di incentivare la presenza dei teatri nelle città. Non a caso l’intervento di Rousseau nella querelle teatrale viene innescato dalla pubblicazione dell’articolo Ginevra dell’Encyclopédie in cui d’Alembert, probabilmente in questo sollecitato e sostenuto da Voltaire, nel suo elogio della città Svizzera come luogo politico ideale, si era rammaricato per l’assenza di un teatro. Certo, specificava d’Alembert, per evitare che il teatro fosse foriero di cattivi costumi, si sarebbero potute introdurre nella “piccola Repubblica” norme severe che prevedessero un’irreggimentazione degli attori, posti sullo stesso piano degli altri cittadini, facendo del teatro uno svago onesto e promotore di valori come la filosofia e la libertà, addirittura il teatro ginevrino sarebbe potuto diventare il modello per il resto d’Europa23. 22.  La riforma degli spazi teatrali con la soppressione dei posti sul palco fu introdotta in Francia nel 1759. Su questo si vedano P. Berret, Comment la scène du théâtre du XVIIIe siècle a été débarrassée de la présence des gentilshommes», in «Revue d’Histoire littéraire de la France», n. 3, 1901, pp. 456459; R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, cit., pp. 43-46; M. Fazio, Regie teatrali. Dalle origini a Brecht, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 6-7. 23.  Cfr. J. Le Rond d’Alembert, art. Genève, in D. Diderot - J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie, cit., vol. VII, 1757, p. 574b-578b. In italiano si trova una traduzione dell’articolo nella raccolta di articoli tradotta e curata da P. Casini: Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e d’Alembert, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 453-461.

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D’Alembert illustra l’ideale di una repubblica in cui il teatro, rinnovato, diviene svago onesto, rivolto a un pubblico ampio di destinatari dei valori dell’illuminismo, veicolati non solo dalle opere, ma anche dalla condotta rispettabile degli attori e delle attrici. Rousseau, tuttavia, nella Lettera sugli spettacoli (1758), risponde a d’Alembert, decretando l’irrealizzabilità della riforma del teatro, essendo, dal suo punto di vista, impossibile sradicare la dissolutezza dei costumi che caratterizza le attrici, e di conseguenza anche gli attori, legata strettamente a un talento che consiste nell’arte di dissimulare al fine di divertire. La lunga analisi del Misantropo di Molière24 condotta da Rousseau mostra chiaramente come, proprio colui che si avvicina alla perfezione del genere comico (preferibile al tragico, che racconta storie di eroi lontane dalla vita degli uomini e inverisimili), alla fine promuova il vizio e non possa che fare diversamente, se si vuole accontentare il pubblico, concedendo il divertimento che ci si aspetta dall’opera teatrale. Se Molière fosse stato più realistico nella rappresentazione di Alceste, secondo Rousseau, il personaggio comico sarebbe risultato Filinte, ma essendo questo contrario ai costumi dell’epoca e dunque al gusto degli spettatori, l’autore non avrebbe potuto effettuare questa scelta. Così, condizionato dal gusto del pubblico e dall’impossibilità di proporre a teatro valori divergenti rispetto a quelli dominanti in società, ne consegue che esso non possa essere considerato come uno svago auspicabile per le repubbliche; lo sono invece, secondo Rousseau, i club, le feste all’aria aperta, le competizioni sportive, i balli tra giovani in età da matrimonio. La condanna del teatro da parte del filosofo ginevrino ripropone molti degli argomenti morali già sviluppati da P. Nicole nel Trattato sulla commedia (1667) e da J.-B. Bossuet nelle 24.  J.-J. Rousseau, Lettre à M. d’Alembert sur les spectacles (1758); tr. it. di E. Franzini, Lettera sugli spettacoli, Aesthetica, Palermo 2003, pp. 50-56.

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Massime e riflessioni sulla commedia (1694), riprendendo talvolta anche i loro termini, discostandosi però da questi autori perché la problematica viene posta da Rousseau su un piano esclusivamente morale, scevro di implicazioni teologiche e privo di fondamento religioso25. Sulla diagnosi relativa allo stato del teatro dell’epoca convergevano molti contemporanei, compresi gli illuministi che ne promuovevano la diffusione, tuttavia, a differenza di Rousseau e dei pensatori giansenisti citati, essi credevano nella possibilità di una riforma drammaturgica. Come in Francia, nei diversi tentativi sviluppati nei paesi europei coinvolti da questa spinta innovatrice si cercava innanzitutto di introdurre un nuovo genere teatrale, definito “serio”. Il dramma borghese, che si collocava sulla mediana tra il tragico e il comico, era capace di mettere in scena personaggi e vicende vicine al vero, cioè prossime all’esperienza quotidiana della classe in ascesa a cui si rivolgevano, introducendo anche una medietas stilistica adatta a suscitarne l’interesse. Per Diderot, come per Beaumarchais e Mercier in Francia, sulla scena teatrale occorre rappresentare il mondo degli spettatori, concepito come naturale, escludendo ciò che poteva essere considerato come meraviglioso o insolito e, perciò, estraneo in quanto lontano dalle vite di chi assisteva alla rappresentazione26.

25.  Cfr. M. Buffat, Nouvelles conceptions du théâtre, in P. Frantz - S. Marchand (a cura di), Le théâtre français du XVIIIe siècle. Histoire, textes choisis, mises en scène, Éditions L’avant-scène, Paris 2009, p. 265. Si noti che diversamente dai giansenisti, quali erano Pierre Nicole e Jacques-Bénigne Bossuet, i gesuiti, proprio nell’ambito della controriforma avevano valorizzato il teatro, in particolare la tragedia, quale strumento pedagogico. Sulla possibile influenza su Diderot del teatro dei gesuiti presso cui aveva studiato si rinvia a Y. Belaval, L’ésthétique sans paradoxe de Diderot, cit., pp. 17-18. 26.  Cfr. M. Buffat, Diderot et la naissance du drame, in P. Frantz - S. Marchand (a cura di), Le théâtre français du XVIIIe siècle, cit., pp. 362-363.

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Il riferimento alla natura come modello è uno dei concetti chiave del pensiero filosofico del XVIII secolo, esso è alla base del realismo scenico e, in generale, della riflessione riformatrice sul teatro che tendeva ad allontanarsi dagli artifici eccessivi della drammaturgia seicentesca, poiché «nulla», come osservava Lessing, «è più decoroso e più degno della semplice natura»27. Secondo la concezione del teatro del pensatore tedesco esso è un luogo in cui il pubblico non si reca per assistere alle vicende di un personaggio particolare, ma per apprendere «ciò che farebbe ogni uomo fornito di un certo carattere in determinate circostanze»28, perché il teatro stesso «dev’essere la scuola della vita morale»29. Perfettamente allineato ad Aristotele, Lessing ritiene che il fine della tragedia sia più filosofico di quello della storia, ma che questo si possa realizzare solo rispecchiando la vita. Per tale ragione critica la tragedia cristiana, i cui eroi sono martiri, che per il pubblico del tempo, in cui ormai la voce della ragione risuonava troppo alta30, non suscitavano più immedesimazione e non fornivano alcun insegnamento. Il personaggio dev’essere costruito secondo un principio di rigida verosimiglianza, che non dipende solo dalla costruzione dell’autore, bensì molto dalla capacità interpretativa di attori e attrici. Il vantaggio dell’arte drammatica rispetto, per esempio, alla pittura è che la sua essenza dinamica la rende maggiormente capace di avvicinarsi al continuo mutamento della natura. La natura «sarebbe, un po’ paradossalmente […] qualcosa di “giammai apparente”: giammai apparente in quanto i tratti salienti della sua spontanea apparizione reale sarebbero, di fat27.  G.E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie (1767-1768, pubblicato nelle opere complete di Lessing nel 1794); tr. it. di P. Chiarini, Drammaturgia d’Amburgo, Laterza, Roma-Bari 1956, LIX, 24 novembre 1767, p. 271. 28.  Ivi, p. 101. 29.  Ivi, p. 14. 30.  Cfr. ivi, p. 13.

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to e sempre, delle mascherature di una sua propria “seconda natura”»31. La prossimità tra Lessing e Diderot è nota, e anche per il filosofo francese la natura è la norma da seguire nella messa in scena. Tuttavia è fondamentale ricordare che secondo Diderot non si rappresenta la natura tale qual essa è, come raccomanda fin dall’inizio nel Paradosso: «E la natura come potrebbe formare un grande attore senza l’arte, dato che nulla accade sulla scena esattamente come in natura, e che i poemi drammatici sono tutti composti secondo un certo sistema di principi?»32. La natura del dramma e la naturalezza degli attori non significano spontaneità, ma artificio creato appositamente a partire dalle norme e dagli effetti propri di ciascuna arte: Negate che si abbellisca la natura? Non avete mai lodato una donna dicendo che era bella come una Vergine di Raffaello? Alla vista di un bel paesaggio, non avete mai esclamato quanto fosse romantico? D’altra parte mi parlate di una cosa reale, e io vi parlo di un’imitazione; voi mi parlate di un istante fuggitivo della natura, e io vi parlo di un’opera d’arte progettata, coerente, che ha i suoi progressi e la sua durata.33

Più che di natura si dovrebbe allora parlare di un “ideale di natura”34, costruito dal genio che riunisce in sé non solo il talento, ma anche studio, osservazione, lavoro. Tale ideale viene descritto da Diderot in modo particolarmente efficace a proposito della pittura nella dedica all’amico Grimm anteposta al Salon 1767, dove afferma:

31.  G. Morelli, Paradosso della gallina, in A. Beniscelli (a cura di), Naturale e artificiale in scena nel secondo Settecento, Bulzoni, Roma 1997, p. 52. 32.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 75. 33.  Infra, p. 91. 34.  Su questo si veda M. Mazzocut-Mis, Introduzione ai Salons, in D. Diderot, I Salons con i Saggi sulla pittura e i Pensieri sparsi, tr. it., con testo a fronte, a cura di M. Mazzocut-Mis, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2021, p. XI.

38 Chiederò allora a questo artista: se aveste scelto come modello la più bella donna che conoscete e reso con il massimo scrupolo tutte le grazie del suo viso, potreste credere di aver rappresentato la bellezza? Se mi rispondete di sì, l’ultimo dei vostri allievi vi smentirà e vi dirà che voi avete fatto un ritratto. […] Convenite quindi che questo modello è puramente ideale e che non è ricavato direttamente da nessuna immagine individuale della natura la cui copia vi sia rimasta nell’immaginazione e che voi possiate richiamare di nuovo, fermare davanti ai vostri occhi e copiare servilmente, a meno che non vogliate diventare ritrattista. Convenite allora che quando voi realizzate qualcosa di bello, non fate nulla di ciò che è e neppure di ciò che può essere. Convenite allora che la differenza fra il ritrattista e voi, uomo di genio, consiste essenzialmente nel fatto che il ritrattista restituisce fedelmente la natura così com’è e si pone per il suo gusto al terzo livello, mentre voi che cercate la verità, il primo modello, vi sforzate sempre di elevarvi al secondo…35

La natura, dunque, non costituisce il modello nel senso che essa debba essere copiata così com’è, ma intendendola come ciò da cui va tratto l’insieme di rapporti finalizzato a costituire l’ideale dell’oggetto rappresentato, privo di tutte le deformità cui le produzioni della natura, in incessante mutamento, sono soggette. L’opera d’arte prende forma grazie a un lavoro di pazienza, fatto di «una lunga osservazione, un’esperienza consumata», ma anche di tecnica, di un «tatto squisito» e di ciò che emerge dall’esperienza e dalle doti che caratterizzano i veri artisti: «un gusto, un istinto, una specie d’ispirazione concessa a qualche raro genio»36. Emerge dal processo artistico la bellezza ideale di una natura che risulta «inverosimilmente una, autentica proprio perché

35.  D. Diderot, Salon 1767, ivi, pp. 541-545. 36.  Ibidem.

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“mai vista così”»37, ma colta sempre parzialmente. Come non correre col pensiero alla kantiana Critica del giudizio dove il prodotto delle belle arti non è una mera riproduzione, ma l’esito di «un lungo e anche penoso processo di perfezionamento, volto a adeguare la forma al concetto, senza recar tuttavia pregiudizio al libero gioco delle facoltà dell’animo»38? Come in Diderot la mera copia di un oggetto bello non è già arte bella, anche secondo Kant occorre che la forma sia «esibizione di un concetto, il quale in tal modo è comunicato universalmente»39. La capacità di esprimere questo ideale, il concetto universale, è la caratteristica del genio, «la tecnica», invece, scriveva Diderot nel Salon 1765, «si acquisisce con l’andare del tempo» mentre «l’estro, l’ideale, non si acquistano, occorre averli dalla nascita»40. Per questo il genio ci colpisce, sa cogliere l’unità e i rapporti presenti in natura, riesce a dare senso e forma all’esperienza e così produrre la bellezza dell’ideale, «colpisce tutti gli uomini», al contrario la bellezza della tecnica che si può acquisire, «attira solo il conoscitore e se lo fa sognare, è sull’arte e l’artista, non sulla cosa»41. Non c’è però in Diderot un piegarsi alla maniera, che nelle belle arti «è come l’ipocrisia nel comportamento»42, il principio guida è sempre la natura che l’arte dev’essere in grado di esprimere parlando ai sensi e non proponendo delle astrazioni.

37.  G. Morelli, Paradosso della gallina, cit., p. 53. 38. I. Kant, Kritik der Urtheilskraft (1790); tr. it. di A. Gargiulo, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997, § 48, pp. 302-303. 39.  Ibidem. 40.  D. Diderot, Salon 1765, in Id., I Salons con i Saggi, cit., pp. 412-413. 41.  D. Diderot, Salon 1767, ivi, pp. 858-859. 42. D. Diderot, Pensées détachées sur la peinture, la sculpture et la poésie pour servir de suite aux «Salons» (1776); tr. it. di M. Modica, Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura, l’architettura e la poesia, per continuare i Salons, in D. Diderot, I Salons con i Saggi, cit., pp. 1630-1631.

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Sulla necessità della verosimiglianza e sul fatto che a teatro questa si realizzai, in primis, abbandonando i versi a favore della prosa, converge il giudizio di molti intellettuali, Diderot e Lessing in particolare (mentre Voltaire è dell’opinione contraria). Diderot dice di essersi chiesto se la tragedia domestica si potesse scrivere in versi e «senza sapere bene perché», si risponde che non è possibile43, anzi, la serie di domande retoriche che seguono a questa considerazione nella Poesia drammatica dimostrano che non c’è ragione per cui la commedia e la tragedia siano scritte in versi. Il nuovo genere “serio” racconta vicende borghesi, che si svolgono per lo più tra le mura domestiche, in un contesto simile i versi non avrebbero nulla di naturale. Lo stesso Lessing concluderà, rispondendo a chi contestava la prosa teatrale, sostenendo che le regine e l’aristocrazia non si esprimono allo stesso modo della borghesia: «peggio per le regine se veramente non parlano o non possono parlare così… Le regine della realtà possono parlare con tutta l’affettata ricercatezza che vogliono: le regine uscite dalla fantasia del poeta devono parlare in maniera naturale»44. Si ricerca una medietas stilistica per rendere sulla scena una verità naturale che si potrebbe definire “più vera” delle stesse convenzioni sociali. Se si esclude il caso di Mercier, che a fine secolo, in un clima culturale ormai mutato, auspicherà un ritorno alla maschera, la maggior parte di coloro che riflettono sul teatro nel Settecento ritengono che questo elemento scenico offra una copia mostruosa della natura, irrigidita in un’espressione che, occultando gli occhi dell’attore, non è in grado di mostrare la verità della natura. È un momento di cesura per le arti dello spettacolo in cui «optando senza incertezze per l’illuminata

43.  D. Diderot, De la poésie dramatique, in DPV, vol. X, p. 358. 44.  G.E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., LIX, p. 270.

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nudità del volto, la assume a simbolo delle aspirazioni di un nuovo teatro, proteso verso la definizione del personaggio in quanto carattere segnato dalla distinzione individuale»45. Luigi Riccoboni osservava che «l’accompagnamento degli occhi e del viso è indispensabile per l’espressione della parola, come può esserlo l’accompagnamento degli strumenti per una bella voce che canta»46. Diderot, prendendo come esempio il grande Garrick mostra come la plasticità del volto sia in grado di esprimere il movimento delle passioni: Garrick introduce la sua testa tra i due battenti di una porta, e nell’intervallo di quattro o cinque secondi passa successivamente dalla gioia folle alla gioia moderata; da questa gioia alla tranquillità; dalla tranquillità alla sorpresa; dalla sorpresa allo stupore; dallo stupore alla paura; dalla paura all’orrore; dall’orrore, alla disperazione, e risale da quest’ultimo grado a quello da cui era disceso.47

Il volto dell’attore sembra trasformarsi in puro potenziale, in «una tela bianca, ideale per accogliere le forme vagheggiate dalla sensibilità moderna»48, ma in questo passaggio emerge anche un elemento che aiuta a comprendere la necessità della tesi della “freddezza” o “insensibilità” dell’attore sostenuta nel Paradosso dal Primo interlocutore. Questi, si chiede a proposito di Garrick: «la sua anima ha potuto provare tutte queste sensazioni ed eseguire, di concerto col suo viso,

45.  R. Tessari, Maschere di cera. Riforme, giochi, utopie: il teatro europeo del Settecento tra pensiero e scena, Costa & Nolan, Milano 1997, p. 17. 46.  L. Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur le différents théâtres de l’Europe avec les Pensées sur la Déclamation (1740); tr. it. di M. Bertolini, Pensieri sulla declamazione, in M. Accornero - K. Angioletti - M. Bertolini - C. Guaita - E. Oggionni (a cura di), Paradossi settecenteschi. La figura dell’attore nel secolo dei lumi, LED, Milano 2010, p. 138. 47.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, pp. 99-100. 48.  R. Tessari, Maschere di cera, cit., p. 17.

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questa specie di gamma? Io non ci credo, e nemmeno voi»49. Per rendere sul palco una serie di diversi stati d’animo non è possibile secondo il Primo interlocutore che l’attore li viva su di sé, piuttosto deve essere in grado, prendendo le distanze da se stesso, di controllare alla perfezione il proprio corpo per simulare con il gesto il vissuto del personaggio. È il gesto, l’azione, che colpisce lo spettatore e lo commuove. Il grande teatro del secolo precedente era stato caratterizzato dalla prevalenza del discorso e della declamazione, prevedeva che gli attori e le attrici sulla scena compissero poche azioni, codificate e piuttosto meccaniche. Nel sistema drammatico diderottiano è centrale l’energia, l’intensità degli effetti cui corrisponde «il primato della materialità (voce, gesti, oggetti)» proprio perché il teatro non è concepito come testo, ma come «realtà scenica»50. La stessa grandezza nella pantomima51 che troviamo in Garrick è attribuita al personaggio denominato come «Lui» nel Nipote di Rameau che imitando la natura, la quale crea gli individui diversi tra loro, afferma che alcuni sono grandi, mentre altri sono meno dotati e «dicendo queste parole faceva ogni specie di smorfia con il viso; era il disprezzo, lo sdegno, l’ironia; e sembrava impastare un pezzo di pasta tra le dita, e sorride49.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 100. 50.  Cfr. M. Buffat, La force du théâtre, in P. Frantz - S. Marchand (a cura di), Le théâtre français du XVIIIe siècle, cit., p. 187. 51.  Sull’importanza della pantomima si era già soffermato J.-B. Du Bos nelle Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture (1719) anche se più ampia è la sua riflessione sulla declamazione, sul tema si veda C. Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, Marsilio, Venezia 2012, pp. 200-206; M. Mazzocut-Mis, Corpo e voce della passione. L’estetica attoriale di Jean-Baptiste Du Bos, LED, Milano 2010. Si ricorda che l’interesse verso la pantomima in Francia derivava dall’importanza della Commedia dell’arte italiana in cui la pantomima svolgeva un ruolo diverso e sicuramente più significativo rispetto alla prassi recitativa francese.

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re per le forme ridicole che le dava»52. Diderot qui descrive la pantomima del nipote di Rameau cercando di dimostrare al lettore, con il susseguirsi delle immagini delle espressioni evocate, quanto la pantomima sia un’esperienza che dà soddisfazione all’occhio in modo più diretto rispetto ad altre forme di comunicazione53. Si ricorda che è Diderot stesso a raccontare di aver valutato la recitazione di attori e attrici tappandosi le orecchie a teatro: una prova efficace poiché, essendo la pantomima un linguaggio universale, dovrebbe comunicare ciò che succede indipendentemente dalle battute dei personaggi. La stessa mobilità dell’espressione del viso e plasticità del gesto, esposte nei passi precedentemente citati, si ritrova nella celebre descrizione della pantomima dei pezzenti, quando Lui si mette a sorridere, a contraffare l’uomo ammiratore, l’uomo supplichevole, l’uomo compiacente: tiene il piede destro in avanti, il sinistro indietro, la schiena curva, la testa rialzata, lo sguardo come infisso su altri occhi, la bocca socchiusa, le braccia portate verso qualche oggetto; aspetta un ordine, lo riceve; parte come una saetta; ritorna, l’ordine è eseguito; ne dà conto. È attento a tutto, raccoglie quello che cade; sistema un cuscino o un tappetino sotto i piedi, tiene in mano una sottocoppa, avvicina una sedia, apre una porta; chiude una finestra; tira le tende; osserva il padrone e la padrona; è immobile, le braccia penzoloni; le gambe parallele; ascolta; cerca di leggere sui volti; e aggiunge: “Ecco la mia pantomima, la stessa, all’incirca, di quella degli adulatori, dei cortigiani, dei servi e dei pezzenti”.54 52.  D. Diderot, Le neveu de Rameau (1762-1774); tr. it. di P. Quintili, Il nipote di Rameau, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 2286-2287. 53.  Su questo si veda M. Mazzocut-Mis, Gesto e pantomima. Azione e rappresentazione nel Settecento francese, in «Acting Archives Review. Rivista di studi sull’attore e la recitazione», III, n. 5, 2013, pp. 29-35. 54.  D. Diderot, Il nipote di Rameau, cit., pp. 2294-2295.

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Già nella Lettera sui sordi e muti (1751) Diderot si era soffermato sul linguaggio dei sordi e dei muti, per discutere in una prospettiva sensista la questione delle inversioni nel linguaggio e mostrare che la sensazione non segue l’ordine lineare del discorso. La pantomima, come il “geroglifico poetico”, è in grado, secondo il filosofo, di evocare proprio la molteplicità delle sensazioni provate simultaneamente, anche grazie al fatto che la lingua dei gesti è fortemente metaforica55; il gesto inoltre, ha un’immediatezza e una potenza56 che non sempre si può attribuire alla parola, come sottolinea l’effetto patetico generato non tanto da ciò che Lady Macbeth57 dice, quanto dal gesto compiuto dall’attrice: La sonnambula Macbeth avanza in silenzio e a occhi chiusi sulla scena; imitando l’azione di una persona che si lava le mani, come se le sue fossero ancora sporche del sangue del suo re che aveva pugnalato più di vent’anni prima. Non conosco niente di altrettanto patetico in un discorso quanto il silenzio e il movimento delle mani di questa donna. Che immagine del rimorso!58

L’espressione del volto, accompagnata dal gesto è essenziale per la recitazione che non può essere ridotta a declamazione. Per questo stesso motivo la posizione frontale degli attori sul palco è inadatta alla scena, poiché essi non devono rivolgersi al 55.  D. Diderot, Lettre sur les sourds et muets à l’usage de ceux qui entendent et qui parlent (1751); tr. it. di V. Sperotto, Lettera sui sordi e muti a uso di coloro che sentono e parlano, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 310-311. 56.  «Ci dimentichiamo anche il pensiero più sublime, ma è impossibile dimenticare queste azioni» (ivi, pp. 308-309). 57.  Per un’analisi dell’importanza del gesto di Lady Macbeth nel contesto dell’opera diderottiana si rinvia a C. Piccione, Come Macbeth si lava le mani. La concezione diderottiana del movimento fra i primi scritti di estetica teatrale e i Salons, in «Itinera. Rivista di filosofia e teoria delle arti», n. 22, 2021, pp. 81-102. 58.  D. Diderot, Lettera sui sordi e muti, cit., p. 309..

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pubblico ricalcando il modello dell’ars oratoria59, bensì creare un quadro vivente (tabelau vivant) capace di mostrare l’azione dell’essere umano nella sua interezza, nella sua verità, dunque nel suo movimento, nella relazione complessa tra i personaggi e di questi con il contesto. Come aveva affermato Sainte-Albine60, gesto e parola verranno quindi a «rappresentare lo stesso oggetto, ma da due punti di vista diversi e compenetrantisi», ma Diderot sostiene, a differenza di quest’ultimo, che «se uno dei due deve indietreggiare nell’arte teatrale sarà la parola a doverlo fare»61. Solo così la scena sarà naturale, ovvero avrà la sua portata universale, solo così il dramma sarà interessante per il pubblico, solo così si arriverà a commuovere la sensibilità della platea62.

3. Filosofia materialista e sensibilità: il paradosso dell’attore Un teatro che imita la natura e, attraverso questa, educa gli spettatori: è questo il progetto artistico e morale alla base del59.  Su questo si vedano le riflessioni di M. Bertolini, Teorie dell’attore nella Francia del Settecento, in M. Accornero - K. Angioletti - M. Bertolini C. Guaita - E. Oggionni (a cura di), Paradossi settecenteschi, cit., pp. 101-104. 60.  Sainte-Albine nella sua opera aveva sottolineato l’importanza della declamazione accanto all’azione: «L’azione di un attore è inutilmente vera se la sua recitazione non lo è; sulla scena francese non serve a nulla sedurre gli occhi quando non si colpisce l’udito» (R. de Sainte-Albine, Le Comédien [1747]; tr. it. di E.G. Carlotti L’attore, in «Acting Archives Review», n. 4, novembre 2012, p. 324, disponibile on-line: https://www.actingarchives.it/ images/Books/Le_comedien.pdf; tr. it. parziale di M. Berolini, L’attore, in M. Accornero - K. Angioletti - M. Bertolini - C. Guaita - E. Oggionni [a cura di], Paradossi settecenteschi, cit., p. 157). 61.  M. Mazzocut-Mis, Gesto e pantomima, cit., p. 4. 62.  Sull’attore come modello pedagogico per lo spettatore si rinvia a M. Bertolini, Teorie dell’attore nella Francia del Settecento, cit., pp. 91-95.

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la riflessione diderottiana. Cosa significa e come si giustifica, tuttavia, da un punto di vista filosofico l’affermazione di queste tesi da parte di Diderot? Si è visto che rispetto a molti dei temi affrontati nelle opere dedicate alla riforma del teatro, il pensiero del filosofo viene condiviso da altri pensatori, attori e intellettuali del suo tempo. Possiamo anche sostenere che, probabilmente, in una prima fase le sue tesi non fossero espresse fondandosi su un impianto teorico più generale. Come ricorda anche Lessing, infatti, già nell’opera libertina giovanile intitolata I gioielli indiscreti Diderot si era espresso in modo critico riguardo al teatro francese del tempo, facendo dire alla Sultana del regno di Banza – situato in un Congo mitico, specchio della Francia settecentesca – che le tragedie moderne erano inferiori a quelle degli antichi63. Nello scambio con Selim e l’accademico Ricaric, dopo aver riassunto il Filottete di Sofocle, Mirzoza conclude così: «Citatemi una sola opera moderna che possa passare lo stesso esame e vantare lo stesso grado di perfezione, e mi dichiarerò sconfitta»64. Ciò che qui interessa, però, di queste prime pagine, pubblicate nel 1748, è che esse contengono in nuce le tesi principali che Diderot tenterà poi di tradurre nella messa in scena dei suoi drammi. Diderot si esprime in modo chiaro e trasparente, per dirla con Lessing, innanzitutto sulla questione dell’imitazione e del suo effetto sullo spettatore:

63.  Cfr. D. Diderot, Les Bijoux indiscrets (1748); tr. it. di P. Quintili, I gioielli indiscreti, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 1816-1817. 64.  Ivi, p. 1819. Il capitolo xviii dei Gioielli indiscreti è stato riportato quasi integralmente da Lessing nei fascicoli LXXXIV-LXXXV della Drammaturgia di Amburgo, sia perché il filosofo tedesco condivideva con Diderot molte idee sul teatro, sia perché a partire da queste riflessioni sviluppa la questione dei caratteri del comico. Inoltre, Lessing discute le tesi diderottiane fino al fascicolo XCIV, affiancando all’analisi dell’autore francese quella degli antichi – Aristotele e Terenzio – e quelle del traduttore e commentatore inglese dell’Arte poetica di Orazio, Richard Hurd (1720-1808).

47 la perfezione di uno spettacolo consiste nell’imitazione di un’azione, tanto esatta che lo spettatore, ingannato senza interruzione, s’immagina di assistere all’azione stessa. Ora, c’è forse qualcosa che assomigli a questo, nelle tragedie che ci vantate?65

Si ritrova la stessa tesi nei Dialoghi sul figlio naturale – la riflessione teorica che accompagnava il testo della pièce – dove Dorval dichiara che la “verità” della rappresentazione cui aveva appena assistito era stata tale che, dimenticando la situazione imitativa in cui era immerso, era stato sul punto di alzarsi per intervenire nel dramma che si stava svolgendo sotto i suoi occhi66. La veridicità dell’opera non dipende, però, solo dalla recitazione, infatti la sultana dei Gioielli indiscreti evidenzia anche l’importanza del principio aristotelico dell’unità temporale dell’azione: affinché un’opera sia veritiera l’intreccio non può essere troppo ricco e va ben gestito67. Accanto a quest’osservazione, l’elenco delle critiche che seguono riguarda la «condotta impacciata degli attori», la «stranezza dei loro vestiti», la «stravaganza dei loro gesti» e, infine, «l’enfasi di un linguaggio singolare, rimato, cadenzato»68. Questioni che saranno articolate e sviluppate, in alcuni casi anche sfumate e smussate, successivamente, come si è in parte visto, per esempio a proposito del ricorso ai versi nella tragedia domestica. Tra i Gioielli indiscreti e i Dialoghi sul figlio naturale, Sulla poesia drammatica e, naturalmente, il Paradosso sull’attore 65.  D. Diderot, I gioielli indiscreti, cit., p. 1819. 66.  D. Diderot, Entretiens sur le Fils Naturel, in DPV, vol. X, pp. 83-84. 67.  «L’autore si trova in imbarazzo per un personaggio che ha trascinato di scena in scena per cinque atti, lo toglie di mezzo con una pugnalata: tutti si mettono a piangere; e io, io rido come una pazza» (D. Diderot, I gioielli indiscreti, cit., pp. 1820-1821). 68.  Ibidem.

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trovano posto però molte altre opere edite, dai Pensieri sull’interpretazione della natura al lavoro monumentale di direzione dell’Encyclopédie, fino ai Salons, e soprattutto inedite, come il Sogno di d’Alembert e il Nipote di Rameau. Nel momento in cui Diderot si dedica alla stesura del Paradosso il suo materialismo si è pienamente delineato e, con esso, è evoluta anche la riflessione sulle belle arti. In una visione della natura in cui tutto è connesso, il concetto di relazione diviene cardinale e, in un cosmo perennemente in movimento, l’essere umano come soggetto è esso stesso caratterizzato dal mutamento costante. Modificazione che coinvolge l’organismo nel suo essere unità di rapporti tra le parti che lo compongono: essendo unica la sostanza, non solo questo significa che in qualche modo vivente e non vivente vanno ricondotti a un solo principio, ma anche che non esiste una sostanza “altra” rispetto alla materia con cui identificare ciò che tradizionalmente veniva definito come “anima”. L’essere umano non è la congiunzione di due diverse sostanze di cui una, l’anima, non conosciamo, non sappiamo come agisca sui nostri organi materiali, né sappiamo dove potrebbe essere collocata69, ma è come uno strumento musicale polifonico: una complessità materiale da cui emerge la nostra personalità, da cui dipendono le nostre sensazioni, dalle sensazioni (secondo un principio sensista) le nostre idee e dal rapporto tra queste il pensiero. Diderot, però, sa che la linearità di questa costruzione rischia di essere semplicistica e allora la sua concezione diviene più articolata e frastagliata:

69.  La trattazione estesa sulla questione dell’anima si trova nella seconda parte dell’articolo Anima contenuto nel vol. I dell’Encyclopédie, la prima parte è invece stata redatta dall’abate Yvon. Si veda art. Âme, in D. Diderot J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie, cit., vol. I, 1751, pp. 340 ss.; tr. it. di P. Casini, Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e d’Alembert, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 73-79.

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tutta la Lettera sui sordi e muti è volta a dimostrare la simultaneità delle percezioni e, di conseguenza, delle sensazioni che proviamo, la compresenza di più idee contemporaneamente – come connetterle tra loro altrimenti? – e la complessità della loro traduzione nel linguaggio (lineare per definizione), ma anche nelle opere d’arte. Allora Diderot ricorre al difficile concetto di “geroglifico poetico”, unità molteplice di immagine e suono, di parola e figura, spazializzazione di un’arte temporale, la poesia, che secondo il filosofo «consiste nella rappresentazione di azioni, non di corpi o figure»70. Al concetto di geroglifico in poesia si collega anche la riflessione sull’importanza della pantomima dell’attore nell’arte drammatica, poiché sulla scena la declamazione, da sola, non basta; come non è sufficiente, in pittura, la semplice imitazione. L’imitazione, nella sua limitatezza riproduttiva, è incarnata dalla maschera comica di Lui nel Nipote di Rameau, personaggio che ha talento solo per l’esecuzione delle opere altrui71. Se nel dialogo tra Lui e Me si intrecciano scrittura, musica e recitazione, negli scritti sulle arti figurative la correlazione tra la scena teatrale e quella pittorica è anch’essa centrale, mostrando come quella diderottiana sia un’estetica legata a una concezione di profonda unità delle arti (unità, non riduzione a un unico principio, come voleva l’abate Batteux). Lo si è visto a proposito del Salon 1767: l’arte è imitazione della natura, ma non rigorosa riproduzione, che condannerebbe alla debolezza dell’opera72. L’arte bella è risultato di una somma di qualità o caratteristi-

70.  M. Modica, L’estetica di Diderot. Teorie delle arti e del linguaggio nell’età dell’Encyclopédie, Antonio Pellicani, Roma 1997, p. 198. 71.  P. Quintili, La pensée critique de Diderot. Matérialisme, science et poésie à l’âge de de l’Encyclopédie 1742-1782, Honoré Champion, Paris 2001, p. 398. 72.  Cfr. J. Chouillet, La formation des idées esthétiques de Diderot 17451763, Armand Colin, Paris 1973, p. 403.

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che, perciò si tratta di intuire l’ideale, anzi, di scegliere una grande idea e di cogliere tutti quei rapporti segreti che ne sono alla base73, così deve procedere il grande artista per arrivare, come Chardin nel Salon 1763, a rendere sulla tela «la sostanza stessa degli oggetti»74. Osservatore attento delle esposizioni che avevano luogo nel Salon Carré del Louvre, Diderot contribuisce a far nascere l’estetica come critica75 e ci mostra che il bello deriva dall’unione dello stupore e del piacere di fronte all’opera, ma anche come questo dipenda da un’idea complessa, composizione che può – anzi dovrebbe – addivenire a una convergenza tra vero, buono e bello. Secondo Diderot la bellezza dipende dai rapporti, ma la norma sottostante a questi non è altro che la natura stessa76. Come emerge in modo nitido dai Salons, dove il filosofo arriva a immaginarsi personaggio dei dipinti che descrive, l’estetica diderottiana si fonda su uno dei principi fondamentali della sua antropologia materialista: l’uni-molteplicità del soggetto umano che si differenzia, proprio in questo, dall’animale. Tutta l’anima del cane è sulla punta del suo naso; e va sempre annusando; tutta l’anima dell’aquila è nel suo occhio e l’aquila va sempre guardando; tutta l’anima della talpa è nel suo orecchio, ed essa va sempre ascoltando. Ma non accade così per l’uomo. C’è tra i suoi sensi una tale armonia che nessuno di essi predomina abbastanza sugli altri per dare la legge al suo intelletto; è il suo intelletto, al contrario, ossia l’organo della sua ragione, a essere il più forte. È un giudice che non è né corrotto, né soggiogato da nessuno dei testimoni. Conserva tutta la sua autorità; e ne fa uso per perfezionarsi. Esso

73.  Cfr. ivi, pp. 570-575. 74.  D. Diderot, Salon 1763, in Id., I Salons con i Saggi, cit., pp. 150-151. 75.  M. Modica, L’estetica di Diderot, cit., p. 134. 76.  Cfr. C. Duflo, Diderot philosophe, Honoré Champion, Paris 2003, pp. 373-375.

51 combina ogni specie di idee o di sensazioni; perché non sente nulla con gran forza.77

Non mancano le eccezioni, il genio per esempio si caratterizza esattamente per la prevalenza dell’energia di un’unica fibra sulle altre che lo rende particolarmente abile a fare una sola cosa. Questa molteplicità psicologica si traduce anche in una continua mobilità del soggetto. Per questo Diderot, nella serie di metafore inanellate nel Sogno di d’Alembert, ne propone una particolarmente adatta a figurare questa uni-molteplicità in movimento del soggetto descritto come «un lungo grappolo di animaletti alati, aggrappati tutti gli uni agli altri con le zampe… questo grappolo è un essere, un individuo, un animale qualunque»78 e nel caso in cui una di queste api pungesse l’ape a cui è aggrappata, questa a sua volta pungerà la successiva, secondo una concatenazione che condurrà a sollecitare in tutto lo sciame tante sensazioni, quanti sono gli insetti di cui è composto. Così lo sciame si agita, si muove, muta la sua posizione e la sua forma «e chi non avesse mai visto un grappolo simile sistemarsi sarebbe tentato di prenderlo per un animale a cinque o seicento teste e a mille o milleduecento ali…»79. Il cervello, questo “formaggio morbido” che riempie il nostro cranio80 e

77.  D. Diderot, Confutazione dettagliata, cit., p. 705. 78. D. Diderot, Rêve de d’Alembert (1769); tr. it. di P. Quintili, Il sogno di d’Alembert, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 552-555. 79.  Ivi, pp. 554-555. Negli appunti che Diderot inizia a raccogliere proprio in concomitanza con la composizione del Paradosso sull’attore e noti con il titolo di Elementi di fisiologia, si legge, fuori di metafora la seguente descrizione: «Tutte le parti del corpo comunicano tra loro e con il cervello attraverso i nervi. I nervi formano, con il cervello, un tutto simile al bulbo e alle sue radici filamentose. Non c’è forse neanche un punto dell’animale che non sia raggiunto da qualcuno di questi filetti» (D. Diderot, Éléments de Physiologie [1769-1784]; tr. it. di P. Quintili, Elementi di fisiologia, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 1138-1139). 80.  D. Diderot, Salon 1767, cit., pp. 724-725.

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riceve le sensazioni dai nervi81 è, dal punto di vista fisiologico, la sede di elaborazione del giudizio, ma essendo strutturato in modo simile a un gambero82, cioè diramandosi a partire da un fascio centrale, raccoglie dai nervi del sistema nervoso sempre una molteplicità di sensazioni e, dunque, di idee, giudizi, sogni, ecc. Come un clavicembalo sensibile siamo strumenti composti da una pluralità di corde, complessità che può raggiungere forme esasperate, come nel caso del nipote di Rameau, personaggio a tal punto originale e bizzarro da essere costantemente dissimile da se stesso. Rameau è solo la versione radicalizzata di ciascuno di noi e ci mostra quella caratteristica che, come si è detto, secondo Diderot ci permette di godere dell’arte drammatica. Solo un io costitutivamente molteplice, infatti, può immedesimarsi in un personaggio e restare al contempo se stesso83: Rameau e l’attore insensibile del Paradosso sono due diverse incarnazioni di Proteo. Un io molteplice e diveniente in un universo altrettanto composto e mutevole impongono allo studioso della natura di farsene interprete, ricomporre le numerose parti tra loro connesse, cercando un modello ideale che possa costituirne la forma; alla stessa maniera «l’arte teatrale è solo un’interpretazione dei ruoli (o parti) che l’uomo recita sulla scena della vita, eseguita per calcolo, con “l’occhio freddo e privo di sensibilità” dell’attore-scienziato»84. Come si è visto, il mondo naturale e quello sociale vengono concepiti da Diderot in modo unitario, si studia il secondo a partire dal primo, non considerandolo come qualcosa di separato o retto da principi diversi. Per questo la natura costituisce la norma di riferimento anche quando si tratta di politica o di etica. Possiamo dire, quindi, che la tesi del Paradosso risulta coerente e 81.  Cfr. D. Diderot, Il sogno di d’Alembert, cit., pp. 1178-1179. 82.  Cfr. ivi, pp. 1136-1137. 83.  Cfr. C. Duflo, Diderot philosophe, cit., p. 261. 84.  P. Quintili, La pensée critique de Diderot, cit., p. 391.

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pienamente dotata di senso solo alla luce della filosofia diderottiana considerata complessivamente. Chi imita, anzi, attingendo all’intera sfera semantica del termine, chi interpreta la natura, segue lo stesso metodo dell’attore “freddo”: osservazione continua dei fenomeni naturali (inclusi quelli sociali), dei loro rapporti, delle loro forme: un costante lavoro di studio e accumulazione di elementi: I grandi poeti, i grandi attori e forse, in generale, tutti i grandi imitatori della natura, chiunque essi siano, dotati di una bella immaginazione, di un grande giudizio, di un tatto fine, di un gusto molto certo, sono gli esseri meno sensibili. Sono egualmente adatti a troppe cose, sono troppo occupati a guardare, a conoscere e a imitare, per essere profondamente impressionati dentro di sé. Lo vedo continuamente con il taccuino sulle ginocchia e la matita in mano. Noi sentiamo noi stessi; loro, osservano, studiano e dipingono.85

Da questo deriva necessariamente la conclusione per cui «la sensibilità non è la qualità di un grande genio» e come potrebbe esserlo? Se lo fosse egli sarebbe travolto dall’emozione, dalla sensazione, dalla passione, senza saperne trarre frutto. Non molto diversa era la descrizione del lavoro svolto dal filosofo della natura, che non è sicuramente caratterizzato dalla sua sensibilità, ma opera servendosi di tre mezzi principali: l’osservazione della natura, la riflessione e l’esperienza. L’osservazione raccoglie i fatti, la riflessione li combina, l’esperienza verifica il risultato della combinazione. Bisogna che l’osservazione della natura sia assidua, che la riflessione sia profonda, e che l’esperienza sia esatta. Si vedono raramente questi mezzi riuniti insieme. Anche i geni creatori non sono comuni.86 85.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 82. 86.  D. Diderot, Pensées sur l’interprétation de la nature (1753-1754); tr. it. di V. Sperotto, Pensieri sull’interpretazione della natura, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., § XV, p. 417.

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Probabilmente ispirato al modo di procedere di David Garrick87, il metodo di preparazione cui deve ricorrere un grande attore viene descritto da Diderot similmente a quello dell’interprete della natura e permette di spiegare come un attore possa essere “vero” a teatro anche se sulla scena niente è realmente come in natura, in quanto deve rispondere a una tradizione e a un sistema di convenzioni88. Sdoppiando se stesso e creando un modello (che garantisce la costanza) l’attore o l’attrice è in grado di interpretare il proprio personaggio in modo uniforme, una replica dopo l’altra. Se, al contrario, l’attore provasse le stesse emozioni, sensazioni e passioni del ruolo interpretato, non solo scenderebbe dal palco spossato, ma la recitazione dipenderebbe dalla sua diversa disposizione quotidiana. Diderot porta vari esempi, tratti dalla sua esperienza teatrale, per dimostrare la sua tesi: non solo il già citato Garrick, ma anche Mademoiselle Clairon (pseudonimo di Claire-Hippolyte-Josèphe Léris de Latude), Mademoiselle Duclos, Quinault Dufresne, dimostrando così che la sua tesi non è puramente un’affermazione frutto della riflessione teorica, ma discende essa stessa dall’osservazione e dall’esperienza pratica. La necessaria “freddezza” dell’attore, utile per avvicinarsi al­ l’interpretazione perfetta, rende l’attore una specie di burattino, simile a quei «bambini che, durante la notte, imitano gli spettri nei cimiteri, elevando al di sopra delle loro teste un

87.  David Garrick era un famoso attore inglese che Diderot aveva conosciuto durante il suo soggiorno parigino nel 1765, poiché frequentava sia il salotto di d’Holbach, sia quello di Madame Helvétius. 88.  D. Diderot, Observations sur une brochure intitulée: Garrick, ou les Acteurs anglais. Ouvrage contenant des réflexions sur l’art dramatique, sur l’art de la représentation et le jeu des acteurs. Avec des notes historiques et critiques sur les différents théâtres de Londres et de Paris. Traduit de l’anglais, in D. Diderot, DPV, Vol. XX, p. 27.

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grande drappo bianco infilato in cima a una pertica, facendo uscire da sotto quel catafalco una voce lugubre che spaventa i passanti»89. Diderot ne fa quasi un “esperimento teorico”, oggetto di un’interrogazione filosofica sulla natura del soggetto, sulla sua sensibilità, sul controllo e la padronanza di sé90, ma anche sulla sua stessa coscienza. La capacità di assumere mimeticamente e proteicamente l’identità dei personaggi interpretati da parte dei grandi attori li rende, infatti, come dei burattini meravigliosi «di cui il poeta tiene il filo e a cui indica, in ciascuna riga, la vera forma che deve assumere»91. Il lettore contemporaneo di Bergson rischia di essere tratto in inganno dalla metafora, l’automatismo, fonte e fondamento del comico per quest’ultimo92, è invece una caratteristica fondamentale dell’essere umano per Diderot. L’essere umano come automa, infatti, trova ampio spazio nelle sue riflessioni; già nella Lettera sui sordi e muti il filosofo aveva ritratto l’uomo-automa come un orologio ambulante e la metafora è presente anche in un’opera tarda e incompiuta, gli Elementi di fisiologia, dove viene descritto un geometra-automa. L’automa di Diderot va interpretato come agente determinato nelle proprie azioni dalla sua stessa organizzazione e la cui volontà nasce dal desiderio: lungi dall’essere stato libero, non ha prodotto neanche un solo atto espresso della sua volontà: ha pensato, ha sentito, ma non ha agito più liberamente di un corpo inerte, di un automa di legno che avesse agito, eseguendo le stesse cose che ha eseguito lui.93

89.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 81. 90.  Cfr. M. Bertolini, Teorie dell’attore nella Francia del Settecento, cit., p. 107. 91.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 119. 92.  Cfr. H. Bergson, Le rire. Essai sur la signification du comique; tr. it. di F. Sossi, Il riso. Saggio sul significato del comico, SE, Milano 2008. 93.  D. Diderot, Elementi di fisiologia, cit., pp. 1202-1203.

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Si tratta allora per l’attore o l’attrice di procedere, dopo l’osservazione e la costruzione del modello ideale, di provare e riprovare la parte – Diderot mostra qui tutta la sua consapevolezza del lavoro artistico svolto dagli attori – finché si è stabilito «un equilibrio tra i diversi talenti degli attori, in modo che ne risulti un’azione generale che sia unitaria»94, ma soprattutto perché, sfiniti e infiacchiti dalle repliche, «i progressi sono sorprendenti, ciascuno si identifica con il suo personaggio»95, il “grande manichino” del personaggio a quel punto “si fissa su di loro” come fa la Clairon che sdoppia se stessa e riesce a «giudicarsi e giudicare le impressioni che susciterà»96 interpretando la grande Agrippina. L’attore o l’attrice sono sdoppiati: da un lato sono freddi e insensibili, dall’altro trasmettono al pubblico tutte le emozioni e le passioni attraversate dal loro personaggio, illudendo perfettamente la platea degli spettatori grazie alla naturalezza dei gesti così spesso ripetuti, assimilati, gestiti in relazione ai tempi della scena e del testo, da offrire un effetto di spontaneità. Tale effetto sarebbe impossibile se, cercando di rappresentare la gioia, la collera, il dolore, l’amore o altri stati d’animo, l’attore o l’attrice li vivesse in prima persona, poiché a essi corrispondono degli automatismi quali l’espressione del viso, il tono della voce, la modalità gestuale, che influirebbero inevitabilmente sul modello del personaggio messo in scena, rendendolo meno verosimile. Il gesto naturale, spontaneo a teatro risulta povero, debole o addirittura ridicolo. La sensibilità naturale, sostiene il Primo interlocutore del Paradosso, può forse bastare per raccontare un episodio commovente agli amici, suscitando in loro qualche emozione, certo non è sufficiente per creare l’illusione dell’azione scenica, che presuppone invece una meditata costruzione. 94.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 92. 95.  Infra, p. 134. 96.  Infra, pp. 80-81.

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4. L’attore burattino e lo spettatore dalla lacrima facile: la soluzione del paradosso? Le capacità pantomimiche di Lui nel Nipote di Rameau, avrebbero dovuto garantirgli un costante successo sociale. In società, infatti, si interpreta un ruolo come a teatro e anche qui «il rapporto è di mille circostanze contro una in cui la sensibilità è altrettanto nociva per la società quanto sulla scena»97. In società la pantomima si trasforma da capacità espressiva a «sofisticata arte di mentire» conquistando un ruolo «tanto più falso quanto più lo sforzo della mimica ha avuto il suo effetto»98. L’uomo sensibile, afferma Diderot nel Paradosso, «si abbandona troppo alla mercé del suo diaframma per essere un grande re, un grande politico, un grande magistrato, un uomo giusto, un profondo osservatore, e di conseguenza un imitatore sublime della natura»99. È ciò che accade a Lui quando perde tutto: «per aver avuto una volta il senso comune», dice il nipote del famoso musicista, «una sola volta in vita mia […] di aver avuto un po’ di gusto, un po’ di spirito, un po’ di ragione»100, insomma di esser venuto meno al suo ruolo di «folle di Bertin», vale a dire buffone di un protettore che gli consentiva di essere nutrito, vestito e alloggiato. Per far parte della «grande danza della terra», ovvero la pantomima dei pezzenti di una società fatta di privilegi, connotata dalla corruzione e in cui ciò che conta non è la funzione che si svolge, ma la ricchezza che si possiede, non è consentito uscire dal proprio ruolo, farsi cogliere di sorpresa dalla propria sensibilità101.

97.  Infra, p. 105. 98.  M. Mazzocut-Mis, Gesto e pantomima, cit., p. 23. 99.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 131. 100.  D. Diderot, Il nipote di Rameau, cit., pp. 2216-2217. 101.  Non si tratta qui di stabilire se il personaggio del nipote di Rameau (Lui) corrisponda alla figura del grande attore descritta nel Paradosso sul­

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Proprio in una società come quella dell’Ancien Régime nella sua ultima fase, in cui cominciano a emergere già alcuni tratti della nascente società capitalista, descritta magistralmente nel Nipote di Rameau occorre diffondere i lumi e, come si è visto, il più efficace mezzo di civilizzazione per gli illuministi è proprio il teatro. Voltaire esprimeva chiaramente questa convinzione in una lettera al marchese Francesco Albergati Capacelli in cui definiva la vera commedia come: l’arte di insegnare la virtù e la buona educazione nell’azione e nei dialoghi […]. È la più bella educazione che si possa dare alla gioventù, il più nobile abbandono del lavoro, la migliore istruzione per tutte le classi di cittadini: è quasi l’unica maniera di riunire gli uomini per renderli socievoli.102

È proprio quest’ultima la parola chiave, “socievolezza”: essa è il valore che gli illuministi, con la riforma del teatro e l’introduzione di un nuovo genere medio, il dramma borghese, intendono promuovere. Con questo si deve intendere il senso profondo della socievolezza, che non va interpretata meramente come educazione o insieme di buone maniere che favoriscono scambi sociali civili, bensì come la costruzione di

l’attore, com’è stato osservato infatti da J. Proust e poi da F. Salaün, Lui non è un attore di cui possiamo valutare la virtuosità, ma un personaggio fittizio inventato da Diderot. Piuttosto è importante mostrare in parallelo come funzioni il meccanismo della simulazione sulla scena e in società: in entrambi i casi non gestire le proprie emozioni e passioni, lasciandole trapelare nell’interpretazione del proprio ruolo, sia causa di un insuccesso. Si veda: F. Salaün, De la tête aux pieds. Diderot et les gens de spectacle, in «Recherches sur Diderot et l’Encyclopédie», n. 47, 2012, pp. 25-42; J. Proust, De l’Encyclopédie au Neveu de Rameau, in Id. (a cura di), Recherches nouvelles sur quelques écrivains des Lumières, Droz, Genève 1972, pp. 335-340. 102.  Voltaire, lettera al marchese Francesco Albergati Capacelli, 23 dicembre 1760, in P. Frantz - S. Marchand (a cura di), Le théâtre français du XVIIIe siècle, cit., pp. 275-276.

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una situazione in cui riunire uomini e donne e, nel trasmettere loro i valori della morale, educarli alla vita in comune. Il teatro è per gli illuministi come un rito civile che favorisce la socialità e la convivenza pacifica «alternativa al confitto, alla ferocia, alla violenza, in una parola alla barbarie»103. Si tratta allora di pensare, anzi ri-pensare, la relazione «tra la scena e la sala, tra il teatro come luogo sociale, e la sua inscrizione istituzionale in seno alla società»104. Il riferimento per Diderot è il teatro classico degli Antichi, ma pensato in modo nuovo per la società dei moderni, creando una dialettica tra la rappresentazione e il pubblico in cui lo spettatore è pensato innanzitutto come cittadino; come scriveva Habermas, infatti, «la sfera pubblica borghese può essere concepita in un primo momento come la sfera dei privati riuniti come pubblico»105. Così il dramma borghese, come si è detto, mette in scena fondamentalmente vicende relative alla sfera intima del piccolo nucleo familiare, perché la nuova classe emergente si reca a teatro non per assistere a una vuota rappresentazione, ma per condividere un’esperienza di rispecchiamento. Esperienza tanto più intensa, in quanto passa attraverso il piano della sensibilità, oggi diremmo dell’emotività: «non si va a teatro per veder piangere», ricorda Diderot nel Paradosso, «ma per sentire discorsi che ci strappano le lacrime»106: questo perché commuoversi e versare lacrime rientra, secondo il filosofo,

103.  M. Buffat, Théâtre et Lumières, ivi, p. 264. 104.  A. Ménil, Diderot et le drame. Théâtre et philosophie, PUF, Paris 1995, p. 10. 105.  J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Hermann Luchterhand Verlag, Neuwied 1962; tr. it. di A. Illuminati, F. Masini, W. Perretta, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 41. 106.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 146.

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tra i piaceri107 derivati dalla creazione artistica108. Le passioni simulate (le lacrime del cervello) degli attori suscitano le passioni autentiche degli spettatori (le lacrime del cuore o diaframmatiche)109, secondo un’attenta modulazione che deve sempre tener presente la necessità di un equilibrio e di una moderazione delle passioni, perché un loro disordine porterebbe al vizio e non all’auspicata virtù. Di certo non si tratta solo di far sgorgare delle lacrime: la commozione condivisa, si potrebbe dire in modo corale dalla sala, nei momenti più patetici – la morte del padre, la tenerezza di una moglie, la disperazione di una madre, ecc. – rende possibile una vera unità e condivisione tra i singoli110. Condivisione dell’emozione, del piacere dello spettacolo e dei valori morali messi in scena, concepita da Diderot come efficace a tal punto che persino l’uomo malvagio a teatro si ravvede momentaneamente. La distanza da Rousseau è palese, perché per il ginevrino «a teatro crediamo di ritrovarci uniti ed è là invece che ognuno si isola; è là che andiamo a dimenticare i nostri amici, i nostri vicini, il nostro prossimo, per interessarci a favole, per piangere sulla infelicità dei morti o per ridere a spese dei viventi»111. Se Diderot è convinto, con la maggior parte degli illuministi, che sia proprio attraverso l’emozione teatrale che si arriva a una forma di moralizzazione della società, al contrario per Rousseau «tutte le passioni sono sorelle […] e combatterle l’una

107.  Cfr. D. Diderot, De la poésie dramatique, cit., p. 331. 108.  Su questo si veda anche l’Éloge de Richardson (1762). 109.  Sulle lacrime nel pensiero settecentesco si veda M. Menin, La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade, il Mulino, Bologna 2019, in particolare riguardo a Diderot e al Paradosso sull’attore si vedano pp. 168-175. 110.  Su questi temi Cfr. A. Ménil, Diderot et le drame, cit., pp. 16-19. 111.  J.-J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, cit., p. 37.

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con l’altra è un mezzo per rendere il cuore sensibile a tutte»112. Solo la ragione riesce a moderare le passioni ed essa non fa alcun effetto a teatro, se non generare noia e disinteresse negli spettatori. In tutta la Lettera sugli spettacoli Rousseau dimostra che non è possibile trarre alcun beneficio, pubblico o privato, da un’arte fondata sulla dissimulazione, pur ammettendo che, in seno a una società già corrotta, il teatro non costituisce necessariamente un male. È stato suggerito113 che il Paradosso sia la replica di Diderot alla Lettera di Rousseau e sicuramente alcuni aspetti importanti rispondono al ginevrino. Come si è visto, la distanza è netta ed è noto che la questione degli spettacoli ha costituito un punto di divergenza e allontanamento tra i due (e più in generale tra Rousseau e gli illuministi). Il ginevrino tuttavia solleva alcuni temi cruciali che permettono di problematizzare il testo diderottiano. Rousseau, infatti, scrive la Lettera sugli spettacoli l’anno seguente alla pubblicazione dei Dialoghi sul figlio naturale e, seppure senza mai menzionarlo esplicitamente, Rousseau sembra rispondere puntualmente non solo a d’Alembert, ma anche a Diderot. In particolare, nei Dialoghi sul Figlio naturale, riguardo alla capacità di suscitare emozioni sincere e foriere di maggiore virtù, Diderot aveva fatto uscire il doppio di se stesso da teatro in uno stato d’animo tanto intristito dallo spettacolo da doversi convincere che quella tristezza poteva cessare, perché si trattava solo di finzione114. Al contrario, secondo Rousseau, tutto ciò che viene rappresentato a teatro non è prossimo, ma più lontano, risultando quindi inefficace su un piano morale. La differenza tra i due filosofi sta nel fatto che, mentre l’effetto provocato dal teatro viene

112.  Ivi, p. 40. 113.  P. Lacoue-Labarthe, Diderot, le paradoxe et la mimésis, cit., p. 101. 114.  Cfr. D. Diderot, Entretiens sur le Fils Naturel, cit., p. 83.

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giudicato da Rousseau sulla base dell’esistente (non riformabile), in Diderot vi è invece la proposta e il tentativo effettivo di rinnovare il dramma. Come il filosofo che si era messo a camminare per smentire la tesi dell’inesistenza del movimento di Zenone secondo cui non esiste il movimento115, Diderot dà prova della possibilità di riforma del teatro proponendo un modello che riprende i migliori e più utili elementi da quello degli Antichi: la struttura delle sale doveva essere adatta a una migliore gestione della scena, permettere di ospitare un maggior numero di spettatori e spettatrici, poiché solo una platea numerosa fa di uno spettacolo un vero momento di pubblica assemblea116. Nei Dialoghi sul figlio naturale, inoltre, egli sembra considerare problematica e piuttosto rara la possibilità di identificarsi con il personaggio malvagio: al filosofo sembra impossibile che di fronte a una scena terribile come quella del dramma di La Noue, in cui Maometto tiene il pugnale levato sul petto di Irene, qualcuno si possa immedesimare con il primo e non con la vittima117. Sembrerebbe allora che la questione della recitazione “calda” o “fredda” si possa risolvere vedendo in Diderot un’evoluzione: prima devono essere sensibili tanto l’attore, quanto lo spettatore, poi la sensibilità diviene prerogativa solo del secondo. Negli scritti della fine degli anni Cinquanta del Settecento, in cui sosteneva che l’attore doveva essere caldo si legge: «Attori, se siete di carne, se avete delle viscere, tutto andrà bene, senza che io mi immischi; e anche se mi immischiassi, tutto andrà male se siete di marmo o di legno»118, per poi cambiare idea, ribaltandola e ritenendo che solo l’attore o l’attrice “freddi”,

115.  L’esempio è di Diderot, si veda De la poésie dramatique, cit., p. 332. 116.  Cfr. ivi, p. 117. 117.  Cfr. ivi, p. 141. 118.  D. Diderot, De la poésie dramatique, cit., p. 418.

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padroni di sé, ridotti a puro burattino sono in grado di interpretare bene i loro ruoli e che, di conseguenza, coloro che facilmente si commuovono e si fanno trasportare dal sentimento saranno un ottimo pubblico, pronto a identificarsi solo con i personaggi virtuosi messi in scena. Eppure, leggendo con attenzione il testo, è proprio il Primo interlocutore, colui che sostiene la tesi dell’insensibilità dell’attore, a parlare in prima persona della sua goffaggine, del suo impaccio e di quanto fosse ridicolo in amore, perché trasportato dal sentimento. Non solo, ma quando afferma che l’uomo sensibile è troppo in balìa del suo diaframma, occorre arrivare fino in fondo alla frase e leggerla in relazione alla precedente: Del resto, quando ho affermato che la sensibilità era la caratteristica della bontà d’animo e della mediocrità del genio, ho fatto un’ammissione che non è molto ordinaria, perché se la Natura ha plasmato un’anima sensibile, è proprio la mia. L’uomo sensibile si abbandona troppo alla mercé del suo diaframma per essere un grande re, un grande politico, un grande magistrato, un uomo giusto, un profondo osservatore, e di conseguenza un imitatore sublime della natura, a meno che non possa dimenticare se stesso, distrarsi da se stesso e che, con l’aiuto di un’intensa immaginazione e una solida memoria non sappia mantenere la sua attenzione fissa su dei simulacri che gli servono da modelli; ma allora non è più lui ad agire, è lo spirito di un altro che lo domina.119

Nel Paradosso troviamo un riferimento alla sensibilità delle donne, spesso giustamente accostato al saggio diderottiano dedicato a questo tema120. Le donne, per la loro fisiologia, secondo Diderot sono più sensibili degli uomini, ma questo le rende meno adatte all’imitazione. Ciò però non rende loro

119.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, pp. 131-132; corsivi miei. 120.  D. Diderot, Sur les femmes (1772); tr. it. di E. Alfano, Sulle donne, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 490-523.

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impossibile la simulazione, anzi, gli stessi esempi di grandi attrici come la Clairon e la Duclos riportati nel dialogo lo dimostrano. Le donne, pur essendo più sensibili, riescono a essere grandi nella recitazione perché, come si è ricordato, il soggetto diderottiano è molteplice (comunque si configuri la sua sensibilità) e si tratta dunque, per chi è naturalmente più sensibile, di trovare il modo per giungere a quello sdoppiamento necessario all’arte. Nel passo appena citato il filosofo richiama l’uso dell’immaginazione, della memoria e di una prolungata attenzione che fa da parallelo alle prove estenuanti degli attori: l’uomo sensibile o la donna sensibile arrivano a essere grandi nell’imitazione quando riescono a distogliere se stessi dal trasporto emotivo. Non vuol dire che non sentono più, ma che riescono a sdoppiarsi, a dominarsi per poi, inevitabilmente, tornare alla loro sensibilità. Nei Salons e nel Sogno di d’Alembert Diderot aveva mostrato come l’ispirazione sorgesse non tanto dal “furore” delirante, quanto da uno stato di ispirazione, come le intuizioni del genio, cioè, siano frutto di una particolare disposizione d’animo, del risultato di quello che oggi noi chiameremmo il lavoro dell’inconscio. Del resto nell’articolo dell’Encyclopédie dedicato ai teosofi (Les Théosophes a cui rinviava l’articolo Philosophie socratique) Diderot riconosceva il ruolo del daimon socratico e teosofico, dandone una spiegazione materialista: Per quanto fuggitivi, momentanei e sottili siano questi fenomeni, gli uomini dotati di una grande sensibilità, che è colpita da tutto, e cui nulla sfugge, ne sono affetti, ma spesso in un momento in cui non vi attribuiscono alcuna importanza. Ricevono numerose impressioni come queste. La memoria dei fenomeni passa, ma quella dell’impressione si risveglierà all’occorrenza, allora affermeranno che accadrà un certo avvenimento, sembrerà loro che sia una voce segreta che parla in fondo al loro cuore, e che li avverte. Si crederanno ispirati,

65 e lo sono in effetti, non da qualche potenza soprannaturale e divina, ma da una prudenza particolare e straordinaria.121

Quando la passione prende il sopravvento, trascinando il soggetto nel delirio o nel deliquio, naturalmente non è possibile nessuno sdoppiamento; la creazione del genio però si ferma un passo prima, lascia corso alla sensibilità, anzi esiste per suo merito, ma arriva un momento in cui è necessario il controllo e la disciplina di sé, che avviene grazie alla dissociazione del soggetto, come si diceva a proposito della Clairion nei panni di Agrippina. Potremmo dire, anzi, che è tanto più sofisticato il modello ideale a partire dal quale plasmare la creazione (sia un’opera materiale, o un’interpretazione come la recitazione), quanto più il soggetto è sensibile e riesce a cogliere i fenomeni più difficili da percepire. Si vede anche, però, che l’attore o l’attrice, o in generale l’artista, mettono in campo una mimesis diversa dalla copia passiva criticata da Platone e dalla tradizione che si rifà al suo pensiero, una mimesis che «proprio nella misura in cui presuppone un soggetto assente a se stesso, senza proprietà, senza qualità, un soggetto senza soggetto, una pura persona, è per definizione attiva»122. Del resto, già nella Poesia drammatica, Diderot spiegava che il filosofo è caratterizzato dall’uso della ragione, mentre il poeta dall’immaginazione, ma entrambi devono essere «conseguenti o mostrare la concatenazione necessaria dei fenomeni»123. Non c’è fondamentale differenza tra i due, se non che il primo ragiona sui fatti e il

121.  D. Diderot, art. Théosophes, in D. Diderot - J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie, cit., vol. XVI, 1765, p. 253b. 122. P. Lacoue-Labarthe, Diderot, le paradoxe et la mimésis, cit., pp. 99-100. 123.  D. Diderot, De la poésie dramatique, cit., p. 361. Sul ruolo della ragione nella riflessione teatrale diderottiana cfr. E. De Luca, La raison d’Ésope. Théorie du jeu entre François Riccoboni et Diderot, in R. Bret-­Vitoz - S. Marchand - M. Delon (dir.), Les Lumières du théâtre. Avec Pierre Frantz, Garnier, Paris 2022.

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secondo su delle ipotesi, e la loro prossimità è dimostrata dal fatto che, per quanto sia essenziale il dono che ha, «il poeta non può abbandonarsi a tutta la foga della sua immaginazione, perché ci sono dei limiti che gli sono prescritti»124. Accanto a questo, si può aggiungere qualche considerazione sugli spettatori e sulle spettatrici, fermarsi infatti all’idea che l’unico ruolo della platea sia quello di commuoversi, perché il primo interlocutore del Paradosso invita a riempire «la sala degli spettacoli di questi personaggi dalla lacrima facile»125 o, ancora, perché narra gli episodi in cui la Duclos e Quinault hanno rimproverato il pubblico per una reazione inappropriata, significherebbe non cogliere appieno il pensiero diderottiano. Alla platea viene offerta una posizione di onniscienza panottica sugli eventi che si svolgono nel dramma e questo permette loro – a differenza di ciò che accade ai personaggi di finzione e a ciascuno di noi nella propria vita – la possibilità di raccogliere tutti gli elementi che mostrano le necessarie connessioni tra eventi, la concatenazione dei fatti. Lo spettatore ha la possibilità di farsi osservatore a tal punto che quando Mme Riccoboni aveva sottolineato la disattenzione del pubblico rispetto ai particolari, il filosofo aveva risposto che la concentrazione forse può mancare nell’istante in cui si alza il sipario, ma «quando regna il silenzio tra i personaggi», gli occhi degli spettatori seguono i movimenti sulla scena senza perderne alcun dettaglio126 e se anche il pubblico fosse meno concentrato, sarebbe compito del drammaturgo educare il popolo e a una maggiore attenzione. È questa l’importanza della quarta parete, ovvero della distanza tra scena e platea: fare in

124.  D. Diderot, De la poésie dramatique, cit., p. 361. 125.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, p. 83. 126.  Cfr. D. Diderot, Réponse de M. Diderot à la lettre précédente, in DPV, vol. X, cit., p. 436.

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modo che lo spettatore e gli attori siano su due piani diversi e il fatto che il pubblico debba essere istruito di tutto, è un modo per suscitare il suo interesse, dall’inizio alla fine del dramma. Non si tratta di eccitare la curiosità, ma di commuovere, turbare, agitare l’animo del popolo, composto di persone virtuose e malvage. Il variegato insieme degli spettatori, seguendo l’interdipendenza degli eventi, grazie a un effetto d’illusione totale, sarà colpito dalla virtù, contrariato dall’ingiustizia di cui comprende le ragioni, ricevendo nello stesso momento un’impressione che agisce su ciascuno nel tempo. Allora, il Paradosso sull’attore può essere letto come un testo dialettico, senza la pretesa che la questione si risolva a favore di una o dell’altra tesi, ma cercando una sintesi che conservi in sé la tensione. Al contempo, non si tratta di attribuire al testo una posizione contraria da quella che emerge, ma comprendere che la portata della verità espressa dalla tesi paradossale dell’insensibilità del buon attore, potrebbe ben essere ridotta qualora l’opera venisse «considerata come una forma intellettualizzata di interpretazione [jeu], essendo il dialogo il vettore privilegiato di questa seduzione spirituale»127. Non sorge il dubbio, al lettore che si sofferma sulla conclusione, che Diderot stesso possa avere, come un grande attore, eccellentemente simulato? Non si dice nel mondo che un uomo è un grande attore? Non si intende con questo che sente, ma al contrario che è eccellente nel simulare, anche se non sente nulla: ruolo ben più difficile di quello dell’attore, perché quest’uomo deve in aggiunta trovare il discorso e due funzioni da svolgere, quella del poeta e quella dell’attore. Il poeta sulla scena può essere più abile dell’attore nel mondo; ma crediamo che sulla scena l’attore sia più profondo, sia più abile a fingere la gioia, la tri-

127.  S. Caouche, Formes du théâtral diderotien, cit., p. 111.

68 stezza, la sensibilità l’ammirazione, l’odio, la tenerezza di un vecchio cortigiano?128

Qui nell’interrogarci non possiamo non tornare alla simulazione messa in scena nel Nipote di Rameau, opera dalla conclusione altrettanto complessa («Riderà bene chi riderà ultimo»). Emerge nuovamente, in queste righe finali del Paradosso sul­ l’attore, il paragone tra l’attore e il cortigiano, tra la recitazione di un personaggio sul palco e l’interpretazione di un ruolo in società, ma non era stato Rousseau ad affermare che il talento del commediante è l’arte di dissimulare? Diderot ha manipolato i suoi lettori con uno splendido artificio retorico? Ci sono solidi elementi per sostenere anche questa tesi interpretativa129, ma ciò che più conta è che, offrendo il testo al lettore e alla lettrice contemporanei li si metta in guardia da un approccio superficiale, distratto o semplificato di un’opera che non smette di sedurci e di sollecitarci anche a distanza di due secoli e mezzo dalla sua composizione. Come si è ricordato all’inizio, è proprio Diderot a scrivere che i paradossi: «se non mi fanno cambiare parere, quasi sempre temperano la temerarietà delle mie asserzioni»130. Sono le tensioni interne al testo e le questioni che sorgono nella sua relazione al corpus di opere del filosofo, a renderlo ancora oggi fruttuoso, ricordando che Diderot, oltre che filosofo e aspirante attore, è stato anche editore, drammaturgo, artista, critico d’arte e matematico. In questa multiforme pluralità risiede la fecondità della sua opera.

128.  D. Diderot, Paradosso sull’attore, infra, pp. 150-151. 129.  Si veda l’articolo di S. Caouche, Formes du théâtral diderotien, cit. 130.  D. Diderot, Confutazione dettagliata, cit., pp. 756-757.

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Nota editoriale

La prima edizione del Paradoxe sur le comédien fu pubblicata nel 1830 da parte dell’editore Sautelet sulla base di un manoscritto conservato a San Pietroburgo, trascritto da Jeudy-­ Dugour. Il medesimo testo è stato utilizzato per l’edizione a cura di Assézat e Tourneux e di molte edizioni posteriori finché, nel 1902, Ernest Dupuy pubblicò una nuova versione del Paradoxe sur le comédien, basata su una copia manoscritta da parte di A. Naigeon, il fedele allievo di Diderot. Questa copia, acquistata presso un bouquiniste del lungosenna, tuttavia, risultava pesantemente rimaneggiata (correzioni, aggiunte), tanto da portare Dupuy a ipotizzare che la paternità non fosse di Diderot, ma di Naigeon stesso. La tesi si basava sull’idea che l’unica parte da attribuire a Diderot fosse quella corrispondente al testo dell’articolo sulle Observations sur une brochure intitulée: Garrick, ou les Acteurs anglais composto nel 1769 e pubblicato nel 1770 nella «Correspondance littéraire» diretta da Grimm. Quest’ultimo testo è effettivamente la base a partire dalla quale il filosofo ha elaborato il suo Paradoxe, ma oggi disponiamo di una documentazione sufficiente a garantire l’autenticità dell’attribuzione a Diderot, che probabilmente ha portato a termine la rielaborazione del testo nel 1773. È comunque importante ricordare che, nel 1769, Grimm aveva

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chiesto a Diderot una recensione del testo intitolato Garrick, ou les Acteurs anglais, ovvero la traduzione da parte di Michel Sticotti del saggio inglese The Actor pubblicato nel 1751. Si ricorda che quest’ultimo, tuttavia, era a sua volta un adattamento del Comédien di Rémond de Sainte-Albine (1747). La recensione è dunque la prima versione del testo, cui segue quella portata a termine nel 1773. Possediamo, inoltre, un manoscritto databile a un periodo successivo al giugno del 1777, che presenta numerose interpolazioni (tra cui il riferimento al successo napoletano del Padre di famiglia) e una quarta versione, molto simile alla terza, di cui il manoscritto di San Pietroburgo è una copia. La presente traduzione si basa sul testo stabilito da Jane Marsh Dieckman per l’edizione critica delle opere di Denis Diderot, Œuvres complètes, vol. XX, Critique II, 1995, pubblicata presso l’editore Hermann (Paris), diretta da H. Dieckmann, J. Proust e J. Varloot.

Paradosso sull’attore

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Primo interlocutore: Non parliamone più. Secondo interlocutore: Perché? Il Primo: È l’opera del vostro amico1. Il secondo: Che importa? Il Primo: Importa molto. A che scopo mettervi nella condizione di disprezzare il suo talento o il mio giudizio, e di sminui­ re la buona opinione che avete di lui o quella che avete di me? Il secondo: Questo non succederà e anche se succedesse, la mia amicizia per entrambi si fonda su delle qualità più essenziali e non ne soffrirebbe. Il Primo: Può darsi. Il secondo: Ne sono certo. Sapete a chi somigliate in questo momento? A un autore di mia conoscenza che supplicava in ginocchio una donna a cui era affezionato, di non assistere alla prima rappresentazione di una sua pièce.

1.  Riferimento all’opera di Antonio Sticotti Garrick, ou les Acteurs anglais, su questo si veda la Nota Editoriale, supra, pp. 69-70.

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Il Primo: Il vostro autore era modesto e prudente. Il secondo: Temeva che il tenero sentimento che ella nutriva nei suoi confronti dipendesse solo dall’apprezzamento del suo merito letterario. Il Primo: È possibile. Il secondo: Che una caduta pubblica lo avrebbe svilito un po’ agli occhi della sua amante. Il Primo: Anche se meno stimato, non fu meno amato. E questo vi sembra ridicolo? Il secondo: Così è stato giudicato. La loggia fu riservata, ebbe un grandissimo successo, e Dio sa quanto fu abbracciato, festeggiato e accarezzato. Il Primo: Lo sarebbe stato molto di più se la pièce fosse stata fischiata. Il secondo: Ne sono certo. Il Primo: E continuo a restare della mia opinione. Il secondo: Continuate, ve lo concedo, ma pensate che non sono una donna e che occorre, gentilmente, che vi spieghiate. Il Primo: Assolutamente. Il secondo: Assolutamente. Il Primo: Per me sarebbe più facile tacere che mascherare il mio pensiero. Il secondo: Ci credo. Il Primo: Sarò severo. Il secondo: È ciò che il mio amico vorrebbe da voi. Il Primo: Ebbene, dato che bisogna dirvelo, la sua opera è scritta con uno stile tormentato, oscuro, involuto, ampolloso

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e pieno di idee ordinarie. Alla fine di questa lettura un grande attore [comédien], non sarà migliore, e un attore2 [acteur] dozzinale non sarà meno mediocre. È la natura a conferire le qualità personali, la figura, la voce, il giudizio, la finezza. Sono lo studio dei grandi modelli, la conoscenza del cuore umano, la frequentazione del mondo, il lavoro assiduo, l’esperienza e l’abitudine al teatro, a perfezionare il dono di natura. L’attore imitatore può arrivare al punto di rendere tutto in modo passabile, cioè in modo che non ci sia nulla né da lodare, né da biasimare sulla sua recitazione. Il secondo: Oppure tutto da disapprovare. Il Primo: Come volete. L’attore che recita d’istinto [comédien de nature] è spesso detestabile, talvolta eccellente. Di qualunque genere sia, diffidate di una mediocrità costante. Se un debuttante viene giudicato con un po’ di rigore, è facile presentire i suoi successi futuri. I fischi stroncano solo gli inetti. E la natura come potrebbe formare un grande attore [comédien] senza l’arte, dato che nulla accade sulla scena esattamente come in natura, e che i poemi drammatici sono tutti composti secondo un certo sistema di principi? E come potrebbe un ruolo essere recitato nella stessa maniera da due attori [acteurs] diversi, dato che nello scrittore più chiaro, più preciso, più energico le parole non sono e non possono essere che dei segni approssimativi di un pensiero, di un sentimento, di un’idea, segni di cui il movimento, il gesto, il tono, il viso, gli occhi, la circostanza data completano il valore? Se avete compreso queste parole:

2.  Con il termine comédien si intendeva chi era in grado di interpretare sia ruoli tragici, sia ruoli comici, mentre l’acteur interpretava un unico tipo di personaggi. Per ulteriori considerazioni sulla differenza si rinvia al saggio introduttivo Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale?, supra, pp. 24 ss.

76 Che cosa fa, lì, la vostra mano? Sento il vostro vestito, la stoffa è morbida3.

Che cosa sapete? Nulla. Pensate bene a quello che segue, e immaginate quanto è frequente, e facile per due interlocutori, che si servono delle stesse espressioni, avere pensieri e dire cose completamente diverse. L’esempio che sto per farvi è una specie di prodigio: è l’opera stessa del vostro amico. Chiedete a un attore [comédien] francese cosa ne pensa, e ammetterà che tutto è vero. Ponete la stessa domanda a un attore [comédien] inglese, e vi giurerà, by God, che non va cambiata nemmeno una frase, e che è il puro vangelo della scena. Tuttavia, non c’è quasi nulla in comune tra la maniera di scrivere la commedia e la tragedia in Inghilterra e quella con cui questi poemi si scrivono in Francia, giacché, secondo lo stesso Garrick4, colui che sa rendere perfettamente una scena di Shakespeare è all’oscuro persino dell’accento con cui si declama una scena di Racine, perché avviluppata dai versi armoniosi di quest’ultimo come da altrettanti serpenti le cui spire gli stringono la testa, i piedi, le mani, le gambe e le braccia, la sua azione perderebbe tutta la libertà. Ne consegue, evidentemente, che l’attore [acteur] francese e l’attore [acteur] inglese, che concordano unanimemente sulla verità dei principi del vostro autore, non si capiscono e che nella lingua tecnica del teatro c’è una flessibilità, un’indeterminatezza davvero considerevole se degli uomini assennati, di opinioni diametralmente opposte, credono di riconoscervi il lume dell’evidenza. E restate più che

3.  Molière, Tartuffe (1664); tr. it., Il Tartufo, in Molière, Commedie, a cura di di L. Lunari, BUR, Milano 2006, Atto III, 3, p. 164: «Elmira: Che cosa fa, lì, la vostra mano? – Il Tartufo: Sento il vostro vestito; che stoffa morbida! – Elmira: Ah, per piacere, smettetela: soffro molto il solletico». 4.  David Garrick (1717-1779), forse il più noto attore del XVIII secolo che Diderot aveva avuto modo di incontrare durante un soggiorno di Garrick in Francia.

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mai attaccati alla vostra massima: non spiegate affatto, se vi volete comprendere. Il secondo: Pensate che in ogni opera, e soprattutto in questa, ci siano due sensi distinti, entrambi racchiusi sotto gli stessi segni, uno a Londra, l’altro a Parigi? Il Primo: E che questi segni presentano così nettamente i due sensi che il vostro stesso amico si è sbagliato, poiché associando nomi di attori [comédiens] inglesi a nomi di attori [comédiens] francesi, applicando loro i medesimi precetti, e accordando loro lo stesso biasimo e gli stessi elogi, ha probabilmente immaginato che ciò che diceva degli uni fosse egualmente valido per gli altri. Il secondo: Ma a questo proposito nessun altro autore avrebbe fatto altrettanti controsensi. Il Primo: A malincuore devo ammettere che si serve delle stesse parole esponendo una cosa al crocevia de Bussy5 e una diversa a Drury-Lane6. Del resto, posso avere torto. Il punto importante, però, su cui il vostro autore ed io abbiamo opinioni completamente opposte sono le qualità fondamentali di un grande attore [comédien]. Esigo che abbia molto giudizio; ho bisogno che in quest’uomo ci sia uno spettatore freddo e tranquillo, di conseguenza esigo da lui acume e nessuna sensibilità; l’arte di imitare tutto o, che è lo stesso, la medesima attitudine a ogni sorta di caratteri e di ruoli. Il secondo: Nessuna sensibilità! Il Primo: Nessuna. Non ho ancora mostrato bene la connessione tra le mie ragioni e mi permetterete di esporvele come

5.  Luogo di Parigi in cui era situata la Comédie Française dal 1689 al 1770. 6.  Riferimento a uno dei principali teatri londinesi in cui Garrick ha recitato fino al 1776, quando si ritirò dalle scene.

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mi verranno, seguendo il disordine presente anche nell’opera del vostro amico. Se l’attore [comédien] fosse sensibile, francamente, gli sarebbe permesso recitare due volte di seguito uno stesso ruolo con lo stesso calore e lo stesso successo? Molto ardente alla prima rappresentazione, sarebbe esausto e freddo come il marmo alla terza. Mentre se è un imitatore attento e discepolo accorto della natura, la prima volta che si presenterà in scena con il nome di Augusto, di Cinna7, di Orosmane, di Agamennone, di Maometto, copiando rigorosamente se stesso o i suoi studi e osservando di continuo le nostre sensazioni, la sua recitazione, lungi dall’indebolirsi, si fortificherà grazie alle nuove riflessioni che avrà raccolto, si esalterà o si tempererà, e voi ne sarete sempre più soddisfatto. Se è se stesso quando recita, come potrà smettere di essere se stesso? Se vuole smettere di essere se stesso, come potrà cogliere il punto esatto in cui occorre porsi e fermarsi? Ciò che rinforza la mia opinione, è la volubilità [inégalité]8 degli attori che recitano d’istinto [jouer d’âme]. Non aspettatevi da parte loro alcuna unità; la loro recitazione è alternativamente intensa e debole, calda e fredda, piatta e sublime. Deluderanno domani là dove sono stati eccellenti oggi; in compen-

7.  Nell’ordine i personaggi elencati si riferiscono a: Augusto e Cinna a Cinna ou la clémence d’Auguste (1642) di Corneille, Orosmane a Zaïre (1732) di Voltaire, Agamennone all’Iphigénie (1674) di Racine; Maometto al Mahomet ou le fanatisme (1741) di Voltaire. 8.  Diderot era l’autore dell’art. Inégal dell’Encyclopédie: «che è più grande o più piccolo di un altro; si riferisce al fisico o alla morale, delle cose e delle persone […] ha un carattere volubile [inégal]; il commercio con persone volubili [inégales] è molto è molto scomodo; esse vi riconducono continuamente a voi stessi, e ci si tormenta nel cercare in sé il motivo del cambiamento che si percepisce in esse» (D. Diderot - J. Le Rond d’Alembert, Encyclopédie, vol. VIII, 1765, p. 695b).

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so saranno eccellenti nel punto in cui in cui sono mancati il giorno prima. Invece l’attore [comédien] che recita basandosi sulla riflessione [jouera de réflexion], sullo studio della natura umana, sull’imitazione costante di qualche modello ideale9, sull’immaginazione, sulla memoria, sarà uno, lo stesso, in tutte le rappresentazioni, sempre ugualmente perfetto. Tutto è stato misurato, combinato, appreso, ordinato nella sua testa; non c’è nella sua declamazione né monotonia, né dissonanza. Il calore ha il suo progresso, i suoi slanci, le sue attenuazioni, il suo inizio, il suo mezzo, il suo estremo. Sono gli stessi accenti, le stesse posizioni, gli stessi movimenti; se c’è qualche differenza tra una rappresentazione e l’altra, di solito è a vantaggio dell’ultima. Non sarà incostante [journalier]; sarà come uno specchio sempre disposto a mostrare gli oggetti e a farlo con la medesima precisione, la medesima forza e la medesima verità. Come il poeta attinge continuamente dal fondo inesauribile della natura, mentre se recitasse d’istinto vedrebbe presto il termine della propria ricchezza. Chi recita in modo più perfetto della Clairon10? Tuttavia seguitela, studiatela, e vi convincerete che alla sesta rappresen-

9.  Sul concetto di “modello ideale” in Diderot si vedano anche le riflessioni sviluppate dal filosofo in De la poésie dramatique (1759) e nei Salons, in particolare nel Salon 1767. 10.  Claire-Hippolyte-Josèphe Léris de Latude, detta Mademoiselle Clairon (1723-1803) famosa attrice francese che, dopo aver esordito alla Comédie Italienne nel 1735 nell’Ile des esclaves di Marivaux, recitò dal 1743 alla Comédie Française. La Clairon era l’attrice preferita da Voltaire, Diderot la definisce “un’incantatrice” commentando la sua interpretazione di una scena del Caliste di Colardeau in una lettera a Sophie Volland del 21 novembre 1760 e la suggerisce come modello da imitare a Mademoiselle Jodin, aspirante attrice cui Diderot indirizza consigli sulla recitazione. Si vedano le lettere di fine maggio 1766 e dell’11 maggio 1769, in D. Diderot, Correspondance, a cura di L. Versini, Robert Laffont, Paris 1997, pp. 649 e 941.

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tazione sa a memoria tutti i dettagli della sua recitazione come tutte le parole del suo ruolo. Probabilmente si è fatta un modello al quale ha innanzitutto cercato di conformarsi; probabilmente ha concepito questo modello come il più alto, il più grande, il più perfetto possibile; ma questo modello che ha tratto dalla storia o che la sua immaginazione ha creato come un grande fantasma, non è lei; se questo modello fosse fatto a sua misura, come sarebbe debole e meschina la sua azione! Quando a forza di lavoro si è avvicinata a quest’idea il più possibile, è fatta; bisogna solo attenersi a questo. Se assisteste ai suoi studi, quante volte le direste: Ci siete… quante volte vi risponderebbe: Vi sbagliate!… è come Duquesnoy11 a cui il suo amico afferrava il braccio e gridava: Fermatevi; il meglio è nemico del bene; rovinerete tutto… Vedete quello che ho fatto, replicava l’artista ansimando davanti all’intenditore meravigliato; ma voi non vedete cosa intravedo e perseguo. Non dubito affatto che la Clairon non provi lo stesso tormento di Duquesnoy durante i suoi primi tentativi, ma la lotta è passata una volta che si è elevata all’altezza del suo fantasma, lo possiede e si ripete senza emozione. Come ci accade talvolta in sogno, la sua testa arriva alle nuvole, le sue mani vanno a cercare i due confini dell’orizzonte; è l’anima di un grande manichino che la avvolge; le sue prove l’hanno fissato su di lei. Distesa con noncuranza su una poltrona, le braccia incrociate, gli occhi chiusi, immobile, può, seguendo a memoria il suo sogno, comprendersi, vedersi, giudicarsi e giudicare le im-

11.  François, detto Francesco Fiammingo Duquesnoy (1594-1643), scultore belga amico di Poussin e collaboratore di Bernini. L’episodio è citato anche nel Salon 1767: «Così Duquesnoy rispose a un amatore illuminato che lo guardava lavorare e che temeva che rovinasse un’opera perché la voleva più perfetta: avete ragione, voi che vedete soltanto la copia; ma ho ragione anch’io, che ricerco l’originale che è nella mia mente» (D. Diderot, Salon 1767, cit., pp. 834-835).

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pressioni che susciterà. In quel momento è doppia: la piccola Clairon e la grande Agrippina12. Il secondo: A sentire voi, nulla assomiglia tanto a un attore [comédien] sulla scena o nei suoi studi quanto i bambini che, durante la notte, imitano gli spettri nei cimiteri, elevando al di sopra delle loro teste un grande drappo bianco infilato in cima a una pertica, facendo uscire da sotto quel catafalco una voce lugubre che spaventa i passanti. Il Primo: Avete ragione. Non vale per la Dumesnil13 quello che vale per la Clairon. La Dumesnil calca la scena senza sapere ciò che dirà; per la metà del tempo non sa quello che dice, ma viene un momento sublime. E perché l’attore dovrebbe differire dal poeta, dal pittore, dall’oratore e dal musicista? Non è nello slancio dell’improvvisazione [Ce n’est pas dans la fureur du premier jet] che i tratti caratteristici si presentano, è nei momenti tranquilli e freddi, nei momenti completamente inattesi. Non si sa da dove vengono questi lampi, se appartengono all’ispirazione. È quando, sospesi tra la natura e il loro bozzetto, questi geni dirigono uno sguardo attento ora verso l’una, ora verso l’altro [C’est lorsque, suspendus entre la nature et leur ébauche, ces génies portent alternativement un œil attentif sur l’une et sur l’autre]; le bellezze d’ispirazione, i tratti fortuiti di cui disseminano le loro opere e della cui subitanea apparizione sono i primi a stupirsi, hanno un effetto e

12.  Riferimento al personaggio del Britannicus (1669) di Racine. 13.  Marie-Françoise Marchand, detta Dumesnil (1713-1803), attrice di grande successo, esordì alla Comédie Française nel 1737 particolarmente apprezzata per le sue interpretazioni di ruoli tragici, soprattutto nel repertorio di Racine. Diderot la cita anche nel Nipote di Rameau: «Quella povera Dumesnil non sa più quello che dice, né quel che fa» (D. Diderot, Il nipote di Rameau, cit., pp. 2230-2231). Nella lettera a Mademoiselle Jodin dell’11 maggio 1769 è accostata alla Clairon, sua rivale sulle scene. Vedi supra, nota 10.

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un successo più certo rispetto a quello che hanno fatto di getto. Spetta al sangue freddo temperare il delirio e l’entusiasmo. Non è l’uomo violento e fuori di sé a disporre di noi; questo è un vantaggio riservato all’uomo che si domina. I grandi poeti, drammatici soprattutto, sono spettatori assidui di ciò che accade intorno a loro nel mondo fisico e nel mondo morale. Il secondo: Che sono un unico mondo14. Il Primo: Colgono tutto ciò che li colpisce, ne fanno delle raccolte. È tramite queste raccolte, formate in loro senza che se ne rendano conto, che tanti fenomeni rari confluiscono nelle loro opere. Gli uomini ardenti, violenti, sensibili stanno in scena, dove danno spettacolo, senza goderne. È a partire dal loro modello che l’uomo di genio realizza la sua copia. I grandi poeti, i grandi attori [acteurs] e forse, in generale, tutti i grandi imitatori della natura, chiunque essi siano, dotati di una bella immaginazione, di un grande giudizio, di un tatto fine, di un gusto molto certo, sono gli esseri meno sensibili. Sono egualmente adatti a troppe cose, sono troppo occupati a guardare, a conoscere e a imitare, per essere profondamente impressionati dentro di sé [pour être vivement affectés au dedans d’euxmêmes]. Lo vedo continuamente con il taccuino sulle ginocchia e la matita in mano. Noi sentiamo noi stessi; loro, osservano, studiano e dipingono. Lo dirò? E perché no? La sensibilità non è la qualità di un grande genio. Amerà la giustizia, ma eserciterà questa virtù senza coglierne la dolcezza. Non è il suo cuore, 14.  L’unità della dimensione fisica e morale è centrale nel pensiero filosofico di Diderot, si legge per esempio in Jacques il fatalista: «Così Jacques ragionava, seguendo la lezione del suo capitano, che gli aveva inculcato bene nella testa tutte queste opinioni che aveva attinto, lui, nel suo Spinoza che conosceva a memoria. La distinzione di un mondo fisico e di un mondo morale gli sembrava vuota di senso» (D. Diderot, Jacques le fataliste et son maître [1771-1780]; tr. it. di P. Quintili, Jacques il fatalista e il suo padrone, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., pp. 2492-2493).

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è la testa che fa tutto. Alla minima circostanza imprevista, l’uomo sensibile la perde; non sarà né un grande re, né un grande ministro, né un grande capitano, né un grande avvocato, né un grande medico. Riempite la sala degli spettacoli di questi personaggi dalla lacrima facile, ma non mettetene alcuno sulla scena. Guardate le donne, esse ci superano certamente e di molto in sensibilità; non c’è paragone tra loro e noi negli istanti della passione. Ma tanto cediamo loro quando esse agiscono, quanto esse sono inferiori a noi quando imitano. La sensibilità non si dà mai senza la debolezza dell’organismo. La lacrima che sfugge all’uomo veramente uomo ci tocca più di tutti i pianti di una donna. Nella grande commedia, la commedia del mondo, quella alla quale ritorno sempre, tutte le anime ardenti occupano il teatro; tutti gli uomini di genio sono nel parterre. I primi si chiamano folli, i secondi che si occupano di copiare le loro follie si chiamano saggi15. È l’occhio del saggio che coglie il ridicolo di tanti personaggi diversi, che lo dipinge e che vi fa ridere sia di questi fastidiosi originali di cui siete stato vittima, sia di voi stessi. È lui che vi osserva e che tratteggia la versione comica sia dello scocciatore, sia del vostro supplizio. Se queste verità fossero dimostrate i grandi attori [comédiens] non le ammetterebbero; è il loro segreto. Gli attori mediocri o principianti sono fatti per rifiutarle, e si potrebbe dire di alcuni altri che credono di sentire, come si è detto dell’uomo superstizioso, che crede di credere; e che senza la fede per questo e senza la sensibilità per l’altro non c’è alcuna salute. Ma come, si dirà, questi accenti lamentosi, così dolorosi che questa madre strappa dal fondo delle sue viscere e da cui le mie sono così profondamente scosse, non è il sentimento attua15.  G. Neri ipotizza che qui Diderot si riferisca a una commedia minore di Molière intitolata Les Fâcheux (1661) che al posto dell’intrigo presentava una galleria di tipi più o meno tratti dal vero: cfr. D. Diderot, Scritti di estetica, tr. it., a cura di G. Neri, Feltrinelli, Milano 1957, p. 9.

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le che le produce, non è la disperazione a ispirarli? Nient’affatto; e la prova è che sono misurati, che fanno parte di un sistema di declamazione; che più bassi o più acuti della ventesima parte di un quarto di tono, sono falsi; che sono sottomessi a una legge di unità; che sono, come nell’armonia, preparati e preservati; che soddisferanno tutte le condizioni richieste solo tramite un lungo studio; che concorrono alla soluzione di un problema proposto; che per essere emessi correttamente, sono stati ripetuti cento volte, e che malgrado queste frequenti ripetizioni, vengono ancora sbagliati; e che prima di dire: Zaira, voi piangete!16

oppure Voi lo sarete, figlia mia,17

l’attore [acteur] ha a lungo ascoltato se stesso; si ascolta nel momento in cui vi turba, e tutto il suo talento consiste non nel sentire, come supponete, ma nel rappresentare tanto scrupolosamente i segni esteriori del sentimento, che voi stesso v’ingannereste. Le grida del suo dolore sono annotate nel suo orecchio. I gesti della sua disperazione sono memorizzati e sono stati preparati davanti a uno specchio. Conosce il momento preciso in cui trarrà il suo fazzoletto e in cui verserà le sue lacrime; aspettatevele a quella parola, a quella sillaba, né prima né dopo. Questo tremore della voce, queste parole sospese, questi suoni soffocati o trascinati, questi fremiti delle membra, questi vacillamenti delle ginocchia, questi svenimenti, questi furori, pura imitazione, lezione memorizzata in anticipo, di cui aveva coscienza presente nel momento in cui l’eseguiva, gli lascia, fortunatamente per il poeta, per lo spettatore e per lui, tutta la libertà del suo spirito, e che gli sottrae, 16. Voltaire, Zaïre, Atto IV, 2. 17.  Racine, Iphigénie, Atto II, 2. Questo verso era stato citato da Diderot anche nella Poésie dramatique.

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così come gli altri esercizi, solo forza fisica: il socco e il coturno deposti, la sua voce è spenta, prova un estremo affaticamento, va a cambiarsi d’abito o va a dormire; ma non gli resta né turbamento, né dolore, né malinconia, né cedimento d’animo. Siete voi che provate tutte queste impressioni. L’attore [acteur] è stanco, e voi siete triste; si è dimenato senza sentire nulla, e voi avete sentito senza dimenarvi. Se fosse altrimenti, la condizione dell’attore [comédien] sarebbe la più sventurata delle condizioni; ma egli non è il personaggio, lo interpreta e lo fa così bene che voi lo prendete per tale: l’illusione è solo per voi, lo sa bene, lui che non lo è. Delle sensibilità diverse che si concertano tra di loro per ottenere il più grande effetto possibile, che si accordano, si indeboliscono, si fortificano, si sfumano per formare un tutto che sia uno, questo mi fa ridere. Insisto dunque e dico: è l’estrema sensibilità che fa gli attori [acteurs] mediocri; è la sensibilità mediocre che fa la moltitudine dei cattivi attori [acteurs], ed è la mancanza assoluta di sensibilità che prepara gli attori [acteurs] sublimi. Le lacrime dell’attore [comédien] derivano dal suo cervello, quelle dell’uomo sensibile salgono dal suo cuore; sono le viscere che turbano smisuratamente la testa dell’uomo sensibile; è la testa dell’attore [comédien] che porta talvolta un turbamento passeggero nelle sue viscere: piange come un prete incredulo che predica la Passione; come un seduttore inginocchiato davanti a una donna che non ama, ma che vuole ingannare; come un mendicante in strada o davanti alla porta di una chiesa che vi insulta quando non ha speranza di commuovervi; o come una cortigiana indifferente, che sviene tra le vostre braccia. Avete mai riflettuto sulla differenza tra le lacrime suscitate da un avvenimento tragico e le lacrime suscitate da un racconto patetico? Si sente raccontare una bella cosa, a poco a poco la testa s’imbarazza, le viscere si scombussolano, si lancia un grido, la testa si perde e scendono le lacrime; queste vengono im-

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mediatamente, le altre sono suscitate. Ecco il vantaggio di un colpo di teatro naturale e vero su una scena eloquente, opera bruscamente quello che la scena fa attendere; ma l’illusione è molto più difficile da produrre, un incidente falso, reso male, la distrugge. Gli accenti si imitano meglio dei movimenti, ma i movimenti colpiscono in modo più violento. Ecco il fondamento di una legge a cui non credo ci sia eccezione, è di svelare con un’azione e non con un racconto, pena l’essere freddi. Ebbene, non avete nulla da obiettarmi? Vi sento, fate un racconto in società, le vostre viscere si commuovono, la vostra voce si rompe e voi piangete. Avete sentito, dite, sentito molto vivamente. Concordo. Ma vi siete preparato? No. Parlate in versi? No. Tuttavia avete intrattenuto, sorpreso, emozionato, avete prodotto un grande effetto; è vero. Portate però il vostro tono familiare a teatro, la vostra espressione semplice, il vostro contegno domestico, il vostro gesto naturale e vedrete quanto sarete povero e debole. Certo, potete versare delle lacrime, sarete ridicolo, si riderà. Non reciterete una tragedia, ma la vostra sarà una parodia tragica [une parade tragique]. Credete che le scene di Corneille, di Racine, di Voltaire, anche di Shakespeare, possano essere declamate con la vostra voce adatta alla conversazione o il tono adeguato alle confidenze domestiche? Non più di quanto possa esserlo la vostra storia domestica narrata con l’enfasi e l’articolazione dei suoni del teatro. Il secondo: Forse Racine e Corneille, per quanto fossero dei grandi uomini, non hanno fatto niente che valga. Il Primo: Che bestemmia! Chi oserebbe proferire tali parole? Chi oserebbe approvarle? Nemmeno i passi familiari di Corneille possono essere recitati con tono familiare. Eppure, è un’esperienza che avrete ripetuto cento volte, alla fine del vostro racconto, nel bel mezzo del turbamento e dell’emozione in cui avete gettato il vostro piccolo uditorio da salotto [auditoire de salon], sopraggiunge un nuovo personag-

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gio di cui bisogna soddisfare la curiosità. Voi non potete più farlo, la vostra anima è spossata, non vi restano né sensibilità, né calore, né lacrime. Perché l’attore [acteur] non prova lo stesso cedimento? Il fatto è che c’è una bella differenza tra l’interesse che ha per un racconto fatto per piacere, e l’interesse che vi ispira la disgrazia del vostro vicino. Forse voi siete Cinna? Siete mai stato Cleopatra, Merope, Agrippina18? Che v’importa di quella gente19? La Cleopatra, la Merope, l’Agrippina, il Cinna del teatro sono essi stessi personaggi storici? Non lo sono. Sono i fantasmi immaginari della poesia; esagero: sono gli spettri del modo particolare di essere di questo o quel poeta. Lasciate questa specie di ippogrifi sulla scena con i loro movimenti, il loro stile e le loro grida; figurerebbero male nella storia; farebbero sbellicare dalle risate in un circolo o in un altro consesso della società. Ci si chiederebbe sottovoce: è forse in delirio? Da dove viene quel Don Chisciotte? Dove si fanno quei racconti? In quale pianeta si parla così? Il secondo: Ma perché non rivoltano a teatro? Il Primo: Il fatto è che sono convenzionali. È una formula data dal vecchio Eschilo; è un protocollo di tremila anni. Il secondo: E questo protocollo deve durare ancora a lungo?

18.  Riguardo al Cinna di Corneille e all’Agrippina del Britannicus di Racine si veda la nota 7. Cleopatra potrebbe essere, secondo J.M. Dieckmann, il personaggio del Rodogune (1644) di Corneille, ma potrebbe anche trattarsi di un’altra opera di Corneille: La Mort de Pompée (1643) o della Cléopâtre (1750) di Marmontel. Merope è la protagonista dell’omonima opera di Voltaire del 1743. 19.  Secondo J. Goldzink potrebbe trattarsi di un’allusione a Beaumarchais che nella prefazione all’Eugénie, l’Essai sur le genre dramatique sérieux (1767), aveva scritto: «Che cosa importa a me, suddito pacifico di uno Stato monarchico del diciottesimo secolo, delle rivoluzioni di Atene e di Roma? Quale genuino interesse posso nutrire per la morte di un tiranno del Peloponneso? Per il sacrificio di una giovane principessa in Aulide?».

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Il Primo: Lo ignoro. Tutto quello che so, è che ci si allontana da esso man mano che ci si avvicina al proprio secolo e al proprio paese. Conoscete una situazione più simile a quella di Agamennone nella prima scena dell’Ifigenia della situazione di Enrico IV quando, ossessionato dal terrore, fin troppo fondato, diceva ai suoi familiari: «Mi uccideranno, niente è più certo, mi uccideranno…». Supponete che quest’uomo eccellente, questo grande e sventurato monarca che, tormentato la notte da questo presentimento funesto, si alza e se ne va a bussare alla porta di Sully, suo ministro e amico; credete che ci fosse un poeta tanto assurdo da far dire a Enrico: Oui, c’est Henri, c’est ton roi qui t’éveille. Viens, reconnais la voix qui frappe ton oreille…20

e far rispondere a Sully: C’est vous-même, Seigneur! Quel important besoin Vous a fait devancer l’aurore de si loin? A peine un faible jour vous éclaire et me guide. Vos yeux seuls et les miens sont ouverts?21

Il secondo: Forse era questo il linguaggio di Agamennone.

20.  «Sì, sono Enrico, è il tuo re che ti sveglia. / Vieni, riconosci la voce che giunge al tuo orecchio…». Nel testo di Racine il dialogo si svolge tra Agamennone e Arcade: «Agamennone: D’Agamennon del tuo sovran la voce / È che ti sveglia, non la riconosci / Arcade?» (J. Racine, Iphigénie; tr. it. di R. Carloni Valentini, Ifigenia, in J. Racine, Teatro completo, Bietti, Milano 1973, p. 575). 21.  «Siete proprio voi, Signore! Quale importante necessità / vi ha fatto alzare tanto prima dell’aurora? / Un giorno a malapena flebile vi illumina e mi guida. / Solo i vostri occhi e i miei sono aperti?». Nella versione di Racine: «Arcade: O Re sei tu! Quale importanza / Di sì gran tratto a prevenir l’aurora / Di luce appare, e guida i nostri passi. / Il sonno scosso, in Aulide noi soli / Vigili siamo» (ibidem).

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Il Primo: Non più di quanto possa essere stato quello di Enrico IV. È quello di Omero, è quello di Racine, è quello della poesia e questo linguaggio pomposo può essere usato solo da esseri sconosciuti e parlato solo da bocche poetiche, con un tono poetico. Riflettere un momento su quello che a teatro si chiama essere vero. Significa mostrare le cose come sono in natura? In nessun modo. Il vero in questo senso sarebbe solo ciò che è comune. Che cos’è dunque il vero sulla scena? È la conformità delle azioni, dei discorsi, della figura, della voce, del movimento, del gesto, a un modello ideale immaginato dal poeta e spesso esagerato dall’attore. Ecco il meraviglioso. Questo modello non influisce solo sul tono, modifica perfino l’andamento, persino il contegno. Da questo deriva il fatto che l’attore, sulla strada o l’attore sulla scena sono due personaggi diversi che riconosciamo a stento. La prima volta che vidi la Clairon a casa sua, esclamai istintivamente: «Ah Madame, credevo che foste più alta [je vous croyais de toute la tête plus grande]». Una donna infelice, veramente infelice, piange e non vi tocca per nulla; c’è di peggio, cioè il fatto che un tratto leggero che la sfigura vi fa ridere; un accento che le è proprio è dissonante al vostro orecchio e vi ferisce; un movimento che le è abituale vi mostra il suo valore ignobile e lamentoso; è che le passioni esagerate sono quasi tutte soggette a delle smorfie che l’artista senza gusto copia in modo servile, ma che il grande artista evita. Noi vogliamo che anche nel più forte dei tormenti l’uomo mantenga il suo carattere di uomo, la dignità della sua specie. Qual è l’effetto di questo sforzo eroico? Di distrarre dal dolore e di temperarlo. Noi vogliamo che questa donna cada con decoro, con mollezza e che l’eroe muoia come l’antico gladiatore, nel mezzo dell’arena, con gli applausi del circo, con grazia, con nobiltà, con un’attitudine elegante e pittoresca. Chi soddisferà la nostra aspettativa? Sarà l’atleta che il dolore sog-

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gioga e che la sensibilità scompone? O l’atleta accademico22 [academisé] che si domina e pratica le lezioni della ginnastica mentre emana l’ultimo sospiro? Il gladiatore antico come un grande attore, un grande attore come il gladiatore antico, non muore come si muore su un letto, ma sono tenuti a recitare un’altra morte per piacerci, e lo spettatore raffinato sentirà che la verità velata, l’azione spogliata da ogni affettazione sarebbe meschina e contrasterebbe con la poesia del resto. Non è tanto il fatto che la pura natura non abbia i suoi momenti sublimi; ma penso che se c’è qualcuno sicuro di cogliere e di conservare la loro sublimità, è colui che li avrà presentiti con l’immaginazione o grazie al genio e che li renderà con sangue freddo. Tuttavia non negherò che esiste una specie di mobilità delle viscere acquisita o fittizia; ma se mi domandate il mio parere, la credo altrettanto pericolosa della sensibilità naturale. Essa conduce a poco a poco l’attore alla maniera e alla monotonia. È un elemento contrario alla diversità di funzioni di un grande attore [acteur]; questi è spesso obbligato a spogliarsene, e quest’abnegazione di sé è possibile solo a una testa di ferro. Ancora, sarebbe meglio per la facilità e il successo degli studi, l’universalità del talento e la perfezione della recitazione, non aver a che fare per nulla con questa incomprensibile distrazione di sé con sé, la cui estrema difficoltà, limitando ciascun attore [comédien] a un solo ruolo, condanna le compagnie a essere molto numerose, o quasi tutte le pièce a essere mal interpretate, a meno che non si rovesci l’ordine dei fattori e le pièce non siano scritte per gli attori che, mi sembra, dovrebbero al contrario essere fatti per le pièce.

22.  Il termine viene utilizzato anche da Diderot nel Salon de 1765, in DPV, vol. XIV, p. 37, note 56 e 82.

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Il secondo: Ma se una folla di uomini radunati nella strada da qualche catastrofe dispiegano immediatamente, e ciascuno alla sua maniera, la loro sensibilità naturale, senza essersi organizzati creeranno uno spettacolo meraviglioso, mille modelli preziosi per la scultura, la pittura, la musica e la poesia. Il Primo: È vero. Ma questo spettacolo sarebbe da comparare con quello che potrebbe risultare da un accordo prestabilito, da quell’armonia che l’artista vi introdurrà quando lo trasporterà dal crocevia alla scena o sulla tela? Se sostenete questo, qual è, dunque, la magia dell’arte tanto decantata, se la si riduce a rovinare ciò che la natura grezza e un’organizzazione fortuita avrebbero fatto meglio? Negate che si abbellisca la natura? Non avete mai lodato una donna dicendo che era bella come una Vergine di Raffaello? Alla vista di un bel paesaggio, non avete mai esclamato quanto fosse romantico? D’altra parte mi parlate di una cosa reale, e io vi parlo di un’imi­tazione; voi mi parlate di un istante fuggitivo della natura, e io vi parlo di un’opera d’arte progettata, coerente, che ha i suoi progressi e la sua durata. Prendete ciascuno di questi attori, fate variare la scena nella strada come a teatro, e mostratemi i vostri personaggi successivamente, isolati, due a due, tre a tre; abbandonateli ai loro movimenti; che siano padroni assoluti delle loro azioni, e vedrete la strana cacofonia che ne risulterà. Per ovviare a questo difetto, li fate replicare insieme? Addio alla loro sensibilità naturale, e tanto meglio. Vale per lo spettacolo quello che vale per una società ben ordinata, in cui ciascuno sacrifica i suoi diritti originari [droits primitifs] per il bene dell’insieme e del tutto. Chi apprezzerà di più la misura di questo sacrificio? L’entusiasta? Il fanatico? Certo che no. In società sarà l’uomo giusto; a teatro, l’attore [comédien] che avrà la testa fredda. La vostra scena nelle strade sta alla scena drammatica, come un’orda di selvaggi a un’assemblea di uomini civilizzati.

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È questo il momento di parlarvi dell’infida influenza di un partner mediocre su un attore [comédien] eccellente. Questi ha immaginato mirabilmente, ma sarà costretto a rinunciare al suo modello ideale per mettersi al livello del povero diavolo con cui è sulla scena. Allora accade allo studio e al buon giudizio e ciò che si fa d’istinto in passeggiata o all’angolo del focolare: colui che parla a bassa voce, abbassa il tono del suo interlocutore. Oppure se preferite un altro paragone, è come al whist23, in cui perderete una parte della vostra abilità, se non potete contare sul vostro compagno di gioco. C’è di più: la Clairon vi dirà, quando vorrete, che Le Kain24, per cattiveria, la rendeva malvagia o mediocre, a discrezione; e che, per rappresaglia, essa a volte lo esponeva ai fischi. Cosa significa dunque che due attori [comédiens] si sostengono mutualmente? Due personaggi i cui modelli hanno, mantenendo le dovute proporzioni, o l’uguaglianza, o la subordinazione che conviene alle circostanze in cui il poeta li ha posti, senza che l’uno sia troppo forte o troppo debole; e per salvare questa dissonanza, il forte eleverà raramente il debole alla sua altezza, ma grazie alla riflessione discenderà alla sua pochezza. E conoscete il motivo di prove così numerose? È di stabilire un equilibrio tra i diversi talenti degli attori [acteurs], in modo che ne risulti un’azione generale che sia unitaria; e quando l’orgoglio di uno dei due rifiuta quest’equilibrio, è sempre a scapito della perfezione del tutto e a spese del vostro piacere, perché è raro che l’eccellenza di uno solo vi ricompensi della mediocrità degli altri che fa emergere. Ho visto a volte la personalità di un grande attore punita, quando il pubblico affermava

23.  Si tratta di un gioco di carte, da cui deriva il bridge, che si gioca in due coppie contrapposte. 24.  Henri-Louis Kain, detto Lekain (1729-1778) attore membro della Comédie Française dal 1751, interpretò diversi personaggi delle tragedie di Voltaire, nonché Il padre di famiglia dello stesso Diderot.

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stupidamente che era eccessivo, invece che percepire che il suo partner era debole. Oggi siete poeta. Avete una pièce da far recitare, e vi lascio la scelta degli attori [acteurs] con giudizio profondo e testa fredda, o di attori [acteurs] sensibili. Prima però che decidiate, permettetemi che vi ponga una domanda. A che età si è un grande attore [comédien]? All’età in cui si è pieni di fuoco, quando il sangue ribolle nelle vene, quando il minimo shock ci turba fino in fondo alle viscere, quando la più piccola scintilla infiamma lo spirito? Mi sembra di no. Colui che la natura ha designato come attore [comédien] eccellente nella sua arte, lo sarà solo quando avrà acquisito una lunga esperienza, quando la foga delle passioni si sarà affievolita, quando la testa è calma e l’anima è padrona di se stessa. Il vino della miglior qualità è asprigno e frizzante [bourru] finché fermenta; è solo dopo un lungo riposo nella botte [tonne] che diventa generoso. Cicerone, Seneca e Plutarco rappresentano le tre età dell’uomo che compone: Cicerone è spesso un fuoco di paglia che delizia i miei occhi; Seneca come un fuoco di torba che li ferisce; mentre se smuovo le ceneri del vecchio Plutarco, vi scopro i grossi carboni di un braciere che mi scaldano dolcemente. Quando aveva più sessant’anni Baron25 impersonava il conte di Essex, Xipharès, Britannico, e li interpretava bene. La Gaussin26 incantava nell’Oracle e nella Pupille a cinquant’anni. 25.  Michel Boyron detto Baron (1653-1729) attore della compagnia di Molière, lasciò il teatro nel 1691 per poi tornare sulle scene nel 1720 a sessant’anni per recitare nel Comte d’Essex di T. Corneille e nel Mithridate e Britannicus di Racine. 26.  Mademoiselle Gaussin ovvero Jeanne-Catherine Gaussem (1711-1767) esordì alla Comédie Française, dove nel 1731 recitò la parte di Junie del Britannicus. Interpretò per la prima volta la Zaïre di Voltaire. Lasciò le scene nel 1763, anno in cui interpreta il ruolo della giovane innamorata nelle

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Il secondo: Non aveva affatto il viso adatto al suo personaggio. Il Primo: È vero; e questo è forse uno degli ostacoli insormontabili per l’eccellenza di uno spettacolo. Bisogna aver calcato per molti anni le sene, e il ruolo esige talvolta l’essere giovanissimi. Se si trovasse un’attrice [actrice] diciassettenne capace di interpretare Monime, Didone, Pulchérie, Ermione, sarebbe un prodigio difficile da ripetere27. Tuttavia un vecchio attore [comédien] è ridicolo solo quando le forze lo hanno completamente abbandonato, o la superiorità della sua recitazione non lo salva dal contrasto tra la sua vecchiaia e il suo ruolo. A tea­tro come in società, si rimprovera la galanteria a una donna solo quando non ha né abbastanza talenti, né sufficienti altre virtù per coprire un vizio. Oggigiorno, la Clairon e Molé28, debuttando, hanno recitato quasi come degli automi, poi si sono dimostrati dei veri attori [comédiens]. Com’è possibile? Forse hanno acquisito l’anima, la sensibilità, la passione [les entrailles] man mano che avanzavano con l’età? C’è stato solo un momento, dopo dieci anni di assenza, in cui la Clairon è voluta ritornare; se avesse recitato mediocremente, avrebbe perso la sua anima, la sua sensibilità, le sue viscere? In nessun modo, ma la memoria dei suoi ruoli. Mi appello all’avvenire. commedie citate da Diderot e scritte rispettivamente da Poullain de SainteFoix (1740) e di Barthélemy-Christophe Fagan (1734). 27.  Riferimento a Mademoiselle Raucourt, vale a dire Françoise-Marie Saucerotte (1756-1815) che debuttò alla Comédie Française nel 1772 come protagonista della Didon di Lefranc de Pompignan. Nel 1773 interpretò con grande successo i ruoli elencati da Diderot in Mithridate di Racine, Héraclius (1647) di Corneille e Andromaque di Racine. 28.  François-René Molé (1734-1802) entra a far parte della Comédie Française nel 1761. Nel Padre di famiglia di Diderot interpretò il ruolo di SainteAlbin.

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Il secondo: Come, credete che ritornerà? Il Primo: O che morirà di noia: con cosa si possono sostituire gli applausi del pubblico e una grande passione? Se questo attore [acteur], se quest’attrice [actrice] fossero profondamente penetrati, come suppongo, ditemi se l’uno penserebbe a gettare un colpo d’occhio sulle logge, l’altro a dirigere un sorriso verso le quinte, quasi tutti a parlare con la platea; e se si andasse nel ridotto a interrompere le risate smodate di un terzo e avvertirlo che è tempo di andare a pugnalarsi? Ma mi viene voglia di abbozzarvi una scena tra un attore [comédien] e la sua donna che si detestavano; scena di amanti teneri e appassionati; scena interpretata pubblicamente sul palco come ve la sto per rendere e forse un po’ meglio; scena in cui i due attori [acteurs] non sembrarono mai più intensamente calati nei loro ruoli; in cui suscitarono gli applausi continui della platea e delle logge, scena che i nostri battimani e le nostre grida di ammirazione interruppero dieci volte. È la terza del IV atto del Dispetto amoroso di Molière29, il loro trionfo. L’attore [comédien] Erasto, amante di Lucilla. Lucilla, amante di Erasto e moglie dell’attore [comédien]. L’attore [le comédien]: No, no, non credete, Madame, che vi parlerò ancora della mia fiamma. L’attrice [la comédienne]: Ve lo consiglio. È finita;… lo spero.

29.  Le dépit amoureux è un’opera scritta da Molière nel 1655 e ripresa dalla sua troupe all’arrivo a Parigi nel 1658.

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Voglio guarire, e conosco bene La parte del vostro cuore che ha posseduto il mio… Più di quanto meritiate. Una collera così durevole per l’ombra di un’offesa… Voi, offendermi! Non vi farò quest’onore. La vostra indifferenza è stata chiarificatrice, e devo mostrarvi solo i tratti del disprezzo… Il più profondo. Sono sensibile soprattutto agli spiriti generosi… Sì, ai generosi. Lo confesso, i miei occhi coglievano nei vostri Attrattive che non hanno trovato in tutti gli altri… Non è un errore averli guardati. E il trasporto in cui ero nelle mie catene, che avrei preferito all’offerta del potere [à des sceptres offerts]… Voi ne avete fatto un migliore mercato. Vivevo tutto in voi;… Questo è falso, e voi mi avete mentito. E lo confesserei anche, Forse dopotutto avrei, anche se oltraggiato, abbastanza dolore ancora da vedermi liberato: … questo sarebbe fastidioso. Possibile che, malgrado la cura che prova, la mia anima sanguinerà ancora a lungo da questa piaga,… Non temete nulla: la cancrena c’è. E anche se affrancato dal giogo ch’era tutto il mio bene, dovrò risolvermi a non poter più amare… L’attrice: Troverete un modo per una resa. Ma infine non importa: e poiché il vostro odio Caccia un cuore tante volte quante l’amore ve lo riconduce, questa è l’ultima volta sarete seccato e dalle mie promesse che avete rifiutato. L’attrice: Potete fare alle mie la grazia, Signore, di risparmiarmi anche quest’ultima… L’attore: Cuore mio, siete un’insolente, e ve ne pentirete.

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L’attore: Ebbene, madame, ebbene saranno soddisfatte. Rompo con voi, rompo per sempre. Poiché volete, che perda la vita, quando di parlare con voi mi tornerà la volontà. L’attrice: Tanto meglio; significherebbe volermi impegnare. L’attore: No, non avete da temere… L’attrice: Non vi temo. Che finga la mia parola; avrei un cuore debole, fino a poterne cancellare la vostra effigie, credete, mai avrete questo privilegio… La sventura, intendete affermare. Di vedermi ritornare. L’attrice: Sarebbe davvero invano… L’attore: Ma amica, voi siete una sgualdrina matricolata, a cui insegnerò a parlare. L’attore: Io stesso il mio petto con cento colpi vorrei perforare… L’attrice: Volesse Iddio! Se avessi mai fatto questa insigne bassezza,… Perché non questa dopo tante altre? Di rivedervi, dopo questo indegno trattamento. L’attrice: E sia, dunque non parliamone più30. E così via per il resto. Dopo questa doppia scena, l’una degli amanti e l’altra degli sposi, quando Erasto riconduceva la sua

30.  Secondo J. Goldzink, Diderot si potrebbe essere ispirato per questa scena a L’Art de la comédie (1772) di Jean-François Cailhava de l’Estandoux (1730-1813).

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amante Lucilla dietro le quinte, le strinse il braccio con una violenza tale da strappare la carne alla sua cara moglie, e rispose alle sue grida con le intenzioni più insultanti e più amare. Il secondo: Se avessi sentito queste due scene simultanea­ mente, credo che non avrei rimesso piede allo spettacolo. Il Primo: Se pretendete che quest’attore [acteur] e quest’attrice [actrice] abbiano sentito, vi chiederò se è nella scena degli amanti, o nella scena degli sposi, o nell’una e l’altra? Ma ascoltate la scena seguente tra la stessa attrice [comédienne] e un altro attore [acteur] suo amante. Mentre l’amante parla, l’attrice [comédienne] dice di suo marito: È ignobile, mi ha chiamata… non oserei ripetervelo. Mentre risponde, il suo amante dice di lui: Non ci siete forse abituata?… e così di verso in verso. Non ceniamo stasera? – Mi piacerebbe; ma come sfuggire? – È un problema vostro. – E se viene a saperlo? – Non cambierà niente, e avremo per noi una dolce serata. – Chi ci sarà con noi? – Chi vorrete. – Ma innanzitutto il Cavaliere che è un’istituzione. – A proposito del Cavaliere, sapete che dovrei esserne geloso? – E spetterebbe a me darvi ragione… – Così questi esseri così sensibili che vi sembravano prendere interamente parte alla scena elevata che sentivate, in realtà erano presenti veramente solo nella scena bassa che non sentivate; e voi esclamaste: «Bisogna ammettere che questa donna è un’attrice affascinante, che nessuno sa ascoltare come lei, e che recita con un’intelligenza una grazia, un interesse, una finezza, una sensibilità poco comune…». E io, ridevo alle vostre esclamazioni. Tuttavia quest’attrice [actrice] tradisce suo marito con un altro attore [acteur], questo attore con il Cavaliere, e il Cavaliere con un terzo che il Cavaliere ha sorpreso tra le sue braccia.

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Quest’ultimo ha meditato una grande vendetta. Si metterà sul gradino più basso della balconata. (Allora il conte di Lauraguais non aveva ancora sgombrato i nostri palchi31). Là, si ripromette di sconvolgere l’infedele con la sua presenza e con i suoi sguardi di disprezzo e di esporla alle grida ostili del parterre. La pièce inizia; la sua traditrice appare; si accorge del Cavaliere, e senza scomporsi nella sua recitazione, gli dice sorridendo: Via! Siete un villano bisbetico che si irrita per niente. Il Cavaliere sorride a sua volta. Lei continua: Verrete stasera?… Lui tace. Lei aggiunge: Finiamola con questa sciocca discussione e fate avvicinare la vostra carrozza… E sapete in quale scena intercalava questa? In una delle più toccanti di La Chaussée32 in cui quest’attrice [comédienne] singhiozzava e ci faceva versare calde lacrime. Questo vi confonde, ciononostante è l’esatta verità. Il secondo: Mi sento quasi disgustato dal teatro. Il Primo: E perché? Se queste persone non fossero capaci di queste ardue imprese, allora non bisognerebbe andarci. Vi ho appena raccontato qualcosa che ho visto. Garrick introduce la sua testa tra i due battenti di una porta, e nell’intervallo di quattro o cinque secondi passa successivamente dalla gioia folle alla gioia moderata; da questa gioia alla tranquillità; dalla tranquillità alla sorpresa; dalla sorpresa 31.  Riforma che risale al 23 aprile 1759 quando il conte di Lauraguais risarcì gli attori per i lavori necessari a eliminare le poltroncine sulla scena. Per ulteriori riferimenti alla riforma si veda la nota 20 del saggio introduttivo Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale?, supra, p. 31. 32.  Pierre-Claude Nivelle de La Chaussée (1691 o 1692-1754), drammaturgo creatore di un nuovo genere teatrale, la comédie larmoyante, che viene considerato prodromo del dramma borghese introdotto dallo stesso Diderot e di quello che sarà il dramma moderno di Dumas figlio e di Émile Augier nel XIX secolo. Mademoiselle Gaussin (si veda supra, nota 26) recitò i ruoli di Constance nella pièce di La Chaussé Le Préjugé à la mode (1735) e di Mélanide nell’omonima commedia (1741).

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allo stupore; dallo stupore alla paura; dalla paura all’orrore; dall’orrore, alla disperazione, e risale da quest’ultimo grado a quello da cui era disceso. La sua anima ha potuto provare tutte queste sensazioni e eseguire, di concerto col suo viso, questa specie di gamma? Io non ci credo, e nemmeno voi. Se voi chiedeste a quest’uomo celebre, lui che da solo meriterebbe tanto che si facesse un viaggio in Inghilterra, quando tutti i resti di Roma meritano che se ne faccia uno in Italia, se gli chiedete, dico, la scena del ragazzino pasticcere, ve la reciterebbe; se gli chiedeste di seguito la scena di Amleto33, ve la reciterebbe, ugualmente pronto a piangere la caduta delle suoi piccoli pasticci, e a seguire nell’aria il cammino di un pugnale. Si ride o si piange a discrezione? Si fa la smorfia più o meno fedele, più o meno ingannatrice, a seconda che si sia o non si sia è Garrick. A volte faccio qualche parodia e anche con una certa credibilità per farmi valere con gli uomini di mondo più acuti. Quando mi dispiaccio la morte simulata di mia sorella nella scena con l’avvocato dalla bassa Normandia; quando nella scena con il primo funzionario della Marina mi accuso di aver messo incinta la moglie di un capitano di vascello; ho tutta l’aria di provare dolore e vergogna; ma sono afflitto? Mi vergogno? Non più nella mia piccola commedia che in società, dove avevo interpretato entrambi i ruoli prima di introdurli in una grande opera di teatro. Che cos’è dunque un grande attore [comédien]? Un grande adulatore tragico o comico a cui il poeta ha dettato il suo discorso. Sedaine pubblica Le Philosophe sans le savoir34. Mi interessavo più vivamente io di lui al successo della sua pièce; la gelosia

33.  Diderot in realtà si riferisce a Macbeth, Atto III, 4. 34.  Pièce rappresentata per la prima volta il 2 dicembre 1765 dopo l’interdizione della censura. Quest’opera suscitò l’ammirazione di Diderot che de-

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dei talenti è un vizio che mi è estraneo, ne ho abbastanza degli altri senza aggiungermi anche questo: tutti i miei confratelli in letteratura possono assicurare che, quando si sono degnati di consultarmi a proposito delle loro opere, ho fatto quello che dipendeva da me per rispondere degnamente a quel segno distinto della loro stima35. Le Philosophe sans le savoir stenta alla prima e alla seconda rappresentazione, e ciò mi rattrista; alla terza sale alle stelle, e io sono pazzo di gioia. L’indomani mattina mi getto in una carrozza, corro dietro a Sedaine; è inverno, fa un freddo polare; vado in tutti i posti in cui spero di trovarlo. Mi dicono che si trova in fondo al quartiere St. Antoine, mi faccio condurre lì. Mi avvicino e gli getto le braccia al collo, la voce mi manca e le lacrime mi rigano le guance. Ecco l’uomo sensibile e mediocre. Sedaine immobile e freddo mi guarda e mi dice: Ah! Monsieur Diderot, come siete bello! Ecco l’osservatore e l’uomo di genio. Raccontavo questa vicenda un giorno, a tavola, a casa di un uomo destinato dai suoi elevati talenti a occupare la posizione più importante dello Stato, Monsieur Necker36; c’era un gran finì Jean-Michel Sedaine (1719-1797) «naturale senza affettazione, dotato di una vigorosa eloquenza priva di ogni forzatura o retorica» in una lettera del 3 dicembre 1765 indirizzata a Grimm in cui descrive le sue impressioni dopo aver assistito alla messa in scena, si veda D. Diderot, Correspondance, cit., pp. 563-564. Prima di diventare drammaturgo Sedaine era stato tagliatore di pietre e capomastro. 35.  In quegli stessi anni Diderot scriveva: «M’interesso più vivamente alla perfezione dell’opera di qualcun altro, che alla perfezione della mia. Il mio successo mi tocca meno del successo del mio amico. Rispondo con tutte le mie forze al segno di stima che ricevo da colui che mi consulta. Perché mi dovrei affliggere per gli applausi che gli si sono attribuiti? Ne raccolgo segretamente la mia parte» (D. Diderot, Confutazione dettagliata, cit., pp. 788-789). 36.  Jacques Necker (1732-1804) nominato direttore delle finanze francesi da Luigi XVI nel 1777, tentò di risanare le finanze, ma l’opposizione dell’aristocrazia lo portò alle dimissioni. Il riferimento a Necker è uno degli elementi che permette la datazione del Paradosso.

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numero di uomini di lettere, tra cui Marmontel che amo e a cui sto a cuore. Questi mi disse ironicamente: «Vedrete come Voltaire si dispiace al semplice racconto di un tratto patetico, e come Sedaine mantiene il suo sangue freddo alla vista di un amico che si scioglie in lacrime, è Voltaire l’uomo ordinario e Sedaine l’uomo di genio!»… L’essere apostrofato in questo modo mi ha sconcertato e mi ridotto al silenzio, perché l’uomo sensibile come me, colto alla sprovvista da ciò che gli si obietta, perde la testa e si riprende soltanto in fondo alle scale. Un altro, freddo e padrone di se stesso, avrebbe risposto a Marmontel: «La vostra riflessione starebbe meglio in un’altra bocca, e non nella vostra, perché voi non siete più sensibile di Sedaine, e scrivete delle opere altrettanto belle, e percorrendo la sua stessa carriera, potevate lasciare al vostro vicino la premura di apprezzare imparzialmente il suo merito». Ma senza voler preferire Sedaine a Voltaire, né Voltaire a Sedaine, potreste dirmi che cosa sarebbe uscito dalla testa dell’autore del Philosophe sans le savoir e della Paris sauvé37 se al posto di passare trentacinque anni della sua vita a impastare gesso e a tagliare pietre, avesse impiegato tutto quel tempo, come Voltaire, voi e me, a leggere e a meditare Omero, Virgilio, Tasso, Cicerone, Demostene e Tacito? Non saremo mai capaci di vedere come lui, mentre egli avrebbe appreso a parlare come noi. Lo guardo come uno dei pronipoti di Shakespeare: lo stesso Shakespeare che non comparerei né all’Apollo del Belvedere, né al Gladiatore, né all’Antinoo, né all’Ercole Farnese38, ma al San Cristoforo di Notre-Dame, colosso informe, scolpito 37.  Le Déserteur è un dramma lirico rappresentato a partire dal 6 marzo 1769 al Théâtre-Italien con musiche di Monsigny. Maillard ou Paris sauvée (1770) è una tragedia in prosa messa in scena al teatro di Madame de Montesson nel gennaio 1782, pubblicata solo in seguito nel 1788. 38.  Statue antiche collocate a Roma, molto note nel XVIII secolo. Altri riferimenti da parte di Diderot a queste opere scultoree si trovano in: Su Terenzio, Saggi sulla pittura, Salon 1765.

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grossolanamente, ma tra le gambe del quale nessuno può passare senza che la fronte tocchi le parti vergognose39. Ma ecco, vi mostro un’altra situazione in cui un personaggio è stato reso, in un solo istante, banale e stupido dalla sensibilità, e nel momento seguente sublime, per il sangue freddo che subentrò alla sensibilità soffocata: Un letterato40, di cui non dirò il nome, era caduto nell’estrema indigenza. Aveva un fratello teologo e ricco41. Chiesi all’indigente perché suo fratello non lo soccorresse. «Perché ho dei grandi torti nei suoi confronti», mi rispose. Ottenni da lui il permesso di rendere visita al signor teologo. Vado. Sono annunciato, entro. Dico al teologo che sono venuto a parlargli di suo fratello. Mi prende per mano, mi fa sedere, e mi fa osservare che è proprio un uomo di buon senso e conoscere colui di cui mi sono incaricato di perorare la causa; poi, apostrofandomi con forza: – Conoscete mio fratello? – Credo di sì.

39.  Lo stesso paragone di Shakespeare al colosso di San Cristoforo di NotreDame si trova anche in una lettera indirizzata da Diderot a François Tronchin il 18 dicembre 1776. 40.  Il letterato a cui si riferisce Diderot è Rivière, avvocato, autore di due romanzi: Mémoires de Rantzi (1747) e Le Moyen d’être heureux ou le Temple de Cythère (1750). Il suo esordio come letterato avvenne sotto la protezione di Diderot, cui poi dimostrò ingratitudine. 41.  Bonaventure-François Rivière, conosciuto come abate Pelvert (17141781) esperto in questioni teologiche e difensore dei dogmi della fede cattolica, fu autore di varie opere tra cui: Dissertation théologique et canonique sur l’Approbation nécessaire pour administrer le sacrement de Pénitence (1755), Lettre d’un théologien sur la Distinction de la religion naturelle et de la religion révélée (1770), Lettre d’un théologien où l’on examine la doctrine de quelques écrivains modernes contre les incrédules (1776). Nella prima versione del Paradosso Diderot aveva indicato il nome nel testo, eliminandolo poi dalle versioni successive.

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– Siete informato dei procedimenti a mio carico? – Credo di sì. – Credete? Dunque sapete?… Ed ecco il mio teologo che mi declama con una rapidità e una veemenza sorprendenti, una serie di azioni tra le più atroci, le une più rivoltanti delle altre. La mia testa si confonde, i miei sensi sono spossati; perdo il coraggio di difendere un mostro tanto abominevole quanto quello che mi viene ritratto. Fortunatamente, il mio teologo, un po’ prolisso nella sua filippica, mi lascia il tempo di riprendermi; poco a poco l’uomo sensibile si ritira facendo posto all’uomo eloquente, perché oserei dire che lo fui in quell’occasione. – Signore, dissi freddamente al teologo, vostro fratello si è comportato in modo pessimo e vi lodo per avermi celato il peggiore dei suoi misfatti. – Non vi celo nulla. – Voi avreste potuto aggiungere a tutto quello che mi avete detto, che una notte, appena siete uscito per il vostro mattutino, vi è saltato alla gola, e estraendo un coltello nascosto sotto l’abito, è stato sul punto di conficcarvelo in petto. – Di certo ne sarebbe capace, ma se non l’ho accusato è perché non è vero… E io alzandomi immediatamente e rivolgendo al mio teologo uno sguardo fermo e severo, grido con una voce tonante, con tutta la veemenza e l’enfasi dell’indignazione: – E anche se questo fosse vero, non bisognerebbe ugualmente dare del pane a vostro fratello?… Il teologo, schiacciato, abbattuto, confuso, resta zitto, cammina, ritorna da me, e mi accorda una pensione annuale per suo fratello.

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È nel momento in cui avete appena perso il vostro amico o la vostra amante che componete un poema sulla loro morte? No. Sventura a chi gode del proprio talento in un momento simile! È quando il grande dolore è passato, quando l’estrema sensibilità si è attenuata, quando si è lontani dalla catastrofe, che l’anima è calma, che si ricorda la felicità offuscata, che si è capaci di stimare la perdita, che la memoria si unisce all’immaginazione; l’una per ritrovare, l’altra per esagerare la dolcezza di un tempo passato; che ci si domina e che si parla bene. Si dice che si piange, ma non si piange, quando si cerca un epiteto energico che non si riesce a scovare; si dice che si piange, ma non si piange, quando ci si occupa di rendere i versi armoniosi, o se le lacrime colano, la penna cade dalle mani, ci si abbandona al proprio sentimento e si smette di comporre. Ma i piaceri violenti, come le profonde sofferenze, sono muti. Un amico tenero e sensibile rivede un amico che aveva perduto a causa di una lunga assenza; questi ricompare in un momento inatteso, e presto il cuore del primo si turba, egli corre, lo abbraccia, vuole parlare, non ne è capace: balbetta delle parole spezzate, non sa quello che dice; non intende nulla di quello che gli viene risposto; se potesse accorgersi che il suo delirio non è condiviso, quanto soffrirebbe! Giudicate la verità di questo affresco, la falsità di quei colloqui teatrali in cui due amici hanno tanto spirito e si dominano così bene. Non vi parlerò di queste dispute insipide ed eloquenti su chi morirà o piuttosto su chi non morirà, se questo testo, o quello non finirò, non ci ha allontanati dal nostro argomento? Ce n’è abbastanza per le persone di gusto grande e vero; quel che potrei aggiungere non insegnerebbe nulla agli altri. Chi salverà queste abitudini così comuni a teatro? L’attore probabilmente, e quale attore? Il rapporto è di mille circostanze contro una in cui la sensibilità è altrettanto nociva per la società quanto sulla scena. Ecco due

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amanti, l’uno e l’altro hanno una dichiarazione da fare. Qual è quello che ne trarrà il meglio? Non sono io. Riuscivo ad avvicinarmi all’oggetto del mio amore solo tremando; il cuore mi batteva; le mie idee si ingarbugliavano; la mia voce s’imbarazzava, storpiavo tutto ciò che dicevo; rispondevo no quando bisognava rispondere sì. Commettevo mille goffaggini, ero infinitamente impacciato; ero ridicolo dalla testa ai piedi, me ne rendevo conto e divenivo più goffo e più ridicolo. Invece, sotto i miei occhi, un rivale allegro, piacevole e leggero, capace di dominarsi, sicuro di se stesso, senza sfuggire ad alcuna occasione di lodare e di farlo con finezza, divertendo, piaceva, era felice; sollecitava una mano che gli veniva lasciata, l’afferrava talvolta senza averla chiesta, la baciava, la baciava ancora; e io, ritirato in un angolo, distoglievo i miei sguardi da uno spettacolo che mi irritava, soffocavo i miei sospiri, schioccandomi le dita a forza di stringere i pugni, prostrato dalla malinconia, coperto di sudore freddo, non potevo né mostrare né celare la mia tristezza. Si dice che l’amore toglie lo spirito a chi ne ha, e lo conferisce a quelli che non ne hanno, in altre parole, che rende gli uni sensibili e sciocchi, e gli altri freddi e intraprendenti. L’uomo sensibile obbedisce agli impulsi della natura e rende precisamente solo il grido del suo cuore; nel momento in cui tempera la forza di questo grido, non è più lui, è un attore che recita. Il grande attore osserva i fenomeni; l’uomo sensibile gli serve da modello; egli lo medita, e trova attraverso la riflessione quel che bisogna aggiungere o sottrarre per il meglio. E poi, ancora dei fatti dopo le ragioni. Alla prima rappresentazione di Inès de Castro, nel momento in cui comparivano i bambini, la platea si è messa a ridere; la Duclos che interpretava Inès, indignata, ha detto alla platea: «Ridete dunque, poveri sciocchi, nel più bel momento del

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dramma!»42. Il pubblico l’ha sentita, e si è contenuto; l’attrice ha ripreso il suo ruolo, e ha versato le sue lacrime e gli spettatori le loro. Come! Si passa e ripassa così da un sentimento profondo a un sentimento profondo, dal dolore all’indignazione, dall’indignazione al dolore? Non lo capisco; ma capisco molto bene che l’indignazione della Duclos era reale e il suo dolore simulato. Quinault du Frêne43 interpreta Severo in Poliuto. Inviato dal­ l’imperatore Decio per perseguitare i cristiani, confida i suoi sentimenti segreti su questa setta calunniata al suo amico. Il senso comune esige che questa confidenza, che può costargli il favore del principe, la sua dignità, la sua fortuna, la libertà e forse anche la vita, sia proferita a bassa voce. La platea gli grida: Più forte! Egli risponde alla platea: E voi, Signori, più piano! Se fosse stato veramente Severo, sarebbe diventato all’istante Quinault? No, vi dico di no. Solo l’uomo che si domina come probabilmente egli dominava se stesso, l’attore raro, l’attore per eccellenza può togliere e rimettere così la sua maschera. Le Kain Ninias scende nella tomba del padre, dove taglia la gola a sua madre; ne esce con le mani insanguinate. È pieno di orrore, le sue membra sussultano, i suoi occhi sono smarriti, i suoi capelli sembrano rizzarsi sulla testa. Voi sentite fremere le vostre, il terrore vi coglie, siete tanto perduto quanto lui. Tuttavia Le Kain Ninias spinge con il piede verso la quin42.  Il 6 aprile 1723 quest’opera di Houdar de La Motte (1672-1731) venne rappresentata per prima volta, come ricorda J.M. Dieckmann, facendo molto scalpore per la presenza di bambini sulla scena. Al momento della rappresentazione Marie-Anne de Châteuneuf (1668-1748) detta Duclos aveva più di cinquant’anni. 43.  Abraham-Alexis Quinault detto Quinault Dufresne (1693-1767), ebbe particolarmente successo nei ruoli di Don Pedro, in Inès de Castro di La Motte e in quella del protagonista del Cinna di Corneille.

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ta un diamante a goccia che si era staccato dall’orecchio di un’attrice. E questo attore prova qualcosa? Non è possibile. Direste che è un cattivo attore? Non credo proprio. Che cos’è dunque Le Kain Ninias? È un uomo freddo che non sente nulla, ma che rappresenta la sensibilità in modo superiore. Può ben gridare: Dove sono? Gli rispondo: «Dove sei? Lo sai bene; sei sul palco, e spingi con un piede un orecchino verso la quinta»44. Un attore [acteur] è preso dalla passione per un’attrice [actrice]; un dramma li colloca per caso in scena in un momento di gelosia. La scena ci guadagnerà, se l’attore [acteur] è mediocre, ci perderà, se è un grande attore [comédien]; allora il grande attore [comédien] diviene se stesso e non è più il modello ideale e sublime che si è fatto di un geloso. Una prova che allora l’attore [acteur] e l’attrice [actrice] si abbassano l’uno e l’altra alla vita comune, è che se rimanessero sui loro trampoli, si riderebbero in faccia; la gelosia ampollosa e tragica sembrerebbe solo una parodia della loro. Il secondo: Tuttavia ci saranno delle verità in natura. Il Primo: Come ce ne sono nella statua dello scultore che ha reso fedelmente un brutto modello. Ammiriamo queste verità, ma troviamo il tutto povero e disprezzabile. Dico di più: un modo sicuro per recitare scarsamente, meschinamente, è dover recitare il proprio personaggio. Voi siete un impostore, un avaro, un misantropo, e interpretate un misantropo, un avaro e un impostore e lo farete bene; ma non fare44.  Riferimento alla rappresentazione della Sémiramis di Voltaire rappresentata nel 1748 e poi rimessa in scena nel 1756-1759. Lekain interpretava il ruolo di Ninias e, nella scena a cui fa riferimento Diderot, usciva da una tomba, con le braccia nude e insanguinate e i capelli scomposti esclamando: «Cielo! Dove sono?». Voltaire farà l’elogio dell’espediente nella prefazione alla tragedia Les Scythes (1767).

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te nulla di quello che ha fatto il poeta, perché lui ha creato il Tartufo, l’Avaro e il Misantropo45. Il secondo: Secondo voi che differenza c’è allora tra un tartufo e il Tartufo? Il Primo: Il funzionario Billard46 è un tartufo, l’abate Grizel è un tartufo, ma non è il Tartufo. Il finanziere Toinard47 era un avaro, ma non era l’Avaro. L’Avaro e il Tartufo sono stati fatti a partire da tutti i Toinard e i Grizel del mondo; sono i loro tratti più generali e i più evidenti, non è il ritratto esatto di nessuno, così nessuno si riconosce in loro. Gli attori [comédiens] che hanno verve e anche carattere sono esagerati. Le burle della società sono una schiuma leggera che evaporerebbe sulla scena; la burla a teatro è un’arma affilata che ferirebbe in società. Verso gli esseri immaginari non si ha lo stesso riguardo che si deve a quelli reali. La satira è di un tartufo e la commedia è del Tartufo. La satira persegue il vizioso, la commedia persegue il vizio. Se ci fossero state solo una o due preziose ridicole48, non ne avremmo potuto fare una satira, ma una commedia. Andate dunque da La Grenée49, domandategli la Pittura, e crederà di aver soddisfatto la vostra richiesta mettendo sulla

45.  Si tratta delle più celebri commedie di Molière. 46.  Riferimento al cassiere generale della posta Billard Du Monceau, uomo molto devoto, che fece una clamorosa bancarotta nel 1769. Nello scandalo fu implicato anche Joseph Grizel o Grisel, citato subito dopo, confessore dell’arcivescovo di Parigi. 47.  Appaltatore delle imposte noto per la sua avarizia. 48.  Riferimento a Les Précieuses ridicules (1659) di Molière. 49.  Louis-Jean-François Lagrenée (1724-1805) pittore allievo di Carl van Loo, i dipinti di cui parla Diderot furono esposti al Salon 1767 e poi acquistati da Diderot stesso.

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sua tela una donna davanti a un cavalletto, con la palette infilata nel pollice e il pennello in mano. Domandategli la Filosofia, e crederà di averla fatta, mettendo davanti a uno scrittoio, di notte, illuminata dalla luce di una lampada, appoggiata su un gomito, una donna in veste da camera, scarmigliata e pensosa che legge o che medita. Domandategli la Poesia, e prenderà la stessa donna a cui cingerà la testa con del lauro e le metterà in mano un rotolo. La Musica; sarà ancora la stessa donna con una lira al posto del rotolo. Chiedetegli la Bellezza, chiedete anche questa figura a qualcuno di più bravo di lui, o mi sbaglio di grosso, o quest’ultimo si convincerà che voi volete dalla sua arte la figura di una bella donna. Il vostro attore [acteur] e questo pittore cadono tutti e due nello stesso difetto, e dirò loro: “Il vostro dipinto, la vostra recitazione sono solo dei ritratti di individui molto al di sotto dell’idea generale che il poeta ha tracciato e del modello ideale di cui mi promettevo la copia. La vostra vicina è bella, bellissima, d’accordo, ma non è la Bellezza. C’è una tale distanza tra la vostra opera e il vostro modello, quanta tra il vostro modello e l’ideale”. Il secondo: Ma questo modello ideale non è forse una chimera? Il Primo: No. Il secondo: Ma poiché è ideale, non esiste; ora, non c’è nulla nell’intelletto che non sia stato nella sensazione. Il Primo: È vero. Ma prendiamo un’arte alla sua origine, la scultura, per esempio. Copiò il primo modello che le si presentò. Vide poi che c’erano dei modelli meno imperfetti, che preferiva. Corresse i difetti grossolani di questo, poi i difetti meno grossolani, fino a che con una lunga serie di lavori ottenne una figura che non esisteva più in natura. Il secondo: E perché?

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Il Primo: Il fatto è che non è possibile che lo sviluppo di una macchina complicata quanto un corpo animale sia regolare. Andate alle Tuileries o agli Champs Elysées in una bella giornata di festa; considerate tutte le donne che riempiranno le strade, e non ne troverete una sola che abbia i due angoli della bocca perfettamente simili50. La Danae di Tiziano51 è un ritratto, l’Amore posto ai piedi del suo giaciglio è ideale. In un dipinto di Raffaello, passato dalla galleria di de Thiers a quella di Caterina II, il San Giuseppe è una natura comune; la Vergine è una bella donna reale; il Bambino Gesù è ideale52. Ma se volete scoprire di più su questi principi speculativi dell’arte, vi farò avere i miei Salons. Il secondo: Ne ho sentito parlare in termini elogiativi da un uomo di gusti raffinati e da uno spirito delicato. Il Primo: Monsieur Suard53.

50.  Diderot richiama il principio leibniziano degli indiscernibili che applica però a una concezione materialistica. Tale principio viene ripreso in diverse opere: nei Pensieri sull’interpretazione della natura, nei Saggi sulla pittura, nell’Elogio di Richardson, negli Elementi di fisiologia e nel Salon 1767. Per un approfondimento della questione in ambito estetico si rinvia a C. Alvarez, Leibniz dans le Salon de 1767: interpréter la «bouffée de métaphysique», in C. Leduc - F. Pépin - A.-L. Rey - M. Rioux-Beaulne (a cura di), Leibniz et Diderot. Rencontres et transformations, Presses de l’Université de Montréal-Vrin, Montréal 2015, pp. 257-269. 51.  Dipinto realizzato da Tiziano per Filippo II nel 1554 e conservato al Museo del Prado di Madrid. Diderot potrebbe aver visto la copia conservata presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, durante il soggiorno in Russia presso la zarina Caterina II. 52.  Si tratta della Sacra Famiglia più nota come Madonna con San Giuseppe imberbe (1506) di Raffaello Sanzio, che Diderot acquistò dal duca de Broglie, erede della famiglia Crozat di Thier, nel 1771 per Caterina II. Attualmente il dipinto si trova presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. 53.  Jean-Baptiste Suard (1733-1817) scrittore e membro dell’Accademia di Francia dal 1774, fu autore di diverse opere: Variétés littéraires (1768-69);

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Il secondo: E da una donna che possiede tutto quello che la purezza di un’anima angelica aggiunge a un gusto fine. Il Primo: Madame Necker54. Il secondo: Ma ritorniamo al nostro argomento. Il Primo: Acconsento, anche se preferisco lodare la virtù che discutere di questioni oziose. Il secondo: Quinault du Frêne, vanaglorioso di carattere, recitava a meraviglia il Glorioso55. Il Primo: È vero, ma come sapete che interpretava se stesso? Non sarebbe possibile che la natura lo avesse reso un vanaglorioso molto vicino al limite che separa il bello reale dal bello ideale, limite sul quale si giocano le diverse scuole. Il secondo: Non vi capisco. Il Primo: Sono più chiaro nei miei Salons, di cui vi consiglio la lettura del brano sulla bellezza in generale. In attesa, ditemi, Quinault du Frêne è Orosmane? No. Tuttavia chi lo ha sostituito e lo sostituirà in questo ruolo? Era l’uomo di Préjugé à la mode56? No. Tuttavia con quanta verità lo interpretava! Il secondo: A sentire voi, il grande attore è tutto e non è niente. Mélanges de littérature (1803-06); Mémoires et correspondances historiques et littéraires inédits (1858) e collaboratore di diverse riviste: «Journal étranger», «Gazette de France», «Nouvelles politiques» e del «Publiciste». 54.  Suzanne Curchod moglie di Jacques Necker (si veda supra, nota 36) e madre di Madame de Staël. Il salotto organizzato da Madame Necker era uno dei più rinomati, frequentato da personalità del calibro di Buffon, La Harpe, Marmontel. 55.  Commedia in versi di Philippe Néricault detto Destouches (1680-1754) 56.  Orosmane è un personaggio di Zaïre di Voltaire, Le Préjugé à la mode è una commedia di Nivelle de La Chaussé in cui Quinault Dufresne interpretava il ruolo di protagonista.

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Il Primo: E forse è perché non è niente, che è tutto per eccellenza, la sua forma particolare non contrarierebbe mai le forme estranee che deve assumere. Tra tutti quelli che hanno esercitato l’utile e bella professione dell’attore o del predicatore laico, uno degli uomini più onesti, uno degli uomini che ne avevano più la fisionomia, il tono e il contegno, il fratello del Diable boiteux, di Gilblas, del Bachelier de Salamanque, Montmesnil… Il secondo: Il figlio di Le Sage57, padre comune di tutta questa piacevole famiglia. Il Primo: Interpretando con eguale successo Aristo in la Pupille, Tartufo nella commedia che porta questo nome, Mascarille in Les Fourberies de Scapin, l’avvocato o M. Guillaume nella farsa di Patelin. Il secondo: L’ho visto. Il Primo: E con vostro grande stupore, aveva la maschera di questi diversi visi. Non avveniva naturalmente, perché la natura non gli aveva dato che la sua; egli derivava dunque le altre dall’arte. Esiste una sensibilità artificiale? Sia fittizia, sia innata, la sensibilità non c’è in tutti i ruoli. Qual è dunque la qualità acquisita o naturale che costituisce il grande attore [acteur] nell’Avaro, il Giocatore, l’Adulatore, il Brontolone, il Medico suo malgrado, l’essere meno sensibile e più immorale di quanto la poesia abbia ancora immaginato; il Borghese gentiluomo, il Malato e il Cornuto immaginario; nel Nerone, Mitridate, Atreo, Foca, Sertorio e tanti altri personaggi tragici o comici, in cui la sensibilità è diametralmente opposta allo spirito del ruolo? La 57.  Louis-René-André Lesage detto de Montmény (1695-1743) autore drammatico e scrittore di romanzi – Le Diable boiteux (1707), Gilblas (17151735), Bachelier de Salamanque (1736) – molto apprezzato da Diderot.

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facilità di conoscere e di copiare tutte le nature. Credetemi, non moltiplichiamo le cause quando una sola basta per tutti i fenomeni. Talvolta il poeta ha sentito più intensamente dell’attore [comédien], talvolta, e più spesso forse, l’attore [comédien] ha ideato più intensamente che il poeta; e nulla è più vero di quell’esclamazione di Voltaire ascoltando la Clairon in una delle sue pièce: «Sono io che ho fatto questo?» La Clairon ne sa più di Voltaire? In quel momento almeno del suo modello ideale, declamando, era molto al di là del modello ideale che il poeta si era fatto scrivendo. Ma questo modello ideale non era lei. Qual era dunque il suo talento? Quello di immaginare un grande fantasma e di copiarlo con genialità. Essa imitava il movimento, le azioni, i gesti, ogni espressione di un essere molto al di sopra di lei. Essa aveva trovato quello che Eschine recitando in un’orazione di Demostene non poté mai rendere, il muggito della bestia. Diceva ai suoi discepoli: «Se questo vi colpisce così intensamente, che cosa sarei dunque dovuto essere, si audivissetis bestiam mugientem58?». Sarebbe un singolare abuso di parole chiamare sensibilità questa facilità di rendere tutte le nature, anche le nature feroci. La sensibilità, secondo la sola accezione che si sia data fino a oggi di questo termine, è, mi sembra, quella disposizione compagna della debolezza degli organi, conseguenza della mobilità del diaframma, della vivacità dell’immaginazione, della delicatezza dei nervi, che incline a compatire, a fremere, a ammirare, a temere, a turbarsi, a piangere, a svenire, a soccorrere, a fuggi58.  Secondo San Girolamo (Epistole, 53, 2) e Cicerone (De oratore, VIII, 26) si tratta di un motto di Eschine, oratore ateniese del IV secolo, rivale di Demostene: «Se aveste udito il muggito della bestia». Per una più ampia comprensione del processo creativo qui descritto si rinvia a P. Quintili, Diderot, l’esthétique et le naturalisme. L’autre science de l’interprétation de la nature, in «Dix-huitième Siècle», n. 31, 1999, pp. 269-282.

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re, a gridare, a perdere la ragione, a esagerare, a disprezzare, a disdegnare, a non avere alcuna idea precisa del vero, del buono e del bello, a essere ingiusta, a essere folle. Moltiplicate le anime sensibili, e moltiplicherete in proporzione le buone e le cattive azioni di ogni genere, gli elogi e i rimproveri esagerati. Poeti, lavorate per una nazione delicata, vaporosa e sensibile? rinchiudetevi nelle armoniose, tenere e toccanti elegie di Racine; si salverebbe dalle carneficine di Shakespeare. Queste anime deboli sono incapaci di sopportare le scosse violente. Guardatevi bene dal presentare loro delle immagini troppo forti. Mostrate loro, se volete, Le fils tout dégoutant du meurtre de son père, Et sa tête à la main demandant son salaire,59

ma non andate oltre. Se osaste dire loro con Omero: Dove vai sventurato? Non sai dunque che il Cielo invia a me i figli dei padri sfortunati? Tu non riceverai gli ultimi abbracci di tua madre; già ti vedo disteso sulla terra, già ti vedo gli uccelli predatori, assembrarsi intorno al tuo cadavere, strapparti gli occhi dalla testa sbattendo le ali per la gioia60… tutte le nostre donne grideranno, distoglieranno lo sguardo: Ah, che orrore!… Sarebbe ben peggio se questo discorso, pronunciato da un grande attore [comédien], fosse ulteriormente rafforzato dalla sua autentica declamazione. Il secondo: Sono tentato di interrompervi per chiedervi che cosa ne pensate di quel vaso presentato a Gabrielle de Vergy61, che vi scorge il cuore sanguinante del suo amante.

59.  «Il figlio grondante dall’omicidio del padre / con la sua testa in mano, domanda il prezzo del suo delitto» (Corneille, Cinna, Atto I, III). 60.  Citazione approssimativa di Iliade, XI, vv. 391-395; e XXII, vv. 352-354. 61.  Allusione all’omonima tragedia rappresentata postuma da Dormont de Belloy (1727-1775).

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Il Primo: Vi risponderò che bisogna essere conseguenti, e che quando ci si rivolta contro questo spettacolo, non bisogna sopportare che Edipo si mostri con gli occhi trafitti, e che bisogna cacciar via dalla scena Filottete tormentato dalla sua ferita mentre manifesta il suo dolore con delle grida inarticolate. Mi sembra che gli Antichi avessero un’idea diversa della tragedia rispetto a noi, e che quegli Antichi, erano i Greci, erano gli Ateniesi, un popolo tanto delicato, che ci ha lasciato ogni genere di modelli che le altre nazioni non hanno ancora eguagliato. Eschilo, Sofocle, Euripide non vegliarono interi anni per produrre solo moderate impressioni passeggere che si dissipano nella spensieratezza di una cena. Volevano rattristare profondamente sulla sorte degli sventurati; non volevano divertire i loro concittadini, ma renderli migliori. Avevano torto? Avevano ragione? Per ottenere questo effetto, facevano correre sulla scena le Eumenidi62 che seguivano la traccia del parricida e guidate dal vapore del sangue che colpiva il loro odorato. Avevano troppo giudizio per applaudire a questi intrighi, a questi giochi di pugnali, buoni solo per i bambini. Una tragedia non può essere, secondo me, solo una bella pagina storica che si suddivide in un certo numero di pause stabilite. Si attende lo sceriffo63. Arriva. Interroga il signore del villaggio. Gli propone di rinnegare la sua fede. Questi si rifiuta. Lo condanna a morte. Lo invia nelle prigioni. La figlia viene a domandare la grazia a suo padre. Lo sceriffo gliela accorda a una condizione rivoltante. Il signore del villaggio viene messo a morte. Gli abitanti perseguitano lo sceriffo. Quest’ultimo fugge da loro. L’amante della figlia del signore lo uccide con

62.  Riferimento alle Eumenidi di Eschilo. Nei Dialoghi sul figlio naturale il filosofo aveva descritto dettagliatamente la stessa scena a cui qui allude. 63.  La trama riportata qui in sintesi era già stata esposta da Diderot nella Poesia drammatica (1758) e poi nell’elaborazione un’opera, rimasta incompiuta, intitolata proprio Le Shérif (1769).

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un colpo di pugnale; e il feroce fanatico muore in mezzo alle imprecazioni. Non serve di più a un poeta per comporre una grande opera. Che la figlia vada a interrogare la madre sulla sua tomba, per scoprire quello che deve a colui che le ha donato la vita. Che sia incerta sul sacrificio dell’onore che si esige da lei. Che, in questa incertezza, tenga il suo amante lontano da lei e rifiuti di ascoltare i suoi discorsi appassionati. Che ottenga il permesso di vedere suo padre nelle prigioni. Che suo padre voglia unirla al suo amante, e che lei non acconsenta. Che si prostituisca. Che mentre si prostituisce, suo padre sia messo a morte. Che voi ignoriate la sua prostituzione fino al momento in cui il suo amante trovandola afflitta, e credendola sconsolata per la morte di suo padre che lei stessa gli comunica, apprenda il sacrificio che ha fatto per salvarlo. Che allora lo sceriffo braccato dal popolo arrivi, e che sia massacrato dall’amante. Ecco una parte dei dettagli di un simile soggetto. Il secondo: Una parte! Il Primo: Sì, una parte. I giovani amanti non proporranno al signore del villaggio di salvarsi? Gli abitanti non gli proporranno di uccidere lo sceriffo e i suoi gregari? Non ci sarà un prete difensore della tolleranza? In mezzo a questa giornata di dolore l’amante resterà ozioso? Non si possono supporre delle altre relazioni tra questi personaggi? Non c’è alcun partito da trarre da questi legami? Questo sceriffo non potrebbe essere stato l’amante della figlia del villaggio? Non ritornerà con l’anima colma del desiderio di vendetta sia contro il padre che l’ha cacciato dal borgo, sia contro la figlia che l’ha rifiutato? Quanti incidenti importanti si possono trarre dal soggetto più semplice, quando si ha la pazienza di meditarlo! Che colore si può conferire loro se si è eloquenti! Non si può essere poeti drammatici senza essere eloquenti. E non credete che non offrirei un grande spettacolo? Quell’interrogatorio, si farà con tutto il suo apparato. Lasciatemi disporre del mio locale; e mettiamo fine a questo scarto.

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Prendo a testimone, Roscio64 l’inglese, il celebre Garrick, che secondo l’unanime consenso di tutte le nazioni esistenti, passa per il più grande attore [comédien] che si sia mai conosciuto, rendi omaggio alla verità: non mi hai detto, che anche se sentissi intensamente, la tua recitazione sarebbe debole, che qualunque fosse la passione o il personaggio da interpretare, non sapresti elevarti con il pensiero alla grandezza di un fantasma omerico a cui cercheresti di identificarti? Se ti obiettassi che non era a partire da te stesso che interpretavi il ruolo, ammetti la tua risposta: non mi hai confessato che te ne guarderesti bene, e che non sembreresti così straordinario sulla scena se non mostrassi sempre allo spettatore un essere immaginario che non sei tu? Il secondo: L’anima di un grande attore [comédien] è stata formata dall’elemento sottile di cui il nostro filosofo riempiva lo spazio che non è né freddo né caldo, né pesante né leggero, che non colpisce nessuna forma determinata, e che, ugualmente suscettibile a tutte, non ne conserva alcuna. Il Primo: Un grande attore [comédien] non è né un pianoforte, né un’arpa, né un clavicembalo, né una viola, né un violoncello; non ha alcun accordo che gli sia proprio, ma prende l’accordo e il tono che conviene alla sua parte e sa prestarsi a tutte. Ho un’idea elevata del talento di un attore; quest’uomo è raro, così raro, e forse più raro di un grande poeta. Colui che in società si propone e ha lo sventurato talento di piacere a tutti, non è nulla, non ha nulla che gli appartenga, nulla che lo distingua, che infatui gli uni e che affatichi gli altri. Parla sempre e sempre bene. È un adulatore di professione, è un grande cortigiano, è un grande attore. Il secondo: Un grande cortigiano abituato fin da quando inizia a respirare al ruolo di un meraviglioso burattino, che as-

64.  Celebre attore romano del I secolo a.C.

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sume ogni tipo di forma, a seconda del filo tenuto dalle mani del suo padrone. Il Primo: Un grande attore [comédien] è un altro burattino meraviglioso di cui il poeta tiene il filo e a cui indica, in ciascuna riga, la vera forma che deve assumere. Il secondo: Così un cortigiano, un attore [comédien] che può prendere una sola forma, per quanto bella, per quanto interessante essa sia, non sono che due pessimi burattini? Il Primo: Il mio scopo non è calunniare una professione che amo e che stimo, parlo di quella dell’attore [comédien]. Sarei dispiaciuto se le mie osservazioni, interpretate male, attribuissero un’ombra di disprezzo a degli uomini di un talento raro e di reale utilità, ai flagellatori del ridicolo e del vizio, ai più eloquenti predicatori dell’onestà e della virtù, alla verga di cui l’uomo di genio si serve per castigare i malvagi e i folli. Guardatevi intorno però, e vedrete che le persone sempre allegre non hanno né grandi difetti, né grandi qualità, che comunemente i tipi spiritosi per professione sono degli uomini frivoli, senza alcun principio solido, e che quelli simili a certi personaggi che circolano nelle nostre società, non hanno alcun carattere, essendo eccellenti nell’interpretarli tutti. Un attore [comédien] avrà un padre, una madre, una moglie, dei figli, dei fratelli, delle sorelle, delle conoscenze, degli amici, un’amante? Se fosse dotato di quella squisita sensibilità che si considera la qualità principale della sua condizione, rincorso come noi e raggiunto da un’infinità di pene che si succedono e che talvolta avvizziscono le nostre anime, e talaltra le lacerano, quanto gli resterebbe dei suoi giorni da donare al nostro divertimento? Pochissimo. Il gentiluomo da camera interporrà vanamente la sua autorità, l’attore si troverebbe spesso costretto a rispondergli: «Signore, non potrei ridere oggi; o vorrei parlare di qualcosa di diverso dalle preoccupazioni di Agamennone». Tuttavia non percepiamo che le preoccupazioni della

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vita, frequenti per loro tanto quanto per noi e molto più contrarie al libero esercizio delle loro funzioni, li intralcino spesso. Nel mondo, quando non sono dei buffoni, li trovo educati, caustici e freddi; fastosi, dissipati, dissipatori, interessati, più colpiti dal ridicolo che toccati dai nostri mali; con uno spirito molto assennato di fronte allo spettacolo di un evento fastidioso o al racconto di un’avventura patetica; isolati, vagabondi, agli ordini dei Grandi; pochi principi morali, nessun amico, quasi nessuno di quei legami sacri e dolci che associamo alle pene e ai piaceri di un altro che condivide i nostri. Ho visto spesso un attore [comédien] ridere fuori dalla scena; non ricordo di averne mai visto uno piangere. Che cosa se ne fanno, dunque, di quella sensibilità che si arrogano e che noi attribuiamo loro? La lasciano sul palco quando ne discendono, per riprenderla nel momento in cui vi risalgono? Come calzano il socco e il coturno? La mancanza di educazione, la miseria e il libertinaggio. Nessuno è mai divenuto attore [comédien] per gusto della virtù, per desiderio di servire la società e di servire il suo paese, o la sua famiglia, senza nessuno dei motivi onesti che potevano trascinare uno spirito retto, un cuore caldo, un’anima sensibile verso una così bella professione. Io stesso, da giovane, tentennai tra la Sorbona e la Commedia. Andavo, d’inverno, nella stagione più rigorosa, a interpretare ad alta voce dei personaggi di Molière e di Corneille nei viali solitari del Luxembourg. Qual era il mio intento? Di essere applaudito? Forse. Di vivere familiarmente con le donne di teatro che trovavo infinitamente amabili e che sapevo essere molto facili? Sicuramente. Non so cosa non avrei fatto per piacere alla Gaussin che debuttava allora e che era la Bellezza personificata; alla Dagenville65 che aveva così tante attrattive sulla scena. 65.  Il debutto della Gaussin fu nel 1731, mentre la Dagenville esordì nel 1730, epoca in cui Diderot era studente.

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Si dice che gli attori [comédiens] non hanno nessun carattere, perché li interpretano tutti e perdono quello che la natura ha dato loro, e che diventano falsi, come il medico, il chirurgo e il macellaio diventano duri. Credo che si sia scambiata la causa con l’effetto, e che siano adatti a interpretarli tutti perché non hanno alcun carattere66. Il secondo: Non si diventa crudeli perché si fa il boia, si diventa boia, perché si è crudeli. Il Primo: Per quanto possa esaminare quegli uomini, non vedo in loro nulla che li distingua dal resto dei cittadini, se non per una vanità che si potrebbe chiamare insolenza, una gelosia che colma i turbamenti e gli odi del loro ambiente. Tra tutte le categorie, non ce n’è forse nessuna in cui l’interesse comune a tutti e quello pubblico siano più costantemente e più evidentemente sacrificati a delle miserabili piccole pretese. L’invidia tra di loro è anche peggiore che tra gli autori; sembra che ecceda in quel che dico, ma è vero. Un poeta perdona più facilmente a un altro poeta il successo di una pièce, che un’attrice [actrice] a un’altra attrice [actrice] gli applausi che la facciano notare da qualche illustre o ricco dissoluto. Le vedete grandi sulla scena perché hanno dell’anima, dite voi; io, le vedo piccole e meschine in società, perché non ne hanno per niente: con l’intenzione e il tono di Camilla del vecchio Orazio67, sempre i costumi di Frosina68 e di Sgaranello69. Ora per conoscere un cuore a fondo, bisogna che lo faccia in relazione ai discorsi racimolati che tutti sanno recitare in modo meraviglioso, o sulla natura delle azioni e alla condotta di vita?

66.  Diderot evoca J.-J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, cit. 67.  Personaggi dell’Horace di Corneille (1640). 68.  Personaggio dell’Avare di Molière (1668). 69.  Personaggio di sette commedie di Molière, secondo J.M. Dieckmann qui Diderot potrebbe riferirsi in particolare al Médecin malgré lui.

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Il secondo: Tuttavia una volta Molière, Quinault, Montmesnil, ma oggi Brizard e Caillot70, che è egualmente annoverato tra i potenti e tra gli umili, a chi conferireste senza timore il vostro segreto e la vostra borsa, e con chi riterreste più in sicurezza l’onore di vostra moglie e l’innocenza di vostra figlia con loro o con un gran signore della corte o un certo rispettabile ministro dei nostri altari… Il Primo: L’elogio non è esagerato; quello che mi infastidisce è di non sentir citare un maggior numero di attori che l’abbiano meritato o che lo meritino. Quel che mi disturba, è che tra costoro che possiedono, per il loro stato, una qualità, la fonte preziosa e feconda di tante altre, un attore [comédiens] galantuomo e un’attrice [actrice] che sia una donna onesta, siano dei fenomeni così rari. Concludiamo da questo che è falso sostenere che abbiano un privilegio speciale, e che la sensibilità li domina nel mondo come sulla scena, se ne fossero dotati, non sarebbe né la base del loro carattere, né del loro successo; che essa non appartenga loro non è né più né meno che a tale o talaltra condizione sociale; e che se si vedono così pochi grandi attori [comédiens], è perché i genitori non destinano i loro figli al teatro; è perché non ci si prepara attraverso un’educazione che inizia fin dall’infanzia; è perché una compagnia di attori [comédiens] non è, come dovrebbe essere presso un popolo che attribuisce alla funzione di parlare agli uomini riuniti per essere istruiti, divertiti, corretti, l’importanza, gli onori, le ricompense che merita, una corporazione formata, come tutte le altre comu-

70.  Jean-Baptiste Britard detto Brizard (1721-1791) pittore, allievo di Carl van Loo, nel 1751 debuttò alla Comédie e si specializzò nell’interpretazione di re e padri nobili. Recitò anche nel Padre di famiglia di Diderot. Joseph Caillot (1733-1816) tenore e baritono, debuttò nel 1760 alla Comédie Italienne, ebbe un grande successo nel Déserteur di Sedaine.

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nità, da soggetti provenienti da tutte le famiglie della società e condotti sulla scena come al servizio, a palazzo, in chiesa, per scelta o per gusto e con il consenso dei loro tutori naturali. Il secondo: L’avvilimento degli attori [comédiens] moderni, mi sembra, è una sventurata eredità che hanno lasciato loro gli attori [comédiens] antichi. Il Primo: Ne sono convinto. Il secondo: Se lo spettacolo nascesse oggi che abbiamo delle idee più corrette delle cose, forse… Ma voi non mi ascoltate. A cosa pensate? Il Primo: Sono alla mia prima idea, e penso all’influenza dello spettacolo sul buon gusto e sui costumi, se gli attori fossero delle persone per bene e se la loro professione fosse onorata. Quale poeta oserebbe proporre a degli uomini perbene di ripetere pubblicamente dei discorsi piatti e grossolani; a delle donne abbastanza sagge come le nostre, di recitare sfrontatamente davanti a una moltitudine di ascoltatori dei propositi di cui arrossirebbero se li ascoltassero nel segreto delle loro case? Presto i nostri autori drammatici raggiungerebbero una purezza, una delicatezza, un’eleganza di cui sono ancora più lontani di quanto non sospettino. Ora dubitate che lo spirito nazionale non ne risentirebbe? Il secondo: Si potrebbe obiettare forse che le pièce, tanto antiche quanto moderne, che i vostri attori [comédiens] onesti escluderebbero dal loro repertorio, sono precisamente quelle che recitiamo in società. Il Primo: E che importa che i nostri concittadini si abbassino alla condizione dei più vili istrioni? Sarebbe meno utile, sarebbe meno auspicabile che i nostri attori [comédiens] si elevassero alla condizione dei più onesti cittadini? Il secondo: La metamorfosi non è semplice.

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Il Primo: Quando pubblicai Il Padre di famiglia, il magistrato della polizia mi esortò a proseguire con questo genere71. Il secondo: Perché non lo avete fatto? Il Primo: Il fatto è che non avendo ottenuto il successo che mi ero ripromesso e non ritenendo di riuscire a fare molto meglio, mi è passato il gusto per una carriera per la quale non credevo di avere tanto talento. Il secondo: E perché questa pièce, che oggi riempie la sala di spettatori prima delle quattro e mezza e che gli Attori [Comédiens] mettono in cartellone tutte le volte che hanno bisogno di un migliaio di scudi, è stata accolta tiepidamente all’inizio? Il Primo: Alcuni dicevano che i nostri costumi erano troppo fittizi per adattarsi a un genere così semplice; troppo corrotti per apprezzare un genere così saggio. Il secondo: Questo non è impossibile. Il Primo: Ma l’esperienza ha dimostrato che questo non è vero, perché noi non siamo diventati migliori. D’altra parte il vero, l’onesto, ha tanto ascendente su di noi che se l’opera di un poeta ha queste due caratteristiche e l’autore ha del genio, il suo successo sarà assicurato. È soprattutto quando tutto è falso, che amiamo il vero; soprattutto quando tutto è corrotto che lo spettacolo è più puro. Il cittadino che si presenta all’entrata della Commedia vi lascia tutti i suoi vizi per 71.  Messo in scena per la prima volta alla Comédie Française il 18 febbraio 1761, Il padre di famiglia ebbe un discreto successo, decisamente maggiore però fu quello riscosso nelle stagioni 1769-1770, con quattordici rappresentazioni tra agosto e marzo. Il figlio naturale invece ebbe minor fortuna e fu rappresentato unicamente il 26 settembre 1771. Il «magistrato della polizia» a cui fa riferimento in questa battuta secondo J.M. Dieckmann è probabilmente Antoine de Sartine conte d’Alby, tenente generale della polizia e amico di Diderot.

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riprenderli solo all’uscita. Là, è giusto, imparziale, buon padre, buon amico, amico della virtù; e ho visto spesso accanto a me dei malvagi profondamente indignati contro azioni che si sarebbero astenuti dal commettere, se si fossero trovati nelle stesse circostanze in cui il poeta aveva posto il personaggio che aborrivano. Se in un primo tempo non sono riuscito, è perché il genere era estraneo agli spettatori e agli attori; è perché c’era un pregiudizio, che persiste ancora contro quella che si chiama commedia lacrimosa; è perché avevo una miriade di nemici a corte, in città, tra i magistrati, tra la gente di Chiesa, tra i letterati. Il secondo: E come avete suscitato l’odio di così tante persone? Il Primo: Beh, non lo so, perché non ho mai scritto satire né contro i grandi, né contro gli umili, e non ho intralciato nessuno lungo il cammino della fortuna e degli onori. È vero che ero tra quelli che vengono chiamati philosophe, che si consideravano allora come dei cittadini pericolosi, e contro i quali il ministero aveva sguinzagliato due o tre ausiliari scellerati, senza virtù, senza lumi e quel che è peggio senza talento72. Ma lasciamo perdere. Il secondo: Senza contare che questi philosophe avevano reso più difficile il compito dei poeti e dei letterati in generale. Il Primo: È possibile. Un giovane dissoluto, invece che andare con assiduità presso l’atelier di un pittore, di uno scultore, dell’artista che l’ha adottato, ha perso gli anni più preziosi della sua vita, e si è trovato a vent’anni senza risorse e senza talento. Che cosa volete che diventi? Soldato o attore. Eccolo 72.  J.M. Dieckmann sottolinea che qui Diderot allude alla satira di Palissot intitolata Les Philosophes, messa in scena alla Comédie Française la prima volta nel maggio del 1760. Secondo P. Alatri gli altri due “scellerati” possono essere identificati con Fréron e Moreau.

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dunque ingaggiato in una compagnia di campagna. Si impratichisce fino a potersi permettere di debuttare nella capitale. Una creatura sventurata è marcita nel fango della dissolutezza; stanco dello stato più abietto, quella cortigiana di basso rango, impara a memoria qualche ruolo, una mattina va a fare visita alla Clairon, come lo schiavo antico presso l’edile o il pretore. Questa la prende per mano, le fa fare una piroetta, la tocca con la sua bacchetta e le dice: «Va’ a far ridere o piangere i curiosi». Sono scomunicati. Il pubblico che non può farne a meno li disprezza. Sono degli schiavi sempre sotto il giogo di un altro schiavo. Credete che i segni di un avvilimento così continuo possano restare senza effetto, e che sotto il fardello dell’ignominia un’anima sia abbastanza salda per tenersi all’altezza di Corneille? Questo dispotismo che si esercita su di loro, essi lo esercitano sugli autori, e non so se sia più vile l’attore insolente o l’autore che lo sopporta. Il secondo: Vogliono essere messi in scena. Il Primo: A qualunque costo. Sono tutti stanchi del loro mestiere. Date il vostro denaro all’entrata, e faranno a meno della vostra presenza e dei vostri applausi. Con delle rendite sufficienti tratte dai palchi, erano sul punto di decidere che o l’autore avrebbe rinunciato al suo onorario, o che sua pièce non sarebbe stata accettata. Il secondo: Ma questo progetto non sarebbe arrivato a nulla, a meno di ampliare il genere drammatico. Il Primo: E a loro cosa importa? Il secondo: Penso che vi resti poco da dire. Il Primo: Vi sbagliate. Bisogna che vi prenda per mano e che vi introduca presso la Clairon, questa maga incomparabile.

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Il secondo: Quella almeno è fiera della sua condizione! Il Primo: Come lo sono tutte quelle che hanno primeggiato. Il teatro è disprezzato solo da quegli attori che sono stati scacciati dai fischi. Bisogna che vi mostri la Clairon nei suoi reali eccessi di collera. Se per caso conservasse il suo contegno, i suoi accenti, la sua azione teatrale con tutta la sua ricercatezza, con tutta la sua enfasi, non vi reggereste i fianchi per le risate? Non stabilireste in modo certo che la sensibilità vera e la sensibilità recitata sono due cose molto differenti? Ridete di quello che avete ammirato a teatro! E perché, se non vi dispiace? Perché la collera reale della Clairon assomiglia alla collera simulata, e voi avete la corretta capacità di scindere la maschera di questa passione dalla sua persona. Le immagini delle passioni a teatro non sono delle vere immagini dunque, sono solo dei ritratti estremi, delle grandi caricature soggette a delle regole di convenzione. Ora interrogatevi, chiedete a voi stesso quale artista si rinchiuderà in maniera più stretta nelle regole date? Qual è l’attore che coglierà il meglio di questa ampollosità prescritta, l’uomo dominato dal suo carattere, o l’uomo nato senza carattere, l’uomo che si spoglia per indossare i panni di un altro uomo più violento, più nobile, più elevato? Siamo noi stessi per natura, siamo altri per imitazione; il cuore che crediamo di avere, non è il cuore che abbiamo. Che cos’è dunque il vero talento? Quello di conoscere bene i sintomi esteriori dell’anima fittizia, di indirizzare alla sensazione di quelli che sentiamo, che ci vedono e di ingannarli con l’imitazione di questi sintomi, con una imitazione che ingrandisca tutto nelle loro teste e che divenga la regola del loro giudizio; perché è loro impossibile apprezzare altrimenti quello che accade dentro di noi. E che cosa vi importa in effetti che sentano o che non sentano, purché noi lo ignoriamo? Dunque, colui che conosce meglio e che rende in maniera più perfetta questi segni esteriori secondo il modello ideale concepito meglio, è il più grande attore.

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Il secondo: Colui che lascia immaginare meno al grande attore [comédien] è il più grande dei poeti. Il Primo: Stavo per dirlo. Quando grazie a una lunga frequentazione del teatro si osserva in società l’enfasi teatrale e vi si porta a spasso Bruto, Cinna, Mitridate, Cornelio, Merope, Pompeo73, sapete che cosa si fa? Si accoppia a un’anima mediocre o grande, della dimensione precisa che le ha attribuito la natura, i segni esteriori di un’anima esagerata e gigantesca che non si possiede; da questo nasce il ridicolo. Il secondo: Che satira crudele avete appena fatto, in modo innocente o maligno, degli attori [acteurs] e degli autori! Il Primo: Come sarebbe a dire? Il secondo: Credo che sia permesso a tutti avere un’anima grande e forte; ed è permesso, credo, avere il contegno, gli intenti e l’azione corrispondenti alla propria anima, e credo che l’immagine della vera grandezza non possa mai essere ridicola. Il Primo: Che cosa deriva da questo? Il secondo: Ah, traditore! Voi non osate dirlo, e bisognerà che incorra nell’indignazione generale per voi. Ne deriva che la vera tragedia deve ancora essere trovata, che con i loro difetti gli Antichi probabilmente, erano forse più vicini di noi. Il Primo: È vero che sono incantato nell’ascoltare Filottete dire tanto semplicemente e tanto intensamente a Neottolemo, che gli restituisce le fecce di Ercole, che gli aveva rubato istigato da Ulisse: «Guarda che azione hai commesso: senza accorgertene, condanni uno sventurato a morire di dolore e di fame. Il tuo furto è il crimine di un altro, il tuo pentimento è

73.  Brutus e Mérope sono di Voltaire; Cinna di Corneille; Mithridate di Racine, tutte evocate in precedenza, mentre Cornelia e Pompeo si riferiscono alla Mort de Pompée (1641) o al Sertorius (1662) entrambe di Corneille.

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tuo. Mai avresti pensato di commettere una simile indegnità, se fossi stato solo. Cerca di capire dunque, figlio mio, quanto è importante alla tua età frequentare solo persone oneste. Ecco quello che potevi guadagnare in società da uno scellerato. E perché associarti così a un uomo con questo carattere? Sarebbe stato questo che tuo padre avrebbe scelto come suo compagno e amico? Quel padre degno che non si lasciò sempre avvicinare solo dai più distinti personaggi dell’armata, che cosa ti direbbe se ti vedesse con un Ulisse?»74… C’è in questo discorso tutto quello che direste a mio figlio, o che io direi al vostro? Il secondo: No. Il Primo: Ciononostante è bello. Il secondo: Certamente. Il Primo: E il tono di questo discorso pronunciato sulla scena differirebbe dal tono con cui lo si pronuncerebbe in società? Il secondo: Non credo. Il Primo: E questo tono in società, sarebbe ridicolo? Il secondo: Per niente. Il Primo: Più le azioni sono forti e le intenzioni semplici, più le ammiro. Temo però che non abbiamo preso per cento anni consecutivi le spacconate di Madrid per l’eroismo di Roma, e mescolato il tono della musa tragica con il linguaggio della musa epica. Il secondo: I nostri versi alessandrini sono troppo armoniosi e troppo nobili per il dialogo. Il Primo: E il nostro bisillabo troppo futile e troppo leggero. Comunque sia, desidererei che andaste alla rappresentazione di alcune tragedie romane di Corneille solo dopo aver letto 74.  Parafrasi del Filottete di Sofocle.

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qualche lettera di Cicerone ad Attico. Quanto trovo ampollosi i nostri autori drammatici! Quante mi disgustano le loro declamazioni, quando mi ricordo la semplicità e il vigore del discorso di Regolo che dissuade il Senato e il popolo romano dallo scambio dei prigionieri! È così che si esprime in un’ode, un poema che comporta molto più calore, verve e esagerazione di un monologo tragico; dice: Ho visto le nostre insegne appese ai templi di Cartagine. Ho visto il soldato romano spogliato dalle sue armi che non si erano intinte in una sola goccia di sangue. Ho visto l’oblio della libertà e dei cittadini con le braccia torte e legate dietro alla schiena. Ho visto le porte delle città tutte aperte e le messi coprire i campi che avevamo devastato. E voi credete che riacquistati col denaro torneranno più coraggiosi? Voi aggiungete una perdita all’ignominia. La virtù cacciata da un’anima che è stata avvilita non vi torna più. Non attendetevi nulla da colui che sarebbe potuto morire e che si è lasciato incatenare. Oh, Cartagine, quanto sei grande e fiera della nostra vergogna!75

Questo fu il suo discorso e tale la sua condotta. Rifiuta gli abbracci di sua moglie e dei suoi figli, se ne crede indegno come un vile schiavo. Rivolge i suoi sguardi feroci alla terra e disdegna il pianto dei suoi amici, finché riesce a condurre i senatori a una soluzione che egli era il solo capace di trovare, e finché non gli è stato permesso di ritornare dal suo esilio. Il secondo: Questo è semplice e bello; ma il momento in cui l’eroe si mostra è quello che segue. Il Primo: Avete ragione. Il secondo: Egli non ignorava il supplizio che un feroce nemico gli stava preparando. Tuttavia ritrova la sua serenità, si libera dai parenti che cercano di rimandare il suo ritorno, con la stessa libertà con cui si sarebbe liberato dalla folla dei suoi 75.  Traduzione libera di Orazio, Odi, libro III, 3.

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clienti per andare ad abbandonare dalla fatica degli affari nei suoi campi di Venafro o la sua campagna di Taranto. Il Primo: Molto bene. Ora mettetevi una mano sulla coscienza, e ditemi se nei nostri poeti molti ci sono passi con il tono adatto a una virtù così elevata, così familiare, e che effetto vi farebbero in quella bocca le nostre tenere geremiadi o la maggior parte delle nostre fanfaronate alla Corneille. Quante cose oso confidare solo a voi! Sarei lapidato in strada, se si sapesse che sono colpevole di questa blasfemia, e non ambisco al lauro di nessun martire. Se arriverà il giorno in cui un uomo di genio osi dare ai suoi personaggi il tono semplice dell’eroismo antico, allora l’arte dell’attore [comédien] sarà ben più difficile, perché la declamazione cesserebbe di essere una specie di canto. Del resto, quando ho affermato che la sensibilità è la caratteristica della bontà d’animo e della mediocrità del genio, ho fatto un’ammissione che non è molto ordinaria, perché se la Natura ha plasmato un’anima sensibile, è proprio la mia. L’uomo sensibile si abbandona troppo alla mercé del suo diaframma76 per essere un grande re, un grande politico, un grande magistrato, un uomo giusto, un profondo osservatore, e di conseguenza un imitatore sublime della natura, a meno che

76.  Sul ruolo del diaframma nella costituzione della sensibilità si veda Il sogno di d’Alembert (1769) dove viene messo in scena anche il medico Théophile Bordeu di cui Diderot conosceva le ricerche, in particolare le Ricerche anatomiche sulla posizione delle ghiandole e sulla loro azione (1751). Su questo si vedano anche gli Elementi di fisiologia (1769-1784) dove si può leggere: «C’è una simpatia assai marcata tra il diaframma e il cervello. Se il diaframma si contrae violentemente, l’uomo soffre e si rattrista; se l’uomo soffre e si rattrista, il diaframma si contrae violentemente: diaframma, cervello, organi poco conosciuti» (D. Diderot, Elementi di fisiologia, cit., pp. 1216-1217).

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non possa dimenticare se stesso, distrarsi da se stesso e che, con l’aiuto di un’intensa immaginazione e una solida memoria non sappia mantenere la sua attenzione fissa su dei simulacri che gli servono da modelli; ma allora non è più lui ad agire, è lo spirito di un altro che lo domina. Dovrei fermarmi qui; ma mi perdonerete più facilmente una riflessione fuori posto, che un’omissione. È un’esperienza che potreste aver fatto qualche volta, quando chiamato da un debuttante o da una debuttante, a casa sua, in piccolo gruppo, per esprimervi sul suo talento, l’avete ricoperta di elogi, e l’avrete lasciata, separandovi da lei, con la speranza del più grande successo. Tuttavia che cosa accade? Essa appare sul palco, viene fischiata, e voi ammettete a voi stesso che hanno ragione a fischiare. Da dove deriva questo? Ha forse perduto la sua anima, la sua sensibilità, la sua passione [entrailles] dalla mattina alla sera? No, ma nel suo appartamento al pianterreno eravate al suo stesso livello; la ascoltavate senza far caso alle convenzioni; essa era di fronte a voi; non c’era tra l’uno e l’altra nessun modello di comparazione; eravate soddisfatto della sua voce, dei suoi gesti, della sua espressione, del suo contegno; tutto era proporzionato all’auditorio e allo spazio; niente richiedeva esagerazione. Sul palco è cambiato tutto; lì, ci voleva un altro personaggio, poiché tutto si era ingrandito. In un teatro privato, in un salone in cui lo spettatore è quasi allo stesso livello dell’attore [acteur], il vero personaggio drammatico vi sarebbe sembrato enorme, gigantesco, e all’uscita dalla rappresentazione, avreste detto al vostro amico in confidenza: «Non riuscirà, non è esagerata» e il suo successo a teatro vi avrebbe stupito. Ancora una volta, che sia un bene o un male, l’attore [comédien] non ne dice nulla, non fa nulla in società alla stessa maniera che sulla scena; è un altro mondo.

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Ma un fatto decisivo che mi è stato raccontato da un uomo vero, un uomo dal carattere originale e arguto, l’abate Galiani77, e che mi è stato poi confermato da un altro vero uomo, un carattere altrettanto originale e arguto, il Marchese di Caraccioli78, ambasciatore di Napoli a Parigi, è che a Napoli, la patria di entrambi, c’è un poeta drammatico la cui principale preoccupazione non è di comporre i suoi drammi. Il secondo: La vostra, Il Padre di famiglia, ci è singolarmente riuscita79. Il Primo: Sono state fatte quattro rappresentazioni consecutive davanti al re, contro l’etichetta di corte che prescrive tante pièce diverse quanti sono i giorni di spettacolo, e il popolo ne è stato entusiasta. Però, la preoccupazione del poeta napoletano è di trovare nella società dei personaggi di età, figura, voce, ca77.  Ferdinando Galiani (1728-1787) economista e letterato italiano dal 1759 al 1769 fu a Parigi come segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli. Autore del trattato Sulla perfetta conservazione del grano (1754), dei Dialogues sur le commerce des blés (1770) e di un importante trattato Della moneta (1751, poi 1780), era molto amico di Diderot, Grimm e Madame d’Epinay. Amante del teatro in prosa e della musica, fu anche autore di un libretto per la musica di G. Paisiello intitolato Socrate immaginario (1775, in collaborazione con G.B. Lorenzi). Furono Diderot e Madame d’Epinay a curare l’edizione francese delle sue due principali opere economiche Della moneta e i Dialogues sur le commerce des blés. 78.  Domenico Caracciolo marchese di Villamaina (1715-1789) diplomatico e uomo di stato rappresentò il governo napoletano a Torino (1754-1764), Londra (1764-1771), dove strinse ottimi rapporti con Vittorio Alfieri, e a Parigi (1771-1781), dove frequentò i salotti illuministi, legandosi in particolare a d’Alembert. Nominato viceré di Sicilia nel 1781 fino al 1786, si impegnò a contrastare il baronaggio e l’assetto feudale mettendo in atto molte riforme. Appassionato di teatro, prese anche parte, come ricorda P. Alatri, alla querelle tra gluckisti e piccinisti durante il suo soggiorno francese. 79.  Sulla ricezione e la fortuna di Diderot a Napoli e in Italia vedi G. D’Antuono - P. Quintili, Diderot en Italie. Avatars, masques, miroirs d’un philosophe, L’Harmattan, Paris 2017.

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rattere adatti a interpretare i suoi ruoli. Non si osa rifiutarglielo, poiché si tratta del divertimento del sovrano. Fa esercitare i suoi attori [acteurs] per sei mesi, insieme e separatamente. E quando immaginate che la compagnia inizi a recitare, a capirsi, a incamminarsi verso il punto di perfezione che esige? È quando gli attori [acteurs] sono sfiniti dalla fatica di quelle infinite repliche, che noi chiamiamo sature [blasés]. Da quel momento, i progressi sono sorprendenti, ciascuno si identifica con il suo personaggio; ed è dopo questo penoso esercizio che delle rappresentazioni cominciano e continuano per altri sei mesi consecutivi, e che il sovrano e i sudditi godono del più grande piacere che possiamo trarre dall’illusione teatrale. E quest’illusione, così forte, così perfetta tanto all’ultima rappresentazione quanto alla prima, secondo voi, può essere l’effetto della sensibilità? Del resto, la questione che approfondisco, un tempo è stata affrontata da un letterato mediocre, Rémond de Sainte-­Albine80, e un grande attore, Riccoboni81. Il letterato sosteneva la tesi della sensibilità, l’attore sosteneva la mia posizione. È un aneddoto che ignoravo e di cui sono stato informato da poco. Ho parlato e voi mi avete ascoltato, e ora vi chiedo che cosa ne pensate. 80.  Rémond de Sainte-Albine (1699-1778) collaboratore dell’«Europe savante» e della «Gazette de France», per qualche tempo caporedattore anche del «Mercure de France». Sulla traduzione inglese del suo libro Le Comédien (1750) e successive vicende si rinvia alla Nota editoriale, supra, p. 70. 81.  Luigi Andrea o Louis Riccoboni, noto con lo pseudonimo di Lélio, (1676-1753) attore e capocomico modenese, si trasferì a Parigi nel 1715, particolarmente impegnato nella questione della formazione dell’attore fu autore di diverse opere tra cui si ricordano: Histoire du Théâtre Italien, (1728), Del­l’arte rappresentativa (1728), Réflexions sur les differents théâtres de l’Europe, avec les Pensées sur la Déclamation (1738), De la Réformation du Théâtre (1743). Su Riccoboni si rinvia anche al saggio introduttivo Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale?, supra, pp. 32 ss.

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Il secondo: Penso che quell’ometto arrogante, deciso, secco e duro, in cui si dovrebbe riconoscere un’onesta parte di merito, se ce ne fosse solo un quarto di quello che la natura prodiga gli ha accordato in abbondanza, sarebbe stato un po’ più riservato nel suo giudizio, se voi aveste avuto, voi la compiacenza di esporgli le vostre ragioni, lui la pazienza di ascoltare; ma la disgrazia è che sa tutto e che a titolo di uomo universale, si crede dispensato dall’ascolto. Il Primo: In compenso, il pubblico gliela fa pagare. Conoscete Madame Riccoboni82? Il secondo: Chi non conosce l’autore di un gran numero di opere affascinanti, piene di genio, di onestà, di delicatezza e di grazia? Il Primo: Credete che questa donna fosse sensibile? Il secondo: Non sono solo le sue opere, ma il suo comportamento a provare la sua sensibilità. Nella sua vita le è capitato un incidente che ha pensato l’avrebbe portata alla tomba83. Dopo vent’anni le sue lacrime non si erano ancora asciugate. Il Primo: Ebbene, questa donna, una delle più sensibili formate dalla natura, è stata una delle peggiori attrici [actrices]

82.  Marie-Jeanne de La Boras detta Madame Riccoboni (1713-1792) moglie di François Riccoboni (1734), figlio di Luigi Riccoboni (vedi nota precedente), attrice mediocre della Comédie Italienne, ma apprezzata autrice di romanzi sentimentali, scrisse anche una Lettre à M. Diderot in cui si lamenta, dopo aver ricevuto una copia del Padre di famiglia (1758), di non essere stata consultata prima della pubblicazione. A questa segue la risposta di Diderot, entrambe le lettere sono state pubblicate nel vol. X, Le drame bourgeois, delle Œuvres complètes di Diderot, a cura di J. Chouillet e A.-M. Chouillet, Hermann, Paris 1980, pp. 531-454. 83.  Diderot si riferisce al tradimento del primo amante di Madame Riccoboni, avvenuto intorno al 1730-1732, di cui si trovano elementi anche nel suo romanzo Lettres de Fanny Butlerd (1757).

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che siano mai comparse sulla scena. Nessuno parla meglio dell’arte, nessuno recita peggio di lei84. Il secondo: Aggiungerei che lei stessa concorda, e che non le è mai successo di accusare i fischi di essere ingiusti. Il Primo: E perché, con la sensibilità squisita, la principale qualità necessaria, secondo voi, a un attore [comédien], la Riccoboni è così pessima? Il secondo: Apparentemente perché gli altri ne erano privi a tal punto che non poteva compensarne la mancanza. Il Primo: Ma non è male come figura, ha spirito e contegno decoroso, la sua voce non ha nulla di scioccante. Possiede tutte le buone qualità che derivano dall’educazione. Non si comportava in modo sconveniente in società. La si guarda senza fastidio, la si ascolta con grande piacere. Il secondo: Non ci capisco niente; tutto quello che so, è che il pubblico non si è mai potuto riconciliare con lei, e che è stata per vent’anni di seguito la vittima della sua professione. Il Primo: E della sua sensibilità, al di sopra della quale non si è mai potuta elevare; ed è perché è rimasta costantemente se stessa, che il pubblico l’ha costantemente disprezzata. Il secondo: E voi, non conoscete Caillot? Il Primo: Molto bene. 84.  Su questo si rinvia alla lunga riflessione sviluppata da Diderot nella Confutazione di Hélvétius, in cui il filosofo generalizza: «Ogni individuo non è dunque capace di tutto, neanche di essere buon attore, se la natura vi si oppone» ed estende a se stesso il problema: «Che cosa mi mancava per essere un grande ballerino? L’orecchio? L’avevo eccellente. La leggerezza? Non ero pesante, ero ben lungi dall’esserlo. L’interesse? Non si poteva essere animati da un interesse più violento. Quello che mi mancava? La morbidezza, la flessibilità, la grazia che non si danno così» (D. Diderot, Confutazione dettagliata, cit., pp. 716-717).

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Il secondo: Avrete discusso qualche volta a questo proposito? Il Primo: No. Il secondo: Al vostro posto, sarei curioso di conoscere il suo parere. Il Primo: Lo so. Il secondo: Qual è? Il Primo: Il vostro e quello del vostro amico. Il secondo: Ecco una terribile autorità contro di voi. Il Primo: Concordo. Il secondo: E come avete conosciuto la posizione di Caillot? Il Primo: Tramite una donna piena di spirito e di finezza, la principessa de Galitzin85. Caillot aveva interpretato le Déserteur, era ancora sul posto in cui aveva appena provato e lei di condividere, accanto a lui, tutte le angosce di un prete sventurato pronto a perdere la sua amante e la vita. Caillot si avvicina alla sua loggia e gli rivolge, con quel viso ridente che conoscete, delle frasi allegre, oneste ed educate. La principessa stupita gli dice: – Come, non siete morto! Io, che sono stata solo una spettatrice delle vostre angosce, non mi sono ancora ripresa. – No Madame, non sono morto. Sarei davvero da compiangere se dovessi morire così spesso. – Voi non sentite nulla dunque? – Perdonatemi… 85.  P. Alatri ricorda che si tratta di Amelia Schmettau, moglie del principe di Galitzin, che probabilmente ha assistito alla messa in scena del Déserteur di Sedaine durante il suo viaggio a Parigi del 1700, svolto su incarico della zarina Caterina II per l’acquisto di merletti.

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E poi eccoli impegnati in una discussione che finisce tra loro come questa finirà tra noi, io resterò della mia opinione e voi della vostra. La principessa non si ricordava delle ragioni di Caillot, ma aveva osservato che questo grande imitatore della natura, nel momento della sua agonia, quando stava per essere suppliziato, percependo che la sedia in cui avrebbe dovuto deporre Louise svenuta, era posizionata male, l’aveva rimessa a posto cantando con una voce moribonda: Ma Luisa non rinviene, e la mia ora si avvicina… Il secondo: Penso di proporvi un compromesso: si potrebbero riservare alla sensibilità naturale dell’attore [acteur] quei momenti rari in cui la sua testa si perde, in cui non vede più lo spettatore, in cui si è dimenticato che è a teatro, in cui dimentica se stesso, è ad Argo, a Micene, o è il personaggio stesso che interpreta, piange. Il Primo: In versi? Il secondo: In versi. Grida. Il Primo: Correttamente? Il secondo: Correttamente. Si irrita, si indigna, si dispera, presenta ai miei occhi l’immagine reale, porta al mio orecchio e al mio cuore l’accento vero della passione che lo agita, al punto in cui mi travolge, che ignoro me stesso, che non è più né Brizard, né Le Kain, ma Agamennone che vedo, ma Nerone che odo… e di abbandonare all’arte tutti gli altri momenti. Penso che forse allora dipende dalla natura, come per lo schiavo che impara a muoversi libero con le sue catene, l’abitudine di portarle gli nasconde il peso e la costrizione. Il Primo: Un attore [acteur] sensibile potrebbe avere nel suo ruolo forse uno o due di questi momenti di alienazione che saranno in dissonanza con il resto in maniera tanto più evidente in quanto saranno i più belli. Ma ditemi, lo spettacolo

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allora non smette di essere un piacere, e non diventa un supplizio per voi? Il secondo: Oh no. Il Primo: E questo sentimentalismo fittizio non ha il sopravvento sullo spettacolo domestico e reale di una famiglia sconsolata intorno al giaciglio funebre di un padre amato o di una madre adorata? Il secondo: Oh no. Il Primo: Voi non siete presente dunque, né l’attore [comédien], né voi, così perfettamente dimenticati… Il secondo: Voi mi avete già messo molto in difficoltà, e non dubito che possiate farlo ancora; ma vi scuoterò, credo, se mi permetteste di associarmi un collaboratore. Sono le quattro e mezza, danno Didon86: andiamo a vedere la signorina Raucourt, vi risponderà meglio di me. Il Primo: Me lo auguro, ma non lo spero. Pensate che faccia quello che né la Le Couvreur87, né la Duclos, né la Deseine, né la Balincourt88, né la Clairon, né la Dumesnil hanno potuto fare? Oso assicurarvi che se la nostra giovane debuttante è

86.  Didon (1734) tragedia di J.-J. Lefranc de Pompignan (1709-1784), rappresentata per la prima volta al Théâtre Française nel 1734 poi ripresa nel 1772 anno in cui la protagonista fu interpretata dalla debuttante Mademoiselle Raucourt (vedi supra, nota 27). 87.  Adrienne Couvreur detta Lecouvreur (1692-1730) attrice fin da giovanissima fu accolta nella Comédie Française nel 1717, grande interprete di ruoli tragici, molto apprezzata da Voltaire, contribuì all’innovazione della recitazione con la sua declamazione priva di eccessi enfatici, imponendo una recitazione naturale. La sua morte improvvisa avvenne in circostanze misteriose. 88.  Marguerite-Thérèse de Balincourt, attrice poco nota che debuttò nel 1727 nella Rodogune di Corneille e si ritirò dalle scene nel 1738.

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ancora lontana dalla perfezione, è perché è troppo novizia per non sentire affatto, e voi presagite che se continua a sentire, a restare se stessa e a preferire l’istinto limitato della natura allo studio illimitato dell’arte, non si eleverà mai all’altezza delle attrici [actrices] che vi ho nominato. Avrà dei bei momenti, ma non sarà bella. Sarà di lei come della Gaussin e di molti altri che sono stati manierati per tutta la loro vita, deboli e monotoni perché non sono mai potuti uscire dallo stretto recinto in cui la loro sensibilità naturale li ha rinchiusi. Il vostro intento è sempre quello di oppormi alla signorina Raucourt? Il secondo: Certamente. Il Primo: Strada facendo, vi racconterò un fatto che torna a proposito del soggetto della nostra conversazione. Conoscevo Pigalle89, avevo le mie entrate presso di lui. Vado un mattino, busso; l’artista mi apre. Il suo scalpello alla mano, e fermandomi sulla soglia del suo atelier: Prima di lasciarvi passare, mi disse, giuratemi che non avrete paura di una bella donna tutta nuda… Ho sorriso; sono entrato. Stava lavorando allora al monumento del maresciallo de Saxe, e una cortigiana bellissima gli faceva da modella per la figura della Francia. Ma come credete che mi sia apparsa tra le figure colossali che la circondavano? Povera, piccola, meschina, una specie di ranocchia; ne era schiacciata e non avrei preso, sulla parola dell’artista, questa rana per una bella donna, se non avessi atteso la fine della seduta, e se non l’avessi vista terra-terra dare la schiena a queste figure gigantesche che la riducevano a nulla. Vi lascio la cura di applicare questo fenomeno singolare alla Gaussin, alla Riccoboni e a tutte quelle che non hanno potuto divenire più grandi sulla scena. 89.  Jean Baptiste Pigalle (1714-1785) scultore, protetto da Luigi XV per il quale aveva scolpito un monumento nella città di Reims, realizzò anche una statua di Voltaire e un dipinto di Diderot. Diderot ne parla ampiamente nel Salon 1765.

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Se, per assurdo, un’attrice [actrice] avesse ricevuto la sensibilità a un grado comparabile a quella che l’arte ha portato all’estremo può simulare, il teatro propone tanti personaggi diversi da imitare un solo ruolo principale porta a tante situazioni opposte, che quest’incomparabile strappalacrime, incapace di interpretare bene due ruoli diversi, eccellerebbe appena in qualche passaggio dello stesso ruolo, sarebbe l’attrice [comédienne] più volubile [inégale], la più limitata e la più inetta che si possa immaginare. Se gli succedesse di tentare uno slancio, la sua sensibilità predominante non tarderebbe a ricondurla alla mediocrità. Sarebbe più simile a una debole giumenta che prende il morso tra i denti che a un vigoroso fattorino al galoppo. Il suo istante di energia, passeggera, brusca, senza gradualità, senza preparazione, senza unità, vi sembrerebbe un accesso di follia. Essendo la sensibilità un’affezione compagna del dolore e della debolezza, ditemi se una creatura dolce, debole e sensibile è adatta a pensare e a rendere il sangue freddo di Leontine, i furori di Camille, i trasporti di gelosia di Erminone, la tenerezza materna di Merope, il delirio e i rimorsi di Fedra, l’orgoglio tirannico di Agrippina, la violenza di Clitemnestra90? Abbandonate la vostra eterna strappalacrime a qualche ruolo elegiaco, e non toglietela da là. Il fatto è che essere sensibile è una cosa, e sentire è un’altra. L’una è questione d’anima, l’altra di giudizio. Il punto è che si sente con una forza che non si sa come rendere; che siamo in grado di restituire solo in società, all’angolo del focolare, leggendo, recitando per pochi ascoltatori, e che non presentiamo 90.  Leontine e Camilla sono personaggi dell’Héraclius e dell’Horace di Corneille; Ermione, Fedra, Clitemnestra sono le protagoniste delle omonime tragedie di Racine; Agrippina è un personaggio del Britannicus di Racine, Merope è la protagonista dell’omonima tragedia di Voltaire, già evocata più volte.

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niente che valga a teatro; perché a teatro con ciò che chiamiamo sensibilità, anima, passione [entrailles], si recitano bene una o due tirate e si manca tutto il resto; è perché abbracciare tutta l’estensione di un grande personaggio, gestirne i chiaroscuri, le dolcezze e le debolezze, mostrarsi eguale sia nei passaggi tranquilli, sia in quelli concitati, essere vari nei dettagli, armoniosi e nell’insieme, formarsi un sistema sostenuto di declamazione che vada fino a salvare le bizzarrie del poeta, è l’opera di una testa fredda, di un profondo giudizio, di un gusto raffinato, di uno studio penoso, di una lunga esperienza e di una solida memoria che è poco comune; è che la regola Qualis ab incepto processerit, et sibi constet91, molto rigorosa per il poeta lo è fino alla minuzia per l’attore [comédien]; colui che sorge dalla quinta senza aver presente ciò che deve recitare e se il suo personaggio sarà notato, passerà tutta la vita nel ruolo del debuttante o, se abbastanza intrepido, sicuro e dotato di verve, conterà sulla prestezza della sua testa e l’abitudine del mestiere, quest’uomo si imporrà con il suo calore e la sua ebbrezza, e voi applaudirete la sua interpretazione come un conoscitore in pittura sorride di fronte a uno schizzo libertino in cui tutto è indicato e nulla deciso. Ai prodigi accade quello che si vede a volte alla Fiera da Nicolet92. Forse quei folli fanno bene a restare quello che sono, degli attori abbozzati. Più lavoro non darebbe loro quello che gli manca e potrebbe togliergli quello che hanno. Prendeteli per quello che valgono, ma non metteteli accanto al dipinto finito.

91. Orazio, Epistole, II, 3, Ars poetica, v. 127: «Mantieni una linea omogenea con la prima impostazione e conseguente fino in fondo» (tr. it. di M. Beck, in Orazio, Tutte le opere, tr. it., con testo a fronte, Mondadori, Milano 2007). 92.  Jean-Baptiste Nicolet (1728-1796) acrobata in gioventù, successivamente direttore e impresario di spettacoli di marionette alla Fiera di Saint-Germain. Nel 1764 inaugurò un teatro cui diede il suo nome e dal 1792 assunse quello conservato fino a oggi di Théâtre de la Gaîté.

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Il secondo: Mi resta solo una domanda da farvi. Il Primo: Fatela. Il secondo: Avete mai visto un’intera pièce perfettamente recitata? Il Primo: In effetti, non me ne ricordo… Ma aspettate… Si a volte una pièce mediocre da degli attori [acteurs] mediocri… I nostri due interlocutori andarono allo spettacolo, ma non essendoci più posto, ripiegarono alle Tuileries. Passeggiarono per un po’ in silenzio. Sembravano aver dimenticato di essere insieme, e ciascuno s’intratteneva con se stesso come se fosse solo, l’uno ad alta voce, l’altro a voce così bassa che non lo si sentiva, lasciandosi sfuggire solo a intervalli delle parole isolate, ma distinte dalle quali era facile ipotizzare che non si dava per vinto. Le idee dell’uomo del paradosso sono le sole di cui possa rendere conto, ed eccole sconnesse come dovevano sembrare quando si sopprimono da un soliloquio gli elementi intermedi che servono per creare la correlazione. Egli diceva: Che si metta al suo posto un attore [acteur] sensibile, e vedremo come se la caverà. Egli che cosa fa? Posa il suo piede sulla balaustra, riattacca la sua giarrettiera e risponde al cortigiano che disprezza, la testa voltata verso una delle sue spalle ed è così che un incidente che avrebbe sconcertato chiunque altro che non fosse questo freddo e sublime attore [comédien], immediatamente adattato alla circostanza, diviene un tratto di genio. Parlava, credo, di Baron nella tragedia Il conte di Essex. Aggiunge sorridendo: Eh sì, crederebbe che quella sentisse, quando riversa sul seno della sua confidente e quasi moribonda, con gli occhi rivolti verso i palchi di terz’ordine, distinguendovi un vecchio pro-

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curatore che si scioglieva in lacrime e a cui il dolore faceva fare delle smorfie assolutamente ridicole, dice: Guarda un po’ là in alto quel bel tipo che combina… mormorando nella sua gola queste parole come se fossero state il seguito di un pianto inarticolato. Dillo a qualcun altro! Dillo a qualcun altro! Se mi ricordo bene questo fatto, era la Gaussin in Zaïre. E questo terzo la cui fine è stata così tragica, l’ho conosciuto, ho conosciuto suo padre che mi invitava anche ogni tanto a dire la mia nel suo cornetto acustico93. Non c’è dubbio che qui non sia questione del saggio Montmesnil. Era il candore e l’onestà stessa. Che cos’avevano in comune il suo carattere naturale e quello del Tartufo che recitava superbamente? Niente. Dove aveva preso quel torcere il collo, quello strabuzzare gli occhi in modo così singolare, quel tono affettato e tutte le altre raffinatezze del ruolo dell’ipocrita? Fate attenzione a quello che state per rispondere. – Vi tengo in pugno. – In un’imitazione profonda della natura. – In un’imitazione profonda della natura? E voi vedrete che i sintomi esteriori che designano più intensamente la sensibilità dell’anima sono ugualmente in natura quanto i sintomi esteriori dell’ipocrisia; che non si potrebbe studiarli, e che un attore [acteur] di grande talento sarebbe in difficoltà a cogliere e a imitare gli uni, quanto gli altri! E se sostenessi che di tutte le qualità dell’anima, la sensibilità è la più facile da simulare, non essendoci uomo tanto crudele, tanto inumano, da non averne il germe nel suo cuore e da non averla mai provata; cosa che non si potrebbe assicurare di tutte le altre passioni, quelle dell’avarizia, della diffidenza? Un eccellente strumento… – Vi capisco; ci sarà sempre tra colui che simula la sensibilità e colui

93.  Come ricorda P. Alatri, Lesage, invecchiando, era diventato sordo.

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che sente la differenza tra l’imitazione e la cosa. – E tanto meglio, tanto meglio vi dico. Nel primo caso, l’attore [comédien] non dovrà separarsi da se stesso, si porterà d’un tratto e interamente all’altezza del modello ideale. – D’un tratto e interamente! – Voi attaccate briga su un’espressione. Voglio dire che non essendo mai ricondotto al modello mediocre che è in lui, sarà così grande, così stupefacente, così perfetto imitatore della sensibilità come dell’avarizia, dell’ipocrisia, della duplicità e di ogni altro carattere che non sarà il suo, di ogni altra passione che egli non avrà. La cosa che il personaggio naturalmente sensibile mi mostrerà sarà meschina; l’imitazione dell’altro sarà vigorosa, o se accadesse che le loro copie siano ugualmente vigorose, cosa che non vi concedo, ma per nulla; l’uno perfettamente padrone di sé e interpretando completamente grazie allo studio e al giudizio, sarebbe tale quale lo mostra l’esperienza giornaliera, più di quello che interpreterà metà per natura, metà per studio, metà secondo un modello, metà secondo se stesso. Per quanta sia la perizia con cui queste due imitazioni saranno fuse insieme, uno spettatore raffinato le distinguerà ancor più facilmente di quanto un profondo artista non distinguerebbe in una statua la linea che separa due stili diversi oppure il davanti eseguito secondo un modello e il retro secondo un altro modello. – Che un attore [acteur] consumato smetta di recitare di testa; che si dimentichi; che il suo cuore si imbarazzi; che la sensibilità lo vinca, che si liberi. – Ci inebrierà. – Forse. – Ci trasporterà d’ammirazione. – Questo non è impossibile; ma è a condizione che non esca dal suo sistema di declamazione e che l’unità non scompaia; senza questo sosterrete che è diventato pazzo. – Sì, in questa ipotesi avrete un bel momento, ne convengo; ma preferite un bel momento a un bel personaggio? Se è la vostra scelta, non è la mia. – Qui l’uomo del paradosso tacque. Passeggiava a grandi passi, senza guardare dove andava; urtando a destra e a sinistra quelli che gli venivano incontro, se non avessero evitato lo scontro.

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Poi fermandosi improvvisamente e trattenendo il suo antagonista con forza per il braccio, gli disse con un tono dogmatico e tranquillo: Amico mio, ci sono tre modelli, l’uomo della natura, l’uomo del poeta, l’uomo dell’attore [acteur]. Quello della natura è meno grande di quello del poeta, e questo meno grande ancora di quello del grande attore, il più esagerato di tutti. Quest’ultimo sale sulle spalle del precedente, e si rinchiude in un grande manichino di vimini cui è l’anima; muove questo manichino in maniera sbalorditiva, anche per il poeta che non si riconosce più, e ci spaventa, come avete detto molto bene, così come i bambini si spaventano gli uni gli altri tenendo i loro piccoli farsetti corti sollevati sopra le loro teste, agitandosi e imitando al loro meglio la voce rauca e lugubre di un fantasma che contraffanno… Ma, per caso non avete mai visto le incisioni dei giochi dei bambini? Non avete visto un marmocchio che avanza con una maschera orrenda da vecchio che lo nasconde dalla testa ai piedi? Sotto questa maschera ride dei suoi piccoli compagni messi in fuga dal terrore. Questo marmocchio è il vero simbolo dell’attore [acteur]; i suoi compagni sono i simboli degli spettatori. Se l’attore [comédien] è dotato solo di una sensibilità mediocre, sarà questo tutto il suo merito, non lo considerereste un uomo mediocre? Fate attenzione, vi sto nuovamente tendendo una trappola. – E se è dotato di un’estrema sensibilità, che cosa accadrà? – Che cosa accadrà? Che non reciterà affatto o che reciterà in modo ridicolo. Sì, ridicolo, e potrete vedere in me la prova quando vorrete. Se devo fare un racconto un po’ patetico, sorge non so quale turbamento nel mio cuore, nella mia testa; mi si imbroglia la lingua, mi si altera la voce; le mie idee si scombinano; il mio discorso si sospende; balbetto, me ne accorgo; le lacrime mi scendono lungo le guance, e taccio. – Ma questo vi riesce. – In società; a teatro invece sarei fischiato. – Perché? – Perché non si va a teatro per veder piangere, ma per sentire discorsi che ci strappano le lacrime:

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perché questa verità di natura stona con la verità convenzionale. Mi spiego. Voglio dire che né il sistema drammatico, né l’azione, né il discorso del poeta si organizzerebbero dalla mia declamazione soffocata, interrotta, singhiozzante. Vedete non è nemmeno permesso imitare la natura, nemmeno la bella natura, la verità troppo da vicino, e ci sono dei limiti entro i quali occorre stare. – E chi ha posto questi limiti? – Il buon senso che non vuole che un talento leda un altro talento. Occorre talvolta che l’attore si sacrifichi al poeta. – Ma se la composizione del poeta si prestasse? – Ebbene, avreste un’altra specie di tragedia completamente diversa dalla vostra. – E che inconveniente c’è in questo? – Non so bene cosa ci guadagnereste, ma so molto bene quello che perdereste. Qui l’uomo paradossale si avvicina per la seconda o la terza volta al suo antagonista e gli dice: La battuta è di cattivo gusto, ma è divertente, ed è di un’attrice [actrice] sul cui talento non si possono avere dubbi. Fa il paio con la situazione e la battuta della Gaussin; anch’essa riversa tra le braccia di Pillot-Polluce; sta morendo, almeno credo, e balbetta a bassa voce: Ah, Pillot, quanto puzzi! Questo motto è della Arnoud che interpreta Telaïre94. E in questo momento Arnould è davvero Telaïre? No, è Arnould, sempre Arnould. Non mi convincerete mai a lodare i gradi intermedi di una qualità che può rovinare tutto perché, se spinta all’estremo, l’attore [comédien] ne è dominato. Ma suppongo

94.  Madeleine-Sophie Arnould (1744-1803) cantante d’opera (soprano) che interpretava Telaïre nel Castor et Pollux (1737) tragedia in musica di JeanPhilippe Rameau con libretto di Gentil-Bernard. Arnould era molto amica di Voltaire, Diderot, Marmontel e altri illuministi. Il cantante Pillot, invece, interpretava Polluce. L’episodio era già stato raccontato da Diderot in una nota alla fine delle Observations sur Garrick pubblicate nella «Correspondance littéraire» del 1° novembre 1770.

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che il poeta avesse scritto la scena perché fosse declamata a teatro, come io la reciterei in società; chi interpreterebbe questa scena? Nessuno, non nessuno, nemmeno l’attore [acteur] più padrone della sua interpretazione; se la caverebbe bene una volta, la sbaglierebbe mille. Il successo riguarda allora così poco la cosa!… Quest’ultimo ragionamento vi sembra poco solido? E va bene, sia, ma non posso fare a meno di concludere che attenuare un po’ la presunzione, abbassare un po’ il nostro piedistallo e lasciare le cose più o meno come sono. Per un poeta di genio che mira a questa prodigiosa verità di natura, si eleverà un nugolo di insipidi e piatti imitatori. Non è permesso, pena l’essere insipidi, noiosi, detestabili, scendere di un rigo al di sotto della semplicità della natura. Voi non lo pensate? Il secondo: Non penso niente. Non vi ho inteso. Il Primo: Come! Non abbiamo continuato a discutere? Il secondo: No. Il Primo: E che diavolo facevate dunque? Il secondo: Fantasticavo. Il Primo: E a cosa pensavate? Il secondo: Che un attore [acteur] inglese chiamato, credo, Macklin, (quel giorno ero allo spettacolo) dovendo scusarsi con la platea della temerarietà di recitare dopo Garrick, non so che personaggio nel Macbeth di Shakespeare, diceva tra le altre cose, che le impressioni che soggiogavano l’attore [comédien] e lo sottomettevano al genio e all’ispirazione del poeta gli erano molto nocive; non ricordo più le ragioni che dava, ma erano molto sottili, le troverete in una Lettera inserita nel St James Chronicle, sotto il nome di Quintiliano95. 95.  Come ricorda J.M. Dieckmann l’aneddoto viene riportato in una lettera firmata Quintiliano sul «Saint-James Chronicle» del 6-9 novembre 1773.

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Il Primo: Ma ho discusso da solo per tutto questo tempo allora? Il secondo: È possibile, tanto a lungo quanto ho fantasticato da solo. Sapete che anticamente erano gli attori [acteurs] a interpretare i ruoli delle donne? Il Primo: Lo so. Il secondo: Aulo Gellio racconta nelle sue Notti attiche96 che un certo Polo, coperto dagli abiti lugubri di Elettra, invece che presentarsi sulla scena con l’urna di Oreste, è apparso abbracciando l’urna che racchiudeva le ceneri di suo figlio che aveva appena defunto, e che allora non fu una vana rappresentazione, un piccolo spettacolo di dolore, ma la sala udì delle grida e dei veri gemiti. Il Primo: E voi credete che Polo in quel momento parlasse sulla scena come avrebbe parlato nelle sue stanze? No, no. Questo prodigioso effetto, di cui non dubito, non riguardava né i versi di Euripide né la declamazione dell’attore [acteur], Qui si diceva che prima di recitare per la terza volta il ruolo di Macbeth al teatro di Covent Garden il 30 ottobre 1773, Charles Macklin, nome d’arte di Charles MacLaughlin (1690/1699-1797), autore drammatico e grande attore irlandese rivale di Garrick, avesse pronunciato un discorso in cui chiedeva l’indulgenza e la protezione del pubblico, dato il gran numero di attori e spettatori di cui si era attirato l’ostilità. Pare che la rappresentazione che seguì al discorso si fosse svolta senza alcun problema, ma che la volta successiva un tumulto nella sala avesse impedito la rappresentazione della pièce e che, qualche mese dopo, Macklin si fosse ritirato dalle scene. La controversia ebbe un seguito sia sui giornali, sia nei tribunali. 96.  Aulo Gellio scrittore ed erudito latino vissuto nel II sec. d. C. la principale opera che ci è giunta sono le Noctes Atticae – di cui qui Diderot cita VI, cap. 5 – composte a partire da appunti scritti nelle sere invernali trascorse in una rustica dimora dell’Attica. L’importanza della sua opera è dovuta in particolare alla grande quantità di citazioni e notizie riportate. Secondo J.M. Dieckmann Diderot trae la citazione da Ch. Du Bos, Réfléxions critiques sur la poésie et la peinture (1770).

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ma la vista di un padre disperato che bagnava col suo pianto l’urna della figlia. Questo Polo non era forse che un mediocre attore [comédien]; non più di quell’Esopo di cui Plutarco scrive che recitando un giorno nel mezzo del teatro, il ruolo di Atreo decidendo egli stesso come si sarebbe potuto vendicare di suo fratello Tieste, ebbe l’avventura che qualcuno dei servitori che voleva passare presto, correndo, davanti a lui, e che lui, Esopo, era fuori di sé per l’affezione veemente e per l’ardore che doveva rappresentare nel vivo della passione furiosa del re Atreo, gli diede sulla testa un colpo così forte con lo scettro che teneva in mano, che lo uccise sul posto…97

Ed era un attore [acteur] quello? Era un pazzo che il tribuno doveva inviare seduta stante alla rupe Tarpea. Il secondo: Come pare che fece. Il Primo: Ne dubito. I Romani facevano molto caso alla vita di un grande attore [comédien] e poco alla vita di uno schiavo! Ma si dice che un oratore valga di più quando si infervora, quando è in collera. Io lo nego. È quando imita la collera. Gli attori fanno impressione sul pubblico, non quando sono furiosi, ma quando interpretano bene il furore. Nei tribunali, nelle assemblee, in tutti i luoghi in cui si vuole rendersi padroni degli spiriti, si finge a volte la collera, a volte la paura, a volte la pietà, per indurre gli altri a questi diversi sentimenti. Quello che la passione stessa non ha potuto fare, viene eseguito dalla passione imitata bene. Non si dice nel mondo che un uomo è un grande attore [comédien]? Non si intende con questo che sente, ma al contrario che è eccellente nel simulare, anche se non sente nulla:

97. Plutarco, Vita di Cicerone, V, 5. Diderot cita la traduzione di Amyot pubblicata a Parigi nel 1786.

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ruolo ben più difficile di quello dell’attore [acteur], perché quest’uomo deve in aggiunta trovare il discorso e due funzioni da svolgere, quella del poeta e quella dell’attore [comédien]. Il poeta sulla scena può essere più abile dell’attore [comédien] nel mondo; ma crediamo che sulla scena l’attore [acteur] sia più profondo, sia più abile a fingere la gioia, la tristezza, la sensibilità l’ammirazione, l’odio, la tenerezza di un vecchio cortigiano? Ma si è fatto tardi. Andiamo a cenare. Fine

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Accanto ai dossier monografici riportati si ricorda che numerosi articoli sul Paradosso sull’attore e sul teatro diderottiano sono stati pubblicati all’interno di riviste scientifiche di cui ricordiamo solo le principali. Su Diderot: «Diderot Studies»; «Recherches sur Diderot et l’Encyclopédie».

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Sul diciottesimo secolo: «Dix-Huitième siècle»; «EighteenthCentury Studies»; «Studies on Voltaire and Eighteenth Century». Riviste di estetica, teatro e letteratura: «Acting Archives Review»; «Aisthesis»; «Itinera»; «Révue d’Histoire littéraire de France»; «Theatre Journal».

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Postilla su Giasone e Medea di Carle van Loo

L’immagine riprodotta in copertina rappresenta la famosa attrice Claire-Hippolyte-Josèphe Léris de Latude, detta Clairon, nei panni di Medea e il famoso attore Henri-Louis Kain, detto Le Kain in quelli di Giasone nella scena finale della Médée di Longepierre tratta dalla tragedia di Euripide. Il quadro era stato donato alla Clairon dalla principessa Galitzine ed era stata la stessa attrice a scegliere Carle van Loo per eseguire il ritratto, a indicare la scena, nonché l’allestimento scenografico corrispondente a quello in cui aveva avuto tanto successo alla Comédie française. Troviamo in questo dipinto un esempio di quella compenetrazione tra teatro e arti pittoriche che si afferma nel XVIII secolo. Il dipinto, esposto al Salon del 1759, aveva attirato una grande folla ed era inoltre circolato grazie a diverse incisioni, divenendo oggetto di valutazioni controverse. Voltaire lo apprezzava considerandolo una grande opera degna tanto dell’attrice, quanto del pittore che lo aveva realizzato. Diderot, al contrario, proprio in apertura del Salon 1759, esprime in modo sarcastico e sferzante la sua critica a una rappresentazione che giudica lontana dall’espressione di quel terrore e quella pietà

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suscitate dalla tragedia. La composizione nel suo complesso secondo il filosofo è troppo innaturale: Infine l’abbiamo visto, questo famoso quadro di Giasone e Medea. Oh amico mio, che brutta cosa! È una decorazione teatrale con tutta la sua falsità; uno sfarzo di colore insopportabile; un Giasone di una stupidità inconcepibile. L’imbecille brandisce la sua spada contro una maga che si dilegua nell’aria, che è fuori dalla sua portata e che lascia ai suoi piedi i suoi figli sgozzati. Questo è bello? Bisognava levare al cielo braccia disperate, avere la testa rovesciata all’indietro; i capelli rizzati; una bocca aperta che emettesse lunghe grida; degli occhi stralunati. E poi una piccola Medea, corta, rigida, infagottata, sovraccarica di stoffe; una Medea da palcoscenico; nemmeno una goccia di sangue che cada dalla punta del suo pugnale o che coli sulle sue braccia; niente disordine; niente terrore. Si guarda, si è abbagliati e si resta freddi. Il panneggio che copre il corpo ha l’opacità e i riflessi di una corazza; si direbbe una placca di ottone. Sul davanti c’è un bambino molto bello riverso sui gradini bagnati dal suo sangue; ma è senza effetto. Questo pittore non pensa e non sente. Un carro di enorme pesantezza. Se questo quadro fosse un arazzo, bisognerebbe accordare una pensione al tintore. Preferisco le sue Bagnanti.1

La critica colpì Van Loo che dipinse una nuova copia del quadro (ora a Potsdam) in cui l’espressione della Clairon risulta nobilitata e più calma, mentre Le Kain viene rappresentato più ruotato sul fianco, offrendo il profilo a chi guarda il quadro. Anche i colori risultano mutati, meno sgargianti, e lo scenario più drammatico ed essenziale. Questo dipinto controverso è un modo per aiutare il lettore e la lettrice di oggi ad approcciarsi al gusto, per molti versi ormai lontano, che dominava le arti del Settecento e cogliere

1.  D. Diderot, Salon 1759, in Id., I Salons con i Saggi, cit., pp. 8-11.

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in modo più consapevole l’importanza delle novità introdotte dalla riforma del teatro e dalla critica d’arte diderottiana. I giudizi sulla rappresentazione pittorica della scena tratta da Medea vanno infatti nella medesima direzione di quelle dirette alla declamazione impostata in modo da risultare enfatica e non spontanea. Si aggiunga che si offre con quest’immagine la possibilità di “attribuire un volto” a due dei grandi attori menzionati da Diderot nel testo, tanto famosi all’epoca quanto facilmente sconosciuti a più di due secoli di distanza.

Indice

Il paradosso dello spettatore Prefazione di Andrea Tagliapietra

p. 9

Filosofia, sensibilità e arte in Diderot: un rapporto paradossale? Saggio introduttivo di Valentina Sperotto

p. 23

Nota al testo

p. 69

Paradosso sull’attore

p. 71

Bibliografia

p. 153

Postilla su Giasone e Medea di Carle van Loo

p. 163

Canone europeo

Collana di classici della filosofia europea Diretta da: Andrea TAGLIAPIETRA

1. Denis Diderot, Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***. 2.  Leonardo da Vinci, I diluvi e il tempo Aforismi e frammenti filosofici. 3. Helmuth Plessner, Il sorriso. 4. Louis-Sébastien Mercier, Montesquieu a Marsiglia. 5. Georg Simmel, La psicologia di Dante. 6. Henri Bergson, Bergson a Clermont-Ferrand. Corsi di filosofia al Liceo “Blaise Pascal”. 7.  Alfred North Whitehead, La funzione della Ragione. 8. Denis Diderot, Paradosso sull’attore.

Canone europeo | 8

Collana diretta da Andrea Tagliapietra

L’arte, secondo Diderot, trova il suo modello nella natura, ma nel Paradosso sull’attore afferma che il teatro è finzione e che l’arte dev’essere menzogna, affinché il suo effetto sia veritiero e capace di emozionare il pubblico. «Non si va a teatro per veder piangere», infatti, «ma per sentire discorsi che ci strappano le lacrime», sostiene uno dei personaggi messi in scena. Il vero paradosso di questo dialogo è però la tesi più nota e dibattuta, cioè che l’attore insensibile, freddo e capace di controllare le proprie emozioni, sia superiore all’attore passionale, che si lascia trasportare dai sentimenti del proprio personaggio. Un dialogo brillante, a tratti elusivo, che suscita interrogativi sul teatro, sull’arte, e che tratta alcuni grandi temi che dalla modernità giungono fino ai giorni nostri.

ISBN ebook 9788855292566

€ 10,00