Parabole dell'ateismo. Friedrich Hölderlin, Friedrich Nietzsche, Italo Svevo, Thomas Mann


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Italian Pages 380 Year 1973

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Parabole dell'ateismo. Friedrich Hölderlin, Friedrich Nietzsche, Italo Svevo, Thomas Mann

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GUIDO

SOMMAVILLA

PARABOLE DELL’ATEISMO FRIEDRICH

HOLDERLIN

ITALO

SVEVO

- FRIEDRICH - THOMAS

EDITRICE «LA GARANGOLA » PADOVA

1973

NIETZSCHE

MANN

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https://archive.org/details/paraboledellatei0000somm

i pei

UNIVERSITÀ ISTITUTO

DI PARMA

DI SCIENZE

FILOSOFIA

RELIGIOSE

E RELIGIONE 5

GUIDO

SOMMAVILLA

PARABOLE DELL’ATEISMO FRIEDRICH

HOLDERLIN

ITALO

SVEVO

EDITRICE

- FRIEDRICH - THOMAS

«LA

GARANGOLA »

PADOVA

1973

NIETZSCHE

MANN

Proprietà letteraria riservata

Stampato

in Italia - Printed in Italy

Tipografia Editrice

«La Garangola» - Padova

PARABOLERDEELATEISMO

343311

INTRODUZIONE

Le « parabole dell’ateismo » di cui qui si tratta sono quelle che l’ateismo verifica in genere nell’opera d’arte, ossia nell'uomo artista. Ma essendo l’artista l’interprete più qualificato e completo dell’uzzazo nell'uomo, queste parabole dell’ateismo dovrebbero disegnare anche il diagramma interiore delle risposte dell'umano in genere dell’uomo a una visione atea dell’esistenza. In particolare vengono qui esposte le parabole tracciate dall’ateismo moderno nell’opera (e dunque nell’umanità) di Friedrich Hélderlin, di Friedrich Nietzsche, di Italo Svevo e di Thomas Mann, tutte opere insieme di pensiero e di poesia. La forza vastamente rappresentativa di questi quattro ci dà quantomeno il sospetto, ci autorizza quantomeno al-

l’ipotesi che le curve espresse in essi dall’ateismo siano alcune delle curve che l’ateismo percorre più o meno in tanti altri, curve di maniera o forse d’obbligo: in coloro almeno che sono capaci di prendere l’ateismo altrettanto sul serio. Era comunque scritto che la risposta umanistica all’ateismo moderno toccasse lo zenit dell'entusiasmo e dell’applauso in Holderlin, il radir della depressione e dell’orrore in Nietzsche, e che si sdoppiasse con Svevo e con Mann in contrappunti ambigui o anche contraddittori, irrisolti nel primo ma in qualche modo risolti nel secondo con un superamento, a rigore, dell’ateismo stesso. Un ateismo allo zezit è quello di Holderlin. Il mondo e l’uomo decisi come unici esistenti hanno per Holderlin infinito, assoluto senso. Sono essi, finalmente, il Divino. L’ateismo si chiama allora panteismo. La poesia di Holderlin è l’espressione dell’esaltazione, della devozione, dell’esultanza dell’uomo al riguardo: un sentimento mistico rispetto a cui

l’eros neoplatonico, gli eroici furori bruniani e l’amor Dei

PARABOLE

8

DELL’ATEISMO

intellectualis spinoziano, che ne sono gli antesignani più illustri, possono ben apparire pallidi. Un ateismo al radir è quello di Nietzsche. Poco più di mezzo secolo dopo, l’uomo e il mondo senza Dio appaiono a Nietzsche del tutto destituiti di senso, assediati dal nulla, assurdi. La reazione emotivo-esistenziale dell’uomo, il suo sentimento

del valore, si è letteralmente

rovesciato

davanti

alla proposta atea. L’ateismo si chiama allora nichilismo. Di questo nichilismo Nietzsche è il testimone, il profeta di massima valenza. Siamo d’accordo che distinzioni come queste, definite per estremi, hanno dell’astratto e dell’irreale. Sappiamo bene che Hélderlin stesso ha potuto (e dovuto) discendere dal suo zenit in disperazioni paurose (benché mai assolute) e che Nietzsche stesso ha potuto risalire dal suo zadir verso esal-

tazioni perfino supertominiche. Ogni estremo ha bisogno nell’uomo di compensarsi per mezzo dell’altro estremo, non essendo consentito all’uomo l’assoluto né sotto segno positivo, né negativo. È vero tuttavia che l’ateismo ha patito nell’Ottocento (secolo classico delle ideologie atee), quanto alle risposte umane, oscillazioni piuttosto brusche, e saliscendi abbastanza violenti fra precisamente lo zezit hélderliniano e il nadir nicciano. La stessa parabola precipitante si è verificata, per esempio, fra Hegel e Schopenhauer o fra romanticismo ateo e ironia (vedi Heine) o fra illuminismo ateo ed elegia (vedi Leopardi), si è verificata spesso tutta intera in un singolo spirito. Ma da nessuno l’oscillazione è stata vissuta . con la totalità con cui è stata vissuta da Héolderlin e da Nietzsche, vissuta fino alla rottura dell’equilibrio mentale, fino alla follia. In essi ci sembra dunque più che mai documentabile tipologicamente la risposta di cui ci occupiamo. Un ateismo complessivamente al radir sembra sia quello in genere del decadentismo letterario-poetico otto-novecentesco. Toccato una volta il madir, si ha decisamente l’impressione che l’ateismo non sia più riuscito a risalirne granché. E sempre più facile precipitare che risalire. Quasi tutte le dominanti letterarie e filosofiche del Novecento, chiuse religiosamente, vanno aggirandosi nei suoi paraggi. Cosî l’esistenzialismo ateo, il neopositivismo e recentemente, come sembra, lo strutturalismo; cosî in genere i dominanti ismi letterari a tendenza estremistica, realistici o suttrealistici.

INTRODUZIONE

9

Risalite di vario genere verso lo zeri? sono state naturalmente tentate, ma con scarsi o ambigui esiti, quali quelli di poeti o di scrittori o di filosofi aggiogati alle politiche di estrema sinistra

o destra (D'Annunzio,

Sartre).

Il mondo

e l’uomo

unici esistenti continuano complessivamente ad apparire, all’uomo genuino e disinteressato, come radicalmente sprovvisti di senso. E c’è chi vi si rassegna come alla « verità » e chi non vi si rassegna e va avanti a interrogarsi circa un signi-

ficato in un « altrove ». Uno dei primi è Svevo, uno dei secondi è Thomas Mann. Abbiamo scelto questi due grandi scrittori decadentisti del Novecento come ulteriore campo d’indagine circa le parabole dell’ateismo. Cercavamo due uomini e non soltanto due cervelli; due poeti ma di tempra realistica, ossia due narratori. Ma cercavamo inoltre due narratori di cervello, ossia di tempra anche ideologica, dove poter misurare l’incontro dell’ideologia con la realtà. L’ideologia doveva essere naturalmente atea. Ci è sembrato che nessuno degli italiani del Novecento possedesse meglio di Italo Svevo tutti insieme tali requisiti, ed egualmente nessuno meglio di Thomas Mann dei tedeschi del Novecento. Un fatto curioso, nonché sintomatico li unisce agli esordi della loro narrativa: entrambi iniziano

a scrivere

suggestionati

giovanissimi

dalla

lettura

di Schopenhauer, ossia dalla sua filosofia ateo-pessimistica. Scrivono per raccontare una realtà che suppongono apriori accordata e veridicamente interpretabile con la metafisica schopenhaueriana. Ma dal supposto accordo si sviluppa un confronto e dal confronto

stringere Mann

una

risposta

in una

è un

parola:

ateismo

umanistica.

ironia.

Quale. risposta?

L’ateismo

Si può

di Svevo

e di

all’ironia, è l’ironia dell’ateismo.

Nulla

di più attendibile, del resto, in spiriti insieme filosofici e realistici: l’ironia nasce dal senso dell’essere e la sua essenza consiste nella svelata contraddizione

fra essere e non essere,

fra essere reale ed essere supposto, dunque fra realtà e ideologia. La parabola dell’ateismo fra le ambiguità e i labirinti dell’ironia sveviana e soprattutto manniana importa ritmi e variazioni che qui non è possibile anticipare. Ma si può già dire, molto in genere, che in entrambi c’è partendo il proposito di irridere a un mondo e a un uomo che l’ateismo

10

PARABOLE

DELL’ATEISMO

ha svelato del tutto destituiti di senso, a un’esistenza quindi tutta « imbecille » (Svevo), tutta « misera e comica » (Mann).

Ma avanzando a poco a poco nell’esplorazione della realtà succede in entrambi che i termini s’invertono. Invece che ridere della vita in base all’ateismo, si comincia a un certo punto a ridere dell’ateismo in base alla vita. Da genitivo possessivo di ironia, l’ateismo si converte in un suo genitivo oggettivo. La vita risulta all’esplorazione realistico-narrativa non sempre cosî imbecille, non sempre cosî misera e comica come

ci si aspettava

nel presupposto

talvolta molto seria e molto importante.

ateo, risulta anzi

CAPITOLO

FRIEDRICH ATEISMO

I.

HOÒLDERLIN ALLO

ZENIT

I LEAFTPOESTAPROFETICA DI FRIEDRICH

I

HOLDERLIN

LA.POESIA,

Friedrich Holderlin è ormai, per la storiografia letteraria, secondo forse solo a Goethe nella serie dei geni del cinquantennio aureo della letteratura tedesca (1770-1820). Ma Goethe ebbe sessant’anni a sua disposizione e Holderlin soltanto dieci. A 35 anni il suo genio gli si spense nella follia. Se va riconosciuta anche al fattore tempo una qualche incidenza nel computo dei valori, Hòlderlin può pareggiare in senso intensivo Goethe, se non perfino superarlo. C’è un solo decennio della lunga esistenza di Goethe, quello in sui nacquero l’Ipbigenie, il Tasso, Hermann und Dorothea e il Wilhelm Meisters Lebrjabre (1786-1796), che possa essere paragonato all’unico effettivo decennio holderliniano (17931804) con le sue miracolose liriche, l’Hyperion, l’Empedokles e gli inni. È dubbio che a Goethe sia riuscita fino al punto in cui è riuscita a Holderlin la fusione degli estremi termini lirici: della lettera e dello spirito, della concretezza e del simbolo, della chiarezza e della misteriosità, della classicità e del romanticismo. Benché non ci si nasconda che quando simile fusione arriva alla identificazione, ossia al risolvimento del secondo elemento nel primo, come talvolta avviene in Hélderlin (ma talvolta anche in Goethe) la poesia stessa in quanto tale entra in crisi.

CAP.

12

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

Ma ben pochi al suo tempo si avvidero di lui, e questi stessi pochi vi prestarono una ben effimera attenzione. Bisognò attendere la seconda metà dell'Ottocento perché finalmente un altro genio candidato alla follia, Friedrich Nietzsche, riscoprisse il genio di Hélderlin, per vari aspetti cosî affine al suo. La hélderliniana « fuga di Dio» passa cosî nella nicciana « morte di Dio ». Ma bisognò attendere il Novecento perché la critica ufficiale riparasse concorde la fenomenale svista di tutto un secolo con l’attenzione e la stima che Holderlin si merita. Però molta di questa critica primo Novecento fu cieca abbastanza da non vedere in lui che un pangermanista o un nazista avanti lettera. C’era tuttavia realmente anche in lui la visione d’un Deutschland tber alles che si offriva a fatali interpretazioni. Solo il secondo dopoguerra ci ha donato una edizione critica integrale e opere di profonda esegesi, fra cui spicca quella di Romano Guardini. Holderlin risuscita l’esametto omerico con una perfezione pari alla virgiliana, e gli altri metri greci (soprattutto l’asclepiadeo, l’alcaico e il giambico) con una perfezione pari alla oraziana. Essi sembrano anzi, sotto la sua penna, i metri destinati da sempre alla lingua tedesca, i ritmi creati unicamente per il respiro interiore holderliniano. Nelle epistole dell’Hyperion egli fa scrivere al protagonista, un greco, la più mirabile prosa lirica tedesca che sia stata mai scritta. Del tutto corrispondente alla perfezione ritmica è in Hélderlin la misura insieme dolce e forte delle immagini e il vibrare sempre nobile e mai cieco dell’emozione. C'è forse nelle liriche giovanili, prima cristiane e poi idealistiche (schilleriane), una eccedenza esclamativa emozionale, ma dall’inizio dei metri greci non è più avvertibile il minimo screzio tra forma e contenuto, tanto ogni accento e ogni sillaba appaiono necessari.

La ragione è che egli s’era interamente

fatto greco

anzitutto d’anima e di contenuto, a cominciare dalla religione. E dubbio che sia mai esistito greco più greco di questo tedesco nato duemila anni dopo Omero, o che sia esistito altro greco o altro barbaro che abbia amato gli Dei greci quanto lui. Egli li ha amati, si può dire, con la passione mistica d’un anacoreta cristiano.

aveva

La sua Germania non divenne la nuova Grecia come egli vaticinato. Ma è indubbio che almeno in lui l’antica

LA POESIA

13

Grecia era per un momento ritornata, spiritualmente e formalmente, ideale come mai era esistita. Quando negli ultimi anni le sue forme greche si dissolveranno in un abruptum genus di versi liberi e ansanti, originalissimi, ma interiormente non meno necessari, si tratterà per Holderlin d’un evento tutt’altro che soltanto formale. In quegli inni, infatti risaliva irresistibile nel suo cielo la divina immagine di Cristo a reclamare un posto e un amore preferenziale fra le altre divinità. Sarà il suo dramma estremo, forse quello sotto cui il suo spirito si spezzò. Ma la prerogativa massima di Hélderlin sta nel fatto che tutta la sua poesia è, nel più consapevole e intenzionale dei modi, profezia. Egli si sente in quanto poeta nient’altro che un araldo di religiosa verità, e con una intensità, continuità, interna coerenza dei contenuti quale ben pochi profeti-poeti hanno mai avuto. Il principio dell’unità di poesia e profezia trova dunque in lui una delle più puntuali verificazioni. Ma il principio entra inoltre di fronte a lui quanto mai in crisi, perché la «verità» religiosa che Hoélderlin annuncia è, quanto a noi, ossia cristianamente parlando, falsa. Ora, è vero, di falsi profeti è piena la storia, ma non di falsi profeti e insieme veri poeti. Un vero poeta e insieme falso profeta è anzi per noi una contradictio in terminis. Non si esce dalla contraddizione avvertendo che la profezia holderliniana era assolutamente sincera, soggettivamente incorrotta, eticamente positivissima; che Holderlin era un falso profeta in assoluta buona fede. La nostra equazione pretende a una validità obiettiva, è una identità di contenuti. Si esce dalla contraddizione soltanto qualora fosse possibile dimostrare che: 1) la profezia holderliniana è intimamente tutta attraversata essa stessa dalla contraddizione, una contraddizione che, inconsapevole dapprima, affiora poi alla coscienza del poeta e ne diventa la personale tragedia. Cosî la contraddizione, dal profeta tragicamente sofferta, annuncia, denunciando la falsità della profezia, dove sta davvero la verità; 2) la profezia holderliniana non è che una profezia cristiana immanentizzata, essendo tutta e di continuo alimentata, prima segretamente e poi sempre più consapevolmente, dalle emozioni, dai miraggi, dai ritmi e dalle categorie della profezia cristiana. In questi sottintesi cristiani si annida il suo più forte fascino, nonché la sua massima intelligibilità. 3) Questa immanentizzazione (risolvimento del divino nel mondo e

CAP. I - FRIEDRICH

14

HOELDERLIN

viceversa) è precisamente il punto dove la poesia hélderliniana scopre i suoi limiti come poesia: la sua incapacità a farsi epos e dramma, inoltre la sua discutibile persuasività, la sua incredibilità per il lettore sia credente che miscredente. Ma paradossalmente — in chi avverta l’illegittimità del processo e sappia riconvertire le identificazioni hòlderliniane in simbologie — proprio la immanentizzazione di cui si tratta conferisce ai contenuti cristiani sottintesi di Holderlin una vicinanza altamente

suggestiva.

Ora tutto ciò ci sembra dimostrabile. È l'impresa a cui ci accingiamo. Ma sarà prima necessario rendere ragione del fenomeno iniziale, stranissimo, di una riconversione cosf totale, profonda e irremissibile al paganesimo d’un giovane cristiano del XVIII secolo, anzi d’un giovane pastore evangelico (luterano). Pagani in parte o in tutto ridivennero molti dei poeti e degli scrittori dell’età aurea tedesca, e ogni età cristiana ha avuto i suoi apostati. Ma ciò che non finisce mai di meravigliare in Holderlin è l'assoluta innocenza della sua apostasia. Quando ancora giovanissimo egli passerà con tutta intera l’anima e cosî di netto al paganesimo greco, quel passo gli sembrerà l’atto più pio che potesse fare, e le reviviscenze cristiane dell’ultima fase gli sembreranno empie.

2. - HOLDERLIN

L’APOSTATA.

Come si spiega in uno spirito cosî sincero un tale capovolgimento per cui il Dio cristiano diviene l’« idolo » ! e gli idoli greci i veri Dei, quello la falsa immagine della divinità, questi la vera? « L’amico di Hegel Holderlin patî nella sua anima ciò che il filosofo trasformò in filosofica imperturbabilità e in estetico distacco: il doloroso dilemma del cristiano protestante che si è invaghito dei greci. Lo spirito incredibilmente indifeso di Holderlin fu lacerato dalla necessità e dalla impossibilità di scegliere tra gli Dei greci dello spirito che si fa bellezza nel corpo e il Dio spirituale del corpo crocifisso » ?. 1 F. HoeLpErLIN, Hyperion in F. HoeLpERLIN, Sérztliche Werke, Berlino 1943, vol. II, p. 95. n HeLLER, Die Reise der Kunst ins Innere, Francoforte 1966, 4 p.

HOELDERLIN L’APOSTATA

1

15

In queste sentenziose parole di Erich Heller, e anzitutto in quella che abbiamo sottolineato, consiste, ci sembra, se non l’unica, la fondamentale spiegazione. Sono state senza dubbio assai complesse, in concreto, le forze che hanno deciso l’apostasia hélderliniana. È stato il pietismo della madre, una oppressiva madre vedova, che avrebbe impregnato di questa sua psicologica oppressività anche la religiosità a cui educava il sensibile fanciullo. È stato l’astratto moralismo e il razionalismo teologico, più o meno leibniziano-wolffiano, insegnato nello St} teologico di Tubinga, ibridamente addizionato alla dogmatica luterana, sabbia invece che cibo per uno spirito in cui la fame di poesia esigeva semmai un alimento mistico. E ancora: l’assenza nel suo tempo di pensatori cristiani all’altezza del suo genio; educatori e superiori dal meschino carattere; incomprensioni subite e soffertissime; la lettura di Spinoza e di Rousseau; la compagnia di condiscepoli quali Hegel e Schelling; la giovanile infatuazione per Schiller; la sua profonda costituzionale malinconia. E, naturalmente, i classici greci assimilati con la prontezza e la perfezione di cui s’è detto. Ma tutte queste non erano che le varie acque affluenti ad un’unica, vasta, rapinosa fiumana d’irresistibile riflusso dagli estremi del teismo protestantico antinaturale e alienante. Il genio tedesco improvvisamente svegliato, anzi esploso nella Germania protestante del secondo Settecento era, quando Holderlin vi si affacciò, ormai da circa un ventennio coinvolto in una concorde azione di ricupero delle realtà terrestri e dei valori umanistici misconosciuti dal luteranesimo, dal pietismo e dal razionalismo teologico. Ma questi rivendicatori erano a loro volta, per inesorabile legge dialettica, incamminati verso altri estremi altrettanto inautentici, verso l’immoralismo, il panteismo, l’ateismo, o verso opposte forme di razionalismo e moralismo. Nessuna meraviglia se lo spirito vulnerabilissimo di Holderlin venne travolto dalla corrente. Ma, se forze superiori lo respingevano dai primi estremi, forze non meno superiori lo respingevano dai secondi estremi. Era la già citata innocenza holderliniana che lo preservava dall’immoralismo, era un profondo sentimento del sacro, una singolare disponibilità religiosa, una incoercibile fame mistica che lo preservava da forme areligiose, laiche. Era inoltre, ma non del tutto distinta dalle

16

CAP,

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

prime due, un’esigenza di integrità o d’armonia assoluta tra sensi e spirito, tra realtà e idealità, tra fisica e metafisica, che lo preservava da molte unilaterali riduzioni ad ismi vari: idealismo, moralismo, razionalismo, realismo edonistico. Se un Dio trascendente sopra la natura era inaccettabile e la sola realtà credibile doveva essere la natura, questa fu subito da Hélderlin maggiorata di profondità senza fine, colmata di mistero, divinizzata. Non una natura fantastica, tuttavia, ma questa che i nostri sensi, la nostra memoria e la nostra fantasia realisticamente afferrano, questo cielo e questa terra cosmico-fisici, questi fiumi, monti, mari, continenti geograficamente e storicamente ben definibili, la Germania, la Grecia, le Alpi, il Reno e il Danubio, l’Arcipelago greco, Stoccarda, Heidelberg con il suo ponte, fiume, castello, ecc. A tutte queste realtà Holderlin però parla come fossero divinità e come se tutto il significato della sua poesia o (che in lui è lo stesso) della sua esistenza e tutto il compito dell’esistenza in genere, consistesse nel nominarle, amarle, celebrarle, nell’intuirne il mistero, nell’entrare in dialogo vitale con esse, divenirne parte e realizzare cosî in tutta la sua profondità il rapporto uomo-natura in cui consiste ormai per lui la pienezza dell’esistenza. Le divinità dell'Olimpo hélderliniano, gli Himzzzlischen o Celesti, per non nominare che i più ricorrenti, e in ordine decrescente d’importanza, sono: l’Etere o il Cielo (il « Padre »), la Madre Terra, Poseidon o il Mare, Apollo o il Sole, Dioniso o il Riconciliatore, Saturno e Giove, Eracle o l’Ordinatore, e alla fine Cristo. Tutte queste divinità però, ciascuna ben contraddistinta dall’altra, costituiscono tutte insieme la divina Totalità della Natura o del Mondo, unica, ultima, esaustiva Realtà. Le divinità singole sono divine in ultima analisi solo perché elementi della divina Natura, dove in Holderlin tutto è « sacro », beilig, termine in cui si esprime la quintessenza della perfezione integrata. Ma non meno divino o sacro delle divinità sopra citate è, in Hélderlin, l’uorzo: l’uomo come tale, l’uomo in genere, «il più splendido dei frutti della Natura », e variamente divini non meno uomini singoli o gruppi, l’uomo greco, per esempio, e grandi uomini della storia. I « Celesti » di cui sopra, anzi, hanno bisogno di compiersi nell’uomo, hanno bisogno della sua consapevolezza e del suo dolore per poter avere un «cuore », una

HOELDERLIN

L’APOSTATA

17

« intimità ». « Con la sua capacità di sentire, di soffrire, di assumere le cose nella sua vivente profondità, l’uomo è altrettanto grande degli Dei» ma ha a sua volta bisogno di fondersi con essi e con la divina profondità della Natura per toccare la pienezza. Sarebbe davvero troppo lungo qui intraprendere una analisi e una interpretazione delle singole divinità hélderliniane. Rimandiamo il lettore alla magistrale interpretazione del Guardini*. Non è certo facile spiegarsi in che consista il « divino » di tali divinità, il divino della Natura. Certo è che il divino Cielo, la divina Terra, il divino Mare di Holderlin nor sono allegorie o immagini d’un divino distinto dalle realtà fisiche che i termini anzitutto designano. Questa fisicità, questa concretezza, questa identificazione è quanto soprattutto sorprende il lettore degli inni religiosi hòlderliniani, e fu presumibilmente ciò che sorprese assai anche i primi loro lettori, Schiller, Goethe, Humboldt, i quali leggendo « An den Aether », il primo che venne loro in mano, restarono assai perplessi circa il carattere e il valore d’una simile poesia. L’impressione più costante e insieme più imbarazzante che se ne ha è che si tratti di realtà fisico-cosmiche divinizzate tout

court.

Il Guardini ha la sua pena ad indicare come in realtà si passi in questa poesia dal significato fisico a quello psicologico, spirituale, metafisico, mitico. A noi sembra decisamente che fra il piano fisico-cosmico e il piano mitico non esistano per Holderlin piani intermedi. Ogni volta, almeno alla nostra critica e scettica sensibilità, quegli appellativi di gottlich (divino) o di heilig o di selig (beato) e affini, cosî d’improvviso aggiudicati al sole che sorge, al fiume che nasce, alla città che appare, per esempio in « Heimkunft » (dove il sole che spunta sul lago di Costanza è «der reine selige Gott », il puro beato dio; il Reno che s’immagina sgorgare dietro i monti è « das goztliche Wild », la divina belva; e la città di Lindau è «die geweihte Pfotte », la porta sacra) ci risultano a tutta prima incredibili. Si è tentati di condividere senz’altro l'impressione di Schiller il quale vide in tutto ciò

1955

3 R. GuARDINI, p, 305. 4 Ibidem.

Hoelderlin.

Weltbild

und

Frommigkeit,

Monaco

18

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

una « heftige Subjectivitàt » °: addizioni fortemente soggettive del poeta. Il che sarebbe però tutto l’opposto di quanto intendeva Hélderlin stesso, per il quale il « divino » era quanto di più reale, obiettivo, assoluto ci fosse nelle cose. O si è tentati di interrogarci se non si sia per avventura verificato in Holderlin qualcosa come un processo esattamente inverso a quello della conversione di Agostino dal manicheismo da cui egli aveva appunto appreso a credere che « Dio » era il sole fisico e la realtà materiale del cosmo. Si comincia un po’ a capire e ci si tranquilizza e persuade d’una simile poesia, la cui

essenza unica e continua sta nella evocazione della sacralità di tutte le cose, quando ci si è resi conto, come già abbiamo

un po’ fatto, delle terribili ragioni che comandavano il trasfenimento del sentimento religioso dal senso della trascendenza a quello dell’immanenza, e quando per conseguenza si avverte su quali linee espressive ormai si muova tutta questa poesia: quelle d’ur simzbolismo che ha identificato i suoi estremi termini. Prima, nelle epoche teologico-cristiane, poesia significava cogliere nelle realtà umane e mondane i segni di Dio, negli effetti la luce e i colori della Causa, nelle melodie del fiume la musica della Sorgente. Allora il simbolismo poetico manteneva distinti i suoi termini, il suo segno e il suo significato, il mondo era una simbologia d’un Altro, di Dio. Ma ora che per Hélderlin causa ed effetto, fiume e sorgente, segno e significato non si distinguono più, tutto è diventato immediatamente

sacro per una

poesia che vive del sacro, e per la quale l’oggetto sacro fondamentale è sparito dall’orizzonte. Poesia ormai significa chiamare immediatamente divina ogni singola cosa in forza del suo rapporto con la totalità immanente in esse. L’unico rapporto e l’unica distinzione che ancora restano sono, sparita la distinzione di causa-effetto, quella del singolo e del Tutto, in quanto però tra loro non veramente o non legittima-

mente distinti. È il decisissimo credo holderliniano dell’ her kai pan (uno e tutto): del Tutto che è uno e che è tutto in ogni singola realtà, e di ogni singola realtà che è tutta nel Tutto. È l’euforico, romantico, orgiastico credo che « ein einiges, ewiges, gliihendes Leben ist alles » a cui approda l’Hyperion: tutto è un’unica, eterna, ardente vita. Questa sublime hélderliniana visione dell’essere come ° Citato da F. BerssNnER, Hoelderlin

heute, Stoccarda

1963, p. 34.

HOELDERLIN

L’APOSTATA

19

divino Ein und Alles, Uno-Tutto, è però, dicevamo, tutto l’opposto d’una vicenda soggettiva che ha inizio e fine unicamente nell’interiorità del poeta. Hòlderlin non è un romantico trasfuga dalla realtà nella idealità del sogno, è tutto l'opposto. Meno ancora è il filosofo che universalizza uniformemente tutte le cose. Questo suo Tutto universale è fortemente, invece, individualizzato. Egli è un poeta e un uomo interamente incarnato, e non solo nelle realtà concrete della Natura, ma anche in quelle della Storia e del suo tempo. Egli è tutto l’opposto dell’isolato sognatore che sogna per sognare. Pari alla fisicità degli oggetti della sua fede religiosa è la storicità degli obiettivi della sua volontà trasformatrice e davvero rivoluzionaria. Pochi poeti, crediamo, hanno quanto lui voluto e bramato agire sulla storia e sugli uomini del proprio tempo, pochi furono più di lui attenti ai supposti segni dei tempi. La volontà storica è in lui pari alla visione poetica. Egli si senti chiamato a restituire il sentimento del divino, ma non in vista d’un misticismo astratto e rinunciatario. Al contrario esatto: egli lavora a modificare il mondo e il tempo e gli uomini, ma non l’uomo in genere, bensî quelli che ha davanti, a cominciare dagli alunni di cui fu precettore e dai suoi amici, fino a tutti i tedeschi del suo tempo e del futuro. Volle essere un educatore in senso totale. Se si eccettuano la prima serie di inni di evidente imitazione schilleriana, inni alle varie virti (alla bellezza, alla libertà, all’amicizia, all'amore, ecc.), quasi tutte le creazioni poetiche di Holderlin hanno come esordio o anche come tema dati di fatto assai realistici o personali o storici (un viaggio, un ritorno a casa, una partenza, una ben determinata persona, città, terra, fiume, ecc.) di cui vogliono essere la celebrazione profonda, religiosa, mitica. Da questa doppia inderogabile esigenza h6lderliniana della « divina » Totalità e della non meno « divina » individualizzazione si sviluppa però, come vedremo, una delle più drammatiche ambiguità della sua poesia e della sua esistenza, giacché ciascuna delle due opposte istanze non potrà non minacciare mortalmente l’altra; in termini mitici-hélderliniani, Giove minaccia di continuo Saturno e viceversa. Tutta, comunque, questa « heilige Philosophie » di Holderlin intende costituirsi all'insegna dell’ottimismo più intransigente. Tutto è sacro o, con la terminologia invece che della

CAP.

20

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

poesia dalla prosa hélderliniana, tutto è b4oro. Essendo tutto ciò che esiste un elemento

della Natura, tutto è come

tale

divino.

A questo sacro, divino, infinito ottimismo della visione dell’arzore hòlderlil’ottimismo esattamente corrisponde niano. Le disponibilità di Hélderlin all'amore sono pari alle sue disponibilità religiose. I suoi luminosi, instancabili, incalzanti slanci erotici, nel senso dell’eros precisamente platonico, non finiscono mai di sorprendere. Tutti i suoi scritti e in prosa e in versi traboccano letteralmente di affetto, a cominciare dai primi di Hélderlin ancora adolescente. Affetto intenso e zampillante per i suoi familiari, la sorella Rike, il fratello Karl, la madre e la nonna. Esuberante tenerezza per amici vari, per i suoi alunni privati. Affetto e quasi adorazione e stima immensa per Schiller. Ma a proposito di tutti questi amori hélderliniani è d’obbligo ripetere la parola che già pronunciammo a proposito della sua apostasia e del suo paganesimo: l’innocenza. Sono amoti incredibilmente puri. E dobbiamo ancota aggiungere: intelligenti. Non razionali, ma intelligenti di quella inzelligentia cordis tipica di Hol derlin, in cui il sentimento, pure incontenibile, scaturisce e fluisce invariabilmente tutto fuso e identificato a giustificazioni profonde e in coerenza meravigliosa con tutta insieme la sua visione e la sua interpretazione dell’esistenza. Con il processo del tempo, ma pure con eccezionale precocità, questi amori si fanno sempre più universali: abbracciano con un ardore che non s’attenua la sua patria sveva, la Germania intera, il mondo, l’umanità. Al fratello, il ventitreenne Holderlin, già poteva scrivere: «Io lo conosco bene questo destarsi del cuore giovanile, li ho vissuti anch’io i giorni dorati in cui cosî caldamente e fraternamente si aderisce a tutto, e dove questa partecipazione a tutto tuttavia non soddisfa, dove si vuole solo 474 cosa, solo 4 amico in cui la nostra anima si ritrovi e si allieti. Se vuoi che te lo confessi, io ho quasi superato questa bella fase dell’esistenza. Non sto più appeso cosî caldamente a singoli amici. «II mio amore è il genere umano, non francamente quello degenere, servile e pigro in cui troppo spesso ci tocca imbatterci anche in una limitata esperienza. Ma io amo il genere umano dei secoli avvenire. Giacché questa è la mia speranza più beata, la fede 6 F. HoELpERLIN,

Lettera a Schiller, Pasqua 1794.

HOELDERLIN

L’APOSTATA

Dil

che mi conserva forte e attivo, la fede che i nostri nipoti saranno migliori di noi, che la libertà deve un giorno arrivare e la virti vera avrà miglior successo nella sacra e calda luce della libertà che non nella gelida regione del dispotismo » (corsivi nostri)”.

Pari a questo amore universale è in lui la speranza, e l’ardente volontà per una realizzazione dell'amore e della speranza. Cosî continua la stessa lettera al fratello: « Noi viviamo in un periodo dove tutto è all’opera per realizzare giorni migliori. Questi germi dell’illuminazione, questi tranquilli desideri e sforzi di singoli per l'educazione del genere umano si dilateranno e si irrobustiranno e porteranno splendidi frutti, Guarda, mio caro Carlo! Questo è ciò a cui ora il mio cuore sta appeso. Questo è lo scopo sacro dei miei desideri e della mia attività: che io nel nostro tempo risvegli i germi che matureranno nel tempo futuro. Questo io credo è il motivo per cui ora aderisco a singoli uomini con un po’ meno di calore. Vorrei operare nell’universale, l’universale non ci fa però posporre precisamente il singolo, tuttavia non viviamo con tutta l’anima per il singolo se l’universale è divenuto oggetto dei nostri desideri e dei nostri sforzi. Però, cionondimeno, io posso essere ancora amico d’un amico.

Forse

fedele,

operoso.

verso

quella

non

un

Oh,

meta,

tenero

amico

se trovassi

essa

mi

come

un’anima

sarebbe

cara,

allora,

che

cara

ma

tende

sopra

un

amico

come

me

tutte »*.

Cosî già parlava il ventitreenne Holderlin, e in questo egli è un esemplare figlio del suo tempo. La sua è la fede nel progresso tipica del suo tempo. Ma di Holderlin essa ha il grande calmo ardore e, almeno in Holderlin poeta, la convinzione che questa ideale umanità del futuro non è realizzabile se non nella restituzione del sentimento del divino. Notevole è il fatto che nella prosa delle lettere, nonché in quella dell’Hyperion non compaia mai l’olimpo hélderliniano, ma solo la natura. Soltanto nelle liriche e negli inni ‘appaiono divinità singole e distinte, e il dialogo del poeta con esse. Senza dubbio la poesia è dialogo e vuole interlocutori diversi e personificati. L’uniformità della natura e del tutto ha bisogno di articolarvisi. Questa diversità fra poesia 7 F. HorperLIn, Sdrziliche Werke Stoccarda 1944-55, vol. VI, p. 101. 8 Ibidem.

(Kleine

Stuttgarter

Ausgabe),

22

CAP.

e prosa sorprende.

In genere

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

nella prosa, specie delle let-

tere, Holderlin è sempre discreto, comprensibilissimo, normalmente logico, misuratamente appassionato e cordiale. Il sospetto d’una « heftige Subjectivitàt » non ha minimamente

imodo di nascere. Al fratello confessa che non è facile per lui passare dalla prosa alla litica. Sono due stati dunque ben diversi. Ma ideologicamente parlando, la prosa e la poesia holderliniana non sembrano affatto contraddirsi. Tuttavia noi vi sospettiamo un segno del dramma che percorre da cima a fondo tutto Hélderlin: l'esigenza della personalità nelle divinità interpellate e insieme la certezza filosofica delda loro impersonalità. Negli appunti di preparazione all’Hyperion tutta la visione hélderliniana perfino del sacro e del divino in genere può apparire superflua: « La beata unità, l’essere nell’unico senso della parola, è per noi perduto, e noi dovevamo perderlo, se doveva essere nostro dovere mirarvi e conquistarlo da noi. Noi ci strappiamo dal pacifico ben kai pan del mondo per rifarlo attraverso noi stessi. Noi siamo caduti insieme con la natura, e come si può credere che una volta tutto era una sola cosa, ora tutto si contrasta, e la dominazione e la schiavitù si alternano dall’una all’altra parte [...]. Mettere fine a quest’eterno contrasto fra il nostro io e il mondo; rigenerare la pace d’ogni pace, che è più alta d’ogni ragione, congiungerci con la natura in un unico infinito tutto, questa è la meta d’ogni nostro sforzo ».

La riduzione a dimensioni puramente razionali o filosofiche è più chiara ancora in un altro appunto per l’Hyperiox: « Esistono due ideali della nostra esistenza: uno stato della più alta semplicità, in cui i nostri bisogni concordano con se stessi e con le nostre forze e con tutto ciò con cui siamo collegati, e attraverso la pura organizzazione della natura, senza nostro apporto — e uno stato della più alta cultura, in cui la stessa cosa dovrebbe realizzarsi con bisogni infinitamente più complessi e più intensi, attraverso la organizzazione che noi stessi siamo in grado di conferitci ». Tracciare alcune delle linee essenziali che vanno dall’uno all’altro dei due stati, è tutto quanto Holderlin ci promette con il suo Hyperion. Ecco però lo stesso concetto

riespresso

cioè religiosamente in « Thalia-Fragment »: noi è sempre solitario e povero. Dove

poeticamente

e

« Ah, il Dio in

trova egli tutti i suoi

HOELDERLIN

L’APOSTATA

23

parenti? Che c’erano una volta e che ci saranno? Quando avverrà il grande ritrovamento degli spiriti? Giacché una volta eravamo pure tutti insieme ». Ma allora a chi dobbiamo credere: alla prosa o alla poesia di Hélderlin, alla sua fredda impersonale metafisica dell’uno-tutto, o alla sua poesia profetica cordiale e personale, dialetticamente dialogante da persona

a persona?

L’eros hòlderliniano, è comunque, proteso a realizzare con tutte le sue forze un nuovo stato ideale dell'umanità, tutto proteso a delinearne i modi, a interpretarne i segni, a suscitarne le speranze. La condizione primigenia, divina dell’uomo, è sul punto di ritornare ed egli sente d’esserne l’araldo. Essa si chiama armonia di tutti con tutti nell’armonia di ciascuno col Tutto: la dimensione divina dell’esistenza è precisamente nel suo sogno ?. È la sua continua speranza, ma è anche la sua continua nostalgia il continuo bruciante ricordo d’uno stato ideale dell'umanità che esisteva un giorno e che poi è tramontato. Era lo stato dell’umanità primitiva, del regno di Saturno,

dell’età dell’oro all’inizio dell'umanità;

un’età che si ripete

in qualche modo nei fanciulli in cui tutto è ancora naturale. Ma fu soprattutto lo stato della grande Ellade classica dopo Salamina e Maratona. Allora il Cielo e la terra, l'umano e il divino avevano potuto veramente fondersi e generare insieme la grande civiltà greca, la cui sintesi è in una parola sola: bellezza. In questo entusiasmo per la civiltà greca Hélderlin non è certo il solo nella Germania del suo tempo. Bastino i nomi di Winckelmann, Goethe, Humboldt. Ma certo nessuno l’ha rivissuta, quella civiltà, neanche lontanamente, con la sua passione identificatrice. L’entusiasmo esplode a volte letteralmente nei suoi inni alla Grecia: « Jubel Jubel! - Dir auf der Wolke! - Erstgeborner - Der hohen Natur » « An den Genius Griechenlands ») (Giubilo! Giubilo! - A te sulla nube! Primogenito - Dell’alta Natura) (« Al genio della Grecia »). « Ach! umtanzi von Ellas’ goldnen Stunden - Fiiltest du die Flucht der Jabre nicht! » (Ah, quando ti danzavano intorno le auree ore dell’Ellade - Tu non sentivi la fuga degli anni) (« La Grecia »). Tutto un inno mirabile all’antica Grecia è il celebre « Archipelagus ». Tutto greco è l’Hyperion, e al-

9 Ibidem, p. 323.

24

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

trettanto l’Ezzpedokles. Ma anche le lettere rendono conto di questo entusiasmo e come fu che Holderlin s’innamorò dei Greci. « Kant e i Greci sono quasi la mia unica lettura » !!. « O Grecia, con la tua genialità e con la tua religiosità dove te ne sei andata? Anch'io non vado che brancicando con il mio operare e pensare dietro questi uomini unici al mondo, e in tutto ciò in cui mi agito e dico sono tanto più maldestro e disarmonico in quanto sto come le oche con i piedi piatti in acque moderne e sono incapace di levare il volo verso il cielo ellenico ».

In una lettera del 1793 si parla di: « Ore divine quando io ritorno dal seno della beatificante natura oppure dal boschetto di platani sulle rive dell’Ilisso dove mi ero sdraiato con gli alunni di Platone e seguivo con lo sguardo il volo dell’uomo magnifico, come egli percorreva in tutte le direzioni le oscure lontananze del mondo originario, oppure lo seguivo con le vertigini al capo nella profondità delle profondità; nei più remoti confini della terra degli spiriti dove l’anima del mondo trasmette la sua vita alle mille pulsazioni della natura, là dove la energie scaturite ritornano dalla loro immensa circolazione, o quando, ebbro della coppa socratica e della socievole amicizia socratica, guardavo tutt’occhi al convito degli entusiastici giovani, come essi indulgono all'amore sacro con parola ardente e dolce, e quel buffone di Aristofane vi infila framezzo i suoi frizzi, e alla fine il Maestro, il divino Socrate stesso, con la sua celeste sa-

pienza li erudisce tutti su che cosa sia l’amore » 19,

Veri esercizi spirituali ignaziani, vera applicatio sensuum, solo che Cristo e gli apostoli sono stati sostituiti da Platone, da Socrate e dai rispettivi discepoli! In toni quasi parossistici la stessa esperienza si ripete per il giovane Hyperion, l’eroe hòlderliniano, che nascendo e vivendo nella Grecia schiava del Settecento, rivive anche lui la sua Grecia antica: « Chi può resistere, chi non travolge la terribile magnificenza dell’antichità, come un uragano travolge le giovani selve, quando essa lo afferra, come afferra me, e quando come a me manca l’elemento con cui si possa impadronirsi d’un forte sentimento di sé? Oh! a me, a me piegò la grandezza dell’antichità, come una tempesta, il capo, mi strappò il fiore dal volto, e sovente io giacqui, 10 Ibidem, p. 94.

HOELDERLIN

L’APOSTATA

25

dove occhio d’alcuno non mi poteva notare, con mille lacrime come un pino rovesciato che giace in riva al fiume e nasconde la sua corona appassita nell’acqua. Come volentieri avrei voluto comperarmi con il sangue un attimo della vita d’un grande uomo! »!!.

Le componenti di tale civiltà che ha ritrovato la divina Natura e l’ha sollevata, con la sua cultura, più in alto, sono (come « Archipelagus », uno degli inni più grandiosi di Hélderlin, le celebra) qualcosa di assai concreto e obiettivo come sempre in Holderlin: l’eroismo dei greci e la loro unione contro l’aggressione persiana, il coraggio e la concordia con cui ricostruiscono Atene distrutta più bella di prima, l’industriosità, i commerci, le arti. L’Atene di Hélderlin è una città divina, una dea, ma è una città in tutto e per tutto anche terrestre. Anche qui le due cose — il divino e il terrestre — non si distinguono affatto. Culmine massimo di tale civiltà è l’opera d’arte, la bellezza realizzata nell'opera. Ma qui si allude soltanto a quella pit concreta di tutte, l’architettura. Aber der Muttererd und dem Gott der Ma in onore della Madre Terra e Bliihet die Stadt jetzt auf, ein herrlich Rifiorisce ora la città, splendida Sicherbegriindet,

des Genius

Werk,

Woge zu Ebren del Dio dell’onda Gebild, dem Gestirn gleich, struttura, simile alla stella

denn

Fesseln

[del sole, der Liebe

Solidamente fondata, opera del genio, poiché catene d’amore Schaft er gerne sich so, so hélt in grossen Gestalten, Egli si crea volentieri cosî, cosî nelle grandi forme, Die er selbst sich erbaut, der Immerrege sich bleibend. Che lui stesso

si crea, l’eterno Mobile

si serba immobile.

Soprattutto condizione e corona, anzi intima sostanza di tale civiltà è il sentimento del divino, cioè il sentimento dell’intima unione con la Natura e con le sue componenti, con gli Dei. Qui in « Archipelagus » soprattutto con il Dio del Mare, cioè semplicemente con il mare Egeo, condizione prima della grandezza di Atene e della Grecia, naturale elemento liquido su cui in un’ora fatidica la Grecia vinse la Persia nella

battaglia di Salamina, qui raccontata come raramente o mai fu raccontata in poesia una battaglia. Condizione e sostanza l Ibidem, p. 104.

26

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

intima di tutta questa e di ogni altra civiltà è: « Derr voll gottlichen Sinns ist alles Leben geworden » (Che colma di divino Senso si è fatta ogni vita). E la causa per cui nelle generazioni di poi e nella nostra la civiltà si è oscurata, è la scomparsa del senso del divino: « Aber web! es wandelt in Nacht,

es

wobnt,

wie

in Orkus,

- Ohne

Gottliches

unser

Geschlecht » (Ma ahi! s’avvia nella notte, s’immerge nell’Orco, - Spoglia del Divino la nostra stirpe). E in che cosa consiste precisamente questa eclissi del divino? Si deve rispondere ogni volta invariabilmente: nell’individualismo, nella perdita del rapporto con il Tutto: Ans eigene Treiben AI proprio personale lavoro Sind sie geschmiedet allein, und sich in der tosenden Werkstatt Essi sono inchiodati, e nella fragorosa officina Horet jeglicher nur. Ciascuno non ode che sé. Mit gewaltigem

Arm, rastlos, doch immer

und immer

Con braccio potente, senza riposo, ma sempre mai Und viel arbeiten die Wilden. E molto lavorano i selvaggi. Unfruchtbar, wie die Furien, bleibt die Mihe der Armen. Sterile, come le Furie, rimane la fatica dei miseri.

Il superamento di tale individualismo, la pace tra gli uomini e la concordia, virtà cardinale di Héolderlin, e la fecondità dell’operare umano che ne consegue è possibile unicamente in un recuperato senso della divina Natura e dei suoi Dei, come si ridice nei seguenti versi, dove un’ennesima volta reca stupore il carattere di fisica cosmicità delle divinità holderliniane: Aber droben das Licht, es spricht noch heute zu Menschen,

Ma lassù la luce parla oggi ancora agli uomini, Schòner Deutungen voll, und des grossen Donnerers Stimme, Piena di belle allusioni, e la voce del grande Tonante Ruft es: Denket ihr mein? und die trauernde Woge des Meergotts Grida: Non pensate più a me? E del Dio del mare l’onda Hallt es wieder:

Gedenkt

ibr nimmer

meiner,

[mesta wie vormals?

Risuona ancora: Non vi ricordate mai di me, come un giorno?

HOELDERLIN

L’APOSTATA

27

Denn es rubn die Himmlischen gern am fiiblenden Herzen, Poiché volentieri i celesti riposano appoggiati a un

cuore

[che sente,

Immer, wie sonst geleiten sie noch, die begeisternden Krifte, Sempre come un giorno stimolanti energie Gerne den strebenden Mann, und iiber den Bergen der Heimat Incalzano l’uomo voglioso, e sui pattii monti Ruth und waltet und lebt allgegenwirtig der Aetbher, Riposa e domina e vive onnipresente l’Etere, Dass ein liebendes Volk, in des Vaters Armen

gesammelt,

Affinché un popolo amante, raccolto nelle braccia del padre, Menscblich freudig, wie sonst, und ein Geist allen gemein sei. Sia come prima lieto ed umano, e solo uno spirito sia a tutti [comune !.

I « Celesti » sono anche qui il Cielo (l’Etere, il « Padre ») e il Mare: il Cielo con la sua luce, il suo tuono, la sua immensità che tutti abbraccia; e il Mare che con la sua onda sonora e con le sue «giovanili braccia », come si legge più sopra, abbraccia la sua « amabile terra » e le sue « figlie », le isole dell’arcipelago greco, « le madri di eroi », e che pure è chiamato « Padre ». Essi, gli Dei, non sentono, ma hanno bisogno di sentirsi nel cuore dell’uomo che li sente. Da questi « Celesti » discendono le « energie » stimolanti » che aiutano l’uomo di buona volontà, e soltanto nell’unitaria, provvida immensità che tutto e tutti abbraccia, proprio come nelle braccia d’una universale paternità, è possibile che un popolo si raccolga e ognuno in esso si ami, e che un solo spirito sia a tutti comune. Se però la Grecia classica è la grande nostalgia di Hol derlin, la Germania è la sua grande speranza, perché la sua Grecia deve risorgere nella sua Germania. Il suo spirito ha percepito «la lingua degli Dei », cioè ha inteso das Wecbseln und das Werden, l’avvicendarsi e il divenire, i grandi ritmi delle cose, e ha sentito che è maturo il tempo in cui i tedeschi, ricuperato il senso del divino, sapranno restaurare la grande unità. Il profetico poeta è tutt’occhi proteso a spiare i segni dell'imminente resurrezione. Li coglie o gli pare di coglierli nel risvegliato interesse dei tedeschi per la

filosofia, ossia per la dimensione universale del pensiero, pet 12 « Archipelagus ».

28

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

la politica mondiale e soprattutto (ma per ora ancora troppo poco) per la poesia che è l’istanza più forte verso il senso

dell’unione universale. Cosî in una lettera al fratello del gennaio 1799:

«Kant è il Mosé della nostra nazione, egli la conduce dopo averla liberata dalla rilassatezza egiziana nel solitario libero deserto della sua speculazione e gli apporta la sua energica legge dal monte sacro ». E a proposito del cosmopolitismo e della metafisica, egli conforta l’interesse dei tedeschi con l’esempio d’una « nobile coppia, di Talete e Solone, che insieme viaggiarono per l'Asia e l’Egitto allo scopo di conoscere gli statuti e le filosofie del mondo e che perciò in più aspetti furono più universali, ma restando pure tra loro buoni amici e più umani e perfino più naive di tutti costoro che vorrebbero convincerci a non aprire gli occhi e a chiudere il cuore al mondo ». Quanto alla poesia egli si augura che finalmente « abbia fine l’enorme malinteso per cui l’arte e soprattutto la poesia viene umiliata sia da coloro che la creano, sia da coloro che ne fruiscono ». La si prende come un gioco, ed è la cosa più seria. Non ci si aspetta da essa che « gli effetti del gioco, ossia divertimento, dunque l’opposto di ciò che essa opera quando esiste secondo la sua vera natura. Giacché allora l’uomo si raccoglie in essa, ed essa gli dona pace, non la vuota ma la vivente pace, dove tutte le forze sono attive e solo a causa della loro intima armonia non si avverte che sono attive. Essa nutre gli uomini e li congiunge insieme, ma non come il gioco dove essi si uniscono solo nel senso che ciascuno si dimentica e di nessuno emerge in luce la vivente caratteristica » !.

Già sappiamo in che modo la poesia congiunge gli uomini: con il senso del divino. La resurrezione dell’Antica Grecia nella Nuova Germania, cosî ragionevole e discreta nell’Hélderlin della prosa, si trasfigura incredibilmente nei raptus lirici delle numerose liriche dedicate ai tedeschi e alla grande trasformazione che è all’orizzonte. La più celebre di esse è « Germanien ».

® F. HòLpERLIN,

Sartliche

Werke,

cit., p. 323.

DIOTIMA

29

3. - DIOTIMA.

Quando il venticinquenne Hélderlin nel dicembre ‘del 1795 entrò a Francoforte in casa del banchiere Gontard come precettore del figlio, doveva iniziare per lui l’incontro in ogni senso più fatale della sua vita. La signora madre, Susette Gontard, d’un anno appena meno giovane di lui, gli parve immediatamente come l’incarnazione petsonificata della sua Grecia ideale. Se è fedele il ritratto che ce ne è stato conservato, davvero sorprende il profilo incredibilmente greco di lei. E difficile naturalmente sceverare quanto di reale e quanto di sognato o di creato ci sia nell'immagine che H6élderlin ci ha a sua volta lasciato di lei nelle lettere e nelle liriche, ma sia le lettere di lei a lui, sia testimonianze di testimoni contemporanei stanno a favore d’una, se non perfetta, notevole identità tra immagine e realtà. Comunque sia, ecco quanto, sei mesi dopo l’incontro, Holderlin scrive a Neuffer: «Io mi trovo in un mondo nuovo. Prima di sapere che cosa sia bello e buono, ma da posso davvero ridere di tutto il mio sapere. un essere in questo mondo davanti al quale il stare millenni, e poi ancora constatare quanto

potevo ben credere quando io lo vedo, Caro amico! esiste mio spirito può sotutto il nostro pen-

sare e comprendere ha da imparare a riguardo della natura. Amabilità ed elevatezza, pace e vitalità, e spirito e anima e forma sono una unità beata in quest’essere. Tu mi puoi credere sulla parola che raramente una simile cosa può essere sospettata e difficilmente trovata su questo mondo. Tu sai bene come io ero, sai come vivevo senza fede, quanto meschino ero diventato con il mio cuore, e perciò cosî misero. Potevo diventare come sono ora, lieto come un’aquila, se non mi fosse apparsa questa, questa unica, e non

mi avesse

ringiovanito,

irrobustito,

rasserenato,

glorificato

la vita, ormai indegna per me d’essere vissuta, con la sua luce di primavera? Ci sono istanti in cui tutte le mie vecchie angosce mi sembrano cosî completamente sciocche, cosî incomprensibili, come ai bambini » 14. E nel febbraio

« Sono eterna, rito in Vorrei

dell’anno

seguente,

sempre

a Neuffer:

ancora e sempre felice come nel primo momento. È la gioiosa, sacra amicizia con un essere che si è come smarquesto povero secolo senza spirito e senza ordine [...]. mostrarti il suo ritratto, e cosîf non ci sarebbe più bisogno

14 Ibidem,

p. 229.

CAP. I - FRIEDRICH

30

HOELDERLIN

neanche d’una parola! Ella è bella come un angelo, un viso dolce, spirituale, celestemente eccitante! Ah, io potrei dimenticare me stesso e tutto per mille anni in beata contemplazione

presso di lei, cosi inesprimibilmente ricca è questa anima calma e per nulla presuntuosa nel suo ritratto! Maestà e delicatezza, letizia e serietà, e dolce gioco ed elevata mestizia, e vita e spirito, tutto è in lei unito in un divino tutto. Buona

notte,

mio caro!

Quando gli Dei amano uno, costui avrà gran gioia e gran dolore ».

Siamo pronti a giurare che tra i due non ci fu nient'altro che un sentimento purissimo, ma al signot banchiere naturalmente non piacque neanche cosî, e Holderlin alla prima osservazione si eclissò immediatamente e per sempre. La felicità era durata poco più di due anni. Scrivendo a Susette nel marzo del 1799 dirà, e queste poche parole bastano a rivelare la nobile e tragica profondità del rapporto: « È certo degno di tutte le lacrime che per anni abbiamo pianto il fatto che non dovevamo avere la gioia che ci potevamo dare, ma è qualcosa che grida al cielo quando dobbiamo pensare che noi due dobbiamo forse perire con le nostre migliori energie, poiché ci manchiamo l’un l’altro [...]. Questa eterna lotta e contraddizione interiore deve certamente a poco a poco ucciderti, e se nessun Dio interviene qui ad addolcire, io non ho altra scelta che intristire e deperire per te e per me »!.

La sua Diotima morirà infatti quattro anni dopo ed egli dopo altri due-tre anni impazzirà. Ma già prima, nell'azzurro ancora

senza nubi di questo amore,

egli, scrivendo

di Hyperion e di Diotima, narrava dell’inevitabile, precoce morte di lei. E inviandole, proprio insieme alla lettera da cui stiamo citando, il suo Hyperion finalmente pubblicato, le chiede perdono perché Diotima vi muore. Ma egli ha creduto fin da allora che sarebbe stato « necessario ». Se la sua Grecia ideale era perita, anche questa greca ideale, questa greca superstite, chiamata all’esistenza in un tempo di ottenebrazione universale del divino, doveva perire. Sarà la presenza ancora insuperabile della « barbarie » che ucciderà e luna e l’altra, la vera e la immaginata. Ma non per sempre, perché come la Grecia deve ritornare, cosî anche Diotima. Sî, perché «l’annientamento non esiste e perciò la 15 Ibidem,.

p. 394.

DIOTIMA

31

giovinezza del mondo deve ritornare rifiorendo dal nostro disfacimento » !9. L’esistenza greca, sia singola sia collettiva, deve ritornare nella nuova esistenza tedesca, sia singolarmente sia collettivamente. Tutto Hélderlin vive di questo sogno. La Diotima del romanzo non è dunque soltanto una creatura della fantasia holderliniana, e il rapporto fra lei e Susette non è soltanto di somiglianza. È la ideale donna greca classica, già esistita 400 anni a. C., che rinasce in una greca del Settecento, miracolosamente nata intatta, non colpita per un tratto dalla circostante degenerazione del mondo, non macchiata dalla notte del divino. Hyperion però, che disperato emigra alla fine dalla Grecia in Germania, sogna di ritrovarla là un giorno risuscitata! È dunque tutto un fatidico avvicendarsi, scomparire e riprodursi di esistenze secondo i ritmi misteriosi e fatali della divina Natura. Allo stesso modo che il tedesco Holderlin è o mira ad essere un greco redivivo, e non per mera

Holderlin

ha dedicato

imitazione

ma per rinascita.

alla delineazione

reale-ideale di Susette-Diotima

dell’immagine

una serie di liriche mirabili

e le pagine più stupende dell’Hyperion. Sono, sia la poesia sia la prosa, inni innalzati all’esistenza umana perfetta e integrata quale si deve verificare nell’esistenza personale. La parola-sintesi è anche qui «bellezza », termine certo non riduttivo

o distintivo,

ma

davvero

onnicomprensivo.

Di qui

si dovrà partire per una indagine della concezione estetica holderliniana, del tutto opposta alla concezione moderna dei distinti. In Diotima si realizza, come il Guardini commenta, das Geheimnis des heiligen Alls!. È il mistero della sacra, divina totalità della Natura riassunta in una singola esistenza, o viceversa la singola esistenza che respira tutta nella sacra armonia del divino Tutto. E stupendi sono i modi sempre nuovi, inesausti con cui Holderlin con le parole del suo Hyperion dona vita a un tale concetto: «To l'ho vista finalmente,

la Cosa

unica che la mia anima

cercava, e la pienezza (Vollendung) che noi pensiamo lontana più delle stelle, che noi differiamo fino agli ultimi confini del tempo, l’ho sentita presente. Era qui, la Cosa più alta, era qui in questo cerchio della natura umana e delle cose! » !8. 16 Ibidem, p. 246. 17 Ibidem, p. 379. 1 Ibidem, p. 150.

CAP. I - FRIEDRICH

32

HOELDERLIN

« Cosî senza bisogni, cosî divinamente sufficiente non ho mai visto nulla. Come l’onda dell'Oceano bagna tutt'intorno le rive di isole beate, cosî il mio cuore senza pace cingeva la pace della celeste fanciulla. Io non avevo da donarle che un animo colmo di selvagge contraddizioni, colmo di sanguinose memorie, non avevo da donarle che il mio immenso amore con le sue mille angosce, le sue mille tempestose speranze; ma lei stava davanti a me in una bellezza invariabile, senza sforzo, nella sua sorridente perfezione, e tutto il desiderare, tutto il sognare della natura mortale, ah, tutto ciò che il genio annunzia dalle superiori regioni nelle dorate ore del mattino, tutto esisteva adempiuto in questa sola calma anima » !.

Ed ecco

gli effetti:

« Già da tempo era arrivato alla mia anima sotto l’influsso di Diotima un equilibrio; oggi l’ho sentito in modo tre volte puro, e le mie energie capricciose e dissipate erano raccolte tutte in un unico aureo centro » 20.

Nei dialoghi con lei Hyperion riacquista la coscienza della suprema unità nella Natura: « Santa Natura! Tu sei la stessa in me e fuori di me. Non deve essere difficile congiungere ciò che è fuori di me con il divino che è in me » 71. Diotima è «Stille » (calma), « Einfalt » (semplicità), « Unschuld » (innocenza), « freundlicher Ernst » (amabile serietà). È una « genialische Ruhe » (geniale pace), una « stille Begeisterte » (tranquilla entusiasta). È « Liebe » (amore). È, ancora, « Priesterin» (sacerdotessa) e « Gottertochter » (fi glia degli Dei). Ma soprattutto è «Schorbeit » (bellezza), che vuol dire « Vollendung » (pienezza). «O voi che cercate l’ottimo e il supremo nella profondità del sapere, nella concitazione dell’agire, nell’oscurità del passato, nei labirinti del futuro, nei sepolcri o nelle stelle! sapete il suo nome? il nome di ciò che è Uno e Tutto? Il suo nome è bellezza. Sapevate ciò che volevate? Io non lo so ancora, ma lo presagisco, il nuovo regno della nuova divinità, e gli cotto incontro, le afferro gli altri e li conduco insieme con me, come il fiume porta i fiumi nell’oceano. 19 Ibidem, 20 Ibidem, 21 Ibidem,

p. 158. p. 183. p. 198.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

55

« E tu, tu mi hai indicato la via! Con te io sono cominciato. Non sono degni d’essere nominati i giorni quando non ti conoscevo

ancora.

O Diotima, Diotima, celeste creatura! » 22.

E il Guardini commenta da par sto è bello’ significa dunque non una tra — meno che tutto una formula sottragga alla serietà della realtà — altre formule ». E il contenuto della religioso. È quella sacra unità in cui natura e cultura si risolvevano l’una andavano a nozze: la Grecia » 7.

4. - OTTIMISMO

suo: « La formula ’queformula accanto a un’alin cui il sentimento si ma abbraccia tutte le formula è « un mistero cielo e terra si univano, nell’altra, Dei e uomini

HÒLDERLINIANO.

Una cosa è chiara e indiscutibile per tutti: che la Grecia di Héolderlin non è mai esistita; che la stessa migliore Grecia classica nella sua stagione più fortunata è ben lontana dal verificare l’immagine che egli se ne è fatta. Certo ben pochi grecisti al mondo sono stati quanto lui informati circa questa Grecia, e nessuno pensiamo vi si è tanto identificato. Ma ciò non fa che aumentare la nostra meraviglia che a Hòlderlin siano del tutto sfuggiti i lati negativi di essa. Socrate aveva della stragrande maggioranza dei suoi concittadini una stima ben peggiore. Platone, che la condivide, fu uno dei pensatori più pessimisti che siano mai esistiti circa l’esistenza umana in genere,

greca

ovviamente

non

esclusa;

soprattutto

pessimi-

sta egli era circa l’esistenza sensibile, e dunque circa le realtà fisico-cosmiche che Holderlin divinizzava. Il dualismo platonico è agli antipodi del monismo hélderliniano. E poi il nostro innamorato ha pur letto e riletto e tradotto i tragici greci, specie Sofocle, e ci si domanda come mai non abbia notato il loro cupo senso tragico. Holderlin appartiene invece agli ottimisti ad oltranza. Commovente ottimismo il suo, ma senza dubbio ingezzvo, adorabilmente ingenuo. Ottimista ad oltranza egli è, come subito vedremo, a riguardo radicalmente dell’esistenza, a riguardo di tutto ciò che appena esiste, a riguardo dell’uomo, 2 Ibidem. 2 Ibidem, p. 402.

CAP. I - FRIEDRICH

34

HOELDERLIN

a dispetto di tutto. Eppure, e qui la nostra sorpresa sale alle stelle, egli ha sofferto nella vita in modo indescrivibile. Egli è uno dei più grandi malinconici della storia. È uno che ha amato

certo immensamente,

ma

che ha non meno

immensa-

mente patito: « Ein Sobn der Erde - Schein ich; zu lieben gemacht, zu leiden » (Un figlio della terra - Io sembro;

fatto

per amare, fatto per patire) (« Die Heimat »). Il dolore l’ha fatto uscire di senno. Il pessimismo più radicale lo assale molto spesso. Già nella sua prima lettera a noi nota, quindicenne, egli si riconosce « ein mzenschenfeindliches Wesen », un carattere misantropo; e confessa che «la minima offesa sembrava convincermi che gli uomini erano cosî pessimi, cosî diabolici (so sebr dose, so teuflisch) [....];

non potevo soffrire nessuno intorno a me, volevo sempre e soltanto essere solo e mi sembrava quasi di disprezzare l’umanità » . A Luise Nast, suo primo amore, parlerà, ventenne, nella lettera con cui la dichiara libera, d’un « unziberwindlicher Triibsinn », d’un invincibile umor nero, come della ragione fondamentale per cui egli non potrà mai sposarsi, e di « Launen» e di « Klagen », di malinconie e di lamenta-

zioni a riguardo del mondo che sono diventate in lui « come un’altra natura » ?, ragioni che in altre lettere ripeterà alla madre per declinare le sue insistenze citca un suo accasamento °. A Schiller, venticinquenne, scriverà: « Sono tutto gelato e rigido nell’inverno che mi circonda. Cosî ferreo è il mio cielo, cosî pietrificato io stesso » 7. E al fratello qualche anno dopo: « Cuore di fratello, ho anch’io patito molto, moltissimo, più di quanto l’abbia talvolta manifestato a te o ad altri, perché non si può lasciar vedere tutto, e ancora, ancora soffro assai e profondamente » 8. E siamo, si noti, durante il breve intervallo felice con Susette. È di questo felice periodo anche la lettera a Ebel del gennaio 1797 dove non senza rabbiosa ironia si traccia la interminabile litania delle « contraddizioni » del mondo: « Si può ben dire in tutta certezza che il mondo non ha mai avuto un aspetto più variopinto di adesso. Esso è una enorme va* Ibidem, p. 3. 5 Ibidem, p. 55. “*lbidett;p: 75) ” Ibidem, p. 190. 2 Ibidem, p. 297.

OTTIMISMO HOELDERLINIANO

35

rietà di contraddizioni e di contrasti. Vecchio e nuovo! Cultura e rozzezza! Cattiveria e passione! Egoismo sotto pelliccia di pecora, egoismo sotto pelle di lupo! Superstizione e incredulità! Servilismo e dispotismo! Sapienza irragionevole, ragione insipiente! Sensibilità senza spirito, spirito senza sensibilità! Storia, esperienza, tradizione senza filosofia, filosofia senza esperienza! Energia senza fondamenti, fondamenti senza energia! Severità senza umanità, umanità senza severità! Piacevolezza ipocrita, impudente spavalderia! Giovani saggi come vecchi, adulti insulsi ... Si potrebbe continuare la litania dall’alba fino a mezzanotte e si avrebbe denominata appena la millesima parte del caos umano » 29.

Il suicidio lo attira pericolosamente a più riprese come: « Francamente anche noi desideriamo spesso uscire da questa mediocrità di vita e di morte nell’essere infinito del mondo bello, nelle braccia dell’eternamente giovane natura da cui veniamo ». Del resto nella sua lirica le « elegie » anzi le « lamentazioni » (K/agen) non sono meno numerose degli « inni ». L’Hyperion ha, per definizione dello stesso Holderlin, « elegischen Charakter », l’Empedokles è una tragedia. Quanto alla sua vita, ben poche vite di poeti furono agli effetti concreti più inconcludenti, sventurate e più catastroficamente

concluse con la conversione d’un grande genio in un mentecatto. È tutta una sequela di delusioni atroci: della sua vocazione ecclesiastica, del cristianesimo, della rivoluzione francese. Senza dire della delusione atrocissima per Diotima, poco meno atroce fu quella per Schiller, il genio davvero adorato della sua prima gioventi, ma che dopo qualche labile attenzione lo buttò del tutto a mare. E nessuno, o quasi, che notasse il suo genio! Sempre con fatica arrivò a pubblicare quel poco che pubblicò in vita sua. Uno dei più mirabili inni hélderliniani, « Patmos », fu pubblicato una quindicina d’anni dopo, abbondantemente riveduto e corretto! Tutta l’opera sua è percorsa dai paurosi guizzi d’una tangenziale negativa che minaccia di tutto travolgere. Una catena ininterrotta di fallimenti interiori ed esteriori è la storia del suo Hyperion, il quale non riesce a sollevare d’un dito, né religiosamente né politicamente né civil mente, la sua Grecia sepolta nella completa barbarie. La

® Ibidem, p. 246.

36

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

più eletta creatura della poesia hélderliniana, Diotima, « deve» morire e presto, consunta dalla delusione per il suo Hyperion colpevole di non aver impedito un sanguinoso saccheggio sugli stessi greci da parte della truppa da lui arruolata e guidata per liberarli dai Turchi. Di imperdonabile colpa si macchia anche l’altra nobile creatura di Hòlderlin, Empedocle, una colpa a cui non si trova altra espiazione che il suicidio. Profonda, vertiginosa è in Holderlin la percezione del caotico, una parola del Male, cerazione, dispersione, Einer und Eines nur

dell'elemento titanico distruttore, in che è rottura della sacra Totalità, lae nella sua radice egoismo: dass nur sei (il fatto che ci sia soltanto il sizgolare negli uomini e nelle cose). E basterebbe il celebre « Schicksalslied », posto in bocca a Hyperion, a documentare il fortissimo decadentismo hélderliniano. Dopo avere rammentato die Himmlischen, i Celesti che « lassi nella luce - [...] liberi dal destino - respirano come il bambino addormentato », questo inno traccia il quadro esatto del nostro terrestre Sei zum Nichts con un secolo e più d’anticipo sull’esistenzialismo: Doch uns ist gegeben, Ma a noi non è dato Aut keiner Stitte zu rubn, Di sostare in luogo alcuno, Es schwinden, es fallen Spariscono, cadono Die leidenden Menschen Gli uomini doloranti Blindings von einer Ciecamente da una Stunde zur andern Ora all’altra Wie Wasser von Klippe Come acqua da una roccia Zu Klippe geworfen, A un’altra proiettata Jabr lang ins Ungewisse hinab Per anni ed anni giù nell’ignoto.

30 Dall’aforismo

Wurzel

alles Ubels.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

37

La coesistenza e la conciliazione dell'enorme ottimi smo con l’enorme pessimismo hélderliniano costituisce il nodo gordiano della critica holderliniana, come del resto a suo tempo ha costituito il nodo gordiano dell’esistenza, della intelligenza e della poesia hélderliniana. È però un fatto incontestabile che Hélderlin sempre e in ogni caso arriva o crede di arrivare a conciliarli. Nonostante tutto, egli non è z4Î, quando almeno scrive, veramente disperato. Scrivere significa anzi pet lui cercare e trovare, per sé come per tutti e per le cose in se stesse, efficienti motivi di rinascita mortale e di speranza. Nella famosa lettera a Ebel, quella dell’interminabile litania dei mali, una delle più nere lettere dell’infelice poeta, ecco quanto si legge: «Io ho un unico conforto, che ogni fermentazione e decomposizione deve portare necessariamente all’annientamento o a una nuova

organizzazione. Ma l’annientamento

non esiste, e dun-

que la giovinezza del mondo deve ritornare rifiorendo dal nostro disfacimento » #!. « Vernichtung gibt’s nicht » (l’annientamento non esiste), tutto nare, ricominciare: la Grecia,

petciò deve risorgere, ritorDiotima, gli Dei, la divina unità del sacro Tutto e, in questa unità, la libertà, la felicità, la quintessenza del Bene. Ecco il recapito di tutti senza eccezione i motivi di questo eternamente alto « morale » holderliniano che nulla può sopraffare. Non è però il Dio paolino che resuscita i morti, ma è la Natura stessa il cui

pulsare infinito è quello d’un cuore inesauribile dal ritmo alterno: « Es scheiden und kebren im Herzen die Adern und einiges, ewiges, gliibendes Leben ist alles» (Si dipartono e ritornano al cuore le vene e tutto è un’unica, eterna, ardente Vita)®. Sono le ultime parole dell’Hyperion, le ultime parole dello sconfitto ma non domo eroe. Appunto, il volto del mondo non è mai stato cosîf pallido come ora, pensa Hélderlin, ma questo è il segno che dal cuore del mondo, in cui sembra essersi ormai ritirato tutto il sangue, sta per sprigionarsi una nuova, immensa. irradiazione sanguigna. Quanto peggio vanno dunque oggi le cose, tanto meglio per un

domani imminente. E citando egli stesso dal suo Hyperion cosi può confortare nella lettera testé citata il fratello: 1 Ibidem. ® Cfr. le ultime

parole dell’Hyperion.

CAP.

38

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

« E tuttavia io penso che il meglio che è in me non sia an-

cora perito. Il mio Alabanda dice nel secondo volume [dell'Hyperion]: ° Ciò che vive è inestirpabile, resta libero anche nella più profonda condizione di schiavità, resta uno, e se tu lo laceri fino in fondo, e se tu lo fai a pezzi fino alle midolla, senso più vero invulnerato, e la sua essenza ti dalle mani. Questo si può applicare più o meno agli uomini autentici in modo massimo. E il mio

esso rimane nel sfugge vittoriosa a ogni uomo, e Hyperion dice: Resta a noi ovunque ancora una gioia. Il vero dolore entusiasma. Chi tocca il fondo della sua miseria, sta più in alto. Ed è magnifico il fatto che solo nel dolore noi sentiamo veramente l’anima della libertà » 33.

Questo « fondo », questa « essenza », questa « libertà », che è in tutti ed è invulnerabile, è, ben lo sappiamo, la Natura, è il Divino in noi. Dunque l’ottimismo hélderliniano la vince immancabilmente sul pessimismo hélderliniano, ma non possiamo fare a meno di aggiungere, a spese del vero pessimismo. La vera dimensione del Male sta raccortciata davanti agli occhi di Holderlin. Ingenuo e generoso nel suo ricordo dell’antica Grecia è non meno ingenuo e generoso nel suo bilancio comparativo del male e del bene del mondo. Intanto non esiste sull’orizzonte poetico di Hélderlin la vera colpa: il delitto, il crimine, il peccato. La stessa colpa di Hyperion che fa morire Diotima è innocente, è involontaria. Certamente non tale da esigere quale unico compenso espiatorio il suicidio come Hyperion crede e con lui il suo autore. Rifiutarsi per viltà al suicidio come Hyperion farà è sentito come una nuova grave appendice peggiorativa della colpa, ma è ovviamente una nuova innocenza. La col-

pa di Empedocle, questa volta realmente pagata con il suicidio sacro volontario, è, come vedremo, per le stesse leggi fondamentali della Weltanschauung hélderliniana, necessaria e dunque non veramente colpa. Poi non esiste sull’orizzonte poetico di Hélderlin la vera morte. Egli tratta la morte, quasi diremmo, con leggerezza. Ma appunto non esiste, Vernichtung gibt’s nicht. Morire è un addormentarsi, « schluzzzzern »*. I morti sono tornati nell'infinito seno della Natura e là dormono in attesa della resurrezione. E la resurrezione si avvererà nel tempo uma3 Ibidem., p. 297. * In: Archipelagus.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

59

no e storico, nella storia, ma non sarà una resurrezione personale. Nel grande rendez-vous degli spiriti solo la Natura veramente rinasce in forme antiche e sempre nuove. Ma nel suo dionisismo Holderlin ne è pago. Decisamente manca a Hòolderlin il genuino senso tragico della colpa e della morte in quanto umanamente e naturalmente irreparabili e che perciò gridano verso una salvezza d’ordine trascendente. Di più gli manca il senso ancora più tragico, irreparabile e intollerabile dell’uomo che deve perire per inconsapevole errore morale, che sbaglia per troppo idealismo morale e viene distrutto contro ogni suo merito od oltre ogni suo demerito, il che è la sostanza della grande poesia tragica. La grande poesia tragica, inoltre, è impossibile senza il tragico stupore del demoniaco, senza il sentimento dell’uomo in quanto palla da gioco pet lo spasso degli dèi maligni nelle sue stesse migliori intenzioni ed azioni; senza questo senso del demoniaco sull’uomo che invoca a tutta voce divini, trascendenti risarcimenti da parte di un Dio giusto e superiore che non può non esistere

al di sopra degli uomini e degli dèi. Ma il Trascendente sotto qualsiasi forma era già eliminato per Holderlin 4 lizzine. Perché ormai il mondo non era per lui « d&rftig genug um ausser ibr noch EFinen zu nennen » (indigente abbastanza per nominare oltre sé ancora Uno)”. E siamo cosî all’origine prima di tutte le grandi commoventi ingenuità holderliniane. Il mondo, anche il mondo come lo vede Holderlin, è francamente dwrftig genug, indi gente abbastanza per postulare un’integrazione e una salvezza da parte del Dio che ha fatto il cielo e la terra, e che non si identifica con il mondo. Ma, spentasi in Holderlin per le ragioni già più volte esposte e per altre forse misteriose ragioni la credibilità di questo Dio, restava il problema di come allora spiegare ed eventualmente guarire la pur grande lampante Dérftigkeit, indigenza del mondo. Non restava che una via: in fondo in fondo wegarla. Cosî fece esattamente Hélderlin. Il mondo, questo mondo del sole e delle stelle, della terra e dell’uomo era sufficiente, infinitamente sufficiente, divino. Che se tale non appariva, la sua 5 In: Hyperion,

in Samtliche

Werke, cit. p. 95.

CAP. I - FRIEDRICH

40

non-divinità

era, appunto,

solo apparente,

HOELDERLIN

e questa inappa-

renza della sua divinità era solo provvisoria dei suoi tempi, periodica. Ma un giorno il mondo era pure anche apparso divino, nella Grecia antica; e tale un giorno doveva riapparire, nella nuova Germania. Ma tale era sempre nella sua profondità. E cosî egli, miope e insieme visionario, poteva abbandonarsi, anche di fronte all’indigenza del mondo, a vere e proprie sublimi orgie di ottimismo. Tali sono le disposizioni interiori con cui la sua Diotima

si prepara

a morire:

«Io l’ho sentita la vita della natura che è più alta d’ogni pensiero. Anche se divenissi una pianta, il danno sarebbe poi tanto grande? Io sarò. Come potrei perdermi nella sfera della vita, dove l’eterno amore universale a ogni cosa tiene insieme tutte le nature? Come potrei sganciarmi dal vincolo che annoda tutti gli esseri? Esso non si rompe cosî facilmente come i vuoti vincoli di questo nostro tempo. « Esso non è come un giorno di mercato dove la folla confluisce e strepita, e poi ciascuno se ne va per la sua strada. No! Nello spirito che ci unisce, nel divino spirito che è a ciascuno e a tutti comune! no! no! nel vincolo della natura la fedeltà non è un sogno. Noi ci separiamo soltanto per essere più intimamente uniti e divinamente in pace con tutto, con noi. Noi moriamo per vivere. «Io sarò; non mi domando che cosa sarò. Essere, vivere, questo basta, questo è l’onore degli Dei; e per questo è a vicenda simile tutto ciò che è una unica vita nel mondo divino, e non esistono in esso né servi né padroni. Le nature vivono le une insieme alle altre come amanti; esse hanno tutto comune, spirito, gioia e giovinezza eterna. « Le stelle hanno scelto per sé la stabilità, esse ruotano in tranquilla pienezza di vita e non conoscono il passare dell’età. Noi rappresentiamo la perfezione nel mutamento: scomponiamo in cangianti melodie i grandi accordi della gioia. Come suonatori d’arpa intorno ai troni degli anziani, noi viviamo, noi stessi divinamente, intorno agli Dei tranquilli del mondo, con il nostro fuggitivo canto di vita noi mitighiamo la sacra serietà del Dio del sole e degli alLai Dei: « Guarda in alto nel mondo! Non è il mondo come una incedente marcia trionfale dove la natura celebra l’eterna vittoria sopra ogni rovina? E non porta con sé la vita verso la gloria la morte, in catene d’oro, come il condottiero un giorno portava % Ibidem, p. 274 ss.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

41

con sé i re prigionieri? E noi, noi siamo le vergini e i giovani che, danzando e cantando, in mutevoli figure e suoni, accompagniamo la maestosa marcia trionfale ».

Ed ecco l’invocazione della motitura per sé e per tutti i morti e i morituri: «O

benvenuti,

voi buoni!

voi fedeli!

voi profondamente

smarriti, misconosciuti! Fanciulli e anziani! Sole e Terra ed Etere con tutte le anime viventi che giocano intorno a voi, intorno a cui voi giocate, in eterno amore! O prendete gli uomini cercatori, prendete i fuggiaschi di nuovo nella famiglia degli Dei, prendeteli nella patria della natura dalla quale essi si sono dipartiti un giorno »!

Ed ecco anche qui, sulle labbra di Diotima morente, il credo sempre ritornellante, sempre antico e tuttavia sempre nuovo, di Holderlin: rante

« Voi disonorate, voi lacerate, quando essa vi tollera, la tollenatura, ma essa continua a vivere, in infinita giovinezza, e

voi non potete espellere né il suo autunno né la sua primavera, il suo Etere non lo potete contaminare. O divina essa dev'essere, perché voi la potete distruggere, e tuttavia essa non si altera, e a dispetto di voi la bellezza resta bella! » 57.

Ma nonostante la grande suggestione, la persuasività irresistibile di questa magica prosa héolderliniana, che la migliore versione può assai parzialmente rendere, noi rabbrividiamo dell’indifferenza di Diotima a cui non importa d’essere una persona umana o una pianta; e sorridiamo della sua fede nella incorruttibilità del cielo, del sole e delle stelle. L’abbaglio è sublime, ma è enorme. Come ha mai potuto,

in un

uomo

moderno,

risorgere

a tal punto

intatta,

indiscutibile, totale la dimensione dell’ingenuo uomo mitico? Esperienze mistiche di carattere del tutto straordinario devono

essersi

verificate

nel

giovane,

solitario,

malinconico,

religiosissimo Hélderlin, che la invalicabile censura verso il trascendente accentrò sulla pura natura. Già nella prima lettera a noi nota, il quindicenne seminarista confida al Diacono Késtin: «Soprattutto la natura operava sul mio cuore in 37 Ibidem, p. 285.

CAP. I - FRIEDRICH

42

HOELDERLIN

quei momenti (giacché questa gioia raramente durava a lungo) una impressione straordinariamente vivace » *. « Quando ero ancora un ragazzo », canta una delle sue liriche in questo senso più rivelatrici, «un Dio mi ha spesso salvato - dal grido e dalla verga degli uomini ». Quale «Dio »? Il dio Sole! E poi la dea Luna! So hast du mein Herz erfreut, Cosî tu hai rallegrato il mio cuore,

Vater Helios! und, wie Endymion War

Padre sole! e, come Endimione ich dein Liebling, Io ero il tuo beniamino,

Heilige Luna! Santa Luna! O all ibr treuen O voi tutti fedeli Freundlichen Gotter! Amichevoli Dei! Dass ihr wiisstet

Se voi sapeste Wie euch meine Scele geliebt! [...] Quanto la mia anima vi ha amato!

Im arme der Gotter wuchs ich gross. In braccio agli Dei io crebbi grande.

Il mitico,

insaziabile

adoratore

della natura

visibile

si

tradisce, benché in modi e atteggiamenti più comprensibili, anche nella prosa epistolare, come nella lettera, per esempio, a Landauer da Haupwyl in Svizzera: « Davanti alle Alpi che mi stanno intorno a poche ore di distanza io sto come sempre colpito, un’impressione simile non l'ho ancora sperimentata, esse sono come una meravigliosa saga dell’eroica gioventi della nostra Madre Terra e ricordano ammonitrici l’antico caos plasmatore, mentre dall’alto le guardano, nella loro pace e sopra la loro neve nell’azzurro più chiaro, il sole e le stelle e le fanno splendere giorno e notte. Allora puoi bene immaginare quanto in questo inizio della primavera, tutti gli elementi mi faccia38 Ibidem, p. 3. 3° Da Als ich ein Knabe

war.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

43

no bene e come io pascoli i miei occhi sui colli, i torrenti e i laghi». E riferendo in una lettera del dicembre 1802 delle sue impressioni di viaggio attraverso la Francia del Sud

[massimo

suo

accostamento

fisico, per quanto

remoto,

al Sud della sua Grecia!]. Scrive: «Il possente elemento, il fuoco del cielo [il sole, Apollo] e la tranquillità degli uomini, la loro vita nella natura mi ha afferrato senza tregua, e come lo si narra degli eroi, posso ben dire anch’io che Apollo mi ha colpito ». E concludendo una lettera alla sorella, pure dalla Svizzera, piena di stupore per quella grande natura, scrive: « Tu vedi, cara! io considero questo mio soggiorno come un uomo che nella sua gioventi ha avuto del dolore fin che basta e che adesso ha fin che basta di gioia e di pace per ringraziare di cuore pet ciò che esiste ». Di inesauribili, mai sazie, sempre eguali e sempre diverse descrizioni e stupefazioni della natura è sostanziata tutta la sua innologia lirica. La parola che abbiamo sottolineata, « ringraziare » (danken), e che è uno dei termini d’obbligo dell’ottimismo hélderliniano, può forse darci in mano la chiave per scoprire la presenza d’un significato, d’un grande forse significato nell’abbaglio hòlderliniano surriferito. Nel vuoto scavato nell’atmosfera spirituale del tempo dai vari razionalismi e morali smi religiosi, dai vari teismi e deismi, vuoto divoratore della vera religiosità, in cui ogni senso sacro delle cose e dell’uomo in se stessi veniva del tutto fagocitato, Friedrich Holderlin era chiamato a ricreare o a conservare —

violentemente

con

la sua violenta ma, dati i tempi, forse necessaria identificazione dei termini — l’esperienza sacramentale della realtà. Un processo di violenta, esasperata profanizzazione della natura poteva essere forse contrastato soltanto da un processo altrettanto violento e assoluto di sacralizzazione della natura. Una follia può essere scacciata forse solo da un’altra opposta follia, un abbaglio dall’abbaglio contrario. Se tutto ciò che esiste è di Dio, tutto ciò che esiste dev’essere in qual che modo un indizio di Dio e, nel senso indiziario del termine, realmente divino. Tali indizi di Dio sono soprattutto quelli d’una infinita amorosa intelligenza che ovunque nella natura traspare. Di questa amorosa intelligenza Holderlin è il cantore instancabile. Qui è la ragione del suo ringraziare continuo. Nell’atteggiamento del danken, egli ripone l’essenza stessa della re-

CAP. I - FRIEDRICH

44

HOELDERLIN

ligiosità, come appare, per esempio, da questa lettera al fratello: « Soprattutto la religione fa si che l’uomo, a cui la natura si dona come materia della sua attività, che essa con-

tiene come una potente organizzazione, fa sî che maestro e il suo signore, attività si pieghi modesto tura, che egli porta in sé,

ruota propulsiva nella sua infinita egli non si illuda d’essere il suo ma che pur con tutta la sua arte e e pio dinanzi allo spirito della Nache ha attorno a sé e che gli sommi-

nistra energia e materia ». Le esperienze religiose

di cui sopra furono certo indimenticabili, ma labili: pieni evocati o provocati forse più dai vuoti disperati della sua malinconia che non esperienze positivamente valide per i loto positivi contenuti. Indimenticabili, ma poi solo a malapena e molto parzialmente o forse per nulla affatto rinnovabili. Assai presto e assai spesso Hol. derlin precipitava nei suoi abissi oscuti dove il ricordo di quegli stati sublimi gli si caricava di acuta nostalgia. Risuona nella sua lirica come un ritornello il lamento: Dove siete fuggiti, o Dei dell’anima mia? Come, per esempio, in « An die Natur »: Tot ist nun, die mich erzog und stillte, Ormai è morto chi mi allevò e saziò,

Tot ist nun die jugendliche Welt, Ormai è morto il giovanile mondo, Diese Brust die einst ein Himmel fiillte, Questo petto che un giorno il ciel colmava,

Tot und diirftig wie ein Stoppenfeld; È motto e secco come un campo di stoppie. Ach! es singt der Friibling meinen Sorgen Ah! la primavera canta ancora alle mie ansie Noch

wie einst ein freundlich tròstend Lied, Come allora una dolce amabile canzone,

Aber hin ist meines Lebens Morgen, Ma è finito il mattino della mia vita, Meines Herzens Morgen ist verbliibt. Il mattino del mio cuore è sfiorito. Ewig muss die liebste Liebe darben. Eternamente misero vivere l’amore più caro, Was wir lieben, ist ein Schatten nur, Ciò che amiamo è soltanto un’ombra,

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

45

Da der Jugend goldne Triume starben, Quando morirono i dorati sogni della giovinezza, Starb fiir mich die freundliche Natur. Morî per me la mia Natura amica.

Ma cosî Holderlin è stato portato ad immaginare che quegli stati sublimi di umano-divina integrazione dovevano essere esistiti, come nella sua infanzia, anche nell’infanzia dell'umanità, negli « aurei giorni di Saturno ». Cosî si è illuso di averli individuati consapevolmente e culturalmente realizzati nella Grecia classica. E poi ha dovuto pensare che, là come in lui, la grande luce era poi scomparsa. Nella più sobria ebrietas della sua sempre cosî ragionevole prosa epistolare, il problema del bene e del male, dell’ottimismo e del pessimismo hélderliniano e della loro conciliazione assume modi e termini tipicamente hegeliani. Il rapporto bene-male non è contraddittorio, ma solo paradossale. Il secondo è una necessaria funzione del primo e nel primo positivamente si risolve. E in fondo in fondo tutto è bene: «Cost il massimo e il. minimo, l'ottimo e il pessimo degli uomini emergono da un’unica radice, e nel grande e nel totale tutto è buono ».

Questa lapidaria sentenza si legge in una lettera al fratello, tutta ragionevolissime considerazioni sul « caratteristico umano », in cui orzia bonum:

(anche

il negativo)

cooperantur

in

«In realtà, questo mirare oltre, questo sacrificare che gli uomini fanno d’un presente sicuro per qualcosa di insicuro, per qualcosa d’altro, per qualcosa di migliore e sempre migliore, io lo vedo come il movente originario di tutto ciò che gli uomini fanno e trafficano intorno a me. Perché essi non vivono come l’animale selvaggio nella selva, contento, circoscritto al terreno e all’alimento che trova per primo davanti a sé e con il quale l’animale sta appeso alla natura come il bambino al petto della madre? In questo modo non ci sarebbero angosce, fatiche, lamenti, ci sarebbero meno malattie, meno divisioni, non ci sarebbero affatto

notti insonni, ecc. Ma questo sarebbe per l’uomo altrettanto innaturale come sono innaturali alle bestie le arti che l’uomo insegna loro. Promuovere la vita, accelerare l’eterno ifer perfezionativo della natura, portare a compimento ciò che egli trova davanti a sé, idealizzare, questa è ovunque la spinta più caratteristica e più distintiva dell’uomo, e tutte le sue arti ed affari ed errori e dolori

nascono di lî. Perché noi abbiamo giardini e campi? Perché l’uomo

CAP. I - FRIEDRICH

46

HOELDERLIN

voleva avere le cose migliori di come le ha trovate. Perché noi abbiamo

commerci,

navi, città, stati con tutto il loro trambusto,

e il loro bene e il loro male? Perché l’uomo voleva avere le cose migliori di come le ha trovate. Perché abbiamo la scienza, l’arte, la religione? Perché l’uomo voleva avere le cose migliori di come le ha trovate. Anche se gli uomini si scorticano spesso e volentieri a vicenda, è perché il presente non li soddisfa, perché vogliono le cose diversamente, e cosî si gettano prima del tempo nella tomba della natura, accelerano il cammino del mondo.

E dopo la universale

lapidaria

sentenza

che abbiamo

citata per prima, continua: « Bisogna dire che quella spinta originaria, la spinta a idealizzare, a promuovere, a elaborare, a sviluppare, a perfezionare la natura, ora non anima più per gran parte gli uomini nelle loro attività, e ciò che essi fanno lo fanno per abitudine, per imitazione, per obbedienza verso la tradizione, per la necessità a cui i loro antenati li hanno ridotti e confinati. Ma per continuare cosi come i loro antenati avevano cominciato, sulla via del lusso, dell’arte, della scienza, ecc., i discendenti devono

appunto

possedere

la stessa spinta che avviava gli antenati, essi devono per imparare essere organizzati come i loro maestri, solo che gli imitatori sentono più debolmente quella spinta, e soltanto negli animi degli originali, dei pensatori in proprio, degli scopritori viene vitalmente in luce ». E conclude: «Tu

vedi, mio caro!

Io ti ho presentato il paradosso

che

l'istinto dell’arte e della cultura è, con tutte le sue modificazioni

e aberrazioni, un vero e proprio servizio che gli uomini offrono alla natura. Ma noi siamo da tempo d’accordo che tutti i fiumi erranti dell’attività umana corrono verso l’oceano della natura da cui sono usciti un giorno [...]. Tutto ciò mi concilia » (corsivi nostri).

Dunque il male, qualsiasi male anche il peggiore verificato e verificabile nel mondo, è, per sua natura profonda, essenziale, necessaria, al servizio del bene universale del mondo. Il male è necessario non meno del bene. Dal male viene, naturalmente, il bene. È « paradossale» davvero,

perché chiunque apre bene gli occhi sul male, deve pur vedere che il male, di sua natura, non fa che impedire, con‘ Ibidem, p. 352.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

47

traddire, distruggere il bene, e in forma troppo spesso umanamente e naturalmente irreparabile, ossia nella forma del tragico. L’ingenua innocenza héòlderliniana si è tradotta qui in filosofia. Ma era, più o meno, la filosofia di Hegel, di Goethe, di. tutto il suo tempo ingenuamente illuministico e progressistico. Nella forma tranquilla della prosa ragionata tale ingenuità è meno ancora sopportabile che nella sua forma lirica. Tuttavia è un fatto incontestabile e documentabile, ci sembra, che Holderlin è arrivato solo dopo tormenti interiori assai dolorosi a questa conciliazione, a questo ottimismo ad oltranza. Ma mancandogli ormai la fede in una salvezza da oltre il mondo e la natura, l’unica via d’uscita dalla più nera disperazione era questa radicale ingenuità, questa contrazione ottica sulle dimensioni del male. I segni di questa lotta per trasformare il sentimento della contraddittorietà tragica del rapporto bene-male nel sentimento semplicemente della sua paradossalità e d’un suo possibile anzi necessario

autonomo

scioglimento,

si possono

spiare in una

altra lettera al fratello del 13 novembre 1798. Essa inizia con un rendimento di grazie « ai buoni Dei ». Già, se tutto è buono, tutti gli Dei sono buoni. L’avesse sentito Kafka cosî propenso

invece

a pensare

che tutti gli Dei

sono

ma-

ligni! Comunque, dopo un buon esame di coscienza. Hélderlin è ormai disposto a confessare: «Io ho troppo ribrezzo del volgare e del comune che c’è nella vita reale. Io sono un autentico pedante se preferisci. Ma i pedanti sono di solito se non mi sbaglio cosî freddi e senza amore, e invece il mio cuore è cosî corrivo ad affratellarsi con gli uomini e con le cose sotto la luna. Quasi sto per credere che io sono un pedante per puro amore. Io non sono ombroso perché ho paura d’essere disturbato da parte della realtà nel mio egoismo, ma lo sono perché ho paura di essere disturbato da parte della realtà nella intima partecipazione con cui volentieri aderisco a qualcosa d’altro. Ho paura di agghiacciare il calore della vita in me nella gelida vicenda della realtà quotidiana, e questa paura deriva dal fatto che io percepivo tutto ciò che di distruttivo mi ha colpito fin dalla mia gioventi con una più vulnerabile sensibilità di altri, e questa vulnerabilità sembra avere il suo fondamento nel fatto che, in rapporto con le esperienze che facevo, io non ero organizzato abbastanza solidamente e indelebilmente [...]. Poiché io sono più distruttibile di altri, devo tanto più cercare di trarre

48

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

vantaggio dalle cose che agiscono deleteriamente su di me, non le devo prendere per se stesse, ma soltanto in quanto possono servire alla mia vita più vera. Le devo prendere dove le trovo già in anticipo quale indispensabile materia senza cui la mia più intima realtà non potrà mai forgiarsi completamente. Le devo assumere in me in modo da rappresentarle all’occasione come ombre della mia luce, in modo da riprodurle come suoni subordinati fra i quali la musica della mia anima può scaturire tanto più vivamente. La purezza può essere rappresentata unicamente nell’impurità, e se tu cerchi di rendere il nobile senza l’ignobile esso apparirà come la cosa più innaturale, più disarmonica di tutte e precisamente perché il nobile quando si manifesta porta i colori del destino fra i quali esso è nato, giacché il bello, a quel modo che si presenta nella realtà, assume necessariamente dalle circostanze da cui emerge una forma che non le è naturale e che diviene forma naturale soltanto in quanto si accettano le circostanze che necessariamente gli hanno conferita quella forma [...]. Senza volgare, dunque, nulla di nobile può essere rappresentato e cosîf io voglio ripetermi sempre quando qualcosa di volgare nel mondo mi assale: tu ne hai bisogno appunto come il vasaio ha bisogno della creta, e perciò accettalo sempre e non buttarlo via e non averne ribrezzo » 4!.

Come Hélderlin ha bene imparato la lezione di Hegel! O Hegel ha imparato la lezione di Hòlderlin? Giacché non si sa quale dei due abbia più influito sull’altro *. Ma la splendida lezione non convince. Il male è ciò che ritarda, impedisce, distrugge il bene e troppo spesso irreparabilmente. La lezione non ha convinto Kierkegaard, ma non può convincere veramente nessuno, soprattutto nessuno che abbia veramente imparata al riguardo la lezione di Cristo. La pazzia di H6lderlin, per esempio, ha distrutto irreparabilmente il genio di Holderlin. Certo è possibile che il male stimoli il bene ad affermarsi più grande attraverso la lotta, come è possibile che gli ultimi grandi inni di Hélderlin siano nati dal conflitto del suo genio con la pazzia montante. Ma questa positiva funzione del male sul bene è possibile solo nella resistenza del bene contro il male, nella opposizione netta, e quanto più netta tanto meglio, nella vittoria; non nella conciliazione, cioè non in una positiva assunzione del male 4 Ibidem, p. 311. 4 Cfr. K. HrpeBRANT, Hoederlin. Philosophische Dichtung, Stoccarda 1939, specie il paragrafo Wende im deutschen Idealismus durch Holderlin, pp. 82-87.

OTTIMISMO

HOELDERLINIANO

49

nel bene, come qui vaneggia, dobbiamo proprio dirlo, Holderlin. Se la luce, invece d’opporsi alla tenebra, invece di emergere per contrasto, assume in se stessa, nella sua stessa zona luminosa, la tenebra, la luce scemerà e tanto più quanto più di tenebra assumerà. Dicasi lo stesso per il nobile nei riguardi del volgare, e della purezza nei riguardi dell’impurità.

Quella ricorrente biamo sottolineato —

e compromettente parola che « distruttivo » (zerstorerisch) —

abriferita da Holderlin al « negativo » che ha assalito la sua esistenza, rivela che egli ha sfiorato la vera concezione del male e che gli è costato fatica sottrarvisi. La contrazione della concezione del male come distruzione del bene, la sua rettifica in base al sistema (suo e di Hegel), la conquista dell’ottimismo ingenuo postulato dall’esclusione d’un male esigente una medicina soprannaturale a priori esclusa, tutto ciò viene qui sottilmente giustificato con un eccesso personale di suscettibilità e di vulnerabilità che gli dipingeva la realtà più nera del vero. Certamente anche un tale eccesso è, in casi particolari, possibile, era l’eccesso per cui al quindicenne Holderlin tutti gli uomini apparivano «cattivi» e « diabolici ». Ma la fatica e la lotta di cui sopra c’è stata in lui e non è forse mai cessata del tutto. Si sente che egli deve lottare, che è costretto ad andare in qualche modo contro natura là dove si risolve ad ammettere la «volgarità » e l’« impurità » quali legittime e programmatiche componenti della sua arte e della sua esistenza. Ma tutto ciò è rimasto, in Hoélderlin, solo programma, teoria. Nulla di volgare e d’impuro ha mai potuto uscire dalla sua penna, tanto meno dalle sue personali scelte. Ennesima contraddizione. La riduzione della realtà alla pura natura lo obbliga ad andare contro la propria natura. Giacché la più profonda, più autentica, più poetica sua poesia è quella in cui l’innico si converte in elegiaco, e l’elegiaco sfiora quantomeno il tragico. Si veda, per esempio, « Menonsklage », oppure «Aus der Ferne ». Certo che l’abbaglio di Héolderlin è, in questa lettera e ovunque nella sua opera, incantevole. È davvero una bella pagina con belle intelligenti ragioni, quella che abbiamo testé riportata. Essa rende ragione della caratteristica bellezza della poesia holderliniana, ma è anche questa una bel-

50

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

lezza contratta nelle sue prospettive, una bellezza mirabilmente lirica ed elegiaca, ma a due sole, appunto, dimensioni. Le manca la terza, la ironica, e la quarta, la drammatico-tragica.

5. - PROFEZIA?

Siamo cosî forse finalmente pronti per una risposta al problema postoci fin dall’inizio. Gli abbagli che abbiamo registrato denunciano che la profezia hòlderliniana è generosa, ma fallosa. Ancora di più la denuncia fallosa quella che per noi è la vera profezia, la biblico-cristiana. D'altra parte poesia è profezia. E allora, una falsa profezia non dovrebbe anche essere una falsa poesia? Come mai ancora tanta indiscutibile poesia in Holderlin? Dobbiamo anzitutto rispondere che la profezia hélderliniana è fallosa solo a metà perché non è che una profezia cristiana immanentizzata che il processo di immanentizzazione non ha del tutto cancellata. Chi è in grado di astrarre da tale processo la può ritrovare anzi intatta nella sua verità, di più, ritrovarla più suggestiva e fascinosa — più bella — se lo stesso processo di immanentizzazione gli apparirà per quello che realmente vale. Non nei suoi valori di contenuto che sono falsi ma nei suoi valori formali ed espressivi, come simbologia. Il mondo e l’uomo come li vede e li crede Holderlin, in sé chiusi e assoluti e significanti cosî come sono soltanto se stessi, sono falsi. Ma se invece vengono assunti come segni d’un altro mondo e d’un altro uomo, come segni afferrabilissimi ma dell’Inafferrabile, la loro verità si ricostituisce a meraviglia. Il negativo del mondo e dell’uomo holderliniani, reso cosî tangibile dalle figurazioni e dalle cadenze dell’elegiaco hélderliniano, può e dev'essere assunto come simbolo d’un Negativo misterioso, del Negativo del male, come spia verso le metafisiche devastazioni del peccato che la Bibbia rivela ma che anche il perenne senso tragico dell’uomo quantomeno intuisce o sospetta. Cosî il positivo dell’uomo e del mondo hélderliniani, quello che l’innologia hélderliniana cosî nostalgicamente e vividamente evoca e cosî ardentemente e fascinosamente anticipa, può e dev’essere assunto come simbologia che avvicina a meraviglia ai nostri sensi e al nostro cuore la condizione paradisiaca del-

PROFEZIA ?

DIL

l’uomo e del mondo prima della caduta e poi a redenzione compiuta. Da sotto il mirabile tessuto dei ritmi e delle forme della poesia di Hélderlin può trasparire così tutta la verità della profezia biblica ed evangelica. Basta solo scostarne un po’ i fili e ascoltarne le risonanze lontane. Spariranno cosî dal nostro occhio e dal nostro orecchio tutte le incongruenze e le contraddizioni in cui non può fare a meno di invischiarsi, consapevolmente o meno, questa poesia, a causa della riduzione delle simbologie a identificazioni di segno e significato. Spariranno anche le sue incontestabili, ideologiche, nonché liriche, ingenuità. La Grecia non è stata un paradiso terrestre né la Germania lo sarà, ma la Grecia e la Germania come le sogna e delinea Hélderlin possono essere il simbolo luminoso d’un paradiso terrestre che è esistito e che tornerà ad esistere nei nuovi cieli e nella nuova terra promessi dall’apocalissi cristiana. Una creatura in ogni senso bella, pura e immacolata come Diotima non è mai esistita né nel Settecento greco, né nell'Ottocento germanico, né nel Quattrocento avanti Cristo nella Grecia di Socrate. Ma Diotima a cui Héolderlin stesso attribuisce un « volto di Madonna » (Madonnenkopf)# può avvicinare a noi una creatura realmente immacolata davvero esistita, la Vergine Madre di Cristo. L’« azzurro Etere », l’« infuocato Sole », il « vasto Mare » non sono affatto dei « Padri », ma, provvidi, eccelsi e buoni come sono con il genere umano, possono segnalare l’esistenza d’un Padre in Chi eventualmente li ha cosî creati e disposti per noi. E via dicendo. E non si dica che un simile modo di leggere Holderlin sia arbitrario. Perché se le categorie e i ritmi della profezia biblica sono veri, non possono non affiorare in qualche modo in ogni profezia per quel tanto che è poesia e cioè verità. Ma inoltre è stato dimostrato o quantomeno bene ipotecato da Romano Guardini, anche se il De Boer non è d’accordo *, che elementi cristiani sono di continuo copertamente in gioco un po’ ovunque in Holderlin, perfino là dove i termini cristiani sono attentamente

evitati. Indiretto e in partenza, poi,

il Cristo è già indiscutibilmente presente sotto la figura e la 4 F. HOLDERLIN, Lettera a Neuffer, in Sarztliche Werke, cit., p. 253. 4 W. De Boer, Hoelderlins Deutung des Daseins, Francoforte 1961, p. 166.

CAP.

52

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

vicenda di Empedocle. Alcuni degli ultimi inni hanno potuto addirittura definirsi « cristologici », come vedremo. La nostra risposta però è costretta ad aggiungere che se la profezia holderliniana è per metà fallosa, essa è per metà fallosa anche come poesia, benché nella metà in cui, essendo vera

profezia,

è poesia,

è purissima

e altissima

poesia.

È,

cioè, una altissima poesia innica ed elegiaca, una mirabile poesia lirica nel senso pindarico del termine. Ma come s'è già accennato essa tradisce una strana incapacità a realizzare una più ricca espansione poetica e artistica e ad avventurarsi nelle zone dell’ironia, dell’epica, del dramma e della tragedia. Quello che doveva essere l’epos di Holderlin, l’Hyperion, è in realtà una ininterrotta lirica innico-elegiaca, dove l’azione con i suoi eroismi e ignobilità, con i suoi conflitti e le sue durezze, con i suoi successi e i suoi scacchi, è tutta e solo indiretta, sciogliendosi e annacquandosi come fa nelle onde gonfie del dialogo lirico epistolare che Hyperion spedisce al suo destinatario italiano Bellarmin. Aveva un bel promettere Holderlin al fratello Karl che « qualora il regno delle tenebre dovesse irrompere con la sua violenza » avrebbe buttato « la penna sotto il tavolo » e sarebbe andato « in nome di Dio là dove il bisogno sarebbe stato più grande e noi più necessari ». Questo meraviglioso contemplativo non solo era incapace di compiere la vera azione epica, ma anche di rappresentarla. Perché l’azione epica presuppone opzioni drastiche circa il bene e circa il male, disposte a ogni catastrofica conseguenza, e il bene e il male di Hélderlin, inevitabile com’era il primo e necessariamente benefico il secondo, non avevano carica sufficiente per le opzioni veramente capaci di azione epica. Anche quello che doveva essere il dramma di Héolderlin, l’Erzpedokles, non è in realtà un dramma. Il protagonista

manca

di antagonista.

I suoi antagonisti

stanno

sulla sua stessa linea, solo di poco più avanti di lui, sulla linea cioè dell’individualismo dissacratore della santa unità della Natura e non disposti ancora al sacrificio. Tutto il dramma di Empedocle è tra sé e la santa divina Natura, prima da lui santificata e annunciata al suo popolo, poi da lui lacerata con la sua orgogliosa autoaffermazione che però è subito pronto a espiare con l’annientamento di sé nel suicidio sacro. Ma la Natura non può veramente essere una antagonista in Hélderlin, perché è necessariamente il Tutto che è in tutti, e lo stesso individualismo dissacrante non è che

PROFEZIA ?

53

una fase necessaria della sua vicenda affinché essa possa divenire storia e l’uomo farsi personalità. Il suicidio stesso poi è un guadagno perché è l’agognato ritorno alla natura, l’atto culminante dell’esistenza. Ma che orrida concezione è mai questa dove il suicidio è il gesto più sublime, e che orrida natura è mai questa che si placa e si pasce di suicidi umani!

Le maglie della Weltanschauung immanentistica sono sempre là ad impacciare il cammino e il volo della poesia di Holderlin. Ma si può e si deve dire inoltre che la stessa poesia lirica in Holderlin vive e s’alimenta di continuo d’una segreta contraddizione fra sé e il suo contenuto, fra la poesia e la filosofia del poeta, anzi fra la poesia e i termini estremi e irriducibili della sua religione. Giacché tra l’io dell’uomo e la natura assolutizzata non solo non è possibile il dramma, ma neppure il diglogo. Ora la lirica di Hélderlin è tutta sostanziata, è tutta semplicemente fatta di dialogo fra l’io umano ed eventuali tu divini: fra il poeta e la natura, fra il poeta e le divine componenti cosmiche della natura, fra il poeta ed esseri umani essi pure elementi divini della natura. È un continuo vivente rapporto io-tu che vi si esprime o che vi si crea, ma dove il tu in realtà radicalmente manca. Non solo la filosofia, ma la stessa poesia di Hélderlin * annota o suppone di continuo che i « Celesti » e tutta la Natura nelle sue forme estra-umane non ha personalità né consapevole interiorità; che il «cuore» l’acquista soltanto nell’interiorità dell’uomo. E cosî il dialogo lirico di Holdenlin è in realtà al massimo un grande interminabile monologo lirico dove la natura stessa, fattasi finalmente cuore nell’uomo, può farsi finalmente anche voce che in realtà panla soltanto a se stessa e non ha interlocutore. È un groviglio di strane incongruenze. Esse hanno fatto scrollare la testa a Schiller e a Goethe quando hanno letto l’« An den Aether » di Hol derlin. Come si può letteralmente e seriamente parlare al « cielo azzurro »? avranno pensato e vi avranno sospettata non solo una anomalia poetica, ma forse anche psicologica. 45 Cfr. « Archipelagus », « Der Hister », ma anche « Als ich ein Knabe », cit., dove rivolgendosi agli Dei il poeta dice: « Ah! sapeste quanto la mia anima vi ha amato! ». Non sanno l’amore dell’uomo per essi! E inoltre il Schicksalslied, dove si dice che gli Dei sono come « il bambino addormentato ».

DI

CAP. I - FRIEDRICH HOELDERLIN

Non avevano del tutto torto. E soltanto il millenario dialogo lirico cristiano che doveva pure ancora echeggiare nel cuore di Hélderlin, il dialogo fra la persona dell’uomo e la persona di Dio, questo essenziale insopprimibile respiro dell’eterno cuore umano, non del tutto cancellato dalla nuova spersonalizzata filosofia, solo quest’eco, sepolta ma non estinta nell'anima del poeta, può spiegare la presenza contraddittoria del dialogo hélderliniano nella sua monologica Weltarschauung, non solo, ma la sua profonda, incantevole, mistica interiorità. Ma, fatte le debite rettifiche quanto all’interlocutore lirico e cioè sostituendo il Divino personale alla natura luminosa e costituendo questa simbolo di Quello, anche la poesia dialogico-religiosa holderliniana può ricuperare tutta la sua verità, tutto il suo significato e tutta la sua forza di suasiva commozione per il lettore cristiano. O può addirittura ammantarsi d’un fascino e d’una commozione ancora più grande che il fascino e la commozione d’un formale e corretto dialogo religioso, il quale a sua volta rischia d’essere sentito nient’altro che come un monologo, invece che della natura, dell’uomo, data spesso l’invisibilità e l’inafferrabilità dell’Interlocutore e il suo apparentemente inespugnabile divino silenzio. Il canto alla luna, anche qui chiamata e creduta « dea », del pastore errante leopardiano può arrogarsi il vanto d’una commozione e d’un fascino maggiori di quello di tante ortodosse preghiere cristiane, ma a patto che la luna ingenuamente divinizzata venga sentita inoltre dal lettore consapevole come il segno d’una verginale-materna presenza, come spia d’una provvida e dolce divinità, della cui realtà e del cui ascolto non dovrebbe essere possibile né lecito dubitare. Altra incongruenza o contraddizione. Se l’uomo hélderliniano non è da meno degli Dei holderliniani, anzi se per il suo « cuore » è da più, più divino ancora di loro, come si spiega la continua soggezione lirica del poeta verso questi Dei, come si spiegano le sue invocazioni, i suoi rendimenti di grazie, la sua umiltà, il suo continuo rispetto (Ebrfurcht), la sua pazienza (Geduld )? Si può spiegare tutt’al più l’amore, la passione, la gelosia, la custodia dell’unità originaria, i suoi profetici annunci e scongiuri per un ritorno dei suoi Dei, la sua diffida lanciata a Giove affinché rispetti Saturno. Questi secondi sentimenti suppongono una eguaglianza o quasi una superiorità dell’uomo sugli Dei. Ma quei primi

PROFEZIA ?

DD)

sentimenti suppongono nell’uomo una inferiorità che una corretta gerarchia di valori ontologici non ammette. Uno sguardo comparativo fra il profetismo hélderliniano e quello biblico può forse consentire di ridurre di qualche altro punto la fallosità dei contenuti del primo. Uno dei suoi aspetti più eterodossi, dicevamo, consisteva nell’essere storica invece che escatologica, nell’essere una profezia verificabile tutta e soltanto sulla terra, nel cosmo e nel tempo senza soluzione di continuità; verificabile, anzi,

subito nell’imminente futuro della Germania. Abbaglio, abbiamo detto, ma non è stato precisamente questo anche l’abbaglio dei profeti del Vecchio Testamento? E non è addirittura una legge costante di quel profetismo quella ap. punto di non saper distinguere i tempi, di anticipare enormemente la verificazione della profezia nel tempo, di crederla e di proclamarla imminente? Il loro abbaglio non consiste forse radicalmente nel non saper distinguere fra tempo ed eternità, fra storia ed escatologia? Solo il Cristo ha potuto dichiarare senza possibilità d’equivoco che il suo Regno non era di questo mondo. Tutti gli altri profeti hanno vagheggiato un regno di Dio in questo mondo. Quando il Cristo apparve, tutti gli ebrei, pieni gli occhi dell’abbaglio proprio dei loro profeti, hanno sperato e preteso da lui l’immediato avveramento delle profezie e un imminente regno di Dio sulla terra. Di più: Romano Guardini ha potuto, arditamente ma impunemente, sostenere nel suo Der Herr l’ipotesi che il Cristo stesso volesse realizzare subito e storicamente il Regno di Dio e compiere subito le sue beatitudini, qualora gli uomini in numero sufficiente ne avessero adempiute le condizioni, diventando subito « poveri », « miti », « assetati e affamati di giustizia », « facitori di pace », ecc. E solo perché troppo pochi o nessuno le ha volute adempiere, il Cristo, sempre secondo il Guardini, sarebbe stato costretto a differire la realizzazione oltre la motte e la catastrofe sua e del mondo, e a integrare la sua. prima venuta con una seconda, escatologica. Ma non è forse poi verissimo che la soluzione di continuità, la morte, non è mai stata nelle

intenzioni di Dio, bensî è penetrata nel mondo per causalità e volontà a lui estranea? E cosî gli abbagli di Holderlin profeta possono addirittura essere parzialmente fatti rientrare nelle leggi del profetismo autentico, anzi nelle leggi delle divine intenzioni.

CAP.

56

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

II. CRISTOLOGIA

1. - CRISTIANESIMO

DI FRIEDRICH

HOELDERLIN

ADOLESCENTE.

Le liriche di Hélderlin adolescente, religiose o etico-religiose per gran parte, rivelano un cristianesimo e un teismo intensi, perfino esuberanti. Sono liriche ancora acerbe, s’appoggiano a modelli riconoscibili, primo fra tutti a Klopstock. Si sente che i loro contenuti sono imparati e non radicalmente generati dal loro poeta, sono i contenuti della sua educazione luterano-pietistica. Ma non

oseremmo

ripetere senz’altro con

il Guardini che « è evidente la inautenticità dei sentimenti e dei pensieri » !. C’è, questo è vero, come

una aggressività,

lirica e volitiva insieme, nei modi d’aderire a quei contenuti; un che di violento, anzi talvolta un che di frenetico. Ci si domanda se è la violenza con cui questo ragazzo piegava se stesso o se è la violenza con cui altri l'hanno piegato. Violenti soprattutto sono i modi con cui si aderisce ai motivi terrificanti del pessimismo cristiano: ai motivi della croce, del peccato, del giudizio, dell’inferno. C'è dunque fondamento di sospettare che le atroci verità siano state somministrate

a quest’anima

estremamente

recettiva, o che essa

le abbia comunque trangugiate a dosi esagerate e senza sufficienti antidoti di verità salvifiche. Solo la acquisizione o l’ossessione d’un discutibile insegnamento dogmatico può indurre un adolescente a scrivere: Viel, viel sind meiner Tage Molti, molti dei giorni miei Durch Stiind entweiht gesunken hinab. Profanati dal peccato sono sprofondati.

! R. GuarpinI, Holderlin, Weltbild und Fròmmigkeit, cit., p. 500.

CRISTIANESIMO

ADOLESCENTE

SI

[...] O lasse ibr Grab, O fa che la loro fossa, Lass, Vater der Barmberzigkeit Padre della misericordia, fa Das Blut des Sobns es decken (« Das Erinnern »). Che il sangue del Figlio lo copra.

« Ma che gran male ho fatto da aver bisogno del sangue al Figlio di Dio? » si sarà con terrore domandato il buon studente Holderlin, e sarà stato anche questo uno fra i « dubbi » religiosi giovanili di cui è cenno circa dieci anni dopo in « Friedensfeier ». Ma poi è davvero una dogma cristiano che il sangue del Figlio di Dio sia necessariamente richiesto per i peccati personali d’un adolescente? Troppo precocemente e irriguardosamente la vulnerabile fantasia di Holderlin è stata affollata, a causa d’un’importuna predicazione, dalle più tenebrose visioni del Male. Egli sa già nome e cognome, genere e differenza specifica, ed ha già una

immaginazione

vividissima

dei crimini

più spa-

ventosi e delle più orrende sciagure dell’uomo: è una macabra lista che si legge allibendo in « Die Bùcher der Zeiten » (i libri dei tempi che stanno

deposti nel Santuario

di Dio),

una sua composizione giovanile: « Là sta scritto: - Devastazioni di paesi, stragi di popolazioni - E carneficine di guerrieri nemici - E re strozzini - Con cavalli e carri - E cavalieri e armi - E scettri tutt’attorno a sé; - E velenosi tiranni - Con orridi pugnali - Profondi nel cuore dell’innocenza. È flutti spaventosi - Che ingoiano i pii - Che ingoiano i peccatori. - Che travolgono le case - Dei pii e dei peccatori. - E fuochi che divorano - Palazzi e torri - Mura gigantesche - Annientando in un attimo. - Terre che si spalancano - Con fauci di zolfo Ingurgitando - Nel buio fumante - Il padre, i bambini - La madre, il lattante - In rantoli di dolore - E gemiti di morte. «Là sta scritto: - Particidio! Fratricidio! - Piccoli strangolati cianotici! - Orrendo! Orrendo! - Per un piatto di lenticchie Veleno che divora le viscere - Infuso al buono, fidente amico. Storpi dalle occhiaie vuote - Vittime diaboliche - Della vergogna di Onan. - Cannibali - Nutriti con arrosti umani. - Rodono ossa umane, - Trincano da teschi umani - Sangue umano fumante. Folli urla di dolore - Degli scannati alla vista - Del coltello che taglia loro il ventre. - E il giubilo del nemico - A causa dell’olezzo, Che fuma caldo dalle viscere.

58

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

«Là sta scritto: - Disperazione, quando nera ancora - A mezzanotte l’anima - Sta attaccata al capestro - Nella martoriante agonia, - Presagio infernale ».

La lista non è finita, ma noi abbiamo voluto trascriverne un lungo stralcio per rendere plausibile un confronto assai illuminante fra questa lista di mali in Hélderlin adolescente e la non meno lunga, già citata ? lista di mali che lo stesso Héolderlin traccerà una decina d’anni più tardi nella sua lettera a Ebel. Le due liste accostate, simili ma tanto diverse, rendono conto di quanto si sia mutata nel frattempo la concezione hélderliniana del male. Essa si è fatta appunto, da tragica, romantico-hegeliana, ma grazie a una enorme riduzione della dimensione del male stesso. Nella seconda lista, il male, che nella prima è ciò che purtroppo spesso è, cioè colpa e distruzione, si è ridotto ad essere una dialettica complementarità del bene. È chiaro che un giorno il sensibile adolescente si è portato le mani sugli occhi inorriditi, incapaci ormai di sostenere una cosî tremenda vista. Essi non hanno più avuto il coraggio di aprirvisi. Chiusi cosî, si sono messi a sognare mali più dolci. Ma chi ha bruciato cosî presto gli occhi di questo ragazzo? « Die Biicher der Zeiten » proseguono, è vero, con la visione della morte di Cristo e del suo « inconcepibile amore » che può lavare ogni crimine e salvare ancora « una orrenda razza caduta ». Ed è pure vero che qui come altrove, in queste liriche cristiane, non manca affatto il sentimento d’un Dio amoroso, paterno e provvido, mirabilmente confessato soprattutto nella lunga ode « Die Meinigen » (I Miei). Hol derlin vi ricorda un addio al fratello in riva al Neckar e la promessa che s’erano fatti off zu beten (di pregare spesso). A diciott’anni a Luisa Nast, suo primo amore, candidamente ancora domanda: « Pensi a Dio e a me nella tua stanzetta? » 3. Ciononostante, l’impressione complessiva che si riporta da queste liriche della sua adolescenza cristiana è che Hélderlin ha bruciato, per cosî dire, anzi tempo in fiamme troppo voraci le sue disponibilità cristiane. Si è caricato o è stato caricato anzi tempo di sentimenti più grandi della sua età, di sentimenti schiaccianti. Come poi egli sia passato per $ RE ciò che fu detto a p. 36 s. del presente volume. . HòLperLIN, Samtliche Werke, cit., vol. VI, p. 33.

CRISTIANESIMO

ADOLESCENTE

dissolvenze lievi delle stelle » a natura » che un difficile dire in

59

dal sentimento del Dio che sta « al di sopra quello della «calma, grande, onniavvivante bel giorno lo soppianterà, sarebbe lungo e dettaglio. Si direbbe che egli si sia ritrovato

pagano quasi senza accorgersi, sensi sine sensu. A poco a poco, e a passi furtivi, Schiller, Kant, Spinoza, Rousseau, Hegel, i Greci se lo sono portato via con sé. La sua apostasia dal cristianesimo, se fu, come s'è già detto, una delle più nette, coerenti e conseguenti, fu anche una delle più innocenti, miti e pie. È ben raro che appaiano in lui note dure di ribellione o d’accusa. E quelle poche che vi appaiono sono pronunciate non formalmente contro il « cristianesimo », ma contro certi metodi d’insegnamento teologico che riducono la teologia a una « galera » * o contro certa pedagogia religiosa che vuole « imporre » la fede, la quale invece « non può essere comandata, come l’amore »?. Oppure sono pronunciate contro « gli scribi e i farisei del suo tempo, i quali trasformano la Bibbia in fredde chiacchere che uccidono lo spirito e il cuore » °. O sono infine pronunciate contro il regime totalitario che umilia la religione a instrumentum regni. Solo una volta, se ben ricordiamo, egli è duro precisamente e direttamente contro due qualificazioni essenziali del cristianesimo: quella d’essere una « Rivelazione positiva », e quella di rappresentare una « concezione monarchica di Dio », che vuol dire di un urico Dio trascendente. Ma ecco i termini e le ragioni di tale insurrezione anticristiana e antitelsta: « È anche bene ed è addirittura la condizione d’ogni vita e d’ogni organizzazione che nessuna forza sia monarchica in cielo e sulla terra. La monarchia assoluta si elimina ovunque da se stessa, perché è senza oggetto; anzi in senso rigoroso non è mai esistita. Ogni cosa è intrecciata a ogni altra, e ognuna patisce allo stesso modo che è attiva, anche il più puro pensiero dell’uomo; e, in tutto rigore, una filosofia aprioristica, indipendente da ogni esperienza è, come tu ben sai, una assurdità, come lo è una Rivelazione

positiva,

dove

il Rivelatore

e lui soltanto

ci fa tutto,

e

colui a cui si porge la Rivelazione non può neppure muoversi a

4 Ibidem, p. 97. 5 Ibidem, p. 333. 6 Ibidem.

60

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

riceverla, giacché altrimenti vi aggiungerebbe qualcosa di proprio » (corsivi nostri)”.

Mai forse Holderlin è stato altrettanto franco, chiaro e sottile nell’esporre la ragione radicale della sua apostasia e dell’apostasia generale del suo tempo e del seguente dal teismo cristiano. Come non esiste pensiero senza esperienza, altrimenti mancherebbe di concreto contenuto, e come non esi-

ste cosa che non sia in rapporto insieme di azione e di passione con le altre cose, cosî non esiste un potere monarchico e assoluto, cioè unico e separato dal resto, indipendente, libero, eccezionale, a cui il resto debba subordinarsi; non esiste o non può legittimamente esistere, né in terra, né ir cielo.

Non esiste dunque un Dio unico e trascendente. Il monoteismo è falso. Perché la intollerabile conseguenza sarebbe che tutto il resto, e l’uomo in particolare, si ritroverebbe in una condizione di totale passività nei riguardi d’un Dio simile. E, per esempio, una rivelazione del mistero che dovesse verificarsi per noi unicamente su iniziativa di questo Dio, dovrebbe essere accettata da parte nostra del tutto passivamente. Sarebbe

una

umiliazione,

una

alienazione.

Inaccettabile.

In

tale concezione tutti e singoli gli esseri non avrebbero valore alcuno, e la loro universale unità verrebbe infranta. È il più specioso nonché il più risaputo e ripetuto argomento esibito dagli antiteisti di tutto il XIX e XX secolo. Ma essi hanno salvato ciò che, con l’eliminazione del trascendente, pensavano di salvare: la singolarità degli esseri (la personalità dell’uomo) e la loro universale unità? Essi hanno potuto in realtà soltanto salvare alternativamente l’una cosa a spese dell’altra, o alienando l’universale al singolo e facendo d’ogni uomo un’isola solitaria e incomunicabile, oppure alienando il singolo all’universale impersonale, a questo Moloch divoratore d’ogni

consapevole personalità, come scelse di fare Hélderlin con il suo Uno-Tutto esigente il suicido di Empedocle. Non avvertiva il nostro poeta che un Dio monarchico, assoluto e trascendente è postulato come garanzia appunto e della singolarità degli esseri e della loro universale unità, un unico e superiore Dio per tutti, purché fosse inoltre un Dio infinito Amore, e perciò trascendente e immanente,

divino e umano,

libero e liberatore, padrone e servo e vittima per cavallere7 Ibidem, p. 323.

CRISTIANESIMO

sco amore.

ADOLESCENTE

Come

appunto

61

è il Dio cristiano.

Solo per con-

vergenza a un Dio cosî è possibile che la singolarità e l’universalità degli esseri, da contraddittorie come sono per se stesse,

si facciano complementari. E poi i massimi recettori della divina Rivelazione, i feti, non sono stati forse anche i massimi suoi portatori, boratori, realizzatori? I massimi suoi « poeti », proprio senso di « facitori », di « artefici »? Ma, per tornare ai modi dell’apostasia di Holderlin, ci si affaccia, a parte solo qualche durezza, carico della

proelanel

egli sua inesauribile disponibilità conciliatrice anche a proposito del cristianesimo. Si rileva in lui anzitutto un enorme riguardo per chi ancora crede. Per la madre, ad esempio, allarmatissima della svolta religiosa del figlio. Scrivendo a lei non omette mai o quasi di nominare il nome di « Dio » ma con formule e in contesti dove il termine è interpretabile a piacere in senso sia teistico sia immanentistico. È chiaro che in tal modo egli mira a non offendere la madre o anche talvolta a illuderla, pur senza deflettere d’un iota dai dogmi della sua nuova religione. Ma da lei che in realtà non si illude affatto invoca un giorno un rispetto eguale al suo per « das Heilige », per « la Cosa santa » tutta diversa, che ormai esiste in lui*. Un modello di diplomazia che sa di gesuitismo o, chi preferisca, di oracolare ambiguità delfica, in cui intransigenza e riguardo si accordano a meraviglia, è la lettera al cognato dove accondiscende a fungere da padrino al battesimo di suo nipote: « Mi creda, significa molto per me potermi chiamare padrino del Suo caro bambino. Lei mi conferisce un particolare diritto a partecipare nello spirito alle Sue cure e alle Sue gioie paterne, ed è per me un motivo di più per amare la vita il fatto che Lei in questo modo congiunge il mio sentimento a un essere innocente che ora si avvia ad incontrare il destino e il mondo vivente. Io considero anche il suo battesimo come una testimonianza della nostra fede nella futura dignità umana del bambino, come un segno della speranza che la sua sacra vita in germe crescerà nel sentimento di se stesso e degli altri esseri, nel sentimento della divinità vivente in cui noi viviamo

e siamo, nel vero e proprio sentimento

cristiano per

il quale noi e il Padre siamo una cosa sola, e con questi 8 Ibidem, p. 318.

CAP.

62

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

pensieri io avrei volentieri portato sulle mie braccia questo caro bambino insieme a tutti gli altri »°. AI suo Hyperion Hélderlin fa attraversare la sua stessa svolta religiosa. In uno dei passi più significativi del romanzo ecco la strana preghiera che gli mette in bocca: « O tu, al quale io gridava un giorno, quasi tu fossial di sopra delle stelle, che io chiamava creatore del cielo e della terra, idolo amico della mia fanciullezza, tu non vorrai adirarti perché poi ti dimenticai! » !°. Mai forse una apostasia ha trovato parole più cortesi per il Dio da cui si allontanava. È qui che esattamente gli esce quel sospiro che già abbiamo citato: « Perché il mondo non è abbastanza indigente da cercare fuori di sé ancora Uno? ». La liquidazione del Dio trascendente è anche qui tuttavia nettissima. La stessa liquidazione non gli riesce però altrettanto facile per il Cristo. Il Cristo è stato l’estremo appiglio a cui, ancora ventunenne studente di teologia, egli s’era aggrappato per restare ancora un po’ fedele al Dio della sua fanciullezza. È del febbraio del 1791 la celebre lettera alla madre dove il precoce lettore di Spinoza confessava di dubitare ormai che la ragione possa dimostrare l’esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Ma c’è ancora un argomento supersiste, « Cristo »: « In questo tempo mi caddero nelle mani scritti su e di Spinoza, uomo grande e nobile del secolo passato e tuttavia negatore di Dio in base a concetti rigorosi. Esaminando con precisione la questione, trovai che con la ragione, con la fredda ragione che ha abbandonato il cuore, se cioè si vuole spiegare tutto, bisogna accettare le sue conclusioni. Tuttavia resta egualmente la fede nel mio cuore, al quale in modo cosî inconfutabile è stato donato il desiderio dell’eterno, di Dio. Non dubitiamo noi appunto soprattutto a riguardo di ciò che desideriamo? Chi ci aiuta in simili labirinti? Cristo. Egli ci mostra con i miracoli che è ciò che dice di essere, che è Dio. Egli ci insegna con grande chiarezza l’esistenza di Dio e l’amore, la sapienza, la onnipotenza della divinità. Ed egli deve sapere che c'è Dio e che cosa è Dio, perché è nel modo più stretto

unito

alla divinità.

È Dio

stesso.

Questo

è il cammino

delle mie conoscenze circa la divinità da un anno a questa parte » !!.

9 Ibidem, p. 327. " F. HòLDERLIN, Hyperion, in Simtliche 11 Ibidem, p. 69.

Werke, cit., p. 95.

CRISTIANESIMO

ADOLESCENTE

63

Quest’estremo appiglio non ha a lungo resistito. Cristo sparisce del tutto, da questo punto in poi, se non erriamo, dalle lettere come dall’opera di Hélderlin. Ma il lungo silenzio viene improvvisamente rotto otto anni più tardi nell’ultima notte dell’anno 1798. Come egli stesso riferisce al fratello nella lunghissima lettera del primo gennaio 1799, la madre lo aveva pregato di comporre una poesia per il settantaduesimo compleanno della nonna. La compone infatti subito in quella stessa notte. Noi la conosciamo:

porta come

in germe

tutta

la cristologia degli ultimi inni di Hélderlin. Ma ecco come continua la lettera: « Ma i toni che là [nella poesia] toccai, riecheggiarono in me con tale forza le trasformazioni del mio animo e del mio spirito da me sperimentate fin dalla giovinezza, il passato e il presente della mia vita si fece a tal punto sentire in me, che non potei più trovar sonno e il giorno seguente faticai a riprendermi. Ecco come sono. Quando avrai sott'occhio quei versi poeticamente cosî irrilevanti, ti meraviglierai come mai abbia provato cosî straordinari sentimenti. Ma io ho detto ben poco di ciò che avevo sentito. Mi succede in genere qualche volta di esprimere la mia anima più viva in parole molto piatte, cosî che nessuno sa che cosa volevo

esattamente

dire, tranne

me » 12.

Ecco la poesia nei versi che ci interessano: Denn zufrieden bist du und fromm wie die Mutter die einst den Poiché contenta sei tu e pia come la madre che un giorno Besten der Menschen, den Freund unserer Erde, gebar. Generò il migliore degli uomini, l’amico della nostra terra. Ach! sie wissen

es nicht, wie der Hobe

wandelte

im Volke,

Ah! Essi non sanno come il Nobile visse in mezzo al popolo, Und vergessen ist fast, was der Lebendige war. Ed è quasi dimenticato ciò che il Vivente era. Wenige kennen ibn doch und oft erscheinet erbeiternd Ma alcuni pochi lo conoscono ancora, e spesso appare loro [rasserenante Mitten in sturmischen Zeit ibnen das himmlische Bild. Nel tempo della tempesta la sua celeste immagine. Allversobnend und still mit den armen Sterblichen ging er, Tutto conciliando e pacificando egli camminò con i poveri [mortali, 12 Ibidem, p. 324.

64

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

Dieser einzige Mann, gottlich in Geiste, dabin. Questo uomo unico, divino nello spirito. Keines der Lebenden war aus seiner Seele geschlossen, Nessuno dei viventi era escluso dalla sua anima, Und die Leiden der Welt trug er an liebender Brust. Ed egli portava nel cuore amante i dolori del mondo. Mit der Tode befreundet er sich, in Namen der Andern Egli si fece amico alla morte, in nome degli altri Ging er aus Schmerzen und Miih siegend zum Vater zurtick. Ritornò dalle pene e dalle fatiche vittorioso al Padre. Und du kennest ibn auch, du teure Mutter! und wandelst

E anche tu lo conosci, tu Madre cara! e lo segui, Glaubend

und duldend

und still ibm, dem

Erbabenen,

nach.

Credete e paziente e tranquilla, quest’essere elevato. Sieh! es haben mich selbst verjiingt die kindlichen Worte, Guarda! Le infantili parole hanno ringiovanito me pure Und es rinnen, wie einst, Trinen von Augen mir nocb ... E scorrono, come una volta, lacrime ancora dai miei occhi.

Come vedremo, i quattro grandi inni cristologici della fase estrema sviluppano e complicano i tre motivi già in germe in questi distici: « Der Versohnender » svolge infatti il motivo del « Conciliatore », « Der Finzige » il motivo dell’ Unico », « Patmos » e « Brot und Wein» il motivo del Consolatore nella notte del Divino. Si può dire che gran parte di ciò che Holderlin creò per il resto della sua vita consapevole svolge ciò che esattamente cominciò a sentire a partire da questa ultima notte del 1798, da questo principio di resurrezione dell'immagine di Cristo nel suo spirito. Non è senz’altro una riconversione al cristianesimo

monoteistico,

è un

riaccostamento

e un

risolvimento

del cristianesimo nel suo paganesimo, la ricerca d’un significativo posto anche per Cristo in mezzo agli altri suoi Dei. Ma è anche di più: è il principio d’un dramma di valore estremo che si scatena nel profondo del suo cuore, un dramma silenzioso e senza suoni come una tempesta in fondo al mare, ma di carattere decisivo e che l’insorgere della follia ha interrotto. È il profilarsi d’una scelta temuta necessaria fra Cristo e tutti gli altri suoi Dei e con angoscia respinta come un sacrilegio.

CRISTO

ED

EMPEDOCLE

65

2E2CRISTOTED*EMPEDOGLE.

Ma intanto, poco prima o poco dopo questa sua prima poesia cristologica alla nonna (fine del 1798 o principio del 1799), Holderlin inizia a delineare l’ultima delle sue creature poetiche, l’Empedocle. Essa sembra per gran parte tracciata sulla trasparente falsariga della figura del Cristo. Questa è almeno la tesi di Romano Guatrdini, una tesi assai convincente. Cosî l’illustre interprete la condensa: « Empedocle ricorda il Cristo con la sua sapienza, la sua soccorrittice energia, la sua misericordiosa mitezza, la sua influente soavità, e lo ricorda inoltre fisionomicamente per cosî dire; con la sua statura e i suoi atteggiamenti. Panthea [sua discepola, sua ammiratrice, sua devota e, prima, sua miracolata] richiama la figlia di Giairo ma fusa in qualche modo con la figura di Maria di Magdala; Pausania [giovane ed entusiasta suo discepolo] richiama Giovanni; Hermocrate [l’antagonista] i rappresentanti della gerarchia. Il parallelo si sviluppa ulteriormente in quanto la figura di Empedocle domina nel dramma in modo assoluto. Già s’è detto che essa non ha veramente un antagonista. Il vero dramma si svolge solitario fra Empedocle e la divinità [...]. Ci sono poi certi fatti singoli e certi particolari della sua vita che rammentano Gesù. Per esempio, la scena dove il popolo gli offre la corona di re ed egli la rifiuta; la domanda ch’egli rivolge al suo discepolo Pausania: per chi mi riconosci?; il tentativo del discepolo per distoglierlo dal suo proposito di morte; la cena che il maestro vuole consumare con i suoi fidi prima di morire » *. Ma c’è secondo noi dell’altro ancora. Il rapporto fra Cristo e gli scribi, i farisei, i capi politico-religiosi, ma anche il rapporto fra il poeta stesso e i suoi educatori cristiani e il regime assolutistico politico-religioso del suo paese (rapporto che Hélderlin stesso paragonò un giorno al primo)! si riproduce quasi letteralmente nel rapporto fra Empedocle ed Hermocrate, fra il rappresentante dello spirito e quello della morta lettera. Vi si parla inoltre d’un « patto di morte » che Empedocle ha stipulato con la terra, regno della morte e che richiama il « patto del sangue » di Cristo; d’un 13 Ibidem, p. 504. 14 Ibidem, p. 333.

CAP. I - FRIEDRICH

66

HOELDERLIN

« calice della morte » che Empedocle si risolve a bere e che ricorda il « calice » che Cristo accetta dalle mani del Padre. Di più, Empedocle si considera mediatore universale fra il divino e l’umano, chiamato a sanarne la frattura e ad affratellare, nella rifatta umano-divina unità, tutti gli uomini. Tutte le qualifiche di Empedocle sono interscambiabili con quelle di Cristo. Infatti egli è, ad Agrigento sua terra, legislatore, guida, medico taumaturgico, sacerdote e profeta. Spesso e volentieri viene chiamato « divino » o «figlio degli Dei ». Ma fra l’Empedocle hélderliniano e il Cristo dei Vangeli vige sotterraneo un altro rapporto, sfuggito finora agli interpreti, ma che a noi sembra di tutti il più forte, il più compromettente: quello fra la colpa di Empedocle e la « colpa » di Cristo. È forse una ipotesi audace questa che avanziamo, eppure la «colpa» di Empedocle, proprio in quanto copertamente imputata anche a Cristo, ci sembra il mezzo termine essenziale mediante cui Holderlin tenta da qui in poi un recupero di Cristo e un suo armonico inserimento

proprio nell'Olimpo ellenico. Una «colpa » che, certo, solo in forma estremamente indiretta — nel lontano traspirare della figura di Cristo in quella di Empedocle — Holderlin imputa a Cristo in questo dramma, e che poi, negli inni cristologici successivi, invece imputerà agli adoratori di Cristo. Solo, comunque, mediante tale supposta colpa e la sua successiva espiazione o ritrattazione (colpa in Cristo o nei suoi adoratori) risulta logicamente plausibile la grecizzazione o la immanentizzazione di Cristo qui operata da Hélderlin. Questa « colpa », di Empedocle e di Cristo, è quella della

autodivinizzazione monarchica al di sopra degli altri Dei e della divina natura. È l’accusa lanciata al Cristo dei Vangeli — fecit seipsum Deum! — e per la quale fu condannato. È letteralmente la stessa accusa che gli avversari scagliano a Empedocle: «Vor ibnen einen Gott dich selbst genannt » (Hai chiamato te stesso Dio davanti a loro)”. Ma la grande audace novità del Cristo hélderliniano grecizzato in Empedocle è che egli stesso si riconosce colpevole di tale colpa e, allo scopo di risarcire l’unità degli Dei e

della divina natura in tal modo empiamente infranta, decide di espiarla con la morte volontaria, con il proprio autoannientamento nel seno della universale divinità: © F. HòLperLINn,

Samtliche

Werke, cit., vol. III, p. 102.

CRISTO

ED EMPEDOCLE

67

Heilige Natur, jungtriuliche, (...) Santa Natura, immacolata, (...) Verachtet hab ich dich und mich allein

Disprezzata io t'ho e me solo Herrn gesetzt (...) Die Gotter

Zum

waren Signore mi sono imposto (...) Gli Dei erano Mir dienstbar nun geworden, ich allein Miei servi ormai divenuti, io solo War Gott und sprachs in frechem Stolz heraus. Ero Dio e l’ho dichiarato con impudente orgoglio.

La conseguenza immediata di tale autodivinizzazione monarchica o comunque preferenziale sarà la trasformazione di Empedocle in un tiranno del suo popolo, dove è lampante che per Holderlin la concezione trascendente di Dio e l’assolutismo monarchico formano un nodo unico: Dann

hittest du geherrscht in Agrigent, Poi tu avresti regnato in Agrigento, Ein einziger allmachtiger Tyrann, Unico onnipotente tiranno, Und

dein gewesen E tuo sarebbe Das gute Volk und Il buon popolo

wire, dein allein, stato, tuo soltanto,

dieses schone Land. e questa terra bella.

Le cose si illuminano ulteriormente se si pone attenzione alla geresi della colpa di Empedocle. In tale genesi giocano, assia più che i ricordi evangelici, i ricordi dell’autoesperienza religiosa di Holderlin stesso. Il riformatore religioso agrigentino ripercorre con sorprendente esattezza la interiore vicenda héolderliniana di cui già s'è riferito: le giovanili estasi mistico-mitiche di fronte alla natura, la sacra felicità del rapporto con la divinità, cioè con la sacra totalità della natura, la esaltante vicinanza dell’anima amante con gli Dei amanti, il senso e il sogno, per sé come per tutti, della umano-divina integrazione e in essa della soluzione di tutte le fratture, gli enigmi, le sofferenze, le malvagità:

16 Ibidem, p. 95. 17 Ibidem, p. 102.

CAP.

68

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

Ich war geliebt, geliebt von euch, ibr Gòtter, Il ero amato, amato da voi, o Dei, Ach innig; wie ibr umeinander lebt, Ahi, intimamente; come voi tra voi vivete, So kannt ich euch, o nein es war Cosî io vi conobbi, oh no, non era Kein Traum, an diesem Herzen fiiblt ich aucb, Un sogno, su questo mio cuore io vi sentivo Ich erfubr euch, ich kannt euch, ich wirkte mit euch! Vi espetivo, vi conoscevo, con voi speravo! !8

A ricondurre i suoi cittadini nel rapporto con il sacro Tutto e in esso a una feconda concordia reciproca si era poi rivolta tutta la sua attività di educatore e di riformatore religioso. Ma venne il giorno che anche su di lui scesero le tenebre, le eccelse esperienze si estinsero, l’angoscia della mitica notte lo avviluppò. Si senti, come già Holderlin, abbandonato, solo e come maledetto dalle sue care divinità. E, come già Holderlin, smarrito si domanda: Wo

seid ibr, meine Gotter? Dove siete, o miei Dei? Web, lasst ibr nun wie einen Bettler mich, Ahi, ora mi abbandonate come un mendicante, Und diese Brust, die liebend euch geabndet,

E questo petto, già carico di presagi di voi, Was stosst ibr sie hinab, die freigeborne,

Perché lo respingete, questo petto nato alla libertà, Und schlosst sie mir in schmiblich enge Bande? E me lo avvincete in cosî vili anguste catene? !°

Ma ecco a questo punto inevitabile anche l’altra domanda: Perché? Anche il Cristo aveva domandato: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed è più che attendibile che fra le varie plausibili risposte dovesse affacciarsi inquietante anche quella d’una colpa personale che poteva aver offeso gli Dei e la divina Natura. Ora noi già sappiamo che cosa è la «colpa » in senso holderliniano:

è individualismo,

18 Ibidem, p. 88. 19 Ibidem, p. 87.

è autoaffermazione

del sin-

CRISTO

ED EMPEDOCLE

69

golo contro la sacra totalità della Natura. Non è nel considerarsi e proclamarsi « divini » o «figli degli Dei » o « Dei » addirittura. Tutti e ciascuno, anzi, lo siamo per natura e lo dobbiamo diventare per cultura. Tutti dobbiamo realizzare dal nostro particolare punto di partenza il rapporto con il Tutto, in tale rapporto consiste la nostra dimensione divina, e l’uomo in tale rapporto non è meno divino degli Dei. Colpa è anzi proprio il rifiutarsi a questa nostra divinizzazione, nostro dato di fatto e insieme nostro compito. È voler restare singoli, solitari, divisi, autonomi; peggio, voler essere,

in questa

autodistinzione,

superiori,

sovrastanti,

« monarchici ». Tuttavia questa autoaffermazione e autodistinzione individualistica è per Holderlin una colpa necessaria, il che sembra una contraddizione in termini. Ma è inevitabile che i due opposti polari della singolarità e dell’universalità si facciano, senza trascendenza, contraddittori. Se si vuole che il singolo sia e s’affermi, ciò è possibile soltanto opponendosi all’istanza ‘universalizzante e unificante, sottraendosi all’identificazione di tutti con il Tutto. Ma è il Tutto stesso, per Holderlin, cioè la stessa divina Natura che ha bisogno di individualizzarsi in questo modo se vuole avere un divenire, una storia, una fecondità, una concretezza,

una coscien-

za: tutte cose possibili soltanto in un articolarsi e affermarsi di singolari esistenze. Nel suo eterno alterno ritmo di espansione e di contrazione, la Natura stessa provoca questa sua propria lacerazione, contraendosi e ritirandosi affinché il singolo possa emergere. In termini mitici, Saturno deve ritirarsi e Giove imporsi affinché possa aver luogo il « tempo ». Uno dei nomi di Giove è, appunto, Kronios. Questo impallidire e rifluire della dimensione di Totalità e cioè della dimensione divina a vantaggio della individualizzazione è il « dolore mitico », ma senza dolore, senza male, senza contrazioni, strettoie e cattività, nulla è fecondo, canta Héolderlin nel suo grande inno « Der Rhein » (Il Reno). È, in una parola, sempre il concetto hòlderliniano-hegeliano del male: necessario per il bene. Ora esiste, è vero, anche questa specie di male, ma non è il male nel senso tragico del termine e non è la colpa. C'è però anche in Hélderlin il senso d’una colpa più grave di quella d’un normale individualismo: è quando il singolo,

dopo essersi affermato

e dopo aver esaurito la sua perso-

CAP.

70

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

nale vicenda, la sua personale missione individualizzatrice, si rifiuta o anche solo indugia a rientrare nell’ordine universale, a scomparire effettivamente nel Divino-Uno-Tutto, unico ad essere eterno ed assoluto. E c’è inoltre, sempre in H6lderlin, una colpa gravissima: quella di affermarsi divini per distinzione o per opposizione al divino Uno-Tutto. È l’assolutizzazione della dimensione individualistica, la autodivinizzazione monarchica. Il suo Empedocle si macchia della colpa dell’indugio: « Dass ich gezògert bis zum dussersten » (Perché io ho indugiato fino all’estremo limite)”. Ma egli si macchia, come s’è visto, anche della ben più grave colpa seconda: dichiarandosi unico Dio e unico Signore sopra tutti e contro la divina Natura. Questo però precisamente attraverso l’indugio a scomparire, compiuta la sua missione, nell’anonima oscurità della dimensione universale. Egli doveva forse semplicemente ritirarsi a un certo punto a vita privata e consentire ad altri di accedere alle grandi, sacerdotali cariche ricoperte. Come in concreto tale disindividualizzazione dovesse avvenire, il dramma di Hol derlin non dice. Ma è chiaro che l’espiazione che, comunque si sia verificata la colpa, qui si postula è la disindividualizzazione violenta, immediata e volontaria: il suicidio per autoprecipitazione nel cratere dell’Etna. Dunque la pena capitale di autoannientamento per un indugio, e un indugio che è una autodeificazione! Durus est hic sermo. Duro, ma in Hélderlin logico. Qui giocano il loro ruolo decisivo in lui l’avversione contro il regime assolutistico, l’apostasia dal Dio trascendente e le sue ragioni, e infine e soprattutto il bisogno di giustificare il rientro di Cristo nella sua propria religione, come si disse. Il regime dei re e dei principi assoluti e perciò inamovibili e dunque « indugianti » era per essi non un servire ma un farsi servire, era una empia autodeificazione. Dello stesso genere era la concezione del Dio unico e trascendente, padrone assoluto alla cui gloria unicamente tutto il resto doveva servire. Ma Cristo stesso, che pure era venuto umilmente a servire e non ad essere servito, s'era proclamato, come i Vangeli narrano, unico Dio e Signore. Se lo fece, è la risposta di Hol derlin, questa fu la sua colpa, ma egli l’espiò poi votandosi volontariamente alla morte. Una risposta, ripetiamo, che ® Ibidem, p. 114.

CRISTO

ED

EMPEDOCLE

71

non emerge mai esplicita ma che tutto il suo Erzpedokles coinvolge segretamente. Il filosofo di Agrigento come lo vede Holderlin rispecchia troppo Cristo per non rispecchiarlo anche nel significato centrale, ossia anche nella sua colpa ed espiazione. Era del resto l’unico modo per Hélderlin di riconciliarsi con Cristo. Se però il dramma dell’Erzpedokles è principalmente il supposto dramma di Cristo, esso è secondariamente anche il dramma personale di Hélderlin, lacerato fra le sue esaltazioni e poi desolazioni religiose e turbato dall’enigma di queste seconde. O, che è quasi lo stesso, il dramma di Holderlin profeta religioso, che viene assalito dal dubbio, a un certo punto, circa questa sua stessa sacra missione. Non era forse presunzione, un’empia presunzione, un sacrilego orgoglio credersi chiamato a tanto? Come poteva un uomo, contrassegnato, è vero, un giorno da esperienze sublimi, ma ora cosî religiosamente desolato, continuare a ritenersi le-

gittimamente quel profeta universale, quell’araldo divino, quel precursore e preparatore del grande divino ritorno? Non era forse anche questo un eccepitsi e un esaltarsi oltre ogni normale vocazione umano-divina, un’affermarsi solitario e preferenziale, tale da spezzare la divina universalità, la ineccepibile democraticità della Natura identica in tutti? Non poteva essere questa la « colpa » per la quale precisamente gli Dei l’avevano abbandonato? Un simile dubbio non potrà forse essere documentato biograficamente in Holderlin, ma lo intuiamo in lui per interna inevitabile logica. Al punto che ci sembra di vedere in esso il nodo ispirativo originario dell’Emzpedokles. Cosî la soluzione proposta per il suo Empedocle dovette prima essere quella intravvista e scelta per sé: la disponibilità totale al sacrificio di sé, e anzitutto alla desolazione religiosa, al dolore mitico, alla solitudine, alla notte. Ma poi anche alla morte, forse alla morte dello spirito che non è escluso egli sentisse già incombere su di sé, o comunque alla consunzione progressiva di cui parla nella lettera a Susette, o addirittura al suicidio. Il sacro Tutto ricuperava cosî i suoi divini diritti sull’empio frazionismo individuali stico. È vero che questo « morire » era un « guadagno », come si ostina a pensare Holderlin, perché c’era a suo riguardo una promessa di resurrezione anche se impersonale. Ma era in realtà ed è, agli occhi d’un cristiano per il quale

v2.

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

la categoria della « persona » è ben superiore a quella della « natura », un orrido, barbaro, empio sacrificio umano che il divino ma impersonale Tutto della religione hòlderliniana reclamava da una persona umana, dimostrandosi in tal modo ben più alienante del Dio trascendente ch’esso rimpiazzava. A cosî duro prezzo Hélderlin doveva conquistarsi la pace interiore. Era il « Todesbund mit der Mutter Erde » (il patto di morte con la Madre Terra). La terra è divina non meno del cielo, è però la zona del destino, del dolore e della morte. E l’uomo è non meno divino dei « Celesti », ma appartenendo all’ordine terrestre del divino, è compartecipe dello stesso destino di dolore e di morte che egli dovrà deliberatamente assumere nella sua scelta. E tanto più prontamente e interamente quanto più il divino avrà avuto modo di realizzarsi in lui: « Ich weiss, es muss, - Was gottlich ist, hinab » (Lo so, è destino

- che ciò ch’è divino

perisca)?”.

« Natur! - Verginglicher deine Liebsten, denn andre!» (Natura! - Coloro che più ami periscono più degli altri!) 2. Offen gab Aperto donò Mein Herz, wie du, der ernsten Erde sicb, Il mio cuore, come te, alla terra severa se stesso, Der Leidenden, und oft in heilger Nacbt, Alla dolorosa, e spesso nella sacra tenebra della notte Gelobt ichs ibr, bis in den Tod Giurai a lei, fino alla morte, Die Schicksalvolle furchtlos treu zu lieben

Alla colma di destino impavido fedele amore ibre Ratsel keines zu verschmiaben. E rispetto per tutti i suoi enigmi. So kniipft ich meinen Todesbund mit ibr. Cosî stipulai con lei il mio patto di morte 33. Und

Abbiamo già visto come fu che Empedocle non tenne fede al « patto di morte ». Venuta l’ora sua egli « indugiò ». In quest’indugio la sua colpa. Anzi in quest’indugio il segno rivelatore d’una colpa interiore ben più grave: l’illegittima, 21 Ibidem, p. 121. 2 Ibidem, p. 163. 23 Ibidem, p. 91.

CRISTO

ED

EMPEDOCLE

7/5)

empia, monarchica autodeificazione. Solo un profeta ogni momento disposto al sacrificio supremo, sempre pronto a cancellarsi nell’immensità della santa Natura, può profetizzare davvero in nome di lei e non in nome proprio. La storia di quest’indugio è dunque importante nell’economia del dramma hélderliniano. Essa precisa inoltre che il « patto di morte » postulato da Holderlin per sé come per il suo profeta non è semplicemente l’accettazione da patte d’ogni uomo dell’universale destino di morte quando la morte comunque verrà, ma è una volontà di morte precoce e volontaria. E non soltanto in conseguenza di qualche singolare grande ragione (per la patria, per salvare una vita altrui), ma semplicemente per una dimostrazione di doverosa devozione alla divina Natura. Insomma il suicidio sacro sarebbe d’obbligo,

almeno qui, per Hélderlin. È per la verità, una barbara religione! Eppure i ritmi, le immagini, la sincerità e profondità lirica con cui Hélderlin canta qui e questo patto e questo suicidio non cessano d’incantarci. Come mai? È che questo canto vibra nel suo profondo dell’eco millenaria del mistero cristiano della resurrezione personale e dell’eterna rinascita. Solo segretamente sostenuto da quest’eco millenaria è possibile che il nostro poeta giunga a cantare di un suicida: Wobl gebt er festlich hinab. Certo egli va alla morte in festa. Und freudiger wirds und heller aucb. E tutto si fa più lieto, più luminoso. Warum denn traur ich? leuchtet, Perché allora mi rattristo? È l’alba,

Dimmernde Seele! Doch auch O anima in crepuscolo! Sf, anche colui Der Untergehende dir, Che deve morire a te, Der Ernste, dein Liebster, Natur! Cosî seria, il tuo prediletto, Natura! Dein Treuer, dein Opfer! o heilig AU! Il tuo fedele, la tua vittima! o Santo Tutto! Lebendiges! inniges! Dir zum Dank

O tutto vivente! intimo! A te in rendimento di grazie Und dass er zeuge von dir, du Todesloses!

E affinché egli generi da te, o Scevra di morte!

CAP. I - FRIEDRICH

74

HOELDERLIN

Wirft lichelnd seine Perlen ins Meer, Getta sorridendo le sue perle nel mare, Aus dem sie kamen, der Kiibne. Donde uscirono, l’audace 24.

E c’è in quel « lebendiges! inniges! » inoltre l’eco millenaria dell’interiorità personale d’un rapporto vivente con una divina personale interiorità. È necessario un ben brusco intervento della censura del sistema con il suo dogma raggelante della impersonalità del divino Tutto e della non-continuità personale delle sue rigenerazioni, per svegliarci dall’incantevole sogno di questa lirica, la cui magia sta nel trasfigurare a dispetto del sistema la divina Natura in una divina Persona.

3. - IL CRISTO

DEI

GRANDI

INNI.

Dopo l’Ermzpedokles, anzi dopo la notte del 31 dicembre 1798, come già s’è detto, la poesia di Hélderlin non ha più dimenticato Cristo. È la sua ultima ora, l’epoca dei grandi inni. Dopo essersi spinta più in alto che mai e dopo aver gettato i suoi pit vividi bagliori, di lî a quattro cinque anni la fiamma si spegne d’un tratto. Alcuni di questi inni, assai più lunghi in genere delle liriche anteriori, sono ancora ritmati nei prediletti metri greci, ma solo in esametri o in distici elegiaci. I più invece in metri del tutto liberi, di volta in volta imprevedibili, obbedienti all’ordine ineluttabile d’una nuova musica interiore ben più che al modello pindarico, come vorrebbero i critici. Vi dominano i versi brevi, rotti dove meno lo si aspetta, le forme condensate e sentenziose, un grande domi-

nio, anzi un grande pudore del sentimento, collegamenti lontani e rapidi, o a volte nessun collegamento ma lumi sparsi emergenti non si sa come dall’oscurità. Poi una strana calma, un’aria di mistero, una quasi disciplina arcani. Sono i novis-

sima hélderliniana, i sondaggi più profondi e i ritocchi più estremi ai contenuti della profezia holderliniana, uno spazio da sancta sanctorum che si apre ma ancora più si copre per sottrarsi ad eventuali profanazioni degli scettici e dei cinici. 24 Ibidem,

p. 170.

IL CRISTO

DEI

GRANDI

INNI

75.

Sono perciò inni non di rado ermetici, a volte incompleti e frammentari, con parole e versi interi lasciati in bianco, nella speranza, vana, di completarli. La loro ermeneutica è spesso ardua, e ci volle quel genio dell’interpretazione che è Romano Guardini per chiarire, con una chiarezza e una profondità a cui nessuno era giunto prima, parecchi loro enigmi. Sono per lo più sviluppi e approfondimenti del tutto coerenti con le tematiche anteriori. La sola, la grande novità è l’esplicito ritorno di Cristo con i drammi e le tensioni che tale ritorno implicava. Sono: « Brot und Wein », « Vers6hnender », « Der Einzige », « Patmos ». Ma bisognerebbe ag. giungervi i frammenti notevolissimi d’un inconcluso inno « An die Madonna » e quelli ahimé molto sibillini d’un inno ancora più inconcluso o sconclusionato: « Der Vatikan ». Tutti titoli cristiani, i due ultimi addirittura cattolici.

Il più compromettente, fin dal titolo, in vista di questo estremo ricupero ir fieri del cristianesimo, è « Der Einzige ». In esso Holderlin lotta, attraverso una vera e propria lirica agonica, per decidere che Cristo è ma anche non è ciò che dice il titolo: «l’Unico », cioè la Eccezione, il tutt’Altro, una manifestazione del Divino del tutto diversa. Tutti nodi del dramma per eccellenza religioso, il dramma della scelta o della conciliazione fra cristianesimo e paganesimo, dramma cominciato con la adolescenza di Holderlin, anzi cominciato con la adolescenza stessa del cristianesimo nei Padri greci e latini della Chiesa, e mai in seguito cessato: tutti i nodi, dicevamo, vengono scioglimento.

in quest’inno

al pettine e vi cercano

uno

Se è vera la nostra ipotesi che nella colpa ed espiazione di Empedocle sta con estremo pudore allusa la presunta colpa ed espiazione (secondo Hélderlin) di Cristo, bisogna dire che

quest’inno segna una svolta nuova circa il problema che quella colpa ed espiazione volevano porre e risolvere. La deificazione monarchico-monoteistica di Cristo fu colpa di Cristo stesso, diceva l’Emzpedokles; ora invece si dice: è colpa nostra che lo adoriamo. « È colpa mia propria », esclama per l’appunto Hélderlin: « Icb weiss es aber, eigene Schuld - Ists! Denn zu sehr, - O Christus! hing ich and dir » (Ma io lo so, colpa mia propria - È! Perché troppo. - O Cristo! io aderisco a te).

È il troppo amore del poeta per Cristo, è il troppo amore di tutti coloro che hanno aderito a lui, è questo no-

76

CAP. I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

stro amore assolutamente preferenziale che ha fatto di Cristo un Dio, non solo, ma l’unico Dio e Signore del cielo e della terra. Ecco anticipato ciò che con i termini in uso presso pit recenti teorie si chiama la distinzione fra il « vero » Cristo della realtà o della storia e il « fantastico » 0 « mitico » Cristo della fede. Invece Cristo è divino sî, ma non più di quanto lo siano gli altri Dei. Egli è « fratello di Eracle » e di Dioniso: « Und kiibn bekenne ich, du - Bist Bruder auch des Eviers » (E audacemente io confesso, tu - Sei fratello anche di Bacco), che (cosî continuano i versi) aggiogò la tigre al carro e fino

alle regioni dell’Indo istituf la vite e domò la ferocia dei popoli: [...] So sind jene sich gleich [...]. Herrlich griinet Ein Kleeblatt[...] Immerdar - Bleibt dies, dass immergekettet alltag ganz ist die Welt » (Cosî quei [tre] sono eguali [...]. Splendido verdeggia - Un Trifoglio [...] Eternamente - Resta vero che sempre concatenato ogni giorno tutto è il mondo). Aveva detto la stessa cosa in altre parole nella lettera

sopra citata, la lettera della sua ribellione al principio monarchico, falso « in terra come in cielo ». « Eppure spesso sembra » cosî continuano i versi citati, « che un grande non possa valere (gelten) insieme a un altro grande ». Sembra, è solo un’apparenza. In realtà « essi stanno, anche se divisi da un abisso, l’uno vicino all’altro ». Il poeta qui è sicuro che Cristo non ha mai voluto distinguersi: « Christus bescheidet sich selbst », « Cristo limita se stesso », contento d’essere uno dei tre dello « splendido Trifoglio ». Anzi è sicuro che neppure « il Padre che l’ha generato » ha mai voluto distinguersi, il Padre stesso « non regna mai da solo ». Eppure quest’inno inizia con la ricerca di Cristo come davvero l’Unico, il preferito, come « la gemma della casa degli Dei », e tale preferenza non si placa neppure alla fine. RR strofa, per esempio, è d’una commozione irrefrenabile: Ibr alten Gotter und all Voi Dei antichi e tutti Ibr tapfern Sobne der Gotter, Voi audaci figli degli Dei, Noch Einem such ich, den Uno ancora io cerco, che Ich liebe unter eucbh, Io amo fra voi,

IL CRISTO

DEI GRANDI

INNI

717

Wo ibr den Letzten euren Geschlechts Là dove voi l’ultimo della vostra stirpe Des Hauses Kleinod, mir, La gemma della casa, a me, Dem fremden Gaste, verbirgt.

All’ospite straniero, nascondete. Mein

Meister und Herr! Mio Maestro e Signore! O du mein Lebrer! E tu mio precettore! Was bist du ferne Perché

sei rimasto

Geblieben? und da Lontano? e quando Ich fragte unter den Alten, Io interrogavo gli antichi, Die Helden und Gli eroi e Die Gotter, warum

bliebest

Gli Dei, perché sei rimasto Du aus? Fuori?

Ma ecco sul finire, dopo avere sconfessato pet tutto il corpo dell’inno il suo eccessivo amore per Cristo, ancora una controconfessione d’amore preferenziale: «Es hanget aber an Einem

- Die Liebe » (Ma aderisce a Uno - L’amore). Lo

slancio del cuore l’ha trasportato oltre la sacra misura. È la sua colpa, « Der Febl », l’errore di questo suo canto che ora promette comunque di « gut zzachen », di riparare « cantando un’altra volta anche degli altri ». « Un Dio sa ciò che io bramo: l’ottimo (« das Beste ») ». Quest’ « ottimo », oltre ogni particolare amore e desiderio desiderato da Hòlderlin, già lo sappiamo, è la sacra divina unità di tutto e di tutti, cose, uomini e Dei.

È la preoccupazione davvero singolare, ossessiva, la commovente angoscia di tutti questi inni cristologici: che Cristo non eclissi gli altri Dei, che la grande unità della santa Natura non sia infranta. « Brot und Wein », dopo aver cantato del pane e del vino eucaristici e dunque di Cristo, subito canta del pane e del vino naturali e dunque di Bacco. Il concetto d’un Cristo e d’una religione soprannaturali sarebbero

CAP. I - FRIEDRICH HOELDERLIN

78

per Holderlin un attentato sacrilego contro la santa Natura. Anche in « Vers6lmender » che canta di Cristo come del « conciliatore » per eccellenza, si preoccupa a più riprese che « accanto a lui ci siano anche gli altri, allo stesso modo che lo stesso Dio degli Dei deve essere lui pure uno fra gli altri ». Vana infatti sarebbe una conciliazione fra gli Dei o una pace fra le cose e gli uomini, se non ne esistesse una anche nel nostro culto per essi. E cosî (è la finale dell’inno): Gonnest

uns, den Sobnen

der liebenden

Erde,

Consenti a noi, ai figli della terra amorosa, Dass wir [...] sie alle feiern und nicht Di festeggiarli tutti e di non Die Gotter ziblen. Einer ist immer fiir alle. contarli gli Dei. Uno è sempre per tutti.

E anche « Patmos », dove pure l’immagine di Cristo domina pressoché assoluta, conclude con un analogo avvertimento: « Mai ha portato bene quando qualcuno dei Celesti viene trascurato ». Il conflitto, dunque, fra l’Unico e il Tutto sembra chiu-

dersi con una vittoria un’altra volta del Tutto. Ma non è ancora l’ultima parola. Rivendicata e assicurata la democratica ugualitarietà del Divino, Hélderlin si muove in questi inni alla ricerca del tipico, del diverso che è in Cristo rispetto agli altri, agli altri due del sacro Trifoglio soprattutto. E qui colpisce assai anzitutto « un pudore », eine Scham, un ritegno, che il poeta confessa di provare, immediatamente dopo l’« audace » confessione della completa fraternità fra Cristo, Eracle e Bacco, per aver allineato Cristo con i due detti: « Es hindert aber eine Scham - Mich, dir zu vergleichen - Die weltlichen Minner » (Ma un pudore mi impedisce - Di paragonare a te - Gli eroi mondani). Qui si rende necessario un inciso. « Die weltlichen Minner » sono, com’è chiaro anche solo dal contesto, Eracle (o Ercole) e Dioniso (o Bacco). Essi sono ”’’Ménner” (in latino: viri, maschi eroi), perché d’origine, oltre che divina, umana, perché esseri umano-divini, teandrici. In questo senso una loro analogia con Cristo (sia detto anche da parte nostra con « pudore ») è evidente. Sono tutti e tre « Feldberrn » (condottieri), « Heroen », « Himnlische » (celesti) « und Menschen » (e uomini) « insieme e per sempre ». Una differenza

IL CRISTO

DEI GRANDI

INNI

79

non contemplata da Hélderlin, che non distingue mai troppo fra « storico » e « mitico », sarebbe che Cristo è storico e gli altri due mitici. Ma è molto presumibile che nella lontana preistoria da cui trae origine il loro diffusissimo culto in Oriente, in Grecia e in Roma,

siano storicamente

esistiti uo-

mini eccezionali con prerogative e con gesta che poi la memoria leggendaria ha mitizzato e condensato nelle due figure teandriche di Eracle e di Dioniso. La civiltà, per sorgere, ha avuto bisogno di uomini capaci di dominare le forze mostruose e feroci della natura, di creare ordine nel caos (Eracle e le sue fatiche); e capaci poi di ammansire, accordare, pacificare gli uomini tra loro, di addolcire l’elemento selvaggio umano stesso, inventando le culture stabili, comunitarie e tranquille (della vite e dei cereali, per esempio, ed ecco Dioniso). Dall’ebbrezza conviviale del vino, facile è il passo all’ebbrezza ispirativa del poeta e cosi Dioniso con il suo dionisismo sta all’origine anche della tragedia greca con i suoi conati di riconciliazione della vita e della morte, degli uomini e degli Dei. Dionisismo significa dominio del Tutto sul singolo, dissolvimento del finito nell’infinito, assorbi-

mento della vita nella morte. Nessuna meraviglia dunque se in tutta l’antichità orientale-greco-romana Eracle sia stato venerato come « Salvatore » e Dioniso come « Ispiratore ». Vero è che poi, nelle forme degenerative del mito e del culto e nella commedia greco-romana, anche queste due divinità sono degenerate. Ma, come si sa, Holderlin non ha occhi che per gli aspetti positivi e nobili della sua Grecia e dei suoi Dei o Semidei. Eppure c’è ancora in lui « un ritegno » non vinto mentre

paragona senz’altro la loro teandria alla teandria di Cristo. Devono esistere allora fra i tre differenze tali per cui Cristo possa e debba essere ancora chiamato « Unico ». Non basta per questo a Holderlin la loro commovente caratteristica comune che fa di ciascuno dei tre del Trifoglio gli unici Dei che siano insieme « Celesti » e « Terrestri », le uniche « divinità salvatrici », le uniche destinate alla terra e all’uomo, al loro dolore e al loro destino tragico, le uniche « consapevoli »

dell’uomo e partecipi dell’umana condizione, mentre tutti gli altri Dei, i soltanto « Celesti » come il « sole », la « luna » e le « stelle », sono « wob/ wenig bekiimmert um uns» (ben poco si curano di noi), come ancora canta « Brot und Wein »,

quantomeno

in questa nostra

epoca della fuga degli Dei e

CAP.

80

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

della notte del divino. In questo senso « schon und lieblich ist es zu vergleichen » (è bello e amabile paragonarli tra loro). Eppure c'è qualcosa per cui Cristo è da più di loro. La prima distinzione è già implicata in quel « weltlich », in quel « mondani », l’aggettivo che qualifica qui Eracle e Dioniso, ma che è insieme la ragione del pudore e del ritegno di cui s'è detto. Siccome però anche Cristo, in quanto anch'egli Dio e uomo, è in qualche modo « weltlich », questa ragione dev'essere interpretata nel senso che gli altri due sono troppo « weltlich » e cioè troppo poco « hizzzzlisch » o divini. Cristo invece sembra qui a Hélderlin meno « weltlich » e più « himmzlisch ». Ma in che modo? Il modo viene specificato anzitutto nei tre versi seguenti. E anche qui c’è una parola assai forte che rende conto della reiterata drammatica oscil lazione su cui è costruito tutto quest’inno: « Der Streît », la contesa, anzi dal contesto, la sfida. È tutto un avvicendarsi incalzante di colpa e controcolpa, di audacia e controaudacia. Dopo l’audacia che ha affratellato Cristo a Eracle e a Dioniso, l’audacia che lo contraddistingue, l’audacia da cui Holderlin si sente ora «tentato »: « Der Streit ist aber, der mich Versuchet, dieser, dass aus Not als Sobne Gottes - Die Zeichen jene an sich haben [...] - Christus aber bescheidet sich selbst » (Ma la sfida che mi - Tenta è questa, che da necessità

quelli hanno - I segni su di sé di figli di Dio [...] - Invece Cristo

limita

se stesso).

Cristo dunque è libero nella scelta del tragico limite della esistenza terrestre, quelli non sono liberi. Il passo è frammentario e la differenza non viene spiegata, non è comunque una piccola differenza. Ma la spiegazione di tale libera autodelimitazione di Cristo si ha, cosi almeno sembra a noi, nell’inno precedente, nel « Versohnender ». Essa consiste nella « gozzliche Schonung», nel « divino riguardo » che il Dio che è in Cristo ha per noi uomini. È del resto il « divino riguardo » che tutti i Celesti hanno per noi. Se la loro divinità brillasse senza veli ai nostri occhi, i nostri occhi resterebbero accecati, tutto il nostro essere anzi sarebbe distrutto dalla divina fiamma. Perciò i Celesti si tengono lontani da noi, rifuggono dal farsi « vertraut », confidenziali con noi, « solo per un istante tocca un Dio, inavvertito, le abitazioni dell’uomo con riguardo, sempre attento alla misura ». Per questo è per noi cosî « difficile afferrarlo ».

IL CRISTO

DEI

GRANDI

INNI

81

Siamo pronti a giurare che Rainer Maria Rilke aveva nella memoria Holderlin quando iniziava le sue Elegie di Duino in questi

termini:

Wer, wenn ich schriee, horte mich denn aus der Engel Chi, se io gridassi, mi udirebbe degli ordini

Ordnungen? und gesetzt selbst, es nibme Degli Angeli? E supposto pure che uno Einer mich plotzlich ans Herz: ich verginge von seinem Mi afferrasse d’improvviso al cuore: io perirei per la sua Stirkeren Dasein [...]. Es gelassen verschmibt, Esistenza troppo forte [...]. Tranquillo egli sdegna Uns zu zerstoren. Di distruggerci.

Precisamente cosî fece Cristo, il più celeste e il più divino dei tre Dei salvatori apparsi sulla terra: si è velato, si è limitato deliberatamente per riguardo a noi. Egli è perciò: «immer grosser denn sein Feld» (sempre più grande del suo campo d’azione). Per riguardo a noi, ma — e l’aggiunta è l’obbligo nonché importantissima — anche per non voler essere da più degli altri Dei terrestri. Ecco dunque una nuova soluzione! Cristo è Unico, è da più, ma or vuole esserlo. Egli ha rinunciato alle sue superiori prerogative. Ha « limitato » liberamente se stesso. Ha voluto essere « eizer der anderen » (uno fra gli altri). Continua l’opera degli altri e lascia che altri ancora continuino l’opera sua. Cosî egli appare « Geringer und grosser » (più piccolo e più grande) (« Vers6hnender »). Nell’intuizione di questa specie di divina cavalleria di cui si contrassegna agli occhi di Holderlin Cristo, ma anche « il Padre che l’ha generato », si placa quantomai, cosî a noi sembra, l’estremo dramma religioso del poeta. Ma noi crediamo che questo sia da sempre uno dei drammi religiosi più radicali e decisivi, più raffinati e nobili che uomo possa attraversare. Siano quasi, con le ultime ammissioni, al concetto della « kezosis» paolina: exinanivit semetipsum. Se però si è giunti ad accettare per autentico il sublime paradosso che chi è più divino, più si dona, chi più è signore più si fa servo, chi più è autenticamente in alto più si umilia per amore, chi più è trascendente più diviene, per libera autodelimitazione,

immanente

ossia incarnato,

che cosa

occorre

ancora

CAP.

82

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

per accettare tutto intero il paradosso sublime della concezione cristiana di Dio? Nella presa di coscienza d’una divina cavalleria in Cristo si placa però anche e in modo definitivo, cosî a noi pare, la « grande mestizia » di Holderlin, il «Trazern » di cui si riempie la sua anima, quando lo coglie il sospetto d’una « rivalità » che si scatena o che vige tra gli stessi Celesti, in quanto anche fra essi ciascuno forse mira a primeggiare:

Von

Und jetzt ist voll Ed ora è colma meine Seele,

Trauern Di mestizia la mia anima, Als eifertet ibr Himmlischen selbst,

Come se voi Celesti stessi rivaleggiaste, Dass, dien ich einem, mir Cosî che, se a uno presto il mio Das andere feblt. Mi viene meno l’altro.

servizio,

Tale sarebbe per Holderlin, almeno secondo la nostra interpretazione dell’Emzpedokles, la colpa forse di Cristo. Torna dunque quantomeno il sospetto che la deificazione monarchico-monoteistica, massima colpa nella religione hélderliniana, non sia colpa nostra ma degli stessi Dei, dunque anche di Cristo. Questo è un altro segno a favore di quella nostra interpretazione. E Holderlin ha un bell’asserire ad alta voce, qui nell’« Einziger », che è colpa invece sua: la grande mestizia e il grande sospetto ritornano un’altra volta e con angoscia nell’inno « An die Madonna », dove la Madonna, madre di Cristo, è invocata affinché plachi, come si conviene a una madre, l’invidia sotto qualsiasi forma. La forma d’invidia di cui l’inno tematicamente tratta è bensî quella fra i padri e i figli, la vecchia e la nuova età, il vecchio regime e il nuovo che Holderlin annunzia. La madre, a cui sempre piace che i suoi figli siano più grandi di lei, è il nume tutelare della concordia fra i vecchi e i giovani. La Madonna poi è la madre di quel Dio che è « onniobliante amore ». Tuttavia c'è una strofa in cui proprio la Madre di Cristo viene dal poeta eletta a salvaguardia d’un culto che possa includere insieme a lei e a suo Figlio « anche gli altri », affinché gli Dei invidiosi non ci strappino dalle mani violentemente ciò che spetta anche a loro:

IL

CRISTO

DEI

GRANDI

INNI

83

[...] «nd Heiden purpurn bliibn [...] e campi purpurei fioriscono Und dunkle Quellen E oscure sorgenti o Madonna und A te, o Madonna e Dem Sobne, aber den anderen aucb, Al Figlio, ma anche agli altri, Dir,

Damit nicht, als von Knechten, Affinché, come a schiavi, non

Mit Gewalt das ibre nebmen Con violenza ci strappino Die Gotter. Gli Dei.

il proprio

Questo inno alla Madonna è di tutti il più accorato, il più colmo di malinconia, ma anche di abbandono. È un inno a singhiozzo, anche per i molti versi e le molte parole in bianco. Sembra davvero l’ultimo grido, l’ultimo appiglio d’un naufrago. Vi si invoca la Madre del Conciliatore, quasi a scongiurare l’ultimo dubbio circa proprio il Conciliatore. Non è però una soluzione cristianamente ortodossa del grande dramma hélderliniano. Gli «Dei» vi persistono ancora, inamovibili; gli Dei, ossia la radicale santità della Natura. La Madonna stessa è una « Celeste» (Hizmzzlische), una « Dea », dunque lei pure, è dello stesso ordine del Figlio e degli altri Dei, ossia dell’ordine della divina Natura. Il paganesimo holderliniano vi appare anzi quasi più irremovibile che negli inni anteriori. Ma l’inno stesso ce ne tradisce il vero, ultimo perché. È sempre l’incrollabile, inguaribile, assoluto ottimismo hélderliniano, il quale trova proprio qui una delle sue formulazioni più assiomatiche: « Nichts ist, das Bose » (Il Male: è niente).

- PATMOS.

« Patmos » è « l’inno pit potente di Holderlin » , Ed è il più lungo e il più cristologico degli inni cristologici. Quasi un Evangelium secundum Hélderlin. Vi si evocano alcuni dei 2 L. MirtNER, PAaazo2:

Storia

della

letteratura

tedesca,

Torino

1964,

84

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

più importanti « misteri » dell’esistenza di Cristo: Gest e la

Samaritana, l’ultima Cena, la Passione, la Resurrezione, Emmaus, la Pentecoste, l’Ascensione, la promessa della Parusia. Vi si evocano nella forma narrativo-visionaria consueta a Hòlderlin, con gli arbitri che un visionario può permettersi, ma anche con gli arbîtri che non potrebbe permettersi un interprete dell’Evangelium secundum Johannem, quale il nostro

poeta profetico vorrebbe qui essere. È il Cristo visto infatti da Patmos, l’isola dell’esilio di Giovanni, l’isola greca alle porte dell'Asia ellenica, uno dei luoghi del fatidico incontro tra ellenismo e cristianesimo, l’incontro in cui è ora appassionatamente impegnato appunto Holderlin. Dopo aver invocato gli elementi mitici della conciliazione, « ali » che possano congiungere « gli amanti che languono su monti divisissimi » e « acqua innocente » che unisca le rive e i continenti, un raptus rapisce il poeta verso oriente, precisamente a Patmos,

aspra e povera, ma ospitale per il visitatore o anche per il naufrago straniero che vi approda come un giorno vi era approdato «il figlio del tuono », Giovanni l’evangelista. Lo straniero ospite è qui un «gentile » chiamato al Regno di Dio, è il pagano Holderlin stesso, che ritorna riconciliato al

cristianesimo.

Ma

è questo

il cristianesimo?

È questo

il

Cristo? Non lo è, ma questa incorporazione di Cristo e della sua missione nel paganesimo mitico è d’un’indubbia genialità, anzi d’una commozione e d’un fascino autentici. Hélderlin aveva già nell’« Einzige » vergato nel più lapidario dei modi la definizione del suo Cristo: « Christus ist das Ende » (Cristo è la Fine). All’incirca con l’avvento del cristianesimo finisce infatti storicamente la civiltà ellenica, la grande stagione del Divino secondo Holderlin, il grande Giorno degli Dei, e comincia la fuga degli Dei, la lunga Notte del Divino sul mondo che si prolunga ininterrotta fino a lui. Inutile obiettare che dopo in realtà sono esistite altre grandi civiltà, la cristianobizantina, la araba, la cattolico-mediovale, la rinascimentale,

la barocca. Egli non le ha minimamente viste, tanto l’ha subito abbagliato quella greca. Cristo e il cristianesimo hanno posto dunque fine alla Grecia, pensa Hélderlin, il che però non è in lui un’accusa. È tutt’al più un lamento, una rassegnazione; è anzi in fondo in fondo una approvazione incondizionata.

Dopo la grande « diastole » ellenica della divina Natura doveva verificarsi una « sistole »: necessaria non solo, ma

PATMOS

85

benedetta, benefica, provvidenziale, per quanto inesprimibilmente dolorosa. Abbiamo già riferito dei grandi perché. Dovendo dunque, in forza dei ritmi divini, scendere questa Notte, « il Padre », «il Dio degli Dei» (la divina Natura stessa, cioè) ha mandato il Figlio sulla terra ad annunciare tale Notte, a confortare gli uomini lungo tutta la sua durata, a promettere loro un giorno una nuova Parusia divina. Il Cristo hélderliniano non inaugura dunque il Regno di Dio, ma lo chiude, pur predicendone la certa restituzione. In altri termini egli è l’ultimo degli Dei apparso e vissuto sulla terra, ma è stato un Dio al massimo velato, null’altro che uomo all’apparenza, null’altro che terrestre. In lui il Divino è stato quanto mai vicino a noi, ma insieme quanto mai inafferrabile. È il Divino in quanto avvolto dalla Notte, il Divino come esiste durante il lungo divario che separa l’antica dalla nuova Grecia, la Germania del sogno di Hélderlin. Questo sembra decisamente il senso dei due misteriosi versi che iniziano « Patmos » (nonché, come vedremo, dell’ultimo non meno misterioso): Nab ist Vicino è Und schwer zu fassen der Gott. E difficile da afferrare il Dio.

Un Dio svelato e del tutto afferrabile da noi sarebbe, per ora che l’uomo è divenuto cosî debole, troppo forte, abbacinante, intollerabile. Cristo dunque è veramente un invisibile « Dio con noi », un Deus absconditus, come anche Isaia, vaticinandolo, l’ha chiamato; con noi quando visse e poi morf, e con noi in qualche modo ora, in ciò ch'egli ci ha lasciato di sé: « abissi di sapienza » nel suo Vangelo, e nella sua Eucaristia « viventi immagini » di lui e del Divino che ancora « brillano nell’oscurità ». È la sola nostra consolazione per ora: Freude war es Gioia fu Von

nun

an,

D'ora in poi, Zu wobnen in liebender Nacht, und bewahbren Abitare in amorosa notte, e custodire In einfiltigen Augen, unverwandt, Negli occhi semplici, senza mutamento,

CAP.

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Abgriinde der Abissi di Tief and den Al fondo

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

Weisheit. Und es griinen sapienza. E verdeggiano Bergen auch lebendige Bilder. dei monti ancora viventi immagini.

Nella notte mitica gli le loro immagini, è rimasta, la loro traccia, « die Spur per ora « vivere è sognare

Dei sonno assenti, ma sono rimaste come si dice in « Brot und Wein », der entflohenen Gòtter », cosicché di loro ». Quali immagini? Si deve rispondere che esse sono anzitutto « il pane e il vino » dell'Eucaristia cristiana. Come canta una celebre strofa appunto di « Brot und Wein », quando Cristo, « stiller Genius, himmlisch tròstend » (genio di pace celestemente confortando) nella Notte, apparve, «il coro celeste ci ha lasciato alcuni doni quale segno che Egli un giorno c’è stato e che un giorno ritornerà »: doni Derer menschlich,

wie sonst, wir uns zu freuen vermochten,

Di cui alla consueta Denn

zur Freuden,

Giacché

umana

maniera

noi potessimo

godere,

mit Geist, wiirde das Groòssre zu gross

le gioie maggiori

Unter den Menschen,

dello spirito divennero

eccessive

und noch, noch feblen die Starken

zu

[bòchsten Agli uomini, e ancora, ancora mancano i forti per le massime Freuden, aber es lebt stille noch einiger Dank. Gioie, ma ancora vive tranquillo qualche rendimento di [grazie. Brot ist der Erde Frucht, doch ist vom Lichte gesegnet, Il pane è il frutto della terra, ma è dalla luce benedetto, Und vom donnernden Gott kommet die Freude des Weins. E dal Dio tonante viene la gioia del vino. Darum

denken

wir auch dabei der Himmlischen,

Perciò noi ricordiamo anche qui i Celesti, Da gewesen und die kebren in richtiger Zeit. C'erano e che tornano nell’ora prescritta.

Qui s’intende evidentemente

die sonst

che un

giorno

l’Eucaristia cristiana, ma è

in tutto e per tutto una eucaristia naturale. Sono semplicemente il pane e il vino naturali delle nostre mense, frutto della terra e insieme dono del cielo, della luce e insieme del

tuono (della pioggia) che vengono dal cielo materiale ma sempre anche mitico e divino in Hélderlin: doni della Madre

PATMOS

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Terra e del Padre Etere, vale a dire della divina Natura. Del Pane e del Vino sovrannaturali, segno e presenza del Cristo Dio, che divinizzano l’uomo che se ne nutre, neanche l’idea. Sarebbe stata una idea sacrilega! Lo stesso pane e vino naturali che qui s'intendono non sono forse neanche ciò che la concezione cristiana pure intende: doni e immagini del Dio creatore e autore della natura. Sono però quantomeno «immagini viventi » del Divino, e come immagini sono un suo ricordo e una sua promessa. Ecco un’altra categoria cristiana immanentizzata: l’eucaristia come « memoria » e

come « attesa » ma degli Dei. Anche di Cristo, ma come uno di loro. Nel seguito di « Brot und Wein », infatti, la figura di Cristo viene appaiata e poi letteralmente dissolta in quella di Dioniso, del Dio del vino. Ma anche « Patmos » conclude con l'immancabile riassorbimento di Cristo nella egualitaria comunità dei « Celesti ». C'è un solo mistero del pane e del vino, e delle altre cose della terra e del cielo, quello naturale. Perché tutte queste cose sono buone, sacre e salve per se stesse, ossia per la divina Natura che le sostanzia tutte. « Derz alles ist gut »: ecco anche qui in « Patmos » la formula che riepiloga tutto Holderlin e in cui sta pure tutta la consolazione di Cristo. Il Cristo héòlderliniano dunque non salva nulla e nessuno, ma semplicemente consola ricordando che tutto è già radicalmente salvo, radicalmente « buono ». Ma noi sentiamo che tutto quest’inno è inoltre percorso da una segreta corrente allusiva d’un rapporto strettissimo che Holderlin vede sussistere fra Cristo e se stesso. È la corrente che emerge tutt’a un tratto, nell’ultimo verso e in una forma che a molti lettori risulterà non solo sorprendente, ma ibrida, urtante e dissonante: «Dem folgt deutscher Gesang ». A [tutto] ciò segue canto tedesco.

Che cos’è e di chi è questo canto, cioè questa poesia, questa poesia-profezia fedesca che consegue alla vicenda di Cristo, all’era cristiana inaugurata da Cristo, all’era cioè della mitica notte del Divino velato di cui « Patmos » interpreta gli enigmi? Dopo quanto è stato detto fin qui non sembra in realtà ormai difficile una risposta. È la poesia stessa di Holderlin. Di Hélderlin che si è sentito chiamato ad annunciare la fine della Notte e il ritorno del Giorno. La sua poesia

CAP.

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I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

è la profezia esattamente inversa a quella del suo Cristo, ed egli stesso è un Cristo che ritorna per avvertire che gli Dei pure stanno ritornando e che bisogna preparare loro la via; e per avvertire che essi hanno scelto la Germania come prima terra del loro approdo. Il suo canto è perciò tedesco non solo perché egli è tedesco e tedesca è la lingua della sua poesia ma perché tedesco è il contenuto vivente del suo canto profetico: la Germania come Grecia rediviva. E non crediamo di esagerare se pensiamo che è lui, Holderlin, quel « Cristo » che, sempre nel nostro inno Die Toten wecket I morti egli Er auf, die noch gefangen nicht Suscita, che non sono ancora imprigionati Vom Roben sind ... Nella barbarie ...

e che è lui, Hélderlin, quell’« Uno » che sta sotto il segno del cielo, il segno che annuncia la nuova divina era del mondo: StHill ist sein Zeichen Tranquillo è il suo segno Am donnernden Himmel. Und Einer stebet darunter Nel cielo tonante. Ed Uno sta là sotto Sein Leben lang. Denn noch lebt Christus.

Da quando vive. Giacché Cristo vive ancora.

E crediamo che sia lui, Holderlin, il primo di quei « forti » di cui qui si parla, capaci di affrontare la divinità in procinto di svelarsi e di reggere alla grande gioia che ne scaturisce; un forte inviato a suscitare altri forti. E questo che noi crediamo circa la consapevolezza messianica di Hélderlin è ciò su cui quest’inno a un certo punto si dichiara esplicitamente reticente per non esporsi al fraintendimento irriverente degli scettici, dei furbi e dei servili. Ma quel « deutscher Gesang » l’ha tradito.

5. - UNO

SPIRAGLIO.

Lo spiraglio che il primo dei grandi inni cristologici sembrava avesse aperto (con il Cristo contraddistinto fra gli Dei dal fatto che egli è il solo, der Einzige, che liberamente

UNO

SPIRAGLIO

« delimita

se stesso ») torna

89

a chiudersi

ermeticamente

con

« Patmos », ultimo inno cristologico: Vana è l’impressione di coloro che hanno creduto di ravvisare in questi inni un ritorno dell’apostata a Cristo. Certo è solo che riarde in essi per il poeta il dramma d’una estrema opzione fra paganesimo e cristianesimo. Ma è pure certo che il dramma approda non a una conciliazione fra i due (come Hòolderlin forse s’illudeva),

bensi a una fatale risoluzione del cristianesimo di nuovo in un perfetto monismo panteistico. Vano è ancora, come il Guardini ben dimostra, sperare di poter interpretare monoteisticamente certi insoliti nominativi o appellativi di Dio che compaiono con una notevole novità e insistenza nell’ultima fase, come: «Der grosse

Vater » (il grande Padre) di cui il poeta dice di aver « a lungo taciuto finora » (in « Heimkunft ») o « Der unsichtbare, der namenlose, der neue Gott» (il Dio invisibile, innominato, nuovo), o « Der Gotter Gott» (il Dio degli Dei), « Der Hochste » (l’Altissimo), « Der ewige Vater » (l'eterno Padre)

e in un contesto dove Cristo è supposto o definito suo « Figlio ». Sono tutte formule interpretabili benissimo in senso politeistico o panteistico. Invece la vera sorpresa, la vera grande novità si annuncia in alcuni altri testi dell’estrema fase o della follia incipiente. Il primo è un frammento d’un inno lacunosissimo e molto strano fin dal titolo: « Der Vatikan », dove si narra d’una specie di viaggio in Italia e a Roma. Sorprende non poco

leggervi Hélderlin ammonire a un certo punto di « custodire Dio in purezza e con distinzione » (Gotf rein und mit Unterscheidung - Bewahren), « affinché non sorga il giudizio di Dio su qualche fallo del segno ». Ma l’ammonimento continuo di Holderlin, anzi la sua sacra continua passione, non era stata finora quella di urire il Divino con tutto il resto, invece che di distinguerlo? Ecco il secondo testo: Was ist der Menschen Leben? Ein Bild der Gottheit.

Che cos’è la vita umana? Wie

Un’immagine

della divinità.

unter dem Himmel wandern die Irdischen alle, seben Mentre i terrestri tutti vanno sotto il cielo, essi

Sie diesen. Lesend aber gleichsam, wie Lo vedono. Ma leggendo, per cosî dire, come

CAP.

90

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

In einer Schrift, die Unendlichkeit nachabnen und den Reichtum In uno scritto, indovinano l’infinità e la ricchezza Menschen. uomini.

Indovinano l’infinità e la ricchezza di chi? Non del cielo, perché il cielo lo vedono, lo leggono direttamente. Dunque della divinità che è dopo (nach-ahnen), cioè oltre il cielo, da questo distinta. Ed ecco il terzo: Was ist Gott?

unbekanni,

dennoch

Che cosa è Dio? Ignoto, tuttavia Voll Eigenschaften ist das Angesicht Piena di proprietà di lui è Des

Himmels von ibm. La faccia del cielo.

Di nuovo il cielo e Dio: distinti! In un altro testo ancora si parla della bellezza dei bambini come d’un « Gottes Ebenbild » (d’un riflesso di Dio). Ora c’è in questi estremi testi, se non erriamo, una novità enorme. Il cielo, la vita dell’uomo, il viso d’un bambino sono diventati simboli di Dio. Si notino i termini sinonimi ricorrenti: Zeichen, Bild, Ebenbild (segno, immagine, riflesso). Si noti ancora

l’avvertimento

già citato a mon

sbagliare quanto

al segno, pena il giudizio di Dio. Lo sbaglio consiste nel non distinguere nitidamente Dio dal suo segno, Dio dai segni di Dio, e cioè nel non distinguere Dio dal cielo, dall'uomo e dalle altre cose. Ma questo non è stato precisamente il grande continuo sbaglio di Holderlin, la cui invariabile, ostinata tendenza fu, dal giorno della sua apostasia dal cristianesimo, quella di identificare? Per esempio il cielo con il Dio Etere e l’uomo con la divina Natura? La conclusione ci sembra d’obbligo: Ho/derlin stava, in quest’estrema fase, riconvertendo le sue identificazioni in simbologie. Il che vuol dire, stava accostandosi a una concezione trascendente della divinità, alla concezione biblico-cristiana. Vi si accostava con il radicale mutamento della sua tecnica espressiva, che vuol dire: della sua gnoseologia del Divino. In simili contesti si può essere autorizzati a contestare l'equivoco dei critici circa il senso del celebre ultimo verso

UNO

SPIRAGLIO

di « Mnemosyne » che è pure Holderlin:

91

una

delle ultime poesie di

Ein Zeichen sind wir, deutungslos. « Un segno noi siamo» ma non

«senza

significato »

come si è soliti tradurre forzando il senso normale di « Deutung » che dice « interpretazione », bensi « senza interpretazione »: ossia dal significato ignoto (a noi) e non inesistente, che sarebbe oltretutto anche una contraddizione in termini. La riconversione, appena iniziata, viene interrotta dalla follia. Sulla follia di Hélderlin, sulle sue cause e sui suoi contenuti, scarseggiano, come è risaputo, le informazioni e

abbondano gli enigmi. Tanto che le ipotesi più ardite sono

ancota possibili. Recentemente un autorevole germanista francese, Pierre Bertaux, ordinario di letteratura tedesca alla Sorbona, in una conferenza alla Holderlin-Gasellschaft (« Frankfurter Allgemeine

Zeitung », 6 agosto 1968), ha avallato l’ipotesi che la pazzia di Hoderlin sia stata inventata dai suoi parenti per sottrarre il poeta alle rappresaglie della polizia wirtenberghese, la quale avrebbe scoperta una congiura ordita da Héolderlin e dal suo amico scozzese Sinclair allo scopo di uccidere il granduca e di instaurare una Repubblica nel Wurtenberg. La pietosa invenzione dei parenti si sarebbe poi realmente trasformata in realtà, nel prigioniero della torre detta a tutt'oggi di H6lderlin, come conseguenza dello choc subito nell’arresto. Ipotesi per ipotesi, non pensiamo sia del tutto infondata neppure questa che noi proponiamo a conclusione del presente studio. Poco prima della follia (o nell’intervallo ancora lucido fra la follia inventata e quella reale?) l’ebbrezza monistica di Holderlin trovava il tempo di svanire per un momento ritrovando l’equilibrio in una sobria concezione dualistica di distinzione fra piano antropocosmologico e piano divino. Egli superava cosî, in un intervallo di lucidità fra ebbrezza e follia, un estremismo in cui per reazione l’aveva gettato un altro estremismo opposto nella sua adolescenza: quello del pessimismo antropocosmologico protestantico, aggravato da un razionalismo che gli arrivava insieme dalla teologia luterana del tempo e dall’illuminismo, o senz’altro da una teologia ormai illuministizzata. Da una concezione pessimistico-razionalistica della realtà antropocosmologica che con-

testava all'uomo e al mondo ogni valore sacrale (perché fota-

92

CAP.

I - FRIEDRICH

HOELDERLIN

liter corrupti) e dunque anche ogni carica sacralmente semantica in ordine alla Divinità, Holderlin era passato per estrema reazione a una concezione del tutto sacrale dell’uomo e del mondo, a identificare piano antropocosmologico e piano divino. Con l’equilibrio toccato in extrezzis i due piani tornavano

a dividersi, ma l’uno conservava

tutta la validità di

segno, di simbolo, d’immagine dell’altro. L’uomo non era più un dio, ma un « segno » di Dio in attesa del suo interprete. Ein Zeichen sind wir. Si può aggiungere infine che la poesia stessa di Hélderlin preparava da lungi, in forza della sua stessa essenza espressiva, un simile ricupero. Giacché formalmente tutta l’espressione poetica di Héderlin, anche di quello ben lucido delle liriche, dell’Hyperion e dell’Empedokles, è dialogica per essenza, vale a dire, sta sotto la categoria della Persona che è una categoria cristiana. Vero è che la sua prosa, ossia la sua teoria, i suoi contenuti ideologici stanno sotto la categoria impersonale della Natura. Ma in questo modo essi contraddicono, come si disse e com’è ovvio, la stessa essenza della sua poesia. Questa è costretta cosi ad esprimere, per mezzo d’una categoria superiore, una categoria inferiore. In realtà, dato che mai una vera poesia potrà avere per contenuto qualcosa

d’inferiore alla sua forma, la poesia essenzialmente personalista di Holderlin personalizza di continuo, a dispetto delle teorie e delle intenzioni, l’impersonalità delle sue divinità, cioè le marca di continuo con i segni inconfondibili delle categorie cristiane. Chi crede alla poesia di Holderlin deve abiurare la sua filosofia.

CAPITOLO

II

FRIEDRICH NIETZSCHE ATEISMO AL NADIR

- L’IMMORALISTA.

Friedrich Nietzsche è stato uno degli scrittori più fatali che si conoscano, uno dei tests più impressionanti di quanto la parola, che è spirito, possa essere anche vita, incentivo di vita, anche se in questo caso vita per la morte. È assai presumibile che molta storia, anche se storia virulenta e catastrofica, del secolo XX non si sarebbe verificata senza l’incentivo di certi suoi libri (o di idee non solo sue, ma che hanno trovato in certi suoi libri il più potente veicolo di trasmissione), i quali hanno agito su certi creatori (o distruttori) di storia come turbini ardenti, persua-

dendo e inebriando alla superiorità violenta dell’uomo sull’uomo. Si sa che moltissimi giovani ufficiali (o anche semplici soldati) tedeschi sono partiti per la prima guerra mondiale portando nel tascapane quel vangelo a rovescio che volle essere ed è il Cosi parlò Zarathustra!. Tutto finî in catastrofe; il che però non impedî che moltissimi altri tedeschi ripartissero per la seconda guerra mondiale con quello stes1 Riporteremo siglate nel testo le opere di Nietzsche da cui citiamo, accompagnate dal numero di pagina. L’edizione è della Adelphi di Milano. Sigle e opere si corrispondono nel modo seguente: UTU = Umano troppo umano; A = Aurora; FrA = Frammenti postumi del tempo di Aurora (stesso volume); GS = Guia scienza; FrGS = Frammenti postumi del tempo di Gaia Scienza (stesso volume); Z = Cost parlò Zarathustra; ABM = Al di là del bene e del male; GM = Genealogia della morale (stesso volume); CI = Crepuscolo degli idoli; AC = Anticristo (stesso volume); EH = Ecce homo.

CAP. II - FRIEDRICH

94

NIETZSCHE

so libro in tasca. Fu una catastrofe ancora peggiore. E parve allora che, con la disfatta reale e morale del nazismo (giacché niccianesimo e nazismo, se non s’identificano in tutto e per tutto, sono però storicamente indivisibili, e lo vedremo), il demone nicciano fosse esorcizzato per sempre. Invece rimase, dapprima annidato negli angoli bui dei nostalgici e ora, dopo appena una generazione, approfittando della crisi delle istituzioni democratiche, si rifà in luce petulante e spavaldo, per quanto non ancora sbandierato. Non esiste infatti a tutt'oggi un evangelista della violenza (della grande violenza: politica, guerresca, rivoluzionaria) migliore di lui, ed è dunque inevitabile che i violenti di questa specie tornino ancora ai suoi libri per attingervi giustificazione, innocenza, ebrezza. Revanscismo fascista e nazista non solo, ma anarchismo e ultrasinistrismo trovano la droga che cer-

cano sulle pagine di Nietzsche ?. Ma altre ben più generali sinistre inclinazioni umane, eterne o caparbiamente reviviscenti, trovano in quelle pagine un’esca ottima: le inclinazioni all’ateismo, all’immoralismo, al materialismo, giacché Nietzsche è anche, e nel modo più seducente grazie al passionale alone demonico di cui le avvolge, tutte queste cose. Perfino la teologia, la cosidetta o sedicente teologia della « morte di Dio », ha accettato di subire in parte la sua seduzione e l’ha costituito suo proprio punto di partenza. Inoltre in genere i giovani che lo leggono ne restano regolarmente affascinati. E non solo gli infiammabili, gli infatuabili, i presuntuosi, i ribelli; anche i gene-

rosi e gli idealisti:

affascinati in particolare dal sentimento

2 «L'Espresso» del 14 giugno 1970, in un articolo da Parigi di G. Marmoti documenta questo attuale ritorno di fiamma nicciano per la Francia: «Che il pensiero dell’eremita di Sils Maria stia citcolando nell’orbita

dell’attualità

specie in Francia è innegabile.

[...]. Non

si esclude che il Nietzsche della Nascita della tragedia avrebbe accolto con effusione il Paradise now del Living Theatre, e quello delle Con-

siderazioni inattuali lo psicodramma collettivo delle barricate di maggio. [...]. E appena uscita-in Francia una sinossi della sua filosofia, in formato tascabile, ed il successo di questo manuale della trasgressione, presso giovani e giovanissimi, induce a riflettere sul come e il perché ». Per il resto l’articolo, dopo aver informato circa la nuova edizione critica in corso dell’opera omnia (presso Gallimard, Adelphi e Guyter), spezza una (disperata) lancia per dissociare Nietzsche dal nazismo.

L’IMMORALISTA

95

aristocratico nicciano, ignari a tutta sinistre !. Quali queste idee infiammanti? possono pretendere? Questo nostro sieme di coscienza, di giudizio e di

prima delle sue istanze

Quanto e quale credito tentativo di presa inposizione su Nietzsche, già si è capito, sarà polemico, ma non esattamente aggressivo. Certo occorre difendersi da lui, dalla sua aggressione o seduzione, ma non aggredendo a nostra volta, bensi semplicemente denudando i contenuti obbiettivi della sua aggressione e seduzione. Cercheremo di farlo con il rispetto che ci impone la sua dolorosa esistenza e la sua forse totale buona fede. Ma lo faremo rabbrividendo' non di rado (come ha rabbrividito Thomas Mann raccontando nel Doktor Faustus precisamente

la storia —

non

le idee —

di Nietzsche) della

qualità diabolica, comunque s’intenda il termine, della sua opera e della sua fatale irradiazione. « Io sono l’advocatus diaboli e l’accusatore di Dio », egli ha potuto scrivere in un frammento che non volle pubblicare (e lo ripete in UTU I 3). E continua: «Io ho volontariamente vissuto fino in fondo l'opposto di una NATURA RELIGIOSA. Io conosco il demonio e le prospettive da cui EGLI guarda verso Dio » (corsivi e maiuscoli di Nietzsche stesso come sempre nei riporti di questo saggio) (FrGS 499 s.). Noi vogliamo anzi esporre la «verità » di Nietzsche dal suo centro più forte, dal punto dove la sua strategia è riuscita ad arroccarsi e a organizzarsi meglio che mai, e ad attaccare, ad adescare più a fondo. È il luogo dove la sua spavalda sfida al cristianesimo gli offre le chances migliori, dove un cristiano si può sentire più che mai imbarazzato, dove il cristianesimo e l’etica religiosa in genere vengono provocati alla più impegnativa autodisanima. Questo Nietzsche più forte non è l’ateista che argomenta contro la fede religiosa, non è il loico e il dialettico che persuade con rigorose ragioni alla « morte di Dio ». Il Nietzsche più forte sta nell’immoralista; o meglio e più in genere, nel « grande psicologo della morale », come amava definirsi. Colui che scandagliando l’animo umano svela valori e disvaloti delle varie « morali » in base a un metro che chiameremo per ora « psicologico », e persuadendo alla morale in tal senso « mi3 Omettiamo di considerare qui l’influsso di Nietzsche sofia (debole) e sull’arte e letteratura (enorme).

sulla filo-

96

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

gliore » non tanto con la logica quanto con il fascino. È soprattutto attraverso la mediazione di una simile « ragion pratica » che il suo ateismo si fa quantomai pericoloso. Si deve rifiutare Dio perché una morale atea è più nobile d’una telsta: ecco il suo argomento. In termini bibliografici il Nietzsche più forte è quello dei libri più forti, più fascinosi e incalzanti, che sono: A/ di là del bene e del male e, più ancora, Genealogia della morale. Scritti immediatamente dopo il « capolavoro », il Cost parlò Zarathustra, essi ne riesprimono in linguaggio immediato, dimostrativo e rigoroso i contenuti, i quali, tutti avvi-

luppati quali sono nello Zarathustra in complicate metafore, e dunque imprecisi ed enigmatici, possono attrarre di più ma persuadere di meno. Inoltre Zaratbustra, Al di là e Genealogia convogliano, condensano, organizzano, ciascuno a suo modo, e riesprimono tutte le idee niccianamente più autentiche sparse nelle opere precedenti, specie in Urzano troppo umano, Aurora, Gaia scienza e Origine della tragedia. Da notare inoltre che fino a Umzano troppo umano incluso non c’è ancora il grande Nietzsche scrittore. Se egli si fosse arrestato là, solo forse i grecisti lo ricorderebbero per certe sue eccentriche idee sulla tragedia classica. Solo in Aurora e nella Gaia scienza compare qua e là il grande stile con il suo ritmo avvolgente e il suo ardente splendore, ma anche qui le grandi idee nicciane vi si ritrovano spesso indecise, confuse e comunque svigorite dal fatto di stare sparpagliate aforisticamente fra tante altre idee minori o mediocri. Solo in A/ di là e soprattutto in Geredlogia le terribili idee di Nietzsche, ormai acquisite alla cultura del genere umano, riescono a drasticamente decidersi, selezionarsi, a far nodo come serpenti in un discorso filato e incalzante. In particolare a proposito di Gerealogia egli stesso avverte che vi vengono ripresi i pensieri di Urzazo troppo umano

(e

aggiungiamo di Considerazioni inattuali, di Aurora e di La gaia scienza) « nella speranza che il tempo intercorso abbia giovato loro, li abbia resi più maturi, più chiari, più vigorosi, più completi » (GM 214). Quanto alle opere di poi, Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli e soprattutto Anti cristo ed Ecce homo, noi crediamo che pochi lettori resteranno impermeabili al sospetto quantomeno dell’eccesso davanti a idee e a giudizi che, mentre vanno riducendosi ossessivamente di numero, aumentano in proporzione di inten-

LA SENTINELLA

DELL’ATEISMO

97

sità, di violenza, di fanatismo, trascendendo — specie nelle ultime due — in denigrazioni, invettive, autoesaltazioni al di là ormai d’ogni ragionevole misura. Il processo incuba-

torio della paralisi cerebrale progressiva, innestato fin dal tempo di Aurora, sta ormai per esplodere. Imperniare dunque questa nostra confrontazione con Nietzsche sulle due opere dette e intendere il resto per ordine ad esse ci sembra metodologicamente legittimo e sia per lui che per noi onorevole.

2.- LA

SENTINELLA

DELL’ATEISMO.

Nietzsche non è, come si sa, l’inventore dell’ateismo, né l’iniziatore della « morte di Dio »: ne è tutt’al più il testimone e il profeta che vede Dio morire nell’Europa « dotta» per ora, e nell’intera umanità nei secoli, nei « duecento anni », venturi. Come ateo non è che l’erede di un secolo di pensiero tedesco, il consapevole, fiero erede del Kant della ragion pura, di Hegel, di Feuerbach, di Stirner, dei materialisti e dei positivisti; e a contare da lontano, di Spinoza, di Montaigne, di Bruno, di Epicuro. La particolare missione storica che egli anzitutto si arrogò in questa catena era l’« estensione dell’ateismo alla morale », era la definizione e la inculcazione della morale che l’ateismo postulava, la morale eroica dell’ateo radicale. Doveva condurre l’ateismo alle sue ultime conseguenze

pratiche.

In questo

senso

si può

accettare

la

tesi. proposta da Gerd Giinter Grau che vede in Nietzsche un pensatore ateo più che mai « stringente » e « intellettualmente leale » (redlich)*. Se si deve essere totalmente atei in teoria, ebbene lo si sia totalmente anche in pratica, tanto più che è nella pratica, in una effettiva esistenza senza Dio che l’ateismo anche teorico ha la verifica massima della sua verità. L’uomo senza Dio possiede superiori possibilità di autorealizzazione, può essere vitalmente (e moralmente) più grande e più forte quando non abbia o non ammetta nulla e nessuno al di sopra o al di là di se stesso, quando sia « senza speranza » (GS 13). L’ateo può essere più uomo, anzi più che uomo e trascendere quell’umano troppo umano che è in lui. Invece «se sempre un altro [e s’intende Dio, il 4 G.

G.

Grau, Christlicher 1958, p. 33.

keit, Francoforte

Glaube

und

intellektuelle

Redlich-

98

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

”Dio invadente”] è intorno a noi, è reso impossibile il meglio del coraggio e della volontà del mondo » (A 227). Forte di questa fondamentale motivazione, la intellettuale lealtà e stringente radicalità dell’ateismo nicciano s’irradia però su tutto intero l’ateismo in ogni suo aspetto con l’appassionata esigenza di un’assoluta purezza senso. Di qui si spiega come possa coesistere

atea in ogni in Nietzsche,

accanto alla riconoscenza per gli atei che l'hanno preceduto, una vera e propria iraconda intransigenza nei riguardi di co-

loro fra essi (e sono un po’ tutti) che « indugiano » a dedurre tutte le conseguenze dalle premesse atee e che « trattengono » piùi o meno consciamente qualcosa delle vecchie religioni e delle vecchie morali religiose. Sono porte lasciate imprudentemente aperte a un loro ritorno o sono blocchi ingenuamente mantenuti o vilmente non infranti sulle possibilità umane di cui sopra. Contro queste porte e questi blocchi Nietzsche abbaia a ogni buona occasione come un insonne rabbioso cane da guardia. Tali illogici, incoerenti relitti sono di due specie: religiosi o morali. Dei primi sono responsabili tutti quei pensatori atei che pur ripudiando il Dio trascendente hanno però ammesso un che di divino nel mondo o in qualcosa del mondo, e hanno cosî chiamato il mondo o qualcosa del mondo: « assoluto », « trascendentale », « categorico », « significativo » (sinzvoll) in un senso pieno e superiore. Sono i panteisti (Bruno, Spinoza che ha ancora parlato di un amor Dei intellectualis), gli idealisti romantici (Schelling, Hegel ecc.), Kant. Soprattutto allarmato e irritato Nietzsche è con la generazione degli idealisti tedeschi, con la loro « origine teologica », con il loro « sangue teologico » (AC 173 s.) e cioè con il protestantesimo che è rimasto nelle loro vene come un « peccato originale ». Il « ritardatore par excellence » (GS 228) è fra essi Hegel il quale, pur immanentista quale è, ancora chiama all’adorazione della realtà del mondo e del suo divenire — della « Storia » — come di qualcosa di superiormente significativo e infonde cosf il sospetto d’un rous divino, d’una divina provvidenza. Inguaribilmente irenico e conciliativo quale è, Hegel è capace di riconciliarsi con tutti e con tutto, perfino con il cristianesimo, la cui etica laicizzata è da lui reincorporata nel suo sistema come fosse ancora l’anima della civiltà. La « stotia » come Hegel la intende non è che una « teologia mascherata ». Come un pugno negli occhi gli è naturalmente quel « subdolo

LA SENTINELLA

DELL’ATEISMO

99

cristiano » che fu il Kant della ragion pratica, dell’imperativo categorico, della realtà come « apparenza », del Ding an sich. E bisogna ammettere che la polemica nicciana contro le filosofie atee ritardanti che dimenticano di chiudere le porte è talvolta assai sottile anche sotto il profilo teoretico, si accorge di spiragli ideologici anche impercettibili e lontani. Sa che un ateismo non sarà mai tranquillo finché si consentirà all’esistenza d’una sostanza o d’una verità obbiettiva sotto il fenomeno, di un essere sotto il divenire, o all’esistenza d’un reale rapporto e d’una reale distinzione soggetto-0ggetto, causa-effetto, agente-azione, soggetto-predicato. Teme che « non ci sbarazzeremo mai del tutto di Dio se prima non ci sbarazzeremo della grammatica » °. Il reo numero uno della « trattenuta » della seconda serie di relitti, quelli « morali », è invece Schopenhauer. Egli è assai meglio di Hegel perché non se ne sta più «in ginocchio davanti alle cose ». Ha smascherato finalmente e riconosciuto il « nessun valore », la « stupidità » il totale « non senso » del mondo. È finalmente un pessimista e un nichilista quale dev’essere un ateo conseguente. Se Dio non c’è, è logico che si esiste in ultima analisi per niente, per il Nulla, e che non c’è senso a vivere. Ma Schopenhauer non ha visto la splendida chance che, sulla prospettiva di questo nulla e in questo deserto d’ogni significato, s’offriva all’uomo e al suo valore. Egli venne accecato al riguardo dal suo carattere eudemonistico. Era un debole di volontà, uno stanco e un infelice alla ricerca ancora della felicità, della « salvez-

za ». S’illuse di trovare questa salvezza in un ascetismo, misticismo e moralismo attinti al buddhismo e al cristianesimo e che, a parte Dio, conservavano impallidite tutte le prerogative delle vecchie religioni, a cui riconosceva ancora un’importanza « allegorica ». Insegnò la mortificazione della vita, la rinuncia alla volontà, l’antiegoismo, un astratto amore universale, la compassione, il distacco, la contemplazione disinteressata. Non ebbe la fortezza, nel suo nichilismo, d’un 5 Riferiamo dalla prima parte dell’opera testé citata del Grau. Questa ostilità di Nietzsche contro i filosofi e in particolare contro le loro anche impercettibili, capillari « porte aperte » ideologiche si ritrova in molti aforismi sparsi di UTU, A, GS, e soprattutto nelle prime pagine di ABM. Ma questi aspetti teoretici della polemica sono frammentari e secondari, cosî a noi sembra, nell’opera di Nietzsche.

CAP.

100

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

nuovo e più forte sf alla vita. Finî perciò anche lui come gli altri fra gli « epigoni del cristianesimo ». « Teologia mascherata » anche la sua. Almeno fosse stata una reale salvezza in Dio; era invece una salvezza cercata nel nulla, « una salvezza nell’apparenza ». Tanto valeva riprendersi, oltre ai relitti, Dio e tutto il resto. Come fece Pascal che pure era un forte. E Wagner. In guardia dalla forze di risucchio del cristianesimo °! Non basta. La sentinella dell’ateismo è all’erta contemporaneamente su molti altri fronti, sulla soglia di tutte le « caverne » dove « forse per millenni » ancora dimora 1’« ombra » del Dio morto (GS 117). Il cane fedele abbaia instancabile ogni volta che gli viene a taglio contro, per esempio, in genere il liberalismo e il socialismo, i quali con la loro égalité e fraternité universale « trattengono » il concetto dell’universale identità di tutti gli uomini in Dio loto padre; contro Bentham e i moralisti inglesi in genere che con il loro « altruismo » innalzato a principio e a misura fondamentale del bene morale « indugiano » ancora pericolosamente su residui etico-religiosi cristiani; contro in genere gli scienziati che con la loro volontà di verità obbiettiva ad oltranza continuano «a prendere anche il /oro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana [...], per cui Dio è verità e la verità è divina » (GS 207); contro

in genere i tedeschi che gli appaiono in questo datori peggiori fra tutti i popoli (GS 228 e A losissima per il nostro guardiano è l’arte tutta sta contrabbandiera del mistero, questa « forma religiosità » (UTU

senso i ritat142). Pericoinsieme, quecamuffata di

I 196).

Tutta questa guardia, questa dedizione, questo accanimento che diviene sempre più spasmodico per la causa dell’ateismo non cessano di meravigliare. Viene il sospetto d’una spiegazione particolare, di particolare quantomeno e strana intensità. Ora di spiegazioni particolari ne sono state tentate già tante. Si è parlato di orgoglio prometeico (Georg Sigmund), di una « assoluta singolarità » dell’uomo Nietzsche 6 Cfr. sempre G. G. GRAU, op. ciz., e inoltre soprattutto le prime pagine di ABM, GM 217, GS 229, CI 122 s. Pascal e Schopenhauer rimasero però una di quelle coppie da cui Nietzsche desiderò essere sempre accompagnato (UTU II 129) per quanto non consenziente: «Io ho su di me il disprezzo di Pascal e la maledizione di Schopenhauer » (FrA 555).

LA

SENTINELLA

DELL’ATEISMO

101

e della conseguente solitudine e incapacità di amare (Ida Overbeck), di assolutezza angelologica del suo spirito che si rovescia in categoricità demonologica (Thomas Mann). Nietzsche stesso ci ha interpretato un ideale processo di apostasia in una celebre pagina (UTU I 5 ss.): rottura delle catene, pericolosa curiosità, pericolosa tensione dell’orgoglio, risata cattiva, capriccio, avventura. Certo è che almeno il concetto di quel Dio contro cui Nietzsche ha sviluppato un’antitesi cosî assoluta è di specie demoniaca, concepito sul modulo della volontà di potenza. Un Dio sarehbeisiarolun inf nita volontà di potenza, e arbitraria e insensata come ogni volontà di potenza dev'essere. Dunque un Dio a cui unicamente importa di imporsi, sottoporsi, condannare, vendicarsi se occorre con castighi infiniti”. Benché talvolta, con il procedimento tipicamente schizoide che gli si riconosce, egli rifiuti ironicamente anche un Dio opposto, bonario, pacifico, misericordioso, povero di volontà di potenza (cfr. soprattutto AC

182 ss.).

Ci si immagini spaventosa

ora la situazione

in cui viene

a ritrovarsi

singolare, bizzarra quest’apostata

e

che, i

fuga da un Dio simile, dopo appena il primo passo ufficiale, per cosî dire, della sua ribellione, resta preso in trappola. Quando il giovane Nietzsche, figlio di ecclesiastico, studente di teologia, si risolse dopo appena un semestre di piantare il vecchio per il nuovo, la teologia per la filologia, la fortezza teistica per l’avventura ateistica, egli volle festeggiare e, diciamo, «esprimere » l’evento con un bel classico peccato 7 Colpiscono testi come i seguenti: «Come il diavolo diventa Dio » (FrGS 500); Dio «soltanto un’invenzione e una finezza del Diavolo? » (UTU I 7); Dio «universelle araigné » (EH 43); Dio «il drago » (Z 24); «Il mio supremo e più possente demonio, del quale essi dicono che sarebbe il signore del mondo » (Z 130); Dio « ragno eterno » (Z 202); « Hanno chiamato Dio ciò che contraddiceva e faceva male a loro stessi» (Z 109); Dio «presunto ragno etico-finalistico celato sotto il grande tessuto della causalità» (GM 316); Dio il cui « amore non è riuscito neppure a padroneggiare il senso dello onore e l’eccitata sete di vendetta» (GS 137); «resi l’onore a Dio e feci di lui il padre del male» (GM 215); se si ammette un elemento divino in Gesù, bisogna pure ammettervi un elemento diabolico: condanna chi non lo ama all’inferno! Le pene vendicative eterne dell’inferno sono uno dei punti dolenti più ricorrenti come ra-

gione

del rifiuto

di Dio

e del cristianesimo (cfr. A58 ss.). La pri all'umanità è: «Non c'è

ma consolazione che Zarathustra annuncia il diavolo e nemmeno l’inferno » (Z 14).

CAP.

102

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

mortale. Andò al bordello per la prima volta (e forse ultima volta), peccò e s’infettò! La solita sifilide passò immediatamente in lui nella ben più grave sifilide cerebrale con le atroci risapute concomitanze: terribili periodici mali di testa e d’occhi, terribili periodiche depressioni nervose, abbandono della cattedra e d’ogni altra professione, ozio forzato, solitudine; e infine, con il dilagare degli spirocheti nella materia cerebrale, l’innesto della paralisi mentale progressiva, cioè della follia. Di quest’ultimo fenomeno egli non deve aver intuito nulla, ma di tutti gli altri seppe fin troppo. E sapeva benissimo anche della loro origine. Doveva sapere che soffriva in conseguenza del suo « peccato ». Le due famose lettere a Deussen (genialmente paragrafate nel Doktor Faustus) non permettono dubbio alcuno al riguardo. Sulla consapevolezza di questo nesso era inevitabile che s’inserisse la vertigine d’un altro pensiero: il Vendicatore si è vendicato! Nietzsche ha scritto: « Mi manca un qualche criterio attendibile per sapere che cos'è un rimorso » (EH 34), ma non gli crediamo. La violenta partecipazione emotiva, con cui in Genealogia

discorre di « colpa » e di «sentimento di colpa », impugna e l’una e l’altro, e perora l’innocenza universale del divenire,

infondono il sospetto che quel sentimento è stato forte su di lui e che la sua vertigine l’ha a lungo circuito e tentato ad arrendersi. Un indifferente a simili sentimenti non arriva a dipingere la figura del « prete ascetico » con le linee deformi con cui viene dipinto sempre in Genealogia, del prete che compare davanti all'uomo sofferente e gli dice: « Tu soffri perché tua è la colpa, perché devi espiarla! ». Tutto ciò perviene a una specie di parossismo verso la fine dello Zarathustra, là dove il « Mago » canta orridamente dell’uomo torturato da Dio e che non s’arrende e bestemmia il suo torturatore.

Ma

quando

questi, offeso, lo abbandona,

il tortu-

rato ne invoca il ritorno ®. Era solo una « prova », una delle 8 «Che vuoi estorcere, / Torturatore!'/ Tu — Iddio carnefice! / O devo come il cane, / davanti a te rotolarmi? / Devoto, fuori di me dalla gioia, / Scodinzolarti — amore? / [...] / O no! Totna indietro, / Con tutte le tue torture! / All’ultimo di tutti i solitari / Oh ritorna! / Tutti i torrenti delle mie lacrime corrono / Il loro corso verso di te! / E l’ultima fiamma del mio cuore / Per fe s’innalza ardente! / Oh torna indietro, / Mio Dio ignoto! / Dolore mio! Mia ultima felicità! » (Z 307 s.).

LA VOLONTÀ

DI POTENZA

103

estreme, su Zarathustra. La supera naturalmente, come anche Nietzsche la supererà con ostinazione ammirevole. Dunque una simile prova c’è stata anche su Nietzsche. E si noti che sulla vertigine di questo sentimento di colpa e di seduzione alla resa (a Dio) premeva un altro sentimento o « prova » che Nietzsche era chiamato a contrastare con pertinacia non minore: la « compassione », d’altri e di sé (comprensibile fra sofferenze terrificanti quali le sue!). Tale fu la lunga bybris di Nietzsche. È comunque la « colpa » una questione decisiva dell’ateismo nicciano: «Il cristianesimo avrebbe dovuto porre come articolo di fede l’innocenza dell’uomo. si poteva ancora credere » (FrA 482).

31

BA

VOLONTA’“DI"

[...] Allora

POTENZA:

Ma c’è anche in lui un «categorico »: non un imperativo categorico, bensi tutto al contrario una categorica volontà di potenza. È quanto consente a Nietzsche di liberarsi dal « tu devi» nell’« io voglio » (Z 24) e dunque di vincere il sentimento di colpa, di sottrarsi alle conseguenze (la resa a Dio), di ritrovarsi innocente e cioè di trasferirsi (come dice la famosa formula) « al di là del bene e del male ».

L’idea di volontà di potenza fu la roccafotte contro la colpa e contro Dio da rendere d’ora in poi sempre più inespugnabile, indicando come essa è davvero tutto dell’uomo e come spieghi tutto. Sarà uno dei ritornelli più martellati sotto la sua penna: « Vita è precisamente volontà di potenza »; e che lo sia sarà magari come teoria una novità, ma « come realtà è il fazto originario di tutta la storia» (ABM 177). «Non esiste l’amore, solo la volontà di potenza » (GS 48). « Il mondo [...] è volontà di potenza e nient’altro » (ABM 44). Che cos'è? Nella sua accezione più elementare è sem-

plicemente « volontà della vita » (ABM 178). Il genitivo è insieme possessivo e oggettivo: è la volontà che la vita (dell’uomo) ha della vita. È la vita che vuol essere vissuta, è l’uomo che vuol vivere la sua vita. E ciò senza d/tra spinta o scopo o ragione o significato che stimoli o attiri a vivere. Giacché la vita non ha « perché » fuori di se stessa (GS 35). È puramente la vita con la sua pura, e dunque irrazionale,

104

CAP. II - FRIEDRICH

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insensata volontà di vita. E in ciò è tutto l’uomo, tutto ciò che è nell’uomo. Il termine « volontà» ha senza dubbio in Nietzsche origine schopenhaueriana. Significa originariamente quel categorico, quell’assoluto che Schopenhauer ha creduto di individuare annidato al centro di ogni essere e che ogni essere (in particolare ogni uomo) stimola a vivere, che in ogni essere vuol vivere, crescere, espandersi in quanto vita e

non per altro che per semplicemente vivere, crescere, espandersi. Ma era per Schopenhauer una volontà « cattiva » appunto perché senza senso oltre se stessa, era una vita insensata, oscura, assurda. Per avere un po’ di luce, di significato, di «bene », l’uomo doveva realizzare un’antitesi alla vita, rinunciare alla volontà. Nietzsche invece aderisce, è vero, totalmente alla metafisica schopenhaueriana della volontà come assoluto irrazionale e assurdo, ma capovolge l’atteggiamento dell’uomo al riguardo da negativo a positivo. Se la volontà è l’assoluto, se l’uomo non è che volontà, non può non volersi vivo, sempre più vivo, il più vivo possibile. Fosse anche possibile questo volere contro la vita, sarebbe sempre una meschina, indegna rinuncia. Vero è che non c’è senso in ultima analisi a vivere (è l’ovvio corollario dell’ateismo), una volontà di vita sarà sempre insensata e in questo senso « cattiva ». La vita sarà sempre metafisicamente « brutta », nonché brutta in molti altri sensi. Ma proprio questo suo radicale non-senso è quanto fa della volontà di vita una volontà assolutamente pura, forte, magnifica, eroica. Schopenhauer direbbe (e molti con lui) che è stupido volere e vivere senza una ragione. Nietzsche replicherebbe che la vita è vita e basta, che la vita è la sua stessa ragione e verità, che una ragione o verità diverse da lei non esistono o non le servono, che se il falso e il male invece, come sembra succeda, le servono a vivere di più, è pronta a preferirli. O direbbe, in altre parole, che la vita viene prima della verità, che è lei a decidere della verità come della bontà e di tutto il resto. È lei la «creatrice dei valori ». Perfino di quella « menzogna » che è l’arte si serve talvolta la vita per vivere, « per non soccombere a causa della verità ». E siamo in tal modo esattamente « al di là del bene e del male ». La vita o volontà di vita è essa stessa la sua verità, bontà, giustificazione, filosofia. Alla vita basta essere vita per essere buona. Sarà vita più o meno, sarà una

LA VOLONTÀ

DI POTENZA

105

più o meno forte o debole volontà (« nella vita reale si tratta solo di forte o debole volere », ABM 26), e sarà allora pure buona più o meno, sempre comunque buona, sempre comunque innocente. Cattiva è soltanto l’antivita, la rinuncia alla vita, la morte e la volontà di morte. Ma l’uomo non può non volere la vita e volere la morte: il che vuol dire che l’uomo non può essere cattivo. È il dogma nicciano dell’innocenza universale d’ogni divenire vitale (CI 92), cioè di ogni divenire semplicemente. Grazie alla irrefrenabile volontà di vita siamo pet sempre al riparo dal male e dai suoi conflitti, drammi, tempeste; siamo costituiti per essenza nel bene, che non si chiama più morale, bensî vitale. È allora sciocco pretendere di discriminare su chiunque viva modi buoni o cattivi di vivere, un ben vivere e un mal vivere, in base a significati che si debbano vivendo realizzare o a norme o ad autorità in cui si prescriva come si debba o non si debba vivere. Significati, norme, ragioni di vita, comunque siano, hanno per unico effetto la delimitazione, la mortificazione della vita. Sono loro il male da cui difendersi. A simili significati, norme, imperativi, come a misure del bene e del male, come a incentivi alla vita, molti ricorrono sempre, ricorrono tutti da più millenni a questa parte: dal tempo di Platone, di Buddha, di Mosè, di Cristo. Di tal genere è ancora tutta intera l’etica, la mentalità, la civiltà: quella del cristianesimo e delle religioni morenti e quella dei loro epigoni. Da più millenni la volontà di vita si è dunque eclissata o è stata repressa? Non precisamente: indebolita sf, ma non estinta. La grande psicologia nicciana si crede capace di dimostrare che è sempre la volontà di potenza colei che in tutti costoro agisce affinché facciano o s’illudano di far ricorso a tutte codeste istanze extravitali. È il tema di tutta la Geredlogia della morale. Sarà senza dubbio una volontà malata quella di costoro che per vivere hanno bisogno di inventarsi stimoli di vita al di fuori della vita, ma essi lo fanno perché in fondo vogliono ancora vivere. Perfino coloro che non vogliono vedere nella vita che un ponte verso

un’altra vita (inesistente) e non vogliono viven-

do che raggiungere Dio (cioè il Nulla), stanno a dimostrare che «l’uomo preferisce volere il 7%/l4, piuttosto che non volere » (GM 299, 367). Tutta intera l’ascesi, per la quale la vita non è che « un cammino sbagliato da ripercorrere a ritroso » o non è che «un ertore che si confuta, si deve

CAP. II - FRIEDRICH

106

confutare », è una

« autocontraddizione »

(GM

NIETZSCHE

321).

Ciò

che realmente la muove è «un interesse della vita stessa che non vada estinto un siffatto tipo di autocontraddizione »; è anzi «un insaziabile istinto e una volontà di potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa », qualcosa di « paradossale in sommo grado » (GM 322). « L’ideale ascetico è uno stratagemma di conservazione della vita », ma di «una vita degenerante », i cui « più profondi istinti vitali rimasti intatti » lottano, per mezzo di quello stratagemma (inventandosi ideali oltre la vita), « contto la morte ». E l’esponente dell’ascetismo, « il prete asceta », ha per unica sua mira magari pure inconscia

quella di tenere « ancorato all’esistenza l’intero gregge d’ogni genere di falliti, di malcontenti, di malriusciti. [...] Ma si comincia a capire: questo prete asceta, questo apparente nemico della vita, questo regatore, appartiene precisamente alle più grandi forze conservatrici e affermativamente creatrici della vita » (GM 324). Ed è la volontà di potenza in lui che

lo costituisce difensore naturale del gregge malato contro i sani e i forti, contro gli « animali da preda ». Ma essendo in fondo lui pure un malato e un debole, egli è costretto a una strategia di astuzia più che di forza e di franchezza, costretto a « foggiare in se stesso un nuovo tipo di bestia predatrice », a essere « volpe » o « gattopardo in agguato » (GM

330).

Perfino la « colpa », questa orrenda « invenzione » antivitale, è per la psicologia nicciana una creazione della volontà di potenza. Giacché o l’hanno creata i forti e i signori per imporre pene, pesi e debiti ai deboli e gli schiavi (GM 265, 280), o l’ha creata l’innata crudeltà dell’uomo in genere, una « crudeltà a ritroso » (GM 346), allo scopo di torturarsi per mezzo del proprio passato. Ora la crudeltà su se stessi è forza su se stessi, è volontà di potenza, per quanto malata (A_ 42). Ma lo stesso cosiddetto amore del prossimo, sapete

che cos'è in verità? Un pretesto di autoaffermazione (GS 48, ABM 128). E guardate un po’ i giovani e la forza che ha soltanto bisogno di esplodere: poco o nulla importa loro la causa, la ragione per cui ha da esplodere, « ciò che li sprona è [...] lo spettacolo della miccia che brucia, non già la causa in se stessa » (GS 66).

Le richieste di specificazione su questa fondamentale dottrina nicciana affiorate nel frattempo nel lettore saranno, noi

LA VOLONTÀ

DI POTENZA

supponiamo, molte. Soprattutto decisive ci sembrano domande seguenti:

107

le tre

PRIMA DOMANDA. In che modo vuole nell’uomo la « volontà »? Come si individualizza in lui? È lei che vuole nell’uomo individuo o è l’uomo individuo che vuole per mezzo di lei. Con parole più franche: L’uomo nicciano è libero di volere? È padrone della volontà che è in lui? SECONDA DOMANDA. Veramente anche l’etica tradizionale rifiutata da Nietzsche insegnava che esiste nell'uomo una volontà che gli fa necessariamente volere il bonuzm uf sic, ossia in genere l’essere, l’esistenza, la vita. Solo in quanto lanciato da questa spinta necessaria l’uomo può poi partire per le sue singole scelte vitali. Che differenza c’è fra l’insegnamento tradizionale e nicciano? TERZA DOMANDA. Schopenhauer dice: « volontà »; e Nietzsche: « volontà di potenza » (Wille zur Macbt). Quest’aggiunta aggiunge o altera qualcosa e che cosa? Le tre domande si appartengono intimamente e meritano

una risposta coordinata. Quanto alla prima Nietzsche stesso ci deve una risposta, del resto ormai attendibile, lampante e univoca. Certo egli ha spesso piena la bocca delle parole « libertà », « liberazione », « spirito libero ». Spessissimo si definisce uno «spirito libero » che parla agli « spiriti liberi », che inaugura « un’era di spiriti liberi ». Ma che vuol dire? Che l’uomo è o potrebbe essere, una volta liberato, libero di volere? Che almeno lui, Nietzsche, e i suoi interlocutori, discepoli, fratelli di pensiero sono finalmente, fra tanti, i padroni del proprio destino? No di certo. Libertà in senso nicciano significa unicamente libertà dalla colpa, dal male, anzi dal bene e dal male, da Dio, da tutto, tranne che libertà nei riguardi della volontà che vuole in ogni uomo, ossia libertà di volere, libertà di scelta. L’uomo nicciano è in tutto e per tutto incatenato alla volontà di potenza, istanza tutta superindividuale, ‘universale, deterministica, predeterminante. Ed è logico: solo cosî egli sarà libero dalla colpa e dal resto e in eterno innocente. Ma si potrebbero citare in proposito anche moltissimi testi espliciti. Valgano per tutti i seguenti: « Quando siete i volenti di una unica volontà e questa svolta culminante di ogni fatalità ha per voi il nome di necessità:

108

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

lf è l'origine della vostra virti » (Z 90). « ’’Non ho la minima idea di quel che faccio! Non ho la minima idea di quel che devo fare!” Hai ragione, ma non aver dubbi: #u sei fatto! In ogni attimo. In tutti i tempi l’umanità ha scambiato l’attivo con il passivo, è il suo eterno sproposito grammaticale » (A 93). « Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto, — non c'è nulla che possa giudicare, misurare, verificare, condannare il nostro essere, giacché questo equivarrebbe a giudicare, misurare, verificare, condannare tutto... Ma fuori del tutto

non c'è nulla! — tutto

ciò

soltanto

cfr. A-930s;5

FrA\

Che nessuno più è reso responsabile [...] è

la

4215.

grande

liberazione»

450:;7€1.07/2,6915,

(CI

93;

FABALR2 4;

GS 244). Dunque nessun dubbio: agimur non agimus. Qualcosa ma non l’uomo vuole nell’uomo e vuole senza scampo. Ma sapere questo è la quintessenza della « gaia scienza », è l’allegria del sapersi « irresponsabili ». Ecco allora il vero terminus ad quem della liberazione, dell’apostasia. Il fermi nus a quo era stato il « tu devi» (dx sollst: è tuo dovere). Il vero termzinus ad quem non è l’« io voglio » (Z 24), bensi

l’« io sono costretto » (ich 7455). La libertà è dunque il prezzo pagato da Nietzsche per la liberazione dalla colpa! La dottrina del determinismo nicciano avrà per suo ultimo suggello la dottrina dell’« eterno ritorno dell’identico ». Con la risposta alla prima domanda abbiamo già parzialmente risposto anche alla seconda. L’insegnamento nicciano diverge da quello tradizionale in quanto insegna che l’uomo vuole necessariamente la vita sia în toto, sia în singulis. Per la tradizione

mente

(la greco-cristiana)

la vita in foto,

ma

invece

noi

non

sempre

vogliamo

necessaria-

necessariamente

in

omnibus singulis. Giacché l’uomo non vuole una volta per sempre, ma vuole molte volte, e non può ogni volta voler tutto. Deve pur scegliere, discriminare, volere questo o quello. In questa scelta può essere libero. Per Nietzsche al contrario, anche le scelte, tutte, gli vengono decise dall’anonima volontà di potenza. La tradizione è dunque concorde con lui sull’esistenza nell'uomo d’una irresistibile, diciamola pure, volontà di potenza o volontà di vita. Non la volontà di potenza è, allora, la grande trovata di Nietzsche contro la tradizione, ma la sua totale irresistibilità: una trovata del resto già escogitata da molti altri, per esempio, da Spinoza e da

LA VOLONTÀ

DI POTENZA

109

Schopenhauer. Nibil novum, dunque fin qui. Il vero zo0vur e il vero proprium nicciano non concerne la volontà, bensi la vita voluta dalla volontà: è la circoscrizione, discriminazione

e qualificazione di una particolare vita, della vita veramente autentica, migliore, superiore in senso nicciano. Questo senso

nicciano della vita, la sua eco o il suo annunzio già vibrano in quell’additivo « di potenza » (zur Macht; più esattamente « volontà per la potenza », « volontà che vuole la potenza ») che egli assai tiene ad aggiungere al semplice termine di Schopenhauer: « volontà ». « Volontà di potenza » può voler dire — e dice molte volte anche di fatto in Nietzsche — semplicemente « volontà in quanto potenza », dal momento che essa è una potenza, è anzi la potenza, la forza fout-court. Ma quel « di potenza » già coinvolge un accento, una preferenziale o anche un plus polemici. In Schopenhauer « volontà » ha accezione onnicomprensiva quanto a tutte le spinte vitali dell’uomo, ma il suo accento preferenziale cade su quella spinta speciale che un celebre epigono di Schopenhauer, Freud, chiamerà libido e che è già per Schopenhauer la spinta dominante della vita: l'istinto sessuale o generativo, o più in genere l’istinto del piacere, supposto da entrambi sempre più o meno sessuale. Quest’istinto, e in genere la volontà che culmina in esso, è

già in Schopenhauer eminentemente egoistico, punta ogni vol. ta all’autoaffermazione dell’individuo, è anzi la stessa creazione, moltiplicazione, celebrazione dell’individuo. Nietzsche

non rinnega affatto e forse neppure attenua tutto ciò. Il suo « eterno ritorno » è dopotutto anche la ruota gioioso-dolorosa e inarrestabile delle generazioni sessuali. Ma Nietzsche, che era per faccia o forse per carattere più puritano 0, come si è definito, un maniaco dell’« istinto di pulizia » (EH 31), ha la tendenza a sorvolare sul lato libido e ad appuntarsi invece sull’aspetto « autoaffermazione individuale-egoistica », come poi fece in termini psicoanalitici il nicciano Adler rispetto al suo troppo schopenhaueriano predecessore in psicoanalisi. Ma indubbiamente ciò che a volte non è che un’oscillazione e un accento, tante altre volte e nel complesso diviene in Nietzsche anche discriminazione polemica, dislivello di valore. Allora l’istinto del piacere o della felicità viene degradato a segno d’una debole volontà di potenza, e viene unicamente innalzato il principio dell’autoaffermazione pura e semplice, sia dentro, sia assai più fuori della area della libido.

110

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

Allora il carattere « virile » viene opposto al carattere « femminile » e l’uomo concepito superiore alla donna. Insomma Nietzsche ha avvertito il timbro femmineo-eudemonistico che era nella volontà di Schopenhauer («la felicità è femmina », Z. 198) contro di cui altri accenti ben più energici che erano in lui reclamavano o recalcitravano. Egli fu cosî condotto verso preferenziali notevolmente discriminatorie non solo quanto al virile sul femminile®, ma più universalmente quanto all'elemento « vita » stesso, fra vita in genere più forte e più debole e fra altre numerose espressioni della vita. Vogliamo dire — ed è quanto soprattutto interessa questa nostra analisi — che Nietzsche è stato costretto a uscire dall’informe e a domandarsi quale in particolare era la vita preferita, amata, ammessa della sua volontà di potenza. E cosi anche lui si ritrovò fra i contendenti nella grande spartizione della preda, in quella contesa del bottino a cui tutti i grandi atei dell’Ottocento presero parte. Intendiamo per preda e per bottino appunto la vita. Perduto di vista il Vertice oltre la vita (o il vero Vertice della vita) per ordine al

quale ogni vita e ogni sua vitale parte costitutiva è in grado di occupare un proprio luogo significativo nella totalità, e avute in tal modo le mani libere su questa vita, nessuno di quegli atei fu più capace di riconoscere né la totalità stessa della vita, né tutti i singoli luoghi delle singole parti. Cominciò uno di essi a porre il vertice gerarchico in una parte o in una parziale serie di parti, ma facendo in tal modo torto alle parti restanti, le quali trovarono subito tutta una serie di paladini e di risarcitori negli altri atei. Cominciò infatti Hegel (noi almeno cominciamo

da lui) a fissare il livello su-

premo della vita nell’intelligenza, nell’idea, nel logos, nello spirito, nel cosmos, ed estensivamente parlando, nel superego, nel superindividuale, trascendentale e universale. Ma trascurava od offuscava cosî la vita in quanto volontà, istinto, caos, empiricità, individualità, materia. Vi fu subito grande scompiglio a bordo, la nave sbandò tutta da un lato. Entrarono immediatamente in funzione i riequilibratori, cioè i rivendica-

? Le donne che leggono Nietzsche sanno bene in che conto egli tiene la donna. « Tutto nella donna è un enigma, e tutto nella donna ha una soluzione: questa si chiama gravidanza » (Z 76). « Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta! » (Z 78).

LA VOLONTÀ

DI POTENZA

ati

tori delle parti escluse o conculcate. Se ne presentarono almeno quattro ancora vivente Hegel, ma, parziali quali non potevano

essere

tutti in quanto

atei, provocarono

nuovi scom-

pensi e squilibri. La povera vita fu tirata in ogni direzione e fatta a pezzi, e ciascuno accampò i suoi diritti sul suo. Schopenhauer rimise in onore, ma troppo in onore, la volontà, l’istinto, il caos, ma era un onore con riserva, era una volontà onnipotente ma brutta, ed offese cosî sia il logos, sia il cosmos e additò all’individuo la salvezza nell’autoperdizione di nuovo in seno all’obbiettivo-universale. Feuerbach e Marx accorsero e risarcirono dei suoi torti la materia, ma la collocarono a sua volta nel vertice e all’otigine dei valori vitali, ne detronizzarono lo spirito e votarono anch’essi a tutto favore del superego, che definirono il « noi sociale », e a tutto dispendio dell’individuo. L’individuo, povero diavolo fin qui da tutti trascurato, anzi destinato regolarmente al sacrificio sull'altare dell’universale, avrà anche lui di lf a poco il suo paladino in Stirner, che lo difese forse bene a parole, ma non a fatti, perché si distrusse egli stesso come individuo. La causa dell’individuo fu però raccolta finalmente da un forte, da Nietzsche. Nietzsche fu in questo senso un Schopenhauer corretto da Stirner, che scelse di puntare, fra i vari pezzi, sulla volontà del primo, ma non per buttarla poi a mare come lui, bensi per affermarla nella linea stirneriana dell’ego individualistico. Delle tre cose di cui Zarathustra proclamerà la transvalutazione da disvalori in valori (Z 228-233) la prima è la « voluttà » (dunque la libido è salva non solo ma esaltata) e la terza è l’« egoismo ». È cioè la vita o è la volontà di potenza che mira di natura sua ad affermarsi nei singoli io, individualisticamente, e non altrimenti. La seconda è la « sete di dominio », che è anche per l’etica tradizionale l’altra forma fondamentale, dopo la « voluttà », secondo cui si afferma l’egoismo: è la classica « superbia », l’autoaffermarsi dell’individuo sopra o contro l’individuo. A parte il fatto che da vizi queste tre cose sono state qui transvalutate in virti, siamo sempre alla classificazione tradizionale dove lo egoismo è il genere, e la lussuria e la superbia ne sono le specie.

Ciò premesso e tornando al tema della nostra analisi, abbiamo ormai visto che ron alla totalità della vita si riconosce nella visione nicciana verità e legittimità, ma solo al-

112

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

la vita che si afferma nella linea dell’egoismo individuali stico. Un’altra vita non ha diritto di esistere e non esiste affatto per Nietzsche. Inoltre abbiamo detto che nello stesso genere egoistico si ha, sempre per Nietzsche, un dislivello di valore fra le due forme che lo specificano: la « superbia » o « sete di dominio » è superiore per valore vitale alla « lussuria » 0 « voluttà ». Non basta: nella prima delle due fotme specifiche stessa, la forma virile, che occupa per lo più da sola tutto l’orizzonte della considerazione nicciana, s’insinua un dislivello di valore, ed è un dislivello che assume in Nietzsche proporzioni via via sempre più marcate, fino a divenire la discriminazione ultimamente decisiva del valore vitale: quella fra grandi e piccoli, fra individui che s’impongono di più o di meno su altri individui, fra individui che dominano e che sono dominati. Siamo tutti egoisti, e soprattutto egoisti nel senso che miriamo ad affermarci gli uni sugli altri, e va bene, cosî dev’essere: quest’egoismo è in noi nient’altro che la inesorabile volontà di potenza. Ma c’è una distinzione che più di ogni altra decide del valore dello uomo: quella fra maggiori o minori detentori di tale volontà di potenza. Certo Nietzsche è complessivamente un rivendicatore

di tutta intera questa vita, la terrestre

e unica, e un

rivendicatore più particolare dell’egoismo umano in genere con cui questa vita si vive. Ma calcolando approssimativamente si ha l’impressione che nove decimi della sua energia rivendicativa li ha spesi a rivendicare non tanto la vita in genere o l’egoismo in genere e neppure l’egoismo virile in genere: bensi la vita dei forti contro la vita dei deboli, e a scavare un abisso sempre più profondo fra queste due categorie di viventi, a delineare le due « morali » opposte assegnate agli uni e agli altri, a esaltare l’una e a denigrare l’altra. Come si vede e come meglio si vedrà, della totalità della vita umana ben poca è quella vita a cui Nietzsche consente di legittimamente sussistere e meno ancora quella per la quale egli realmente si compromette. Nor la vita eterna in Dio, naturalmente, né fin d’ora la vita mistico-religiosa del rapporto interpersonale uomo-Dio, di cui però qualcuno potrebbe ancora sapere o esperire che è la massima chance di vita offerta fin d’ora all’uomo, la massima chance della volontà di potenza, anzi la unica chance d’autentico autosuperamento e di crescita sopra se stessi dell’uomo che mira ad essere

LE DUE

MORALI

E LORO

MORFOLOGIA

113

più che uomo. Ma inoltre zon la vita dello spirito, dell’intelletto che cerca la verità, e zon la vita della stessa verità, una volta scoperta, in noi. Nor la vita superindividuale, interpersonale, sociale. Non la vita morale concepita nella libertà, con i suoi conflitti, con il suo pathos profondo e misterioso, le sue sconfitte e le sue resurrezioni. Now la vita dei più deboli se non in funzione della vita dei forti. Quanti non (e non li abbiamo ancora elencati tutti) nel sf cosî mil-

lantato di Nietzsche alla vita! Ma a quale vita più precisamente egli dice sî?

4. - LE DUE

MORALI

E LORO

MORFOLOGIA.

Per avere una risposta esatta a questa domanda, occorre premettere una descrizione il più possibile precisa delle due morali di cui si è detto cosî come Nietzsche le ha dipinte. Sono la Herrenmoral e la Sklavenmoral, la morale dei signori e degli schiavi: le due forse più famose o famigerate fra le formule nicciane indicanti l’opposizione di cui appena sopra. Avremo cosîf bene in dettaglio le esatte componenti della vita che Nietzsche avalla e di quella che ripudia. Notiamo però subito che il termine « morale », sostantivo, aggettivo e affini, non è mai proprio sotto penna nicciana, è tutt’al più parodiato. Non siamo forse fin dal principio e radicalmente al di là del bene e del male, cioè della morale? Il termine proprio dovrebbe essere: « Morfologia delle due diologie ». Vi si descrive semplicemente la vita (bios) dei signori e degli schiavi. Di come vivono né gli uni né gli altri hanno minimamente merito, demerito, colpa!. Ma è inevitabile anche per Nietzsche servirsi, per definire il 10 Che m'importa la morale, a me importa la vita! Cosî Nietzsche. Tuttavia anche ai veri moralisti tradizionali ciò che veramente importa è la vita, checché ne dica Nietzsche in CI 80 s. Anche per essi è la vita il criterio della moralità. Si è più o meno buoni in quanto si incrementa più o meno la vita, si è buoni o si è cattivi se si vuole, ama, rispetta o non si vuole, non si ama, non si rispetta la vita: ma la vita intesa nella sua totalità e nell’ordine gerarchico dei suoi valori. Nella « vita » contratta come Nietzsche l’intende e nel capovolgimento dei suoi valori è chiaro che una morale non ha più senso, anche a prescindere dal fatto che è impossibile a causa del determinismo. Questa « vita » è ostile alla totalità e a un ordine gerarchico di valori salienti dalla materia verso lo spirito.

114

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

comportamento vitale degli uni di contro a quello degli altri, della coppia di termini contrari fondamentale per la classificazione dei valori e dei non valori: cioè della coppia « buono » e « cattivo ». In tedesco si può dire in due modi: gut bose e gut-schlecht. La prima coppia ha senso morale, la seconda senso puramente biologico o comunque extramorale. Ora si nota che Nietzsche, tutte le volte che intende esprimere seriamente una opposizione di valori vitali, si serve della coppia a senso biologico e non della coppia a senso morale. Allora egli chiama seriamente buoni (gu?) i signori e cattivi (schlecht) gli schiavi, per esempio nel capitolo di A/ di là intitolato appunto: «Gut und bése, gut und schlecht » (in italiano: « Buono e malvagio », « buono e cattivo »). Il termine Zése (malvagio, ossia cattivo in senso morale) quando viene predicato — e succede spesso — degli Herrez, ha

in Nietzsche sempre suono parodistico, ironico o malizioso. Sono gli « schiavi », si vuol dire, che chiamano béòse i signori, e ciò in base alla fasulla morale degli schiavi, cioè in base alla morale tradizionale, dalla morale ebraico-cristiana-platonico-buddhistica alla morale borghese-liberale-socialista. Cos in base alla stessa morale gli stessi « schiavi » si chiamano gut, che è l’altro termine usato parodisticamente da Nietzsche tutte le volte che lo predica in genere degli « schiavi » o che lo coglie da sotto la penna dei moralisti. La stessa parodia e lo stesso sarcasmo valgono naturalmente per ogni altro termine sinonimo, analogo, derivato dai suddetti e per tutto il frasario che ne consegue. « Buono » allora vuol dire bonario, innocuo, ingenuo, un po’ stupido, un bonborzzze (ABM 181). I « signori » vengono dunque contrapposti agli « schiavi» in senso serio come « buoni » a « cattivi » (schlecht) e in senso parodistico come « malvagi » (56se) a « buoni ». Si

tratta evidentemente d’una contrapposizione di valori e disvalori vitali, o più precisamente di valori vitali massimi da una parte e valori vitali minimi dall’altra. Di quali valori più esattamente si tratta? In altre parole: quali le ulteriori specificazioni nicciane dei termini generici di gut (nella duplice accezione), di schlecht, di bose? Bisognerà cioè indagare su altre coppie di termini contrari adoperati da Nietzsche con maggiore frequenza e preferenza, allo scopo di ulteriormente specificare il comportamento vitale dei suoi signori e dei suoi schiavi. Noi abbiamo condotto questa indagine e abbiamo cercato di decantare il turbinoso complesso termino-

LE DUE

MORALI

E LORO

MORFOLOGIA

115

logico nicciano in cui ci siamo imbattuti. Ci è parso cosî infine di poter risolvere ogni altro molteplice termine contrario a tre coppie fondamentali: alle coppie « aristocraticovolgare » (vorzebm-gemein), « forte-debole », « sano-malato », tutti ogni volta predicati seriamente dalla penna nicciana rispettivamente dei signori e degli schiavi. Risolvibili nei detti ci sembrano in ultima analisi, come vedremo, anche termini relativi a tutta prima estranei o lontani ai detti come: « audace-pauroso »,

« attivo-passivo »,

« veritiero-bugiardo »,

« su-

periore-inferiore », « alto-basso ». Un’attenzione particolare si meriterà la coppia «astuto-ingenuo », due contrari sulla cui attribuzione di classe Nietzsche ci risulta incerto o contradditorio. E un capitolo a parte meriterebbero i contrari relativi « avventuroso-conformista » in quanto si ricollegano alla radicale opposizione metafisica di essere-divenire!!. a) Prima

coppia:

aristocratico-volgare.

A «che cos'è aristocratico », cioè vrebbe quantomai qualificare gli Herren ven, Nietzsche dedica un capitolo intero, del bene e del male. È, per noi, la cosa bia mai scritto. Neppure lo Zarathustra

allo spirito che dodi contro agli Sklal’ultimo di A/ di ld pit squisita che abha pagine o ha ca-

1! Circa l’« essere» e il « divenire » in Nietzsche notiamo quantomeno che questi due concetti metafisici universali vengono da lui assunti assai poco metafisicamente come due concetti puri (e rispettivamente come due realtà pure), nettamente opposti l’uno all’altro; e precisamente l’« essere » come includente ogni realtà ferma, sempre eguale a se stessa, stagnante, antica; invece il « divenire » come includente ogni realtà in movimento, sempre nuova e diversa, viva insom-

ma. E dunque come se l’« essere », supposto scevro di divenire, non fosse vivo bensî morto, in fondo inesistente o illegittimamente esistente; come rulla o di fatto o di diritto. E dunque come se l’essere più profondo, Dio, fosse il Motto, il Nulla più profondo. E rispettivamente come se il « divenire » non fosse pure qualcosa che è, non fosse anch’esso un modo di « essere »! E come se un divenire puro fosse possibile, possibile senza qualcosa che diviene: una pianta, un uomo, un corso d’acqua! Non occorre che un po’ di buon senso a mettere in crisi simili concezioni. Ciò non ha impedito a K. H. VoLKMANNScHLuck, Leben und Denken. Interpretationen zur Philosophie Nietzsches, Francoforte 1968, di esaltare Nietzsche come il grande rivendicatore del divenire contro l’essere (nel senso indicato). Su questo tema cfr. in Nietzsche per esempio: GS 173; Z 101; CI 69, 71, 147; EH

74.

116

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

pitoli che possano eguagliarlo: non di certo per felicità di contenuto, ma neppure talvolta per felicità formale. Esso reca con sé in sottofondo e anche talvolta in superficie i soliti assurdi principi contro cui milita la polemica di questo saggio. Formula qua e là corollari che per cortesia diremmo comici, come il « a nobili nonnisi nobilis, a plebeio nonnisi plebeius » (par. 264). Ha cadute strada facendo e un vero tonfo al penultimo paragrafo, e all’ultimo una molto verosimile coperta retractatio. Ma ha pagine realmente e in ogni senso nobili, dunque degne del loro tema, e ne ha altre di cosî umane, misteriose, seducenti anche su di noi, che a ogni rilettura ci coglie il sospetto d’un altro Nietzsche segreto, il sospetto che il Nietzsche a noi noto sia soltanto la maschera con cui l’altro si è nascosto l’anima e il volto più veri. Queste sono soprattutto le pagine dove, sempre svolgendo il tema descrittivo dei contrassegni del carattere « aristocratico », egli arriva al contrassegno che la « profonda sofferenza rende nobili »; che il grado di profondità della sofferenza « determina la gerarchia ». Egli parla, lo si sente bene, per autoesperienza, parla di sé. « Questo spirituale taciturno orgoglio del sofferente, questa superbia dell’eletto della conoscenza [che soffrendo ci si conquista], dell’ ’’iniziato’’, del quasi offerto in sacrificio », sono l'orgoglio e la superbia di Nietzsche. Ed è suo, assai presumibilmente, il bisogno di cui è detto che l’iniziato prova verso « ogni forma di travestimento per proteggersi da mani invadenti », il bisogno della « maschera ». È anche lui certamente uno di quelli « spiriti liberi, audaci, che vorrebbero nascondere e negare di essere cuori infranti, superbi, immedicabili; e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo. Donde risulta che si addice a una più raffinata umanità [segno essa pure di aristocrazia] « serbar reverenza ’’di fronte alla maschera” » (913 s., par. 270). Nietzsche anche lui un cuore infranto, immedicabile, infelice, è mai possibile? Non ammetterà mai di esserlo, ma dietro la maschera certamente lo è. Né mai ammetterà di appartenere lui pure ai « poeti » di cui riferisce due pagine più indietro: « questi Byron, Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol [...], uomini dell’attimo, esaltati, sensuali, bambineggianti, sconsiderati e subitanei nella fiducia e nella sfiducia; con anime avvezze a tener celata una qualche crepa; uomini che spesso, nelle loro opere, cercano l’oblio di una memoria

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MORFOLOGIA

117

troppo fedele, spesso smarriti nella melma e quasi innamorati di essa, al punto di assomigliare ai fuochi fatui erranti intorno alle paludi, e di fingersi stelle [...], spesso in lotta con un lungo disgusto, con un fantasma, ognor ritornante d’incredulità che li rende gelidi e li costringe a spasimare per la gloria [...] — quale martirio sono questi grandi artisti e uomini superiori in genere per colui che li ha decifrati una volta! » (129 s., par. 269). No, lui non è di costoro, lui è « lo psicologo nato », «il divinatore di anime » (191) che

li ha appunto decifrati e che proprio per questo, quando « la moltitudine, i dotti, i visionari hanno appreso la grande venerazione » a loro riguardo, egli non ha appreso che «la grande pietà accanto al grande disprezzo » (192). Anche questi sono contrassegni di spirito aristocratico, nella fattispecie dello psicologo aristocratico, di lui Nietzsche: conoscenza della verità, dell’orrida verità che sta dietro la maschera dei cosiddetti « grandi uomini », oggetto per altri di venerazione; conseguente disprezzo e insieme pietà. Anche pietà: « quando un uomo che per natura è signore [Herr] prova pietà, ebbene, questa pietà ha valore! » (202). Pietà per «i deboli, i sofferenti, i tribolati e altresî gli animali » e soprattutto per gli « uomini superiori » che crollano interiormente e naufragano. Anche questo è segno di nobiltà: essere esposti di più al pericolo del naufragio interiore, di avvilirsi fra i vili, di fallire nell’opera, di suicidarsi, di impazzire. La pietà è «il multiforme martirio dello psicologo [nobile], che ha scoperto questo ruinare, che ha già scoperto una volta e poi quasi sempre torna di nuovo a scoprire questa totale interiore ’’insanabilità’ dell’uomo superiore, questo eterno ’’troppo tardi” in ogni senso e attraverso l’intera storia ». Ma la pietà, vi si ammonisce, è più che un contrassegno di nobiltà, una tentazione per costui, una vertigine a crollare, a « pervertirsi » lui stesso (191). No, Nietzsche non accetterà mai di essere conteggiato fra i naufraghi, i degni di pietà. Fra gli esposti, tutt’al più, al crollo per pietà. La pietà o «compassione » è l’ultima prova di Zarathustra, una prova che anche Nietzsche supererà, ma solo fino al giorno in cui (3 gennaio 1889, a Torino) egli crollerà, con un solo gesto, insieme nella compassione e nella follia, vinto dalla pietà per un cavallo maltrattato. Poche pagine dopo le citate la ripresa del motivo della maschera applicata con evidente spregio dello scrivente ai filo-

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CAP. II - FRIEDRICH

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sofi, la cui filosofia non sarebbe che la maschera sotto cui si vogliono celare segreti inconfessabili, ci leva l’ultimo sospetto che Nietzsche possa ammettere che la sua filosofia sia una simile maschera.

Tuttavia! Accettare è una cosa ed essere è un’altra. Ida Overbeck e Lou Andreas-Salomé ci hanno lasciato testi assai plausibili dello stato di estrema prostrazione, di orrendo spavento, di disperazione in cui Nietzsche è stato sorpreso più volte, specie al tempo dell’eterno ritorno. Come noi ora dopo aver letto, cosî anche lui, Nietzsche, dopo aver scritto la pa-

gina di cui sopra (192) sui poeti che mascherano con la poesia la propria segreta tragedia, si è ricordato delle sue donne, delle pie donne che ebbero pietà di lui nella sua tragedia e che tentarono di confortarlo con il loro amore. E scrive allora sull'amore una delle pagine più penetranti che la letteratura conosca; e non solo sull’amore, ma insieme su Gest che sul richiamo alle pie donne consolatrici del Vangelo, ovvio nel contesto, gli era affiorato alla memoria: « È comprensibile che proprio [le donne] vengano a sperimentare, con tanta facilità, quei trasporti di sconfinata pietà, carica di estrema abnegazione, che la moltitudine soprattutto la moltitudine venerante, non comprende e aggrava di commenti incuriositi e fatui. Questa pietà [non della mol-

titudine e dunque aristocratica] incorre regolarmente in illusioni niguardo alla sua forza: la donna vorrebbe credere che l’amore possa tutto — è la sua particolare fede. Ahimé chi ha la sapienza del cuore indovina quanto povero, sprovveduto, pretenzioso, fallace, più facilmente distruttivo che salvatore sia anche il migliore e il più profondo amore! — È possibile che sotto la favola sacra e il travestimento della vita di Gesù sia celato uno dei più dolorosi casi di martirio della sapienza intorno all'amore: il martirio del cuore più innocente e più bramoso, che nessun amore umano avrebbe potuto colmare, che pretendeva di amare e di essere amato e null’altro, con durezza, forsennatamente, con terribili scatti contro coloro che non lo volevano amare; la storia di un povero insaziato e insaziabile nell'amore, che dovette inventare l’inferno per spedirvi coloro che non lo volevano amare — e che infine, divenuto sapiente intorno all'amore umano, dovette inventare un Dio che è tutto amore, tutto potenza di amore — che ha pietà dell'amore umano, essendo esso cost miserabile, cosî insipiente! [variante: ”’e che sa amare colui

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MORALI

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MORFOLOGIA

119

che da nessuno sulla terra è stato abbastanza amato”]. Chi sente a questo modo, chi ha una siffatta esperienza intorno

all’amore — cerca la morte. — Ma perché perdersi dietro a queste cose dolorose? Ammesso che non si debba farlo » (93):

Non tutto esatto, certo, quanto a Gest, anzi nel complesso falsissimo. Ma vero quanto a certi amori malati e femminei, e forse vero quanto a Nietzsche. Non si può scrivere in questo modo né di poeti segretamente naufraghi, né di donne pietose, né di amore, senza autoesperienza. Anche altri contrassegni nicciani supposti congeniti degli Herren non deludono. Per esempio, l’« istinto », « il piacere », anzi «l’entusiasmo della venerazione » (186, 181) (Ebrfurcht: venerazione o rispetto). Non la venerazione « invadente » del volgo, bensî composta, colma di pudore. Vene-

razione per se stessi anzitutto, ma anche per gli altri del proprio rango. Venerazione per gli antenati e per la tradizione (187). E venerazione perfino, almeno « fino a oggi » (186), per la Bibbia, per i « sacri vasi », per le « esperienze sacre », « dinanzi alle quali togliersi le scarpe e tenere lontana la mano » (187). Questo rispetto del sacro è « una disciplina fotmativa dei costumi » che l’Eurtopa deve al cristianesimo, disciplina perduta dai « credenti nelle idee moderne » che non rispettano più nulla. Venerazione profonda perfino — « antica formula religiosa in un senso nuovo » — « per la propria anima » (200). Nobile e insieme nato nel clima antico dell'Europa cristiana è l’amore-passione, l’amore venerante, « specialità europea ». Ma

non

è tutto questo

un rimettersi

« in ginocchio davanti alle cose »? Si va, comunque, avanti a parlare di « gratitudine », di « finezza d’animo », di « dedizione », di « aiuto allo sventurato », di « bontà » (181, 179, 186). In Gewedlogia, dove ritorna il tema, si parla addirittura di « perdono », di « amo-

re », di « rispetto grande dei nemici » (238). Ma non si plagiano in questo modo proprio le virtà cavalleresche-medioevali? Si risponde che quando un Herr dona, perdona, s’interessa del prossimo, non lo fa per amore o per pietà, ma per « sovrabbondanza » di bene interiore o di potenza (179). Tanto meno lo fa per avere « approvazione » o per « vanità ». Un Herr non dipende dalle opinioni altrui o da misure di valore estranee a sé. È lui « il creatore dei valori » (182). Ed egli è molte altre oneste, benevoli, lodevoli cose »: coraggioso,

CAP.

120

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

perspicace, simpatico, solitario (199). Loda altri, ma non se

stesso, e altri solo quando « non si è d’accordo » (198). Eccetera (cfr. GM 255; GS 37, 163). Ma se cosî è lo Herr, quali mai ragioni resteranno allo

schiavo di bollarlo di bése? È « buono » fin troppo anche nel senso suo. Nietzsche si è esposto non poco in queste pagine, accostandosi all’avversario, confondendosi ibridamente con esso. E lo sa pure: ne ha già avvisato il lettore con l’avverti-

mento che « in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell’una nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco ». Ciò « perfino nello stesso

uomo,

dentro

/4 stessa

anima » (178). Bisogna

ricor-

darsi a questo punto che Nietzsche era un carattere ampiamente e intensamente oscillatorio, e passava di continuo ora lento ora improvviso da un umore all’altro, da umori iracondi a umori irenici e idillici. Ciò è palmare nello Zarathustra, ma è reperibile in ogni suo libro. La dominante è senza dubbio sul polo irascibile. È un « cattivo » ed è fiero di esserlo. E si sa bene anche contro chi e che cosa soprattutto: contro il cristianesimo, contro l’epigonismo cristiano, contro i recidivi come Wagner, contro in genere la

recidività. Quando però l’oscillazione tocca, anche pet poco, il polo contrario, Nietzsche sembra ricordarsi d’un altro contrassegno nobile: solo nemici degni di molto onore (GM 238).

Affinché però sia ben chiaro che lui, Nietzsche, non è neanche l’ombra d’un epigono o d’un recidivo, vengono anteposti alla trattazione sul senso aristocratico due paragrafi terribili (257 s.) dove si legifera molto perentoriamente che i veri « signori », comunque possano o debbano essere per essere aristocratici, hanno sempre avuto e sempre avranno nei riguardi degli schiavi un rapporto di rapina e di preda. E in mezzo al corpo stesso della trattazione vengono qua e là intessute, affinché gli eventuali signori non se ne dimentichino, parole come « pericolosità », « terribilità », « lunga vendetta », « durezza », « impazienza », « egoismo ». Sarà

bravo però colui che saprà accordare i detti termini con i suddetti. AI penultimo paragrafo poi, intestato al « genio del cuore », Nietzsche si fa apostrofare nientemeno che da Dioniso, « dio e filosofo » (ma perché non da Eros dal momento che si parla di «cuore »?) e si fa promettere che egli ren-

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MORFOLOGIA

121

derà l’uomo ancora « più forte, più malvagio e più profondo di quanto non sia ». E « il dio-tentatore » aggiunge, sorridendo con sorriso « alcionio »: «e anche più bello » (205). Misterioso, ma non abbastanza. La libido non è morta. Siamo cosî entrati in dialettiche che appartengono alle coppie di termini contrari che ci aspettano. Là assisteremo alla lunga cascata di Nietzsche, lunga o anche a picco, da un’aristocrazia dello spirito e del comportamento a cui si è per un attimo innalzato plagiando il cristianesimo, verso davvero la volgarità; o in termini metafisici, dallo spirito verso la materia semplicemente. Ma che cos'è, invece, « volgare »? È detto molto presto: è il contrario o è l’assenza di sentimento aristocratico. L’uomo plebeo è vanitoso, pauroso, vile, sfiduciato, adulatore, bugiardo, scettico, pessimista, diffidente, incontinente, invidioso. Vuole aver sempre ragione, è impudente, invadente, sempre intruppato con altri in un gregge. Tutto è comune fra i volgari e nel volgo, e dunque tutto meschino, sempre più meschino, dato l’inevitabile progressus în simile che l’investe. Suo vizio anticavalleresco pet eccellenza: il ressentizzent verso i signori. Ma di questo più oltre. b) Seconda coppia:

i forti e i deboli.

mai chi, thos tisi

Il paesaggio umano come Nietzsche lo vede si va orconfigurando. Si possono distinguere in alto alcuni porari e per lo più diradati uomini solitari, affetti dal « padella distanza » perfino fra loro, massi erratici aggiransulle creste dei monti e sugli altipiani, o anche talvolta

per

caverne

ed abissi

(come

Zarathustra):

sono

gli aristo-

cratici, gli Herren, i signori. Laggiù in basso invece, nelle valli e nelle piane, ecco i molti insieme, i plebei, gli schiavi. Potrebbero sembrare due razze cosî diverse e cosî distanti fra loro da non aver bisogno neppure d’incontrarsi, da potersi ignorare a vicenda. Sono invece destinate a urtartsi e a scontrarsi di continuo. È l’invidia (il ressentiment) degli uni che non tollera gli altri, ma è soprattutto la forza di questi altri, la loro esplosiva volontà di potenza, che ha bisogno, semplicemente per essere e per esplicarsi in quanto potenza, di meno forti di sé, dei più deboli a cui sovrapporsi, su cui dominare. I forti senza i deboli, i signori senza gli schiavi

CAP. II - FRIEDRICH

122

non anche

sono su

neppure piano

concepibili.

teoretico,

I due

concetti

rigorosamente

NIETZSCHE

stessi

reciproci.

sono,

La

vita

stessa ha bisogno, per essere vita, della lotta. La « lotta per la vita» è stata, come Darwin ha dimostrato, la legge fondamentale dell’evoluzione dei viventi. La vita ha progredito unicamente per via selettiva in quanto i viventi migliori e più forti, sempre pochi in mezzo a molti, si sono affermati sui deboli e sui più. Questa è legge evidente in tutti i viventi infraumani. Perché non anche negli umani? Giunta fino all’uomo, la vita è destinata a progredire ancora per mezzo della selezione crudele dei pochi fra i molti, dei forti fra i deboli, dove i secondi hanno per loro unica ragion d’essere quella di servire i primi, di esistere in funzione dei primi (CI 79, 130;

AC

172;

ABM

77; Z 243,

246

s.). Chi

ha

detto che l’evoluzione deve arrestarsi all'uomo cosî come oggi è, che ogni uomo deve essere fine e non mezzo, che ognuno deve aiutare ogni altro, che anzi i forti e i migliori devono servire più degli altri alla promozione dei più, di tutti? L’ha detto il ressentizzent della moltitudine, l’hanno detto i preti o l'hanno detto quei « preti dissimulati » che sono i filosofi: tutti esponenti degli schiavi e amministratori del ressentiment. Cosi pensando essi hanno frenato l’avanzata della vita e hanno favorito la conservazione e la propagazione della misera vita malata di una moltitudine di uomini deboli, indegni di vivere (ABM 67-70). Ma una fotza che ha bisogno, per essere tale, del debole da abbattere, non è, almeno in questo, una forza debole? Non è più forte una forza che si propone ed è in grado di aiutare il debole ad essere anche lui un forte? Questa possibilità, questo proposito — quintessenza dell’uomo davvero aristocratico-cavalleresco — non passa neppure per l’anticamera del cervello di Nietzsche.

La verità, la dura verità,

la sola possibilità sta, quanto a lui, unicamente nell’eterno inevitabile stato di guerra del genere umano: « Pretendere dalla forza che ron

si estrinsechi

come

forza, che mor

sia

un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente cosî assurdo come pretendere dalla debolezza che si estrinsechi come forza » (GM 244). E « che gli agnellini nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v'è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli

LE DUE

MORALI

E LORO

MORFOLOGIA

123

agnellini » (GM 243; cfr. anche GM 275, 280; GS 33, 39). Nietzsche non incolpa i deboli del loro resserzizzent, ma li disprezza; ma tantomeno incolpa i forti della loro rapacità, anzi li ammira e li aizza. Notiamo subito in proposito un dato ricorrente e, come meglio vedremo, fondamentale, in questa morfologia nicciana delle due morali. Il modello a cui Nietzsche fa più frequentemente ricorso, il simbolo descrittivo e interpretativo prediletto dell’uomo come egli lo vede è l’arnizzale. E precisamente l’animale selvaggio, rapace, feroce, insidioso, astuto e terribile è per lui il simbolo e il modello degli Herrex; l’animale mansueto e domestico, talvolta vilmente astuto, lo è degli schiavi. Si pensi alla compagnia preferita di Zarathustra, il solitario. Non è una compagnia umana. Questa la sfugge. Quella stessa dei suoi eventuali discepoli e degli « uomini superiori » dell’ultimo periodo lo infastidisce. Ma ci sono invece due animali che non lo abbandonano mai, «i miei animali » come egli affettuosamente li chiama: l’aquila e il serpente, questo sempre « teneramente » avvinghiato al collo dell’aquila. Abbiamo cosî descritto il primo crollo in cui sprofonda deformandosi l’immagine nicciana dell’uomo ideale, crollo dall’aristocratico al forte, ma a un forte modellato sull’animale da preda, la cui forza, guidata dall’astuzia, non ha di mira che l’animale-preda, l’uomo debole. Siamo dunque chiamati a comportarci come animali e a trattare gli altri uomini come animali. Simili crolli dal nobile al barbaro e al bestiale si verificano talvolta repentinamente da una pagina all’altra o da una riga all’altra sui libri di Nietzsche. Ecco un esempio: « Quegli stessi uomini che sono cosî severamente tenuti nei limiti dal. costume, dalla venerazione, dall’uso, dalla gratitudine [...] e si dimostrano cosî perspicaci nel rispetto, nell’autodominio, nella delicatezza del sentire, nella fedeltà, nell'orgoglio e nell’amicizia — sono, là dove comincia il mondo estraneo, gli stranieri —, non molto migliori di scatenate belve feroci [...]. Allora regrediscono nell’innocenza della coscienza propria di un animale da preda come giubilanti mostri che escono forse da una terribile serie di delitti, incendi, infamie, torture [...]. Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica dilagante bestia bionda, avida di preda e di vittoria; di tanto in tanto è necessario [sic{/] uno sfogo per questo fondo nascosto, la belva deve

[sic{]

di nuovo

balzar fuoti, deve di

124

nuovo

CAP. II - FRIEDRICH NIETZSCHE

rinselvarsi



aristocrazia

romana,

araba,

germanica,

giapponese, eroi omerici, vichinghi scandinavi — tutti sono eguali in questo bisogno [...]. La profonda gelida diffidenza che anche oggi nuovamente suscita il tedesco, non appena instaurata la sua potenza —

è ancor sempre una ripercussio-

ne di quell’inestinguibile terrore con cui l’Europa, nel corso dei secoli, ha riguardato la furia della bionda bestia germanica » (GM 239 s.; cfr. GS 248, 256). Belle cose accettate per « necessarie » non solo, ma ammirate, « magnifiche »! Si ammette anche però, dirà qualcuno, che sono « retrocessioni» (« regrediscono ») dalla civiltà nella barbarie. È detto troppo in fretta. Si volti semplicemente una pagina e si legga chi sono per Nietzsche i veri responsabili della « refrocessione dell'umanità »: non sono i barbari di cui sopra, ma gli schiavi, i detentori del resseztizzent, i quali operando la loro vile vendetta sui barbari invasori hanno ridotto con la educazione l’animale da preda « uomo » a « animale mansuefatto e civilizzato, un arizzale domestico »; sono «i discendenti di ogni schiavità europea e non europea e di ogni popolazione preariana in particolare — costoro rappresentano la retrocessione dell’umanità » (GM 241 s.). È chiaro di chi

si tratta: dei cristiani latini che ammansendo i barbari germani invasori e civilizzandoli li hanno in realtà, secondo le tavole di valore nicciane, degradati e fatti regredire. Ma si tratta anche degli ebrei (si noti quel « preariana »), giacché il cristianesimo è per Nietzsche un epigono dell’ebraismo. c) Ebrei e Gesù.

Non sarà inutile a questo punto un po’ di chiarezza sulla controversa questione dell’antisemitismo di Nietzsche. I responsabili effettivi della « retrocessione dell’umanità », cioè della ormai più che bimillenaria decadenza, svitalizzazione, svirilizzazione soprattutto dell'Europa, sono per Nietzsche, come s’è già accennato, parecchi: Buddha o il buddhismo; Socrate e Platone, esponenti di quella Graecia capta che poi ferum victorem coepit « civilizzandolo »; l’ebraismo, il cristianesimo classico e quella larva di cristianesimo laicamente impallidita che i suoi epigoni, i « filosofi moderni », hanno trattenuta. Ora, ogni volta che Nietzsche aggredisce isolatamente uno qualunque di costoro, si direbbe, in base alla vio-

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125

lenza dell’aggressione e anche al tenore esplicito dei giudizi, delle ingiurie, delle invettive, che sia ogni volta lui il responsabile peggiore. C’è inoltre un assunto nicciano fondamentale secondo cui la detta millenaria décadence avanza nella storia procedendo complessivamente e fatalmente di male in peggio in direzione di quel punto minimo, di quell’eclissi completa dei valori che è, in parola nicciana, il nichilismo: dalle sue tenebre insorgerà il superuomo. In questa prospettiva è attendibile che Nietzsche si faccia spesso soprattutto cattivo contro i moderni, i ritardanti, gli atei e i nichilisti tiepidi. Allora altri, segnati nella lista dei responsabili di cui sopra, arrivano, per contrasto,

a ricuperare punti a pro-

prio favore sulla bilancia dei giudizi di valore nicciani, o ad essere perfino gratificati di qualche discreta glorificazione. Buon umore, buona salute e oscillazione umorale irenica aiutando, è possibile che allora, per esempio, il cristianesimo acquisisca ai suoi occhi un significato grande nel processo: quello di avere realizzato per l’umanità il gradino penultimo in cima alla scala dei valori storici, dopo l’eclisse del quale si avrà il grado ultimo e sommo, che sarà il superuomo (cfr.

A(45% 51 FrA 326, 325):

Era dunque attendibile che in simili momenti Nietzsche arrivasse a scrivere parole buone, di difesa e di gloria, anche per gli ebrei e l’ebraismo, da cui il cristianesimo discende. Le ha scritte infatti: specie nel periodo della sua furibonda inimicizia contro l’« antisemita » Wagner, Wagner ancora vivente. Ma una volta morto Wagner (Zarathustra era allora agli sgoccioli), di parole buone per gli ebrei, a quanto ci consta, non ne ha scritte più, ad eccezione di un solo passo di A/ di lè (164). Anzi a cominciare con Genealogia della morale gli ebrei e l’ebraismo gli s'impongono sempre più decisamente come i responsabili massimi e primi di un crimine bimillenario perpetrato contro la vita e della conseguente decadenza dell’umanità: primi per origine, per efficienza e per accanita clandestina presenza del loto spirito nella storia. L’imputato numero uno è dunque, da allora in poi, il popolo ebreo perché popolo quanto mai altri teocratico e sacerdotale, sempre e in tutto e per tutto governato dai sacerdoti. Massimamente colpevole perciò è in particolare il sacerdozio ebraico, con la sua « titannide sacerdotale » (AC 220), archetipo del «prete ascetico » d’ogni tempo e cristiano in specie. Istigato certo esso pure dalla volontà di po-

126

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

tenza e di dominio (sulle masse), il sacerdozio ebraico inventa per primo, a questo scopo, un « Dio », una « religione »,

una « morale ». Trasferendo «il centro di gravità della vita non nella vita, ma nell’ ”’al di là” — nel nulla », il sacerdozio (ebraico) istituisce il principio antivitale per eccellenza in ordine alla svitalizzazione dell’uomo, non solo, ma se ne serve puntualmente ogni volta come strumento di potere sui già svitalizzati, sui deboli, sui molti, sulla massa. Con l’invenzione di questo « Dio », Meta Imperativo Premio, il sacerdozio ha fabbricato una colorata ragione di vita anche per chi ragioni di vivere non ne ha. Si tratta di « una miserabile adulazione della vanità personale » (AIC 221) offerta ai miserabili, ma appunto con questo, e inoltre con il corollario religioso dell’eguaglianza di tutti gli uomini, con le idee crudeli di peccato, di giudizio universale e di eterna opposta remunerazione dei « buoni » e dei « cattivi », i sacerdoti offrirono al resseztizzent dei deboli, umiliati ed offesi una soddisfazione senza pari di fronte agli Herren loro dominatori e sfruttatori. Tutto l’arsenale era in tal modo allestito in vista di una seconda conquista (a rovescio) del mondo, in vista della addomesticazione, mansuefazione, banalizzazione universale, la cosiddetta «civiltà ». Tale fu l’impresa del sacerdozio tiranno ebraico, passata in seguito per gran parte al potere sacerdotale cristiano: tutte le armi della religione e della morale trasformate in un astuto espediente di potere della occulta e perversa volontà di potenza dei preti. Occulta, perché Nietzsche è ancora disposto a riconoscere talvolta ai preti in genere (del passato, non del presente, cfr. AC 213), in tutto ciò, una inconscia buona fede. Perversa, perché perverte tutta la tavola dei veri valori vitali, rovescia i bassi negli alti e viceversa, e corrompe la vita; e perché anche i preti sono dei malati rosi alle radici, i preti questi « piccoli aborti di bacipile e di mentitori » (AC 224). Ora, la perversione sacerdotale ebraica è passata tutta, scavalcando Gesù, nel cristianesimo. Il veicolo del trapianto è stato Paolo di Tarso, « questo falsario» del Vangelo di Cristo. Con Paolo e con il sacerdozio cristiano, con la « chiesa» da lui impiantata, « la tirannide sacerdotale volle ancora una volta pervenire alla potenza [...], tiranneggiare le masse, formare

la mandrie » (AC 220). Ma tutto ciò non è

evangelico, non è di Gest: è ebraico; e unicamente ebraici e non di Gest sono i concetti alienanti o crudeli di « pecca-

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MORALI

E LORO

MORFOLOGIA

127

to» e di « giudizio », di « Dio » e di « Cristo-Dio » ripristinati dalla chiesa. Realmente gli ebrei sono «il popolo più fatale della storia del mondo » (AC 192). « Tutto ciò che è stato fatto sulla terra contro ”i nobili”, i ’’potenti”, ”i signori”, ’’i depositari del potere” non a una parola in confronto a ciò che contro costoro hanno fatto gli ebrei» (GM 232). Con gli ebrei « comincia nella morale la rivolta degli schiavi » (ABM 94)! Come ormai ben si vede, la vera partita non è tanto quella tra forti e deboli, fra signori e schiavi semplicemente, sarebbe una pattita troppo facile per i signori, troppo presto decisa. La vera partita è tra forti e forti, tra due tipi diversi di forti: #ra i signori e i preti. Ossia: tra due assai difformi, antitetiche volontà di potenza, ma in qualche modo sempre ugualmente pericolose e potenti. Essendo però entrambe appunto « volontà di potenza », Nietzsche non può non trovarle entrambe in qualche modo ‘legittime, non ammirarle in qualche modo entrambe, per quanto, una delle due, a denti stretti. Ma allora egli è obbligato a un’altra impresa ! Ebrei ed ebraismo sono dunque il nemico numero uno, il primo da estirpare, per Nietzsche. Il secondo sarà il cristianesimo. Prima bisogna estirpare la causa e poi l’effetto. Non è il solo punto in cui Nietzsche e Hitler coincidono. Che il nazismo sia perfettamente anticipato dal niccianesimo è lampante per chiunque conosca con una certa precisione i due termini del confronto. I libri di Nietzsche erano vangelo per Hitler, come si sa. Nietzsche disprezzava, è vero, i tedeschi del suo tempo, ma non la bionda bestia germanica delle invasioni barbariche, né eventualmente quella delle invasioni future (cfr. CI 99). Nietzsche è il massimo profeta e il massimo responsabile ideologico del germanesimo a cui si deve la prima guertta mondiale e del nazismo a cui si deve la seconda e i suoi stermini razziali. Non poté prevedere esattamente che la «nuova casta dominante sopra l’Europa », dotata di «una tremenda volontà propria, in grado

di proporsi mete al di là dei millenni» con «la costruzione della grande politica» (ABM 115) sarebbe stata fatta dai tedeschi, ma l’ha potuto auspicare (A 155). Auspicava «tempi feroci », « una purificazione dall’eccesso di cristianesimo e di morale » (FrA 559). Ha chiamato gli atei a raccolta e al dominio dell’Europa (A 69), e a un do-

minio senza pietà, « come hanno fatto fino ad 0gg i lo Stato e i prin cipi che sacrificarono un cittadino dopo l’altro a ”’causa degli interessi generali” come si diceva» (A 113). «E saranno duri, più di quanto uomini umanitari potrebbero auguratsi» (ABM 118). Ha auspicato «nuove guerre per amote delle idee e delle loro conseguenze » (GS 163). Invece non ha ritenuto «in alcun modo auspicabile che il regno della giustizia e della concordia sia fondato sulla terra (perché in tutti i casi sarebbe il regno dell’estrema mediocrità e cineseria), ci

128

niente affatto facile:

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

quella di ben differenziarle in quanto

volontà di potenza. Ora, che l’unica, anonima, universale volontà di potenza, alfa omega chiave, uno e tutto di Nietzsche,

abbia a lacerarsi in parti radicalmente opposte e mortalmente nemiche, può parere strano, ma non del tutto, quanto a lui, vista la piega egocentrica, stirneriana, che egli le ha prescritto nella sua concreta esplicazione. È anzi inevitabile il coagularsi di questa volontà in egoismi l’un contro l’altro armati, in uomini o in gruppi di uomini lupi l’uno per l’altro. Ma i due tipi o i due gruppi fondamentali tra cui si gioca la partita estrema sono, abbiamo visto, da una parte i « signori » e dall’altra i « preti ». Il senso della contesa è l’autoaffermazione degli uni di contro all’autoaffermazione degli altri. L’oggetto della contesa è il gregge, la massa: da schiavizzare, come dicono gli uni, i signori; da promuovere, come dicono (ipocritamente) gli altri, i preti (ipocritamente, perché la promozione del gregge per costoro non è nient’altro che la loro propria via all’autoaffermazione).

rallegriamo di tutti coloro che come noi amano il pericolo, la guerra, l'avventura [...], annoveriamo noi stessi fra i conquistatori, meditiamo sulla necessità di nuovi ordinamenti, perfino di una nuova schiavità, perché a ogni rafforzamento e innalzamento del tipo ”’uomo” è strettamente connesso un nuovo genere di schiavismo » (GS 256). «E speriamo sia attuabile una buona volta anche una razza pura in Europa » (A 178). « Agli spettacoli [e s’intende di guerra e di sopraffazione offerti dalla ’’casta dominante”] cui ci invita il prossimo secolo appartiene la decisione sul destino degli Ebrei europei» (A 150). E Zarathustra: « Piena è la terra di superflui [...]. Possano costoro essere distolti da questa vita» (Z 48); « Troppi vengono al mondo: per i superflui fu inventato lo Stato [democratico] » (Z 55); « Potrebbe venire un grande despota, un mostro accorto che, esercitando la sua clemenza e inclemenza, costringesse e facesse violenza a tutto il passato » (Z 247); « Noi dobbiamo udirlo, lui che insegna: ’’amate la pace come mezzo per nuove guerre, quella breve ancor pid della lunga!” » (Z 299); «Le cose migliori appartengono ai miei e a me; e se non ce le danno, ce le prendiamo: — il cibo migliore, il cielo più puro, i pensieri più vigorosi, le donne più belle! » (Z 346). E in Anticristo: «I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del rostro amore per gli uomini ». Ed Ecce homo parla del

«nuovo partito della vita, che prende in mano il più grande di tutti i compiti, l'allevamento dell’umanità al superamento di sé, includendovi l’inesorabile annientamento di tutto ciò che è degenere e parassitario » (75). E sappiamo bene chi sono per Nietzsche i degeneri e i parassitari: gli ebrei, i cristiani e i loro epigoni. Passi simili si potrebbero facilmente moltiplicare.

LE DUE

MORALI

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MORFOLOGIA

129

Trattandosi in questa nostra indagine di « morfologia del comportamento », la nostra domanda vette però in questo momento non sull’oggetto o sul senso, bensi sulle forme mediante cui le due opposte volontà di potenza, quella dei signori da una parte e dei preti dall’altra, mirano a realizzarsi. E a tale differenziazione morfologica è estremamente interessato Nietzsche stesso, giacché da essa dovrà risultare da che parte si trova l’autentica superiorità. Questa differenziazione egli ce l’ha delineata, ma non si può tuttavia dire che essa sia un capolavoro di coerenza o di lucidità, né che la superiorità che s’intende assegnare ovviamente ai signori risulti alla lettura cosî limpida ed univoca quanto si pretende. Aiutando un tantino a chiarire le cose, si arriva ai seguenti risultati. Anzitutto:

« I sacerdoti, com’è noto, sono

i nemici pit

malvagi [bose] — e perché mai? Perché sono i più impotenti » (GM 232). La volontà più forte, si vuol dire, è quella dei signori. Senonché i preti suppliscono al fatto di essere meno forti con il fatto di essere « più malvagi ». Ma, più malvagi si è, non è meglio per Nietzsche? Non ha già detto e ripetuto mille volte e con trionfale ironia che la mal vagità (Bosheit) è una magnifica prerogativa dei signori? (Si prega anche di notare che « malvagi », ossia Dose, cattivi in senso morale, che vuol dire buoni in senso vitale, è predicato e seriamente dei rivali dei signori: un grosso lapsus sotto penna nicciana!). Per i signori e dunque per Nietzsche gli antagonisti erano stati finora soltanto schlecht, cattivi in senso biologico e non morale, dato che « non hanno colpa della loro esistenza

meschina » (Z 60).

Già dunque fanno subito più samente il codice « malvagità »: il I preti sono

un tantino di confusione. Ma le chiare mentre si apprende quale morale che i preti offendono con codice cavalleresco, il codice dei

« malvagi»

perché muovono

guerra

cose si è precila loto signori.

ai signori,

aizzati da istinti e armati di strumenti anticavallereschi. Che sono:

l’odio, la vendetta,

l’astuzia.

« A_ causa

della

impotenza l’odio cresce [per compenso] in loro sumere proporzioni sinistre, le più intellettuali e (GM 232). Ma la sete di vendetta e l’astuzia non vano ormai ai contrassegni nicciani dei signori? signori, è solo esuberanza di potenza! Di fronte e alle vendette sacerdotali sembrano i signori,

[loro]

fino ad asvenefiche » apparteneSî, ma nei alle astuzie adesso, gli

CAP. II - FRIEDRICH

130

NIETZSCHE

agnelli: « schietti », « ingenui », « buoni », capaci di « amore dei nemici », perfino di « perdono » (GM 238). Nietzsche non s’avvede di saccheggiare anche qui, a pro dei signori, proprio il codice cavalleresco cristiano vergato nel Medioevo dai preti. Insomma la laboriosa differenziazione soprattutto fra « vendetta » e « astuzia », come la praticano i signori

e come i preti, lo obbligano a esibirsi in acrobazie e in wuances tali che sarà un bel grattacapo d’ora in poi, per un signore nicciano, vendicarsi e ingannare zor alla maniera dei preti, e viceversa.

In un punto solo Nietzsche distingue netto e riconosce francamente nei preti una superiorità: è la intelligenza, la genialità e la spiritualità del loro odio e della loro vendetta (GM 232); o sono in genere le prerogative di quello che si chiama «lo spirito ». « Sf, i vili sono intelligenti! » (Z 60). Non è davvero poca l’accortezza, l’intelligenza, la raffinatezza che occorrono per inventare tutto ciò che i preti ebraici ed ascetici hanno inventato allo scopo di adescare il mondo a se stessi, prima fra tutte l’invenzione di tutte la più geniale,

subdola e beffarda, formidabile specchio per allodole: Gest Cristo (GM 234). Ma intelligenza, genio, spirito non sono, come vedremo fra poco, per Nietzsche, valori superiori, bensf inferiori e minimi, valori « deboli ». E vedremo anche rispetto a che cosa essi sono inferiori. Ma in qual modo e in qual senso l’ebraismo ha scavalcato Gesù quando si è travasato nel cristianesimo? Ossia: chi è Gesù per Nietzsche? Un amico di Nietzsche, Franz Overbeck, docente di storia del cristianesimo all’università di Basilea, appena letto l’Anticristo, cosi scrisse a Peter Gast: « Il cristianesimo viene trattato come Marsia da Apollo. Non però il fondatore » (AC, nota a p. 526). Abbiamo l’impressione che questa sia ancora l’opinione critica corrente sulla questione. Nietzsche avrebbe trattato Gest con riguardo, talvolta con commozione, l'avrebbe perfino citato a proprio favore. Secondo Jaspers egli avrebbe addirittura insinuata, in Ecce bomo, fra sé e Gesù una specie di identità, là dove afferma di sé esattamente ciò che aveva affermato di Gest: uno che dice sempre di si a tutto !* (cfr. al riguardo GS 219; AC 212 ss.; ABM [DO 13 K. JAsPERS, Nietzsche und das Christentum, Monaco

1963.

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Tutto ciò è talvolta vero, ma non è tutto e non è so-

prattutto il fondo della questione. Non c’era nessun bisogno che Nietzsche ingrossasse la voce o picchiasse con il martello contro uno che, a suo vedere, s’era già abbattuto e annullato da se stesso. Il suo « Gest » è un essere estremamente innocuo. Ma è un Gest che egli concepisce con estremo apriorismo in perfetta dipendenza dal suo sistema e con la solita allegra metodologia esegetica che ‘accetta per buoni i testi evangelici che corrispondono al sistema e per spuri tutti gli altri. Il luogo nel sistema da Nietzsche escogitato per collocarvi il suo « Gest » è comunque in alto grado interessante. Il luogo esisteva naturalmente nel sistema fin dal principio e del tutto logicamente: si trattava solo di individuare colui che avrebbe meritato di occuparlo. Quale questo luogo? È nel sistema nicciano il luogo decisamente più misero, più oscuro e più abietto. È nella scala dei valori nicciani il gradino infimo, cioè il minimo assoluto o il nulla di volontà di potenza. Gesù è per Nietzsche il personaggio che, nella storia a noi nota del genere umano, presenta fra tutti il minimo di volontà di potenza o non ne presenta nulla affatto. È dunque l’essere che Nietzsche massimamente disistima. Quand’è cosî (e lo dimostriamo subito), che valore può avere un trat-

tamento di riguardo? È una pura formalità o un’ipocrisia. O peggio: il sigillo formale d’una estrema disistima. Nietzsche risparmia Gesù perché non c’è assolutamente motivo di preoccuparsi di lui, del prototipo della estrema debolezza. Tuttavia lo Zarathustra ha per gli iniziati, e cioè in forme subdole o mascherate sotto metafora, più d’una infame bestemmia con-

tro Gest !*. Nell’Arnzticristo

l'aggressione

sembra,

è vero,

che

col-

pisca il cristianesimo e non Cristo, ma a ben guardare è proprio là che la maschera del riguardo di Nietzsche verso Gesù si lacera, per chi sappia leggere, del tutto. Anche qui, come al solito, il pensiero nicciano ha bisogno per nettamente con14 « Odioso

e poi schifoso è per essa colui che mai si vuole di-

fendere, chi inghiotte sputi velenosi e sguardi cattivi, essendo un troppo paziente, uno che tollera tutto e di tutto si appaga » (Z 232). « Ma

masticare e digerire tutto — questo è davvero da maiali! Dire sempre di st — questo solo l’asino l’ha imparato, e chi ha uno spirito come il suo! » (Z 237). «E quale fu fino ad oggi sulla terra la colpa più grande? Non furono le parole di colui che disse: Guai a coloro che ridono? » (Z 336).

132

figurarsi d’un pensiero contrario

CAP.

II - FRIEDRICH

contro

NIETZSCHE

cui polemizzare.

Il

pensiero contrario è in questo caso il pensiero di Renan su Gest. Il Gest di Renan non è un Dio come si sa, ma è

almeno un uomo straordinario, un « genio », un « eroe » dell'umanità. Talvolta è sf anche un « buono », un ingenuo e un sognatore, ma tal’altra è magnifico, è un essere i72perieux, un grand maître en ironie. Nietzsche ride d’una simile gaffe del razionalista francese. Il buon Renan non ha capito che è vero invece il contrario: Gest è l'incarnazione propria dell’idiozia, della debolezza, dell’estrema passività. E prendendo l’abbrivo da un unico isolato testo evangelico, da Gest che raccomanda di « non contrastare il male », Nietzsche si lancia a delinearci l’immagine dell’uomo che « dice sempre si a tutto » (AC 202 ss.). Si legga attentamente e poi si dica se è mai possibile stabilire, come fa Jaspers, un'identità fra questo sf del Gest nicciano e il ben noto sf di Zarathustra e di Nietzsche alla vita. Questo è il sî dionisiaco che esplode da una grande volontà di potenza e di vita, è il sî di chi vuole fanaticamente vivere, di chi crea i valori vitali là dove non sono, e si autoafferma contro tutto e tutti. Ben diverso

è l’altro sî, il sî di Gesù: è l’espressione passiva della « incapacità di resistere », dell’« estremamente sofferente » e dell’infinitamente debole, il quale, per un resto di «istinto di conservazione » capisce di poter sopravvivere solo « non toccando » nulla, « non opponendo più resistenza a nessuno, né alla sventura, né al male », perché un resistere anche minimo gli sarebbe di pena intollerabile, lo ucciderebbe. A costui poi Nietzsche aggiudica inoltre in tutta coerenza le virti più basse o i vizi più vili dei soliti « schiavi »: « beatitudine nella pace, nella mitezza, nel non pofer essere nemici [...], amore senza esclusioni, senza distanza », dunque il contrario del « pathos della distanza » contrassegno dei forti, il contrario dell’« egoismo ». « Genio » un facsimile? « Parlando con rigore fisiologico », piuttosto un «idiota » (AC 202). Nell’osare quest’ultimo infamante vocabolo (omesso da tutte le precedenti edizioni) Nietzsche ha evidentemente Dostoevskij per la testa. Ne aveva appena letto in quei mesi alcuni libri, e del resto appena due pagine dopo la citata, il nome dell’autore dell’Idiota fa la sua esplicita apparizione. Com'è risaputo, l’idiota protagonista dell'omonimo romanzo dostoevskiano doveva essere nelle intenzioni stesse di Dostoevskij un « simbolo » dell’« idiota » Gest, idiota però d’una

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195

idiozia sublime che era in realtà intelligenza suprema ed estrema bontà e nobiltà di spirito. Il lettore di Nietzsche comunque non s’illuda: egli è puntualmente avvertito che l’idîòzia di Cristo non ha nulla di sublime in senso dostoevskiano, ma è da intendersi in senso rigorosamente « fisiologico ». Ancora: lo spirito di Gesù è « un sublime sviluppo ulteriore dell’edonismo su base assolutamente morbosa » (203). Lo « strano mondo malato in cui ci introducono i Vangeli» è «un mondo che sembra uscito da un romanzo russo, in cui i rifiuti della società, le malattie nervose e una ”infantile’’ idiozia paiono essersi dato convegno » (204). È « una mescolanza

di sublimità,

malattia e infantilismo » (204). « Il caso della

pubertà ritardata e non sviluppatasi nell’organismo [...] è familiare ai fisiologi » (205). Ecco dunque « Gesù ». In che modo guarderà questo Gesù al mondo della realtà e della vita? Naturalmente lo imbalsamerà, lo attenuerà il più possibile ai suoi occhi, lo renderà irreale affinché non sia che un « simbolo » d’un’altra realtà e d’un’altra vita invisibili, interiori, inafferrabili. E chiamerà quest’altro mondo davvero « vita », « verità », « Iuce », « mondo eterno », « regno di Dio ». E qui, prendendo un’altra volta l’abbrivo da un unico testo evangelico («il regno dei cieli è dertro di voi ») e inoltre manomettendo un altro testo celebre (Gesù che dice al ladrone sulla croce: «Tu sei [sic!] in paradiso ») Nietzsche corre a dedurre che per un « grande simbolista » di questo genere e a tal punto buono, inerte, innocuo, è inconcepibile una « tensione »_ ver-

so un regno futuro, davanti a cui poi discriminare gli uomini in beati e in dannati. In uno che dice sempre sf a tutto è impensabile la sia pur minima idea di « peccato », di « castigo », di « giudizio » (207). Gli Herren facciano dunque pure tranquillamente quello che vogliono fare, e proclamino pure che «nulla

è vero,

tutto

è permesso » (GM

355):

non

avranno nulla da temere dal « vero » Gest. Il Gesù giustiziere l'hanno creato di sana pianta i suoi preti, «con gli stessi sistemi che l’istinto ebraico suggeriva » (AC 225). 15 In opere anteriori a Gewealogia, tuttavia, Cristo appare ancora come giustiziere e viene respinto proprio per questo (GS 137; A 457, 466; ABM 193 cit.); o come l’egoista per eccellenza (FrA 479); e il cristianesimo appare ancora come l’erede genuino del suo spirito (Z 108).

134

CAP.

d) Terza coppia:

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

sani contro malati o del fisiologismo nic-

ciano.

La citata assurda spiegazione fisio-patologica a proposito di Gest è già un assaggio di quanto ci resta ancora da dire sulla morfologia e inoltre eziologia del comportamento dei « signori » e degli « schiavi ». Che cosa sono in fondo in fondo i primi? Sono, fra gli uomini, i fisiologicamente sani. E i secondi: i buddhisti, i platonici, gli ebrei, i cristiani, i filosofi, in genere il volgo, e i volgari per quanto sagaci paladini del volgo? Sono, fra gli uomini, i fisiologicamente malati. Nietzsche ha la precisa coscienza di aver cosi pronunciato le parole ultimamente decisive circa il comportamento « morale » degli uni e degli altri. È l’altro e ultimo crollo o è l’altra e definitiva serie di crolli dell’uomo ideale nicciano, il quale, dopo essere disceso dal livello nobile e umano al livello animale, viene ora fatto precipitare ancor più già, il più in basso possibile: nel vegetale e nel fisiologico. È una successione di crolli naturalmente non successiva o cronologica se non per l’ordine espositivo di questo studio. E sono « crolli » unicamente in rapporto al punto di vista in cui roi ci siamo collocati. In rapporto invece al punto di vista dove Nietzsche sta, essi si dovrebbero chiamare tutto al contrario: « ascese ». E cioè illuminazioni crescenti circa la verità più vera o unicamente vera dell’uomo; ascensioni a ritroso dell’uomo verso la sorgente, ricerche in direzione del piano esistenziale di tutti il più reale e in questo senso di tutti il più alto dell’uomo, del costituente ontologico di cui egli interamente o preminentemente consiste. E questo è unicamente la sua materia, la sua natura materiale-vegetale-istintiva-biologica. O come Nietzsche preferisce: la sua fisiologia, la sua physis. Già semplicemente nelle descrizioni della superiore energia, che distingue i forti signori e su cui abbiamo citato più sopra una serie di testi, colpisce il timbro stranamente fisico dei termini specificativi, il senso guertesco o nel migliore dei casi sportivo del confronto. Verbi, epiteti, immagini definiscono immediatamente forme di fisica superiorità e sopraffazione. E il lettore attento avverte che non si tratta di metafore attraverso cui si miri a rendere sensibili altre forme di energia interiore, psicologica, umana, spirituale, o questo solo in via eccezionale. Si tratta in realtà di identificazioni.

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L’unico elemento « spirituale » che vi si trova normalmente contemplato è l’intelligenza astuta, ma anche allora si tratta d’un’astuzia tutta volta al servizio d’una contesa d’ordine guerresco, d’un impero fisicamente costrittivo da acquisite sui deboli. Vi vengono inoltre, è vero, regolarmente connotati anche certi sentimenti: una superba autocoscienza e una bybris che tuttavia s’identifica a una pura e semplice insensibilità verso istanze o remore d’ordine religioso e morale. Ma inoltre ogni attento lettore di Nietzsche sa d’un « debole » o (a seconda) d’un «forte » del pensatore per le spiegazioni fisiologiche, per le « fisiologie ». Esse sono in lui tutto un programma, una sfida da evincere a ogni costo rispetto ad altre specie di spiegazioni. Fisiologia della morale, della religione, dell’arte, della colpa, della compassione, della filosofia e dei filosofi, dei tedeschi, dei cristiani e di Cristo, di Socrate, insomma di tutto. Fisiologia che significa spiegazione esaustiva e radicale di ogni fenomeno umano ‘. Perché, ad esempio, in fondo in fondo Socrate, questo « tipico décadent » ha fatto quel che ha fatto, ha agganciato gli istinti al carro della « ragione » e ha sostituito al « comando » la « dialettica », ed ha cosî avviato la decadenza della Grecia? Il mistero per Nietzsche sta tutto in quella qualifica estetica che ci hanno tramandato di lui: era « brutto ». Il che signica due cose: era « plebaglia » (di origine plebea) e inoltre (e in conseguenza) un malriuscito fisiologico, emerso « da uno sviluppo ibrido, ostacolato dall’incrocio » (CI 63, 121). È sempre la fisiologia, lo stato di salute o di malattia fisica, personale o ereditario, che decide di tutto: della psiche, dell’ideologia, dello spirito; che è a7zi tutto o che è quantomeno il meglio, l’autentico, il massimo dell’uomo. Con la promozione verso i piani ulteriori, psichico, intellettuale, razionale, spirituale, morale, religioso, mistico, ron si sale di valore e di realtà, ma si scende, si decade. Tutti coloro che promuovono o che si lasciano promuovere in quella direzione (che è in fin dei conti la direzione verso Dio) sono i décadents. E c’è una sola ragione 16 All’inizio di A/ di là c'è ancora la convinzione che la signora delle scienze sia la psicologia in quanto ha per suo oggetto la volontà di potenza intesa ancora come una realtà di ordine psicologico (ABM 174). Ma il fisiologismo era già latente (anzi già evidente nello Zara thustra, cfr. i passi citati da Z), e il processo di fisicalizzazione universale avanza nelle opere seguenti in modo inesorabile.

CAP. II - FRIEDRICH

136

NIETZSCHE

che glielo fa fare: la loro debolezza fisiologica, il loro discutibile stato di salute fisiologica. Lo fanno perché sono ma-

lati (GM 326 ss., 333 ss.). « Malati e moribondi erano costoro, che disprezzavano il corpo e la terra e inventarono le cose celesti e le gocce di sangue della redenzione: ma pet-

sino questi veleni dolci e tenebrosi essi li avevano tratti dal corpo

della terra » (Z 32).

Certi pronunciamenti al riguardo paiono incredibili, ma sono inequivocabili. Eccone alcuni fra tanti. « La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e depotenziato » (GS 44 s.). «In cammino verso l’ ”’angelo” l’uomo si è venuto facendo quello stomaco guasto e quella lingua impastata a causa dei quali non soltanto la gioia e l’innocenza dell’animale hanno destato la sua ripugnanza, ma la vita stessa gli è divenuta insipida » ( GM 266). « Se uno non la fa finita con un ”’dolore dell'anima”, questo non dipende, per dirla in maniera grossolana, dalla sua ’’anima’”, ma dal suo ventre », è una « indigestione altrettanto fisiologica quanto ogni altra » (GM 334). « Il divenire coscienti, lo ’’spirito’ è per noi precisamente un sintomo di una relativa imperfezione dell’organismo, un tentare, un brancicare, un cogliere a vuoto, un affaticamento in cui viene logorata senza necessità molta forza nervosa » (CI 181). « La colpa è in realtà una perturbazione fisiologica » (GM 333, 345). « Da dove ha origine lo spirito tedesco [sempre a caccia di ’’ideali’]? Dagli intestini in disordine » (EH 36). «Quando studiavo Schopenhauer [...] io negavo molto seriamente la mia ”volontà di vita” per mezzo della [cattiva] cucina di Lipsia » (EH 36). Ciò

che ha creato lo Zarathustra e ciò che creerà il superuomo è

stata e sarà «la grande salute », e s’intende fisiologica (EH 103; GM 296). Il vero problema non è quello di « Dio », ma quello dell’« alimentazione » (EH 35). « Il luogo giusto [per iniziare la cultura] è il corpo, la dieta, la fisiologia, il resto ne è una conseguenza » (CI 149). Ecco dunque i termini della grande transvalutazione nicciana di tutti i valori: i valori quali « Dio », « anima », « virtà », « peccato », «al di là », « verità» sono quelli da abbattere; quelli da far salire in cima a tutto saranno: «alimentazione, luogo, clima, svaghi e tutta la casistica dell’egoismo » (EH 54) La

« vita vera » è la « sessuale » (CI 159). «Il risvegliato e il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’al-

LE DUE

MORALI

E LORO

MORFOLOGIA

tro » (Z 34). « Colui che conosce

137

[la verità dell’uomo]

in-

cede tra gli uomini in quanto bestie. Ma la definizione dell’uomo è, per Colui che conosce: la bestia dalle guance rosse » (Z 104). « Lo spirito è uno stomaco! » (Z 251).

Ma, visti gli antefatti e le premesse, tutto questo era del tutto attendibile in un «loico » della lealtà intellettuale di Nietzsche. Dobbiamo ricordarci un’altra volta che egli viene da Schopenhauer, o, più esattamente, da una giovanile crisi morale-religiosa decisa negativamente e che aveva trovato nell’ateo Schopenhauer la sua prima fondazione e direzione ideologica. Ora, la « volontà », assoluto di Schopenhauer, non è ciò che si pensava tradizionalmente con questo vocabolo, ossia una facoltà o una potenza che, previa intelligenza del da farsi e da decidersi, poi fa e decide. Ora essa è una energia del tutto cieca: è l’istinto o è la vita istintiva nel suo insieme la quale, senza bisogno alcuno di intelligenze o di ragioni, vuole vivere e basta. È dunque tutto quell’insieme di impulsi fisiologico-biologico-sensitivo-sessuali (il suo vertice è infatti nella sessualità) che urgono l’uomo ad affermarsi vitalisticamente. Non una volontà quindi che segue l’intelligenza, ma al contrario: è l’intelligenza che segue, che serve la volontà. L’intelligenza diviene uno strumento in mano agli istinti. Non è più chiamato a discernere il vero o il falso, il buono o il cattivo, ma è semplicemente ingaggiata affinché reperisca a favore degli istinti i mezzi astutamente appropriati al fine da conseguire, il quale è una vita istintiva ricca, forte e felice. Senonché Schopenhauer, che aveva fino a questo punto benissimo visto e valutato, secondo Nietzsche, tutta una serie

di cause e di effetti, comincia da questo punto in poi sempre benissimo a vedere ma non altrettanto a valutare tutta un’altra serie di cause e di effetti. Cioè egli vede come, nell’uomo che si evolve e si raffina, l’intelligenza di cui s’è detto alza il capo e si domanda perché mai tutto questo suo servizio per la vita, perché mai la vita. E non trovando risposta alcuna alla domanda, trovando anzi una risposta completamente negativa, l’intelligenza inizia la sua contestazione della volontà, il suo divorzio dalla vita, e s’incammina in direzione dello spirito, della conoscenza, della contemplazione. Schopenhauer giudicò senz’altro Suona tutta questa operazione antivitale dell’intelligenza, la raccomandò ai migliori fra gli uomini, la chiamò (torniamo a citare da Nietzsche) « via della

138

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

salvezza ». Si potevano realizzare, per quella via, i « valori in sé » dello spirito, e «in base a essi disse no alla vita e

anche a se stesso » (GM 217). Qui è il punto dove Nietzsche si adombrò. Quella via era invece « una sublime tentazione e seduzione ». E verso « che cosa poi? verso il nulla » (GM 217). O, che è lo stesso, verso Dio, cioè appunto il nulla per l’ateo. Il nulla o Dio «ovvero la vita eterna: che per me è la stessa cosa, purché si sbrighino a raggiungerla » (Z 50). Zarathustra ha molte invettive contro il tradimento di Schopenhauer (Z 48-50, 147-150). Ma la vita non avanza anche lei in direzione del nulla, insensata e dolorosa per giunta? Dal momento che il nulla è la foce di tutti i fiumi, arrivarci per via spirito o pet via vita o per tutte e due insieme non fa grande differenza. Non ci sappiamo insomma davvero spiegare l’accanimento di questa contesa fra atei circa il tragitto da percorrere per arrivare al loro comune nulla finale, se non con il fatto che, nella loro abbastanza arbitraria scelta l’uno dello spirito e l’altro della vita, essi hanno previamente e inconsciamente assolutizzato e divinizzato rispettivamente o lo spirito o la vita. Ad ogni modo — ed è a quanto volevamo arrivare noi — Nietzsche decidendo assolutamente per la vita contro lo spirito, ha finito con l’optare per una vita senza spirito e cioè col diventare un materialista e un salutista. Nel motto « basta star sani! » sta ormai racchiusa tutta la sua sapienza: un motto plebeo. Quest’approdo è di tutto logico rigore. Se quanto più si avanza in direzione dello spirito si scema di realtà e di valore, è chiaro che si potrà crescere di realtà e di valore soltanto retrocedendo in direzione della materia e tanto più quanto più si retrocede. È l’esatto corollario dell’ateismo nicciano. Concedendo allo spirito una superiorità di realtà e di valore rispetto alla materia, ci si reimbarca inevitabilmente verso il riconoscimento di Dio ens spiritualissimum e quindi realissimum; o con le parole stesse di Nietzsche: « L’ultima cosa, la più sottile, la più vuota viene posta come prima, come causa in sé, come ers realissimum » (CI 71). Se invece si decide che si è reali quanto meno si è spirituali, consegue che viceversa l’ens spiritualissimum sarà ipso facto irrealissimum. Affinché sia per sempre fugato il fantasma di Dio, Nietzsche è costretto a negare e a distruggere l’uomo e l’umanesimo con il disprezzo di tutto ciò

IL SUPERUOMO

139

che specifica l’uomo in quanto uomo e lo contraddistingue dall’animale, dal vegetale, dal fisiologico, e con l’esaltazione di tutto ciò che ve lo parifica. Ma di tutti questi nessi e connessi logici Nietzsche è lui pure perfettamente consapevole: « Il distillato del nostro conoscere [...] sta nel sapere che non v’è nel mondo assolutamente nulla di divino, anzi neppure nulla di razionale, di pietoso e di giusto secondo l’umana misura: lo sappiamo, il mondo in cui si vive è sdivinizzato, [e perciò] amorale, [e perciò] inumano » (GS 210). Il « grande disprezzo » di Zarathustra ha perciò ogni ragione di cadere sull’« uomo », nessuno escluso, visto che perfino « ciò che hanno di meglio è cosî meschino! » (Z 241). In Crepuscolo degli idoli questo disprezzo è chiamato « modestia »: « In tutte le cose ci siamo fatti più modesti. Non deriviamo più l’uomo dallo spirito”, dalla ’’divinità”, lo abbiamo ricollocato fra gli animali. Esso è per noi l’animale più forte, perché è il più astuto: una conseguenza di ciò è la sua intellettualità ». Ma ciò detto Nietzsche si morde la lingua: l’uomo è da più degli altri animali per la sua intellettualità? Ma no, è da meno. L’intellettualità è un titolo d’inferiorità. Cosî continua infatti: « Ci guardiamo d’altro canto da una vanità che anche a questo punto vorrebbe far sentire la sua voce: [la verità] per cui l’uomo sarebbe la grande riposta intenzione dell’evoluzione animale. Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere è, accanto a lui, su uno stesso gradino di perfezione ». È già una grossa modestia, ma non abbastanza ancora: « E affermando ciò, affermiamo ancora sempre troppo: relativamente parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più pericolosamente aberrante [quando si mette per le vie dell’intellettualità e dello spirito] dai suoi istinti » (CI 179 s.).

5. - IL SUPERUOMO.

realmente

il fondo,

di aver sollevato l’ultimo velo. Ora comprendiamo

E cosî ci sembra

di aver

toccato

tutto in-

tero il vero e brutto significato, la brutta verità (la verità è « brutta »: Nietzsche ce ne aveva avvertiti) delle formule

nicciane più famose, spesso assurte a titoli delle sue opere. L’uomo è «umano troppo umano » certamente: è subu-

CAP. II - FRIEDRICH

140

mano, un animale e basta, mento dell’uomo «al di là il trasferimento dell’uomo (Zarathustra e Gaia scienza

NIETZSCHE

e malato pet giunta. Il trasferi del bene e del male » non è che all’animale, all’istinto, alla physis dicono anche, più graziosamente,

al « bambino inconsapevole »): solo là l’uomo è vivo, sano, autentico. La « volontà di potenza, quest’uno e tutto dell’uomo, non è che la sua vitalità istintivo-fisiologica, animalesca. E la « gaia scienza » non è che la scienza dove s’insegna ad abdicare all’intelletto, il quale va crucciando e guastando il corpo con i suoi problemi, i suoi perché, le sue fasulle istanze spirituali, intese a trasformare «ogni U in una X » (GS 17). La vera, gaia scienza insegna invece a vivere allegramente entro il cerchio del puro, spensierato, cieco istinto, per cui « dove c’è riso e allegrezza il pensiero non vale un bel niente » (GS

181).

Ma allora, tutto il grande tormentoso pensare di Nietzsche non avrebbe che il senso di insegnare agli uomini e a se stesso a non pensare? Nietzsche è innegabilmente in molti momenti pago di tanto, pago dell’opera dissolvente del suo pensiero perfino a riguardo del pensiero. Allora la salute è sopra a tutto, anzi la salute è tuffo. Ma non è pago di tanto, a Dio piacendo, in molti altri momenti. Sono i momenti del grande « disprezzo », « disgusto », « schifo » proprio per quest'uomo quale egli l’aveva smascherato nella sua «brutta verità »; per questo uomo che semplicemente in quanto uomo è « una malattia » (Z 159), e che in quanto sano è un puro animale e neanche il migliore degli animali; per quest'uomo che non è, tutto quanto è, che « un’ibrida armonia di pianta e spettro », di vegetale e di larva spirituale (Z 6). Sono i momenti del « disgusto per l’intera esistenza » dell’uomo, il quale, anche quando è il più grande, è « troppo piccolo » (Z 268). Valeva davvero la pena di accanirsi tanto per distruggere l’illusione dell’uomo immagine di Dio, quando lo si doveva poi abbandonare a questa sua verità? Venne finalmente un tempo in cui Nietzsche trovò tutto ciò umiliante, intollerabile. E fu cosî che nacque in lui l’idea del « superuomo »: prima timidamente in Aurora (A 211, 269; FrA 544), poi con più decisione in Gaia scienza (165, 205, 256), in tutta decisione e pienezza nello Zarathustra. Ecco l’idea: quell’uomo che è esistito finora si può spiegare e sopportare non come «uno scopo », ma come «un ponte », un «transito » verso un uomo futuro assolutamente supe-

IL SUPERUOMO

141

riore; tutto quello che è «umano » nell'uomo non è che «un cavo teso fra la bestia e il superuomo » (Z 8). L’idea-profezia del superuomo, sempre simultanea alla idea dell’eterno ritorno (la controidea che, come vedremo, la rende possibile), fu per Nietzsche un’esplosione interiore liberatoria che spezzò il cerchio del suo pessimismo; ma fu insieme l’estrema verifica del suo ateismo, una verifica però che egli era costretto ad affidare alla storia futura, un fest decisivo, ma di là da venire, della verità, autenticità, superiorità dell’ateismo radicale, nonché delle tavole dei nuovi valori, in esso fondati, che dovevano rovesciare i tradizionali pseudovalorti mosaico-cristiani. Con questa chiave comunque in pugno Nietzsche poté scrivere il Cosi parlò Zarathustra, una delle più inaspettate, inspiegabili, misteriose ope-

re della letteratura universale, stranamente diversa perfino da ogni altra di Nietzsche, se non per sostanza di contenuto, per la lenta incombente (spesso pesante) vertigine delle sue parole, delle sue immagini e dei suoi ritmi, e per la cupa fiamma da cui s’alimenta. Un’opera già quasi più che umana, sinistramente sovrannaturale, dettata, come ammette lo stesso autore, parola per parola da una voce fuori campo. Zarathustra non è il superuomo e tanto meno pensa di esserlo Nietzsche. Essi ne sono soltanto i profeti. Di fatto sono anch’essi destinati come tutti gli uomini esistiti finora sulla faccia della terra a « passare e a tramontare » (#bergehen und untergeben), contribuendo con il loro transito, il loro tramonto e la loro particolare missione alla nascita futura del superuomo. Sono come tutti, anche se in un modo del tutto singolare, unicamente in funzione del superuomo, dei votati al sacrificio e alla morte affinché il superuomo viva un giorno. La particolare funzione al riguardo di Nietzsche-Zarathustra è quella di essere arrivato a capire per primo i segni dei tempi. Ha capito che l’età vecchia del mondo sta per finire e che la nuova età sta per cominciare, che il vecchio uomo sparirà e che un uomo nuovo sta prossimamente per sorgere, non appena i tempi della lunga décadence si saranno compiuti, non appena la morte di Dio e la conseguente eclissi di tutti i significati (il nichilismo) saranno totali. In tal modo egli si è costituito come transito par excellence fra le due età, come colui che sta in veglia nella notte fra la sera del mondo degenerante e il mattino del mondo rigenerato, e che di là incita e annuncia.

CAP.

142

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

Ed è forse anche qualcosa di più. Avendo intuito per primo e con ogni precisione le forze fatali in azione e i modi e i ritmi della loro futura collisione in vista del grande evento (il superuomo sarà il risultato dell’urto fra volontà di potenza ed eterno ritorno), ed avendo non soltanto preannunciato tutto ciò, ma avendolo desiderato, pregustato, previssuto interiormente con ogni più estrema dedizione di sé, Nietzsche-Zarathustra può considerarsi profeta del superuomo non solo a parole, ma con tutto se stesso, uno che con tutto se stesso lo riflette in anticipo, uno specchio vivente del superuomo. Qui è il senso ultimo del Cost parlò Zarathustra, illuminato retrospettivamente dalle pagine di Ecce

homo,

in cui Nietzsche

in persona

si presenta

come

colui su cui pesa « un’indicibile responsabilità », colui che porta « sulle spalle il destino dell’umanità », colui che « spacca la storia in due » (EH 134 ss.). Il superuomo vero e proprio è un fesf ancora di là da venire, e chi vivrà vedrà. Per ora l’idea è suscettibile di discussione ovviamente solo in quanto idea e nelle sole sue interne possibilità. La generica idea d’un’evoluzione ulteriore dell’uomo verso superiori approdi nel futuro si offriva lî per lî a Nietzsche nelle teorie a lui di poco anteriori dell’evoluzionismo spenceriano-darwiniano e in tutta la ottocentesca fede nel progresso, necessario e irreversibile, della storia. La attingeva effettivamente di qui, ma la sottoponeva ad aspra critica quanto alle specificazioni che aveva assunto finora. Quello evoluzionismo aveva almeno due imperdonabili deficienze: era eudemonistico-ottimistico e socialistico. Sorvolava sulla componente tragica della storia dell’uomo e accarezzava una elevazione continua di tutta l’umanità, dove la selettiva e spietata lotta per la vita di tutti contro tutti si sarebbe felicemente placata in un tipo d’uomo ingenuamente altruistico che avrebbe spontaneamente ammesso anche gli altri, oltre a sé, a godere dei vantaggi del progresso. Ora, tutto ciò era per Nietzsche

per prima

cosa

epigonismo

cristiano,

ed

era inoltre un’ingenuità enorme nei riguardi della volontà di potenza che obbligava alla guerra come all'anima della vita stessa. Il pessimismo e l’autismo pseudoaristocratico della visione nicciana dell’uomo non avrebbero mai consentito a un tipo d’uomo quale era esistito finora, migliorato sia pure per gradi indefiniti o peggio « migliorato » ossia deteriorato) in base ai cocci delle vecchie tavole, una possi-

IL

SUPERUOMO

143

bilità di salire più in alto e di rappresentare, senza una radicale commutazione di essenza, la meta dell’evoluzione. No, questo tipo d’uomo doveva radicalmente scomparire. L’unico senso della sua esistenza sulla terra era quello di giungere un giorno a generare quell’uno (uno di noi, beninteso, e non un nuovo Adamo

di Dio!) che il destino chiamava fin

dal principio al grande superamento. Ma quali sarebbero state le strade per cui giungere a tanto? Sfrondata attentamente la complessa metaforistica dello Zarathustra e spremendo possibilmente luce da tutto Nietzsche in sintesi, questa ci sembra debba essere la risposta. L'umanità cammina fatalmente incontro al superuomo, ma insieme essa deve (soll) prepararvisi mediante il processo del nichilismo. (Tra il « fatalmente » e il « deve » c’è una evidente contradictio în terminis, ma sorvoliamo). Il processo del nichilismo consiste in un progressivo sviluppo della coscienza dell’uomo circa la propria verità. Questa verità è che l’uomo non è che un animale, ma è un arizzale tragico. Il processo di progressiva autoconsapevolezza dell’uoma in quanto animale tragico è identico al processo, nell’uomo, della « morte di Dio ». Dio non è, né è mai esistito, ma

esiste da millenni nell’uomo una illusione di Dio, sulla quale egli si è fabbricata una sublime ma fallace concezione di sé come animale simbolico, come immagine di Dio: un essere in cui Dio si rifletta come causa nell’effetto (o come artista nell’opera), come fine nel mezzo (o come meta nel pelle-

grino), come

padrone nel servo (o come

guida nello smar-

rimento), come luce che illumina nell'ombra che ne è illuminata, come significato nel segno, come senso nell’assetato di senso. Illusione grandiosa, ma illusione. In essa l’uo-

mo ha comunque potuto per millenni sognare l’integrazione della propria parzialità e precarietà, sognare il superamento di se stesso in quanto animale tragico. Essendo questo sogno fondato sul nulla, perseguendolo l’animale uomo si è infatti ammalato. L’illusione in cui si esercitava precisamente il suo « spirito », l’illusione « spirito » e cioè il nulla, corrodeva la sua volontà di vita, alienava l’uomo dalla sua unica vita. Liberandosi da quest’illusione, abiurando lo spirito e cioè facendo morire Dio in se stesso, l’uomo guarisce a poco a poco, e va riconoscendo di essere e tornando ad essere quello che unicamente è, un uomo animale. La sua volontà di potenza va rifacendosi integra e pura o, che è lo stesso, la

144

CAP. II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

sua vita istintiva, la pura vita, ricupera i suoi diritti. Ma ri-

sanando in questo modo e ritornando animale, apprende la tragica verità: che allora non c’è più senso a vivere, che una superiore grandezza per cui vivere non esiste più, vi-

sto che la meta di tutto non è più Dio bensi il nulla. È la disperazione dell’animale tragico: il nichilismo. Oppure? Oppure è proprio questa disperazione la sua chance massima: farsi lui stesso il creatore del senso del suo vivere, e questo senso sarà la volontà di creare il superuomo. Il superuomo è l’obiettivo supremo. « Chi non trova più la grandezza in Dio, non riesce più a trovarla in genere e deve negarla, oppure — crearla, aiutare a crearla » (FrGS 503, estate 1882, poco prima dell’inizio dello Zarathustra). Colui che creerà la nuova grandezza sarà quell'uomo fatidico che trasferirà per mezzo di se stesso la specie dell’uomo in quella del superuomo, l’uomo che diverrà superuomo. Coloro che « aiutano a crearla » sono tutti gli altri venuti prima di lui. A tutti costoro il Nietzsche zarathustriano giunge al controsenso di predicare, invece dell’egoismo, l’altruismo e l’eroismo del sacrificio di sé, dell’autoannientamento. « Etoismo », parola rara — e pour cause — sotto la penna di questo maestro di egoismo! A nostra memoria essa compare una

volta sola in un frammento immediatamente successivo a quello testé citato, è dunque sottinteso che si tratta dell’eroismo di coloro che « aiutano a creare », sacrificando se stessi, il superuomo: « Eroismo. È il sentimento di un uomo che aspira a un fine, rispetto al quale egli medesimo non conta più. Eroismo è la buona volontà di perire noi stessi in modo assoluto » (Fr GS 503). Quest’eroismo altruistico totale è reperibile, ma senza essere mai come tale nominato, in varie esortazioni di Zarathustra, per esempio: «To amo coloro che non vogliono conservare se stessi. Coloro che tramontano [...]. Perché passano all’altra riva » (Z 244). Ve-

ramente all’altra riva essi pervengono unicamente nel superuomo, anzi vi perviene realmente solo lui. Gli altri, compiuta la loro missione, ttamontano soltanto. Il sî cosî millantato di Nietzsche alla vita dev'essere contratto dunque d’un altro no. Dopo i no alla vita eterna, alla vita spirituale, intellettuale, sociale, morale, alla vita dei deboli e dei malati, ecco ancora un no: alla vita di tutti, tranne che a quella del superuomo e dei suoi discendenti.

IL TRAGICO

145

6. - IL TRAGICO.

La morte di Dio — già in corso ma da sollecitare affinché avvenga al più presto e nel modo più totale — e la conseguente estirpazione di ogni superiore significato della esistenza hanno, dunque, due precisi effetti o scopi simultanei: primo, di restituire all'uomo intatta la sua pura unica vita, la istintivo-fisica o, che è lo stesso, integra la sua volontà di potenza; secondo, di restituire all'uomo la consapevolezza dell’essenza tragica (insensata) della sua vita. I due aspetti coincidono e insieme collidono. La vita rifatta finalmente colma di energia e di salute potrà pronunciare un giorno il suo sf totale verso la vita tragica, un sfî vitale tanto più forte quanto più forte sarà quel tragico, per il quale verrà pronunciato. Sarà il sf per mezzo del quale l’uomo degno di passare a superuomo saprà dimostrare d’essere in grado di portare la tragica verità della vita in tutta la sua profondità, saprà far echeggiare vittoriosa la sua risata su «tutte le tragedie finte e vere » (Z 42). Questa massima volontà di potenza avrà bisogno, come di regola, d’un’opposizione rispetto a cui affermarsi, e per poter essere massima, d’un’opposizione massima. Questa sarà il tragico al massimo suo grado di estensione, intensità, profondità, e cioè sarà l’idea dello eterno ritorno dell’identico o, che è lo stesso, dell’infinita insensatezza di tutte le cose. Prima di approdare all’idea dell’eterno ritorno Nietzsche attraversò varie prese di coscienza del tragico. Fu lui stesso un uomo ben tragico: fallito nella carriera ecclesiastica, nella professione, nell'amore, nel matrimonio. Aveva buttato la salute dell'anima per la salute e la felicità del corpo ed era incappato proprio per questo nella malattia. Lui vivente pochissimi avevano percepito il suo genio. Era abbastanza ovvio che quest'uomo tragico si dedicasse anzitutto allo studio dei tragici (greci) e ci desse per prima sua opera una Ori gine della tragedia. Ciò che qui interessò soprattutto la sua attenzione fu l’immagine tragica di Prometeo, del Prometeo di Eschilo, che egli però interpretò nello spirito del Prometeo goethiano, ossia nello spitito della hybris del « superbo sofferente» (A 212) che il fulmine del dolore non piega, ma che, a dispetto del dolore e degli dèi che gliel’hanno inferto, persiste nella sua autoaffermazione e nell’affermazio10

CAP. II - FRIEDRICH

146

NIETZSCHE

ne della sua tormentosa vita. Questa Grecia arcaica, presocratica, dei tragici, di cui egli s'era occupato poco più che ventenne e che precisamente da una visione tragica dell’esistenza sprigiona opere di insuperabile bellezza da cui attinge incentivo per un ancora più forte sf alla vita, ha in sé già tutti i semi sia del superuomo sia dell’eterno ritorno. Un altro aspetto del tragico Nietzsche l’attinge lf per lf da Schopenhauer e dalla sua concezione del mondo non come cosmo, ma come caos: dunque l’esatto rovescio d’un mondo logico e teleologico o perfino teologico nella sua struttura e nel suo dinamismo quale l’aveva concepito invece Hegel e seguaci, e la equazione tradizionale, risalente a Pitagora, di mondo e di cosmos. « Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità » decise Nietzsche. «I colpi riusciti », « l’ordine astrale in cui viviamo », la formazione dell'organico » sono « l’eccezione delle eccezioni », « i colpi mancati sono di gran lunga la regola » (GS 117; cfr. FrGS 300). E Zarathustra concede, è vero, che ci sia «un poco di ragione, certo, un germe di saggezza, sparso tra stella e stella » (Z 201), ma

nel complesso

«noi

combattiamo

ancora

pas-

so passo con il gigante caso, e sull’umanità intera ha dominato fino ad oggi l’assurdo, il senza senso ». Questo affinché « il valore di tutte le cose sia stabilito da voi in modo nuovo » (Z 91). L’esistenza tutta intera, sia umana sia cosmica, è dunque in genere tragica perché è « senza senso ». Tragico e insensato sono, in Nietzsche, sinonimi. Di tutte più tragica

e insensata è però l’esistenza malata e dolorosa. Che l’uomo sia l’animale malato, che l’uomo sia ipso facto una malattia, è il ritornello di Zarathustra. Abbiamo già visto perché e in qual modo, come abbiamo pure ogni volta rilevato la continua aria di accusa, di disprezzo, di maledizione con cui il ritornello risuona su ammalati di ogni genere. Tuttavia ecco, anche a questo riguardo, una delle ennesime e misteriose contraddizioni nicciane. Fra un disprezzo e l’altro ci s’imbatte in improvvisi, elevati apprezzamenti. Abbiamo già incontrata la malattia fra i contrassegni dell’uomo atistocratico. In un passo già da noi citato più sopra di Arnticristo, dove s’era definito l’uomo come l’« animale peggio riuscito, più malaticcio », si legge subito di seguito: « indubbiamente, per tutto ciò, anche il più interessante » (AC 180). Pit interessante? La stessa enigmatica parola ritorna in contesti

IL TRAGICO

147

affini altre volte in Genealogia della morale, là dove si maledicono per l’ennesima volta i preti responsabili della millenaria décadence, della millenaria malattia dell’umanità, i preti che con il pretesto dello spirito (di « Dio ») hanno guastato la vita. Anche qui tutto di seguito poi si legge: « Soltanto sul terreno di questa umana forma di esistenza, essenzialmente pericolosa, quella cioè dei preti, luomo è diventato un animale interessante ». E si dice immediatamente anche il perché: perché « soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità in un superiore significato » (GM 231). Ecco dunque la ragione della sola superiorità o maggiore profondità che l’animale uomo ha rispetto agli altri animali, la ragione del maggior «interesse » che cosî presenta: è l’esigenza ch’egli ha, per vivere, d’un senso o d’un significato (Sinn).

Questo « interessante » dell’uomo e la sua ragione tornano altre due volte in Gezeglogia (GM 347 e soprattutto GM 366). Vale la pena riportare per intero quest’ultimo passo: «Se si prescinde dall’ideale ascetico [religioso], l’uomo, l’animale uomo, non ha avuto fino ad oggi alcun senso [Sinn].

La sua

esistenza

sulla terra

è stata

vuota

di ogni

meta; ”a che scopo l’uomo?” fu una domanda senza risposta [...]. Dietro ogni grande destino umano risonava, a guisa di ritornello, un ancor più grande ”invano!”. Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava l’uomo — egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato. Soffriva anche d’altro, era principalmente un animale wmalaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensi il fatto che il grido della domanda ’’a che scopo soffrire?” restasse senza risposta [...]. L’assurdità della sofferenza, mon la sofferenza, è stata la maledizione che fino ad oggi è dilagata sull’umanità — e l'ideale ascetico

[religioso]

offri ad essa un senso!

[...]. In

esso la sofferenza venne interpretata; l'enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida [...]. L'uomo

venne

in questo modo salvato, ebbe un serso,

non fu più, da quel momento in poi, una foglia al vento, un trastullo dell’assurdo, del ’’senza-senso”, ormai poteva voler qualcosa » (GM 366 s.; cfr ABM 66 s.). Questa è l’ultima pagina di Genealogia, e Nietzsche naturalmente non poteva concluderla se non aggiungendo che

148

CAP. II - FRIEDRICH NIETZSCHE

tuttavia quella ricerca di « senso » mirava al nulla, che era «una volontà del nulla » e che da essa era scaturita « nuo-

va sofferenza, più profonda, più venefica, più corrosiva PE spetto alla vita: dispose ogni sofferenza sotto la prospettiva della colpa ». E si sarà notato quel « fino ad oggi » due volte ripetuto Perciò da oggi in poi noi sappiamo quale è il senso

che Nietzsche annuncia. Va bene, ma una simile pagina denuncia, comunque, anche in chi l’ha scritta, animale malato quanto altri pochi, una viva esigenza di senso. Soffrire, va bene, ma che almeno si sappia perché soffrire, che non si debba soffrire per nulla, soffrire per soffrire e basta. Solo un sofferente assetato di senso può parlare cosî. Anche Nietzsche animale malato ci diviene cosî davvero « più in-

teressante »! Una coscienza tragica non è del resto neppure pensabile senza sete di significato, tanto meno una coscienza tragica terribile come quella nicciana. Chi non ha esigenza di Sizn non potrebbe neppure avvertirne l’assenza, non troverebbe nulla da recriminare e da maledire in una vita senza Sinn, cioè tragica, gli risulterebbe normale; tanto meno proverebbe per l’uomo cosî com'è, cosî inconsapevole del suo significato o da esso deviante, la grande « nausea » di Zarathustra; meno ancora sentitebbe l’assoluto bisogno, non trovando un senso, di crearlo o di pensarlo creabile da parte dell’uomo stesso, e con una prova ardua come quella del superuomo. Senza una disperata sete di senso non si spiegherebbe l’intensa vibrazione patetica con cui talora Nietzsche discorre della fede scomparsa e dell’uomo che, nell’eclissi della fede, si è ridotto ad « azizzale, animale senza metafora [Tier ohne Gleichnis: animale non più simbolico], lui che nella fede di una volta era quasi Dio (’’figlio di Dio”, ’’Uomo-Dio”)» (GM 360). Né avrebbe senso alcuno lo stupore inorridito, la funebre serietà, il pathos con cui Zarathustra annuncia: « La grande luce è scomparsa [...]. Dio è morto! ». La pagina sopra trascritta e altre consimili sono tra le più belle di Nietzsche. Tutte le antologie riportano poi la pagina stupenda, vivissima, intensissima dell’uomo folle che, accesa una lanterna nella piena luce del mattino, corre al mercato e gridando incessantemente, dice fra il resto: « Dove è andato via Dio? Siamo stati noi ad ucciderlo. [...]. Che mai facemmo quando sciogliemmo questa terra dalla catena del sole? Verso dove ci si muove ora? Verso dove ci muoviamo noi? Via lontano da tutti i soli? Non andiamo forse senza

L’ETERNO

RITORNO

149

sosta precipitando? E all’indietro, da lato, in avanti, in tutte le direzioni? C’è ancora un di sopra e un di sotto? Non è un nulla infinito quello che attraversiamo sperduti? Non è il soffio del vuoto infinito quello che ci alita in faccia? Non

è già più freddo di prima? Non arriva la notte, sempre più notte? [...] Quanto di più sacro e possente aveva fino ad oggi il mondo, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? [...] Non è troppo grande per noi la grandezza di quest’azione? Non dobbiamo noi stessi diventare Dei per apparire almeno degni di essa? » (GS 129 s., cfr. anche GS nota 549). I temi della terra desolata dopo la scomparsa della gtande luce inondano i discorsi che all’orecchio di Zarathustra sussurra «il viandante », detto anche «l’ombra » di Zarathustra ». Certi critici pensano che Nietzsche stesso si sia travestito in quest’uomo-ombta di Zarathustra, (Sigmund, Lowith). Vi ha investita certamente quella parte di sé che era più esposta alla vertigine del nichilismo: la sua consapevolezza del tragico. Zarathustra l’ascolta con malcelato DI stidio, ma i discotsi dell’« ombra » sono le pagine più pro-

fonde e suggestive di Cosî parlò Zarathustra. Culminano in questo gemito disperato e stupendo, che riportiamo in originale: « Wo ist — mein Heim? Danach frage und suche und suchte ich, das fand ich nicht. O ewiges Ueberall, o ewiges Nirgendwo, o ewiges Umsonst »!” (Z 333). È quasi intraducibile nella sua eufonia e densità, ma potrebbe suonare in italiano cosî: « Dove è... la mia casa? È la mia domanda, la mia ricerca di oggi e di sempre. Non l’ho mai più trovata. O eterno esistere dappertutto, o eterno nessun luogo, o eterno vano esistere! ».

7. - L’ETERNO

esistere in

RITORNO.

Ma la suprema espressione del tragico nicciano è 1°« eterno ritorno dell’identico »: l’etenno universale insensato giro a vuoto, il circulus vitiosus deus, il circolo vizioso che viene divinizzato, che diventa assoluto (ABM 62). Esso è l’estrema sfida alla volontà, alla vita, all'uomo, ed è la verità « più annientante »: soltanto «l’uomo più tracotante, più pieno 17 F. NieTzscHE,

Werke

in drei Binden, 2° vol., p. 511.

150

CAP.

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

di vita e più affermatore del mondo » (ABM 61) potrà ancora volere una vita la cui legge fondamentale è l’eterno ritorno dell’identico. Sarà colui che « non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, cosî come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo » (« da capo » è in italiano anche nel testo tedesco, ivi). La potenza

della sua volontà di vita sarà allora tale che egli crescerà oltre le misure umane, sarà per ciò stesso più che uomo. Sarà lui precisamente il superuomo. Tutti gli altri invece, la cui volontà non sarà in grado di affermare l’eterno ritorno, non saranno più degni di vivere, dovranno perire. E all’uomo destinato -al superuomo il pensiero (che è presa di coscienza della verità) dell’eterno ritorno è necessario al punto che è insieme lui stesso, quest'uomo destinato al superuomo, a « rendere necessario» (ABM 61) l’eterno ritorno. Tanto basti per sapere che eterno ritorno e superuomo sono in Nietzsche due verità rigorosamente reciproche. E sono, entrambe, due rigorosi postulati del suo ateismo. Quanto al superuomo abbiamo già visto che è il fest decisivo dell’autenticità dell’ateismo. Ma il superuomo postula lo eterno ritorno. Ergo. Tuttavia l'eterno ritorno possiede anche ragioni interne per imporsi come un inevitabile postulato d’un ateismo radicale che voglia sotto ogni aspetto, teoreticamente come praticamente, garantirsi. Chi non pensa la realtà (tutto ciò che diviene) come un eterno ritorno dell’identico non sarà mai del tutto al riparo da sospetti, nostalgie, resipiscenze teistiche. Anzi senz’altro, « chi ron crede a un processo circolare del tutto identico, deve [muss corsi vo nostro] credere a un Dio arbitrario » !*. Dio sta in agguato, o come principio o come fine di tutte le cose, in qualsiasi altra concezione che modifichi anche minimamente il pensiero dell’eterno ritorno dell’identico. Tutto deve ripetersi ab aeterno in aeternum infinite volte identico, se si vuole che il mondo (il tutto, il divenire) e ogni e qualsiasi elemento del mondo non abbia avuto inizio da parte di ufa

istanza sovramondana o non abbia ad avere un fine in una meta pure estramondana. Una sia pur minima infrazione dell’identità comporterebbe una direzione del divenire o discen18 Passo di Nietzsche citato da K. LòwrrH, Nietzsche’s Philosophie der ewigen Wiederkebr des Gleichens, Stoccarda 1956, ultimo capitolo.

L’ETERNO

RITORNO

151

dente verso il nulla (involutiva) e allora sarebbe necessario pensare che quanto un giorno deve finire deve pure aver un giorno cominciato, ed ovviamente non da sé; oppure com-

porterebbe una direzione ascendente verso qualcosa di superiore a se stesso (evolutiva) e in ultima analisi verso un supremo, un Dio. Il mondo nicciano dell’eterno ritorno ammette

senz’altro

variazioni,

altalene,

alternative,

dovrà

anzi

verificare via via « tutte le combinazioni possibili », ma queste, per sfuggire alle due eventualità di cui sopra, devono tipetersi infinite volte esattamente identiche. Bisogna insomma interdire assolutamente a un’idea seriamente atea circa il divenire universale di immaginare per esso una qualsiasi direzione, un qualsiasi senso, una qualsiasi effettiva novità almeno zel suo complesso se si vuole che sia, come l’ateismo postula, davvero autonomo e autosufficiente. Una qualsiasi novità denuncerebbe nella totalità del mondo una spinta a voler essere diverso, o da più o da meno, o migliore o peggiore di quello che esso è; denuncerebbe dunque un’insufficienza, un’insoddisfazione, una dipendenza, e il sospetto di una direzione verso il nulla o verso Dio. Una perfetta autonomia è concepibile solo in un moto che tornando ogni volta puntualmente ed esattamente su se stesso non abbia mai né capo né fine. Ma il fatto stesso che un giro viene dopo l’altro, non è già una novità? Il tempo quantomeno non è sempre nuovo? Comunque sia, questa è la dottrina del Zarathustra nicciano, ma anche personalmente di Nietzsche (in Gaia scienza, in Al di là del bene e del male, in parecchi Frammenti postumi; stranamente non nelle altre opere). Ciò che è, già fu, ciò che fu, sarà, e per volte infinite. Ogni nuovo è già stato infinite volte vecchio, ogni vecchio sarà infinite volte nuovo, ma identico, cozze era da vecchio. « Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora

innumerevoli

volte, e non

vi sarà in essa mai niente

di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà [wird miissen: sarà costretta a] fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione — e cosî pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e cosf pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene capovolta sempre di nuovo e tu con essa, pulviscolo nella polvere! » (GS 202). O come ricanta il ritor-

CAP.

152

II - FRIEDRICH

NIETZSCHE

nello di Zarathustra: « Questa è stata vita? Suvvia! Ancora una volta! » (Z 191, 385). Anzi infinite volte! « Io torno

di nuovo con questo sole, con questa terra, con quest’aquila,

con questo serpente — zor a nuova vita o a migliore vita o a una vita simile: — io torno eternamente a questa stessa identica vita, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, affinché io insegni di nuovo l’eterno ritorno di tutte le cose » (Z 270).

Questa è dunque, molto chiara, perfino facile, la dottrina. Ma è anche la dottrina più insensata, più folle, più vertiginosa che sia possibile pensare a riguardo della realtà. E cioè la realtà più insensata, più folle, più vertiginosa che sia possibile concepite. Ha ragione Nietzsche, un pensiero simile, a prenderlo sul serio, ha il potere di stritolare un uomo. Sarebbe su di lui « il peso più grande » (GS 202). Oppure, come stava scritto già in bozze e poi cancellato da Nietzsche stesso, sarebbe su di lui « il piacere supremo » (Nota a GS 554). Ma nel testo si arriva a dire anche di più: « Oppure [...] un attimo immenso in cui questa sarebbe stata la tua risposta: [...] Non intesi mai cosa più divina [...]. Quanto dovrai amare te stesso e la vita, per non desiderare

più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sensazione, questo suggello? » (ivi). Sarebbe l’ora della grande « metamorfosi » (ivi), l'ora della nascita del superuomo. Egli prese l’idea sul serio, e le reazioni sue e di Zarathustra al riguardo oscillano fra l’estremo ottore e l’estrema esaltazione. Lou Andreas-Salomé ebbe le sue confidenze poco dopo che l’idea gli era brillata alla mente: « Non mi dimenticherò mai le ore in cui egli me la confidò la prima volta, come un mistero, come qualcosa davanti alla cui realizzazione inesprimibilmente rabbrividiva: solo a bassa voce e con tutti i segni del più profondo terrore egli ne parlava. E in realtà tanta è stata la sofferenza nella sua vita che la certezza dell’eterno ritorno della sua vita doveva essere per lui qualcosa di orrendo »!. Anche Zarathustra ci viene dipinto, mentre affiora anche in lui per la prima volta l’eterno ritorno, come « teorizzato all’estremo » (Z 173). Egli

va incontro all’idea tremenda e alla sua realizzazione come Cristo incontro alla sua agonia: « Pif a fondo del dolote 19 L. AnprEAs-SALOMÉ, 222:

Nietzsche

in seinen

Werken,

Vienna

1894,

L’ETERNO

RITORNO

153

di quanto non sia mai disceso, fin dentro al suo flutto più nero! Cosî vuole il mio destino: orsd! Io sono pronto » (Z 187). Poco più avanti Zarathustra incontra un giovane pastore a cui un serpente penetratogli nella bocca sta mordendo le fauci. « Mordi! Mordi! » egli grida al pastore. E quello morde, stacca coi denti la testa al serpente, lo sputa via lontano da sé e ride d’un riso irrefrenabile. Questa è soltanto « una similitudine di colui che un giorno non potrà non venire », ma in Zarathustra esplode l’entusiasmo visionario: «Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo come /zi rise [...]. La nostalgia di quel riso mi consuma » (Z 194).

Abbiamo qui in una sola immagine insieme il superuomo, l’eterno ritorno e la collisione dell’uno contro l’altro che genera il superuomo. Il serpente nelle fauci è l’eterno ritorno in colui che ne acquisisce coscienza. Il pastore che l’addenta e l’evince è l’uomo che in tal modo supera se stesso nel superuomo. Ma l’immagine zoppica in verità da più lati. Ben più esatta sarebbe stata l’idea d’un serpente che resta per sempre a mordere nelle fauci del pastore, e d’un pastore che gli dice eternamente e allegramente: « Mordi! Mordi! ». Otto Weininger, Thierry Maulnier, Karl Lowith e anche altri critici hanno già rilevato gli arbîtri, le contraddizioni interne ed esterne (con le altre idee di Nietzsche stesse) dell’idea dell’eterno ritorno. Weininger, citato da Léwith, cosî scriveva già nel 1907: « Girare controvoglia in un cerchio come Robinson è insensato; aver già vissuto una volta, esattamente identica, una nuova situazione ha un che di sinistro; girare ballando in cerchio il valzer viennese è un’espressione di fatalistica indifferenza; il girotondo è negli adulti un gioco deprimente; è maleducato dirsi a vicenda due volte la stessa cosa, insomma ripetersi ». Maulnier, dopo aver identificato, come fa anche Léwith, l’eterno ritorno nicciano al determinismo dell’universo fisico-cosmico, alla « moira subumana », alla natura, all’istinto elementare, mostra come Nietzsche, con il voler rendere in tal modo la tragedia dell’uomo più pura e quindi più eroica, l’ha di fatto resa impossibile. « Car la tragedie suppose précisament une fatalité étrangère è l'homme, une volonté irriducible au destin.

Or, dans le mysticisme

nietzschénne

la Moira

subhumaine

et les actes du héros suivent les memes voies inflexibles [....].

CAP. II - FRIEDRICH

154

NIETZSCHE

On ne nie pas la grandeur de cet homme nouveau, enthusiaste de l’univers [...]. Cette grandeur est certaine; mais Pascal en avait définit une autre, qui toute celle-là liguée écraserait en vain ». Una tale capitolazione dell’uomo all’universo poi è « presque scandaleuse en celui qui avait porté si haut les exigences proprement humaines » ?. Léwith s’inserisce nello stesso tema critico di Maulnier e con una documentazione testuale e con una discussione ideologica di estremo rigore denuncia il « controsenso fondamentale » (fundamentaler

Widersinn)

che percorre

il pen-

siero nicciano e lo spacca in due dottrine finali che s’elidono a vicenda, appunto il superuomo e l’eterno ritorno”. L’intero pensiero di Nietzsche obbedisce fin dal principio a due spinte fra loro antitetiche. Da una parte l’avventutosa ricerca, anzi la smaniosa creazione del nuovo contro il vecchio, il partito preso a favore del divenire contro l’essere, la tensione verso il futuro e in particolare, da un certo punto in poi, verso un inaudito evento storico futuro in cui tutti gli uomini erano chiamati a convogliare la massima possibile volontà di potenza nelle mani di un unico uomo individuo destinato a decidere di quell’evento. Su questa linea si collocano pure le opzioni a favore dell’individualismo, dell’autoaffermazione egoistica dell’uomo di contro alle istanze d’ordine trascendentale e universale, e inoltre le chiamate via via sempre più incalzanti sull'uomo al compito che l’attende, al-

l'impegno, a un sollen. Dall’altra c'è invece un bisogno altrettanto imprescindibile di liberare l’individuo da ogni forma di responsabilità, di dovere, di decisione, di personale libertà

di scelta, di autentica capacità creativa del nuovo; il bisogno di incatenare di nuovo ogni singolo a poteri d’ordine superindividuale e trascendentale, giacché tale è la volontà di potenza, non un so/ler nell'uomo, ma un réssen. È un procedere da una parte tutto in un senso e dall’altra e simultaneamente nel senso esattamente contrario. La contraddizione tocca il parossismo nelle due dottrine simultanee e reciproche del superuomo e dell’eterno ritorno, dove l’atto supremo della volontà di potenza che crea il superuomo consiste nella volizione dell’eterno ritorno la quale è «un voler non più volere affatto », è la capitolazione della volontà umana in20 T. MAULNIER, Nietzsche, Parigi 1933, pp. 266-268. 20. LOWIIHI 0D° (ih

L’ETERNO

RITORNO

155

dividua all’assoluto determinismo, oltre che essere pure la volizione d’un nuovo già stato infinite volte vecchio. Sia Maulnier che Lowith richiamano inoltre l’attenzione sul fatto che nell’ultimo Nietzsche il mondo dell’eterno ritorno s’identifica senza residui con il determinismo cosmicofisico dell’universo materiale e delle sue leggi puramente meccaniche, sia generali che particolari. Essi fondano tale precisazione su testi che i curatori della nuova edizione critica tengono ancora sub judice (quelli soprattutto della edizione apocrifa del libro La volontà di potenza) e del cui testo autentico si attende ancora la pubblicazione. Ma se si pensa al progressivo processo di fisiologizzazione e fisicalizzazione in cui stanno sottoposti in Nietzsche tutti i contenuti del suo pensiero (il processo che abbiamo lungamente analizzato), quella identificazione cosmico-fisica è del tutto attendibile. L’eterno ritorno non è in fondo che la volontà di potenza la quale, essendosi sostituita come assoluto al posto di Dio, ha dovuto farsi eterna precisamente nei termini dell’eterno ritorno, e che alla fine del detto processo di fisicalizzazione non poteva che identificarsi tout-court con il meccanico determinismo del mondo, dove l’uomo individuo, incluso il superuomo,

non è che un elemento meccanico fra altri infiniti egualmente meccanici.

Concludendo a noi pare di aver condensata in queste pagine certo non tutta la verità su Nietzsche, ma almeno la sua spina dorsale o, se si vuole, la linea continua del fiume a cui sono affluiti, dei moltissimi e diversissimi fili d’acqua (delle migliaia di aforismi), tutti quelli adatti e destinati a ritrovarsi

in una

unità coerente.

Questa

verità non

è stata,

alla fine, bella, è stata proprio come Nietzsche stesso pensava dovesse essere ogni verità: brutta, deludente e desolante. Una brutta verità, diciamolo pure, che non è soltanto di Nietzsche e su Nietzsche, ma che è purtroppo assai spesso obiettiva verità innegabile dell’uomo e della storia, una verità che si è sempre verificata nel mondo dell’uomo, e prima di Nietzsche e dopo di lui anche per suo incentivo. Molte brutte cose che egli ha detto dell’uomo sono storicamente vere: vero è l’uomo lupo e agnello, e vero l’homzo homini lupus. Non è questo ciò che noi contestiamo nel pensiero nicciano, bensî il fatto che in tale pensiero tutta questa brut-

CAP. II - FRIEDRICH

156

NIETZSCHE

ta verità ci viene spesso propinata per bella anche se orrida, pet affascinante, per inebriante; o ci viene in ogni caso dichiarata necessaria, innocente, in ogni senso incorreggibile. Molte perverse inclinazioni vengono cosî del tutto scusate o anche giustificate e incentivate. Il diritto cede completamente alla forza, la ragione al talento e l’anima al corpo. Non solo le grandi violenze, le rivoluzioni politiche e gli imperialismi d’ogni genere, ma il delinquente comune è in grado di mutuare da Nietzsche il decalogo che fa per lui. No, un pensiero simile è un

attentato

alla civiltà, alla libertà, all’uomo,

oltre che allo spirito e alla religione. Ma che altro avrebbe potuto pensare di diverso o di meglio uno spirito in balia d’un corpo cosî malato, una mente flagellata e poi invasa dalle onde indomabili d’un sangue infetto? Egli è molto meno colpevole di tanti altri che a mente sana si sono fatti una bandiera o un alibi del pensiero d’un folle ?2. Ma è stata davvero questa la verità definitiva di Nietzsche? Il 2 giugno 1885 (era il tempo più o meno di A/ di là del bene e del male) egli cosî scriveva a Overbeck: « La mia ’’filosofia”, posto che io abbia il diritto di chiamare cosî ciò che dentro mi maltratta già fino alle radici, non è ormai più comunicabile [...]. Con tutto ciò un desiderio mi prende, d’un segreto colloquio con te e J. Burckhardt, più allo scopo di chiedervi in che modo voi risolvereste questo mio tor-

22 Condensiamo — ne vale la pena — la sintesi critica che Lowith ci dà sul sistema nicciano alla fine del suo libro, la migliore e la più rigorosa critica a Nietzsche che ci sia nota. «Una teoria delluomo è del tutto campata in aria se non ha come base portante o un Dio metafisico o la physis del mondo; giacché l’uomo non esiste da se stesso ». Se dunque l’uomo non viene da Dio non può venire se non per sviluppo dalla materia del mondo. Ecco allora in otto punti le conseguenze perfettamente logiche e progressive che se ne traggono e che Nietzsche trasse di fatto: 1) che ciò che importa è esclusivamente l’essere del mondo — se la fede in Dio come creatore del mondo è morta; 2) che l’essere di questo mondo è una physis fondamentale che ha in sé la causa del suo moto — se l’essere non sorge più miracolosamente dal 74/4;

3) che il mondo fisico è eferzo — se esso non ha più un principio e una meta finale; 4) che l’eternità di un mondo fisico esistente da sempre è un tempo eterno — se essa non è più l’eferzità senza tempo di un Dio sovramondano e sovrannaturale;

L’ETERNO

RITORNO

157

mento che per raccontarvi novità [...]. Adesso la mia vita si condensa nel desiderio che le cose possano essere diverse da come io le concepisco; e che qualcuno mi possa rendere non più credibili le mie ’’verità”3) ». Ma nessuno lo poteva ormai più aiutare. Fin dal 1880 la sua lues cerebri gli si era travasata in paralysis. La quale è dapprima un avvivamento straordinario di funzioni cerebrali grazie all’iperemia d’un cervello in lotta per sopravvivere. A questa iperemia egli doveva l’ascesa meridiana del suo genio (A, GS, Z). Poi era seguita, come suole, una flessione, una tregua, durante la quale gli era riuscito di organizzare il caos delle idee prima balenategli (ABM, GM, Volontà di potenza). Ma con il 1888 il processo disintegrativo gli si rifà piano piano virulento, i tessuti nervosi vanno sfilandosi, con la testa sempre più accesa, egli scrive libri sempre più incontrollati e fanatici (CI, AC, EH). Sente ormai d’essere lui l’Anticristo. Ultimi del 1888 e primi del 1889: l’esplosione, la follia. Egli si sente ormai « Dio ». Un anno dopo era « un cratere spento » ?.

Dieci anni dopo, la morte, a Weimar a 55 anni.

5) che l’uomo viene dalla ratura e dal mondo — se non è più immagine creata di un Dio sovrannaturale e sovramondano; 6) che il problema circa il rapporto fra l’essere eferzo del mondo fisico e l’essere temporaneo dell’uomo è un problema inevitabile —

una

se

la risposta

circa

il rapporto

non

è più

comune creazione e nel corzuze ordinamento dell’uomo per mezzo di Dio; 7) che il caso d’ogni fattuale esistenza

data

dalla fede nella del mondo e

reciproco

diviene necessariamente un problema — se la fede nella Provvidenza e nelle sue forme secolarizzate non è più credibile; 8) che l’enigma del caso «uomo» non trova più soluzione — se l’uomo non è più inserito nell’eterno Tutto dell’Esistente per sua propria natura. Nietzsche fece l’esperienza di ciò che significa il fatto che l’uomo dopo Copernico ormai è caduto da un centro in una X, ossia: l’assoluta contingenza dell’esistenza umana dell’uomo moderno: « Ancora dover combattere con il gigante caso [...]. E come potrei sopportare d’essere uomo se l’uomo non fosse anche il salvatore del caso? »: questa salvezza sarà il risolvimento del «caso uomo » nella necessità del mondo fisico. 8 Lo studio clinico più aggiornato sulla follia di Nietzsche è quello di W. Lance-ErcHBANNS, Nietzsches Krankheit und Wirkung, Amburgo 1947.

CAPITOLO

ITALO ATEISMO

III.

SVEVO E IRONIA

DE, ATEISMO

l.- LA

VERITÀ

RELIGIONE

DEELA

PERSONALE

DI SVEVO

VERITA.

Italo Svevo ebbe forte quanto pochi la religione della verità: della verità qualunque fosse e a qualunque costo. Sopra ogni cosa egli ci teneva a sapere, a volere, a dire la verità e a smascherare l’illusione, la menzogna ovunque si annidassero, e anzitutto in se stesso. Ma la « verità » a cui di fatto pervenne, per cui si decise, a cui prestò la sua voce e la sua penna è doppia. C’è la verità dell’uomo Svevo (di Ettore Schmitz, per intenderci) ed è il nichilismo. E c’è una verità di Svevo artista-narratore che dalla sua opera d’arte s’innalza a contraddire molto spesso la prima. È la nostra

ipotesi interpretativa che ora ci accingiamo

a verificare sull'opera omnia sveviana, portata finalmente a termine (da poco più di due anni) presso l’editore Dal-

l’Oglio !. L’ipotesi, in quanto centrata appunto tutta sulla verità, ha presupposti filosofici ed estetici non accettati oggi da molti, 1 I. Svevo, Opera omnia, Dall’Oglio, Milano 1966-69. Comprende cinque volumi di complessive 4270 pagine, e sono, in ordine di comparizione: Epistolario, Racconti Saggi Pagine Sparse, Romanzi (I vol.: Una vita e Senilità; II vol: La coscienza di Zeno e Senilità in edizione originaria), Commedie. Noi citeremo i suddetti volumi sotto sigla tra parentesi nel testo. Le sigle sono nell’ordine: E, RS, RI, RII, C. Tutta l'edizione è curata da Bruno Maier che anche la introduce con una informatissima

CAP.

160

III - ITALO

SVEVO

ma accettabilissimi invece, pet esempio, da Svevo. Se c’è mai

stato in epoca contemporanea scrittore italiano al di là del bello e del brutto, fanatico anche in arte della verità qualunque fosse, un asceta del contenuto, un certosino del verificabile, un religioso insomma del vero magari pure irreligioso, questi è Italo Svevo. Colui che si sorprendeva incapace di mentire (E 859) e di tradire (E 119), che scriveva alla mo-

glie: « A me non piace a questo mondo che la verità. La verità - anche quella che mi fa soffrire » (E 121) - è anche colui che, come scrittore, vuole soprattutto che chi legge un romanzo

abbia «il senso

di sentirsi raccontare

una

cosa

veramente

avvenuta » colui che, anche là dove inventa, s'impone di « credere nella realtà della propria immaginazione » (RS 308). È

la prima, indelebile impressione di chi prende per la prima volta in mano un qualunque racconto o romanzo sveviano: l'impressione di leggere degli esattissimi ricordi scrupolosamente registrati da un testimone il quale, pur di darci né più né meno che la obiettiva verità di quanto ha vissuto, provato, visto, è disposto a continue perdite in quanto scrit-

tore-artista; a perderci quanto a forma, a stile, a ordine e a ordito narrativo, a bellezza espressiva, a presa suggestiva sul lettore, disposto a deludere di continuo il lettore con tutto quel che di grigio, gratuito, modesto e meschino non può non aderire a fatti, personaggi e significati (anche là dove si devia dal rigido ricordo e si contamina l’esserte con il possibile), se si vuole che siano « veri » come nella vita. L’impressione è cosî forte che, una volta conosciuto l’uomo Svevo e resi accorti sulle molte invenzioni di Svevo scrittore, si resta come frastornati fra delusione, sollievo e truffa: ciò che più o meno capitò a un certo critico letterario (Ferrero) il quale andato

a visitare Svevo a Trieste non credeva ai suoi occhi quando vide che la moglie di Svevo era bella ed aveva occhi perfettamente simmetrici e non era affatto come la moglie di Zeno nell'omonimo Tutta questa veridicità, verismo, siva passione sveviana della verità, non

né strabica, né brutta romanzo ?. verosimiglianza, escluè certo, neanche in lui,

sintesi della critica sveviana e con introduzioni particolari ai singoli volumi (a parte le Commedie che sono introdotte da Umbro Apollonio) e ci dà in calce al volume II dei romanzi una esauriente biblio-

grafia delle edizioni, delle traduzioni e della critica italiana e straSono sue, a parte l’ultimo volume, anche le note. 2 L. VENEZIANI Svevo, Vita di mio marito, Trieste 1958, p. 145.

niera.

LA RELIGIONE

DELLA

VERITÀ

161

una qualità assoluta e senza macchia. Esistono anche in lui, come vedremo, proprio in ordine alla verità, apriorismi, blocchi, abbagli, incoerenze. Non però la mala fede. Ma egli stesso rileva, mentre introduce uno degli ultimi suoi racconti, che chi racconta, anche quando non vuole che fedelmente ricordare la verità del suo passato, non può restituire che una parte della verità, e questa stessa selezione è comandata da un’esigenza di armonizzazione. È l’inevitabile insincerità dell’« arte ». E lo rileva con ironico disappunto: « E ora che sono io? Non colui che vissi ma colui che descrissi » (RS 373). Per un appassionato unicamente della verità anche in arte è quasi la confessione d’un fallimento. Sull’estetica verista di Svevo è dimostrato che hanno influito i modelli della narrativa naturalista, realista e verista ottocentesca. In questo senso si deve ormai vedere în lui un epigone più che un anticipatore dei neorealismi e neoverismi novecenteschi specie del secondo dopoguerra3. O meglio: un anticipatore proprio perché un epigone; un verista ottocentesco passato a lungo sotto silenzio o messo, per cosf dire, a ibernare in attesa del ricorso storico, nel Novecento, degli ismi ottocenteschi e uscito intatto e fresco a tempo debito a confortare il ricorso. A ben guardare tuttavia ci si convince che ciò che ha fatto di Svevo lo scrittore che fu, ciò che ha fin dal principio guidato la sua penna, ben più che i modelli o le estetiche ottocentesche, è stata una sua tutta personale filosofia della vita, assunta e decisa già dal giovane Svevo come la verità sua propria, anzi come la verità foutcourt. La chiameremo per ora, molto genericamente, nichilismo metafisico. Tutta la narrativa sveviana, infatti, è radicalmente investita da un movimento che dai molti fatti verificati punta di volta in volta verso una loro via via sempre più comprensiva interpretazione, verso una verità totale, cioè

filosofica: nichilistica precisamente. E a suscitare o a confermare una simile filosofia, chiave segreta della narrativa di Svevo, sono state, ben più che i modelli o le estetiche di cui

sopra, le filosofie affini, quella di Schopenhauer in testa. Il suo tipico nichilismo è, in Svevo, il firis operantis. Il finis operis invece, come dimostreremo, lo attirerà mezzo recalci-

3 Cfr. G. De BENEDETTI, I/ romanzo del Novecento, Milano 1971, pp. 518 ss. Zola e Flaubert sono i modelli qui più sottolineati. 11

162

CAP. III - ITALO

SVEVO

trante e mezzo fascinizzato verso ben altre quantomeno ipotesi di verità. Se cosî è, non è un fraintendimento semplicemente colossale di Svevo quello della critica italiana la quale, nei suoi milleseicento interventi critici finora eseguiti su di lui (tante sono le voci della bibliografia critica a suo riguardo fino al 1969), mai o quasi mai si è interrogata sulle « verità » che son realmente state il credo, la mira, la meta di Svevo uomo e scrittore? Per molte centinaia di volte ci si è reinterrogati invece su quanto a Svevo poco o nulla interessava: sugli stili, le forme, le strutture, le atmosfere, le derivazioni, le

influenze, le psicologie, le varie tematiche. Sulla questione centrale, sulla verità radicale, quella che poi decide in ultima analisi anche delle ragioni formali, ripetiamo, poco o nulla. Ma la verità è proprio tabù alla nostra critica letteraria *. Vero è che ormai è d’obbligo parlare, sulla scia di Montale, a riguardo di Svevo, di « ansia d’umane scoperte », di « sondaggi ben al di là delle parvenze », d’un « occhieggiare del mistero ». Ma di quali scoperte precisamente, di quali sondaggi, di quali misteri si tratti in fondo e in particolare, silenzio solenne o quasi.

2.-

«NOI MISCREDENTI » (RS 468).

Il nonno di Italo Svevo, cioè di Ettore Schmitz (18611928), era un ebreo ed era nato in Renania, ma era stato invitato in qualità di funzionario dell’imperial regio governo asburgico a Treviso, dove aveva sposato una ebrea italiana, una Macerata. Il padre aveva pure sposato una ebrea italiana, una Moravia, s’era poi trasferito a Trieste impiantandovi un’impresa commerciale. A Trieste gli Schmitz, sia padre sia figli, si sentivano però a quanto pare ben più triestini e italiani che ebrei, militavano addirittura ufficialmente fra gli irredentisti. Di Schmitz padre si dice che era liberale e patriota. Schmitz figlio (primogenito di otto fra fratelli e sorelle) 4 Il problema della « verità » di Svevo è però avviato ormai con gli interventi, per quanto brevi, di A. Bassan, di D. Barsotti, con il volume di Bruno Maier sulla Problematicità del reale, con le analisi psicoanalitiche di M. David. Bisogna però arrivare ai francesi per trovare uno studio consistente che affronti «les fondements ideologiques » dello scrittore.

« NOI

MISCREDENTI

»

163

s’accosterà più tardi al socialismo, ma aveva fatto parte fin da giovanissimo di clubs irredentistici fino a diventarne talvolta presidente. Tutto fa pensare però che il nazionalismo di questi ebrei e in particolare di Svevo non fosse eccessivo, celasse parecchie riserve. A dodici anni Svevo venne mandato dal padre in una scuola tedesca presso Wiirzburg. Nella Trieste austriaca una educazione tedesca presentava vantaggi specie economici. Ma l’impressione che lo stesso Svevo complessivamente ci fa è quella d’un patriota ben tiepido. Le note d’amor patrio sono nei suoi scritti pressoché nulle: a nostra memoria una soltanto, il dolore per non so quale sconfitta italiana in Africa. Poca o nulla l’emozione per l’entrata dell’Italia in guerra nel 1915 e degli Italiani a Trieste nel 1918. C'è anzi un lamento sul disservizio postale dopo quell’entrata, e ce n’è un altro sulla critica italiana in genere (« Della critica italiana non bisogna dir male, perché non esiste », RS 683). Il suo patriottismo non fu di certo favorito dal fatto che gli stranieri (Joyce e i francesi Crémieux e Larbaud) s’accorsero del suo valore letterario prima degli italiani. Nel 1914 imbrogliò, è vero, gli Austriaci, venuti a sequestrargli la fabbrica, sul segreto di fabbricazione delle sue vernici sottomarine®: ma fu un atto di amor patrio e di odio dello straniero, oppure di amor proprio e familiare? In certi suoi scritti del tempo di guerra il suo sentimento si volge decisamente verso un pacifismo internazionalista (RS 649 ss.). Con tutto ciò nel 1915 egli era ancora il presidente della Lega nazionale triestina ed ebbe delle noie da parte degli Austriaci per questo. Ciò vuol dire che ci teneva a figurare quantomeno come un irredentista, lo eta ancora probabilmente, lo era certamente

stato fin da giovane. Ora, essere a

quel tempo a Trieste irredentisti (e liberali o socialisti in soprappit) significava essere tutto sommato anche anticlericali. Il partito clericale o cristiano popolare, che raccoglieva la volontà politica dei praticanti specie cattolici, era « austriacante » 9. Essere anticlericali in politica era per lo più 5 VENEZIANI-SvEvo L., op. cit., p. 89. 6 Una eccezione a questa regola sembra rappresentata dai Veneziani, la famiglia ebrea triestina italiana a cui apparteneva la moglie di Svevo. Sembrano insieme cattolici e irredentisti. Due zii di Livia erano stati garibaldini e un terzo compagno di Oberdan. Ma erano di nazionalità italiana. E con sicurezza sappiamo che erano cattoliche praticanti solo Livia e sua madre.

164

CAP.

III - ITALO

SVEVO

essere anche di fatto poco o punto religiosi: questo senz’altro per triestini di tradizione cattolica, ma anche pet questi ebrei ormai del tutto assimilati, che voleva anche dire anzitutto non più ebrei in senso religioso. Se Svevo abbia o meno avuto da ragazzo un’educazione religiosa di qualunque genere, non siamo riusciti a sapere. Certo è che, se ne ha avuto una, ben presto la smarrî. Dall’età all’incirca dei vent’anni fino alle sue ultime volontà testamentarie, in cui chiese

funerali « civili », Svevo si professò miscredente. Sospettiamo che l’irredentismo, ossia la politica c'entri per qualcosa. A 35 anni egli sposò Livia Veneziani, 21 anni, bella, bionda, verdi gli occhi, ebrea lei pure, triestina di nazionalità italiana. Ma era, come tutti i Veneziani, di religione cattolica. Era stata educata a Marsiglia dalle suore di Notre Dame de Sion. Era una fervida praticante sinceramente religiosissima. Il rito del matrimonio fu cattolico. Si sa che Svevo frequentò insieme alla fidanzata un corso di preparazione al matrimonio cattolico: senza apprezzabili risultati quanto a lui. Il matrimonio ebbe su piano umano successo, ma quanto alle « idee » i due coniugi vissero accordati in un tacito patto di reciproca tolleranza. Vi restarono fedeli fino alla fine, eccezionali indiscrezioni a parte. Dalla parte di lei si registra una Imitazione di Cristo furtivamente « dimenticata » fra i libri del marito allora a Londra per affari. Alla scoperta lui s’adombra (E 490). L’ultima avance di lei si può leggere in Vita di mio marito. Svevo era morente dopo il noto incidente d’auto all’ospedale di Motta di Livenza. Una suora chiese alla moglie là presente se doveva chiamare un sacerdote. Lui intuî la domanda, cosî almeno a lei parve, e congiunse le mani in un gesto che lei interpretò di devozione. « Ettore, vuoi pregare? » gli bisbigliò. E lui con la voce velata: « Quando non si è pregato mai per tutta la vita non serve all’ultimo momento ». Furono le sue ultime parole. Il sacerdote non venne chiamato”. Se queste ultime parole confermano quel miscredente che Svevo fu, quell’ultimo gesto può forse simbolicamente riassumere certi velleitari tentativi, certe ipotesi balenate per attimi, certi rimorsi, insomma

certi rischi per un miscredente

della caparbietà di Svevo, che si possono, come vedremo, biograficamente o almeno bibliograficamente documentare. Quel gesto rimanda, con la forza d’un’analogia forse ? VENEZIANI-SVEVO

L., op. cit., p. 159.

« NOI MISCREDENTI »

165

irriverente ma irresistibile, a un episodio di Serilità. Lo scultore Balli stava lavorando a una statua di « donna orante », fungente Angiolina da modella ed Emilio da geloso spettatore critico. Vi voleva rappresentare una preghiera ascendente dal basso verso l’alto, il movimento doveva erigere la persona dell’orante, farle congiungere le mani e atteggiarle devotamente il viso. Ma i capelli, « disposti con civetteria », « erano destinati a negare la preghiera che la faccia aveva espressa ». L’intenzione precisa del Balli infatti era di raffigurare una donna che « per un’istante crede e che forse non avrebbe creduto mai più ». Ma tale era pure la suggestione che irradiava dalla modella stessa, la bella sgualdrina che andava a Messa e a confessarsi. Era verità o era anche quello finzione? « Quella beghina non sapeva pregare. Piuttosto che rivolgerli piamente, ella lanciava con impertinenza gli occhi in alto. Civettava con il signore Iddio! » (RII 548). In quale esatta misura l’episodio esprima Svevo stesso come orante e come credente velleitario egli pure, a che cosa miri esattamente l’innegabile ironia delle parole citate, se alla preghiera in genere, se a quella preghiera, se più alla civetta che fa la beghina o alla beghina che fa civetta, e con tutti, non escluso il signore Iddio, sarà qui come altrove una questione sottile fino all’impossibile. Ma per attenerci per ora al solo piano biografico, noi sappiamo, per esempio, che Svevo quand’era a Londra per affari andava talvolta a Messa di domenica a S. Paolo o a Westminster, in chiese però anglicane e non cattoliche, perfino infastidito che fossero cosî baroccamente simili alle cattoliche (E 288). Ma ci va da « profano » (ci tiene a dirlo), a sentire del bel canto e possibilmente del bell’inglese. L’inglese che Joyce gli ha insegnato alla svelta a Trieste non gli basta per capire quello dei predicatori londinesi e ci scherza scrivendo alla moglie: « È perciò che non mi sono convertito » (E 295). Sempre con la moglie scherza bonariamente, ma abbastanza spesso e volentieri, in fatto di religioni e di devoti: « Io credo che la piccola signora vada in una piccola chiesa perché in una grande non sarebbe vista » (E 264;

suore

cfr. anche E 249, 288, 374, 411, 443, 578, 735). Le

e i preti cattolici non

gli garbano,

questo

è chiaro,

talvolta la loro vista lo incattivisce: « Il prete dall’aspetto stupido come sempre diceva o non diceva le sue litanie [....]. La lingua morta in bocca al povero Nane diventerebbe più spro-

166

CAP.

III - ITALO

SVEVO

positata che in bocca del prete ma subito viva e moderna » (E 236). Sua moglie vorrebbe che la figlia andasse come lei a scuola presso le suore di Sion. Lui glielo consente, ma dopo appena un anno pretende che passi alla scuola pubblica. Stando cosî le cose, noi pensiamo che certe interiezioni religiose ben rare (come « Dio mio! » o « Che Dio la conservi! », E 195, oppure « Anche cosî — come dicevano i nostri vecchi — sarebbe un disgraziare Dio lagnandosi », E 233) o qualche non meno rara allusione alla « provvidenza », reperibili nelle lettere, non dicano in fondo nulla: vecchi modi di dire, appunto, di cui rimane intatto il guscio vuoto. Sembra dunque accertato che Svevo visse e morî senza religione, senza nessuna religione, vista l’alternativa che, come vedremo, vi sostitut; e che la posizione, una volta raggiunta,

non

fu mai seriamente

messa

in crisi. E sembra

tutto è cominciato assai presto, se è cominciato:

pure che a vent’anni

o poco prima. Ecco, ad ogni modo, quanto in merito si può sapere. A 17 anni egli fu richiamato da Wirzburg a Trieste, qui finî gli ultimi due anni alle tecniche commerciali: all’istituto Revoltella dove poi anche insegnò. Era appena diplomato quando il padre falli, ulteriori studi gli furono preclusi, fu costretto a impiegarsi in una banca. Ma nelle ore libere continuò da solo la propria cultura: partecipando vivamente alla vita culturale, teatrale, letteraria triestina, e soprattutto

con

puntigliose letture alla biblioteca civica. Facciamo attenzione quali. Conosceva dal collegio i classici tedeschi, qualche russo, Shakespeare. Gli mancavano gli italiani e i francesi. Leggerà quanto ai primi: Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio, De Sanctis, Carducci. Non Dante e non Manzoni: leggerà Dante a 60 anni, Manzoni mai. Quanto ai francesi: Flaubert, Zola, Balzac, Stendhal. Ma insieme leggerà i pensatori, le guide ideologiche, la scelta delle quali è più indicativa ancora. Quali? Anzitutto Schopenhauer. Poi Renan. Pit tardi Darwin, Joyce, Nietzsche, Freud, Marx, Babel. Che cosa può aver in fondo deciso simili scelte? Una ovvia, previa, radicale scelta areligiosa. A 19 anni appena suonati Svevo inizia a collaborare all’« Indipendente », quotidiano triestino irredentista. Una ventina di articoli in tutto, sparsi sull’arco d’un decennio (1880-

1890),

recensioni

di teatro,

di libri, interventi

vari.

Sono,

« NOI MISCREDENTI »

167

fin dal primo, tutti pezzi assai vivaci di stile, di umore, d’intelligenza, spesso anche pungenti e aggressivi, scoperti alle punte acuminate, ma nel fondo abbastanza cordiali, d’un’itonia ancora scherzosa. Si sente però benissimo che il giovinotto ha coraggio, che è deciso a dire ciò che pensa e a pensare la verità, anche se questa morde e scandalizza. Inoltre è già schierato, schiettamente e radicalmente, su precise frontiere ideologiche, è già dentro in grossi problemi di fondo. Per chi parteggia? Per quale verità? _ Già il primo articolo promette, in questo senso, molto. È una franca, acuta, profonda apologia di Shylock, l’ebreo protagonista del Mercante di Venezia (rappresentato in quei giorni a Trieste). Vi si difende l’ebreo come tragico esponente della vana vendetta, della vana riscossa semitica contro le superstizioni del tempo schierate contro di lui. Neanche a farlo apposta egli usa su (e contro) Shakespeare i criteri interpretativi che noi stiamo usando su (e contro) di lui: distinguere fra verità immediata e letterale, e verità superiore e segreta. La domanda è: Shakesperare è antisemita, e cioè succube egli pure delle « superstizioni » (cioè del cristianesimo) della sua epoca? Secondo la prima verità sembrerebbe di sf: Shylock è dipinto livido di vendetta, sinistro, subdolo, soprattutto fallisce miseramente nel suo piano vendicativo. Ciò che soccombe è dunque il male, è il malvagio: ecco l’assioma che decide del senso d’un dramma e dell’intenzione d’un autore. Svevo recalcitta: « Ma è vero, è giusto quest’assioma? [...] E come poteva accettarlo Shakespeare, profondo osservatore, ttagedo verista [...], egli lo spettatore di continue ingiustizie, dopo aver veduto cadere la testa d’una regina perché ferma nel suo diritto; dopo aver veduto cangiare per ben tre volte di religione una intera nazione, forse dopo averla dovuta cangiare egli stesso? » Ma, a parte questo, guardate attentamente il Shylock del dramma, continua spavaldo il critico, non vi intravvedete tutta una grandezza, una giustizia nella riscossa d’un uomo umiliato e offeso, un tragico fascino nella sua fine? E rivolgendosi a Shakespeare stesso: « Oh! Mio vecchio William! Non è forse falsa l’idea che tu possa aver voluto ridere di questa figura? » Se, comunque, per le su-

perstizioni del tempo, egli ne ha riso, « questa sera noi rideremo delle superstizioni shakesperiane » (RS 557 ss.). La prima comparsa dello scrittore futuro è brillante, dobbiamo ammetterlo. E c’è la petulanza giovanile del bel-

168

CAP.

III - ITALO

SVEVO

l'ingegno, c'è forse, segreta, anche la petulanza traumatica dell’ebreo che ha pure appena subîto un fallimento (economico), e già c'è l’allerta contro le superstizioni identificate in genere alle religioni. I responsabili del giornale potevano avere motivo di preoccupazione. È per questo che si dovrà attendere due anni prima di poter leggere sullo stesso giornale un altro articolo di Svevo, e quattro anni prima di leggervi un altro suo deciso schiaramento ideologico? Quest'ultimo ha per titolo « La verità » e si tratta di Renan (RS 586 s.). È una delle più nette ed univoche prese di posizione ideologiche che ricordiamo di Svevo, una delle sue più compromettenti indiscrezioni circa il tema che ci occupa. Vi si parla, di nuovo con notevole acume, del riconoscimento in genere della verità, e dell'amore oppure odio per essa, e in particolare della verità da Renan riconosciuta per tale, e del suo amore e odio al riguardo. Si ammette che una verità riconosciuta per tale si possa non amarla troppo, quando sia amara, che si possa non esserne entusiasti, che si possa odiarla addirittura; e che si possa invece amare e rimpiangere il suo contrario riconosciuto come falso. È quanto precisamente fece Renan, ateo dichiarato « già dalla sua gioventù ». Furono riconosciute da

lui per false la Chiesa, la Religione e il Vangelo; per vero invece il loro contrario, l’ateismo. Eppure egli continuò ad amare, a rimpiangere quelle falsità, scrisse « le sue più belle pagine » a « glorificazione di ciò ch’egli nega », disse « un delitto la propaganda antireligiosa », desiderò di essere sepolto « nel cimitero del suo convento ». Svevo interviene con seccata ironia, ma, si direbbe, a tutta prima non su questi amori e rimpianti, bensf unicamente sulla epigrafe dettata da Renan per la sua tomba ormai esclusa dalla terra consacrata. Diceva l’epigrafe: Veritatem dilexi. Dilexi? Ma no, doveva dire semmai: odi. E aggiungere: Falsitatem dilexi. A ben leggere però il discorso non è solo di carattere generico circa la verità e la coerenza dei sentimenti al riguardo. Il discorso rivela alla fine anche la particolare verità per cui parteggia lo scrivente e i suoi sentimenti

e atteggia-

menti al riguardo. È evidentemente la stessa verità che Renan ha riconosciuta per tale. Ma ben diversi sono i sentimenti e gli atteggiamenti di Svevo al riguardo quando chiudendo l’articolo aggiunge: Renan « crede che la verità lasci tutti tanto inerti transigenti quanto lui ». Il senso e soprattutto il tono della brusca chiusa dicono assai cose: rimprovero a Renan

« NOI MISCREDENTI »

169

per la sua transigenza verso la religione rinnegata, imperativo di intransigenza invece per chiunque abbia riconosciuto una verità, qualunque sia, verso le falsità contrarie. E dicono anche che lui, Svevo, ama

«la verità o ciò che [Renan]

professa

per verità »; che quantomeno egli milita per essa. Appena sei mesi dopo abbiamo, sempre sull’ « Indipendente », un altro lampante schieramento ideologico, 20 febbraio 1885: « Giordano Bruno giudicato da Arturo Schopenhauer ». Il breve articolo voleva essere un piccolo contributo personale di Svevo per l’iniziativa promossa dalla « nobile gioventi romana » a favore d’un monumento a Bruno da erigersi in Campo dei Fiori. E vi si trascrive un elogio al pensatore eretico e panteista, ivi bruciato nel 1600, che Svevo aveva appena letto in Schopenhauer. È un elogio alla sua ribellione contro le tradizioni religiose, un’elegia sui suoi libri, finiti « fra le mani di preti incolti e furibondi, suoi giudici e suoi carnefici fanatici », destinati ad essere colpiti dalla « maledizione » dell’avvenire. E chi scrive elogia a sua volta l’elogio come « una manifestazione di solidarietà con uomini che hanno sofferto per idee che ci sono care » (RS 600). Da

questo

punto

in poi, ossia dai 24 anni

in avanti,

constatiamo che Svevo attenua assai o abbandona del tutto i toni e gli atteggiamenti polemici a difesa della sua « verità »; o che se talvolta li riprende poi li smorza lui stesso in ironie che sprizzano in tutte le direzioni a colpire insieme avversari e alleati. Egli ormai si contenta per lo più di dichiarare tranquillamente il suo nichilismo. In un saggio del 1908 circa su « L’uomo e la teoria darwiniana » egli ride del padre Wasmann della Compagnia di Gesù il quale, « per suoi scrupoli di coscienza », si trattiene dall’estendere l’evoluzione darwiniana oltre l’ambito delle specie. Svevo è a conoscenza d’un dibattito fra il gesuita e certi scienziati tedeschi, dove il primo ha avuto naturalmente « la peggio ». È una peggio affibbiata però, a noi sembra, con eccessiva naturalezza. Il Wasmann era a quel tempo un famoso mirmecologo, sapeva tutto sulle formiche e anche sui parassiti delle formiche, e aveva verificato in particolare su questi variazioni evolutive dovute alla improba lotta di esseri che dovevano, per vivere, insieme sfruttare le formiche e difendersene. Ora i parassiti in tal modo cambiavano ma senza arrivare a cambiare la specie. E il Wasmann dichiarava onestamente di non conoscere evoluzione da una specie a un’altra. Non c’era nulla da ridere,

CAP. III - ITALO

170

SVEVO

né tanto meno da cantare vittoria. C'era solo, in Svevo, il solito aprioristico anticlericalismo che rimetteva le corna. Tuttavia ecco come egli conclude tutta la questione. La faccenda dei parassiti lo mette di buonumore. Si lancia nell’ipotesi che anche l’uomo sia stato al principio un parassita, e precisamente del mammut, e che la sua evoluzione sia dovuta alle stesse leggi che hanno regolato secondo padre Wasmann lo sviluppo dei parassiti delle formiche. Le spese di questo vero e proprio « divertimento » sveviano le fanno, tutt'insieme, padre Wasmann, l’uomo, il mammut e la teoria

darwiniana dell’evoluzione. Nel bel saggio su « Ottimismo e pessimismo » (di data incerta ma

non

giovanile) si parteggia pure e senz’altro pet

Voltaire contro Leibniz che con due formulette s’illudeva d’aver risolto il problema del dolore. E si cita di costui un assioma che appare a Svevo semplicemente intollerabile, un assioma che « potrebbe essere gridato piangendo ». Ecco l’assioma: «Il peccato e il dolore non risultano dalla natura delle cose ma dal decreto creatore di Dio » (RS

646). L’assioma è criticabile, anzi deprecabile per tutti. Il peccato e il dolore hanno origine (in fondo anche per Leibniz) nelle volontà libere ribelli ai decreti divini. Non segue che la critica di Svevo sia qui necessariamente antireligiosa. Ad ogni modo anche qui tutti vengono criticati, Leibniz, Voltaire ed altri. In due altri saggi la bonaccia ideologica perviene addirittura all’equilibrio, all’imparzialità. Nel primo (ancora anteriore al 1900) si tratta « Del sentimento in arte » e insieme del sentimento in genere: lo si difende, lo si celebra, lo si defi-

nisce capace di « giungere da solo alle più alte sommità » inaccessibili alla ragione. Ma non è un assoluto, si precisa poi. Si è perché si sente, ma si è anche perché si pensa. Ora, nel sentimento, c'è posto secondo Svevo anche per la « fede ». Lo si ammette in tutta pace in pagine stranamente dosate, serene,

ottimistiche, che arrivano fino all’apologia di « questa magnifica natura umana che non è composta soltanto di cervello e che non merita tutta la diffidenza che le dimostriamo » (RS 663 ss.). Una vera isola nel cupo mare ideologico sveviano. Nel secondo saggio « La corruzione dell’anima » altro editto di tolleranza, anzi diritto di cittadinanza, rilasciato alla « religione ». Si è all’incirca nei primi anni del Novecento e

« QUALCOSA

CHE

SOMIGLIA

A RELIGIONE »

{7AL

Svevo vi spiega la formazione evoluzionistica dell’uomo, invece che mediante il partassitismo, mediante il « malcontento ». Si comincia senz’altro con «il signor Iddio » il quale, finita quanto a lui la creazione, le ordina di continuare d’ora in poi da sé ad evolversi in forza di quell’impulso chiamato « anima » che il creatore ha « distribuito a piene mani » nel mondo. Quest’anima è il malcontento. Il malcontento più forte, più incontentabile di tutti era quello destinato a plasmare l’organismo umano, l’uomo. Era malcontento che « voleva tutto, sempre tutto ». Per accontentarlo l’organismo sottostante ad esso elaborava ed elabora gli «ordigni» atti all'uopo. « Alcuni di questi ordigni erano idee »: «la giustizia », per esempio, e «la religione che dà qualche istante di pace all'anima torva ». La conclusione è di nuovo cupa quanto all’ultimo degli ordigni: «l’ordinamento sociale ed economico cioè un metodo per far convivere in una guerra dall’aspetto di pace il triste e malvagio animale guerresco » (RS 643). Sono forse approdi alla fede come sentimento, alla religione come organo dell’uomo, non certo approdi a un riconoscimento dei contenuti della fede come a verità. Avrà influito sulla precoce miscredenza di Svevo anche il groviglio dei problemi erotico-sessuali di cui indirettamente riferiscono i suoi due primi romanzi ampiamente autobiografici? Si teme di sî, specie se si tiene conto delle soluzioni cosî inutilmente o malamente cercate in quei libri, e delle concezioni risultanti: virtà e verità impossibili in amore dove domina sia la fatalità dei sensi, sia la fatalità dell’inganno, a dispetto di qualsiasi sforzo di buona volontà; sola possibilità per uscire e respirare un tantino da una simile morsa: decidere che non c’è nulla di serio nella vita. Come meglio vedremo,

essere religiosi significa per Svevo sul serio.

3.-

«QUALCOSA

CHE

A

Svevo

31

anno

SOMIGLIA

incontrò

anche prendere la vita

A RELIGIONE » (D 1.1).

(al letto di morte

di suo

padre) colei che sarà sua moglie, a 35 si fidanzò e dopo pochi mesi la sposò. Matrimonio d’amore, felice, fedele, da ambo le parti. Fu dunque la virtà, la verità, l'ordine — l’altra verità — e una serietà della vita raggiunte e riconosciute.

172

CAP.

III - ITALO

SVEVO

Come mai non avvenne per conseguenza che ritrovò anche la fede, che il suo nichilismo non s’incrinò? Le lettere alla fidanzata, specie la prima lunga del 23-121895, e il Diario per la fidanzata (1-1-1896 in avanti) con le sue pagine freschissime, d’un’estrema sincerità, spesso geniali, rendono conto d’un uomo improvvisamente e profondamente mutato, d’un naufrago che tocca riva, d’una nascita a vita nuova. « Da questa data comincia la mia vita » (D 21.2) « La mia massima voluttà consiste nel sentirmi cambiato, non oso ancora dire ringiovanito » (E 41). Certo non tutto è subito cosî nitido, il naufrago è ancora conteso dall’onda nera, dallo scetticismo, dalla disperazione di prima: « Passerà tutto questo perché la vita ci riavvilupperà con tutta la sua volgarità e forse (oh! povera Livia!) io ridiverrò l’individuo antico che torturerà se stesso e chi gli sta vicino, coi propri dubbi e col proprio passato, tutte quelle esperienze scoranti che non si dimenticano più perché sono andate a far parte della carne e del sangue » (E 40). Si tratta del suo « sozzo passato » (D 22.2), di quell’« individuo decadente » ( D 26.1), « corrotto » (D 11.2), che « non ha fatto sinora all'amore con gente molto fine » (D 31.1), d’un uomo « molto fir de siècle » (D. 14.1), che « amore ha conosciuto con tutt’altra fisionomia. Se sapessi con quale! Non lo descrivo perché altrimenti non potrei consegnarti neppure questa carta » (E 39). Egli è « l’ultimo prodotto della fermentazione di un secolo, una cosa che non può continuare perché non sa volere intensamente altro che la quiete e la soddisfazione breve, improvvisa, rubata e subito dimenticata, un furto, una ignominia ma vigliaccamente comoda » (ivi). È una autentica confessione generale, tutto egli ha « confessato » al « suo dolce confessore »», cioè alla fidanzata (D 11.2), ne ha

provato vivacissimo « rimorso » (D 7.2), ne ha chiesta l’« assoluzione » (D 11.2), dopodiché si è sentito « la coscienza pura come quella di un neonato » (D 21.2) Svevo sarà realmente un uomo nuovo, a parte tre sole cose: un vizio dei nervi, il fumo, un vizio del pensiero, il nichilismo, e la sua vecchia pas-

sione della verità che però lo porterà a sfiorare verità non sempre cosf collimanti con la sua vecchia ostinata verità. Ma chi era e che cosa aveva questa salvatrice, quali attrattive, quali magiche energie trasformatrici? Sî, indubbiamente, era anche la donna: giovane, bella, bionda, ricca e dagli occhi verdi. Ma era anzitutto colei che per prima gli

« QUALCOSA

aveva

CHE

SOMIGLIA

dimostrato

A RELIGIONE »

partecipazione

sincera e tenerezza

1753

nel suo

smarrimento per la morte del padre, e che, nonostante la sua inferiorità economica e il suo passato, aveva accettato prontamente (previa consultazione della madre, donna dotatissima e buona calcolatrice) la sua proposta di fidanzamento. Ma se dobbiamo credere al Diario, ciò che in modo deter.minante ha fatto innamorare, entusiasmare Svevo di lei sono

state l'ammirazione, la venerazione, la commozione e la speranza d’un naufrago morale per le qualità morali della bella fanciulla. Sono stati « gli occhi buoni e onesti » (D 7.2), sono state le « cose buone e caste che albergano sotto i tuoi capelli biondi e ne risulta un tutto buono, casto, sincero, assoluto » (D 3.2). È stato il passato di lei cosî differente dal suo: « puro, trasparente come l’acqua di certi laghi di montagna » (22.2) e, fondata su tutto ciò, « l’unica mia grande, grande speranza di vera, solida felicità » (1.1). « Come sto bene e come starò bene sempre! » (21.1). Ma perché precisamente? A che cosa s’è aggrappata tanta sicurezza? Alla di lei « testa oltre che piena di capelli, di categorici imperativi conventuali » (27.1) e ai « nodi indissolubili » (il matrimonio) « che questo vigliacco mondo borghese m’accorda » (6.1). Si aggrappa e si appoggia dunque all’educazione religiosa da lei ricevuta in collegio dalle suore di Sion e all’indissolubile sacramento nel quale una fanciulla cosî religiosamente educata non potrà non restare fedele. Per conseguenza: « Me amerà come vorrò essere amato e mi sopporterà, sopporterà i miei grilli e le mie malattie, amerà tutto me, pazzo, bestia, vecchio » (10.1).

Strane davvero tutte queste serissime laudi liriche a delle virti fiorite e garantite in una religione che si continua a reputare illusione e non « verità »! E sarebbe una urtante e ripugnante strumentalizzazione (è la parola!) d’una religione altrui, in cui non si crede, a puro profitto della propria felicità e sicurezza, se Svevo non avesse amato tutto ciò che era di sua moglie, anche a suo modo la religione. 8 Molto sintomatica della integrità morale di Livia moglie di Svevo è una lettera del 29.9.1908. Svevo ha bisogna della complicità di lei per un certo affare. Ella deve comportarsi con astuzia, simulazione e dissimulazione. Svevo sa che è difficile ottenere da lei collaborazioni di questo genere. Ma ha pronto un argomento secondo lui infallibile: «Bada di saperti comportare come Dio comanda ai gesuiti » (E 443).

174

CAP.

III - ITALO

SVEVO

Celebrerà in due pagine indimenticabili la serietà, la serenità, la forza ordinatrice e significatrice della sua vissuta visione religiosa. Una di queste pagine è quella che Zeno nell'omonimo romanzo dedicherà nero su bianco, come un piccolo monumento, alla moglie Augusta (RII 725-27). L’altra, che quasi alla lettera l’anticipa, si legge nell’Epistolario (65-69) ed è del 1-9-1897, primo giorno anniversario del matrimonio. Più che una lettera, è una «cronaca della famiglia »: schizzo amabilissimo della vicendevole situazione interiore, in quel momento, dei coniugi Schmitz, bilancio morale dell’anno primo. Oramai egli conosce da un bel po’ chi e che cosa è sua moglie, sa tutto della sua mentalità, dei suoi costumi, eppure ne parla con la stupita-divertita meraviglia di chi va considerando la mentalità e i costumi d’un essere lunare, tanto sono lontani da lui, tanto poco s’aspettava che al mondo esistessero ancora simili cose. Sua moglie insomma è una creatura tutta ancora ancien régime « non ancora giunta alla rivoluzione francese »: a tal punto che « una lettere de cachet venuta dalla autorità patriarcale confermata dal re non l’indignerebbe molto. Il re poi! Quale onore essere rinchiusa per ordine del re! Ella saluta per la prima il capo del comune e il capo della diocesi e se non le rispondono fa nulla perché son le autorità che si salutano e le persone che le rappresentano non hanno veramente altro dovere verso di noi che di rappresentarle. Il mondo dunque è una bella e buona costruzione ideologica dove ognuno ha il suo posto e merita il rispetto del suo posto e deve rispetto agli altri posti [...]. Dopo tutto ciò si capisce come mia moglie prenda sul serio anche la vita. Essa occupò i suoi posti uno dopo l’altro con grande serietà. Credo che anche come bebé ella abbia avuto una certa dignità ». Da tutto ciò discende in lei «un grande piacevolissimo senso di giustizia », una totale « mancanza di rimpianto pel passato », « un’assoluta e inesplicabile gioia di vivere », la disponibilità di vedere e udire « ogni giorno delle cose nuove che la stupiscono e la rendono pensierosa ». Tutte facoltà e qualità che a lui, Svevo, mancano a causa del suo « dubbio perenne non solo sull’essere e il non essere ma anche sul mio e sul tuo », a causa della « mortale indifferenza » a ogni cosa che ne consegue: a causa in una parola del suo nichilismo. Lei invece non ha dubbi, perché è tranquillamente

religiosa: « Non dubbi veh! Per quelli non c’è posto. La preghiera a tempo debito è ascoltata lassi, molto spesso non è

« QUALCOSA

CHE

SOMIGLIA

A RELIGIONE »

175

esaudita ma allora l’uomo ha la coscienza d’aver fatto tutto quello che doveva e può stare tranquillo ». Evidente dal contesto la già asserita identità fra « credere » e « prendere la vita sul serio ». Svevo è il primo a trovare « stupefacente » il fatto che lui, invece « creato per la ribellione

[miscredenza

e quindi]

per l’indifferenza [alla vita], pet la corruzione », abbia potuto « stare insieme » con una donna simile e viceversa. Veramente ci confida che quando si sposò s’era proposto di « cambiare un po’ su4 moglie ». « Mi procurai alcuni libri di Schopenhauer, Marx, Babel (La dorma) proponendomi non d’imporli ma a poco a poco di insinuarli. Invece nei nostri rapporti la letteratura, almeno quella ch’io specialmente volevo, scomparve [...]. Mi si lasciarono le mie idee, e con abilissima, dolcissima politica si evitò d’inquietarmi parlandomene ». Lei si tenne le ,sue « nella piccola testa difesa da tanti capelli ». Non le importava di convincere, mentre noi siamo tutti apostoli di qualche idea o del nulla! E si conclude: « Dicendolo non so se provo ammirazione o ira! Ella non convinse nessuno ma la mia casa somiglia più a lei che a me. C’è un grande ordine ». Non convinse nessuno, e s'intende, di certo non lui, Svevo. Sarà andato anche Svevo, come Zeno, qualche volta a Messa nei primi tempi con la moglie? Soprattutto si sarà dedicato anche lui, per far piacere a sua moglie, a « studi di religione » (RII 753)? È lecito dubitare sia del fatto, sia eventualmente della sua sincerità, visti gli autori che Zeno sceglie di leggere: Renan e Strauss! Studia la religione sui rinnegati! La verità è che anche di questa massima chance religiosa della sua vita, Svevo non ne fece nulla. Perché? Le spiegazioni umanamente plausibili ci sembrano soprattutto due. La prima fu che la moglie religiosa stessa divenne per Svevo la sua religione. Egli adorò sua moglie. Quel « qualcosa che somiglia a religione » (D 1.1) natogli nel cuore fin dagli albori del fidanzamento non è o non sarà la religione di sua moglie bensî una religione per sua moglie, e non importa che allora egli si fosse sorpreso talvolta a « pregare », per esempio, fino a che il telefono gli annunciava che lei era giunta sana e salva a causa sua dopo gli appuntamenti (ivi). Prese insomma l’amore di lei e il proprio bisogno dell’amore di lei infinitamente sul serio. Quando il cristallo appena appena s’appannava, Svevo esplodeva in gelosie terribili, tormentose e torturanti. Questo già durante il fidanzamento, ma

CAP. III - ITALO

176

SVEVO

soprattutto nei primi anni di matrimonio. Bastava che lei, partendo poniamo per le cure termali di Salsomaggiore, infilasse nel bagaglio un cappellino un tantino elegante perché lui piombasse nell’inquietudine più nera. Bastava che la lettera quotidiana promessa tardasse d’un giorno o di qualche ora ad arrivare perché i morsi ricominciassero. Le imponeva di accettare soltanto le cure di medici vecchi. Le controllava sugli orari ferroviari le ore strettamente occorrenti d’un viaggio di andata e ritorno. Vigilava sulle occhiate di lei ad altre persone, sulle loro intenzioni, sulle loro sfumature quando avevano per oggetto un uomo, per esempio, a un ballo o a teatro. « Starò in guardia, le diceva, soffrendo e facendo soffrire » (D 19.1). La gelosia lo pungeva non solo per un dubbio a riguardo della esclusiva dedizione di lei a lui, ma anche per il sospetto che il suo proprio amore per lei non fosse da solo capace di renderla felice: « Sbadigliasti! La mia compagnia ti fa sonno! » (#D22301:

ctr 141)

Gelosia comprensibile! Quella donna era per Svevo l’evidente surrogato d’un assoluto. Era per lui « tutto ». Averla o non averla tutta era per lui una questione di vita o di morte: « Io ti tolgo la facoltà di scherzare con la tua e la mia vita » (E 211). Farla felice era il solo « scopo della sua vita », e il « dubbio » che questo scopo « possa essere mancato » lo dispera, perché « dopo non gli resta altro » (E 110). Nelle forzate assenze da casa, talvolta molte e lunghe per ragioni di affari, specie in Inghilterra e a Murano (dove aveva pure fabbriche di vernice sottomarina) Svevo mai ometterà di scrivere ogni giorno alla moglie almeno una lettera: era il suo sacro dovere quotidiano. Se il recapito postale a Trieste tardava anche di poco la consegna e la moglie dichiarava di non aver ricevuto, Svevo replicava ogni volta: « Eppure io ho scritto religiosamente ogni giorno ». Il corsivo è di Svevo. Persino i « perdoni » fra i due coniugi, quando capitava, erano

« sacramentali » (E 200). Tutto ciò ebbe, per implicito, due effetti, uno buono ma un altro pessimo. Quello buono fu che Svevo non fu mai presumibilmente capace di tradire sua moglie (E 119, 127, 283, 275: « depressione nervosa dovuta alla più assoluta fedeltà »). L’altro fu, come già accennato, un irremissibile impulso al possesso assoluto, al potere assoluto a riguardo di lei, con aspetti a volte di vera e propria sopraffazione della per-

« QUALCOSA

CHE

SOMIGLIA

A RELIGIONE »

177

sonalità: « Per te qualunque sacrificio è lieve e anzi lieto meno la rinunzia alla parte più piccola del tuo cuore e della tua mente » (E 105). E sembrerebbe che gli paia poco, ma è evidentemente una grossa litote. Nelle fasi acute egli si fa geloso anche quanto alle idee religiose di lei, e si sente tentato di revocare la libertà concessale al riguardo: « Soffro intensamente quando mi scontro in te in idee che io non amo. Ne soffro come un artista che lasciandosi andare abbia messo nel suo proprio lavoro delle pennellate scolorite e volgari. Queste pennellate [...] le annullerò » (E 110)?. Il pensiero corre alle gelosie degli imperi politici assoluti verso le religioni di libero indirizzo con un Dio al di là e al di sopra dello Stato: alle gelosie dell’imzperium romanum, per esempio, verso il cristianesimo, o del Re Sole verso i gesuiti in quanto, ir rebus sacris et mixtis, più ligi al Papa che a lui. Questo totalitarismo amoroso

onnivoro è però in Svevo

meno repellente di quanto potrebbe apparire dal nostro sommario resoconto. Anzitutto perché è altalenante e dopo qualche anno, buon per lei, si attenua o si estingue del tutto. Ma soprattutto perché s’incrocia ogni tanto con la passione sveviana della verità entrando in crisi ed offrendosi perfino talvolta al sacrificio. Vogliamo dire che la passione della verità qualunque fosse arriva ad accendere talvolta la domanda: Ma un amore simile è vero amore o non è invece egoismo, debolezza, inganno? Sono le domande che Svevo si fa a proposito degli amori dei suoi personaggi, di continuo concludendo a risposte scettiche o negative. Per il suo proprio amore però la risposta deve risuonargli positiva a tutti i costi. In vista

d’una risposta positiva Svevo è disposto a tutto: perfino a rinunciare da un giorno all’altro e del tutto a sua moglie, se tale rinuncia risultasse necessaria a dimostrare che il suo amore per lei è vero. Per ben due volte egli si dichiara disposto a una simile rinuncia. Una volta da fidanzato in una pagina che è una delle più caratteristiche indiscrezioni della religione sveviana della verità:

« Mia moglie è più fin de siècle di me,

9 Annotiamo per la precisione che le «idee » di cui qui si tratta potrebbero essere altre da quelle religiose, giacché mezza pagina prima Svevo ricorda la «libertà di credenze » che egli vuole le sia risetvata. Ma si è già visto che, perfino nei periodi sgombri da gelosia, l’indipendenza religiosa di lei gli procura, oltre che stima, «ira». E si pensi ai tentativi fatti da Svevo, specie all’inizio, di « regolarla secondo i suoi gusti» anche in fatto di idee religiose (E 110). 12

CAP.

178

III - ITALO

SVEVO

perché io, finora, ho avuto dubbi sul tuo affetto, mai sul mio.

Il giorno in cui avessi dei dubbi ad uso tuo, saprei molto bene quello che mi resterebbe da fare [...]: ti lascerei con la stessa calma con cui sono venuto a cercarti. Una sera me ne andrei fischiando [...]. Camminerei, camminerei, tutta la notte [...] andrei nel mondo vuoto senz’avere un dubbio,

sapendo d’essere più onesto che mai. E nello stesso momento in cui dovrei ammettere che tu mi avessi sposato senz’amarmi io penserei: Strano, come in mezzo a tanta religione, possa esserci tanta disonestà » (D 16.1). Notiamolo perché ne avremo in seguito bisogno: per la sua onestà, per la sua religione

della verità (in amore) Svevo si crede superiore a sua moglie. In una lettera del 17-6-1900 egli passa risolutamente dall’ipotesi alla « promessa formale »: «Io ti prometto formalmente che se nella vita ti si presentasse la possibilità di una grande felicità, di quelle che per una giovane valgono la vita la tranquillità la virtà la coscienza insomma tutto, io saprei in seguito a una tua confessione esplicita (sai che tutto ammetto fuori che la bugia) fare in modo che questa felicità tu possa procurartela [...]. Una tua confessione sarebbe da me accolta come da un padre [...]. Non una stupida parola di rimprovero. I miei abbracci ti sarebbero allora doppiamente antipatici ed io li sopprimerei » (E 211). Davanti a un uomo che con tanta calma e (si noti) al colmo d’un’ennesima tempesta di gelosia, si dichiara disposto per la sua religione della verità (in amore) al sacrificio supremo, quello della moglie che adora sopra ogni cosa ma non più della verità, ci si leva tanto di cappello, ma anche si rabbrividisce stranamente. Buon per lui che l’amore, la virtù, la coscienza e il Dio di sua moglie gli hanno risparmiato un simile

dramma !°,

10 Particolare vo

era

e sarà,

non

trascurabile

e ci teneva

assai

a complemento ad esserlo,

del

quadro.

« democratico », cioè

Sveri-

spettosissimo della libertà altrui, un indulgente e un tollerante a oltranza. Anche qui il suo possessivo assolutismo amoroso s’incrociava contraddicendosi. Ne è perfettamente consapevole, ma non ne può nulla: «Con te non riesco. Ne sono proprio avvilito » (D 8.2)

« NOI

APOSTOLI

4. -

«NOI

DEL

NULLA »

APOSTOLI

DEL

179

NULLA » (E 68).

L’altra chiave capace di spiegare il fatto che Svevo non corse mai rischio di « convertirsi » neppure accanto a una donna simile, nonostante che nella unione con lei fossero caduti gli ostacoli morali a una fede e che qualcosa di molto « serio » fosse apparso nel cielo della sua vita, consiste nell'orgoglio intellettuale. Era in lui, quest’orgoglio, un sentimento spirituale radicatissimo, diretta conseguenza della sua concezione nichilistica. Il nichilismo di Svevo si ritrova tutto intero in nuce in una pagina del Diario per la fidanzata. Vi si discorre di « indifferenza per la vita ». Quest’indifferenza è, già lo sappiamo, in Svevo un equivalente o un implicito di nichilismo. Egli risponde al disappunto o alla meraviglia manifestata dalla fidanzata a riguardo di lui che, pur innamorato com’era ormai di lei, continuava a dichiararsi « indifferente alla vita ». Ecco la risposta: «La mia indifferenza per la vita sussiste sempre [...]. Qualcosa che non gode con me [a te d’accanto] e che mi avverte: Bada, non è tutto come a te sembra e tutto

resta commedia perché calerà poi il sipario. Di più l’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale. In quanto è spirito o è forza la mia parola non è altro che ironia ed io ho paura che il giorno in cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa impossibile) io mi troverò grandemente sminuito. Ho gran timore che essendo felice diverrei stupido e, viceversa poi, son felice (quale compassione ti faccio) soltanto quando sento muovermi nella testa idee che non credo si muovano in molte altre teste » (D 12.1). Il testo ci sembra, quanto al nostro assunto, capitale. Da notare anzitutto che le « idee » di cui si tratta sono per Svevo irrinunciabili perché fanno l’essenza della sua « vita intellettuale ». Ma non solo. Esse sono irrinunciabili perché si presumono superiori ad altre idee diverse o contrarie. Sono idee a cui solo pochi (più intelligenti, più coraggiosi) possono assurgere. Esse sono la sua « verità », ma inoltre il suo orgoglio. Egli ha la coscienza di appartenere, grazie ad esse, alla élite intellettuale del suo tempo. Esse fanno, di più, il suo orgoglio di scrittore. Quelle idee le ha tradotte in opere d’arte, solo di lf la sua parola (scritta) ha potuto attingere « spirito » e « forza ». Una vita era allora recente di cinque anni, il più

180

CAP.

III - ITALO

SVEVO

(e il meglio) di Senilità era pronto da tre anni, e «i suoi amici possono testificare che egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco » (RS 808). Il testo ci traccia inoltre, con tre parole, le linee sommarie di questa sua filosofia. Il « sipario » che subito cala è la morte, il nulla in cui tutto ben presto (tutto anche il suo amore) sprofonderà. Ciò che finisce in nulla non vale in

ultima analisi nulla, è tutta roba da ridere, è « commedia », è «ironia» tutta l’intera vita. Nulla in tutta la vita è dunque importante, tutto ci deve lasciare « indifferenti ». Indifferenti? A chi la fa in questo momento Svevo questa professione filosofica di universale indifferenza? A

una donna che gli era tutto il contrario di indifferente, verso cui egli era tutt’altro che indifferente! Incoerenza, certo, ed è soltanto la prima di tutta una serie. Chiara è comunque anche qui la perfetta equipollenza fra indifferenza (non-serietà) della vita e nichilismo. Si è indifferenti perché tutto finisce nel nulla. Viceversa non esserlo sarebbe ammettere per la vita uno sbocco al di là del nulla, in Dio; sarebbe essere religiosi. E si noti ancora: questo nichilismo rende « infelici », ma anche grazie all’orgoglio « felici ». Il suo contrario invece, la religione, rende « stupidi », ci sminuisce « grandemente ». Perché è consolatoria, ovviamente, roba per i piccoli e i deboli, e perché falsa. Convinzione anche questa egualmente esposta a incoerenti smentite: davanti a sua moglie, per esempio, che troverà, come abbiamo già riferito, tutt’altro che sminuita, che anzi celebrerà grande nella sua religiosità. Il termine « nichilismo » o « nichilista » non interviene mai, se ben ricordiamo, sotto la penna di Svevo, ma intervengono molti termini e circonlocuzioni affini. Per meglio definire, comunque, il tipico nichilismo sveviano, sarà bene domandarci anzitutto che cosa s’intende in genere per nichilismo. S’intende, tanto per incominciare dall’etymon, il contrario di ontologismo: una preferenza, una opzione invece che per l’essere per il non-essere, il nulla. Nichilista in logica, per esempio, viene ritenuto Hegel che ha risolto l’essere nel pensiero trascendentale, o Stirner che l’ha risolto nella percezione individuale solipsistica. Nichilisti in metafisica sono ritenuti, per esempio, in genere i fenomenisti metafisici che risolvono l’essere nel fenomeno, o Nietzsche che risolve l’essere nel divenire. Sono forme di nichilismo relativo, nascono comunque da riserve, scetticismi, avversioni verso l’essere, e sono

« NOI

APOSTOLI

DEL

NULLA »

181

di conseguenza favoritismi verso il suo contrario, il nulla. Nella storia almeno moderna furono chiamati per la prima volta

« nichilisti »

(da Turgenev)

certi

studenti

russi

che

fra il 1869-70 s’erano accordati a distruggere (ridurre a nulla) le tradizioni e l’autorità costituita, decisi in questo senso a ogni delitto. Ma anche qui la meta assoluta non era il nulla, bensi la rivoluzione. Veramente e seriamente nichilista a senso pieno sarebbe colui che, persuaso che essere è tutto intero un male, si propone come meta assoluta il nulla e s’adopera in ogni modo a realizzarlo e a raggiungerlo: lui e insieme tutti quanto più è possibile. Né Svevo, né il sua massimo maestro in nichilismo Schopenhauer, già si è capito, sono nichilisti in nessuno dei sensi citati, meno che meno nell’ultimo. Ma lo sono nel senso che intendeva già Sant'Agostino in quanto «non credono a nulla », intendendo pet costoro quelli che, dopo aver collocato null’altro che il nulla alla fine e al fondo dell’esistenza, inferiscono logicamente che, allora, nulla vale nulla già adesso di ciò che esiste. Non tutti gli atei accetterebbero però d’essere chiamati in tal senso nichilisti. Non tutti gli atei sono d’accordo sulla detta illazione. Non tutti, negando Dio, collocano al suo posto semplicemente il nulla, ma forme varie di assoluti-relativi: la totalità del mondo, l’uno-tutto, per esempio, una storia eterna, un eterno ritorno dell’identico. Anche senza Dio, senza un al di là e senza un Assoluto, il

mondo e l’uomo conservano per alcuni una loro validità, relativa ma sufficiente a giustificare la vita, perfino a esaltarla: si pensi a Hegel, a Holderlin e a Nietzsche. Altri invece quell’illazione la traggono senza esitazione in quanto sentono che all'uomo il relativo non basta o che, appeso semplicemente al nulla, l’essere relativo non si regge, non si salva, non si giustifica: del tutto d’accordo in questo con i pensatori religiosi. L’essere che marcia verso il nulla e basta è, in se stesso e per l’uomo, insensato, indegno dell’uomo intelligente, degno soltanto del suo rifiuto o della sua indifferenza. Qualcuno, come Hartmann, arriva alla proposta del suicidio universale. Ma altri recalcitrano contro la logica d’una simile conclusione e inventano la scappatoia: una giustificazione o un’evasione estetica, un avvenirismo utopico, un apatico stoicismo magari intriso d’ironia, un ascetismo contemplativo antivitale. A questi ultimi appartiene, come si sa, Schopenhauer. E appartiene Svevo, come si è visto. A suffragio del testo già

182

CAP.

III - ITALO

SVEVO

citato dal Diario eccone qualche altro di prima e di poi. È del 1890 questo « allegro ragionamento filantropico » a difesa del fumo: « Che cosa vale la vita? Nulla [...]. Fumiamo in pace ». Poco male se il fumo ce la avvelena (RS 622). Del 1898, in una lettera alla moglie (E 90), è la seguente confessione d’un «antico vizio »: « Vedo passarmi dinanzi tutta

la vita e la sua grande nullità in sé e tutta la vanità di tutti gli sforzi». D’uno dei suoi ultimi racconti, « Proditoriamente », è il seguente intervento critico del narratore: «Il mondo continuava ma quell’avventura ne dimostrava l’intera nullità » (RS 250). Ed è de « Le confessioni del vegliardo », racconto o romanzo stroncato dalla morte, questa definizione della vita: « Priva di rilievo, sepolta non appena nata [...] tanto vuota, capace soltanto di figurare quale numero d’una tabella statistica del movimento demografico » (RS 492). Come si vede, dal 1890 al 1928, non una variazione nemmeno nella terminologia. Per quarant’anni il nullismo sveviano è rimasto fisso all’identico disco: vita vuota, vana, nulla.

Anche la vita d’un figlio? La moglie gli annuncia che aspetta forse un bambino. È 1’8 gennaio 1897. Se sî, lo chiameranno Francesco. Come reagirà il nichilista suo padre? Del tutto in tono con il suo nichilismo. La grande nuova gli riesce « agro-dolce ». Agra, « perché pensai che i tanti sogni da me fatti sarebbero rifatti da un altro simile a me »: sognerà come me di diventare Napoleone e diventerà come me un povero « travet », « e con lui e per lui la trista commedia si sarebbe continuata per me sino alla fine ». Agra inoltre, « perché dubito che la mia dolorosa lotta non abbia impresso sul mio fisico dei segni avvilenti, degradanti che tramanderò a lui ». Sf, è vero, la grande nuova gli riesce anche dolce, ma d’una dolcezza a sua volta mortificante, perché l’amore paterno, « allargamento del mio egoismo », mi renderà « illogico, sciocco », e avrò cosî perduto anche «la rigidezza del ragionamento, unico vantaggio del mio destino ». Fra invece una bambina

e fu battezzata, con un nome

non di certo inventato da Svevo: Letizia. Fu la prima e l’ultima, ma sembra perché la signora Svevo non poté più averne, non perché Svevo non ne volle più. Il suo scarso entusiasmo per altre ripetizioni di sé resta, comunque, ad evidenza documentato. Fu uno dei punti dove la sua « indifferenza alla vita » in ogni suo aspetto, l’atteggiamento morale fondamentale che il suo nichilismo come minimo gli pre-

« NOI APOSTOLI

DEL NULLA »

183

scriveva, gli riusci con discreta facilità. Ma su altri punti gli riusci molto a stento o non gli riusci affatto. Tre punti soprattutto: l’indifferenza verso l’amore della moglie, verso il successo-insuccesso letterario, verso la morte. Del primo già sappiamo. All’insuccesso (ebbe per Una vita una sola recensione, per Serilità nessuna) non si rassegnò mai del tutto, lo subî come un’ingiustizia bruciante: « con le smisurate ambizioni che a suo tempo si nutrirono non aver trovato nessuno, 724 nessuno che pigli interesse a quanto pensi e a quanto fai» (lamento di Svevo a 28 anni dopo due anni di lavoro a Una vita, RS 283 s.). Quando nel 1924 e seguenti, prima in Francia e poi in Italia, si cominciò ad accorgersi di lui, chi a celebrarlo, chi a criticarlo o a volerlo ignorare, egli fu tutto il contrario di un indifferente, sempre oltre misura o sfavillante o ferito, soprattutto impaziente d’una gloria tarda alla quale, lo sentiva, la morte lo avrebbe presto sottratto (E 19241928).

Ma

l’esercizio

d’indifferenza

più

arduo

fu per

lui

quello precisamente verso la morte. Poter affrontare il nulla da stoico disteso e sereno fu uno dei suoi massimi propositi, doveva rappresentare davanti agli altri la, massima prova testimoniale della sua fede ideologica a rovescio (v. il racconto ”La morte”, uno degli ultimi, RS 251 ss.). E alla fine sembra ci riuscisse, perché alla figlia in lacrime al vederlo morente disse: « Non è niente morire ». A una simile rassegnazione si era esercitato si può dire da sempre, con il pensiero costante della morte e con ragionamenti che svolgeva dalla sua filosofia per dimostrarsi che non è niente morire. È del 1900 questa confidenza in una lettera alla moglie in cui le racconta di averla sognata motta: « Sai come il pensiero della morte mi accompagni sempre » (E 210). A 37 anni e anche prima si sentiva già vecchio, anzi vecchio e malato, assai più di quanto non apparisse (E 128), destinato a morte precoce. Con tanto maggiore evidenza egli la sentî arrivare negli ultimi anni per quanto si sentisse quasi meno « vecchio » di allora. C’è, oltre quella delle lettere, la testimonianza della moglie: « Pensava costantemente alla malattia e alla morte » (pressione alta ed enfisema polmonare a causa del fumo). Alzava ogni tanto il braccio e diceva: ecco che arriva, arriva, e intendeva «il colpo »!. 4! L. VENEZIANI-SvEVvO,

Vita di mio marito, cit., p. 147.

CAP.

184

III - ITALO

SVEVO

Dei ragionamenti che si faceva nei suoi esercizi di pre-

parazione alla morte rendono conto certe « pagine sparse » difficilmente databili, e notevoli per certe brillanti e sintetiche riespressioni di nichilismo sveviano complessivo. Per esem-

pio: « Per la sabilità noscere

La morte è l’ammirevole liquidazione della vita [...]. morte il piccolo singolo rientra privo di ogni responnella vita generale e vi si annulla. Come non ricoche la morte cancella ogni dolore per le nostre sven-

ture per le nostre debolezze per i nostri errori? La debolezza è la memoria. Il fiume Lete era già una morte, la più dolce. Interrompeva l’imitazione di se stesso che fa sî che ogni giorno è una copia dell’altro un po’ indebolita, sempre più rassegnata. L’imitazione di se stesso è l’ufficio a cui si è condannati per la legge d’inerzia. E almeno fosse la imitazione di una bella invenzione. Macché! Qualcuno ci foggiò a sua immagine e noi seppimo metterci qualche pennellata di nostro. Poi chi per primo ci foggiò scomparve e al suo posto vennero degli altri ad imbrattare ancora la già sucida tela. E quando viene la morte viene nettato tutto il lungo lavoro » (RS 319 s). Si noterà che in questa pagina, forse il più lividamente lucido documento di nichilismo sveviano, siamo quasi oltre la solita nullità, non-impottanza, indifferenza all’essere e non-essere,

siamo al sinistro concetto

della vita che è fin

peggio di nulla: macchia, male, invenzione brutta, « malattia » (due pagine dopo RS 323) e che, mentre avanza riproducendosi e ripetendosi, va di male in peggio, cosî che è bene venga la morte e ripulirla, la sua liquidazione è un’opetazione « ammirevole ». Meglio morire, dunque, meglio non essere che essere: cosi deve ragionare un simile nichilista e comportarsi di conseguenza. Ci riuscî Svevo? « Solo una volta in mia vita — tale è la sua franca confessione — [...] ebbi il sentimento che se morissi non me ne importerebbe

niente. Ma non perché aspettavo premi o compensi nella vita eterna. Mi sentii la generalità, e l’aspettativa della mia morte non m’inquietava più di quanto la vera collettività

ne sarebbe stata inquietata. È morto un mandarino in Chi-

na! Io stavo a guardare me come morivo ad occhio asciutto [...]. Ebbi in quell’istante la completa sensazione della mancanza d’importanza mia e anche di tutto il resto » (RS SVI

«NOI APOSTOLI DEL NULLA »

185

Svevo è sincero: «solo una volta » !. Altri d’indifferenza nichilistica interamente e seriamente

esercizi riusciti

non si rintracciano. Ci si può imbattere in rassegnazioni con riserva: « la mia vita » è stata « troppo corta [...]. Non

rimpiango di non aver goduto abbastanza ma sinceramente rimpiango di non aver fissato [scrivendo] tutto questo periodo di tempo » (RS 822). O ci si imbatte in evasivi scherzi detti a cuor leggero come: « Se non ci fosse la morte a noi toccherebbe mangiare l’arrosto vivo » (RS 325); oppure come: « Quando usciremo dallo spazio e dal tempo [...] ci daremo subito del tu e c’irrtideremo a vicenda come meritiamo.

Morirà

finalmente

la letteratura »

(RS

305).

In

« Profilo autobiografico » Svevo crede di ‘sapere che il senso di La coscienza di Zeno è «il riso sull’attività umana in generale » e che il senso degli altri due romanzi è che bisogna « ridere della vita invece che morirne » (RS 809, 801). Ma, come vedremo, il vero loro senso è, in tutt’e tre, ben altro. Un lettore che abbia davvero toccato la fine, nonché

il fondo della narrativa sveviana disimpara semmai a ridere sia della vita, sia della morte, impara invece, se non proprio a morirne, a rabbrividirne !. In « Ottimismo e pessimismo », già citato, ritorna per un attimo la prospettiva d’una morte non più temuta dall’uomo: « bellissima speranza! », « elevamento di un cervello e cuore grande ». E si cita a riprova un certo Metchnikoff il quale propone di distinguere fra morte « catastrofica » degli organismi giovani e morte « naturale » di quelli che hanno esaurito il proprio ciclo vitale. La prospettiva è quella d’un’epoca futura in cui la morte catastrofica sarà debellata e resterà, almeno per l’uomo, solo la morte naturale. Ma Svevo non è d’accordo. Morire è sempre una tragedia. Lo è nelle vite giovani, dove la morte è e sarà sempre « sulla nostra terra la legge »: germi, semi, bambini che muoiono non 12 Notiamo che egualmente solo una volta (a nostra memoria) viene presa in considerazione la salvezza proposta da Schopenhauer della vita che si giustifica come fenomeno estetico-artistico, la salvezza nell’arte. Si ha all’inizio della « Confessioni del vegliardo ». Ma c'è anche qui con ironica riserva: « Allora io non sono quello che vissi ma che descrissi ». 13 Livia Veneziani conferma questa nostra impressione quanto a Svevo stesso negli ultimi suoi anni: brividi e spaventi che ella vedeva nei suoi occhi.

186

CAP. III - ITALO

SVEVO

solo, ma desideri, sogni, illusioni giovanili che vengono distrutte « per un insignificante accidente ». Ma morire è una tragedia anche nei vecchi:

«il marasma

senile

[...] non

so-

miglia al bisogno del riposo. Anzi tutt’altro [...]. Noi intanto procediamo nella vita di catastrofe in catastrofe [...] e di disillusione

in disillusione

si va

alla vecchiaia » (RS

IMAA

Tutto ciò è in teoria ancora nichilismo, ma non indifferenza, non umorismo nichilistici. Già si vede innalzarsi da un’altra imprecisa zona dell’uomo Svevo la protesta antinichilistica: mai pervenuta tuttavia, lo ripetiamo, in lui ad incrinare minimamente, neppure con un interrogativo la sua personale scelta ideologica. Arriverà forse a sentirsi tentato, come il « vecchione » dell'omonimo racconto, davanti alla « vita priva di senso [...] di strapparsi i pochi capelli» (RS 138), ma non di rimettere la teoria in questione.

5. - PEGGIORISMO

NARRATIVO

SVEVIANO.

Ma se è vero che Italo Svevo non ebbe mai o mai ammise di aver avuto lui personalmente dubbi di miscredenza, se un « Dio» gli risultò sempre a suo dire « incredibile » (RS 831) o mai comunque ammise di averci creduto, mai alzando neppure d’un soffio la guardia gelosa del suo personale nichilismo, diversamente stanno le cose, l’abbiamo già accennato, con i personaggi che lo rappresentano nella sua arte narrativa. « Accade in ogni fiaba che, partiti per avere una cosa, se ne riceve misteriosamente un’altra » !*. Non è difficile individuare i personaggi che precisamente lo rappresentano:

sono più o meno tutti i protagonisti dei

tre romanzi compiuti, di vari altri romanzi incompiuti e di parecchi racconti. L’Emilio di Serilità è, senza dubbio, Svevo per almeno tre quarti, e cioè tutto a parte la sorella

e i suoi rapporti con lei. L’Alfonso di Ur4 vita lo è per una buona metà: l’impiegato, lo studioso, il filosofo, l’innamorato. Lo Zeno di La coscienza lo è per un’altra forte aliquota: il fumatore, il marito, l’intenditore di affari, di nuovo il filosofo. Ed altrettanto lo è più o meno lo Zeno che

14 C. Campo,

Il flauto e il tappeto,

Milano

1971, p. 55.

PEGGIORISMO

NARRATIVO

SVEVIANO

187

continua in « Umbertino », « Il mio ozio », « Un contratto », « Il vecchione ». Intendiamo fin qui un’identificazione materiale quanto a precisi fatti concreti fedelmente riportati dalla memoria. Più imprecisa ma egualmente indubbia è la identificazione qualitativa: psicologica, ideologica, morale. In questo senso è chiaro che assomigliano assai a Svevo il signor Aghios di « Corto viaggio sentimentale » e il marito miscredente di « La morte ». Svevo stesso è d’accordo con l’ipotesi critica che vede in Alfonso, Emilio e Zeno un solo personaggio in fasi successive (RS 799). Tutti e tre sono dunque lui che contamina scrivendo esperienze esterne-interne sue proprie con esperienze altrui attentamente osservate, certo avventurandosi inoltre nelle zone del simile, verosimile, possibile, mai però del puro fantastico. I suoi personaggi sono insomma

creature

sue fatte a propria immagine

e somiglianza,

benché mai del tutto. Rappresentano il vero Svevo e, in quanto diversi, un altro Svevo, forse ancora più vero. Un'analisi selettiva fra biografico e non, fra memoria e invenzione, o fra identità e non-identità, a proposito di questi sosia sveviani, è metodologicamente capitale per il nostro assunto. Un’« altra verità » se esiste, ormai sappiamo che è reperibile solo in un « altro Svevo », appunto nei suoi sosia in quanto diversi. Questa identità-alterità fra personaggi e autore rivela alcune costanti. Questi « altri Svevo » sono alla partenza della narrazione tutti miscredenti come il vero Svevo e tali sono anche all’arrivo, anzi all’arrivo lo sono fin di più: nichilisti pit consapevoli e più decisi ancora. Strada facendo però è normale che Svevo compia su di essi, come per interposta persona, esperimenti precisamente religiosi: domande e ricerche, atti di fede e di preghiera, brividi del miste-

ro divino o almeno demoniaco del mondo; o compia almeno esperimenti in cui il nichilismo per un momento s’incrina, si rimette momentaneamente in questione. Poi si rientra presto o tardi, come detto, nel nichilismo di partenza. Ma la domanda allora è se questo ritorno sia, dopo tanto, ancora legittimo, se non sia un atto d’arbitrio. Ci si domanda se la

ideologia di sempre non sia stata nel frattempo compromessa, ferita a morte. La costante più diffusa nel fenomeno che c’interessa, la più forte e più insistente delle alterazioni che la narrativa sveviana introduce sulla biografia sveviana è il peggiorismo. È

CAP.

188

III - ITALO

SVEVO

una cosa più forte di lui, una strana invincibile costrizione interiore: egli deve dipingersi nei suoi sosia ogni volta peggiore di quanto

realmente

sia; e dipingere in genere

2u/to

peggiore di quanto realmente è. Tutte le volte che inventa, in altre parole, inventa verso il basso. Intendiamoci bene. Trattandosi di opere d’arte nartativa indiscutibili e di notevole, spesso elevato livello, la realtà — nella fattispecie lo Svevo reale — non può non veri-

ficare quell’arcano processo di crescita che sempre la realtà verifica nell’arte. Mai Svevo si è nella vita reale osservato con la intelligenza

attenta,

intensa,

penetrante,

coordinata

con

cui si osserva nei suoi sosia. Mai la sua personale vita interiore è stata altrettanto ricca, sottile, complessa, fusa con la vita ambientale e cosmica, ed è stata con altrettanta profondità interpretata ad altri e a se stesso quanto lo è la vita in genere umana nei suoi romanzi e racconti. Il salto di qualità della realtà nell’arte è in questo senso innegabile ed è un salto verso l’alto. Ma tutto questo è forma, conoscenza, espressione.

L’alterazione peggiorativa, decadentistica di cui si tratta concerne non l’intelligenza dell’essere, ma l’essere che l’intelligenza intende o inventa; concerne i contenuti, i livelli di valore, le qualità ontologiche e morali, umane e cosmiche; concerne in particolare il valore dell’uomo Svevo e il valore

dell’uomo in genere, come Svevo lo decide — o lo subisce — nella proiezione oggettivata dell’arte. Qui il peggiorismo imperversa nell’opera di Svevo. Ed ha spesso aspetti cosî esterni e vistosi da saltare agli occhi, pensiamo, di ogni lettore. Il vero Svevo non è mai stato cosf « inetto », né cosî « senile » fino ai limiti di Alfonso e di Emilio. Non è mai arrivato neppure all’orlo del suicidio. Non ha mai avuto una sorella sola, cosî zitella, cosî infelice

come ce l’ha Emilio in Serilità. Il vero Svevo è stato il contrario esatto di quell’ereditiere sfaccendato, di quell’affarista velleitario, di quell’ometto risibile e raggirabile che è lo Zeno di La coscienza. Come uomo d’affari non corse mai il più lontano pericolo di essere spodestato e confiscato, come sarà invece lo Zeno di «un contratto », da un suo amministratore delegato. La figlia e il genero di Svevo furono in ogni senso ben migliori della figlia e del genero di Zeno, lei cosf maniaca nella sua religiosità e poi nel suo lutto vedovile, e lui cosî moscio e bon-homme. Sola eccezione, sola isola

PEGGIORISMO

NARRATIVO

SVEVIANO

189

nel dilagante peggiorismo: Augusta moglie di Zeno possiede le esatte qualità morali e religiose di Livia moglie di Svevo. Tuttavia il peggiorismo sveviano trova il modo di mordere anche qui: Augusta è moralmente bella ma ben diversamente da Livia fisicamente brutta: ha i capelli radi e biondospenti, e strabici gli occhi. Ancora, il vero Svevo non ha mai tradito sua moglie, né mai ha seriamente progettato di tradirla. Invece l’altro Svevo, Zeno, ha l’ossessione congenita dell’avventura extraconiugale. Da giovane marito ha un’amante romantica (ma non platonica), piantato da costei, si rifà su prostitute, ha da vecchio ancora un’amante (prezzolata in « Il mio ozio ») e da vecchione è ancora smanioso di fanciulle, possibilmente affette da gerontofilia: senza successo in La coscienza, ma con successo per quanto effimero in « La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ». È decisamente il lato più imbarazzante del suo peggiorismo narrativo. Questo incide un po’ su tutto. Incide sul paesaggio, sull’ambiente: scarsi gli azzurri, i verdi, i sereni nella Trieste di Svevo, rare le giornate di sole, frequenti quelle di pioggia, di bora, di foschia, di neve e di tempesta, ferrigno il mare, lattee, diffuse, perfino sporche le luci quando ci sono. Incide sullo stile: preciso e fine sempre, ma lessicalmente modesto, smotzato d’immagine, tanto che le pagine migliori, cioè più vive, ricche, colorite si ritrovano nel Diario, nelle lettere, nei saggi, non fra le romanzate ossia inventate. Incide sulle motivazioni morali dei suoi eroi: ben di rado autentiche, quasi sempre meschine, egoistiche, passivamente subite, solo illusoriamente virtuose. E la lista di simili flagranti invenzioni sveviane vetso il basso potrebbe andare avanti a lungo.

È tutto un programma

o è tutto un istinto di spogliazione

dell’essere, di sottrazione di essere all’essere nel senso d’una riduzione, come si disse, qualitativa, d’un abbassamento di valore, in direzione del nulla di senso e del nulla di essere. Si può spiegare con la psicologia del décadent fin de siècle, con l’influsso del decadentismo europeo, con l’esperienza traumatica del figlio decadente di famiglia economicamente decaduta. Ma il fenomeno del peggiorismo sveviano, universale, necessario, e impressionante quale è, a parte le rare

eccezioni che ne confermano la regola, domanda spiegazioni d’ordine radicale. Noi abbiamo già avanzato la nostra. E’ la spinta nichilistica. Perduto l’ancoraggio nell’infinito es-

190

i

CAP.

III - ITALO

SVEVO

sere, ancorato l’essere personale, sociale e cosmico al nulla, un vero e proprio interiore crollo esistenziale si verifica nello spirito dell’artista, e in questo crollo crolla, pet cosi dire, tutto il mondo, inevitabilmente discendendo (nella coscienza dell’artista) a un inferiore livello ontologico. Tutte le luci si attenuano, non più alimentate come sono dall’eterna luce o incapaci ormai, o renitenti, a significarla. Si dirà che l’arte è libertà, originalità, diversità; e che l’artista è libero di promuovere nella direzione che vuole questa sua libertà creatrice e alteratrice della realtà. Si risponde che, quanto almeno al suo peggiorismo, l’artista Italo Svevo è tutt’altro che libero, è un forzato; e inoltre che il canone estetico della libera creazione non vige per uno Svevo verista e naturalista, per un patito della « verità ». Con la sua arte narrativa egli mirava a darci il mondo, se stesso e l’uomo in genere nella loro « verità », spogliati delle loro illusioni. Ma non è una valutazione estetica quella che qui c’interessa, bensî anche a noi di « verità ». Questa: risulta da quanto abbiamo riferito che il mondo del nichilista non collima con quello reale; che è rispetto ad esso sfasato, povero, parziale; e se la pretesa è di darci con esso la verità, dobbiamo anche aggiungere: semplicemente falso. Fin qui abbiamo però soltanto l’avvio dell’avventura incorso dal nichilismo sveviano fra le spirali dell’arte sveviana. Le luci dell’essere si attenuano soltanto, mentre avrebbero dovuto spegnersi del tutto. Il nichilismo sveviano lo esigeva, sia per interna logica sia per consapevole proposito: pretendeva rappresentarci un’esistenza del tutto non seria nella sua verità. Il fatto che non ci sia riuscito mai del tutto, come dimostreremo nella seconda parte di questo studio, accende domande e promette sorprese molto interessanti. Altra è una ideologia quando viene teoricamente esposta o personalmente professata, e altra quando viene punto pet punto raccontata, ossia tutta interamente calata nella complessa realtà esistenziale dell’uomo, di un uomo. È il processo a cui l’arte, specie narrativa, sottopone ogni volta un sistema che ha scelto di rappresentare. Il processo — vero processo giudiziario — può farsi decisivo anche a riguardo della verità e validità d’un sistema. È una parte dell’uomo (tale è sempre un sistema) che si offre al vaglio del-

l’uomo intero oggetto specifico dell’opera d’arte.

INETTITUDINE

ALLA

VITA

191

Ma per arrivare a tanto occorre che l’opera d’arte venga affrontata da una critica a sua volta integrale, e non solo analizzata per parti o da parziali punti di vista. Solo cosî essa può arrivare a dire veramente tutta la sua verità, anche eventualmente quell’« altra » verità di Svevo che noi cerchiamo. Con simile mira affronteremo allora anzitutto, e una per una, le tre opere narrative massime di Svevo: Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno. Quindi altre minori.

LI IPALTRASVERITTDA=DI

1. - INETTITUDINE

ITALO

SVEVO

ALLA VITA.

Una vita, primo romanzo di Svevo, doveva chiamarsi Un inetto, che sarebbe stato un titolo ben più calzante e specifico, ma non parve commerciabile abbastanza all’editore Treves. Grigio come il titolo progettato è l’eroe del libro, e grigia altrettanto la storia e la scrittura. Tuttavia Svevo gli era affezionato più che agli altri due romanzi (E 886). Ed è realmente straordinario per analisi e verità psicologica, per intelligente, veridica adesione all’esistenza ed anche, come vedremo e a dispetto di Montale, per omogenea e vasta unità tematica. Ma l’eccessivo positivismo narrativo, nonché il peggiorismo più forte qui che altrove ne fa un libro

un po’ opaco, privo di respiri umoristici. Il racconto è fitto to obiettivo e impassibile, a Perché l’ha scritto? Per riore se stesso di cui voleva tarsi quale realmente era al

cosmici, di luci d’ironia, di sali fitto, acromatico e atonale, tutparte momenti. proiettarvi quel falso e deteliberarsi? O voleva rappresendi là dell’illusione, un inetto

anche lui, prima alla lotta della vita e dell’amore, poi allo spirito, alla filosofia, alla verità? O voleva rappresentare la inettitudine in genere, l’inettitudine romantica? Ma lasciamo il processo alle intenzioni e veniamo ai fatti. Che cosa ci ha difatto rappresentato?

192:

CAP.

III - ITALO

SVEVO

Una verificazione della filosofia di Schopenhauer. La risposta è ormai acquisita alla critica. Se firmò il libro con

« Italo Svevo » invece che con il suo vero nome, una delle ragioni fu che l’ormai italiano (« Italo ») Ettore Schmitz voleva rendere onore con il nuovo cognome (« Svevo »), metonimia di « tedesco », al pensatore tedesco la cui filosofia gli aveva ispirato quel libro. Un invito a cercare in quella storia una filosofia ci viene furtivamente fatto da Svevo là dove fa leggere ad Alfonso il Luis Lambert di Balzac e gli fa ammirare « non tanto i pregi artistici dell’opera, ma l’originalità di tutto un sistema filosofico esposto alla breve ma intero, con tutte le sue parti indicate, e regalato dall’autore al protagonista » (RI 204). Si riconosce infatti ben presto che Alfonso è un personaggio sul quale Svevo tenta ed esperimenta, sempre per interposta persona, la verità e validità del sistema metafisico schopenhaueriano. È uno che non deve aver letto Schopenhauer ma che comunque mira fin dal principio a realizzare quanto a sé, sotto l’osservazione di Svevo che l’ha letto, le soluzioni e le salvezze da Schopenhauer proposte: ad essere ciò che secondo Schopenhauer dovrebbe essere un uomo. Ma sarà invece ben presto e per la maggior parte della sua storia un uomo come secondo Schopenhauer non avrebbe dovuto essere: un perduto, un errante. Verso la fine egli ritenta con ogni sforzo di riprendere quota, di farsi realmente spirituale, di salvarsi come Schopenhauer insegna. Ma anche questo estremo tentativo fallisce. Cerca soluzione nel suicidio che non è per Schopenhauer assolutamente una soluzione. Per tutto questo egli viene definito «un inetto ». Ma, ci si domanda, dove è esattamente l’inettitudine? È la inettitudine di quest'uomo a salvarsi con il sistema? O è l’inettitudine del sistema a salvare quest'uomo o semplicemente l’uomo? E chiaro ad ogni modo che Alfonso è, come si disse, fin dal principio un schopenhaueriano almeno in erba, un avviato, un chiamato, un intenzionato ad esserlo. Per almeno due precise qualificazioni. La prima è che egli è già, dall’inizio della storia ossia dell’esperimento, un ateo e un nichilista. La religione è già del tutto morta in lui quando entra nella storia iniziando il suo primo impiego a Trieste nella banca Maller. Lo si desume dall’assenza in lui d’ogni benché minimo scrupolo, interrogativo, moto religioso, sia ora sia

INETTITUDINE

ALLA VITA

193

in seguito, ma lo si desume soprattutto dal fatto in seguito riferito che già prima, al suo paese sull’altipiano, egli aveva avuto i suoi « primi dubbi » su Dio e la Provvidenza davanti allo sterminio per epidemia d’una intera famiglia, davanti a tutti quegli « organismi sani e forti distrutti o creati inutilmente »

(337).

Tutto

il contesto

fa intendere

che

s’era

trattato di dubbi religiosi e dei primi dubbi di tutta una serie risoltasi poi in pieno scetticismo. C’è in quell’« inutilmente » chiara la sigla d’una fede nichilistica. La qualificazione seconda sta nel fatto che questo giovane ci è presentato fin dalla prima pagina come un essere fornito di aspirazioni poetico-artistiche o più in genere culturali e spirituali, e che, proprio per questo, già esperisce la dolorosa antitesi schopenhaueriana di spirito e vita, la sofferenza di uno spirito già consapevole della bruttezza della realtà che lo circonda, della banalità e stupidità della vita in cui è or ora entrato. È appena sceso dal suo villaggio a Trieste, ha appena cominciato a lavorare che vuol tornarsene a casa sua e da sua madre sull’altipiano, tornare a respirare l’aria « incotrotta » dei suoi monti, a leggervi i suoi « poeti » (134). Là a Trieste invece l’aria, la vita, l’anima degli uomini sono

« corrotte »:

sono

tutti « zerbinotti », « superbi »,

« gente sciocca » (ivi). Alla banca poi domina, fra gli impiegati, o la noia o l’ambizione. Ci sono gli svogliati da una parte e gli accaniti dall’altra, e cioè i tagliati fuori dalle carriere e gli arrivisti che stupidamente (per Alfonso) si ammazzano di lavoro. Lui per ora non è né l’uno né l’altro: è un « lento ». È addetto alla corrispondenza, trascrive lettere d’ufficio, ma lo fa lentamente perché è attento al « signifi cato » (140)

di ciò che scrive, si rifiuta d’essere

uno

stru-

mento di pura trasmissione. C’è dello « spirito », insomma, in lui che vuole farsi consapevole dei che cosa e dei perché. Ormai convinto a restare, egli cerca comunque distanza, evasione e vita spirituale nella lettura; poi in lunghe passeggiate in collina dove dall’alto, freddo e superiore, guarda alla vita, alle varie « attività e destini umani » (1198), contempla laggiù le « case gettate là a caso » (195), osserva la realtà cieca e casuale del mondo, come Schopenhauer insegna. In biblioteca, a casa, di sera, di notte, perfino alla banca rubando minuti al lavoro, egli legge e legge. Sono opere di critica letteraria e di filosofia, gli «idealisti tedeschi » (162), i « naturalisti moderni » (201). Ad eccezione del Bal13

194

CAP. III - ITALO

SVEVO

zac di cui sopra, non ci vengono nominati gli autori, ma il concetto di « male mondiale » (Weltschmerz) (162) e le dottrine di « certi religiosi dell’India » (194) di cui s’appropria alludono a Schopenhauer. Progetta perfino un libro suo che doveva trattare dell’« idea morale nel mondo moderno », idea che avrebbe fondata unicamente nella comunità umana (199). Senonché in tutto ciò — ecco una prima deficienza o inettitudine — egli sogna irresistibilmente. Una attività redentrice dello spirito doveva essere per Schopenhauer la contemplazione, rappresentazione, espressione in distacco ma della realtà, non un’evasione nel sogno, non un’irrealtà popolata di fantasmi. Invece Alfonso, curvo su certi trattati di rettorica che allora leggeva, « sognava di divenire il divino autore che avrebbe riunito in sé tutti quei pregi » (166). Erano « sogni da megalomane in cui si vedeva far mostra della sua scienza davanti a terzi » (193). Sognava in ogni direzione. Anticipava in fantasia come si sarebbe comportato, che cosa avrebbe detto a quell’appuntamento, in quel salotto. Benissimo si comportava, con decoro e con disinvoltura, brillava nei discorsi, faceva dello spirito, rimbeccava prontamente le altrui ironie. Ma poi, in realtà, davanti realmente agli altri, era timido, taciturno, imbarazzato. Sognava anche dopo: « Ogni sera aveva di che sognare su qualche sua parola detta troppo in fretta o su qualche parola altrui di cui appena allora scopriva il significato » (192). Altra inettitudine. Per riscattarsi e salvarsi l’uomo doveva, per Schopenhauer, disindividualizzarsi, guardare al mondo come universale, disinteressato soggetto di conoscenza. Alfonso invece era, in tutto ciò che pensava, guardava, faceva, un egocentrico individualista, sempre preoccupato di sé. Dava lezioni gratuite a Lucia, la figlia della donna presso cui era a pigione, gli piaceva insegnare, ma « non per affetto allo scolaro; i progressi di Lucia poco o nulla gl’importavano ». Gli importava il proprio successo su di lei, l’insuccesso lo irtitava (188). Sempre al «centro dei suoi sogni era lui stesso » (142). E sognava grandi cose di sé, successi, superiorità, glorie. Si sognava ben migliore di quanto era: « padrone di sé, ricco, felice », di « sangue turchino », « sovranamente intelligente e ricco ». Maller, il banchiere suo padrone, era per l’occasione lui, e trattava il povero Maller

divenuto per l’occasione suo dipendente, «con dolcezza », « nobilmente » (142). Anche il libro progettato era natu-

IL GIOCO

DEL

DESTINO

195

ralmente destinato a fermarsi dopo le tre quattro cartelle. « Nella vita » gli mancava del tutto il disinteresse e l’idealismo

di cui trattava

2. - IL GIOCO

scrivendo

(199).

DEL DESTINO.

Tutto questo schopenhauerismo velleitario, dicotomismo sogno-realtà, fragile egocentrismo si trasferisce intero nell’avventura d’amore in cui ben presto Alfonso incapperà. Sarà, per il forte sognatore e debole realista, un confronto con la realtà da cui uscirà perdente. Ma sarà soprattutto, su di lui, un’impari sfida del destino: la trappola tesa all’ingenuo, l’inganno giocato alla vittima, in tali premesse già destinata, da giocatori più forti e più furbi di lui, giocatori però a loro volta giocati dalle loro passioni e da un destino maligno. Tutta questa storia è una vera ragnatela tessuta su Alfonso come su una mosca. La dobbiamo evidenziate e in qualche modo ritessere, riannodando fili rotti o ingrossando fili esili, perché solo cosî si può ammirare la grande unità, sia strutturale, sia tematica del romanzo, sfuggita perfino a un Montale. Solo dalla sintesi può emergere l’ultimo e massimo significato. Il ragno è in azione fin dagli antefatti. La madre di Alfonso aveva conosciuto un villeggiante lassù al paese. Era Francesca, la governante del signor Maller, vedovo, e della figlia diciottenne

di costui, Annetta.

Ma

era,

di Maller, ormai l’amante e l’aspirante moglie. Sia la tresca, sia la mira hanno un ostacolo in Annetta, ostile a un matrimonio del padre con quella donna di rango inferiore. La spregiata ordisce un piano di vendetta e di breccia contro l'ostacolo: far innamorare Annetta d’un giovane di rango ancora più inferiore, far in modo che ci lasci e la dignità e le penne, e sia costretta a sposarlo. Non è detto ma è sottinteso che è stata Francesca ad attirare in casa Maller Miceli, un oscuro impiegato della banca Maller, ma la sua corte ad Annetta viene da costei respinta perché troppo audace e precipitosa. La orditrice ritenta con un timido, con

Alfonso. Non è detto ma è sottinteso che era stata Francesca colei che aveva ottenuto pet costui da Maller un posto in banca, colei che sempre per mezzo di Maller era riuscita a trattenerlo in banca quando egli aveva voluto tornarsene

196

CAP. III - ITALO

SVEVO

al suo paese, e colei che di lf a poco gli fa giungere per interposte persone un invito alle serate salottiere di Annetta

Maller. Ed è lei che là, mezza in luce e mezza in ombra, manovra i tempi e i ritmi dell’avventura, prima rallentando, poi accelerando e infine, al momento giusto, incitando alla intraprendenza, alla decisiva conquista. Il calcolo della ragna conta naturalmente sulle potenze dell’eros-sesso per entrambe le sue prede. Ma in fase previa conta soprattutto sul timido idealismo del giovane sognatore e sulla orgogliosa energia del carattere di madamigella Maller. Sa che la padroncina è in grado di amare solo amanti che si lascino anche dominare. Ed è qui che il fondamentale motivo tematico dell’antinomia sogno-realtà passa dalla presentazione all’azione specificandosi nell’altro motivo altrettanto fondamentale idell’antitesi deboli-forti, passivi-attivi, prede-rapaci. Il debole, il passivo e la preda è il sognatore che, accettando quell’invito, sta ormai sotto gli artigli della vita astuta, forte e crudele. Schopenhauer più Darwin (lotta per la vita) e più Nietzsche (volontà di potenza). Un Darwin che Svevo pare non conoscesse bene ancora e un Nietzsche che non poteva ancora conoscere e che proprio negli anni di composizione di Una vita (1887-1889) impazziva con tutte le sue teorie ancora quasi sconosciute. La storia di amore Alfonso-Annetta si configura come

una rete nella più grande, silenziosa rete tesa da Francesca. Opera di irretimento inconsapevole o quasi da parte di lei che agisce senza quasi rendersene conto, a sua volta irretita e sospinta dal capriccio, dalla passioncella, dall’orgoglio della forte sul debole e, dietro le quinte, da Francesca. Costei aveva azzeccato. L’idealista aveva portato « dal villaggio » un romantico ideale d’amore. Era uno che si era proposto di conservarsi casto per «una dea da adorare», pet « una dolce compagna ». Anche per questo disprezzava (schopenhauerianamente) i « cittadini » tutti ingolfati nel sesso. Ma era « un proposito vago che non aveva la forza che quando non c’era bisogno di lotta » (183). La scorbutica Annetta s'era comunque subito addolcita davanti a uno che l’avrebbe dolcemente adorata sottoposto e distante. Le due antitesi, il sogno (Alfonso)

e la realtà (Annetta)

s’incontravano

ma non per integrarsi, bensi perché l’una soccombesse all’altra. Lui tutto sogno doveva spezzarsi contro di lei che era tutta vita e realismo, tutta volontà d’autoaffermazione.

IL GIOCO

DEL DESTINO

197)

La breve amicizia con Macario cugino di Annetta era stata «come un preludio al tema e un’avvisaglia. Alto e forte e disinvolto, egli aveva avuto della simpatia per quell’intellettuale sognante e sottomesso. Ma a riguardo di Annetta lo aveva anche messo in guardia. Durante una gita sul mare burrascoso Macario aveva indicato ad Alfonso i pesci sotto acqua e i gabbiani con le ali alti nel cielo. Era lo schema dell’esistenza: « si nasce con le ali o si nasce senza ». Alfonso era nato senza, era nato preda, e i suoi voli poetici non erano ahimé, i voli degli uccelli rapaci (207 s.). Con le ali era nata invece Annetta. Era alta, bella, soda, sicura, fredda, attiva, incurante dell’opinione altrui. Non era una donna, ma « un uomo nella lotta per la vita, moralmente

un

essere

muscoloso » (221).

Era

tutto

il contrario

di una sognatrice o di una riflessiva. Fatta una cosa, per lei era fatta, non esisteva più, quando invece lui continuava a ripensarci. Lei balzava leggera da un’idea a un’altra, viveva in superficie o riaffiorava subito, mentre lui era greve, affondava (243). A teatro non le interessava l’arte ma la realtà,

non il palcoscenico, ma la platea (216). Ha sempre lei l’iniziativa: invita, respinge, reinvita. Appena saputo che lui scrive, gli propone di scrivere un libro insieme. E dev’essere scritto in fretta ed aver successo, non importa se bello o profondo, mentre lui « negava che valesse la pena di sacrificare ogni superiore scopo artistico a questa fame di successo » (239). È lei naturalmente che sceglie l’argomento: la storia d’una bella che ammansisce la bestia. E lui dopo breve resistenza, succube s’adatta e scrive tutte le banalità

che ella decide. Certamente lei è anche gentile, dolce, sotridente, buona, perfino talvolta maternamente protettiva: ma sono tutte arti consapevolmente o meno calcolate per tenere lo spasimante legato a sé, purché sotto di sé (257, 262). Il sognatore che conosciamo non si smentisce mentre la rete si stringe via via su di lui (e su di lei), passando sersim sine sensu dall’eros, al senso, al sesso. Con il crescere dell’intimità e dunque della sensualità, lui vorrebbe però che la sensazione fosse « accompagnata sempre dalla parola intelligente », fosse insomma anche spirito, un’esigenza che non avvertiva in Annetta e in cui ravvisava la propria superiorità

su di lei. Ma dopo i primi baci s’accorge di avere « il desiderio, non la parola», o tutt'al più solo parole convenzionali, senza

sangue

e senza

vita (259).

Da

lontano

sogna

le

CAP.

198

III - ITALO

SVEVO

dolci intimità, da vicino non sente che il desiderio, la vertigine dei sensi. Peggio ancora: da lontano sente di amarla, da vicino non più (213). E sempre lui solo è il centro: se si

commuove, se piange, non è per amore, ma per compassione di se stesso (256, 261).

L’antitesi sogno-realtà tocca l’acme all’acme dell’avventura, ossia quando, istigato da Francesca e indirettamente anche da Macario (con la sua filosofia della conquista, 245), Alfonso salta dalla fase passivo-romantica, a quella attiva, calcolata, astuta appunto della conquista. Il « possesso » di lei era ormai la ossessione della sua fantasia, era «lo scopo

della sua vita », tato a mare ogni ca (anche ricca: adornamento che

«la suprema felicità » per cui altra ambizione (253). Annetta la ricchezza di lei se la fingeva abbelliva la bella figura come

aveva butbella e riccome « un la legatura

un diamante », 244), era ormai la dea, l’assoluto. « L’idea della vicinanza di tanta felicità gli dava le vertigini » (292). Ma la realtà della prima notte d’amore sbugiarda il sogno. Ci si era sognato una cima e ci si trova in un baratro. Dapprima spaventato (« Mio Dio, che cosa abbiamo fatto? » 295) e poi inquietudine e disgusto. Quella non era una dea ma vanità, sensi e calcolo. E lui? Anche lui vi era stato fatalmente « trascinato dalla sensualità » non ingentilita dalla

« parola » che è spirito, ed anche lui, che pure aveva agito in una specie di «esaltazione morbosa », di « sogno continuato » e « non per suo volere », aveva avuto « una freddezza di calcolo da persona che vuole sapendolo » (293 s.). Già la mattina seguente egli sa che l’amore vero è finito, ed accetta il fatto come normale, non avendone « né sorpresa, né dolore se anche non piacere ». « Un amore nato cosî presto, frutto della necessità e della rassegnazione poteva

morire

con

la stessa

rapidità con

cui era nato » (299).

La pentola era fatta, mancava il coperchio: il matrimonio, reclamato dalla dignità perduta di lei, dalla cavalleria di lui e dai costumi borghesi. E da Francesca: matrimonio da farsi subito o mai più finché il ferro era caldo. Ma il ferro era già freddo: ecco il fatale errore di calcolo nel gioco della giocatrice che comincia qui ad essere a sua volta giocata da un gioco maligno più grande del suo. Ella deve assistere alla partenza dell’inetto e del vile che lascia, ormai freddo, la partita e la città, portandosi dietro illusorie promesse d’eterno amore date e ricevute, e l’ira, il disprezzo,

INETTITUDINE

ALLO

SPIRITO

199

l’angoscia di Francesca. Ed ecco le mosse successive del gioco superiore del destino che gioca tutti quanti. Alfonso simula una grave malattia della madre. Nemesi: la madre è davvero gravemente ammalata. Invece d’una settimana, com’era l’intesa con Annetta, ci deve restare due mesi, perché dopo la morte della madre ammala gravemente anche lui. Al suo ritorno egli ormai non esiste più per nessuno se non per essere raggiunto dalla vendetta di Francesca (degradazione

alla banca) e dallo schiaffo di risarcimento

del fra-

tello di Annetta. Era troppo ed egli non regge.

ST RINERE

UDINE

FAZLOSSRIRITNO!

Ma prima di avviarlo all’autodistruzione, Svevo speri menta su di lui la salvezza di Schopenhauer, quella autentica non dell’evasione fantastica, ma della superiorità contemplativo-spirituale. Il motivo squisitamente schopenhaueriano dell’antinomia spirito-vita riattacca con il ritorno di Alfonso al paese sull’altipiano, ossia con il ritorno «in alto ad un punto donde poteva giudicare tutte quelle persone che cotrevano dietro a scopi sciocchi ». Fuggiva infatti dalla « vita » che aveva conosciuto in città e «che credeva che cosî non fosse che là » (318). E appena sù, gli parve d’essere tornato puro, superiore, indifferente alle passioni. Ma s’ingannava un’altra volta. Intanto la « vita » era ben « brutta » anche lassù. L’indugio minuzioso del romanzo su casi e personaggi del vil laggio, come anche (per accennarvi appena) quello altrettanto diffuso sulla famiglia Lanetti presso cui Alfonso alloggia in un quartiere popolare, non sono (come vuole Montale) estrapolazioni sul tema centrale. Sono estensioni del tutto pertinenti a tutti i luoghi e a tutte le classi sociali del vero tema centrale del romanzo: la universale « imbecillità della vita » (306). Peggio ancora che imbecille, la vita si esibisce lassi tragicamente sconcertante: famiglie intere sterminate dall’epidemia, la madre che gli muore sotto gli occhi e lui, che pure poi ammalatosi quasi a morte, viene reciso per sempre dal suo illusorio amore. Ma il caleidoscopico gioco delle autoillusioni va avanti. Guarendo rinasce alla fiducia, all'amore della vita, all'amore per Annetta. « Era cosa dolce questa vita » e lui un «uomo

CAP.

200

III - ITALO

SVEVO

nuovo che sapeva quello che voleva ». Che cosa? Tornare in città, sposare Annetta, assumere tutti gli obblighi deri vanti dai suoi trascotsi. Erano propositi secondo la « morale più certa ». Che «se Annetta non lo amava pit, egli usciva dalla vita [...] e nella vita contemplativa, cui intendeva di dedicarsi, non

avrebbe

avuto

il bisogno di adulare

[...] va-

nità e cupidigie » (358). È questa seconda l’alternativa che gli tocca infatti laggid, e vi s'impegna seriamente per un tratto e non senza qualche risultato: « Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture, stato di rinunzia e di quiete ». Grandezza, ricchezza, amore: non gli interessavano

più. E in questa rinunzia,

anche per il senso

del « grande sactifizio » compiuto, si sentiva « felice, equilibrato come un vecchio ». Si sentiva in « pace » e « sognava » che la sua pace ancora aumentasse (384 s.), mentre intorno a lui, alla banca, fervevano contese per le carriere, contese accanite quanto meschine. Era dunque un salvo e un santo di marca a tal punto schopenhauetiana che per tutti costoro egli non provava neppure più disprezzo, ma

la compassione

universale

precisamente

di Schopenhauer:

« compassione commossa tanto per i vinti quanto per i vincitori » (390). E a Lucia, la figlia Lanucci, tornata per l’oc-

casione sua alunna, insegnava esattamente come Schopenhauer che « sciocche sono le nostre gioie e sciocchi i nostri dolori ». Ciò che i preti e i maestri (senza né convinzione né efficacia) insegnavano era la verità. La felicità era nell’equilibrio, nell’esistenza laboriosa, negli scopi modesti: più che nella ricchezza e nell'amore. La felicità era nella « tranquilli tà di coscienza », nella « semplicità dei costumi », nella « bontà >" (391);

Si può sapere perché mai Svevo non fermò qui la sua storia, perché mai non riuscî a fermarla qui? Perché la svolse in catastrofe? Perché questo arbitrio 0, forse meglio, questa necessità interiore?

È sempre

la sua congenita

aspet-

tativa del peggio, il suo peggiorismo trasferito anche sul venerato maestro Schopenhauer? Ma il fallimento che qui si narra è di Schopenhauer (e del suo tipo di salvezza) quanto ad Alfonso, o è di Alfonso (e del suo tipo d’uomo) quan-

to a Schopenhauer? O è il fallimento della filosofia di Schopenhauer tou-court? Domande decisive. È indubbiamente anche il fallimento d’un tipo d’uomo, dell’inguaribile e irresistibile sognatore, d’uno che sogna sem-

EZIOLOGIA

RELIGIOSA

201

pre e soltanto d’essere e non è; che s’illude sempre: di aver abbandonato, per esempio, Annetta non per viltà e disamore, ma per congenita superiore vocazione alla saggezza, alla filosofia (392). Talvolta ammette, è vero, che è stato « forse per sua colpa » (412). Ma all’idea non regge a lungo e poco dopo l’imputata è la « fatalità »: « sentimento poco nobile e poco puro ma irresistibile » (419). Illusoria non meno la libertà, superiorità, indifferenza verso le passioni che crede d’aver raggiunta: verso l’orgoglio e perfino verso l’amore. Basta la vista di Macario, probabile promesso sposo di Annetta, per togliergli ogni pace: era « evidente il contrasto fra i suoi propositi e il suo modo di sentire » (395). Basta Annetta incontrata un attimo per strada noncurante

di lui per gettarlo nella più cupa infelicità (412). Tutto si riscatena dentro di lui in opposti squilibri: odio, disprezzo, amore, venerazione. E di nuovo sogni irresistibili: Annetta lo vuole morto, lui si ucciderà e lei verrà a piangere sconsolata sulla sua tomba (424). Un altro colpo gli arriva da lato. La Lanucci madre, vistolo cosî buono e pieno di compassione con la figlia, sedotta e abbandonata da un tale per la sua povertà, gli offre di redimerla lui, sposandola. E lui si sente impari a tanto sacrificio. Sacrificherà a lei i suoi risparmi, ma non se stesso. Anche la sua compassione dunque era solo sentimento, velleità e parole: « sempre ancora si trovava nelle sue azioni in contraddizione con le sue teorie » (405). Come potrà un «inetto » simile sia alla vita, sia allo spirito, reggere ai colpi grossi: alla degradazione professionale e allo schiaffo?

4. - EZIOLOGIA

RELIGIOSA.

Ma c’è fra le motivazioni che lo determinano al suicidio una motivazione inaccettabile al sistema schopenhaueriano: la protesta contro il destino, e contro un destino religiosa mente concepito. Nelle retrospettive in cerca delle ultime causali del suo stato disperato, Svevo fa attingere ad Alfonso o sfiorare vere causali derzoniache. Già subito dopo il fattaccio, di ritorno della deludente notte d’amore, avvilito e

inorridito d’essersi fatto lui pure astuto uccello di rapina, intertogandosi come mai gli astuti e forti l’avevano trasci. nato nel loro mezzo e fatto precipitare cosî in basso dal

CAP.

202

III - ITALO

SVEVO

suo anteriore idealismo, ecco la risposta che in via prev'a già si dà: « Egli era entrato nella lotta perché on gli era stato mai concesso di uscirne del tutto; anche la felicità mo-

desta che aveva spirituale]

chiesto

[nei suoi sforzi di superiore

vita

won gli era stata accordata » (299). « Concessa »,

« accordata », ma da chi? Da qualcosa ovviamente, da qualcuno che poteva accordarla e non l’ha fatto, o da qualcosa, da qualcuno che l’aveva impedito. Questo « qualcosa », a cui si dà il vago nome di destino esce letteralmente anche a Svevo dalla penna quando alla fine si tratta di identificare, lui e il suo eroe, l’estrema spiegazione di quanto era avvenuto, l’ultima giustificazione del gesto folle in cui sta per sfociare la vicenda: « Si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile » (425) (corsivo nostro). Questa stessa inspiegabile istanza, misteriosa e ostile, l’aveva avvertita accanto al letto della madre morente: « Quel-

la lunga giornata di sofferenze nuove, il sentimento della propria immensa impotenza gli parve rivelassero cose sorprendenti ch'egli non aveva saputo esistessero. Il male a cui il povero organismo della madre soggiaceva finî col sembrargli un essere personale. Egli lo aveva visto colpire a intervalli, deridere tutti gli sforzi che contro esso si erano fatti, poi baloccarsi con chi sapeva non potergli sfuggire e accordare tregue illusorie, infine, ora, uccidere » (348) (corsivi nostri). Il collegamento ci sembra ovvio, tuttavia terribile: il soggetto del verbo « accordare » nell’ultimo testo citato è identico a quello del verbo « accordare » nel terz’ultimo testo citato ed è identico a quell’incomprensibile « qualche cossa » che fa da soggetto nel penultimo testo citato. Quest’identico soggetto

sembra

sia, precisa sempre

Svevo, un

«essere

personale ». Solo un essere (1) personale può accordare o non accordare. Solo un essere personale (2) sovruzzazo può essere cosî « incomprensibile », e può accordare o non accordare la felicità o la vita. E solo un essere personale sovrumano (3) demoniaco può rifiutare una modesta felicità seriamente perseguita, può « colpite >», « deridere », « baloccarsi » a quel modo con l’uomo, rendergli la vita « dolorosa », « insopportabile » e « infine uccidere ». Questa è un’esegesi che non solo accorda i tre testi ultimi citati, le tre chiavi più penetranti che Svevo furtivamente ci mette tra mano, o che gli sono furtivamente sfug-

EZIOLOGIA

RELIGIOSA

203

.gite di penna, all’intelligenza dell’estremo senso del suo romanzo. Essa accorda inoltre tutto intero il romanzo in se stesso e tutte le varie sue trame: costruite, lo abbiamo già visto, come giochi maligni iscritti entro giochi sempre più grandi e più maligni. Sono principalmente il gioco di Annetta su Alfonso (e un po’ viceversa), il gioco di Francesca .su ambedue (e su altri) e il gioco del destino su tutt’e tre e su tutti. D’un destino che è, come si ammette, un dio ma-ligno o un demone. E in questa ultizza ratio religiosa del li-

bro sentiamo concordare autore ed eroe. Tutto il mondo e l’uomo sono immersi in Maligno: ecco l’estrema punta significativa di Una vita. Il che significa però che qui siamo ben oltre Schopenhauer. Questi aveva insegnato che tutto il mondo è, nella sua essenza, male e dolore

(ciò che è vero

solo in parte), ma

non

che tutto

questo male e dolore sia l’effetto su di noi del gioco di un Maligno di ordine personale. Sarebbe stata l’irresistibile premessa per l’uomo di una fede in un Dio trascendente e cioè libero sul Mondo e sul Maligno, in un Dio altrettanto personale, vittorioso anche per noi del Maligno. Senza una simile fede è insopportabile perfino l’idea di un Maligno di tal genere. A una simile fede Schopenhauer, con tutto il suo sistema, si è sempre negato.

Ma Svevo? Si è accorto di avere, con l’estrema punta significativa del suo romanzo, toccato un preciso dogma cristiano? O si è accorto che quella era realmente l’estrema punta significativa del suo romanzo? Certo è che se ne è accorto in lui, almeno per un attimo, la sua geniale intuizione artistica, ma che sarebbe meglio chiamare: presa di coscienza integrale della verità. Quanto a lui, Svevo, non si sa. Certo è che se sî, deposta appena la penna, se ne è dimenticato. È tornato il nichilista, lo schopenhauertiano di sempre. Uno schopenhaueriano tuttavia che di Schopenhauer non ha neppure lui realizzato la salvezza (se non altro perché si è in-

namorato, sposato ed ha fatto l’industriale), che ne ha trattenuto il nichilismo superficiale, l’idea della universale imbecillità della vita. Ed anche questa solo in teoria, in astratto. Ogni volta che riprenderà impegnativamente la penna in mano, toccherà ogni volta punte che la oltrepassano.

CAP.

204

5. - INETTITUDINE

III - ITALO

SVEVO

E MALIZIA.

Il teorico della vita tutta da ridere ha dunque raccontato per prima «una vita» tutta invece da piangere, la vita d’un uomo che ne muore, e dove comunque mai una volta

qualcuno (lettore o personaggio) viene chiamato a ridere. Vi si era tutt’al più talvolta sorriso. Francesca, per esempio, aveva talvolta sorriso sorniona sulle fortune, rivelatesi poi vane, del suo piano, sorrisi che ben presto si convertiranno in collere e lamenti. Forse anche per sormontare questa contraddizione e certamente per ravvivare i propri toni spenti. Svevo incomincia il suo secondo romanzo con allegria, colore e vivacità. Colori di vario genere sono almeno quelli che brillano sui capelli, occhi, labbra, denti, abiti della nuova eroina, Angiolina. Finalmente un personaggio ridente. Ma anche il nuovo eroe, Emilio, è a tutta prima discretamente in vena di scherzi e di malizie. Egli è un Alfonso che è stato alla scuola della filosofia sveviana, si è deciso a non prendere nulla sul serio, non di certo l'avventura amorosa di cui subito si tratta. È deciso, (è la prima cosa che ci tiene subito a dire ad Angiolina stessa) a non compromettersi. Sarà un amore

« gioco », e una

donna

« giocattolo », non

481). Ma tutto questo « allegro » del trascolorare via via sempre più nel drammatico e alla fine nel tragico e x La seconda novità è che Emilio metà smaliziato. L’ingenuo e onesto

più (RI

preludio è destinato a serio, nel grave, nel nel funebre. è un Alfonso già per idealista è almeno per

metà defunto. Tanto per incominciare egli si propone subito di educare quella fanciulla, che gli appare ingenua e angelica, alla mezza malizia. Dovrà essere « meno onesta e pit astuta » per darsi a lui, ma non disonesta del tutto per non darsi anche ad altri. Un inizio ambiguo: « cessò di baciarla e di adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero d’un maestro di virtà » (442). Il dramma che seguirà è precisamente quello dell’uomo mezzo malizioso e dunque ancora mezzo ingenuo-onesto che s’innamora d’una donna in ‘apparenza onesta, in realtà del tutto maliziosa e bugiarda. Un altro gioco maligno dunque: quello d’un giocatore che va a giocare e viene giocato. Sorvoliamo su motivi che in Serilità non sono che disinvolte riprese da Una vita. Lo schema antropologico è iden-

INETTITUDINE

E MALIZIA

205

tico. Emilio, anche se meno grigio e mogio di Alfonso e più intraprendente, è in fondo ancora un debole e un inetto di fronte ad esseri più forti e più astuti. Egli ha un amico, un certo Balli, scultore, sul cui profilo si riproducono i tratti di Macario: alto, forte, occhi azzurri, cera bronzina, sicuro, superiore, donnaiolo per ambizione. È il « puntello » di cui Emilio ha bisogno per sentirsi anche lui sicuro (438). Tale sua inferiorità « vitalistica » ha origine un’altra volta in una sua superiorità « spiritualistica ». È infatti un letterato, anzi già uno scrittore (d’un romanzo). Aveva letto molti libri altrui e da essi « aveva succhiato una gran diffidenza e un gran disprezzo dei propri simili » (ivi). Ma le sue « teorie letterarie complesse » battevano in ritirata quando entravano in urto con anche una sola idea energicamente ribadita dell’amico. Ed è anche lui di nuovo un sognatore: perfino di delitti che però non avrebbe mai avuto il coraggio di commettere. I suoi « desideri » e le sue « idee » sono le « sole sue azioni » (462). Per questa sua congenita debolezza di fronte alla realtà egli s’illude a lungo su Angiolina, non è capace di credere agli indizi e agli avvisi anche più evidenti. Con poco, con un sotriso, un bacio, lei riesce a farlo rientrare dai suoi sospetti nelle sue illusioni che lo liberano dalla gelosia, dal dolore (465). S’era creato, sempre per debolezza, un fantasma di lei, il fantasma della bella fanciulla pura o, al più, sedotta per ingenuità, perché « minore d’intelligenza e perciò indifesa » (453). Continuava a chiamarla « Ange », mentre il realista Balli l'aveva subito chiamata per quello che era: « Giolona ». Egualmente in Emilio si ripete, quando si passerà dai baci al « possesso », il trapasso dal naturale impulso al calcolo, all’aggressione, all'orgoglio del maschio. Vorrà il possesso, ben più che per amore, per smania di superiorità, per sfida e per emulazione verso coloro che avevano già posseduto Angiolina. Specificamente nuovo però in Serilità è, l'abbiamo già accennato, l’emersione della dimensione morale anzitutto negativa: una malizia che comincia con discrezione ma che poi, per rifarsi delle deludenti cadute dal sogno nella realtà, tocca anche in lui, dopo che in lei, punte di perversione sacrilega. Vogliamo perseguire piega per piega questo arricchimento tematico. Ci chiarirà oltretutto il fascino ambiguo con cui il romanzo subito incatena il lettore. Da notare pet prima cosa che si ha, rispetto a Una vita, un'inversione dei

CAP.

206

III - ITALO

SVEVO

piani sociali. Invece d’un figlio del popolo e piccolo borghese e intellettuale in erba che ama una figlia di papà, abbiamo qui un intellettuale piccolo borghese già come tale affermato che ama una figlia del popolo. Ora una figlia del popolo messa nei guai da un borghese non ha (o non aveva) bisogno di essere risarcita con un matrimonio. Insomma nulla di eventualmente onesto in vista questa volta. L’esplicita ragione addotta è che Emilio ha una sorella zitella da mantenere, e il suo modesto impiego non gli consente di aggiungervi una moglie e dei figli. Per Svevo stesso, che qui modifica ma non di molto l’autobiografico, sappiamo che a impedirgli di pensare al matrimonio c’erano le condizioni della sua famiglia paterna bisognose del suo lavoro. Dunque evasione, avventura pura: è il punto su cui tutt'e due si trovano subito d’accordo. La franca disonestà dell’avvio si complica di lf a poco con quella già discretamente perversa del finto « maestro di virtà » già citato. È già uno disposto a mischiare virtù e vizio, a servirsi (delle apparenze) della virtà a vantaggio del suo vizio. Di più egli sembra già leggermente corrivo alla contaminazione irriverente di sacro e profano. Un tal Sorniani lo informa che Angiolina ha avuto già amanti e che uno di questi l’aspettava a lungo sulla soglia della chiesa dove lei si faceva le sue devozioni, tutto assorto a guardare da lontano la sua testa bionda. « Due adorazioni » pensa « commosso », ma in realtà già con ironia lievemente sacrilega, Emilio (437). Del tutto in sincronia

con questo clinamzen immorale subito volto all’ingid avviene che i due, saltata molto

in fretta la iniziazione

romantica,

passano a immediate vie di fatto, ai baci e agli abbracci, al sensuale e al banale. I « fiori » che lui le regala cedono presto il posto « ai dolci » e poi subito a « formaggi, mortadelle, bottiglie di vino e di liquori » (445).

6. - SENILITÀ,

IRRELIGIONE

E IDOLATRIA.

Sarebbe stata la solita squallida storia, se non ci fosse stata in lui, come già detto, quell’altra metà onesta, ingenua,

romantica, che era però più che tutto immaturità e letteratura, ma

che era un po’, come

si vedrà, anche « coscienza ». Di-

scende di qui in lui, anche nella sensualità, un’esigenza pet quanto illusoria di « vero » amore. Di qui esploderà in lui

SENILITÀ, IRRELIGIONE

un dramma

E IDOLATRIA

morale. Ma c’è inoltre, in lui, un’altra cosa:

207

la

lunga pena latente d’un vuoto metafisico, un doloroso squallore della sua anima e della sua vita. È per questo soprattutto che, a dispetto delle sue cautele, malizie e allegrie ini-

ziali, egli s'innamora a tutte sillabe di Angiolina: fino a colmare di sensi sublimi una creatura davvero inadeguata a portarli; fino all’« oblio perfetto d’ogni cosa che non avesse attinenza

a lei o al proprio sentimento » (460).

Le corrispondenze fra costei e la vera Angiolina, di cui si sa soltanto che si chiamava in realtà Giovanna e che fini cavallerizza in un circo, non si possono discutere ma sembrano molte. Perfetta di forme, sanissima, biondo-azzutra, viso d’angelo, era il tipo biologico ideale di ariana fatto apposta per impressionare un semita come Svevo che ebbe anche in seguito un debole per le « pupe ariane », (E 168). Questa comunque del romanzo è e resta un piccolo mistero di donna, un bizzarro ibrido muliebre di sensualità e di devozione, di spontaneità e di menzogna (di mentitrice nata), di bontà e di perversione: possibile, noi diremmo, soltanto in una bella figliola di famiglia degenere (un padre maniaco, una sorella minore e una madre sornione entrambe e « d’accordo ») e d’ambiente popolare corrotto ma dove ancora sussistono istintivi costumi religiosi. Tutto il senso del vivere è in lei ormai decisamente quello di divertirsi con gli uomini e a spese degli uomini che in numero sempre discreto vanno matti per la sua bellezza sensuale. Non è una ninfomane, né una sgualdrina, non pretende né regali né denari, benché poi finisca con il riceverne (anche dal povero Emilio) parecchi. Naturalmente Emilio non è il primo né il solo, ma lei già sa che gli uomini hanno bisogno di credersi e primi e soli, e già conosce un’arte spontanea di farglielo credere. Nativo o acquisito che sia o tutte due le cose, ella è ormai un mostro di dissimulazione-simulazione. Le bugie le zampillano nella testa e sulla bocca più naturali della verità. E simula di tutto: innamoramenti, sentimenti d’amore, finezza, bontà e generosità, pudore e sacrificio (ma forse c’è anche talvolta del sincero in tutto ciò), anche se, data la complessità delle architetture e la esiguità del suo cervellino, non le riesca sempre di ben puntellare le sue bugie. Di qui scoperte di altarini, gelosie, delusioni atroci negli amanti ingannati. Non ha vita facile una donna che si « diverte » come costei.

208

CAP. III - ITALO

SVEVO

Tra le cose che simula, una ha spicco: la religione. O forse c'è anche qui un pizzico di sincerità, quantomeno di conformismo etico. Della vita che fa non sembra abbia rimorsi o al più rimorsi superficiali: sono « peccati » che una confessione o una messa egualmente superficiali ogni tanto ripuliscono. Tuttavia la conciliazione in lei di questi opposti — peccato e devozione — per sé inconciliabili finisce che va a scapito d’uno dei due: della devozione naturalmente e delle cose sante. Anche quando prega in realtà « civetta » (con il buon Dio!). La religione diventa una commedia

e le

formule sacramentali diventano termini equivocamente significativi di fatti erotico-sessuali. Ife missa est! esclama per esempio, quando ne ha abbastanza di baci e di carezze. Anche con Emilio simula sulle prime la religione per catturare la sua fiducia, ma poi, smascherata, ne ride « spudoratamente » (452).

In fatto di religione invece Emilio è netto. Lui è decisamente e da tempo irreligioso. La religione la ritrova, è vero, sulle prime con gioia di Angiolina: « Oh la dolce cosa ch’era la religione », ma appunto «in Angiolina » (451), in quanto lo rassicurava circa l’onestà e la fedeltà della donna amata. Invece da se stesso, « da casa sua e dal cuore di Amalia [la sorella] egli l'aveva scacciata [la religione] — era stata l’opera più importante della sua vita» (451). Sembra detto per inciso. Ma la forza del superlativo relativo che abbiamo sottolineato, e soprattutto l’attenzione ai grandi nodi nevralgici della vicenda ci convince a ravvisare in questa radicale irreligiosità, e nel conseguente vuoto metafisico, la «premessa di massima fatalità su tutta questa drammatica stoia d’amore e di più ancora sulla parallela tragica storia di amore della sorella Amalia. Quello sterminio della religione è — visto il tutto nella prospettiva dei grandi nodi — all’origine prima delle immense illusioni e poi delusioni dei due fratelli circa quell’« amore » che entra come un turbine, come una vertigine nel vuoto lasciato. E anche Svevo sembra lo sappia (anche se con il pudore di chi non vuoJe che si sappia che lo sa) mentre scrive l’inciso compromettente. E sempre con l’aria di non sapere lo sa benissimo anche poi, quando con la sua « implacabile scienza del cuore uma-

no » (Montale) ci analizza i « misteriosi motivi» (538) di cosî forte attaccamento, di cosî costrittivi ritorni a colei che

SENILITÀ, IRRELIGIONE

E IDOLATRIA

209

non l’amava, si trastullava soltanto, lo giocava, ingannava, tradiva, perfino talvolta disprezzava. Perché, per esempio, dopo averla piantata alla scoperta della tresca con l’ombrellaio, Emilio la cerca ancora? Ecco la risposta: «Tutto era tanto insignificante che ella tutto

dominava.

Ci

pensava

continuamente

come

un

vec-

chio alla propria giovinezza [...]. Mi animerebbe! » (527). Cosî torna a sognare ciò che non è: «la donna nobilitata dal suo sogno », «la dea » (529). Ecco, ben chiara, la causa del suo errore: è la vita vuota d’ogni significato vitale, il vuoto metafisico. Ma qui è una volta tanto ben chiaro anche il significato di « senilità » francamente identificata al vuoto metafisico, all’impressione che «tutto era tanto insignificante ». Ed è inoltre ben chiara qui ancora una terza cosa: che Emilio cercava in Angiolina una realtà superiore e assoluta, insomma religiosa: la dea. È precisamente ciò che gli mancava in quel vuoto, era dunque un vuoto religioso. Non è una breve convergenza isolata di significati. Gli impulsi a non rivederla « mai più » si ripetono in lui ad ogni nuovo sospetto. La rivede invece: perché? Perché ora sapeva cosa significava « mai più »: «un dolore, un rimpianto continuo, ore interminabili di agitazione, altre di sogni dolorosi e poi d’inerzia, il vuoto, la morte della fantasia e del desiderio, uno stato doloroso più di qualunque altro » (539). Di qui il bisogno di ricostruire con il « sogno del poeta » «l’Ange che veniva distrutto ogni giorno » (540). E c’erano perfino stati momenti, due in tutto per la precisione, in cui gli era parso che lei fosse assurta ad attingere l’amore puro e disinteressato, un lembo di sentimento immacolato. La prima volta ella s'era chinata su di lui e «certo con l’intenzione ch’egli non se ne accorgesse, leggermente lo baciò sui capelli » (457). Un’altra volta l’aveva baciato «con lievi baci che non

guito

anche

volevano

questi

nella memoria,

essere

«rari

percepiti » (532).

tratti

«si rivelavano

d’amore»,

pur

Ma

in se-

indelebili

per quello che erano,

delle

menzogne » (586).

L’insuperabile dicotomia sogno-realtà, che contraddittoriamente tuttavia coincidono, si fa parossistica là dove si perviene finalmente al cosidetto « possesso »: agli appuntamenti amorosi in una squallida camera d’affitto. L’impatto del sogno con la realtà è tale da uccidere ogni possibilità di sogno 14

CAP.

210

III - ITALO

SVEVO

per sempre. Emilio aveva finalmente la donna e l’amore nella loro « verità propria e pura e bestiale ». Da « freddo osservatore » aveva capito benissimo che lei fingeva d’essere agli esordi, che alla fine lo disprezzava anche come maschio e che già al secondo appuntamento non gli apparteneva più. « Non sognerò mai più » aveva deciso. Ma un istante dopo, il sogno l’ha ripreso: nella « stanzaccia della sozza vecchia sogna d’amore » (531). Vergognoso, avvilito, ferito, perfino indignato, si sente tuttavia insanabilmente, misteriosamente legato a lei, e non soltanto dai sensi, ma anche da « una strana anomalia del cuore ». C’era in quel cuore, a dispetto di tutto, una sete assoluta, un «puro grande desiderio divino ». E le parole di rimprovero che lui le sussurrava per il di lei ritardo « avevano il suono di una preghiera, di una adorazione [...] la stanza della vedova Paracci divenne un tempio » (534). Posizione dell’uomo in ginocchio davanti alla donna: la più adatta per « prendersi da lei il calcio dell’addio » (483).

7.- ABORTI

RELIGIOSI

E MORALI.

Ma il tema dello smarrimento amoroso, come conseguenza dello smarrimento metafisico o, in altri termini, della catastrofica sostituzione dell’idolatria erotica alla religione — nodo centrale del romanzo — viene svolto da Svevo, oltre

che a proposito di Emilio, a proposito della sorella Amalia, di colei da cui Emilio aveva appunto sterminato la religione, impresa di massimo vanto della sua vita. Svevo lo svolge anzi su di lei con una profondità, densità e spietata verità, maggiore ancora che su Emilio. Ed essendo il personaggio presumibilmente più inventato, tuttavia non meno « vero », dunque frutto di ispirazione più che di memoria, è possibile che in lei si tradisca più che altrove l’altra verità di Italo Svevo. Più anziana ancora di Emilio che pure ha già passato la trentina, Amalia è una classica, grigia, triste e rassegnata « zitella ». Ma aveva ancora « belle » le mani e aveva letto molti

romanzi,

non

ogni fuoco

insomma

era

spento

sotto

quella cenere. Infatti si ravviva subito alla vista, al calore della passione di Emilio, e basterà una scintilla perché esploda. La scintilla sarà la compassione del Balli per lei. Costui

ABORTI

RELIGIOSI

E MORALI

211

era, come si disse, un donnaiolo infido, non godeva che di cose « belle e disoneste », ma sapeva « confortare » con parole belle una persona, era una bontà di cui si compiaceva (472). Egli provò dunque compassione per Amalia, per quell’« errore di madre natura ». Priva di bellezza, di fama, di forza e di ricchezza (le sole cose secondo lui per cui valeva la pena di vivere) non si sapeva per quale mai cosa vivesse: per niente, per soffrire. Ella prende quella compassione per amore. S’incanta e s'innamora segretamente e perdutamente di quell'uomo « bello, forte, fortunato, sereno », di quell’inviato della « provvidenza », di quell’animale superiore destinato alla vittoria. Di lî a poco Emilio sorprende la sorella a sognare di nozze, e capisce. È innamorata come lui e per causa sua: perché l’ha trascurata, perché l’ha illusa. Rimorsi quanto a sé e ire contro il Balli che viene diffidato di metter più piede in casa sua. Muta e chiusa disperazione di Amalia: «I suoi occhi guardavano le cose, gravi e fissi, a cercarvi la causa di tanti dolori » (515); « paura della morte e un’enorme impotente indignazione » per « l’ingiustizia che le era stata fatta » (521, 523). Le successive fasi sono note: isteria, alcool, follia, polmonite fulminante, volontaria. Il ca-

pitolo sulla morte di Amalia è splendido e terribile: per la implacabile scienza narrativa di una agonia e inoltre del dramma di coscienza di Emilio che a questo punto esplode. Soluzione: Angiolina viene licenziata a sassate. Non poteva essere però che un dramma morale a metà quello d’un uomo mezzo onesto e mezzo malizioso. La sua residua coscienza, comunque, comincia ad agitarsi quando comincia a scoprire che la sua partner è ben più maliziosa di lui. Ciò avviene a proposito del matrimonio di copertura da lei progettato: si sarebbe fidanzata e avrebbe poi sposato un tale, sarto di professione, ma con impegno notarile di matrimonio fin d’ora, allo scopo di potersi subito concedere del tutto a lui, Emilio, senza guai eventuali da parte di lui. Eta tutta una finzione per coprire invece gli altri amanti, ma voleva apparire come un documento d’amore preferenziale, d’unico vero amore per lui. Egli ci crede, ma era comunque un grosso imbroglio, era un vile profitto che ne traeva. Il mezzo onesto Emilio ne ha disagio. È il suo primo sentimento morale ma è anche la sua prima morale sconfitta. Vorrebbe

piantar

tutto.

Naturalmente

non

ce la fa. Va bene,

decide, « insozzata dal sarto, posseduta da lui, Ange sarebbe

CAP. III - ITALO

212

SVEVO

morta, e si sarebbe divertito anche lui con Giolona, lieto [....] indifferente e sprezzante » (471). E si presta all’intrigo, offrendo il contributo d’una lettera ch’egli scrive per lei semianalfabeta. Ne ha « coscienza » come dell’azione più bassa della sua vita, ma questo solo quando è lontano da lei (558). Ormai è disceso al suo livello. Avrà altre volte il « bisogno violentissimo di scendere a lei», anzi perfino « al di sotto di lei» nella perversione addirittura sacrilega. Un giorno ella s’era confessata, cosi almeno diceva, e non voleva peccare. Bene, proprio per il gusto di peccare e di farla pec-

care, lui fu quella volta più violento e brutale del solito. E lei ha per lui per quella volta « un’occhiata di ammirazione »! (544).

La coscienza gli ritorna pungente davanti ad Amalia istericamente innamorata, davanti a quell'amore cosî impossibile, cosî « stonato », dipinto sulla faccia grigia di lei. Vi legge come obiettivato in uno specchio tutta la miseria anche del proprio. Ha già allora impulsi e propositi d’un ritorno al suo «dovere» di fratello, vani naturalmente, ma che ritornano spasmodici davanti alla sorella morente. Là la sua crisi morale tocca dunque il parossismo, il solo pensiero di Angiolina gli dà la « nausea ». Durante una parentesi in cui torna un momento a sperare in una salvezza della moribonda scoppia in pianto. « Sollevato e migliorato » dal pianto, decide che « avrebbe dedicato il resto della vita ad Amalia » come a una sorella, come a una figlia (564). Sono i momenti in cui

‘anche la sua irreligiosità s’incrina, come poco prima s’era incrinata quella della sorella che nel delirio, fra molti suoni incomprensibili di dolore, riusciva a spiccarne solo uno « intelligente »: il gemito « Oh, Dio mio! Dio mio!» (588). Anche Emilio ha allora un sentimento religioso: spera con una speranza che si fa per un istante « piena », nel « fenomeno sorprendente », nel « dono generoso della provvi-

denza », insomma nel miracolo. « Sarebbe bastato per dargli il sentimento

della felicità per tutta

la vita»

(569).

E ad

Elena, la pia signora venuta ad assistere l’ammalata, mormora

« Dio la rimeriti » (563).

La religione che egli aveva scacciata « da casa sua e dalla sorella » ritorna ora in casa sua nella persona di Elena. La chiama anzi e le spalanca le porte. È risaputo che la Elena di Senilità è un omaggio di Svevo alla moglie Livia e alla sua religiosità. Inoltre è gratitudine per colei che aveva assistito

ABORTI

RELIGIOSI

E MORALI

213

suo padre al letto di morte ed aveva confortato in quella occasione il figlio. E gratitudine forse anche nella « provvidenza » (il termine

ricorre

come

s’è visto

nelle lettere)

che proprio in quell’occasione aveva unito le loro strade, congiuntura massimamente provvidenziale nell’esistenza dello scrittore. Ma si noti: l’omaggio e la gratitudine, in quanto connotanti un momentaneo assenso anche alla di lei religiosità, sono offerti unicamente per l’interposta persona d’un suo personaggio, anzi di due: di Emilio e di Elena. Ed è, anche in Emilio, un assenso ben effimero, giacché il miracolo sperato non avviene, Amalia muore, Angiolina scompare dall’orizzonte in una mortificante resa dei conti. Quell’emozione religiosa che s’era appena accesa si perverte in dispetto religioso contro un divino che assume di lî a poco lievi ma chiare parvenze demoniche. Per due volte ci si lamenta del « destino »: d’« un destino implacabile » che « si compiaceva di snaturare la mite, dolce, virtuosa fisionomia [di Amalia] con l’agonia dei viziosi » (575); d’un « destino » che « s’era compiaciuto di mettere bizzarramente la sventura di Amalia accanto al suo amore per Annetta » (577). Ritorna

lampante per un attimo il senso del sovrumano diabolico «Gioco sull’uomo rilevato in Una vita; il presagio d’un Dio maligno che « si compiace » di danni, di beffe e di trappole tese alle creature umane. La religione nasce dunque ma subito si guasta ed abortisce nel protagonista di Serilità. Tuttavia il nesso causa-effetto fra irreligiosità e traviamento amoroso, tematizzato sia in Emilio, sia in Amalia, risulta netto in chiunque sappia cogliere l’opera nella sua sintesi profonda. Il nesso si rifà anzi quantomai scoperto in un nitido dettaglio, in un lucido pronunciamento delle ultime pagine: «Oh, se egli avesse saputo

che nella sua

vita c’era una

missione

[=

un

sacro

compito, come quello a cui s’era dedicata la religiosissima Elena] tanto grave come quella di tutelare una vita unicamente affidata a lui, egli non avrebbe più sentito il bisogno di avvicinarsi

ad Angiolina » (572). Ed è veramente

strano,

è una delle più strane cecità riscontrabili in un grande scrittore moderno quella d’uno Svevo che, risalito dalla profondità della sua stessa opera d’arte alla normale e superficiale coscienza dell’uomo comune, dell’uomo della prosa, ha tutte le apparenze e tutte le prove di chi non ha saputo con-

CAP.

214

III - ITALO

SVEVO

servare neanche un lume da quella sintesi e da quel nesso «per la sua vita personale. Ma non è solo la religione, è anche la coscienza che abortisce alla fine in Serilità. Tutto il dramma morale di Fmilio viene infatti risolto e cioè annullato in un universale determinismo. Tutto si conclude in un’assoluzione generale impartita da Emilio ad Angiolina, a se stesso, a tutti, « Oh, il male avveniva, non veniva commesso [...] non v'era colpa, per quanto ci fosse tanto danno ». Tutto avveniva, anche nell’uomo, per forza d’« inerzia », come nelle spinte e controspinte che il turbine che in quel momento imperversava sulla città provocava su nubi, onde e barche. Un inflessibile cieco « destino » dominava anche gli atti e i sentimenti umani. Mai una volta, infatti, gli era stato concesso di « slegare e riannodare in tempo una corda », di « forzare con la propria voce i clamori del vento ». Solo per questo egli era ora

cosî « debole » e « infelice » (578).

Attraverso una indulgente, pietosa (o vile?) capitolazione morale al determinismo, (già annunciata nella filosofia della « fatalità» e del Balli: «Sei cosî, non può succederti che cosî » (481), dunque, Svevo tenta alla fine una catarsi per il suo grigio eroe, non solo, ma tenta inoltre un suo riassorbimento nel proprio caratteristico nichilismo: lo riconquista all’indifferenza per la vita, lo convince a non prendere la vita sul serio, a riderne. La colpa di Emilio e di Amalia era stata semmai quella « di prendere la vita tanto

sul serio »! (578). È quanto gli consente di ritornare « sorridente » (581) sui passi che aveva fatto per andare al disastroso ultimo addio con Angiolina. Questo nichilismo sorridente è indubbiamente il misterioso contenuto della sibillina « ultima parola » (582) ch’egli non arriva a dire:

né ad

Angiolina che non rivedrà mai più, né ad Amalia ormai agonizzante.

8. - UN'ALTRA

VERITA.

Ma ci si domanda, se un simile riassorbimento nel nichilismo, dopo quanto era successo, sia legittimo, sia logico; se con un simile sorriso, un simile nichilismo, i conti tornino. Non tornano: perché nonostante il sorriso restava, per

esempio,

la morte,

«il grande misfatto » (590), la grande

UN'ALTRA

VERITÀ

215

« ingiustizia » per Amalia e per tutti. E restava, in genere, il « dolore », spettro che nessun sorriso, scetticismo, indifferenza riesce a esorcizzare. Il nichilismo sveviano risulta irrecuperabile, risulta colpito a morte dopo che per ben due volte Svevo stesso nel «decorso del suo racconto, aveva menzionato la realtà indelebile del dolore » in cui ogni «ridicolo » svanisce. La priima menzione si ha in un lamento di Emilio al Balli: « Allo1a Emilio si lagnò del proprio triste destino con un’ironia .di se stesso che toglieva ogni ridicolo su di lui. Disse che tutti coloro che lo conoscevano dovevano sapere che cosa pensasse della vita. Ix teoria la vedeva priva di qualsiasi contenuto serio, ed infatti egli non aveva creduto in nessuna delle felicità che gli erano state offerte; non ci aveva creduto e veramente non aveva mai cercato la felicità. Ma come era più difficile di sottrarsi al dolore! Nella vita priva gli qualsiasi contenuto

serio, diveniva seria e importante

an-

che Angiolina » (506). Dove due cose sono notabili. Noi sap.piamo già che il termine «serio» in simili contesti è in Svevo sinonimo di « religioso ». Riscontriamo allora un’altra volta ribadito il nesso causale fra irreligiosità e smarrimento amoroso. Ma la seconda cosa è più notabile ancora. Non

è forse un dogma

della teoria nichilistica

sveviana

che

in prospettiva nichilistica le realtà anche più serie diventano ridicole? Esattamente il contrario ci viene invece insegnato ora: in una prospettiva nichilistica (« nella vita priva di qualsiasi contenuto serio ») anche le cose più ridicole diventano serie. Verissimo: l’istanza che va dal serio al ridicolo era la teoria (« in teoria »!), l’istanza inversa che va dal ridicolo al serio era la realtà. Sulla misura della realtà tutto il nichilismo sveviano — ecco l’altra verità, la verità segreta, che s’impone a lui stesso suo malgrado nella chiaroveggenza profonda dell’opera d’arte — va in frantumi, contraddicendosi. Tutto vi diviene fin troppo serio. Ridicola resta unicamente la teoria che vuole che tutto sia ridicolo. Nichilismo che si autoirride: ecco, per noi, il senso più profondo di questo romanzo intenzionalmente cosî nichilista. Un senso tutto contrario alle sue intenzioni. Il romanzo riferisce anche d’un’altra conversione (o catarsi) del ridicolo in serio. È il ridicolo di Amalia, amante il-

lusa e disperata, che sprofonda e si riscatta nell’onda della musica wagneriana (ella è a teatro e sta ascoltando la Wal-

CAP.

216

III - ITALO

SVEVO

chiria). Tutta la vita di tutti è dolore, dice quella musica schopenhaueriana, perché non è che un’insensata cascata verso il nulla. Di nuovo, invece che tutta da ridere, la vita appare, alla chiaroveggenza attistica, tutta da piangere. Ma una segreta linea sotterranea collega questa vana catarsi di dionisiaca immersione nel dolore universale a quel « Dio » che Amalia invocherà nella sua agonia, cioè alla sola vera catarsi. Morta Amalia, si medita sulla morte. Ne scaturisce, della morte, una ben strana definizione, strana quanto all’essenza come quanto all’effetto. La morte è «il grande misfatto » che tutti ci assolve, perché i nostri misfatti risultano al confronto piccoli, e meritano cosî di essere « dimenticati » (590). Misteriosi soggetti riemergono qui dalle meditazioni conclusive di Una vita: chi è l’autore, il soggetto responsabile del grande misfatto? E da chi potranno essere eventual mente dimenticati i nostri misfatti, nella memoria di chi? Non

è da buon nichilista accendere sospetti su simili soggetti.

9. - DAL NICHILISMO

ALLA COSCIENZA.

Composto a una trentina d’anni di distanza dagli altri due, La coscienza di Zeno è il meno monolitico, nonché il meno autobiografico dei tre romanzi. Risulta tuttavia intimamente e sotterraneamente ben legato alle sue varie parti, al suo autore e agli altri due grazie, di nuovo, al nichilismo dichiarato al suo protagonista, Zeno, e alla problematica che ne rimbalza in ordine alla vita. Certo c’è pure differenza, novità e originalità, ma di graduatoria e di tonalità, non di essenza. La prima differenza è che sul suo nuovo sosia Svevo sperimenta excursus dal nichilismo in sfera religiosa assai più espliciti di prima. Zeno può dire sé (per la prima volta il romanzo è autonarrato) che a quindici anni, quando gli morî la madre, « un sentimento religioso tuttavia vivo » gli aveva addolcito la grave sciagura » (RII 622). Ma a trent'anni, quando gli moriva il padre era già da tempo uno scettico, un miscredente e «un uomo finito »: da tempo « il paradiso non esisteva pit per lui » (622). Se si interessava, se studiava talvolta ancora di religione, per esempio delle « origini del cristianesimo »,

lo faceva da razionalista, come d’un « fenomeno qualunque » (659). Ma questa sua tranquillità irreligiosa gli era stata scon-

DAL

NICHILISMO

ALLA

COSCIENZA

217

volta in profondità dalla morte precisamente del padre e dalle sue circostanze. Negli ultimi tempi il padre s’era fatto insolitamente serio, strano, meditabondo: meditava sull’al di là, leggeva libri all’uopo. Ne riferisce al figlio che, con suo acuto disappunto, ci scherza. La ricerca si fa ossessiva, esaltata. « Io so molte cose [...] so tante cose, anzi tutte » gli diceva il padre, « solo ho tanta paura che non saprò dire a te quello che penso, solo perché tu hai l’abitudine di ridere di tutto ». « Guarda! Guarda! » gli aveva gridato additando una stella, una notte, già moribondo. Ma « la parola che aveva tanto cercato per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre ». Era «ispirazione religiosa » commenta maligno Zeno, ma era « anche il primo sintomo dell’edema cerebrale » (632). La battuta è sintomatica per tutte le prime pagine del romanzo in cui Zeno, altro tipico nichilista sveviano, si è proposto di reagire a tutte le cose (qui la religione, la vita e la morte, anche del padre) come un nichilista deve: con umorismo indiscriminato. Ma mal gliene incoglie. Il padre gli legge nel cuore non solo la leggerezza, ma anche la segreta voglia della sua morte, quantomeno il desiderio di accelerarne (per compassione? per fastidio intollerabile?) la spasmodica agonia. Il moribondo raccoglie le sue estreme energie per schiaffeggiare il figlio. AI lettore che ha letto non senza ripugnanza fin qui delle pagine umoristiche all’orlo di venir meno, dopotutto, anche al buon gusto, vien fatta grazia: la pagina si fa di colpo seria. «Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza ». E per provargli la mia innocenza, « ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore [...]. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere d’ogni pratica religiosa, mentre è vero — e qui voglio confessarlo — che

io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre » (646). Questa chiusa seria e commossa d’un capitolo ridanciano è paradigmatica di tutto il romanzo, la cui struttura umorale e interiore è tutta un convergere

e un penetrare, verso

un centro denso di strane serietà, da parte di traiettorie partite da varie, superficiali e periferiche zone di umorismo nichilistico: da forme varie di incoscienza verso, appunto, una

218

CAP.

III - ITALO

SVEVO

coscienza. Tutto comincia con maligni risi e sorrisi d’uno che non prende sul serio nulla, non la religione, non la vita, non la morte, non l’amore, non la bontà, non la donna (moglie

o amante), e tutto conclude in sentimenti profondi, stupefatti, responsabili, generosi, perfino religiosi come qui. Quanto ai religiosi, però, a quelli almeno esplicitamente tali, dobbiamo subito dire che la serietà a loro riguardo non persevera, che non perseverano essi stessi. Zeno pretendente della bella Ada è già tornato miscredente, « positivista convinto e ai miracoli non

ci crede » (688). Sposato alla brutta, ma

buona e piissima Augusta, sorella di Ada, è vero, la religione sembra rifarglisi problema e ricerca. Va a messa con la moglie, legge scrittori teologici. Ma quali? Renan e Strauss! Legge i Vangeli in edizione critica. Ma arrivato all’Apocalisse smette. Finisce che lui ride e che Augusta stessa sorride di tutta quella inquisizione (747). La «fede vera » non vuol venire, e lui allora lascia tutto perdere. Si è rifornito a tal fine d’un alibi generoso: « se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella » (735). Il ménage di Zeno-Augusta riproduce in questo aspetto quasi alla lettera, insomma, quello già da noi descritto di Svevo-Livia: silenzioso rispetto reciproco fra le opposte fedi dei due coniugi, ma insieme anche segreto reciproco sorriso al riguardo. Sorridono segretamente l’uno dell’altra: lui della ingenua fede di lei, lei del suo saputo nichilismo. Ma c'è in Zeno, sempre a questo proposito, una differenza rispetto a Svevo, una più rischiosa esposizione al contagio della moglie. Come era emersa per un attimo già in Sernilità una identificazione del nichilismo ad, appunto, « senilità », cosf emerge qui, e non solo per un attimo, una identificazione del nichilismo a « malattia », e per contrasto una identificazione di « salute » a una vita vissuta nella fede religiosa. In tutte sillabe vi si dichiara che Augusta la credente era la 5 L’unica che è derisa dal principio alla fine è la psicoanalisi. Svevo era contro Freud, in particolare perché un suo nipote curato da Freud era stato poi peggio. Come si sa, Svevo finge che Zeno scriva la sua storia come un documento di autopsicanalisi da inviare al suo dottore psicoanalista. Il fatto stesso della finzione (che cioè Zeno non sia esattamente Svevo) è un non prendere la psicoanalisi sul serio. Ma la satira antipsicoanalitica è struttura esteriore e motivo secondario del romanzo, il quale è ben più che psicoanalisi: è opera d’arte.

NICHILISMO

E COSCIENZA

219

« salute » e che lui, Zeno il miscredente, era la « malattia ». Infatti, che cosa occorreva per essere in tutto e per tutto « sani »? Occorreva « credere [come faceva lei] la vita eterna, e l’amore e lo stare insieme eterni e che la morte non esisteva ». Per subito ammalarsi invece bastava sapere, come lui sapeva, il contrario: che la vita, che l’amore erano « brevi brevi brevi » (726); sapere che « ogni settimana » ci si accostava « d’una settimana » alla morte, al nulla (731). Ma ecco il tarlo: questa che faceva ammalare era «la verità »,

quella era solo «la fede ». È il tarlo dell’« analisi». « Vivendole accanto » mai egli aveva avuto il dubbio che quella di lei fosse la salute. Il dubbio gli viene « analizzandola », « scrivendone ». Prima aveva fatto di tutto per essere ammesso nel cerchio di tanta salute, aveva tentato di « soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei [...]. Cosî seppi per qualche tempo muovermi come un uomo sano » (726). Ma poi, ahimé, avvenne che «la vita rise più forte di me » e il « qualche tempo » della salute fu finito (728). Se comunque il nichilismo di Zeno è la « verità », non è di certo una verità bella e salubre, al contrario; e l’indiscriminata umoristica leggerezza che dal nichilismo zampilla in chi, ciononostante, vuole rimanere a galla nella vita, non sembra sia proprio cosî allegra, né cosî al riparo da amare conseguenze. Tutta La coscienza infatti è, già lo dicemmo, un complesso movimento all’inverso del nichilismo e dello umorismo proprietà del nichilismo; è un nichilismo che variamente si torce a mordersi la coda che ride.

10. - NICHILISMO

E COSCIENZA.

Una metà abbondante del romanzo è dedicata all’autonarrazione e all’autoanalisi, da parte di Zeno, di due sue amare e mortificanti disavventure in fatto di amore: quella con la bella e ricca Ada che si rifiuta di diventare sua moglie nonostante il suo amore, e quella con la bella e povera Carla che accetta per un po’ di essere la sua amante ma che poi, appena trovato un vero amore, fieramente lo licenzia. Ebbene perché Ada prima lo snobba e infine gli si rifiuta per sempre? Perché lei è seria e lui non lo è abbastanza e non lo sembra affatto. Lo sarebbe anche, lo è in fondo, ma non vuole, non deve essere un uomo capace di

CAP.

220

III - ITALO

SVEVO

prendere sul serio qualcosa. È nei corollari, nei propositi del suo programmatico nichilismo. Ci tiene perciò a figurare davanti a lei come uno che ride e fa ridere di tutto e di tutti, di se stesso anzitutto, « dimenticando ch'io l’avevo scelta per la sua serietà » (659). Esagera, inventa perfino:

le racconta

le barzellette sporche e le avventure amorose che non ha mai avute. « Lo studente bizzarro e poco virtuoso » (665) è dunque respinto a causa dell’attributo principe del suo nichilismo. Ma è anche respinto per il suo nichilismo stesso: per la sua ossessione della morte e del nulla e per la conseguente non-importanza, non-valore, per lui, della vita. « Diminuendo il valore della vita — gli aveva opposto un giorno Ada — si rendeva questa anche più pericolante di quanto madre natura avesse voluto » (661). Come il seguito della storia dimostrerà, Zeno portava invece nella sua natura segreta, a sua insaputa, un’altra verità:

una

serietà, appunto

una

« coscienza » (morale),

Augusta, più brutta e più anziana ma

che

anche più penetrante

d’intuito della sorella Ada, nonché più buona e generosa, intravvede subito e se ne innamora. Tutta la famiglia (Augusta, Ada, altre due sorelle, la madre e il padre) congiura a ordire il matrimonio di Zeno, invece che con Ada, con Augusta. Zeno la sposa con la sensazione segreta d’essere la vittima appunto d’un raggiro. Invece il matrimonio andrà benissimo: la donna coscienziosa si era coniugata alla nascosta coscienza di Zeno, dall’unione di due coscienze sgorgherà poi la polla d’un amore durevole e tranquillo. Ada invece, la seria ma egoista, la bella ma superficiale, sposerà una specie di Zeno inverso, Guido di nome: serio e coscienzioso all'apparenza, in realtà un brillante incosciente che la distruggerà.

Un tirocinio del tutto analogo dall’incoscienza scienza

è l’avventura,

pure

citata, di Zeno

alla co-

già sposato

con

Carla, la povera e bella fanciulla che studia canto e che il borghese ricco e sfaccendato, con l’alibi del mecenatismo e della protezione, convince all'amore. Il rapporto viene infilato, come di consueto, alla leggera, ma poi si carica di tensioni, complicazioni, sorprese amare sempre più gravi. Contro ogni aspettativa era una cosa seria anche quella. La stessa fanciulla in sé gli si rivela assai più seria, umana e profonda di quanto aveva supposto; ed egualmente la sua propria infedeltà assai più grave ed ignobile. L'avventura s’in-

NICHILISMO

E COSCIENZA

221

nalza ben presto fra lui e Augusta «come una grande ombra fosca » (751). Sa ormai di tradire, spesso con la medesima bugia, con il medesimo «veleno », « tutte e due le donne

e tutto

l’amore,

il mio

e il loro » (763). Era stata

una bugia, per esempio, ciò che aveva fin dall’inizio convinto Carla a concedersi: le aveva detto che lui stimava ma non amava sua moglie. Ma l’aveva subito sentita, quella bugia, come

un

«crimine

vigliacco », ne

aveva

provato

« inquie-

tudine e rimorso ». Il rientro nell’ordine che poi seguirà non ha però bisogno di far senz’altro ricorso al senso del peccato, alla coscienza morale in senso stretto (che ora si ammette ed ora no: «di rimorso non v'era traccia », 773). Bastano i mille molto ovvii e realistici inconvenienti della relazione, bastano le sue « molte seccature » a rendergliela abbastanza incresciosa. Eccolo seccato di dover mentire, seccato di dover fare all'amore nella stanzetta stretta e soffocata, seccato di dover sentite i morsi di coscienza, nonché i pianti della poverina che gli è attaccata ormai più di quanto lui le sia attaccato, che è ormai gelosa di sua moglie, che patisce

tutta la precarietà del rapporto, che pretende sempre di più: di averlo per tutta una notte, di passeggiare ai giardini a braccetto con lui, d’essere presentata come sua moglie. C'è poi la solita delusione sulle aspettative di felicità, la rarità dei momenti, oltre che d’« amore », di vero puro bene. E altre ombre ancora che s’affacciano dai gesti e dalle parole financo più semplici, come dall’aggettivo « primo » nella frase di lei « Tu sei il mio primo amante », che potrebbe voler dire: primo della serie. (Ma non è precisamente tutto ciò già coscienza morale, cioè realistica presa di coscienza e com-

plessiva valutazione d’una vera realtà?). Soprattutto c'è l’umanità di lei, che prende molto più sul serio di lui e se stessa e l’amore, e a cui non basta quel provvisorio rapporto. Ne segue che, appena avvistata una garanzia migliore nel nuovo, più giovane e più serio maestro di canto, il meno giovane e meno serio ha il calcio che si merita. Tutto l’episodio, tutto inventato quale è, riconferma in Svevo una attitudine straordinaria al realismo della verità anche solo verosimile. Tuttavia ecco, dopo aver appena toccata l’altra verità (una verità morale di radice antinichilista), subito un rientro nella propria verità. La riemersione della coscienza, più vivida che mai in quest’episodio in cui era più

che mai sprofondata,

e il ritorno all'amore fedele non

av-

CAP.

222

III - ITALO

SVEVO

vengono in Zeno in forza d’una decisa scelta del bene contro il male, bensi per imposizione di circostanze e di volontà estranee a lui. Zeno non è capace, da se stesso, di essere buono o di tornar buono. È solo capace di provare talvolta inquietudine di coscienza per le sue debolezze. Ma anche questa « coscienza » risprofonda di nuovo in una imputazione di tutto alla fatalità, alle « forze sregolate della natura » di cui lui non

sarebbe

che un

« giocattolo » (811).

Ma

si

imputa pure il tutto un’altra volta alla « malattia» di cui sopra, malattia in cui egli era ricaduto per assenza di fede, sinonimo anche qui « senilità », di decandentismo nichilistico (766). Rientra comunque ma solo a metà, solo passivamente, nella « salute e onestà » (765: in endiade, dunque sinonimi) della sua casa, « una corrente di acqua limpida ». A quella corrente si « abbandonava », la corrente lo « trasportava » ma non lo « nettava ». « Tutt'altro! riceveva la mia sozzura » (819). Una vera purificazione ci sarebbe voluta, una confessione. Propone di tutto confessare a sua moglie. Non ne fa nulla.

11. - NICHILISMO

E BONTA.

Il problema della possibiltà o meno della bontà, vale a dire d’un valore morale come opera dell’uomo, di una « coscienza » insomma non solo passiva ma attiva, è il tema del lungo capitolo successivo: « Storia di una associazione commerciale ». Potrà Zeno, anzi potrà in genere l’uomo essere veramente buono? Amare puramente e disinteressatamente? Creare dei valori? Essere davvero libero e responsabile del bene (o del male) che compie? Vecchia questione! Vi si erano accapigliati pelagiani e agostiniani, gesuiti e quietisti, Erasmo e Lutero e, per citare gli ultimi in ordine di tempo, Sartre e Lévi-Strauss: pare infatti il nocciolo della disputa intorno allo strutturalismo. La domanda, a cui i primi segnati nei vari binomi qui citati

rispondono

sf e i secondi no, è se l’uomo

servo l’arbitrio, se l’uomo venga invece ogni volta tura, dalla struttura, dalla destino o dal caso, da Dio que sotterranea anche in

abbia libero o

pensi, parli, agisca lui stesso o se pensato, parlato, agito: dalla nasocietà, dal peso del passato, dal o dal diavolo. La questione, ovunSvevo, è già pid volte anche af-

NICHILISMO

E BONTÀ

225,

fiorata. Ma il fatto che ora egli la tratti ex professo significa che le risposte che si è dato finora gli paiono ben insufficienti. Alfonso era stato vittima di un destino avvetso, Emilio del vuoto metafisico e del cieco determinismo universale e Zeno, finora, se vizioso una vittima delle « forze sregolate della natura » o se virtuoso il risultato di felici combinazioni o necessità. Ben rari, in tutta la narrativa sveviana, i momenti di puro amore disinteressato: appena due fra Emilio e Angiolina (con il sospetto del « sogno ») e appena uno fra Zeno e Carla (791). Puro e autentico sembra, è vero, l’amore di Augusta, però fondato sull’« illusione » della fede. La questione si pone del tutto esplicita a questo punto in quanto Zeno si vede chiamato molto esplicitamente a compiere una buona azione. Il cognato Guido s’è improvvisato cavaliere d’industria, s'è lanciato in una spericolata impresa commerciale e si trova già nei guai. Ne va della vita di Ada e dei suoi. Zeno, che è vissuto finora di rendita, si decide seriamente a lavorare con lui per aiutarlo e « senza alcun utile per sé » (870). Aiutare un uomo che ti ha sottratto la donna bella e amata, aiutare una donna che ti ha respinto e che, di più, accanto a quell'uomo si è ormai ammalata (morbo di Basedow) e imbruttita, aiutare questo stesso uomo che è la pecora nera di tutta la parentela, che tradisce la moglie con la segretaria, che agli affari più che impegnarsi ci gioca, dedito più agli amori che ai lavori: tutto questo se ‘non è quella bontà pura, la sola « luce che a sprazzi e a istanti

illumina

l’oscuro

animo

umano » (916),

che cosa

è

mai bontà? Zeno, che ha ancora una gamba che zoppica da quando Ada gli ha negato l’amore, ora corre dalla casa all’ufficio e da un affare all’altro. Si sente, infatti, buono, immensamente buono. È davvero «l’uomo migliore della famiglia », cioè della parentela, tutti i componenti di questa ormai lo riconoscono, quelli stessi che l'avevano a suo tempo raggirato non gli nascondono che Ada avrebbe fatto molto meglio a sposare lui, non glielo nasconde un giorno neppure Ada, il che lo guarisce d’un tratto da tutti i suoi dolori lombali, benché solo fino a quando di lf a poco egli è costretto a verificare che non era affatto, da parte di lei, amore, che lei era solo una « egoista » (896). Ciononostante la sua buona azione va avanti. Profilandosi la catastrofe finanziaria,

egli decide di sacrificare per Ada, Guido e figli una parte del suo patrimonio. Non sarà necessario perché a catastrofe

224

CAP. III - ITALO

SVEVO

già in atto egli arrischia invece per essi una stressante ma fortunosa giocata in borsa che ricupera per gran parte le perdite. Dopodiché la questione si direbbe risolta, almeno a fatti, in senso più che positivo. Resta invece alla fine ancora aperta. « Sono io buono o cattivo? » si chiede ancora Zeno (869).

Resta anzi alla fine negativamente risolta, e la supposta bontà relegata nel mondo dei «sogni», delle « illusioni », della « fede ». Come i bambini che quando sono cattivi credono che dalla cattiveria si guarisce, cosî io, egli si dice, « volli credere di nuovo cosî » (di poter essere, di essere stato buono), altrimenti « avrei dovuto piangere per me, per Guido e per la tristissima nostra vita. Il proposito rinnovò l’illusione » (870). Dunque bontà creduta e illusa, non reale. Tutta

intera, infatti, quell’impresa di aiuto e di amore si era esaurita in impulsi, sentimenti e propositi; anche in una effettiva somma di lavoro, ma disordinato e inefficace. L’unico aiuto effettivo era venuto dalla ben più avventata e fortunosa che coraggiosa giocata in borsa: dunque frutto ben più di fortuna che di virti. Per veramente aiutare Guido e i suoi e cioè « per far vivere una casa commerciale » bisognava « crearle un lavoro di ogni giorno e questo si può raggiungere lavorando ogni ora attorno a una otganizzazione. Non ero io che potevo fare una cosa simile, né mi pareva giusto di sottopormi a forza di bontà alla condanna della noia a vita » (872). Illusione dunque e non bontà: gli costerà « uno sforzo immane a spogliarsi di quest’illusione » (873). Illusorie, rettoriche alla pari risultano alla fine le sensazioni esaltanti di « salute », di « forza » e di efficienza che proverà durante l’epica giocata e poi vittoria: « Ero tutto salute e forza [...]. Tutto era salute e forza intorno a me [...]. In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura»

Morale della favola:

(918).

l’uomo non è realmente buono o

lo è, al più, «a sprazzi e ad istanti » (872), comunque

ficienti ed effimeri. La conclusione! simistica

e peggioristica

rispetto

inef-

è, per la verità, pes-

almeno

a Svevo

in per-

. 1 È la conclusione pure del lungo racconto incompiuto Corto viaggio sentimentale, composto subito dopo La coscienza. Anche qui x la bontà è velleitaria, è «favola di religiosi ». La realtà dell’uomo è x cattiva. Buono è solo il sogno.

ANCORA

UN’ALTRA

VERITÀ

225

sona che fu capace di «lavorare ogni giorno e ogni ora attorno a una organizzazione ». Ma la conclusione è illegittima anche rispetto a Zeno, perché una bontà morale si misura più sulla sincera buona volontà che sull’efficienza, né resta del tutto compromessa dal fatto che alla buona volontà si combinano altri impulsi moralmente neutri o difettosi come amore e ambizione.

__12. - ANCORA

UN’ALTRA

VERITA.

Ma l’altra verità più grande, l’estremo approdo significativo della Coscienza di Zeno è un altro: è la presa di coscienza della « originalità della vita ». Nulla quanto la pronta replica di Zeno a Guido (che, ormai sull’orlo della bancarotta, si lamenta che la vita è «ingiusta e dura ») è in grado di rizzare le orecchie del lettore all’ascolto: « La vita non è né brutta né bella, ma è originale » (869). Le scoperte

più interessanti sono riservate a chi, sulla spia di quest’« originale », rilegge il romanzo alla ricerca dei vati significati che il termine, con i suoi sinonimi e affini, assume via via. Il senso immediato è che la vita è originale perché vi succedono le cose più inattese, più insolite, tutto il contrario spesso di quanto logicamente vi si attende: che, per esempio, all'uomo disprezzato e ripudiato tutto vada poi bene e a quello preferito e prescelto tutto male, a lui e a chi l’ha prescelto. Alla pagina citata però, la pagina qualitativamente più intensa del libro, vari altri significati del termine « originale » arrivano in breve al pettine. È il momento solenne in cui l’uomo in Zeno perviene a guatdare la vita propria e altrui come se la vedesse « per la prima volta » e come da lontano e dall’alto, come uno che « non vi fosse stato abituato ». In quel momento rimane « senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo ». Il senso si allarga dunque subito a indicare la vita immensa, complicata e assurda (« senza scopo »). Ma subito dopo un altro significato s’affaccia: quella della vita inesplicabile e misteriosa. Misteriosa in due punti soprattutto: nei « corpi celesti appesi lassi perché si vedano ma non si tocchino »; e nella « morte », nel « mistero che circonda la morte ». E ancora un ultimo significato: la vita è originale, è « bizzarra » ed è « strana » per una strana aporia che divide l’uomo e la vita, al punto 15

CAP. III - ITALO

226

SVEVO

che l’uomo a pensarci concluderà d’esservi « stato messo dentro per sbaglio e che non vi appartiene » (869). L'uomo non appartiene a un mondo come questo, come dire che appartiene a un altro mondo da cui è stato tolto o in cui non è stato messo per essere messo invece in questo mondo sbagliato. Sono quattro accezioni della vita « originale » che arrivano al pettine di questa pagina come nodi a poco a poco formati attraverso tutte le altre pagine: attraverso tutte le stranezze inaspettate della vicenda e tutte le serietà che il ridanciano protagonista non s’aspettava di trovare. E men che meno s’aspettava di trovare l’ultima, quella che porta la sua « coscienza » più lontano, più a fondo e pit in alto che mai: il brivido religioso davanti alla inesplicabile arcana stranezza, ai segreti perché della vita e della morte. In questa prospettiva anche l’ironica tematica antipsicoanalitica in cui s'imposta esteriormente il romanzo con la sua parodia dell’autopsicoanalisi acquista una dimensione di profondità, perché allora l’ironia aggiunge il senso d’un’irrisione alla pretesa freudiana di esaurire l’insondabile. Soprattutto le pagine dedicate al presunto edipico rapporto di Zeno con il padre sono costellate di motti come: « Ricordo tutto ma non intendo niente » (625); « Non si sa che cosa siano, ma si sa che vi sono » (667); « Non lo so più ma ignoro anche tant’altre cose della mia vita » (654).

Misteriosa, ovunque la vita, un tale che gli « complicazione della « macchina E continua:

inaccessibile all’umana comprensione è, poi, inestricabilmente complicata. Alle parole di spiega come il mal di gamba dipende dalla enorme » dei « cinquantaquattro ordigni » mostruosa delle gambe », Zeno trasecola.

«Naturalmente

tro ordigni ma

una

non

complicazione

riscontrai

enorme

i cinquantaquat-

che perdette

il

suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione » (682). Mi-

steriosa ancora è l’impressione che la vita ci dà d’essere essa stessa essenzialmente malattia: tutta un unico morbo di Basedow diversamente dosato. A un estremo sta Basedow (« generosissimo, folle consumo di forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito d’un cuore sfrenato ») — all’altro estremo il contrario: avarizia, lentezza e poltronaggine vitale, gli abietti longevi. In mezzo gli intermedi, che hanno un po’ di Basedow e un po’ del suo contrario. Cosî si raggiunge l’equilibrio fra tendenze contrarie. Ma la vera salute manca a tutti. Esi-

ENIGMI

FINALI

227

stono solo veleni e controveleni. « In qualunque posto dell'universo ci si stabilisce si finisce coll’inquinarsi » (858). Nessuna meraviglia, allora, se tutti questi misteri, stupori e brividi seminati per strada si gonfiano verso la fine nella testa di Zeno in « un suo pensiero » segreto e folle, che si rifiuta di rivelare, che si rifiuta lui stesso di pensare per paura di « finire al manicomio ». Era un pensiero, a dire di Zeno, di un’importanza enorme, di quell’importanzà che mio padre attribuî a quei pensieri ch’ebbe poco prima di morire e che per lui non seppe ricordare » (940). Si ricorderà che i pensieri del padre erano religiosi. Sarà stato religioso anche il pensiero finale del figlio, somma delle esperienze e delle riflessioni della sua coscienza? Doveva essere, comunque, di certo, in quanto folle, agli antipodi del suo razionali-

smo nichilistico. E di certo non è questo il pensiero grandiosamente nichilistico con cui come di strappo il libro si chiude. Zeno prevede (nel 1923) il disastro ecologico e la catastrofe ato-

mica che l’uomo tecnico provocherà e con cui si eliminerà un giorno dalla faccia della terra. Sarà finalmente il ritorno « dalla malattia alla salute », ossia dall’essere al nulla. Il nichilista impenitente l’ha vinta un’altra volta. Il nulla adorato brilla e ride per ultimo in fondo al suo ultimo libro. Arbitrariamente tuttavia dopo tanta « coscienza », dopo tante domande aperte.

13. - ENIGMI

FINALI.

Le domande sono ancora aperte o si riaprono, infatti, anche nelle altre buone cento pagine in cui Zeno dopo La coscienza ancora ci racconta di sé ormai vecchio. Si tratta di quattro capitoli, incongruamente allineati nell'opera omnia con i racconti, e che s’intitolano: « Le confessioni del vegliardo », « Umbertino », « Il mio ozio », « Un contratto ». Sono pagine non inferiori in media a quelle de La Coscienza, talvolta superiori, composte come pare per gran parte nel 1928 ultimo anno di vita dell’autore. L’intonazione è, un’altra

volta, satirico-umoristica, ma intrisa inoltre di elegiaca bonarietà. Vi si fa della malinconica ironia sulle arie contestative del figlio Alfio, sulle manie religiose, prima perfezionistiche, poi pietistico-vedovili della figlia Antonia (che vuole

CAP.

228

III - ITALO

SVEVO

tutti a piangere sul suo sacro pianto, a venerare il suo dolore di vedova sacrale), su un nuovo excursus extraconiugale da vecchio David che mira a rianimarsi in una ben calcolata avventura con una non troppo giovane e niente affatto ingenua Sulamita e che ne esce ancora una volta scornato (« si finisce coll’accorgersi che una intera persona non si può usare quale un medicinale »). « Un contratto » riferisce d’un imbroglio d’affari imbastito dal vecchio Zeno ai danni del genero Valentino. Morto costui, ecco però al riguardo i sen-

timenti dell’inveterato miscredente: « Con la solita debolezza di noi miscredenti che quando vediamo morire qualcuno crediamo che arrivati al di là apprendano tutto, avrei voluto confessarmi a lui e domandargli perdono di quel tiro e anche di qualche altro che gli avevo giocato » (RS 402). È un altro di quei dubbi, di quelle incrinature di miscredenza che Svevo concede ai suoi sosia ma non a sé.

Ma l’incrinatura diviene frattura, frattura compromettente anzi irreparabile, durante le passeggiate di nonno Zeno con Umbertino il nipotino. Il racconto è dei più squisiti ed è del tutto esente da peggiorismo. Vecchio e bambino, la fine e il principio, camminano lungo i binari della ferrovia. Hanno potuto vedere dove i binari cominciano ma non dove finiscono,

nonostante

la grande

curiosità:

« Ogni

principio

è

tanto importante ed era tanto doloroso che non si potesse vedere quell’altra parte importante, la fine dei binari ». Si tratta un’altra volta del mistero che circonda la morte. E si tratta d’un’importanza di qualcosa, della fine appunto e del principio della vita. Nichilismo che s’incrina evidentemente, ma il peggio segue ora. Vecchio e bambino osservano insieme almeno la vita che si può vedere, la sua « macchina colossale ». E lo fanno «con oggettività e gioia interrotta da lampi di grande spavento ». Spavento? Di che cosa ha spavento il vecchio Zeno? Ha spavento anzitutto degli spaventi di Umbertino. Questi ha visto un carabiniere e ne ha riportato una paura misteriosa. Era dovuta al mistero del senso di colpa già annidato in lui che « nella sua breve esistenza » era già stato « minacciato e anche punito ». Poi Zeno si spaventa al pensiero

della adolescenza verso cui il nipotino s’avvia e di ciò che là l’aspetta: « Terribile è l’adolescenza perché si comincia allora a scoprite che la macchina (la vita) è fatta per addentare ». Ora lui è vecchio, quelle ferite sono guarite, gli spaventi

ENIGMI FINALI

229

hanno fatto posto alla serenità, alla rassegnazione, comunque anche a «una curiosità sempre viva ». Già, le domande sono ancora tante e le risposte poche o nulle. Ancora « non si capisce perché si nasca, si viva e si diventi vecchi » (383). Ma il vecchio ha anche certi spaventi del tutto personali, davvero inquietanti, anzi sconvolgenti: « Mi spaventa quando talvolta penso che la gente possa essere migliore di quanto io abbia sempre pensato o la vita più seriz di quanto mi sia sempre apparsa. Il sangue [allora] mi sale alla testa come se stesse per ribaltarmi » (335). Sarebbe infatti davvero il ribaltamento, il capovolgimento completo. Sarebbe la formale smentita della costante narrativa sveviana, il peggiorismo («la gente migliore »!). E sarebbe la smentita formale della costante ideologica sveviana, il nichilismo («la vita più seria »!). Sarebbe la fine della miscredenza e il principio della religione. Ma è Zeno o è

anche Svevo che si sente ribaltare la testa dai dubbi e dagli spaventi

citati?

L’enigma è di nuovo quasi tutto nel diaframma che distingue l’autore e il personaggio. Il diaframma si assottiglia quantomai, cosf a noi pare, nell’ultimo racconto di Svevo (estate

1928)

che

Livia

Veneziani

stessa

ci assicura

scritto

immediatamente prima che il marito partisse per il viaggio fatale. !* S’intitola, come per un presentimento, « La morte ». Sembra davvero che lo scrittore vi anticipi con piena lucidità di coscienza quella morte che di lî a giorni avrebbe dovuto affrontare con la coscienza intorpidita dallo choc traumatico. Ma lo fa anche qui, ahimé, per la interposta persona d’un certo Roberto marito d’una certa Teresa. Tuttavia il lettore bene informato avverte benissimo che qui il diaframma che discrimina autore e personaggio o è caduto del tutto o si è quantomai assottigliato. Roberto e Teresa sono, diciamo, Svevo e Livia almeno al 99 per cento. Il dramma di Roberto davanti alla morte e alla moglie, se non è esattamente quello di Svevo, ne è un’immagine: un’immagine di come Svevo avrebbe voluto che la sua morte fosse, di come invece teme che sarà, di come verrà di fatto interpretata da sua moglie e Ancora meglio in Corto viaggio sentimentale: « L’oscurità era la nostra meta [...]. Non poteva apprendere nulla di più nuovo, nulla di più alto, nulla di più amaro ». (0 ii, dh

CAP.

230

III - ITALO

SVEVO

di come vorrebbe, invece, che da sua moglie venisse interpretata. Come avrebbe voluto morire Roberto? Come un buon miscredente deve morire davanti a una moglie credente e come i buoni credenti non sanno tante volte morire: con lo stoicismo e la serenità di uno che affronta il nulla. Da tempo lui, a cui era bastato il pensiero della morte come nulla e a cui non era occorso

« il cielo » per essere mite e mise-

ricordioso nella vita, si proponeva tutto ciò, vi si esercitava. Invece la sua morte sarà quello che non avrebbe voluto: uno spavento.

Morirà

con spavento.

Tutta la sua stanza, mentre

egli morirà, sarà anzi « piena di spavento » (RS 263). Nulla di cosî strano: il coraggio può venir meno a tutti in quei momenti. Invece lo strano, anzi lo stranissimo c’è: nelle ragioni d’un simile spavento. Il futuro morente non tremerà né per il nulla che incombe, né per il dolore pur violento. Il dolore sarà ormai cessato quando lo spavento raggiungerà il limite estremo. Non sarà il dolore, ma sarà, in quel dolore, « il trionfo di qualcuno, di qualcuno che gioiva della sua giustizia. Parlò [cosî il morituro si immagina che farà quando morirà] di un suono di campana trionfale che l’accompagnava. E lui sentf che la sua colpa meritava tanto odio. Tutta la sua vita era stata una colpa, una grande colpa di cui ora voleva pentirsi [...]. Bisognava ascoltare quel suono. E le minacce! Le sue ultime parole già irrorate da lacrime furono: Io non sapevo » (262). Segue un pianto dirotto, un singhiozzo violento, il rantolo, l’agonia. « Egli aveva riconosciuta una colpa. Quale colpa? » si domanderà più tardi Teresa. E si risponderà: «la sua irreligiosità ». Cosî ella dovrà pensare che « all’ultimo momento si fosse convertito ». Ma chi scrive, ossia Svevo, subito aggiunge per levare ogni equivoco e con la malizia più dolce: «Tutto quello che restò di Roberto sulla terra cioè nel cuore di Teresa si convertî. Si convertf silenziosamente. Solo la fià » (263).

In questa « fià », « fiaba » molto probabilmente, ultima sillaba uscita dalla penna di Italo Svevo, svanisce inafferrabile il suo segreto: il segreto della sua estrema fede o meno in « Qualcuno », il segreto della colpa riconosciuta. Quale colpa? ci si domanda anche noi. Ma noi non sappiamo rispondere. Era veramente l’irreligiosità? O era semplicemente la colpa di esistere?

ENIGMI

FINALI

231

Era probabilmente soltanto la colpa di esistere. « Tutta la sua vita era stata una colpa » aveva appena detto. La frase sembra intelligibile soltanto nel senso che la morte gli era apparsa con spavento alla fine come la punizione irrogata alla colpa di esistere, magari pure irtogata da un dio giustiziere. Oltre che una malattia, l’esistenza è diventata ora anche una colpa. Ma può essere questa l’ultima verità di Italo Svevo? E può essere una verità seria? Seria in se stessa, seria nello scrittore? Certo è solo che la sfinge sulla faccia dell’uomo Svevo resta rigida fino alla fine. Ma è pure certo che la sua arte ha ormai rimesso in movimento domande che né lui, né nessuno ha potere di fermare. Non a risolvere l’enigma, semmai ad accentuarlo, comunque in senso positivo, può contribuire il grande saggio di Svevo su Joyce. L’aspetto più strano del saggio è l’interesse di questo miscredente precisamente per la « tragedia religiosa », come egli dice, di Dedalus-Joyce. È un interesse comprensivo,

anzi simpatizzante.

L'immagine

che ce ne trac-

cia è quella d’un miscredente ancora carico e invasato di spettri cattolici. Ci tiene a rilevare in Joyce la simpatia e il rispetto per la religione perduta. Riferisce d’aver lui stesso sentito da Joyce parole di ammirazione per i suoi educatori, i gesuiti. Cita con assenso Goldman che sostiene che senza la dottrina della Chiesa cattolica non s'intende l'Ulisse. È convinto che Joyce ha sempre sofferto per la perdita della sua fede. Parla del suo atteggiamento spirituale come d’un gesuitismo a rovescio, d’una fede a rovescio: stesse parole di prima ma con segno negativo. Bestemmia invece che adorazione. Ma, aggiunge, non questa era la sua intenzione, bensf il suo destino. Riferisce a lungo dell’episodio della madre che gli appare in forma spettrale, prega per lui, gli dimostra come la di lei preghiera è stata tante volte efficace a suo favore, lo incita a pregare. Pochi hanno visto cosf acutamente quanto Svevo nelle cause per cui Joyce perse la fede. Tre cose lo trattennero dal farsi (addirittura) gesuita: la timidezza, l'orgoglio, l’esigenza estetica. Ma ciò che decise, aggiunge, fu più di tutto Circe.

CAPITOLO

IV.

THOMAS MANN TEOLOGIA E IRONIA

1. - IL LABIRINTO.

L’opera di Thomas Mann è tale un lungo, secondo tutte le apparenze inconcludente, labirintico itinerario interiore — un labirinto in cui sembra smarrirsi di continuo lui stesso e di certo (salvo miracoli) tutti i suoi eroi — che si può disperare di mai acquisirne un dominio critico, disperare, una volta entrati, di uscirne. Il labirinto quasi si sente in ogni sua proposizione: intrecci stradali dallo svincolo spesso lento e non facile. Certo, date le complicate cose che quasi ogni volta si vogliono dire, era difficile o impossibile essere più chiari di parola e più organici di sintassi. La vertigine labirintica non ha origine nelle forme espressive, ma nelle cose: nelle verità irraggiungibili che si vogliono raggiungere, indicibili che si vogliono dire, incompossibili che si vogliono comporre e che l’ironia scompone sempre di nuovo; in una parola: in verità di cui mai o quasi si arriva a sapere con univoca precisione se siano date per vere senz’altro. Ne consegue il dire e disdire, il porre e togliere continuo del linguaggio manniano. Talvolta avviene che nei suoi libri si narra o si parla con semplicità, ingenuità, univocità: si può giurare che non è Mann, allora, che parla, ma un altro ch’egli fa parlare o raccontare, accompagnato fra le righe non si sa mai bene se dal sorriso dell’autore, o dalla sua ironia, o forse dalla sua incondizionata ma segreta partecipazione. È la famosa parodia manniana: altra sorgente di vertigine. Già sulla soglia della morte, in vicinanza dei suoi ottant'anni, egli andava ancora, con la sua insonne penna in mano (con il Felix Krull e con L’ingannato), tentando di districarsi dai suoi labirinti, forse intricandovisi invece ancora più.

CAP. IV - THOMAS

234

MANN

Vogliamo allora davvero entrarci anche noi? Domanda inutile: ci siamo già tutti dentro, più o meno, nel labirinto,

noi uomini del secolo XX. Siamo stati un po’ tutti, e lo sia-

mo ancora, più o meno, prigionieri nell’incantesimo della montagna incantata. Il labirinto è questa nostra epoca, e lo smarrito, il prigioniero, è il Zeitgeist, lo spirito del tempo. Il problema è, ormai, non se entrarvi, ma come

uscirne. La

epoca di Thomas Mann è ancora la nostra e continuerà ad esserlo finché essa, nelle sue espressioni culturali dorzizanti (le sole socialmente efficaci), non saprà rispondere che con un « vacuo silenzio » a chi « consapevolmente o inconsape-

volmente » l’interroga « circa un ultimo, più che personale, incondizionato senso di ogni fatica e attività vitale »!. Se miriamo ad acquisire una coscienza profonda di questa nostra età, ancora cosî incerta sulla verità dell’esistenza, Thomas Mann ci può essere utile quanto pochi. Egli non ha forse vinta l'incertezza, non ha espugnato il labirinto, o forse sf,

ma sa quanto pochi del labirinto come tale, perché in ben pochi quanto in lui il Zeitgeist si è incarnato e reso lucido alla coscienza. Egli non è Arianna bensî Teseo, ma è un Teseo che sa d’aver bisogno d’un’Arianna, anche se spesso non sa ancora di certo se un’Arianna realmente esista. Ci volgiamo a Thomas Mann con un certo ritardo, perché solo ora e cioè solo negli anni sessanta, gli studiosi sembrano avere concordemente superato la crisi critica, o quasi la catastrofe critica a suo riguardo, che negli anni cinquanta aveva seriamente messo in forse la sua grandezza e la sua autenticità. Irritazioni politiche e religiose avevano allora sobillato contro di lui tutta una catena di critici della Germania occidentale, feriti anzitutto nel loro nazionalismo e anticomunismo per il fatto che lo scrittore, esule in America, s'era fatto cittadino americano, declinava nel dopoguerra inviti su inviti a rimetter piede sul suolo tedesco, s’era espresso ostilmente (nel Dokfor Faustus e altrove) verso in genere il « germanesimo » (Deutschtum) e, cedendo finalmente a un invito, metteva finalmente piede in Germania, ma in quella dell'Est

(commemorazione

di Goethe

a Weimar

nel 1949).

Lo scandalo politico servi da miccia anche per attacchi di teologi (cristiano-protestanti) alla sua areligiosità e di esteti ! TH. Mann,

Der Zauberberg,

Stoccolma

1939, pp. 47-49.

IL LABIRINTO

DIS

alla sua validità artistica. Hans Egon Holthusen li rappresenta un po’ tutti quando conclude un suo libello antimanniano con la sentenza: « Chi è dunque Thomas Mann? Un grande talento, ma del tutto sprovvisto della dimensione del geniale » 2. E ben si capisce che cosa si intende con questa deficienza: una deficienza insieme estetica e religiosa: « Dove c'è il genio (vi si legge qualche pagina prima), là appare il vero come obiettivo essere, come cifra della trascendenza »}. Thomas Mann, olimpico qual era alla sua età, non accusò granché il colpo, ma la sua fama sf. Il sereno tornò solo dopo anni, e con il sereno rivendicazioni e risarcimenti autore-

voli. Da patte protestante però solo nel 1964 un teologo avvertiva che non era esatto vedere in lui senz’altro «un figlio perduto o un rinnegato » ‘ e che, per esempio, il Dokfor Faustus avrebbe potuto rappresentare benissimo, tutto sommato, «un fortissimo rinvio alla Grazia sotto segno negativo » °. Da parte invece cattolica già nel 1960 una studiosa svizzera

tentava

una

impegnativa

interpretazione

addirittura

« tomistica » di Thomas Mann®: il quale sarebbe «un naturalista » se visto in superficie, visto in profondità invece egli «è da iscrivere nella dinastia dei mistici tedeschi di Egli è un mistico che « vive la verità attraverso l’errore x È un onore che va assai più in là di quanto Mann si sarebbe presumibilmente aspettato. Egli stesso ne avrebbe riso, ma, sospettiamo, con rispetto: un rispetto che si deve alla intelligente coerenza interna di tutta questa critica « misticotomistica », anche da parte di chi non si sente affatto o non si sente senz’altro di condividerla. Noi stessi ci accontentiamo di condividere più modestamente il giudizio conclusivo di colui che noi (e non noi soltanto) consideriamo a tutt’oggi il massimo critico di Thomas Mann (e il libro che gli ha dedicato, Der ironische Deutsche, uno dei massimi exploit della ? H.E. Hortuusen,

Die Welt ohne Transzendenz, Amburgo

1949,

PIEDE i Ibidem, p. 34.

FIVE SCHAEDLICH, Thomas Mann

und das christliche Denken, Ber-

lino 1964, p. 21.

Ù Ibidem, DAS: 6 A. HeLLERBERG WENDRINER, Mystik der Gottesferne, Berna e Monaco

1960.

? Ibidem,

p. 6.

* Ibidem,

p. 9.

CAP. IV - THOMAS

236

MANN

critica contemporanea): «La verità dell’opera manniana è forse la più estrema che un testimone e non un superatore — un Orazio e non un Fortinbraccio — ha potuto carpire a un’epoca la quale s’era discretamente vantata di non vivere nella verità » ?. Parole che dicono molto di meno ma, come vedremo, non molto di diverso dalle parole della studiosa svizzera citata. Thomas Mann ha detto la serietà della verità attraverso l’ironia dell’errore, ma egli non ha saputo per lo più dominare la sua stessa ironia a tal punto da impedire che qualche ombra d’ironia cadesse sulla verità, e qualche ombra di serietà anche sull’errore. Abbiamo dunque già scelta la nostra guida critica, anche se non pedissequa, nel labirinto manniano: Erich Heller. Ma ancora più che a lui ci affideremo proprio a Thomas Mann stesso: e non tanto al critico di se stesso e neppure all’artista (poeta) in quanto, come di continuo avviene in lui, creando arte e cioè narrando, di continuo critica e giudica la propria creazione. Ma ci fideremo soprattutto di lui là dove l’artista tocca indiscutibilmente i vertici dell’arte (poesia) pura e grande. Il che avviene senza dubbio nei Budderbrooks, nel Torio Kròger, nella Morte a Venezia, nella Montagna incantata, in Giuseppe e i suoi fratelli, nel Doktor Faustus”.

2. - ARTISTA

CONTRO

L’ARTE.

La lunga arte di Thomas Mann ha difetti, eccessi, rilassamenti, stasi e crisi. Egli ne era cosciente forse quanto nes° E. HeLLER, Thomas Mann. Der ironische Deutsche, Francoforte 1050951 !° Sia lecito avvertire il lettore italiano che parecchie versioni italiane di Thomas Mann lasciano a desiderare. Ma egli è d’una tale ricchezza e raffinatezza lessicale, fonetica, sintattica che tradurlo in qualsiasi lingua senza perdite e impoverimenti è impossibile. Inoltre essendo la sua arte narrativa fondata per una buona parte su indirette

vibrazioni ironiche e parodistiche affidate al ritmo e al suono dello stile e ad altre appena percettibili nuances, è fatale che in una versione esse vadano in parte perdute. Bruno Arzeni in Giuseppe e i suoi fratelli e Marianello Marianelli nelle Considerazioni d’un impolitico sono i traduttori migliori, i soli forse finora all’altezza dell’impresa. Invece sono stati soprattutto mal serviti la Montagna incantata (la cui versione contiene gravi errori anche di senso) e il Doktor Faustus che è in certe parti, l’ammettiamo, intraducibile. I testi di Mann che noi citiamo sono di nostra traduzione.

ARTISTA

CONTRO

L’ARTE

237

suno !!: non l’avrebbe altrimenti sempre di nuovo ripresa incontentabile per sessant'anni continui, e ogni volta cosî diversa per struttura e tematica, pur in una mirabile continuità di fondo. Gli si rimprovera un eccesso di realismo, una pedante, anche se elegante descrittività, una specie di avarizia artistica che non sa mai scegliere e scartare, ma che raccoglie, utilizza, inserisce tutto. Non c’è quasi figura o figurina che egli non ti dipinga dalla testa ai piedi, che non ti vesta di tutto punto ad ogni c'è ambiente che egli non ti che egli ometta di descriverti to al realismo psicologico dei

quasi apparizione in scena. Non arredi in ogni angolo, paesaggio generosamente. Stessa cosa quanprocessi interiori, sempre o quasi perseguiti in ogni dettaglio. Rari gli stacchi, le zone d’ombra, le soluzioni di continuità. Certo è un continuo stupore notare che è sempre tutto vero nel realismo manniano: vestiti, supellettili, gesti e sentimenti sono quelli esatti, impeccabili, necessari del personaggio e dell’epoca in questione. Ed è una festa per una lingua lessicalmente ricchissima come la tedesca. E non è collezionismo fine a se stesso: in ogni particolare si sospettano o spesso si dimostrano significativi, anche se lontani, agganci con l’anima dell’opera in questione. Ma la prolissità, la pedanteria sono innegabili e fanno spazientire soprattutto il lettore assetato di densità lirica o drammatica. Certo arrivano al momento buono le pagine intense, fortissimi nodi, scorci e divampi, ma si fanno aspettare. Come mai? È soltanto una eredità non superata del realismo narrativo ottocentesco? È un uomo che prima di affidarsi allo «spirito » e cioè in qualche modo all’aria e al vuoto, vuole affondare bene i piedi in terra, nella realtà? È lo smarrito nel «labirinto » che, alla ricerca d’un bandolo e non avendo la minima idea di dove e come si riesca, deve ben badare ad esplorare punto per punto tutto? O è l’uomo a cui il labirinto tante volte piace e, prima di uscirne, lo vuole perlustrare e godere veramente tutto? O è semplicemente il bisogno di esibire fino in fondo le sue straordinarie attitudini espressive, per cosî dire, orizzontali della realtà? O tutto si spiega forse con un solo nome, come vedremo, con Schopenhauer?

1! Cfr. il discorso conviviale suo 50° compleanno nel 1925.

tenuto

da Mann

in occasione

del

CAP. IV - THOMAS

238

MANN

Complessità e ambiguità manniana! Non è finita. Si rimprovera infatti a Mann, specie a cominciare dalla Morte 4 Venezia, anche un eccesso del tutto opposto: l’allegorismo. Esso è però dialetticamente provocato dal primo. Non si crea arte con la sola ricognizione del reale. Mann lo sapeva o lo seppe ben presto, e allora, pur sempre perseverando nel suo inestirpabile realismo, si sente sempre più, dalla Morte a Venezia in poi, incalzato a simultaneamente superarlo caricando i particolari della realtà, gli ordini e le figure concreti, di proiezioni significanti altro da sé. Cosîf la gondola è la bara, il gondoliere la morte, la « montagna incantata » tutta l’epoca, il « doktor Faustus » tutta la Germania e via dicendo. Tutto significa tutto, e in tale universale significatività reciproca e cioè spiritualizzazione delle cose, il reale rischia di srealizzarsi del tutto. Sono grossi difetti o almeno pericolose tendenze che paiono investire tutta l’arte manniana, che paiono tutta com-

prometterla in quanto arte. Se arte è fusione di carne e di spirito, né il realismo (carne senza spirito), né l’allegorismo (spirito

senza

carne)

lo possono

essere.

Senonché

sembra ne sia cosi consapevole quanto Mann è un’arte estremamente

nessuno

stesso. La sua

autocritica 72 4ct4, un’arte che di con-

tinuo si crea e che di continuo criticamente si distrugge. Altro grande difetto, il più grande di tutti, come è stato detto e ridetto: la dominante critica, anzi la tirannia critica nell’arte di Thomas Mann; intellettualismo, saggismo, culturismo, filosofia, ideologia, non arte. Infatti: i suoi capolavori narrativi più indiscussi sono tutti, a parte eccezioni, storie di artisti in crisi (Tonio Kròger) o di artisti naufraghi e fallimentari (Hanno Buddenbrook, Gustav Aschenbach e Adrian Leverkihn) o di artisti-attori fasulli (Felix Krull). Come si possono costruire capolavori d’arte con simili processi indiziari contro l’arte? Ecco l’enigma. E, prima, come si è arrivati a tanto sospetto e perché? « Noi abbiamo l’arte per non naufragare a causa della verità ». È quasi certo

che quando

Thomas

Mann,

diciannovenne

(1894),

ab-

bandonò incompiuta la scuola tecnica, l’azienda commerciale di suo padre appena defunto e la sua Lubecca, e venne a Monaco di Baviera e là, nella città allora più artistica della Germania, si diede a scrivere racconti, egli obbediva, consapevole o no, all’imperativo implicito di quest’aforisma, uno dei tanti aforismi di Nietzsche, che è con Schopenhauer il re-

ARTISTA

CONTRO

L’ARTE

239

sponsabile della Weltanschauung manniana di partenza: fuggiva, nell’arte, dalla intollerabile verità d’una città e di una professione prosastica. È dubbio però che fin dal primo principio egli avesse avvertita o condivisa l’itonia con cui Nietzsche aveva premuto, nel suo aforisma, sulla parola « arte ». Tavola di salvezza nel naufragio l’arte? Ma è una tavola di paglia! La « matita » dello scrittore, cioè la sua arte, è « un fuscello di paglia » a cui il naufrago s’aggrappa, « sognando, benché sia già annegato, una speranza di salvazione ». Chi l’ha detto? Non Nietzsche ma Kafka. Sembra però un Nietzsche plagiato da un Kafka che ne ha subito intuita l’ironia. Ma l’intuirà ben presto anche Thomas Mann. Che cosa era successo? Anzitutto tutto il contrario d’un insuccesso dell’esordiente giovane scrittore. I suoi esordi sono dei più «azzurri » che si ricordino. I suoi primi racconti piacciono subito a lettori, editori e critici anche di vaglia. Richieste, incoraggiamenti fioccano da più parti, salgono subito in alto le ambizioni dell’improvvisato scrittore. Appena ventiquattrenne ha già finita una ambiziosissima opera prima, i Buddenbrooks, la più grossa e magistrale opera prima che il Novecento registri. Siamo ancora sulla cresta dell'onda, quando il fratello Heinrich riceve da Thomas una lettera dov’è scritto che «la letteratura è la morte » !?. Era l'annuncio del Torio Kroger, del letterato in piena crisi. Come mai? Già, la risposta non è mai semplice a una domanda su Thomas Mann. Frugando nella biografia, si possono rintracciare suoi lamenti a causa della solitudine, nostalgie per una ordinata, costruttiva vita borghese, tentativi (vani) per un reinserimento professionale: come giornalista, redattore di rivista, studente al politecnico. In fondo ha capito con spavento che la vita o si vive o si rappresenta e che è impossibile o è arduo un terzo in questo dilemma !. Poi lunghi mesi di Sobèzze in Italia, una passione alternata di entusiasmi burg) a cui mente

e depressioni per un giovane pittore monacense (Ehrene probabilmente altre fascinose vertigini del dio eros l’artista puro è fatalmente esposto, spettacoli scarsaedificanti nella élite artistica di Monaco... Tutti lacci

1 29 1 La riscattato. Questo è

dicembre 1900. stessa cosa anche in Kafka: « Con lo scrivere non mi sono Per tutta la vita io sono morto e ora moritò davvero (...). lo scrittore » (Epistolario, Milano 1963, p. 459 s.).

CAP. IV - THOMAS

240

MANN

e abissi da cui non parve vero a Mann di potersi a un tratto salvare nel matrimonio con una giovane d’elevata borghesia. La tavola di salvezza era dunque un’altra: un riancoraggio nell'ordine antico. In cinque anni (1905-1910) quattro figli. Era destinato a salvarsi cosî o s’era salvato in tempo? Nel 1910 sua sorella Carla, artista-attrice fallita, si suicidava. Klaus, il suo primogenito, anche lui scrittore e artista, farà nel 1949 la stessa fine. Ma tutto ciò non è che superficiale, biografica increspatura esplicativa del paradosso di Thomas Mann, artista che milita contro l’arte, la cui arte anzi si sostanzia e ingrandisce in questa milizia. Giacché egli sarà sempre un artista e grande, spesso perfino nella sua saggistica, e il suo capolavoro d’artista è ancora di là da venire e sarà il più terribile dei suoi atti di accusa

contro

l’arte:

il Doktor

Faustus

(1947).

La vera spiegazione è d’ordine più profondo, più che personale. Thomas Mann è un pettine a cui arrivano, contro cui urtano e attraverso cui si sgretolano nodi fatali del Zeitgeist.

Quali nodi? Qui la risposta non è cosî difficile per chi sa che la letteratura è il sismografo di tutti più sensibile alle perturbazioni spirituali precisamente del Zeitgeist, e sa che la letteratura, non solo tedesca, da un secolo a questa parte, è stata investita dai venti cosmici soprattutto di due maligne stelle: dal pensiero di Schopenhauer e di Nietzsche. Thomas Mann non fa eccezione, tutt'altro. Un ragazzo della sua intelligenza e sensibilità, che a quattordici anni già abbozza un « dramma anticlericale », Der Priester (« Il prete »), che a diciotto, interrompendo di suo arbitrio gli studi tecnicoliceali, si ribella a tutta una tradizione educativa cristiano-borghese, è molto supponibile che a venti sarà una specie di terra di nessuno pronta ad assorbire i potenti fascini notturni di ideologie di moda, antitetiche a quanto egli aveva già ripudiato e che gli giungevano fornite della irresistibile credibilità d’una meravigliosa espressione letteraria: le ideologie di due forti pensatori e insieme affascinanti scrittori. Schopenhauer lo conquistò subito interamente. Egual-

mente, ma con segreta riserva, Nietzsche. A queste due stelle del suo destino se ne accosterà ben presto una terza egual mente fatale: Wagner e la sua musica. Erano però entrambi già fino al midollo

anzitutto,

come

schopenhaueriani.

egli ricorderà

Quella

per il primo

più di trent'anni

dopo,

fu

SCHOPENHAUER

AL VAGLIO

241

« un’ubriacatuta metafisica d’ordine passionale e mistico più che propriamente filosofico » !#. Conseguenza fu che l’invasato prese la penna e si dedicò di tutto puntiglio a verificare narrativamente punto per punto, mettendo a soqquadro tutto il mondo delle sue esperienze, la metafisica schopenhaueriana: furono i Buddenbrooks, i quali stanno a Schopenhauer come suppergiù il De rerum natura sta a Epicuro e la Divina Commedia sta a Tommaso d’Aquino. Dopo l’analisi che in questo senso ce ne ha fatto Erich Heller! crediamo sia difficile per chiunque dubitarne. Non solo, però, l’acutissimo interprete ha messo a nudo, di tra la viva carne dei Buddenbrooks, lo scheletro evidente del sistema metafisico schopenhaueriano, ma inoltre anche le varianti deviazionistiche, anzi sovversive, introdotte, dal pensiero prima di Nietzsche e poi di Wagner, ai punti critici di quel sistema. Ma tutto è avvenuto in Thomas Mann certo non per analitico calcolo, bensî per una specie di oscuro impulso divinatorio, artistico nel senso intero del termine. Ed è quanto gli ha consentito di acquisire dominio critico prima su Schopenhauer con l’aiuto di Nietzsche e di Wagner, e poi, con l’aiuto della sola propria intuizione e ironia (dell’intera sua arte), acquisire dominio anche sugli

altri due e su tutto il loro comune schopenhauerismo di fondo. Una impresa che inizia appena con i Buddenbrooks, ma che si continua

e si consuma

attraverso

tutta

l’opera narrativa

manniana. Inseguire le avventure, le ironie, i capitomboli, i drammi e le tragedie in cui incappa la filosofia di Schopenhauer e dei suoi adepti lungo tutta la integrale poesia (che è profezia) di Thomas Mann: ecco uno dei più interessanti itinerari critici che sia dato percorrere.

3. - SCHOPENHAUER

AL VAGLIO.

Elementi comuni al platonismo, al kantismo, al buddhismo e (previa razionalizzazione) al cristianesimo — cioè pes-

simismo verso il mondo del molteplice empirico, conseguente spiritualismo antimondano, il peccato, la redenzione — fornirono, come si sa, i materiali per la esteticamente meravigliosa colata della filosofia schopenhaueriana. Pessimista dunque per 4 « Die Neue Rundschau », 1930, p. 742. 4 E. HELLER, op. cît., pp. 9-60. 16

242

CAP.

IV - THOMAS

MANN

principio, e certo anche per carattere e amare esperienze, e inoltre ateo impenitente, Schopenhauer concepî cattivo per

principio il suo « Assoluto » e inoltre immanente al mondo;

e lo defini Wille, « volontà ». Non una volontà, ben s'intende, del genere di quella che, previa intelligenza, è chiamata a sce-

gliere il bene contro il male, ma volontà cieca e che, radical-

mente

volitiva e cattiva qual è, non può non volere, e non

volere precisamente il male: cioè questo mondo, questa vita, questa cattiva vita unica esistente. In altre parole la volontà non può non volere ab «eterno in aeternum di realizzarsi nelle forme del mondo, di individualizzarsi, di moltiplicarsi, di vivere insomma. Essa è all’opera in ogni singolo essere che voglia vivere, egoisticamente autoaffermarsi e moltiplicarsi; vittima del principium individuationis che è il principium motivum appunto della volontà. È dunque operante soprattutto nell’istinto sessuale e negli organi relativi, « polo opposto » (Gegerzpol) del cervello e « centro focale » (Brenzpunkt) della volontà. Più che volontà sarebbe da chiamare passione, impulso di vita o d’autoaffermazione individuale, o in se stessi o nella propria indefinita ripetizione nella specie. Nell’infinito della specie, infatti, la volontà e coloro che vi soccombono collocano la propria immortalità ed eternità. Avanzando evoluzionisticamente la volontà, e cioè il mondo, la natura, arriva all'uomo e in lui alla coscienza di sé, al pensiero. Un pensiero però che la volontà si crea, quanto a lei, unicamente affinché le serva da lucerna per illuminare e guidare meglio il suo proprio cieco, insensato individualizzarsi ed affermarsi. Di tal natura infatti è lo spirito conoscitivo dell’uomo almeno fino a un certo livello, livello scientifico-tecnico non escluso. Ma salendo più oltre di livello, avviene l’imprevisto: l’uomo comincia a domandatsi con il suo pensiero il perché delle cose, dei fatti e delle azioni; il perché di tutto il processo, il perché della vita. Tutti perché a cui non si trova risposta. Tutto si rivela a poco a poco alla conoscenza come insensato; peggio: come doloroso, perché la volontà che è passione, moltiplicazione, divisione, disaccordo e caos, è, perciò, anche e sempre dolore o, come minimo, noia e vuoto. I perché del pensiero, il pensiero critico, mettono in crisi la volontà di vita, la spezzano, la contraddicono. Nasce l’irriducibile opposizione di spirito e di vita: i grandi opposti schopenhaueriani. Se l’uno sale, l’altro inevitabilmente discende. Quando il pensiero, lo spirito sarà sa-

SCHOPENHAUER

AL VAGLIO

243

lito fino ai livelli superiori, per la vita è finita. O meglio: la volontà continuerà a volere in eterno, essa è, in quanto assoluto, indistruttibile; ma l’uomo che con il suo spirito sarà salito molto in alto, potrà realizzare quanto a sé il distacco dalla volontà, la redenzione dalla sua perdizione, dal suo dolore insensato. Allora: «ci apparirà quella pace, che è più alta d’ogni ragione, quella assoluta bonaccia dell’anima, quella calma profonda, quella fiducia e serenità incrollabili, il solo riflesso delle quali nella espressione d’un volto cosî come Raffaello e Correggio l’hanno rappresentato è un intero e sicuro Vangelo » !. Questa è la beatitudine di coloro che avranno realizzato nel loro spirito il distacco totale e permanente dalla volontà, la santità. È la beatitudine degli asceti, dei santi. Ma tale è pure, nei rari e brevi attimi della vera ispirazione, la beatitudine degli artisti. Sî, perché arte significa (l’idea viene da Kant) conoscenza disinteressata e dunque spoglia di « volontà », contemplazione distaccata, disindividualizzata, « occhio limpido del mondo », per mezzo di cui l’artista conosce in quanto soggetto universale di conoscenza. È il mondo redento, giustificato «in quanto fenomeno estetico », die Welt als Vorstellung, non più als Wille. Ma è la beatitudine, la salvezza, o... il vuoto, il nulla? La

morte? Giacché l’asceta o l’artista di Schopenhauer che fugge la volontà e il suo mondo non può certo insediarsi in Dio e dunque, essendo tutto ciò che è reale « volontà », non può che insediarsi nel nulla. Poi: il dissolvimento dell’individuo nell’universalità sovrapersonale dell’arte non è già un morire che anticipa il reale dissolversi dell’individuo nell’immortalità sovrapersonale della specie, quando di fatto morirà? Ancora: che cosa contempla poi di tanto bello, di tanto beatificante il nostro artista o santo schopenhaueriano? Unicamente la realtà che c’è: la brutta, cattiva, malata, insensata volontà obiettivata nel mondo. E come può lo spirito che non è volontà, che anzi è tutto l’opposto della volontà, volere contro la volontà nel suo distacco da lei? E non è arbitrario

ridurre

un

assoluto

a sola

volontà?

E questa

vita,

questo imperdonabile peccato ed errore della volontà, è poi sempre vero che sia cosî brutta, cosî infelice, indegna, assurda?

‘6 A. ScHOPENHAUER, Die Welt carda-Francoforte 1960, p. 539.

als Wille

und

Worstellung,

Stoc-

244

CAP. IV - THOMAS

MANN

Ci si perdoni tutto questo excursus nel discutibile sistema che con le sue meravigliose mezze verità, e certo anche con le sue meravigliose illusioni, le une e le altre meravi-

gliosamente espresse, affascinò il ventenne Thomas

Mann”.

Ma non è un excursus dall’assunto di questo saggio. Non abbiamo fatto altro che riesprimere filosoficamente quanto il ventidue-ventiquattrenne Thomas Mann esprimerà narrativamente nei suoi Buddenbrooks; e con la nostra critica a Schopenhauer non abbiamo fatto altro che interpretare la critica oscura ma ben più forte a Schopenhauer che fanno di continuo l’ironia e la malinconia, inseparabili componenti dell’arte dei Buddenbrooks, o della ulteriore arte manniana. Dal vecchio Buddenbrook, in cui la volontà di vita e di autoaffermazione personale, sociale, genetica, economica è integra e in cui lo spirito intelligente le serve ancora e soltanto da lucerna, fino al piccolo pronipote Hanno in cui quella volontà è ormai nulla e la cui precoce arte musicale si traduce in tifo e in morte, è tutto un progressivo decrescere della « volontà » e un crescere progressivo della « rappresentazione », ossia dello spirito.

Ma Schopenhauer si è appena avviato che l’ombra di Nietzsche gli attraversa la strada. La « volontà » del vecchio capostipite della ditta Buddenbrook si sente che è sf vituperosa, senza scrupoli come Schopenhauer vuole che sia, ma è anche, dal modo come Mann la dipinge, una magnifica volontà, una « volontà di potenza » che piace. È chiaro che egli ha già letto anche Nietzsche e le sue ironie contro la rinuncia schopenhaueriana della volontà di vita, miserabile eredità di generazioni svirilizzate dal « cristianesimo » in collusione con le filosofie platoniche, e già sa della sua sostituzione ! In un saggio del 1939 su Schopenhauer, vibrante ancora d’entusiasmo, Thomas Mann farà però critiche notevoli al suo antico maestro. Sono esatte e interessanti, ma non interessanti quanto le segrete contestazioni a Schopenhauer che emergono dalla sua arte in atto. L’artista contesta Schopenhauer ben pit decisamente che non il saggista. Tuttavia, quanto alla parte terza (estetica) e alla quarta (etica), possiamo essere d’accordo che le mezze verità di Schopenhauer, a prescindere dal loro fondo metafisico, crescono talvolta a verità per tre quarti o a intere verità. Soprattutto la sua etica della « compassione » e del « disinteresse », a prescindere dalla totale spersonalizzazione dell'individuo che vi è coinvolta, ha numerose coincidenze con l’etica cristiana. E la stessa spersonalizzazione potrebbe essere ricuperata nel senso evangelico del « perdersi per ritrovarsi ».

SCHOPENHAUER

AL VAGLIO

245

nicciana con invece il potenziamento della volontà di vita. È soltanto un’ombra, non è ancora veramente Nietzsche, perché il vecchio imperterrito volitivo Buddenbrook è a sua volta ancora in difetto di spirito, è un forte ingenuo, impermeabile ai dubbi e agli scrupoli, che nulla sa ancora dell’assurdo, e non è risparmiato in questo senso dall’ironia di Mann. Ma ecco già con il secondo Buddenbrook, il figlio, il « console », insieme con Schopenhauer non un’ombra ma Nietzsche in tutta malizia. Nel console già la volontà vacilla. È già troppo riflessivo, ha già delle idées (in francese nel testo: attento alle tue idées! gli dice il vecchio), ci pensa su troppo prima di decidere. E questo è molto schopenhaueriano. Ma le sue idées sono composte per lo più da scrupoli morali-religiosi. Egli è, ben diversamente dal padre, religioso, e il suo è un cristianesimo pietistico, il cristianesimo bollato da Nietzsche. È la sua coscienza apprensivamente cristiana che gli frena o gli blocca la volontà, là per esempio dove questa lo vorrebbe attrarre verso affari vantaggiosi ma di dubbia onestà o verso una crudele diseredazione del fratello, necessaria alla sicurezza economica della ditta. E tutto ciò è già molto nicciano. E cosî, come giocando fra Schopenhauer e Nietzsche, cioè fra lo spirito e la vita, la conoscenza e la volontà, ha già esordito l'ambiguità manniana. Il vecchio, ossia la volontà, ritorna e si ripete, ma in tutta ortodossia schopenhaueriana, cioè derisa e grottesca, nella nipote Tony, la bambina che già nella prima pagina del romanzo diverte la famiglia con i suoi spropositati imparaticci scolastici, preoccupando invece il vecchio. Divertirà a proprie spese il lettore lungo tutta la storia. Dopo due tragicomici matrimoni falliti, nei quali ella s’era sacrificata per amore della ditta Buddenbrook, rifiuterà d’ora in poi ogni altro legame, tranne quello che la lega religiosamente alla ditta, alla casa, alla casata, alla specie Buddenbrook, e sarà l’oziosa vestale a cui spetta di tenere alta la fiamma, cioè il nome dei Budden-

brook: individuo del tutto identificato, risolto nella specie. Lo farà con i toni e gli atteggiamenti della più comicamente seria dignità, del tutto cieca ai segni più evidenti della decadenza. In lei la « vita » la stupida vita è tutto, e niente la « conoscenza ». Senza dubbio qui l’ironia di Mann procede esattamente appaiata all’ironia con cui Schopenhauer irride alla illusione dell’individuo vittima della Volontà, il quale si affida interamente alla pseudoimmortalità della specie, infa-

CAP. IV - THOMAS

246

tuandosene. Tony non fa che ripetere per molte varianti tutta serietà ciò che Schopenhauer aveva sarcasticamente di quella illusione: « A dispetto del tempo, della morte e corruzione, noi siamo pur sempre ancora tutti insieme ». La volontà e la conoscenza entrano quanto mai in sione nel terzo (in linea diretta) dei Buddenbrooks,

MANN

e in detto della colli-

terzo de-

tentore e direttore della ditta: Thomas. Egli ha, a differenza del nonno, una abbastanza rettilinea coscienza morale-borghese, è un distinto, rispettabilissimo signore che un giorno sarà eletto senatore della sua città. Ha perfino qualche idée, che, a differenza del padre, non è più o quasi più religiosa, ma tuttal più poetica. È capace di consolare uno zio morente con la citazione di un’idea goethiana: « Tutto non è che simbolo sulla terra, zio Gotthold! ». È quanto, per esempio, gli fa sposare una donna bella, fine, artisticamente sensibile. Ma egli ha soprattutto coscienza e conoscenza della progressiva decadenza economica, sociale e biologica dei Buddenbrooks, iniziata con il padre, prefigurata nel povero fratello Christian, angosciosamente presagita nel povero figlio Hanno, e che ha già iniziato a rodere in segreto anche in lui. La sua volontà lotta esemplarmente,

a momenti

eroicamente,

per reggersi e reggere, e

anche ci riesce a lungo a fermare o frenare la decadenza, ma è una fatica che gli logora i nervi e, appunto, la volontà. Di pit tanta fatica in lui si alimenta a motivi di discutibile autenticità e vitalità: lo fa perché ha ereditato un nome da tenere alto, perché deve salvare la faccia, perché deve assolutamente differenziarsi dal disprezzato debole e dissoluto fratello, ma c’è in quest’antitesi un eccesso che rivela invece in lui una affinità, e via dicendo. Non gli sono risparmiate le spine d’una non infondata gelosia coniugale e soprattutto non quelle d’una profonda ansia paterna per il proprio figlio unico cosî fragile, sempre malaticcio, svogliato a scuola, a cui solo la musica piace, a morte. Ormai è sicuro che finito lui è la fine per la ditta Buddenbrook, e finita, con quel figlio, anche la schiatta. Ha solo quarantasette anni, ma ha ormai la volontà a pezzi. La realtà è quello che è, e dunque a che pro tanta pena per salvare le apparenze? Tanto più che anche queste ‘cominciano a sbiadire, e ormai non servono più a salvarle tinture ai capelli, cosmetici alla pelle e sempre più impeccabili vestiti. È la grande domanda schopenhaueriana che s’alza come una cortina a gettat ombra su tutta l’esistenza. Che senso ha? Dove la proporzione fra la pena della vita e i suoi risultati? E perché? Perché?

SCHOPENHAUER

AL VAGLIO

247

Smarrito, egli tenta per un attimo di rispondersi con le antiche risposte cristiane. Ma esse non sono che pallide, infantili memorie, ormai senza più vita in lui. Ed è qui, allora, che Thomas Mann fa leggere al suo Thomas Buddenbrook il suo Schopenhauer! È l’acme di tutto il romanzo. Thomas legge dunque le consolazioni che il filosofo impartisce all’individuo afferrato dall’borror mortis: si egli finirà, ma quanto meno nel suo più profondo essere continuerà a vivere nell’eternità della specie, in tutti gli individui d’egual specie che la natura prodiga senza fine vi moltiplica! * Per il disperato è l’ebbrezza, la mistico-metafisica ebbrezza del giovane Mann. L’ombra nera è dissipata: « Egli sente tutto il proprio essere dilatarsi immensamente [...] e inebriarsi come d’un’inducibile, nuova, accattivante promessa, come della speranza d’un primo amore ». E

nella notte si sveglia e gli pare di vedere nel buio lontano il bagliore eterno d’una luce senza misura profonda «e sente la propria voce che dice: ’’Io vivrò!” [...] Che cos'era la morte?

[...] Fine e dissolvimento? Miserabile tre volte chiun-

que abbia otrore di simili stupidi concetti! Finirà e si dissolverà che cosa? Questo suo corpo. Questa sua personalità e individualità, questo ostacolo goffo, ostinato, erroneo, odioso ad essere diversi e migliori! [...] Ho mai sperato di sopravvivere in questo mio figlio, in questa personalità ancora più pavida, debole, vacillante? Puerile, falsa follia! Che bisogno ho io d’un figlio? Non ho bisogno di figli! ... Dove io sarò quando morirò? Ma è cosî chiaro, cosî abbagliante! In tutti quelli io sarò che via via hanno detto, dicono e diranno IO: soprattutto però in quelli che lo dicono con pienezza, forza e letizia più grande ... Cresce chissadove nel mondo un fanciullo, ben dotato, ben riuscito, capace di sviluppare le sue doti, diritto e imperterrito, puro, crudele e allegro, uno di quegli esseri la cui vista aumenta la felicità dei felici e conduce gli infelici alla disperazione. Ecco mio figlio. Quello io sono, fra breve. Fra breve, non appena la morte mi avrà liberato dall’illusione miserabile che io non sia tanto lui che me ... Ho mai odiato la vita, questa vita pura, crudele e forte? Errore, follia! Soltanto me ho odiato, perché non potevo soffrirla. Ma io vi amo ... vi amo tutti voi, o felici! » !.

pp.

!* Tu. MANN, Gesammelte Werke, Bd. I, Buddenbrooks, Berlino 1960, 654-658.

CAP.

248

IV - THOMAS

MANN

Ma questa è davvero la corsolatio philosophiae di Schopenhauer? Sî, fino a un certo punto, ma da un certo punto è soltanto quella di Nietzsche e già si annuncia all’orizzonte di Thomas Mann quella di Wagner. E di Schopenhauer è, fin dal principio, non la consolazione grande e seria degli asceti e degli artisti vittoriosi sulla volontà, ma un suo meschino surrogato: quello che il filosofo con ironica degnazione rimedia per i succubi ancora della volontà e della vita. Consolazione da compatire, da ridere, per Schopenhauer, sia quella di chi dice io per conto suo, sia quella di chi si appaga d’una immortalità negli altri io-dicenti, nella eterna e vana durata della specie. Per entusiasmare e inebriare a tal punto d’una simile consolazione il povero Thomas, era necessario l’innesto a un certo istante dell’affermativa volontà vitale di Nietzsche: la volontà di vivere (« Io vivrò »), e di vivere intensamente una « vita forte, crudele e allegra ». Sono gli evidenti contrassegni nicciani della vita come la vede e la vuole la volontà di potenza. Come si vede, è Schopenhauer che comincia l’ebbro monologo di Thomas, ma è Nietzsche che lo conclude. Di più è da notare che Thomas non s’inebria di tutti insieme gli io-dicenti, ma ne scevera alcuni: solo i diritti, i forti e gli allegri, i niccianamente « belli ». Il superuomo è già all’orizzonte. Anzi è già all’orizzonte eros, e cioè Wagner: anello primo d’una catena di fascini di questo dio a cui soccombono vati futuri eroi manniani, prossimi e lontani. Giacché quei « belli» Thomas li ama e del loro amore s’inebria ... E quando già eros è in vista, soprattutto se sotto costellazione wagneriana, non tarderà a fare la sua apparizione thanatos: l’amore e morte. E il sesso. E con il ritorno del sesso, la bef-

farda conclusione d’una filosofia che, propostasi il superamento del sesso nell’ascesi, sfocia, dopo circoli e circoli viziosi, là dove era partita. Eros, sesso e motte costituiscono

l’essenza artistica e il

nodo della tragedia del piccolo Hanno Buddenbrook, in cui culmina e chiude il romanzo. Mann allora conosceva già benissimo Wagner e la sua musica e ne subiva l’ambiguo fascino, anche se non conosceva forse ancora la sua famosa lettera a Mathilde Wesendonk del 1° dicembre 1858, da Venezia, mentre vi stava creando la musica della motte di Isotta nel Tristazo. Là Wagner, sempre schopenhaueriano nel fondo non meno di Nietzsche, parla d’una pointe « amplifi-

cativa ed emendativa » che egli sarebbe in vena di offrire al-

SCHOPENHAUER

AL VAGLIO

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l’« amico Schopenhauer ». Questa: che gli era parso esistesse « una via di salvezza » molto più semplice « verso un completo assopimento della volontà ». Questa via era l’« amore »; ma non « un astratto amore dell’umanità » come quello che Schopenhauer predicava, bensî un amore « emergente dal fondo del sesso », dove la volontà, divenuta tutta erotico-sessuale, crescendo e adempiendosi al massimo, al massimo anche si placa: al limite, radicalmente eliminando la vita, nella morte. Ma non era un « nulla » e una « morte », ci si domandava più sopra, anche la beatitudine che Schopenhauet ci additava da raggiungere per l’ascetica, faticosa via opposta? Se la meta era la stessa, ha forse ragione Wagner, è preferibile la via più facile. Ad ogni modo, fosse o no nota a Mann questa grossa malizia di Wagner, gli era già anche troppo nota la triplice implicazione fatale di eros, sesso e morte della sua musica. Tale precisamente è la musica del piccolo ultimo Buddenbrook: la musica ch’egli a quindici anni già sa improvvisare sul piano e la cui semiconsapevole carica erotico-nichilistica fa arrossire Kai, il contino suo amico, gli fa abbassare gli occhi imbarazzati e poi sussurrare a Hanno: « Non disperarti [...] e non suonare, è meglio! !. Ma ormai, dopo essere stato una sera all'opera (era il Lobengrin, cioè di nuovo Wagner!) egli « aveva sentito che male ci fa la bellezza, in quale profonda vergogna e nostalgica disperazione ci precipita e come ci cor-

rode il coraggio e l’attitudine per la solita vita [...]. E non era soltanto un’angoscia sua personale, era un fardello calatogli sull’anima fin dai primordi che l’avrebbe soffocato un giorno » 2°. La sera in cui fu colpito dalla febbre tifoidea egli s’era pure seduto al piano e, infedele al monito dell’amico, aveva Ibidem, pp. 744-746. La dominante però di eros-sesso-morte si ba già in Schopenhauer e là Thomas Mann se ne è per la prima volta impressionato. Vedi l’articolo citato nella « Neue Rundschau ». Quanto a Wagner si legga nel saggio di Mann « Dolore e grandezza di Richard Wagner »: «La passione per l’opera incantatrice di Wagner accompagna la mia vita da quando ne ebbi conoscenza e cominciai a conquistarla, a compenetrarla. Quel che le debbo di godimento e di insegnamento non lo potrò mai dimenticare, né obliare le ore di profonda felicità solitaria pur tra le folle dei teatri, ore piene di brividi e di voluttà dei nervi e dell’intelletto (...). Non senza diffidenza, lo ammetto ». Una diffidenza che concerneva il fatto che « Wagner risolveva ogni amore nel sesso ». % Ibidem, p. 702.

CAP. IV - THOMAS

250

MANN

improvvisato una « morte d’amore » (musica tradotta in una pagina che è una delle rese letterarie-musicali più stupende che la letteratura conosca): davvero un eros, una « volontà » che si gonfia all'infinito e là si dissolve. Come nel Tristano. La dissoluzione si chiama qui, solo per caso, tifo: una malattia mortale come un’altra, traduzione fisica (come sempre in Mann) d’una mortale malattia dello spirito. Quale il senso d’una finale cosî malinconicamente

listica morte? l’altro. morte ma

nichi-

d’un pessimistico libro? Che l’arte, lo spirito è la O che l’eros, la volontà è la morte? Ma l’un senso vale È l’arte, lo spirito, che per sottrarsi alla sua propria per rarefazione ritorna alla volontà di vita, all’eros,

per trovarvi

un altro genere

di morte:

per congestione

e corruzione. Hanno è il preludio di questo grande leitmzotiv manniano, che, sempre prizzus in intentione, finalmente esaurite tutte le sue premesse, « attacca » alla fine dei Buddenbrooks®. Ma sapeva Thomas Mann che la fine del suo romanzo schopenhaueriano era la più antischopenhaueriana pensabile? E sapeva che i suoi Buddenbrooks risparmiavano alla fine, dei suoi tre maestri ispiratori, soltanto il pessimismo di partenza”, e che le varie salvezze da essi proposte venivano ironicamente o elegiacamente eliminate in una narrazione che le confondeva indifferente, pur a vicenda contraddittorie quali erano, come se l’una valesse l’altra o non valessero tutte niente? Salvezza nell’autorinuncia o nell’autoaffermazione, nella volontà o nello spirito, nell’arte ascetica o erotica: il loro fondo o il loro esito era in ogni caso il nulla. Se Thomas Mann non lo sapeva in tutta lucidità, lo sapeva in lui la sua arte con la sua profonda ambiguità, ironia e melanconia a 2 Ma veramente aveva già «attaccato » in chiave minore e su tonalità comico-patetica, prima: nello zio Christian, anche lui « artista » e «attore», a modo suo: livello minimo di «volontà » nella stirpe Buddenbrook, disonore della casata, poeta buffone, perpetuo recitante nella vita, parodia dello «spirito ». Vittima per di più dell’istinto, sposa una mondana che lo sfrutta. ? E forse neppure questo del tutto. Perché c’è alla fine, accanto ad Hanno, il piccolo Kai MélIn, ultimo rampollo di schiatta aristocratica, che però ha già trovato nel padre l’energia d’una iniziale risalita dal nulla (è un energico, saggio, piccolo coltivatore diretto: ma la sua è una volontà onesta e non di potenza senza scrupoli come quella del nonno Buddenbrook o degli Hagenstrém che rilevano alla fine la ditta Buddenbrook). In Kai, piccolo scrittore già in erba, l’energia del padre si esprime in un coraggio morale e in una virile castità pieni di promesse. Già forse però con un pizzico di volontà di potenza.

EMERSIONE

DI THOMAS

MANN

25

riguardo di tutte queste salvezze. Essa le sentiva inadeguate rispetto a domande vitali e integrali dell’esistenza, avvertite da una coscienza d’arte che non era esattamente quella di Schopenhauer o di Wagner. Certo, né tutto Schopenhauer si esaurisce nei Buddenbrooks, né tutti i Buddenbrooks si esauriscono in quel tanto che hanno di Schopenhauer (o di Nietzsche e Wagner). Essi hanno, per esempio, una cosa che manca del tutto in Schopenhauer: una esile vena di positivo dubbio religioso. I pii protestanti in questa storia sono tutti ironizzati,

da un minimo per il console Buddenbrook a un massimo per il pastore, ma non le suore cattoliche che sostituiscono al capezzale del console, con scandalo del pastore, le infermiere protestanti. Su Thomas la fede ha perduto la sua presa, ma non è detto perché essa sia fasulla in se stessa. E le ultime battute del libro sono un breve dibattito circa l’immortalità, circa un rendez-vous nell-al di là, fra le donne Buddenbrooks superstiti, le zie Tony e Friederike, e la Sesemi la vecchia maestrina. La prima dubita, la seconda crede e la terza dubita ma si supera e pronuncia una decisa, un tantino isterica professione di fede. Ridicola, certo, ma anche (forse) un tantino commovente.

4. - EMERSIONE

DI THOMAS

MANN.

Manca invece del tutto nei Buddenbrooks il Schopenhauer della grande consolazione, della grande « beatitudine ». Nessun personaggio vi viene convocato a sperimentarla. Ma è l’autore che, narrando di tutti, la sperimenta. È ammirevole quanto egli ci si provi a comportarsi come l’artista ideale di Schopenhauer, in vista della «beatitudine », presumibilmente. E quanto, fino a un certo punto, anche ci riesca. Cioè a puramente « rappresentare » e « contemplare » la vita e la « volontà » e a dire la verità che le riguarda, a raccontarle cioè davvero brutte, tristi e insensate come Schopenhauer le

voleva e in ascetico (ironico) distacco dalle cose rappresentate non solo, ma anche da se stesso. È quel freddo realismo e obiettivismo che la critica un po’ gli rimprovera. Le due uniche infrazioni all’ortodossia estetica schopenhaueriana — le pagine commosse, partecipanti dell’infatuazione schopenhaueriana di Thomas e della wagneriana « morte d’amore »

CAP. IV - THOMAS

252

MANN

di Hanno — sono però, ironia della sorte, artisticamente di certo le migliori. Di questa, comunque, complessiva esperienza d’artistico ascetismo, d’arte alla Schopenhauer, rende conto l’opera cominciata subito dapo i Buddenbrooks: il Tonio Kròger. Ma doveva chiamarsi dapprima Literatur e doveva dire, come poi di fatto dice, che «la letteratura è la morte » 3. Un'esperienza dunque tutt'altro che beatificante. Thomas Mann pensava che la bilancia tenuta nei Buddezbrooks in equilibrio fra Schopenhauer e Nietzsche, nel Tonio Kròger si fosse un tantino sbilanciata a favore del secondo. Era stata in realtà semplicemente capovolta, se a favore di Nietzsche è un’altra questione. Certo l’idea dell’arte di cui si tratta è ancora di pura ortodossia schopenhaueriana, ma l’arte con cui quell'idea è trattata, cioè l’arte narrativa del Tonio Kròger, non lo è già più. Già la forma lirica del breve romanzo disubbidisce al principio della disindividualizzazione artistica. I rapporti fra l’autore e il personaggio non sono più staccati e ironici come in genere nei Buddenbrooks, ma cordiali. Fra Tonio e Thomas c’è partecipazione e identificazione: ne sono garanti, oltre il lirismo, il candore fondamentale che è l’azizzus del libro. C'è dell’ironia, senza dubbio, e c'è, di più, il sarcasmo e l’invettiva (dell’artista contro l’arte e dell’uomo contro l’artista), ma non c’è l’ironia dell’ironia, bensi la sincerità. Non c'è ombra d’ironia nell’autore a riguardo del personaggio. E questa simpatia rediviva del narratore si volge non soltanto implicita al personaggio, ma per suo tramite esplicitamente a varie altre cose: casa e città paterna, ordine borghese, semplici compagni di viaggio, antichi amori, la natura. In una parola: alla vita. L’arte che s'innamora della vita! È l’apostasia da Schopenhauer. Ma andiamo adagio: quale vita, quale amore e quale arte? Giacché qui cominciano al riguardo le distinzioni in Thomas Mann. Tonio dunque è certamente, fin dal principio, Thomas, anche lui cattivo scolaro, ma buon lettore e sognatore e forse poeta in erba, e innamorato precoce e respinto d’un ragazzo come Hans Hansen, biondo, occhi azzurri, forte e crudele, ed egualmente adolescente innamorato tespinto d’una ragazza come Inge Hohlm, bella, bionda, allegra e un po’ stupida e crudele. Tonio è sempre lui, Thomas, nel giorno che si lascia © TH. MANN,

Lettera del 29 dicembre

1900.

EMERSIONE

DI THOMAS

MANN

253

con dispetto alle spalle la sua nordica noiosa città (Lubecca) e i propri sentimentalismi, e si consacra altrove « alla potenza dello spirito e della parola », alla letteratura, la quale gli indurisce il cuore e gli affila lo sguardo affinché veda « l’intima segretezza del mondo e l’ultima essenza celata dietro ogni azione e parola »: che è « povertà e comicità, povertà e comicità » ?£. E fino a un certo punto è, noi temiamo, sempre lui, quando, vagabondo in paesi del Sud, duro e vuoto com’è ormai di cuore, si perde «in avventure della carne », sprofonda assai « nella voluttà e nel fuoco del peccato » e vi gusta « inesprimibili pene », e quando poi, preso da nausea e nostalgia, anela alla « purezza» e a «un’onesta pace », continuando tuttavia a « respirare l’aria dell’arte ». Ed è lui, o certamente è (dopo l’esperienza manniana) l’artista schopenhaueriano (a cui è dato soltanto per attimi di partecipare alla santità vittoriosa sulla vita istintiva ma a tornare quanto al resto sempre di nuovo prigioniero), quando « sbattuto senza posa fra contrari estremi, fra glaciale spiritualità e divorante sensualità » confessa di condurre « fra rimorsi una vita spossante, una straordinaria vita mostruosa

e sregolata »

(290s.). Ed è Thomas Mann, scrittore schopenhaueriano e già un po’ nicciano, sia pure un po’ (qui come sopra) drammattiz-

zato al limite, quello che confessa a Lizaveta, una candida pittrice russa, nel di lei studio a Schwabing la propria disperazione d’artista: « La letteratura non è una vocazione, ma una maledizione ». E l’artista «un essere predestinato e dannato ». « Un abisso di ironia, di scetticismo, di contrasto, di conoscenza, di sentimento » «lo divide dagli uomini ». « Bisogna proprio essere qualcosa d’inumano e disumano, bisogna trovarsi con l’umano in un rapporto di strana e impartecipe lontananza per essere semplicemente capaci e tentati di rappresentarlo [...], bisogna essere per questo in qualche modo, umanamente poveri e sterili [...]. È finita per l’artista non appena egli diviene uomo e comincia a sentire ». « Se Lei, Lizaveta, ci tiene a quanto dice e il Suo cuore vi

si riscalda, Lei fa completamente fiasco. Diventa patetica, sentimentale e dalle Sue mani esce non so che di cascante, goffo, % TH. MANN, Gesammelte Werke, cit., Erziblungen, Bod. VIII, p. 290: « Chomik und Elend, Chomik und Elend ». I numeri fra parentesi nel testo indicheranno d’ora in poi le pagine del volume citato.

CAP. IV - THOMAS

254

MANN

incontrollato, non ironico, non aromatico, ma noioso, banale ». «E artistiche sono soltanto le irritazioni e le gelide estasi del nostro sistema nervoso guasto di artisti ». E a Lizaveta che lo richiama alla funzione catartica, anzi redentrice della « conoscenza » e della « parola » che dispone alla comprensione e al perdono, che lo richiama cioè a Schopenhauer (o alla «santa letteratura russa »?), Tonio, cioè Thomas, risponde che la conoscenza, che «la scoperta dell’essere » è « abominevole », che esiste qualcosa che si chiama « nausea della conoscenza », una nausea mortale; « una stanchezza ironica di fronte a ogni verità »: «è il caso di Amleto, il danese, questo tipico letterato ». E quanto alla « parola », risponde che, più che di redenzione, si tratta di « una messa a freddo e a ghiaccio della sensazione ». Se hai il cuore pieno, vai pure dal letterato, egli te lo « analizzerà », te lo tradurrà in « parole », in « un discorso ». E cosî con il tuo sentimento, sei « liquidato ». Giacché « cio che è pervenuto all’espressione è liquidato: ecco la sua professione di fede. Quando tutto il mondo è pervenuto all’espressione, esso è liquidato, salvato, cancellato (erledigt, erlòst, abgetan)... Benone! Ma io non sono un nichilista... » (255-302).

Mai l’arte alla Schopenhauer e la salvezza nell’arte era incorsa in ironie e lamentazioni più vibranti, a parte Nietzsche (vedi soprattutto

l’ironica situazione

di « salvato » in mezzo

agli altri due aggettivi), e in bocca a un artista che pure non conosce a questo punto ancora altre arti possibili. E c’è di peggio: l’arte è ladra. Tonio, incorso a un certo punto nel sospetto di aver rubato, è d’accordo: come artista, almeno, si sente ladro, riceve vita e rende nulla. Ora, conosciamo l’uscita dalla strettoia, la soluzione e la salvezza a cui s’afferra Tonio Kròger: « Eccomi al punto, Lizaveta. Mi stia attenta. Io amo la vita [...]. Io non sono un nichilista » (302). Ma quale vita? La vita sessuoerotica alla Wagner? O la vita ebbra ed eroica alla Nietzsche? Niente di tutto questo, o quasi niente. Tonio, ossia Thomas, che pure s’è scelto Nietzsche per alleato contro Schopenhauer, ora che con il suo aiuto è approdato alla vita, si distacca immediatamente da lui: «Lizaveta, non pensi a Cesare Borgia o a una filosofa ebbra che lo esalti [....].

No, la vita in quanto eterno opposto dello spirito e dell’arte, non

si offre

a noi eccentrici

come

l’eccentrico,

come

una

visione di grandezza sanguinosa e di selvaggia bellezza; ma il regno

della

nostra

nostalgia

è la realtà

normale,

amabile,

EMERSIONE

DI THOMAS

MANN

255

in tutto rispettabile, è la vita nella sua seducente banalità! Non

sarà

a lungo

artista,

mia

cara,

colui

la cui passione

estrema e profonda è per il raffinato, l’eccentrico e il satanico, colui che non sa nulla della nostalgia verso l’esistenza innocente (harzzlos), semplice e viva, verso un po’ d’amicizia, di dedizione, di confidenza e umana felicità; senza che lo roda la timida nostalgia per le solite gioie della solita vita! » (303).

Come per un incanto, nel giro di poche righe, sembrano spariti Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, e rimasto lui soltanto, Thomas Mann. La vita ch’egli intende è una specie di aurea

mediocritas,

contenuta

in discrete

misure

umane,

non

proiettata fra estremi opposti, fra irrespirabili altezze e torbide-orride profondità, « fra la sanità e la concupiscenza » (336), fra Schopenhauer e Nietzsche-Wagner. La sua definizione della vita si articola lungo tutta una gamma sfumata di intermittenze, di attributi intermedi: dal « rispettabile » al « banale ». Ma se vogliamo trovare per essa un contrassegno unico, una

sola parola, magari pure convenzionale, che serva da magico richiamo per tutta la gamma, non troveremo, in Thomas Mann, per ora o forse per sempre, che questa: la vita « borghese », la Bzrgerlichkeit. Lizaveta aveva tutto capito quando cercando alla fine una risposta al concitato discorso dell’amico, rispose appunto con una sola parola: « È che Lei là seduto com’è, non è che un borghese [...]. Un borghese che si è smarrito »: nell’arte, ben s’intende (305).

Il resto della storia descrive il ritorno dello smarrito: verso il Nord, la sua nordica città, via lontano dal Sud sen-

suale, verso spiriti profondi e casti, verso una vita ben definita entro precisi ordini; inoltre verso il padre, la casa e gli uomini che aveva prima con tanta alterigia disprezzati andandosene: verso la dignità, la coscienziosità, la vita che si vive e non si recita. Persino « l’iscrizione pia » sul frontone di casa sua, pur con le sue lettere sbiadite, accende un attimo la sua attenzione e un sospito-respiro mentre ne varca la soglia. Strane, confuse « nostalgie » e « contrizioni » affollano i suoi sogni notturni e sentimenti diurni. «I muscoli del viso gli si spianavano e guardava uomini e cose con sguardo fattosi calmo ». E « il suo cuore viveva » (311). Lo sente rivivere, il suo cuore, soprattutto quando, spintosi ancora più a Nord, a Copenhagen e al mar Baltico, in

ferie come un perfetto borghese, rivede — vicino, ma diviso da una vetrata — Hans Hansen e Inge Hohlm, sempre biondi

CAP. IV - THOMAS

256

MANN

e belli insieme a divertirsi in una allegra brigata, si sorprende intimamente riconciliato con loro ed ha per un attimo la cocente speranza che anch’essi lo riconoscano e gli tendano una mano per attirarlo del tutto nella vita. Solo, in quella notte, egli singhiozza perché questo non è avvenuto. Egli non

vivrà interamente:

è ormai

un

consacrato,

un

dannato

dello spirito, della creazione. Ma amerà « con amore borghese » quella vita umana e semplice ch’egli non vivrà e starà in guardia « con la sua coscienza borghese » contro le ambiguità dell’arte. Resterà « fra due mondi, straniero a entrambi. Non

sarà facile ». Ma è sicuro che « se c’è qualcosa che possa fare d’un letterato un poeta, è questo suo amore borghese per l’umano, vivo e comune ». Farà lo scrittore, il creatore, e certo

amerà le creature del suo spirito, e pagherà il prezzo dell’arte con altrettanta vita. « Ma il mio più profondo e inconfessabile amore appartiene alle creature bionde e dagli occhi azzurri e dalla vita limpida ». Un amore fatto di « desiderio », di « malinconia e invidia », d’« una venatura di disprezzo » e di « tutta una casta beatitudine » (322). Tornano negli ultimi due attribuiti gli estremi un po’ ambigui della gamma di cui sopra (rispettabilità-banalità) con un’ombra d’ambiguità in più (disprezzo-casta beatitudine), come pure torna o persiste sopra « le creature bionde » l’ombra erotica o superominica. E dopo tanti anatemi dell’artista contro l’arte, pare strano che questi non arrivi a scomunicarla e a sterminarla del tutto. Insomma si tratta d’una riduzione e non d’un superamento degli estremi schopenhaueriani-nicciani; non è un scelta, né una riconciliazione fra arte e vita, ma è un compromesso, ancora ambiguo e ibrido, fra le due inconciliabili nemiche, reso possibile alla fine da un contrarsi ottimistico delle prospettive negative dell’una e dell’altra ?. Tonio Kroger è lirica e non dramma: di qui la sua conclusione irrisolta e sospensiva e un tantino deludente. C'è però qualcosa che appare per la prima volta e che resta, in quest’operetta: la dimensione morale. A rappresen® Non solo la vita, come Tonio la descrive nella seconda parte, non è più tutta e solo «povertà e comicità », ma neppure l’arte, come la sente nell’ultima pagina mentre annuncia che vi persevererà, è più quell’orribile cosa di cui aveva detto a Lizaveta. E inoltre, a trattenerlo a rientrare del tutto nella vita, concorre anche la vista di qualche « banalità » borghese allora allora osservata, forse pit repellente che, come aveva detto un tantino prima, « seducente ».

EMERSIONE

DI THOMAS

MANN

257

tarla c’è il Nord con il suo ordine, i suoi poeti puri e profondi, la sua poesia casta (336-338);

poi ci sono, sparse e discrete

ma ripetute, qualificazioni della vita borghese come « rispettabilità », « dignità », « innocenza », « accordo con Dio e col mondo »

(306);

e c’è

soprattutto

il richiamo

del

padre

(defunto) di cui si ridice ogni volta che era « un temperamento nordico: meditativo, integro [o profondo: griindlich], puritanamente corretto, con tendenza alla malinconia », richia-

mo vittorioso finalmente su quello della madre, che era stata una meridionale « d’indefinito sangue esotico, bella, sensuale, ingenua e insieme negligentemente passionale, impulsiva e scapigliata [liederlich] » (332), che dopo la morte del padre ave-

va sposato un artista emigrando al Sud. Si parla d’un « amore borghese », ma anche d’una « coscienza borghese » della vita (Gewissen: coscienza morale). Tanto basta per sapere che la vita che Tonio

ora

amava

era

dopotutto

(o anzitutto)

una

vita moralmente positiva, e che le sue «nostalgie e contrizioni » erano anche una conversione morale. E che cosa in tale vita avrebbe potuto precisamente, a suo vedere, « fare d’un letterato un poeta »? Semplicemente i suoi aspetti «normali », « comuni », « felici» o peggio «banali »? No, di certo. Ma semmai i suoi aspetti morali. Si noti bene quella differenza fra «letterato » e « poeta»: una differenza importante, essenziale. È l’affiorare di due diversi concetti d’arte: grande, decisiva novità in Thomas Mann! Ma che cosa costituisce la differenza specifica fra l’uno e l’altro, fra il letterato e il poeta? L’abbiamo già visto: la dimensione morale. Una dimensione che, una volta penetrata, non uscirà più dai libri di Thomas Mann, grande artista e d’ora in poi insieme sempre grande moralista. Detto, ma, anche meglio, fatto. Egli non lascerà mai più l’arte, ma due anni dopo il Tonio Kréger, non solo guarderà con amore, dietro a una vetrata, la vita (borghese), ma senz’altro vi entrerà sposando, come sappiamo, una borghese, e per almeno cinque anni sarà più occupato a creare nuove vite e ad allevarle, che nuove opere d’arte. Scriverà racconti, un romanzo breve che non è però un capolavoro (Altezza reale, 1909), dove un aristocratico si salva in un matrimonio bor-

ghese d’amore e d’affari, e un dramma di discutibile riuscita (Fiorenza, 1904). Il capolavoro gli riuscirà di nuovo nel 1911: Morte a Venezia. Ma è di nuovo la storia di un artista naufrago. 17

258

5. - ARTE, AMORE

CAP. IV - THOMAS

MANN

E MORTE.

L’artista, cioè lo scrittore, eroe della più pura e perfetta (esteticamente parlando) opera d’arte di Mann, Gustav Aschenbach, presenta rispetto ai suoi antecessori una forte novità. Non è più soltanto spirito e arte — l’antica equazione buddenbrookiana per la verità un po’ riduttiva — ma spirito, arte ed eticità. La dominante, anzi, è proprio etica. Essa non era che un seme in Tonio Kréger: nel cinquantenne Aschenbach il seme è maturato in quercia robusta. A farlo maturare fino a tal punto ha dovuto contribuire certamente l’interiore esperienza artistica di Thomas Mann, l’esperienza dell’enorme sforzo, della grande energia volitiva, e dunque etica, d’autodominio che è il costo dell’opera d’arte, della lotta per la forma. Egli doveva scoprire per esperienza che esisteva ed occorreva

una volontà ben diversa dalla volontà schopenhaueriana per poter realizzare di contro a questa lo « spirito » che Schopenhauer voleva: l’arte. Occorreva una volontà, del resto già contemplata dal filosofo: spirituale, ascetica, etica. L’equazione doveva arricchirsi d’un terzo elemento, più ancora che costitutivo, causale e creativo dello spirito. All’arricchimento e alla sua ambiguità però doveva contribuire un’altra volta Nietzsche con la sua volontà di potenza, ambigua fra le due volontà di cui sopra, insieme ascetico-eroica e vitalisticamente autoaffermativa. L’eticità costitutiva e causale dell’arte di Aschenbach ne possiede infatti le caratteristiche inconfondibili. Egli mirava con estrema energia all’arte, ma anche alla « gloria » che è autoaffermazione. La sua volontà e quella dei suoi eroi voleva e continuava ostinata a volere « al di là di ogni più profonda conoscenza », al di là di quella conoscenza cioè, schopenhauerianamente tutta pessimistica com’è sempre la « conoscenza » in Nietzsche, che è specchio d’un mondo insensato, che è specchio dell’« abisso », che è anzi 1’« abisso », dirà alla fine Aschenbach. Voleva a dispetto d’un mondo insensato, continuava insensatamente a volere: è, alla lettera, la volontà di potenza nicciana. E il tipico eroe dei libri di

Aschenbach è, più ancora del superuomo, Nietzche in persona, perché Aschenbach era «il poeta di tutti quelli che lavorano al limite dello sfinimento, dei sovraccarichi, dei già

estenuati e che tuttavia resistono ancora; di tutti questi moralisti dell’attività che, fisicamente fragili e soprovveduti di

ARTE, AMORE

E MORTE

mezzi, arrivano

a risultati di grandezza,

259;

per attimi almeno,

aizzando all’estasi la propria volontà ». È l’« eroismo della debolezza », il solo forse autentico, giacché « ogni quasi grandezza al mondo è un nonostante, nasce nonostante l’angoscia, il dolore, la povertà, l’abbandono, la debolezza fisica, il vizio, la passione e mille ostacoli ». Era l’eroismo con cui lui stesso, Aschenbach, scriveva, « la formula della sua vita e della sua

gloria, la chiave della sua opera ». Ed era pure la spiegazione del vasto consenso, della simpatia di innumerevoli lettori, giacché di « estenuati che tuttavia resistevano » pur sapendo che non c’era senso a resistere, ce n’erano « tanti », erano « gli eroi dell’epoca » che « si riconoscevano nella sua opera, vi si sentivano confermati, innalzati, cantati ». La « volontà », la « dignità », il « dominio », il « rigore », in una parola l’« eticità » costituiva della sua arte, della sua forma come dei suoi contenuti, era dunque l’etica di Nietzsche, fondata sul nulla, era la sua morale nichilistica. Di Thomas

Mann in particolare sono senza dubbio molte specificazioni, attenuazioni, finezze; suo tutto il colorito del mirabile secondo capitolo da cui abbiamo pure noi citato. Sua soprattutto è la parabola ch’egli ci traccia del suo eroe, dai peccati d’arte della sua gioventù, dai suoi giovanili estremi problematicismi, assolutismi, cinismi (specie contro l’arte), dalla sua giovanile « simpatia per l’abisso », dalle ironie e dai dubbi morali d’al-

lora all’arte della sua maturità che rigetta tutti quei dubbi, simpatie ed eccessi, che si delimita quanto alla « conoscenza », che mira all’armonia e alla classicità, a « una seconda, rinata innocenza ». In questa autodisciplina e autodelimitazione progressiva la sua opera aveva finito con l’assumere una tinta classica: « un che di esemplarmente valido, di tradizionalmente levigato, di conservativo, di formale o perfino di formalistico ». Pagine dei suoi libri erano entrate ufficialmente nelle antologie scolastiche (450-457). Un Nietzsche insomma al solito mannianamente ridimensionato, dimezzato, contradetto, « egualmente lontano sia dal banale che dall’eccentrico » (451): un Nietzsche ridotto a misure apollinee, ma per essere, nel seguito della storia, gettato in balfa del Nietzsche dionisiaco. Sempre Nietzsche comunque, innestato sul piedestallo di Schopenhauer, i due vecchi nemici ora congiunti più intimamente che mai, un corpo e un’anima sola, anche se bardati con panni d’invenzione manniana. Nella tragedia che segue crolleranno entrambi, e un’altra

CAP. IV - THOMAS

260

MANN

volta agli influssi maligni della stella di Wagner e nella città dell’eros-thanatos wagneriana: Venezia. Ed è il crollo tragico d’un’arte pur fortemente eticizzata, d’uno « spirito » e « volontà » protesi a un massimo di autorealizzazione, ma sul vuoto: dell’arte, dello spitito e dell’eticità unicazzente per se stessi.

La tragedia ha inizio quando, stanchi d’una fatica insensata, spirito, arte, eticità si lasciano tentare dalla vita. Ed è di nuovo Nietzsche il grande psicologo anche di questa « conversione »: « D’altra parte ben s’intende come [l'artista] può stancarsi fino alla disperazione di questa eterna ”’irrealtà” della sua pit intima esistenza e come poi senz’altro tenterà di stendere le mani, una volta tanto, verso ciò che gli è quanto mai proibito, verso la realtà, tenterà di essere reale. Con

quale esito? È facile indovinare » . Gli esiti disastrosi di simili rientri nella realtà si possono leggere nelle biografie di molti artisti dell'età moderna e contemporanea o in molti loro romanzi. Per preservarsene definitivamente quanto a sé, Thomas Mann ha raccontato, con pietà tragica e catartico distacco, il rientro d’uno di loto, di Gustav Aschenbach. Tutto comincia una mattina di primavera, durante una

passeggiata

dello scrittore ormai

zione », sostando

in attesa

«stanco

del tram

fino alla dispera-

davanti

a un

cimitero

da una parte e a una esposizione di lapidi mortuarie dall’altra. Presso di queste egli scorge una figura strana di viaggiatore vagabondo che gli inietta nel sangue una irresistibile voglia di viaggi, di vacanze, di paesi lontani, di rituffo nella vita, di fuga dalla sua mortale fatica etico-artistica. Ma quella figura, se l’avesse potuta subito capite, era la morte, che lo prendeva fin d’allora in consegna. Era esattamente, o quasi, un’incarnazione dureriana della morte, la prima d’una piccola processione di consimili incarnazioni che come quella del gondoliere veneziano ma non d’origine veneziana lo accompagneranno

fino a

Venezia e al suo lido, alla città bellissima ma apparente e fatiscente e contaminata dal colera, altra immagine della morte e luogo del suo destino. Di pari passo vi si racconta allora il suo intimo crollare morale nell’erotica passione per un bellissimo adolescente polacco (quintessenza di tutti i biondi e belli, diritti e imperterriti e un po’ crudeli di Thomas Mann) e il suo

crollare fisico all’infezione

* Cfr. E. HELLER,

op. cit., p. 79.

epidemica.

L’incredibile,

ARTE, AMORE

E MORTE

261

reale-surreale vicenda, incredibile nelle sue contaminazioni estreme fra piani spirituali e fisici, erotici e funerei, culturali e mitici, è resa punto per punto credibilissima da un magico magistero d’arte narrativa. Chiuso il libro e attenuato l’incantesimo, il senso dell’inverosimile ritorna. Un cristiano soprattutto vi sente l’irrealtà delle potenze mitiche che dominano su questa storia, l’improbabilità delle loro maligne congiunzioni: dell'Amore con la Morte, della Bellezza con il Caos. Dov'è allora la verità in tutta questa innegabile grande arte? Rispondiamo anzitutto che la verità sta nel bisogno della grande arte di forzare la realtà verso una surrealtà, la quale, se non può essere trascendente, sarà mitica: una falsa surrealtà, ma vero è il bisogno che la postula. Ma sono poi cosf false, nel nostro caso, cosî irreali quelle surreali mitiche maligne potenze? Un cristiano dovrebbe sapere che sull’uomo che rifiuta Dio dominano realmente maligne potenze, e che da loro dipende se le più belle cose che l’uomo possiede, allora, tralignano e gli si fanno venefiche: l’amore che gli diventa morte, la bellezza caos e lo spirito dannazione. Un sforzato dello spirito puro, era Aschenbach, dell’arte pura, dell’eroismo etico puro, fize 4 se stesso. Era un dannato, un condannato già prima: all’illusione, al volto, alla morte spirituale dello spirito puro. E poco importa che questa irrealtà mortale assuma l’aspetto schopenhaueriano della conoscenza pura o nicciano della volontà pura. Oppure, come in molte estetiche fra Ottocento e Novecento, l’aspetto della pura fantasia creatrice dell’irreale trascendenza estetica. La fuga di Aschenbach è da una morte all’altra: da quella apollinea della pura forma a quella dionisiaca del puro caos. Una fuga che in lui assume le caratteristiche morali d’un crollo della volontà: da un’insensata estrema tensione a un’insensata estrema distensione. Né Aschenbach, né forse il suo autore, hanno coscienza chiara che la sua tragedia è quella del nichilismo, ossia dell’irreligione. È la tragedia dell’uomo che si fonda su null’altro che su se stesso ed ora sull’una ora sull’altra delle proprie opposte componenti dialettiche fra le quali si trova diviso: orta sull’io ora sul mondo, ora sullo spitito ora sulla vita, ora sulla ragione ora sul sentimento, ora sull’antico ora sul nuovo, ora su Apollo ora su Dioniso. Ed ogni volta con il bisogno incondizionato dell’uomo irreligioso di trovarvi la definitiva so-

luzione della sua infinita ansia umana.

Thomas Mann e alla

262

CAP. IV - THOMAS

MANN

fine il suo Aschenbach hanno petò la coscienza di questo vano ambiguo insolubile oscillare. Sanno che ognuno dei poli opposti costitutivi dell’uomo coinvolge l’altro e che cosî si relativizzano a vicenda; e che chi non lo sa e aderisce con assoluta passione all’uno o all’altro si perde tragicamente. Come Aschenbach. Il quale, innamoratosi follemente di Tadzio, o meglio della propria stessa passione per lui in cui gli pare gli si spezzino finalmente le sbarre della anteriore disciplina dello spirito a cui aveva assolutamente aderito prima, innamorato dunque fino a rimanere in mezzo al colera e a volere che vi rimanga anche Tadzio (tanto le due corruzioni, quella interiore ed esteriore erano la stessa e tanto quell’amore era lo stesso che la morte), acquisita poi coscienza della propria perdizione, un momento prima della sua fulminea morte, cieco ancora sulle vere cause della sua perdizione, si finge un alibi nell’ambiguità della bellezza, e rivolgendosi mentalmente a Tadzio come un altro Socrate a un altro Fedro, cost farnetica: « Giacché la bellezza, Fedro, notalo bene, solo la bellezza è divina e insieme visibile, e in tal modo essa è quindi la via del sensibile, piccolo Fedro, è la via dell’artista, verso lo spirito. Ma caro, tu credi che arriverà alla saggezza attraverso i sensi? O non credi piuttosto (sii pure libero di decidere tu) che questa è una dolce via di pericoli, davvero una via d’errore e di peccato, che porta fatalzzente fuori strada? Perché tu devi sapere che noi poeti zo possiazzo percorrere la via della bellezza senza che eros vi si infili e ci obblighi a subirne la guida [...], essendo la passione il nostro innalzamento e l’amore il nostro anelito: ecco la nostra gioia e la nostra vergogna. Hai visto bene che noi poeti ron possiazzo essere né saggi, né dignitosi? Che dobbiamo per forza smarrirci, per forza essere dissoluti e avventurieri del sentimento? La disciplina del nostro stile è bugia e ciurmeria, la nostra gloria e aristocrazia una farsa, la fiducia della gente per noi altamente ridicola, l'educazione del popolo e della gioventà per mezzo dell’arte una rischiosa impresa, da proibire. Che educatore potrebbe essere mai colui che ha inzata e incorreggibile l’attrazione dell’abisso? Lo vorremmo sf respingere e conquistare la dignità, ma ovunque ci si volga, esso ci seduce. Rinunciamo, per esempio, alla conoscenza che è dissolvitrice [...] e la nostra dedizione è d’ora innanzi tutta per la bellezza, vale a dire per la semplicità, la grandezza e una severità

ARTE, AMORE

E MORTE

263

nuova, per la seconda innocenza e per la forma. Ma la forma e l’innocenza portano, Fedro, all’ebbrezza e al desiderio, possono portare un’anima nobile a orrendi crimini del sentimento che la sua stessa bella severità respinge come infami, portano all’abisso, all’abisso esse pure. Vi pottano noi poeti, ripeto perché noi ron possiamo farci forza, possiamo solo buttarci via » (521). Si osservi la irradiazione di fatalità che dai termini in corsivo (corsivi nostri) si comunica a tutta la pagina. I poeti non possono non perdersi, Aschenbach non poteva non finire cosî, le divinità a cui s’era prima consacrato pet tanti anni non potevano un giorno non gettarlo in braccio alle divinità che l’avrebbero distrutto. È l’onda fatale che il lettore della Morte a Venezia (in tedesco) sente implacabile, incalzante, investire

ogni sua

riga e farsi ritmo

e stile. La pagina ri-

portata è esplicitamente platonica: riecheggia e approfondisce tutta la profonda riserva platonica circa la « via del sensibile », circa il « sensibile » in quanto tale e lo sfratto intimato ai poeti dalla ideale repubblica platonica. Altrove però Platone (nel Convito) sa anche d’un sensibile che può divenire, con la sua bellezza e con l’amore (eros) di lei, via e scala, ma non tanto verso lo « spirito », bensi verso l’Agathor, il Bene sussistente in sé, Dio. È quanto Aschenbach non sa e forse non sa bene ancora neppure il suo autore. Essi sanno solo che quella via aveva prima portato in alto a un altro vuoto abisso. Di qui la piega fatale, irresistibile della via che poi ha portato verso

l’abisso in basso. La Morte a Venezia è la tragedia della irrealtà d’un’arte atea in un mondo nel quale e per il quale Dio è morto; in «un mondo non più attinto da quel Pensiero creatore che, insieme con molto d’oscuro e d’opprimente, pensava anche l’amore e la grazia » ?. Non trovandolo, proprio per questo, né bello né significativo, l’arte è costretta a cercarsi e a crearsi altrove la bellezza e il significato. Ma dove, se Dio è morto e il mondo è la sola realtà? In una trascendenza irreale e come tale irrespirabile e insostenibile. Allora l’arte e l’artista devono di nuovo volgersi al mondo dove nulla è amabile. Ma quali amori sono ancora possibili in un simile mondo dove nulla è amabile, nulla fidato, nulla bello veramente? Solo gli amori e gli amanti che amano illusoriamente se stessi. GRESBETELLERMONNC//

IP,

CAP. IV - THOMAS

264

Tadzio è infatti un Narciso Tadzio che ama

e Aschenbach

soltanto se stesso,

è uno

MANN

che ama

o non Tadzio veramente,

ma la propria passione per Tadzio. Amori già in linea di principio malati, insensati e tragici; amori che non amano veramente la vita e la sua continuazione o moltiplicazione sulla terra, bensi il contrario:

amori e morte.

La Morte a Venezia è stata definita come una paradossale parodia tragica *. Paradossale perché è la condanna capitale dell’arte celebrata per mezzo dell’arte d’una grande opera d’arte. Contraddizione? No, ma parodia. Intendiamoci: Thomas Mann racconta la tragedia dell’artista Aschenbach e della sua arte precisamente con l’arte sua, di Aschenbach, e via via con lo stile e le varianti stilistiche che puntualmente gli si attagliano: con stile severo l’Aschenbach severo moralista, con stile classico-omerico l’Aschenbach apollineo (perfino in esametri omerici veri e propri furtivamente infilati nella prosa), con stile ditirambico l’Aschenbach dionisiaco dell’ultima fase. Ma tutta questa in sé stupenda adeguazione al personaggio non è identificazione o è identificazione soltanto parziale ?. È parodia. È fatta con riserva segreta, impercettibile, ma radicale. L’autore non s’identifica liricamente con il proprio eroe come aveva fatto con Tonio Kròger, ma lo « recita », insieme affascinato e riservato a suo riguardo. Ecco la parodia: contrassegno d’ota in poi di quasi tutta l’opera manniana. Parodia, nel nostro caso, in tutto seria, anzi tragica.

La nostra massima curiosità è, a questo punto, di sapere che cosa precisamente consenta a Thomas Mann, qui come in seguito, tanta riserva ®, tanta forza di parodia? Ri% Ibidem., p. 123. ? È stato notato che i contenuti e lo spirito delle opere di Aschenbach recensite nel secondo capitolo corrispondono supergiti a quelli delle opere che Thomas Mann aveva scritto o progettato di scrivere. E. HELLER,

op. cif., pp. 202-204.

® Solo una volta la riserva è esplicita. Si ha nel citato secondo capitolo: « Ma la risolutezza morale al di là del conoscere, della conoscenza che dissolve e blocca la volontà, non significa a sua volta una riduzione, una semplificazione morale del mondo e dell’anima e quindi un farsi più forti anche a riguardo del male, del proibito, del moralmente non possibile? E la forma non ha forse due diverse facce? Non è a un tempo morale e immorale? Morale in quanto risultato ed espressione della disciplina, ma immorale e perfino antimorale in quanto essa coinvolge per sua natura una morale indifferenza, in quanto anzi mira essenzialmente a piegare la realtà morale sotto il proprio superbo scettro che non tollera restrizioni? » (E. HELLER, op. cif., p. 455)

« LA MONTAGNA

INCANTATA »:

DOPPIA

SORPRESA

265

sposta difficile! Ma sembra subito chiaro che è anche e anzitutto una riserva etica, ma d’un’etica d’altto genere di quella di Aschenbach, essa pure parodiata. Non è sufficiente identificarla con la Biérgerlichkeit manniana. I suoi contenuti,

sia pure

generosamente

interpretati,

non

paiono

bastare a rendere il mistero che in Mann comanda tutte le inesauribili riserve che gli relativizzano ogni cosa, che gli rendono tutto sospetto, sospetta tutta l’antitetica dialettica umana. A noi pare di scorgere fin d’ora in quel mistero un senso d’assoluto a cui non sapremo conferire migliore qualifica che quella d’una inconscia, oscura teologia. È la teologia della sua ironia; che gli consente fra il resto di realizzare nelle sue opere un ideale d’arte integrale, superiore all’arte pura dei suoi artisti eroi e di molti artisti ed esteti suoi contemporanei, proprio mentre istituisce a quest’arte il processo e ne

smaschera le false e bugiarde divinità, la sua comica o tragica autodeificazione.

6. -

«LA MONTAGNA

INCANTATA »: DOPPIA

SORPRESA.

Dopo la Morte a Venezia (1911) passeranno tredici anni prima che a Mann sia consentito di mettere a punto un altro capolavoro: le mille e più pagine della Montagna incantata (1924). Eppure il seme dell’opera era già attecchito nel suo cervello fin dal 1912 in una visita alla moglie malata di mal sottile in un sanatorio di Davos in Engadina. Ma prima che il seme potesse svilupparsi in pianta, anzi in foresta, egli doveva consegnarsi a più incalzanti appelli. Fu tentato, subito dopo la parodia tragica dell’artista ossia di sé, dalla parodia comica e iniziò il Felix Krull, l’artista e cioè il recitante e perciò l’ingannatore e l’avventuriero nato, ma non riusci ad andar oltre le settanta pagine, non riusci a prendersi per ora più di tanto alla leggera. Lasciò allora l’arte per il saggio storico (Federico II e la grande coalizione) e poi per un lungo, arrabbiato duello ideologico, le seicento incandescenti pagine delle Corsiderazioni di un impolitico (1917), la prima guerra mondiale combattuta con la penna. Seguono dopo il 1918 un altro lungo saggio (Goethe e Tolstoj) e alcune narrazioni minori. Chi passa, saltando quest’intermezzo, dai capolavori giovanili al capolavoro ormai della maturità, alla Montagna, resterà sorpreso di ritrovarvi intera la problematica manniana

266

CAP. IV - THOMAS

MANN

di prima ma enormemente ingigantita, tropicalmente infittita e aggrovigliata. Ci si trova di colpo in mezzo a un immenso rebus, a un vasto ermetico incantesimo di ardua decifrazione, data soprattutto la sua complessità (che però è tutt’altro che confusione) e dati i continui nascondigli allegorici. Ad ogni modo, per incominciare dal più noto, è subito abbastanza chiaro anzitutto che l’eroe non è, è vero, questa volta un artista bensi un borghese, un giovane ingegnere amburghese e cioè la vita, ma è un borghese che un’altra volta si avventura e si smarrisce, se non esattamente nell’arte, nello spirito. Salendo dalla pianura, dalla vita, dal lavoro al sanatorio sui monti per visitatvi un cugino, vi resta preso in trappola:

an-

che lui vi si ammala di tbc e là sulla montagna viene iniziato a una esplorazione spirituale di labirintica complicazione. Sono dunque evidentemente in gioco un’altra volta i due grandi opposti (Gegensétze) in cui si riassume, secondo Schopenhauer e Nietzsche (e per il momento anche secondo Thomas Mann), l’uomo: la vita e lo spirito. Senonché entrambi, passati al vaglio inesorabile della narrativa manniana — dei Buddenbrooks e della Morte a Venezia — erano stati denunciati come malati a morte: malata la vita (salvezza per Nietzsche) perché carente di spirito (di significato, di raison d’étre) e malato lo spirito (salvezza per Schopenhauer) perché carente di vita e di realtà. Il compromesso fra i due tentato dal Tonio Kròger era stato troppo impreciso e timido, sentimentale e di nuovo ambiguo. La tbc dell’eroe è l’espressione, anzi la traduzione fisica di entrambe le malattie in fondo coincidenti. Egli non si sarebbe ammalato della malattia dello spirito lassi se la sua vita laggiù fosse stata spiritualmente sana e integra. Malattia per malattia, tanto valeva preferire quella nuova, ignota e avventurosa sulle altitudini. La « montagna » è dunque lo spirito che dall’alto del suo oziur riflette sulla vita e sulla morte e sui loro sensi o non-sensi. Essa è un « sanatorio » perché è uno spirito malato, ed è (stessa cosa in altri termini) « incantata » (meglio: « stregata ») perché irreale nella sua separazione dalla vita e perché prigioniera nella malia del suo proprio inestricabile labirinto. La seconda grossa sorpresa che coglie chi arriva alla Mowtagna incantata direttamente dalla Morte 4 Venezia è di trovarsi davanti a uno spirito a sua volta diviso in due fazioni irriducibilmente antagoniste, in due opposti Gegersitze. Come il lettore anche superficiale della Montagna ben sa, Hans Ca-

« LA

MONTAGNA

INCANTATA

»:

DOPPIA

SORPRESA

267

storp, il protagonista, viene preso, quasi fin dagli esordi della sua avventura lassi, in consegna e « pedagogicamente » conteso fino alla fine prima da un mentore e poi da due, entrambi tubercolotici e tra loro di continuo disputanti: da un italiano, Settembrini e da un gesuita, Naphta. In questa contesa, o dramma, a tre consiste la principale ossatura portante di tutta la Montagna incantata. Nell’interminabile litigio dei due si tratta ogni volta di opposte concezioni, interpretazioni, significati e valori dell’esistenza, cioè di due « spiriti » in guerra tra loro. Chi sono qui quei due e che cosa rappresentano? A chi volesse subito una sommaria risposta, una risposta concreta ma vera almeno per tte quarti, essa non potrà essere che la seguente sbalorditiva risposta: Naphta è Thomas Mann e Settembrini è il fratello di Thomas Mann, Heinrich; sono i due grandi arrabbiati antagonisti delle Considerazioni di un impolitico, trasmigrati nella Montagna dove hanno cambiato nome

e qualcos’altro, ma restando, ripetiamo, per tre quarti

gli stessi. Ciò che è cambiato è soprattutto il genere letterario che da saggistico ora è artistico-narrativo. Ora Thomas Mann tratta i due antagonisti da artista che li « recita » entrambi in distanza ironica, impartecipe ed equidistante se possibile, mentre nelle Considerazioni egli aveva passionalmente « vissuta » la sua parte. Naturalmente questo trasferimento dal saggismo impegnato all’arte disimpegnata, che non « vuole » nulla ma soltanto « rappresenta », non sarebbe stato possibile a Thomas Mann se nel frattempo, cioè dal tempo delle Considerazioni a quello della Montagna (dal tempo della guerra a quello della pace), non si fosse anche realmente e seriamente verificato in lui un distacco e uno scioglimento. Si sente che nella Montagna realmente la passione è un po’ sbollita, che l’antagonismo s’è attenuato e che le contraddizioni si sono dialettizzate consentendo un accostamento, o si sono per altro lato approfondite imponendo una scelta. Saranno le scelte e e gli accostamenti futuri di Hans Castorp che Thomas Mann, il pedagogo nascosto fra le quinte, terzo fra i due litiganti, intende guidare attraverso le ambiguità verso una verità. Tutto ciò vuol dire anzitutto che il misterioso romanzo non si spiega senza le Considerazioni. Dobbiamo allora retrocedere d’una decina di anni, al 1914, anno dello scoppio della guerra fra gli Imperi e l’Intesa, e al 1915, anno dello scoppio della polemica dei due fratelli Mann, sostenitore spirituale

CAP. IV - THOMAS

268

l’uno (Thomas)

MANN

dei primi e l’altro (Heinrich) della seconda.

È una vera e propria discriminazione e cioè « discrezione di spiriti » quella a cui ci accingiamo con la identificazione degli estremi termini della celebre querelle fraterna. La miccia esplose per collisione di due scritti. Il primo di Thomas, apparso all’inizio del 1915, conteneva un saggio su Federico II. Heinrich rispose di lî a poco da Roma con un saggio su Zola, un vero j'accuse zoliano contro la Germania, la sua guerra e i suoi patriottici scrittori, primo fra tutti Thomas,

mai nominato

ma costantemente

alluso. La contro-

risposta di Thomas si fece attendere fino al 1917, e fu l’interminabile autodialogo delle Considerazioni, ma affinché soprattutto un altro (neppure lui mai nominato) lo ascoltasse, in cui davvero cielo e terra vengono messi a soqquadro in vista d’una risposta radicale e totale. Ora, c’era presumibilmente da tempo, fra i due fratelli fino allora in fitta corrispondenza

epistolare,

una

latente

rivalità

artistica,

c'erano

forti differenze di temperamento e di scelte culturali e politiche (Heinrich aveva scelto politicamente per il socialismo democratico, era un liberal-socialista, mentre Thomas non aveva scelto politicamente fino allora per nulla, era un « impolitico », appunto), ma non differenze tali da renderli d’un tratto e a tal punto da fratelli coltelli, se il loro personale e ideologico antagonismo latente non fosse stato d’un tratto panicamente dilatato dall’antagonismo europeo, anzi mondiale della guerra. Questo spiega in gran parte perché, finita la guerra e mutatasi la politica, anche la querelle fra gli « spiriti » dei due fratelli nemici si è attenuata via via, pur non esaurendosi mai del tutto. Il tempo e un breve tempo, insomma, aveva dimostrato che la componente politico-storica era stata nient'altro che un « accidente » d’accensione e d’amplificazione del contrasto, e non sostanza. Accidentali dunque sono in essa il militarismo, il nazionalismo o quasi sciovinismo tedesco, l’assunzione del « Deutschtum », del. germanesimo, nel Gegensatz con cui Thomas s’era identificato nelle Considera zioni. Accidentali a tal punto che già nel 1923 Thomas si pronunciava in termini di simpatia proprio verso il socialismo democratico tedesco, e dal 1929 in poi le parti addirittura si

rovesciavano in lui in senso coraggiosamente antinazista *, anzi 31" Cè(0% stato chi‘ ha creduto di: far passare Thomas Mann per un precursore del nazismo proprio a causa delle Considerazioni. Risponde

RELIGIONE

SALVEZZA

DELL'ARTE

269

antinazionalista e antitedesco, fino alla rinuncia della cittadinanza tedesca per la cittadinanza in una delle democrazie (l'americana) contro cui aveva militato al tempo delle Consi-

derazioni. Le componenti del Gegersatz manniano, dello « spirito manniano » non sono, in profondità, gli Imperi contro l’Intesa, il germanesimo contro l’internazionalismo democratico, ma altre che ora riferiremo e con le quali il germanesimo viene nelle Considerazioni identificato con una ostinazione che sfiora il ridicolo. La verità è tedesca per il consideratore impolitico, e Claudel, in cui egli ha ravvisato tratti del proprio « spirito », è un francese che scrive «in tedesco » ©. Ma egli era allora troppo ebbro, troppo ferito per avvertire questo ridicolo.

7.- RELIGIONE

SALVEZZA

DELL’ARTE.

Già dall’« Introduzione » (scritta per ultima come sintesi riflessa delle Considerazioni e delle loro ragioni centrali) si può sapere ad evidenza che l’attacco di Heinrich aveva fin da principio colpito non tanto le sue opzioni politiche, la sua Germania e il suo germanesimo, quanto piuttosto la sua « esistenza d’artista » e che per giustificare a se stesso una simile esistenza, per potersi salvare in quanto artista, egli s'era soprattutto e in fondo in fondo condannato alla « galera » di quel libro: « opera non d’arte ma opera d’artista [...], d’un

mondo

artistico

scosso

nelle sue

fondamenta » (5). E

non tanto per giustificare un’arte che si è messa al servizio del proprio paese in guerra, e tanto meno (o niente del tutto) per difendere forme, tecniche o estetiche della sua arte, bensf soprattutto per difendere i propri contenuti artistici, una visione, una verità dell’uomo di cui la sua atte s’era fatta fino

allora esponente. Ma non c’era forse sempre stata in Thomas stesso un’accusa che saliva dentro di lui radicale e pertinace Frich Heller in una sua nota in Der ironische Deutsche: «L'accusa è francamente stupida. Indissociabile dal fascismo è l’idea dello stato totalitario. Ora le Considerazioni sono ”impolitiche’’ quantomeno nel senso di una appassionata difesa della sfera dello spirito contro ogni politica totalitaria » (p. 131). ® Tu. MANN, Considerazioni di un impolitico, Bari 1967 (traduzione di M. Marianelli), p. 345. I numeri tra parentesi nel testo indicheranno d’ora in poi le pagine di questo libro.

270

CAP. IV - THOMAS

MANN

contro l’arte e l’artista, contro l’artista quanto ai suoi modi moralmente e umanamente indifferenti di rappresentare l’uomo, ma anche contro l’uomo conosciuto e rappresentato dall’artista, nient'altro che « povertà e comicità, povertà e comicità », contro l’« abominevole conoscenza », contro l’« abisso »? I suoi eroi non erano forse tutti uomini che naufragavano o nello spirito o nella vita o in ambedue? È stato ben detto allora che il dramma dei due fratelli era, più in profondità, il dramma di due anime in Thomas stesso, era la sua anima d’artista in agonia *. Sempre l’informatissimo Heller crede di sapere che le parole fraterne del saggio su Zola che dovevano aver colpito più atrocemente Thomas erano quelle in cui si parlava di « profondi chiacchieroni che s’immaginano di possedere conoscenza e di potere al di là d’ogni conoscenza farsi panegiristi della più sfrontata violenza » #. Heinrich conosceva bene il suo Thomas e citava con una sola frase da due sue opere, dalla sua Morte a Venezia e dal suo Federico II. Thomas Mann aveva scritto nello spirito di Aschenbach il saggio sul re prussiano, ne aveva fatto un « eroe nichilista », la cui volontà voleva eroicamente pur sapendo che non c’era senso a volere, voleva «al di là d’ogni conoscenza », ossia d’ogni ragione, d’ogni diritto. E Federico II aveva infatti voluto insensatamente, con pura volontà di potenza, l’invasione della neutrale Sassonia nella guerra dei Sette Anni, come la Germania l’invasione del Belgio nella guerra mondiale. La giustificazione, anzi l'ammirazione per una simile nichilistica volontà di potenza e l'accostamento delle due invasioni, che Thomas non lodava ma neppure condannava, erano la scandalosa macchia, erano il vulnerabile tallone

d'Achille

colpito dall’accusa

di Heinrich.

È l’accusa dalla

quale meno che da tutte si difende Thomas in tutte le Cowsiderazioni. Invano vi si cercherà un argomento a sostegno del puro nichilismo (o ateismo) o della pura volontà di potenza. Un simile tipo d’eroe e una simile ammirazione non ricompaiono più in tutta la successiva narrativa manniana. Ad eccezione, se non erriamo, di due soli brevi passi delle Considerazioni. Nel primo si parla di «casi in cui si parte dalla fede e si arriva alla miscredenza, al pessimismo, al® H. HELLER, op. cit., p. 130. “ Ibidem, p. 137.

RELIGIONE

SALVEZZA

DELL'ARTE

271

l’ironia, senza che tutto ciò, ad onta d’ogni morale, comporti un declino » (448). Si citano in proposito Wagner e l’Ibsen di Aritra selvatica. Il secondo passo è una difesa di Aschenbach e della sua fine catastrofica e disperata. Quella fine gli sembra, da parte di chi la racconta, « un atto morale ». E perché? La ragione addotta da Mann è: « La mia natura è tale che il dubbio, anzi la disperazione mi sembrano più morali, più onesti, più artistici di qualsiasi ottimismo dominante

[...]. Credo

perfino che la disperazione

[corsivo

di Mann] sia una condizione migliore, più umana, più morale, dirò insomma pid religiosa [corsivo nostro] del fideismo parolaio dell’ottimismo rivoluzionario, e che l’umanità nello stato della disperazione sia più vicina a salvarsi che nello stato della fede nella democrazia [...]. Ogni disperazione è di natura religiosa » (455). Dunque: meglio il nichilismo pessimistico. Ma meglio di che cosa? D’una religione ottimistica liberale e progressista dell’immanenza. Il comparativo è qui fra atei. E significa: se Dio dev'essere morto, la verità è allora che l’uomo è disperato, pessimista e nichilista e che qualsiasi ottimismo di autoredenzione rivoluzionaria dell’uomo attraverso la democrazia (o altra cosa umana qualsiasi) è « fideismo parolaio », cioè retorica e illusione. Ma se ci dev’essere una via verso una religione autentica e una religiosa salvezza, essa passa attraverso il pessimismo, il nichilismo e la disperazione. Abbiamo in questi concetti già gli estremi termini, le componenti più profonde e decisive della famosa antitesi, dei due « spiriti» antagonisti, di Thomas e Heinrich. E anticipando per amore di chiarezza la nostra ipotesi di ricerca, diremo allora che, tutto bene visto e considerato, lo spartiacque che ha introdotto la frattura nel concetto manniano di spirito e ne ha fatto, di uno, due l’un contro l’altro armati, è di natura religiosa. La sola prospettiva che Thomas Mann dal fondo delle sue Considerazioni riesce a far brillare davanti a sé in vista d’una giustificazione della propria opera d’artista e della sua decadentistica, pessimistica, nichilistica visione dell’uomo che in quell’opera s’esprime, è la possibilità (non diciamo la certezza) di escavo, attraverso tanta negatività, d’una premessa nell’uomo di religiosa redenzione e reintegrazione. In altre parole ciò che trasforma e arricchisce d’ora in poi il concetto manniano di « spirito » è il concetto di mistero religioso, è l’ipotesi che il rarefatto, ir-

272

CAP.

IV - THOMAS

MANN

reale spirito della tradizione schopenhaueriana possa sostanziarsi di realtà nel mistero, possa farsi reale in una misteriosa realtà. E ciò che radicalmente opporrà questa nuova ipotetica concezione manniana dello spirito allo spirito rappresentato dal fratello Heinrich sarà il rifiuto in quest’ultimo d’ogni dimensione misteriosa e dunque religiosa, il suo conseguente o antecedente razionalismo a oltranza e il suo correlativo ottimismo umanistico autosufficiente. Ma prima di giungere a radicalizzarsi in tali estremi termini, l’antitesi attraversa tutta una serie di gradi intermedi. L’immenso, fittissimo contraddittorio si coagula e si semplifica, o si presta ad essere semplificato, in binomi essenziali, simbolici, in veri e propri slogars, colti e ricordati anche dal lettore superficiale. Anche costui sa, alla fine, che Mann è con gli Imperi centrali contro l’Intesa e per il germanesimo contro la latinità e l’internazionalismo. Ma sa anche, alla fine, approssimativamente che Mann (illudendosi per ora che tutti i seguenti termini siano più o meno sinonimi dei due primi e tra di loro) è:

per una

concezione

sacramentale

dello Stato contro

quella

contrattuale-sociale, per lo spirito e il regime aristocratico contro la democrazia, per la Kultur contro la Civilisation,

per la vita (la natura) contro la ragione, per l’ironia contro la retorica, per la musica contro la letteratura (o anche per la poesia contro la letteratura o per la musica contro la clarté), per l’inesplicato e inesplicabile (il misterioso) contro la clarté, per l’etica contro l’estetica, per la dignità contro la passione, per la contemplazione contto l’azione, (o anche per l’essere profondo contro l’azione), per il pessimismo umanistico contro l’ottimismo filanttopico, per l’immoralismo e il vizio contro il moralismo e la virtà retorici),

pet la tradizione contro la rivoluzione, per il conservatorismo contro il progressismo e il migliorismo, per il Bérger (il borghese disciplinato tedesco) contro il bourgeois (il borghese

per il romanticismo

liberale

franco-latino),

contro l’illuminismo,

DECADENTISMO

RELIGIOSO

273

per il secolo XIX contro il secolo XVIII, perfino per la guerra, quando occorra, contro il pacifismo a oltranza. È per «i signori, l’autorità, la storia, il potere, la monarchia e la chiesa » (39) contro chi è contro di loro, e costoro sono i bourgeois rètori, pacifisti, virtuosi, repubblicani, fils de la Révolution, i « nati coni famosi tre principi » (23), « urlatori dei diritti dell’uomo, ciarlatani della libertà » (95). E quanto alle auctoritates o agli autori chiamati in causa pro o contro se stesso, sappiamo tutti alla fine che egli è con Schopenhauer e Nietzsche (con riserva) contro « Rousseau e gli altri ». È (citiamo per numero approssimativamente decrescente di chiamate) con Dostoevskij, Tolstoj, Eichendorff, Goethe, Claudel, Palestrina, Kleist, Pascal, Strindberg, Cézanne, Flaubert, Barrés, ecc. Ma non è, per esempio, per Beccaria, Mazzini, D'Annunzio:

non per il primo perché mirava

ad eliminare le pene e le colpe, senza di cui « si rende triviale il mondo e la vita » (387); non per il secondo perché egli trova in lui « allo stato puro, e nel suo rigoglio, il massone latino, il democratico, il letterato della rivoluzione, il rètore del progresso » (344); non per il terzo, che è «un pagliaccio politico-estetico » (465). Egli è per « un interiore patrocinio dei valori metafisici della vita » contro «il democratismo del nostro civil-culturame », contro « l’ideologia del benessere, l’apoteosi della socialità, lo spettacolo retorico-sentimental-rivoluzionario » (98 s).

8. - DECADENTISMO

RELIGIOSO.

Uno sguardo sinottico alla lista dei termini segnati per primi già offre una sintesi discreta della Weltanschauung per la quale crede o intende parteggiare Thomas Mann con tutta la sua anima e con tutta la sua attività di scrittore, come pure la lista dei termini segnati per secondi la sintesi della Weltanschauung per la quale egli suppone parteggi l’avversario o, come di continuo lo chiama, il « letterato della civilizzazione », il «civil-letterato ». Tutto sommato la posizione manniana è, vista da sinistra (e dunque per Heinrich), quella dell’oscurantismo reazionario, ma, vista da un’altra ottica (di destra o di centro), si allinea puntualmente con le istanze 18

MANN

CAP. IV - THOMAS

274

fondamentali dell'avanguardia poetico-artistica, dunque della dominante letteraria, di tutto il primo Novecento europeo, istanze antipositivistiche e contestative verso la religione della libertà e del progresso, verso la religione dell’umanesimo assoluto liberal-socialista, il termine più riassuntivo delle quali istanze è: « decadentismo ». Erano istanze in parte nichilistiche, ma in parte anche metafisiche e religiose. Sotto il profilo storiografico Thomas Mann è cosî uno dei ribelli ai clichés della storiografia liberale che vede nel Medioevo l’età delle tenebre, in Lutero e nel Rinascimento la prima riscossa, nella Controriforma

il ritorno

alle tenebre, nell’Illuminismo

e nella Rivoluzione francese la seconda riscossa e magari nel marxismo (per quelli che aderendo a quei clichés trovano però parziale e provvisoria questa seconda riscossa) la riscossa terza e definitiva”. C'era nella mentalità del civil-letterato parecchio contro cui Thomas Mann doveva sentirsi immediatamente ribelle, anche solo perché artista e poeta profondo. Era il suo razionalismo, il suo ottimismo e il suo servizio politico. L’artista profondo attinge più volentieri dall’irrazionale, infrarazionale, sovrarazionale dell’uomo, vibra di preferenza ai suoi lati critici e problematici,

lata, al tragico. ribelle contro

al suo dolore, alla sua zona

Egualmente

le pianificazioni

egli non calcolate,

può

non

oscura,

ma-

essere

un

scientifiche,

sociali,

politiche della felicità umana, ribelle alle costruzioni politicamente organizzate dell’uomo ideale, e ribelle a un servizio dell’artista in tal senso. Vi insorge gelosa la sua originalità, la sua autonomia, la sua privacy, la sua libertà investigatrice e creatrice. È pacifico poi che l’arte ha la sua patria più nella nostalgia e nella memoria che nel futurismo. * Ecco per esempio quanto a Lutero e la Riforma: « Fu una fortuna la Riforma? No. Per la Germania ne seguirono la disillusione in tutto il nord del paese e poi la guerra dei Trent'anni [...]. E si ricordino il cruccio e la disperazione di Nietzsche per un avvenimento come quello di Lutero a Roma, per questo monaco e razza di plebeo che osò ribellarsi contro il Rinascimento [...]. Ricordo tutto questo perché m’infastidisce la leggerezza con cui il civil-letterato pretende a favore delle proprie dottrine, quasi che fosse una cosa naturale che la Riforma sia stata semplicemente una tappa decisiva fra il Rinascimento e la Rivoluzione (francese) e la Rivoluzione verso la liberazione e il progresso » (452). Il Medioevo « fu il tempo più felice della politica tedesca, ed è facile profetizzare che la Germania non tornerà ad essere felice finché non tornerà a formarsi questa felice sua costellazione » (318).

DECADENTISMO

RELIGIOSO

ZI5

Stimoli forti alla sua insurrezione gli arrivavano dall’antiliberalismo di Goethe e di Kleist e in genere del classicismo e romanticismo tedesco, stimoli fortissimi poi da Schopenhauer e Nietzsche. L’irrazionalismo, volontarismo, vitalismo, pessimismo di questi due gli fornisce più d’un’arma, non però il loro nichilismo ateo, se non altro perché quanto all’ateismo li vedeva coincidere con i suoi antagonisti. Di Schopenhauer riporta il suo conservatorismo politico e il suo sentimento aristocratico e addirittura un lungo testo d’ispirazione cristiana‘. E quanto all’antireligiosità e all’anticristianesimo nicciano, egli spende pagine intere per diluirne i veleni (200 ss.) o per interpretarlo addirittura, insieme con il suo antigermanesimo e antiwagnerismo, nato amore sotto segno opposto (124).

come

un appassio-

Tanto può bastare per autorizzarci ad allungare la lista sinottica degli estremi del grande contraddittorio d’un’ulteriore antitesi. Thomas Mann è anche per la religione contro l’irreligione. Che genere di religione e a qual grado di adesione sarà arduo definire, ma si potrà senz’altro subito patlare di simpatia, di apertura, di dimensioni religiose come di componenti obbligate dello «spirito » manniano innestate sul suo pessimismo e problematicismo umanistico, e sul dignitoso e severo moralismo che ormai lo contraddistingue. Basterebbero i semplici nomi di coloro ai quali via via si allea nella sua guerra. È entusiasta di Cézanne, « un conservatore, un pio cattolico. Tutta la roba vecchia, la monarchia, l’esercito, la chiesa, erano per lui sacre e inviolabili » # Questo: « Dovunque e in ogni tempo ci fu malcontento grande contro i governi, le leggi e le pubbliche istituzioni; ma per lo più è stato solo perché si è sempre pronti a far pesare su di quelli la miseria che è la compagna inseparabile dell’esistenza umana in quanto essa è, per dirla con i miti, la maledizione che colpî Adamo e tutto il suo seme con lui. Eppure mai quel miraggio ingannevole è stato manovrato con maniera tanto finta e sfacciata quanto dai demogoghi del tempo presente. Costoro sono infatti, in quanto nemici del cristianesimo, degli ottimisti: il mondo per loro è ’fine a se stesso”, cioè disposto per sua natural conformazione a meraviglia, è la vera dimora della felicità. Invece i suoi mali strazianti e infiniti, li ascrivono tutti ai governi; ché se quelli, dicono, facessero il loro dovere, sarebbe il paradiso in terra, vale a dire tutti potrebbero ingozzarsi, sbevazzare, moltiplicarsi e crepare senza la minima pena e fatica; infatti questa è la parafrasi del loro ”’fine a se stesso”, la meta finale delle magnifiche, progressive sorti dell'umanità che non si stancano di annunciare con il loro pomposo frasatio » (324 s.).

276

CAP. IV - THOMAS

MANN

(315). È entusiasta di Claudel: « Lessi e rilessi con grande emozione e gioia L’annonce faite à Marie [....], l'impressione artistica di gran lunga più forte che mi fosse toccato di godere da molto tempo [...]. Dunque mi innamorai del ricchissimo spirito cristiano di quell’opera francese [...]. L’amore che si prova per questa poesia consiste soprattutto nella gioia di riscoprire un’antichissima fratellanza che, più che tale, era un’unità dei nostri due paesi » (353 s.). È entusiasta del Palestrina, un melodramma di Pfitzner, della sua « musica liturgica », della « simpatia per la morte » che vi si esprime e che è il rapporto mistico con la sposa morta nell’al di là del grande musicista cattolico » (357, 370). E sarà bene ricordare questa mistica « simpatia per la morte » di Palestrina,

per lodare la quale Thomas Mann non ha abbastanza parole e che rivendica come un sentimento suo proprio, tutte le volte che la celebrerà nella Montagna incantata: è un sentimento religioso. Questo sentimento è affine a quell’« atmosfera di croce, morte e sepolcro » ch’egli rileva in Nietzsche e che pure dichiara propria personale, a tal punto che il civil-letterato e il suo sosia nella Montagna perpettano a suo vedere « il tradimento della croce » (374): un misfatto in fondo religioso, un sacrilegio. Thomas Mann parteggia di slancio con Romain Rolland e con Barrés (cattolico) e con la loro apologia dell’« architettura gotica » contro «il malvagio vandalismo del dominante ateismo da speziali » (270). Ed ha il coraggio di difendere contro il civil-letterato il cattolico F.W. Forster e il suo medioevalismo e universalismo cattolico, esponente d’una « attualissima nostalgia europea che oggi guarda indietro oltre i proibiti confini del XVI secolo [...] mille volte più cara a me delle indicibilmente antitedesche declamazioni dei nostri massoni tardorivoluzionari, primi tenori del progresso italo-francesi » (100). Anche Kleist è chiamato nell’alleanza con una citazione dal suo Katbechisnus der Deutschen: «E quali sono i più alti beni degli uomini? Dio, patria, imperatore, libertà, amore e fedeltà, bellezza, scienza e arte » (134). E, naturalmente e a più riprese, Goethe, e di Goethe in particolare la sua religio sità: «Quel sacro rispetto che anche Goethe invocava nella sua provincia pedagogica, da pedagogo di razza qual era e ben consapevole che l'istruzione nello spirito di quel sacro rispetto sarebbe stata l’unico antidoto amaro e necessario

DECADENTISMO

RELIGIOSO

260

all’insorgente democrazia. Ma perché lo è in fondo? [...] Perché per quel tramite il problema sociale e politico torna a inserirsi nella sfera morale e dell’anima, la sfera umana

[....].

Ma di quest’effetto è capace soltanto una religione autentica, dunque metafisica, e dunque ferma nell’insegnatci a considerare il fattore sociale come in fondo subordinato » (223). E a un certo punto egli cita a suo favore tutti gli artisti e tutta l’arte come tali e la loro libertà e superiorità sulla stato e la vita politica. L’elemento religioso viene elencato fra i coefficienti indispensabili d’una tale libertà e superiorità. Giacché « la verità di cui [gli artisti] vivono è questa: che esiste una sfera superiore alla vita politica, la sfera a cui appartengono l’arte, la religione, le discipline dello spirito, ogni più profonda mortalità [...]. L'uomo infatti non è soltanto un essere sociale, bensî anche metafisico ». Esiste «un sovraindividuale metafisico [...]. Anche la nazione non è semplicemente

una entità sociale bensi anche metafisica

[...]

dotata d’una quanto mai singolare impronta mitica ». Invece « nello stato moderno non c’è [pit] nulla di patticolarmente venerabile. Una identificazione della vita politica e di quella religiosa non può essere mantenuta. Che senso avrebbe l’appagamento totale della personalità nello stato? » (212 ss.). E sempre militando contro un’arte militante, un’arte come vita, manifesto, engagement, e per un’arte invece come trascendenza, per un’art pour l’art, si tratterà per Thomas Mann

non di spezzare una lancia a favore d’una vuota trascendenza estetica ma

d’una trascendenza

religiosamente

ancorata,

giac-

ché « l’arte è cosa che riguarda l’anima solitaria, la coscienza, il protestantesimo e l’immediata presenza di Dio» (270). « Almeno l’artista, il poeta è protestante per necessità e per nascita,

è la creatura

singola

davanti

al suo

Dio»

(432).

Parlando per l’ennesima volta della musica, « arte che il tedesco ha coltivato come una virtù e una religione, insomma la veste tedesca dell’art pour l'art », cita Grillparzer concordando con passione: «E la fuga, il punctum contra punctum, e il canon a due a tre e cosî via: tutta una celeste architettura (corsivo di Mann), ogni elemento che sottentra all’altro, tenuta insieme non dalla calce ma dalla mano di Dio » (174).

Più deciso ancora Thomas Mann è quando si tratta di spezzare le sue lance contro l’irreligiosità del civilletterato e del suo « illuminismo antimetafisico ». Là per esempio dove

CAP. IV - THOMAS

278

MANN

discorre delle masse che per conseguenza della morale illuministica a cui inneggiano « diventano per forza sempre più scontente, più stupide e irreligiose. Proprio cosî, irreligiose.

Sbaglia il liberalismo a sceverare la religione dalla politica. Senza la religione la politica, quella interna, vale a dire la politica sociale, a lungo andare diventa impossibile, giacché l’uomo è fatto in modo tale che, dopo aver perso ogni religione metafisica, traspone il fatto religioso sul piano sociale. Il che conduce a un’atmosfera sociale querimoniosa e scontrosa con la cultura o, siccome l’antagonismo sociale è ineliminabile e la promessa felicità non si fa vedere, a un perpetuarsi degli attriti per il profitto e alla disperazione. La religiosità può andare benissimo d’accordo con la coscienza sociale, ma incomincia solo nel momento in cui cessa la sopravvalutazione della vita sociale » (281). C’è di peggio, il civil-letterato è materia-

lista, non può non esserlo, ed è preoccupato delle tendenze neospiritualiste della filosofia moderna, e Thomas Mann ne ha sentito uno che in proposito s’era messo a gridare: « Fate, fate pure. Riportate pure l’anima per vie traverse! Questo già basterebbe per trovarvi addosso di nuovo tutta quanta la porcheria » (314). Quale porcheria? Evidentemente le metafisiche, le religioni (313).

E nel dipingere la fede del civil-letterato e le sue mete egli raggiunge (aiutandosi con Nietzsche) punte di alto sarcasmo: « Vorremmo dare qualche ragguaglio anche intorno all’oggetto della fede nuova o rinnovata o rimessa a nuovo a forza d’artificio, la fede nella politica, cioè nel progresso e nell’umanità, la fede in una meta che è quella condizione ’bellissima e gioiosa’ verso la quale essa umanità sta marciando meravigliosamente; la fede in un regno di Dio il quale, contro

ogni

ragionamento

metafisico

e religioso,

è stato

tra-

sposto dal cielo dei preti imbroglioni sulla terra del futuro, nel mondo degli uomini; la fede nella morale insomma, in quella morale democratica, di cui disse Nietzsche sprezzante che tendeva a raggiungere ad ogni costo il beato pascolo universale sulla terra, vale a dire, sicurezza, assenza di pericolo, conforto, leggerezza di vita, e che, ultimo non ultimo, ’se tutto va bene’, sperava di potersi liberare da ogni specie di pastori e di montoni guida del gregge » (432 s.) Dostoevskij è la quarta stella che si aggiunge, al tempo delle Considerazioni, alle ben note tre stelle anteriori nella co-

DECADENTISMO

RELIGIOSO

279

stellazione dei maestri ispiratori di Thomas Mann. A lui, più che a tutti, noi pensiamo che debba la riemersione integrativa della dimensione religiosa. È l’alleato numero uno, citatissimo e quasi ogni volta a confortare le prese di posizione religiosa, specie la coimplicazione reciproca di ethos e religione. Non potendo ovviamente ricitarlo tutto, ci limiteremo a un unico riporto: « Dostoevskij ebbe a scrivere a una madre: “Insegni a Suo figlio la fede in Dio, la fede severa, ligia alla tradizione. Altrimenti Lei non potrà fare di Suo figlio una creatura buona, sebbene nel migliore dei casi una creatura che sopporta, e nel peggiore un individuo grasso il che è molto peggio” » (469). Ora questo passo del suo Dostovskij deve aver messo Thomas Mann in crisi quasi quanto altri passi del civil-letterato. La sua fede religiosa era stata tutt’altro che decisa, severa e ligia. Era stata poca o punta, e la sua fede attuale era tutt’al più un dubbio metodico: «Io non posso dire di aver fede in Dio, dovrebbe passare molto tempo, io penso, prima che lo dicessi, anche se ci credessi ». Ma allora sono un uomo che sopporta, un individuo « grasso »?, dev’essersi domandato il Nostro. È una piccola presa alla gola, alla quale però dobbiamo finalmente una dichiarazione specificatrice della qualità e del grado della sua fede: «”Grasso” il dubbio non mi ha reso mai [...]. Intanto so due cose:

primo,

che mi riuscirebbe più facile credere in Dio che nell’umanità; secondo, che l’umanità ha più bisogno di credere in Dio che nella democrazia. Lasciamo infatti da parte la questione se il singolo individuo possa essere buono senza Dio; cettissimamente certo resta che la massa degli uomini non troverà mai la minima ragione di essere buona senza la fede in Dio [...]. Quando io dico ’’religione e non politica”, non mi vanto di possedere la religione. Me ne guardo bene; no, io non possiedo alcuna religione. Ma se con il termine di religiosità è lecito intendere quella libertà che è una via e non una meta raggiunta che significa apertura, duttilità, disposizione verso la vita, umiltà e anche cercare e tentare, dubitare e sbandarte; se insomma significa una via, ripeto, verso Dio o, se volete, magari verso il diavolo (purché, per amor di Dio, non sia l’incallita sicumera, l’ipocrisia del gran proprietario della fede), bene, può anche darsi che io arrivi a dire che un po’ d’una simile libertà e religiosità mi appartiene » (469 ss.).

280

CAP. IV - THOMAS

MANN

È una religione ben vaga ”, minima, estremamente problematica questa di Thomas Mann, si dirà, ma in un anticlericale precoce, in un pupillo di Schopenhauer, di Nietzsche e di Wagner, è già, dobbiamo dire, molto. E del resto, la fede nel diavolo, cioè nel demoniaco, più fotte e più precoce, anche questo è vero, in Mann della fede in Dio, è pure una via, e ortodossa, verso la fede in Dio. A questa pagina è da accostarne un’altra forse ancora più rivelatrice sulla sua sensibilità del sacro: «Quanto a me posso dire di avere sempre sostato volentieri nelle chiese [...]. A due passi dalla divertente strada degli eserciti del progresso, ti accoglie un asilo dove hanno dimora legittima la serietà, il silenzio e il pensiero della morte e dove si erge la croce per essere adorata. Che beneficio, che appagamento interiore! Qui non è questione né di politica né di affari, qui l’uomo è uomo in quanto tale, ha un cuore e non ne fa un segreto, qui domina l’umanità pura, affrancata, austera di un’austerità non borghese. Qui avremmo vergogna #7 Sembra a momenti che Mann, nel concepire la religione, torni incoerente a condividere le astrazioni del civil-letterato. Dopo aver parlato della necessità d’una «religione metafisica », per esempio, aggiunge: «O se proprio non si vuol parlare di religione si parli di formazione spirituale o si parli di bontà, di umanità e di libertà » (223). Che cos’è

la fede? si domanda in un altro luogo. E si risponde: « È la fede in Dio. Ma che cos'è Dio? Non è forse la totalità degli aspetti, il principio plastico, la giustizia onnisciente, l’amore che abbraccia tutti? La fede in Dio è la fede nell’amore, nella vita, nell’arte » (444). Ma in altri luoghi si riscatta nitidamente da simili confusioni ambiguamente interpretabili là per esempio dove narra della sepoltura d’un amico: «La religione? Ho sentito il civil-letterato parlare di religione. Era morto un poeta, una creatura che, pur con tutta la malizia scintillante del suo spirito, era di un’ingenuità senza fine, esposto a sofferenze d’inferno; si raccontava che le sue ultime ore erano state dense di tormenti religiosi, che fino all'estremo momento aveva lottato con Dio, per Dio e che, forse, si era poi spento nella sua fede. Come ha fatto il civilletterato a scagionarlo? Come se la cavò? «Quell’obbligo verso lo spirito che noi chiamiamo religione » disse davanti alla sua tomba, era stato naturalmente sempre presente alla coscienza del caro estinto! Ma sappiamo benissimo che cosa intende il civil-letterato per ”’spirito”: intende la letteratura, intende la politica, che poi fanno tutt'uno, ovverossia la democrazia. E questo lo chiama religione! Quando sentii quelle cose, quando sentii nelle orecchie tutta l’ontuosità da falsario di concetti, atteggiato a predicatore di una libera religione, e mi vidi costretto ad assistere a questo tentativo di accaparrare alla politica un'anima che nel travaglio supremo anelava alla propria salvazione, allora mi rimisi in testa il cilindro e tornai a casa » (469 s.).

DECADENTISMO

RELIGIOSO

281

l’uno dell’altro per una parola volgare, un contegno sfrontato, mentre il diritto dei valori umani è in questo luogo talmente imperioso, l’impotenza di tutte le convenienze di società talmente completa che nessuno si vergogna davanti ai suoi vicini di esprimere con le parole e coi gesti commozione profonda e devozione, abbandono e contrizione, né si vergogna di un atteggiamento esterno che in ogni circostanza borghese verrebbe giudicato teatrale, fantastico, eccentrico e romantico, suscitando scandalo e scherno. L’uomo inginocchiato! No, non si sdegna la mia umanità per questa immagine, che anzi le piace quanto nessun’altra e proprio per il suo aspetto

anacronistico,

anticivile

e audacemente

umano

[...].

Com'è straordinario ciò che è umano che è poi la verità, la sostanza di tutto! Quello che dà libero corso all’umano e lo ab-

bellisce è però la religione, cioè il luogo sacro, la sfera propria dello straordinario » (421). Già è affiorato qui l’umanesimo religioso manniano, l’intuizione che soltanto l’horzo Dei è l’uomo veramente buzzanus, cioè l’uomo caratterizzato, come

dirà un celebre capitolo della Montagna, mistero religioso presente in ogni uomo.

dal rispetto per il

È quell’« umanità » che Mann ha rilevato nella « santa » letteratura russa, specie in Dostoevskij, infinitamente preferita all’« umanità da trivio dei latini»: « un’umanità d’impronta religiosa, poggiata sulla docilità e umiltà cristiana, sul dolore e la compassione » (384). Tanto può anche bastare per sapere inoltre che la vaga e generica religiosità manniana delle Considerazioni, tutte le volte che si risolve a specificatsi, porta il nome di cristiana: un cristianesimo vago a sua volta, vagamente inter o super-confessionale, ma con una simpatia o una nostalgia di più per la forma cattolica, d’una volta quantomeno. Si ricordi la sua riserva quanto a Lutero, la sua « gioia nel riscoprire l’antichissima fratellanza » che univa un giorno Francia e Germania nella religione della poesia di Claudel e quanto numerosi siano i cattolici fra gli autori citati a proprio favore, da Pascal e Eichendorff, a Barrés. Sempre indivi dualistica però, protestantica, resta la sua concezione della libertà e della solitudine dell’artista, ma sempre concezione religiosa: « Almeno l’artista [...] è protestante per necessità e per nascita, è la creatura singola davanti a Dio » e questa sua « solitudine » è « libertà evangelica » (472). Il che tuttavia non divide l’artista dalla società, al contrario: « Come se l’arte, pet quanto sia cosa che riguarda l’anima solitaria, la

282

CAP. IV - THOMAS

MANN

coscienza, il protestantesimo e l’immediata presenza di Dio, non fosse già di per sé una potenza sociale che tiene sempre uniti gli uomini » (270). Quanto infine al già segnalato, vivace parteggiare di Mann « per l’etica contro l’estetica », notiamo che per estetica qui s'intende estetismo, dannunzianesimo (« estetismo libidinoso alla D'Annunzio » 49), art pour l’art alla francese, infatuazione della « bellezza » (« roba da italiani e spaghettanti dello spirito ») (89), retorica. Invece lui, Thomas Mann « non si è

mai sentito esteta nel vero senso della parola, bensî sempre moralista » (89). « L’arte è solo un mezzo

pet conferite mo-

ralità alla mia vita [...]. Quello che conta in me non è dunque l’opera [d'arte] ma la mia vita. Non è, la vita, il mezzo per conquistare un ideale di perfezione estetica; il lavoro [d'artista], invece, è il simbolo di vita e morale » (87 s.). Ma è, a suo vedere, in tutta la sfera dell’« arte tedesca » che « l’etica è preminente sull’estetica » (89). All’accusa di immo-

ralismo e di nichilismo lanciata ai contenuti decadentistici e pessimistici della sua narrativa, Thomas Mann, che accusa il colpo, sembra talora disposto a una palinodia: era stata «una giovanile illusione romantica » quella che gli aveva fatto dire al suo Tonio Kròger che per essere artisti bisogna buttar via del tutto la vita e morire, e al suo Aschenbach che l’artista « ha innata e incorreggibile l’attrazione dell’abisso ». Ma talora invece egli s'impunta a sostenere che appunto « il brutto, la malattia, il decadimento altro non sono che l’elemento morale », come in Schopenhauer e Wagner, dove « si respira aria etica e pessimistica, aria tedesca e borghese » (89). Sono espressioni indicanti una austera adeguazione alla verità negativa dell’uomo, ma sarebbero egualmente strane senza le prospettive di religioso riscatto più sopra citate. L’arte del civil-letterato, essa si che è immorale: basti vedere quanto grondi di « sesso », nei confronti del sesso « bisogna, riconoscere che la sua riverenza, la sua liberalità e tolleranza non conoscono limitazioni. Amore sessuale e filantropolitica sono per lui strettamente legati; l’uno sembra solo la sublimazione dell’altra e viceversa » (407).

L’agone dei due fratelli, anzi l’agonia delle due anime in Thomas Mann, la crisi della sua esistenza artistica sembra dunque realmente risolversi e superarsi in conclusione su un altopiano religioso. Era il solo modo di salvare la sua arte dalle accuse esterne e dalle ipoteche interne di nichilismo e

RITORNO

AL LABIRINTO

283

immoralismo. L'uomo malato, decadente, disperato di questa arte era, ora finalmente egli lo capiva, oltre che verità, premessa di eventuale religiosa redenzione. Il dubbio, l’ironia, lo scetticismo che alimentavano quest’arte erano interrogativi

d’un mistero religioso. Con la mediazione religiosa anche i due irriducibili opposti — lo spirito (l’arte) e la vita — parevano convergere in un rapporto: c’era nella vita un mistero religioso e dunque un significato nascosto, uno « spirito » in essa, e allo spirito dell’uomo, all’arte, era affidato il compito di indagarlo e di verificarlo. Grazie a quel mistero la vita tornava a interessare positivamente lo spirito. Questa emersione religiosa ci sembra sia, fra le grandi sorprese delle Considerazioni, la sorpresa qualitativamente massima e la più persistente, almeno come problematica, nei capolavori di poi.

9. - RITORNO

AL LABIRINTO.

Ma alle Considerazioni di un impolitico segue, nell’ordine dei capolavori, la Montagna incantata: non musica cioè e non poesia, bensî letteratura. Non proprio « civil-letteratura », ma ad ogni modo sempre quella letteratura che il consideratore impolitico s’arrende sul finire a considerare pars sua in aeternum e che non può non essere ex matura rei « analisi, psicologia, democrazia, occidente » (514). Già una retractatio? La Montagna è cetto, per tre quinti buoni, una grande opera d’arte e non solo d’artista. Questo però significa che

qui non si patteggia più per l’una o per l’altra delle idee, delle Weltanschauungen eventualmente in lizza, ma che semplicemente si rappresentano, si recitano o si fanno recitare. Tornano a farsi spettacolo, gioco, che scrittore e lettori stanno a guardare. Significa che non si prende più nulla fino in fondo sul serio. Thomas Mann non ha neppure finito di trovare finalmente una precisa via d’uscita dal labirinto, una precisa verità e, di contro, una precisa falsità, che sembra già di nuovo smarrirsi e irretirsi, già non sapere più che pesci pigliare. Sono i brutti o belli scherzi che gli trama di continuo l’ironia annidata nella sua inguaribile natura d’artista, fatta come tale unicamente per la forma e non per la verità, per il distacco e non per la partecipazione? Nella Montagna infatti, come già si disse, egli fa assumere la parte sua e del fratello a due personaggi, un gesuita e un italiano, li fa reci-

CAP. IV - THOMAS

284

MANN

tare, azzuffarsi e distruggersi a vicenda, accompagnati dalla benevola, sempre comunque ironica ironia contemplativa sua e del suo Hans Castorp, restando il più possibile equidistante e guardandosi bene dallo scegliere fra i due, anzi rendendosi, con opportune manipolazioni delle loro opinioni, impossibile la scelta. Tutto torna di nuovo confuso, labirinticamente vertiginoso. Che anzi la nebbia aveva già cominciato a risalire nell’ultimo capitolo e nell’« Introduzione » (scritta per ultima)

delle Considerazioni: era la domanda che l’autore là già si fa se egli davvero sia realmente quello che per tutto il libro ha detto di essere, se non ci sia contraddizione fra i termini scrittore (letteratura) e conservatore (514).

È il dubbio di uno che, proprio perché artista, « non è abituato a parlare bensi a far parlare uomini e cose e che, dunque, *fa’ parlare anche dove sembra, perfino a lui, che parli in prima persona. Il gusto ancor vivo di recitare una parte, del garbuglio avvocatesco, del gioco e della prodezza artistica, il gusto di tenersi al di sopra delle cose, residuo di quella mancanza di convinzioni e di poetante sofistica che fa sempre aver ragione a chi sta parlando [a chi l’artista fa parlare in quel momento], dunque in tal caso [nel caso delle Considerazioni] a me stesso, rimane senza dubbio dappertutto e, almeno, in parte, cosciente » (5). È l’eterno dubbio di Thomas Mann, la sua atavica, inguaribile diffidenza (nella attrattiva) per l’esistenza artistica, il

suo disprezzo (nella seduzione) per il disimpegno morale, per il qualunquismo morale innato nell’arte, sempre ironica di sua natura, nel suo distacco contemplativo, verso ogni presa di posizione a riguardo di uz4 verità. Questo dubbio fa onore a Thomas Mann: è autocritica morale d’artista, è ironia morale dell’ironia artistica, è preoccupazione, in fondo, proprio

della verità, sua salvaguardia contro i cattivi servizi che l’arte le amministra. Ma Thomas Mann ha conferito una volta, sempre nelle Considerazioni, un’altra qualifica, e non di riserva,

bensi di giustificazione per questo suo continuo dubbio e distacco

artistico, continua

ironia, continua

rimessa in questio-

ne d’ogni presa di posizione: la qualifica di « religiosa ». Siamo dunque un’altra volta indotti a pensare a una teologia dell’ironia di Thomas Mann. Quella qualifica viene conferita al « dubbio di Tolstoj sulla validità o meno di quella divisione catastale del caos escogitata dall'uomo », un dubbio a cui si attribuisce « una quantità maggiore di religiosità che in una

RITORNO

AL LABIRINTO

285

qualsiasi definizione politica di ciò che è bene e male, civilizzazione o barbarie, libertà o coercizione [...] di ogni linea divisoria tracciata sull’acqua ». Dubbio che è « timore reverenziale per l’intelletto stesso [...], timore reverenziale e dubbio, ultima coscienziosità ed estrema indipendenza » (198). Sono tutti termini — « reverenziale », « ultima », « estrema » — vagamente sinonimi di « religioso ». Quale precisamente questo « dubbio di Tolstoj »? Eccolo con le parole stesse di

Tolstoj citate da Mann: « Magari l’uomo imparasse finalmente a non giudicare e pensare in modo cosî preciso e deciso, a non dare sempre una risposta alle domande che gli vengono fatte solo per restare eternamente domande! Magari si accorgesse che ogni suo pensiero è insieme giusto ed errato! [...]. Chi dispone nell’anima di una misura del bene e del male tanto sicura da poter valutare con quella anche i fatti più fuggevoli e intricati? Chi ha mai visto uno stato di cose dove il bene e il male non siano inestricabilmente mescolati? Infinita è la bontà e saggezza di Colui che ha permesso, anzi imposto tutte queste contraddizioni. Solo a te poi, misero verme, che con audacia insolente ti attenti di penetrare il segreto delle sue leggi e dei suoi consigli, solo a te le contraddizioni sembrano tali » (194 s.). Thomas Mann lesse, anzi studiò a lungo Tolstoj soprattutto nell’intervallo fra le Considerazioni e la Montagna, donde il celebre, lungo saggio Goethe e Tolstoj del 1923. Ma già prima il poeta e filosofo dell’« infinita armonia » in cui stanno in Dio le cose quanto a noi più contraddittorie, l’aveva affascinato, e il dubbio di Tolstoj era diventato il suo metodo e la sua giustificazione contro il politico e le sue accuse, per esempio: « Il rapporto stranamente allentato di un autore con il fatto intellettuale [con la verità] farà facilmente cadere su di lui un’ombra di apparente mancanza di coscienza, di tendenza alla frivolità, alla dialettica, all’azzeccagarbuglio; non abituato a garantire di persona un valore concettuale [una verità], anche ora difficilmente giungerà a sentirsi sul serio responsabile, farà parlare se stesso come prima faceva parlare uomini e cose,

e nemmeno

con questa nuova parte, come

già con le altre, potrà identificarsi in cuor suo. Il detto per cui ha coscienza soltanto chi sta a guardare,mentre chi agisce non conosce

scrupoli

(Goethe)

trova

conferma

anche

qui

[...].

L’esteta [l'artista] è scrupoloso quando fa qualcosa, quando crea e dà forma, perché il suo modo di fare è talmente libero

CAP. IV - THOMAS

286

MANN

e aereo che si arroga la dignità e lo stacco della contemplazione; la quale invece gli si volge spesso in azione, sicché tende all’irresponsabilità proprio in quanto è contemplativo » (ivi). Dunque l’artista è moralmente un frivolo, un debole, un indeciso, un relativista? Già conosciamo la apologia di Mann e la sua ragione: No, ma è il portatore del dubbio di Tolstoj, un dubbio religiosamente fondato, e che è relativizzazione di tutte le verità tranne che di quella in Dio, è fede che in Dio tutti i contrasti vengano a coincidere. Dunque di nuovo un salvataggio dell’arte e dell’artista ottenuto me-

diante la religione. Ma è davvero un salvataggio o è una raffinata cavatina, un alibi per un ingiustificabile disimpegno? Tutto dipenderà se quel « dubbio » agirà realmente come « timore reverenziale », come sincero rispetto del mistero religioso, e se quell’« estrema indipendenza » che l’artista s’arroga realmente coinciderà con un’« ultima coscienziosità » che impegna a una ricerca e, quando occorra, a scelte e rinunce, e non si risolva invece in un perpetuo, ozioso oscillare, in un compiacente vagabondaggio nel labirinto. A noi, tutto sommato, pare, che le tre massime opere che Thomas Mann fitmerà nell’arco fra le Considerazioni e la morte — La montagna incantata, Giuseppe e i suoi fratelli e il Doktor Faustus — rappresentino non soltanto ma siazo per il loro autore discretamente una ricerca, una coscienziosità, e non soltanto una dialettica senza fine oscillatoria a pretesto

di esibizione

artistica:

una

ricerca

cautelatissima,

lentissima, ma in fondo progressiva, capace di prese di posizione morali-religiose. Solo in opere minori o discutibili per resa artistica — per esempio nel Felix Krull — par di notare forme di stasi o fasi involutive. E anzitutto nella Montagna incantata. Sia o non sia

stato decisivo in proposito l’emolliente tolstoiano dell’« infinita armonia » al fondo d’ogni contrasto, pensiamo che egli era già di per sé debitore d’un addolcimento del contraddittorio Thomas-Heinrich semplicemente in forza dell’inautenticità obiettiva di più d’uno degli elementi in lista nel suo Gegensatz: quello del germanesimo, per esempio, o del conservatorismo a oltranza, dell’antidemocrazia, dell’eccessivo pessimismo umanistico, senza dire dell’odio fraterno. Avvertirà con il tempo che l’ira, il dolore e le passioni paniche dell’ora storica hanno dilatato più del giusto il solco della sua differenziazione. Si diluiscono ben presto e si confondono pit

UNA

DOMANDA

o meno,

RELIGIOSA

287

si può dire, parecchie delle opposizioni prima cosî

irremissibilmente costituite: natura e ragione, musica e letteratura, etica ed estetica, guerra e pace, ecc. Reggono però ancora, o forse sempre, abbastanza bene: ironia, decadentismo (senso della malattia, del dubbio, del vizio) e le istanze

metafisico-religiose. Sono le attribuzioni di Naphta, il gesuita, che più brillano nel diverbio con Settembrini, dunque d’un Naphta in tali casi indistinguibile da Thomas Mann stesso. Dunque la equidistanza, il qualunquismo estetico non riesce affatto del tutto, il che già implica, sia pure in forme discrete, una scelta. I discorsi dei due litiganti si sente che sono punto per punto a meraviglia parodiati: sia la intransigenza logico-etico-religiosa del gesuita, sia la continua retorica dell’italiano, il che già garantisce a rigore un distacco da entrambi. Ma si sente pure che la dosatura parodistica è diversa. L’italiano è di gran lunga parodiato e ironizzato di più, e le imbarazzanti contraddizioni a cui lo riduce la logica stringente del gesuita non si contano.

10. - UNA DOMANDA

RELIGIOSA.

Ma c’è soprattutto, a testimoniare della serietà che sta al fondo di quest’ironia manniana, il protagonista stesso della Montagna e tutto il curriculum della sua personale vicenda. Egli è finalmente non un artista e non un artista naufrago. È un borghese qualunque, uno che vive e non recita la vita. Non c’è fra lui e il suo autore l’identificazione lirica che c’era stata fra Tonio Kréger e il suo autore, c'è del distacco, ma

non parodia *. C’è fra i due esattamente quella partecipazione distaccata o quel distacco attento fatto di «bontà e ironia » insieme che caratterizzano il rapporto d’un pedagogo estroso ma seriamente intenzionato con il suo alunno, quella « bontà e ironia » che Klaus il primogenito di Mann descrive come atteggiamento paterno costante di suo padre nei suoi riguardi e degli altri figli. E Klaus era anche lui un « figlio inquieto », un Sorgenkind che Mann aveva sotto gli occhi ogni giorno negli anni della Montagna (i 15-20 anni circa di Klaus). Insomma, sia pure scherzando spesso e volentieri a suo riguardo, Mann prende questa volta il suo giovane eroe sul serio, a mo# E. HELLER,

op. cîf.

CAP. IV - THOMAS

288

MANN

menti terribilmente sul serio. Sincero e serissimo è già il punto di partenza, l'impostazione, la domanda fondamentale, molla segreta di tutto il successivo itinerario interiore-esteriore. Questa domanda-guida o domanda-perno è: esiste « un senso [corsivo di Mann] ultimo, più che personale, incondizionato di ogni sforzo e di ogni attività »? In particolare esiste una risposta alla « domanda per che cosa [Woz4?] » quando ci vengano chieste « prestazioni importanti al di là della misura del semplice dovere »? Ora l’epoca di Hans Castorp non conosceva a tal proposito nessuna « soddisfacente risposta », non sapeva rispondere che con un « vacuo silenzio », era al riguardo un’epoca del tutto « sprovvista di speranze, prospettive e consigli » (boffnungslos,

aussichtslos und ratlos)®.

Da questo vuoto retafisico-religioso di significati « ultimi », « sovrapersonali », « incondizionati » dipendeva quella che Mann chiama la « mediocrità » di partenza del suo eroe. Hans Castorp era un « mediocre », ci tiene assai a precisare l’autore, misura media dell’uomo del suo tempo. Era mediocre perché non si era mai sforzato al di là del minimo indispensabile, non durante i suoi studi e non ora nella sua professione, non vedeva una ragione per essere e per fare di più. Ma era un mediocre «in un senso senz’altro rispettabile », perché c’era in lui, consapevole o inconsapevole, la domanda d’una ragione per essere e per fare di più, d’una ragione superiore; e non trovandola, dato il « vacuo silenzio » di cui sopra, coerentemente non si impegnava oltre. Era dunque un eroe mediocre, un anti-eroe alla partenza, ma che con quell’interrogativo nel cuore, con la sua segreta sete di significato, meritava forse di diventarlo un giorno. Era insomma disponibile per l’avventura che Thomas Mann gli va escogitando. Diventerà infatti alla fine un eroe: esente causa malattia dal servizio militare, egli andrà volontario a combattere e a morire per la patria in guerra.

Sarà appunto

eroismo,

« una

prestazione

importante

al di là del semplice dovere ». Aveva allora trovato il Woz4, la ragione sufficiente e superiore per una simile prestazione? Il « vacuo silenzio » era stato esorcizzato? La risposta era ar-

rivata? Quale risposta e in che modo? Una risposta metafisicoreligiosa? Sono gli interrogativi che decidono dei significati

° TA. MANN, Der Zauberberg (La Montagna incantata), Stoccolma 1959, p. 45 ss. I numeri tra parentesi nel testo indicheranno d’ora in poi la pagine di quest'opera. I passi citati sono di nostra traduzione.

UNA

DOMANDA

RELIGIOSA

289

fondamentali della Montagna incantata, non tanto facili da rintracciare fra il ginepraio di sensi e di non-sensi secondari e collaterali, e attraverso i molti suoi vertiginosi meandri, precipizi e pinnacoli.

È già comunque fin dal principio evidente che la tbc del nostro eroe è lo sbocco fisico e l’allegoria d’una insufficienza metafisico-religiosa: una domanda vitalmente decisiva che, rimasta senza risposta, diviene causa di malattia spirituale e fisica ®. Ora se religiosa è la domanda, se religiosa è in radice la malattia, religiosa dovrà essere in fondo in fondo anche la risposta, ossia la medicina cercata attraverso le molte tappe, svolte, chiavi, perdite e riprese, precipitazioni e resurrezioni

della Montagna, se una risposta, se una medicina ci sarà. È la prospettiva secondo cui noi vogliamo inquadrare questa nostra interpretazione, convinti con Thomas Mann stesso che il suo piccolo moderno Parzifal non raggiunge senz’altro il suo Gral, la sacra meta da lui cercata, ma « ne diviene presago durante un sogno fatto alle soglie della morte, prima di venir strappato dalla sua altitudine e travolto nella catastrofe europea » *. In questa prospettiva s’illumina perfettamente tutto l’importante capitale secondo capitolo. Vi si racconta « del fonte battesimale [domestico] e del nonno in duplice figura », del nonno ancora vivo, cioè, e del bisnonno dipinto e quasi ancor

più vivo sul grande quadro, e di tanti altri avi battezzati a quel fonte come lui, il piccolo Hans, e come suo padre già defunto: tutte figure sprofondate nell’arcana oscurità del passato e della morte, eppure stranamente presenti nelle parole 4° « Ci riferiamo alle indicazioni già fatte prima miranti alla presumibile convinzione che interiori ferite recate alla vita personale possono incidere col tempo anche sull’organismo dell’uomo » (52). Negli anni esatti in cui Mann scriveva la Montagna incantata, un grande scrittore, malato già nello spirito, finiva di ammalarsi anche di tubercolosi e interpretava questa sua malattia fisica senz’altro come «uno sbocco del suo male nello spirito ». Era il « suo male nel cervello » che cosî passava ai polmoni, in quanto questi s'erano mostrati disposti a dividere un po’ quel peso. Dopo sette anni esatti dalla prima emottisi egli moriva. Era il 1924. Mann finiva allora la Montagna incantata. Casuale, ma strano. Anche la malattia di Hans Castotp sulla « Montagna » durerà esattamente sette anni. Lo scrittore di cui parliamo è, come è noto, Franz Kafka. 4 «Introduzione alla Montagna incantata » (agli studenti dell’università di Princetown) premessa alla citata edizione di Stoccolma del Zauberberg. 19

290

CAP.

IV - THOMAS

MANN

evocattici del nonno al piccolo che l’ascolta commosso da misteriosi sentimenti. Sono, ad verbum, i sentimenti che il consideratore impolitico s’attribuisce tutte le volte che entra in una chiesa‘2. Tutto il capitolo è dunque una immersione dell’eroe nelle profondità d’una tradizione familiare antica, veneranda e religiosa; ed è un riaffiorare in lui, per vie oniricomnemoniche, di disponibilità infantili al sentimento religioso prima d’essere avviato a una ben critica e drammatica riconqui-

sta di questo sentimento lungo il deserto irreligioso del tempo. È chiaro che Thomas Mann proietta nel suo Hans Castorp quella « innata devozione per la morte » che è, a cominciare almeno dalle Considerazioni, sua propria. Le agonie, i trapassi, le esequie dei morti, i lutti dei sopravvissuti sono trattati nei Buddenbrooks con freddo, perfino cinico interesse. La stessa tristissima morte del piccolo Hanno vi è narrata con tecnico-clinica impassibilità. Nella Montagna tutto al contrario: la morte vi è rispettatissima. Anzi « la via che passa per la morte » è una delle vie maestre attraverso cui la pedagogia di Thomas Mann ha esplicitamente deciso di far avanzare il suo ragazzo sulla « montagna » verso la sua meta: sarà, un giorno, per lo stesso Castorp « la via geniale verso la vita » (827). Il suo primo incontro lassé con la morte tradisce un re-

sto del cinismo d’un tempo. Hans osserva in lontananza dal suo treno in arrivo a Davos certe strane slitte degradare veloci a valle e, saputo che sono i morti del sanatorio portati in quel modo al cimitero, ride divertito. Ma poi i molteplici « atuperti » con la morte nel sanatorio via via lo sconvolgono, commuovono, inorridiscono e inteneriscono, nasce e s’ap-

profondisce la sua partecipazione umana e mento religioso per il mistero della morte, sività, al fuggi-fuggi generale dei vivi di lassé all’artificioso silenzio della stessa direzione

il suo rabbrividisi ribella all’evaquando si muore, al riguardo, e di-

venta piano piano un discreto visitatore, confortatore, compa-

gno di morenti, di avviati all’esttema dimora, di congiunti in * «Gli pareva di respirare fredda aria muffita, l’aria della Chiesa di Santa Caterina o della cripta di San Michele, di percepire l’afflato di luoghi dove istintivamente si cammina con il cappello in mano e con un riverente dondolìo in avanti sulle sole punte dei piedi; anche il silenzio tutto appartato e pieno di pace di quei luoghi pieni di echi credeva di sentire; spirituali sensazioni si mischiavano in lui con le sensazioni della morte e della storia, e tutto ciò gli sembrava gli facesse, in un modo strano, bene » (36).

VITA,

AMORE

E MORTE

291

lutto. Si scopre addirittura in questo senso, e non ha pudore a dirlo in giro a più riprese, una latente, antica, mancata vocazione ecclesiastca. Un giorno ha addirittura un faccia a faccia con la sua stessa morte, con la propria tomba » ir corpore vivo, mentre contempla il suo scheletro affiorante dal negativo radiografico, e un brivido gli strappa dalle labbra le parole: « Dio mio, io vedo! » (305 s.)

11. - VITA, AMORE

E MORTE.

Un altro simultaneo percorso interiore, innestato sul precedente, lo conduce dalla seduzione del materialismo (ideologico e sensuale) a forme di superamento (iniziali o in fieri quantomeno) verso concezioni e scelte spiritualistiche circa la morte e l’amore. L’esponente materialista di lassi è il dott. Behrens, Direttore del Sanatorio. Che cos'è la motte, la decomposizione, la putrefazione in fondo in fondo? È, per Behrens, « ossidazione », combustione dell’ossigeno contenuto nell’albumina. Risposta materialisticamente esatta. E la vita? Anche ossidazione, combustione, distruzione organica, in fondo in fondo. E tanto più quanto la vita è intensa: vedi l’amore, che fa arrossire, che fa avvampare cioè bruciare il sangue e ossidare l’organismo più intensamente che mai (371). Nessuna differenza dunque, materialisticamente parlando, fra la vita e la morte, anzi fra l’amore e la morte. Ritorna il fatale binomio a livello scientifico! Castorp ne resta scioccato e incuriosito, specie dopo aver

visto il ritratto dove Behrens, che a tempo perso dipinge, ha dipinto (da buon

materialista)

al rmaturale

il busto

della si-

gnora Claudia Chauchat, una bella malata russa, di cui Castotp è ormai segretamente innamorato cotto. Vi si vede, dipinta a perfezione, la materia: pelle, pori, peluria, venuzze e sangue roseo sotto la pelle. Peggio: materia malata, combustione accelerata. Come mai una simile materia è cosî bella da innamorare? Incitato dal mistero il giovane ingegnere spende d’ora in poi le lunghe ore di saise-longue in voraci letture di libri d’anatomia, biochimica, biologia, embriologia, patologia, una accanita investigazione materiale-scientifica del corpo umano e della vita, e ne rende conto a se stesso. È, da parte di Thomas Mann, un vero exploît (non il solo della sua carriera di scrittore) di rapida, precisa assimilazione scientifica e di pronto

CAP. IV - THOMAS

292

MANN

dominio critico espressivo della materia assimilata. Le pagine in questione poi sono non soltanto un raffinato condensato di quanto la scienza allora (e più o meno oggi) sapeva della vita, ma sono tra le pagine espressivamente più stupefacenti della Montagna: tutta la Montagna rinarrata sub specie scientiphica. Ma sono soprattutto pagine di profonda ironia per le affannose, contraddittorie e vane spiegazioni fisico-chimiche (scientifiche) del doppio, ambiguo mistero della vita: « Mistero sacro-impuro » (382). La vita è un mistero, vi si dice, un fatto mistico, zeppo di inesplicabili miracoli. È dell’essenza della vita di conoscere in qualche modo se stessa fin dai gradi più infimi e di conoscersi tanto più quanto più essa sale di qualità e di complessità organizzata. Ma anche là che cosa sa di sé? L’uomo, la scienza che cosa ne sanno? Ben poco. Miracolo è come elementi sempre più numerosi entrino a costituire unità sempre più strette, sempre più alti io. Miracolo come lo scheletro portante verifichi a meraviglia le leggi della statica e della dinamica ben note agli ingegneri. Il femore, per esempio, era una gru perfetta. Miracoli e misteri erano altre cento cose della vita: come quello « della memoria o di quella più vasta e più stupenda memoria che comandava l’ereditarietà delle qualità acquisite » (393). Per arrivare alla vita, poi, la natura aveva attraversato « abissi» che l’investigazione umana tentava invano di coprire: l’abisso fra l’organico e l’inorganico da cui pure l’organico è derivato, e l’abisso più grande ancora fra il materiale e l’immateriale da cui pure il materiale è derivato (le particelle elementari di materia sono formate da energie che non sono materia). Pure «le prestazioni del protoplasma restavano del tutto inesplicabili » (391). Mistero la vita: «Non era materiale, non era spirito. Era qualcosa di sospeso fra l’uno e l’altro [...], simile all’arcobaleno sulla cascata e simile alla fiamma » (385). Ancora più inesplicabile, sconcertante era la sua ambiguità: « Sebbene non materiale, essa era sensuale fino al piacere e alla nausea [...], era la forma impudica dell’essere [....]. Era non so che di turgido e di tumido fatto d’acqua, d’albumina, di sale e di grasso che si chiamava carne e che diventava forma, immagine nobile, bellezza, ma che era simultaneamente la quintessenza della sensualità e della concupiscenza »

(385). Anzi tutta la vita in quanto tale non era forse una malattia, un tumore

quell’immateriale

della materia?

E, più radicalmente

che s’era fatto materiale

ancora,

per poi farsi da

VITA, AMORE

E MORTE

293

inorganico organico e vitale, non aveva forse compiuto in tal modo per primo « il primissimo passo verso il male, la voluttà e la morte, istigato [proprio come i tumori] dal prurito d’un’infiltrazione sconosciuta? ». Era quello « il peccato originale »! E allora « la seconda generazione primordiale, la nascita dell’organico dall’inorganico, non era che una maligna ascesa della realtà materiale verso la consapevolezza, come la malattia dell’organismo era una ulteriore ebbra ascesa, una selvatica accentuazione della materialità organica. Soltanto un logico passo più avanti e la vita si trovava sull’avventuroso sentiero dello spirito ormai degenerato » (398). Si metta al posto di questo « immateriale primordiale » la « volontà » schopenhaueriana (traduzione metafisica senz’altro legittima): ecco Schopenhauer che riemerge tutt’intero in questa pagina. È una improvvisa ricaduta nel suo pessimismo, anzi in un pessimismo peggiore ancora che coinvolge alla fine anche lo spirito: esso pure malattia, estremo stadio e specchio d’una malattia universale. È il pessimismo quantomeno in cui Thomas Mann fa cadere il suo eroe e la fa cadere proprio — si noti bene — attraverso gli stessi passi con cui l’aveva fatto progredire nell’intelligenza del « mistero sacro » della vita. Esso si svelava simultaneamente anche come « mistero impuro ». Lo smarrimento labirintico, l’ambiguità è in questo momento grande. È solo di Castotp o è anche di Thomas Mann? La risposta dipende dalla parodia che è però, in queste pagine, per lo meno dubbia. Il ragazzo pensa e parla in queste pagine come solo Mann sa parlare e pensare. Una cosa è certa: che qui si anticipa metafisicamente la capitolazione di Castorp nella rete erotica di Claudia. È un altro degli « amori e morte » di Thomas Mann: amori moralmentre, fisicamente, metafisicamente patologici, non animati da spinte di affermazione vitale, ma dalle spinte contrarie. L’amore per Claudia non è per Castorp che la ripresa e lo sviluppo d’una sua passione d’adolescente per un altro bello e biondo manniano, suo compagno di scuola, il cui nome era Hippe, cioè Falce! Un simile amore progredisce lassi in Hans Castorp proprio mentre progredisce in lui il sentimento invece sacro sia della morte sia della vita più sopra riferito. La consumazione si celebra in una notte di carnevale, complice l’alcool, fortunatamente alla vigilia della partenza della fatale signora. La goccia che farà traboccare il vaso sarà un’ultima ambigua idea, cara all’impolitico: la preferenza supposta cti-

MANN

294

CAP. IV - THOMAS

stiana per il vizio e il peccato, portavoce volta la donna che, in francese nel testo, morale? Cela interesse? Eb bien, il nous morale non dans la vertus, chercher la No

della quale è questa cosî si esprime: « La semble qu'il faudrait

c’est'à dire dans la SAR, ; raison, la discipline, les bonnes moeurs, l’honnéteté, ma plustòt

dans le contraire, je veux dire dans le péché, en s'abandonant

au danger, à ce qui est nuisible, à ce qui nous consume E. Les grands moralistes n’étaient point des vertueux, mais des

aventuriers dans le mal, des vicieux, des grands pécheurs qui nous

enseignent

è nous

incliner

chrétiennement

devant

la

misère » (437).

Si, certo, Cristo è venuto non per i giusti ma per i pecca-

tori e la coscienza del peccato è la premessa cristiana della grazia, perché siamo tutti in qualche modo peccatori. La coscienza, non il peccato semplicemente, bensî il peccato in quanto cosciente e deplotato. È dunque realmente una verità cristiana ma impazzita quella che entra a rendere completa la vertigine del povero Hans. La Montagna ha però prove lampanti che a questa vertigine in questo momento non parte-

cipa esattamente Thomas Mann stesso o in parte soltanto. Sono passi dove l’autore interviene di persona nella narrazione, con le sue valutazioni,

accanto

al suo eroe innamorato.

Nel

primo egli partecipa « simpatizzando con la inquietudine di coscienza che si mescolava alla terrificante felicità » del fantasma di Claudia, applaude insomma ai blocchi morali, ai sentimenti di dignità e d’onore attendibili in un nipote di Hans Lorenz Castorp e che gli facevano mormotare in quei frangenti: « Dio mio!» (289). Nel secondo intervento l’autore ci fa discretamente sapere che il destino del suo pupillo lassi sarebbe stato diverso, che non si sarebbe ammalato fino a tal punto di tubercolosi e di voluttà per essa e neppure fino a tal punto d’estenuante amore, « se alla sua anima semplice fosse stata comunicata dalla profondità del tempo

una informazione in qualche modo soddisfacente circa il significato e lo scopo della vita e della sua fatica ». Sono le famose domande « alle quali aveva risposto (Thomas Mann lo ripete) un vacuo silenzio » e alle quali avrebbe invece dovuto rispondere, come abbiamo visto, una religione vivente. Questo

senso religioso della vita e delle cose, senso vivente

e vissuto, avrebbe potuto essere quel sentimento intermedio, quel « mezzo cordiale capace di congiungere i termini estremi» di quell'amore, ossia moderarli e conciliarli: il suo

VITA, AMORE

E MORTE

265

eccessivo, morboso materialismo e insieme il suo eccessivo, malato spiritualismo o romanticismo, il suo ossessivo riferirsi al corpo della bella signora, perfino più bella perché malata, e la abnorme ebbrezza mistico-romantico-spirituale che quell’attrattiva gli procurava (321). Il lettore della Montagna conosce l'epilogo di questa passione. La signora ritorna dopo anni in compagnia di Peeperkorn, un vecchio, ma vitalissimo, grandioso ex pian-

tatore coloniale olandese. Castorp ci resta verde. Ma il suo spirito aveva nel frattempo camminato: fino alla visione dell’bomo Dei, cioè fino al rispetto religioso, anzi alla comprensione e all’amore in genere dell’uomo e del suo terrestre mistero tragico. Per questo egli regge discretamente allo choc. Piano piano intuisce che l’olandese è tragicamente innamorato di Claudia e che Claudia lo ama perché ha compassione d’un simile amore: Peeperkorn si ucciderebbe se sapesse che lei ama un altro o lo ha amato. Castorp ha rispetto, un sacro e delicato rispetto per la terribile passione di lui per lei e la pietà di lei per lui. Anche per il muto appello della donna, gli si fa amico comprensivo e sincero. A questo scopo, gli confida poi lei, ella era tornata lassù, con questa precisa fiducia in lui. Ma la sua lealtà e sincerità gli fa rivelare un giorno a Peeperkorn, su precisa interpellanza di questi, il proprio antico amore. È lo schianto per l’olandese, il suicidio. All’indomani Claudia riparte per sempre. Però il loro addio è caratterizzato « dal senso tragico d’una grande rinuncia, da un riguardo spirituale e riverente » (871). Seguono lassù giorni di massima tenebra, di completa « ottusità »: giorni di mania per gli abitanti nella « montagna », di diabolico incantesimo, di estrema alienazione: sono, simbolicamente, i giorni dell’Europa impazzita alla vigilia della guerra mondiale. La personale mania di Castorp, immediatamente prima della sua eroica partenza per la guerra, consiste nell’appassionato ascolto d’opere di musica lirica in dischi dove amanti tragici vengono rappresentati uniti nella speranza d’un rendez-vouz eterno. Anche nell’amore dunque Thomas Mann ha scelto per il suo «figlio inquieto » la via «geniale »: la via tragica attraverso la malattia, il peccato, la morte dell’amore

e una resurrezione a livello di trascendenza religiosa.

296

12. - LA GRANDE

CAP. IV - THOMAS

MANN

CONFUSIONE.

Il gesuita era arrivato lassi subito dopo la prima partenza di Claudia. È la novità che consente una vivace ripresa pedagogica, un riattizzarsi e radicalizzarsi delle problematiche opposte attraverso cui è chiamata a navigare pericolosamente la barca del nostro esploratore spirituale. Ma già prima si era delineata netta un’antitesi, pur nella simpatia del rapporto, fra il giovane e Settembrini. Naphta, portatore del radicalismo del Thomas Mann impolitico, funge dapprima semplicemente e discretamente di spalla a Castorp in questa sua antitesi, giacché il giovane era già per conto suo un piccolo «impolitico ». Aveva trovato simpatico quell’eloquente campione di liberalismo latino, ma subito anche retorico, predicatorio, noioso, gonfio di belle frasi (137, 143). Trova stupido che l’italiano identifichi malattia con povertà di spirito: per lui vale invece l’equazione di malattia-ge-

nialità (138 s.). È per il primato della musica contro quello della parola sostenuto da Settembrini (160). Riconosce nel proprio carattere «un fondo conservatore » e sentimenti teutonicamente lenti e costanti (171). Il bello e facile rètore suo antagonista invece ha l’aria d’un «suonatore d’organetto », perfino d’un «acchiappanuvole », anche e special mente nelle sue tirate anticlericali e antireligiose (223). Allo spirito giacobino, anti-ancien-régime, preferisce un Filippo II che entrando alla Corte severo e solenne si leva ogni volta il cappello verso l’alto (verso Dio) e dice: « Scopritevi, miei Grandi! »; e trova questa maniera spagnola « piena di timor di Dio, umilmente solenne e severamente formale » più umana delle gaie e disinvolte maniere francesi d’allora e di poi (221). E trovava comicamente contraddittorio che un malato irricuperabile celebrasse la salute del corpo che è salute di spirito; che un razionalista illuminista avesse accettato i rituali misteri della massoneria; che un razionalista moralista con la bocca sempre piena della parola « virtà » facesse l’occhiolino (e peggio) alle belle ragazze; e che un pacifista universale arrabbiato caldeggiasse la guerra dell’Italia contro Vienna. Capiva che la sua simpatia per l’italiano, la sua curiosità alle sue belle chiacchere era da parte sua una leggerezza, « una specie di proscrizione della co-

LA GRANDE

CONFUSIONE

297

scienza ». Ma non era egli lassi provvisoriamente in vacanza? (270).

Lo schieramento delle parti in lizza, all’entrata di Naphta, era dunque già predeterminato: il gesuita si sarebbe trovato dalla parte di Castorp (e Castorp dalla patte sua) contto Settembrini. Tutto sommato il gesuita non è che l’espediente di Thomas Mann per esibire a un certo punto della Montagna con ampiezza e raffinatezza massima tutta la propria

stessa

carica

antagonistica

contro

lo « spirito »

op-

posto al suo proprio, carica importabile per l’anima semplice di Hans Castorp. Infatti le amabili, discrete scaramucce finora intervenute fra il giovane e Settembrini si trasformano, spostandosi fra Naphta e Settembrini, in vere battaglie campali d’alta e sottile strategia. Sarebbe lungo riferire dei contenuti e anche abbastanza inutile dopo aver riferito dei contenuti delle Considerazioni. Si ricostituiscono in sostanza i due fronti di quelle: ironia contro retorica, stato-sacramento contro stato-contratto e il resto, e naturalmente e soprattutto teismo contro ateismo.

La novità più interessante che a noi sembra decisamente di leggere fra le righe è che nel frattempo Thomas Mann ha letto gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, si è interessato alla storia e alla spiritualità dell’Ordine religioso da lui fondato fino a poterne parlare con precisione competente mentre inizia il lettore alla intelligenza dello strano personaggio che a sua volta inizia il giovane Castorp alla intelligenza del suo proprio « spirito ». « Operationes spirituales » (esercizi spirituali) è il titolo anche troppo allusivo del lungo capitolo che vi viene dedicato. Ed è anche fin troppo chiaro che quel mondo gesuitico nel suo insieme ha affascinato Thomas Mann: l’ha trovato inaspettatamente affine al mondo del consideratore impolitico, ma anche, rispetto a questo e in linea con questo, eccessivo, terribile. Quest’impressione insieme affascinata e spaventata si ripercuote sul suo figlio inquieto, su Castorp, che pure subisce il fascino del gesuita, ambiguo fra ammirazione e terrore. L’epitetum ornans che gli ha affibbiato è « orribile », l’« orribile Naphta », ma riconosce che il gesuita ha sul suo

divertente

avversario

« quasi

sempre

ragione », come

a più riprese egli confessa. La concordanza Thomas Mann-Naphta è dunque generosa, ma c’è un « quasi », una riserva, un’ombra, una fessura

CAP. IV - THOMAS

298

MANN

che impedisce l’identificazione e che può forse divenire (come diverrà) frattura. Di che si tratta? È il « terrore », il « terrorismo » (557):

l’intransigenza,

l’intolleranza

imposta

dal-

l’assolutezza del trascendente su quella spiritualità, dalla ossessiva necessità della salvezza dell’anima in ordine alla quale tutto il resto deve piegarsi, dov’essere costretto a piegarsi. È, per esempio, la difesa a oltranza, da parte del gesuita, dell’antica prassi coercitiva e punitiva della Chiesa a riguardo degli erranti dalla salvezza. Certo si sente che piacciono a Thomas Mann certi assiomi su quelle terribili labbra, come: « Vero è ciò che aiuta l’uomo » — « La sua salvezza è il criterio della verità » (551) —

«Non si ama e non si capisce la gioventù se

si crede che il suo piacere sia nella libertà. Il suo più profondo piacere è l’obbedienza » (554) — «Il dualismo, l’antitesi è il principio movente, appassionato, dialettico, ricco di spirito. Vedere il mondo diviso in due parti nemiche, ecco lo spirito. Ogni monismo è noioso » (520). « Il mondo è limitato nello spazio e nel tempo, e allora la divinità è trascendente,

l’antitesi fra Dio e il mondo sussiste e anche l’uomo è un’esistenza dualistica: il problema della sua anima consiste nel dissidio fra sensibile e sovrasensibile, e tutta la sua realtà sociale è d’importanza di gran lunga secondaria » (552 s.). E si può scommettere che non gli dispiacciano neppure assiomi come: « Essere uomini significa essere malati » — « Nello spirito, dunque nella malattia si fonda la dignità dell’uomo » — « L’uomo è uomo in grado tanto più alto quanto più è malato, e il genio della malattia è più umano di quello della salute » — «Il progresso, se un progresso esiste, si deve unicamente alla malattia, vale a dire: al genio, il quale come tale non è altro che malattia » (557, 642 s.) — «La religione non ha in genere nulla a che vedere con la ragione e la moralità, poiché essa non ha nulla a che fare con la vita [....]. Tutte cose non solo indifferenti ed estranee all’essenza religiosa, ma

ad essa ostilmente opposte; giacché esse appunto sono la vita, la cosiddetta salute, vale a dire: l’arcifilisteismo, il borghesismo primordiale, la assoluta antitesi del quale, l’antitesi assolutamente geniale è precisamente il mondo religioso » (639). Ma certi altri assiomi, drastiche prese di posizione ideologiche,

euforico-fosche profezie avranno, noi pensiamo, fatto inorridire anche Thomas Mann, come: « Maledetto l’uomo che

trattiene la spada dal sangue! » (549). « Tutte le pene ecclesiastiche, anche il rogo, anche la scomunica furono comminate

LA GRANDE

CONFUSIONE

299

per salvare l’anima umana dall’eterna dannazione, il che non si può dire delle voglie di sterminio dei giacobini [...]. Ogni giustizia penale e cruenta che non scaturisca da una credenza in un al di là è follia bestiale » (559) — « La dittatura del proletariato questa politico-economica esigenza di salvezza del nostro tempo [...], ha riassunto l’opera di Gregorio Magno [....].

Suo compito è il terrore per la salvezza del mondo e per la conquista della redenzione, per una condizione divina dei figli di Dio senza stato e senza classi » (568). Questo sarebbe dunque spirito gesuitico, autentico gesuitismo? Perfino Hans Castorp, che non ha mai visto prima d’ora un gesuita, è in grado di dubitarne. Ha subito fiutato in Naptha un gesuita sui gezeris, un tantino ereticale (636). Del resto anche il gesuita è malato di tbc, che vuol dire per Thomas Mann malato nello spirito, spirito cattolico in eccesso (di conservazione e di rivoluzione: « un rivoluzionario della conservazione ») (620), gesuitismo febbrile, impolitico ad alta, troppo alta potenza. Si viene a sapere infatti che Naphta è un ebreo orientale convertito ma psicologicamente non del tutto; che è un temperamento rivoluzionario e aristocratico come lo sono molti ebrei intelligenti, gesuita dopotutto anche per « il sogno di partecipare a forme di vita orgogliose e aristocratiche, esclusiviste e rette da norme fisse »; che era stato eccessivo, tormentoso e fanatico già nei suoi esercizi spirituali

e nei suoi studi nell'Ordine. Appunto pet questo s’era ammalato ed era stato spedito a Davos. Con tutto ciò Thomas Mann non rinnega le sue simpatie per la Compagnia di Gest. Dalle pagine della Montagna traspita ammirazione per la pedagogia gesuitica. Il collegio « Stella Matutina » dei gesuiti austro-svizzeri di Feldkirch che egli vi rappresenta (dopo averlo visitato di persona molto probabilmente) può andarne discretamente fiero. Di più, molto di più: proprio dallo spirito degli Esercizi spirituali balena a un certo punto il lampo d’una attendibile risposta alla domanda fondamentale della Montagna incantata, la risposta a un perché, a un Wozu capace di giustificare prestazioni eccezionali oltre il semplice dovere. Fra quei gesuiti le prestazioni eccezionali erano precisamente di regola, essi dovevano « distinguersi » (insigres esse) in tutto ciò che facevano; doveva esserci allora in essi anche un adeguato perché, ed era evidentemente la loro intensa anima religiosa. Con le parole della Montagna stessa: « Secondo la dottrina e il regolamento del loro fondatore e primo generale, lo

CAP. IV - THOMAS

300

MANN

spagnolo Loyola, essi facevano di più, compivano un servi. zio insigne, più di tutti coloro che agivano soltanto secondo la sana ragione. Anzi essi eseguivano l’opera loro ex supererogatione, oltre il dovuto, in quanto cioè non opponevano semplicemente resistenza alla ribellione della carne (rebellioni carnis) [...], ma lottavano contro le tendenze della sensualità, dell'amore di sé e del mondo anche in cose che sono in genere permesse. Poiché agire lottando contro il nemico (agere contra), e quindi attaccare, era di più, era più nobile che semplicemente difendersi (resistere). Indebolire e battere in breccia il nemico! era scritto nelle regole di combattimento, e il loro redattore, lo spagnolo Loyola, era in questo nuovamente in pieno accordo

[...] con

Federico

II di Prussia

e con

la

sua regola di guerra: Attaguez donc toujours! » (667). Tutte cose che, insieme con altre di quello stesso spirito, Hans Castorp apprende dalla bocca stessa di Naphta e che trova

« altamente notevoli non soltanto per sé » (644). È, per chi ha orecchi da intendere, un discreto segnavia nella direzione della Risposta che tutta la Montagna cerca. Abbiamo dunque buone ragioni per scommettere che, se Naphta fosse stato un gesuita ortodosso, ossia che senza la sua passionale intransigenza, fanatica eccentricità, di fronte a cui guadagnava pericolosamente punti l’irreligiosa razionalità dell’avversario, non si sarebbe arrivati alla fine al duello a cui egli sfida Settembrini e in cui, dopo lo sparo in aria di costui, spara contro se stesso e si uccide, fra la costernata meraviglia degli assistenti e dei lettori che si domandano che cosa vorrà mai dire: malattia mortale dello spirito? logica fine dell’estremista? l’ancien-régime degli Imperi centrali che sfidando a duello le democrazie occidentali si procurano in realtà, per autoconsunzione economica, la propria rovina?. E con un Naphta gesuita del tutto sano nello spirito (gesuitico), scommettiamo che Thomas Mann non avrebbe potuto orchestrare per il suo Hans, in un momento culminante della sua avventura

metafisica,

la cosiddetta

« Grande

Confusione ».

Questa cala come nebbia sull’anima di costui contesa per l'ennesima volta da un vasto duello ideologico, il quale era stato, questa volta, un crescendo quanto mai fitto di stoccate e di parate ed era finito in un indestricabile, metaforico corpo a corpo. Il giovane, che ormai la pensava per categorie gesuitiche, ne era uscito con «le orecchie piene della confusione e dello strepito metallico dei due eserciti che avanzando

SOLUZIONI

MISTICHE

301

da Gerusalemme e da Babilonia si scontravano sotto le dos banderas in un confuso tumulto di battaglia » (646). Veramente la responsabile prima della Grande Confusione è l’impenitente ironia di Thomas Mann a cui piace a morte di rimescolare le carte, di prendere sempre di nuovo distanza, di ritrarsi e di contraddirsi, di giocare con ambiguità a perdita d’occhio. Ma responsabile è probabilmente pure l’etica segreta e la segreta teologia di questa sua ironia, una ironica autocritica ascendente come da un pozzo senza fondo e

che gli rimette di continuo in questione le sue prese di posizione, quelle impolitiche nella fattispecie, e lo obbliga a una coscienziosa successiva ricerca di eventuali torti propti e di eventuali ragioni dell’avversario. Nella Grande Confusione si può dire che tutti o quasi i termini già opposti nello schieramento delle Considerazioni vengono scompigliati, barattati, si azzuffano con quelli della propria schiera, si alleano con quelli della schiera nemica: «I disputanti non solo si contraddicevano a vicenda ma si mettevano anche in contraddizione con se stessi » (661). Alla fine la vertigine era tale che

nessuno, Hans Castorp meno di tutti, avrebbe potuto neanche lontanamente rispondere a domande come: « Chi era dunque davvero libero? Chi pio? Che cosa costituiva la vera condizione personale e sociale dell’uomo? L’immersione nella comunità che tutto inghiottiva e pareggiava, un’immersione insieme libertina ed ascetica, oppure il ’’soggetto critico” nel quale le prerogative del fanfarone e quelle del borghese virtuoso e severo collidevano tra loro? », ecc. ecc. (680).

13. - SOLUZIONI

MISTICHE.

Il labirinto si chiudeva di nuovo ermeticamente nei suoi vicoli tutti rifatti ciechi. Qualcosa di straordinario occorreva ormai per rompere l'incantesimo. Una vera follia che porterà Castorp fin sulla soglia della morte per assideramento, ma dove nelle visioni dell’agonia bianca egli sognerà dello stato dell’bozz0 Dei: una fascinosa formula di sapore assai oscuro,

colta più volte in bocca al gesuita. « Neve » è il titolo del capitolo che riprende e rinarra un’altra volta a modo suo (uno stupendo modo!) tutta la Montagna incantata e la conduce verso il suo vertice. Improvvisatosi sciatore il nostro eroe si avventura in una escursione solitaria a grande altitudine:

CAP. IV - THOMAS

302

MANN

dunque in una « montagna » più elevata ancora, e da solo, via lontano da pedagoghi e da ogni altro rappresentante di quel mondo e di quel tempo capaci solo di confondere le idee, via lungo ancora pit scabrosi sentieri dello spitito. Mai la « montagna » era stata « incantata » come in quell’ora lassi. Nevica fitto, e neve e nebbia hanno confuso, uniformato ogni cosa, cancellato ogni pista, ogni segnavia. Tutto è quantomai indistinguibile, irreale, un immenso « nulla bianco » su cui incombe un quantomai « vacuo silenzio ». Lo sciatore solitario ha perduto naturalmente la strada del ritorno, tutte le piste tentate si rivelano vane, viziosi giri e rigiri, eterni ritorni dell’identico, che non portano in nessun luogo o sempre allo stesso luogo: a una baita abbandonata sull’altipiano, disabitata e inabitabile. Nel pauroso silenzio egli non percepisce che il battito del suo cuore, « cuore umano palpitante, completamente solo lassi nella gelida e vuota immensità, solo con la sua domanda, con il suo enigma » (685). Eppure nobili impulsi lo avevano attirato lassi: erano state le vette lontane, luminose e sublimi delle grandi montagne, intraviste come « sacre realtà », libere sopra le nebbie, era stato il mistero sacro e sublime della natura a sedurlo, uno spirito aristocratico di autodistinzione rispetto al « popolino delle slitte », un nobile disgusto verso le orizzontali comodità della pigra cura sanatoriale, l’istinto della « prestazione eccezionale », lo spirito dell’insignes esse imparato dal gesuita. Ma ora il mistero sacro della natura finalmente raggiunto s’era tradito per un mistero invece minaccioso

e mostruoso,

e la sua eroica ascensione

si

andava convertendo in provocazione, in hybris, in voluttà di smarrimento, in vertigine peccaminosa ed empia; divettà, quando la morte bianca allungherà i suoi artigli carezzevoli sull'uomo ormai sfinito, indifferenza al vivere o al morire, al trovare o perdere la via del ritorno, vertigine nichilistica, voglia di morte. Ambiguità, sempre ambiguità: il bene e il male inestricabilmente coinvolgentisi. Come un giorno il sacro

mistero di bellezza d’un corpo umano scientificamente, anzi misticamente indagato, s’era rivelato complice d’una contaminazione iniqua con quello stesso corpo. Ma, già in balia del sonno della morte bianca, egli sogna dello status dell’horzo Dei: ossia sogna una colonia di umanissimi «figli e figlie del sole» davanti a una paradisiaca spiaggia. Erano esseri in cui tutte le antitesi sembravano coesistere e compotsi in pace. Erano spirituali e sensibili, belli

SOLUZIONI

MISTICHE

303

e saggi, amabili e intelligenti. Erano dignitosi, severi e insieme sereni, felici. Si amavano con viva cortesia, con sorridente rispetto. Passando davanti alla madre con il figlio in braccio (davanti

al mistero

della maternità

e dunque

della vita) i

giovani sorridevano e s’inchinavano con le mani al petto, e le ragazze « abbozzavano una genuflessione come fa chi entra in una chiesa e passando davanti all’altar maggiore si abbassa con mossa leggera ». Ma esse erano pure nel far ciò « vivaci, allegre e affettuose ». Quel loro amore, insieme gaio e serio, era sostanziato dunque di religiosità, del rispetto per il mistero religioso della propria e altrui umanità, ed era questa 1’« idea fattasi carne » in essi che li univa gli uni agli altri e univa in loro la dignità e la felicità. Era « una felicità costumata per influsso del sole » (695). Ma, come ben presto avvertirà quando scorgerà alle spalle di quella spiaggia un tempio adibito a sacrifici umani, era un amore vicendevole che traeva impulso anche dal senso della morte, dalla coscienza del tragico e del demoniaco sempre in agguato dietro la vita dell’uomo. È quanto gli consente, nelle sue successive riflessioni oniriche, di cogliere la chiave d’uscita anche dalle antitesi della Grande Confusione: « Quei pedagoghi! Il loro dissidio e le loro antitesi (Gegensatze) stesse non sono che un guazzabuglio [in italiano nel testo] e un intricato rumore di battaglia dal quale non si lascia stordire nessuno che abbia

un po’ di libertà nella testa e un po’ di religiosità nel cuore [...]. Morte e vita, malattia, salute, spirito e natura. Sono davvero contraddizioni [W:iderspriche]? » Non lo sono, non c’è vita senza morte, «e nel mezzo sta la condizione dell’bozzo Dei » (685). La chiave, dunque, l’uscita, la soluzione, il superamento è un’altra volta intravvisto in «un po’ di religiosità nel cuore », in un «uomo di Dio ». In una umanità religiosa. È quanto precisamente ci conferisce il potere di sfuggire alla unilaterale prigionia dell’una o dell’altra antitesi o di non smarrirsi nella loro confusione; quanto consente all’uomo d’essere quello che è: «il signore delle antitesi » (695); quanto gli consente di conciliarle in se stesso in uno spazio arcano in forza del sentimento d’un superiore mistero in cui egli si fa superiore a se stesso. Ed è questa superiorità, raggiunta da Hans Castorp sia pure in sogno, che gli consente, in questo suo rischiosissimo momento, di strappatsi alla vertigine della morte bianca, cioè di realizzare immediatamente

304

CAP.

IV - THOMAS

MANN

un superamento sull’antitesi della morte che lo stava ammaliando. Sognando intuisce che c'è un altro amore oltre quello compreso nel « binomio maligno » di amore e morte: un amore della vita. Ma non un amore di quella vita nichilisticamente intesa che non è, essa pure, che consumazione e morte. No, ma un amore di quel superiore religioso mistero che è in ogni vita e ogni morte umana. Il suo binomio è «amore e bontà ». Novità grande in Thomas Mann narratore! Come altamente nuovo è ora il proposito del suo eroe di turno: « Voglio essere buono. Non voglio concedere alla morte nessuna supremazia sui miei pensieri! Perché in ciò consiste la bontà e l’amore del prossimo » (831 s.). Sarà

quell'amore con cui arriverà ad amare Peeperkorn e Claudia. Sarà quell’amore che gli farà congiungere le mani in preghiera quando, rimasto solo, ascolterà le musiche che parlano di speranze eterne pet gli amanti e di amanti che pregano Dio

l’uno per l’altra (895). Quell’amore che ha superato una delle sue antitesi pure: la pura e oscura passionalità; ma che per questo non è neppure approdato nell’opposta sponda della pura, disumana, disincarnata spiritualità. Ha assunto l’una e l’altra in una inesplicabile, non analizzabile superiore fusione. È quanto Thomas Mann assai ci tiene a dire a proposito del «bacio russo » scambiato un giorno, uno degli ultimi, fra Hans e Claudia: « Ella lo baciò sulla bocca. Era un bacio russo; della specie di quelli che vengono scambiati laggià, in quella terra vasta e ricca di sentimento, nelle massime feste cristiane nel senso d’un sigillo d’amore ». Era un bacio puro? Impuro? Un bacio pio? O passionale e carnale? « Secondo la nostra opinione è senza dubbio un processo analitico, ma goffo in alto grado, e un torto fatto alla vita, distinguere nettamente nelle cose d’amore fra aspetto pio e aspetto passionale [...]. Non è forse grande e buono che la lingua abbia soltanto uz4 parola per tutto ciò che, dall’estremo mistico fino all’esttemo più carnale, s’intende con ’’amore’? [...]. L’amore non può essere incorporeo nella suprema mistica, non può essere empio nella estrema carnalità [...]. E c’è della charifas certamente nella

passione più contemplativa come in quella più violenta. Significato oscillante? Ma lo si lasci oscillare, in nome di Dio, questo significato dell'amore! La sua oscillazione è vita e umanità » (381 s.).

SOLUZIONI

MISTICHE

305

« In nome di Dio »: non è detto per sola interiezione. Assai poco Dio viene nominato nella Montagna incantata, ma ogni volta non invano. Aperture su Dio o comunque religiose, le quali implicando sempre in Thomas Mann la morte. e il tragico non possono non postulare anche una direzione trascendente, se ne possono cogliere parecchie in quest’opera, e sono ogni volta l’abbozzo d’una risposta, della sola risposta intelligibile tentata alla sua domanda-guida fondamentale. Queste aperture subiranno nella futura narrativa manniana contrazioni e dilatazioni molteplici, e nuove e più forti vertigini labirintiche, ma chiusure totali mai. Sono sentieri labili ma rettilinei nel deserto religioso dell’epoca che i sedici anni del grande romanzo biblico Giuseppe e i suoi fratelli scaveranno a ritroso nella direzione delle inafferrabili origini, sentieri che nella tempesta del Doktor Faustus sembreranno sovvertirsi del tutto, ma anche miracolosamente ricostituirsi nella « trascendenza della disperazione ». Se però ora noi gettiamo un globale sguardo indietro alla Montagna in vista d’una valutazione unitaria, dobbiamo confessare che, insieme a tutta l’ammirazione che pur si merita,

ci lascia

con

una

strana

insoddisfazione.

Estetica

anzitutto. È il suo eccedente allegorismo ed è la sua enorme mole, la sua immensa ricchezza che, un tantino troppo pedantemente accumulata come è (con la pedanteria di chi non vuole per avarizia omettere nulla), ci risulta un po’ diluita, un po’ dissipata, non abbastanza stringente in ordine ai significati ai quali pure sottostà. Il lettore è chiamato a uno sforzo di sintesi improbo per cogliere la grande organicità, la convergenza in unità, l’ordine unitario dei significati. È tutto come rarefatto, come un po’ troppo spirituale nel senso moderno, idealistico del termine. Certamente il discorso è fittissimo, inesausto di concreti riferimenti, ma si sente che essi volta per volta resterebbero come un po’ troppo ovvii, un po’ troppo incolori, non abbastanza interessanti se il lettore non restasse con l’altro occhio di continuo bene attento alla loro certo continua allusività, diretta o indiretta, ai significati sottintesi. Insomma materia e spirito, entrambi ben copiosi in quest'opera, non sembrano fondersi sempre al punto da generare la spontanea intelligenza emotiva. La loro unione è ottenuta in parte (nell’autore come nel lettore) in grazia del calcolo per quanto raffinato. È questo calcolo, questa domi20

CAP. IV - THOMAS

306

MANN

nante intellettuale che comanda, oltre alla spontanea esperienza intuitiva, la recluta dei particolari. Donde mai, ci si domanda, questa impotenza a stringere, questi tempi lenti, ritardati sul bollino di marcia, questi indugi appunto nel labirinto allegorico, nell’allegorismo orizzontale che sembra spesso realmente smarrire la verticale tematica attorno a cui, l’abbiamo visto, il romanzo realmente ruota in profondità? Noi pensiamo dipenda dalla ancora troppo imprecisa, indecisa religione di Thomas Mann, una religione più rappresentata, più « parodiata » che condivisa. È lo scrittore che in questo modo mira a coprire l’uomo che invece la condivide (come nelle Confessioni)? O è di nuovo l’uomo che si è lasciato nel frattempo un po’ riavviluppare dalle ambiguità, dal labirinto? A cui piace ancora troppo che la via verso la salvezza debba passare attraverso il peccato, o che estremi inconciliabili (l’estremo mistico nale) abbiano a incontrarsi?

14. - DOPO

e l’estremo

car-

LA MONTAGNA.

La « Montagna » ha comunque partorito, dopo lunghe doglie, il suo topolino, non più che un topolino. Il mediocre diviene eroe, attinge un significato sufficiente a deciderlo a un gesto di dedizione totale per un compito vitale. Si ritorna dallo spirito alla vita, che però sarà in realtà una guerra: e una guerra disperata e perduta, una lotta dunque non per vivere e far vivere, bensî per la morte e per niente. Inoltre questo significato spirituale stimolante per la vita che si suppone raggiunto è bene un po’ troppo inafferrabile, indefinito; lo si attinge soltanto in un sogno. Il legame fra la visione dell’homo Dei e la decisione eroica dell’eroe si pena a vederlo o non si vede affatto *. Un po’ più visibile il legame è fra # Una formulazione ben più nitida che nella Montagna di ciò che Mann intende per homo Dei si legge 20 anni dopo nel Doktor Faustus in bocca a Zeitblom: «Devozione, venerazione, dignità spirituale, religiosità sono possibili soltanto a riguardo dell’uomo e per mezzo dell’uomo,

soltanto

a riguardo

della

terra

umana.

Il risultato

può

e

dev'essere e sarà un umanesimo di colore religioso, definito dal mistero trascendente dell’uomo, della orgogliosa consapevolezza che ha l’uomo di non essere una realtà unicamente biologica, ma di appartenere, con una delle componenti decisive della sua essenza, a un mondo spirituale; dalla coscienza che a lui è stato dato l’assoluto, il pensiero della verità,

DOPO

LA MONTAGNA

307

questa decisione e la dolce mania finale dell’eroe citca i rendez-vous eterni degli amori impossibili. Ma allora essa non è una decisione per la vita, bensi per la morte e per l’aldilà: il contrario di quod erat demonstrandum. Un chiaro significato stimolante per ulteriormente vivere nella Montagna non si trova. Questa pare sia la ragione per cui molti interpreti trovano, fra le proteste di Thomas Mann, senz’altro «negativa», « pessimistica » l’opera. Tale la trova anche lo Heller, il quale è convinto che il senso complessivo del romanzo sia che la vita, che « il mondo », che tutto è « insensato », e che vani sono tutti i tentativi tentati sulla Montagna, sia quelli ideologici per una verità, sia quelli morali per una bontà della vita. Riuscito, anzi riuscitissimo sarebbe unicamente il tentativo di fare, per mezzo di tutti questi contenuti negativi, una positivissima opera d’arte. Ma «se è un’opera d’arte, essa è, secondo un qualche senso, simbolica. Se è simbolica, essa può essere solo il simbolo d’un significato; perfino quando essa dice: il mondo è insensato ». E ancora: « La forma riuscita dell’opera d’arte contraddice i suoi propri pronunciamenti:

che tutto esista in stato di dissolvimento

[...]. Mai

prima d’ora la disgregazione di tutte le cose era stata l’oggetto d’una cosî consapevole decisione artista di aggregarle bene della libertà, della giustizia, che a lui è stato imposto l’obbligo di mirare alla perfezione. In questo pathos, in quest’obbligo, in questo rispetto davanti a se stesso Dio è; ma non lo trovo in cento migliardi di vie lattee ». La ironica replica di Leverkiihn a queste parole incomincia: «Il tuo hbozzo Dei ...»! (522-363). Ma questo passo ripete, talvolta verbalmente, una pagina dell’introduzione che Mann stesso vergava durante la seconda guerra in America per « Mass und Wert », rivista della diaspora tedesca. Qui è inequivocabile il senso che si tratta non di un borzo deus, ma d’un mistero che è nell'uomo e che insieme lo trascende. Molto decisamente vi viene esclusa una « idolatria dell’uomo »: « Ben poco motivo c’è oggi per idolatrarlo! Ma l’umanità è religiosa nel rispetto del mistero che s’incatna nell'uomo. Perché l’uomo è un mistero. In lui la natura trascendente e sbocca nello spirito. La tendenza, sia essa beffarda o eroica, di considerarlo semplice natura, è oggi forte, e tuttavia è falsa. Dacché l’uomo è uomo, è più che natura: questo ”più” fa parte della sua definizione. Egli è animale con una parte del suo essere, è vero; ma con un’altra. appartiene a un’altta sfera, alla sfera spirituale. La consapevolezza gli insegna a distinguere; egli è — dice la divinità della Genesi — ’come uno di noi”; sa ciò che è bene e male, possiede l’assoluto. Questo gli è dato nelle idee di verità, libertà, giustizia, e con queste idee è posto in lui il sogno di una redenzione dall’insufficienza naturale, il sogno della perfezione. Tale sogno è la quintessenza dell’umanità. L’arte lo conosce bene » (TH. MANN, Scritti minori, Milano 1958, pp. 382-384).

308

CAP. IV - THOMAS

MANN

insieme » ‘“. In questa contraddizione tra il contenuto negativo e la forma positiva consisterebbe tutta l’ironia della Montagna incantata secondo lo Heller. Si salverebbe dunque un ordine nella forma, nelle parole fra di loro, tutt'al più nello spirito: non nelle cose e nella vita. Ma non è un’ironia misera, con ben poco da ridere? Dove non si salva ir realtà nulla? Dove ir realtà tutto resta come prima: insensato, labirintico, vano e vacuo? Se questo, come lo Heller e in genere i critici (Thomas Mann compreso) pensano,

è un Bildungsroman, un romanzo educativo, a che cosa educa e conduce il suo « figlio inquieto » e il suo lettore? E se, come i critici egualmente pensano, è un « romanzo simbolico », che cosa in ultima analisi simbolizza, ossia significa? Ammesso pure, come pure tutti ammettono, che la sua pedagogia è « ermetica » e che i suoi personaggi con tutte le loro chiacchere e le loro storie non

sono

che « ombre

d’un

mistero », di

che mistero si tratta? Del mistero che tutto, negli uomini e nelle vite, è aberrante e insignificante? No, di certo. Tutta l’ermetica Montagna incantata converge verso il sospetto d’un altro mistero. E ciò anzitutto per via di esclusione, lacerando veli di misteri fasulli, di mete e di vie perdute, di ideali, di felicità e di pedagogie illusorie; inoltre con l’ordine spirituale d’una grande opera d’arte, la cui raison d’étre è di postulare un mistero d’ordine superiore a quello esistente o inesistente nelle cose 0, come dice lo Heller, di « descrivere allusivamente l’indefinibile », di « conferire al mistero nome, suono e fotma » *; ma inoltre ancora lacerando qua e là enigmaticamente qualche filo verso qualcosa dell’autentico mistero (il topolino che la montagna di fatto partorisce e che lo Heller finge per

ora di non vedere). Timide lacerazioni sull’involucro del labirinto dell'immanenza,

orme

di vie, segnavie d’uscita da una

situazione esistenziale d’opposizione irriducibile di spirito e vita verso il riconoscimento da parte dello spirito dell’uomo d’uno Spirito che è Vita e d’una Vita che è Spirito; verso, in una parola, il sospetto d’un Mistero religioso insieme della vita e dello spirito dell’uomo E° HELLER, op.icito tp. 248%ssì SIDE pI02521 ‘ Hans Castorp dev'essere annoverato, come Mann stesso scrive a Endres (14.7.1927) «fra i cercatori di Dio»; e, come pure scrive a Medicus (1.3.1935), il suo interesse non è soltanto « biologico », ma « teologico ».

SPIRITO

ALLA

RICERCA

DELLA

VITA:

ATTRAVERSO

LE

SORGENTI

309

L’ultimo dubbio circa la natura del Mistero sfiorato dagli estremi approdi della Montagna incantata e circa la speranza ormai accesa circa la possibilità d’una pace dei principi antagonisti di spirito e vita in una loro comune confluenza in quel Mistero, cade in chi legga l’opera a cui Thomas Mann ha dedicato

i sedici anni immediatamente

successivi

(1926-

1942): le duemila pagine che raccontano la storia di Giuseppe e i suoi fratelli; o sarebbe meglio dire: le storie di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe e dei suoi fratelli; o meglio ancora, storie narrative-esplorative-interpretative della religione biblica in genere e delle religioni prebibliche e parabibliche.

15. - SPIRITO ALLA LE SORGENTI.

RICERCA

DELLA

VITA:

ATTRAVERSO

È chiaro che d’ora in poi l'impulso artistico, che l’interesse vitale di Thomas Mann sta tutto nell’esplorazione di quel Mistero sul quale egli s’era affacciato con la Montagna e di cui la Montagna gli aveva acceso una curiosità insaziabile. C'era un labirinto oltre il labirinto dell’esistenza umana e storica, questo era un labirinto minore iscritto in un labirinto maggiore, la decifrazione del primo dipendeva dalla decifrazione del secondo. Strani esseri (gli uomini) si trovavano a vivere, ad agi-

tarsi, a susseguirsi nel primo, all’oscuto dei propri principi, dei propri esiti, dei come e dei perché, carichi d’impulsi e di pensieri assai spesso in conflitto tra loro, carichi d’una vita e d’uno spirito entrambi oscuri, anzi divisi, nemici, miranti a sopraffarsi a vicenda, a vivere l’uno a spese dell’altra. Lo spirito nella sua superiorità pretendeva invano che/la vita s’inalzasse fino a sé risolvendosi in esso, ma allora non trovava più vita « degna » d’essere vissuta. La vita attirava lo spirito verso le proprie cieche e fonde oscurità a risolversi in essa, ma allora non ci sarebbe stato più « senso » e «ragione » a vivere. Erano i due principi costitutivi dell’uomo, quello (lo spirito) per cui l’uomo si contraddistingueva da tutto il resto (l’uomo in genere dal resto del mondo, e l’uomo singolo dagli altri uomini) e quello (la vita) per cui l’uomo s’identificava con tutto il resto. Erano le due anime nemiche di Thomas Mann, erano Schopenhauer e Nietzsche che si contendevano la sua

310

CAP. IV - THOMAS

MANN

anima, che egli aveva invano cercato di conciliare o di decidere l’uno per l’altro nella sua anteriore inquieta-ironica ricerca narrativa-esistenziale. Vita e vitalità che va verso lo spirito e che nello spirito si estingue erano stati i Buddenbrooks. Spirito che si riaccosta nostalgicamente ma non realmente alla vita, benché a una vita con un po’ d’ordine (borghese), era stato il Torio Kròger. Spirito puro disperato che dionisiaca-

mente si rituffa nella profondità era stata la Morte a Venezia. Vita rimette insoddisfatta nuovamente vi si smarrisce, si riscatta e torna

della vita e che vi si perde, (nell’ordine borghese) che si per le vie dello spirito e che a perdersi nel suo precipitoso

ritorno, era stata la Montagna incantata. Una superiore miste-

riosa ironia rivelava

a Thomas Mann la vanità di entrambe le

direzioni antitetiche, la schopenhaueriana e la nicciana, nonché la vana prospettiva d’una loro conciliazione. Si urtava in

ogni senso nel nulla, o dell’essere o del significato, o nell’assurdo. Sulla « Montagna » però era brillato il dubbio che non tutto nella realtà dell’uomo si esaurisse nei suoi avversi principi costitutivi di vita e di spirito, che nelle profondità dell’essere si annidasse un terzo misterioso e superiore, un Punto extra, convergendo sul quale fosse concepibile una qualche misteriosa possibilità di convergenza delle antitesi, una Realtà che fosse insieme spirito e vita, una vita insieme viva e significativa, con possibilità di partecipazione da parte dell’uomo. È il Mistero religioso, è il superiore labirinto di cui s'è detto e alla cui esplorazione Thomas Mann ota si lancerà. Non da solo naturalmente, si sarebbe sentito ridicolo, e neppure sulla scorta dei pedagoghi e dei profeti in auge al suo tempo le cui profezie erano state distrutte via via dalle successive, lasciandosi dietro per quelli che si facevano le domande il « vacuo silenzio » ben noto a Thomas Mann ‘. No, i suoi profeti egli andrà a cercarseli più lontano e più indietro possibile, nei profeti e nei pensatori religiosi del passato più remoto e nelle religioni più antiche, espressione dell'anima di interi # Ecco in breve le risposte al riguardo dei filosofi dell’epoca indicata. La Cosa in sé (lo spirito, Dio) di Kant era stata soppiantata dall’Io trascendentale di Fichte, questo dalla Natura trascendentale di Schelling, questa dallo Spirito dialettico di Hegel, questo dalla Materia dialettica di Feuerbach. Ancora: a vicenda si soppiantavano l’io individualistico di Stirner e il noi socialistico di Marx, il mondo tutto senso di Hegel e il mondo senza senso di Schopenhauer, Spirito in senso schopenhaue-

SPIRITO

ALLA

RICERCA

DELLA

VITA:

ATTRAVERSO

LE SORGENTI

Sul

popoli. E allora egli si è letto tutta una biblioteca di storia e di filosofia delle religioni, scartando a priori però le indiane, greche e germaniche, quelle di cui s’erano già infatuati i tre pedagoghi, ormai essi pure da lui scartati, della sua gioventd, e cioè rispettivamente Schopenhauer, Nietzsche e Wagner. Si fissò sulla religione biblica e su quelle con cui la biblica era stata in contatto: le assiro-babilonesi, cananee ed egittiche. Erano le sole originarie ed importanti religioni antiche che restavano, ed avevano insieme costituito il r25/iex spirituale in cui era vissuto colui di cui aveva ormai deciso di raccontare: Giuseppe Ebreo. Per semplicemente andar avanti nella sua avventura esplorativa-narrativa, oltre i blocchi in cui era urtata e i circoli viziosi in cui s’era aggirata finora, Thomas Mann aveva dunque bisogno d’una storia sacra e d’un personaggio religioso che fosse uomo di spirito e insieme di mondo, di vita. Aveva bisogno più esattamente d’un eroe narrabile che, proprio perché investito e incalzato da un grande spirito, fosse veramente riuscito a vivere, ad amare appassionatamente la vita, a lavorare e a costruire nella vita e per la vita e non a scapito del suo spirito, riuscendo a forzare con la forza appunto dello spirito ogni sbarramento interiore o esteriore avverso alla sua volontà di vita, e perciò in grado a tal uopo di scorgere nella propria e altrui vita significati (spirito) grandi e stimolanti. Per oscura ipotesi Thomas Mann già sapeva che un simile « spirito » doveva essere religioso. Ora, inventare un eroe e una storia cosî, traendoli dalla propria sola fantasia, sarebbe stato arduo assai, ma comunque necessario, se fortuna non avesse voluto che una storia e un eroe simili non esistessero già: era l’eroe della più bella fra le storie raccon-

tate dal Libro della religione ormai inserita al centro dell’interesse. Giuseppe Ebreo eta poi, di tutti i personaggi biblici titolari d’una grande eredità spirituale-religiosa, colui che per forza di destino era più di tutti uscito dallo spirito verso la riano e Vita in senso nicciano. Era tutta una genealogia di idoli a rovescio dove i successivi crescevano via via sui frantumi degli anteriori. E fin qui ancora poco male. Erano filosofi che si soppiantavano a vicenda solo metaforicamente a suon di parole e di idee. Ma stavano per arrivare i politici, i quali, in base a quelle stesse filosofie, si sarebbero soppiantati a vicenda realisticamente fin troppo: essi stessi e per causa loro i popoli e le classi nelle guerre e nelle rivoluzioni del secolo XX.

CAP. IV - THOMAS

52

MANN

vita, dalla religione verso il mondo; verso il profondo, pagano mondo egittico; era quello in cui l’accento cadeva quantomai sulla « vita », ma su una vita dove egli non aveva mai perduto il contatto con le matrici dello spirito da cui discendeva. Di quell’accento in particolare aveva bisogno Thomas Mann ancora indeciso nel suo antivitale pessimismo residuo. Quel destino — un destino religioso manovrato dallo spirito — aveva fatto di Giuseppe un salvatore e riassertore di vita terrena e materiale pet se stesso, per i suoi fratelli, per la sua terra e per la terra d’Egitto. Era stato l’anello decisivo in una catena che si snodava proiettata verso un grande avvenire terrestre del popolo che da lui e dai suoi fratelli sarebbe uscito, un avvenire terrestre però al quale si connetteva un grande destino spirituale. Ripercorrendo poi l’avventura di colui che sarebbe stato governatore della terra d’Egitto, c’era perfino rischio o speranza che l’impolitico Thomas Mann si conciliasse con la politica sociale e popolare del civil-letterato, che Naphta si conciliasse con Settembrini, l’aristocratico con il democratico, ciò che del resto lui aveva già cominciato personalmente a fare e di più ancora farà in seguito, aderendo agli ideali politici delle democrazie occidentali. Giuseppe s’innestava dunque a meraviglia a questo punto nella fitta, oscura e insoluta problematica manniana. Cozze erano stati possibili in lui tanto spirito e tanta vita in tanto accordo? Era vita nello spirito e spirito nella vita, ma di quale spirito e di quale vita si trattava precisamente?

Queste

le domande che stimolano l’accuratissimo abissale escavo esplorativo di Giuseppe e i suoi fratelli, le domande che incalzano Thomas Mann nel suo affaccendatissimo aggirarsi per il labirinto spirituale che ogni genere di fonti antiche gli vanno ormai spalancando e illuminando. Tutta la risposta e la scoperta dipendeva evidentemente dalla messa a punto d’un certo concetto di Dio: del Dio di Abramo ereditato da Giuseppe attraverso Isacco e Giacobbe insieme con il sangue, e dai rapporti di questo Dio e della sua religione — rapporti di autodistinzione, di contraddistinzione, ed eventualmente, di derivazione, di analogia, di contagio e di contaminazione — verso le altre divinità e religioni della Mezzaluna fertile. Il Giuseppe di Thomas Mann è, di tutto ciò, insieme una interpretazione

ideologico-comparativa

e una

stenziale intimamente correlate fra loro.

verificazione

esi-

UNA

RELIGIONE

16. - UNA

DELLA

VITA

RELIGIONE

313

DELLA

VITA.

Interpreti biblici ebraici e cristiani, e storici e filosofi in genere delle religioni mesopotamiche, egiziane e caldee stupiscono davanti alla enorme e competente informazione del romanziere in materia, davanti alla sua intelligenza confrontatrice e discriminatrice al riguardo, davanti perfino a non rare personali sue intuizioni interpretative, oltre che davanti alle riprese esatte e ai riporti espressivi mirabili di interpretazioni generali e particolari degli studiosi più accreditati. Stupiscono gli psicologi della religione e gli psicologi in genere davanti alla puntuale, coerentissima versione che egli opera di quelle concezioni nei sentimenti e nei drammi degli uomini e delle donne che le vivono, e davanti alle ripercussioni, e delle concezioni e dei sentimenti, nei gesti, nei fatti e nelle decisioni

anche minime più o meno coerenti o incoerenti dell’uno o dell’altro. A queste sue grandi attitudini scientifiche e psicologiche e inoltre alle sue grandi capacità artistico-narrative — alla sua potenza insomma onnicomprensiva capace di cogliere la molteplicità più diversa nell’unità più stretta e viceversa, e lo spiritualismo più universale nel realismo più dettagliato e viceversa (è la potenza del genio artistico) —

a tutto ciò deve

Thomas Mann se d’una storia che è di cento pagine nella Bibbia ne ha fatta una di duemila, e senza che una pagina sola si possa legittimamente sospettare superflua o improbabile o impertinente. Questo nostro ultimo apprezzamento pottà sembrare eccessivo a chi legge impreparato e per la prima volta l’immensa quadrilogia (divisa in: « Le storie di Giacobbe », « Il giovane Giuseppe », « Giuseppe in Egitto », « Giuseppe il nutritore »). Gli potrà facilmente succedere di smarrirsi o magari di annoiarsi nell’infinita foresta, fittissima di ramificazioni, di deviazioni, d’inversioni e controversioni, di nodi e diramazioni, e

insomma di idee di cose e di fatti sempre nuovi e diversi. Ma se gli nasce anche solo il sospetto di come l’universale e il particolare, il tutto e le parti, lo spirito e la vita vi si legano di continuo nei contenuti come nelle forme, (proprio come quel Giuseppe, quel tipo sempre pit originale, che si allontana sempre più dai suoi padri e dalla patria in esperienze sempre nuove e diverse ma restando sempre vitalmente unito ad essi e al loro « spirito »), sarà in grado di rileggere ogni particolare

314

CAP. IV - THOMAS

MANN

con interesse doppio o decuplo. E farà, fra il resto, la scoperta che tutta la quadrilogia con tutti i suoi leitmotivi è stata da Thomas Mann raccontata alla breve e in anticipo nei due « Preludi » anteposti rispettivamente alla prima (« Hollenfahrt » 0 « Discesa all’inferno ») e alla quarta parte (« Vorspiel in oberen Rangen » o « Preludio in cielo »). Troverà in essi condensato tutto lo « spitito » che poi si svolgerà e si dispiegherà narrativamente, nella inesauribile imprevedibile e irripetibile « vita » dei quattro vasti, drammatici atti successivi. Non solo, ma troverà in quei preludi definito esattamente quello « spirito nuovo » che riprende e ricapitola tutto l’anteriore vecchio e smarrito spirito di Thomas Mann, tutta la sua anteriore, insoluta problematica, e porta tutto in avanti e soprattutto in alto, innalzando il tutto a un livello teologico e aprendo cosî il tutto verso nuove strade e soluzioni. Ma i dotti di cui sopra, specie i religiosamente e biblicamente ortodossi, non stupiscono soltanto, bensi anche scuotono talvolta, o più che talvolta la testa sulle pagine del Giuseppe. Questo manniano « Dio » di Abramo e di Giuseppe è davvero il Dio biblico, il vero Dio? Questo continuo riferirsi al « mito » in genere e alla « mitica » biblica in ispecie, come alla chiave di soluzione delle antitesi umane, è corretto, è legittimo? Non è una contaminazione biblico-mitologica, non è sincretismo, relativismo religioso? O più a fondo ancora:

è proprio serio questo

Thomas

Mann

in tutta questa

sua teologia? Una segreta sorniona ironia che si sospetta costante sotto le sue righe e che si sorprende non di rado affiorare spavalda, specie nei suoi teologici preludi, sembra realmente autorizzare tutti questi dubbi; e ironico non è soltanto Thomas Mann, ma quel Dio stesso che egli ci ammannisce è un Dio ironico, e la stessa teologia che lo riguarda è una teologia dell’ironia. C'è anzitutto, nel manniano Dio di Abramo, di che far scuotere teste teologiche preoccupate in particolare della trascendenza e della santità del Dio biblico. È un Dio in divenire crescente nella mente e realtà dell’uomo e del mondo, «un Dio del futuro nella cui volontà erano in divenire grandi cose », ma è anche « un Dio in divenire lui stesso » (I, 52). «La grandezza di Dio era, sî, qualcosa di paurosaFa 7 A : ” Citeremo d’ora in poi tra parentesi nel testo le pagine dell’ottima versione italiana di Giuseppe e i suoi fratelli, 2 voll, Milano 1954. La versione è di Bruno Atzeni.

UNA

RELIGIONE

DELLA

VITA

315

mente vivo e reale, esistente fuori di Abramo, ma nello stesso

tempo coincideva in certo modo con la grandezza della sua anima e ne eta il prodotto » (I, 532). C’era insomma una « in-

terdipendenza » (I, 533) nel rapporto fra Dio e Abramo, una dipendenza arche di Dio dall'uomo. E anzitutto l’uomo e in particolare Abramo e la sua stirpe erano «il prodotto della curiosità

di Dio di conoscere

se stesso » (II, 1607), erano

«uno strumento per l’autocoscienza di Dio » (II, 1616). Anzi ben più e ben peggio: uno strumento per un’autorealizzazione

futura di Dio. Già con la creazione del mondo, di questo miscuglio di vita e di morte, di bene e di male, Dio si realizzato, derogando è vero un tantino dalla sua « spiritualità, maestà e assolutezza » (II, 1613), ma « notevole incremento di vitalità » del Creatore (II, « Dio abbattendo il mostro del caos

sarebbe dignità, con un 1606).

[e traendone il cosmo],

se ne era incorporata la natura, e forse solo con ciò era divenuto interamente e perfettamente se stesso, era divenuto un Dio vivente » (I, 535). « Il fatto che la contraddizione di un mondo che vive [e che senza male non può vivere] e nello

stesso tempo deve essere giusto risiedeva nella grandezza stessa di Dio. Egli, il Dio vivente, non poteva essere buono, o buono solo occasionalmente: era anche cattivo, la sua pienezza di vita includeva anche il male, ma nello stesso tempo era santo, era la sanità stessa, e pretendeva dall’uomo la santità [...]. Egli non era la bontà, ma il tutto, la totalità» (I,

534-535). Ad ogni modo, avesse (secondo certi testi) o non avesse

(secondo altri) Dio la sua « pienezza » prima del mondo, certo è che per Abramo (secondo Thomas Mann) Egli era risoluto a realizzarsi attraverso l’uomo verso una sua nuova pienezza, un suo nuovo accrescimento vitale. Che senso poteva avere altrimenti il famoso « patto » stipulato con Abramo e la sua discendenza?

Questo:

« l’incarnazione del Sommo in una stir-

pe eletta» dell'umanità per acquistarvi «una vita più intensa », e per tutti e per tutto condurre alla pienezza. Era « l'ambizione » di Dio, un’« ambizione verso il basso », essendo quella verso l’alto per Lui impossibile: « uguagliarsi agli altri, volere-anche-essere-come-gli-altri, rinunciare a ogni qualità eccezionale e straordinaria [...]. Cedere la sublimità

un po’ pallida di una spirituale universalità per la sanguigna e carnale esistenza di un Dio fattosi corpo vivo di una gente, essere come gli altri dèi » (II, 1614). E « dopo un avventu-

CAP. IV - THOMAS

316

MANN

roso episodio di vita biologica come corpo di una stirpe, dopo i dubbi piaceri, pur carnalmente vivi, di un'esistenza terrena, limitata e chiusa nell’attività vitale di un corpo etnico, conservata, sostenuta e sorretta da tecniche magiche, sarebbe seguito necessariamente il gran momento del pentirsi e del ravvedersi, del ritorno in sé, il momento in cui l’aldilà si sarebbe

risollevato

nell’aldilà.

[...] Un

ravvedersi

e un

rico-

noscersi pari a una palingenesi del mondo ». Ma non senza « una certa confusione e vergogna » (II, 1615). Cosî almeno pensa e spera non senza malizia, se non proprio Thomas Mann, Semael, cioè Satana, a cui appartiene lo stile e il punto di vista secondo cui, nei testi appena citati si guarda a tutta la vicenda. Già diverso è il punto di vista e lo stile con cui invece Abramo guarda alla stessa divina vicenda: « Ecco: veniva un giorno, l’ultimo, l’estremo, ad esso portava il compimento di Dio. Quel giorno era fine e principio, distruzione e rinascita. Il mondo, questo primo e forse non primo mondo, andava in polvere in una universale catastrofe; il caos, il silenzio primordiale ritornavano. Ma allora Dio avrebbe ricominciato, e ancor più meravigliosamente, la sua opera: Signore della distruzione, Signore della risurrezione. Dal fango e dalla tenebra egli chiamava in vita un nuovo cosmo, e più potente dell’ultima volta risuonava il giubilo degli angeli che assistevano alla nuova creazione, perché il mondo ringiovanito superava in ogni riguardo il vecchio » (I, 538). Ma fino ad allora Dio sarebbe stato «in ceppi » (I, 539 e 540), la sua grandezza e potenza avrebbe avuto «un carattere di attesa e di inadempiuta promessa, un carattete, per esprimerci con una sola parola, di dolore » (I, 538); e questo fatto «stabiliva una certa somiglianza fra lui e quelle divinità [della natura] che pure soffrivano » (I, 540).

C'è davvero di che scrollare la testa su questo Dio che discende e si degrada per riconoscersi ed adempiersi nel mondo e nell’uomo, e affinché il mondo e l’uomo possano riconoscersi ed adempiersi in Lui; su questo Dio che, una volta in-

carnatosi in Abramo e nella sua stirpe, avrebbe avuto bisogno di essa, della sua passione di ricerca e di conoscenza della vera natura di Dio, per essere « restituito alla sua trascendenza ». Questo quantomeno «agli occhi di Semael »: «la stirpe eletta, in germe e segretamente, sapeva tutto meglio del suo Dio, e impegnò tutte le forze della sua ragione, che

UNA

RELIGIONE

DELLA

VITA

317

andava a poco a poco maturando, per aiutarlo a districarsi dall'avventura e ritornare nella sua onnipotente e oltremondana

spiritualità » (II, 1617)”. Contro questa « affermazione del Maligno » ci si tiene, è vero, a precisare che « il ritorno [dell’uomo e del mondo insieme con Dio] dal peccato all’originaria purezza non è stato possibile solo con questo aiuto e con questi soli sforzi dello spirito umano » (ivi), e ci si tiene in molti altri testi a riaffermare e a protestare la totale e radicale trascendenza divina. Egli « era Makom, lo spazio, perché era lo spazio del mondo, ma il mondo non era il suo spazio » — « Egli era in Abraham che lo conosceva perché Lui gli si faceva conoscete » — Dio era « un Tu che diceva possentemente Io al di fuori di Abraham e al di fuori del mondo » — « Era nel fuoco ma non eta il fuoco; e adorar questo sarebbe stato quindi grande errore » (I, 536) — « Le possenti qualità che Gli attribuiva erano certamente proprietà orginarie di Dio, non le aveva create Abramo [...], erano qualcosa che esisteva obiettivamente, al di fuoti di Abramo, ma erano nello stesso tempo anche in lui e di lui » (I, 532).

Sono pronunciamenti sacrosanti da raddrizzare discretamente la testa e da tranquillizzare per uno momento il cuore ai vigili custodi della trascendenza, lo stupore dei quali può un’altra volta zampillare senza riserva davanti alla mirabile interpretazione manniana della vocazione di Abramo chiamato in Ur da Dio a porsi alla Sua ricerca. « Era una tradizione * Che questo sia più che altro il punto di vista un tantino sospetto da cui guarda a Dio Semael-Satana è confermato dal carattere delle folli escadescenze che Mann inventa a suo tempo sulla bocca di Giacobbe disperato per la supposta uccisione di Giuseppe. Tra l’altro egli accusa Dio di non aver mantenuto il patto con l’uomo, perché « se l’uomo si è ingentilito e raffinato in Dio e Dio pretende da lui cose selvaggiamente orribili [...], è evidente che Dio non è proceduto di pati passo con l’uomo, ma è rimasto indietro » (I, 815). Ora simili accuse

e idee su Dio vengono poi da Giacobbe stesso riconosciute come ispirate dal diavolo e ritrattate. Thomas Mann però è recidivo. Per esempio: « In Dio che alla fin fine non era sempte stato quello che era allora, Giuseppe vedeva un Dio del perdono e dell’indulgenza » (I, 1110); « Abbiamo già tentato altre volte d’indagare il fenomeno della gelosia di Dio in occasione delle pene e dei travagli con cui, senza dubbio spinto dalla passione, il Dio, già demone del deserto, anche più tardi, quando la santificazione reciproca tra lui e lo spirito dell’uomo era molto avanzata, perseguiva coloro che erano oggetto di troppo amore e idolatria » (II, 1427). Si tratta di Rachele e di Giuseppe « perseguiti » da Dio perché troppo amati da Giacobbe.

CAP. IV - THOMAS

318

MANN

di irrequietezza spirituale che [Giuseppe] conservava nel sangue », che gli arrivava « dal remotissimo emigrante di Ur» e che « si specchiava nel solenne volto di vegliardo, nell’alta

fronte, nei bruni occhi ansiosamente scrutatori di Giacobbe ». Era la « consapevolezza d’una pena e d’un’ansia più alte », che « dava alla persona del padre tutta la dignità, il decoro, la solennità: irrequietezza e dignità. Era ben questo il suggello

dello spirito! ». Era un «ignorare la tranquillità, un ascoltare, chiedere, cercare, aspirare alla conoscenza di Dio, uno sforzo amaro e dubbioso verso il vero e il giusto, un voler sapere donde veniamo e dove andiamo, il nostro vero nome, la nostra vera natura, il vero concetto del Sommo » (I, 49-50). E dopo aver ripetuto per Abramo quasi l’identico ascensus i Deum agostiniano di Ostia, (che Giuseppe a sua volta ripete davanti a Faraone, II, 1826), l’interprete continua: « [Con

la sua scoperta Abramo] aveva reso un grande beneficio a quanti partecipavano alla scoperta: a Dio, a se stesso, e a tutte le anime che egli guadagnava con la sua predicazione. A Dio in quanto gli permetteva di attuarsi nella conoscenza delluomo [?], ma a se stesso e ai proseliti col riportare la molteplicità e l’incertezza angosciosa delle manifestazioni della vita a un principio unico e conosciuto che acquietava l’animo: un Essere determinato da cui tutto proveniva, il bene e il male [?], i fenomeni improvvisi, ciò che incute spavento [?],

e quanto si svolge con ritmo regolare e benefico, l’Essere che poteva prendersi 528-530).

in ogni

caso

come

norma

suprema »

(I,

Tutto bene, tuttavia come mai, perfino là dove intesse discorsi di purissima ermeneutica biblica, Thomas Mann non resiste alla tentazione di infilarvi furtivamente citazioni dalle sue eresie: bene e male entrambi derivanti da Dio, anzi primordialmente costitutivi di Dio; Dio e l’uomo, Dio e il mondo accostati audacemente fino a inserirli in un unico ciclo, in un’unica mitica vicenda, come i due emicicli, l’uno luminoso e l’altro oscuro, d’un’unica sfera dell’essere? Che cosa lo tenta a tanto? Hélderlin o Hegel forse? O non forse

stessa

È tipica di Holderlin l’idea che la divinità si fa sensibile a se e sensibile in genere, ossia «sente», unicamente mediante il

cuore dell’uomo. Per esempio: fihlenden Herzen ».

« Denn es ruhn die Himmlischen gern am

CONVERSIONE

TEOLOGICA

DI

SCHOPENHAUER:

MANICHEISMO

DIO

anche certa mistica perfino cattolica (Angelus Silesius)? 3. Il concetto cristiano dell’Incarnazione o il concetto paolino della kénosis? Un po’ tutta la « storia sacra della salvezza » che si realizza attraverso vicende sante, ma anche non di rado astute, maligne o anzi decisamente malvage, di cui anche il suo Giwseppe dovrà rendere frequentemente e minutamente conto? Un po’ tutto questo assai probabilmente, ma l’incentivo ereticale massimo deriva (secondo noi) a Thomas Mann dalla sua problematica centrale di sempre, a cui a questo punto interessa assolutamente, per risolversi, di giustificare teologicamente la rivitalizzazione dello spirito per mezzo della vita con una rivitalizzazione di Dio stesso. Il nostro teologico romanziere ha troppo bisogno in questo momento di concepirsi un Dio (o di trovare chi abbia concepito un Dio) amico della vita, vicino e intimo alla vita, garante e responsabile della vita, e dunque anche delle sue ombre, delle sue beffe e bassezze, dei suoi delitti e castighi; in una parola, una giustificazione in Dio anche di quel rz4/e senza di cui la vita non è: un Dio che ama questa vita fino a volerla vivere Lui stesso con tutto il suo bene e il suo male. Sembrerebbe decisamente una soluzione!

- CONVERSIONE CHEISMO.

TEOLOGICA

DI SCHOPENHAUER:

MANI.

L’ambigua, enigmatica situazione teologica di Thomas Mann, interprete-narratore biblico, s’illumina, a noi sembra, quantomai, se si fa attenzione a un’altra importante contaminazione fra Bibbia ed eresia che percorre il Giuseppe e che fa essa pure tentennare inquieta la testa ai teologi ortodossi, certamente la pit interessante e la più decisiva di tutte: quella fra concezione biblica del mondo e di Dio, e concezione gnostico-manichea. Una delle scoperte più sensazionali che fece Thomas Mann nella sua esplorazione religiosa dell’antico Me-

3 Il senso della interdipendenza fra Dio e l’uomo è assai vivo nel grande mistico cattolico del Seicento tedesco: Angelus Silesius. Ciò però solo nel primo libro del Cherubinischer Wandersmann, libro che fu sospettato proprio per questo di panteismo mistico. Ecco un passo: « Gott ist so viel an mir, als mir an ihm gegeben. Sein Wesen helf ich ihm, wie er das meine hegen » (I, 100). Thomas Mann lo conosceva bene. Un distico del Silesius è citato nel Doktor Faustus (p. 258).

CAP. IV - THOMAS

320

MANN

dio Oriente fu quella di « una lunga tradizione di pensiero, fondata su una verissima autoesperienza dell’uomo, nata in tempi antichissimi ed entrata come patrimonio ereditario nelle varie religioni, profezie e teorie della conoscenza che di mano in mano si sono succedute in oriente, nell’Avesta, nell’Islam, nel manicheismo, nello gnosticismo e nell’ellenismo » (I, 37). « Uno choc della riscoperta deve aver accompagnato tale scoperta in Thomas Mann, giacché la storia della creazione quale viene raccontata dalla tradizione manichea e gnostica non è che la esatta versione teologica della metafisica di Schopenhauer; ed essendo teologia e nonostante che lo sia in forma eretica [radicalmente dualistica: materia non da Dio; il Bene, o Dio, e il Male egualmente presenti, eternamente antitetici], non si esaurisce interamente nel pessimismo di Schopenhauer». Thomas Mann s’investi o si travesti immediatamente di tale concezione, vi si senti immediatamente come a casa sua, nel punto di vista innato del suo pensiero, nel punto di partenza originario della sua avventura narrativa e della sua problematica. Ne fece l'osservatorio da cui egli guarderà, natrerà, e interpreterà tutto il suo Giuseppe e tutta la sua biblica religiosità. E si può dire che, in tal modo, il Giuseppe non è che la ritrascrizione teologica dei Buddenbrooks, non è che la conversione, grazie a quella teologia, della sua arte ironicopessimistica in un’arte ironico-ottimistica. Cosî, in proposito, Erich Heller. Ma qui noi dobbiamo assolutamente precisare, pet esatto amore della verità, che i travestimenti e i trasferimenti di Thomas Mann sono, in tutto questo processo, due: il primo è quello dalla filosofia schopenhaueriana nella teologia gnostico-manichea; il secondo è quello dalla teologia gnostico-manichea, a un certo punto, nella teologia precisamente biblica, senza di cui non sarebbe mai stato possibile un superamento del pessimismo a riguardo del mondo e della vita. Un trasferimento o travestimento, questo secondo, che, è vero, non si sveste mai del tutto dei vecchi panni eretici, non si distacca mai del tutto dalle origini, come ora vedremo pit in dettaglio. Del resto Thomas Mann possedeva un grado troppo vivo di autoironia per pretendere da se stesso di salire in cattedra a parlare e a insegnare in nome della verità e dell’ortodossia. Era più conforme alla sua natura ironica