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Italian Pages 2059 [2070] Year 2003
Questa pubblicazione è stata realizzata con il contnbuto della Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele.
Wemer Jaeger
PATDETA lA FORMAZIONE DELLUOMO GRECO
Introduzione di Giovanni Reale Traduzione di Luigi Emery e Alessandro Setti lndici di Alberto Bellanti
BOMPTANT IL PENSIERO OCCIDENTALE
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© 2003 R.C.S. Libri S.p.A., Milano Tedizione Bompiani Tl Pensiero Occidentale aprile 2003
INTRODUZIONE DI GIOVANNI REALE CON BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI WERNER }AEGER DI HERBERT BLOCH
GIOVANNI REALE LA FIGURA DI WERNER }AEGER E LA SUA OPERA «PAIDEIA» COME GRANDIOSO MANIFESTO DEL «TERZO UMANESIMO»
La formazione spirituale e culturale di Werner Jaeger Jaeger è nato nel 1888 (a Lobbetich nella Renania) ed è morto nel 1961 (negli Stati Uniti, a Boston). Il suo maestro principale è stato Ulrich von Wilamowitz Moellendorff; in seguito, ha assorbito, in varia maniera, fecondi stimoli che provenivano dai messaggi di altre grandi figure di filologi e studiosi tedeschi del pensiero antico e da alcuni grandi pensatori che fiorirono fra la fine del XIX e i primi lustri del XX ·secolo. Nel suo primo semestre, diciottenne, studiò a Marburgo, dove frequentò le lezioni di Hermann Cohen e di Paul Natorp, e prese conoscenza dell'interpretazione neokantiana di Platone. Ma la sua formazione si è realizzata nell'Università di Berlino, a partire dal 1907, dove insegnava Wilamowitz, circondato da grandi studiosi che formavano un vero e proprio «Gotha» di straordinario splendore. J aeger stesso precisa: «Anche un Wilamowitz non poteva certamente essere in grado di abbracciare tutte le facce dell'antichità nella stessa maniera, ma al momento
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del mio ingresso nella vita accademica (1907) nell'Università di Berlino la scienza dell'antichità era nella sua incomparabile completezza, e io ho sempre cercato di imparare da tutti. Uomini come Hermann Diels, Johannes Vahlen, Eduard Norden, Wilhelm Schulze, Eduard Meyer e altri, vivono non solo nella mia grata memoria, ma anche nella mia opera, nella misura in cui io sono stato capace di recepire la loro scienza» (Scripta Minora 1960, p. XII; in seguito abbreviato con S.M.). Sempre a Berlino, Jaeger assistette alla nascita dell'opera di epocale importanza di Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker (che si è imposta come insostituibile punto di riferimento), seguendo le sue lezioni sugli autori trattati nel primo volume nella sua prima stesura. Diels gli fece conoscere anche Lucrezio e gli Epicurei, sulla base dei lavori di Usener, che era stato suo maestro. Lesse le opere di Wilhelm Dilthey, ma solo dopo la sua morte (non poté seguire le sue lezioni, in quanto in quegli anni si era già ritirato dall'insegnamento). Alla conoscenza di Aristotele Jaeger venne avviato da Adolf Lasson, che da giovane aveva seguito le lezioni dei dei celebri filologi August Boechk e Karl Lachmann. Inoltre Lasson aveva personalmente conosciuto August Meineke, e proseguiva sulle linee tracciate da Adolf Trendelenburg e Hennann Bonitz. Jaeger riferisce anche di essere stato ammesso - malgrado fosse di gran lunga il più giovane - nelle riunioni che si facevano fra studiosi di alta classe in casa di Lasson in lunghe serate del venerdì, nelle quali riunioni veniva praticato l'antico metodo della esatta esegesi di un testo aristotelico con i vari problemi che esso sollevava. Si seguiva proprio quel metodo, scrive Jaeger, «che è tradizionale nella storia dell'aristotelismo, e che è in uso nella scuola di Oxford a partire da Ingram Bywater e con W .D. Ross» (S.M., p. XIV). I rapporti che Jaeger ebbe con tutti questi studiosi in maniera diretta o per mediazione - sono stati fonda-
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mentali, oltre che per la s:ua formazione filologica, soprattutto per quella filosofica. Infatti Wilamowitz era un grande filologo, ma aveva scarsa sensibilità filosofica, come Jaeger stesso riconosce: «Ciò che è propriamente filosofico era lontano dallo spirito di Wilamowitz» (S.M., p. XIV). La posizione assunta personalmente da Jaeger fu quella di una costante ricerca di una «giusta misura» fra filologia e filosofia, avvicinandosi non poco a quella posizione che oggi chiameremmo «storico-ermeneutica». Di conseguenza, egli respinse le letture che danno eccessivo peso alla teoresi, che potremmo chiamare di carattere «teoreticistico». Giudicò quindi correttamente l'interpretazione di Platone della scuola di Marburgo inaccettabile dal punto di vista storico-filologico, ma trasse da essa un fruttuoso stimolo filosofico. Gli fece sorgere la convinzione che bisognava avvicinarsi alla filosofia greca attraverso uno studio del mondo antico in termini di storia delle idee. In effetti, la storia della filosofia non può se non essere una storia delle idee nei loro fondamenti e nei loro nessi. Nello stesso tempo, Jaeger respinse anche quelle posizioni che potremmo chiamare «filologistiche», che danno preminenza allo studio delle parole e dei dati linguistici; e analogamente respinse anche quel metodo di presentare il pensiero antico in modo puramente o prevalentemente «dossografico». In particolare, l'interpretazione del pensiero degli antichi di Jaeger si differenzia nettamente da quella di Eduard Zeller. Mentre quest'ultimo nella sua celebre opera La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico puntava sui grandi sistemi e sulla loro presentazione in maniera «puramente dossografica» (S.M., p. XXI), Jaeger punta sulla individuazione di particolari idee-chiave, studiando i nessi strutturali che le collegano con alcuni motivi caratteristici di un'intera epoca. Di conseguenza, egli studia in modo costante il pensiero filosofico degli
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antichi nelle sue implicanze e nei suoi effetti «inclusi i suoi influssi sulle scienze, sul pensiero religioso e teologico, sull'educazione, sul diritto e sullo Stato, e altresì con la considerazione degli influssi di ritorno che la filosofia stessa ha subito da parte di queste forze spirituali» (S.M., p. XXI). Jaeger ha continuato per tutta la sua vita a produrre lavori strettamente filologici ad alto livello (tutti inclusi in Scripta Minora 1960), ma li ha prodotti e usati in prevalenza come strumenti di lavoro. In effetti, nelle sue grandi opere - fra le quali Paideia si impone non solo come il suo capolavoro, ma anche come una delle opere più significative del XX secolo dal punto di vista storicofilosofico - egli ha raggiunto i vertici di un vero «storico di idee» ricostruite e interpretate su solide basi.
La brillante carriera di Jaeger e la fondazione del «terzo umanesimo», incentrato su Platone come figura emblematica dell'educatore Nel 1914 a soli 26 anni, Jaeger vinse la cattedra all'Università di Basilea; nel 1915 si trasferì all'Università di Kiel e nel 1921 passò all'Università di Berlino, come successore di Wilamowitz. Nel 1924 divenne membro della «Akademie der Wissenschaften» di Berlino. Nello stesso anno fondò insieme a Johannes Popitz la «Gesellschaft fiir antike Kultur», e nel 1925 fondò la rivista «Die Antike» (di cui fu anche direttore) con lo scopo di diffondere fra tutti gli uomini colti il messaggio di fondo della cultura antica quale elemento di perenne validità per la formazione spirituale. Veniva attuato in questo modo il programma culturale del «terzo umanesimo», incentrato sulla convinzione che la cultura antica, in particolare l'antica «paideia» con ai vertici Platone, costituisse un efficace e valido strumento per uscire dalla crisi spirituale allora dilagante.
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Alcune conferenze e articoli preparati e pubblicati in questo periodo tracciano il quadro del «terzo umanesimo» in modo sempre più dettagliato. Del 1924 è la conferenza tenuta all'Università di Berlino per il festeggiamento della fondazione del Reich, dal titolo: Die griechische Staatsethik im Zeitalter des Plato; del 1925 è la relazione tenuta sempre a Berlino in un convegno dal titolo «Das Gymnasium»: Antike und Humanismus; sono state composte nel 1927 e pubblicate nel 1928 tre conferenze tenute all'Università di Monaco dal titolo: Platos Stellung im Aufbau der griechischen Bildung, delle quali la terza ha il significativo titolo programmatico: Die platonische Philosophie als Paideia; del 1929 è la conferenza dal titolo: Die geistige Gegenwart der Antike, relazione al primo convegno della «Gesellschaft fiir antike Kultur»; (tutti questi testi, che fanno ben comprendere il sorgere e lo sviluppo del programma del «terzo umanesimo», sono traccolti nel volume Humanistische Reden und Vortrii.ge 1937; 19602). Del 1934 è il primo volume di Paideia. Nello stesso anno Hitler si impossessava definitivamente del potere con l'eliminazione degli avversari, e già nel 1936, per salvare dalle persecuzioni la moglie, che era ebrea, Jaeger andò in esilio in America e iniziò a insegnare all'Università di Chicago. Gli altri due volumi di Paideia uscirono prima in lingua inglese in America (II nel 1943 e III nel 1944), ma subito dopo anche in Germania (Il nel 1944 e III nel 1947). Con la partenza di Jaeger dalla Germania e con la definitiva presa del potere da parte di Hitler, il «terzo umanesimo» non ebbe più peso nella cultura tedesca. Ma il suo messaggio girò per tutto il mondo legato alla cultura dell'Occidente. Paideia venne tradotta in italiano (I 1937; II 1955; III 1959), in spagnolo e pubblicata in Messico (I 1942; II 1943; III 1944; nel 1957 uscì anche una edizione in volume unico); nel 1964 usciva anche la traduzione del volume I in francese.
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Perché il movimento è stato definito «terzo umanesimo»? Il «primo» umanesimo fu quello italiano; come «secondo umanesimo» Jaeger intese quello sviluppatosi nell'età di Goethe, e di conseguenza chiamò «terzo» quello da lui promosso. Il suo maggiore collaboratore nell'attuazione del progetto del «terzo umanesimo» fu Julius Stenzel, le cui opere ebbero pure successo, anche se non come quelle di Jaeger. Per un pubblico vasto egli compose Platone educatore, pubblicato nel 1928 (fu tradotto in italiano prima parzialmente nel 1936 e poi integralmente nel 1966 per le edizioni Laterza). Del 1917 è l'opera Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu Aristoteles e del 1924 è l'opera Zahl und Gestalt bei Platon und Aristoteles, molto apprezzate dagli studiosi specialisti. Già nel 1935 Stenzel moriva, a soli 52 anni. Il messaggio del «terzo umanesimo» continuò solamente nelle opere di Jaeger, soprattutto con Paideia.
L'opera «Paideia» come grandioso manifesto del «terzo umanesimo» Jaeger precisa che ciò che lo ha indotto a comporre Paideia, oltre al suo interesse spirituale, è stata la crisi della cultura umanistica che era in atto in Germania: una cultura che si era invece così ben sviluppata nel secolo XIX. Egli scrive: «Senza una permanente validità dell'idea dell'uomo nella cultura, la dottrina classica pencola nel vuoto». E precisa quanto segue: «Chi non si rende conto di questo, dovrebbe venire in America, e qui cercare di capire che cosa accade nello sviluppo degli studi classici. Dove la tradizione umanistica comincia a decadere, allo studioso dell'antichità rimane una sola cosa da fare: difenderla a spada tratta e dedicarsi alla sua missione come insegnante, così come facevano i monaci del
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primo medioevo. L'importanza di ciò che chiamiamo scienza umanistica non si può dedurre in maniera astratta da un concetto di conoscenza o per contrasto con la scienza naturale, per quanto logico questo possa apparire. Queste non possono essere altro che astrazioni dedotte a posteriori, che hanno origine dal bisogno di portare tutto ciò che esiste a un sistema ben organizzato» (S.M., p. XXVI). L'importanza della scienza umanistica non si può comprendere se non sulla base di una solida tradizione culturale, e solo nell'ambito di questa essa si può risvegliare nuova forza: «l'urgenza prometeica di modellare uomini, che ci viene dall'antichità- scrive Jaeger -, è e rimane radice di tutta la dottrina classica» (ibidem). La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l'Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il cristianesimo, poi con l'umanesimo e il rinascimento; ed è proprio questa «forza educativa», questa paideia, che, secondo Jaeger, bisognerebbe ricuperare e mantenere in vita anche nel mondo contemporaneo. Egli sviluppa la sua tesi a grande raggio e con straordinario ingegno. In effetti, il concetto di paideia è, in qualche modo, onnicomprensivo di tutta quanta la vita spirituale degli Elleni, e quindi ha nessi strutturali con tutta una serie di concetti. Tuttavia, uno solo è il concetto centrale attorno cui tutti i concetti connessi con varie scienze in vario modo ruotano: quello di areté, ossia di «virtù». Di conseguenza, Jaeger ricostruisce in modo mirabile proprio il concetto di areté nella sua evoluzione semantica da Omero a Platone, e in base a esso anche il concetto di paideia: «Questo mi si è presentato - egli precisa - come il filo di Arianna per dipanare la storia della paideia greca, che ruota attorno a nient'altro che all'areté dell'uomo. Il punto che si doveva raggiungere era questo: comprendere i Greci mediante i loro concetti e le loro caratteristiche peculiari, e valutare il loro significato per
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la storia del loro influsso spirituale. Dobbiamo imparare storicamente perché i Greci stessi abbiano visto il loro mondo spirituale in modo "astorico", ossia come la struttura di un mondo di norme immutabili e non come il corso di eventi puramente temporali» (S.M., p. XXVII). Questo procedimento ci porterebbe anche a considerare l'antichità come un tutto in modo organico. In effetti, dice Jaeger, «La storia vista in questa luce appare non solo come teatro di grandi fatti ed eventi, ma anche come il luogo dove costanti forme dello spirito, forgiate da specifiche condizioni sociali, si sono infine liberate da questa loro origine e continuano a esercitare il loro potere, sia come modelli in senso greco, sia come semi che generano nuove forme» (ibidem). Fra i moltissimi punti-chiave che qui potrebbero venire richiamati, dato il limitato spazio che ho a disposizione, mi concentrerò su due soli, ma veramente emblematici. Il primo riguarda Socrate con la scoperta del nuovo concetto di psyche su cui si fonda l'Occidente, di cui Jaeger scrive: «Ma che cos'è l"'anima" o, con la parola greca e socratica, che cos'è "psyche"? Si consenta, per il momento, di porre questo problema solo in un senso puramente filologico. Quello che colpisce è che quando Socrate;in Platone come negli altri Socratici, pronuncia questa parola "anima" vi pone sempre come un fortissimo accento e sembra avvolgerla in un tono appassionato e urgente, quasi di evocazione. Labbro greco non aveva mai, prima di lui, pronunziato così questa parola. Si ha il sentore di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è che qui per la prima volta nel mondo della civiltà occidentale, ci si presenta quello che ancora oggi talvolta chiamiamo con la stessa parola, anche se gli psicologi moderni non associano ad essa la nozione di sostanza reale. La parola "anima'', per noi, in grazia delle correnti spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole: "servizio
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di Dio" e "cura d'anime" essa suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protrettica di Socrate» (infra, pp. 750 sg.). E per quanto concerne Platone come «il maestro per eccellenza dell'educazione», Jaeger traccia una ricostruzione che, per molti aspetti, si impone come punto di riferimento indispensabile anche oggi, soprattutto per l'interpretazione della Repubblica, opera tanto fraintesa. Egli comprende e dimostra molto bene come essa sia non un'opera "politica" nel senso moderno del termine, e come sia invece un trattato di paideia, scritto, cioè, per conoscere e formare l'uomo al più alto grado. Contro Gomperz - che, in ottica positivistica, giudicava la Repubblica come opera contenente, sì, molti bei pensieri, però troppo incentrata su problemi di educazione - Jaeger scrive: «Tanto Vi:\rrebbe dire che la Bibbia è, sì, un libro geniale, ma che in essa si parla troppo di Dio. Ma non è il caso di sorridere, perché questo atteggiamento non è un caso isolato. Esso anzi è tipico di quella mancanza di intendimento che il secolo XIX ha mostrato di fronte a quest'opera. La scienza, che si era evoluta a superba altezza liberandosi dallo scolasticismo dell'umanesimo, aveva preso a sprezzare - e ciò pareva segno di distinzione intellettuale - tutto ciò che sapeva di "pedagogico"; col risultato che essa era diventata incapace di intendere le sue proprie origini. Quel problema dell'educazione umana, che ancora al tempo di Lessing e di Goethe aveva avuto significato altissimo, la scienza non era più in grado di vederlo nel suo valore antico e platonico di centro della vita spirituale, dal quale l'esistenza umana deriva il suo più profondo significato. Quanto più vicino all'intelligenza della Repubblica era stato, un secolo prima, Gian Giacomo Rousseau, quando aveva detto che quest'opera: non era un libro di scienza dello Stato, come pensano quelli che giudicano un libro soltanto dal titolo, ma che era il più bel trattato dell'educazione che fosse mai stato scritto» (infra, pp. 1031 sg.).
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Di grande rilievo è la dimostrazione che Jaeger presenta dell'educazione filosofica - che è la forma più elevata di paideia - come «conversione (Jtcptayroyit, µc'tacr'tpoit)>>, come il voltarsi di tutta l'anima dalle tenebre alla luce dell'Idea del Bene, principio del Tutto, centrale nella Repubblica (cfr. infra, pp. 1200 sgg.). Egli precisa inoltre quanto segue: «Quando si ponga il problema, non già del fenomeno "conversione" come tale, ma dell'origine del concetto cristiano di conversione, si deve riconoscere in Platone l'autore primo di questo concetto. Il trasferimento del vocabolo all'esperienza religiosa cristiana ebbe luogo nel terreno del primitivo platonismo cristiano» (infra, pp. 1200 sg., nota 82). In modo particolare va rilevato come, proprio in Paideia, venga da J aeger per la prima volta presentata in maniera corretta e ben evidenziata, la statura «meta-politica» del messaggio della Repubblica di Platone: «L'essenza dello Stato di Platone non sta nella struttura esterna - se pure ne abbia una - ma nel suo nucleo metafisico, nell'idea di realtà assoluta e di valore su cui è costruita. Non è possibile realizzare la repubblica di Platone imitandone l'organizzazione esterna, ma solo adempiendone la legge di bene assoluto che ne costituisce l'anima» (infra, p. 1309). La Città ideale di cui parla la Repubblica platonica non si realizza esternamente, mettendo in àtto la struttura del suo schema, ossia creando uno Stato esteriore, ma edificandola nell'uomo interiore, ossia nell'anima. Jaeger richiama, a giusta ragione, il passo di Repubblica IX 592 b, che esprime la cifra emblematica dell'opera nel suo intero: «È indifferente se lo Stato ideale esista o esisterà; perché l'uomo giusto osserva nel suo agire soltanto la legge di questo vero Stato, e non di alcun altro». È, questa, una interpretazione radicalmente antitetica a quella di Popper e dei suoi seguaci, e senza paragone superiore dal punto di vista storico-ermeneutico.
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Il paradigma storico-genetico per l'interpretazione di Aristotele proposto da ]aeger, il suo straordinario successo e la sua dissoluzione Jaeger ha iniziato la sua carriera scientifica studiando Aristotele. Del 1911 è la sua dissertazione in lingua latina Emendationum Aristotelearum Specimen (riedita in S.M., pp.1-38). Del 1912 è il suo primo cospicuo libro Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, in cui si dimostra che la Metafisica di Aristotele non è un'opera organica, ma una silloge di scritti nati in differenti epoche. La tesi, molto ben condotta, non è tuttavia originale, perché già Paul Natorp (che - tra l'altro - Jaeger conobbe all'Università di Marburgo) l'aveva in certa misura anticipata, addirittura già nel 1888. (Ho pubblicato quest'opera di Natorp con il titolo Tema e disposizione della «Metafisica» di Aristotele, nella traduzione di V. Cicero e con mia Introduzione, in cui si potrà vedere in che misura anticipava la tesi jaegeriana, Vita e Pensiero, Milano 1995). La perizia con cui Jaeger, ancora giovane (ventitreenne), condusse questo lavoro, lo impose, e a buona ragione, in primo piano. Su Aristotele ritornò ancora nel 1913 e nel 1917. Ma fu con l'Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung del 1923, che Jaeger si impose con una tesi rivoluzionaria, che per quasi mezzo secolo dominò gli studi sullo Stagirita (nel 1934 usciva l'edizione inglese; nel 1935 la traduzione italiana curata da Guido Calogero; nel 1946 la traduzione spagnola). Nella Metafisica, così come nelle grandi opere aristoteliche - secondo Jaeger non solo non c'è una «unità letteraria», ma non c'è neppure una «unità concettuale», ossia una «unità dottrinale». Manca un minimo comun denominatore stabile e preciso. Dunque, non ci sono solamente tensioni dialettiche fra differenti concetti, ma ci sono vere e proprie opposizioni e contrasti teoreticamente insanabili, ossia
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non mediabili in funzione di una visione sintetica comprensiva e strutturalmente unitaria. Una volta che si escluda una prospettiva unitaria mediatrice delle opposizioni, se si vuol salvare la cospicua statura del filosofo, non rimane se non il tentativo di operare una scansione e una collocazione delle differenti e opposte tesi in tempi diversi, e quindi cercare di individuare differenti fasi di una evoluzione spirituale del loro autore. La parabola dell'evoluzione storico-genetica diventa, in questo modo, un canone ermeneutico risolutivo dei vari problemi, una chiave di volta per intendere l'opera di Aristotele in generale e la Metafisica in particolare. Ma il paradigma intepretativo storico-genetico di J aeger si è via via rivelato privo di qualsiasi solida base ermeneutica, e di conseguenza insostenibile. Infatti, certi contrasti e opposizioni di alcune tesi che si trovano nella Metafisica e nelle grandi opere dello Stagirita non risultano mediabili solo se si legge l'opera nell'ottica della Wirkungsgeschichte (come in larga misura fa Jaeger), e se non si ricuperano con esattezza le valenze che quei concetti avevano nel preciso momento della loro nascita e nella loro puntuale tensione dialettica con le dottrine accademiche. Inoltre, una collocazione cronologica e una datazione di alcuni libri o di alcune parti della Metafisica e delle grandi opere aristoteliche sarebbero credibili solo nel caso che venissero convalidate da precisi dati storici. Ma questi dati mancano pressoché del tutto. E un «dato di fatto» non può venire «dedotto» da esegesi e da interpretazioni di contenuti dottrinali. · Nella sua stessa edizione critica della Metafisica, pubblicata a Oxford nel 1957, Jaeger è caduto in arbitrarietà, obiettivamente e storicamente ben difficilmente ammissibili: egli ha introdotto nel testo stesso parentesi quadre con doppia linea verticale, per indicare quei passi
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che, a suo avviso, sarebbero stati inseriti nella presunta stesura finale e nelle sistemazioni del materiale operate da Aristotele medesimo. Ma è ben evidente che, se questo non viene comprovato sulla base della lettura dei codici, ossia sulla base di dati di fatto incontrovertibili, l'editore del testo fa delle mere congetture, che può senz'altro indicare, ma non già nel testo, bensì solo nell'apparato critico, appunto come «congetture». Le tappe dell'evoluzione di Aristotele, secondo Jaeger, sarebbero state tre: (1) dapprima lo Stagirita sarebbe stato un Platonico, con forti interessi teologici; (2) successivamente, sarebbero prevalsi in lui interessi ontologici (interesse per l'essere in quanto essere, per l'entelechia immanente, per la struttura della sostanza sensibile); (3) infine, sarebbero prevalsi interessi empirici per le raccolte e le sistemazioni dei dati di fatto, e la concreta comprensione dei fenomeni empirici. A ben vedere, questa parabola evolutiva rispecchia esattamente la legge dell'evoluzione attraverso i tre stadi di cui, come è noto, parlava Comte in Cours de Philosophie Positive, secondo cui l'evoluzione dello spirito umano, in tutte le branche del sapere, procede attraverso tre tappe: la prima di carattere teologico, la seconda di carattere metafisico e la terza di carattere positivo. Pertanto, le tre tappe dell'evoluzione delle scienze e la loro esclusione reciproca (non mediabili) stabilite da Comte sono l'esatto corrispettivo di quelle che Jaeger vorrebbe individuare nell'evoluzione del pensiero di Aristotele. Certo, non ci sono dati biografici di Jaeger che dimostrino suoi interessi per Comte; ma le tangenze di contenuti e di struttura delle due tesi comprovano ad abundantiam la dipendenza dell'una dall'altra. Una tesi come questa di Jaeger (che ha fatto davvero epoca come poche altre, in quanto ha creato un vero e proprio paradigma ermeneutico alternativo a quello
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dominante - che puntava su un Aristotele sistematico se non addirittura sistematicistico -, e per giunta con tutti gli effetti che ha prodotto, e con le conseguenti discussioni e polemiche), avrebbe richiesto interventi da parte del suo autore a più riprese e in vari modi, in risposta a richieste di vario tipo. Invece, Jaeger su Aristotele non scrisse più nulla, e lavorò solo per l'edizione critica della Metafisica. Fece eccezione per una polemica con Paul Gohlke, nel 1928, per denunciare alcuni suoi errori filologici, che avrebbero potuto screditare il nuovo tipo di esegesi. In realtà, Gohlke ha proceduto imperterrito per la sua strada, e ha tracciato un «riorientameto gestaltico» del paradigma jaegeriano con acutezza ermeneutica, in rapporto alla quale gli errori filologici che J aeger gli contestava non erano niente affatto decisivi. In effetti, quella interpretazione di Aristotele di radice positivistica non rientrava in maniera adeguata in quel disegno che J aeger stava tracciando con il programma del nuovo umanesimo e con l'accentuarsi dei propri interessi religiosi e teologici. Jaeger aveva iniziato a maturare il paradigma ermeneutico storico-genetico per l'interpretazione di Aristotele nel 1916, quando era professore all'Università di Kiel. Egli stesso ci dice che da allora data sostanzialmente anche la forma di esposizione del suo libro, e precisa: «eccettuato il capitolo conclusivo» (Aristotele, ed. ital., p. VIII). In effetti, in questo capitolo Jaeger cerca di correggere, almeno in parte, il tiro della sua tesi di fondo. Dice espressamente che «Aristotele non è mai stato un positivista, neppure nei tempi in cui prevalse in lui l'interesse per la ricerca empirica» (ibidem, p. 514). La peculiarità dell'ultimo Aristotele sarebbe da vedere nella «energia analitica», nella «mentalità analitica», nel «metodo analitico» (op. cit., pp. 503 sgg.). Ma questo, malgrado l'affermazione che abbiamo sopra letto, secondo cui Aristotele non è mai stato un positivista, richiama proprio l'aspetto tipico del metodo positivista. Comte stesso afferma che
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nell'indagine scientifica si tratta «seulement d'analyser (!) avec exactitude les circonstances de leur production, etc» (Cours de Philosophie Positive, Paris 1854, vol. I, p. 17). In ogni caso, ancora Jaeger ribadisce in questo ultimo capitolo - da lui scritto verso la fine del 1922, se non addirittura agli inizi del 1923 - quanto segue: «Tutto ciò che è venuto a contatto con lo spirito di Platone possiede una certa rotondità plastica, ma niente contrasta più del['idea alla tendenza analitica del pensiero aristotelico, il quale sta al pensiero platonico come lo studio anatomico della figura umana sta alla sua presentazione artistica. A chi si ponga dal punto di vista estetico e religioso può darsi che questo faccia spavento: ma ciò non toglie che esso costituisca un dato tipico della mentalità aristotelica» (op. cit., p. 507 sg.). A me pare che a Jaeger sia successo, a livello personale, il contrario di quello che, secondo lui, si sarebbe verificato nel processo evolutivo di Aristotele, e che secondo Comte rappresenta il processo evolutivo non solo delle scienze, ma di ciascun uomo scienziato. Scrive Comte: «[...] chacun de nous, en contemplant sa propre histoire, ne se souvient-il pas q'il a été successivement, quant a ses notions les plus importantes, théologien dans son enfance, métaphysicien dans sa jeunesse, et physicien, dans sa virilité?» (op. cit., I, p. 11). Jaeger già nel 1921 pubblicava l'edizione critica del Contra Eunomium di Gregorio di Nissa, e via via si interessava sempre più di problemi teologici, come vedremo. Basta ricordare, poi, il grande lavoro da lui svolto nella direzione dell'edizione critica delle opere di questo Padre della Chiesa e le sue opere dedicate alla problematica teologica, di cui diremo. Egli non ha ripudiato la sua interpretazione di Aristotele, ma l'ha, in qualche modo, rimossa, e non ha più voluto discutere su di essa. Personalmente mi ero impegnato nella trattazione e nella confutazione delle tesi connesse con il paradigma
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storico-genetico nell'interpretazione di Aristotele non solo di Jaeger, ma anche di coloro che usavano lo stesso metodo storico-genetico per giungere a conclusioni differenti e addirittura opposte, già nella seconda metà degli anni cinquanta dello scorso secolo. Nel 1961 pubblicavo Il concetto di "filosofia prima" e l'unità della Metafisica di Aristotele, procedendo controcorrente e con forti avversioni, in quanto fino negli anni settanta il paradigma storico-genetico fu predominante. Il lettore interessato potrà vedere la sesta edizione di questa mia opera pubblicata nel 1994, contenente anche i vari saggi precedenti in appendice, con le varie motivazioni e documentazioni che presentavo contro il paradigma storico-genetico, che poi si sono imposte. La tesi jaegeriana su Aristotele, dopo uno straordinario successo durata quasi mezzo secolo, è giudicata, oggi, obsoleta e del tutto superata: con il metodo storico-genetico, infatti, si è dimostrato tutto e il contrario di tutto, e di conseguenza i suoi risultati si sono letteralmente azzerati. Essa è certamente frutto di un errore ermeneutico; ma si tratta, comunque, di un errore presentato e sviluppato da Jaeger con straordinaria finezza, e per certi aspetti in maniera geniale. Tuttavia, proprio da tale errore ermeneutico io personalmente ho tratto molti vantaggi per la comprensione dei testi aristotelici, e posso ben dire, con Bacone: citius emergit veritas ex errore quam ex confusione. Restano, in ogni caso, alcuni incontestabili guadagni collaterali emersi da tale tesi: le opere pervenuteci di Aristotele non sono «opere» nel senso moderno del termine, ma insiemi di appunti e di materiale di lavoro per le lezioni che lo Stagirita teneva nel Peripato, messi insieme in parte da lui, in parte dai discepoli e in larga misura da Andronico di Rodi, e come tali vanno letti e interpretati. (In tal senso, l'opera jaegeriana del 1912 rimane oggi più valida che non quella del 1923). Inoltre, Jaeger ha portato in primo piano l'interesse e lo studio
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dei frammenti e delle testimonianze pervenuteci delle opere pubblicate da Aristotele. Egli riteneva che tali opere fossero giovanili, in quanto risentono in buona misura dell'influsso di Platone; ma anche questa tesi dal punto di vista cronologico non pare più sostenibile, come risulta dalla imponente nuova edizione dei frammenti delle opere perdute curata da Olof Gigon (Berlino 1987), da cui si evince che Aristotele non solo non ha mai sconfessato quelle opere, e da nessun documento risulta provato che si trattasse solamente di opere giovanili. Tuttavia, va detto che solo dopo Jaeger i resti di tali opere sono stati considerati di grande importanza e a fondo studiati. Infine va rilevato che nel progetto del «terzo umanesimo» Jaeger non ha dato ad Aristotele un significativo ruolo; anche nella grande Paideia il pensiero dello Stagirita non viene trattato: predomina Platone in senso pressoché assoluto.
I contributi di Jaeger allo studio della medicina greca Seguendo, con grande coerenza, il programma ermeneutico che aveva tracciato fin dall'inizio - ossia di studiare il pensiero dei Greci e le idee-chiave che lo sorreggono nei loro nessi strutturali con le varie discipline con i loro influssi e con i loro conseguenti riflussi - J aeger si è occupato a fondo anche della medicina greca. Il primo capitolo del volume III di Paideia (dr. infra, pp. 1339-1412), che ha come titolo La medicina greca come paideia, attesta i vertici da lui raggiunti in questo ambito. La sua tesi basilare, ben fondata e dimostrata, è la seguente: la medicina greca «valicò per la prima volta i limiti di una mera tecnica artigiana e si fece forza culturale, elemento di guida intellettuale nella vita del popolo greco. Da allora la medicina divenne sempre più, anche se non senza opposizioni, parte costruttiva della cultura generale (eyKUKÀtoç nmòeia), posizione, questa, che
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essa non ha più riconquistato nella cultura moderna»
(infra, p. 1340). In particolare,' egli dice: «Sempre e dovunque ci sono stati medici; ma l'arte sanitaria dei Greci è diventata arte metodicamente consapevole soltanto per l'efficacia esercitata su di lei dalla filosofia ionica della natura» (infra, p. 1342). Jaeger ha collaborato al Corpus Medicorum Graecorum, per quanto concerne la critica testuale, per ben dodici anni, dal 1925 al 1936, ossia fino all'anno in cui ha dovuto abbandonare la Germania (si vedano le indicazioni nella bibliografia nel titolo finale dei singoli anni dal 1925 al 1936). Già nel 1913 aveva iniziato a occuparsi di questa problematica con lo studio Il pneuma nel Liceo. Si veda inoltre l'articolo AITAPXAI, in «Hermes», 1929. Nel 1938 ha pubblicato due cospicui lavori concernenti Diocle di Caristo, studiando i rapporti fra la medicina e la scuola di Aristotele, e presentando i frammenti dello stesso Diocle (cfr. le indicazioni nella bibliografia, anno 1938). Su temi connessi con la medicina è ritornato anche negli anni 1940, 1946 e 1959. I concetti-chiave messi in evidenza da Jaeger, che indicano in modo perfetto i rapporti fra medicina greca e filosofia sono espressi nel modo seguente: «Compito del medico è di restaurare la nascosta proporzione, quando sia stata turbata dalla malattia. Nello stato di buona salute è la natura stessa che la ristabilisce o, se si vuole, è essa stessa la giusta proporzione. Il concetto così importante è quello di "mescolanza", che in realtà significa una specie di giusto equilibrio delle forze dell'organismo, strettamente connesso con quello di "proporzione" e di "simmetria". La natura opera nel senso di questa "sensata norma"» (infra, pp. 1375 sg.). E ancora: «Non occorre una gran conoscenza dei dialoghi platonici per vedere che il procedimento caratterizzato qui da Platone come proprio della medicina, non è altro che quello suo proprio, specialmente dei dialoghi tardL In realtà si rimane stupiti leggendo la letteratura medica, a vedere fino a qual
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punto il procedimento metodico di "Socrate" come Platone lo descrive, si trova in essa come prefigurato. [...] La medicina empirica, per intima necessità di cose, cominciò a "vedere insieme", per dirla con Platone, in tipi o forme (eì'.ò11), casi singoli di carattere uguale verificati attraverso una lunga serie di osservazioni. Questa parola cì'.011 è usata nella letteratura medica ogni volta che si tratta di un numero di tali tipi da distinguere l'uno dall'altro; ma quando si vuole semplicemente rilevare il senso dell'unità nella molteplicità, sia introduce il concetto di "una idea" (µi.o: i0€o:), cioè di un unico aspetto o "vista". Identica conclusione è stata messa in luce dagli studi sull'uso delle espressioni dooc; e iOÉo: in Platone, condotti indipendentemente dalla letteratura medica. Questi concetti metodici, dunque, svolti primamente dai medici riguardo al corpo e alle sue funzioni, li troviamo poi trasferiti da Platone nel campo dei suoi problemi, nel campo dell'etica, e di lì ancora a tutta la sua ontologia».
Origini e sviluppi della problematica religiosa e teologica in Jaeger e la sua interpretazione della mediazione fra messaggio evangelico e paideia greca nei Padri della Chiesa Gli interessi di Jaeger per la problematica religiosa e teologica sorsero molto presto, ma si svilupparono a poco a poco e raggiunsero piena maturazione soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Già nel 1921 usciva l'eccellente edizione critica del Contra Eunomium di Gregorio di Nissa (1960 2 ), opera con la quale si apriva l'imponente edizione critica di questo Padre della Chiesa, che Jaeger diresse fino all'anno della sua morte. Era stato lo stesso Wilamowitz a suggerirgli l'impresa e a sollecitarlo a compierla. L'edizione, che è pubblicata dall'editore Brill (Leiden), è stata progettata in dieci volumi, più un supplemento di indici in due
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volumi. Non pochi volttmi sono usciti mente Jaeger era ancora in vita. Dopo brevi articoli del 1930 e del 1938, Jaeger pubblicò l'impegnativo saggio Humanism and Theology nel 1943 (saggio tradotto in francese nel 1956, in polacco nel 1957, in italiano nel 1958 e in tedesco nel 1960), in cui presentava alcuni punti cardinali del suo pensiero in materia. A partire dal 1947 egli continuò a tornare su questa materia quasi ogni anno. Proprio nel 1947 Jaeger pubblicò un libro veramente rivoluzionario dal titolo La teologia nei primi pensatori greci, dapprima in inglese (subito riedito l'anno successivo), tradotto in spagnolo (1952), edito quindi in tedesco (1953), tradotto anche in italiano (1961) e in francese· (1966). Come ho già ricordato, egli aveva assistito alla nascita dell'opera magistrale di Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, seguendo le lezioni dello stesso Diels sul primo volume, entrando così nel vivo del pensiero dei Presocratici, con la lettura di tutti i testi e di tutte le testimonianze pervenuteci su di essi. In questo libro Jaeger capovolge l'interpretazione diffusa, secondo cui si leggevano i Presocratici nell'ottica della «scienza della natura», e quindi in senso «fisicistico». Esaminando a fondo le cosmologie di questi pensatori, egli mostra come i loro fondamenti siano di carattere «teologico», e fa vedere come essi abbiano in qualche modo influito, mediatamente, sulla teologia filosofica di Platone e di Aristotele, nonché sui pensatori dell'età ellenistica. Nel 1954 esce la cospicua opera su Gregorio di Nissa e su Macario dal titolo Two Rediscovered Works of Ancient Christian Literature: Gregory of Nissa and Macarius. Nel 1961 esce la sua opera conclusiva Cristianesimo pimitivo e paideia greca, dapprima in inglese e poi in tedesco (1963); nel 1966 venne pubblicata anche la traduzione italiana. Quest'opera contiene, in un certo senso, il completamento di Paideia, e ne costituisce quasi un suo
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corollario. Già nel 1933, nella Prefazione al primo volume di Paideia, J aeger scriveva: «Mi riserbo di decidere in quale forma inserire Roma e l'antichità cristiana nel processo culturale derivante dai Greci». La tesi di fondo che egli sostiene è la seguente. Già Origene era convinto che, se il Cristianesimo è la più grande forza educativa della storia, resta comunque vero che esso è in accordo con Platone e con la filosofia. «In questo modo - scrive Jaeger, op. cit., p. 87 - Platone e la filosofia divennero per Origene gli alleati più potenti del cristianesimo nella battaglia che allora combatteva». Jaeger, inoltre, precisa quanto segue: «La grande differenza appunto fra il cristianesimo e ogni filosofia umana, è che quello considerava la venuta del Logos nell'uomo non come il risultato di uno sforzo umano ma come un processo che parte dall'iniziativa divina. Ma Platone, nell'ultima sua grande opera, le Leggi, non aveva insegnato che il Logos è l'aureo vincolo per il quale il Legislatore e Maestro e l'opera sua sono uniti al Nous divino? E non aveva forse collocato l'uomo in un universo che con il suo ordine perfetto e nella sua perfetta armonia era un modello eterno per la vita dell'uomo? Il cosmos del Timeo platonico rendeva possibile l'educazione dell'uomo, perché, per essere realizzata, essa richiedeva un mondo ordinato e non il caos. Nelle Leggi troviamo una enunciazione che riferisce a Dio, come alla prima fonte, tutto quello che in quest'opera è detto sulla paideia: Dio è il pedagogo dell'universo, ò 0i::òc;- nmòaycoyd -còv Koaµov [«Dio è il pedagogo dell'universo», X 897]. Il sofista Protagora aveva affermato una volta che l'uomo è la misura di tutte le cose, stabilendo così la relatività di ogni educazione. Platone rovescia questa sentenza famosa di Protagora e la corregge in questo senso: Dio è la misura di tutte le cose [Leggi, IV 716 C]. Per Origene Cristo è l'educatore che traduce in realtà queste idee sublimi» (ibid., pp. 87 sg.). Oltre a Origene, hanno lavorato in questo senso i
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Padri della Cappadocia: Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. «Gregorio di Nissa - scrive Jaeger, op, cit., p. 104 - rivendica la libertà di servirsi della cultura greca, citando espressamente l'esempio di Basilio». Questi autori, oltre che grandi teologi, sono stati filosofi, e hanno fatta propria questa scienza come elemento essenziale della civiltà e della cultura. Leggiamo una pagina che contiene quei concetti-chiave che completano il messaggio di Paideia: «Questo non poteva avvenire se non si fosse profondamente meditato sui rapporti fra cristianesimo e eredità greca. Origene e Clemente si erano mossi per questa via di alte riflessioni, ma ora occorreva molto di più. Origene aveva certamente dato alla religione cristiana la sua teologia nello spirito della tradizione filosofica greca, ma quello cui miravano nel loro pensiero i Padri della Cappadocia era una civiltà cristiana totale. A questa impresa essi recavano l'apporto di una vasta cultura, che è evidente in ogni parte dei loro scritti. Nonostante i loro convincimenti religiosi che si opponevano a una rinascita della religione greca, che in quel tempo veniva sollecitata da forze potenti nello Stato, non tengono celato il loro alto apprezzamento dell'eredità culturale dell'antica Grecia. Troviamo così una netta linea di demarcazione fra religione greca e cultura greca. E danno vita in una nuova forma e a un diverso livello a quella connessione, positiva senza dubbio e produttiva, fra cristianesimo ed ellenismo, che già abbiamo trovato in Origene. Non è esagerato parlare in questo caso di una specie di neoclassicismo cristiano, che è più di un fatto puramente formale. Per opera sua il cristianesimo si erge ora come l'erede di tutto quanto nella tradizione greca sembrava degno di sopravvivere, Non solo perciò rafforza se stesso e la sua posizione nel mondo civile, ma salva e dà nuova vita a un patrimonio culturale che in gran parte, soprattutto nelle scuole retoriche di quel tempo, era divenuto una forma vacua e artefatta di una tradizione classica ormai irrigidita. Molto si è già detto
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sui vari rinascimenti che la cultura classica, sia greca che romana, ha avuto nel corso della storia, in Oriente e in Occidente. Ma poca attenzione si è prestata al fatto che nel quarto secolo, l'età dei grandi Padri della Chiesa, abbiamo un vero e proprio rinascimento che ha dato alla letteratura greco-romana alcune fra le più grandi personalità; le quali hanno esercitato un'influenza duratura sulla storia e la cultura dell'età tarda sino ai nostri giorni. E caratterizza bene la diversità dello spirito greco dal romano il fatto che l'Occidente latino ha il suo Agostino, mentre l'Oriente greco è attraverso i Padri Cappadoci che ha prodotto una nuova cultura» (op. cit., pp. 97-99; corsivi nostri).
Conclusioni sulla "Paideia" e sul pensiero di Jaeger Il progetto culturale del «terzo umanesimo» di Jaeger è stato talvolta interpretato in chiave «politica» e «ideologica» nel senso in cui questi termini si intendono oggi. Si sono chiamati in causa i suoi rapporti con Johannes Popitz, che con lui fu fondatore della Gesellschaft fiir antike Kultur e ne è stato il presidente (Popitz fu un membro importante del Reich e fu ministro delle finanze anche dopo la salita al potere di Hitler, dal 1933 al 1934). Inoltre, si è fatto richiamo anche ad alcune affermazioni dello stesso Jaeger, come per esempio questa: «Ogni cultura superiore, anche al sommo grado della spiritualità, reca ancora evidenti segni dell'origine sua, per quanto il contenuto si trasformi. La cultura non è se non la fisionomia, progressivamente spiritualizzata, dell'aristocrazia di una nazione» (infra, p. 29). Ma, in verità, il «terzo umanesimo» di Jaeger non ha nulla a che vedere con !'«ideologia». Esso si colloca molto al di sopra dell'ideologia, almeno nel senso in cui oggi viene intesa in modo radicalmente riduttivistico, in ottica di genesi marxistica. Per Marx e per molti che si sono
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a lui ispirati le idee che via via vengono proposte sono o quelle della classe predominante o quelle di coloro che si preparano a diventare classe dominante; si tratta quindi di idee che sono finalizzate al mantenimento o alla conquista del potere, ma che vengono proditoriamente presentate come «universali». Le idee che Jaeger proponeva con il suo «terzo umanesimo» non rientrano affatto in tale ottica. Se si estraggono certe affermazioni dai suoi testi o anche certi eventi dal loro contesto, si privano delle loro radici e si snaturano, e di conseguenza si interpretano in funzione di un sistema di riferimento concettuale e verbale che sono loro estranei. Jaeger precisa che la cultura e la paideia della Grecia divennero per lui la vera fonte spirituale e il campo per il suo impegno scientifico, in quanto e nella misura in cui vennero da lui sentite e rivissute come Ursprung des Geistes, «ciò da cui ha origine la vita spirituale», e proprio «come l'àévaoi; oùcria», egli dice con parole di Platone (Leggi XII 966 E 2) ; ossia ha inteso il pensiero dei Greci come «realtà che dura sempre», come «realtà perenne» (cfr. S.M., p. Xl), e dunque come qualcosa che rimane eternamente valido, e che, proprio in quanto tale, ha influito stabilmente nel corso della storia, e che come «paradigma» deve continuare a esercitare i suoi benefici influssi. In questa ottica J aeger ha avuto rapporti con uomini politici, intendendo però la politica nell'originario senso greco. Leggendo molte pagine della Paideia di J aeger sui poeti e sui filosofi, ci viene in mente quanto Tatarkiewicz scrive in riferimento ai grandi scultori ellenici e a Sofocle: «Essi rappresentavano la realtà viva cercando però in essa le forme tipiche, comuni; erano altrettanto lontani dal naturalismo che dall'astrazione. Si potrebbe ripetere degli artisti dell'età di Pericle ciò che Sofocle soleva dire di se stesso, e cioè che essi rappresentavano gli uomini quali dovrebbero essere. Gli artisti idealizza-
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vano la realtà, e questo fatto può aver suscitato in loro la convinzione che tali opere sarebbero durate nel tempo. A chi gli chiedeva perché dipingesse così lentamente, Zeusi rispose: "Perché dipingo l'eterno"» (Storia dell'estetica, ed. ital., Einaudi, voi. I, p. 100). E questa «eternità» cui i Greci si ispiravano corrisponde perfettametne a quella «origine dello spirito» (Ursprung des Geistes) che Jaeger vede nel pensiero ellenico, e che con l'espressione di Platone egli chiama àévaoç où XXI, pp. 13-17. Scripta Minora I, pp. 339-345. Àristotle's Politics ( traduz. di J. L. Stoks ), « The Hibbert J our· nal » XXV, pp. 335-346. The Present Position of Classical Studies in Germany, te Procee· dings of the Classical Association » XXIV, pp. 43-48. Humanismus und Staat in England, « Deutsebe Allgemeine Zeitung i>, 3 novembre 1927. Jahresbericht ilber das Corpus Medicorum Graecorum, «Sitzungsher. Akad. Berl. », 1927, p. XIX. 1928
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BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI W. JAEGER
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La mÙJ esposizione si rivolge non solo ai dotti, ma tutti coloro che, nello sforzo del~ età presente per c-0nservare la nostra civiltà più volte millenaria, cercano oggi riaccostarsi alla grecità. Fu spesso difficile equilibrare il bisogno d'un panorama storico complessivo e la necessità ineluttabile d'una revisione approfondita del molteplice wgopiento, media.nte accurate indagini speciali in tutti i campi trattati nel libro. Lo studio delr antichità classica secorul,o il criterio direttivo di questo faceva sorgere ad ogni passo rma moltitudine di nuovi problemi, che per dieci anni furono oggetto principale del mio insegnamento e delle mie ricerche. Nelrinteresse del di$egno generale ho rinunciato a riprodurne tutte le risultanze in forma di volumi di studi SIJ€CUùi, che avrebbero gonfiato a dismisura l'opera. La dimostraZÌ,non più tardi d'un anno e mezzo dalla sua pubblicazione, sembrami indizio incoraggiante del favore che il libro ha incontrato. Dato il breve tempo trascorso dal suo primo apparire, non mi è staro possibile apportare all'opera rirocchi cospi.cui; con f occasione furono tuttavi.a rettificate alcune sviste. Del rimanenze, è naturale, data find.ole di questo libro, che le considerazi.oni cui esso ha dato luogo consistano in gran parte nella molteplice reazione che ciaSCUI& qraulro storico generale suscita a contatto con le diverse concezioni fil0$0ficke. A ciò ai è aggiunta una ~ scwsione circa il fine e i metodi della conoscen.za storica., 6Ulla quale non giova qui diffondermi. Dimostrare teoreticamente consistenza e peculi.arità (ieUa mia concezione è c6mpìto a sé; più m.i preme lasciare ch'essa si affermi cimentmulosi con la materi-a stessa che ad essa mi ha condotto. È superfluo dire che f aspetto della stari.a illustrato dal presente libro non può né vuole surrogare la stari.a nel senso tradizionale, cioè· stari.a degli avvenimenti. Non meno leèito e necessario è t11ttavia. un genere di considerazione che colga fe&istenza storica delfuomo dal lato delfimpronta rappresentativa che ne ricevono le creaZioni dello spirito. A JNUte il fatto che, per vari secoli - oome per la Grecità arcaica - la documentaoone di cui disponi.amo a.ppa.rtiene quasi esclusivamente
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a questo ripo, ésse, anche in età -per le quali si accom,,. grumo I.oro testimonianze d'altro genere, rimangono pw sempre quelle .che ci consentono di penetrare più direttamente nella vita interiore del passato. E di questa si tratta. in una esposizione che ha per oggetto la paideia dei Greci e, ad un tempo, i Greci in quanto paideia.
Berlino, luglio 1935. WERNER JAEGER
INTRODUZIONE IL POSTO DEI GRECI NELLA STORIA DELL'EDUCAZIONE DELL'UMANITÀ Tutti i popoli che attingono un certo grado di sviluppo hanno naturalmente l'impulso a educare. L'educazione è il principio di cui ai vale la comunità umana per conservare e propagare il proprio tipo fisico e morale. Nella vicenda universale gl'individui passano, laddove il tipo si mantiene identico a se stesso. L'animale e l'uomo, in quanto creatura :fisfoa, conser· vano il proprio tipo mediante la spontanea procreazione naturale. Ma quanto alla figura sociale e spirituale, invece, essa non può esser propagata e conservata dall'uomo se non mercé quelle forze della sua natura, con le quali Pha creata, cioè con la volontà e la ragione C0118apevoli. ·Grazie a queste la sua evoluzione ha un certo campo di azione che manca alle altre specie d'esseri viventi, prescindendo qui dall'ipotesi di mutamenti preistorici delle specie ed attenendoci soltanto al mondo quale ci è datQ dall'esperienza. La stessa natura :fisica dell'uomo e le sue qualità possono essere modificate e recate a più alta efficienza da una cernita cosciente. Ma lo spirito dell'uomo ha in sé possibilità di sviluppo infinitamente più ricche. Acquistando progressiva coscienza di sé, egli edifica sulla conoscenza del mondo interno ed esterno la miglior forma d'esistenza umana. La natura dell'uomo quale essere
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corporeo e spirituale dà luogo a speciali oondizioni per la conservazione e la trasmi.ssione del tipo umano e promuove speciali istituti materiali e morali, la cui essenza noi designamo con la parola: educazione. Nell'educazione, quale è praticata dall'uomo, opera quella medesima volontà di vita, plastica e generatrice, della natura, la quale spontaneamente tende a propagare e conservare ogni specie vivente nella sua forma; ma in questo gradino è portata alla massima intensità mediante il finalismo della conoscenza e della vòlontà umana consapevoli. Ne derivano taluni corollari generali. L'educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. Il carattere di questa si · imprime nei singoli suoi membri, e nell' uomo, ~éi)ov 'JCOÀL-rLx.6v, è sorgente d'ogni azione e comportamento in una misura che non ha riscontro nell'animale. Non v'è altro caso, in cui l'influenza determinante della comunità sui suoi membri si faccia valere maggiormente, che nel suo sforzo di plasmare consapevolmente secondo la propria idea, mediante l'educazione, i nuovi individui continuamente sorgenti dal suo seno. L'edificio d'ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte o non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano es&a medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d'una comunità umana, sia quella della famiglia, sia della professione o del ceto, sia delle associazioni più vaste, come la tribù e lo Stato. L'educazione partecipa al proce8so di crescenza e di vita della comunità con le mutazioni di questa, e così alle sue vicende esteriori come al suo sviluppo interno e alla sua evoluzione spirituale. A questa è soggetta anche la coscienza generale dei valori che interessano la vita umana; la 8t0ria dell'edueazi.cine è quindi essenzialmente determinata dalle trasformazioni della concezione dei va· lori in una comunità. La stabilità delle norme vigenti si·
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gnifica anche saldezza dei principii educativi d'un popolo; l'abbattimento e la dissoluzione delle norme genera incertezza e oscillazioni nell'educazione, sino a renderla impossibile affatto. Questa situazione si ha non appena la tradizione sia abbattuta violentemente o si corrompa internamente. D'altra parte la stabilità non è per se stessa sintomo sicuro di salute; essa domina anche in uno stato di irrigidimento senile, nel periodo tardivo delle civiltà, per esempio nella Cina confuciana prerivoluzionaria, sulla fine dell'antichità classica, nel tardo ebraismo, in talune epoche delle Chiese, dell'arte e delle scuole scientifiche. Immane è l'impressione di stabilità qua-si extratemporale che dà la storia millenaria dell'antico Egitto. Ma anche per i Romani la saldezza delle vigenti condizioni politiche e sociali era pregio supremo, a petto del quale tutti gl'ideali e le aspirazioni particolari di cambiamento non avevano che legittimità limit~ta. Un posto speciale spetta alla grecità. I Greci, considerati dal presente, rappresentano rispetto ai grandi popoli storiei dell'Oriente un « progresso » radicale, un nuovo « grado » in tutto ciò che concerne la vita dell'uomo nella comunità. Questa.è impostata, presso i Greci, su fondamenti affatto nuovi.· Per quanto altamente si apprezzi l'importanza artistica, religiosa e politica dei popoli anteriori, la storia di ciò che possiamo chiamare cultura, nel nostro senso consapevole, non comincia che coi Greci. L'indagine moderna, nel secolo scorso, ha allargato immensamente il nostro orizzonte storico; I'oikumene dei Greci e dei Romani « classici », che da duemila anni coincideva coi confini del mondo, è stata da noi superata nello spazio da ogni lato, e mondi spirituali sino allora inesplorati si sono dischiusi alla nostra vista. Ma con tanto maggior chiarezza riconosciamo oggi che, con questo ampliamento del nostro orizzonte, permane immu·
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tato il fatto che la nostra storia - nel senso d'una comunione profonda - «incomincia» tuttora con l'affacciarsi dei Greci, in quanto essa oltrepassa i limiti del proprio _popolo e ci dobbiamo riconoscer membri d'una più ampia cerchia di popoli. Ebbi perciò già a chiamare tale cerchia I'ellenocentrica 1 ). Cominciamento significa qui non solo inizio temporale, ma &p:x,1), origine spirituale, cui si risale da ogni nuovo gradino, per trarne orientamento. Questa la ragione del nostro incontro spirituale con la grecità, sempre rinnovato nel corso ·della nostra storia; e va notato sin d'ora che il senso di questo rifarci di là e di questa spontanea ripetizione non consiste nel conferire ad una grandezza spirituale eterna, che penetra nell'età nostra, un'autorità indipendente dal destino nostro e quindi rigida e immutabile. Ne è sempre ragione il nostro proprio bisogno vitale, qualunque possa essere il livello dal quale se ne giudichi. È ovvio come per noi, e per ogni popolo di tale cerchia, esistano anche rispetto all'Ellade e a Roma estraneità originarie, che stanno in parte nel sangue e nel sentimènto, in parte nella mentalità e nella creatività, in parte nella varietà delle situazioni storiche. Ma tra questa sorta di diversità e quella elle sentiamo di fronte ai popoli dell'Oriente, a noi spiccatamente estranei per razza e spirito, esiste un immenso divario, e commettono senza dubbio uno spostamento antistorico di prospèttiva taluni scrittori recenti, separando il mondo dell'antichità classica da quello delle nazioni occidentali con un'alta muraglia, al pari della Cina, dell'India o dell'Egitto. Ma non si tratta soltanto di un senso di vicinanza dato dalla parentela etnica, per quanto importante sia appunto 1) Cfr. il mio saggio introduttivo nella collezione Altertum und Gegenwart (2a ed. Lipsia 1920) II (ristampato in Humanistische Reden und Vortràge, Berlino 1937).
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questo fattore per l'i:D.tima comprensione di un altro popolo. Dicendo ehe la nostra storia non eomincia propriamente che eon l'Ella-de, dobbiamo aver presente il senso speciale nel quale usiamo in questo easo il concetto di «storia». Storia chiamiamo anche l'indagine relativa a mondi estranei. meravigliosi e misteriosi, quale fu svolta già da Erodoto. Con sguardo fatto acuto nel cogliere la morfologia della vita umana in tutte le sue forme, ci accostiamo oggigiorno anche ai popoli più remoti. cercando di penetrarne lo spirito peculiare. Ma dalla storia intesa in codesto senso, quasi diremmo antropologico, -differisce una considerazione storica la quale abbia per presupposto un'affinità spirituale fissata dal destino, ancor viva e operante in noi, sia essa un'affinità del proprio popolo o sia d'una cerchia di popoli strettamente legati tra loro. Solo in questa sorta di storia è data una comprensione che procede dal di dentro, un contatto veramente creativo tra il Sé e l'Altro. Solo in essa è una comunanza di forme e di ideali sociali e spirituali sviluppati, qualunque siano le mille rifrazioni e modificazioni in cui, sul terreno delle varie razze e genti di quella data famiglia di popoli. essi .variano, s'inerf?oiano e si respingono, si estinguono e si rinnovano. In una comunanza siffatta con I'antichità classica, trovasi così l'Occidente nel suo complesso come ciascuno dei suoi principali popoli civili per suo conto e in una particolare guisa. Se intendiamo la storia in questo senso più profondo, d'intimo legame, essa non può abbracciare quale scena l'intero pianeta, e nessun allargamento nel nostro orizzonte geografìoo potrà mai spostare i confini della storia « nostra » più in là verso il passato, di dove da millenni li ha posti il nostro destino storico. Se in futuro avrà mai a sorgere un'unità dell'umanità tutta, in un senso analogo, è cosa che sfugge per ora da ogni previsione e non ha importanza per la questione della quale ci occupiamo.
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Non si può definire con poche parole quanto di sovvertitore, d'inauguratore di un'èra nuova, determina il posto dei Greci nella storia dell'educazione dell'umanità. È compito di tutto il presente libro esporre la formazione dell'uomo greco, la paUlcia, nella sua peculiarità e nel suo sviluppo storico inconfondibili. Easa non è un mero complesso d'idee astratte, ma è la storia stessa della Gr17 eia nella concreta realtà delle vicende vissute. Ma questa storia vissuta sarebbe obliata da gran tempo, se i Greci non ne avessero tratta una forma eterna. Essi la crearono quale espressione di una suprema volòntà, con la quale affrontavano il destino. Di questa volontà, nella fase pri· ma del loro sviluppo, mancava loro ancora ogni concetto. Ma, quanto più chiaroveggenti procedevano nel loro cammino, tanto più netto s'im.primeva nella loro coscienza la mèta onnipresente cui mhordinavano se stessi e la propria vita: la formazione di un'umanità superiore. L'idea dell'educazione appariva loro rappresentativa del significato d' ognf sforzo umano. Essa divenne pe:t loro giustificazione suprema dell'esist.enza della comunità e dell'in· dividualità umana. Così intesero se stessi i Greci all'apice del loro sviluppo. Non v'è alcuna fondata ragione di ritenere che noi, grazie a non so quale superiore int.elligenza psicologica, storica o sociale, possiamo intenderli meglio. Anche gl'imponenti monumenti della loro prima età non riescono pienamente comprensibili se non sotto questa luce. Sono germinati dallo stesso spirito. E nella forma della pai.cleia, della «cultura>, i Greci trasmisero infine in eredità agli altri popoli dell'antichità l'insieme della propria creazione spirituale. Fu l'idea greca della cultura, cui Augusto riallacciò la missione dell'Impero Romano. Senza l'idea greca della cultura non vi sarebbe una antichità classica quale unità storica, né un « mondo civile > occidentale. Certo, nel logoro uso verbale odierno, noi siamo so-
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liti applicare il concetto di cultura per lo pm non in questo senso, di ideale appartenente alla sola umanità postgreca, ma l'applichiamo, con significato reso assai banale, generalizzando, a tutti i popoli della terra, com· presi i primitivi; intendiamo cioè per cultura nient'altro che l'insieme delle manifestazioni e forme di vita caratte· ristiche d'un popolo 2 ). La parola cultura è quindi deca· duta a concetto antropologico meramente descrittivo; non rappresenta più un altissimo concetto di valore, un ideale consapevole. In questo significato vago e sbiadito, di mera analogia, è allora lecito parlare di una cultura cinese, indiana, babilonese, ebraica o egiziana, sehhene in nessuna di tali lingue si trovi un vocabolo corrispondente e la consapevolezza del relativo concetto. Nessun popolo d'elevata organizzazione manca, è vero, di un apparato educa· tivo, ma la Legge e i Profeti degl'Israeliti, il sistema con· fuciano dei Cinesi, il Dharma degl'Indù, nell'essenza loro e in tutta la loro struttura spirituale sono tutt'altra cosa dall'ideale greco della cultura umana. In ultima analisi la consuetudine di parlare d'una pluralità di culture preelleniche è sorta dal malvezzo di livellamento positivistico, che subordina ogni cosa estranea ai tradizionali concetti europei, senza accorgersi che la falsificazione storica comincia, in fondo, sin dall'inquadramento di un mondo straniero entro il nostro sistema di concetti, non rispon· dente alla natura di quello. Qui ha la sua· radice il circolo vizioso quasi inevitabile d'ogni· comprensione storica. Eliminarlo totalmente è impossibile, ché dovremmo perciò cominciare con l'uscir quasi di noi stessi. Ma, nelle questioni fondamentali della ripartizione storica del mondo,
2 ) Per la discussione su questo punto vedi il mio saggio PT.atos Stellung im Aufbau der griechischen Bildung (Berlino 1928) e specialmente la prima parte, generale: Kulturidee und Griechen•. tum, p. 7 ss. in « Die An1jili:e» IV 1 (ristampato in Humanistische Reden und Vortrage, 1937),
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si dovrebbe ad ogni modo poter acquistar chiara coscienza del divario capitale tra il mondo preellenico e quello che coi Greci incomincia, nel quale per la prima volta si costituisce un ideale di cultura quale consapevole principio formativo. Invero, non v'è forse ancora gran che di guadagnato, a dimostrare che i Greci furono i creatori dell'idea della cultura; questa paternità, anzi, in un'età spesso stanca di cultura, potrebbe apparire un peso. Ma ciò che noi chiamiamo oggi cultura non è che un prodotto d'avvizzimento, un'ultima metamorfosi dell'originale; per dirla alla greca, non tanto la paideia quanto l'anarchioo ed esteriore «apparato della vita», xcx-rcxcrxeu~ -rou ~lou, che si va estendendo a dismisura e che appare ben più bisognevole di ricever lume dalla sua vera forma originaria, per riaccertarci del suo vero significato, di quanto non sia esso in grado di conferir valore a quella. La riflessione sul fenomeno primario presuppone alla sua volta una mentalità affine alla greca, analoga a quella che rivive - crederei senza diretta tradizione storica - nella considerazione goethiana della natura. Appunto in mo· menti storici in cui, nell'irrigidimento di µn' età tardiva, l'uomo vivo si riscuote sotto il suo guscio, in cui l'ottuso meccanismo esteriorizzato della cultura diventa il ne· mico dell'elemento eroico che è nell'uomo, alJora, per tDla profonda neceSBità storica, insieme con la brama di rifarsi alle sorgenti della propria stirpe, deve destarsi il bisogno prepotente di penetrare sino agli strati profondi dell'esistenza storica, dove lo spirito affine del p0w polo greco si plasmò dalla vita ineandescente la forma che conserva sino ad oggi quel fuoco ed eterna l'istante creativo del suo prorompere. La Grecità non rappresenta per noi _solo lo specchio storico della civiltà del mondo moderno ed un simbolo della sua autocoscienza razionale. Il segreto, il miracolo del nascimento avvolge la prima
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creazione di attrattive sempre nuove, e quanto maggiore è il pericolo che anche il patrimonio più prezioso si fac~ eia scipito nell'uso quotidiano, tanto più intenso è, per lo spirito conscio del valore riposto di tali forze, il richiamo alle creazioni nelle quali esse si affacciano dal profondo dell'animo umano con la freschezza mattutina della giovinezza etnica e del genio creatore. L'importanza storica dei Greci quali educatori, dicevamo, deriva dalla nuova e consapevole concezione della posizione dell'individuo nella comunità. Se consideriamo i Greci sullo sfondo storioo dell'antico Oriente, la diffe. renza è così imponente, che i Greci sembrano fondersi in un'unità col mondo europeo dell'età moderna, che sin troppo facilmente interpretiamo nel senao della libertà dell'individualismo moderno. In realtà non v'è contrasto più crudo che tra la coscienza individuale dell' uomo odierno e lo stile di vita dell'Oriente preelleni()o, quale ci si presenta nella cupa maestà delle piramidi o delle· tombe regali e degli edifici monumentali d'Oriente. Di fronte a tale inaudita esaltazione di singoli uomini-dèi oltre ogni misura naturale, dove si esprime un sentimento metafisico a noi estraneo, ma anche di. fronte all' annichilimento della moltitudine, senza il quale è impensabile quell'esaltazione del dominatore e della sua importanza religiosa, l'inizio della storia greca si presenta come l'alba di una nuova valutazione dell'uomo, che per noi facilmente si fonde senz'altro oon l'idea, diffusa specialmente dal Cristianesimo, dell'infinito valore delle singole anime umane e con l'autonomia spirituale dell'individuo, rivendicata dal Rinascimento in poi. E invero come giustificare, senza · alquanto del senso greco della dignità dell'uomo, il diritto dell'individuo all'alta importanza che gli conferisce l'età moderna? Ora, storicamente è certo incontrovertibile che i Greci, al culmine del loro sviluppo filosofi.ce>, avevano già
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preso in considerazione anche il problema dell'individuo; la storia della personalità europea deve indubbiamente muovere da essi. Vi si aggiunsero influenze romane e cri· stiane, e da questa mescolanza sorse il fenomenò dell'Io individualizzato. Da questo punto di partenza moderno non possiamo tuttavia afferrare con nettezza ideale la posizione dello spirito greco nella ~oria della formazione dell'uomo. La via migliore è, invero, di muovere dalle disposizioni etniche dello spirito greco. La vivacità spontanea, la mobilità e l'intima libertà dell'uomo greco, che semhrano essere il presupposto del rapido espandersi di questa nazione in un mondo di forme inesauribilmente ricco di contrasti, e che suscita sempre nuova ammirazione ad ogni contatto con gli scrittori greci, a cominciare dai più antichi, non sorge affatto da una soggettività cosciente alla moderna, ma è natura, e là d-0ve questa perviene, quale Io, alla consapevolezza, ciò avviene passando spiritualmente per la scoperta di norme e leggi oggettive, la cui conoscenza nuova conferisce all'uomo rinnovata sicurezza di pensiero e d'azione. Come la risoluzione e liberazione del corpo umano nella sua rappresentazione per parte degli artisti greci, inesplicabile ,movendo dall'Oriente, non si basa sull'imitazione esteriore di atteg· giamenti individuali dell'oggetto, còlti a caso, ma deriva dalla chiara comprensione delle leggi generali della strut· tura, dell'equilibrio e del movimento del corpo umano; così quella sovrana libertà di comunicativa spirituale dei Greci, ehe diresti padroneggiata senza sforzo, proviene dalla sagace consapevolezza, preclusa ai popoli dell'età anteriore, d'una regolarità insita nelle cose. I Greci hanno un senso innato di ciò che corrisponde alla « Natura>. Il concetto di Natura, che essi per primi coniarono, è s~nza dubbio sgorgato dalla loro particolare disposizione di spirito. Molto prima che la loro mente producesse quest'idea, essi vedevano già le cose con tali
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occhi, cui nessun elemento del mondo si presentava mai isolato nella sua particolarità, ma sempre e soltanto in~ quadrato nel nesso vivo di un tutto, dal quale riceveva la sua posizione e il suo significato. Noi chiamiamo questo modo di vedere « organico », perché concepisce il singolo quale membro di un tutto. Il bisogno dello spirito greco di una comprensione cosciente delle leggi della realtà, che si nvela in ogni campo della vita, nel pensiero, nella parola e nell'azione come in ogni specie di cre della fil080ifia greca è intimamente connessa con la :6.gorazione artistica e con la poesia greca. Essa contiene non solo l'elemento razionale, cui noi pensiamo anzitutto a questo proposito, ma, come dice l'origine filologica della parola,· un elemento visivo, che coglie sempre l'oggetto come un tutto, nella sua «idea», cioè quale figura contemplata. Anche avendo coscienza dei pericoli d'una siffatta generalizzazione ed interpretazione di ciò ch'è anteriore mediante ciò che è ulteriore, non possiamo disconoscere che l'idea platonica, costruzione intellettuale
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di carattere tutto proprio, specilficatam.ente greca, ci offre la chiarve della mentalità greca anche negli altri campi. È stato in ispecie enunciato spesso, sin dall'antichità, il nesso tra l'idea platonica e la tendenza formale prevalente nell'arte greca 3 ), ma l'osservazione vale in m.isura non ininore per le arti della parola e per la natura della mentalità greca in genere. Già la concezione del cosmo dei primi filosofi. della natura è una visione siffatta, in contrapposto alla scienza naturale calcolatrice e sperimentatrice dell'età nOt>tra. Non è mera addizione di oaservazioni singole e astrazione metodica, bensì qualche cosa che va più oltre, una spiegazione dei particolari in base a una immagine che assegna loro il loro poato e il loro senso quali parti d'un tutto. La matematica e la muaiea dei Greci differiscono da quelle dei popoli anteriori, per quanto abbiamo qualche nozione di queste, per il medesimo improntarsi all'idea. Anche il posto singolare occupato dalla G.recità nella storia dell'umana educazione si fonda sulle medesime peculiarità della sua organizzazione interna, sulla sete di forma, che tutto domina, con la quale i Greci non affron· tano 'soltanto i rompiti artistici, ma del pari le cose della vita, e sul senso filosofico, che afferra l'universale, delle leggi profonde della natura umana e delle norme, che ne derivano, del governo dell'animo individuale e della struttura della comunità. Invero l'universale, il Logos, secondo il profondo intendimento che ha Eraclito dell'essenza dello spirito, è appunto l'elemento comune, come la legge nella polis. La chiara coscienza dei principii naturali della vita umana e delle leggi immanenti secondo le quali operano le forze fisiche e psichiche dell'uomo dovev~ acquistare la maBSima importanza nel momento 3) Il testo fondamentale è: Cicerone De oratore, 7-10, che deriva da una fonte ellenistica.
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in cui i Greci si trovarono di fronte al problema dell'educazione'). Mettere tutte codeste oonoscenze, quali forze formatrici, al servizio dell'educazione, e plasmare uomini reali così come il vasaio dà forma alla creta e lo scultore alla pietra, ecco un'ardita idea creatrice, che non poteva maturare se non nella mente di quel popolo d'artisti e di pensatori. L'opera d'arte suprem11, di cui si trovò assegnata la realizzazione, fu per esso l'uomo vivente. Ai Greci per primi balenò l'idea che anche leducazione dev'essere un processo costruttivo consa11evole. «Fatto mani e piedi e mente diritto e senza difetto» - così un poeta greco dell'epoca di Maratona e di Salamina descrive l'essenza della vera virtù virile, che è ardua conquista. A que· sta sola specie di educazione è propriamente applicabile il nome di cultura (formativa), che infatti ineontriamo per la prima volta in Platone quale espressione figurata per indicare l'azione educativa 5). In tedesco la parola Bil.dung rende oon grande evi· denza il senso greco, cioè platonico dell'esseri.za dell'educazione: essa comprende in sé il rapporto tanto all'elemento plastico, del modellamento artistico, quanto alla figura normativa («idea» o «tipo») interiormente presente al modellatore. Dovunque quest'idea si riaffaccia dipoi nella storia, è un'eredità dei Greci e si presenta sempre là dove lo spirito U.inano, dall'addestramento rivolto a determinati scopi esteriori, ritorna all'essenza vera dell'educazione. Ma il fatto che ai Greci questo oompito apparisse tanto grande e arduo, e che essi vi si consacrassero con un intimo slancio senza pari, sta da sé e non si spiega né con la loro attitudine arti.etica, né con la foro mente speculativa. Sin dalle prime tracce che abbiamo di loro, troviamo l'uomo al centro del loro pensiero. Gli ') Cfr. il mio saggio Antike und Humanismus (Lipsia 1925) 13 (ristampato in Humanistiche Reden und Vortriige, 1937). ') Ilì..&:nuv, Platone, Resp. 377b, Legg. 671c e altrove.
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dèi antropomorfi; il predominio a.ssoluto del problema della :figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell'uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesaurihile, da Omero in poi, per tutti i secoli seguenti, è l'uomo in tutta I'estenSione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell'uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi d'un medesimo lume. Sono le .ma~ nifestazioni di un sentimento antropocentrico della vita, che non trova ulteriore derivazione o spiegazione e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza. Siamo ora in grado d'enunciare più precisamente che cosa costituisca l'originalità dei Greci rispetto all'Oriente. La loro scoperta dell'uomo non ·è la scoperta dell'Io soggettivo, ma l'acquistar coscienza delle leggi universali della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l'individualismo, bensì I'« umanismo », se è lecito usare volutamente la parola in questo suo classico significato originario. Umanismo viene da kunianitas. Questa parola, oltre al significato più antico e volgare di disposizione umanitaria, che qui non ·c'interessa, dal tempo di V arrone e di Cicerone al più tardi ne ebbe anche un altro, più alto e severo: indica l'educazione dell'uomo alla &118 vera forma, alla vera umanità 6 ). È questa la vera paidei,a greca, quale un uomo politico romano la considerava per modello. Essa non muove dal singolo, bensì dall'idea. Al disopra dell'uomo-i7egge, come al disopra dell'uomo preteso io autonomo, sta l'uomo quale idea, e tale lo consi· derarono sempre i Greci, come educ:atori o poeti, artisti e indagatori. Ma l'uomo-idea significa l'uomo quale imma· •) Cfr. Gell. Noct. Att. XIII 17.
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gine universale ed esemplare della specie. L'imprimere al singolo la forma della comunità, in cui ravvisammo l' essenza dell'educazione, procede preSBO i Greci, con consapevolezza sempre crescente, da siffatta immagine dell'uomo e, con sforzo indefesso, mette capo infine ad un'impostazione e ad un approfondimento filosofico del problema dell'educazione, così sistematici e sicuri come non furono realizzati da alcun altro po·polo. L'ideale umano dei Greci cui doveva informarsi l'individuo non è un vuoto schema, non sta fuori dello spazio e del tempo. È la forma viva sorta dall'almo suolo della nazione, soggetta quindi continuamente all'evoluzione storica. Essa accolse tutte le vicende della collettività e tutti i gradi del suo sviluppo spirituale. Ciò fu disconosciuto dal classicismo ed umanismo antistorico di epoche passate, col con'cepire la « umanità » la « cultura >, lo «spirito» dei Greci o dell'antichità classica quale espressione di un'umanità assoluta, fuori del tempo. Senza dubbio il popolo greco, per l'appunto, ha tramandato alla poaterità numerose nozioni imperiture in forma imperitura. Ma sarebbe fatale fraintendimento di quanto abbiamo detto della volontà formativa dei Greci, rivolta al normativo, se pe:r tale norma si volesse intendere qualche cosa di rigido, di definitivo. La geometria euclidèa e la logica aristotelica sono certamente fondamenti permanenti della mente umana sino a tutt'oggi e non ne possiamo far di meno; ma anche questa forma generalissima, che aetrae da ogni contenuto di vita storica, che la scienza ,greca si è data, appare tuttavia greca affatto al nostro sguardo storico, e lascia posto, accanto a sé, per altre forme di pensiero e d'intuizione matematica e logica. Ciò varrà tanto più per quelle creazioni dei Greci che recano anoor più forte l'impronta del loro ambiente storico e sono direttamente subordinate a una determinata situa• zione temporale.
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La tarda grecità degl'inizi dell'Impero proclamò per prima classiche in .quel senso extratemporale le opere della grande epoca della sua nazione, sia quali modelli d'imitazione artiBti~·formale, sia quali modelli etici. I Greci, dallo sbocco della loro storia nell'Impero Ro• mano, si trovavano allora eliminati quale nazione autonoma, e il colto della propria tradizione era diventato per loro l'unico, contenuto snperiore dell'esistenza. Di· vennero così creatori primi della teologia classicistica dello spirito, come si potrebbe definire l'umanismo di quello stampo. La loro vita contempl.ativa estetica è il prototipo della vita degli umanisti e dei dotti quali si avrà poi in t~pi moderni. Entrambe hanno per presup· posto un concetto astratto, non-storico, dello spirito, quale una sfera di eterna verità e bellezza elevantesi ben al disopra delle sorti dei popoli e delle loro alterazioni. Anche il neo-umanismo tedesco del periodo goethiano considerò i Greci quale rivelazione assoluta della vera natura dell'uomo in una deterininata, irripetibile epoca della storia, dimostrando così maggiore affinità originaria col razionalismo illuministico che non col pensiero stt;irico che allora si veniva destando e che doveva riceverne sì forte impulso. Un secolo di studi storici, sviluppatisi in contrapposi· zione al classicismo, ci separa da quella concezione. Se oggi, di fronte al pericolo opposto; di uno storicismo senza limiti e senza mèta, che genera un livellamento incolore, ci ripieghiamo sui valori permanenti dell'antichità classica, non può tuttavia trattarsi per noi di riin· nalzarli quale idolo extratemporale. Il loro contenuto esemplare e la loro virtù formativa, che esperimentiamo su noi medesimi, non possono esserne rivelate se non quali forze operanti nella vita storica, e come tali infatti agirono e sorsero a tempo loro. Una storia della lettera· tura greca isolata dalla comunità sociale, d:.lla quale le
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sue opere sorsero, cui si rivolgevano e su cui poggiavano, non è più p088ihile per noi. Appunto nelle profonde ra· dici dello spirito greco in questo terreno della oomunità sta la sua forza superiore. Gl'ideali, portati nei suoi prodotti alla purezza della forma, sono stati estratti, per parte dello spirito delle personalità creatrici, che lì fog· giarono, da una possente vita superindividuale della collettività. L'uomo la cui immagine si rivela nelle opere dei grandi Greci è l'uomo politico. L'educazione greca non è una somma d'arti e d'imprese private, avente per fine il perfezionamento dell'individuo, pago di se stesso. Così non prese ad intenderlo che l'età di decadenza della tarda grecità, priva di Stato, dalla quale discende in linea diretta la pedagogia dell'età moderna. È comprensiibile CO· me il filellenismo di un'età ancora apolitica del popolo tedesco, quale fu il nostro classicismo, abbia dapprima proseguito per questa via. Ma lo stesso nostro moto spirituale verso lo Stato ci riaprì gli occhi al fatto che uno spirito estraneo allo Stato non fu meno ignòto agli Elleni del periodo aureo, che uno Stato estraneo allo spirito. Le massime opere della grecità sono monumenti d'una coscienza civica di grandiosità unica, il cui travaglio si eaplica senza lacune attraverso tutti i gradi di sviluppo, dall'eroismo dei poemi d'Omero sino allo Stato autorita· rio di Platone comandato dai savi, dove individuo e CO· munità sociale combattono l'ultima battaglia sul terreno della filosofia. Un futuro umanismo dovrà essere orien· tato essenzialmente sul fatto fondamentale di ogni attività educativa greca, che l'umanità, « l'esser uomo », fu sempre sostanzialmente riconnesso dai Greci alla natura politica caratteriBtica dell'uomo'). Segno dell'intimo le-
7) Cfr. il mio discorso Die griechische Staatsethik im ZeitalteT des Plato; anche il mio corso di lezioni Die geistige GegenwaTI der Antike (Berlino 1929) 38 ss. («Dle Antike» V 185 ss.).
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game della vita intellettuale produttiva con la comunità è il fatto che le personalità cospicue, tra i Greci, si considerano interamente al servizio di questa. Questo fenomeno è noto anche all'Oriente e sembra essere soprattutto naturale là dove la vita è retta da rigorosi vincoli religiosi. Ma i grandi uomini, presso i Greci, non si presentano affatto quali profeti della divinità, bensì quali autonomi maestri del popolo e foggiatoci dei propri ideali. Anche dove parlano nella forma dell'inspirazione religiosa, questa si trasforma sempre in conoscenza e creazione propria. Ma, per quanto personale per forma e volontà, quest'opera dello spirito è sentita clal suo autore, con intensità intatta, nella sua funzione sociale. La triade greca del Poeta (7tot1j-rljç) dell'uomo di Stato (7toÀt-rtx6ç) e del Saggio (crocp6ç) incarna l'elemento direttivo supremo della nazione. In quest' atmoi>fera di libertà interiore, che p_er la sua conoscenza dell'essenza delle cose si sente obbligata verso la . totalità in virtù di leggi supreme, concepite come divine, la creatività dei Greci è salita alla sua grandezza educativa, che la colloca ben al disopra del virtuol!!Ìsmo artistico ed intellettuale della moderna civiltà individualistica. Essa solleva la « letteratura » greca classica, oltre la ·sfera di quanto sia meramente estetico, movendo dalla quale si cerca invano d'intenderla, all' incommensurabile influsso essenziale che esercitò sui millenni. Il più potente influsso sopra il nostro :m:odo di sentire spetta all'arte greca nelle sue età più splendide e nelle sue creazioni somme. Bisognerebbe scrivere addirittura una storia dell'arte greca quale specchio degli ideali che via via dominarono la vita. Anche per l'arte dei Greci vale l'affermazione che essa, sino al IV secolo inoltrato, è in prevalenza espre8sione dello spirito collettivo. Per l'intelligenza dell'ideale virile agonale, vantato dagli epinici di Pindaro, chi farebbe a meno delle
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statue dei vincitori olimpici. che l'arte ci pone v1v1 sott'occhio, o delle sue immagini degli dèi, quale incarnazione delle idee greche circa la dignità e l'elevatezza . della nobiltà del corpo e dell'anima umana? Il tempio dorico è senza dubbio il monumento più grandioso che il carattere dorico, la dorica subordinazione del singolo ad un tutto rigorosamente disposto, abbiano tramandato alla posterità. Vi è insita un'imponente virtù di fare sto· ricamente presente quella vita passata, che vi si eterna, e la religiosità che la riempiva. Pure, vero strumento della paideia secoli.do i Greci non sono le mute arti dello scultore, del pittore e dell'architetto, bensì il poeta e il musico, il filosofo e il rètore, cioè l'uomo politico. Il legislatore, secondo la concezione greca, è sotto 1lll certo rispetto più affine al poeta che non l'artefice delle arti :figurative: è la loro funzione pedagogica che li accomuna. Soltanto quell'artefice che forma l'uomo vivente ha un diritto specifico a questo nome. Per quanto spesso i Greci paragonino l'a,ttività educativa con quella dell'artefice delle arti plastiche, presso un popolo artista quale è il greco, non si fa quasi parola dell'efficacia educativa della contemplazione di 0:pere d'arte nel senso winckelmanniano. La parola e il suono, e - in quanto agiscono mediante la parola o il suono o per mezzo d'entrambi - il ritmo e l'armonia sono per i Greci le forze formatrici dell'animo, senza più, giacché decisivo in ogni paideia è l'elemento attivo, il quale nella formazione dello spirito diviene anche più importante che nell'agon delle capacità fisiche. L'arte, secondo la concezione greca, spetta a un'altra sfera. In tutto il periodo classico essa mantenne il suo posto nel mondo sacramentale del culto, onde ebbe origine. Essa è per sua natura agalma,,. ornamento. Ciò. non vale per l'epos eroico, dal quale s'irradiò in ogni altra poesia la forza educativa. Anche là dove :questa è legata al culto, essa affonda le
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sue radici ben addentro nella sfera sociale e politica, e ciò vale tanto più per le opere prosastiche. La storia della cultura greca coincide cosi, in sostanza, con la cosiddetta letteratura. È, secondo . l'intesero originariamente i suoi creatori, espressione dell'autoformazione dell'uomo greco. A parte ciò, per i secoli ehe vanno sino all'età classica, all'infuori di quanto resta della poesia noi non possediamo tradizioni rilevanti in forma scritta, sicché anche per una storia greca in senso più largo, in quel periodo, la progressiva formazione dell'uomo nella poesia e nel!' arte è l'unico elemento afferrabile. La Storia ha voluto che questo solo restaBBe di tutta l'esistenza dell'uomo. Noi non cogliamo· il processo di f or m a z i o n e dei Greci in quell'epoca se non nella f o r m a ideale dell'uomo, ch'essi foggiarono. Da ciò risulta segnata la via e circoscritto il oompito della presente esposizione. La scelta e la trattazione non richiedono speciale motivazione. Debbono giustificarsi, almeno in complesso, di per se stesse, sebbene taluno potrà desiderarvi una cosa, tal altro un'altra. È un vecchio problema, quello che si pone qui in forma nuova giacché il criterio dell'educazione dell'uomo fu sin da principio connesso con lo studio dell'antichità classica. Essa fu sempre, per i secoli ulteriori, il tesoro inesauribile del sapere e della cultura, dapprima piuttosto nel senso di un'esteriore dipendenza di contenuto, poi come un mondo di modelli ideali. Il sorgere della moderna archeologia storica diede luogo a un atteggiamento radicalmente diverso. Alla riflessione storica nuova importava soprattutto conoscere che eoea avesse avuto esistenza reale e come si fosse svolto. Nella ricerca appaBSionata d'una pura visione del passato, anche l'antichità classica divenne ai suoi occhi semplicemente un tratto di storia, per quanto privilegiato, a proposito del quale malvolentieri si cercava quale ne fosse l'efficacia
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immediata. Questa era considerata faccenda privata, lasciando all'apprezzamento individuale di giudicarne il valore. Che accanto a codesta storiografia oggettivo-encicfopedica dell'antichità, che si andava facendo sempre più diffusa, e che invero presso i suoi cultori precipui era molto meno scienza neutra, di quanto sembrasse ad essi medesimi., esistesse in pratica ancora qualche cosa del genere di una « cultura classica », si poteva far mostra d'ignorare sintantoché questa manteneva ancora incontestato il suo posto. La scienza rimaneva in debito d'una nuova giustificazione del suo ideale, la cui visione storica classicista si riteneva scalzata dall'indagine. Ma nell~ora presente, in cui l'intera nostra cultura, sconvolta da un'immane esperienza storica propria, ha iniziata una revisione dei propri fondamenti., alla scienza dell'antichità si ripresenta, quale problema ultimo e· decisivo per la sua stessa sort~ la questione del contenuto educativo dell'antichità classica. La scienza storica non può risolverla se non sul terreno della conoscenza storica. Il fine è di intendere secondo la stessa sua essenza spirituale l'imperituro fenomeno edrueativo dell'antichità classica e,l'im:pulso, decisivo per tutta la posterità, dato dai Greci alla corrente della storia.
LIBRO PRIMO
L' ETA ARCAICA
CAPITOLO PRIMO.
ARISTOCRAZIA E ARET:É L'educazione quale funzione della comunità è cosa sì generale e naturalmente necessaria, che, ovvia com'~ coloro che ne sono oggetto o che l'esercitano, per lungo tempo ne hanno appena coscienza, ed essa non lascia traccia di sé nella tradizione letteraria se non in età relativamente tarda. Il contenuto ne è press'a poco lo stesso presso tutti i popoli; è insieme morale e utilitario; anche presso i Greci non presenta altri caratteri. Riveste talvolta la forma di comandamenti, quali: one>ra gli dèi, onora il padre e la madre, rispetta lo straniero; tal altro consiste in prescrizioni, tramvoç ùito&ijxa:' (cfr. pp. 356 e 393) al quale allude anche altrove. Eschilo, Suppl. 708-709, prova che il precetto in qualche modo è stato incorporato anche nella legislazione scritta (h &e:aµloir,; Mxa:ç yéypa:n-.a:i), e certamente ci è detto da Eliano, VaT. Hist. VIII 10, che con qualche modificazione esso faceva parte delle leggi di Dracone, che erano chiamate &e:aµol. E ci() pu.; IV 15. Quella su véµe:a ~ç non esiste nella versione dell'Etica che . possediamo e può essere andata perduta alla :fine del 1. IV. l&) I grammatici alessandrini spesso usarono la parola aristeio combinata col nome di un eroe, come titolo di cauti omerici.
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Quindi l'inesauribile diletto della narrazione poetica di tali aristìe. Anche in pace la brama di gare dell'areté virile si procaccia l'occasione d'affermarsi nei ludi, quali l'Iliade descrive persino nelle brevi pause della guerra, nei ludi funebri in onore di Patroclo caduto. Essa conia, quale motto dell'uomo cavalleresco, il verso n), citato da millenni da tutti gli educatori, oc:th &.fM't"E:OeLV xoc:t ùndpox.ov è:µµe:voc:L &n(J)v, che alla smania di livellamento della noviMima sapienza pedagogica doveva essere riserbato di metter fuori corso. In questa frase il poeta riassume in modo breve e appropriato gl'intendimenti educativi dell'aristocrazia. Quando Glauco .si fa incontro a Diomede sul campo, volendo presentarsi quale avversario suo pari, secondo l'uso omerico enumera i propri famosi antenati, indi soggiunge: «E me generò Ippoloco, da lui discendo. Quando egli mi mandò a Troia, più volte mi fece ammonimento di lottare per la palma del sommo valore virile e di superarvi tutti gli altri». Non si potrebbe meglio esprimere come il sen· timento della nobile gara infiammi il giovane eroe. Per l'autore dell'undicesimo libro dell'Iliade questo verso era già un adagio. Egli creò una scena di commiato oonsimile nella partenza d'Achille, dove il padre, Peleo, gli dà per viatico il medesimo mònito 18). Anche del rimanente l'Iliade attesta l'alta coscienza educativa dell'aristocrazia greca arcaica. Essa mostra già come l'antico concetto guerresco dell'areté non bastasse più ai poeti d'una generazione ulteriore, ma come questi recassero in sé un'immagine nuova dell'uomo peifetto, la quale oltre alla nobiltà dell'azione riconosceva quella della mente e nel loro abbinamento ravvisava la mèta.
z
208. A 784, Il precetto è senza dubbio secondario in questo passo ed è ripetuto colle stesse parole da Z 208, la scena dell'incontro di Glauco e Diomede. 17 )
18)
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È significativo che quest'ideale sia proclamato dal vecchio
Fenice, posto quale educatore al fianco d'Achille, l'eroe esemplare dei Greci. Egli rammenta al giovanetto, in un'ora decisiva, il fine cui l'ha educato: «L'una e l'altra cosa, essere oratore di discorsi e operatore d'azioni». Non a torto già i Greci d'età posteriore ravviBarono in questo verso la più antica formulazione dell'ideale greco' della cultura, con la sua aspirazione ad abbracciare l'umano nella sua totalità :is). E se il detto era . citato volentieri in un periodo di super-cultura retorica, per vantare l'energia dell'antica età eroica, facendo della sua immagine un contrapposto della propria esistenza, povera d'azioni e ricca di parole, esso d'altronde attesta anche la fisionomia spirituale dell'antica cultura aristocratica. Il padroneggiam.ento della parola vale qual segno della sovranità della mente. La sentenza di Fenice cade nel momento in cui Achille irato riceve la deputazione dei capi greci. Il poeta gli pone di fronte, in Odisseo, il maestro della parola e in Aiace l'uomo d'azione, di poche parole. Sullo sfondo di tale contrasto deve spiccare con consape~olezza anche maggiore l'ideale della più eletta cultura, cui il terz-0 della delegazione, Feniee, che deve servire da mediatore, ha educato l'alunn~ suo Achille; ideale che il poeta vuol rappresentare in questo sommo tra gli eroi. V e diamo dunque come la tradizionale equivalenza originaria della parola areté col valore guerriero non era ostacolo, per quella nuova età, a trasformare l'immagine dell'uomo eletti;> secondo le sue superiori esigenze spirituali, sino a che, più tardi, anche la parola, evolvendo nel suo significato, seguì la mutata concezione.
19) Questa era l'opinione dell'autore greco, da cui Cicerone derivò la parte del suo De oratore (III, 57) dove è citato il verso (I 443). Tutto il passo è interessante come un primo tentativo di scrivere una storia dell'educazione.
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Intimamente connesso con l'areté è l'cmore, 'che nei primi tempi della vita della comunità è considerato inseparabile dalla valentia e dal merito. Secondo la bella spiegazione d'Aristotele 20 ) l'onore è la natural misura, in un pensiero non ancora interiorizzato, dall'approssimazione dell'uomo alla mèta dell'areté, cui egli tende.« Manifestamente aspirano gli uomini all'onore per accertarsi del proprio valore, della propria areté (di essere &yoc-3-o(). Aspirano quindi ad essere onorati da persone capaci di giudicare, da cui siano conosciuti, e sulla base del proprio valore reale (&pe:-r~ ). Così riconoscono dunque nel merito stesso (&pe:tj) la cosa più alta». Ma se la riflessione filosofica ulteriore rimanda così l'uomo ad una norma di va· lutazione insita nella sua stessa interiorità, insegnandogli a considerare I' onore quale mero riflesso esteriore del suo intimo valore, rispecchiato nell'apprezzamento della comunità, J'uomo omerieo, invece, nella coscienza del proprio valore reca ancora esclusivamente l'impronta della società cui appartiene. È creatura d'una casta e misura la propria areté sulla considerazione di cui gode tra i suoi .pari. L'uomo filosofo può rinunciare al riconoscimento esteriore, anche senz'esservi - sempre secondo Aristotele - del tutto indifferente 21 ). Per Omero e per il mondo aristocratico del tempo suo, il negato onore è invece la massima tragedia umana. Gli eroi sono instancabili nelle reciproche attestazioni d'onore, ché su ciò riposa tutto il loro ordinamento sociale. La loro sete d'onore è addirittura insaziabile, senza che ciò sia una particolarità che caratterizzi moralmente 20) Eth. Nic, I 5, 1095 b 26. lll) Cfr. il passo della lettera di Aristotele ad Antipatro (fr. 666 Rose) che rispecchia la sua reazione all'atteggiamento dei Delfi che, dopo la morte di Alessandro, ritrattarono le onoranze conferite al gran dotto per ·la sua opera sulle liste dei vincitori delle gare del:fiche; è ovvio che l'esecuzione di questa opera era stata possibile per l'aiuto del re Macedone.
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la persona singola. È anche ovvio che l'eroe maggiore o il principe più potente voglia essere maggiormente ono. rato. Il merito riconosciuto dal prossimo non ha mai avuto · ritegno, nell'antichità, di pretendere l'onore dovuto all'azione compiuta. Il criterio subordinato del compenso da esigere non è, qui, deciso. Lode e biasimo degli uomini (faa:woç e ~6yo_i:;) sono le fonti dell'onore e disonore. Ma lode e biasimo, secondo l'etica :filosofica dell'epoca ulteriore, sono considerati come il fatto sociale fondamentale, in cui si manifesta l'esistenza di crite~i di valutazione oggettivi nella vita sociale 22). Il carattere assolutamente pubblico che ha la coscienza presso i Greci - in realtà nel pensiero greco antico manca affatto un concetto paragonabile alla nostra coscienza personale 28 ) - è difficile a concepirsi per· l'uomo moderno. Ma il renàersi conto di questo fatto è condizione prima dell'intendimento, per noi sì arduo, del concetto dell'onore e della sua importanza per gli antichi. L'aspirazione a segnalarsi e la pretesa d'essere onorato e stimato sembrano alla coscienza cristiana una peccaminosa vanità personale. Per i Greci rap· presentano l'immergersi dell'individuo nell'ideale e nel 8Uperindividuale, con che soltanto ha prinçipio il suo valore. L'areté eroica non si compie quindi, in certo qual modo, se non con la morte fisica dell'eroe. È insita nel mortale, è anzi esso medesimo, ma gli sopravvive nella sua fama, cioè nell'immagine ideale della sua areté, anche dopo la morte, così come, già lui vivo, stava autonoma ac-
tt) Arist. Eth. Nic. III 1, 1109 h 30. U) Cfr. F. ZuCKER. Syneidesis-Conscientia (Jena 1928) (cfr. p. 556). Possiamo dire che ciò che prese il posto di una coscienza individuale nei tempi di Omero era questo sentimento di aidos e nemesis di cui si parla a p. 36 (cfr. il libro di Von Erffa su Aidos citato sopra, n. 15). Ma ciò dipendeva solo da un obbiettivo codice sociale sempre presente nella mente dell'individuo, che doveva conformarsi a questo codice ideale.
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canto a lui e lo seguiva 24). Anche gli dèi esigono onore e godono della lode delle proprie azioni per parte della comunità culturale, e vendicano., gelosamente ogni offesa al proprio onore. Gli dèi d'Omero sono, per così dire, una società aristocratica dotata d'immortalità. L'essenza propria del culto divino greco e della pietà greca si esprimono nell'onore tributato alla· divinità: esser pio significa « onorare il Divino > 211 ). L'una e l'altr.a 008a, onorare gli dèi e gli uomini in ragione della loro areté, è fatto umano primordiale. Movendo di qui s'intende il tragico conflitto di Achille nell'Iliade. L'esser egli indignato contro i Greci e il ricusare aiuto ai suoi non sorge da eccessiva bramosia d'onore di quest'individuo. La grandezza della brama· d'onore corrisponde soltanto a quella dell'eroe ed è naturale, secondo il modo di sentire greco. L'offesa fatta per l'appunto a questo eroe nel suo. onore è il colpo più grave contro i fondamenti su cui sorge la comunità guerriera degli eroi achei contro Troia. Gbi l'intacca non riconosce più, alla fine, nelnmeno la vera areté. Il fattore dell'amor 24) Questo è manifesto specialmente nel sistema cli formazione dei nomi propri greci. Spesso essi erano presi dal regno degli ideali sociali e perciò spesso hanno relazione a ~ncetti come gloria., fama, reputazione, ecc. e inoltre erano combinati con qualche altra parola che esprimeva il grado o la ragione di tale fama o reputazione (così Pericle, Temistocle, ecc.). Il nome era una spe_ranza della futura areté di colui che lo portava; fissava., per così dire, il modello ideale di tutta la sua vita. Questo distingue i nomi greci dai nomi ebrei o egiziani, per la natura dei quali cfr. HERMANN RANKE, Grun.dsiitzliches 11. Verstandnis d. iigyptischen Personennamen (« Sitz. d. Heidelberger Akad. » XXVII, 3. Abh. 1937). . Bi) TÒ .&e:!ov = -.ò .-!µ.Lov per eccellenza. ArisL Etl&. Nit:. I 12, e specialmente 1102 a 4. Quando il mondo di lingua e pensiero greco' fu cristiimllzato, questo atteggiamento fondamentale del pensiero religioso greco cominciò a ima volta a esercitare una profonda influenza sul pensiero e sul costume cristiano, come dimostrano la letteratura greco-cristiana ed il culto dei primi secoli. Più. ancora rivelerà lit storia della liturgia, del sermone e dell'inno cristiano.
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patrio, che oggi aiuterebbe a superare questa difficoltà,
è ancora estraneo all'antica aristocrazia 26), Agamennone non può che appellarBi dispoticamente alla propria autorità di capo supremo, motivo non meno estraneo ai" sentimento aristocratico, non riconoscendo esso se non un primus mter -pares. Al senso di patire il rifiuto dell'onore meritato con le proprie azioni si mescola quindi In Achille anche que8to sentimento di caBta. Ma ciò non è decisivo; la vera gravità dell'offesa sta in ciò che è l'areté superiore, oui si nega onore 27). Il secondo grandioso eBempio dell'esito tragico d'un disconoscimento dell'onore è Aiace, il maggiore eroe acheo dopo Achille, cui non sono date le armi d'Achille, sebbene egli avesse meritato di portarle più d'OdiBseo. cui sono attribuite. Questa tragedia 26) Tuttavia una rassegna dello sviluppo storico del concetto greco di patria (n-a:'t"plc;, mi:rpa:) dovrebbe cominciare con Omero. Ma, ed è cosa singolare, non sono i famosi eroi Greci dell' niade che danno il prii:no solenne esempio di questo sentimento politico. Esso è .fondamentale piuttosto nel troiano Ettò:re, amato dal popolo, e difensore della sua città (cfr. le sue famose parole M 243 e:!i; olwvòi; &p LG't"Ol mhp l]i;). La passione del patriottismo non sorse nei grandi imperi antichi o nell'aristocrazia omerica, ma fu una conseguenza del sorgere della cittàstato, .che è rispecchiata per la prii:na volta in alcuni passi dell'epica, come si è precedentemente notato. Questo sentimento era del tutto differente dall'idea del «popolo eletto», che il moderno nazionalismo laico ha ereditato dal nazionalismo religioso degli antichi Israeliti. Questa forma di patriottismo è o una religione o un surrogato di essa. 2 7) A 412; B 239-240; I 110 e 116; Il 59; e soprattutto I 315-322, quando, pregato dai delegati dell'esercito greco di tornare al campo di battaglia e di accettare le proposte di Agamennone per una riconciliazione, Achille recisamente rifiuta l'offerta: «Agamennone non mi persuaderà mai; né alcun aJtro dei Greci, credo, poiché qui . evidentemente, non c'è nessun pubblico riconoscimento per un uomo che combatte implacabilmente il nemico. Colui che si tiene lontano dalla battaglia ha una parte [µoi:pa:] uguale a quella di un uomo che combatte con tutte le sue forze: e l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore». Onore ('t"tµ:fi) qui è l'oggettiva manifestazione sociale di una gratitudine pubblica (x&.pti;) dovuta all'uomo che h.a compiuto grandi imprese per amore dell'intera comunità e per cui non esiste compenso materiale.
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mette capo alla pazzia e al suicidio 28) ; l'ira d'Achille porta l'esercito dei Greci all'orlo della rovina. Ardua questi-0-ne è per Omero se vi sia riparazione del ricusato onore. Fenice consiglia bensì ad Achille di non tender troppo l'arco e di accettare in espiazione i doni di Agamennone, non foss'altro considerando le angustie de' suoi. Ma che lAchille della leggenda originaria non rigetti soltanto per orgoglio la riparazione, lo dimostra d'altra parte l'esempio d'Aiace, che nell'oltretomba non risponde alle parole di compassione dell'antico rivale Odisseo, bensì volgesi in silenzio « alle altre ombre nel buio regno dei morti» 29). Tetide implora Zeus 30) : « Aiutami e on-0-ra mio figlio, cui non fu assegnato che sì breve destino d'eroe. Agamennone l'ha defraudato del suo onore. Così onoralo tu, o Olimpio ». E il sommo Dio condiscende e fa soccombenti in battaglia gli Achei privi dell'ausilio d'Achille, perché riconoscano quanto ingiustamente defraudarono del suo onore il loro massimo eroe. Presso i Greci d'età più recente la brama d'onore non è più motivo di lode, ma risponde per lo più alla nostra ambizione. Tuttavia anche nell'età della democrazia l'accompagna assai spesso l'ammissione di una legittima avidità d'onore tanto nella politica degli Stati quanto nella condotta personale 31 ). Nulla ci aiuta meglio a comp:rendere la n0re e dei Troiani. Il valoroso è sempre l'aristocratico, l'uomo di classe elevata; il combattimento e la vittoria son la sua suprema distID.zione e la vera sostanza della sua vita. Certo, anche il tema fa sì che l'Iliade rappresenti principalmente questo lato dell'esistenza; l'Odi-ssea per se stessa offre di rado l'occasione di. descrivere lotte eroiche. Ma, se qualche 008a possiam-0 affermare circa la preistoria dell'ep06, si è che il cant-0 ero.ico più antieo celebrava battaglie e gesta eroiche, e da canti e tradizioni siffatte è nata, nel suo contenuto, l'Iliade 9). Anche nel soggetto, appunto, si ma9) La frase xÀ1foi: &vòp wv ( = le glorie degli uomini) che è usata in I 189 per « canti» divulgati dagli aedi indica abbastanza chiaramente questa origine di tutti i canti epici. Cfr. G. W. NITZSCB, Sagenpoesie der Griechen (Braunschweig 1852) llO.
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nifesta il 11uo carattere arcaico. Gli eroi dell'Iliade, che ool loro spirito bellicoso e la loro brama d'onore si mostrano genuini rappresentanti della propria classe, sono poi anche del rimanente, nel loro contegno, gran signori, con tutti i loro pregi come con le loro evidenti debolezze. Soltanto m pace è impossibile raffigurarseli : il loro posto è sul campo di battaglia. All'infuori di questo non li vediamo che nelle pause della battaglia, ai pasti, nei sacr:ifizi, nelle deliberazioni. Là scena cambia nell'Odissea. Il motivo del ritorno degli eroi, il nostos che si allacciava tanto naturalmente alle battaglie sotto le mura di Troia, formò il passaggio al1'evidenie rappresentazione e all'accurata pittura della loro esistenza in tempo di pace. Sono leggende, per se stesse, antichissime. Ma al lato umano della vita degli eroi si volgeva di preferenza l'interesse di un'età più recente, il cui animo repugnava dalle sanguinose descrizioni di battaglie e provava il bisogno di rispecchiare maggiormente la vita propria negli eventi e negli uomini dell'antica leggenda. Dove l'Odissea rappresenta l'esi81:enza degli eroi nel dopoguerra, i loro viaggi avventurosi e la loro vita in patria con la casa e la corte, la famiglia e il loro ambiente, essa trae le sue vedute dagli atteggiamenti reali della vita dell'aristocrazia contemporanea, proiettandoli con ingenua vivacità nel passato. Essa è quindi la nostra fonte principale per conoacere le condizioni della cultura aristocratica antica. È quella della Ionia, dove dovette formarsi l'Odissea, ma, per ciò che qui c'interessa, possiamo considerarla tipica. Si sente chiaramente che la sua descrizione di tutto ciò non fa parte del corredo tradizionale dell'antico canto erofoo, ma si ba11a su una diretta osservazione realistica. La materia di queste scene domestiche era a88ai meno preformata dalla tradizione epica, alla quale premevano gli eroi medesimi e le loro gesta, non già la pacata descrizione dell'ambiente. L'affac-
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ciarsi di questo nuovo elemento non veniva soltanto dalla materia diversa, ma, come la · scelta stessa del soggetto, derivava dal gusto di un'età più contemplativa e di paci· fico godimento. Se l'Odissea è in grado di vedere e descrivere come un tutto la cultura d'una classe, come quella dell'aristocrazia nelle sue corti e in villa, ciò costituisce un progresso nel· l'osservare la vita e nel porre i problemi sotto il rispetto. dell'arte. L'epopea si fa romanzo. Nell'Odissea l'imma· gine del mondo, alla periferia, sino alla quale la fantasia avventurosa del poeta e della leggenda riporta continua· mente l'eroe, trapassa volentieri nel regno del favoloso e del prodigioso; all'opposto, la descrizione dell'ambiente patrio molto si avvicina alla realtà. Non mancano, è vero, nemmeno qui tratti favolosi; la descrizione dello sfarzo regale alla corte di Menelao o nel palazzo del ricco prin· cipe dei Feaci, che contrasta con la sobria semplicità paesana neHa sede d'Odisseo, evidentemente trae ancora ali· mento da antichi ricordi del fasto e dell'amore dell'arte di grandi sovrani e di possenti regni dell'epoca micenèa, se pure non hanno influito qui modelli orientali oontem· poranei 10). Ma del resto è appunto il realismo aderente alla vita, che distingue l'immagine della nobiltà dell'Odissea da quella dell'Iliade. La nobiltà dell'Iliade è in gran parte, come abbiamo mostrato, un'immagine fantaatica ideale, creata giovandosi di lineamenti tradizionali del· l'antico canto epico. Essa è interamente atteggiata secondo la prospettiva che aveva determinato la forma di tale tradizione: l'ammirazione della sovrumana areta degli
•O) Per le caratteristiche preomeriche della monarchia assoluta che si ritrovano nei poemi omerici, v. M. P. Nrr.ssoN, Das home· rische Konigtum (« Sitz. Berl. Akad.» 1927) 23 sa. Le reminiscenze della preomerica arte micenea nei poemi omerici sono trattate nella letteratura archeologica: v. anche G. FlNSLEJl, Homer (II ed. Lipsia 1914-18) p. 130 ss.
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eroi del passato. Solo qualche tratto politico-realistico, come la scena di Tersite, tradisce l'epoca relativamente recente sino alla quale si spinge la formazione dell'Iliade nella sua figura odierna, per il tono sprezzante che lo « sfrontato » dal nome espressivo as.sume coi nobili si· gnori 11). Tersite è l'unica caricatura veramente maligna che si trovi in tutto Omero. Tutto attesta peraltro che la nobiltà era ancora salda in sella quando incominciarono questi primi attacchi di un'età nuova. Nell'Odissea man· cano, è vero, siffatti tratti politici moderni; la comunità d'Itaca è retta, in assenza del Re, da un'assemblea popolare diretta dall'aristocrazia, e la città dei Feaci è l'immagine fedele d'una polis ionica sotto la &ignoria d'un re 12). Ma evidentemente la nobiltà è già, per il poeta, un problema sociale e umano, ch'egli vede con un certo dietaooo 111 ). Ciò lo ha me.sso in grado di rappresentare oggettivamente questa classe come un tutto, con quella innegabile calda simpatia per il valore dei sentimenti e d'una cultura veramente aristocratici, evidente non ostante la severa critica dei suoi indegni rappresentanti, che per noi conferisce un pregio così inestimabile alla sua testimonianza. La nobiltà dell'Odissea è una olasse chiusa, fortemente consapevole del proprio privilegio, della propria signoria, della propria maggior finezza di costumi e di vita. Invece delle grandiose passioni, delle figure gigantesche e dei destini tragici dell'Iliade, nel poema più recente troviamo gran numero di figure d'altra natura, di proporzioni più umane. Hanno tutte qualche cosa d'umano, di benevolo; nelle parole e nei casi loro domina ciò che in termine ll) B 211 ss. la) Su Itaca, v. ~; la città dei Feaci, ?:-.&. U) È difficile che i rapsodi siano stati, essi, di nobile stirpe. Invece tra i poeti giambici, lirici ed elegiaci vi fu certamente un certo numero di aristocratici (cfr. WILAJl[OWITZ, op. cit., p. 175).
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d'arte la retorica posteriore chiamerà ethos. Il commercio degli uomini tra loro ha qualche cosa di civilissimo: il contegno assennato e- sicuro di NaU8icaa di fronte all'apparizione scom::ertante d'Odisseo sospinto ignudo dalle onde, implorante aiuto; Telemaco di fronte all'ospite suo Mente, alla corte di Nestore e di Menelao; la casa d'AIcinoo, l'accoglienza ospitale fatta al grande straniero e ~ il commiato, straordinariamente cerimonioso, d'OdiSBeo da Alcinoo e dalla sua consorte; del pari l'incontro d'Eumeo, il vecchio porcaro, col vecchio padrone trasformato in mendicante o il suo contegno rispetto al giovane suo figlio Telemaco. Alla genuina educazione dell'animo che si manifesta in queste scene ne fa peraltro riscontro un'altra, diventata mera correttezza formale, quale sempre sorgerà là dove sia tenuta in gran conto la distinzione della parola e del contegno. Persino il modo di trattarsi fra Telemaco e gli orgo· gliosi e prepotenti Proci, ad onta dell'odio reciproco, sono d'una cortesia impeccabile. Nobili o volgari, i rap· presentanti di questa società serbano in ogni situazione la loro impronta di stile, il loro decorum. La condotta spudorata dei Proci è un'onta per loro e per,la loro classe: sono in molti a dirlo. Nessuno può, senza indignazione, e!ll!erne spettatore, e infine giunge la dura espiazione. Ma predicati quali « i nobili, gl'illustri, i virili » s'incontrano usati per i Proci, ciò non ostante, così di frequente come le parole di biaBimo per la loro insolenza e violenza: per il poeta restano pur sempre i nobili signori. Il loro castigo è duriMimo, perché il loro fallo pesa doppiamente. E se il loro misfatto costituisce lllla macchia sulla gloria della loro classe, la compensa ampiamente la luminosa, genuina elevatezza delle :figiire principali, circondate di tutta la simpatia immaginabile. Il favorevole giudizio oomples· sivo sul conto dell'aristocrazia non muta affatto a motivo dei Proci. Il poeta sta in cuor suo con coloro che raffigura,
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ne ama l'educazione e la cultura superiore: se ne ha la sensazione ad ogni passo. Anzi, mettendola continuamente in evidenza egli ha indubbiamente un intentQ. educativo. Ciò ch'egli ne riferisce ha, agli occhi suoi, valore per se stesso; non è mero ambiente indifferente, bensì è parte essenziale dell'eccellenza dei suoi eroi. Il loro stile di vita gli appare inBeparahile dalla loro condotta; esso conferisce loro una dignità particolare, ch'essi, con le nobili e ammirevoli azioni, col loro contegno impeccabile nella buona e nella cattiva fortuna, dimostrano ben me· ritata. La loro sorte privilegiata è in armonia con l'ordinamento divino del mondo, e gli dèi accordano loro protezione. Il loro merito puramente umano risplende sempre unito alla luce della loro aristocratica distinzione. Condizioni della cultura aristocratica sono la seden· tarietà, la proprietà terriera 14) e la tradizione. Esse ren· dono possibile la trasmissione dello stile di vita dagli anziani ai fanciulli; ma è necessario vi concorra il meto· dico modellare i giovani sulla regola rigorosa degli usi aulici, la « scuola » raffinata. Nell'Odissea non sarebbe immaginabile alcuna educazione e culturra metodica al· l'infuori della classe superiore, non oSJtante il suo senso d'umanità verso i non-nobili, giù giù sino al mendicante, non. ostante la mancanza d'ogni rigoroso e altezzoso distacco del nobile dall'uomo del volgo e non ostante la vicinanza patriarcale tra padrone e servo. L'educazione quale formazione della personalità umana mediante con· 14) Nella prima edizione in ùna nota a questo passo io dissi che sarebbe stato opportuno uno studio particolare dello sviluppo delle relazioni fra proprietà e areté nel mondo omerico. In seguito uno dei miei studenti del Radcliffe College, Cambridge, Mas· sachusetts, la Sig.na CORA MAsON ha affrontato questo problema nella sua dissertazione The Ethics of Wealth (1944). Ella ha stu· diato lo sviluppo delle relazioni fra areté e possessi materiali nell'antica poesia greca attraverso l'epica omerica e la poesia postomerica, Pindaro incluso. Per la letteratura esistente sul problema, vedi la bibliografia citata nella sua monografia.
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tinui ammaestramenti e direzione spirituale è caratteri· stica speciale dell'aristocrazia d'ogni popolo e d'ogni età. Questa classe sola affaccia di fronte alla persona, al suo contegno generale, esigenze che non si possono sodisfare senza una metodica cultura delle qualità fondamentali. Il mero crescere naturalmente nei oostumi e nelle usanze degli antenati non bastava più. La volontà d'affermarsi della nobiltà e la sua posizione preminente implicavano l'esigenza d'imprimere per tempo nei suoi rappresentanti, negli anni della formazione individuale, l'immagine della nobile virilità quale si concepiva in quell'ambiente. Qui per la prima volta l'educazione divenne cultura, cioè for· maziòne dell'intera personalità secondo un tipo fisso. L'im· portanza di quest'ultimo per lo sviluppo della cultura fu sempre preser .te ai Greci 15) ; in ogni cultura aristocratica esso ha una funzione decisiva, sia che pensiamo al xixÀÒ~ x&yix66ç dei Greci, sia alla «cortesia» del medioevo cavalleresco, sia alla fisonomia sociale del Settecento, quale ci sorride con volto conven:tj.onale da tutti i ritratti del· l'epoca. Misura suprema d'ogni pregio della personalità virile rimane anche nell'Odissea l'ideale avito d17l valore guerriero. Ma vi si aggiunge o~ l'estimazione dei meriti intellettuali e sociali, che l'Odissea si compiace di mettere in risalto. L'eroe ste&o è l'uomo non mai a oorto di saggi consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole opportune. Sua gloria è la sua astuzia, il senno inventivo e pra·
16) Più tardi il pensiero greco, sulla natllla dell'educazione dà gran peso al concetto di ,.U,.oç e ·timoi:iv, anche quando è fortemente sentita, come dai Sofisti e da Platone, l'importanza che ha in questo processo il fattore individuale, spontaneo~ È questo un concetto ereditato dall'antico ideale aristocratico di educazione (v. p. 57 ss.). Ovviamente, i lineamenti del tipo ideale posteriore, platonico, differiscono molto da quello dell'antico mondo aristocratico; ma l'immagine con cui il processo educativo è significato plasticamente è ancora la stessa; quella del «modellare».
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tico che, nella lotta per la vita e per il rimpatrio, finisce per trionfar sempre su nemici possenti e su insidiosi pericoli. Questo carattere, non indiscusso nemmeno tra i Greci, specie fra le stirpi della madrepatria, non è creazione unitaria d'un singolo poeta. A formarne l'immagine hanno lavorato i secoli; di qui la sua contradittorietà 16). L'avventuriero errabondo, ricco d'astuzie, è creazione del1'epoca dei navigatori fonici. L'impulso ad eroicizzarne la figura venne dalla sua appartenenza al ciclo delle leggende troiane e soprattutto la sua partecipazione alla distruzione d'Ilio 17). I lineamenti piuttosto aulici, ch'egli spesso assume nell'Odissea., sono oondizionati dal quadro sociale, d'interesse decisivo per il poema che abbiamo sott'occhio. Anche gli altri personaggi sono rappresentati non tanto sotto l'aspetto erofoo, quanto umano; l'elemento intellettuale è messo in vivissimo risalto. Telemaco è detto spesso giudizioso o sagaoo; di Menelao la consorte vanta non fargli difetto alcun pregio, né della mente, né della persona. Di Nausicaa è detto ch'essa non manca. di cogliere l'idea giusta. Penelope è chiamata saggia e sagace.
16) Pindaro non amava il carattere di Ulisse. L'Aiace e il Filottete di Sofocle testimoniano che accanto all'ammirazione convenzionale per il grande eroe esisteva ·anche un'opinione meno favorevole. .Anche I' I ppia minore di Platone esprime per bocca del sofista gli stessi dubbi sul carattere di Ulisse, ma Platone ci fa intendere che Ippia non fa che seguire, su questo punto, una tendenza generale; giacché Socrate ricorda di avere udito lo stesso giudizio da Apemanto (il padre di uno dei meno noti giovani interlocutori del dialogo) cioè da uno della generazione precedente. In ultima analisi questa disposizione verso Ulisse risale all'Iliade che lo mette a contrasto come 1tOÀthpo7toç con lo schietto carattere di Achille. Anzi nell'Odissea (& 75) si ritrova l'antica tradizione intorno a questo contrasto dei due grandi eroi nel canto di Demodoco sulla contesa di Ulisse e Achille. 1 7) Nell'Odissea (& 487-498) Ulisse stesso si compiace, più che di ogni altra cosa. di questa· sua fama e alla corte dei Feaci prega l'aedo di cantare piuttosto di ogni altra, la storia del cavallo di Troia.
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È nece&ario far parola a questo punto dell'importanza
educativa dell'elemento femminile nell'antica culbu-a aristocratica. L' areté propria della donna è la bellezza : cosa altrettanto ovvia quanto l'apprezzamento dell'uomo a seconda de' suoi pregi spirituali e corporali. Anche il culto della bellezza femminile corrisponde al tipo aulico di cultura d'ogni epoca cavalleresca. La donna peraltro non si presenta soltanto quale oggetto della ricerca erotiea maschile, come Elena o Penelo.pe; ma insieme sempre nella sua sal. Lo stesso motivo dell'esempio si ripete al termine del racconto di Nestore 65 ); esso è dunque impiegato alla fine di ambe le parti principali del suo lungo discorso, con molta insistenza e ogni volrta con espres&J riferimento a Telemaco. Questa ripetizione, come è ovvio, è voJuta. Il richiamarsi al modello di eroi famosi e all'esempio della leggenda in genere e in ogni forma è per il poeta parte integrante d'ogni etica ed educazione aristocratica. Av.remo a ritornare sul valore di questo fatto per l'intima conoscenza del canto epico e del come eseo sia radicato nella struttura della società arcaica. Ma anche per i Greci dei secoli ulteriori il paradigma ha sempre conservato la sua importanza quale categoria fondamentale della vita e del pensiero 68). Basti accenna.re anticipatamente all''ll80 ehe 83) cx 32-47. 84.) y 195-200. 65) y 306-.316. •s) E nei miei propositi una ricerca a parte sullo sviluppo storico del paradigma (eumplum) nella letteratura greca.
CAP. II: CULTURA ED EDUCAZIONE DELL'ARISTOCRAZIA OMERICA
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fa Pindaro degli esempi mitici, i quali costituiscono un elemento così cospieuo dei suoi inni trionfali 67). Eirr& rehhe ohi volesse interpretare quest'uso, passato in tutta la poesia e in parte anche nella prosa dei Greci 68 ), quale fenomeno meramente stilistico. Esso è strettamente legato all'esBenza dell'etica aristocratica arcaica ed anehe nella poesia. in origine, era ancora ben vivo nel suo significato educativo. In Pindaro, massimamente, si riaffaccia il genuino senso antico del paradigma mitieo. E se, infine, si considera che tutto il pensiero di Platone è, per la sua più intima struttura, paradigmatico, e ch'egli qualifica la sua Idea «un paradigma. fondato sull'esistente» 6111 ), allora è ben chiara l'origine di questa forma deÌ pensiero. Appare ora come il « modello », di validità universale, dell'Idea filoso.fica del « Buono » 70 ), o per dix meglio dell'&yoc66v, si trova sul prolungamento rettilineo della linea di sviluppo ide~Ie che muove dall'idea dell'esempio dell'antica etica aristocratica dell'areté. Lo svolgimento dalla forma spirituale della cultura aristocratiea omerica alla filosofia di Platone, che passa per Pindaro, è perfettamente organico, razionale e necessario. Non è « evoluzione » nel senso semi-naturalistico del termine, quale suole usarlo l'indagine storica, ma sviluppo sostanziale della forma originaria dello spirito greco, che nella sua struttura fondamentale rimane identico a se stesso attraverso tutte le fasi della propria storia. 67) Cfr. pp. 390-395. 68) Lo svolgimento di quest'uso è stato seguito nell'antica poesia greca da R. ÙEHLER nella sua dissertazione Mythologische E:icempla in der iilteren grieihischen Dichtung (Basilea 1925). Segue gli spunti di NITZSCH in Sagenpoesie der Griechen (1825), ma bada troppo poco al nesso di questa pratica stilistica con l'antico rispetto aristocratico per i modelli etici. 69) PI. Theaet. 17 6e. 70) Per l'idea platonica di Dio come paradigma nell'anima del reggitore filosofo, v. Resp. 472c, 484c, SOOe, 540a e «Paideia » Il. pp. -481-483.
CAPITOLO TERZO.
OMERO EDUCATORE Platone cita, quale opinione diffwra nell'età ima, che Omero fu l'educatore di tutta la Grecia 1 ). Dipoi la sua sfera d'.influenza si estese ben oltre i confini dell'Ellade. Nemmeno l'appassionata critiea filosofica di Platone poté scuoterne la signoria, per quanto abbia reso cosciente il mondo d'una perenne limitazione del valore educativo d'ogni poesia 2 ). La concezione del poeta quale educatore del suo popolo - nel se.neo più ampio e più profondo del termine 8 ) - fu sin da principio ovvia per· i Greci e conservò per loro sempre la sua validità. Omero non è che l'esempio più solenne di tale concezione generale, per così dire il suo caso classico. Giova a noi tenere tale con· cezione nella massima considerazione, né dovremmo pre· giudicarci l'intendimento della poesia greca col porre, in luogo del giudizio dei Greci stessi, il dogma modemo dell'autonomia della considerazione puramente estetica
1 ) Egli parla dei« lodatori d'Omero» (Resp. 606e) che lo leggono non solo per il piacere artistico, ma anche come maestro di vita. Lo stesso pensiero appare in Senofane (fr. 10 Diebl). 2) V. « Paideia » II, pp. 363 ss. e 625 ss. 8) Meglio di tutti gli interpreti moderni della poesia greca. U. v. Wilamowitz-MoellendorfF ha riconosciuto questa posizione dominante, di maestri, dei poeti greci del periodo arcaico e del classico e non si è stancato di rilevare l'importanza del . fatto.
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dell'arte'). Anche se caratteristico di tailune specie ed epoche dell'arte figurativa e della poesia, esso tuttavia non è oggetto d'astrazione per la poesia greca e per i suoi maggiori rappresentanti, e quindi non le è applicabile. È caratteristico del pensiero greco originario come l'elemento estetico non sia ancora separato dall'etico. Questo processo non s'inizia che relativamente tardi. Per Platone ancora, alla limitazione del contenuto di verità dei poemi omerici è direttamente connessa una diminuzione del loro vafore ~). Soltanto con la retorica classica si venne a promuovere assai la considerazione formale, e infine il Cristianeeimo fece della vafotazione puramente estetica 6 )
•) Questo è vero naturalmente, solo per il periodo della grande poesia greca. I poeti ellenistici come Callimaco e Teocrito non pretesero più di essere maestri di tutta la nazione: erano artisti nel senso moderno e vivevano in un loro mondo puramente estetico. La cultura per loro era raflìnatezza letterana. È vero che essi pretendevano la dignità di supremi arbitri della paideia contemporanea. ma per essi questa significava soprattutto gusto letterario e giudizio critico. Così essi si ritirarono definitivamente nel regno in cui li aveva relegati la critica platonica della poesia. 5) La critica platonica della poesia era diretta alla sua mancanza di verità filosofica, da cui sembrava dipend!'re la sua dignità ed il suo valore di paideia. Ma negando questo valore alla poesia, Platone cercò più di chiunque al~o della Grecia classica di delimitare esattamente quello che noi chiamiamo il valore estetico. Egli non contesta l'azione della poesia dentro tali limiti, ma esige che le nostre relazioni con essa si restringano al puro godimento estetico. Non è quindi esatto dire che Platone misura la poesia solo con un criterio morale o filosofico, perché con esso misura non la poesia. ma il tradizionale ufficio della poesia come vera paideia. Sappiamo da tradizione degna di fede che Platone teneva presso di sé fra altri poeti (come Sofrone il mimografo) le opere complete del più moderno di tutti, Antimaco di Colofone, con cui noi ora facciamo cominciare il periodo ellenistico della letteratura greca. Cfr. la testimonianza dello scolaro di Platone, Eraclide Pontico e B. WYss, Antimachi Colophonii Relìquiae (Berlino 1936) LXIV. 6) Cfr. specialmente la discussione del problema se tutti i grandi poeti debbano o meno unire l'utile al duke, presso la scuola epicurea: Philoderrws ii.ber dìe Gedichte fùnftes Buch di CHRISTIAN JENSEN (Berlino 1923) 110 ss. La poesia è la« roccaforte» delle umane passioni per gli Epicurei, d'accordo con Sesto Empirico,
CAP. III: OMERO EDUCATORE
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della poesia l'atteggiamento intellettuale predominante, poiché rese possibile rigettare in gran parte, come fallace ed empio, il contenuto etico e religioso dei poeti dell'antichità, ma accettare la forma classica quale mezzo indispensabile d'educazione e fonte di diletto 7 ). La poesia non ha cessato dipoi di rievocare dal mondo delle ombre alla luce gli dèi e gli eroi della « mitologia » pagana, ma quel mondo è ormai caratterizzato a priori quale gioco irreale della mera fantasia artistica. Ci verrebbe fatto di accostarci ad Omero con una prospettiva analogamente ristretta, ma così facendo ci precluderemmo la via ad intendere il mito. e la poesia nel loro vero senso ellenico. Ci ripugna, certamente, il modo in cui l'ulteriore poetica filosofica dell'ellenismo interpreta il contenuto educativo d'Omero secondo l'arido criterio razionalistico del «fa,.. bula docet » 8 ) o, sul modello deilla sofistica, fa dell'epos un'enciclopedia di tutte e arti e le scienze 9 ). Ma codesto parto della scolastica .altro non è che il travisamento di un'idea per se stessa giusta, la quale, come ogni cosa bella e vera, deve .necessariamente farsi grossolana tra rozze mani. Anche se un utilitarismo siffatto giustamente ripugna al nostro senso dell'arte, rimane tuttavia ovvio che
Adv. Math. I 298 (p. 668 Bekker) « molto nelle parole dei poeti è non solo inutile, ma dannoso in sommo grado». La natura della poesia non può essere giudicata dai · suoi benefici morali o scien· tifici. ?)Cfr. p. es. il famoso trattato di Basilio il Grande per la gioventù cristiana sull'uso della letteratura greca classica. B) Il pensiero degli Stoici e dei Peripatetici sul valore educativo della poesia è generalmente fondato sui poemi omerici. V. il libro di Filodemo, Ile:pt 1tO 17](.LcX't'C»V ricordato a nota 6, in cui ricorda e critica le opinioni dei precedenti trattatisti di poetica. ") I Sofisti consideravano Omero come la fonte di ogni co· noscenza tecnica (-c-é:(va:1). Ps.-Plutarco, De vita et poesi Homeri, rappresenta la stessa opinione che noi conosciamo solo indirettamente dalla polemica di Platone sull'argomento nella Repubblica o nello Ione. Ma in Plutarco questa teoria i svolta compiutamente in ogni particolare. V. « Paideia» Il, p. 629. ·
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Om.erQ, come tutti i grandi peti della grecità, non è mero oggetto della storia letteraria formale, ma va apprezzato quale primo e maBsimo creatore e plasmatore dell'urna· nità greca. E qui si presentano talune osservazioni circa lefficacia educativa della poesia greca in genere, che s'impongono specialmente nel caBo d'Omero. Un'efficacia siffatta è eser· citata dalla poesia soltanto là dove in essa si esprima tutto l'insieme delle energie estetiche ed etiche dell'uomo. Ma la relazione dell'elemento estetico con l'etico non consiste soltanto in ciò, che questo sia accidentalmente dato con un quaJsiasi «soggetto», senz'essere essenziale per l'intento propriamente artistico; il contenuto normativo e la forma artistica dell'opera d'arte stanno inveoe in una re· !azione di reciprocità, anzi hanno comune l'intima radice. Mostreremo come appunto lo stile, la composizione, la forma in ogni senso, sia condizionata e inspirata, nel suo specifi.oo atteggiamento estetico, dai contenuti spirituali che incarna. Certo, di questa veduta non va fatta sùhito una legge estetica generale. V'è un'arte - e vi è stata in ogni epoca - che ignora i problemi centrali dell'umanità e che va intesa meramente secondo il suo ideale for· male, v'è anzi persino un'arte che si ride d'ogni cosid· detto contenuto elevato, o almeno si comporta con indifferenza, quanto al contenuto, verso il proprio oggetto. Facciamo qui aBtrazione da quella voluta frivolezza ar· ti.stica che alla sua volta torna ad -essere «morale» con lo smascherare senza riguardo valori illusori convenzionali, svolgendo quindi una funzione criticamente purificatrice. Educativa in senso proprio non può essere se non una poesia le cui radici si addentrino negli strati profondi del!'essere umano, nella quale viva un ethos, uno slancio superiore dell'animo, un'immagine dell'umano che acoo~ muni e vincoli gli uomini. Ma appunto della poesia elevata
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m: OMERO EDUCATORE
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dei Greci v,a detto che essa non oi dà soltanto un qualsiasi frammento della realtà, heDBÌ sceglie e contempla quella porzione dell'esistenza, eh'easa presenta, in relazione a· un determinato ideale. D'altra parte anche i valori supremi non divengono per gli uomini, per lo più, impressioni di valore per· manente e d'efficaeia suggestiva se non in quanto eternati dall'arte. L'arte ha in sé una illimitata capacità di comunicazione spirituale, di psicagogìa, come dicevano i Greci. Essa sola possiede ad un tempo quella universalità e· quell'evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell'efficacia educativa. Mercé l'accoppiamento di queste due sorta d'efficacia spirituale essa supera tanto la vita reale quanto la rifles-sione filo· sofica. La vita possiede l'evidenza sensibile, ma le sue esperienze mancano d'universalità, sono troppo commiste d'accidentale perché la vivacità delle impressioni ricevute pS6a sempre conseguire il grado estremo di profondità. La filosofia e la riflessione, d'altra parte, si elevano bensì all'universali:tà e penetrano sino all'essenza delle cose, ma hanno efficacia soltanto su chi, mercé I'esperienza propria, può dare alle loro idee l'intensit~ interiore della vita vissuta. La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte le verità di ragione universali, ma anche rispetto alla mera esperienza accidentale del singolo. Essa è più filosofica della vita reale {se è lecito parafrasare un noto detto d'Aristotele), ma è anche più piena di vita che la cono· scenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale. Queste considerazioni non sono affatto valide per la poesia di tutte le età, e nemmeno senza eccezione per quella dei Greci, né d'altra parte sono limitate a questa nella loro validità; ma a neSSQ.Il'altra poesia del mondo convengono come a quella dalla quale sono ricavate. In esse noi non facciamo in sostanza che riprodurre la con·
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cezione svolta di sulla grande poesia del proprio popolo dal sentimento artistico greco, destato all'autoconoscenza filosofica, nell'età di Platone e d'Aristotele. Non ostanti parecchie variazioni d'indole particolare, la concezione greca dell'arte è rimasta in genere invariata sotto questo rispetto anche più tardi, ed essendo essa sorta in un'epoca in cui era ancor vivo il senso della poesia e dell'elemento specificamente ellenico di questa, è storica.mente legittimo· e neceBSario chiederci se valga per Omero. Non v'è alcun'epoca il cui contenuto ideale abbia realizzata la sua forma, e quindi la più alta efficacia formativa sulla posterità, in maniera così Jarga e insieme artisticamente universale come quella che ha per araldo Omero. L'epos è meglio d'ogni altra poesia in grado di rivelare il carattere unico dell'attività educativa dei Greci. Per quanto riguarda la maggior parte delle fonne più tarde della letteratura greca, gli altri popoli non hanno generato da sé formazioni parallele. I modmm popoli civili non ne vengono in possesso che adotta:Ìldo la forma classfoa. Ci pervennero così la tragedia, la commedia, la dissertazione filosofica, il dialogo, il trattato scientifico sistematico, la storiografia critica, la hiogmma, l'oratoria forense, celebrativa e politica, la narrazione di viaggi, le memorie, l'epistolario, la confessione, l'autobiografia e il saggio. Troviamo invece anche presso altri popoli, nella medesima fase di sviluppo, una divisione sociale in aristocrazia e popolo, paragonahille alla primitiva grecità, un ideale virile aristocratico e un'arte indigena del canto eroieo quale espressione di un'imperante concezione eroica della vita. Dal canto eroico è sorto spesso anche ailtrove, come presso i Greci, un epos: così presso gl'Indi, i Germani, i Latini, i Finni e p!resso taluni popoli nomadi del1'Asia Centraile. Siamo quindi in grado di confronta.re la poesia epica di popoli di razza e civiltà diversissime e di riconoscere la peculiarità dell'epica greca.
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Invero è stato spesso O&!el'Vato quanto spiccate siano le analogie di tutte codeste poesie, in quanto si trovino al medesimo grado di sviluppo antropologico. I poemi eroici del periodo arcaico condividono con gli altri po· poli i loro caratteri primitivi. Ma ciò non riguarda che lelemento esteriore, temporale di tale arte, non già la ricchezza della loro 806tanza umana, né il vigore della loro forma artistica. Non v'è popolo la cui epica ahhia espresso in una creazione coaì esauriente e grandiosa come la greca quanto in sé racchiude di fatalità universale e di senso eterno della vita il grado eroico dell'esistenza umana, che nonostante ogni « progreSB-O » borghese è, nel suo nueleo, imperituro. Nemmeno una poesia eroica di tanta altezza umana e tanto vicina a noi per consangui· neità quanto quella dei popoli germanici può, per l'ampiezza e la durata della sua influenza, esser paragonata ad Omero. Il divario tra la .sua pOBizione storica nella vita del suo popolo e la funzione dell'epos medioevale germanico e francese è evidente nel fatto che l'influsso d'Omero non s'interruppe mai, in un millennio intero di cultura greca, laddove i poemi epici aulici medievali caddero presto in dimenticanza dopo il tramonto dell'epoca cavalleresca. La viva autorità d'Omero diede Juogo nel periodo ellenistico, in cui si studiava ogni cosa scientificamente, ad una scienza a sé per indagare la sua tradizione e la forma originale de' suoi poemi, la filologia, la quale trasse .vita esclusivamente dalla vitalità perenne del suo oggetto. L'epica medievale della Canzone di Rolando, del Beowulf, dei Nibelungi, sonnecchiante nei polverosi manoscritti delle biblioteche, dovette all'opposto attendere che la scienza già organizzata la riscoprisse e la rimettesse in luee. La Commedia di Dante è l'unico poema del Medioevo che abbia acquistato un posto perenne nella vita non solo della propria nazione, ma dell'umanità, e ciò per la medesima ragione che nel caso d'Omero. Il poema
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dantesco è invero legato all'età sua, ma la profondità e universalità della sua umanità e della sua concezione del!'esistenza l'elevano ad un livello cui lo spirito inglese non giunse che con Shakespeare, il tedesco con Goethe. Appunto in uno stadio primitivo, l'espressione poetica d'un popolo è naturalmente legata con più stretto vincolo all'elemento nazionale. La comprensione della sua peculiarità per parte d'altri popoli e d'età poateriori è quindi necessariamente limitata. Ciò che è connaturato col paese, senza di che non si dà poesia vera, non si eleva a valore universale se non là dove consegua insieme il più alto grado di umana universalità. Quanto singolare dev'essere l'attitudine dei Greci a cogliere e raffigurare ciò ehe tutti unisce e su tutti ha efficacia, se Omero, che primo sorge all'inizio della loro storia, divenne il maestro dell'umanità intera. Om.ero è il rappresentante della cultura greca arcaica. Già lo abbiamo apprezzato quale «fonte » della nostra conoscenza storica dehla società greca primitiva. Ma l'eternare il mondo cavalleresco nell'ep-OS è qualche cosa di più che un involontario rispecchiare la realtà nell'arte. Quel mondo, con le sue alte esigenze e tradizioni, è la sfera della vita superiore onde la poesia omerica ha tratto il succo e di cui si alimenta. Il pathos dell'alto destino eroico del combattente costituisce l'atmosfera spirituale dell'Iliade, e l'ethos umano della cultura e del costume aristocratici anima l'Odissea, in quanto poema. La società che aveva generato tale forma di vita era condannata a perire; nessuna notizia storica ne fa più testimonianza; ma la sua immagine ideale, nell'incarnazione poetica d'Omero, rimase fondamento vivo d'ogni cultura ellenica. Dice un verso di Holderlin: « Ma ciò che resta, è dono dei poeti >. Esso esprime la legge fondamentale della storia della culfura greca. Pietre del suo edificio sono le opere dei poeti. Di grado in grado la poesia greca si riempie
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progressivamente di consapevole spmto educativo. Qui appunto potrebbe proporsi la questione se l'atteggiamento interamente oggettivo dell'epos sia conciliabile con siffatto proposito. Nella precedente analisi dell'Ambasceria ad Achille e della Telemachia abbiamo già mostrato con esempi concreti come in quei canti si esprima un pro· fondo intento educativo. Ma evidentemente il concetto della grandezza educativa d'Omero va inteso in modo as· sai più generale. Essa non si limita alla trattazione espressa di problemi educativi o a passi i quali tendono a un effetto morale. La poesia delle epopee omeriche è un'entità spi· rituale compleBSa, che non si può ridurre ad una formula unica, e accanto alle parti relativamente recenti, che rivelano un interesse pedagogico così spiccato, ve ne sono altre, d'altro genere, il cui andamento narrativo sobria· .mente aderente al soggetto scarta ogni idea d'un secondo fine morale del poeta. Nel nono canto dell'Iliade e neN.a Telemachia incontriamo un atteggiamento spirituale che, per il suo intento d'esercitare una influenza, soggettivamente consapevole e logicamente motivato, già si avvicina all'elegia. Da questo dobbiamo ilistinguere un altro carat· tere educativo, per così dire oggettivo, che nulla ha a che fare con l'intento personale del poeta, ma è insito nell'indole stessa del canto epico. Questo ci fa risalire, da quei tempi relativamente recenti, sino ai primordi del genere. Omero dipinge più volte gli antichi aedi, dalla cui tradizione artistica è sorto I'epos. Missione del cantore è tener vivo nella memoria della posterità il ricordo delle «gesta degli uomini e degli dèi » 1Q). La fama, la conserva· zione e l'incremento di essa è il vero senso del canto eroico. Gli antichi canti epici sono spesso chiamati addirittura «fama degli uomini» 11). Nel primo libro del-
338 €py'&.v11pù>v 11). I 189, 524, ~ 73.
10) IX
Te:
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T&, Tii Te: XÀELoUCHV
&.oLllol.
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UBRO I - L'ETÀ ARCAICA
l'Odissea, il poeta, che predilige i nomi significativi, dà al cantore il nome di Femio, cioè portatore di nuove, annunciatore della fama. Nel nome del cantore feace Demodoco è contenuto l'accenno alla pubblicità della sua professione. Il cantore, appunto perché banditore della ram:a, ha il suo poato fuso nella comunità sociale. Platone annovera tra i begli effetti della follia inspirata dagli crei l'estasi poetica e descrive a questo proposito il prototipo delpoeta 12). «L'ossessione e l'invasamento che vengon dalle Muse afferrano un'anima delicata e consacrata, la destano e la rapiscono entusiasticamente in canti e in ogni sorta di creazioni poetiche, ed essa, esaltando innumerevoli gesta del passato, educa la posterità». È questa la concezione ellenica per eccellenza. Essa sorge dall'indissolubile legame di natura d'ogni poesia col mito, memoria delle grandi gesta preistoriche, e ne deduce la funzione sociale e formativa del poeta, il suo carattere educativo. Questo non consiste, per Platone, in una consapevole intenzi.one d'influire sull'uditore; ma il tener viva la fama, come fa il canto, è già per se stesso un'attività educativa. Occorre rammentare qui quanto esp.onemmo circa l'importanza degli. esempi insigni per l'etica aristocratica omerica. Vi facemmo menzione anche del valore educativo degli esempi attinti al mito, quali Fenice propone ad Achille, Atena a Telemaco, per mònito o stimolo 13). Il mito ha per se stesso questo valore normativo,_ anche senza che occorra citarlo espressamente a modello od esempio. Non diventa esemplare soltanto mediante il paragone di un caso qualsiasi, presentato dalla vita, con un episodio mitico analogo, ma tale è lll) Platone - Phaedr. 245a - stabilisce esattamente il rapporto tra poesia e areté, nella glori.a di cui la poesia orna le grandi azioni degli uomini. 18) Cfr. p. 80 ss.
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per sua natura. È fama, notizia delle cose grandi e su· blimi che la tradizione riferisce del passato, non già materia scelta ad arbitrio. Ciò ch'è eccezionale è normativo, già per il mero riconoscimento del dato di fatto. Ma il cantore non narra soltanto fatti; egli vanta e loda ciò che v'è al mondo di degno di lode e di vanto. Come gli eroi d'Omero, da vivi, esigono già onore e curano sempre di tributarsi reciprocamente il rispetto che ad ognuno si conviene, cosi ogni vera gesta eroica agogna eterna fama 14). Il mito, la leggenda eroica, è la riserva inesauribile ·di modelli che la nazione possiede e dalla quale il suo pensiero attinge ideali e norme per la vita propria. Che tale sia l'atteggiamento d'Omero di fronte al mito, lo dimostra l'uso di paradigmi mitici per tutte le situazioni immaginabili dell'esistenza, in cui un uomo si accosta ad un altro consigliando, avvisando, ammonendo, spronando, vietando o comandando 15). Cosa caratteristica, ciò non si riscontra nel racconto, ma sempre nei discorsi dei personaggi epici: ivi il mito funge sempre da istanza normativa, cui fa appello chi parla. È dunque insito in esso qualche cosa di universale; non ha mero carattere di fatto, sebbene originariamente, senza dubbio, abbia un tempo rispecchiato eventi storici, i quali nella fantasia esorna1' )
Per l'alto concetto di Pindaro dell'essenza della vera poesia
cfr. p. 379 ss; 16) V. R. 0EHLER, Mythologische Exempla in der iilteren griechischen Dichtung (Basilea 1925) che raccoglie gli esempi mitologici dell'antica poesia greca, ma forse non mette abbastanza in rilievo il carattere normativo di questi riferimenti al mito nelle parlate omeriche. Più tardi l'u;empio mitologico diventa solo un elemento decorativo, specialmente se usato nella retorica epidittica. Ma l'uso di esempi come punti di riferimento a scopo dimostrativo si può seguire lungo tutta la storia letteraria greca. I precetti retorici e ancor più l'uso degli autori mostra chiaramente che nelle età più tarde e più razionali gli esempi mitologici sono sempre più sostituiti da esempi storici, cioè l'esempio ideale cede il posto a quello einpirico. crr; « Paideia » III, Indice dei nomi e delle cose s. v. Paradigma.
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trice della posterità assunsero, attraverso la lunga tradizione è l'interpretazione esaltatrice, una grandezza sopranaturale. Non altrimenti va inteso il legame della poesìa col mito, che per i Greci è .legge fissa. Esso dipende appunto dalla derivazione della poesia dal canto eroico, dall'idea della fama, dell'esaltazione e dell'imitazione degli eroi. All'infuori della grande poesia tale legge non vale; tutt'al più il mito, quale elemento di stile idealizzante, si t.ova frammischiato in altri generi di poesia, come la lirica. Ma l'epos è di sua natura un mondo ideale, e l'elemento idealità, nel pensiero greco arcaico, è appunto rappresentato dal mito. Ciò infiuisce, nell'epos, sino ai particolari tutti dello stile e della struttura. Una della peculiarità caratteristiche del linguaggio poetico epico è l'uso stereotipo degli aggettivi esornativi, derivato direttamente dallo spirito originario degli antichi x.Moc ocv8p6>v. Nel grande epos che noi abbiamo sott'occhio~ già preceduto da una lunga evoluzione del canto eroicò, spesso l'impiego di tali epiteti non è più vivo, ma voluto dal convenzionalismo dello stile epico. I singoli aggettivi non sono più usati sempre con significato, caratteristico, ma per lo più sono divenuti ornamentali, elemento indispensabile dell'impronta di quest'arte, fissata da secoli, che si presenta anche là dove non occorre, o addirittura disturba. Gli aggettivi sono ora divenuti un mero ingrediente dell'atmosfera ideale in cui s'immerge tutto ciò che tocca il racconto epico. Anche all'infuori dell'uso degli epiteti, nelle descrizioni e rappresentazioni, regna questo tono laudativo, d'esaltazione e di trasfigurazione. Tutto ciò ch'è basso, spregevole e brutto è come cancellato dal mondo epico. Già gli antichi notano che Omero solleva tutto, anche le cose per se stesse più indifferenti, a quella sfera. Dione di Prusa, il quale non poteva ancora avere chiara coscienza del
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nesso intimo tra lo stile laudativo e la natura dell'epos, contrappone Omero al rampognatore A:rchiloco e dice che gli uomini hanno più bisogno di biasimo che di lode per la propria educazione 16). Non tanto c'interessa qui H suo giudizio, poiché muove da un atteggiamento pessimistico, diametralmente opposto all'antica educazione aristocratica e al suo culto dei grandi esempi; vedremo più tardi i suoi presupposti sociali diversi; ma la realtà effettiva dello stile epico e della sua tendenza idealizzatrice non può descriversi in modo più calzante che con le parole del retore, sensibilissimo a queste cose formali. « Omero - scrive egli - ha lodato quasi tutto, gli animali e le piante, l'acqua e la terra, le armi e i cavalli. A nessuna cosa, possiamo dire, egli· può passar davanti senza lodarla e vantarla non appena la nomina. Persino quell'unico, che ha spregiato, Tersite, egli lo chiama oratore di bella voce». La tendenza idealizzante dell'epos, dipendente dalla sua derivazione dall'antico canto eroico, lo distingue da altre forme letterarie e gli assegna il suo posto privilegiato nella storia della cultura greca. Tutti i generi della letteratura greca sono sorti dalle forme fondamentali e naturali dell'attività espressiva umana: cosi la melica dalla canzone popolare, le cui forme essa varia e sviluppa con arte, il giambo dall'usanza omonima delle feste dionisiache, l'inno e il prosodion dal culto divino, l'epitalamio dalla costumanza nuziale popolare, la commedia dal komos e la tragedia dal ditirambo. Possiamo ripartire le forme originarie, onde si svilupparono i generi della poesia artistica, in appartenenti al culto divino, spettanti alla vita privata e spettanti alla vita della comunità. Alle forme d'espressione poetica che hanno origine privata o culturale è estraneo te) Dio Pr. Or. XXXIII ll.
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se non altro inizialmente - il fattore educativo. Il canto eroico, invece, è per natura sua idealizzatore, indirizzato a creare modelli eroici. Esso distanzia di molto, per importanza educativa, ogni altra specie di poesia, appunto perché rispecchia oggettivamente la totalità della vita e mostra l'uomo in lotta con la sorte e per il conseguimento di un'alta mèta. Poesia gnomica ed elegia calcarono le orme dell'epos, cui entrambe sono assai affini anche per la forma. Lo spirito educativo dell'epos si trapianta in esse e più tardi anche in altri generi, come il giambo e il canto corale. La tragedia, poi, cosi nello spirito come nel contenuto mitico, è pienamente erede dell'epos. Solo al suo legame con l'epos, non già all'origine dionisiaca, deve la tragedia la sua dignità etico-educativa. Se si aggiunge che anche le grandi forme prosastiche che agiscono da fattori educativi, come la storiografia e la trattazione filosofica, sono sorte direttamente dallo studio dell'epos, può dirsi che l'epos è addirittura la radice di tutta la cultura superiore greca. Cerchiamo ora di mostrare l'elemento normativo ' anche nell'intima struttura dell'epos. Due sembrano, a prima vista, le vie. O prender le mosse dalla forma conchiusa dell'epos complessivo quale è, senza curarsi affatto dei risultati e dei problemi dell'analisi scientifica d'Omero; oppure scegliere una via più difficile, impigliandosi fatalmente nel groviglio delle ipotesi genetiche. Sarebbe male così l'una come l'altra cosa; prendiamo quindi una via di mezzo, che rende giustizia in massima allo studio genetico dell'epos, senza costringerci a mostrare sino ai minimi particolari come si at· teggi l'analisi secondo il nostro criterio 1 7). In!!ostenibile 11) Accenniamo in breve ad alcuni dei più importanti libri moderni sulla questione omerica: u. v. WILAMOWITZ-MOELLENDORFF,
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è ad ogni modo, anche professando un agnost1c1smo assoluto circa questi problemi, uno studio che non tenga conto, almeno in massima, dei fatti evidenti della preistoria dell'epos. Questo ci divide dall'interpretazione omerica degli antichi, la quale, quando parla del valora educativo del poeta, pensa senz'altro all'intera Iliade e Odissea 18). Il tutto, evidentemente, deve restare mèt~ anche dell'interprete moderno, anche se l'analisi dovesse insegnargli che questo tutto non fu se non l'ulteriore conclusione dell'ininterrotto lavoro poetico di generazioni intorno all'inesauribile tema. Ma chi, ad ogni modo, tien conto - come tutti facciamo - della possibilità che l'epos in formazione si sia incorporate versioni .anteriori della leggenda in forma più o meno alterata, così come l'epos compiuto accolse ancora inserzioni, più recenti, di canti interi, dovrà tentare di raffigurarsi gli stadi antecedenti con la maggiore evidenza possibile. L'idea che ci si è fatta della natura del canto eroico più antico deve necessariamente esercitare su ciò una Die flias und Homer (Berlino 1916); Emcu BETBE, Homer, Dichtung und Sage (2 voll. Lipsia 1914); GILBERT MtraRAY, The Rise of the Greek epic (II ed. Oxford 1911). Fra i critici unitari ricordiamo: J. A. SCOTT, The Unity of Homer (Berkeley 1921); S. E. BASSETT, The poetry of Homer (Berkeley 1938); Sir R:rcBARD JEBB nel suo Homer (I ed. 1886) dà un'introduzione sulla questione omerica e i suoi sviluppi nel XIX sec.; GEORG FmsLER, Homer (II ed. Lipsia 1914-18) ha un bel capitolo sulla storia del problema. Per l'analisi dell'Odissea v. il libro ricordato a n; 54 del cap. precedente di questo libro. Cfr. anche C. M. BoWllA, Tradition and Design in the Riad (Oxford 1930). 18) Non consideriamo per ora i più tardi fra i critici antichi, quelli della scuola Alessandrina che per prinri applicarono il metodo analitico all'epica e distinsero quelle che essi credevano interpolazioni più tarde, i cosidetti :;(ùlp(l;;ovnç (p. es. libro X del1' Iliade, la ~oÀ6>vsta:). Altri negavano che Omero fosse l'autore di ambedue i poemi, l'Iliade e l'Odissea. Cfr. F. A. WoLF, Prolegomena ad Homerum (Balle 1795) CLVID. Sul metodo della seuola Alessandrina per la tradizione omerica, cfr. anche l'opera capitale di K. LEBRS, De Aristarchi Studiis Homericis.
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influenza decisiva. Il nostro concetto fondamentale dd1' origine dell'epica da canti eroici antichissimi, quali sono menzionati anche presso altri popoli come prima forma della tradizione, ci suggerisce l'ipotesi che la descrizione di singolari tenzoni, l' aristia, risolventisi nella vittoria di un eroe famoso su un cospicuo avversario, sia stata la forma primitiva del canto epico 19). La narrazione di una singolar tenzone è più ricca d'interesse umano che la descrizione di battaglie di masse, cui mancano facilmente piena evidenza ed intima vivezza. Anche la descrizione di combattimenti di masse non può destare il nostro interesse se non col dare largo sviluppo ad episodi in cui emergono singoli grandi eroi. Ma il racconto di una singolar tenzone desta sempre un interesse più profondo mercé l'elemento personale ed etico, che difficilmente può svilupparsi nella descrizione di battaglie di masse, e mercé il più forte legame intimo dei suoi momenti singoli con l'assieme della lotta. Il racconto dell'aristia d'un solo eroe contiene sempre un elemento fortemente incitativo. Episodi del genere si trovano, sul modello epico, anche nella storiografia posteriore; nell'Iliade costituiscono i ~omenti culminanti della descrizione della guerra. Sono scene conchiuse, che anche quali parti dell'epos complessivo conservano una certa autonomia, lasciando cosi discernere che furono un tempo fine a se stesse o sono calcate su canti autonomi. Il poeta dell'Iliade risolve la lotta sotto le mura di Troia nel racconto dell'ira d'Achille e dei suoi effetti e in una serie di singolari tenzoui autonome, come l'aristeia di Diomede (E), 19) Questa OJ)lm0".1.e fu esposta da uno dei vecchi critici che generalmente tennero un atteggiamento scettico di fronte ai moderiri tentativi d'analisi, G. W. NITZSCH nel suo libro Beilrage zur Geschichte der epischen Poesie der Griechen (Lipsia 1862) pp. 57, 35•,.
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d' Agamennone (A), di Menelao (P), la monomachia di Menelao e Paride (P), d'Ettore e Aiace (H), le quali tutte dal più al meno sono episodi per se stessi importanti. In scene siffatte la stirpe cui era rivolto il canto eroico trovava diletto, in esse ravvisava lo specchio dei propri ideali. Nuovo scopo artistico della grande epopea è, introducendo gran numero di tali scene di combattimento e collegandole a formare un'azione unitaria, non solo di presentare, come prima si soleva, quadri particolari d'un avvenimento complessivo, dato per noto, ma di mettere in risalto tutti gli eroi famosi 20). Raccogliendo molte gesta e figure, in parte già celebrate in anteriori canti singoli, il poeta crea un quadro immenso, la lotta intorno ad Ilio come un tutto. Ciò che egli ravvisa nella lotta è chiaramente enunciato dall'opera sua: è un imponente agone della somma areté di tanti eroi immortali. Non dei Greci soli, ché anche i loro avversari sono un popolo che lotta eroicamente per la terra natia e per la libertà. «Uno è il miglior auspicio: combattere per la patria»: cosi fa dire Omero non a un Greco, ma· all'eroe dei Troiani, che cade per la sua patria e perciò assume tratti di sì calda umanità 21). I grandi eroi degli Achei incarnano piuttosto l'elemento propriamente eroico. La patria, la 20) L'antica «ballata» o otµ'I), dopo un preludio, cominciava. di solito, da un punto della narrazione scelto arbitrariamente: lv.&ev È:Àchv ooç ot µèv focrcréÀµc.>v 1btl V'l)W\I ~civ-re:ç &7tÉ7tÀ€10\I (.& 500). Ma non solo Demodoco, il cantore dei Feaci, comincia così il suo canto. Anche il poeta del proemio dell'Odissea ancora segue questa antica tecnica, quando prega la Musa di cantare il ritornò di Ulisse ed il fato dei suoi compagni cominciando da quel punto che le piaccia: -rwv à:µ6.&ilema di come conciliare il carattere originario della maggior parte l'uomo nell'universo», cli.e è il .tema classico della filosofia greca. è anche presente ogni momento in Omero. V. la descrizione dello scudo di Achille, p. 108 s., che rispecchia perfettamente questa universalità e completezza della visione omerica della vita e areté umana. 36) Visto sullo sfondo dd. concetto orientale sulla vita, il punto di vista di Omero è antropocentrico ed umanistico, in questo senso della parola. Ma d'altra parte si deve a:lfermare che esso non è solamente umano, e se lo paragoniamo alla interpretazione antropocentrica della realtà propria del più tardo soggettivismo, p. es. dei Sofisti del V sec., esso appare decisamente teocentrico. Omero riporta ogni cosa umana a una onnipresente forza e norma divina. Pfàtone rimette in equilibrio I due elementi nella sua filosofia. Cfr. il mio Humanism and Theo'Wgy (Aquinas Lectnre 1943, Marquette University Press, Milwankee, Wis.) p. 46 ss., 54 ss. e tutto il II volume di «Paideia».
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degli dèi, piuttosto particolare o localmente circoscritto, con l'esigenza d'un governo del mondo unitario e razionale. L'affinità ed umanità degli dèi greci allettava una stirpe, che nel suo alto orgoglio aristocratico si sentiva d'origini eguali agl'immortali a raffigurarsene la vita e le azioni, con naturalezza e senza eccessivo distacco, al modo della propria robusta esistenza terrena. Con questa immagine, di cui tante volte, col loro astratto bisogno di elevatezza, si scandalizzarono filoso~ posteriori, contrasta nell'Iliade un sentimento religioso, la cui rappresentazione della divinità, e specialmente della personalità del supremo signore del mondo, ha dato nutrimento alle più sublimi idee dell'arte e della filosofia greca ulteriori. Ma nell'Odissea per la prima volta troviamo una costante maggior coerenza e finalità nell'azione degli dèi. L'invenzione del consiglio degli dèi al principio del primo e del quinto canto, è, sì, presa dall'Iliade, ma il divario tra le scene tumultuose sull'Olimpo, spettanti all'Iliade, e il dignitoso . concilio d'inabbordabili personalità sovrumane nell'Odissea, salta agli occhi~ Nell'Iliade gli dèi rischiano. di venire alle mani, Zeus impone la propria sovranità con le minacce 36), dèi usano contro dèi mezzi più che terreni, per ingannarli o sventarne il potere 37). Lo Zeus che presiede il consiglio degli dèi al principio dell'Odissea è la coscienza universale filosoficamente purificata. Egli inizia il suo esame 38) del caso presente ponendo in modo generalissimo il problema dell'umana sofferenza e accennando al nesso indissolubile tra destino e colpa 39). Questa teo36) Di questo l'esempio più singolare e sconcertante è nella minaccia di Zeus in @ 5-27. 37) Il più. famoso esempio è la .Ò.LÒ~ &miT7], XIV. ' 38) a; 32 ss. . 88) V. anche p. 270 e la mia interpretazione dei versi omerici cc 32 ss. nel saggio Solons Eunomie, ivi citato (n. 41).
n.
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dicea aleggia su tutto il poema. Per il poeta la somma divinità è una potenza onnisciente, superiore ad ogni pensiero e ad ogni azione dei mortali. Essa è, nella sua essenza, spirito e pensiero. Non è paragonabile alla miope passione che fa uscir di strada l'uomo e lo fa incappare nella rete dell'Ate. Le sofferenze d'Odisseo e la tracotanza (iJ~p~c;) dei Proci, espiata con la morte, sono presentate dal poeta sotto questo aspetto eticoreligioso. L'azione si svolge con perfetta unità, dal problema cosi posto, sino al termine. È conforme alla natura di questo romanzo che la coerenza della superiore volontà direttiva, la quale alla fine conclude tutto giustamente e felicemente, si affacci palese nei momenti culminanti dell'azione. Il poeta stesso inquadra tutto quanto avviene nel sistema di relazioni del suo pensiero religioso: ne· viene ad ogni figura la sua posizione ben defì.nita. Tale rigoroso organamento etico è prohabilmenie opera soltanto dell'ultima fase dell'elaborazione p·oetica della leggenda d'Odisseo 40). All'analisi si offre qui un compito che attende tuttora d'esser risolto: intendere nel suo sviluppo storico il sorgere di questa, versione eticizzante del tema dagli strati primitivi, per quanto è dato ancora coglierli. Oltre all'idea generale etico-religiosa, quale domina nelle grandi linee la forma definitiva dell'Odissea, si manifesta un'attraentissima molteplicità di concezioni, il ·meraviglioso-favoloso, l'idillico, l'eroico, l'avventuroso, ma in nessuna di tali specie si esaurisce l'effetto del poema. E se in ogni età se ne sentì l'unità e la severa economia costruttiva come uno dei suoi pregi maggiori, essa si fonda appunto sul disegno generale del problema etico-religioso che vi .si sviluppa. '°)- Cfr. quello che è detto a p. 75 ss., specialmente nelle note, sul disegno dell'Odissea e sulla sua origine nella forma attuale.
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Ma non tocchiamo qui che un lato di un fenomeno ben più vasto. A quel modo che Omero inquadra la sorte dell'uomo nella grande cornice degli accadimenti, in un mondo rigorosamente definito, così egli colloca le sue figure tutte e sempre nell'ambiente che loro spetta. Non prende mai astrattamente l'uomo di per se stesso, soltanto interiormente; tutto si fa ai suoi occhi immagine compiuta della vita concreta. Le sue figure non sono meri schermi che a quando a quando si destino ad espressione drammatica, si sollevino ad effetti straor· dinari o si ergano in atteggiamenti nei quali tornino poi a un tratto a fissarsi. Gli uomini d'Omero sono così reali, ·che ci sembra poterli vedere con gli occhi e toccar con mano. E come sono perfettamente coerenti nei loro atti e pensieri, così la loro esistenza è in intima relazione col mondo esterno. Prendiamo Pene· lope: quali effetti non avrebbe tratti da questa figura un bisogno maggiore d'intensità lirica di sentimenti, di intensi atteggiamenti espressivi ? Ma tale atteggiamento è naturalmente difficile da sostenere a lungo, tanto per lo spettatore quanto per il soggetto. I personaggi d'Omero restano sempre naturali ed esprimono piena· mente, in ogni momento, se stessi e la propria indole; possiedono una pienezza di carattere, una totalità cli riferimenti incomparabile. Penelope è ad un tempo la massaia nella sua casa, la moglie abbandonata dell'uomo scomparso angustiata dai pretendenti, la pa· drona delle serventi, delle fedeli e delle proterve, la madre ansiosa dell'unico figlio che custodisce. Ed ecco il vecchio fido porcaro, sul quale si può sempre con· tare; il decrepito padre d'Odisseo nel suo piccolo e un po' misero ritiro lungi dalla città; il padre di lei è lontano non può darle aiuto. Tutto ciò è tanto semplice e necessario; e in questa cerchia di relazioni l'intima logica del personaggio si espande in una tran·
e
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quilla efficacia plastica. Il segreto della forza plastica delle figure omeriche si fonda sul fatto ch'esse sono collocate nello stabile sistema di coordinate d'un ambiente di evidenza e chiarezza matematiche 4l.). In fin dei conti la capacità e il bisogno, che ha l'epos omerico, di rappresentare il mondo cui descrive come un cosmo totale che riposa su se stesso, dove il fattore durata e ordine bilancia quello del mutamento impetuoso e dell'evento fatale, trae origine da una primordiale determinatezza formale dello spirito greco. Per l'osservatore moderno rimane un prodigio inspiegabile come tutte le forze e le tendenze caratteristiche della grecità, che si affermarono nel suo ulteriore svolgimento storico, si presentino già chiaramente preformate in Omero. Quest'impressione si attenua naturalmente considerando i poemi isolatamente. Solo considerando in blocco Omero e i Greci dei tempi posteriori, ne emerge la spiccata affinità. Essa ha sua ragione pro· fonda nelle occulte qualità ereditarie dellà razza e del sangue. In presenza di esse cogliamo ad un tempo ciò che è conforme e ciò che è estraneo, e appunto nella nozione di questa necessaria diversità ,di ciò che è affine sta la fecondità del nostro contatto col mondo greco.. Ma, al disopra del momento della nazionalità e della razza, per noi afferrabile soltanto col sentimento e intuitivamente, che si mantiene stranamente immutato nelle sue proprietà fondamentali attraverso ogni trasformazione storica dello spirito e attraverso ogni vi-
") Mi viene a proposito di dir qui che non è stato scritto ancora su Omero un libro come ·quello di RlcHARD HEINZE, Vergila epischa Technik o come il bello studio di H. W. PRESCOTT, Vergil's À11 (che è stato ispirato dal libro del Heinze). Ma buone osservazioni di questa indole si trovano nel libro di S. E. BASsETr, The Pae&Ty of Hom6T (Berkeley 1938).
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cenda, non dimentichiamo l'immensa influenza storica che il mondo umano ben definito d'Omero non poté non esercitare su tutti gli ulteriori sviluppi della sua nazione. Soltanto per esso, unico patrimonio originario panellenico, pervennè questa all'unità della coscienza nazionale, e cosi esso diede impronta decisiva a tutta la cultura greca ulteriore. ·
CAPITOLO QUARTO.
ESIODO E IL POPOLO CONTADINO Accanto a Omero i Greci collocavano, come loro secondo grande poeta, il beota Esiodo. Con lui ci si schiude una sfera sociale ben diversa dal mondo dell'aristocrazia e dalla sua cultura. Soprattutto il più recente e paesano dei due poemi d'Esiodo che ci restano, gli Erga, dà il quadro più perspicuo della vita del ceto contadino nella madrepatria greca sul finire del secolo VIII e reca un complemento essenziale alle nostre nozioni circa la vita del popolo greco nel periodo più remoto, ricavate da Omero, :figlio della Ionia. Importanza specialissima ha poi quest'opera per la conoscenza dell'evoluzione della cultura greca. Se Omero mette anzitutto in piena luce il fatto fondamentale che ogni cultura muove dalla formazione di un tipo d'umanità aristocratica, che sorge col promuovere volutamente le qualità dell'eroe e signore, in Esiodo si rivela la seconda grande sorgente della cultlU'a: il valore del lavoro. Il titolo « Opere e Giorni», che i posteri diedero al poema gnomico d'Esiodo, lo dice perfettamente. Non solo la lotta dell'eroe cavalleresco con l'avversario che l'osteggia in campo, ma anche la lotta silenziosa e tenace del lavoratore con la dura terra e con gli elementi ha il suo eroismo e promuove qualità di valore eterno per la formazione dell'uomo. Non per
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nulla la Grecia diede i natali a un'umanità nella quale la stima del lavoro ha un saldo posto. La vita spensierata della classe dominante in Omero non deve illuderci che questo paese non abbia sempre indirizzati al lavoro i propri abitanti. Lo dice Erodoto a proposito di paesi e popoli più ricchi 1 ): « In Grecia la povertà fu sempre di casa, ma vi si aggiunge l'areté. Essa è dovuta alla saggezza e a forti leggi. Sua mercé l'Ellade ripara alla povertà e alla schiavitù». Il suo territorio traversato da montagne, con le tante anguste valli e contrade segregate, ove mancano quasi affatto grandi e continue pianure coltivabili, quali offre il Nord dell'Europa, costringe i Greci ad una lotta continua col suolo, per strappargli l'estremo prodotto possibile. L'allevamento del bestiame e la coltivazione dei campi rimasero sempre per i Greci il genere più importante e tipico d'occupazione umana. Sulla costa soltanto prevalse più tardi la navigazione 2); negli antichi tempi l'agricoltura fu senz'altro la condizione prevalente.
Ber. VII 102. 2) Le famose parole di Orazio Illi robur et aes triple:i: circa pectus erai sono una tarda eco (che si coglie anche in altri autori latini) dell'antico senso greco dei pericoli della navigazione. Forse Orazio segue un carme greco per noi perduto. Nell'epoca di Esiodo i viaggi per mare erano ancora considerati come contrari alla volontà degli dèi. È vero che troviamo nelle Opere e Giorni una parte dedicata interamente ai viaggi in mare (vocu't'LÀbJ), 618-694, che stabilisce, tuttavia, che essi devono essere limitati alla stagione più adatta cioè la tarda estate e il principio dell'autunno, perch6 in questa stagione non è grave il pericolo di uragani e naufragi: ma il navigante badi di non restare lontano dalla patria :finch6 l'uva sia matura e comincino le burrasche del tardo autunno. Anche la primavera .è stagione di viaggi in mare, ma il poeta non l'approva e lascia questa opinione agli altri. Il testo dei manoscritti delle Opere e Giorni, deve essere con;otto al verso 682 perch6 ela:pw6ç è una debole ripetizione della stessa parola al v. 678, dove è a suo posto. Lo Heyer ha proposto à.pya:Àéoç al v. 682 e la congettura, come tale, è certo soddisfacente. Il poeta non approva il nÀ6oc;, in primavera, perch6 esso è &pna:x-r6c;, 1)
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Ma Esiodo non ci presenta soltanto per se stessa la vita dei contadini della madrepatria: ravvisiamo in lui anche l'influenza della cultura aristocratica e del suo fermento spirituale, la poesia omerica, sulle classi inferiori della nazione. Il processo formativo della cultura greca si svolge non solo mediante l'accettazione unilaterale del costume e della mentalità creati da una classe privilegiata per parte degli altri elementi della popolazione: ogni cet".l vi reca anzi il proprio contributo. Il contatto con la cultura superiore, che il ceto contadino, ottuso e rozzo, riceve dalla classe dominante, desta in esso la più viva reazione. Il rapsodo, che recitava i poemi omerici, era fatto per essere in quell'epoca trasmettitore dei valori più elevati della vita. Nei noti versi del proemio della Teogonia, Esiodo narra la sua vocazione alla poesia: come, pascendo il suo gregge, da semplice pastore, ai piedi dell'Elicona, vi ricevesse un giorno l'inspirazione delle Muse e, dalle loro mani, il bastone cli rapsodo S). Ma il rapsodo d'Ascra, dinanzi
altro epiteto difficile, ma evidentemente genuino che vuol significare che l'uomo rapisce dalle mani degli dèi questa possibilità precoce, ma rischiosa, di navigare: &p7tiil;:oua~ 7tÀ6ov (cfr. v. 320). Cfr. il mio articolo su &p7tiil;:e:w e &pmxyµ6ç nella Epistola di S. Paolo ai Filippesi in« Hermes» I (1915) pp. 537-553. È da notarsi che gli abitanti della città giusta di Esiodo non devono navigare affatto, cfr. Opp. 236 e Theog. 869-877. 3 ) Hes. Theog. 22-34. Il poema comincia con la lode delle Muse dell'Elicona, vv. 1-21, e poi prosegue: «esse un tempo insegnarono a Esiodo il bel canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona, e queste parole le dee mi dissero»; il poeta riporta poi le parole delle Muse dicendo come esse strapparono e gli diedero una verga e lo ispirarono col dono del canto. Dall'improvviso passaggio dalla terza alla prima persona singolare è stato concluso che Esiodo non deve essere la stessa persona che dice di se stesso« lo» negli ultimi versi. Questo ci condurrebbe a considerare Esiodo come un famoso poeta anteriore ali'autore della Teogonia. E a questa conclusione è giunto p. es. HUGH G. EVELYN - WHITE nella sua edizione di Esiodo in «Loeb Classica) Library» (Londra 1936) p. xv. Anche nell'antichità classica ci sono assertori di questa ipotesi; giacché Pausania
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alla folla ascoltante nei villaggi, non propagò soltanto il vivido splendore dei versi d'Omero. Tutto il suo pensiero aveva profonde radici nel terreno fecondo della schietta vita campagnola, e là dove, per esperienza vissuta, oltrepassava la funzione di mero Omerida e trovava la forza d'una creazione propria, ivi gli fu concesso dalla Musa di mettere in luce i genuini valori propri della vita contadina, facendone patrimonio spirituale della nazione intera. Possiamo raffigurarci chiaramente lo stato delle campagne ai tempi d'Esiodo, in bàse alla sua descrizione. Per quanto non sia lecito generalizzare senz'altro le condizioni della Beozia presso un popolo così vario come il greco, esse tuttavia sono certo largamente tipiche. Detentori del potere e della cultura sono i signorotti della nobiltà, ma i contadini hanno inoltre una notevole indipendenza spirituale e giuridica. Non si parla di servitù della gleba, e nulla indica nemmeno lontanamente che quei liheri agricoltori e ,allevatori di bestiame, viventi del lavoro delle proprie braccia 4), discendano da una classe soggiogata nel periodo delle migrazioni, come è il caso per esempio nella Laconia. Essi convengono ogni giorno al mercato' e nella ì..foX.YJ
IX 31, 4 nota che alcuni studiosi sostenevano che !'Opere fossero l'unico poema di Esiodo. A me è impossibile associarmi a questa opinione, che, a mio credere, deriva da incomprensione del cambiamento dalla terza persona alla prima. piuttosto naturale nel proemio di un libro, nel quale deve esser detto il nome dell'autore. Certo non poteva dire «lo sono Esiodo». Anche un autore del V sec. può mettere il suo nome in terza persona in un periodo a sé «Tucidide di Atene, ha scritto la storia ecc. » e poi può continuare: «poiché io non credo i tempi più antichi molto importanti..•• (où µe:y&.Àa: voµL~w ye:vécr&a:L)». ') Anche i contadini hanno degli schiavi (8µwa:ç); cfr. Opp. 597. Ma a v. 602 Esiodo parla anche di lavoratori che sono ar· ruolati solo per il raccolto e poi licenziati. Cfr. Wn.A.MOWITZ, Hesiodos Erga (Berlino 1928) 110.
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e discutono i propri affari pubblici e privati 5). Si critica francamente la condotta dei concittadini e anche dei nobili signori, e « ciò che la gente dice» ( poS[-r'IJ. Anche Platone nel Simposio fa affermare al medico Erissimaco l'esistenza di un principio universale a cui dà il nome e la natuxa di Eros. Nella MMafisica di Aristotele si parla di un Eros delle forme materializzate che le spinge a realizzare in se stesse la forma immateriale che egli chiama Dio. In un senso più naturalistico Lucrezio nel proemio al I libro del De rerum natura chiama questo principio col nome empedocleo di Venus (=' Acpp0Sh11). Dal concetto platonico ed aristotelico di Eros si arriva in linea diretta ai Neoplatonici e al cristiano Pseudo-Dionigi l'Areopagita, che cerca di riconciliare l'Eros pagano con P Agape cristiana, considerandoli ambedue come
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sonifì.cazioni, che danno appagamento al bisogno del pensiero astratto che si viene destando 32). Bastino questi pochi accenni a dare lo sfondo dei miti degli Erga, introdotti da Esiodo per spiegare la necessità della fatica e del lavoro nella vita umana e l'esistenza del male nel mondo. Appare qui, come già nel racconto introduttivo della mala e della buona Eris 33), che Teogonia ed Erga, non ostante la diversità dell'argomento, per il poeta non stanno semplicemente autonome l'una accanto all'altra, ma che il pensiero dell'Esiodo teologo trapassa in quello dell'etico, così come nella Teogonia, inversamente, si rivela già chiaro l'etico. Entrambe le opere sorgono dall'intima unità della concezione del mondo d'una medesima personalità. Il pensiero informato a causalità della Teogonia è applicato da Esiodo, nella storia di Prometeo degli Erga, al problema pratico, morale e sociale del lavoro. A un certo momento il lavoro e la pena dovettero affacciarsi nel mondo, ma nel perfetto ordinamento divino delle cose non poterono aver fondamento sin da principio. Esiodo ravvisa la causa nell'azione fatale di Prometeo, ch'egli considera sotto una luce affatto morale, nel furto del fuoco divino 34). Per pnnizione Zeus creò la prima donna, l'astuta Pandora, la proava del sesso femminile. Dal vaso di Pandora sfuggirono
forza divina e universale. Le teorie dell'Eros universale passano da questi pensatori a Dante e ai filosofi scolastici, e ai poeti del sec. XIX che ravvivano questo concetto. 32) Il pensiero di Esiodo merita una nuova interpretazione più coerente di quella invalsa finora. La sua azione nella presentazione della tradizione mitologica, come appare nella sua opera, deve essere definita più chiaramente. Aristotele - Met. II 4, 1000 a 18 - lo· chiama uno di quelli che ao9E~ov't"cu µu1hxwc; ed è questa la miglior definizione di Esiodo data finora. 33) Cfr. p. 134 s. ") Opp. 41 88.
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i demoni della malattia, della vecchiaia e mille altri malanni, che popolano ora la terra e il mare 35). Il mito è trasfigurato, sforzandolo arditamente, secondo la nuova idea speculativa del poeta, e portato in posizione siffattamente centrale. L'applicarlo nel bel mezzo dei ragionamenti generali degli Erga corrisponde all'uso paradigmatico del mito nei discorsi dei personaggi dell'epos omerico 36). Questa ragione dei due ampi «innesti» o « divagazioni» mitiche che s'incontrano nel poema esiodeo non è stata apprezzata a dovere; essa è ugualmente importante per intendere e il contenuto, e la forma. Gli Erga sono un unico grande discorso d'insegnamento e d'ammonimento, precisamente come una elegia, poniamo, di Tirteo o di Solone, per forma e atteggiamento psicologico, si riallaccia direttamente ai discorsi dell'epos omerico 37). Gli esempi mitici vi sono perfettamente a posto. Il mito è come un orga· nismo, la cui anima si trova in via di perpetuo rinnovamento e mutamento. Chi produce tale mutamento è il poeta; ma, ciò facendo, egli non obbedisce soltanto al proprio arbitrio. Il poeta è creatore d'una nuova norma di vita per l'età sua ed interpreta il mi~ base a questa nuova norma e viva certezza interiore. Il mito non si mantiene in vita se non mercé l'incessante metamorfosi della sua idea, ma la nuova idea poggia sul veicolo sicuro del mito. Ciò vale già per la 86) Il consiglio di Zeus di dar vita alla prima donna, e come fu eseguito, è narrato da Hes. Opp. vv. 56-105. Sul mondo senza fatica e senza male, prima della impresa di Prometeo, v. ib. 90-92 38) Cfr. pp. 70 e 80 ss. e note. 37) I commentatori non hanno notato che gli Erga (dopo la preghiera a Zeus che termina con le parole « ma io voglio dire la verità a Perse») mostrano nella caratteristica formula introduttiva oòx. &pa: µouvov ~lJV, di essere modellati su formule iniziali di discorso omeriche. Se si capisce questo, si capisce tutto il piano del poema.. È un « discorso» esortatorio ingrandito a dimensioni epiche. Ricorda da vicino il discorso esortatorio di Fenice in I.
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posizione del poeta di fronte alla tradizione nell'epos omerico; in Esiodo, poi, diviene molto più evidente ancora, ché qui l'individualità del poeta ci è rimasta ben riconoscibile nei motivi originali del suo pensiero, presentandosi essa per la prima volta consapevolmente quale individualità e facendo, con tanta evidenza, della tradizione mitica lo strumento del proprio intento intellettuale. Quest'uso normativo del mito è reso anche più evidente dal fatto che Esiodo, negli Erga, colloca immediatamente accanto alla storia di Prometeo il racconto delle cinque età del mondo, con la seguente formola di transizione, breve, quasi informe, ma molto caratteristica del senso in cui questo è addotto 38) : « Ma, se vuoi, anche una seconda storia ti compirò con arte sino al culmine. E tu prenditela a cuore ! ». Apostrofare Perse per l'appunto qui, al trapasso dal primo al secondo mito, era necessario per far presente all'ascoltatore il fine attuale d'ammaestramento· dei due racconti, in apparenza così digressivi. La storia dell'.età dell'oro e dei tempi posteriori, sempre peggiori, deve dimostrare come gli uomini in origine st,essero davvero meglio d'ora e vivessero senza fatica né dolore. Essa serve di spiegazione al mito di Prometeo. Che i due miti, a prenderli per realtà, si escludano reciprocamente, è cosa di cui Esiodo non si cura: fatto specialmente caratteristico per la sua concezione del tutto ideale del mito. Quale causa della crescente infelicità degli umani Esiodo cita la presunzione e la stoltezza crescenti, il cessante timor di Dio, la guerra e la violenza. Nella quinta età del mondo, quella del ferro, nella quale il poeta lamenta di dover vivere egli stesso, non impera più che il diritto del più forte. Solo i malfat38) Opp. 106.
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tori possono ancora reggersi. La terza storia che E§iodo presenta è la favola dello sparviero e dell'usignolo. Egli l'indirizza espressamente ai giudici, possenti signori. Lo sparviero rapisce l'usignolo, il « cantore», e al suo lamento pietoso il ladrone pennuto, nel rapirlo in aria tra i suoi artigli, risponde 39) : « Infelice, che giova il tuo gridio ? Ora ti ha in sua balia uno più forte di te, e tu mi seguirai dove voglio. Sta in me solo divorarti o lasciarti andare». Esiodo chiama questa parabola animalesca un ai1U1s 40). Favole siffatte furono sempre care al popolo. Esse assolvevano nel pensiero popolare un compito analogo a quello del paradigma mitico nei discorsi dell'epos: contengono una verità generale. Anche !'es.empio mitico si chiama ancora ainos i.Il Omero e in Pindaro. Solo più tardi questo concetto si restrinse alla favola animalesca. Nel vocabolo si esprime la validità che si riconosce al consiglio dato. Ainos non è dunque la sola favola animalesca dello sparviero e dell'usignolo 41.); questa non è che il paradigma, ch'egli presenta in ispecie a1 giudici; vero ai1U1s è anche la storia di Prometeo e il mito delle età del mondo. La medesima apostrofe bilaterale, a Perse e ai
ib. 207. ib. 202. 41) octv,oç, nel senso di « lode» ( = ~:rcocwoc;), si trova in Omero e in Pindaro. Anche Eschilo, Ag. 1547, e Sofocle, O. C. 707, lo usano in questo senso in parti liriche. Da questo significato si distingue generalmente quello di « storia, novella», che si trova anche in Omero e nei poeti tragici. In realtà, come si è mostrato di sopra (v. p. 93), il significato originario di «racconto», detto dal poeta o dal raposodo, è « lode delle grandi gesta degli uomini e degli dèi » e questo significato deve essere esteso anche al racconto fatto comunemente dal popolo. Anche questo è una «lode», e spesso con una morale. Perciò lo si chiamava cx!11oc;. Al popolo piacevano le favole come i miti e anche di più. Perciò anche la favola è chiamata cx!voc;: essa è «lode» in quel sensò più largo che l'accomuna al mito: l'una e l'altro contengono un esempio. 39)
40)
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giudici 42), si ripete nella parte seguente del poema, che prospetta la maledizione dell'ingiustizia e la benedizione della giustizia mediante le commoventi immagini religiose della giusta e dell'ingiusta città 43). Dike diviene qui per il poeta una divinità autonoma, figlia di Zeus, che gli siede accanto e gli muove lagnanza se gli uomini vogliono cosa ingiusta, affinché egli li chiami a renderne conto. L'occhio suo si fissa anche su questa città e sulla lite giudiziaria che vi si svolge: egli non permetterà che trionfi la causa ingiusta. E il poeta si rivolge nuovamente a Perse: « Considera tutto ciò e porgi ascolto al diritto, dimentica ogni violenza. Ché tale è il costume che Zeus ha prescritto agli uomini: i pesci e le fiere e gli uccelli alati si divoreranno tra loro, poiché non v'è tra loro diritto. Ma agli uomini diede egli il diritto, sommo tra i beni»«). Questa distinzione tra l'uomo e la bestia si riallaccia chiaramente alla parabola dello sparviero e dell'usignolo. Fra gli uomini 42) A Perse si rivolge il poeta in Opp. 213, ai re a v. 248. Nello stesso modo, nella prima parte del poema, Perse è apostrofato per la prima volta al v. 27, e tutta la storia~ Prometeo e il mito delle cinque età sono indirizzati a lui; poi c'è una breve apostrofe ai giudici (v. 106) nella favola del falco e dell'usignolo. Così nella prima parte del poema Esiodo parla alternativamente alle due parti. Nella seconda parte questo non è più possibile, perchè non si tratta più di una questione di diritto, ma si danno precetti sul lavoro destinati propriamente al solo Perse; chè il lavoro varrà . a redimerlo dalla sua ingiustizia. 43) Opp. 219 ss. La città giusta, 225 ss.; la città ingiusta, 238 ss. ") Opp. 274. Qui al v. 276 v6µ.oç non significa ancora «legge» come più tardi. Cfr. WILAMOWITZ, Hesiods Erga 73. Quest'ultimo concetto è espresso piuttosto da òbt'IJ· Anche i più antichi filosofi ionici che scoprirono quella che noi chiamiamo« legge di natura», la chiamarono ÒLK'IJ, non v6ii.oç. La sottile distinzione di Esiodo fra la vita delle bestie e la vita degli uomini fu abbandonata più tardi al tempo dei Sofisti da chi metteva espressamente uomini e bestie allo stesso livello e li pensava soggetti alla medesima legge:« la lotta per la vita», la cui norma suprema è che la forza crea il diritto. Allora tutte le leggi apparvero come· unà convenzione artifìciàle, mentre la lotta degli animali tra loro fu detta cpucri::i ò!xcxiov. Cfr. pp. 557, 673, II 235.
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non si dovrebbe mai fare appello, secondo il convincimento d'Esiodo, al diritto del più forte, come fa invece lo sparviero di fronte all'usignolo. In tutta la prima parte del poema parla una fede nella divinità che pone l'idea del diritto al centro della vita. Questo elemento ideologico non è, s'intende, prodotto originale della semplice vita contadina arcaica. Nella forma in cui lo troviamo in Esiodo dev'essere estraneo in genere alla madrepatria greca; presuppone invece, al pari del tratto razionale che si afferma nel1'aspirazione sistematica della Teogonia, Le condizioni cittadine e il progredito sviluppo intellettuale della Ionia. La fonte più antica di tale pensiero è per noi Omero: in esso si trovano i primi elogi del diritto. Nell'Iliade l'idea del diritto si affaccia ancora meno che nell'Odissea, più vicina nel tempo ad Esiodo. Qui troviamo già l'idea che gli dèi sono garanti del diritto, che il loro governo del mondo non sarebbe veramente divino se non finisse per procurare vittoria al diritto. Questo postulato domina tutta quanta l'azione dell'Odissea. Anche nell'Iliade, in una famosa similitudine della Patroclia, si manifesta .già la credenza che Zeus mandi dal cielo tempesta tremenda quando in terra gli uomini violano il diritto 45). Tuttavia tali attestazioni isolate di un'idea etica della divinità e la stessa concezione che pervade l'Odissea sono ancora ben lungi dalla passione religiosa di un profeta del diritto quale è Esiodo, il quale, nella sua fede incrollabile nella tutela del diritto per parte di Zeus, da semplice figlio del popolo impegna la lotta col mondo circostante 46) II 384-393. Da notare che il concetto di Zeus come una forza etica che difende la giustizia, è espresso più chiaramente in questa similitudine che in qualsiasi altro punto dell'Iliade. È stato osservato da tempo che le similitudini di Omero, in contrasto con la narrativa eroica rigidamente stilizzatà, spesso xnostrano tracce della vita reale contemporanea al poeta.
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e, col suo pathos irresistibile, ci trascina ancora dopo millenni. Da Omero prende il contenuto della sua idea del diritto, e persino talune locuzioni caratteristiche, ma l'energia riformatrice con la quale egli vive quest'idea nella realtà, il suo predominio assoluto nella sua concezione del reggimento diVino e del significato del mondo annunciano un'età nuova: per essa l'idea del diritto diventa la radice dalla quale dovrà sorgere una società umana nuova e migliore L'identificazione della volontà divina di Zeus con l'idea del diritto e la creazione della nuova :figura divina della Dike, posta in sì stretta relazione con Zeus, il sommo dio 4 6 ), sono gli effetti immediati della forza religiosa e della serietà morale con la quale il contadino e l'abitante della città, ceti che ascendono, sentono l'esigenza, da loro accampata, della tutela del diritto. È impossibile ammettere che Esiodo, nel suo retroterra della Beozia, certamente arretrato rispetto allo sviluppo intellettuale d'oltremare, abbia ·per primo affacciato tale esigenza e ne abbia ricavato interamente da sé il pathos sociale. Egli non fece che sentirla con Ml) Cfr. Opp. 256-260. Strettamente connessa con la posizione centrale di Dike nel regno divino, è l'idea di Esiodo dei trentamila guardiani di Zeus che vegliano sul mantenimento della giustizia sulla terra, come una polizia celeste (Opp. 252). Questo realismo rende ancor più tangibile l'idea omerica di « Zeus che vede e ode ogni cosa». Il teologo Esiodo si interessa del problema di sapere chi sono gli spiriti immortali scelti da Zeus per questo serVizio. Egli dice nel mito delle cinque età del mondo che gli uomini dell'età dell'oro, che erano simili agli dèi anche durante il tempo della loro vita, dopo la morte diventarono cc demoni buoni» e rimasero sulla terra come guardiani degli uomini mortali (Opp. 122 ss.). C'è un notevole contrasto fra questo realismo religioso di Esiodo che crede alla giustizia divina e il concetto idealistico di Solone che pensa a Dike come un principio proprio del mondo sociale umano, che agisca automaticamente ed organicamente. Cfr. pp. 264-267. Dall'idea esiodea sui demoni guardiani si volse la posterioze demonologia dei· G-reci, che poi si fuse con la teoria degli angeli della religione cristiana. L'opinione di Esiodo è naturalmente l'antica credenza popolare negli spiriti interpretata da un punto di vista teologico e morale.
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particolare intensità nella lotta con quell'ambiente e se ne fece quindi banditore. Esiodo stesso narra negli Erga 47) come suo padre, da K yme, città eolica dell'Asia Minore, fosse emigrato, ridotto in miseria, nella Beozia, ed è da supporre che il senso di tristezza di questa nuova patria, che il figlio esprime anco1a con tanta amarezza, dal padre si trasmettesse a lui. La famiglia non si sentì mai del tutto a suo agio nel mise1·0 villaggio d'Ascra. Esiodo lo chiama« orribile l'inverno, insopportabile l'estate, mai piacevole»: nulla di più ovvio che egli, nella casa paterna, sin dalla giovinezza si abituasse a considerare con occhio volutamente critico anche le condizioni sociali della Beozia. L'idea della Dike fu da lui introdotta nel suo ambiente. Essa si annuncia già distintamente nella Teogonia 48). Evidentemente l'etica triade divina delle Horai: Dike, Eunomia ed Eirene, vi deve alla predilezione personale del poeta il suo posto accanto alle tre Moire e alle tre Cariti. Come, facendo la genealogia dei venti, Noto Borea e Zefìro, egli si diffonde a descrivere il danno eh' essi arrecano al navigante e all'agricoltore 49), così le dee del Diritto, del Buon_ Ordine e della Pace soµo lodate quali fautrici delle «opere degli uomini». Negli Erga Esiodo compenetra della sua idea del diritto tutta la vita e il pensiero della gente di campagna. Abbinando l'idea del diritto con quella del lavoro, egli è riuscito a creare negli Erga l'opera che sviluppa secondo un criterio dominante e rende educativamente efficace la forma spiritualt> e il contenuto reale della vita dei campi. Avremo ora a mostrarlo· in breve, esaminando la rimanente comeagine degli Erga.
47) Opp. 633 ss. 48) Theog. 902. 49) Theog. 869 ss.
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All'esortazione con la quale si chiude la prima parte, di rispettare il diritto e di astenersi una volta per sempre da ogni ingiustizia, Esiodo allaccia immediatamente una nuova apostrofe al fratello: quei versi famosi, che da millenni corrono di bocca in bocca, staccati dal contesto 60). Bastano essi a rendere Esiodo immortale. « Lascia ch'io ti consigli, Perse, fanciullone, secondo retta conoscenza». E qui la parola del poeta assume un tono di paterna superiorità, ma caldo e suasivo. « Alla miserabile condizione si può facilmente arrivare a schiere: liscia è la via, e ben vicina la sua dimora. Ma innanzi alla buona riuscita gli dèi immortali han posto il sudore. Lungo ed erto è il sentiero fin lassù, e dapprima aspro. Ma, giunto che tu sia in alto, facile riesce ad onta della fatica». Con « miserabile condizione» e « buona riuscita» non si rendono appieno i vocaboli greci xor:x6't""l)>·III 382385. 9 ) Studiosi moderni hanno messo in dubbio l'autenticità delle poesie di Tirteo basandosi sul fatto che esse contengono scarsi riferimenti alle condizioni del tempo. Così EDUARD ScHWARTZ nel suo articolo già menzionato Tyrtaios in« Hermes» XXXIV (1899) 428 ss. Cfr. anche VERRALL, « Cla~sical Review» XI (1897) 269 e XII (1898) 185 ss.; U. v. WILAMOWITz-MoELLENDOBFi'• Text,geschichte der griechischen Lyriker, in « Al>h. d. Gott. Ges. d. Wiss.» N. F. IV (1900) 97 ss. 10) Cfr. la trattazione di questo libro in « Paideia » III 289-296.
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siamo ricostruirla che per punti particolari, di sugli articoli dei lessici della tarda classicità, che si giovarono del ricco materiale di quella. Indubbiamente la sua tendenza, analogamente all'apprezzamento dello Stato spartano nel secondo libro della Politica aristotelica 11), era una critica sobrietà di giudizio, in contrasto con la consueta apoteosi di Sparta per parte dei filosofi. Senofonte, filospartano, conosce peraltro Sparta per intima esperienza personale, laddove Plutarco, preso dal medesimo fascino romantico, nella sua biografia di Licurgo non fa che contaminare a tavolino . fonti letterarie anteriori, di valore assai diverso. Nel valerci di tali testimonianze dobbiamo tener sempre presente che esse derivano già interamente dalla reazione, consapevole o meno, alla cultura moderna del IV secolo. Nelle condizioni arcaiche di Sparta, felicemente primitive, essi ravvisano spesso, anacronisticamente, il superamento di manchevolezze del proprio tempo e la soluzione di problemi che in realtà non esistevano ancora affatto per il « saggio Licurgo ». Soprattutto è ormai impossibile, al tempo di Senofonte e d' Agesilao, stabilire esattamente l'età delle istituzioni di Sparta. L'unica garanzia della loro antica origine sta nel famoso, tenace conservatorismo che fece dei Lacedemoni l'ideale di tutti gli aristocratici e valse loro l'abominazione dei democratici del mondo intero. Ma anche Sparta ebbe ad evolvere, e in tarda epoca vi si rilevano ancora innovazioni nell'educazione. Dalla Politica d'Aristotele deriva il giudizio che l'educazione spartana è un addestramento guerriero unilaterale. Biasimo già noto a Platone, che l'ha presente nel delineare, nelle Leggi, il suo quadro dello
ll) Arist. Pol. II 9.
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spirito dello Stato licurgico 12). Dobbiamo intendere tale critica secondo l'epoca in cui fu scritta. L'incontrastata egemonia di Sparta sulla Grecia dopo l'esito vittorioso della guerra peloponnesiaca fu annientata in capo a nemmeno sette lustri dalla catastrofe di Leuctra. L'ammirazione per la sua eunomia, che durava da secoli, ricevette un grave colpo. L'avversione dei Greci per gli oppressori era divenuta generale, dacché un'insaziabile bramosia di potenza si era impadronita di Sparta, sopraffacendone la patriarcale morigeratezza. Il danaro, un tempo quasi ignoto a Sparta, era affi.uito a fiumi nel paese, e gravi ammonitori avevano « scoperto» un antico oracolo, secondo il quale l'avidità di danaro, e null'altro, avrebbe perduto Sparta 13). In quest'epoca di politica espansionistica freddamente calcolatrice, alla maniera di Lisandro, in cui armosti lacedemoni imperavano dispotici nelle acropoli di quasi tutte le città greche e in cui era soffocata ogni libertà politica delle città autonome di nome, anche l'antica morigeratezza spartana appariva involontariamente sotto la luce dell'uso machiavellico che ne faceva la Sparta contemporanea. Noi conosciamo troppo poco la Sparta arcaica, per coglierne con sicurezza lo spirito. I recenti tentativi, in ispecie, di dimostrare creazione di un'epoca relativamente tarda la forma classica dello Stato spartano, il cosmo « licurgico », sono rimasti mere ipotesi. Karl 12) Arist. Pol. II 9, 1271 b I ss. Egli cita le Leggi di Platone 625c ss. per questa esposizione. Certo prende da Platone questa parte della sua critica; 13) L'oracolo &: q>LÀOXP'IJ[LOCT(CX :En&p-rcxv oÀd, dCÀÀo òl: oùòtv, era ricordato da Aristotele nella sua Costituzùme degli Spartani, perduta. V. V ALENTIN RosE, Aristotelis fragrnenta, n. 544. L'auten· ticità defforacolo è stata contestata da Eduard Meyer e altri studiosi moderni.
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Otfried Miiller, il geniale iniziatore della storia delle stirpi e delle città greche, tutto compreso egli stesso della grandezza etica della doricità, cui cercò di mettere bene in luce, contro il culto tradizionale d'Atene, ha inteso il carattere guerriero dell'antica Sparta in modo affatto diverso, e probabilmente a ragione, dal perdurare di una condizione antichissima della stirpe dorica, conservatasi nella Laconia, mercé circostanze speciali, dai giorni della migrazione e della prima conquista del paese sino a tarda epoca 14). La migrazione ·dorica, della quale si era sempre serbato preciso ricordo tra i Greci, fu l'ultimo degli scaglioni di genti, probabilmente d'origine medio-europea, penetrati in Grecia dal settentrione della penisola balcanica, dalla cui mescolanza con l'antica popolazione mediterranea, d'altra razza, ebbero origine i Greci dell'età storica. Il carattere proprio degl'immigrati si mantenne con la maggior purezza a Sparta. Dalla stirpe dorica Pindaro dovette derivare il suo ideale di quel tipo umàno biondo ed eletto, quale egli si raffigura non solo l'omerico Menelao, ma anche l'eroe nazionale, Achille, e addirittura tutti i «biondi Danai» dell'antichissima età eroica dell'ellenismo 15). Giova ad ogni modo prender le mosse dal fatto che gli Spartani non rappresentano che l'esile strato di dominatori, di tardiva sovrapposizione, della popolazione laconica; sotto di loro sta un ceto contadino libero e lavoratore, i Perieci, e gli Iloti, servi della gleba, la massa assoggettata, quasi priva di diritti. Le notizie
KABL OTFRIED MUELLER, Die Dorier (1824). Pmdaro, Nem. VII 28, !;ctv&òç MevéÀctoç, Nem. III 43 !;ctv· &òç 'AXLÀeoç, Nem. IX 17 !;ct'J&oxoµiiv Act\1&:6)\1 µéyLcr-roL Àcty1hctL. Anche Atena Nem. X 7 e le Grazie Nem. V 54, sono, nell'immaginazione di Pindaro, biondo-chiomate.
1') 1 5)
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più antiche ritraggono Sparta come un perpetuo accampamento guerriero. Tale carattere è determinato più dallo stato interno della comunità, che non da brama di conquista rivolta all'esterno. La duplice monarchia degli Eraclidi, politicamente impotente in tempi storici, che soltanto in campo riacquistava di volta in volta il proprio valore primitivo, è un rudimento dell'antica monarchia militare dell'epoca dell'immigrazione dorica, derivante forse da due diverse genti, i cui capi si erano parallelamente affermati. L'assemblea popolare spartana è ancora in tutto l'antica adunata dei guerrieri 16) : non vi si discute, ma si votano per si o no le proposte presentate dal Consiglio degli anziani. Questo ha il diritto di sciogliere l'assemblea e può ritirare le sue proposte quando la votazione abbia esito sfavorevole 17). L'eforato è la massima autorità dello Stato e riduce aJ minimo i poteri politici della monarchia. La sua istituzione rappresenta una soluzione media del dilemma del contrasto fra sovrano e popolo, poiché anche al popolo non concede che un minimo di diritti e mantiene il tradizionale carattere autoritario della vita pubblica. È - cosa signllìca-
16) La parola cr-rpix-r6i; che vuol dire « esercito» ha anche nei tempi più antichi (e in poesia spesso anche nel V sec.) il significato di «gente», «popolo», e in tal modo mantiene una traccia apprezzabile dell'origine di quel che noi chiamiamo «le libere istituzioni 11>: i diritti politici dei cittadini di un'antica polis originariamente derivavano dalla loro attività nella difesa della loro patria. Per decisioni di grande importanza lo cr-rpix-r6ç doveva essere consultato. V. i molti esempi di questo uso della parola cr-rpix-r6ç in Pindaro ed Eschilo. 17) Questo è lo stato delle cose presupposto nella retra (discorso) dei re Polidoro e Teopompo: oct 8è: crlotç. Se ciò è vero, quando si parla di una retra si deve pensare a qualcosa che originariamente non fu scritto. Ma il fatto che Plutarco ne cita qualcuna in dialetto Laconico, prova che qualche volta esse furono conservate per iscritto. Lo scrittore da cui Plutarco prende il testo delle retrai in Lyc. 6 le avrà trovate a Sparta.
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ticolare dell'esisten~a . .Pure, l'immagine del grande pedagogo politico Licurgo si basa sulla posteriore interpretazione idealizzatrice delle condizioni di Sparta, secondo la visuale dell'ideale educativo filosofico d'età posteriore 20). Dal raffronto coi deplorevoli fenomeni che accompagnavano la degenere democrazia attica più recente, il filosofo fu indotto a cercare nelle istituzioni spartane l'invenzione consapevole di un legislatore geniale. Nell'antica vita in comune degli uomini spartani nelle mense, nella loro organizzazione bellica per attendamenti, nell'eclissarsi della vita privata dietro la pubblica, nell'educazione statale della gioventù d'ambo i sessi, infine nella rigorosa separazione tra la popolazione agricola e artigiana dei « banausi » e il ceto, libero dei dominatori, che aveva agio di dedicarsi soltanto ai suoi doveri civici, agli esercizi guerreschi e alla caccia, si ravvisò la voluta attuazione d'un ideale d'educazione filosofico, quale è esposto da Platone nella sua Repubblica. In realtà Sparta, per Platone, come per altri ulteriori teorici della paideia, fu so~to più d'un rispetto il modello, per quanto egli l'animasse d'uno spirito affatto nuovo 21). Il grande problema sociale di ogni educazione ulteriore fu il superamento dell'individualismo e la formazione dell'uomo secondo una norma obbligatoria per tutti quanti. Lo Stato spartano, con la sua rigorosa autorità, si presentava come la so20 ) L'assenza cli leggi scritte è spiegata da Plutarco, Lyc. 13 ss., col fatto che l'educazione era fa cosa più importante a Sparta. La funzione della legislazione era stata presa del tutto dalla paideia: 't'Ò yd:p OÀO'I xod 7t'éi.'I Tijç 'loµo.&e:crlixç lpyo'I e:tç 't''Ì)'I 7t'IX~3dixv ·à:'lijtjie: (scilicet Licurgo). Plutarco certamente prese questa interpretazione del fatto storico da Platone, nella Repubblica. Cfr. « Paideia» II 408-410. 21) Per le relazioni di Platone con Sparta, cfr. « Paideia» III 378 ss. (La sua lunga discussione su questo soggetto si trova in Leggi, libri I-III).
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luzione pratica del problema. Sotto questo rispetto, appunto, occupò per tutta la vita la mente di Platone. Ma anche Plutarco, tutto pieno delle idee peda· gogicbe di Platone, si rifà sempre da questo punto 22 ). « L'educazione si estendeva sino agli adulti. Nessuno era libero né doveva vivere a suo talento, ma, come in un accampamento, ognuno nella città aveva il suo modo di vita rigorosamente determinato e la sua parte nei compiti dello Stato, e si aveva sempre coscienza di non appartenere a se stesso, bensì alla Patria». Altrove 23) egli scrive: « Licurgo avvezzò i cittadini in genere a non avere né il desiderio, né la capacità di vivere una vita propria, ma, come le api, sempre uniti alla comunità e raccolti intorno al sovrano, quasi liberati dal proprio io da entusiastica ambizione di appartener tutti soltanto alla Patria.» A considerarla secondo la cultura, tutta imbevuta d'individualismo, dell'Atene post-periclea, Sparta era in realtà un fenomeno difficile ad intendersi. Per quanto poco si ricavi d'interpretazione filosofica delle cose di Sparta dalle nostre fonti, pure i fatti, nell'insieme, sono bene osservati. Ciò che, veduto cQn gli occhi di Platone o di Senofonte, appariva opera di un unico genio pedagogico, conscio del suo programma e munito di autorità superiore, era in realtà il perdurare d'uno ·stadio più semplice ed antico della vita collettiva, con un vincolo etnico particolarmente tenace e un'individualizzazione scarsamente sviluppata. A produrre la forma spartana lavorarono secoli interi. Solo eccezionalmente conosciamo la parte avuta da una singola persona nel suo processo formativo. Così i nomi dei re Teopompo e Polidoro rimasero legati a certi muta'") Plut. Lyc. 24. 11) ib. 25.
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menti costituzionali 24). Non siamo più in grado di stabilire se il nome di Licurgo, della cui storicità non se:mbralecito duhita,re, fosse anch'esso legato in origine a determinati atti costituzionali, e perché più tardi gli sia poi stata attribuita l'intera creazione dello Stato spartano. Certo è soltanto che la tradizione della «Costituzione di Licurgo » è derivata 25 ). Tale tradizione risale ad un'epoca che ravvisava nel mondo spartano un sistema di coerenza consapevole e per la quale valeva senz'altro a priori che ragione suprema dello Stato è la paideia, cioè un organamento dottrinalmente sistematico della vita di tutti gl'individui secondo norme assolute. Non si cessa d'insistere sulla sanzione delfica della « Costituzione di Licurgo », in contrapposto alla legge meramente umana della democrazia e alla sua relatività. Ciò va inteso secondo la tendenza delle nostre fonti a dimostrare che la disciplina spartana è l'educazione ideale. La possibilità dell'educazione, per tutto il IV secolo, dipendeva in ultima analisi dal problema di giungere ad una norma assoluta della condotta umana. E in Sparta questo problema si trovava risolto, ché quell'ordinameato si fondava su una base religiosa: era stato approvato o raccomandato dal dio stesso di Delfo. L'intera nostra tradizione circa Sparta e la Costituzione di Licurgo risulta così formata in modo unitario secondo lo spirito d'una posteriore teoria dello Stato e dell'edu-
24) V. sopra nn. 17 e 18. 21>) Questa tradizione si incontra per la prima volta nella letteratura greca conservata in Erodoto I 65-66, dove la famosa ,ennomia spartana e tutto il cosmos degli Spartiati è attribuito a Licnrgo che appare come un personaggio storico contemporaneo del re Leobote. Erodoto ricorda che Licnrgo dopo la morte fu venerato come nn dio a Sparta e che gli fu dedicato un tempio ancora esistente ai tempi dello scrittore. Cfr. V. EHRENBERG, Neugrundtrr des Staates (Monaco 1925) 28-54.
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cazione, e risulta in tal senso antistorica. Il giusto criterio per comprenderla si ha soltanto tenendo presente che essa sorse nell'epoca del fiorire della speculazione greca intorno all'essenza e ai fondamenti della paideia. Senza l'interesse vivissimo che tale corrente pedagogica provò per Sparta, noi non ne sapremmo nulla addirittura. Tutta la sua sopravvivenza nella storia, come pure la conservazione dei carmi di Tirteo, si basa soltanto sull'importanza che conservò stabilmente I ' i d e a d i Sparta, quale elemento indispensabile dell'edificio della paideia della Grecia più recente 26). Che resta, se eliminiamo la vernice filosofica sovrapposta, come quadro storico ? L'ideale presentato da Senofonte comprende tanti fatti direttamente osservati, che, anche toltane l'interpretazione storica e pedagogica ch'egli ne dà, si ricava un quadro evidentissimo della Sparta reale del tempo suo e del suo Stato educatore guerriero,· unico in Grecia. Ma il periodo di formazione di quella~ Sparta è avvolto nell'oscurità, se non può intendersi come sistema unitario, frutto della sapienza legislatrice di Licurgo. La critica moderna, anzi, ha pe.rsino messa in dubbio l'esistenza di Licurgo. Ma anche s'egli visse ed è l'autore della cosiddetta grande rhetra, già nota a Tirteo nel VII secolo, ciò non dimostrerebbe ancora nulla quanto all'origine del sistema d'educazione spar26) Più esattamente parlando, la tradizione su Licurgo può essere riportata a due periodi di1ferenti della storia spirituale di Grecia. Ebbe origine nel tempo in cui sorse la speculazione razionale intorno alla miglior forma dello Stato (e:òvoµlix), cioè nel VI-V sec. E questa speculazione ha lasciato traccia in Erodoto I 65 ss. Il secondo impulso venne dalla discussione pedagogica e filosofica durante e dopo la guerra Peloponnesiaca: questa fase è rappreseptata da uomini . come Crizia, Platone e Senofonte. La prima fase affermò l'origine e la legittimazione religiosa (Delfica) del cosmo spartano; la seconda svolse la struttura pedagogica implicita nel sistema spartano.
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tano quale è descritto da Senofonte. La partecipazione dell'intera cittadinanza spartana all'educazione militare ne fa una sorta di casta aristocratica, e anche molti tratti di tale educazione rammentano l'educazione dell'aristocrazia nella Grecia arcaica. Ma l'averla estesa ai non nobili dimostra che si è avuta qui un'evoluzione, la quale ha trasformato in questo senso la signoria nobiliare, che originariamente dobbiamo presupporre anche in Sparta. Un pacifico dominio dell'aristocrazia, come in altri Stati greci, non bastava a Sparta, dacché, con l'assoggettamento dei Messeni, occorreva tener soggetto a forza tutto. un popolo amante della libertà, che nemmeno nel corso di secoli poté assuefarsi alla servitù. Ciò non era possibile se non facendo dell'intera cittadinanza spartiate una classe di dominatori armati, libera da ogni attività professionale. Il fondamento di quest'evoluzione dovette esser posto durante le guerre del secolo VII, e la contemporanea insistenza del demos per ottenere maggiori diritti, che troviamo in Tirteo, dovette assecondarla. I diritti civili rimasero semp~e legati, in Sparta, alla qualità di ·guerriero del cittadino. Tirteo ci dà la prima testimC!nianza dell'ideale politicomilitare che trovò poi la sua realizzazione nell'insieme dell'educazione spartana. Ma egli stesso non avrà pensato che alla guerra. I suoi carmi mostrano chiaramente ch'egli non presuppone ancora compiuta la disciplina spartana quale è nota all'epoca ulteriore, ma ch'essa è in divenire 27).
21) Sui principali caratteri dell' agoghé, il sistema educativo spartano, n~Ìla descrizione di Senofonte, v. « Paideia » III 295 s. Non è necessario trattarne qui, perché esso rappresenta piuttosto l'ideale del movimento pedagogico filo-laconico del IV sec., che la realtà storica della Sparta del VII sec., anche se alcuni studiosi vorrebbero riportarne i lineamenti al principio della storia spartana. della quale invece è il prodotto finale.
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Anche per le guerre messeniche stesse, Tirteo è la nostra unica fonte, giacché la tradizione degli storici ellenistici posteriori è risultata, alla critica recente, affatto o precipuamente romanzesca. L'occasione della sua attività poetica fu data dalla grande insurrezione dei Messeni, assoggettati una prima volta tre generazioni prima 28). «Diciannove anni combatterono continuamente implacabili, con cuore costante, i padri dei nostri padri, armati di lance; ed ecco, nel ventesimo anno, i nemici abbandonarono i loro pingui campi e fuggirono dagli alti monti d'Itome ». Tirteo menziona anche l'antico Teopompo, «il nostro re caro agli dèi, cui dobbiamo la conquista della Messenia». Egli era frattanto diventato eroe nazionale. Togliamo queste parole dalle citazioni del poeta, tramandateci dagli storiografi posteriori 29). In un altro di questi frammenti è descritta in modo realistico la servitù dei· vinti. Il loro territorio, del quale Tirteo dipinge più volte la feracità, era stato spartito tra proprietari spartani; gli spossessati, sotto questi, da servi della gleba, conducevano una misera vita. « Come gli asini si travagliano sotto gravi some, così essi, sotto il dploroso impero della costrizione, recavano in tributo ai loro domina-
28) EDUARD ScawARTZ, Tyrtaws in« Hermes» XXXIV (1899) rifiutava non solo l'autenticità delle poesie di Tirteo, ma anche le notizie storiche che intorno alla guerra Messenica erano fornite da tardi autori ellenistici, come il poeta epico Riano di Bene in Creta e il retore Mirone di Priene (le opere perdute di ambedue furono usate come fonti da Pausania nel IV libro della sua Periegesis ). Dopo che io avevo ristabilito l'autenticità dei carmi di Tirteo nel mio saggio Tyrtaios, Ueber die wahre Areté (« Sitz. Berl. Akad.» 1932) un dotto che avevo avuto tra i miei studenti, ha dato una nuova analisi della tradizione storica ellenistica e ha difeso con successo contro l'ipercriticismo di Eduard Schwartz la realtà storica delle guerre Messeniche. Cfr. JuRGEN KROYMANN, Sparta und Messenien (in« Neue Philologische Untersuchungen», hrsg. v. Werner Jaeger, Heft XI, Berlino 1937). 29) Tyrt. fr. 4.
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tori la metà dell'intero raccolto dei propri campi». « Quando poi uno dei signori veniva a morte, essi per giunta erano obbligati a partecipare con le loro donne, levando lamenti, al funerale » 30). Tali ricordi dello stato di cose precedente l'odierna insurrezione dei Messeni dovevano stimolare il coraggio dell'esercito spartano, all'idea della passata vittoria, ma ad un tempo atterrirlo con la rappresentazione della servitù che l'attendeva se ora restavano vincitori i nemici che tanto avevano dovuto patire. Uno dei carmi conservati per intero 31) così cominciava: «Siete pure i discendenti dell'invitto Eracle - coraggio, dunque; Zeus non ha ancora rivolto da noi malevolo il collo. Non temete la forza dei nemici e non fuggite ! Ben conoscete lopera del luttuoso Ares e siete esperti della guerra, foste testimoni e della fuga e dell'inseguimento». Si rincora qui un esercito sconfitto e scoraggiato, e infatti l'antica leggenda ravvisava in Tirteo il capo inviato agli Spartani, salvatore nel pericolo, da Apollo delfico 32). Si credette per un pezzo, fidandosi della tradizione classica ulteriore, ch'egli fosse un capitano; sinché non venne a smentirlo un papiro scoperto di recente, con ampie reliquie d'un nuovo carme di Tirteo, nel quale il poeta, parlando in prima persona plurale, esorta ad obbedire al capo 33). È un lungo componimento
Tyrt. fr. 5. Tyrt. fr. 8. ' 2 ) PI. Legg. 629a con gli scolli ad loc. (p. 301 Greene) e Filocoro e Callistene ap. Strah. 362. 33) Tirteo era stato, a quel che si diceva, un generale spartano ( cnpoc-.7Jy6i;), cfr. Strah. 362. Alcuni studiosi moderni hanno accettato questa cosiddetta tradizione, sebbene essa i..on abbia altro fondamento se non la leggenda secondo la quale egli fu mandato agli Spartani dagli Ateniesi come capo per la seconda guerra Messenica. In tempi antichi Filocoro e Callistene ricordavano questa storia (Strab. loc. cit.), ma anche Strabone rimandava i suoi letiori all'Eunomia di Tirteo. Qui (fr. 2) egli dice della nazione 80)
31 )
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poetico, tutto al futuro: la visione, anticipata dalla fantasia del poeta, di un'imminente lotta decisiva, nello stile d'una descrizione di battaglia omerica. Si citano i nomi delle antiche phylai spartane degl'Illei, Dimani e Pamfili, che evidentemente vigevano ancora nell' ordinamento delle milizie, ma furono. più tardi eliminate e sostituite da una nuova ripartizione; si parla inoltre della lotta intorno ad una muraglia ed una fossa: trattasi a quanto pare d'un assedio. Del resto non si possono ricavare dalle poesie dati storici concreti, e già gli antichi, evidentemente, non vi trovarono maggiori allusioni d'indole storica 34).
L'esortazione di Tirteo all'areté. - Nelle elegie di Tirteo si eterna la volontà politica che fece grande Sparta. L'essersi essa creata la sua figura spirituale nella poesia, è la miglior prova della sua forza idealizzatrice; che opera ben oltre la durata storica dello Stato spartano, né è spenta sino ad oggi. ·Per quanto vi sia di singolare e temporalmente limitato nei particolari della vita spartana quale la conosciamo più tardi, L'idea di Sparta, che riempie di !Jé tutta l'esistenza dei suoi cittadini e cui tutto tende. in questo Stato con ferrea coerenza, è qualche cosa d'imperituro, Spartana: « noi venimmo a questa contrada da Erineo, quando per la prima volta prendemmo possesso di lei ». Strabone giustamente ne trae che Tirteo doveva essere Spartano di nascita, ma stranamente tien fede all'altra parte della tradizione leggendaria, cioè che egli era un capo degli Spartani durante le guerre Messeniche, anche se non era stato mandato a 11,1ro dagli Ateniesi. Ora, ciò è dimostrato falso dal passo, citato nel testo, della nuova elegia trovata in un papiro. che è ora il &. I nell'antologia del
Die hl. 34) È stato detto a n. 9 che la mancanza di allusioni ~toriche rese sospetti i carmi di Tirteo agli occhi di molti critici moderni, come Schwartz e Wilamowitz. Ma la nuova elegia fr. I prova che allusioni di tal genere, anche se esse non possono aver gran parte in questo genere di esortazione poetica, non sono del tutto assenti.
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perché ha fondamento profondo nell'umana natura. Essa conserva la sua verità e il suo valore anche quando il suo incarnarsi esclusi~o in tutto il tipo di vita di questo popolo appare ai posteri unilaterale. Tale sembrava già a Platone la concezione spartana dell'uomocittadino, della sua missione ed educazione; ma egli stesso ravvisava nell'idea politica, quale la trovava eternata nei versi di Tirteo, uno dei fondamenti duraturi d'ogni civiltà politica 35). Né egli è isolato in tale apprezzamento, anzi non fa che esprimere lo stato dell' opinione preesistente. Non ostante ogni riserva riguardo alla Sparta reale di quell'epoca e alla sua politica, giova riconoscere che tale era sin d'allora lapprezzamento dell'idea spartana tra i Greci tutti 36). Certo, non tutti come i fi.lospartani, che non mancavano in nessuna città, _ravvisavano un ideale assoluto nello Stato di Licurgo; ma, dato il posto che Platone accorda a Tirteo nel proprio organamento della cultura, esso poté diventare patrimonio comune e permanente di ogni ulteriore civiltà.. Platone è il grande ordinatore del patrimonio spirituale della nazione, nella cui sintesi le forze storiche della vita spirituale greca dovevano oggettivarsi, assumendo la giusta situazione reciproca. Una volta compiuta tale sistemazione, nulla d'essenziale vi fu più mutato. Nella civiltà classica ulterio:i;e e presso la posterità, Sparta mantenne il posto assegnatole nella cultura greca 37). L'elegia di Tirteo è impregnata d'un grandioso Cfr. PL Legg. 629a-630e e 660e-66la. 36) Cfr. pp. 190-191 e note. 37) Questa ammirazione per il valore spartano nelle poesie di Tirteo non deve confondersi con il filo-laconismo della reazione politicà dei secoli posteriori. Lo spirito di Leonida, che morì coi suoi Spartani alle Termopili per la libertà della Grecia, quando gli eserciti delle altre città avevano abbandonato il posto, rimane il monumento più autentico di questo ideale. 86)
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ethos educativo. L'entità di quanto vi si esige dallo spirito di solidarietà e di sacrificio del cittadino, è, sì, giustificata dal momento speciale in cui il poeta affaccia tali esigenze, cioè dal grave pericolo in cui versava Sparta nelle guerre Messeniche; ma i carmi di Tirteo non sarebbero stati considerati, sino ad epoca remota, le più venerande testimonianze del civismo spartano, se in essi non si fosse trovata l'espressione eterna, per eccellenza, dello spirito di Sparta. Le norme poste in essi al pensiero e all'azione del singolo non sorgono da una momentanea esaltazione delle esigenze dello Stato, conseguenza inevitabile della guerra, ma sono diventate fondamento dell'intero mondo spartano. Non si trova, in tutta la poesia greca, altro caso in cui altrettanto evidente sia l'immediata derivazione della creazione poetica dalla vita della reale comunità sociale. Tirteo non è un'individualità poetica nel senso nostro. È il portavoce della collettività, proclama quanto è intima certezza di tutti i cittadini che pensano rettamente. E perciò il poeta parla anche spesso al plurale: combattiamo, moriamo ! Ma anche là dove dice « io», non è il suo Io soggettivo, che, conscio del proprio valore artistico o personale, si valga della libertà di parola; non è nemmeno l'Io di un comandante, come spesso si ritenne sin dall'antichità {facendo di Tirteo un capitano) 38): è l'Io universale della« pubblica voce della Patria», di cui ebbe a parlare Demostene 39). I suoi giudizi circa ciò che sia « onorevole» o « vergognoso» attingono dalla viva coscienza della collettività, cui si rivolgono le sue parole, quell'impeto e queU'ineluttabile necessità che il mero pathos personale dell'oratore non può mai conferir loro. Se lo stretto 38) V. n. 32. H) Demosth. Cor. 11a
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vincolo del cittadino con la città, anche in uno Stato come lo spartano, restava in tempo di pace piuttosto latente per la coscienza media, l'idea della collettività si affacciava poi ad un tratto, con forza prepotente, nell'ora del sommo pericolo. La ferrea struttura dello Stato spartano non si foggiò definitivamente che attraverso la dura vicenda delle lotte che allora incominciavano, e dureranno decenni. In quella grave ora occorreva non solo una risoluta direzione militare e politica, ma anche l'espressione intellettuale, di validità universale, dei nuovi valori umani fomentati dal fatto della guerra. Banditore dell' areté fu mai sempre il poeta, e questo si levò nella persona di Tirteo. La leggenda lo vuole inviato da Apollo 40). Non v'è espressione più acconcia del fatto misterioso che nell'ora del pericolo, quando ve n'è bisogno, il capo spirituale, ad un tratto, si affaccia realmente. Egli dà per la prima volta piena figura poetica alla nuova sorta di areté civica, che il momento esige. Sotto il rispetto formale l'elegia di Tirteo non è creazione del tutto autonoma. Gli elementi della sua forma, per lo meno, erano dati al poeta. La forma me· trica del distico elegiaco è indubbiamente anteriore. Le origini ne sono a noi oscure e tali erano già per i filologi dell'antichità 41). Essa si riconnette al verso del· Cfr. p. 173. U) Aristotele, che parla dell'origine della tragedia e della commedia, non dà una teoria sua sull'origine dell'elegia nella Poetica. Questa lacuna fu sentita, com'era naturale, nella· scuola aristotelica della generazione seguente, ma non fu raggiunto l'accordo fra gli studiosi, come dice Orazio (Ars Poetica 77), seguendo come fonte il peripatetico Neottolemo di Pario, secondo la testimonianza di Porfirione. Questo stato di incertezza è confermato dalla tradizione sull'inventore dell'elegia contenuta in testimo· nianze scarse e frammentarie dei più tardi grammatici antichi. Qualcuno parla di Tirteo o Callino, altri di Archiloco o Mimnermo, e tutto fa pensare alla mancanza di una conoscenza reale. 40)
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l'epos eroico e, come questo, era allora atta ad accogliere qualsiasi contenuto. L'elegia non ha dunque una forma «interiore», a quel modo che immaginavano i grammatici dell'antichità 42), i quali volevano far risalire tutte le specie d'elegia ad una radice unica, il « lamento», movendo dall'ulteriore evoluzione letteraria del genere e da un'errata etimologia. Di fisso la forma dell'elegia ha, oltre al metro, che nei tempi più antichi non si distiÌlgueva da quello dell'epos nemmeno con un vocabolo speciale, un solo elemento: l'apostrofe, sia rivolta ad una persona singola, sia a parecchie. Essa è l'espressione d'una intima comunione della persona apostrofata con chi parla, ed è essenziale per l'elegia. Nel caso di Tirteo sono i cittadini in complesso, o la gioventù virile, cui il poeta si rivolge. Anche nel carme che incomincia in tono apparentemente piuttosto riflessivo (fr. 9), il pensiero si appunta alla fine in forma di comando, rivolto a tutti i membri di un'associazione, qui come sempre non precisata, ··ma data per nota 43). Nell'apostrofe esortativa si esprime chiaramente il carattere educativo dell'elegia. Questa lo ha in comune con l'epos, solo che nell'elegia, come n6lla poesia didascalica degli Erga esiodèi, esso diviene azione parenetica consapevole e diretta su un determinato ascoltatore. Il contenuto mitico dell'epos si svolge in un mondo ideale; l'apostrofe dell'elegia a persone reali ci trasporta nell'ambiente reale. del poeta. Ma, se anche il suo contenuto è tolto dalla vita de· gli uomini cui si rivolge, lo stile dell'espressione poe42) Una raccolta delle più importanti testimonianze degli antichi grammatici sull'elegia come genere poetico e sulle sue origini si trova in J. M. EDMONDS, Greek Elegy and Jambus vol. I («Loeb Classica! Library»). Cfr. l'art.« Elegie~ in Pauly-Wissowa, Realencyclopaedie V 2260, del CRusrus; C. M. BOWRA. Early Greek Elegists (Cambridge [Mass.] 1938). 43) V. l'interpretazione di questa elegia a p. 180 ss.
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tica è peraltro stabilito una volta per sempre dall'epos omerico, sicché anche la materia contemporanea si riveste, per il poeta, del linguaggio dell'epos. Questo risponde alla materia di Tirteo assai più che a quella d'Esiodo, il quale si trovava nella medesima situazione rispetto all'epos: che vi è infatti di più affine all'epos, che lotte sanguinose ed eroismo guerriero ? Così Tirteo non solo poté togliere da Omero il materiale linguistico, parole singole e locuzioni, a volte anzi interi emistichi, ma nelle descrizioni di battaglie dell'Iliade egli trovava inoltre già preformato il modello di discorsi interi, atti a spronare una schiera di guerrieri al supremo ardimento e alla resistenza tenace nel pericolo«). Bastava staccare tali parentesi dallo sfondo mitico che avevano nell'epos, trasportandole nel vivo presente. Già nell'epos le allocuzioni battagliere avevano una intensa efficacia incitatoria. Omero sembrava rivolgersi con esse non solo ai personaggi epici apostrofati, ma direttamente allo stesso ascoltatore; così sentirono, ad ogni modo, gli Spartani. Bastava che l'ethos possente, che vi spira, scendesse dalla scena ideale d'Omero nella realtà guerriera dell'epoca delle guerre Messeniche, ed ecco creata l'elegia di Tirteo. Tale processo spirituale ci riesce tanto più comprensibile, se leggiamo Omero, come si faceva ai tempi di Tirteo e d'Esiodo, soprattutto quale educatore contemporaneo e non solo narratore del passato 45). Tirteo, con le sue elegie, si sentiva indubbiamente 44) Cfr. FELIX JACOBY, Studien zu den iilteren griechischen Elegikern in « Hermes» LIII (1918) p. 1 ss. U) L'opera epico-didascalica di Esiodo e il carattere ortatorio dei più antichi poeti elegiaci provano senza alcun dubbio che l'impressione che l'epica omerica faceva sulla mente degli udi· tori doveva essere in grande misura didascalica. Gli inventori del nuovo genere cercarono di dare una forma più efficace e diretta alla forza di persuasione dell'epos.
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un vero Omerida. Ma ciò che conferisce a questi discorsi alla nazione spartana la loro grandezza propria, non è l'imitazione più o meno congeniale del modello omerico, sia nel complesso, sia nei particolari, bensì l'energia spirituale con la quale si compie la trasposizione delle forme e contenuti dell'arte epica nel mondo contemporaneo. Se anche poco s_embra dapprima resti a Tirteo di sua proprietà spirituale, a togliere dai suoi carmi tutte le eredità omeriche in fatto di lingua, verso e idee, pure il suo diritto al riconoscimento d'una vera originalità aumenta non appena intendiamo, mercé il nostro criterio di giudizio, come egli ponga sempre, dietro le forme tradizionali e dietro gli antichissimi ideali eroici, un'autorità etico-politica del tutto nuova, che li ricrea: l'idea della collettività della polis, che regge i singoli tutti e per la quale tutti vivono e muoiono. L'ideale omerico dell'areté eroica è riplasmato nell'eroismo dell'amor patrio, e il poeta compenetra di questo spirito l'intera cittadinanza 46). Ciò ch'egli· vuol creare è un popolo, uno Stato intero d'eroi. Bella è la morte, quando un uomo l'incontri da eroe 47) ; e da eroe l'incontra morendo per la Patria. Solo questo pensiero conferisce alla sua fine il significato ideale di sacrificio di se stesso per un bene superiore 48). Questo nuovo valore dell'areté si manifesta nel modo più chiaro nel terzo carme pervenutoci 49). Sino a poco fa, per svariate ragioni formali, si soleva considerarlo 46) Ettore, l'eroe troiano, il valoroso difensore della sua città, è fra tutti i caratteri ome:rici il più vicino a questo ideale. Cfr. i famosi vv. (M 243) dç o!Cs>vÒç &pLa-roc; &v-uvsa.&cxL 7tx~oT1Jç significa l'opposto di 7toÀ(T1)ç anche se lo stesso individuo è contemporaneamente una persona privata e un membro della comunità politica (-roc t81oc opposto a -roc 81)µ6cnoc). Il contrasto è più intenso quando l't8LÙ>T1J>. La gioventù appare qui sorgente di tutte le illusioni esagerate e di tutte le imprese eccessive, perché le manca ancora la saggezza omerica, la quale riflette quanto corta sia la vita. Singolare e nuovo suona il corollario che il poeta trae 66) Hes. Opp. 58. Un'altra reminiscenza di Esiodo in fr. 29, Opp. 40. 67 ) Fr. 9. L'attribuzione di questo carme a Semonide, sostenuta dal Berckg, è uno dei più sicuri resultati della ricerca filologica. Stobeo lo riporta col nome del più famoso Simonide di Ceo. 68) È questo un bell'esempio di quell'adattamento di pensiero e forma omerica per opera di poeti lirici di cui si è parlato a p. 226. Cfr. n. 6 e 41.
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da questo principio, la esortazione a godere per tempo quanto di gradevole offre la vita. Questo non c'era in Omero 59 ). È la parola d'ordine d'una generazione per la quale le elevate esigenze dell'epoca eroica molto hanno perduto della loro profonda se~ietà e che perciò sceglie, tra gfinsegnamenti del passato, ciò che meglio corrisponde alla propria concezione della vita. Ed era il lamento della brevità della vita umana. Traspor· tata dal mondo del mito eroico all'ambiente del poeta, che sentiva in modo più vicino alla: natura, questa nozione, anziché un eroismo tragico, deve di neces· sità produrre un'ardente sete di vita 60). Quanto più severamente la polis piegava la vita dei cittadini alla costrizione della legge, tanto più neces· sariamente il « bios politico» chiedeva in compenso un allentamento delle redini nella sfera della vita privata. È quanto Pericle 61), nel suo quadro ideale dello Stato ateniese, contenuto nell'elogio funebre, presenterà poi quale divario tra la libera umanità attica:· e i troppo rigidi vincoli spartani: «Noi non prendiamo in mala parte se il nostro prossimo si concede a volte uno spasso per conto suo, e non glielo facciamo scontare amaramente facendogli il viso dell'armi». Questa libertà di mosse è il margine necessario, lasciato al sin· golo dalla legge della polis, che tutti vincola, ed è anche troppo umano che l'impulso ad estendere il campo 59 ) L'Achille di Omero dal fatto che la sua vita sarà più breve di quella degli altri mortali, conclude non già che egli dovrebbe cercar di goderne più intensamente i piaceri, ma che l'onore è il solo compenso che gli può essere offerto per il suo eroico sacrificio. 60) È anche interessante l'uso della parola ljiux-fi nella frase (Sem. fr. 29, 13): ljiux?i -.&v &yoc&&v -rÀlj3't xocpt1;;6µe:voç, dove essa indica evidentemente l'anima individuale e i suoi desideri. Un uso simile si trova in Xen. Cyr. 1, 3, 18 dove la madre di Ciro dice al ragazzo che suo padre era un libero persiano uso a seguire la legge e non la sua «anima». •1) Thuc. II 37, 2.
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dell'esistenza individuale si presenti in quell'epoca, per il volgo, quale esigenza d'un più intenso e consapevole godimento della vita per parte del singolo. Ciò non è vero individualismo; non mette capo al conflitto con le potenze superindividuali 62). Ma entro le loro barriere si espande e si estende sensibilmente la sfera del bisogno personale di felicità. La parte spettante a ciascuno pesa ora di più sulla bilancia della vita. Nella cultura attica dell'età di Pericle, tale delimitazione delle due sfere della vita è fondamentalmente accettata dallo Stato e dall'opinione pubblica; ma questo riconoscimento ha dovuto conquistarselo, e questo passo fu fatto nella Ionia. I vi sorge per la prima volta una poesia edonistica, che proclama con appassionata insistenza la legittimità del desiderio di felicità e bellezza sensibile e la vanità d'una vita priva affatto di tali beni. Come Semonide d' Amorgo, così Mimnermo da Colofone si presenta nelle sue elegie quale maestro del pieno godimento della vita. Ciò che in Archiloco sembra piuttosto sfogo occasionale d'una natura vigorosa e stato d'animo personale e momentaneo, appare nei suoi due successori la suprema saggezza: diviene una rivendicazione generale, l'ideale anzi d'una vita cui essi vogliono guidare gli uomini. Senza l'aurea Afrodite non c'è vita, non godimento ! Piuttosto la morte esclama Mimnermo se non dovessi più allietarmene 63). Nulla sarebbe più errato, che raffigurarci un poeta quale Mimnermo di Semonide possediamo saggi troppo scarsi per formarci un'immagine compiuta della sua personalità - come un gaudente de80) Il conflitto con le norme sape:rindividuali si produce solamente quando si fa del piacere la base del sistema di vita e attività umana. Questo fecero più tardi i Sofisti. V. pp. 246-247. 63) Mimn. fr. 1 (Diehl).
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cadente. Tra le sue poesie, alcune fanno risuonare una nota spiccatamente politica e guerriera, attestando, in versi omerici di particolar vigoria, tradizione e sensi cavallereschi 64). Ma che la poesia includa nei propri limiti la sfera del godimento personale della vita, è cosa nuova e cospicua per la cultura umana. Come la crescente sofferenza dell'uomo per la sua dipendenza dal destino, dai « doni di Zeus», che non si possono se non accogliere ·secondo che tocca in sorte a ciascuno 65), cosi pure il lamento per la brevità della vita e per la fugacità del godimento sensuale, sempre più alto nella poesia post-omerica, dimostra che si vengono sempre più considerando le cose tutte sotto il rispetto del diritto dell'individuo alla vita. Ma quanto più si aprono le porte alle esigenze della natura, quanto più volenterosi ci si tuffa nel proprio piacere, tanto più profonda rassegnazione deve afferrare l'uomo. Morte, vecchiaia, malattia, sfortuna, e quant'altr? lo insidia, si fanno minacce gigantesche, e chi cerca sottrarsi loro col godimento momentaneo, ne porta tuttavia la spina sempre confitta nel cuore 66). Nella storia delle idee, la poesia edonistica rappresenta uno dei momenti più importanti dello sviluppo della grecità. Basta ricordare come, al pensiero greco, il problema dell'individuo nell'etica e aella struttura dello Stato si sia sempre presentato nel senso che il motivo del piacevole (~M) cerca di prendere il sopravvento sull'eletto (xocMv). Nella sofistica s.coppia il conflitto aperto di questi due moventi d'ogni azione umana 67), e la filosofia di Platone culmina nel supera") Fr. 12-14. 86) Tutto ciò che è dato all'uomo nella vita viene da Zelli! e dagli dèi e deve essere accettato. Cfr. Archil. fr. 8, 58, 68; Sem. fr. 1, 1 88.; SoL fr. 1, 64; Theogn. vv. 134, 142, 157 ecc. 66) Cfr. Mimn. fr. 2, 5, 6. 11) Cfr. p. 559.
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mento della pretesa del pia.cere ad essere il bene supremo della vita umana 68 ). Per portare al parossismo i contrasti come avvenne nel sec. V, per superarli come si cercò di fare nella filosofia attica da Socrate a Platone, e per condurli infine all'armonia, come voleva l'ideale aristotelico della personalità umana 69), era necessario che l'umana sete .di una piena gioia di vivere e di un godimento com;apevole ottenesse prima la sna conferma in linea di massima di contro all'esigenza del xocJ..6v, quale è rappresentata dall'epos e dall'elegia arcaica. Ciò ha luogo nella poesia ionica da Archiloco in poi. Il significato dell'evoluzione spirituale che vi si compie è indubitabilmente centrifugo. Essa libera le forze e allenta l'impalcatura sociale della polis di tanto almeno, quanto contribui al suo consolidamento con l'istituire l'impero della legge. Per portare alla discussione e all'accettazione pubbliche tali esigenze, occorreva la forma ammaestrativa della riflessione, che è propria dell'elegia e del giambo post-archilochèi. L'edonismo non vi si presenta quale casuale tendenza individuale del singolo; i poeti motivano invecè in principij generali il « diritto» dell'individuo al godimento della vita. Ad ogni passo Semonide e Mimnermo ci rammentano che siamo all'epoca in cui s'inizia la considerazione razionale della natura ed in cui sorge la filosofi.a della natura milesia. Il pensiero non si arresta dinanzi ai problemi della vita umana, come potrebbe sembrare dalla trattazione tradizionale che questo periodo riceve nella storia della filosofia, la quale per lo più si limita al lato cosmologico 70). Il 68) Cfr. « Paideia » II 200-205, 242-244, 610-617. Le conclusioni definitive di Aristotele sul posto che la ljtìovfi occupa nella formazione della personalità umana e sulle sue relazioni con l'} uno stato ideale che unisca un ordine ideale con un alto livello di libertà spirituale per l'individuo. 4)
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Il primo rappresentante di tale carattere schietta· mente attico è Solone, che ne è ad un tempo il più eletto creatore. Che se anche un popolo intero era qui predestinato dal suo spirito armonico a compiere l'ec· cezionale, decisivo fu tuttavia, per l'ulteriore sviluppo, il fatto che sin dagl'inizi esso trovasse la personalità capace di dar forma a tale attitudine. La storiografia politica suole giudicare i personaggi storici dal loro successo tangibile; essa apprezza quindi Solone soprattutto secondo l'aspetto politico concreto della sua opera costituzionale, la Seisactìa 6). Per la storia della cultura greca importa anzitutto ciò ch'egli, quale maestro politico, rappresentò per il suo popolo ben oltre la durata della propria influenza sulla storia contemporanea, ed è appunto questo che gli conferisce importanza pe· renne per la posterità. Così si affaccia per noi in primo piano Solone poeta. È questi, che ci rivela i moventi della sua opera politica, i quali, per la grandezza della loro inspirazione etica, si sollevano ben - al disopra del livello della politica di parte. Abbiamo già parlato dell'importanza della legislazione per la formazione dell'uomo politico nuovo 7) : le poesie di Solonft ne costituì• scono .l'illustrazione più chiara. Esse hanno per noi anche il pregio particolare che, dietro la generalità impersonale della legge, si affaccia qui la figura spiri· tuale del legislatore, nella quale s'incarna visibilmente anche per noi la virtù educativa della legge, che i greci così vivamente sentirono 8 ). La società attica arcaica, dalla quale proveniva Solone, continuava a ricever la sua impronta dalla nobiltà terriera, la cui signoria, in quel tempo, era al-
6) Cfr. Arist. Ath. Pol. capp. VI, XIII; Plut. Sol. 15. 7) Cfr. p. 211 ss. 8) Cfr. « Paideia» III 369 ss.
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trove già in parte infranta o volgeva. al tramonto. Il primo passo verso la codificazione del diritto del sangue nell'Attica, le proverbiali leggi « draconiane» 9), avevano rappresentato piuttosto un consolidamento dello stato di cose tradizionale, che una rottura con la tradizione. Nemmeno le leggi di Solone miravano ad eliminare la signoria della nobiltà come tale. Solo la riforma di Clistene, dopo abbattuta la tirannia dei Pisistratidi, la spazzò via violentemente. A chi pensi ali' Atene più recente e alla sua inquieta sete di novità, appare un prodigio che le onde agitate della tempesta sociale e politica, le quali avevano sommerso il mondo circostante, s'infrangessero contro le aperte coste dell'Attica. Ma in quel tempo i suoi abitanti non sono a~cora i navigatori, accessibili ad ogni influenza straniera, dei secoli posteriori, quali Platone li descrive 10). L'.Attica è ancora un paese puramente agrario. II popolo, legato alla terra, niente affatto mobile, è attaccato alla religione e al costume dei padri. Ciò non vuol dire che dobbiamo figurarci i ceti inferiori non toccati dalle nuove idee sociali, come insegna l'esempio della Beozia, che già un secolo prima di Solone 11) aveva avuto il suo Esiodo e la cui situazione feudale rimase tuttavia salda sino al fiorire della democrazia greca. Quanto di rivendicazioni e reclami sorgeva dall'ottusa moltitudine, non si traduceva tanto facilmente in azione politica determinata. Ciò si ebbe soltanto là dove la cultura superiore della classe dirigente divenne essa stessa il terreno alimentatore di tali idee, e un aristocratico, per ambizione o per profonda comprensione, venne in aiuto della massa e ne
Cfr. Arist. Ath. Pol. IV; Plut. Sol. 17. Cfr. Pl. Legg. 706b ss. 11) Cfr. p. 143 ss. 9)
10)
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assunse la guida. I nobili proprietari, amatori di cavalli, che nelle figurazioni dei vasi arcaici vediamo guidare i loro legni leggeri in qualche occasione solenne, e soprattutto ai funerali dei loro pari, si ergevano di contro al servo ceto dei lavoratori contadini come una forza compatta. Lo spirito di casta egoistico e l'altezzoso isolamento degli altolocati e possidenti di fronte agli umili costituivano un saldo argine contro le richieste della popolazione oppressa, la cui condizione spesso disperata è rappresentata in modo impres· sionante nel giambo grandioso di Solone 12). La cultura della nobiltà attica è del tutto ionica; cosi nell'arte come nella poesia domina il suo gusto e il suo stile straniero e superiore. È naturale che tale influenza si estendesse anche al tenore e alla conce· zione della vita; era una concessione al sentimento po· polare, se le leggi di Solone vietavano il fasto orientale e le prè:fiche, ch'erano state sino allora d'uso ai fune· rali dei personaggi altolocati 13). Soltanto cent'anni dopo, la sanguinosa gravità delle guerre persiane abbatté definitivamente il predominio del modello ionico nel· l'Attica quanto ad abbigliamento, acconc~atura e tenor di vita 14), la ocpx.odoc X_À.L8~, della cui affettazione manierata e suntuosa, al modo dell'Asia Minore, non abbiamo ottenuta un'idea ben viva se non dalle figurazioni arcaiche venute in luce dalle macerie persiane dell'Acro· poli. Per l'età di Solone è venuta di recente ad aggiun· gervisi la dea ritta del Museo di Berlino, quale perfetta rappresentante dell'orgogliosa femlnÌnilità, superba del suo stato, di quell'aristocrazia dell'Attica arcaica. lm· pregnandosi di cultura ionica, la madrepatria doveva
12) Sol. fr. 24. 13 ) Plut. Sol. 21. 14) Cfr. Thuc. I 6.
CAP.
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necessariamente importare molte novità che .furono trovate nocive; ma ciò 11on deve impedirci di ve· dere come soltanto quando l'indole attica fu fecondata dallo spirito ionico, si destasse nell'Attica arcaica l'im· pulso a plasmare una forma spirituale sua propria. Specialmente il movimento politico, che moveva dalla moltitudine degli economicamente deboli,· sarebbe inconcepibile senza gli stimoli dell'Oriente ionico, e in· sieme con quello l'eminente figura ru capo ru Solone, nella quale pure si compenetrano indissolubilmente atticità e ionicità. Per questa storica fase culturale, fe. conda di risultati, oltre a quel poco che il ricordo storico posteriore ne ha conservato ed oltre alle reliquie dell'arte attica contemporanea, Solone è ,propriamente il nostro testimone classico. Le sue forme poetiche, elegia "e giambo, sono d'origine ionica. Le sue strette re· lazioni con la poesia ionica contemporanea sono espressamente confermate dal carme a Mimnermo da Colofone 10). La lingua ch'egli usa nelle poesie è un ionico misto a forme attiche; l'attico stesso, infatti, in quel tempo non è ancora idoneo alla poesia elevata. Ionico è in parte anche il patrimoniu d'idee della sua poesia, ma qui confluiscono elementi personali ed estranei, unendosi nell'enunciazione ru una grandiosa novità, per la quale la forma ionica adottata gli dà la libertà interiore e la padronanza dell'espressione, seppure non sempre esente da ogni sforzo. Nei carmi politici 16), che vanno dal periodo. precedente la legislazione sino agli anni dell'incipiente tirannia di Pisistrato 17) e della conquista dell'isola ru 15) Sol. fr. 22. V. anche fr. 20 che richiama Mimnermo. 16 ) V. Solons Eunomie (« Sitz. Berl. Akad.» 1926) 71 ss., per le relazioni di Solone con Omero, Esiodo e i Tragici e per l'interpre· tazione della sua poesia politica. 17) Plut. Sol. 8.
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Salamina, ossia si estendono ad un mezzo secolo, Solone ha restituito d'un tratto alla poesia quella grandezza educativa che aveva avuto un tempo in Esiodo e Tirteo. La sua apostrofe ai concittadini - che è la forma costante del suo discorso - sgorga da un cuore appassionatamente agitato da un senso di solidarietà responsabile. Mai la poesia degli Ioni, da Archiloco a Mim.nermo, ha tali accenti, eccetto il solo Callino, che, nell'ora in cui la guerra minacciava 18), aveva fatto appello all'amor patrio e al senso dell'onore dei suoi concittadini efesii. La poesia politica di Solone non è nata da questo omerico spirito d'eroismo; è un pathos tutto nuovo, dal quale prorompe. Ogiri età veramente nuova apre alla poesia nuove sorgenti nell'anima umana. Abbiamo veduto come, in quell'epoca d'imponenti trasformazioni sociali ed economiche nella lotta per ottenere la maggior partecipazione possibile ai beni del mondo, l'idea del diritto offrisse saldo. appoggio al pensiero inquieto. Esiodo, nella lotta contro l'avidità del rapace fratello, aveva per il primo invocata la Dike quale divina potenza tutrice; l'aveva esaltata quale protettrice della comunità contro la maledizione della hybris, collocandola, nella sua fede, accanto al trono del sommo Zeus 19). Il flagello dell'ingiustizia diffuso dalla colpa d'uno solo su tutta la città è da lui dipinto con tutto il crudo realismo della fantasia del credente: cattivo raccolto, carestia, pestilenza, aborti, guerra e morte; per contrapposto, inv~ce, il quadro della città giusta splende dei vividi colori della benedizione divina: i campi recano grano, le donne partoriscono figli somiglianti ai genitori, le navi portano
18)
1 9)
Cfr. p. 189. Cfr. p. 142.
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sicuro il guadagno a casa, pace e ricchezza regnano
in tutto il paese
20).
Anche in quanto uomo politico, Solone vive nella fede nella potenza della Dike, e l'immagine che ne delinea presenta tinte evidentemente esiodee. È da credere che l'indefettibile fede d'Esiodo nella giustizia avesse già avuta la sua importanza nelle lotte di classe delle città ioniche e fosse divenuta fonte d'intima forza di resistenza per il ceto che lottava per la propria equiparazione. Solone non è riscopritore delle idèe d'Esiodo - di che non aveva bisogno - ma il loro prosecutore. Anche per lui certo è che il diritto ha il suo posto incrollabile nell'ordinamento divino del mondo. Egli non si stanca di riaffermare ch'è impossibile calpestare il diritto, giacché questo finisce sempre per imporsi vittorioso. Il castigo, prima o poi, arriva, ristabilendo il necessario equilibrio là dove la prepotenza (hybris) umana ha violati i giusti limiti 21 ). Questo convincimento impone a Solone il dovere di farsi innanzi quale ammonitore dei concittadini, che si consumano in un Cieco contrasto d'interessi. Egli vede la città avvicinarsi a gran passi all'abisso e vuole frenarne l'imminente roviita 22). Spinti dalla sete di guadagno, i capi del popolo si arricchiscono con mezzi illeciti, non risparmiano né i beni dello Stato, né quelli del tempio e non rispettano i venerandi fondamenti della Dike, la quale contempla silenziosa tutto il passato e il presente, ma col tempo viene senza fallo a 20) Cfr. p. 142 e Hes. Opp. 213 ss. e specialmente la descrizione della città giusta (225 ss.) e della città ingiusta (238 ss.). 21) Sol fr. 1, 8 7tcXV't«>c; lline:pov fjÀ&e: lìbt7J; 1, 13 "°'X&«>c; lì' &.voi;µ(cry&'tlX' &'t"Jj; 1, 25-28 mxv..c.>c; lì' Èc; 'téÀOyµ6v, ecc. richiede una persona o gruppo di persone come soggetto. 28) La sentenza è ripetuta da Teognide, v. 51. 29) Sol. fr. 3, 30. 30) Fr. 3, 32 ss. Sl) Hes. Theog. 902. 32) Cfr. Solons Eunomie, loc. cit. p. 80. 33) Cfr. Anassimandro fr. 9 (DIELS, Vorsokratiker). Qui la relazione di causa ed effetto nella natura è interpretata come nna ricompensa (iìlxl] o i:latç) che le cose debbono reciprocamente pagarsi. V. p. 297 ss.
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immanente nel corso della natura e della vita umana e quindi un intimo significato e una norma interiore del reale~ Solone presuppone indubitabilmente l'idea di un nesso regolare tra causa ed effetto nella natura e ne fa un espresso parallelo con la r~golarità del processo sociale, quando, in altro luogo, dice 34) : « Dalla nube vengono neve e grandine, al fulmine segue necessariamente il tuono, e a cagione di uomini troppo potenti una città va alla rovina, e il demos cade nelle mani d'un despota» 35). La tirannide, cioè la signoria, basata sulla massa del popolo, di un'unica famiglia nobile e del suo capo su tutte le altre famiglie nobili, era per la società degli eupatridi dell'Attica il pericolo più tremendo che Solone potesse evocare, ché da quel momento era finita per il loro secolare predominio nello Stato 36). Del pericolo della democrazia Solone, cosa tipica, non fa ancora parola: data l'immaturità politica della massa, esso era lontano an~ora. Solo la tirannide, con lo spodestamento della nobiltà, le spianò la via. Questa nozione di determinate leggi della vita politica ben potevano afferrare gli Ateniesi, giovandosi di precedenti ionici, più facilmente d'ogni altro prima di loro, poiché essi avevano sott'occhio le esperienze dell'evoluzione politica di molte città greche della ma-
34) Sol. fr. 10. Plutarco, che ripcrta questi versi, parla di essi, già nel suo tempo, come di quelli che contengono la « fisica » di Solone. 36 ) La stessa opinione che il concentrarsi di tutto il potere . politico nelle mani di uno solo è generalmente la causa della tirannia, sì ritrova in Solone fr. 8 che gli antichi critici riferiscono al tempo della tirannia di Pisistrato; v. Diog. L. I 51 ss. 36 ) Cfr. la paura della tirannide in Teognide, vv. 40 e 52. Questo poeta era uno degli aristocratici di Megara. Alceo era di una vecchia famiglia di Mitilene o Lesbo; egli combatté prima la tirannide di Mirsilo, poi il governo d'uno solo in mano di Pittaco; v. sopra p. 250 e n. 73 di quel cap.
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drepatria e delle colonie in più di cent'anni, dove si erano svolti con notevole regolarità i medesimi processi. Il tardo accedere d'Atene a tale evoluzione le consentì di divenire creatrice della sapienza politica preventiva e quest'insegnamento resta gloria perenne di Solone. Rimane peraltro caratteristico della natura umana che, per quanto Atene avesse acquistato per tempo tale superiore conoscenza, il passare per la fase della tirannide risultò egualmente una necessità per essa. Possiamo tuttora seguire, nelle superstiti poesie di Solone, lo sviluppo di tale nozione dal primo messaggio ammonitore sino al momento in cui gli avvenimenti politici confermarono la limpida previsione di lui, ritto sulla vetta solitaria della conoscenza, e si realizzò la tirannide d'un solo, Pisistrato, e della sua famiglia. « Se avete subito sventure a cagione della vostra debolezza, non addossàtene la colpa agli dèi. Ché voi stessi avete fatto ascendere costoro, dando loro il potere, e per questo siete caduti in obbrobriosa servitù» 37). Queste parole si riallacciano evidentemente all'esordio dell'elegia ammonitrice della quale parlammo più sopra 38). Anche là si diceva: «La nostra città non perirà per decreto di Zeus e decisione dei beati iddii, ché Pallade Atena, la sua altera patrona, ha stese su di lei le mani; ma sono i cittadini stessi, che nella loro avidità di danaro, per insipienza, vogliono mandar la città a rovina» 39). Quanto qui minacciasi, è verificato nel carme posteriore. Solone si scolpa di fronte ai concittadini, accennando chiaramente alla precedente sua predizione della sventura imminente, e intavola la que-
V. n. 35. as) V. pp. 265-267. 88 ) Fr. 3, 1 ss.
17 )
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stione della colpevolezza. S'egli lo fa nei due luoghi quasi con le medesime parole, ciò prova che si tratta qui, per lui, d'una idea cardinale della sua politica; per dirla alla moderna, della questione della responsabilità, o, alla greca, della parte spettante all'uomo nella propria sorte. Questo problema era stato posto la prima volta nell'epos omerico, al principio dell'Odissea, dove Zeus sovrano, nell'assemblea degli dèi, rigetta le ingiustificate lagnanze dei mortali, i quali addossano agli dèi la colpa d'ogni disavventura della vita umana. Quasi con le stesse parole di Solone, vi è detto che non gli dèi, bensì gli uomini stess~ accrescono, con l'insipienza, i propri dolori 40). Solone si riallaccia consapevolmente a questa teodicea omerica 41). L'antichissima religione greca ravvisa in ogni sventura umana un' Ate ineluttabile, inviata dalle potenze superiori, sia che venga dal di fuori, sia che abbia radice nel volere e negl'impulsi dell'uomo stesso. Rispetto a ciò, la riflessione filosofica che il poeta dell'Odissea pone sulle labbra di Zeus, quale sommo rappresentante del reggimento del mondo, costituisce già un gradino superi9re dello sviluppo etico. Qui si distingue nettamente fra un'Ate nel senso di decreto divino imperscrutabile e strapotente, ed una colpevolezza dello stesso uomo operante, con la quale egli accresce la propria infelicità oltre la porzione assegnatagli dal destino. Essenziale appare per la seconda il fattore della prescienza, dell'azione ingiusta con volontà consapevole 42). Qui sta il punto dove il pensiero di Solone stesso circa l'importanza del di-
°'
32 ss. 41) Per que$to vedi i miei argomenti in Solons Eunomie, loc. cit. p. 73 ss. 42 ) In Omero (ix 37) Egisto, prevenuto da Ermes che avrebbe pagato il fio della sua azione, soffre Ò1tÈ:p µ6pov. 40)
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ritto per una vita sana della comunità umana shocca nella teodicea omerica e le dà un contenuto nuovo. Ciò che si è rivelato all'uomo quale nozione generale delle leggi della politica include un obbligo per chi agisce. Il mondo in cui vive Solone non lascia più all'arbitrio divino lo stesso campo che la credenza dell'Iliade. In questo mondo impera un rigoroso ordinamento di giustizia, e gran parte delle sorti che l'uomo omerico accettava passivamente dalla mano degli dèi, Solone è .costretto ad addebitarle agli uomini stessi. Gli dèi, in questo caso, non sono che esecutori del1'ordine morale, che è considerato addirittura identico col loro volere. Invece di profondersi come i lirici ionici dell'età sua, non meno profondamente agitati dal problema del dolore nel mondo, in melanconici e rassegnati lamenti circa il destino umano e la sua ineluttabilità i13), Solone esorta l'uomo all'azione responsabile ed egli stesso, con la sua condott.a politica e morale, ne dà un esempio, che attesta nel modo più autorevole cosi l'intatta vigoria com.e la serietà morale del carattere attico. Anche in Solone, del resto, non manca affatto l'elemento contemplativo. La grande elegia interamente conservata, la preghiera alle Muse, riprende appunto il problema della responsabilità personale, confermandone l'importanza per tutto il pensiero di Solone 44): Esso vi è inserito in una considerazione generale di tutte le aspirazioni e le sorti umane, la quale, meglio ancora delle poesie politiche, fa vedere quanto profon-
43 ) V. cap. precedente pp. 245-247 con la nota 65. ") Sol. fr. I. V. LINFORTH, Solon the Athenian 104 ss. e 227 ss.; KAm.. REINHARDT, Solons Elegie dç Éa:uT6'1, in« Rhein. Museum» N. F. LXXI (1916) 128 ss., ha contribuito grandemente alla giusta interpretazione dell'elegia. Il WILAMOWITZ ha comi:nentato questa elegia in Sappho und Simonides 257 ss.
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damente quest'uomo di Stato operante si fondi sulla religione. Questa poesia ci mostra l'antica etica aristocratica, a noi ben nota specialmente attraverso Teognide e Pindaro, anzi già attraverso l'Odissea stessa, con la sua tradizionale considerazione per la proprietà materiale e per la dignità sociale, ma qui tutta compenetrata della severa concezione giuridica e della teodicea di Solone 45). Nella prima parte dell'elegia, Solone limita il naturale desiderio di ricchezza con l'esigenza che sia acquistata con giusti mezzi. Solo il possesso dato dagli dèi è duraturo; quello ottenuto con l'ingiustizia e con la violenza non è terreno fecondo che per l'Ate, la quale non si fa molto aspettare. Come sempre in Solone, si affaccia qui l'idea che la ingiustizia non si sostiene che per breve ora; col tempo viene, ad ogni modo, la Dike. La concezione piuttosto sociale-immanente del «castigo divino», che trovammo nelle poesie politiche, passa qui in seconda linea rispetto all'immagine religiosa della « vendetta di Zeus», che irrompe improvvisa come una tempesta primaverile. Egli dissemina repentinamente le nubi, sconvolge i :Butti del mare sino al fondo, si abbatte sui campi devastando l'opera faticosa dell'operosità umana; ma poi risale in cielo, i1 sole irraggia la pingue terra, tutt'all'intorno non si vede più una nube: tale è la vendetta di Zeus, cui niuno sfugge. Chi espia prima, chi dopo, e se il reo sfugge al castigo, i figli e i figli dei figli lo scontano innocenti in sua vece 46). Qui ci troviamo già in pieno in quella cerchia d'idee religiose onde sorgerà, cent'anni dopo, la tragedia attica. ") Cfr. fr. 1, 7 ss. Xpljµo:'t'o: 8' lµdpCìl µ&v Exe:w, HlxCìlç Sè 1te:7tiia>&o:t oòx è&éÀCìl. 7tdV't'Cìlç iSO'-re:pov 'l\À&e: 3lxlj. Così anche Teognide, 145 ss. e Pindaro, Ol. II 53: 6 7tÀoih'oç &pe:'t'o:iç Se:So:tSo:Àµévoç è l'ideale di Pindaro. V. anche Nem. IX 45 &µo: x-re:&votç 1tOÀÀoiç blSo~ov •••• xuSoç o Pyth. III 110. 48) Fr. 1, 17-32.
CAP.
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Ma ora il poeta si volge a considerare quell'altra Ate, che nessuna cura umana vale a stornare. E vediamo come, per quanto nell'età di Solone la sfera dell'attività e· del destino umani già sia ampiamente compenetrata di razionalità e d'eticità, rimanga un residuo che non si risolve in questo tentativo di rifare i conti parte a parte al reggimento divino del mondo. « Noi mortali, buoni e cattivi, pensiamo che conseguiremo 47) quanto desideriamo, sino a che sopraggiunge la sventura, e allora ci lamentiamo. L'infermo spera diventar sano; il povero ricco. Ognuno cerca il danaro e il guadagno, ognuno per altra via, da mercante o marinaro, da contadino, da operaio, da cantore o indovino. Ma anche questi non può stornare la sventura 47) Fr. 1, 33 segna la transizione dalla prima alla seconda parte dell'elegia. Nella parte precedente Solone ha trattato solamente di quell' Ate che è causata .dall'umana ingiustizia, ma al v. 34 egli abbandona la distinzione fra uomini buoni e cattivi e comincia a parlare in un' Ate comune agli uni e agli altri. Le parole al principio del v. 34 evlS"l)V1JV sono corrotte (perciò nel testo ho dato solamente un'approssimativa parafrasi del senso), e non si è ancora riusciti a emendare il verso in maniera convincente. Il tentativo del Reinhardt che scrive an:eolSetv f,v non è soddisfacente. Il eò ISewfiv del Biicheler è paleograficamente assai allettante e il Diehl l'ha accolto nel testo dell' Anthologia Lyrica; ma un'espressione come questa, nel greco di Solone, non è probabile. Le congetture di altri mi sembrano· ancora meno accettabili. Così siamo ancora lontani dalla soluzione, sebbene il trovarla non dovrebbe essere difficile, dato che il guasto non può essere che un errore materiale del copista: esso fu forse causato in parte da itacismo, come crede Reinhardt, perché ci sono diversi eta nel complesso di lettere senza senso che ci è stato conservato: EN.6.HNHN. Il Reinhardt ha ragione nel credere che l'ultima sillaba debba essere il pronome relativo 1]v, che deve riferirsi a rxÒ"t"Òc; IS6l;ixv fxcccri;oc; !;ceL, in EN.6.HN ci deve essere un infinito pres. att. -ISeLv. Non può essere an:eulSetv, ma piuttosto, credo, !plSetv (cfr. vv. 67 e 69): chi spera di eò lplSetv fallisce, contro l'aspettativa, e chi xccxwc; lplSeL, inaspettatamente ha successo. L'aspettativa è espressa nel v. 33 da voe\iµev, che è sinonimo di t:>.n(ç in 36 e da x~aea.&cu ... ISoxeì: in 42. In lplSeLV 7Jv IS61;ixv fx0tai;oc; l;ceL la proposizione relativa è avverbiale e equivale a lp3eav C::,ç fxrxai;oc; ISoxeì: ( = 6lc; tÀn(~eL) e lplSetv clic; !xcca"t"o11 m:(poci:cc ~e:1) è la nuova parola yvwµ.ocrU\ll]. Essa è formata come altri astratti, come lhxoc1ocrovl], 7tUxi:ocrÒvl], 7tccÀcc1µ.ocròvl] e sembra riferirsi a una qualità umana piuttosto che divina. Essa consiste nella giusta intuizione della invisibile misura in tutte le cose, che, come dice Solone, è così difficile da stabilire. Così Teognide 694, yv6>11cc1 yocp )(ctÀe:7tÒv µéTpov, lii:' ècr.&M 7tctp'ij, parla dell'uomo e non di Dio.
CAPITOLO NONO.
IL PENSIERO FILOSOFICO E LA SCOPERTA DEL COSMO Noi siamo soliti considerare le origini del pensiero filosofico dei Greci nell'usata cornice della « Storia della Filosofia», in cui i «Presocratici», dai tempi d'Aristotele in poi, occupano un loro posto fisso, quale fondamento storico e sistematico della :filosofia attica classica, cioè del platonismo 1). Di recente tale nesso storico è stato spesso eclissato dalla cura di intendere quei pensatori quali filosofi primi, ciascuno per sé, nella sua assoluta originalità, ciò che venne ad accrescerne ancora assai l'importanza. Nell'àmhito della storia della cultura greca, la prospettiva deve necessariamente risultare spostata. ~ infatti chiaro che anche in essa ai pensatori più antichi deve spettare un posto eminente, ma d'altra parte immediatamente, nella cultura dell'età loro, sono ben lungi dall'avere un'importanza pari a 1 ) L'interesse per lantica filosofia greca che è così evidente .nella Metafisica e nella Fisica di Aristotele e in tutte le sue opere tiragmatiche ha radici nell'Accademia platonica; cfr. Paideia» III 255, n. 125. Ma Aristotele, via via che divenne filosofo indipendente da Platone, adattb le opinioni dei Presocratici alle categorie del suo proprio pensiero. HAROLD CHERNISS, in Aristotle' s Criticism of Presocratic Philosophy (Baltimore 1935) ha delinato con grande sagacia l'influsso che questo punto di vista esercitò sul!' opinione di Aristotele circa la filosofia dei suoi predecessori.
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quella che avrà, ad esempio, per la fine del V secolo Socrate, l'educatore per eccellenza, o per il IV secolo Platone, che per primo ravvisò nell'educazione d'un uomo nuovo l'essenza della filosofia 2). Nell'età dei Presocratici, per la cultura nazionale la funzione direttiva spetta ancora incontestata ai poeti, cui vengono ora ad aggiungersi legislatori e uomini di Stato. Soltanto coi Sofisti ciò muta. Essi si differenziano quindi nettamente dai filosofi naturali e dagli ontologi del periodo precedente. I Sofisti sono, nel più vero senso del termine, un fenomeno culturale. Solo in una storia dell'educazione possono essere apprezzati appieno, laddove il contenuto teoretico della loro dottrina è in genere esiguo. E perciò la tradizionale storia della filosofia non se n'è mai occupata gran fatto 3). Se, invece, nella prospettiva nostra, i grandi teorici della filosofia della natura e i loro sistemi non possono esser trattati uno per uno nell'àmhito della storia dei problemi, essi peraltro debbon~ trovar qui considerazione in quanto grandi figure dell'epoca, e ") La parola« filosofia» che in ongme significava «cultura» (« Bildung», «Culture») e non una scienza e disciplina razionale, prese poi il significato ulteriore nella cerchia di Socrate e Platone, che partendo dal problema della virtù ( areté) e della educazione umana trassero da esso un nuovo metodo razionale di educazione. La filosofia, questa perfetta identità di cultura e disciplina intellettuale, non esisteva al tempo dei Presocratici. che chiamarono la loro attività la-rop(7j o sapienza (aoU't'6'1. 156) Fr. 45.
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della profondità nel Logos e nell'anima è caratteristico del suo pensiero. Tutta la sua filosofia sgorga da questa nuova sorgente di conoscenza. Il Logos di Eraclito non è il pensiero concettuale (voEi:v, v6'Yjµix) di Parmenide 157), la cui logica puramente analitica esclude la rappresentazione immaginosa di un'interna scon:finatezza dell'anima. Il Logos d'Eraclito è una conoscenza dalla quale sgorgano del pari «parola e azione» 158 ). Se cerchiamo un esempio di que· sta particolare specie di conoscenza, non è il pensiero il quale insegna che l'Essere non può mai non essere, bensì quel profondo intendimento che splende in una proposizione come questa: « L'ethos è demone all'uomo» 159). È importante e caratteristico che sin dalla prima proposizione 160) del suo libro, fortunatamente pervenutaci, sia espressa tale relazione produttiva della conoscenza con la vita. Vi si parla di parole e azioni che gli uomini tentano senza intendere il Logos, che solo insegna « a fare da svegli» ciò che coloro che non lo possiedono « fanno dormendo». Il Logos deve dunque dare una nuova vita consapevole. Esso abbraccia tutta la sfera dell'umano. Eraclito è il primo filosofo che introduca il concetto della cpp6V1J[7J, fr. 112. 162) La metafora « svegliare quelli che dormono» appartiene al linguaggio profetico. Cfr. Heracl fr. 1, 73, 75. Sulla lingua di Eraclito in generale, v. B. SNELI" in « Hermes »LXI 353 e WtLA· MOWITZ, « Hermes» LXII 276. Altri elementi ili linguaggio p101e.. tico, sono il paragone con il« sordo» o con lo «stordito», fr. 34. 1~ 3 ) V. fr. 92 sulla Sibilla; fr. 93 sul linguaggio dell'oracolo delfico; fr. 56 l'indovinello proposto dai ragazzi che Omero nou era stato capace di sciogliere. 164) Fr. 123. 165) V. n. 162. 1 86) ~uv6v
cfr. fr. 2, 113, 114,
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mondo del suo sogno, che non è appunto, se non sogno 167). Questa comunione sociale del Logos eracliteo non va ridotta a mera espressione immaginosa dell'universalità logica. La comunione è il sommo bene che conosca l'etica della polis; essa annulla in sé l'esistenza separata degl'individui. Ciò che dapprima sembrava in Eraclito individualismo portato al sommo, il suo imperioso atteggiamento dittatorio, si rivela ora l'opposto, cioè superamento cosciente dell'oscillante arbitrio individuale, nel quale minacciava di perdersi tutta la vita. Bisogna seguire il Logos; in esso è istituita, al disopra della legge della polis, una « comunità» ancor più alta ed ampia, sulla quale si può appoggiare la propria vita e il proprio pensiero, con la quale ci si può « far forti come fa una polis con la legge» 168). « Gli uomini peraltro vivono come se avessero ognuno una sua ragione privata» 169). Qui appunto appare come non si tratti soltanto d'un difetto di conoscenza di natura teoretica, bensì di tutto quanto l'essere degli uomini, del loro atteggiamento pratico, che non corrisponde allo spirito comune del Logos. Come nella polis, cosi nel Tutto esiste una Legge, Per la prima volta s'incontra qui questa singolarissima idea greca. In essa lo spirito educativo politico della saggezza legislativa greca appare come elevato a più alta potenza. La legge, che Eraclito chiama divinità, è còlta soltanto dal Logos; di essa « si nutrono tutte le leggi umane» 170). Il Logos eraclitèo è lo spirito quale organo di senso cosmico. Ciò che in germe era già incluso nell'azione secondo la concezione anassimandrèa dell'universo, si sviluppa, Fr. 89. Fr. 114. 1 118) Fr. 2. HO) Fr. 114. 1 61 ) 168)
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nella coscienza d'Eraclito, nella concezione del Logos. conscio di sé, della sua azione e del suo posto nell'ordinamento universale. In lui vive e pensa lo stesso « fuoco» che permea il cosmo quale vita e pensiero 171). Per la sua origine divina esso è in grado di penetrare nella divina interiorità della natura, onde deriva esso medesimo. Così l'uomo, dopo che la filosofia pre-eraclitèa aveva scoperto il cosmo, è inserito da Eraclito nel nuovo edificio dell'universo quale un'entità di carattere totalmente cosmico. Per svolgere la sua vita come ente siffatto, esso abbisogna della conoscenza e del rispetto volonterosi della norma della legge cosmica. Come Senofane aveva esaltato la « saggezza>~ quale somma virtù umana, poiché è la sorgente del1'ordine giuridico nella polis 172), così Eraclito ne fonda il diritto d'imperio sul fatto ch'essa insegna agli uomini di seguire, nella parola e nell'azione, la verità della natura e della sua legge divina 173). Il reggimento razionale della saggezza· cosmica, il cui significato oltrepassa la comune ragione umana, è còlto da Eraclito nella dottrina originaria delle opposizioni e dell'unità del Tutto. Anche la ,dottrina dell'opposizione si riallaccia in parte a concrete rappresentazioni fisiche della filosofia naturale milesia, ma infine non attinge la sua forza viva da suggerimenti d'altri pensatori, bensì da un'intuizione immediata del processo della vita umana, che abbraccia l'elemento spirituale e il fisico, in un'unità singolarmente complessa, come una biologia comprendente entrambi questi eiuisferi. Ma « vita» non è solo l'Essere umano, ma anche il cosmico. Soltanto inteso quale vita, perde la sua apparente contradittorietà. L'idea anassimandrèa ln) Cfr. fr. 30, 31, 64, 65. 111) Xenoph. fr. 2, 12. 1'8) Heracl. fr. 1. 32, 112. 114.
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dell'univeu;o aveva concepito il divenire e il perire come governo compensatore di un'eterna giustizia, o meglio come una contesa. giudiziaria delle cose dinanzi al tribunale del Tempo, dove l'uno deve pagare all'altro ammenda della sua ingiustizia e pleonessìa 174). Il con· trasto diviene per Eraclito addirittura e< padre di tutte le cose » 1 75). Soltanto nel contrasto si stabilisce la dike. La nuova idea pitagorica dell'armonia giova ora a spiegare in modo significativo la veduta d' Anassiman• dro. «Appunto ciò ch'è discorde si unisce; dal diverso sorge la più bella armonia » 176). È questa una legge che evidentemente domina tutto il cosmo. Sazietà e pe· nuria, le cause della guerra, esistono in tutta la na· tura. Essa è tutta piena di opposizioni: giorno e notte, estate e .inverno, caldo e freddo, guerra e pace, vita e morte si alternano in perpetua vicenda 177). Tutti gli opposti della vita cosmica si convertono continuamente l'uno nell'altro 178): si tributano reciproca ammenda, per attenerci all'immagine del contrasto giudiziario. Tutto il «processo» del mondo è uno scambio (&µOL~-fi), la morte dell'uno è sempre la vita dell'altro, un'eterna altalena 179). « Trasmutando riposa» 180). xopéj> (Plat. Prot. 327d) non significa «in quel coro» ma «in quel dramma». Giacché le persone a cui si riferiva Platone in questo passo non appartenevano certamente al coro, ma erano gli attori. Questo significato della parola prova che anche dopo che il dramma classico ebbe preso la sua forma peculiare, rimase viva la memoria di UllO stadio precedente del suo sviluppo, quando il coro e il dramma erano la stessa cosa. Anche al tempo di Aristofane al principio di nna azione drammatica l'araldo dice « Teognide, introduci il tuo coro» (Ach. 11 e:foccy' i1 E>foyvt TÒ\I xop6v).
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lieta recettività all'impressione dello spettacolo singolarmente serio della nuova arte. Sulle 'semplici panche di legno, intorno alla piattaforma in terra battuta dove si danzava, il poeta non trovava ancora dinanzi a sé un pubblico letterariamente blasé, ma nella sua arte psicagogica sentiva la forza di commuovere un popolo intero in un sol momento,· come nessun rapsodo aveva mai potuto fare coi canti d'Omero. Il poeta tragico divenne un personaggio politico, e lo Stato intervenne quando un confratello anziano d'Eschilo, Frinico mise in tragedia un fatto contemporaneo in cui gli Ateniesi non si sentivano esenti da colpa, la presa di Mileto per parte dei Persiani, trascinando il popolo alle lacrime 26). Non minore era l'effetto dei drammi mitici, giacché causa dell'efficacia emotiva di tale poesia non era già il riferimento alla realtà ordinaria. Essa scuoteva la tranquilla e comoda sicurezza dell'esistenza filistea mediante la fantasia poetica d'un linguaggio dotato di aspetti di un ardimento e d'un'elevatezza nuovi, il cui slancio ditirambico toccava il suo apogeo dinamico nei cori, sorretto dal ritmo della danza e ,dalla musica. Il voluto distacco dal linguaggio usuale sollevava l'uditore al disopra di se stesso, in una sfera di verità superiore. Tale linguaggio chiamava gli uomini « mortali» e « creature d'un giorno », non soltanto per stilizzazione convenzionale: parola e immagine erano animate dal soffi.o vivo d'una nuova religione eroica. «O tu, che primo fra i Greci levasti a torre venerande parole» - cosi apostrofano i nipoti l'ombra del poeta 27). Nell'ardimento della « turgidezza» solennemente tragica, 26) Her. VI 21. L'arconte in Atene decretò dop!! questa prima rappresentazione che non si rappresentasse più il dramma di Frinico M1À-fi't'ou ocÀCllcrn;. 27) Aristoph. Ranae 1004.
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che tale appariva rispetto alla spoglia realtà quotidiana, si sentiva tuttavia l'adeguata espressione della grandezza t...'animG eschilea. Solo la potenza stupefacente di tale linguaggio è in grado di compensate in qualche modo per noi la perdita della musica e del ritmo dei movicenti. Vi d aggiungeva l'effetto dello spettacolo 28), che sarebbe mera curiosità il voler ricostruire. Il rammen· tarlo può giovare tutt'al più a cancellare dalla fantasia del lettore odierno l'immagine scenica del teatro chiuso, che falsifica lo stile della tragedia greca; ma a ciò basta tuttavia l'aspetto affascinante di una maschera tragica, quale è stata spesso plasmata dall'arte greca. In essa si concreta visibilmente il divario essenziale fra la tragedia greca ed ogni ulteriore forma di dramma. La sua distanza dalla realtà ordinaria è così grande, che il riferimento parodistico delle sue parole a situazioni della vita quotidiana sarà d'ora innanzi fonte inesauribile di comicità per la sensibilità stilistica raffinata dell' orecchio greco. Nel dramma, infatti, tutto è trasportato in una sfera di figure sublimate e di timore reverenziale. La travolgente impressione immediata sui sensi e sull'animo era insieme sentita dallo spettatore quale irradiazione dell'intima forza drammatica che penetrava e animava il tutto. La concentrazione d'un intero destino umano nel breve e violento succedersi d'eventi abbracciato dal dramma, dinanzi agli occhi e agli orecchi dello spettatore, rappresenta, al paragone dell'epos; un immenso incremento dell'intensità istantanea del1'effetto. Il culminare dell'evento rappresentato in un momento fatale trovava fondamento, sin dall'inizio, nel valore d'esperienza vissuta dell'estasi dionisiaca, ben diversamente dall'epos, il quale narrava la leggenda per 18 ) Vita Aeschyli 2. t ciò che Aristotele, Poet. 6, 1450 a 10 chiama llqnç.
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se stessa e soltanto nell'ultima fase della sua evoluzione si era adattato a una concezione generale tragica, quale vediamo nell'Iliade e nell'Odissea a noi pervenute. La tragedia antichissima sorse dai cori dionisiaci di caproni, che il suo nome rammenta ancora, quando un poeta ravVISo nell'entusiasmo ditirambico lo stato d'animo artisticamente sfruttabile che alla concentrazione del mito liricamente sentita, quale si riscontra nella lirica corale sicula arcaica, aggiungeva l'evidenza drammatica e l'immedesimarsi del cantore nell'Io del personaggio agente. Cosi il coro, da narratore lirico, divenne attore e quindi soggetto egli stesso . dei dolorosi casi che sino allora non aveva fatto che riferire con simpatia, accompagnandoli coi propri sentimenti. La rappresentazione mimica di un'azione vera e propria, particolareggiata e calcata sulla vita, non rientrava affatto nell'indole di quella forma originaria della tragedia; il coro vi era del tutto disadatto. Poteva trattarsi soltanto di farne uno strumento, quanto ··più perfetto fosse possibile, delle emozioni liriche suscitate in esso da un evento che l'investisse e ch'esso esprimesse col canto e con la danza. Le limitate possibilità di tali forme espressive non potevano esseJ"e sfruttate appieno dal poeta se non creando per il coro, con un reiterato e brusco cangiamento di fortuna, una scala di fattori espressivi lirici varia e ricca di contrasti al possibile, come ci mostra ancora il dramma più antico d'Eschilo, le Supplici, dove il coro delle Danaidi è ancora interamente il vero attore 29). Qui s'intende anche perché si rendesse necessario aggiungere al coro un corifeo: egli non aveva altro compito che .di suscitare, col presentarsi e con quanto annunciava, ed eventualmente con le sue stesse spieg-ct29) Sullo sviluppo del coro nella tragedia greca da attore principale a spettatore ideale, v. p. 463.
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zioni od azioni, situazioni varie, le quali motivassero la vicenda, drammaticamente efficace, delle effusioni liriche del coro. Così il coro vive «il trapasso profondamente commovente dalla gioia al dolore e dal dolore alla gioia» 30). La danza è l'espressione del suo tripudio, della sua speranza, della sua gratitudine; dolore e disperazione effonde nella preghiera, che già nella lirica e. nella riflessione individuali dell'antica poesia serve ad ogni sorta d'espressione dell'animo commosso. Già in questa tragedia antichissima, che non era azione ma soltanto passione, la forza della sympatheia, la compassione dello spettatore per il patimento del coro doveva diriger l'attenzione sulla fatalità che causava tali perturbamenti dell'umana esistenza e ch'era mandata dagli dèi. Senza questo problema della Tyche o Moira, fatto tanto presente alla coscienza. dell'epoca dalla lirica ionica, non sarebbe mai sorta una tragedia vera e propria dal primitivo « ditirambo a contenuto mitico» 31). La forma puramente lirica del ditirambo, che atteggia ad espressione di sentimenti soltanto un un singolo momento drammatico della leggenda, ci è stata infatti esemplificata in varii saggi scoperti di recente. Di qui ad Eschilo restava, certo, un passo gigantesco. Certo vi ebbe importanza essenziale la moltiplicazione dei corifei, onde segui che il coro non rimase più fine a se stesso, e i corifei divennero compartecipi, e alla fine anzi protagonisti dell'azione. Ma il perfezionamento tecnico non fu che il mezzo per mettere in evidenza in modo più grandioso e compiuto, nell'evento rappresentato, che rimaneva ancora precipuamente un
GOETHE, Ifigenia in Tauride. V. l'opera di W. C. GREENE, Moira. Fate, Good and Evi! in Greek Thought (Cambridge, Mass., 1944) in cui la storia del problema ì\ se~uita attraverso tutta la letteratura greca. 30 )
31)
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caso patito dall'uomo, l'idea superiore dell'impero delle potenze divine. Soltanto con l'affacciarsi di quest'idea il nuovo genere di rappresentazione diviene propriamente «tragico»; dove non giova cercare una determinazione concettuale di validità generale, affatto estranea per lo meno ai poeti più antichi. Il concetto del tragico non è infatti se non dedotto a posteriori dal genere letterario della tragedia giunto a compiuto svolgimento. Se si .vuol riconoscere un significato alla domanda: - che cosa costituisce, nella tragedia, il tragico per se stesso ? (ciò che senza dubbio si farà), le va data risposta diversa per ciascuno dei grandi poeti tragici 32); una definizione generale non potrebbe che generare oscurità. Alla domanda si può dare soprattutto una risposta storica. La rappresentazione sensibile del dolore mediante le estasi cantate e danzate del coro, onde si sviluppò, con l'aggiunta di varii corifei, la rappresentazione di un destino umano in sé conchiuso, divenne, per un'età che da tempo vi era intimamente matura, il nodo centrale della sua religiosa investigazione del mistero del dolore, inviato dalla divinità nella vita uiµana 33). L'essere testimoni dello scatenarsi del destino, che già Solone aveva paragonato alla tempesta, sfidava appunto a resistergli la più alta energia dell'animo umano,
32 ) Un brillante tentativo di rispondere alla domanda « Che cosa è il tragico nella tragedia greca?», fu fatto da P. FBIEDLANDER in « Die Antike» I e II. Ma rimane la questione se le categorie sotto le quali l'autore cerca di descrivere il fenomeno sarebbero riuscite soddisfacenti per la mente greca come lo sono per il lettore moderno. M. PoHLENZ cercò di risolvere lo stesso problema nel suo volume Die griechische Tragodie (Lipsia - Berlino 1930). 33 ) La discussione di q11esto problema in Esiodo, Archiloco Semonide, Solone, Teognide, Simonide e Pindaro si trova dove si tratta rispettivamente di ciascun autore. Questi poeti sono il giusto punto di partenza per ogni analisi del problema della tragedia greca.
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suscitando quale ultima riserva contro il timore e la compassione, effetti psicologici immediati di quell'esperienza M), la fede nella razionalità della vita. ·L'effetto specificamente religioso dell'esperienza del destino umano, quale è accolto dalla tragedia d'Eschilo nella rappresentazione dell'evento stesso e suscitato nello spettatore, è ciò che, secondo l'arte sua, possiamo qualificare la tragicità 35). È necessario lasciar del tutto da parte ogni 34) La famosa definizione di Aristotele della tragedia e del suo effetto sugli uditori, dà a tale effetto i nomi di ìtÀe:oc; ip6~oc; che sono i più importanti 7'et.&-fiµetTCC suscitati dalla tragedia e soggetti alla xoc.&O!:pcr~c; tragica. Se nel testo mi avviene di usarli nello stesso senso, ciò non è perché io sia un aristotelico ortodosso, ma semplicemente perché da uno studio lungo e minuto del dramma eschileo ho dovuto trarre la conclusione che queste categorie si adattano veramente ai fatti meglio di qualsiasi altra. Aristotele deve averle adottate in base ad !lll contatto di pura esperienza con le tragedie stesse e non per considerazioni astratte. Ogni tentativo moderno di accostarsi al dramma greco senza preconcetti deve giungere alle stesse conclusioni, o a conclusioni simili, e dovrebbe essere concepito come, p. es. ha inteso BRUNO SNELL nella monografia Aischylos und das Handeln im Drama (« Pbilologus» Supplementband XX 1928), studiando il fattore della paura tragica per la struttura della tragedia greca. 35) Nell'occuparsi concretamente di singole opere della tragedia greca, è impossibile naturalmente separare il loro aspetto puramente artistico della loro funzione religiosa e umana (qualcuno direbbe «insegnamento morale» il che sarebbe un'indebita limitazione di questo aspetto}. Euripide ed Eschilo, nelle commedie di Aristofane parlano tanto della loro TÉXV"IJ quanto della loro croip(cc. H. O. F. KITTO nel suo libro Greek Tragedy (Londra 1939) dà un contributo notevole al primo aspetto. Anche ERNST HowALD in Die griechische Tragiidie (Monaco-Berlino 1930) pone l'accento sull'effetto poetico della tragedia greca. Ma io preferirei vedere incluso nel concetto di «arte» il senso di quello che il Kitto chiama «dottrina storica» in quanto esso ci aiuta a capire quel carattere dell'arte greca (crorom. 1071; dr. Solon.s Eunomie (« Sitz. Berl. Akad.» 1926) 75. 67) Sept. 953. &s) T 93; Herael. fr. 119.
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mosse dall'ingiustizia quale pleonessìa sociale, indaga~ dove trovasse espiazione, e vedeva confermata costantemente la propria aspettazione. Eschilo muove dal1'esperienza, tragicamente commovente, della Tyche nella vita umana; ma la sua intima certezza riconduce sempre la sua ricerca della ragion sufficiente di essa alla fede nella giustizia della divinità. Non dohhiamo trascurare questo spostamento d'accenti, di fronte alla concor..:.anza d'Eschilo e Solone, se vogliamo intendere perché la medesima fede si esprima nell'uno in mani.era così pacat.. e contemplativa, nell'altro in maniera così drammaticamente violenta e trionfale. Il· contrasto problematico della fede eschilèa ha maggior rilievo nelle altre tragedie, che nei Persiani, dove l'idea della sanzione divina, che colpisce la hybris umana, si sviluppa in guisa assai semplice e continua. Assume la maggiore evidenza nelle grandi trilogie, per quanto possiamo rendercene conto. Non così nel dramma più antico che possediamo, le Supplici, essendo questo il primo elemento della trilogia, della quale gli altri due sono perduti. A parte l'Orestiade, conservata per intero, la cosa è possibile soprattutto nella trilogia dei Lahdacidi, giacché di essa possediamo per fortuna appunto l'ultimo dramma, i Sette contro Tebe. . Nell'Orestiade culminano non soltanto la fantasia verbale creatrice e l'arte della composizione del poeta, ma anche l'intensità del suo problema etico-religioso, e si stenta a credere che questo lavoro drammatico, il più possente e virile che la storia conosca, sia stato da lui compiuto in tarda età, poco prima della morte. Evidentissima è anzitutto l'inscindibilità del primo dramma dai due seguenti. Rappresentarlo da solo è, a rigore, una barbarie, per tacer delle Eumenidi, che non possono sussistere affatto se non quale gigantesco finale. L'Aga•
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mennone è tanto poco opera autonoma, quanto le Supplici: è essenzialmente un'introduzione al secondo dramma. La· maledizione che pesa sulla schiatta degli Atridi non è qui rappresentata per se stessa, ciò che avrebbe dato luogo a una trilogia di drammi della maledizione coordinati, che avrebbero rappresentato ciascuno la sorte di un'altra generazione, come sarebbe con un Oreste al terzo posto e un Agamennone nel mezzo. Invece nel posto centrale, stabilite le necessarie premesse dal primo dramma, è l'implicarsi d'Oreste nell'involontaria colpa senza scampo, mediante l'adempimento, voluto da Apollo stesso, del suo dovere di vendetta contro la propria madre: problema tragico di un'antinomia incomparabile e ricercata; e tutto il dramma finale è dedicato alla risoluzione di questo nodo, che ingegno umano non vale a sciogliere, mercé il prodigio di un atto di grazia divino 69), che insieme con l'assolu09) La parte della polis nel dramma di Eschilo è di suprema importanza, come mostra la sua glorificazione alla fine dell'Orestea. La polis appare qui come un elemento indispensabile del divino ordine del mondo, come l'idea del cosmo, di cui come si è visto prima (p. 300 s.), essa è stata il prototipo terreno. La nuova libertà dell'individuo significa, per il tempo di Eschilo, libertà del potere del clan e della giustizia del clan. Una città-Stato fortemente centralizzata fondata su un rigoroso ordine sociale e leggi scritte era· guarentigia di una tale libertà per le generazioni i cui ideali viventi furono espressi nell'arte di Eschilo. È difficile capire il senso morale con cui la giovane democrazia attica parla dello Stato nella tragedia di Eschilo, dal punto di vista del liberalismo moderno, che in complesso vede la libertà dell'individuo minacciata proprio da quel potere dello Stato che dapprima era stato il suo più forte protettore. Ma nell'Antigone di Sofocle appare un aspetto differente ed è concretamente rappresentata la possibilità di grave conflitto fra lo Stato e l'individuo. Questa volta è lo ·Stato, che interferisce negli obblighi sacri dell'individuo verso il clan e la famiglia; lo Stato stesso appare come un potere tirannico. Il problema era stato già scorto nell'ultima scena dei Seue a Tebe di Eschilo, se pure essa è autentica. Anche nella scena dei Sette, dove l'autorità politica del re si urta col fervore religioso delle donne che minacciano di sconvolgere l'ordine dello Stato in un momento di estremo pericolo, çi troviamo di fronte a un conflitto simile. Questo conflitto deve
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zione del colpevole sopprime l'istituto della vendetta di sangue, avanzo tremendo del vecchio Stato a base familiare, instaurando solo custode del diritto il nuovo Stato fondato sulla legge. La colpa d'Oreste non si basa affatto sul suo caratiere; egli non è per nulla considerato dal poeta sotto questo rispetto. Egli è semplicemente il figlio sventurato, cui incombe il dovere della vendetta di sangue nel momento in cui diviene uomo; lo aspetta, come una maledizione, la sciagurata azione che lo annienterà prima ancora ch'egli abbia assaporata la vita, e cui il dio di Delfo non cessa di incitarlo, quand'egli si lasci in qualche modo distrarre da quella mèta ineluttabile. Così egli non è che l'oggetto del destino che l'aspetta. Non v'è più piena rivelazione del problemismo eschilèo, che quest'opera. Essa rappresenta il conflitto delle forze divine stesse che sono custodi della giustizia 80). I viventi non sono che il punto dove si scontrano distruggitrici, e anche l'assoluzione finale del matricida rimane in fondo sommersa nella riconciliazione generale fra i contrastanti dèi antichi e nuovi e nei canti di benedizione che accompagnano con la loro musica solenne, epilogo maestoso, la fondazione del nuovo ordinamento giuridico dello Stato e la trasformazione delle Erinni in Eumenidi. L'idea solonica 61) che gl'innocenti debbano espiare per i padri colpevoli, dà luogo, nei Sette contro Tebe, ad una chiusa della trilogia drammatica dei re tebani, che in aver avuto una parte nella .trilogia dionisiaca di Eschilo, la per· duta [,ycurgia come nelle Baccanti di Euripide, che sono l'antitesi di .quella. 60) C'è un conflitto simile nella trilogia delle Danaidì, dì cui abbiamo le Supplici, nella trilogia di Prometeo e forse anche nella Lycurgia. e1) Sol fr. 1, 29-32 (Diehl). Cfr. p. 272.
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fosca tragicità, e non soltanto per il fratricidio finale, è sotto più d'un rispetto superiore all'Orestiade. I fratelli Eteocle e Polinice cadono vittime della maledizione che pesa sulla schiatta dei Labdacidi. Eschilo l'ha motivata con la colpa del capostipite, e indubbiamente, senza tale sfondo, un fatto come quello rappresentato nel dramma finale, a noi pervenuto, sarebbe apparso del tutto impossibile al suo animo pio 62). Ma l'azione che si svolge nei Sette è tutt'altro che il compimento inesorabile della perfetta sanzione punitiva divina, voluto dalla pia moralità. L'accento cade sul fatto che l'inflessibile causalità dell'antica colpa trae qui a rovina un uomo che Iniglior sorte avrebbe meritato per la sua alta virtù di sovrano e d'eroe a cui va la nostra simpatia sin dal primo istante. Polinice rimane un'ombra 63); in pieno risalto è invece ritratto Eteocle, il difensore della sua città. L'areté personale e il destino preterindividuale formano qui il contrasto· più teso; in ciò il dramma costituisce il più spiccato contrapposto dei Persiani, con la loro semplice, lapidaria logica di delitto e castigo. Par quasi che alla colpa del terzo grado· ascendente mal possa ancorarsi quell'im:i;nane peso di dolori. L'intimo significato del quadro finale pacificatore delle Eumenidi risulta approfondito, se sentiamo appieno l'esito implacato dei Sette.
62) Sulla ipotetica ricostruzione delle due tragedie che precedevano i Sette a Tebe nella trilogia tebana, v. CABL ROBERT, Oidipus; Geschichte eines poetischen Stojfs (Berlino 1915) 252 e F. STèissL, op. cit. (nota 46). 63) L'occhio acuto di Euripide vide bene quale occasione gli offrisse tutto ciò. Nelle sue Fenicie egli dà a Polinice un carattere amabile, molto più attraente del tetro e tirannico Eteocle che è descritto da lui come ambizioso e demoniaco, bruciante di brama di potere, sì da non indietreggiare neppure davanti ad atti criminosi per raggiungere il suo supremo desiderio. Cfr. Enr. Phoen. 521-525. L'Eteocle di Eschilo è il vero patriota e altruista difensore della sua patria.
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Appunto nell'antinomia di questo dramma sta il suo ardimento. Rispettando assolutamente le premesse della giustizia superiore, il cui impero, secondo l'intenzione del poeta, non dobbiamo giudicare dalla sorte dell'individuo, ma imparare ad intllire soltanto abbracciando con lo sguardo il tutto, Eschilo pone qui l'uditore anzitutto sotto l'impressione, umanamente tremenda, del demone alla cui azione non si sfugge, che svolge l'opera sua sino alla sua fine severa e cui un eroe quale Eteocle affronta composto in un atteggiamento grandioso. La grande novità è la consapevolezza tragica con la quale Eschilo manda incontro a certa morte l'ultimo rampollo della stirpe. Ne sorge una figura che solo nell'esito tragico rivela la sua suprema areté 64). Eteocle cadrà, ma, incontrando la morte, salverà la città natale dall'espugnazione e dalla servitù. La dolorosa novella della sua morte non deve impedirci d'udire il tripudio della salvezza 65). Così, dal diuturno travaglio d'Eschilo intorno al problema del destino, sorge qui la nozione liberatrice d'una grandezza tragica, cui l'uomo sofferente si eleva ancor nell'istante del proprio annientamento. Nel sacrificare alla salvezza collettiva la propria vita segnata dal destino, egli ci concilia con ciò che, . nella disfatta della vera areté, appare irrazionale anch"' all'animo più pio. Nei Sette contro Tebe, ciò che fa epoca rispetto al tipo anteriore di tragedia, come i Persiani o le Supplici, è che qui per la prima volta, nei drammi a noi 64) Dell'Antigone di Sofocle è un coro famoso (582 sgg.) che appare in parte come un riflesso della tragedia eschilea di Eteocle. Qui l'eroica giovinetta e non suo fratello che l'ha preceduta nella morte, appare come l'lùtima vittima della maledizione della casa dei Labdacidi. Versi come Ànt. 593 ss. danno un suono veramente eschileo. 66) V. le parole trionfanti al principio del discorso del mes· saggero, Sept. 792 ss., in cui Eschilo esalta i meritj il!rlno11;!li di Eteocle per Tebe.
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pervenuti, centro dell'azione è un eroe 66). Nei drammi anteriori, protagonista e soggetto deJl'azione era il coro. Il coro dei Sette non presenta un'impronta individuale come le Danaidi nelle Supplici; rappresenta soltanto l'elemento tradizionale del lamento e dell'orror tragico, che costituiscono l'atmosfera della tragedia. Sono semplicemente donne e fanciulli in preda al panico, nel mezzo della città assediata. Sullo sfondo della titubanza femminile spicca l'eroe con l'energia grave e meditata della sua azione virile. Se la tragedia greca è, di sua natura, piuttosto passione che azione 67), Eteocle soffre agendo sin.o all'ultimo respiro. Anche nel Prometeo predomina un personaggio singolo, non in un dramma solo, ma per tutta la trilogia. Il nostro giudizio deve necessariamente limitarsi all'unico dramma pervenutoci. 11 Prometeo è la tragedia del genio. Eteocle cade da eroe, ma né la sua qualità di sovrano, né quella di guerriero è fonte della sua ·tragicità, e tanto meno deriva essa dal suo carattere. Essa vientdall'esterno. La sofferenza e il fallo di Prometeo hanno origine in lui medesimo, nella sua natura e nella sua condotta. « Liberamente, sì, liberamente io fallai, non lo nego. Per soccorrere altrui, io stesso mi procurai tormento » 68). Il Prometeo spetta dunque a tutt'altra sfera che la maggior parte dei drammi pervenutici. Pure, la sua tragicità non è personale in senso individualistico: è senz'altro quella della creatività spiri-
86 ) Il Prometeo è l'altro dramma che si deve riallacciare a questo, ma l'ordine cronologico delle due tragedie non è del tutto chiaro. Ci sono r~gioni, tuttavia, per sostenere la priorità del Prometeo. 87) Per la figura di Eteocle come re, vedi lo studio fatto per mio suggerimento da VIRGINIA Woons, Types of Rulers in the Tragedies of Aeschylus (Tesi dell'Università di Chicago 1941) cap. IV.
98)
Prom. 266.
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tuale 69). Questo Prometeo è libera creatura dell'anima di poeta d'Eschilo. Per Esiodo era stato semplicemente l'empio, punito da Zeus per il delitto d'aver rapito il fuoco 70). In quest'azione Eschilo, col vigor d'una fan· tasia che i secoli posteriori non potranno mai àmmirare con gratitudine e venerazione bastante, scopre il germe di quell'immortale simbolo umano ch'è la figura del suo Prometeo: apportatore di luce all'umanità sofferente. Il fuoco, forza divina, si fa per lui simbolo della civiltà 71). Prometeo è lo spirito creatore di civiltà, che penetra, intendendolo, il mondo, e con l'organizzarne le forze lo fa servire ai propri fini. al proprio volere; che ne dischiude i tesori e asside su salde basi l'incerta vita degli uomini, che andavan tentoni. Il messaggero degli dèi e il suo sbirro che lo mette in ceppi, il demone della forza bruta, apostrofano sarcastici Prometeo quale sofista, maestro dell'invenzione 72 ). La teoria del sorgere della civiltà, propria dei pensatori ed illuininisti ionici 73 ) con la loro trionfante coscienza del progresso, vero opposto della rassegnata dottrina del campagnolo Esiodo, delle cinque età del mondo in progressiva decadenza 74), ha fornito ad Eschilo le tinte per colorire l'ethos del suo eroe dello spirito. Egli è sorretto dal volo della sua fantasia creatrice e della sua forza inventiva ed
69) Prometeo è l'ideale che rappresenta la techne creativa in tutto il dramma di Eschilo: v. Prom. 254, 44lss. particolarmente 506. 70) Hes. Theog. 521, 616. Nella narrazione, come ora si legge, la punizione è alleviata da Eracle, che libera Prometeo dlill.'aquila: ma questo episodio della Teogonia è evidentemente una più tarda interpolazione rapsodica suggerita dlilla differente concezione di Eracle fornita dalla tradizione epica. In Theog. 616 la punizione non è limitata nel tempo, ma dura sempre (cf. il presente Épuxe;~). 71 } Cfr. n. 69. 72) Cfr. n. 39. 73) Horn, Hymn. XX, 4 (a Efesto) se esso non è già un riflesso del Prometeo di Eschilo. V. anche Xenoph. fr. 18 (Diels). 7.
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mirazione del coro delle Oceanidi per la sua divin:t forza creatrice, sebbene non all'approvazione della sua azione 79 ). Per far vantare da Prometeo le sue invenzioni in pro dell'umanità così da trascinare anche noi con la sua fede, bisogna che il poeta si fosse docilmente abbandonato al volo di tali sp~ranze e alla grandezza del genio prometeico. Ma la sorte del formatore d'uomini, del creatore della civiltà, egli non la scorge nello splendore radioso del successo finale. L'autonomia e l'indipendenza dello spirito creatore non conoscono limiti, come dice dal canto suo il coro. Prometeo si è separato dai Titani suoi fratelli, ha compreso come la loro fosse una causa disperata, perché volevano riconoscere la sola forza bruta, senza intendere che l'acume solo della mente regge il mondo 80) (così intende Prometeo la superiorità del nuovo ordinamento olimpico dell'universo sui Titani precipitati nel Tartaro). Ma nel suo amore immenso, che vorrebbe strappare a 'forza l'umanità sofferente dalle vie prescrittele dal signore del mondo, e nella superba veemenza del suo impeto creativo, rimane egli stesso un Titano; il suo spirito, anzi, per quanto ad un livello superiore, è più , titanico dell'indole dei suoi rozzi fratelli, i quali, in un frammento del principio del Prometeo liberato, sciolti dai ceppi da Zeus e placati, si. accostano al luogo della sua pena, dov'egli soffre tormenti più tremendi di quanti essi mai abbiano conosciuti 81 ). Anche qui, è impossibile così disconoscere il simbolo, come intenderlo appieno, mancandoci il séguito. L'unica indicazione ci è data dalla pia rassegnazione del coro 82) nel Prometeo incatenato « lo rabbrividisco, al vederti dilaniato da mille dolori. Ché, 78 ) Prom. 516. ma cfr. 526 ss. e 550·552. SO) Prom. 212-213. 11) Cfr. &. 191, 192 (Nauck). ") Prom. 546.
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non tremando innanzi a Zeus, di tuo arbitrio troppo tu giovi agli uomini, o Prometeo. Ma com'è la benevolenza stessa a te sì inclemente, o amico ! Di.', dove hai difesa ? Dov'è l'aiuto dei mortali? Non vedesti l'ansimante trasognata impotenza che tiene in ceppi la cieca stirpe degli uomini? Non mai i folli desideri dei mortali vinceranno il saldo ordinamento di Zeus». Così la tragedia del titanico creatore della civiltà conduce il coro, attraverso l'm;rore e la pietà, alla conoscenza tragica, come esso stesso esprime nelle parole seguenti 83) : e< Questo conobbi, poiché ebbi veduta la tua sorte annientatrice, o Prometeo». Questo luogo è d'importanza decisiva per la concezione eschilèa dell'efficacia della tragedia. Ciò che il coro dice di se stesso, lo spettatore sente quale esperienza sua, e così deve sentirlo. Questa fusione tra coro e spettatore è un nuovo grado dell'evoluzione dell'arte del coro in Eschil'o. Nelle Supplici il coro delle Danaidi è ancora il vero attore 84) ; non v'è ancora altro eroe oltre ad esso. Che tale sia la natura originaria del coro, affermò per primo con netta decisione Federico Nietzsche nel suo scritto giova:Dile La nascita della Tragedia, opera geniale ma che spesso mescola elementi incongiungibili. Tale scoperta non va tuttavia generalizzata. Quando, in luogo del coro, fu un sol uomo a rappresentare il destino, la funzione del coro dovette mutare. Esso diviene ora sempre più lo « spettatore ideale», per quanto si cerchi sempre di farlo partecipe dell'azione. L'avere la tragedia greca un coro, che nei suoi canti simpatizzanti oggettiva sull'orchestra il contenuto tragico dell'azione drammatica, costituisce una delle radici più forti della sua virtù educativa. Il coro del Prometeo è tutto orrore e compas88) Prom. 553. ") V. n. 29.
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sione e incarna in ciò l'effetto della tragedia in tal modo, che Aristotele non avrebbe potuto trovare modello migliore per la sua famosa definizione dell'effetto stesso 85). Sebbene il coro si fonda talmente in uno col dolore di Prometeo che alla fine, non ostante l'ammonimento divino, preferisce sprofondare con lui nell'abisso, in una compassione infinita, pure in quel canto in cui dal sentimento si eleva alla contemplazione, la sua emozione tragica si distilla in tragica conoscenza. Esso attinge così la mèta suprema cui vuol condurre la tragedia. Quanto afferma il coro del Prometeo - esservi una conoscenza suprema, cui non si giunge che attraverso il dolore - è infatti il fondamento ultimo della religione tragica d'Eschilo. Tutte le opere sue poggiano su questa grande unità spirituale. Dal Prometeo, l'arco, volgendo un po' indietro, attraverso i Persiani, dove l'ombra di Dario enuncia tale nozione, conduce alla dolorosa profondità delle preghiere delle Supplici, dove le Danaidi si sforzano, nelle loro angustie~ d'intendere le vie imperscrutabili di Zeus; in avanti, conduce all' Orestiade, dove, nella solenne preghiera del coro dell' Agamennone, la fede personale del poeta trova la sua forma più alta 86). L'intimità commovente di questa fede che si dibatte tutta la vita fra gravi dubbi, che lotta per conquistare il beneficio del dolore, reca in sé una monumentale forza espressiva, di una profondità e intensità veramente riformatrici. È profetica, e tuttavia è anche di più. Col suo « Zeus, chiunque tu sia», essa sosta, adorando, dinanzi all'ultima delle porte, dietro le quali sta nascosto l'eterno mistero dell'Essere, l'Iddio la cui essenza non può che esser intravista, soffrendo, nei suoi effetti, « il quale dischiuse la via della cono· Cfr. Prom. 553 sa. 16) Àg. 160.
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scenza ai mortali, il quale elevò a legge: imparare nel dolore. Invece del sonno, stilla sul cuore il tormento, memore della colpa. Anche ai recalcitranti giunge così il ravvedimento. Ma è certo grazia degli dèi, ch'essi siedano così formidabili al sacro timone». In questa sola nozione il poeta tragico ritrova la pace del cuore, quando vuole « rimuoverne il fardello del dubbio». Qui gli soc· corre liberatore il mito, trasformantesi in puro simbolo, che celebra Zeus quale trionfatore del primitivo mondo titanico e della sua forza provocante, traboccante di hybris. L'ordine, che torna sempre a stabilirsi contro ogni violazione, prevale sul caos. Tale è il senso del dolore, anche là dove non l'intendiamo. Così il cuore pio prova in sé, appunto mediante la potenza del dolore, la magnificenza del trionfo divino. Quegli solo ha veramente compreso, che, come l'aquila, può unirsi con tutto il cuore al grido di vittoria che si leva giubilante, con tutte le creature, verso Zeus il trionfatore. Tale è il significato della harmonia di Zeus nel Prometeo, che i desiderii e i pensieri dei mortali non debbono mai oltrepassare, e cui anche la creazione titanica della civiltà umana deve alla fine subordinarsi. E in questa prospettiva appare pieno d'intimo significato che al termine della vita del poeta, alla fine dell'Orestiade, si presenti l'immagine del kosmos statale, in cui tutti i contrasti debbono conciliarsi e che riposa esso medesimo sul kosmos eterno. Inserita in tale ordinamento, anche la nuova figura dell' «uomo tragico», creata dall'arte della tragedia, dispiega la sua recondita armonia con l'Essere, elevandosi, con una capacità di soffrire e una forza vitale eroicamente accresciute, ad un grado d'umanità superiore.
CAPITOLO SECONDO.
L'UOMO TRAGICO DI SOFOCLE Sofocle ed Eschilo vanno menzionati assieme, quando si tratti della tragedia attica quale potenza educativa. Sofocle assunse con piena consapevolezza la successione del poeta seniore, e il giudizio dei contemporanei, per i quali Eschilo rimaneva sempre il venerando eroe e il maestro possente del teatro ateniese, collocò Sofocle al suo fianco 1). Questo modo di vedere ha invero profonde radici nella concezione greca dell'essenza della poesia, che non cerca in essa anzitutto l'individualità unica, ma la considera come una forma d'arte che si perpetua autonoma, che passa ad un altro rappresentante e rimane per lui quasi misura preformata. Possiamo rendercene conto appunto nel caso d'una creazione come la tragedia, che, una volta affacciatasi, ha nella sua posizione dominante qualche cosa di impegnativo per lo spirito dei contemporanei e dei posteri, che sprona ogni energia alla più nobile emulazione. Questo elemento ago~ale d'ogni attività poetica dei Greci aumenta man mano che l'arte diviene centro della vita pubblica ed espressione del vigente ordinamento spirituale e statale; nel dramma deve quindi toccare il suo grado supremo. Cosi soltanto si spiega 1) Cfr. Aristoph. Ranae 790.
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l'immensa affiuenza di poeti di secondo e terz'ordine concorrenti alla gara dionisiaca. Suscita meraviglia sempre nuova in noi, oggi, l'apprendere di quale sciame di satelliti furono accompag11ati, da vivi, i pochi grandi di fama duratura, della cui opera qualche cosa è rimasto. Lo Stato, con le sue rappresentazioni e premiazioni, non suscitava propriamente tale gara; non faceva che avviarla su direttive fisse, anche se veniva per ciò stesso ad incoraggiarla. Con questo vivo confronto d'anno in anno, a parte anche la continuità della tecnica che si ha in ogni arte e specialmente nell'arte greca, non poteva mancare di sorgere un controllo ininterrotto della nuova forma d'arte anche sotto il rispetto intellettuale e sociale, che, senza recar pregiudizio alla libertà artistica, rendeva d'altra partè estremamente vigile il giudizio pubblico contro ogni menomazione del grande patrimonio ereditario e contro ogni perdita di profondità e d'efficacia che avesse a subire. · Tale è la giustificazione, ancorchè nori senza restrizioni, spettante al confronto fra tre spiriti d'indole così diversa, e sotto parecchi aspetti incomparabili affatto, quali furono i tre grandi poeti tragici ateniesi'. Caso per caso, appar sempre ingiusto,· se non addirittura stolto, il considerare Sofocle ed Euripide quali successori di Eschilo, perché in tal modo s'impongono loro criteri di misura -desunti da una grandezza estranea e che non conviene all'epoca loro. Il miglior successore è sempre chi va diritto per la sua via, se ha in se stesso la forza di fare opera personale. I Greci, per l'appunto, furono sempre inclini a_ far valere, oltre alla fama del novatore quella del perfezionatore ultimo, anzi a riconoscerla superiore, e a scorgere la somma originalità non nel primo ma nel più compiuto frutto di un'arte 2). Ma se l'artista 1)
V. Isocr. Paneg. 10. La differenza di merito fra il primo
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sviluppa la propria forza cimentandosi con la forma che trova già plasmata, e in questo senso le va debitore, egli deve anche sottomettersi ad essa quale misura di se stesso e lasciarsi giudicare a seconda che, con l'opera propria, ne conserva, diminuisce od accresce il valore. Ed ecco vediamo che questo processo non si svolge semplicemente da Eschilo a Sofocle e da questo ad Euripide, ma che Euripide, in certo qual modo, può esser considerato quale successore immediato d'Eschilo al pari di Sofocle, che persino gli sopravvisse. Entrambi continuano l'opera del vecchio maestro con spirito diverso affatto, e non a torto gli studi dell'ultima genera:>.:ione hanno molto insistito sul fatto che i punti di contatto tra Euripide ed Eschilo sono molto più cospicui che quelli di Sofocle con uno degli altri due. Non senza fondamento, Euripide è considerato, dalla critica d'Aristofane e di coloro che ne condividono le idee, quale corruttore non già dell'arte di Sofocle, ma della tragedia d'Eschilo 3). A questa egli si riallacciò, non restringendone, invero, ma ampliandone infinitamente la portata. Ciò ottenne col lasciar adito allo spirito della sua epoca in crisi, sostituendo i problemi moderni ai dubbi della coscienza religiosa di Eschilo. Nel predominio dell'elemento problematico sta, ad onta degli aspri contrasti che li dividono, l'affinità tra Euripide ed Eschilo. Secondo questa prospettiva, Sofocle pareva quasi star da sé, in disparte. Quel carattere di appassionata intimità e d'esperienza personale vissuta, proprio dei suoi due grandi confratelli, pareva fargli difetto, e in base al suo finissimo rigore stilistico e alla sua pacata
inventore (1'pÙ>Toc; e:upcl.v) e il maestro che porta un'arte alla perfezione (ò èl;o:xp~{3cl.ao:c;) fu sempre riconosciuta dai Greci. a) V. p. 635.
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oggettività s1 credette di poter ora spiegare bensi storicamente il giudizio ammirativo del classicismo, che vide in Sofocle il culmine del dramma greco, ma d'averlo insieme superato quale pregiudizio. Cosi la predilezione della scienza e il gusto psicologico moderno, cui quella teneva dietro, si rivolsero quasi simultaneamente all'arcaismo idealmente profondo, sebbene ancor rozzo, degli inizi e al soggettivismo raffinato dell'autunno della tragedia attica, ch'erano stati a lungo trascurati 4). Quando, infine, si venne a determinare meglio il posto spettante a Sofocle secondo disposizioni cosi mutate, si dovette cercare il segreto del suo successo in un altro campo, e fu trovato nella sua pura arte, che, sviluppatasi con la grande espansione del teatro durante la sua gioventù, che aveva avuto per dio Eschilo, è sempre sicura nelle sue mosse e tiene l'efficacia scenica per norma suprema 5 ). 4 ) Quella resurrezione della tragedia greca, che risulta dall'opera di tutta la vita del grande studioso U. v. WilamowitzMollendorff, ebbe come punto di partenza Eschilo ed Euripide; volontariamente :fino ai suoi ultimi anni, Wilamowitz trascurò Sofocle. Per questo, v. anche le osservazioni di K. REINHARDT, Sophokles (Francoforte 1933) Il e G. PERROTTA, Sofocle (Messina 1935) 623. , 5 ) TYcno v. WILAMOWITZ nel libro Die dramatische Technik des Sophokles (Berlino 1917), che è il più grande contributo degli ultimi trenta anni su questa materia, per primo pose le basi su cui deve essere studiato Sofocle da questo punto di vista. E non si deve dimenticare che fu Goethe il primo che indirizzò rattenzione dei critici alla superiore maestria di questo antico poeta tragico, come a una delle cause essenziali dell'efficacia della sua arte. Ma contro questo modo unilaterale di accostarsi al poeta che fu il merito, ma anche la limitazione, del libro di Tycho v. Wilamowitz ci è stata una notevole reazione nella più recente letteratura sofoclea, che può essere intesa come indizio del rinnovato interesse per questo poeta. Il Turolla ha indicato nella particolare religiosità di Sofocle il giusto punto di partenza per intenderlo. Il Reinhardt nel suo bel libro citato a nota 4, ha fatto un interessantissimo studio della « situazione» nella tragedia di Sofocle, cioè della relazione da uomo a uomo e, in special modo di quella tra l'uomo e la divinità. Dobbiamo poi ricordare qui il libro notevole di H. WEINSTOCK, Sophokles (Lipsia-Berlino 1931) che ugualmente rappresenta una reazione contro il formalismo della mera tecnica drammatica. Una ricca e compless;i
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Se questo Sofocle rappresenta qualcosa di più che una parte, per quanto cospicua, dell'intero poeta, sarebbe giustificata la domanda: come mai egli meriti il posto di perfezionatore compiuto, assegnatogli dal classicismo non solo, ma già dall'antichità stessa. TI suo posto ap· pare poi particolarmente problematico in una storia della cultura greca, che per principio non considera la poesia sotto il mero rispetto estetico. Senza dubbio, Sofocle è inferiore ad Eschilo quanto a vigore d'affermazione religiosa. Anche Sofocle recava in sé una raccolta e profonda pietà, ma le sue opere non sono principalmente espressione promotrice di tale fede. La non-pietà d'Euripide - rispetto alla tradi· zione . - si presenta ben più affermativa che la religiosità incrollabile, ma in se stessa conchiusa, di Sofocle. Non è possibile coglierlo nella sua vera forza prendendo per criterio la sua vis problematica: bisogna concederlo alla critica della scienza moderna; sebbene, quale continuatore della tragedia eschilèa, egli sia anche l'erede del suo contenuto ideologico. In realtà dobbiamo prender le mosse dall'efficacia scenica delle opere sue, la quale non si esaurisce peraltro con l'intenderne la tecnica accorta e superiore. Che Sofocle, rappresentante della seconda generazione, cui spetta in tutto il compito dell'affinamento cosciente e del lavoro di sfumatura, superi tecnicamente su tutta la linea il vecchio Eschilo, potrebbe quasi sembrar cosa ovvia. Ma come si spiega che il ben comprensibile tentativo recente di far valere anche praticamente il suo gusto mutato, acclimatando sulla scena moderna le tragedie d'Eschilo e d'Euripide nuova interpretazione di Sofocle che cerca di evitare gli opposti estremi delle due correnti e di correggere qualcuna delle loro troppo soggettive osservazioni su particolari problemi è nell'eccellente opera di Gennaro Perrotta citata a nota 4. V. anche C. M. BPWllA ntl suo nuoyo libro Sqphoçlea~ Tragedy (O:xfqrd 1944), ·
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non sia andato al di là di esperimenti isolati dinanzi ad un pubblico. più o meno d"iniziati, e che Sofocle, non certo per un pregiudizio classicistico, sia il solo drammaturgo greco che resti sempre in repertorio nei nostri teatri ? La tragedia d'Eschilo non riesce a vincere nemmeno con l'intima vigoria del pensiero e della parola, sulla scena moderna, la rigidezza antidrammatica dei cori che vi predominano, quando essi parlino da fermi, / mancando il canto e la danza. La dialettica euripidea suscita ben.si, in tempi agitati come i nostri, un'eco affine; ma che vi è di più mutevole che i problemi attuali della società borghese ? Basti pensare quanto distanti da noi siano oggi Ibsen o Zola, del resto non certo paragonabili ad Euripide, per intendere come ciò che costituiva il nerbo dell'efficacia d'Euripide ai tempi suoi rimanga per noi piuttosto una barriera insuperabile. Ciò che, in Sofocle, produce su di noi la medesima impressione indelebile che ne determina il valore imperituro nella letteratura mondiale, sono .i suoi personaggi. Se ci domandiamo quali tra le creature dei poeti tragici greci, indipendentemente dalla scena e dal complesso del dramma in cui sono situate', vivano nella fantasia degli uomini, Sofocle tiene di gran lunga il primo posto 6). Questa sopravvivenza isolata del personaggio come tale non può mai essere conseguita dall'effetto momentaneo dell'azione e della condotta scenica meramente bene atteggiata, che si è rimproverata a So-
6 ) Sui caratteri in Sofocle e influenze di essi sulla letteratw:a dei secoli seguenti, v. J. T. SHEPPARD, Aeschylus and Sophocles (New York 1927) che ha rapporto soprattutto colla ictteratura inglese, e K. HEINEMANN, Die tragischen Gestalten der Griecheri in der Weltliteratur (Lipsia 1920), che comprende anche Eschilo, Euripide e Seneca nella sua ampia rassegna. Ma i caratteri di Sofocle posseggono qualità plastiche tutte loro che li distinguono da ogni altro. Non possono ce:rto essere intesi in unii semplict> Motivgeschichte.
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focle. Nulla forse è più arduo enigma per l'età nostra che la saggezza naturale e pacatamente semplice che ha rappresentati quali nostri pari, eppure avvolti da un nembo di sovrana nobiltà, quegli uomini reali, di viva carne, animati da intense passioni e da sentimenti delicatissimi, da una grandezza eroicamente superba e insieme da vera umanità. Nulla in essi è ricercato o artificiosamente spinto. Età posteriori cercarono invano la monumentalità nel violento, nel colossale, negli elementi di grande effetto. Qui, in Sofocle, esaa ci sorge dinanzi spontanea, in proporzioni naturali. La vera monumentalità è sempre semplice ed evidente. Il suo segreto sta nell'eliminare dal fatto ogni elemento secondario e accidentale, sì che non ne irraggi, con piena chiarezza, se non la sua intima legge, celata all'occhio comune. I personaggi di Sofocle non conoscono la terrestre compattezza, quasi sorta dal suolo, delle figure eschilèe, che accanto a quelli possono facilmente apparire immobili, anzi irrigidite; è, la loro, una mobilità ancora senza peso, come i tanti personaggi del teatro euripideo, che malvolentieri chiamiamo «figure», perché non si concretano in una vera esistenza corporea, al di là della doppia dimensione teatrale del costume e della declamazione. Tra il precursore e il successore, Sofocle si leva quale creatore nato di figure, che si circonda come senza sforzo della falange delle sue creature, o piuttosto esse circondano lui 7). Nulla, infatti, è più estraneo al personaggio verace, che l'arbitrio d'una fantasia capricciosa. Sono tutti nati da una necessità che non è né la vuota generalità de] tipo, né la determinatezza . 7 ) La qualità monumentale delle figure drammatiche di Sofocle nasce dall'intendimento di rappresentare in esse l'areté umana (v. p. 467). Cfr. l'articolo di W. SCHADEWALDT citato sotto a nota 10 e J. A. MooRE, Sophocles and Areté (Cambridge, Mass., 1933).
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unica del carattere individuale, ma l'essenzialità stessa, opposta a ciò ch'è vuoto di carattere. Si è spesso istituito un parallelo tra la poesia e l'arte figurativa, accostando ciascuno dei tre tragici ad una diversa fase evolutiva della forma plastica 8). Tutti questi paragoni hanno facilmente qualche cosa di un gioco, e tanto più, con quanto maggiore pedanteria sono svolti. Ahhiamo paragonato noi stessi simbolicamente la posizione della divinità nel mezzo delle sculture del frontone olimpico al posto centrale di Zeus o del destino nella tragedia arcaica 9) ; ma questo paragone era pu· ramente ideale, non si riferiva alla plasticità delle figure del poeta. Se invece chiamiamo Sofocle il drammaturgo plastico, intendiamo appunto questa qualità, ch'egli non condivide con alcun altro; il che esclude a priori un parallelo istituito fra i tragici e l'evoluzione della forma plastica. Come la figura poetica, così la figura plastica si ·basa sulla conoscenza di leggi supreme, ma qui finisce ogni parallelo; ché le leggi specifiche di ciò che ha realtà interiore non sono comparabili alla struttura, legata allo spazio, della corporeità tangibile e visibile. Ma se l'arte figurativa di quest'epoca persegue nella sua rappresentazione dell'uomo, quale fine supremo, l'espressione di un ethos intimo, sulle sue creazioni sembra cadere, trasfigurandole, un barlume di quel mondo interiore che la poesia di Sofocle primamente 8 ) Questo tipo di paragone è abbastanza antico, e comincia con gli scrittori greci di critica letteraria. Se ne trovano spesso in Dionigi di Alicarnasso, nell'anonimo Del Sublime, in Cicerone, e altri autori che rappresentano questa tradizione. Il paragone si faceva anche tra pittura e poesia (cfr. il famoso detto di Orazio: ut pictura poesis). 9 ) Cfr. pp. 446-44 7. Il paragone fra la poesia greca e le belle arti è stato elaborato più sistematicamente da FRANz WINTER nel capitolo « Parallelerscheinungen in der griechischen Dichtkunst und bildenden Kunst » in: GERCKE-NORDEN, Einleitung in die Altertumswissenschaft (Lipsia-Berlino 1910) vol. II, P· 16l; l!fr. su E;sclµIQ e Sofocle P· 176 ss,
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dischiuse. Più che mai commovente ci si presenta il riflesso di tale umanità nei monumenti sepolcrali attici dell'epoca. Per quanto inferiori, quali opere di un'arte di second'ordine, alla pienezza d'espressione e di contenuto dell'opera poetica sofoclèa, tuttavia il raccoglimento dell'artista di fronte alla medesima interiore essenza umana, il quale traspare dalla pacatezza di queste opere, ci mostra come poesia ed. arte siano animate dallo stesso spirito. Questo alza intrepido e sereno la sua immagine dell'eternamente umano di contro al dolore e alla morte, professando così la sua particolare e genuina certezza religiosa. Quale monumento duraturo dello .spirito attico nella sua maturità, la tragedia di Sofocle si colloca accanto all'arte plastica di Fidia: ambedue rappresentano l'arte dell'età periclèa. Rivolgendo di qui lo sguardo indietro, tutto il corso precedente della tragedia appare indirizzato a questa mèta. Anche del rapporto tra Eschilo e Sofocle si può dire altrettanto; ma non di quello di Sofocle con Euripide, o, tanto meno, con gli epigoni della poesia tragi.ca che si hanno ancora nel secolo V. Tutti questi non sono che echeggiatori, e ciò che in Euripide è grande e gravido d'avvenire, accenna già,. di là dalla poesia, ad un nuovo regno filosofico. Si può così qualificare Sofocle classico, nel senso eh'egli rappresenta l'apogeo dello sviluppo storico della tragedia, la quale attinge in lui « la sua natura», come direbbe Aristotele IO). Ma egli è classico anche in un altro ed unico senso, che conferisce a questa denominazione una dignità superiore a quella di mero perfezionatore d'un genere letterario. Ed è la sua posizione nel corso ideale 10 ) Sull'arte di Sofocle come forma classica della tragedia greca, v. W. SCHADEWALDT, Das Problem des Klassischen und die Aniike, Acht Vortrage hrsg. v. Werner Jaeger (Livsia-Berli:qQ
1931) 25
&S,
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della grecità, come espressione del quale consideriamo
qui principalmente la letteratura. Considerato quale progressiva oggettivazione della formazione dell'uomo, lo sviluppo della poesia greca culmina in Sofocle. Solo secondo questa visuale ·si può intendere appieno ed approfondire quanto dicevamo delle figure tragiche di Sofocle ll). I loro pregi non sorgono dal campo cli ciò ch'è meramente formale, ma hanno radice in uno strato più profondo dell'umano, dove l'elemento estetico, l'etico, il religioso si compenetrano e si condizionano reciprocamente. Tale fenomeno non è affatto isolato nell'arte greca, come ci ha insegnato il nostro esame della poesia arcaica. Ma forma e norma sono tutt'uno in modo affatto speciale nella tragedia di Sofocle; tali sono massimamente nei suoi personaggi, dei quali già il poeta stesso disse, con calzante brevità, che sono figure ideali, non già uomini della realtà ordinaria, quali li rappresenta Euripide 12 ). Sofocle, plasmatore di uomini, appartiene alla storia della cultura umana -più d'ogni altro poeta greco e in un senso del tutto nuovo; nell'arte sua si rivela per la prima volta la coscienza, che si è destata, della cultura umana. È cosa dWersa affatto cosi dall'efficacia educativa al modo d'Omero, come dall'intento educativo al modo d'Eschilo. Presuppone l'esistenza d'una società umana per la quale la « cultura», l'essere umanamente formati, per se stesso, è divenuto sommo ideale; ciò peraltro è possibile sol quando, travagliatasi una stirpe in gravi conflitti inte~ori circa iJ significato del destino, conflitti della profondità d'Eschilo, l'Umano come tale sia alfine collocato nel centro dell'Essere. L'arte sofoclèa di creare figure umane è coscientemente inspirata dall'ideale di ll) V. p. 472 ss. . 11) ,Arist. Poet. 25, 1460 b 34.
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un atteggiamento umano che è prodotto peculiare della cultura e della società dell'età di Pericle. Cogliendo tale nuovo atteggiamento nella sua essenza profonda, quale dovette portarlo in petto egli stesso, Sofocle umanizzò la tragedia, facendone un modello imperituro di cultura umana nello spirito inimitabile dei suoi creatori. Si potrebbe quasi chiamarla un'arte della cultura, quale è - per quanto in una cornice temporale molto più artificiale - il Tas.~o come tappa isolata del travaglio di Goethe per la conquista della forma nella vita e nell'arte, se non fosse che per la nostra parola «cultura», con ogni sorta d'associazioni mentali, include un pericolo d'infiacchimento, dal quale non riusciamo mai a liberarci interamente. Bisogna prescindere affatto da contrapposizioni diventate moneta corrente nella scienza filologica, come « esperienza culturale» ed « esperienza originaria», per misurare ciò che sia la cultura nel senso greco originale 13), cioè la creazione prima e l'esperienza originaria della consapevole formazione dell'uomo, per comprendere la sua forza, che dà ali alla fantasia d'un grande poeta. L'incontro creatore di poesia e cultura in questo senso è una costellazione che si dà una volta m tutto il corso della storia. L'unità tra popolo e Stato, ardua conquista realizzata nelle guerre persiane, sopra la quale si leva il cosmo spirituale della tragedia eschilèa, gettò in Atene, come già esponemmo, le basi d'una nuova cultura indigena, superante i contrasti tra cultura aristocratica e 13) Mi sono provato a introdurre, nel testo, gli opposti termini Ur-Erlebnis e Bildungs-Erlebnis come li usava, nella critica letteraria, Friedrich Gundolf. Bildungs-Erlebnis significa un'esperienza che ci viene non attraverso contatti immediati colla vita stessa, ma soltanto per la via d'impressioni letterarie o della dottrina. Ma questa terminologia antitetica non s'adatta alla poesia classica greca.
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vita popolare. Nella vita di Sofocle appare simboleggiata in maniera unica l'eudemonià della generazione che edificò su tale fondamento lo Stato e la cultura del!'età di Pericle. I fatti sono ben noti, ma più significativi di quanto l'indagine coscienziosa possa stabilire, del rimanente, quanto ai particolari personali della sua vita esteriore. Non è, certo, se non leggenda che Sofocle partecipasse, bel giovinetto, alle danze per la vittoria di Salamina, dove Eschilo aveva combattuto; ma è eloquente il fatto che la vita del più giovane dei due non incominciasse propriamente che nel momento in cui la tempesta era passata. Sofocle sta sulla cresta, erta ed esigua, dell'apogeo meridiano del popolo attico, purtroppo presto· oltrepassato. L'opera sua è circonfusa dalla serenità senza vento, d>aliX e ya:À-fiv-ri, dell'incomparabile giornata storica la cui alba sorge con la vittoria di Salamina. Egli chiuse gli occhi poco prima che Aristofane invocasse l'ombra del grande Eschilo per proteggere la sua città dalla rovina. Non fece in tempo ad assistere alla caduta d'Atene. Mori dopo l'ultima vittoria d'Atene, anche una volta suscitatrice di grandi speranze, nella battaglia delle Arginuse, ed ora vive laggiù - così lo rappresenta Aristofane poco dopo la sua morte - in così perfetta armonia con se stesso e col mondo; come visse in terra 14). È difficile dire quanto di tale eudemonia egli debba all'età sua, favorita dalla sorte, quanto alla felice sua natura, e qtianto in essa sia frutto d'arte consapevole e di quella silenziosa, misteriosa saggezza di fronte alla quale la pretesa della genialità ama esprimere talvolta la propria insufficienza ed incomprensione con un imbarazzato atteggiamento di spregio. La vera cultura non è mai se non l'opera di queste tre forze riunite; nel suo fondamento ultimo 16)
Aristoph. Ranae 82.
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rimane un enigma. Meraviglioso e m essa che non è possibile spiegarla, nonché costruirla, ma soltanto additarla: eccola. Se null'altro conoscessimo dell'Atene di Pericl~, dalla vita e dalla figura di Sofocle concluderemmo che nel!' età sua, per la prima volta, sorse la formazione intenzionale dell'uomo. Si loda il suo modo di contenersi, e per questa forma quell'epoca creò il termine nuovo di « urbano », occr't"efoç. Quattro lustri dopo, esso è d'uso corrente in tutti i prosatori attici, in Senofonte, negli oratori e in Platone, e il tipo, così indicato, di commercio sciolto ed affabile con altri e di squisito contegno personale è analizzato e descritto da Aristotele. Ciò ha per presupposto la società attica dell'età di Pericle. Non v'è più bella illustrazione della grazia di questa fine cultura attica, tanto lontana dal senso scolastico di questa parola, che l'arguto rac· conto di un poeta contemporaneo, Ione di Chio 15), di quell'episodio vero della vita di Sofocle in cui egli, compagno ·di Pericle nel comando dell'armata, si trova ospite di riguardo in una piccola città ionica. Al banchetto, ha per vicino il maestro di letteratura del luogo, il quale, tutto compreso del proprio sapere, lo affiigge con la critica pedantesca di un bel passo d'un antico poeta: «Splende su guance purpuree la luce dell'amore», il cui colorito poetico lo urta. Come sa trarsi d'impaccio la superiorità d'uomo di mondo e la grazia umana del poeta, dando a quel realista povero di fantasia, con spasso generale, la prova della sua totalt> inettitudine all'ufficio, per se stesso tanto bello, d'interprete di poeti: e, a riprova tangibile ch;egli stesso s'intende pur sempre di più del suo ufficio di capitano, sebbene non di sua elezione, mettendo in opera il suo malizioso « strali) Athen. XIII 603e.
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tagemma» contro il grazioso fanciullo che gli sta porgendo la coppa colma di vino - ecco un tratto indimenticabile nell'immagine dell'uomo Sofocle e insieme della società attica dell'età sua, che qui non deve mancare. Accanto al ritratto del poeta datoci da questo aneddoto autentico, consono per spirito e contegno alla statua lateranense di Sofocle, poniamo il ritratto di Pericle dello scultore Cresila. Esso non riproduce soltanto il grande uomo di Stato, né, ad onta dell'elmo, il solo condottiero. A quel modo che Eschilo, per la posterità, fu sempre il combattente .di Maratona e il fedele cittadino della sua città, così l'arte e l'aneddoto incarnano in Sofocle e in Pericle la quintessenza della suprema nobiltà della kalokagathia attica, secondo lo spirito dell'età loro. In questa forma vive una sensibile e chiara co• scienza di ciò che è umanamente giusto e opportuno in ciascun caso~ la quale, nell'estremo padroneggiamento dell'espressione e nella misura perfetta, si ·rivela quale nuova libertà interiore. Nulla è in essa di affettato e sforzato; la sua levità è riconosciuta e ammirata da tutti; ma nessuno è in grado d'imitarla, quale è descritta alcuni anni dopo da Isocrate. Non esiste che ad Atene. Quanto v'è ancora di eccelso nell'intensità eschilèa dell'espressione e del sentimento, cede il posto a un equilibrio e ad una proporzione naturali, che sentiamo e gustiamo come un miracolo tanto nell'arte plastica del fregio del Partenone quanto nella lingua dell'uomo sofoclèo. Non si può definire che sia propriamente questo segreto palese, ma non è, ad ogni modo, cosa mera· mente formale. E invero sarebbe assai singolare che il medesimo fenomeno si mostrasse simultaneamente nell'arte plastica e nella poesia: deve avere per fondamento qualche cosa di preterindividuale, comune ai rappresentanti tipici dell'epoca. È l'emanazione di un'esistenza
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finalmente placata, finalmente all'unisono con se stessa, come bellamente esprime quel noto verso d'Aristofane: un'esistenza, cui nemmeno la morte può far nulla, in virtù di che essa deve restare «là» la stessa che « qui», ruxoÀoç 16). Non è possibile banalizzare tutto ciò peggio che interpretandolo, soltanto esteticamente, quale mera bella linea o, soltanto psicologicamente, quale mera natura armonica, scambiando i sintomi con l'intima es· senza. Se Sofocle è maestro dei mezzitoni, che non riescono ad Eschilo, ciò non ha per sola ragione l' accidentalità del suo temperamento personale•. Non v'è altro esempio in cui la forma come tale sia con tanta immediatezza l'espressione adeguata, la rivelazione anzi dell'Essere e della sua significanza metafisica. Alla domanda, quale sia l'essenza e il significato di quest'esistenza, Sofocle non risponde, come Eschilo, con una filosofia, con una teodicea, ma con la forma del suo discorso stesso, con la figura dei suoi personaggi. Ciò mal potrà intendere chi, di tra il caos e l'inquietudine della vita, nel momento in cui ogni salda forma si dissolve, non abbia mai stesa la mano verso questa guida, per ritrovare, mercé l'efficacia _d'alcuni versi sofoclèi, il proprio equilibrio interiore. Quanto essi fanno sentire col suono e col ritmo loro - la misura - è per Sofocle il principio deJl'csistenza, significa il pio riconoscimento d'una giustizia insita nelle cose stesse, il cui rispetto è il segno della suprema maturità. Non invano il coro della tragedia sofoclèa parla sempre dell'assenza di misura quale radice d'ogni male. Nel vincolo religioso verso questa nozione ha la sua più profonda radice l'armonia prestabilita dell'arte plastica e dell'arte poetica di Sofocle e di Fidia. A noi tale consapevolezza, onde è piena tutta quell'età, pare espressione così ovvia della so1 8)
V. nota 14.
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phrosyne profondissimamente insita in tutto ciò ch'è greco, fondata sull'elemento metafisico, che alla celebrazione della misura per parte di Sofocle sembra rispondere, da ogni parte del mondo greco, un'eco multipla. Nuova non è punto, infatti, l'idea, ma per l'efficacia storica e per il valore assoluto di un'idea non è mai decisiva la sua novità, bensì la sola profondità e intensità con la quale fu afferrata e vissuta. Lo sviluppo dell'idea greca della misura quale valore supremo si può contemplare, collocandosi nel punto dov'è Sofocle, come da una vetta. Essa muove verso di lui e da lui riceve la sua classica impronta poetica quale potenza divina, dominatrice del mondo e della vita 17). Lo stretto legame tra la cultura umana e la misura nella coscienza dell'epoca può dimostrarsi anche sotto un altro aspetto. In generale noi dobbiamo dedurre il valore degl'intendimenti artistici della classicità greca dalle sue opere stesse, le quali ad ogni modo restano per noi le migliori testimonianze. Ma quando si tratti di cogliere le tendenze creative ultime e più difficilmente afferrabili di sì ricche e complesse creazioni dello spirito umano, è un'esigenza giustificata quella d'accertarsi, mediante testimonianze dell'epoca, che la via da noi seguita sia la giusta. Di Sofocle stesso la tradizione ci dà due sentenze; le quali peraltro, in fin dei conti non ricevono garanzia storica se non dalla loro consonanza con la nostra medesima impressione intuitivà dell'arte sua. L'una è quella, già citata 18), che caratterizza i personaggi di Sofocle, in contrapposto al realismo d'Euripide, quali :figure ideali. In un altro detto 19), Per la relazione spirituale del poeta con la sua città v. W. Sophokles und Athen (Francoforte 1935). 1s) V. pp. 476-477. 19) Athen. I 22a-b. 17 )
ScHADEWALDT,
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l'artista differenzia la propria opera poetica rispetto a quella d'Eschilo col negare a questo la consapevolezza nel cogliere il punto giusto, che gli appare essenziale nel caso proprio. Considerati assieme, i due detti presuppongono una particolare consapevolezza delle norme secondo le quali il poeta crea le sue figure e rappresenta gli uomini « quali debbono essere». Ma appunto tale coscienza della norma ideale dell'uomo è propria del.'epoca iniziale della sofistica. La questione dell'areté dell'uomo è affrontata con enorme intensità sotto l'aspetto del problema educativo. «L'uomo quale deve essere» è il gran tema dell'epoca e la mèta di tutti gli sforzi dei Sofisti. Sino allora, la poesia sola aveva dato un fondamento ai valori umani della vita. Essa non poteva non risentir l'influenza della nuova volontà educativa. Se Eschilo o Solone avevano conferito alla poesia la sua grande efficacia col farne la scena della pro• pria lotta interiore con la divinità e col destino, ora Sofocle, seguendo l'impulso plastico. dell'epoca, si rivolge all'uomo stesso e trasporta l'elemento normativo nella rappresentazione della figura umana. Troviamo già certi spunti di tale sviluppo nelle opere tardive d'Eschilo, quand'egli, per accrescere la tragicità, contrappone al destino figure quali Eteode Prometeo Agamennone Oreste, in cui è insito un forte elemento d'idealità. Qui s'innesta Sofocle, e atteggia i suoi protagonisti a rappresentanti della più alta areté, quale la vagheggiavano i grandi educatori dell'epoca. Da che parte si trovi la priorità, se presso la poesia o presso l'ideale culturale, non è dato decidere; ma per una poesia come quella di Sofocle è affatto insignificante. Fatto decisivo è che la poesia e l'attività intesa a plasmare l'uomo si rivolgono consapevolmente al medesimo fine. Gli uomini di Sofocle nascono da un ideale di bellezza, di cui è fonte una spiritualizzazione senza prece-
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denti 'éi.ÀÀ' aii-oi:oç xixl. yévot' av où xixx6ç. Édipo è conscio della sua nobiltà, -rò ye:wixi:ov (O .C. 8) pur nella sua miseria. V. anche 270 xixl-roL 7twç tyw xixxòç qiùcrw; 75 è1td7te:p e:! ye:vvixi:oç, Ù>ç rn6nL, 7tÀ7jv -roi3 l)ix[!J.OVOç.
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Sofocle, rispetto a quella d'Eschilo, c1 appare un immenso accrescimento d'efficacia drammatica. Ma ciò non si fonda sul fatto che Sofocle ponga l'evento per se stesso, nel senso realistico della drammaticità shakespeariana, al posto della tradizionale danza corale. La violenza, che s'impone anche al più rozzo naturalismo, con la quale si svolge l'azione dell'Édipo, potrebbe dar luogo a tale equivoco, e forse esso deve in buona parte a questo le sue reiterate rappresentazioni sulle scene odierne; ma, così considerandola, non s'intenderà mai l'architettura Inirahilmente equilibrata della sceneggiatura sofoclèa. Essa non sorge dalla coerenza esteriore degli eventi materiali, ma da una superiore logica artistica, che, nel crescendo pieno di contrasti d'una progressione di scene, ci fa vedere da ogni lato l'intima natura del protagonista. Ne è esempio classico l"Elettra. La virtù inventiva del poeta, mediante arditi espedienti, crea sempre nuovi inceppi e incidenti, per far percorrere ad Elettra nell'intimo suo tutta la scala dei sentimenti sino alla disperazione assoluta; ma anche nelle più 'lriolente oscillazioni del pendolo egli mantiene il tutto in perfetto equilibrio. Quest'arte tocca il culmine nella scena del riconoscimento d'Elettra ed Oreste, dove mediante la voluta dissimulazione del reduce salvatore, che non lascia cadere il suo velo se non a poco a poco, il dolore d'Elettra percorre tutte le gradazioni dal cielo all'inferno. La drammaticità di Sofocle è quella dei moti dell'anima, che svolge il suo intimo ritmo nell'armonico disegno dell'azione. Essa ha la sua sorgente nella figura umana, cui sempre mette capo, come all'elemento ultimo e supremo. Ogni azione drammatica non è per Sofocle se non intima esplicazione nel dolore dell'uomo, il quale realizza il proprio destino e insieme se stesso. Anche per questo poeta la tragedia è organo della
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pm alta conoscenza, ma non è il q:>povdv in cui Eschilo trovava la pace del cuore. È l'autoconoscenza tragica dell'uomo, la quale approfondisce il delfico yv(;)lh aectu-r6v sino a penetrare la nullità larvale della forza umana e della felicità terrena 32). Ma tale autoconoscenza abbraccia anche la nozione dell'indistruttibile e superatrice grandezza &crxe:L xoct 't"Ò ye:vvocì:ov 't"phov.
36)
o. c.
394.
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mortale non deve vedere questo mistero: ne è partecipe soltanto colui che il dolore ha consacrato. La consacrazione del dolore lo avvic~a al divino, non è dato dir come, e lo separa dal resto degli umani. Ora egli riposa su1 colle di Colono, nella patria diletta del poeta, nel bosco sempreverde delle Eumenidi, dove tra le fronde canta l'usignolo. Piede umano non calca quella terra, ma di là si spande sull'Attica una benedizione.
CAPITOLO TERZO.
I SOFISTI I Sofisti come fenomeno di storia della cultura. Nell'età di Sofocle si ha il primo slancio di un processo spirituale d'importanza inestimabile per l'avvenire, del quale dovemmo già far cenno p1u sopra: ossia l'origine . di quella che in senso stretto dicesi cultura, cioè della « paideia». In quell'epoca soltanto, la parola, che nel IV secolo e durante l'età ellenistica e imperiale estese sempre più il suo significato e il suo contenuto, venne a rifarsi alla somma areté umana; e da « educazione dei fanciulli » - semplice significato che ha ancora in Eschilo, dove si trova per la prima volta 1) - divenne il compendio dell'ideale modellarsi corporale e spirituale della kalokagathfo, la quale ora, per la prima volta con chiara consapevolezza, include anche una formazione spirituale vera e propria. Per Isocrate, Platone e l'età loro sussiste già quest'ampio nuovo significato. 1 ) Aesch. Sepi. 18. Ma vedi Pindaro fr. 198 oihoL µe: !;évov ou8'oc1ìocijµovoc ]\foLcriiv bcoctlìe:ucrocv XÀU't"OCL 0'ij(3otL. Questo fram· mento è una prova importante del fatto che al tempo di Pindaro ed Eschilo anche in Beozia la parola 7totL1ìe:6oo comprendeva di già la cultura musicale (e, certamente, anche la ginnastica) che ne sarà il contenuto fondamentale nell'età periclèa. Per un terzo passo, concernente la paideia, nel poeta siciliano contemporaneo Epicarmo (se è autentico), v. « Paideia» III 50, n. 81.
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Certo l'areté era già stata sino da principio stretta· mente connessa con la questione dell'educazione 2). Con lo sviluppo storico percorso dall'ideale dell'areté umana nel corso dell'evoluzione del complesso sociale, doveva necessariamente mutare anche la via di con· seguirlo, e il pensiero doveva in genere appuntarsi con insistenza verso il problema del modo d'educazione da seguirsi all'uopo. La chiarezza fondamentale nel porre il quesito, senza di cui sarebbe impensabile il sorgere della singolarissima idea greca della formazione dell'uomo, presuppone tutta quella graduale evoluzione storica che abbiamo seguita dalla più antica concezione aristocratica dell'areté sino all'ideale politico dell'uomo dello Stato secondo il diritto. La forma in cui fondare e trasmettere I' areté doveva esser altra per l'educazione aristocratica, che per il contadino esiodeo o per il cittadino della polis, se ed in quanto per quest'ultimo esisteva alcunché di simile~ Astrazione fatta da Sparta, infatti, dove dai giorni di Tirteo in poi si era formata una particolare educazione dei cittadini, l'agoghé, che non trovava riscontro in nessun luogo della Grecia, altrove nulla faceva Lo Stat;o che somi· gliasse o potesse sostituire l'antica educazione aristocratica quale ci mostrano l'Odissea o Teognide e Pindaro, e l'iniziativa privata non seguì che a poco ·a poco. Grande svantaggio della nuova società civico-urbana rispetto alla aristocratica era il fatto che, col nuovo ideale dell'uomo e del cittadino 3 ), non era ancor data un'educazione intesa a questo fine, per quanto in massima si credesse d'avere oltrepassata la concezione aristocratica. L'istruzione professionale tecnica, che il pa· dre lasciava in retaggio al figlio quando questi gli sue2) V. cap. Il dcl libro I. 8) V. cap. VI del libro I.
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cedeva nel suo mestiere o nella sua industria, non poteva mai surrogare l'educazione generale del corpo e dell'animo che possedeva il xoc).Òç x&yoc06ç dell'aristocrazia e che si fondava su una concezione ideale complessiva dell'uomo 4J. L'esigenza di una nuova educazione, avente per fine l'uomo deJla polis, dovette affacciarsi di buon'ora. Anche qui il nuovo Stato dovette raccoglier la successione. Sulle orme dell'antica educazione dei nobili, tenacemente attaccata al suo aristocratico criterio di razza, dovette cercar di attuare la nuova areté, che nello Stato ateniese, ad esempio, faceva d'ogni cittadino nato libero, di stirpe ateniese, un membro consapevole della comunità statale e lo metteva in grado di servire al bene comune. Non era che un concetto ampliato della comunità di sangue, quello dell'appartenenza alla stirpe, venuto a surrogare l'antico Stato aristocratico famigliare. D'altro fondamento, che non fosse questo, non si trattava. Per quanto già fortemente si erga in quell'epoca l'individuo, sarebbe tuttavia stato impensabile il fondare la sua educazione su altro che sulla comunione della stirpe e dello Stato. Per questo assioma supremo d'ogni educazione umana è esemplare il costituirsi della paideia greca. Lo scopo prefisso era il superamento del privilegio educativo dell'antica nobiltà, che riteneva l'areté accessibile a coloro soltanto che l'hanno nel loro sangue divino. Ciò non poteva riuscir difficile a un pensiero razionale coerente, quale veniva sempre più affermandosi in quel periodo. Pareva non esservi che una via la quale conducesse a quella mèta, e cioè la formazione consapevole dello spirito, alla cui forza illimitata la nuova età era portata. a credere. Poco li turbava l'altezzosa ironia di Pindaro verso gli «addottrinati» 5). ') Cfr. p. 25 ss. •) Cfr. p. 396.
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L'areté politica non poteva né doveva dipendere dalla nobiltà del sangue., se l'assorbimento delle masse nello Stato, che appariva infatti irrefrenabile, non aveva ad essere una falsa strada. E se lo Stato moderno della polis aveva fatta propria l'areté corporale della nobiltà adottando la ginnastica, perché non sarebbe stato egualmente possibile ottenere. per via spirituale, mediante una metodica educazione, le innegabili d?ti ·ereditarie di comando di quel ceto ? Così lo Stato del V secolo diviene, di necessità storica, il punto di partenza del grande movimento educativo che dà precipuamente ad esso e al secolo seguente la loro impronta e dal quale ha origine l'idea occidentale della cultura. Questa, secondo l'intendevano i Greci, è interamente educativo-politica. Dalla più profonda necessità vitale dello Stato trasse origine l'idea dell'educazione, la quale riconosce . nel sapere, la nuova grande potenza spirituale di quell'età, una forza plasmatrice dell'uGIDO e la pone al servigio di questo compito. E non importa, per il nostro atteggiamento, se noi approviamo in se stessa la costituzione democratica dello Stato attico, dalla quale sorsero questi problemi nel secolo V. Senza dubbio la fase dell'iniziazione delle masse alla politica, che è la causa e uno dej caratteri della democrazia, è presupposto storico necessario a che si acquisti coscienza degli eterni problemi che il pensiero greco, con profonda riflessione, in quella fase del proprio sviluppo si è proposti ed ha posti alla posterità. Anche per noi essi sono sorti e ridiventati attuali attraverso il medesimo processo. Problemi come quello dell'educazione dell'uomo politico e della formazione dei dirigenti, della libertà e dell'autorità, non sorgono se non con questo gradino di sviluppo spirituale e qui soltanto acquistano tutta la loro urgenza e la pienezza del loro significato.
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Nulla hanno a che fare con primitive forme storiche d'esistenza, con una vita in orde e tribù, cui è ancora ignota ogni individualizzazione dello spirito amano. Nessuno dei problemi sorti sul terreno di quella forma statale del V secolo si limita quindi nel suo significato all'àmhito della democrazia greca dello Stato-città. Sono i problemi dello Stato, in senso universale, assolutamente. Lo prova il fatto che il pensiero dei grandi educatori e filosofi dello Stato greco, movendo dalle condizioni della democrazia, attraverso le esperienze fatte in essa giunge ben presto a soluzioni che oltrepassano arditamente quella data forma statale e che sono d'inesauribile fecondità per ogni situazione consimile. Il cammino del movimento educativo del quale iniziamo ora l'esame, partendo dall'antica cultura aristocratica, al termine di un'ampia curva, con Platone, Isocrate e Senofonte, doveva condurre a riallacciarsi all'antica tradizione aristocratica e all'antica idea dell'areté e al loro rinnovamento su UD fondamento spiritualizzato. Ma il principio e il mezzo del secolo V ne sono ancora ben lontani. Qui, all'opposto, si trattava anzitutto di spezzare l'angustia delle vecchie idee: la loro premessa mitica d'un privilegio del sangue, che invero non si poteva più dimostrare giustificato e vero se non là dove reggevasi quale superiorità spirituale e forza morale, quale crocp(oc e atxlXtOO'UV"I). Senofane mostra quanto fosse fortemente legato all'elemento politico sin da principio l'introdursi della « forza spirituale» nel quadro dell'areté, e come fosse motivato col buon ordine e col benessere della comunità statale 6). Anche in Eraclito, sebbene in altro senso, la legge è legata al « sapere», cui deve la propria oris) Cfr. p. 324.
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gine, e il detentore terreno di tale divino sapere rivendica una situazione speciale nella polis o viene in urto con essa 7). Ma appunto questi esempi capitali del sorgere del nuovo problema - Stato e spirito, presupposto dell'esistenza dei Sofisti, mostrano con piena chiarezza come il superamento della vecchia aristocrazia del sangue e delle sue pretese, per parte dello spirito, crei immediatamente un nuovo contrasto al posto del vecchio. Ed è il rapporto della forte personalità intellettuale con la comunità, che travagliò sino alla fine dello Stato-polis tutti i pensatori, senza ch'essi ne venissero a capo. Nel caso di Pericle, tale problema trovò una soluzione altrettanto felice per l'individuo quanto per la collettività. Pure, il destarsi dell'individualità spirituale novatrice e della sua incomoda consapevolezza del proprio valore non avrebbe forse dato l'avvio, di per se stesso, ad un movimento culturale così forte come la sofistica, la quale affaccia per la prima volta in un vasto ambiente l'esigenza di fondare l'areté sul sapere e ne compenetra il pubblico, se il pubblico stesso non avesse risentito il bisoguo d'ampliare l'orizzonte civico ~ di dare al singolo un'educazione spirituale. Questo bisogno si fa sempre più appariscente dacché Atene, dopo le guerre Persiane, si è affacciata alla ribalta internazionale, in quanto entità economica, commerciale, statale. Atene dovette la propria salvezza ad un sol uomo e alla sua superiorità spirituale. Se anche non lo tollerò a lungo dopo la vittoria, perché la sua autorità non era conciliabile con l'arcaica «isonomia» ed era sentita come una tirannide appena velata, pure la logica degli eventi imponeva di rendersi conto che la conservazione dell'ordinamento democratico dello Stato diveniva sempre 7)
V. p. 337 s.
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più chiaramente subordinata al problema della adeguata personalità del capo. Era questo in realtà il problema dei problemi appunto per la democrazia, la quale doveva portare se stessa all'assurdo, non appena volle esser qualcosa di più che la forma rigorosamente regolata dell'esercizio della politica e si trasformò in vero dominio della massa sullo Stato. Il fine del movimento educativo che i Sofisti suscitarono fu, sin da principio, non l'educazione del popolo, ma dei capi. Non era, in fondo, che il vecchio problema dell'aristocrazia, sotto nuova forma. Certamente in nessun luogo, come in Atene, si offrivano ad ognun,o, anche al semplice cittadino, tante possibilità d'acquistare i fondamenti d'una cultura elementare, anche senza che lo Stato assumesse la direzione ddla scuola. Ma i Sofisti non si rivolgono, sin da principio, che ad un'élite. A loro non ricorre se non chi vuole educarsi alla politica e dirigere un giorno la sua città. Questi, per sodisfare le esigenze dei tempi, non dovrà soltanto realizzare, come Aristide, l'antico ideale po· ·litico della giustizia, quale si può pretendere da qual· siasi cittadino. Egli non deve soltanto osservare le leggi 8), ma con le leggi dirigere egli stesso lo Stato, e per questo, oltre all'esperienza, sempre indispensabile, cui non mena che l'immergersi nella pratica della vita politica, gli occorre una generale comprensione della natura delle cose umane. Certo, le doti capitali dell'uomo di Stato non si possono acquistare: l'energia, la presenza di spirito e la preveggenza, che Tucidide soprattutto loda in Temistocle 9), sono innate. Ma il . dono della parola pronta e persuasiva può essere sviluppato. Già presso i nobili geronti, che formano il B) Cfr. p. 206, n. 23. •) Thuc. I 138, 3.
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Consiglio dello Stato nell'epos omerico, essa è la virtù propria dei governanti e anche in tutto il periodo posteriore conserva tale dignità. Esiodo ravvisa in essa una forza che le Muse conferiscono al re e mercé la quale egli dirige con una dolce pressione ogni assemblea 10). Ecco l'eloquenza già equiparata all'inspirazione del poeta per parte delle Muse, certo ponendo mente anzitutto alla capacità giudicativa della parola che decide e motiva. Nello Stato democratico, con le sue assemblee popolari e la sua libertà di parola, la dote d'oratore divenne più che mai indispensabile, divenne anzi il vero timone nelle mani dell'uomo di Stato. L'età classica chiama addirittura l'uomo politico « retore». Il vocabolo non ha ancora il significato meramente formale dei tempi più recenti, ma include anche l'elemento sostanziale. Che l'unico contenuto d'ogni pubblica eloquenza sia lo Stato e i suoi affari, è in quel tempo cosa ovvia. Di qui doveva prender le mosse qualsiasi insegnamento inteso a formare uomini politici. Esso diventa, per sua necessità interna, una scuola dell'oratore, e qui si può intendere, secondo la parola ,greca logos e il suo valore, un grado assai vario di compenetrazione degli elementi formale e sostanziale. Secondo questo · criterio diventa comprensibile e significativo il formarsi di tutt'una classe di educatori, la quale si offre pubblicamente d'insegnare per danaro la « virtù » come un tempo si traduceva 11). È colpa principalmente di questa errata modernizzazione del concetto greco dell'areté, se la pretesa dei Sofisti o maestri di sapienza, come i contemporanei e ben presto essi medesimi chiamarono la loro professione, appare· spesso all'uomo mo10) Hes. Theog. 81 ss. 11) Sulla «professione », o epiinghelma dei Sofisti, v. « Paideia » II 184.
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derno una presunzione radicalmente stolta ed ingenua. Questo sciocco equivoco dilegua non appena restituiamo alla parola areté il significato, ovvio nell'età classica, di areté politica, e pensiamo anzitutto alle capacità intellettuali e oratorie che, nella nuova situazione del secolo V, dovevano apparire suo elemento decisivo. È naturale per noi, rivolgendo lo sguardo ai Sofisti, vederli sin da principio con l'occhio scettico di Platone, per il quale il dubbio socratico circa « l'apprendibilità della virtù » 12) è l'inizio d'ogni conoscenza filosofiça. Ma è storicamente ingiusto, e ostacola ogni vera intelligenza di quell'epoca, importantissima per la storia dell'umana cultura, il caricarla in anticipo dei problemi d'una fase più evoluta della consapevolezza filosofica. Nella storia delle idee, i Sofisti sono un fenomeno così necessario come Socrate o Platone; questi, anzi, senza di quelli sono affatto impensabili. L'impresa d'insegnare l'areté politica è espressione diretta del profondo mutamento di struttura avvenuto nella sostanza dello Stato. L'immane rivolgimento che lo Stato attico subì col Sll;O ingresso nella politica in grande stile, è stato descritto da Tucidide con geniale penetrazione. Il trapasso dalla condizione statica dell'arcaico Stato-città alla forma dinamica dell'imperialismo periclèo recò seco la più forte tensione e la gara di tutte le forze, all'interno come verso l'esterno. La sistemazione razionale dell'educazione politica non è che un caso particolare di quella della vita intera, più che mai orientata verso l'efficienza e il successo. Ciò non poteva restare senza influenza sull'apprezzamento delle qualità dell'uomo. L'elemento etico, che «s'intende da sé», passò automaticamente in seconda linea rispetto all'intellettuale, che venne ad essere in tutto premi11)
V. ; Il, cap. V.
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bilità sociale dell'uomo 60). Egli prende le mosse dalla situazione sociale esistente. Ognuno suole confessare apertamente la propria incapacità in qualche arte che richiede una speciale attitudine, perché non è motivo di vergogna. Nessuno, invece, commette palesemente infrazioni delle leggi, bensì salva almeno l'apparenza di una condotta legittima. Se tralasciasse di farlo e confessasse apertamente il proprio torto, ciò sarebbe ritenuto, in questo cas-6, non già schiettezza, ma follia; tutti infatti ritengono che ognuno può esser partecipe della giustizia e dell'assennatezza. L'acquisibilità dell'areté politica risulta anche dal vigente sistema di pubblica approvazione e punizione. Nessuno si. adira contro un altro per deficienze che questi abbia per natura sin dalla nascita e che non sia in grado di. eliminare, per le quali non merita né lode, né castigo. Ma tanto la lode quanto il castigo sono assegnati dalla società umana là dove trattisi di beni conseguibili mediante sforzi coscienti ed apprendimento. I falli umani che la legge punisce debbono dunque essere evitabili mediante l'educazione, se l'intero sistema sul quale riposa la società non ha ad essere insostenibile. Altrettanto deduce Protagora anche dal significato della -pena. ln opposizione alla concezione causale, propria della Grecia arcaica, della punizione come vendetta per aver uno commesso un fallo, egli professa una teoria evidenmente affatto moderna, la quale VU:ole inflitta la pena finalisticamente, quale mezzo per migliorare il malfattore e intimorire gli altri 61). Tale concezione pedagogica della pena si basa sul presupposto dell'educabilità: dell'uomo. La virtù civile è fondamento degli stati; senza di essa non sussisterebbe alcuna comunità:. Chi SO) Pl Proi. 323a 91. lh. 324.n-h.
81)
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non ne è partecipe deve essere educato, punito e ammonito sino a che si migliori; se poi è inguaribile, dev'essere escluso dalla comunità o ucciso. Così non solo la giustizia punitiva, ma tutto lo Stato è per Protagora una potenza educativa da cima a fondo. È, per dir meglio, il moderno Stato secondo il diritto e la legge, quale egli vede realizzato in Atene, il cui spirito politico parla da tale coerente concezione pedagogica della pena e cerca in essa la propria giustificazione. Questa concozione educativa della giurisprudenza e della legislazione dello Stato ha propriamente per presupposto un'influenza sistematica dello Stato sull'educazione dei suoi cittadini, che per altro, come già dicemmo, non si ebbe in Grecia all'infuori di Sparta. È notevole che i Sofisti non propugnarono la statizzazione dell'educazione, sebbene tale esigenza, secondo il criterio di Protagora, fosse in realtà assai ovvia. Ma questa lacuna colmarono appunto i Sofisti, offrendo in seguito ad accordi privati la propria opera ·educativa. Protagora dimostra che la vita dell'individuo si trova già sottoposta ad influenze educative sin dalla nascita. Nutrice, madre, padre e pedagogo gareggi;mo nel formare il fanciullo, ammaestrandolo e mostrandogli che cosa sia giusto ed ingiusto, bello e brutto. Cercano di raddrizzarlo, come un fusto che si pieghi e si storca, con minacce e percosse. Poi egli va a scuola, impara a conoscere l'ordine e acquista le nozioni del leggere e scrivere e suonare la cetra. Superato questo stadio, il maestro gli propone poesie di buoni poeti e gliele fa imparare a memoria 62 ). Esse contengono molti ammonimenti e racconti che esaltan~ uomini eminenti, il cui esempio deve stimolare il fanciullo all'hnitazione. Mediante l'insegnamento 68 )
ib. S25e.
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della musica egli è inoltre educato alla sophrosyne e distolto dalle monellerie. Segue lo studio dei poeti lirici, le cui opere sono recitate sotto forma di composizioni musicali. Esse rendono familiari alle aniu:;:e giovanili il ritmo e l'armonia, per farle docili, giacché la vita umana abbisogna d'euritmia e di giusta armonia. Questa deve esprimersi in tutto ciò che dice e fa l'uomo veramente colto 63). Si manda inoltre la gioventù alla scuola di ginnastica dal pedotriba, per educarne il corpo, affinché esso sia buon servitore dello spirito valente e l'uom_o non fallisca mai nella vita per debolezza fisica. Protagora tiene particolar conto dell'eletta società dinanzi alla quale fa questa esposizione delle condizioni fondamentali e dei gradi della cultura umana, con l'accenno che le famiglie benestanti fanno educare più a lungo i propri figli, che non . la classe più povera. I :figli dei ricchi incominciano prima ad imparare e terminano più tardi 64). Con ciò egli vuol dimostrare che ognuno procura ai propri figli l'educazione più accurata possibile, che dunque l'educabilità dell'uomo è communis opinio di tutti quanti e che, praticamente, l'azione educativa è esercitata da ognuno senza esitare. Caratteristico del nuovo concetto di cultura è che Protagora non fa terminare l'educazione éon l'uscire dalla scuola. Essa, anzi, in un certo senso comincia proprio allora. Ed è di nuovo la concezione dello Stato prevalente nell'età sua, che si rispecchia nella teoria di Protagora, quando egli considera le leggi dello Stato quali educatrici all'areté politica. La cultura propriamente civica incomincia col fatto che il giovane licenziato dalla scuola, entrando nella vita attiva, è costretto 18)
ib. 326a-b.
H) ib. 326c.
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dallo Stato a conoscer le leggi e a vivere secondo il modello e l'esempio (rrcx:pcHh:tyµcx:) ch'esse dànno 65). Si tocca qui con mano la trasformazione dell'antica paideia aristocratica nella moderna educazione civile. L'idea del modello domina l'educazione aristocratica da Omero in poi. Nel modello personale s'incarna agli occhi del1' allievo la norma ch'egli deve seguire, e lo sguardo ammirativo rivolto alla sua personificazione nella figura umana ideale deve stimolarlo all'imitazione. Questo elemento personale dell'imitazione (µ(µ -r,crt.:;) viene a mancare nella legge. Nel sistema progressivo d'educazione svolto da Protagora, esso non è invero scomparso del tutto, ma è disceso ad un grado più basso: è inerente all'insegnamento, elementare e ancora di puro contenuto, della poesia, il quale, come vedemmo, non era indirizzato alla forma, al ritmo e all'armonia dello spirito, bensì all'elemento normativo morale e all'esempio storico. Inoltre l'elemento normativo del modello, nella concezione della legge quale suprema educatrice del cittadino, è conservato e rafforzato, ché la legge è l'espressione più generale e serrata della norma vigente. La vita conforme la legge è paragonata figuratamente da Protagora all'educazione elementare dell'insegnamento della scrittura, in cui i fanciulli debbono imparare a scrivere senza oltrepassare la riga. Anche la legge è una linea calligrafica di questa sorta, invenzione d' ottimi, vecchi legislatori. Protagora aveva paragonato il processo educativo al raddrizzamento d'un fusto; quando il linguaggio giuridico chiama euthyne, « raddrizzamento », la pena che riconduce alla linea chi ne devia, anche in ciò, a parere del sofista, si manifesta la funzione educativa della legge 66). 65) 86 )
ib. 326c-d. ib. 326d.
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Nello Stato ateniese la legge (v6µoç) non era soltanto regina (~ix11LÀ€uç) - come allora si soleva dire citando Pindaro 67 ) - ma era anche l'alta scuola del cittadino. Tale idea è oggi alquanto estranea al modo di sentire dell'età nostra. La legge non è più invenzione di venerandi legislatori, ma creatura del momento, ciò che presto doveva diventare purtroppo anche in Atene, e nemmeno gli specialisti possono averla presente nella sua totalità. Ai giorni_ nostri sarebbe ben difficile immaginare che a Socrate, nel carcere, nell'istante in cui gli si schiude la via della libertà e della fuga, le leggi apparissero quali persone vive, ammonendolo a restar loro fedele anche nell'ora della tentazione, perché furono esse a educarlo e proteggerlo tutta la vita e perché sono il fondamento stesso della sua esistenza. Ciò che Protagora dice delle leggi quali educatrici rammenta quella scena del Critone platonico 68). Egli non fa così che formulare lo spirito dello Stato secondo il diritto nell'età sua. Noi sentiremmo l'affinità elettiva della sua pedagogia con lo Stato attico anche se egli non si riferisse più volte espressamente alle condizioni d'Atene e non dicesse che lo Stato attico e la sua organizzazione si basano su questa concezione dell'uomo. Se Protagora abbia avuta egli stesso questa consapevolezza, o se sia stato Platone ad attribuirgliela per parte sua riferendone la lezione, genialmente ma con artistica libertà, nel Protagora, è cosa che non siamo più in grado di determinare. Certo è soltanto che Platone fu per tutta la vita del parere che l'educazione dei Sofisti fosse un'arte calcata sulle circostanze politiche reali.
V. p. 211. 6B) PI. Crit. SO a; cfr. Prot. 326c.
67 )
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Tutto ciò che Protagora espone in Platone mira al problema dell'educabilità. Questo non è peraltro dedotto dai Sofisti soltanto dalle premesse dello Stato e della società e dal common sense politico e morale, bensì inserito in un quadro ancor più vasto. Il problema della malleabilità della natura umana è un caso particolare della relazione tra natura ed arte in genere. Quanto a questo aspetto della teoria sono molto istruttive le considerazioni di Plutarco nel suo trattato, fondamentale per l'umanismo del Rinascimento, intorno all'educazione della gioventù, ripubblicato infinite volte, le cui idee sono state totalmente assorbite dalla pedagogia moderna. L'autore stesso confessa nell'introduzione 69) - e ce nè accorgeremmo anche da soli - d'aver conoscenza e èli giovarsi della letteratura pedagogica anteriore. Ciò non riguarda solo quel dato luogo per il quale egli si riferisce ad essa, .ma anche il capitolo seguente, nel ·quale tratta dei tre fattori fondamentali di ogni educazione: natura, apprendimento, adattamento. È chiaro com'egli si basi qui sul terreno dell'antica teoria pedagogica. A noi torna molto opportuno ch'egli,'insieme alla «trinità pedagogica» 70), nota anche d'altra parte come propria dei Sofisti, ci abbia conservata una successione di pensieri strettamente connessa con questa dottrina e che illumina di viva luce la portata storica dell'ideale culturale dei Sofisti. La fonte di Plutarco illustrava k relazione tra quei tre elementi dell'educazione con l'esempio dell'agricoltura, quale caso fondamentale di elaborazione della natura mediante l'arte metodica dell'uomo. Per la buona agricoltura occorre in primo luogo un buon terreno, poi un contadino esperto, infine &i) Plut. De lib. educ. l d. 70) V. p. 525.
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una buona semente. Il terreno dell'educazione è la natura dell'uomo, al contadino corrisponde l'educatore, semente sono le dottrine e i precetti che trasmette la parola parlata. Là dove tutte tre le condizioni sono sodisfatte interamente, si ottiene un resultato eccezionale. Ma anche là dove una natura meno dotata riceve la cura opportuna per mezzo della conoscenza e dell'adattamento, quella deficienza può essere in parte compensata; inversamente, invece, anche la natura più riccamente dotata deperisce, ove sia trascurata. È appunto questa esperienza, che rende indispensabile l'arte educativa. Ciò che si strappa alla natura finisce per diventare più forte della natura stessa. Il buon terreno. diviene infecondo se non è C"\llato, e tanto più cattivo, quant'o migliore è per natura. Una terra meno buona, lavorata opportunamente e continuamente, reca alla fine frutti eletti. Altrettanto vale per le culture arboree, che formano l'altra metà dell'agricoltura. L'esempio dell'addestramento degli animàli è del pari una prova della malleabilità della physis. Basta intervenire col lavoro nel momento giusto, nel più malleabile, che per l'uomo è l'infanzia, in cui la natura è ancor tenera e le cose apprese si fondono ancora facilmente con l'animo e gli s'imprimono. Non più è possibile, purtroppo, distinguere nettamente gli elementi antichi e recenti di quest'argomentazione. Plutarco ha evidentemente unito dottrine della filosona postsofistica a idee dei Sofisti. Così l'immagine della malleabilità (1nhtì..ixcr-ro-J) dell'anima giovanile proviene forse da Platone 71) e la bella idea che l'arte sia un compenso alle manchevolezze della natura ritorna m Aristotele 72), se pure non presuppongono già en71) Pl. Resp. 317h. 73) Questa pa:rte del perduto Protrettico in cui Aristotele :;vol~eva questa idea è :ricostruita, :pe:r µiezzo del :frotrettiço Qi
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trambi precursori sofistici. L'efficace esempio dell'agricoltura sembra invece così organicamente connesso con la dottrina della trinità pedagogica, che è necessario attribuirlo alla dottrina pedagogica sofistica 73). Esso è già usato anche prima di Plutarco ed anche per questo deve risalire ad una fonte antica. Mediante la sua traduzione in latino, il paragone della cultura umana con l'agricultura è passato nel pensiero dell'Occidente, conducendo alla calzante invenzione della cultura animi: la cultura dell'uomo è un « coltivare lo spirito». In questo concetto è ancor manifesta la risonanza immaginosa della sua derivazione dalla cultura della terra. La dottrina della cultura dell'umanismo ulteriore fece risorgere anche quest'idea, facendola partecipe del posto centrale che occupa d'allora in poi l'idea della cultura dell'uomo nel pensiero dei popoli civili ( « Kulturvolker »). È conforme al carattere di primi umamsti, da noi attribuito ai Sofisti, l'essere essi divenuti i creatori del concetto di cultura, per quanto non potessero supporre che quest'immagine avrebbe un giorno talmente eclissato il semplice concetto dell'educazione dell'uomo, diventando simbolo supremo di civiltà. Ma questo cammino trionfale dell'idea di cultura è intimamente giustificato, giacché in quella feconda similitudine si esprime il nuovo fondamento universale dell'idea greca della formazione dell'uomo, la quale, così, è caratterizzata come l'applicazione suprema della legge generale dell'affinamento e miglioramento della natura mercé l'atGiamblico neoplatonico, nel mio Aristotele: p. 97 ss. della trad. italiana (Firenze 1935). 73) Il paragone dell'educazione con l'agricoltura appare anchE> nella Legge « Ippocratica» 3. Ma poiché la data dell'origine d; questa non è nota, essa non ci aiuta molto dal punto di vist" della cronologia. La Legge mi sembra un prodotto del tempo dei Solisti o non molto posteriore.
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tività consapevole dello spmto umano. Appare qui come l'abbinamento della pedagogia con la filosofia della cultura, attestato dalla tradizione per i Sofisti e soprattutto per Protagora, fosse intimamente necessario. L'ideale della formazione dell'uomo, è per lui il culmine della cultura in quel senso amplissimo in cui abbraccia tutto ciò che va dai primordi del padroneggiamento della natura fisica per parte dell'uomo al colmo dell' autoformazione dello spirito umano. In tale profondo e largo fondamento dato al fenomeno dell'educazione si rivela nuovamente la natura dello spirito greco, indirizzata all'universalità e totalità dell'essere. Senza di essa né l'idea di cultura, né quella della formazione dell'uomo si sarebbero presentate in forma cosi plastica. Ma, per quanto importante sia questa profonda motivazione filosofica dell'educazione, il parallelo con la cultura della terra non ha se. non valore limitato per il metodo dell'educazione stessa. Le conoscenze immerse nell'anima dall'apprendimento stanno con essa in altra relazione che non il seme con la terra. L'educazione non è un mero processo di crescenza che 'progredisca da sé, che l'educatore produca a suo arbitrio e alimenti e promuova coi propri mezzi. Abbiamo già rammentato il modello dell'educazione fisica dell'uomo mediante l'allenamento ginnastico, le cui annose esperienze offrivano l'esempio più ovvio per la nuova cultura dell'anima. Al modo che, tenendo presenti le arti :figurative, si considerava il trattamento del corpo vivente come un atto formativo, così a Protagora l'educazione appare come un dar forma all'anima, e i mezzi dell'educazione come forze formatrici 74). Se i Sofisti 1 4)
V. p. 531 e n. 63.
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abbiano già applicato al processo educativo il concetto determinato di formazione o cultura, non possiamo dire con certezza; ma in massima la loro idea dell'educazione non è nient'altro che questo. Può dunque essere indifferente che sia stato Platone ad usare forse per primo la parola « formare» (7tÀOC't"'t'E:tv) 75). Quando Protagora, inculcando il ritmo poetico e musicale e l'armonia, vuol rendere ritmica ed armonica l'anima 76), ciò si inspira già all'idea della formazione. Protagora, in quel luogo, non descrive l'insegnamento ch'egli stesso impartisce, ma quello di cui gode dal più al meno ogni Ateniese e che impartiscono le scuole private esistenti. È da ritenere che l'insegnamento dei Sofisti si basasse con analogo indirizzo su questo, soprattutto nelle discipline formali, che erano elemento capitale dell'educazione sofistica. Prima dei Sofisti non si parla mai di Grammatica, Retorica e Dialettica; essi debbono quindi considerarsene i fondatori. La nuova techne è evidentemente l'espressione metodica del principio della formazione dello spirito, giacché muove dalla forma della lingua, del discorso e del pensiero. Quest'azione pedagogica è una delle più grandi scoperte 'dello spirito umano. Esso acquista così per la prima volta coscienza, in questi tre campi della sua attività, della legge recondita della sua propria struttura. La nostra conoscenza di questa grande opera dei Sofisti è purtroppo manchevolissima. I loro scritti grammaticali sono perduti, ma su di essi si sono poi basati i posteri, i Peripatetici e gli Alessandrini. La parodia che ne fa Platone ci apre qualche spiraglio sulla Sinonimica di Pro dico di Ceo; abbiamo inoltre qualche notizia della classificazione delle varie specie di voca16) « Paideia» II 364 e n. 58, 7•) PI. Prot. a26a-b.
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boli di Protagora e della dottrina d'lppia circa l'importanza delle lettere e delle sil1abe 77 ). La Retorica dei Sofisti è anch'essa perduta; già i suoi manuali non erano destinati alla pubblicazione. Un tardo frutto di questo tipo è la Retorica di Anassimene, congegnata in gran parte su concetti tradizionali, che dà ancora una certa idea della Retorica sofistica. Meglio possiamo renderci conto ancora dell'arte della discussione dei Sofisti. Ne è bensì perduto il trattato capitale, le « Antilogie » di Protagora; ma il trattato, che ci è pervenuto, d'un ignoto sofista della fine del V secolo 78), che scrisse in dorico, i «Discorsi Duplici» ( ~Lcrcrol. A.6ym) ci permette di farci un'idea di questo metodo singolare di parlare d'una medesima cosa « da ambo i lati», ossia ora impugnandola, ora difendendola. Alla Logica non si giunge che nella scuola di Platone, e l'eristica da prestigiatori di certi Sofisti di basso conio, contro il cui malanno lotta la filosofia seria, mostra, nella caricatura che ne fa l' Eutidemo platonico, quanto si contasse sin da principio sulla nuova arte disputativa quale arma nel duello oratorio. Essa è in ciò più affine alla Retorica., che alla teoria scientifica della Logica. Data la mancanza quasi totale di tradizioni dirette, siamo costretti a renderci conto dell'importanza della cultura formale dei Sofisti soprattutto dall'immensa loro influenza sui coevi e sui posteri. A questa cultura debbono i contemporanei l'inaudita padronanza e l'arte superiore nella composizione dei discorsi e delle argomentazioni, come in ogni altra forma di ragionamento, dalla semplice narrazione d'un fatto sino all'ec77 ) Le poche testimonianze sono raccolte in DIELS; Vorsokratiker: Prodicus, A 13 ss.; Protagoras, A 24-28; Hippias, A 1-12. 78 ) Il luogo di Dialexeis 8 si riferisce alla vittoria dei Lacedemoni contro gli Ateniesi e i loro alleati e alle sue conseguenze per ambedue le parti, cioè alla fine della guerra del Peloponueso.
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citamento delle più intense passioni, di cui gli orato1 padroneggiano tutte le gradazioni come una tastiera. Qui è all'ordine del giorno quella « ginnastica dello spirito » della quale sentiamo così spesso la mancanza nell'espressione degli oratori e scrittori. moderni. Gli oratori attici di quell'epoca ci fanno realmente l'impressione che il logos sia un denudarsi per la lotta. Una dimostrazione ben costrutta, così serrata ed agile, assomiglia al corpo nervoso e allenato d'un atleta in ottima forma. Il dibattito giudiziario si chiama in greco ag6n: per i Greci, esso rimane sempre la lotta tra due avversari in forme legalizzate. Studi recenti hanno mostrato come, nell'antichissima oratoria giudiziaria, al tempo dei Sofisti, in luogo dell'antiquato sistema di prove mediante testimoni, tortura e giuramento, subentri via via la dimostrazione per via di logica argomentazione, propria della nuova retorica 79). Ma anche un indagatore della verità così austero come lo storico Tucidide si mostra dominato dall'arte formale dei Sofisti sino ai particolari della tecnica oratoria, della sintassi, e persino dell'uso grammaticale delle parole, della « orthoepia » 80). La Retorica è .diventata la cultura predominante della tarda classicità. Essa corri-· spondeva talmente >. I Series, vol VI (Chicago 1904) 261 ss. 11) Questo non ci impedisce, naturalmente, di riconoscere l'origine indipendente dei principali elementi formali della commedia. come è stata studiata da T. ZIELINSKI, Die Gliederong der altattischen Komoedie (Lipsia 1885). · . ·· 1 2) Hor. Serm. I 4; Quint. Xl, 66; De diff. Com. 3 (p. 4 Kaihel).
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logi alessandrini. Tale canone, evidentemente calcato sulla triade dei poeti tragici, non fu che una sottigliezza d'eruditi, nella quale non si rispecchia il rap· porto reale tra l'importanza viva di questi autori. nemmeno nell'età ellenistica. Lo mostrano ineccepibilmente i papiri ritrovati. Platone ebbe ragione di das· sificare Aristofane, nel suo Convito, quale rappresentante per eccellenza della commedia. Nulla era stato, di sua natura, più estraneo alla commedia - anche ai tempi in cui possedeva già poeti cospicui: della ge· nialità dissoluta di Cratino e della ricchezza d'inven· tiva drammatica di Cratete - che il subordinarsi ad una missione culturale superiore. Essa non voleva altro che far ridere gli ascoltatori, e persino i suoi autori più in voga erano fischiati senza pietà quando, invecchiando, si disseccava in loro la sorgente prima della loro efficacia, il brio, come è destino di tutti i clowns 13). Il Wilamowitz, in ispecie, ha protestato vivamente contro l'idea che la commedia volesse migliorare moralmente la gente. Nulla infatti, sembra più estraneo ad essa d'ogni intento insegnativo, nonché moraleggiante. Eppure l'obiezione non è radicale abbastanza, e non rende giustizia allo sviluppo effettivo della commedia nell'epoca in cui ci è nota. A quanto pare, del resto, quel beone impenitente di Cratino - per il quale Aristofane, nella parabasi dei Cavalieri 1'), propone che lasci al più presto le. scene ed ottenga vita natural durante libazioni ad honorem nel Pritanèo - aveva ancora il suo nerbo essenziale nel dileggio senza riguardi di noti e malvisti personaggi cittadini. È il genuino giambo antico, elevato a satira politic~.- Eupoli ed Aristofane, i radiosi Dioscuri della 18) V. la parabasi dei Ca11alieri di mente 525 ss. H) Equ.il. 535.
Aristof~e,
507 ss., special·
CAP. V: LA COMMEDIA D'ARISTOFANE
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nuova generazione, che da annc1 incominciarono con lo scrivere assieme i loro lavori teatrali, e finirono, nemici accaniti, con l'accusarsi reciprocamente di plagio, nella loro. invettiva personale contro Cleone ed lperbolo sono i successori di Cratino. Ma Aristofane ha coscienza, sin dal primo momento, di rappresentare un livello artistico superiore. Sin dalla prima delle sue commedie superstiti,. gli Acarnesi, la satira politica s'intreccia ad un'azione di fantasia condotta con genialità somma, che unisce il consueto elemento burlesco crudamente sensuale con lo spiritoso simbolismo di un'alta utopia politica e per giunta l'arricchisce della comica parodia letteraria d'Euripide. L'intreccio di fantasia grottesca e di realismo vigoroso, entrambi elementi fondamentali dello spettacolo carnevalesco dionisiaco, genera quell'atmosfera singolarmente plastica, eppure irreale, ch'era premessa necessaria di una forma superiore di poesia comica .. Già negli Acarnesi 15) Aristofane accenna ironico alle goffe grossolanità con -le quali la farsa megàrea suscitava l'ilarità della folla ottusa e cui anche i poeti della commedià si compiacevano tuttora di ricorrere. Certo, anche alla folla bisognava offrir qualche cosa, e il poeia sa far concessioni, al momento opportuno, agl'imprescindibili requisiti della vecchia arte comica: l'abusato motteggio delle zucche pelate degli spettatori, il volgare ritmo di danza del kordax e il gusto delle scene manesche, con che l'attore nasconde l'insulsaggine dei propri scherzi. Analoghi dovevano essere stati gli scherzi che - secondo il giudizio bonariamente insolente dei Cavalieri 1 6) fiorivano sul muso, avvezzo ancora al rozzo cibo del1' Attica arcaica, del vecchio Cratete. Nelle Nuvole Ari15)
16)
Ach. 738. Equit. 539.
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stofane proclama ad alta voce quanto superiore egli si senta ai mezzi dei suoi predecessori (né di questi soltanto), quanto esclusivamente conti sull'arte e sulla parola propria 17). Egli è fiero di presentare ogni anno una nuova « idea », ponendo con questo nella sua vera luce l'inventiva artistica della nuovissima poesia coinica non solo di fronte all'anteriore, ma anche di fronte alla tragedia, giacché questa lavora su temi dati. Data la gigantesca competizione degli annui concorsi drammatici, l'originalità e la novità dovevano acquistare sempre maggior peso. La loro attrattiva poteva essere ancora accresciuta dall'eccezionale audacia di un attacco politico, come quello d'Aristofane contro l'onnipotente Cleone. Con un attacco siffatto, un commediografo poteva destare l'attenzione generale, a quel modo che i giovani politicanti solevano esordire sostenendo l'accusa di un qualche clamoroso processo politico. Ma ci voleva coraggio, ed Aristofane ritiene di potersi più vantare per aver« dato una manata sui ventre» 18) al grande Cleone, che i suoi colleghi, i quali se la prendevano ogni anno col demagogo Iperbolo, ben meno pericoloso, e con sua madre., Tuttociò non ha certo l'aspetto d'un miglioramento dell'umana moralità. La metamorfosi spirituale della commedia deriva da altra fonte. Sorge dalla graduale trasformazione della sua concezione della propria missione critica. Il giambo d'Archiloco, per quanto in parte personale, aveva già spesso assunto, in seno alla maggior libertà\ dello Stato-polis ionico 19), l'ufficio della critica. Ma, nel senso proprio e più alto, ciò non può dirsi che
i1) Nub. 537 ss. 18) Nub. 549. 19) V. p. 231 ss.
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della commedia attica, sua erede. Anch'essa era sorta dal motteggio più o meno innocente contro persone private; ma non conseguì la sua vera natura che col fare ingresso nella pubblica arena della politica. Quale la conosciamo nel suo fiore, si presenta come frutto genuino della libertà di parola democratica. Già gli storici della letteratura dell'ellenismo monarchico riconobbero che l'ascesa e la decadenza della commedia politica coincisero con quelle dello Stato attico 20). Né mai più fiorì in nessun luogo, e meno che mai nell'antichità stessa, dopo che - secondo il detto di Platone - si fu caduti dall'eccesso di libertà nell'eccesso opposto 21). Ma non basta scorgere nella commedia soltanto la quintessenza della libertà democratica. Nella commedia, la libertà ipetrofica ricava, per così dire, da se stessa un controveleno. Superando se stessa, estende la libertà di parola, la parrhesia, anche a cose ed istanze che sogliono essere tabù anche nella più libera fra le costituzioni. La commedia ravvisa sempre più il proprio compito nel diventare il centro ove si raccoglie ogni critica pubblica 22). Non paga di, affrontare le cose della politica nel ristretto senso odierno del termine, ne abbraccia tutto il campo nel senso originario greco : leva la sua voce a proposito di tutte le questioni che agitano l'opinione pubblica. Biasima, ove le sembri opportuno, non solo i singoli, non solo questa o quella azione politica, bensì tutto quanto l'indirizzo dello Stat-0 o il carattere del popolo e le sue debolezze. Controlla lo spirito e si occupa d'educazione, filosofia, poesia e musica. Per la prima volta, queste forze nel 20 ) De diff. Com. 3 (p. 4 Kaihel). 21) PL Resp. 564a. Ili) V. ALFONSO REYEll, La critica. . llJJ la edad Atenieme (Mexico 1941).
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loro assieme sono considerate quale espressione della cultura d'un popolo e misura della sua sanità interiore. Esse sono chiamate alla resa dei conti, in teatro, dinanzi a tutta Atene. L'idea della responsabilità, inseparabile dal concetto di libertà, cui nella vita dello Stato serviva l'istituto della euthyne, è qui quasi trasferito a quelle forze spirituali preterindividuali, che sono o dovrebbero essere al servizio del bene comune. Così, secondo una necessità interiore, fu appunto la democrazia, la quale aveva invocato la libertà, a porre i suoi limiti alla libertà dello spirito. D'altra parte, era tuttavia conforme all'indole di questo Stato che la limitazione non fosse affare delle autorità, bensì del pubblico contrasto delle opinioni. In Atene, la censura è ufficio che la commedia rivendica a sé. Ciò conferisce allo scherzo d'Aristofane, che tanto spesso passa il ·segno, quella straordinaria serietà che si nasconde dietro la sua maschera ilarè. Platone 23 ) ha chiamato elemento fondamentale del comico il motteggio malizioso delle innocenti debolezze ed illusioni del prossimo. Forse questa definizione conviene meglio alla commedia quale era al tempo di Platone, che a quella d'Aristofane, la cui allegria, ad esempio nelle Rane, sfiora il tragico. Ma di ciò a suo luogo 24). Il fatto che oltre alla politica, non ostante i tempi bellicosi, i problemi dell'educazione occupino nella commedia tanto posto, vi siano anzi qua e là predominanti, dimostra l'importanza eminente che spetta loro nella coscienza contemporanea. La passione intensa con la quale è condotta la lotta per la cultura, e le sue cause, non ci sono note che attraverso la commedia. Cercando di assumer la direzione di questa lotta mercé la potenza a&) Pl Phileb. 49c. ")V. p. 635.
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della comicità, di cui dispone, diviene essa medesima una delle maggiori forze culturali dell'età sua. Giova mostrarlo nelle tre principali sfere della vita pubblica : politica, educazione ed arte. Non è qui luogo per una analisi di tutte le commedie d'Aristofane; ma vogliamo illuminare ognuno dei campi suddetti in base alla commedia che è per esso più caratteristica 26). La s a ti r a p o lit i c a , che ancora prevale nei primi lavori d'Aristofane, non s'era dapprima prefissa, come vedemmo, scopi più alti. Assai spesso riusciva difficile distinguere la sua libertà dall'insolenza. Persino nella democrazia attica si venne spesso a conflitti col governo. Le autorità cercarono continuamente d'impe· dire il dileggio di persone singole, indicate per nome, privilegio antichissimo della commedia 26). Ma i divieti non ebbero lunga vita. Erano impopolari, e nemmeno la nuova coscienza costituzionale poté eliminare questo avanzo di un senso sociale primitivo. Se la caricatura degli uomini politici era fatta con una spregiudicatezza artistica che anche soltanto si avvicinasse a quella del ritratto che Aristofane delinea di Socrate nelle Nuvole, non si può invero non trovare umano che le persone colpite provassero la tentazione di valersi della propria autorità per difendersi, mentre i privati come Socrate, secondo attesta Platone, erano abbandonati indifesi all'umor popolare alimentato dalla commedia. Nemmeno dinanzi alla persona del grande Pericle s'era arrestato il motteggio di Cratino. Nelle Tracie, egli gli affibbiò il titolo di « Zeus a testa di scilla », alludendo alla forma singolare del suo capo, di solito opportuna26 ) V. GILBERT MURRAY, Aristophanes (Oxford 1933) che tratta le opere singole. 26) V. A. MEINEKE, Fragm. Com. Graec. I, 40 ss.; T:a. BERGK, Kleine philologische Schriften II (Halle 1886) 444 sa.
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mente celato dall'elmo. Appunto questo scherzo innocente tradisce tuttavia l'intimo rispetto verso il motteggiato, I' « Olimpio saettante e tonante», che «rimescolava l'Ellade intera» 27). L'offensiva politica d'Aristofane contro Cleone è di tutt'altro genere. Il suo motteggio non è quello della libera schiettezza. Egli non dà alla sua vittima nomignoli semi-benevoli. La sua battaglia ha qualche cosa di radicale. Cratino sente la superiorità di Pericle e di fronte a lui resta il bonario buffone. Scambiar goffamente il grande col piccolo, abbassar familiarmente al proprio livello l'inattingibile, non è affatto la maniera dello scherzo attico, che in .ciò conserva sempre il suo senso infallibile delle distanze. La critica d'Aristofane contro Cleone colpisce dall'alto in basso. Fu necessario scendere a lui, e la discesa, dopo la morte sciaguratamente prematura di Pericle, era giunta troppo repentina per non esser sentita quale silltomo della situazione dello Stato intero. Avvezzi ad esser diretti con grandiosa elevatezza e superiorità, si insorgeva impetuosamente contro il volgare conciatore, i cui modi plebei si rispecchiavano in tutto lo Stato. Non era difetto di coraggio civile a condannare al silenzio la critica nell'assemblea popolare nel contrasto oggettivo delle opinioni. Colà trionfava l'incontestabile pratica degli affari e l'energia travolgente dell'oratore provetto. Eppure egli mostrava lati deboli che facevano vergogna non a lui solo, ma ad A.tene e alla nazione intera. Era un ardimento inaudito quello del gicivanissimo poeta, che sùbito con la sua seconda commedia, I Babil.onesi, che non ci è pervenuta, moveva all'attacco contro l'onnipotente beniamino del demos, stigmatizzando la sua brutale politica verso 17) Aristoph. A.eh. 530-531.
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gli alleati in pieno teatro, in presenza ai rappresentanti di quegli Stati. Il miglior commento lo dànno i discorsi che Tucidide fa tenere a Cleone 28), in occasione della defezione di Mitilene, intorno al giusto metodo da seguire di fronte agli alleati. Aristofane li rappreseniò in figura di schiavi condannati a far girare il verricello. Ne venne un processo politico intentatogli da Cleone. Nei Cavalieri il poeta contrattacca. Si appoggia all'opposizione politica della piccola, ma influente cricca feudale dei cavalieri, corpo di cavalleria salito a nuova autorevolezza per via della guerra d'invasione, dal quale Cleone è odiato. Il coro dei cavalieri illustra l'alleanza difensiva tra distinzione e spirito contro l'elemento plebeo, in auge nello Stato. È chiaro che questa sorta di critica è qualche cosa di profondamente innovatore nella storia della commedia, tanto diversa dalle capriole politiche di Cratino quanto l'accanimento d'Aristofane contro i Sofisti ed Euripide, inspirato a motivi culturali, dalla parodia del1'0dissea scritta dal medesimo suo predecessore. La novità sorgeva dalla mutata situazione spiritual~. Nello stesso momento in cui, col presentarsi d'un poeta di genialità somma, lo spirito prende possesso della commedia, esso è espulso dallo Stato. L'equilibrio che Pericle aveva stabilito tra la politica e la nuova cultura dello spirito, e che egli stesso impersonava visibilmente, era distrutto. Se questo fatto era definitivo, non rimaneva altro che un ritrarsi della cultura dallo Stato. Ma lo spirito era frattanto divenuto anche politicamente una potenza autonoma. Non era rappresentato ancora da dotti privati, come nell'età alessandrina, ma era operante in una poesia viva, la cui voce. colpiva l'orecchio del pubblico. Accettò quindi la batta118) Thuc. Ili 37 ss.
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glia. Per Aristofane non era una lotta contro lo Stato, ma per lo Stato contro i governanti del momento. La creazione d'una commedia non era un'azione politica organizzata, ed è ben difficile che il poeta volesse dar opera a spianare la via del potere a determinate persone. Ma poteva contribuire ad acquetare l'atmosfera carica d'elettricità e a ridurre entro i suoi limiti l'insopportabile tirannia della brutalità materiale. Nei Cavalieri egli non vuole far propaganda pro o contro una determinata politica, come nei Babilonesi e negli Àcarnesi 29), ma sferza il popolo e il suo capo e mette alla gogna la loro relazione reciproca come indegna dello Stato ateniese e del suo grande passato. La relazione tra popolo e demagogo è presentata in un'allegoria grottesca, che nulla fa vedere invero di quell'anemica squallidezza che è carattere tipico di tale categoria di personaggi. Dalla vasta ed astratta sfera dello Stato, lo spettatore è trasportato nella ristrettezza di una casa borghese, nella quale regna uno stato di cose insopportabile. Il pad.I on di casa, il vecchio Demos, brontolone, sordo, ingannato da tutti, simbolo del sovrano policefalo della democrazia attica del tempo, si lascia guidare passivamente da uno schiavo di nuovo acquisto, un brutale e barbarico Paflagone, e i due schiavi più anziani non hanno più pace. Sotto la maschera del Paflagone si cela il temuto Cleone; gli altri due schiavi, che piangono sulla propria sorte infelice, sarebbero i capitani Nicia e Demostene. Ma l'eroe della commedia non è Cleone, bensì il salumaio suo rivale. Questi rappresenta un grado ancor più basso di vol29 ) Nei Babilonesi era affrontato l'attuaii1'simo problema del trattamento dispotico usato da Atene verso i suoi alleati meno potenti. Gli Acarnesi furono un'ardente invocazione alla pace, diretta contro la politica ufficiale di Atene. come fu poi la Pace pochi anni dopo.
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garità e, senza alcun senno o ritegno, mercé la sua insolenza più svergognata riesce trionfatore in tutto. Nella gara a chi dei due sia il maggior benefattore del Demos suo padrone, Cleone è superato dal salumaio, che porta per il vecchio un cuscino da sederci su nell' assemhlea popolare, un paio di scarpe ·e una camicia ben calda. Cleone si accascia tragicamente. I1 coro acclama il vincitore e, per compenso dell'aiuto prestatogli, gli chiede con parecchia insistenza la nomina ad un buon impiego statale. La scena seguente è di stile solenne. Il vincitore procede anzitutto al ringiovanimento simbolico del vecchio Demos. Questi è messo a bollire in un calderone da salsicce, per essere presentato al teatro acclamante, dopo tale procedura magica, inghirlandato e rinato. Demos torna ora ad aver l'aspetto dei. gloriosi tempi di Milziade e delle guerre d'indipendenza: è la vecchia Atene fatta persona, coronata di viole, accompagnata dagl'inni, nella sua semplice veste tradizionale, con gli aviti ornamenti nella chioma acconciata all'antica, ed è proclamato re degli Elleni. È ora purificato e trasformato anche interiormente e confessa pentito la sua vergogna per i vecchi peccati. Ma il suo seduttore, Cleone, per castigo è obbligato a vendere per la via la salsiccia di cane mista a: sterco d'asino, che una volta andava offrendo il suo odierno successore. L'apoteosi dell'Atene rinnovata ha toccato cosi il culmine e la giustizia divina ha compiuto l'opera sua. Ciò che, in sede politica reale, era la quadratura del circolo - cancellare i vizi di Cleone mediante una bassezza anche maggiore - non costituiva un problema per la fantasia del poeta. Se il salumaio sarebbe stato davvero miglior successore di Pericle che il conciapelli, .ben pochi tra i suoi ascoltatori se lo saranno. domandato. Aristofane poteva lasciar agli uomini politici la ·
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cura di che dovesse farsi dello Stato rinato. Egli non voleva che porre uno specchio dinanzi agli occhi d'ognuno, del popolo e del suo capo: di farli cambiare, difficilmente avrà avuto speranza. Per un eroe comico, eroe di segno negativo, nel quale si accumulano tutte le debolezze ed imperfezioni umane, Cleone era una figura esemplare. È una trovata spiritosa· quella di contrapporgli nd salumaio l' « ideale » che gli corrisponde, al quale persino quest'eroe rimane assai infe· riore, per quanto faccia per eguagliarlo. Con la cru·· dezza con la quale è disegnato Cleone contrasta la grazia indulgente e benevola con la quale le debolezze del Demos son rivelate ed insieme accarezzate. Frain· tenderebbe al massimo grado il poeta chi pensasse che egli abbia creduto sul serio ad un possibile ritorno di quei tempi andati dei quali evoca l'immagine con tanto umorismo malinconico e con si puro amor di patria. Bene esprimono l'effetto che ottengono in poesia sif· fatti sguardi retrospettivi le parole di Goethe in Dichtung und W ahrheit: « Quando ad una nazione si rammenta con spirito la sua storia, tutti ne provano piacere: essa gode della virtù degli avi e sorride dei loro difetti, ritenendo d'averli superati da un pezzo». Quanto meno si cerca di prendere per pedestre pedanteria politica la magia della· fantasia poetica, che intesse meravigliosamente realtà e fiaba, tanto più profonda e ammonitrice giunge all'orecchio dell'ascoltatore la parola del poeta. Donde viene che questo genere letterario, consacrato all'attimo fuggente, orientato tutto verso l'ef· fotto del momento, dimostra la propria immortalità più che mai dal secolo scorso in poi ? In Germania l'interesse pei la commedia politica d'Aristofane si destò col destarsi della vita politica 30). Ma questa solo da so) In Germania per primo lo storico antico J ohann Gustav Droysen mostrò di capire veramente lo spirito politico che ani-
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qualche decennio .in qua ha messo capo a quella consapevole nettezza dei problemi che troviamo nell'Atene dello scorcio del V secolo. I suoi dati fondamentali restano sempre gli stessi: le opposizioni di collettività e individuo, numero e intelligenza, ricchi e poveri, libertà e vincolo, tradizione e progresso, determinano il gioco oggi come allora. A ciò si aggiunge che, intimamente appassionata della politica, la commedia d'Aristofane la vede tuttavia da un'altezza e con una libertà di spirito che toglie anche ai fatti del giorno il loro carattere effimero. Quanto il poeta rappresenta, spetta tutto alla rubrica immortale: «umano, troppo umano». Senza siffatta interiore distanza, tale rappresentazione non avrebbe potuto sorgere affatto. La commedia d'Aristofane risolse sempre più la realtà individuale in una superiore verità fuori del tempo, fantastica o allegorica. Essa dà l'impressione di maggior profondità là dove, come negli Uccelli, si libera con lieve serenità dalla cura opprimente del presente componendosi a suo talento un'immagine fantastica dello Stato, un regno di Nuhicuculia, dove ogni peso terreno è svanito, dove tutto ·è alato e libero.;. dove non sono rimaste che tutte le sciocchezze e debolezze umane e possono prodursi senza far danno, affinché non manchi la cosa più bella, senza la quale non vorremmo vivere nemmeno in quel paradiso: il riso immortale. Accanto alla politica si presenta per temp.o in Aristofane la c r i t i c a c u l t u r a I e , incominciando sin dal suo primo passo, i Banchettatori. Il tema della commedia, il contrasto tra la vecchia e la nuova edu. mava la commedia attica, nella sua famosa traduzione delle comm_edie di Aristofaile, e particolarmente nelle brillanti introdnzioni a ogni commedia, in cui egli le inquadrava nella situazione ntellettuale e politica del loro tempo. La traduzione del Droyaen è stata ristampata recentemente (Winter, Heidelberg, s. d.).
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cazione, è ripreso nelle Nuvole e ha trovato anche altri echi molteplici nella commedia. Punto di partenza, assai esteriore, della critica fu l'insolito e bizzarro aspetto dei campioni della nuova educazione, che suscitava l'ilarità degli Ateniesi, lasciando· intravvedere debolezze che arricchivano opportunamente il vecchio repertorio comico di stravaganze umane, già alquanto frusto. Così, negli Adulatori d'Eupoli, si schermva il parassitismo dei Sofisti che frequentavano le case dei ricchi. Le loro relazioni con la classe abbiente pare fossero elemento centrale anche dei Tagenistai * d'Aristofane, in cui si metteva in ridicolo il sofista Prodico. Platone si è giovato, nel Protagora, del motivo comico; ma di un approfondimento dell'essenza della cultura sofistica, quale si riscontra in lui, è evidente che non si trattava affatto in quelle commedie 31). Nei Banchettatori Aristofane aveva rappresentato l'effetto deformatore dell'insegnamento sofistico sulla gioventù mascolina, andando così già assai più addentro. Un cittadino attico della campagna ha educato l'un.o dei due figli in casa, all'antica, e ha mandato l'altro in città, perché si avvantaggi dell'educazione nuova. Questi ritorna tutto mutato, moralmente guasto e reso inetto alla professione d'agricoltore. Che gli giova qui, infatti, la sua cultura superiore ? Il padre è purtroppo costretto ad accorgersi che il figlio non sa nemmeno più cantare, ne) simposio, i canti degli antichi poeti Alceo ed Anacreonte. Invece delle parole antiquate d'Omero egli non comprende che le glosse del testo delle leggi di Solone, ché la cultura giuridica sta ora al disopra di tutto. • (Da -.a;yl]vH;CLI, ' cuocere in padella» (N. d. T.)]. 81) L'elemento comico nel Protagora di Platone è così forte che non c'è dubbio sull'intenzione di Platone di gareggiare con i poeti comici che prima di lui avevano trattato lo stesso arg-0mento.
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Il nome del retore Trasimaco è citato in un luogo in cui si disputa sul vocabolario. Queste sottigliezze di grammatici riuscivano particolarmente fastidiose agli Ateniesi di vecchio stampo. In complesso, pare che la commedia non oltrepassasse di troppo i limiti di una satira innocente 32). Ma nelle Nuvole, pochi anni dopo, si rivela da che abisso d'estraneità e d'avversione contro il nuovo indirizzo spirituale fosse sorto già quel primo saggio, che presto non appagò più nemmeno l'autore. Egli aveva ora scoperto il modello che pareva predestinato ad esser l'eroe 't"oç &.v-fip praticamente sovrano 98). La sentenza emessa in quell'occasione, essere stata Atene sotto il suo reggimento « una democrazia solo di nome », 97 ) Spero di dare di ciò la dimostrazione in uno studio particolare sull'idea della costituzione mista e la sua storia nel mondo antico.
98 )
II 65, 9.
CAP. VI: TUCIDIDE PENSATORE POLIDCO
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assume nell'orazione commemorativa, sulle labbra del medesimo, questa forma generale: in Atene tutti sono eguali dinanzi alla . legge, ma nella vita politica impera l'aristocrazia del merito 99). Ciò implica in massima, nel caso dell'eccellenza di un singolo, il riconoscimento di esso quale Primo 100). Tale concezione riconosce, da un lato, un vantaggio per la comunità nella politizzazione dell'individuo, ma ad un tempo . rende giustizia al fatto, ammesso in Tucidide anche da parte di un demagogo così estremo come Cleone, che il popolo in quanto tale non può esercitare la sovranità su uno Stato cosi vasto e difficile a governarsi 101). Il problema del rapporto tra la singola personalità eminente e la comunità politica, che si fa acuto appunto nello Stato della « libertà ed eguaglianza», cioè della moltitudine 102), è felicemente risolto, per Tucidide, nell'Atene di Pericle. La storia insegna che tale soluzione dipende dal-
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II 37, 1. Il regime stesso di Pericle e la democrazia ateniese sotto di lui è detta da Tucidide ù11:ò "ou 11:p&>"ou &:vlìpòç &:p)(lJ• Il 65, 9. Nel Menesseno di Platone, Aspasia, la moglie di Pericle, pronuncia nel suo salotto letterario, un esempio di discorso funebre, che vuole evidentemente essere un arguto parallelo alla famosa orazione funebre di Pericle nella storia di Tucidide. Quivi (238c) Aspasia chiama la politeia ateniese sotto Pericle una aristocrazia e cerca di provare che questa è e sempre fu « il governo del migliore col consenso del popolo» (11-n' e:ulìo!;l~ç rrHt&ouç &:pia·rn· xpoc"l~). Ma v. n. 102. 101 ) III 37. 102) Per il lettore non specialista è forse bene ricordare che la democrazia di Atene era «governo del popolo» in senso letterale: >. E, su questo punto, non c'è differenza tra Platone e il suo grande avversario Isocrate, non ostante l'opposizione tra la formazione filosofica che il primo rappresenta e l'idea educativa puramente politica del secondo. In nessun tempo, si può dire, si è data una più seria e consapevole volontà di dedicare il meglio delle energie spirituali alla creazione di una nuova società unitaria. Eppure una tale volontà si dirige primamente al problema di come si possano formare reggitori e guide del popolo, e solo in secondo luogo ai mezzi che debbono esser messi in opera da questi capi per formare il popolo nella sua totalità. Si è prodotto come uno spostamento nel punto di attacco, e questo fatto, che in fondo si era già còminciato ad a~erare coi Sofisti, · distingue il nuovo secolo dal precedente, e segna anche· il principio di una nuova epoca storica. Le accademie e le scuole superiori nacquero da questa posizione di problemi e di scopi, è se esse furono, relati~amente, cerchie chiuse, tale caratteristica si può spiegare solo da questo punto di vista, e appare, cosi, inevitabile. Rimane, naturalmente, difficile dire quale efficacia esse avrebbero potuto esercitare in questo senso di educazione politica e sociale, se la storia avesse concesso più tempo ai loro tentativi. Ma la storia assegnava loro un compito del tutto diverso da ·quello che alle origini si era con-
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cepito éome loro proprio; ché, dopo il definitivo crollo della polis, esse divennero le creatrici della filosofia e della scienza dell'occidente. Ed è questo il signifi· cato essenziale del IV secolo per la storia del mondo. Filosofia, scienza e, in continua contesa con esse, la potenza formale della ~etorica, sono i canali attraverso i quali è stata. trasmessa a tutti gli altri popoli, ai contemporanei e ai posteri, l'eredità spirituale della Grecia, e ad esse più che a ogni altra forma di attività spirituale, noi dobbiamo di avercela conservata. Esse ci hanno trasmesso questa eredità nella forma e con la motivazione che la contesa per la paideia del IV secolo le aveva conferito, cioè come la somma della cultura e della civiltà intellettuale greca, e sotto questo segno la Grecia ha compiuto la conquista spirituale del mondo. Se anche, da un punto di vista strettamente nazionale greco, può sembrare che il titolo di questa gloria sia stato pagato troppo caro da quel popolo, noi dobbiamo, però, ricordarci che lo stato greco non peri per la sua cultura; ché, anzi, filosofia scienza e .retorica furono la forma nella quale soltanto ·poteva sopravvivere quello che era immortale nella creazione dei Greci. Cosi, mentre su tutto il IV secolo si distende la tragica ombra della fine, vi _traluce anche un rag· gio di una sapienza provvidenziale, al cui cospetto, il viaggio terreno di un popolo, anche del popolo più benedetto, è solo una giomata dell'opera intera, del suo creare nella storia.
CAPITOLO
SECONDO
SOCRATE O iiv~i;(XaTOç ~[oç oò ~16)-i;èç à:v&p©mi>
La figura di Socrate è di quelle, imperiture, che, nella storia, sono state assunte a simbolo. Dell'uomo reale, del cittadino ateniese nato intorno al 469 a. C. e condannato e ucciso nel 399, pochi tratti soltanto accolse e conservò l'umanità nell'elevarlo, nella memoria, all'altezza di uno dei suoi «rappresentanti» eterni. Si formò di lui un'immagine in cui ebbe rilievo, più che la vita e la dottrina - in quanto di una dottrina di Socrate si possa parlare - la sua . morte, patita per quella fede di cui egli era vissuto. In era cristiana, ma molto tardi, si 'giunse a considerarlo degno della corona di un martire precristiano, e il grande umanista del secolo della Riforma, Erasmo da Rotterdam, osò accoglierlo tra i s:aoi santi invocandolo: Sancta Socrates, ora pro nobis. Pure, in questa invocazione che sa ancora, formalmente, di chiesa e di medioevo, si an11.unzia già lo spirito dell'età nuova iniziatasi col Rinascimento. Mentre nel medioevo Socrate era stato poco più di un nome di quelli tramandati da Aristotele e Cicerone, ora s'invertiva bruscamente il rapporto dei valori e il nome di Socrate saliva mentre cadeva di altrettanto quello di Aristo-
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tele, il principe della Scolastica. Socrate divenne la guida di ogni moderna filosofia apportatrice di luce, l'apostolo della libertà morale che, non legata ormai da alcun dogma o tradizione, consisteva in se· stessa ed obbediva solo ai dettami interiori della coscienza, il banditore della nuova religione « dell'al di qua», e di una beatitudine raggiungibile, per intima forza, in questa vita, non fondata su una grazia, ma sopra uno sforzo indefettibile verso la realizzazione piena del proprio essere. Nemmeno con tali formule, però, si riesce a esprimere a pieno il significato di Socrate nei secoli che vennero dopo la fine del medioevo. Si può dire che nessun nuovo pensiero, etico o religioso, venne in luce, nessun movimento spirituale poté svilupparsi, senza richiamarsi in qualche modo a lui. E questa risurrezione di Socrate non fu l'effetto di un puro interesse dottrinario ma nacque da un immediato entusiasmo per la sua figura spirituale, quale essa appariva nelle riconquistate fonti greche, e, in primo luogo, negli scritti di Senofonte 1). Niente tuttavia sarebbe più erroneo che l'immaginarsi tutti questi tentativi di fondare una humanitas tutta terrena sotto la guida spirituale di Socrate, come diretti contro il Cristianesimo, analogamente e inversamente a quanto il medioevo aveva fatto, ponendo Aristotele fondamento della filosofia cristiana. Al contrario, anche questa volta toccò alla filosofia pagana il compito di contribuire alla creazione di una civiltà nuova, nella quale il contenuto indistruttibile
a
1) Tracciare la storia dell'in6.uenza di Socrate sulla posterità sarebbe impresa gigantesca. La maggiore probabilità di riuscirvi sta nell'affrontare il problema separatamente, periodo per periodo. Un tentativo di tal genere è il libro di BENNO BoEHM, Sokrates im avhtzehnten Jahrhundert. Studien zum Wer.degang des modernen Personlichkeitsbewusstseins, Lipsia 1929.
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della religione di Gesù si fuse con alcuni elementi essenziali dell'ideale umano dei Greci. Questa fusione esigeva ormai quel concetto radicalmente nuovo della vita che veniva facendosi strada sotto l'impulso di forze destinate a imporsi: la fiducia crescente nella ragione umana e il rispetto della legge di natura or ora scoperta, quella ragione e quella natura che erano stati i principii maestri della cultura antica. Quello che ora la fede cristiana tentava, di compenetrarsi con questi principii, non era diverso da ciò che aveva fatto fin dai primi secoli della sua espansione. Ogni nuova epoca cristiana è sempre venuta a un'intesa, in un suo proprio modo, con l'idea antica dell'uomo e di Dio. Il compito che ora toccò alla filosofia greca, in questo sempre rinnovato e non esauribile processo di adattamento, fu quello di difendere intellettualmente, . con la propria chiarezza ed acutezza concettuale, le parti della ragione e della natura e i loro diritti, cioè di prender la funzione di « teologia razionale » o « teologia naturale». Quando la Riforma ebbe fatto il primo radicale esperimento di un ritorno alla forma « ·pura» dell'Evangelo, ne segui come contraccolpo e a compenso il culto di Socrate proprio della età illuministica, un culto che non si proponeva di cacciar di nido il Cristianesimo, anzi gli conferiva forze che a quella étà apparivano indispensabili. Perfino il pietismo, questo espandersi del puro sentimento cristiano· contro l'irrigidita religione intellettuale dei teologi, poté richiamarsi a Socrate e credere di trovare in lui una parentela spirituale. Più di una volta si istitui il paragone di Socrate con Cristo. Noi siamo in grado di misurare, oggi, il significato di quella possibile riconciliazione della religione cristiana e dell' «uomo naturale» ad opera della :filosofia antica, e ci è chiaro il contributo che a una tale riconciliazione poteva por-
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tare un'immagine della civiltà antica al centro della quale stesse la figura di Socrate. Il savio ateniese doveva scontare ai nostri giorni laltissima fama e potenza spirituale raggiunta dal principio dell'età moderna, come modello di anima naturaliter christiana, doveva scontarla quando Federico Nietzsche si staccò dal Cristianesimo e proclamò l'avvento del Superuomo. Socrate appariva così indissolubilmente legato, di un vincolo secolare, con l'idea cristiana dualistica di anima e corpo in conflitto, che anch'egli sembrò dover cadere con quella. In pari tempo, nella avversione di Nietzsche contro Socrate riviveva in forma nuova l'antico odio dell'umanesimo di Erasmo per la nozione scolastica dell'uomo tutta concettuale e astratta. Per lui, ora, non più Aristotele, ma Socrate si presentò come l'assoluta personificazione di quell'irrigidimento intellettualistico della filosofia di scuola, che, dopo aver tenuto in catene per più di un mezzo millennio lo spirito europeo, faceva ancora sentire, per il discepolo di Schopenhauer, i suoi ultimi echi nei sistemi teologizzanti del cosiddetto idealismo tedesco 2). In realtà questo giudizio su Socrate aveva i suoi presupposti nell'immagine del filosofo che Edoardo Zeller aveva disegnato in quella «Storia della filosofia Greca», che allora teneva il campo, e questa, a sua volta, era 2 ) L'avversione di NmTZSCHE per Socrate appar già nel suo libro giovanile, Die Geburt der Tragodie aus dem Geist der Musik; per lui Socrate è assolutamente il simbolo di« ragione e scienza». La stesura prùna del manoscritto della «Nascita della Tragedia» (pubblicata da H. J. Mette, Miinchen 1933), nella quale mancano ancora le parti relative a Wagner e all'opera moderna, rivela già nel titolo, Sokrates und die griechische Tragodie, che per Nietzsche il problema capitale era il contlitto tra lo spirito razionale della Socratica e la concezione del mondo propria della tragedia greca~ Questo modo di impostare la questione si può intendere solo nel quadro di tutto il pensiero nietzschiano che si svolse in un contatto, durato l'intera vita, col mondo greco. Cfr. ora En. SPRANGER, Nietzsche ii.ber Sokrates, in 40. Jahrfeier Theo· pkil Boreas, Atene 1939.
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c~struita su un fondamento hegeliano, su quella conce.zione dialettica dello svolgimento spirituale dell'Occidente, culminante alla sintesi di civiltà antica e civiltà cristiana. Ed ecco. ora il nuovo umanesimo, in rivolta contro questa schiacciante tradizione, riallacciarsi alla grecità presocratica, che, si può dirlo, fu da questo movimento spirituale veramente scoperta. Presocratico volle dire prefilosofìco; poiché i pensatori dell'età arcaica apparvero allora, insieme con la grande poesia e musica del tempo, fusi in un'unica immagine che si nominò : « I'età tragica dei Greci» 3). In questa età, nelle sue creazioni, I'elemento « apollineo» e il« dionisiaco», alla cui unificazione era diretto lo sforzo di Nietzsche, si equilibravano ancora mirabilmente. Anima e corpo erano ancora una cosa sola. In quell'alba della civiltà, l'armonia ellenica, così conclamata e tanto superficialmente concepita dalle generazioni posteriori, era stata reale: specchio calmo e terso di acque velanti il mistero di abissi insondabili. Socrate~ nell'atto stesso di proclamare la signoria dell'elemento apollineo-razionale, aveva turbato il rapporto - di tensione - in cui esso si trovava con l'altro,- dionisiaco-irrazionale, e distrutto così l'armonia stessa. Egli, perciò, era venuto a defor~ mare la tragica visione antica dei Greci primitivi nel senso di un moralismo intellettualistico da maestro di scuola 4). Tutti gli idealismi, i moralismi, gli spiritua3 ) Caratteristico per questa nuova valutazione dei pensatori greci più antichi è il saggio giovanile di NIETZSCHE, Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen. La base per questo nuovo pensiero era dàta più che dall'esposizione storico-erudita dello Zeller nel primo volume della « Filosofi.a dei Greci», dalla filosos-0na di Hegel e di Schopenhauer. La teoria hegeliana della contraddizione si riallaccia a Eraclito e quella di Schopenhauer della volontà nella natura è, come tipo di pensiero, affine al mondo presocratico. 4) In questo punto Nietzsche si associa e:lfettivamente alla critica che la commedia aristofanesca rivolge a. Socrate, il « sofista» (cfr. vol. I, pp. 625 ss.).
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lismi, in cui venne a dissiparsi più tardi la civiltà greca debbono essere imputati a lui. Con lui, che per l'età cristiana aveva rappresentato la massima misura tollerabile di « natura», la natura, secondo ·il nuovo concetto di Nietzsche, era stata in realtà cacciata via dalla vita greca e l'anti-natura posta in suo luogo. Cosi avvenne che Socrate, rimosso dal posto sicuro, se anche non di primissimo piano, che la filosofia idealistica del secolo XIX gli aveva assègnato, fosse precipitato di nuovo nel gorgo della polemica attuale: ancora una volta simbolo, come nei secoli XVII e XVIII, ma questa volta in senso negativo, come segno e misura di decadenza. L'avversione di questo grande spirito fu, dopo tutto, sempre un onore reso a Socrate e per essa, la disputa sul vero significato di lui acquistò intensità e vitalità nuova. Non cerchiamo ora se quell'appassionato giudizio rivoluzionario fosse o no sostenibile: certo è che l'attacco di Nietzsche è il primo segno dopo lungo tempo, della non infranta forza dell'antico lottatore. Anche il moderno superuomo si sente minacciato. da lui nella sua sicurezza di sé. Del resto, nel caso di Nietzsche, non si può neppure parlare di una vera raffigurazione di Socrate, convinti come siamo; in questa età della consapevolezza storica, che una tale raffigurazione dovrebbe essere proprio l'opposto di quell'isolamento spregiudicato di una grande figura dallo sfondo storico del suo tempo. E nessuno più di Socrate potrebbe pretendere di essere giudicato movendo dalla sua « situazione», di Socrate che sdegnò di lasciare alla posterità una sola parola scritta, preso tutto nel compito che l'immediato .presente gl'imponeva. Questa situazione storica di Socrate, per la quale Nietzsche, lottatore senza quartiere contro l'eccesso di razionalismo deÌ
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vivere moderno, non ebbe né interesse né volontà di comprensione, è quella che noi abbiamo ampiamente descritta come « la crisi dello spirito attico». A questa svolta, su questo sfondo, Socrate è stato collocato dalla storia. Ma anche chi di tutto questo si proponga 2i tener conto con atteggiamento di storico, non è, i'crciò solo, liberato dal pericolo di fraintendimento, co11;e mostra la serie dei ritratti di Socrate che, in temp: recenti sono stati disegnati su tali presupposti di fede~tà alla storia. In nessun campo, si può dire, della st011a de) pensiero antico, si ha a che fare con incertezze maggiori, ed è perciò inevitabile cominciare dai dati e dalle circostanze _elementari.
Il problema socratico. - Socrate non scrisse nulla; quindi anche il più elementare punto di partenza per la ricerca, non è lui, in ogni caso; ma un certo numero di scritti tra loro contemporanei, nati nella cerchia dei suoi discepoli diretti. La questione se questi scritti, in parte, siano stati composti ancora lui vivo, non è propriamente solubile, anche se la negativa è la risposta più verosimile 5 ). Più volte è stata rilevata la somiglianza delle condizioni in c~ si formò la letteratura socratica con quelle della più antica tradizione cristiana sulla vita e sulla dottrina .di Gesù; ed è cosa, in realtà, evidente. Come per Gesù, l'influsso di Socrate sui discepoli cominciò a configurarsi in un'immagine di rilievo pieno solo dopo la sua morte, quella morte tragica che incise profondamente sulla vita di tutti loro. È, quindi, sommamente verisimile che solo sotto 5) Fra gli studiosi moderni che fanno risalire la formazione del dialogo socratico come forma letteraria ancora al tempo della vita di Socrate, basti qui nominare COSTANTINO RrrTER, Platon, l\iiinchen 1910, I, p. 202 e WILAMOWITZ, Platon, Berlin 1919, I, p. 150. Questa datazione precoce dei primi dialoghi platonici ·e connessa col concetto che questi dotti hanno dell'indole e del contenuto filosofico di tali scritti. Su ciò vedi infra p. 145.
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il colpo di quella catastrofe essi abbiano cominciato a ritrarre il maestro negli scritti 6), dando principio, essi contemporanei, a quel processo storico, per cui l'immagine di Socrate, :fino a quel momento di contorni fluidi e vaghi, venne a fissarsi e come a cristallizzarsi. Platone gli fa dire, già nella difesa dinanzi ai giudici, che i suoi seguaci ed amici, anche lui morto, non avrebbero dato pace agli Ateniesi, ma avrebbero proseguito la sua opera di incomodo interrogatore e ammonitore 7). In queste parole è il programma del movimento socratico 8), e la letteratura socratica che ora sboccia improvvisa è al servizio di questo movimento. Essa nacque dal proposito dei discepoli di annientare la sentenza della giustizia terrena, e mentre questa aveva ucciso quell'uomo per abolire lui e la sua parola nella memoria degli Ateniesi, i discepoli vollero farlo eterno, nella sua caratteristica inobliabile, in modo tale che l'eco del suo monito non cessasse più, né ora né in futuro, di riso.nare all'orecchio degli uomini. Così l'inquietu· dine morale, che :fino a quel momento era stata confì· nata nella piccola cerchia dei seguaci di Socrate, co· mincia a farsi problema e turbamento di tutti. La Socratica diventa il centro letterario e spirituale del nuovo secolo e il movimento che nasce da essa diventa, dopo la caduta della potenza mondana di Atene, la prima fonte del suo domìnio spirituale sul mondo. Dai resti della produzione socratica a noi giunti - i dialoghi di Platone e di Senofonte, i Memorabili 6) Questa conclusione è stata sostenuta con buoni argomenti, contro il Ritter, da HEINBICH MAIER, Sokrates, Tiibingen 1913, p. 106 ss., trad. it. G. Sanna, Firenze 1943, I, p. 109 ss. Anche A. E. TAYLOR, Socrates, Edimburgo 1932, p. 11, si dichiara, con ragione, in favore di essa. 7 ) Àpol. 39c. &) Cosi interpreta giustamente il MAIE:a, op. cit., p. ·106, trad. it., I, p. 109.
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di Senofonte e infine i frammenti dei dialoghi di Antistene e di Eschine di Sfetto - una sola cosa risulta, per tutti, assolutamente chiara, per diversi che essi possano essere sotto ogni altro rispetto: lo scopo principale degli scolari fu il ritrarre l'incomparabile personalità del maestro che, come essi sentivano, aveva operato nelle loro vite una decisiva e ·totale trasformazione. In servigio di questa esigenza furono create nella cerchia socratica, le nuove forme letterarie del dialogo e delle« memorie» 9), ambedue nate dalla convinzione che l'eredità spirituale del maestro fosse inseparabile dall'immagine dell'uomo. Per quanto difficile potesse sembrare il proposito di comunicare ai lontani un'esperienza viva di lui, il tentativo doveva esser fatto ad ogni costo. Ed era tentativo davvero difficile, del quale non si metterà mai abbastanza in rilievo la singolarità rispetto all'abito mentale greco. Nei Greci il modo di guardare uomini e qualità umana, e insomma la vita stessa, erano in tutto governati dalla ricerca del tipico. A dare un'idea di come si sarebbe atteggiato un elogio di Socrate, dentro questa concezione dell'umano propria dell'età classica, può servire un altro genere letterario nuovo parallelo, ai precedenti, della prima metà del IV sec., l'encomio: forma, anch'essa, che trova origine appunto in una fede nella preminenza decisiva dei valori individuali e nell'esaltazione di individui eminenti, ma che può apprezzare tali valori solo a patto di rappresentare l'uomo oggetto di lode, come ornato di tutte le virtù appartenenti al modello ideale del cittadino o del capo. Non ·era davvero questa la via per giungere a cogliere l'essenza di Socrate. Ne ·aprì un'altra, per la prima volta, 9) Cfr. Ivo BRUNS, Das literarische Portrat der Griechen, Berllilo 1896, p. 231 ss.; RUDOLF HIBZEL, Der Dialog, I, Lipsia 1895, p. 86.
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lo studio dell'umanità di Socrate, e nacque cosi, presso gli antichi, la psicologia individuale che ebbe in Platone il suo più grande maestro. Il ritratto letterario di Socrate rimane l'unica pittura dal vero di una grande originale individualità, che l'età greca classica abbia prodotto. Ed essa non nacque da fredda curiosità psicologica o da compiacenza di analisi etica, ma da un'esperienza viva di quello che noi chiamiamo personalità, anche se, della personalità, non esisteva ancora, nonché la parola, il concetto. E tanta fu l'efficacia di questa personalità esemplare che ne risultò cambiato il concetto stesso di areté, e, cosi mutato si espresse nell'interesse inesauribile dedicato alla persona di lui. Però l'umanità di Socrate si manifestava prima di tutto nella sua influenza sugli altri: suo strumento era la parola viva, che egli non aveva mai voluto fissar nello scritto; tanto era per lui capitale il rapporto tra il detto e la persona vivente a cui esso si dirigeva in un particolare momento. Ed ecco, in questo, un ostacolo quasi insuperabile per chi si accingeva alla rappresentazione di lui; tanto più che la sua maniera di conversare per domanda e risposta non si adattava ad alcuna delle forme letterarie tradizionali, anche nell'ipotesi che si· possedessero, dei suoi colloqui, rapide notazioni e appunti, da cui ne potesse essere, in parte, ricostruito, con qualche libertà, il contenuto, come mostra l'esempio del Fedone platonico. Fu questa difficoltà che stimolò Platone a èreare la forma del dialogo sulla quale si modellarono i dialoghi degli altri scolari di Socrate lO). Ma, per quanto questa forma valesse, e specialmente i dialoghi platonici, a presentare 10) Cfr. HIRZEL, op. cit. p. 2 ss., sui precedenti storici del dialogo socratico, e p. 83 ss., sulle sue forme e sui suoi cultori letterarii. ·
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viva e vtcma la personalità di Socrate, per il· contenuto invece dei suoi colloqui, si manifestò tra gli scolari una cosl radicale diversità di concezione che subito si venne tra loro ad aperto conflitto e il distacco fu definitivo. Ci mostra Isocrate, nei suoi primi scritti, come lo spettacolo di questa contesa divertisse il pubblico malizioso, e quanto da ciò risultasse facilitato il lavoro dei rivali e concorrenti della filosofia, agli occhi della gente comune. Pochi anni appena erano trascorsi dallà morte di Socrate. e la cerchia socratica era già in frantumi.· E, rimanendo ognuno degli scolari ostinatamente fermo sulle sue posizioni, ecco, già sorgevano diverse scuole socratiche. Tutto ciò ha avuto per noi una conseguenza paradossale: mentre non c'è alcuna personalità di pensatore antico, su cui la tradizione sia così copiosa, noi non siamo, fino ad oggi in condizione di giungere a una qualche unità di vedute su Socrate, sul suo reale significato. Certo, oggi, col perfezionamento attuato nel metodo e nell'attitudine storica, con la cresciuta capacità di indagine psicologica, sembrerebbe che un più sicuro fondamento fosse posto alle nostre ricerche. Ma a chi rifletta che gli scolari di Socrate, da cui deriviamo ogni nostra informazione, non sapendo più separare in se stessi il proprio da quello che solo l'influenza del maesto aveva prodotto in loro, fusero intimamente tutto il proprio nella memoria di lui, par lecita la domanda se, a distanza di millenni, possa riuscire a noi di sceverare gli elementi aggiunti dal nucleo realmente socratico. Il dialogo socratico di Platone, come forma letteraria, ha, senza dubbio, il suo punto di partenza in un dato storico, in una circostanza di fatto, cioè nel metodo insegnativo di Socrate, per domande e risposte. Questa maniera di conversazione, egli la praticava come la forma genuina del pensare filosofico e come l'unica
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via per la quale, si può giungere a intendersi con gli altri; chè era questo, il capirsi, il suo scopo essenziale. Platone, drammaturgo nato, aveva scritto tragedie, prima d'incontrarsi con Socrate e, secondo la tradizione, le aveva bruciate, quando sotto l'impressione che il maestro aveva prodotto in lui, si era rivolto alla ricerca della verità filosofica. Quando poi, dopo la morte di Socrate, egli pensò a un modo di far rivivere il suo maestro, nella sua precisa caratteristica, egli trovò, nella riproduzione artistica dei discorsi di Socrate, un compito che gli dava modo di porre il suo genio drammatico a servizio della filosofia. Ma, nel dialogo così nato, non la forma soltanto è socratica. Il ripetersi di certe caratteristiche, paradossali massime nei discorsi del Socrate. platonico, la coincidenza di queste con _le notizie senofontee, rendono certo che, anche per il contenuto, i dialoghi platonici hanno in qualche misura il loro nucleo germinale nel pensiero di Socrate. Ed il problema è appunto nella misura di questo elemento socratico. Senofonte coincide solo per un breve tratto con Platone e poi ci abbandona, lasciandoci nell'impressione che egli dica. troppo poco, e Platone troppo. Già Aristotele pensava che la massima parte di quel che Socrate ragiona in Platone, non è dottrina di lui, ma di Platone. Ed anche altre affermazioni fa Aristotele a questo proposito, sul valore delle quali dobbiamo soffermarci in seguito. In quanto genere letterario, Aristotele vede il dialogo platonico come qualcosa di nuovo, come un genere intermedio tra poesia e prosa ll). Ciò si riferisce, naturalmente, in primo luogo alla forma che ····è qnella di un dramma intellettuale in prosa. Ma, dato il giudizio di Aristotele sulla libertà con la quale Platone aveva trattato 11 )
Arist. ap. Diog. L. LIII, 37 (RosE, Arist.
fr.
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il Socrate storico, si deve supporre che Aristotele vedesse nel dialogo platonico, anche per il conte~uto, una mistione di poesia e prosa: esso era per lui «Verità e Poesia» 12). I dialoghi socratici di Senofonte e quelli degli altri discepoli offrono naturalmente il fianco agli stessi dubbi, appena ci si prova ad usarli come fonti storiche. L'Apo· logia di Senofonte, la cui autenticità, molto contestata, è stata recentemente più volte ammessa, è senz'altro infirmata dalla sua evidente tendènza esaltatrice 1 3). I Memorabili di Socrate sono passati lungamente per opera storica. E, fosse questa la realtà, essa ci libererebbe una volta per sempre da tutta quell'incertezza che ad ogni passo ci imbarazza nell'uso dei dialoghi. Ma le ricerche moderne hanno mostrato che anche quest'opera è di colorito abbondantemente soggettivo 14). Senofonte, da giovane, conobbe e onorò Socrate, ma non appartenne mai al gruppo dei veri e propri scolari. Lasciatolo quasi subito, per prender parte, da avventuriero, alla spedizione militare del ribelle principe persiano Ciro contro il fratello .Artaserse, non lo rivide più, e solo decenni dopo la sua morte scrisse le sue opere socratiche. Solo quei capitoli che sono stati chiamati la « difesa» sono, verisimilmente, di origine più antica 15). Essi costituiscono una difesa di Socrate scritta in opposizione ad una « accusa di Socrate» - pura :finzione letteraria - nella quale si è riconosciuto un libello del sofista Policrate. Ad essa rispo12 ) Così pensarono anche i filosofi ellenistici. seguiti da Cicerone, De Rep. I 10, 16. 13} K. v. FRITZ, « Rheinisches Museum » N. F. LXXX, pp. 36-38, mi sembra che abbia dimostrato con nuove ragioni la non autenticità dell'Apologia senofontea. 14) Cfr. MAIER, op. cit. pp. 20-77, trad. it., I, pp. 23-79. 16) Con questa parola intendiamo, seguendo il MAIER (op. cit. p. 22 ss., trad. it. I, p. 25 ss.) e altri, i primi due capitoli dei Memorabili senofontei (I 1-2).
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sero per primi Lisia e Isocrate, ma si può concludere dai Memorabili di Senofonte, che anch'egli prese allora la parola 16). A quel che appare, con questo scritto, quell'uomo, già quasi dimenticato nella cerchia dei discepoli di Socrate, fece il suo primo ingresso nella letteratura socratica, per ritornare poi, per molti anni, al silenzio. Lo scritto fu da Senofonte, più tardi, posto al principio dei Memorabili, ma l'unità di composizione e la completezza, oltre all'evidente motivo occasionale, mostrano che esso fu, originariamente, qualcosa di a sé stante 17). Il proposito dichiarato di questa « difesa», come dei Memorabili in complesso, è di mostrare che Socrate fu un cittadino in sommo grado patriottico pio e giusto, un uomo che. sacrificava agli dei, interrogava gli oracoli, era sollecito di aiuto agli amici, e aveva sempre fatto il suo dovere nella vita pubblica. C'è una sola obbiezione da fare a questa tesi senofontea: ed è che non si capisce come un tipo di bravo borghese come questo avrebbe potuto destare il sospetto dei suoi concittadini, e, tanto meno, ess.ere condannato a morte come pericoloso allo stato. Ancor più sospetta si è rivelata questa raffigurazione senofontea di Socrate. 16 ) Senofonte, in Mem. I 1-2 parla sempre solo dell'« accusatore» al sing., Platone nell'Apologia di« accusatori», al plnr., conforme alla situazione del processo reale; Senofonte, ·è vero, si ferisce in principio all'accusa giudiziaria, ma poi passa a ribattere accuse, che, come sappiamo da altre fonti, son quelle che a Socrate, dopo la sua morte, furono mosse da Policrate in un suo libello. 1 7) Cfr. la convincente dimostrazione del MAIER, op. cit. p. 22 ss. (trad. it., I, p. 25 ss.), che affronta anche la questione del rapporto tra la« difesa» e l'Apologia. Un esempio di come Senofonte poté incorporare in un'opera più grande, uno scritto concepito in origine come- a sé, è il principio delle Elleniche (I 1-2, 2). Questa parte originariamente doveva essere il completamento del!' opera di Tucidide. Perciò, come è naturale, essa termina con la fine della guerra peloponnesiaca. Più tardi Senofonte allacciò a questo suo scritto la narrazione della storia greca dal. 404 al 362.
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in seguito a ricerche recenti tendenti a dimostrare che Senofonte, a così grand2 è.istanrn o tempo dagli avvenimenti che riferisce e a causa della sua modesta attitudine :filosofica, dové necessariamente rivolgersi a fonti scritte, e tra queste usò speciaimente gli scritti di Antistene. Una volta dimostrato, ciò sarebbe di grande interesse per la ricostruzione di questo scolaro di Socrate e avversario di Platone, la cui opera è quasi del tutto perduta; ma allora il Socrate senofonteo si ridurrebbe a un semplice portavoce della filosofia morale di Antistene. Senza dubbio in quest'ipotesi c'è molto di esagerato; ma le ricerche a cui essa ha dato luogo hanno, in ogni modo, richiamato l'attenzione sul fatto che Senofonte, non ostante la sua ingenuità filosofica o proprio a causa di essa, si è appropriato in qualche misura un'immagine di Socrate che non è meno soggettiva di quanto si suole supporre per quella di Platone 18). Cosi stando le cose, è possibile sottrarsi al dilemma in cui ci pone lo stato delle nostre fonti ? Fu Schleiermacher il primo a fissare in una formula penetrante tutta la complessità .di questo problema storico. Anch'egli si era convinto che non si può appoggiarsi esclusivamente né a Senofonte né a Platone, ma si deve fare come una parte di mediazione diplomatica tra questi due grandi partiti. Il problema fu posto da lui in questi termini: « che cosa può essere stato Socrate, oltre a quello che Senofonte dice di lui, senza tut' 8 ) La relazione della raffigurazione senofontea di Socrate con Antistene, dopo che la strada fu aperta da F. DUJllMLER (nei due saggi Àntisthenica e Academica, è stata studiata soprattutto da KARL J o:EL, in una grande e dotta opera in tre volumi: Der echte und der unophan.tische Sokrates, Berlino 1893-1901. I resnltati di quest'opera sono un. po' troppo gravati d'ipotesi, per riuscire convincenti nell'insieme. Il MilER, op. cit. pp. 62-68 (trad. it., I, pp~ 65-70) cerca di sceverare in quest'indagine del Joel, gli elementi sostenibili dalle esagerazioni.
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tavia contraddire i lineamenti caratteristici e le massime di vita che Senofonte determina esplicitamente come socratici, e che cosa deve egli essere stato perché Platone si sia sentito in diritto di rappresentarlo così come fa nei suoi dialoghi ?» 19). Queste parole, s'intende, non sono affatto una specie di formula magica per lo storico. Esse vogliono soltanto delimitare con la maggiore precisione possibile i confini dentro i quali la nostra sensibilità critica ha da esercitarsi e da rimanere ·sveglia. Esse ci lascerebbero, senza dubbio, in preda a pure impressioni soggettive, se non ci fosse ancora qualche altro criterio a dirci :fino a qual punto si possono seguire le nostre fonti. Per lungo tempo questo criterio si è trovato in Aristotele. Sembrava che in questo caso dovesse avere una particolare autorità la parola di lui, del dotto e ricereatore obbiettivo, non più, come gli immediati scolari, mosso da interesse appassionato e personale per la figura e per l'opera di Socrate, ma ancora abbastanza vicino a lui nel. tempo per saperne di più di quanto non sia possibile a noi 20). I ragguagli aristotelici su Socrate hanno per noi un particolare valore in quanto sono esposti in connessione alla cosiddetta teoria platonica delle idee e insieme alle relazioni di Platone con Socrate. Era stata, quella teoria, un problema capitale molto discusso nell'Accademia platonica, e nei vent'anni spesi da Aristotele alla scuola di Platone si dové spesso trattare anche la questione dell'origine di essa. Origine, che nei dia.loghi platonici è senz'altro attribuita a Socrate che in essi l'espone da filosofo e la presuppone nota 19) FRIEDBJCH ScHLEIERMACHER. Ueber den Wm des Sokrate11 ala Philosophen (1815), Sàmtliche Wetke III 2, pp. 297-298. 20) Questa era stata la posizione di EDOARDO ZELLER nella sua trattazione della questione socratica, Philosophie der GriecheR Il, !5, pp. 107 e t26.
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alla cerchia dei suoi discepoli~ Pertanto, la questione dell'attendibilità storica di Platone su questo punto è d'importanza decisiva per la ricostruzione del processo spirituale per cui dalla socratica si formò la filosofi.a di Platone. Ora, Aristotele che, diversamente da Platone nella teoria delle idee, non attribuisce realtà obbiettiva, distinta dall'esistenza delle singole apparenze sensibili, ai concetti universali, fa, sui rapporti di Platone con Socrate in questo punto, tre importanti affermazioni: 1) Platone era stato dapprima scolaro di Cratilo, filosofo eraclitèo, la cui dottrina era che« tutto scorre» in natura e niente ha consistenza durevole. Conosciuto Socrate, gli si apri un altro mondo. Socrate si limitava strettamente alle questioni etiche e cercava di cogliere concettualmente l'essenza permanente del giusto del buono del bello e così via. Ora, poiché la concezione dell'eterno fluire e il presupposto di una verità immobile evidentemente si escludevano l'un l'altro, e poiché d'altra parte Platone era stato· così persuaso da Cratilo del flusso delle cose che nemmeno l'ostinata ricerca socratica di un punto fermo nel mondo morale era riuscita a scuoterlo in questa convinzione, egli finì col concludere che Cratilo e Socrate avevano ragione ambedue, in quanto parlavano di due mondi assolutamente diversi. L'affermazione di Cratilo che « tutto scorre», si riferiva all'unica realtà che Cratilo conosceva, le apparenze sensibili, e Platone, anche in seguito, tenne fermo ·questo punto che la teoria del flusso valga per il mondo dei sensi: Socrate, invece, col suo investigare l'essenza concettuale di quei predicati come buono bello giusto ecc., sui quali riposa la nostra esistenza di esseri morali, aveva I' occhio a un'altra realtà, che non scorre, anzi veramente, « è», cioè è immutabile e identica. 2) In questi concetti universali che egli aveva imparato da Socrate,
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Platone riconobbe da allora in poi il vero « Essere», un« essere» di cui è privo il mondo dell'eterno fluire: e queste essenze, concepibili solo dal pensiero, sulle quali è costruito il mondo del vero essere, egli le chiamò idee. Così egli andò molto al di là di Socrate che non aveva né parlato di idee, né affermato una distinzione di idee e di cose sensibili. 3) Quello che si può legittimamente attribuire a Socrate e che, insieme, non gli si può togliere in nessun modo è, secondo Aristotele, da una parte la determinazione dei concetti universali, dall'altra, il metodo induttivo di ricerca 21). Se questa esposizione è esatta, essa rende possibile, a un grado di approssimazione_ assai elevato, la separazione dell'elemento socratico dal platonico, nel Socrate dei dialoghi platoni~i. In tal caso la formula metodica dello Schleiermacher non rimane più allo stato di esigenza ideale, ma può avvicinarsi ad essere attuata. Così nei dialoghi che per le indagini condotte ai nostri tempi sono da considerare opera giovanile di Platone, il terreno in cui si muove l'investigazione di Socrate è realmente quello soprattutto della ricerca dell'universale: che cos'è la fortezza?, la santità?, la temperanza ? Anche Senofonte rileva espressamente, sebbene in modo un po' marginale, che Socrate faceva continuamente inchieste di questo genere e cercava di fissare i concetti 22). Così si aprirebbe una via di uscita 21) I ragguagli di .Axistotele su Socrate, che in parte si ripetono l'un l'altro, in parte si completano sono, Met. A6, 987 a 32-b 10; M4, 1078 b 17-32; M9, 1086 b 2-7. Part. An. I 1, 642 a 28. Il Taylor ha cercato di attenuare la portata dei rilievi aristotelici sulle differenze tra Socrate e Platone, e ciò in evidente connessione con la sua propria teoria sui rapporti tra i due. Di contro, v. un nuovo accurato esame del significato e del valore delle testimonianze amtoteliche fatto da W. D. Ross, Aristotle's Metaphysics, Oxford 1924, I, p. XXXIII ss. Cfr. pure dello stesso autore The Problem of Socrates. Presidential Address delivered to the Class. Assoc. of Nottingham, Londra, John Murray, 1933. 22) Xen. Mem. IV 6.
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dal nostro dilemma, Platone o Senofonte, e Socrate apparirebbe come il fondatore della filosofia del concetto. E così lo caratterizzò Edoardo Zeller, dando seguito al programma di ricerca indicato dallo Schleiermacher, nella sua «Storia della filosofia greca »23). Socrate rappresenterebbe, dunque, il più modesto stadio preparatorio della filosofia platonica, uno stadio a cm sono estranee le audacie metafisiche di Platone, e che, fuori di ogni interesse per la nàtura, del tutto limitato al campo della moralità, appare come il tentativo di fondare una nuova saggezza indirizzata tutta alla vita pratica. Questa soluzione fu tenuta a lungo per definitiva, posta com'era sotto la grande autorità di Aristotele e poggiante sopra una solida base metodica. Ma, alla lunga, essa doveva rivelarsi insoddisfacente, perché essa faceva apparire in Socrate e nella sua dottrina del concetto qualcosa di troppo povero e moncQ. Quell'uomo tutto concettuale era proprio l'astratta figura· zione pedantesca contro cui si erano indirizzati gli strali di Nietzsche. Gli attacchi del quale, in coloro che non si erano da essi lasciati scuotere nella loro fede in Socrate come in un grandissimo scopritore e novatore, valsero soltanto a far dubitare del valore storico della testimonianza aristotelica. Ma veramente Aristotele era stato così disinteressato e obbiettivo nella questione del formarsi della dottrina platonica delle idee, di quella dottrina che egli, per parte sua, contra· :stava così vivacemente ? N.on aveva egli, anche in altri casi, errato nel suo apprezzamento di circostanze ,_storiche ? E, insomma, non era egli sempre stato do23) ZELLER, op. ·ndle testimonianze da K. JOÉL, up. cit. ker, 114, p. 42 ss. p. 449).
cit. II P, 107 e 126. La fiducia dello Zeller aristoteliche è condivisa fondamentalmente I, p. 203 e da T. GOMPERZ, Griechische Den• (trad. it. di L, Bandini, Firenze, 19508, II,
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minato dalla sua propria concezione filosofica; e specialmente nelle sue opinioni di storia della :filosofia ? Era, in sé, assai comprensibile che egli nel contrapporsi a Platone si fosse richiamato a Socrate, e se lo fosse rappresentato meno alato e più positivo; insomma, più aristotelico. Eppoi, che cosa sapeva realmente Aristotele di lui più di quanto s'immaginava di poter ricavare dai dialoghi platonici ? Da questi dubbi, da questi problemi è nata tutta la più recente ricerca su Socrate 24). Certo, era ormai perduta quella terraferma che si credeva di aver conquistato, si ritornava ormai ad avventurarsi in incertezze, come mostra in maniera luminosa il contrasto radicale, constatabile tra le raffigurazioni di Socrate apparse da quando ·quei dubbi cominciarono ad essere sollevati. . Questo contrasto è perfettamente esemplificato dai due tentativi più efficaci, e più scientificamente coerenti, che in tempi recenti si siano fatti per attingere il Socrate storico: da un lato il libro imponente del filosofo berlinese Enrico Maier, su Socrate, dall'altro i lavori della scuola scozzese di St. Andrews, ad opera, specialmente di J. Burnet filologo e del filosofo A. E. Taylor 25). Comune ad ambedue le opinioni è il punto di partenza : Aristotele deve essere scartato come testimonianza storica. In ambedue le opinioni Socrate è uno dei più grandi uomini che siano vissuti. Il contrasto, ~ 4 ) Cfr. soprattutto la critica del MAIER, op. cit. pp. 77-102 (trad. it., I, pp. 80-105) e del TAYLOR, Varia Socratica. Oxford 1911, p. 40. 21') Cfr. l'opera del liAtER già più volte citata e i lavori di tendenza opposta di A. E. TAYLOR, Varia Socratica, Oxford 1911 e Socrates, Ediip.burgo 1932. li Taylor si accorda in èomplesso con la teoria del Burnet e la sviluppa ulteriormente. Cfr. J. llURNET, Greek J>hilosophy, Londra 1924 e il suo articolo Socrates in Hastings' Encyclopaedìa of Reli.gion and Ethics, voi. XI. Coi negat•Hi del valore della testimonianza aristotelica si schiera anche C. HIT· r.ER, Sokraics, Tiihingen 1931.
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invece, culmina in questa domanda: Socrate fu realmente un filosofo ? E se le due tendenze di nuovo concordano ad affermare che egli non meriterebbe questo nome, se fosse esatta l'immagine fin qui corrente che ne fa una specie di figura secondaria decorante il portale dell'edificio platonico, assai diversa e opposta è la risposta finale. Secondo Enrico Maier la solitaria grandezza di Socrate non è misurabile col metro valevole per un pensatore teoretico.· Egli fu il creatore di un atteggiamento umano che segna il culmine di una lunga ardua ascesa alla liberazione morale dell'uomo, culmine insuperato e non superabile: egli bandi il vangelo del dominio di sé e dell'autosufficienza della personalità morale. Con ciò egli si presenta, nel mondo occidentale, come il contrapposto di C~sto e della filosofia orientale della redenzione. Con lui, app~to comincia la contesa tra questi due principii. Però, Platone soltanto è il fondatore dell'idealismo filosofico, il creatore della logica e del concetto, genio tutto originale e incommensurabile con la tempra della personalità socratica, pensatore sistematico, formatore di teorie. Queste teorie. egli trasferi a Socrate nei suoi dialoghi, con libertà d'artista, e .·solo nei suoi scritti più antichi egli dette un'immagine del Socrate reale 26). Anche i dotti della scuola scozzese vedono in Platone l'unico espositore geniale delle idee del maestro, .ma questo giudizio estendono a tutti i dialoghi, in cui Socrate appare. Senofonte non è, per loro, che il filisteo per eccellenza, che non ha capito nulla del significato e dell'importanza di Socrate. In fondo, egli 26) Il MAIER, op. cit. p. 104 ss. (trad. it., I, p. 107 ss.) considera come fonti storiche per la conoscenza del Socrate reale prima di tutto gli scritti « personali» di Platone su Socrate, cioè l'Apologia e il Critone; inoltre egli reputa pitture fedeli nell'essenziale, sebbene libere creazioni, un certo numero di piccoli dialoghi, come .il Lachete, il Carmide, il Liside, !'Ione, l'Eutifrone e i due Ippia.
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è anèhe consapevole dei suoi limiti e altro non si propone che di completare con qualche aggiunta quello che gli altri hanno scritto su Socrate. Laddove sfiora il problema propriamente filosofico, rapide allusioni gli bastano, destinate a mostrare al lettore che Socrate era qualcosa di più di quel tanto che egli ne. ritrae. Il più grande errore della concezione dominante è, secondo questa opinione, di credere che Platone non abbia voluto ritrarre Socrate com'era stato, ma presentado invece come il creatore delle sue Idee, che sarebbero estranee al Socrate storico. Si tratterebbe insomma, di una specie di mistificazione dei lettori, che in Platone non è concepibile. A coloro poi che stabiliscono un'artificiosa differenza tra il primo e il tardo Platone, quasi che il primo abbia si pensato a dare un ritratto di Socrate, e Platone vecchio, invece, abbia usato la sua figura come una mera maschera della propria filosofia nel suo formarsi graduale, a costoro è da obbiettare l'intima inverosimiglianza del procedimento. Per non dire, seguitano i dotti di questa corrente, che anche i primi dialoghi di Platone presuppongono le dottrine delle opere più tarde e più costruttive (Fedone, Repubblica). In realtà, appena Platone ebbe in animo di non esporre più la dottrina di Socrate, ma la sua propria, egli smise anche, coerentemente, di porre Socrate come protagonista dei suoi dialoghi, e si volse ad altri personaggi, perfino a personaggi anonimi. Socrate, dunque, fu nella realtà quello che Platone lo ritrae: il creatore della teoria delle idee, della· teoria della reminiscenza e della preesistenza, il teorico della immortalità dell'anima e della repubblica ideale, in una parola, il padre della metafisica occidentale 27). 27) Cfr. le opere del Taylor e del Burnet citate sopra (li. 25)'.
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Queste le due conclusioni estreme raggiunte dalla ricerca. O Socrate appare essenzialmente, non come un pensatore filosofo, ma come un suscitatore, un eroe della vita morale, oppure egli diventa il ,creatore della filosofia e;peculativa, in lui personificata da Platone. Porre una tale alternativa val quanto dire che i di· versi motivi i quali, subito dopo la morte · di Socrate, produssero la scissione del movimento socratico in varie scuole in contrasto tra loro, hanno ripreso vita e stanno di nuovo per dar luogo ciascuno a una sua immagine di Socrate. Da un lato Antistene, con la sua negazione della scienza, col suo porre l'accento sulla « fortezza socratica» cioè sull'inflessibile volontà morale, dall'altro :elatone, che considera la socratica affermazione di ignoranza come semplice stadio tran· sitorio alla scoperta di una conoscenza di valori più profonda e incrollabile, in quanto latente nello spirito stesso, si riaffacciano a rivendicare per sè il diritto di rappresentare il vero Socrate, e il merito di aver pensato fino in fondo il pensiero di lui. Non sembra possa essere un caso che questo contrasto radicale si presenti e alle origini del movimento socratico e ai nostri giorni, né si può pensare a spiegare un tale rinnovarsi di posizioni col fatto che anche le nostre fonti sono divise tra queste due tendenze. No: questa possibilità di doppia interpretazione deve aver la sua radice in qualcosa di reale e di profondo, nell'intimo della personalità di Socrate. E deve essere questo il punto di partenza a cercar di superare quello che c'è . di unilaterale in ciascuno dei due punti di vista, che · sono ambedue, in certo senso, logicamente e storica· mente legittimi. Per quanto una trattazione sia con· dotta con atteggiamento e metodo di storico, sempre la posizione teoretica del ricercatore è presente con la .sua influenza nel modo di concepire i fatti tramandati.
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Perciò i rappresentanti delle due interpretazioni di cui si è fatto parola, debbono aver sentito l'impossibilità di acquietarsi in un'immagine di Socrate che, riguardo al problema per loro decisivo, rimaneva ancora indeciso. Lo storico, però, deve, per parte sua, concludere da tutto questo che Socrate portava ancora in sé conviventi posizioni in contrasto, che già allora o poco dopo stavano necessariamente per scindersi e prendere ciascuna la sua via. Qw.esto lo rende per noi più interessante e complesso, ma anche più difficile a capirsi. La sua grandezza incontestabile, sentita da tutti i suoi contemporanei di maggiore altezza spirituale, non sarà forse in qualche modo connessa proprio con questo senso di processo non compiuto che la sua figura ci dà? Non si sarà in lui attuata per l'ultima volta un'armonia che già al suo tempo si avviava rapidamente a dissolversi? In ogni modo egli appare posto a1 confine tra l'antica forma greca dell'esistenza e un mondo sconosciuto, nel quale non gli fu dato di metter piede anche ee spettò a lui di fare, verso di essa, il passo decisivo.
Socrate come educatore. - È segnato ormai da tutta la nostra precedente trattazione il quadro entro cui verrà a collocarsi, in quel che segue, la figura di Socrate: egli rappresenta il centro di questa storia della formazione dell'uomo greco, giacché egli è la più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale. Chi cerca la sua grandezza nel dominio della teoria e del pensiero sistematico, sarà tratto o a fargli troppo credito a spese di Platone, o a dubitare in maniera· radicale della sua importanza. Ha ragione Aristotele a considerare la filosofia che Platone proclama per bocca del suo Socrate, come ope·ra essenzialmente di Platone, nella sua struttura teoretica.
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Però Socrate è ben di più di quel tanto di « spunti » filosofici che rimane, quando dalla rappresentazione platonica di Socrate si sia sottratta la teoria delle idee e il resto del contenuto dogmatico. Il suo significato è da cercare in un'altra dimensione. Non legato, come continuatore, ad alcuna tradizione scientifica, non deducibile da alcuno dei sistemi della storia della filosofi.a, Socrate è, nel più semplice senso, l'uomo .deL!!.:P..!L tempo. L'aria in cui è avvolto--e .che respira è la schietta aria della storia. Il piano da cui egli s'innalza ad una fisionomia spirituale autonoma è quello della classe media ateniese, di quel ceppo di cittadini, intimamente immutabile, coscienzioso e pio, al cui robusto sentire avevano potuto fare appello i « capi del popolo», gli aristocratici Solone e Eschilo. Ora è giunto per questa classe il momento di parlare da sé, per bocca di uno dei suoi, il figlio dello scalpellino e della levatrice, del demo di Alopece. Solone ed Eschilo, nel -~ passato, erano venuti al momento giusto, per accogliere, far proprio e rielaborare il meglio di idee rivoluzionarie venute dal di fuori, e le avevano cosi intimamente assimilate, che esse poterono, anziché essere elemento dissolvente del carattere ateniese, aiutare lo sviluppo delle sue energie più vigorose. Non è dissimile la situazione s irituale nel mo n cui Socrate appar~ '.A.tene di Pericle, signora di grande impero, è come inondata, in questo momento, da influenze di ogni sorta e origine ed è perciò, in pericolo, non ostante la sua splendida p:rova in ogni dominio dell'arte e dell'azione, di sentirsi sfuggir di _sotto l'antico solido terreno, nel momento in cui tutti i valori tradizionali, dati in preda a un'attivissima innata loquacità, vanno dileguando con moto rapidissimo. A questo punto viene avanti Socrate, il Solone del mondo morale. Giacché il pericolo era ll, 11~1 mutarsi del senso
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morale; di lì si venivano minando le fondamenta dello stato e della società. Così, per la seconda volta nella storia greca, lo spirito attico riuscì ad eccitare le ten· denze centripete dell'anima greca contro le forze cen· trifughe, col porre di fronte al cosmo fisico in cui si armonizzano le forze di natura - ed era stata questa la creazione .dello spirito di ricerca ionico - un saldo ordine di valori umani. E come Solone aveva scoperto la legge naturale della vita in comune, sociale e politica, così ora Socrate s'inoltra nell'intimo dell'anima a scoprire il cosmo morale. La sua giovinezza coincise col periodo della rapida ascesa dopo la grande vittoria sui Persiani, dalla quale uscirono, all'esterno, l'impero di Pericle, all'interno, l'affermazione piena della democrazia. Le parole di Pericle nell'epita:fio per i caduti in guerra, secondo le quali in Atene un autentico merito o talento personale non si trovavano mai sbarrata la via a venire in luce per il pubblico bene 28), trovano conferma nella sorte di Socrate. In sé, né per famiglia o classe sociale, né per doti esteriori egli non pareva destinato a ra· dnnarsi intorno i figli dell'aristocrazia avviantisi a una carriera politica, o a far parte del fior fiore dei kalokagathoi ateniesi. Le prime notizie che di lui si abbiano ce lo presentano sulla trentina, nella cerchia di Archelao, scolaro di Anassagora, in compagnia del quale, nell'isola di Samo, lo trovò il poeta tragico Ione di Chio, come questi raccontava in un suo diario di viaggio 29). Ione, pratico di vita ateniese, amico di Sofocle e di Cimone, riferisce anche che Archelao era tra i familiari di Cimone. È probabile che proprio Archelao abbia introdotto il giovane Socrate nella casa princi28) Thuc. Il 37, 1. 29) Diog. Laert. II 23.
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pesca del vincitore dei Persiani, capo del partito nobiliare fìlospartano 30). Ma, se le sue opinioni politiche siano state in qualche modo determinate dal contatto con questo ambiente, non possiam dire. Nel pieno dell'età, egli fu testimone dell'apogeo della potenza ateniese e vide l'età classica della poesia e dell'arte ateniese nel suo splendore. Si trovò anche a frequentare la casa di Pericle e Aspasia, e uomini politici assai discussi come Alcibiade e Crizia fiuono tra i suoi scolari. Lo stato ateniese, in quel periodo di tensione massima di forze, volte a consolidare l'egemonia sulla Grecia da poco raggiunta, esigeva grandi ·sacrifici dai suoi cittadini. Ed anche Socrate si trovò più volte a servire la patria sul campo, e vi si distinse. Questo lato della sua vita, la sua esemplare condotta di soldato, fu messa in molto rilievo nel suo processo allo scopo di equilibrare l'evidente deficienza dal lato politico 31). Ché Socrate, grande amico del popolo 3 a), era però notoriamente un democratico assai mediocre e non aveva il minimo gusto per tutta quell'attività che i cittadini ateniesi spendevano con molto zelo nell'assemblea popolaze o come giudici nei tribunali 33). L'unico suo intervento politico, fu, come huleuta e pritano in 30) Plutarco, Cimon, c. 4 (al principio e alla fine) ricorda carmi di Arch~ao a Cimone, che probabilmente fu per lui quello che C. Memmio fn per Lucrezio. 31) Àpol. 28e. 32) Sull'amicizia di Socrate per il popolo cfr. Xen•.Mem. I 2, 60. 33) Cfr. le parole di Socrate nell'Apologia platonica 3le: «Non c'è uomo che possa sopravvivere quando si opponga generosamente a voi o a ogni altra massa popolare e cerchi di impedire ehe si facciano in città molte ingiustizie e illegalità. No, chi veramente combatt, trascuri la più importante di tutte le arti, l'arte politica, che contiene in sé tutto il resto. 37)
38 ) 39 )
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fanesca che gli fa esporre dottrine fisiche ·di Diogene sull'aria come elemento primo e sul vortice cosmogo· nico. Ma fino a che punto egli si curò di far sue queste dottrine? Secondo l'esposizione del Fedone egli si era messo alla lettura di Anassagora con una grande aspettativa 41). Qualcuno glielo aveva dato facendogli intravvedere che avrebbe trovato ll quello che andava cercando. Il che significa che anche precedentemente egli aveva guardato scetticamente le spiegazioni che della natura davano i fisici. Ma anche Anassagora lo deluse sebbene il principio dell'opera gli avesse destato qualche speranza. Là si parlava, dapprima, della Mente (votic;) come principio informatore dell'universo, mentre in seguito Anassagora non faceva alcun uso di questo metodo di spiegazione, ma riconduceva tutto, come gli altri' fisici, a cause materiali. Socrate invece si era aspettato una spiegazione dei fenomeni e del loro modo di prodursi fondata sul principio che « cosi era meglio», giacché gli sembrava caratteristica nel procedere della natura la ricerca del benefico e del1'adatto allo scopo. Nel racconto del Fedone Socrate giunge, attraverso questa critica della :filosofia della natura, alla teoria delle idee, la quale però, secondo la convincente affermazione di Aristotele, non può essere attribuita, storicamente, a Socrate. Ma, senza dubbio, Platone poté sentirsi in diritto di fare esporre al suo Socrate la teoria delle idee come cause finali, proprio in quanto questa teoria era sorta in lui per diritta via dalla ricerca socratica del Buono (&ya:&6v) in tutte le cose. Anche la natura, dunque, volle affrontare Socrate, con questa su~ domanda, « che cosa è buono». E ciò u) PI. Phaedo, 97h ss.
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mostra il discorso che gli è attribuito nei Memorabili di Senofonte riguardo alla struttura del cosmo e alla sua conformità ad un fine. In questo discorso egli. va in traccia del Buono e di tendenze finalistiche nella natura, allo scopo di mostrare l'esistenza nel mondo di un principio intelligente e costruttore 42). A quel che sembra, tutta l'esposizione, cui egli si dilunga, della struttura tecnicamente perfetta degli organi nel corpo umano, deriva da un libro di filosofia naturale di Diogene di Apollonia 43). Non c'è davvero ragione, per questa mancanza di originalità, di dubitare del valore di testimonianza storica di questo discorso, nel suo complesso, giacché lo stesso Socrate, con ogni probabilità, non teneva affatto ad essere originale nelle particolari considerazioni che veniva usando neJ suo argomentare, e comunque, se derivazioni vi sono, si tratta sempre di elementi mirabilmente confacenti al modo di trattazione socratico. Nel libro di Diogene egli trovava, conforme all'esigenza che egli afferma nel Fedone «), l'unico principio di Anassagora applicato al molteplice delle azioni naturali. Il discorso; però, non fa di Socràte un filosofo naturalista, ma si limita a mostrare qual era il suo punto ·di vista nell'accostarsi alla cosmologia. Punto di vista che era stato sempre naturale e ovvio per l'uomo greco, questo di ricercare anche nel cosmo, e di dedurlo da esso, il principio dell'ordine umano, come più volte già abbiamo constatato prima di riscontrarlo di nuovo in Socrate 45). Cosi questa critica socratica dei filosofi na42) Xen. Mem. I 4; IV 3. 43) Mem. I 4, 5 ss. Per il problema delle fonti vedi ora lo studio penetrante di W. THEILER, Geschichte der teleologischen Naturbetrachtung bis auf Aristoteles, Zurigo 1925, che contiene un apprezzamento critico di precedenti lavori. 44) PI. Phaedo, 98h. 45) La coordinazione, caratteristica del pensiero greco, fra l'ordine etico-sociale e l'ordine del cosmo è stata da noi messa in .ri-
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turalisti non fa altro che mostrare, indirettamente, che l'attenzione di Socrate, fin da principio, fu rivolta al problema etico e religioso, senza che ci sia stato nella sua vita di pensiero un periodo propriamente naturalistico. La filosofia della natura non dava alcuna risposta all'interrogativo che egli portava· in sé, dal quale, per lui, tutto dipendeva. E per questo egli poteva metterla da parte. Questa infallibile sicurezza con la quale, fin da principio, egli si mise in cammino è il segno della sua grandezza. Eppure, oltre. ed accanto a questo atteggiamento negativo rispetto alla filosofia della natura sempre messo in rilievo da Platone e da Aristotele in poi, c'è anche qualche altra cosa da osservare, su cui si sorvola con troppa facilità. ~d è quello che appare fin dall'argomentazione riferita da Senofonte sulla costruzione finalistica dell'universo, cioè che Socrate, all'inverso della più antica filosofia naturalistica, procede nel trattar della natura, secondo una tendenza antropocentrica: il suo punto di partenza è l'uomo e la struttura del corpo umano. E anche il fatto che, come è sommamente probabile, le considerazioni che egli fa sue derivino dall'opera di Diogene, è di particolare importanza, perché Diogene non era stato .soltanto u:n filosofo naturalistico, ma insieme un medico famoso. Perciò in lui, come del resto in qualche altro dei filosofi naturalistici della generazione più giovane, - si pensi a Empedocle -,--, la fisiologia dell'uomo si era fatta una parte tanto grande da non aver riscontro in alcuno dei sistemi presocratici più antichi di fisica. Questo nuovo elemento veniva naturalmente a incontrarsi con gli interessi di Socrate e con la sua problelievo particolarmente per ognuna delle tappe dello svolgimento storico, cfr. « Paideia» I, p. 33; p. 108-110; 118; 288; 301 s.; 338 ss.; 465; 552.
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matica. E qui si presenta, nell'atteggiamento di Socrate rispetto alla « scienza della natura» del suo tempo, quel lato positivo sopra accennato, su cui spesso a torto si sorvola. Non si deve dimenticare che alla « scienza della natura» di quel tempo apparten· gono non solo la cosmologia e la meteorologia, alle quali sole si pensa il più delle volte, ma anche l'arte medica che proprio allora, sia nel campo teorico che in quello pratico, prende grandissimo impulso, come sarà chiarito nel terzo volume di quest'opera. Anche un medico contemporaneo, l'autore del libro Sulla medicina antica (trasmessoci nel corpus ippocrateo ), considera l'arte medica quale l'unica parte - fino a quel momento - della scienza naturale che poggi su una effettiva esperienza ed esatta osservazione. Egli pensa che i filosofi naturalisti con le loro ipotesi non hanno nulla da insegnargli e che, semmai, sono loro che avreb· bero qualcosa da imparare da lui 4 6 ). Tale atteggiamento antropocentrico è in generale caratteristico del tempo della tarda poesia tragica e dei Sofisti, ed è legata con esso, come mostrano Erodoto e Tucidide, questa medesima tendenza empirica che si rivela nell'emancipazione della medicina dalle ip.otesi cosmologiche dei filosofi naturalistici. Nella scienza medica, dunque, si trova il più calzante termine di paragone per il disdegno di Socrate per le alate speculazioni della cosmologia, con lo stesso positivo proposito di esaminare i dati di fatto della vita umana 4 7). Anch'egli, come i medici del suo tempo, trova nella natura dell'uomo, come nella parte a noi meglio nota del mondo, il saldo fondamento per la sua analisi della realtà e la chiave per penetrarla. Come 46) Hipp. De vet. med. cap. 12 e 20. 47 ) Ciò è messo in rilievo da Senofonte, Mem. I l, 12 e da Aristotele (cfr. supra, n. 21); cfr. Cic. De Rep. I 10, 15-16.
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disse Cicerone, Socrate fece scendere la filosofia di cielo in terra e la introdusse nelle città e nelle case degli uomini 48 ). Ciò significa, come ora si rivela, non solo un cambiamento dell'oggetto di studio e uno spostamento d'interessi, ma anche un più rigoroso concetto del sapere, semmai un sapere si dia. Quello che gli antichi fisici avevano chiamato conoscenza era una visione totale del mondo, vale a dire, agli occhi di Socrate, una grandiosa fantasmagoria, una vacuità sublime 49). Se egli mostra qua e là di rendere omaggio a questa forma di sapienza per lui inaccessibile, questa non è che ironia 50). Per parte sua egli procede, secondo l'esatta osservazione di Aristotele, in mod.o assolutamente induttivo 61), un modo che ricorda il procedere positivo· del medico pratico. Il suo ideale di sapere è la 't"~V"fl, un ideale che l'arte terapeutica incarna in maniera esemplare, anche in quella subordinazione del sapere a uno scopo pratico che le è propria 52). Del resto, non essendovi ancora una scienza« esatta» della natura - la filosofia naturale di quel tempo era la quintessenza dell'inesatto - , non essendovi neppure un empirismo filosofico, ogni seria riflessione sull'esperienza come fondamento di una esatta conoscenza del reale, rimase sempre connessa, nell'antichità, con la medicina, la quale, per ·questo, venne a prendere nel complesso · della vita intellettuale una posizione e un ufficio più alti e più propriamente :filosofici. E fu essa che trasmise questo complesso di concetti alla filosofia moderna: ché il moderno empirismo filosofico è figlio della medicina greca, non della filosofi.a greca. È di somma importanza per comprendere la posiU) Cic. Tusc. Disp. V 4, 10. PL Apol. 18b, 23d. 50) PL Apol. 19c. 51) Cfr. supra n. 21.
' 9)
..) Xen.
Mem.
IV 2, 11. PL Gorg. ·465a e frequentemente.
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zione di Socrate nella filosofia antica e il suo atteggiamento antropocentrico, che non si perda mai di vista il suo rapporto con quella grande forza intellettuale che fu ai suoi giorni la medicina. I suoi richiami a quest'arte, gli esempi che egli vi cerca, sono straordinariamente frequenti, e non accidentali, ma in qualche modo connessi con la struttura del suo pensiero, con la consapevolezza che guida tutto il suo operare, con l'ethos che lo pervade. Egli è veramente un medico. Egli lo è tanto che, secondo Senofonte, si preoccupava della salute fisica dei suoi amici non meno che del loro benessere spirituale 53). Ma prima di tutto è un medico di anime. La sua dimostrazione che la strutturà dell'universo è appropriata a un fine fa capire chiaramente, per la maniera in cui Socrate considera a questo punto la natura fisica dell'uomo, che anche la tendenza teleologica si connette strettamente in lui con l'::Ltteggiamento medico-empirico. Essa diventa veramente comprensibile se la si. mette a fronte di quella concezione teleologica della natura e dell'uomo che si afferma consapevolmente per la prima volta nella medicina di quel tempo e, fissandosi da allora in poi sempre più precisamente, trova la sua finale espressione filosofica nella concezione vitalistica dell'universo propria di Aristotele. Certo, l'assidua ricerca di Socrate sull'essenza del Buono si sviluppa da nn modo di porre il problema che è assolutamente suo proprio, non imparato da alcuna scuola: anzi a considerar le cose con gli occhi di un filosofo naturalista professionale del tempo, si dovrebbe dire: questo è il problema di un dilettante al quale la scepsi eroica del puro scienziato non ha risposta da dare. Ma questo dilettante si rivela un creatore, nel problema che pone, 63) Mem. I 2, 4; IV 7, 9.
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e non è per noi senza importanza constatare, dalla medicina di «Ippocrate» e di Diogene, che, con quel suo problema, egli venne a dare una formulazione definitiva al più intenso sforzo di ricerca di tutta la sua epoca. Non è noto a che età Socrate cominciò a esercitare, nella sua città, quell'attività che i dialoghi dei suoi scolari ci mettono sotto gli occhi. Platone fa risalire la data :fittizia di alcuni suoi dialoghi fino ai primi tempi della guerra peloponnesiaca; così nel Carmide, p. es., dove Socrate appare appena tornato dalla dura campagna di Potidea. In quel momento egli aveva quasi quarant'anni. Ma gl'inizi della sua attività è probabile che risalgano ancora più addietro. Platone ritenne così importante il vivo sfondo delle .sue conversazioni che lo ritrasse più volte, nella più dilettosa delle pi!!~~ L'ambiente di Socrate non è l'astrattezza senza teni.po d'un'aula di scuola, ma il vivo tumulto della palestra ateniese, del ginnasio, dove egli :finl col diventare~acc-;~o al maestro e al medico, un personaggio immancabile, come loro 54). Ciò non vuol dire naturalmente che i partecipanti alle sùe conversazioni, presto famose in Atene, vi intervenissero in quella nudità spartana che era normale negli esercizi atletici, anche se ciò poté avvenire frequentemente. Ma, comunque il ginnasio non è, per quella drammatica lotta di pensiero in cui si spese la vita di Socrate, un qttalunque fondale, neutro o generico. C'è veramente un'intima affinità tra il conversare socratico e lo spogliarsi dinanzi al medico o al maestro per essere esaminati prima di entrar nell'arena, in gara; e il paragone è messo da Platone in bocca di Socrate 55). Nel ginnasio l'ateniese di quel tempo 64) Cfr. anche Xen. Mem. \I 1, 10, sul genere ,di vita giornaliero di Socrate. ' 66) Charm. 154d-e, Gorg. 523e, Theaet. 169h.
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era a casa sua più che tra le quattro mura di una piccola abitazione, che gli serviva solo per dormire e per mangiare. Là, nella chiara luce del cielo greco, s'incontravano ogni giorno vecchi e giovani per allenarsi negli esercizi fisici"). I momenti vuoti delle pause erano riempiti dalla conversazione. E, più o meno alto che possa essere stato il livello medio di questa, è ad ogni modo notevole che le più famose scuole filosofiche del mondo, l'Accademia e il Liceo, traggano il nome da rinomate palestre ateniesi. Chiunque in Atene aveva qualcosa da dire o da. domandare che fosse di interesse generale e che non fosse affare da assemblea o da tribunale, andava al ginnasio, in cerca di amici o conoscenti. Ed era una costante attrattiva l'andare immaginandosi chi si sarebbe potuto incontrare. Né mancava la possibilità di variare, dato il buon numero di queste palestre, di ogni grandezza ed importanza, private e pubbliche che esistevano in città 57). Un frequentatore abituale come Socrate, che negli uomini non altr.o cercava che la loro umanità, conosceva ogni singolo, sicché non appariva faccia nuova, specialmente tra i giovani, senza che egli se ne incv.riosisse e ne domandasse. Nessuno, nella facoltà di osservatore acuto della gioventù, stava a pari di lui, leccezionale conoscitore di uomini che, a detta di tutti, col suo interrogare penetrante, come con infallibile pietra di paragone, non si lasciava sfuggire alcuna attitudine, alcuna forza latente, sicché i cittadini più in vista richiedevano il suo parere per l'educazione dei figli. 66) Sul tempo da dedicarsi giornalmente agli esercizi fisici cfr. la letteratura medica sulla dieta di cui si parla in« Paideia»
III 72-76. 67 ) E. N. GARDINER, Greek Athletic Sports a.nd Festiva.ls, Londra 1910, p. 469 ss.
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Solo i simposii 58 ) in virtù di un'antica tradizione, si potevano in qualche modo paragonare alle palestre, per importanza nella vita intellettuale, e, per questo, Platone e Senofonte scelgono queste due situazioni come scena dei dialoghi di Socrate., Ogni altra occasione, di cui essi fanno cenno, era più o meno accidentale: cosi le conversazioni intelligenti del salotto di Aspasia, così gli incontri nelle botteghe del mercato, dove si usava intrattenersi, o la conferenza di un sofista famoso in casa di qualche ricco mecenate. Ma le palestre, come luogo d'incontro regolare, rimanevano più importanti di ogni altro. Accanto al fine che era loro proprio, esse, con l'intensità dei contatti spirituali di cui davano l'occasione, favorivano nei frequentatori lo sviluppo di certe loro caratteristiche, che erano il terreno più adatto per la semina di ogni nuova idea o aspirazione. Luoghi di agio e di distensione, i ginnasii non erano fatti perché vi attecchissero temi o propositi di attività speciali, e nemmeno gli affari trovavano in essi il posto adatto. Tanto più perciò si aprivano a problemi di largo respiro umano. Né questa favorevole condizione si limitava al contenuto delle conversazioni: anche la potenza formale dell'intelletto poteva qui far le sue prove di sottigliezza e di elasticità sorretta dall'interesse di una cerchia di uditori tesa alla critica. Crebbe così una sorta di ginnastica del pensiero che, non meno di quella fisica, fu coltivata e ammirata e che, al pari di quella, fu presto ammessa come una nuova forma di paideia. La « dia.lettica » socratica era qualcosa di assolutamente singolare, era la pianta di un solo terreno, l'estremo opposto dei metodi insegnativi dei con68) Sul simposio come centro di vita intellettuale c.fr. infra., pp. 303-305.
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temporanei Sofisti. Questi sono maestri ambulanti stranieri, recinti dal nimbo inaccessibile della fama, circondati da lina stretta cerchia di discepoli. Essi insegnano per mercede, professando discipline e arti speciali, e si rivolgono a un pubblico stretto, per lo più figli di ricchi possidenti desiderosi di cultura. La sede della loro cattedra, da cui trionfano in lunghe dicerie « a solo », è la casa di un privato o una improvvisata sala di conferenze. Socrate, invece, è un semplice cittadino che tutti conoscono. La sua efficacia di maestro non è immediatamente percepibile; con lui si lega discorso su qualunque argomento che si offra casualmente, un discorso libero e sciolto e, apparentemente, senza tesi. A sentirlo, egli non insegna neppure, e non ha scolari, ma solo amici e compagni. La gioventù, affascinata dalla tempra di lama tagliente, irresistibile, del suo ingegno, gode da lui uno spettacolo sempre nuovo, un dramma del più genuino stile attico, e lo ascolta rapita, ne festeggia i successi, e comincia perfino a cercare di imitarlo, mettendo a prova la gente, allo stesso suo ~odo, nella cerchia familiare o tra i conoscenti. Il meglio, intellettualmente, della gioventù ateniese si affolla intorno a Socrate, e nessuno si libera più, una volta avvicinatolo, dalla forza di attrazione del suo spirito. Anche chi pensa di potersi chiudere, di fronte a lui, in un contegno duro o altezzoso, anche chi si sente urtato dalla forma pedantesca del suo interrogare, dalla voluta umiltà dei suoi esempi, si trova presto giù, costretto a discendere dall'altezza del suo piedistallo immaginario. ,Non è facile ridurre a chiarezza concettuale, a un unico elemento essenziale, questa complessa figura. Platone, col suo indugiare amoroso a ritrarne accu- . ratamente tutti i lineamenti, sembra voler dire che essa non può, infine, essere definita, ma solo compresa
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per immediata esperienza. D'altro lato, si capisce che le storie della filosofia professionali vogliano sfrondare tutto questo dal ritratto platonico di Socrate, come una mera aggiunta poetica, come qualcosa che non raggiunga quel livello di puro pensiero sul quale dovrebbe rimanere e muoversi un filosofo. Non si tratta di altro, sembra, che di un modo del tutto indiretto di caratterizzare la potenza intellettuale di Socrate, col sussidio della rappresentazione drammatica del suo potere, più che intellettuale, su uomini vivi. Ma, in realtà, tolto questo sentire socratico, questo suo darsi pena .del bene del singolo uomo col quale egli ha che fare di volta in volta, non si può più nemmeno esporre c h e c o s a dica Socrate. Tutto quello che la filosofia può considerare non essenziale, nel senso delle sue definizioni e concetti di scuola, Platone lo afferma, per Socrate, essenziale. E ciò sveglia in noi, il sospetto, di trovarci sempre in pericolo di travedere Socrate, attraverso quel mezzo che n o i chiamiamo filosofia. È vero, Socrate stesso definisce la sua« attività» (1tp«yµ.cx, caratteristica parola), come « filosofia» e « filosofare». Egli afferma, nell'Apologia platonica, dinanzi ai giudici, che egli non cesserà mai di esercitarla, finché gli rimanga vita e respiro 59). Ma a noi non è lecito cercare in questa parola quel senso che in essa si è formato nel corso di un lungo sviluppo: il senso, cioè, di metodo dèl pensiero concettuale~ .o di edificio dottrinale consistente di proposizioni teoretiche e del tutto indipendente dalla persona che lo ha creato. Contro questa indipendenza della dottrina dal maestro si leva ad una voce tutta la letteratura socratica. Che cos'è dunque questa « filosofia» di cui il mo-
") Àpol. 29d.
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dello, per Platone, è Socrate e che questi dichiara di professare nella sua difesa ? Platone ne ha spiegato la natura in parecchi dialoghi: Platone, è vero, si dà cura sempre più di mettere in primo piano i resultati delle ricerche che Socrate conduce con i suoi interlocutori; ma, pur così facendo, egli ha certamente la convinzione di rimaner sempre fedele, nella sua esposizione, all'essenza dello spirito socratico. Questo spirito doveva, per lui, in tutte queste ricerche, dimostrare sempre di nuovo la propria fecondità. Pure, poiché per noi è difficile ·determinare il punto in cui il Socrate di Platone è ormai più Platone che Socrate, si deve cercare il punto di partenza nelle più precise e e semplici - e di tali ce ne sono - tra le formulazioni platoniche. Nell'Apologia, ancor Sotto il colpo della mostruosa ingiustizia perpetrata con la condanna di Socrate, e nella speranza di guadagnare a Socrate altri seguaci, Platone espose la sostanza e il senso del!'attività di lui, in forma breve e semplicissima. E, se anche l'arte sapiente della struttura vieta di ritenere quest'opera come una riproduzione della difesa reale, improvvisata da Socrate dinanzi ai giudici 6 8), quello che in essa è detto di lui è mirabilmente rispondente alla sua vita reale. Sgombrato il ·campo dalla caricatura dei comici e dalle deformazioni dell'opinione pubblica, Socrate prosegue con quella commovente professione di fedeltà alla « :filosofi.a» che Platone concepi in cosciente parallelismo ad un famoso passo euripideo, la professione di fedeltà del poeta al servizio delle
00) Tra quelli che vedono nell' Àpok>gia una meditata opera d'arte merita speciale menzione ERWIN WoLF, Platos Apologie («NeuePhilologische Untersuchungen» hrsg. von W.Jaeger, vol. VI), che con una fine analisi della forma artistica dell'opera, dimostra efficacemente che essa è un geniale ritratto di Socrate, che Platone · vuol presentare come un autoritratto.
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Muse 61), Ma la professione di Socrate è pronunziata in cospetto della morte imminente. La virtù che egli serve non è solo datrice di bellezza alla vita e lenitrice del dolore; ma è virtù di dominio sul mondo. Segue poi, immediatamente, a questa affermazione « io non cesserò mai di filosofare», un esempio tipico del modo socratico di parlare e di insegnare. Per capirne il contenuto, anche noi, come Platone c'insegna a fare in questo e in molti altri luoghi, dobbiamo partire dalla forma. Platone riconduce, qui, la maniera propriamente socratica a due forme principali: l'esortazione (protrepticòs wgos) e la confutazione (élenchos); ambedue nella forma dell'interrogazione. Questa forma interrogativa si riallaccia alla più antica_ forma della parenesi, che ci è dato rintracciare attraverso la tragedia fino all'epos. L'avvicendarsi di questi due aspetti del discorso socratico s'incontra ancora una volta nel colloquio con cui si apre il Protagora platonico 62). In questo dialogo che pone Socrate di fronte al grande sofista, tutte le forme ormai :fisse nelle quali si attuava il metodo didattico dei Sofisti - mito, dimostrazione, interpreta.zione di poeti, procedimento a domanda e risposta si spiegano· dinanzi a noi, in tutta la loro varietà, come in parata. Ma anclie le forme proprie di Socrate sono ritratte con altrettanto senso di umorismo e con pari evidenza in tutta la loro bizzarra. pedanteria, in tutta Eur. Her. 673 ss.: oÙ 7ttx:UO"O[LOCL -rècç )(.&pL-rocç MouaocLa7te:p av €µ=éc.> xocl ot6ç n ~. o?i µ1] 7tocuac.>µocL qn)..Òaocpwv. 62 ) Nel Protagora 3llh precede un dialogo confutatorio di Socrate col giòvane Ippocrate a cui poi si ·attacca il dialogo pro· trettico, 313a ss. 61)
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la loro ironica ruvidezza. In tutti e due i componi. menti, Apologia e Protagora; Platone mostra come quelle due forme principali de~a maniera socratica, la protrettica e la confutatoria, siano essenzialmente collegate tra loro, cQsÌ da risultare, in realtà, due semplici stadii dello stesso processo spirituale. E basti qui l'esempio dell'Apologia dove Socrate descrive cosi la sua maniera 63) : « Io non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e di provar le mie ragioni a chiunque di voi io incontri, parlando, al mio solito modo, così: • carissimo, tu che sei ateniese, di quella città che è famosissima per saggezza e potenza, non ti vergogni di darti cura delle ricchezze, e di averne il più che potrai, e così della rinomanza e dell'onore, mentre poi della saggezza, della verità, e dell'anima insomma, tu non ti curi affatto - che essa sia più buona che è possibile - e non ci pensi nemmeno ? ' E se uno contesterà il mio dire e dirà che se ne cura, non sarà mai che io lo lasci stare senz'altro e me ne vada per i fatti miei, ma mi metterò a interrogarlci e a esaminarlo, e a discutere con lui, e se mi apparirà che egli non possiede la virtù, ma soltanto dice di averla, gli farò rimprovero di far pochissimo conto delle cose che più valgono e di dar più peso a quelle che valgono meno. E questo lo farò con chiunque io incontri giovane o vecchio, forestiero o cittadino, ma più certo, con voi cittadini,. che mi siete più vicini di sangue. Ché, questo, me lo comanda il Dio, sappiatelo bene, e, anzi, io credo che non ci sia mai stato per voi, in questa città, un · beneficio più grande di questa mia opera in servizio del Dio: ché non per altro io vado attorno se non per persuadere voi tutti, giovani e vecchi, a non curarvi prima di tutto e con tanta premura dei vostri corpi 83)
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e delle vostre ricchezze, ma prima e più dell'anima, che essa sia il meglio possibile». Questo « filosofare» di cui Socrate, qui, fa professione, non è. dunque, un pensare puramente teoretico, ma si trova invece sullo stesso piano dell'esortazione morale e dell'educazione, ed in servizio di queste attività è posto anche il metodo socratico di esaminare e confutare, come ogni sapere di pura apparenza, così ogni virtù (areté) posticcia. Questo modo di esaminare è solo una parte dell'intero processo, come Socrate lo concepisce, anche se esso appare, di solito, come l'aspetto veramente originale della sua opera. Pertanto, prima di addentrarci a cogliere l'essenza di questo «esame degli uomini» per via dialettica, che si suole considerare il centro della filosofia socratica come quello che contiene l'elemento più fortemente teoretico, si deve guardare ancora un po' più da vicino la parte esortatoria del discorso socratico che apre la via al procedimento dialettico. Il paragone tra il modo di vita dell'uomo d'affari tutto teso alla. caccia del denaro e dei beni materiali, e le più alte aspirazioni di Socrate, si fonda su questo pensiero: l'uomo suol prendersi la massima cura e preoccupazione per quei beni che stima di più. Ora Socrate vuole che al posto della preoccupazione del guadagno stia nell'uomo la cura dell'anima (~uz1ji; .&e:poc:7tdoc:) •. Questo il concetto che apre il discorso di Socrate e che ritorna alla fine 64). Ma, nell'interno· di esso, non si trova nulla con cui si voglia dimostrare il più alto pregio dell'anima rispetto ai beni esteriori o del corpo: un tal pregio è presupposto come evidente, anche se gli uomini, nel loro pratico comportamento, mostrano di darsene cosi poco pensiero. Per l'uomo moderno, affermazioni del genere non ") Cfr. Apol. 29d e 30b.
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hanno nulla di singolare, almeno in teoria; tengono anzi, piuttosto, del luogo comune. Ma era, tutto ciò, così ovvio per i Greci come per noi, eredi di una tradizione cristiana bimillenaria ? Anche nel Protagora, nel discorso introduttivo col giovinetto Ippocrate, l'esortazione di Socrate parte dalla considerazione dell'anima e del pericolo in cui essa si trova 65). Il motivo del pericolo in un contesto di questo genere è tipico di Socrate e saldamente connesso col richiamo a curarsi dell'anima. Egli parla come il medico, ma il suo paziente non è l'uomo fisico, bensì l'anima dell'uomo. Sono straordinariamente numerosi, negli scritti dei Socratici, i luoghi in cui si parla dell'assistenza e della cura dell'anima come della più alta esigenza umana. Eccoci di fronte, con c10, al punto essenziale di queJla consapevolezza che Socrate ebbe del suo compito e della sua missione: missione educatrice, attuar la quale è per lui servizio di Dio 66). E proprio in quanto essa è cura di anime, essa ha questo carattere religioso: ché l'anima è quel eh.e di divino è nell'uomo. Che cosa poi sia «cura dell'anima» 67), Socrate lo determina più da vicino, caratterizzandola come conoscenza dei valori e della verità,
85) Prot. 313a. 86 ) Il concetto di « servizio di Dio» affiora già prima nella letteratura greca e acquista poi in Platone l'impronta particolare che qui si accenna. Socrate dice, Apol. 30b, 'ÌJ ȵ.'ÌJ 't'éi> &eéi> U7:'"1Jpe:cr(o:. La parola U'ltljpe:crlo: è sinonimo di &e:po:r.do:. &e:po:r.e:Òe:Lv .&e:ouç vale deos colere, ed ha sempre senso cultuale. L'attività di Socrate ha per lui il valore di una forma di culto. 87) Cfr. n. 64. L'espressione« cura dell'anima» ha per noi un senso specificamente cristiano, perché l'idea da essa espressa è divenuta parte della religione cristiana. Ma questa stessa accettazione dell'espressione da parte del cristianesimo è dovuta al fatto che l'atteggiamento cristiano coincide con quello socratico nel concepire la paideia come il vero servizio di Dio e la cura dell'anima come la vera paideia. Il cristianesimo, nel formulare questa concezione, ha subito la diretta infl.uenza della disciplina socratica, così come Platone la presenta.
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Phronesis e Aletheia 68). In questa concezione l'anima è staccata dal corpo con lo stesso taglio netto che la divide dai beni esteriori, ed è cosi già fondata, con questa separazione di anima e di corpo, la gerarchia socratica dei valori e insieme una teoria dei beni che pone i beni dell'a:r,rima al gradino più alto, al secondo quelli del corpo e al più basso i beni esteriori, come ricchezza e potere. C'è un grandissimo divario tra questa scala di valori formulata con tanta indipendenza di pensiero da Socrate e quella dominante e popolare che aveva trovato espressione nel bel canto conviviale della Grecia più antica 69) : La salute è il primo bene per l'uomo mortale, il secondo è essere bello e prestante, il terzo è una ricchezza senza colpa e il quarto è fiorir di giovinezza, tra gli amici.
Ed ecco ora qualcosa di nuovo che viene ad aggiungersi a questa lista, portatovi dal pensiero di Socrate: ed è il mondo interiore. L'areté della quale egli pa:i;la, è un valore proprio dell'anima. Ma, che cos'è« l'anima» o, con la parola greca e socratica, che cos'è« psyche » ? Si consenta, per il momento, di porre questo problema solo in un senso puramente filologico. Quello che colpisce è che quando Socrate, in Platone come negli altri Socratici, pronuncia questa parola « anima» vi pone sempre come un fortissimo accento e sembra avvolgerla in un tono appassionato e urgente, quasi di evocazione. Labbro greco non aveva mai, prima di lui, pronunziato così questa parola. Si ha il sentore di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è che,
6") Apol. 29e. 69) Scol. Anon. 7 DiehL
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qui per la prima volta nel mondo della civiltà occidentale, ci si presenta quello che noi ancora oggi talvolta chiamiamo con la stessa parola, anche se gli psicologi moderni non associano ad essa la nozione di sostanza reale. La parola « anima», per noi, in grazia delle correnti. spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole: « servizio di Dio» e « cura d' anime» essa suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protrettica di Socrate. E, si badi, noi prescindiamo qui dalla questione, quanto il concetto socratico di anima abbia influito, immediatamente o per il tramite della più tarda :6.losofia, sul cristianesimo nelle sue varie fasi, o fino a che punto esso coincida col concetto cristiano: quello che prima di tutto c'importa è di segnare la svolta capitale che il concetto socratico di anima rappresenta in seno allo svolgimento spirituale greco in sé considerato. Rivolgiamoci ora a un'opera classica; al capolavoro cÌi Erwin Rohde, « Psyche ». Ne ricaveremo l'impressione che Socrate, in questo svolgimento spirituale, non abbia alcuna importanza ? significato. Il Rohde lo passa del tutto sotto silenzio 70). Ciò è, da una parte, dovuto alla prevenzione che il Rohde, fin dalla giovinezza aveva, in comune con Nietzsche, « contro Socrate, il « razionalista», dall'altra, e ancor più, era d'ostacolo al Rohde l'impostazione stessa del suo libro; giacché egli, in questo ancora orientato involontariamente in· senso cristiano, pone il culto delle anime e la fede nell'immortalità al centro di quella sua vasta
70) ERWIN RoBDE in Psyche, II P· 263 (78 e 88 ed.), unico luogo in cui nomina Socrate, non altro sa dire di lui se non che egli non credeva nell'immortalità dell'anima.
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storia del concetto di anima che libera si muove attra· verso ogni altezza di pensiero. Che Socrate non abbia contribuito in modo essenziale né all'una né all'altra di quelle due concezioni, è cosa che si può senz'altro concedere. Ma, nel constatare ciò, avvenne al Rohde un fatto singolare, cioè di non vedere dove e quando e per opera di chi la parola « anima » « psyché » venne a configurarsi in quell'aspetto che le permise di significare per sintesi, per gli uomini della civiltà occiden· tale, tutti i ~alori intellettuali ed etici della persona· lità. Ora, questo avvenne nei discorsi protrettici di Socrate educatore, ed è cosa, questa, che basta enun· ciare per metterla fuori discussione. Già i dotti della scuola scozzese avevano posto in rilievo questo punto, rimasti immuni, quasi del tutto, nelle loro osservazioni, dall'influenza del. Rohde. Il Burnet, in un suo bel saggio, ha seguito lo svolgimento del concetto di anima attraverso la storia dello spirito greco, ed ha mostrato come né l'eidolon omerico-epico, l'ombra dell'Ade, né l'anima aerea della filosofia ionica, né l'anima· demone dell'orfismo, né la Psyche della tragedia attica, bastano a spiegare il senso nuovo che Socrate associò a quella parola 71 ). Io stesso, in passato, partendo dall'analisi della caratteristica forma del discorso socratico, al modo che anche qui ho seguito, ero giunto a un re· sultato identico. Una forma come quella del discorso esortatorio di Socrate non poteva uscire se non da quel pathos e da quel senso dei valori che è intimo alla parola anima, come Socrate la usa. Se noi rileviamo che i suoi discorsi protrettici sono la forma 71 ) J. BUBNET, The Socratic Doctrine of the Soul in «Proceedings of the British Academy» 1915-1916, p. 233 ss. C'è appena bisogno di dire che io non mi accordo tanto col Burnet nel designare il pensiero socratico sull'anima come «dottrina», quanto piuttosto nel rilievo che egli dà, nel suo ritratto di Socrate, al· l'importanza del problema dell'anima.
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CAP. TI: SOCRATE
germinale della
diatriba
dei filosofi popolari
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del-
1'età ellenistica, e che questa, per parte sua, contribui a far nascere la« predica» cristiana 72), non si tratta soltanto di indicare un passaggio e .una continuità nella forma letteraria esteriore. In questo senso ha già molto lavorato la filologia trattando delle relazioni tra queste forme e seguendo i singoli motivi e temi del discorso esortatorio attraverso l'intero svolgimento storico. Si tratta, molto più, di affermare che a base di tutte e tre le fasi del discorso .esortatorio sta una fede: che cosa giova all'uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l'anima sua? Giustamente Adolfo Harnack, nella sua «Essenza del Cristianesimo ))' indicò come uno dei pilastri fondamentali della religione di Gesù, questa fede nell'infinito valore dell'anima individuale 73). Ma essa era stata già fondamento della « filosofia» di Socrate e del suo sforzo educativo. Socrate predica e converte. Egli viene a « salvare la vita 74) ». Siamo giunti a un punto in cui è necessario soffer.. marci, in questo nostro tentativo di rilevare, più semplici e chiari che sia possibile, gli elementi fondamentali della coscienza socratica, giacché. essi esigono da parte nostra una valutazione e una presa di posizione, per 72) L'origine della forma del discorso esortatorio o diatriba risale natnralmente all'età primitiva. Ma la forma educativa e morale della predica, che domina, accanto alla forma dogmatica e a quella esegetica, nell'omiletica cristiana, ebbe la sua specifica impronta letteraria dalla socratica, che a sua volta risale all'insegnamento· protrettico orale di Socrate. 73) Wesen des Christentums, Dritte V orlesung, p. 33. 74) Cfr. Prot. 356d, 356e, 357a. Il luogo natnralmente è da intendere come una parodia della salvezza della vita (~(ou a>. -fi-r-ricr.&aL -r&v -fil:ìov&v (p. es. Prot. 352e). Socrate in Prot. 353c rivolge la sua attenzione proprio su questo punto, cioè sul problema, di che natura sia una tale debolezza. 172) Cfr. Eth. Nic. VI 13, 1144b17 ss. La« virtù etica» si esercita specialmente riguardo a piacere e dispiacere: Il 2, 1104 b 8.
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crate, con quella sua affermazione, non pensa affatto di proclamare una verità di ordine psicologico. Se nel suo paradosso si ricerca il nucleo veramente fecondo, che pur vi si intravvede, lo si ravvisa facilmente nel rifiuto . di tutto quello che fino allora si era chiamato scienza, e che si era rivelato, alla prova, privo di efficacia etica. La conoscenza del Buono, che Socrate trova al fondo di tutte le cosiddette « virtù» umane, singolarmente prese, non è un'operazione dell'intelletto, ma come ben vide Platone, l'espressione, fattasi consapevole, di un « essere» intimo all'uomo. Essa ha radice in uno strato profondo dell'anima, dove l'essere penetrato dalla conoscenza e il possesso del conosciuto non si possono più scindere, ma sono, essenzialmente, uno. La filosofia platonica è il tentativo di scendere a questa profondità, rivelata dal concetto socratico di sapere, e di portarne alla luce tutta la ricchezza l73). Per Socrate non ha alcun valore, in questa sua convinzione, l'obiezione dei più affermanti, con richiamo all'esperienza, che conoscere il bene e farlo non sono la stessa cosa: questo vorrà dire soltanto che il vero sapere è raro, tanto raro che Socrate non crede davvero di potersi vantare di possederlo. Ma, dimostrando l'ignoranza di coloro che pretendono di sapere, egli prepara la via per un concetto del sapere che adempie il suo postulato ed è realmente la più profonda forza dell'anima. Per Socrate, l'esistenza di un tale sapere è una verità primaria, incon173) Il concetto platonico di phr6nesis, che significa insieme conoscenza del bene e dominio di questo sull'anima (cfr. il mio Aristoteles, p. 82, trad. Calogero, p. 101 ss.) vuol soddisfare all'esigenza socratica che la virtù sia scienza. Evidentemente questa parola phr6nesis era già stata usata prima da Socrate. Essa si trova infatti non solo in Platone, che l'adopra appunto in luoghi di manifesto colorito socratico, ma anche negli altri socratici, Senofonte e Eschine.
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dizionata, giacché la si trova al fondo di ogni pensiero o azione etici, non appena essi si riportano, con l'analisi, ai loro presupposti. Così fu per Socrate: ma per i suoi discepoli, la massima che « virtù è sapere», non fu più soltanto un paradosso, come era sembrato in principio, bensì la descrizione di una altissima capacità umana che in tanto poteva dirsi esistente in quanto si era, una volta, realizzata in Socrate. La scienza del Bene, nella quale vien sempre a shoccare, alla fine, l'esame di ciascuna delle virtù particolari, è qualcosa di assai più comprensivo della fortezza o giustizia o di qualunque altra singola areté. Essa è la « virtù in sé», e solo i modi in cui si rivela son diversi. E qui, di nuovo, un paradosso psicologico. La fortezza, o coraggio, p. es., è la scienza del Bene con riguardo a ciò che realmente è temibile op pur no: ma ciò, evidentemente, suppone che nella singola virtù della fortezza sia presente l'interà scienza del Bene 114). Essa, dunque, deve essere indissolubilmente legata con le altre virtù, giustizia, prudenza, pietà, e, se non sarà con esse identica, sarà in ogni modo ad esse sommamente vicina. Ora, non c'è. esperienza che ci sia più familiare del fatto che un uomo può. eccellere per forza e coraggio personale di altissimo grado, ed essere, a un tempo, ingiusto al massimo, smodato e empfo, mentre un altro è si del tutto prudente e giusto, ma non è coraggioso 115). Ed anche se si vuole seguir Socrate fino a considerare le 174) Ciò è dimostrato nel Lachete 199c, ed è il punto a cui Socrate mira quando, nel Protagora 33lb, 349d, 359a-360e, cerea di dimostrare che tutte le virtù sono essenzialmente una cosa sola, cioè una scienza del Bene. 176) Questa è l'obiezione che Protagora muove a Socrate in Prot. 329d, 330e, 33le, 349d e altrove, mettendosi con ciò dal punto di vista del sel;l.So comune e facendo apparire Socrate in . radicale contrasto con questo.
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singole virtù come « parti» dell'unica virtù, che tutto abbraccia, non sembra che gli si possa concedere che questa virtù, nella sua totalità, sia presente ed operante in èiascuna delle sue parti. Si tratterà, tutt'al più, di figurarsi le virtù come le parti, i lineamenti di un viso, che potrà avere .begli occhi e un brutto naso. Eppure, no. Su questo punto Socrate è irremovibile precisamente come nel tener fermo alla convinzione che virtù è sapere. La vera virtù è una e indivisibile 176); non si può averne una parte e un'altra no. Il coraggioso, che è nello stesso tempo imprudente, smodato e ingiusto, sarà un buon soldato sul campo, ma forte non è, forte contro se stesso, contro i suoi nemici interni, le sue passioni sfrenate; il pio, che compie con scrupolo tutti . i suoi doveri verso gli dei, ma è ingiusto contro i suoi simili e smodato nel suo odio, nel suo fanatismo, non può avere in sé la vera pietà 177). Socrate fa stupire i due strateghi Nicia e Lachete esponendo qual sia l'essenza della vera fortezza; ed essi devono riconoscere di non averla mai, nonché posseduta e praticata, ma neppure compresa a fondo in tutta la sua grandezza. E il pio interprete della legge sacra, Eutifrone, si vede smascherato nella pochezza della sua orgogliosa e vendicativa religiosità. Quel che gli uomini chiamano convenzionalmente virtù, non è, in realtà, che un aggregato in cui si accostano i prodotti di varie, e tutte unilaterali, maniere di for1 76) L'indagine s~ rapporto tra le parti della virtù., che ritorna più volte in Platone come motivo socratico, appartiene certo al Socrate storico. L'affermazione dell'unità di esse si presentava del tutto naturalmente a chi poneva la domanda: che cos'è la virtù in sé? 177 ) Il Lac[iete platonico solleva dubbi sulla concezione tradi. zionale e puramente militare della fortezza, in quanto mostra che la fortezza interiore è altrettanto importante (19ld). In modo analogo Platone nell' Eutifrorie critica il concetto convenzionale della pietà religiosa.
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mazione, di disciplina umana, ed è tale, per di più, che i componenti sono tra loro in un contrasto etico inconciliabile. Socrate, invece, è pio e forte, giusto· e temperante in una sola persona: la sua vita è lotta e insieme servizio di Dio. Egli non trascura i suoi doveri e pratiche cultuali verso gli dei, e per questo può mostrare a chi non conosce se non questa pietà esteriore, che c'è pure un altro timor di Dio, e più alto, di questo. Ha combattuto per la patria, con segnalato onore, in tutte le guerre, e per questo può spiegare ai più alti uomini d'arme e capi dell'esercito ateniese, che ci sono altre vittorie oltre quelle che si conqui,stano con la spada in pugno. Perciò Platone distingue la virtù civica comune dalla più alta perfezione filosofica 178). Questo ideale del superuomo etico è per lui incarnato in Socrate; ma non altrimenti Platone avrebbe espresso una tale supremazia se non dicendo che Socrate solo possiede la « vera», umana, areté. A considerare la paideia socratica nell'esposizione senofontea, alla quale ci siamo affidati per un primo sguardo d'insieme al vario contenuto di essa 1 79), sembra che essa consista in una quantità di particolari problemi pratici della vita umana. A guardarla invece nella luce della concezione platonica, si rivela di colpo l'intima unità che stringe tutti questi particolari, e si giunge a concludere che il sapere o la phr6nesis di Socrate, ha un solo oggetto ed è la « scienza del Bene». Ma se ogni sapienza culmina in un'unica conoscenza alla quale necessariamente ci riconduce ogni tentativo .di determinare con precisione un qualunque bene umano, c1 deve el!sere, tra l'oggetto di questo sapere e la più 178) PI. Resp. 500d, Phaedo 82a. Legg. 710a. 179) Cfr. supra, p. 79 ss.
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intima natura di ogni tendenza e volontà umana, una relazione essenziale. E solo a patto di scorgere una tale relazione, ci si fa chiaro come l'affermazione socratica la virtù è sapere, affonda le sue radici nell'intera concezione socratica dell'essere e dell'uomo. Socrate non pensò, è vero, a svolgere una completa antropologia, che fu poi l'opera, esclusivamente, di Platone. Ma, per Platone, una tale antropologia c'era già nel pensiero di Socrate: non altro occorreva che svolgere in tutte le sue conseguenze una massima delle più familiari a Socrate. In questa, come nelle altre due sulla virtù come scienza, e dell'unicità della virtù, era implicita una metafisica intera, in tre parole: nessuno fallisce volontariamente. 180). Con questa massima il paradosso della sapienza educativa di Socrate raggiunge il suo culmine, e, insieme, chiarisce la direzione a cui Socrate guida ogni suo sforzo .. L'esperienza del singolo, c.ome quella dellà società, depositata nella legislazione vigente e nelle teorie del diritto, sembra ritenere per vero il contrario dell'affermazione socratica, in quanto correntemente si distingue tra volontarietà e involontarietà di ogni azione e violazione del diritto 181 ). Distinzione che, anch'essa, certo, si basa sul momento del sapere
180) È questa un'idea che ù :;ocrate platonico ripete continuamente. Essa, come del resto è çomunemente ammesso, è uno di quegli elementi della prima ·dialettica platonica che risalgono al Socrate storico. Cfr. Prot. 345d, 358c, Hipp. Min. 373c, 375a-b. 181) Su questo punto Aristotele, Eth. Nic. III 2-3, rappresenta in complesso la concezione dominante nel diritto greco. Egli definisce il concetto di « volontario» (éxoua&ov) nel largo senso in cui lo contempla la legge in vigore: come un'azione, il cui principio sta nell'agente stesso e nel compiere la quale l'agente è consapevole delle circn allusione a filosofi. del tipo di Aristippo. Nella sua Politica, questa
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quando si osserva che ben diverse furono le condizioni storiche della loro vita da quelle di Socrate. Le parole che Socrate, proprio nell'Apologia, rivolge ai suoi concittadini, quando li richiama all' areté appellandosi alla loro fierezza nazionale, quelle parole « tu, figlio della più grande città e della più famosa per saggezza e potenza ..... », non sono affatto un particolare secondario o inefficace, nella motivazione del suo ammonimento 194). Con esse Platone vuol caratterizzare indirettamente la precisa posizione di Socrate. Come era possibile che un Aristippo sentisse qualcosa di simile nel rifarsi alla sua origine dalla ricca città coloniale africana di Cirene ? Soltanto Platone fu abbastanza ateniese e politico da capire a fondo Socrate. Nel Gorgia egli delinea come la tragedia si preparò. Da questo dialogo noi ci rendiamo conto come mai, non già i retori e sofisti, stranieri senza coscienza, che tiravano su gli scolari per avventurieri volti a far dello stato il loro profitto, ma proprio il cittadino ateniese tutto pieno di ansia profonda per la patria, tutto compreso di responsabilità di fronte a lei, dovesse affrontare il destino di essere eliminato, come intollerabile, della sua propria città 1 95). La· sua critica della polis degenerata apparirà come ostilità allo stato, mentre tutti i suoi sforzi tendono a riedificarlo; i rappresentanti dello stato, miserabile come è attualmente, si sentiranno offesi, sebbene egli trovi parole di scusa per la loro impossibilità di agire, e veda nell'attuale sciagurata condizione della pntria soltanto la crisi di un morbo serpeggiante da differenza di atteggiamento di fronte allo stato, appare come un problema già chiaramente impostato: « È da preferire la vita attiva di cittadino legato alla polis, oppure la vita da straniero, svincolata da ogni comuDiU politica?». m) PL Apol. 29d. tes) PI. Gorg. SHh.
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tempo 1 96). Ma questo stesso suo ricercare la radice del male nei tempi che, nella visione storica dominante, apparivano quelli della splendida grandezza, questo suo giudicarli severamente, non fa che aggravare l'impressione che la gente riceve da lui, di una negazione totale e preconcetta 197). A noi non è più possibile distinguere qual sia precisamente la parte di Socrate e quella di Platone e come l'una, forse per gradazioni insensibili, trapassi nell'altra; né possiamo contentarci di impressioni soggettive. Ma qualunque sia stato il preciso contenuto del pensiero di Socrate, nessuno può discono11cere che la -concezione rinnovatrice dello stato, da cui nacquero le più grandi opere di Platone, prese forma dall'esperienza del tragico conflitto con lo stato, nel quale Socrate fu travolto dalla sua missione educatrice e rinnovatrice del mondo. Quello di cui si tratta in Platone, non è di sapere se Socrate avrebbe potuto agire altrimenti in questo o in quel punto, o se i giudici sarebbero potuti essere più intelligenti o più buoni. L'uno e gli altri furono quel che dovevano essere e il destino doveva trovar la sua via. Platone non altro fece che trarre da ciò una conseguenza: che lo stato doveva essere riformato a fondo perché ci potesse vivere l'uomo vero. Per parte sua, chi giudica con occhio di storico deve limitarsi a riconoscere . che lo stato aveva ormai perduto la forza di stringere e comprendere in sé la moralità e la religione, come era avvenuto nel tempo dell'antica totalità di vita. Platone mostra come sarebbe dovuto essere lo stato per potere ancora realizzare questo suo ongmario significato nel tempo in cui Socrate si fece banditore di un nuovo ideale di vita umana. Ma queGorg. 519a. 191) Gorg. 517 a H.
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sta non era la realtà dello stato, e mutarla non si poteva. Lo stato era troppo di questo mondo. Così la scoperta del mondo dell'anima e del suo valore, invece che al rinnovamento dello stato, conduce, nell'opera di Platone, all'instaurazione di un nuovo regno ideale, la patria eterna dell'uomo. È questo il significato eterno della tragedia di Socrate, come esso si rivela specialmente nello sforzo filosofico di Platone intorno al problema che essa includeva .. Socrate, per sé, rimane ancora molto lontano dalle conseguenze che Platone trasse dalla sua morte. E ancora più lontano egli fu dal valutare l'importanza che, nella storia dello spirito, doveva avere la vicenda di cui fu vittima. L'intelligenza storica, quand'anche in quel tempo essa fosse stata possibile, avrebbe distrutto il senso tragico del suo destino: ché quella vicenda, vissuta con la passione dell'esperienza assoluta, incondizionata, si sarebbe atteggiata nella relatività e nella necessità di uno svolgimento naturale. V edere il proprio tempo, e perfino la propria vita, nella luce della storia è un privilegio assai discutibile. Un conflitto come quello non poteva esser vissuto e sofferto se non con quella semplicità con cui Socrate seppe stare in campo per la sua verità e morire per essa. Perfino Platone non sarebbe stato più in condizione di tenergli dietro nella sua via. Egli sostiene sì, la politicità dell'uomo nella idealità filosofica, ma proprio per questo si ritrae dalla realtà politica, oppure cerca di realizzare il suo ideale in qualche altra parte del mondo in cui le condizioni siano più propizie. Socrate, invece, è tanto intimamente legato ad Atene che non se ne aJlontana in tutta la vita, neppure una volta, tranne che per andare soldato in guerra 1 98). Egli non us) PL Crit. 52b.
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fa, come Platone, l~glri viaggi; anzi, non passa neppur le mura del sobborgo, perché la campagna e gli alberi «non hanno nulla da insegnargli» 199). Parla, sì, di« cura dell'anima», e la inculca. a concittadini e stranieri, ma aggiunge: « prima di tutto io mi sono rivolto a quelli che mi sono più vicini di sangue» 200). Il suo « servire Dio» non è consacrato « all'umanità», ma alla sua polis. Perciò egli non scrive, ma solo parla con quelli che gli stanno innanzi in persona; perciò non impartisce lezioni di astratte proposizioni, ma cerca d'intendersi con i concittadini, su qualcosa di comune, presupposto necessario di un tale modo di conversazione, che ha radice nella comunità di origine e di patria, di passato e di storia, di legge e di ordinamenti civili. Questo elemento comune dà . concretezza di contenuto a quell'universale di cui è in cerca il suo pensiero. Di stampo ateniese· sono, in lui, lo scarso conto fatto di scienza e di dottrina, il gusto della dialettica, e della discussione sui problemi dei valori umani, ateniese il senso dello stato, della moralità, della religiosità e, infine, come pregio e sapore sottile di tutto, la grazia dell'intelligenza. Il pensiero di evadere dal carcere, le cui porte si sarebbero aperte al danaro dèi suoi amici, e di passare il confine alla volta della Beozia 201), non è, per quest'uomo, prospettiva allettante. Nel momento in cui questa tentazione lo assale, egli vede le leggi della sua patria, di cui i suoi giudici hanno fatto malo uso, apparire davanti a lui e ricordargli 202) tutto quel che da foro ha ricevuto dalla fanciullezzà, il vincolo matrimoniale dei suoi genitori, la sua nascita, l'educazione, tutti i beni dei quali ha avuto parte nel199) PI. Phaedr. 230d. 200) PL Apol. 30a. 201) Pl. Phaedo, 99a. 202) PL Crit. 50a.
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l'età più matura. Egli nl)n è emigrato prima da Atene, quando ne avrebbe avuto facoltà, se ·qualcosa nelle leggi della sua patria non gli fosse piaciuto; per settant'anni, invece, si è sentito a suo agio in essa. Con questo egli ·ha riconosciuto, accettato le leggi e non può, ora, ritirare ·l'assenso. Quando Platone scrive· queste parole egli, probabilissimamente non è più in Atene, ma, insieme con gli altri scolari di Socrate, si è rifu. giato a Megara 203), dopo la morte di lui, e là o durante i suoi viaggi, scrive le sue prime operette socratiche. Egli poteva in questo tempo aver qualche dubbio sulla sua possibilità di ritornare in Atene; e ciò contrappunta di una risonanza sua personale la descri:i!ione di Socrate che sostiene di compiere l'ultimo suo dovere di cittadino, quello di bere la tazza del veleno. Socrate è, dunque, uno degli ultimi « cittadini», nel senso che dette a questa parola l'antica Grecia della polis. Ma, in pari tempo, è l'incarnazione, nel grado più .alto, di una nuova forma di vita: l'individualismo etico-intellettuale. Questi due aspetti furono in: lui unificati senza compromessi. Col primo egli si richiama a un grande passato, col secondo è volto all'avvenire. Perciò la sua è apparizione unica, nel tempo e nella qualità, nella storia dell'anima greca 204). La sua idea educativa risulta dalle scambievoli attrazioni e reazioni di queste due componenti. Di qui viene a quell'idea l'intima profonda tensione, la realtà del suo punto di partenza, l'idealità del suo fine. Il 203) Diog. L. III 6. 20') Cfr. supra, p. 40 ss. Socrate è profondamente radicato nella vita ateniese e nella comunità dei suoi concittadini; a loro, prima che a ogni altro, egli rivolge il suo messaggio (cfr. supra, p. 59). Eppure egli deve pregare i giudici (Apol. 17d) di permettergli di parlare nella propria lingua e non nella loro. Si paragona dun· que appunto a uno straniero, al quale non si potrebbe negare, quando si dovesse difendere dinanzi a un tribunale ateniese, di servirsi della propria linii;ua.
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problema che doveva cercar soluzione attraverso i secoli successivi, il problema di« stato e chiesa», emerge qui, per la prima volta, nella nostra civiltà. Giacché esso non è affatto, come mostra il caso di Socrate, un problema specialmente cristiano, e neppure è legato a forme organizzative ecclesiastiche o a fedi rivelate, ma torna a presentarsi, in analoghe condizioni, anche nello svolgimento « dell'uomo naturale» e della sua civiltà spirituale. In questo caso esso non ha l'aspetto di conflitto di due società conscie di una propria forza, ma di una tensione fra lappartenenza del .singolo uomo alla società terrena e il legame immediato che egli sente con Dio. Questo Dio, al cui servigio Socrate dirizzò la sua opera di educatore, era diverso dagli « dei» ai quali credeva la città, e se l'accusa contro Socrate 205) puntò prima di tutto su questo elemento, bisogna ammettere che la mira era scelta bene. C'era, è vero, un errore in essa: quello di vedere un'opposizione alla religiosità comune nel famoso « daimonion » che soleva trattenere Socrate, con intima voce, da questa o quella azione 206 ). Il e< daimonion » può, tutt'al più, significare che Socrate accanto alla creativa tendenza al sapere, a cui diresse, ben più che altri, i suoi sforzi, possedé anche in altissimo grado quelle energie irrazionali, istintive, che fanno difetto al cieco razionalismo. Ché questo, e non la voce della coscienza, fu il significato del démone socratico, come si vede considerando in quali casi Socrate si richiami ad esso. Ma, insomma, una volta che la scienza del Bene, della natura e della potenza di esso, si fu impadronita con forza soverchiante dell'anima sua, essa divenne per lui una via nuova alla scoperta del Divino. Non im2os) Cfr. PL Apol. 24b, Xen. Mem. I 1. 20 6 )
Xen. Mem. I 1. 2.
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porta che, per la sua tempra intellettuale, egli sia stato fuori di ogni possibilità di professione dogmatica: chi vive come lui e muore come lui ha in Dio il suo fondamento. La sua parola, che a Dio si deve .dare ascolto più che agli uomini 207), è veramente una nuova religione, come lo è la sua fede nel valore supremo dell'anima 208). La religione greca prima di Socrate, sebbene non sia stata senza profeti, non conobbe un tale lddio, che ordina all'uomo singolo di resistere a ogni pressione o minaccia di un mondo intero. Nasce in Socrate, dalla fiducia in questo Dio, una forma nuova di quello spirito eroico che impronta di sé, fin dal principio, l'ide~ greca di areté. E perciò Platone può, nell'Apologia, rappresentare il maestro come l'incarnazione della magnanimità e fortezza supreme, e, nel Fedone, celebrare la morte di lui come atto eroico di superamento della vita. Così la greca areté, anche giunta a spiritualizzarsi nel grado sommo, rimane fedele alla sua origine e dal combattimento socratico, come dai fatti degli eroi d'Omero, si sprigiona la forza educatrice di un nuovo esemplare umano, di cui il banditore, il poeta, sarà Platone 209). 207) PL. Àpol. 29d, cfr. 29a, 37 e. •OS) Cfr. supra, p. 62. 209) Il Socrate platonico paragona se stesso, nell'intrepidezza di fronte alla morte, con Achille, Àpol. 28b-d. 'Similmente Ari· stotele pone la morte del suo amico Ermia, a causa dell'ideale filosofico di lui, sullo stesso piano della morte di un eroe omerico, nell'Inno per Ermia, fr. 675. Cfr. il mio Àristoteles, p. 118 ss. (trad. Calogero, p. 152 ss.), e, per la megalopsychia degli eroi omerici, « Paideia » I, p. 43 ss. Socrate è nominato come il « magnanimo» per eccellenza, accanto ad Achille, Aiace e Lisandro , da Arist. Analyt. Post. II 13, 97 b 16-25.
CAPITOLO TERZO
PLATONE NELLA STORIA Dopo più di due mila anni da che Platone si pose al centro della vita intellettuale Greca, e gli occhi di tutti si volsero alla sua Accademia, il carattere di ogni filosofia appare ancora oggi :fissato dalla sua posizione rispetto a Platone. Tutti i secoli seguenti dell'evo antico, furono in qualche modo segnati dall'impronta di lui, per quanto alterata, e talora fortemente, nei singoli tratti, :finché negli ultimi secoli dell'antichità il mondo si. trovò :finalmente unificato nella religione filosofica del neoplatonismo. La civiltà classica, che accolse la religione cristiana, fondendola in sé per trapassare unita con essa al Medio Evo, è civiltà tutta pervasa di pensiero platonico. Solo partendo di qm è possibile capire una figura come quella di Agostino, che nella « Città di Dio » trasformò cristianamente la Repubblica di Platone e creò in essa quella filosofia della storia in cui doveva inquadrarsi la concezione medioevale del mondo. Ancora nel solco platonico, forma nuova e diversa del platonismo, fu la filosofia di Aristotele, accogliendo la quale la civiltà dei popoli medioevali, sì d'Oriente che d'Occidente, poté, nel suo apogeo, far propria la concezione dell'universo che era stata della filosofia antica. Ma il vero Platone doveva rinascere con la rinascita dell'antichità classica nell'umanesimo,
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e dovevano essere riscoperti gli stessi suoi scritti, che, si può dire, il Medio Evo non aveva conosciuto. Però, come le vene platoniche della scolastica medievale avevano avuto origine dal neoplatonismo cristiano di Agostino e dai libri del teologo mistico che si cela sotto il nome di Dionigi lAreopagita, cosi, anche quando il Rinascimento ebbe riscoperto Platone, l'interpretazione di lui rimase in principio legata alla tradizione cristiano-neoplatonica viva ancora nelle scuole, che, al tempo della caduta di Costantinopoli, trapassò in Italia, insieme ai dotti profughi e ai codici. L'immagine di Platone che il teologo e mistico bizantino Gemisto Pletone comunicò agli italiani del quattrocento, quella che Marsilio Ficino ritraeva nel!'Accademia di Lorenzo de' Medici, era quale l'aveva vista Plotino, e tale rimase essenzialmente anche nei secoli seguenti fino alla fine del secolo decimottavo. Platone fu, prevalentemente, per chi cosi lo vide, il profeta religioso, il ·mistico: perciò, col cedere di tali aspetti della vita sprntuale di fronte allo spirito razionalistico, scientifico, matematico della cultura moderna, anche l'influenza di Platone sulle correnti teologiche ed estetiche venne di pari passo a ridursi. Il rivolgimento di questa concezione, per cui si venne alla scoperta del vero Platone, .si produsse solo alla fine del secolo decimottavo, con lo Schleiermacher, teologo, si, anche lui, ma in vivo contatto con lo spirito, di fresco svegliatosi, della nuova poesia e :filosofia tedesca. È vero che ancora si cerca in Platone prima di tutto il metafisico delle idee; è vero che ci si volge di nuovo alla sua :filosofia come all'immortale ,pi.odello primigenio di quella concezione speculativa universale sempre più declinante, di cui la kantiana critica della conoscenza aveva scosso il diritto a vivere come scienza; e, anche nel periodo, che ora succede, dei grandi si-
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stemi idealistici della filosofia tedesca, Platone rimane la polla viva della nuova energia metafisica che animò i costruttori di quei grandi edifici d'idee. Ma, nel!'atmosfera favorevole che cosi venne a crearsi, di una nuova rinascita dello spirito greco, nella quale Platone appariva non come un filosofo, ma come il filosofo, cominciò uno studio ardente ed assiduo degli scritti platonici, condotto coi mezzi che la moderna scienza dell'antichità, allora in formazione, assicurava. Così, per questo lavoro d'indagine, si giunse a rimettere nel suo tempo questa figura ormai assunta a grandezza extratemporale e a darle i precisi contorni di una determinata personalità storica. Il compito che così si pose alla ricerca interpretativa si rivelò uno dei più difficili che un antico scrittore possa presentare. Fino a quel momento si era tentato, alla maniera del secolo XVIII, di ricostruire la filosofia di Platone, semplicemente adoprandosi ad estrarre - ed astrarre - dai singoli dialoghi quel tacito contenuto dogmatico, che ciascuno di essi, più o meno, racchiudeva. Dalla serie di proposizioni, così messa insieme, si era cercato di ricomporre, sul modello delle più tarde filosofie, una metafisìca, una fisica, un'etica di Platone, ordinate in un edificio sistematico, l'unica forma nella quale si riuscisse a concepire un pensatore. Rimane merito dello Schleiermacher l'aver ravvisato, col vivo senso di un romantico per la forma come espressione della individualità spirituale, l'elemento specifico del filosofare platonico nel fatto che esso appunto non tende al sistema chiuso, ma si presenta come ricerca filosofica in atto, come dialogo. Ciò facendo, lo Schleiermacher non si lasciò sfuggire la differenza esistente tra i vari dialoghi rispetto alla misura e al grado di contenuto costruttivo; anzi divise secondo questo criterio i dialoghi, considerandone alcuni come più
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filosofici in senso sistematico, altri come di carattere meramente introduttivo e formale. Ma, insomma, sebbene egli accettasse l'esistenza di intime scambievoli relazioni tra i dialoghi, e il loro riferirsi tutti a una totalità ideale che più o meno in ciascuno si svela, la caratteristica di Platone rimase per lui questa: l'importanza data ad esporre la :filosofia nel vivo moto della dialettica, più che nella forma di un edificio dogmatico concluso. In pari tempo lo Schleiermacher rintracciò nelle singole opere le allusioni polemiche a contemporanei ed avversari e mostrò come il pensiero platonico si fosse intrecciato in varia guisa nel tessuto della vita :filosofica del suo tempo. Cosi, per le copiose esigenze che un tale lavoro di commento platonico imponeva ai ricercatori, venne a formarsi, dell'interpretazione, un concetto più elevato di quello che la :filologia meramente grammaticale e antiquaria aveva conosciuto fino allora, tanto che, si può dire, come nell'antichità la :filologia alessandrina si era formata i metodi nella ricerca omerica, cosi la scienza storica del secolo XIX, raggiunse il più alto grado di affinamento nel cimentarsi ad intendere il problema di Platone. Non è questo il luogo di rifare nei particolari la storia del problema, così controverso :flno ai nostri giorni. Questa storia non è rimasta tutta e sempre all'altezza del primo, grandioso tentativo fatto dallo Schleiermacher, di abbracciare la mirabile mole di quel1' opera filosofica e letteraria applicando in egual mi.sura la cura filologica del particolare e l'intuito di un pensatore e di un artista per l'organicità del tutto. La spiegazione minuta del testo e l'indagine sull'autenticità delle singole opere tramandate col nome di Platone apersero la via a una serie innumerevole di ricerche speciali, fino al punto che l'intero problema platonico parve sempre più frammentarsi e disperdersi;
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ciò particolarmente avvenne, da quando per l'impulso di C. F. Hermann ci si abituò a considerare le opere di Platone come l'espressione di uno sviluppo graduale della sua filosofia. Giacché, di qui in poi, si pose in primo piano, e divenne d'importanza decisiva, un problema fino allora poco considerato, il problema della data di composizione dei singoli dialoghi. Nella quasi completa mancanza di mezzi per una datazione obbiettiva degli scritti platonici, si era fino allora cercato di fissarne la cronologia, sul fondamento del contenuto, principalmente cercando di dimostrare l'esistenza di una specie di piano didattico che giustificasse la successione. Questo criterio di trattazione, in sé naturale e ovvio, che era stato principalmente rappresentato dallo Schleiermacher, sembrò fortemente scosso dalla suppo· sizione che i dialoghi potessero essere quasi il rlllesso, immediato e originario, di uno sviluppo involontario del pensiero platonico, del quale si potessero riconoscere, in ciascuno di essi, le singole tappe. Ma le conclusioni contradittorie alle quali era giunta l'analisi del contenuto, rispetto alla successione dei dialoghi, con· dussero al tentativo di :fissare una cronologia coi soli mezzi di una osservazione . esat~a dello stile, nel suo variare da dialogo a dialogo, e della precisa determinazione di certe particolarità linguistiche formanti la caratteristica distintiva di alcuni gruppi di dialoghi. Qualche successo iniziale non ha salvato questo indirizzo di ricerca da un certo discredito, dovuto alle sue esagerazioni, giacché, alla fine, si era giunti a im· maginarsi di poter fissare la. data di ogni opera con un processo assolutamente meccanico di statistica lingui· stica. Sarebbe però ingiusto dimenticare che la svolta più decisiva che si sia data nell'interpretazione plato· nica, dallo Schleiermacher in poi, si deve a una scoperta puramente filologica. Uno studioso scozzese, Lewis
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Camphell, osservò felicemente che un certo numerò di dialoghi maggiori è collegato da caratteristiche stìlistiche, che si ritrovano identiche nell'opera della vecchiaia platonica, nelle Leggi, lasciate incompiute dal filosofo. Il Camphell trasse da ciò la giusta conseguenza che quelle caratteristiche contraddistinguono lo stile di Platone vec~hio. In conclusione, anche se, con questo metodo, non è possibile determinare le relazioni cronologiche di tutti i dialoghi tra loro, si possono però chiaramente segnare tre gruppi principali, ai quali almeno i dialoghi più importanti possono, con grande verisimiglianza, essere assegnati. Un tale resultàto della ricerca filologica doveva definitivamente scuotere la concezione, ormai classica, dello Schleiermacher; giacché parecchi dei dialoghi da lui tenuti per antichi e di carattere introduttivo, in quanto concernenti problemi di metodo, si posero come mature opere della vecchiaia. Ciò diede la spinta a un completo rivolgimento dell'interpretazione complessiva della filosofia platonica, che, per circa mezzo secolo, era rimasta essenzialmente invariata. Il punto focale della discussione fu preso ormai, da quei dialoghi « dialettici» come il Parmenide, il Sofista, il Politico, nei quali il vecchio Platone sembra aottoporre a nuova discussione e interpretazione la sua stessa teoria delle Idee. Anche la filosofia del sec. XIX, al tempo appunto di questa scoperta, dopo il crollo dei grandi sistemi metafisici dell'idealismo tedesco, si accingeva già, . a ritornare, in atteggiamento autocritico, al prohlem~ della conoscenza e ai suoi metodi, e ad orientarsi di nuovo, almeno in parte, alla critica kantiana. Non meraviglia, quindi, che questo neo• kantismo rimanesse sorpreso e affascinato quando, inaspettatamente, il suo proprio modo di por~e i problemi,
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veniva come a rispecchiarsi nella fase tarda dello svolgimento platonico, ormai rivelata d'alla nuova cronologia dei dialoghi. Cosi, mentre alcuni videro nelle opere di Platone vecchio una rinunzia alla sua precedente metafisica (Jackson, Lutoslawski), altri pensa• rono che fin da principio le Idee fossero state non altro che metodi in senso neokantiano (e fu questa l'opinione della scuola di Marburg). Ma in ogni caso, secondo queste nuove vedute, il significato di Platone fu, dalla filosofia moderna, riposto tutto nell'atteggiamento metodico: concezione, questa, altrettanto unilaterale, quanto quella dei filosofi del precedente cinquantennio orientati alla metafisica, che, polemizzando contro la critica kantiana, avevano cercato appoggio nella metafisica platonica e aristotelica, e su tali elementi metafisici avevano, interpretando, posto l'accento. Un punto, però, rimaneva comune, nonostante il contrasto, alla nuova interpretazione di Platone, scorgente il nucleo del pensiero di lui nel problema metodico, e alla più vecchia interpretazione metafisica: ambedue ravvisavano nella teoria delle Idee l'elemento propriamente sostanziale della :filosofi.a platonica. In fondo, già Aristotele aveva fatto così, in quanto aveva concentrato su questo punto tutta la sua critica alla dottrina del maestro. Ora, è vero, la nuova interpretazione platonica culminava nello sforzo di dimostrare che le critiche aristoteliche alle Idee platoniche non avevano valore,· come fraintendimenti che erano; ma · con ciò stesso, in questo far centro di tutta l'interpretazione su questo punto, la nuova scuola dava segno di dipendere da Aristotele, per quanto da lui differisse nelle conclusioni. Senza dubbio, già dm-ante la vita di Platone, negli ultimi suoi anni di magistero nell' Accademia, la discussione critica si era più volte accen· trata sul problema ontologico-metodico, come mostrano
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i dialoghi dialettici: proprio da queste discussioni sorse· la critica aristotelica alle Idee. Ma tutto ciò rimane una parte e un episodio, e non si può pensare ad identificarlo col complesso della filosofia platonica, come basta a chiarire uno sguardo ai dialoghi che vanno dal Critone alla Repubblica. Perfino nella vecchiaia di Platone, accanto ai documenti di questa discussione, stanno le Leggi, più di un quinto, cioè, di quel· che scrisse Platone, e ·in quest'opera la teoria delle ·Idee non ha parte affatto. Con tutto ciò, ben si comprende come, per la filosofia del sec. XIX, la dottrina platonica delle Idee ritornasse nuovamente in primo piano, e che questo interesse accentrato su un sol punto, traesse sempre maggior forza da quella limitazione al problema logico che sempre più la filosofia stessa s'imponeva. Sempre così si era comportata la filosofia delle scuole di fronte a Platone, nell'intento di spremere dai dialoghi tutto il contenuto dottrinale in essi racchiuso, scegliendo prima di tutto, s'intende, quello che, in ciascuna epoca, passava per filosofia e, perciò, per essenziale. Ma un altro passo importante doveva essere fatto nella ricerca e fu, anche questa volta, una scoperta filologica che aiutò il progresso e che, pur senza alcuna pretesa di natura filosofica, condusse ad ampliare il troppo limitato orizzonte della concezione dominante. Il campo non fu più, questa volta, il problema cronologico, ma la questione della autenticità. Sebbene si fosse sempre saputo, fin dall'antichità, che la nostra raccolta di scritti platonici comprendeva anche opere non autentiche, pure, solo nel sec. XIX, la critica aveva raggiunto vera importanza e profondità su questo te~reno. Essa era, anzi, com'è naturale, andata troppo oltre nel suo scetticismo, finché aveva trovato
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il suo punto d'arresto. Le questioni che essa aveva lasciato non chiarite e non risolute parvero non essere, fortunatamente, rilevanti per l'interpretazione complessiva della filosofia platonica, come tale, giacché le opere maggiori erano insospettabili per chiunque fosse fornito di giudizio e la contestazione, in massima, verteva su opere di dubbio valore. Ma c'erano, inoltre, e ritenute non autentiche, le lettere di Platone. Nella raccolta epistolare tramandataci dagli antichi sotto il suo nome figuravano alcune falsificazioni evidenti. Questa constatazione aveva avuto come conseguenza la condanna di tutta la raccolta. Quanto poi al fatto che alcune lettere contenevano, per riconoscimento di tutti, un pregevole materiale storico sulla vita di Platone e sui suoi viaggi alla corte del tiranno Dionisio di Siracusa, ci si era contentati, per spiegarlo, di un'ipotesi: che, cioè, il falsario si fosse procurato, per il suo lavoro, un'ottima documentazione. Però, dopo che storici come Edoardo Meyer erano già scesi in campo per l'autenticità di queste lettere in considerazione del loro alto valore di fonte storica, anche la filologia tenne dietro ed il Wilamowitz riconobbe autentiche nella sua grande biografia platonica, la sesta, la settima, e l'ottava lettera, cioè i pezzi più importanti della raccolta. In seguito, il lavoro è stato quello di trarre le conseguenze, relativamente alla figura di Platone nel suo complesso, di questo riconoscimento; e le conseguenze ne sono state d'importanza ancora maggiore di quanto non fosse sembrato al momento stesso della scoperta. Il Wilamowitz, per parte sua, non si era proposto di dare, col suo lavoro, un'esposizione della filosofia di Platone, ma solo di narrarne la vita. Egli, perciò. valutò le notizie che Platone dà nella settima lettcr=< sui viaggi da lui fatti in Sicilia per convertire il tiranno
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. e sulla propria evoluzione politica. principalmente da questo punto di vista, cioè come una fonte autobiografica di primissimo ordine. L'avvincent~ rappresentazione che Platone fa dei suoi ripetuti tentativi di immergersi attivamente nella politica, non solo forniva al narratore della sua vita I' opportunità di scene mosse e colorite, atte ad interrompere drammaticamente il racconto di una esistenza di maestro nel ritiro dell'Accademia, ma svelava, in pari tempo, in quella vita un complesso fondo psicologico. In essa, l'atteggia, mento contemplativo del pensatore, si rivelava ora il risultato di un conflitto prodottosi in una schietta natura di dominatore sotto la tragica pressione dei tempi avversi. Certo, anche da questo punto di vista, i ripetuti tentativi di Platone di farsi uomo politico, si atteggiavano come sfortunati episodi di una vita dedicata alla conoscenza pura, episodi nei quali Platone aveva cercato di attuare alcune fondamentali idee etiche della sua filosofi.a. Eppure questo dover riconoscere che quell'uomo che, nella lettera VII, parla del suo svolgimento. spirituale e dello scopo della sua vita· e, da questo punto di vista, prende a rivedere e giudicare il suo proprio pensiero teoretico, è il Platone della realtà storica, questo è cosa d'importanza decisiva anche per la comprensione di tutta la sua opera filosofica. Vita e opera non si possono separare in questo pensatore, e per lui" vale, se mai per altri è valso, il concetto che tutta la sua filosofia è espressione della sua vita e che la sua vita, è la sua filosofia. Non a caso le sue opere capitali sono la Repubblica e le Leggi; la politica per lui non fu solo l'occupazione di certi periodi della sua vita nei quali egli si si..~ sentito in4otto a scendere all'azione, ma il solido fondamento di tutta la sua esistenza spirituale, l'oggetto di tutto il suo pensiero, includente in sé ogni altr:i
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cosa. In lunghi anni di lavoro ininterrotto volto ad afferrare la realtà essenziale di Platone, io ero già arrivato a formarmi l'idea che ho esposto della sua filosofia, senza prendere in vera considerazione le Lettere, giacché anch'io condividevo, fin dalla giovinezza, il preconcetto dominante fra i filologi contro la loro autenticità. Quel che mi indusse a cambiar parere e a credere alla genuinità delle notizie autobiografiche della lettera settima non fu la brillante personalità di ricercatore del Wilamowitz e neppure la forza dei suoi argomenti, da cui molti erano stati convinti e trascinati, ma prima di tutto il fatto, che il modo platonico di concepir la propria opera, nella lettera da me trascurata, sembrava presupporre, per ogni rispetto, quella interpretazione della filosofia di lui, alla quale io ero giunto, indipendentemente dalle Lettere, per la laboriosa via dell'analisi di tutti i dialoghi.
È evidentemente impossibile ripercorrere qui quella via con la stessa minuzia di analisi. Pure, appare indispensabile mettere in chiara luce la struttura filosofica della dottrina di Platone sulla paideia e sulla areté umana, come essa si rivela a chi segua, di gradino in gradino, la . serie dei suoi dialoghi. È necessario, cioè, mettere il lettore in grado di intendere da sé la posizione dominante che Platone assegna a questo problema nel mondo del suo pensiero, e dove esso affondi le sue radici, che forma esso prenda sul terreno della sua filosofia. E questo non è possibile se non a chi segua dal!'origine lo svolgersi del pensiero platonico, fino ai punti culminanti rappresentati dalle due opere capitali, la Repubblica e le Leggi. I dialoghi minori potranno essere trattati in gruppo, mentre gli scritti più estesi, il Protagora, il Gorgia, il Menane, il Simposio e il Fe· dro, richiederanno una valutazione a sé stante, anche
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per la loro speciale importanza rispetto· al nostro problema. Ma, naturalmente, la Repubblica e le Leggi dovranno costituire il nucleo essenziale di una tale trattazione. Nostra cura costante dovrà essere di inserire la figura di Platone, quale essa risulta da que· ste opere, nel complesso della storia spirituale greca. A noi, per il tema che ci siamo proposti, la sua filosofia deve apparire come uno dei vertici raggiunti da una civiltà spirituale (paideia) nel suo divenire storico, e perciò essa dovrà in misura maggiore di quanto di solito non si faccia, esser vista non puramente come un isolato sistema concettuale, ma nella funzione organica che ebbe all'interno dell'intero svolgimento del pensiero greco, e nel formarsi della tradizione greca. I particolari tecnici della sua struttura dovranno quindi cedere talvolta il passo, alla delineazione, nei tratti essenziali e formativi, dei problemi che la storia stessa impose al pensiero di Platone e sui quali, aderendo, presero forma le sue opere. Se, con ciò, avverrà di porre l'accento sullo scopo «politico» e sulla sostanza « politica» della filosofia platonica, è chiaro che il concetto di« politica» sarà, in questo caso, definito da tutta la st~ria della paideia e, in particolare, da quello che già si è detto su Socrate e sul significato «politico» dell'opera di lui. La storia della paideia, come descrizione genetica del rapporto di uomo e polis, è terreno germinale, inesauribile, di elementi filosofici necessari per la compreruiione di Platone. Per lui ogni sforzo· di conoscere il vero si giustifica alla fine non già, come per i grandi presocratici, col desiderio di sciogliere l'enigma del mondo, in sé e per sé, ma con la necessità di conoscere per conser· vare la vita e per dare ad essa una forma. Egli vuole realizzare la vera comunità umana, cioè l'ambiente necessario a che la più alta virtù umana si
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realizzi. La sua opera, quindi, è opera di riformatore animata dallo spirito eduèatore della Socratica, volto non solo a contemplare la realtà, ma a un'opera creativa, di bene. Le due grandi opere, in cui culmina la sua attività di scrittore, la Repubblica e le Leggi, sono due grandi sistemi educativi, e in generale il suo pensiero si muove costantemente intorno al problema dei presupposti :filosofici di ogni forma di educazione, nella consapevolezza di essere, ess stesso, il più alto fattore di formazione di uomini. Così Platone accede all'eredità di Socrate e prende il primo posto riel dibattito inaugurato dal maestro con le grandi forze educative proprie del suo tempo e della tradizione del suo popolo: con· la sofistica e la retorica, con lo stato e la legislazione, la matematica e l'astronomia, la ginnastica e la medicina, la poesia e la musica. Socrate aveva ravvisato lo scopo nella scienza del bene, e posta la norma. Platone tenta di trovar la via che porti a questa meta, ponendo il problema dell'essenza del sapere. Egli, passato attraverso il fuoco purificatore dell'« ignoranza» socratica, si sente ora capace di penetrare, al di là di essa, a' quella conoscenza del valore assoluto che Socrate aveva cercato, e di restituire, per essa, la perduta unità di scienza e vita. Dal q:>~Àoaoq:idv socratico sboccia la «filosofia» di Platone. La posizione di questa nella storia dei sistemi :filosofici greci, è caratterizzata da questo suo essere una paideia e dal tentativo imponente di risolvere il problema dell'educazione umana. D'altro canto, la sua posizione nella storia della paideia greca è definita dal fatto che essa ravvisa la forma più elevata di educazione nella filosofia e nella conoscenza. Essa pone il problema tradizionale, di come sia da formare un tipo migliore di uomo, sul fondamento di una nuova gerarchia di realtà e di valori. E questo nuovo ordine prende,
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in Platone, il posto di quel terreno su cui si era in antico impiantata ogni educazione umana della religione: o, piuttosto, è .esso stesso una nuova religione. In ciò esso si differenzia da un sistema naturalistico come quello di Democrito, che appare nella storia del pensiero come l'antitesi perfetta délla. filosofia platonica, ed è giustamente messo a fronte ad essa nella storia della filosofia, come una delle più originali creazioni dello spirito greco. Infatti, la greca filosofia della natura, di cui i pionieri sono stati già da noi passati in .rivista nella parte che, come creatori del pensiero razionale, ebbero nella storia della paideia, diventa, questa :filosofia, con Democrito e Anassagora, sempre più affare di dotti· e ricercatori. Soltanto con Socrate e Platone si afferma un tipo di filosofia che interviene energicamente nel dibattito, aperto dai Sofisti, per la vera educazione, decisa e sicura di poterlo risolvere. Sebbene il tipo scientifico-naturalistico torni a farsi valere più fortemente nella filosofia postplatonica, e già fin da Aristotele, pure Platone comunicò a tutti i sistemi della tarda antichità qualcosa del suo affiato di educatore e valse perciò a fare della filosofia la più grande energia educativa .del declinante mondo antico. Il fondatore dell'Accademia è a buon diritto riconosciuto un classico, dovunque filosofia e scienza sono ritenute forze formatrici di esseri umani e come tali insegnate.
CAPITOLO QUARTO
I BREVI DIALOGHI SOCRATICI IL PROBLEMA DELL'« ARETÉ » Nella lunga serie delle opere platoniche, si rilevano come un gruppo a sé, distinti da comuni caratteristiche, quelli che si sogliono chiamare i « dialoghi socratici »: in senso stretto, giacchè anche in altre opere Socrate ap- · pare figura centrale. Questo gruppo, infatti, rappresenta, si può dire, la forma originaria del dialogo socratico nel suo aspetto più semplice, ancora del tutto aderente alla realtà. Sono tutti di breve estensione, non più lunghi di quan~o potrebbe essere nella realtà una conversazione occasionale. Nel punto di partenza e nello scopo, nell'uso del procedimento induttivo. e nella scelta degli esempi, in tutto insomma il loro svolgimento, essi mostrano una somiglianza di tratti tipici, che si spiega, evidentemente, col modello reale a cui cercano di aderire. Linguisticamente, scorrono leggeri nel facile tono della conversazione, e l'attico schietto in cui sono scritti, non ha il compagno in tutta la letteratura greca per naturale grazia e scioltezza, come per verità di colorito. Anche se non ci fossero, di contro a essi, opere di maggiore ricchezza linguistica e di complicata struttura, come il Simposio, il Fedone o il Fedro, noi sentiremmo in questo gruppo del tipo del Lachete, dell' Eutifrone, del; Carmide, per nitore e freschezza,
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l'opera di Platone giovane. Era nella natura delle cose, che l'arte del dialogo, nelle mani del filosofopoeta che se l'era foggiata per intima esigenza dell'opera sua, si sviluppasse nel corso degli anni e finisse con l'accogliere intricati ragionamenti e dimostrazioni, agoni oratori e cambi di scene. Senza dubbio il desiderio di rappresentare il maestro in atto di dar prova della sua famosa arte dialettica, fu per Platone motivo essenziale per mettersi a comporre questi quadri 1). Il suo ingegno di drammaturgo nato dové sentire l'attrattiva di riprodurre tutte le vicende e peripezie logiche che lo svolgersi della disputa importava. L'Eutifrone accenna già al processo di Socrate, e poiché I' Apologia e il Critone che sono strettamente legati con la fine della sua vita, si inseriscono naturalmente, per comuni caratteristiche, nello stesso loro gruppo, è del tutto verosimile che tutti questi dialoghi non siano stati composti se non dopo la morte del maestro. Non tutti, è vero, parlano di questo avvenimento, ma ciò non è argomento contro chi pensa che questi squisiti saggi di ritrattistica ·non siano soltanto la lieve creazione di un gioco mimetico, ma che la .morte di Socrate, con tutto il suo dolore, si rifletta in essi, in un tentativo di eternare l'immagine vera di lui. In tempi recenti si è sostenuta l'opinione che l'attività letteraria di Platone non aVI"ebbe avuto, in principio, alcun fine filosofico di una qualche profondità, ma sarebbe improntata a un carattere puramente poetico, cioè, in questo caso, a un carattere di gioco 2). '
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1) Sull'importanza della forma in Platone cfr. J. STENZEL, Literarische Fonn und philosophischer Gehalt des platonischen Dialogs, ristampato in Studien ZUT Entwicklung der platonischen DialeTaik, Breslau 1917, Anhang, p. 123 ss. 2 ) Questo modo di vedere è stato sostenuto specialmente dal WILAMOWITZ, Platon, I, p. 123 ss.
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Ed è anzi questa la ragione per cui si tende ad assegnare questi « tentativi drammatici» a un tempo precedente alla morte di Socrate 3). Con ciò questi dialoghi verrebbero ad apparire meramente coine prodotti di ozio giovanile e come schizzi impressionistici in cui Platone avrebbe cercato di cogliere il vivo moto dell'intelligenza di Socrate, la grazia e l'ironia del suo dialogare. Si è tentato cosi di contrapporre al gruppo degli scritti più antichi chiaramente attinenti alla morte o al processo di Socrate, cioè all'Apologia e al Critone, all' Eutifrone e al Gorgia, un altro gruppo privo di ogni allusione a quei fatti, e si è creduto di trovare nella serena letizia del tono un criterio di dimostrazione per l'anteriorità di queste opere alla morte di Socrate 4). Si è stati poi cosi larghi nell'ammettere dialoghi in questo gruppo di opere, prive, a quel che si pretende, di contenuto filosofico, da includervi anche un dialogo come il Protagora, cosi ricco di pensiero e di problemi 5 ). Le opere di questo periodo sarebbero, dunque, sl, documenti importanti dello svolgimento di Platone, non però del suo sviluppo di pensatore, ma solo dello sboccio delle sue facoltà di scrittore, ben prima che si formasse la sua filosofia. In questo perio~o come di transizione noi, certo, vedremmo già Platone avvinto dal dramma filosofico del discorso socratico, e allettato a renderlo S) Il WILAMOWITZ, op. cit. I, p. 150, assegna r Ione, l' lppia minore e il Protagora agli anni 403-400, « il tempo nel quale Platone si vien formando nel contatto con Socrate, senza avere ancora un'idea precisa dell'indirizzo da dare alla vita». ') Il WILAMOWITZ cerca di cogliere l'unità di questo gruppo di opere vive e gaie, da lui ritenute le più giovanili, intitolando «Rigoglio di giovinezza» (op. cit. I, p. 122) la trattazione ad esse dedicata. 6) H. v. ARNnr in Platos Jugenddialoge und die Entstehungsseit des Phaidros, Lipsia 1914, p. 34, andò ancora più oltre di quanto doveva fare più tardi il Wilamowitz nel suo libro, e fece del Protagora la più antica delle opere platoniche, però con una mo.tivazione diversa da quella del Wilamowitz (cfr. infra, p. 178 n. 2).
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artisticamente, ma, sempre, tuttavia, allettato più dal dramma in sé, che dalla serietà del suo significato. In realtà, a non contare che questa interpretazione puramente estetica dei primi dialoghi platonici tra· sferisce troppo facilmente le idee del moderno impressionismo sulla natura dell'artista, nell'età classica dei Greci, essa va troppo oltre nello sforzo di rivendicare in Platone il poeta, di fronte al pensatore. Legittimo sforzo, ché, senza dubbio, il lettore filosofo di Platone, in ogni tempo, è stato tentato di trascurare la forma a vantaggio del contenuto, sebbene l'importanza altissima della forma in Platone sia a tutta prima evidente. Solo un grande poeta poteva assegnarle l'altissimo rango, che -Platone le dà, di rivelatrice immediata delle cose, nella loro essenza. Ma è pur vero che l'occhio del critico non coglie, nell'intera opera platonica, alcun punto in cui forma poetica e contenuto filosofico non siano perfettamente compenetrati. Fin da suoi esordii noi lo vediamo avvinto, con tutte le sue forze di artista, ad un soggetto solo, a cui rimarrà fedele fino alla vecchiaia 8). Non è facilmente pensabile, che questo soggetto, Socrate e la sua opera di tra· sformatore di anime, fosse ancora privo, al tempo dei primi tentativi di rappresentarlo, del significato profondo che Platone gli dà nelle opere posteriori. Anzi: noi ci aspetteremmo di trovar fin da queste prime opere
') Da vècehio, Platone, fa ancora una volta di Socrate il protagonista di un dialogo, il Filebo, ment:e nelle altre opere della vecchiaia, i cosiddetti dialoghi dialettici. Parmenide, Sofista e PolitU:o, e nel dialogo di filosofia della natnra, il Timeo, Socrate non ha che una parte secondaria, per finire alle Leggi, dove è senz'altro sostituito dall'ospite ateniese. Platone poté nel Filebo concedersi un'eccezione poich6 il tema etico del dialogo era d'indole socratica, anche se il metodo di trattazione doveva allontanarsi parecchio dal modo della dialettica di Socrate. La medesima osservazione può applicarsi al Fedro, sulla cui datazione cfr. « Pai· deia » Ili 315 ss.
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il senso di·quel4 scoperta di Socrate e del suo travaglio di ricerca che certo si produsse in Platone e che poi si dispiega in mille forme nelle opere posteriori. Già prima che Platone si legasse con Socrate, cioè in età molto giovanile, egli aveva gustato l'insegnamento di Cratilo, l'eracliteo, e nel passare dalla dottrina del flusso eterno alla ricerca etica di Socrate, si era trovato preso, se crediamo alla testimonianza attendibile di Aristotele, in un dilemma :filosofico. Da questo dilemma non trovò via di uscita, se non quando ebbe concepito la fondamentale distinzione tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile, vale a dire la teoria delle Idee 7). È impossibile che quando un tale conflitto era ancora irrisolto, Platone si sia sentito spinto a una pura attività poetica, di ritrattista senza interessi filosofici. I primi dialoghi platonici non sono venuti fuori dal dubbio. Basta, perché ciò si debba escludere, osservare la sicurezza sovrana con cui è tracciàta l'intima linea di questi dialoghi, per chi li guardi non solo uno per uno, ma, soprattutto, nel loro insieme. Giacché in essi tutti, contro la possibilità di una composizione puramente occasionale, un solo fondamentale tema si presenta, nelle variazioni che il fine particolare suggerisce, il problema che, quanto più si leggono queste opere, s'impone con sempre maggiore chiarezza come il « problema » per eccellenza: qual è l'essenza dell'areté. A prima vista, i dialoghi minori degli inizi ci appaiono come una serie di ricerche particolari sui concetti di fortezza, pietà verso gli dei, temperanza, nelle quali Socrate ci si presenta affaccendato, coi suoi interlocutori, a definire ciascuna di queste virtù. Identico, in tutti, 7)
Arist. Met. A6, 987 a 32.
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il procedimento di Socrate. Egli provoca l'interlocutore a esprimere un'opinione, e ciò finisce col mettere in luce, con umoristica grazia, tutta l'inesperienza e la goffaggine di costui, in questo genere di investigazioni. Non uno dei tipici errori logici, che in casi simili si sogliono fare, è evitato,. e Socrate, pazientemente, tutti li corregge. Ogni nuovo tentativo di soluzione contiene una certa dose di verità e corrisponde a una qualche reale esperienza, che qualcosa pur chiarisce sulla natura della virtù esaminata; ma nessuna delle risposte è soddisfacente, nessuna si adegua all'oggetto. Si ha quasi l'impressione di assistere a un corso di logica elementare diretto da un maestro d'eccezione; e l'impressione, in fondo, non inganna, poiché il riprodursi di errori analoghi e il ripetuto uso degli stessi artifi.zi metodici, mostra chiaramente che l'aspetto metodico, in questi dialoghi, è espressamente accentuato. Platone non è il registratore di un dialogo che, sbandato,· balzi a caso di domanda in risposta, ma, consapevole a pieno della regola del gioco, .cerca chiaramente di richiamare su essa l'attenzione del lettore e di iniziarcelo con l'esempio pratico. L'autore di questi dialoghi non è uomo che abbia aspettato fino al momento di scriverli per capire che non è una definizione corretta, p. es.: della fortezza, quella che comincia : « la fortezza è quando uno'. ... ». Anche se non lo possiamo dimostrare, noi sentiamo subito che ogni passo, ·giusto o falso, fatto dai personaggi del dialogo, è stato disposto da Platone con un fine preciso. Solo a condizione di un'ingenuità totale, si potrebbe pensare che, per il fatto di non giungere a una scolastica definizione del soggetto in esame, questi dialoghi "si rivelino come l'opera di un principiante, che azzardi qui i suoi p:rimi passi infelici su terreno inesplorato. In realtà il resultato cosiddetto negativo di questi dialoghi «confutatori» o
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« elenctici» è di tutt'altro significato. Quando Socrate ci lascia, alla fine, con la consapevolezza che, mentre si credeva di sapere che cos'è «fortezza» o «temperanza», in realtà non si sapeva nulla, l'impressione che si ricava di esserci affaticati senza frutto, non produce però l'effetto scoraggiante di un semplice riconoscimento della propria incapacità, bensì ha in sé qualcosa di stimolante, qualcosa che accende a cimentarsi di nuovo con lo stesso problema. Di fatto, più di una volta, Socrate dice espressamente che la questione sarà ripresa un'altra volta, cosa che, anche nella realtà, sarà avvenuta abbastanza spesso. L'osservare che, non solo in un dialogo isolato, ma regolarmente in tutti questi dialoghi minori, manca la soluzione aspettata, e la domanda si ripropone intatta alla fine, mette il lettore in uno stato di tensione filosofica, che ha la più alta efficacia educativa. Platone aveva fatto su se stesso, assistendo alle conversazioni di Socrate, esperienza sempre nuova del potere del suo maestro nel guidare le anime degli uomini, ed è naturale che egli sentisse il più e il più difficile del suo compito di artista, nel raggiungere sui lettori quella stessa efficacia che aveva sentito operante in se stesso. Ciò non poteva riuscirgli mediante la pura riproduzione e quasi registrazione del gioco di domanda e risposta; ché un tale procedim "nto può stancare enòrmemente, quan,do sia privo di v .ta e di nerbo drammatico. Egli sentì, invece - e fu qui una sua grandè scoperta di artista - che il senso genuino della ricerca scientifica, quell'avanzar grado a grado sospinti e come premuti da energica tensione, per vie e svolte sempre nuove e sorprendenti, in vista -di un fine, aveva in sé una fortissima attrattiva drammatica. Nessuna forìna di comunicazione del pensiero raggiunge il potere di suggestione del dialogo, specie del dialogo euristico - se
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condotto'\ con sicurezza di metodo - nel quale, chi vi partefiipa è chiamato a un'attiva collaborazione. Bastano' 1i ripetuti tentativi dei dialoghi socratici di sempre più aderire, in un comune lavoro dei partecipanti, e quasi conformarsi al soggetto, a mostrare la maestria di Platone nell'arte pedagogica di chiamarci a questa attiva partecipazione. Il nostro pensiero è mosso a prevenire il corso della discussione, e quando poi, a un certo punto, Platone sembra che ci lasci senza nulla di fatto, egli mira ad ottenere che si prosegua oltre, a pensare per conto nostro nella direzione in cui il dialogo ci ha guidato. Se si trattasse di conversazioni reali, il resultato negativo potrebbe esser caso; ma quando uno scrittore filosofo ed educatore ci conduce sempre, alla fine, a questa constatazione d'ignoranza, egli deve avere avuto la mira ben oltre la fedele pittura della «ignoranza», divenuta proverbiale, di Socrate. Un problema da risolvere, un enigma, è quello che egli ha voluto presentarci, ma nella con, vinzione che la soluzione di esso era in qualche modo nei limiti del nostro potere. In questi dialoghi, riguardanti tutti il problema qella natura di singole virtù, noi siamo, prima o poi, condotti ad ammettere che quella tale virtù deve essere un sapere; e questo sapere, poi, quando ci si domanda quale sia il suo oggetto, ci si scopre come conoscenza del Bene. In questa equazione virtù-sapere, noi riconosciamo il ben noto paradosso di Socrate; ma anche sentiamo, ad un tempo, ·che nei dialoghi socratici di Platone si fa valere una forza nuova, che non tende solo a ritrarre il maestro, ma fa suo il problema stesso di lui, per andare con esso più oltre e più a fondo. Questa forza è immediatamente percepibile, per il lettore attento, nel fatto stesso che il Socrate platonico
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si dedica soltanto ed esclusivamente a discutere il problema della virtù. Che Socrate, nella realtà, fosse stato prima di tutto un ammonitore di virtù e della «cura dell'anima», lo sappiamo dall'Apologia, ma da_ essa anche abbiamo imparato che l'elemento dialettico-confutatorio, sempre congiunto all'esortazione, col fine di convincere l'interlocutore della propria ignoranza, era in servigio dell'esortazione stessa; esso mirava· a inquietare gli uomini e a spingerli a far qualcosa in pro di se stessi. Invece, negli altri dialoghi platonici di questo periodo iniziale, l'elemento protrettico della disciplina socratica si fa decisamente indietro, di fronte a quello dialettico e confutatorio. Evid~nte mente, quello che importgo, ma ancora più fortemente si incontra, come già si è rilevato, in quel modo «convergente» con cui avanza il pensiero di Platone in tutto questo gruppo di dialoghi. Da qualunque problema di virtù singola Platone prenda le mosse, egli mostra che ogni tentativo di definirne una, conduce inevitabilmente a ricondurle tutte all'unica virtù in sé, e a comprenderle tutte i.a essa e da essa. Di fronte a ciò, è di scarsa importanza il vedere ·se la parola «idea» o « eidos », che è la parola tecnica di Platone per questo concetto, sia già usata in questi dialoghi 49). A quel modo che Platone, in queste . 48) Resp. II 537c: il vero dialettico è il sinottico che sa vedere fusi.eme le cose. La medesima descrizione del dialettico in Phaedr. 265d. . 411) L'indagine sull'apparir dei concetti « eidos» e «idea» nei dialoghi platonici dovrebb~ per giungere a reswtati definitivi,
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sue opere introduttive, non lascia, o ben poco, trapelare che la ricerca sulle virtù singole e il pensiero, che si viene elaborando, del Bene in sé, mirano a dar le linee essenziali di una ricostruzione dello stato su questo fondamento, così non ci si può aspettare che egli, proprio sul principio, intimorisca il lettore presentandogli, intero ed esplicito, un resultato, un dogma come la teoria delle Idee; sul principio, quando non altro gli sta a cuore che di richiamare la sua atten• zione sul problema, nel suo insieme. E ciò tanto più che egli, in nessuna delle sue opere, nòn diede mai un'esposizione completa, in questo· senso dogmatico, della teoria delle Idee, nemmeno nelle epoche in cui consta, per ripetute menzioni, che essa esisteva. Anche nei dialoghi del periodo centrale, la teoria o è appli~ cata a esempi particolari e presupposta nota ai personaggi del dialogo da un lungo contatto d'idee, o solo alcune grandi linee ne sono accennate, accessibili anche all'intendimento del lettore non iniziato. Pochi sono i luoghi in cui Platone si addentra nei problemi più difficili della teoria. Quanto, poi, alla cosiddetta fase matematica del pensiero platonico, nella quale Platone tentò di spiegare le Idee come numeri, solo Aristotele ce ne riferisce ampiamente e da lui sappiamo, con molta meraviglia nostra, che, nell'Accademia, Platone e i suoi scolari avevano elaborato una dottrina, la cui esistenza non arriveremmo neppure a sospettare dalla lettura dei dialoghi contemporanei: solo con l'aiuto di Aristotele si riesce a scoprire in essi alcune tracce sparse di questa dottrina 50). Si rivela qui, tipicamente, la rigida distinzione della discussione esoterica, di scuola, da quel lato della :filosofia platonica che si rendeva accesincluder!' anche altre locuzioni designanti l'uno nel molteplice, come 6 "ITO't"e: !cr-rlv, a:1hò lS ècr'l"tv, e simili. •o) Arist. Met. M e N.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
sihile al pubblico. Rispetto, però, alla teoria delle Idee, il riserbo di Platone nei primi dialoghi non poteva giungere fino a questo punto. Ché egli dové èssere ben consapevole della necessità di rivelare al mondo nelle opere future i tratti fondamentali di questa teoria, per il momento ancor sottoposta alla discussione esoterica, nella quale pur consisteva il fondamento teore• tico del suo pensiero etico-politico. D'altra parte non è. neppure esatto che i primi dialoghi non contengano traccia alcuna dell'esistenza della teoria delle Idee: I'Eutifrone, p. es., uno dei dialoghi che generalmente si giudicano più antichi, chiama ripetutamente « Idea» l'oggetto dell'indagine dialettica, ed altri accenni si trovano in altri dialoghi dello stesso periodo 51 ). Questa ricostruzione dell'attività letteraria platonica negli anni subito dopo la morte di Socrate, mette in chiara luce l'unità organica di tutta la sua produzione e del suo pensiero :filosofico. I brevi dialoghi di questo periodo appaiono come l'introduzione al problema centrale del pensiero platomco, sia sotto l'aspetto del contenuto, sia per· quello,. formale-dialettico. Il problema è quello dell'ottimo stato e ad esso Platone riferisce l'affermazione socratica, che la virtù è scienza del Bene. Se questa affermazione è la verità, ne deriva, conseguenza necessaria, che la comunità umana può essere edificata solo per mezzo dell'educazione e che in questa si deve spendere ogni forza. Ancor prima di indicare chiaramente la meta al lettore, Platone lo conduce, attraverso i suoi primi scritti, a formulare qnel problema che, per raggiungere la meta, è il pres~pposto, il problema socratico di virtù e scienza. Ma solo nei .~ue dialoghi immediatamente successivi, 61 ) Euthyphro 6e. Vedi raccolti gli esempi di « eidos» e «idea» in: C. RITTER, Neue Untersuchungen iiber Platon, Miinchen 1910, pp. 228-326.
CAP. IV: I BREVI DIALOGHI SOCRATICI
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Protagora e Gorgfo, egli ci consente di giungere alla conoscenza piena del significato di questo problema, e in essi soltanto lo colloca nel vasto sfondo in cui lo vede. Il lettore, rimasto impigliato nelle aporie dei primi dialoghi, non è, certo, ancora iniziato, ma si sente· sc:1spinto avanti e cerca, in una trattazione più comprensiva, la soluzione che ancora gli manca. Si avrà modo in seguito, nel considerare le opere immediatamente successive, di trovar conferma a questo concetto che ci siam fatti dell'attività di· Platone. Egli, lavorando ai suoi dialoghi, . dall'Apologia al Gorgia e da questo alla Repubblica, deve aver avuto presente un piano, col quale condurre gli uomini, di grado in grado, fino all'altissima vedetta, da cui avrebbero dominato tutto l'orizzonte della sua filosofia. Eccessivo sarebbe affermare che ogni opera fosse già :6n dall'inizio concepita col suo preciso posto nel piano svolgentesi in questo periodo di tempo. Ma una cosa è chiara:·che il metodo di storia interna o dello svolgimento, proprio del sec. XIX, ha fatto troppo poco conto dei numerosi legami che Platone aveva stretto e segnato tra mi' opera e 1'altra, coi quali egli ci avvertiva che tutte le opere, passo per passo, svelano un unico grande complesso, e che il primo passo si chiarisce a pieno soltanto con l'ultimo 52). Se si percorre tutta questa attività di scrittore nel suo progresso e si torna poi a riguardarne il prùicipio, il movente che la sospinge si scopre in un pensiero fondamentale : di far penetrare il lettore, attraverso il dialogo socratico, sempre più a fondo nella filosofia e 62) Sta qui la verità permanente dell'interpretazione platonica di Schleiermacher, di fronte ai successori. Ed è merito di P. SuoREY (The Unity of Plato's Thought, Chicago 1904) aver tenuto fermo questo puntò di vista, in un tempo in cui la teoria dello v
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quadro del mito riman vivo e si fa simbolo del contenuto filosofico di tutta l'opera, anzi di tutta la dottrina e dell'atteggiamento di Platone. Il mito del Gorgia si riannoda a immaginazioni religiose di una vita dopo la morte, che Platone, chiara- · mente, atteggia ai suoi fini con libertà di poeta. Con ogni probabilità, il Socrate storico non poté essere l'inventore di una tale fiorita elaborazione di miti religiosi, anche se, occasionalmente, egli poté interessarsi ad essi. D'altra parte anche l'ipotesi assai diffusa che Platone, nel corso dei suoi viaggi o in altro modo, abbia subito l'influsso di misteri orfici o di misteri simili e abbia associato le immaginazioni proprie di questi con l'etica socratica, è un modo un po' troppo grossolano di concepire i processi spirituali. I miti platonici sul destino dell'anima dopo la morte non sono i prodotti dogmatici di un sincretismo che interessi la storia delle religioni 149). Chi li volesse concepire così si lascerebbe sfuggire quasi del tutto la potenza creatrice, poetica, di Platone, che proprio . in essi raggiunge uno dei suoi vertici. Ma è vero che rappresentazioni dell'aldilà di quelle che si sogliono complessivamente designare col nome di orfiche, gli servirono di materiale grezzo. L'impressione che certamente esse fecero su di lui, si spiega col fatto che il suo senso di artista provava l'esigenza di uno sfondo trascendente, in cui l'anima socratica, eroicamente sola nella sua lotta, trovasse un complemento. Senza un tale punto d'appoggio in un mondo invisibile, l'esistenza dell'uomo che vive e pensa come So149) Di questo errore si rende responsabile la più parte di quegli studiosi che con mente di storici della religione affrontano il problema dell'elemento orfico in Platone, Più in là di tutti, in questa direzione, va il Macchioro che riduce senz'altro quasi tutta la filosofia di Platone a una derivazione dall'orfismo.
CAP. VI: IL GORGIA
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crate avrebbe perduto il suo equilibrio, almeno a considerarla in una visione limitata di creature sensibili. La verità del concetto socratico della vita poteva esser compresa solo se lo si riferiva a un.« aldilà», come quello che era ritratto dall'immaginoso e concreto linguaggio delle concezioni orfiche: una sede di giudizio definitivo su ogni valore o viltà, su ogni felicità o rovina dell'uomo, dove «I'anima in se stessa» è giudicata « dal1'anima in se stessa » senza il velo difensivo e ingannevole di bellezza e di rango, di ricchezza e potere 150). Questo « giudizio», che la fantasia religiosa pone in una seconda vita, che ha principio con la morte, si eleva per Platone a una più alta verità quando egli cerca di pensar fino in fondo il concetto socratico della personalità umana, come valore puramente interiore che ha in se stesso il proprio fondamento. Se l'anima ha la sua salute nell'immunit& da ingiustizia e la sua rovina e malattia nella contaminazione della colpa, questo giudizio nell'aldilà diventa una sorta di esame medico dell'anima. L'anima nuda si presenta in cospetto del giudice, nuda anima anch'egli, che spia su di lei ogni cicatrice, ogni ferita, ogni macchia, che la malattia dell'ingiustizia, di cui essa soffrì in vita, le abbia lasciato 151). È questo un elemento della sua rappresentazione che Platone non derivò da miti orfici; e in esso egli espresse uno dei pensieri fondamentali di Socrate, cioè che l'ingiustizia commessa rimane nell'anima e impronta di sé la sua essenza, con la conseguenza di una diminuzione permanente del valore della personalità. Ed è questo il principio su cui si fonda l'identità teorizzata nel Gorgia, di felicità e perfezione morale.
150 ) Gorg. 523 e: a:u"'ìl -r'ìi IJiux'ìi a:ùTl]v ..-~v 1Jiux7Jv -lteC»poiiv-ra:. I «veli illusorii » in 523 b-d. m) Gorg. 524 b-d.
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Nel giudizio le anime che non sono state trovate sane sono separate dalle altre e ad esse non è dato, come alle altre, l'accesso alle Isole dei Beati. Esse sono, ancora, divise in curabili ed incurabili. Per le prime è aperta una via di risanamento attraverso lunghe sofferenze e cure dolorose 152). Le insanabili, in maggioranza tiranni e despoti ai quali non può più giovare alcuna terapia, sono esposte per tutta l'eternità come «paradigmi», ad esempio profittevole, per le altre 153). Il Gorgia si chiude con l'ammonimento a guardarsi dall'apaideusia 154), cioè, « dall'ignoranza dei beni supremi della vita» e con l'esortazione a rimandare la partecipazione alla politica attiva, a quando ci si sarà liberati da questa ignoranza. Per tal modo Platone ci riporta alla linea fondamentale del dialogo, che è linea educativa, e alla :filosofia socratica tutta improntata in questo senso, imprimendo indelebilmente nella nostra memoria la sua concezione, diversa da ogni altra, della paideia. Questa è per lui uno sforzo che l'anima deve compiere, durante tutta la vita, per liberarsi dall'ignoranza riguardo ai beni più grandi 155), della quale è prigioniera e che le sbarra la via alla vera salute. Queste parole · ci riportano alla conclusione del Protagora, nella quale questa ignoranza cioè « la falsa opinione e l'errore sulle cose che più valgono» era già designata come la fonte di ogni male 156). Là era detto 152) Le isole dei Beati, 524 a; peccatori sanabili e insanabili, 525 h-c. 163) Gorg. 525 c-d. Fra essi si trova anche Archelao, re di Macedonia e gli altri tiranni sulla cui felicità Socrate (570 d-e) aveva sospeso il giudizio in quanto non sapeva « come stavano a educazione e a giustizia». Con evidente derivazione da concetti medici. si fa vedere che nell'aldilà le anime di coloro che sono «allevati senza verità» non hanno più membro che sia diritto, ma son tutte storte e deformi. 154) Gorg. 527 e. 155) Gorg. 527 d 7. 158) Prot. 358 c.
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soltanto che non è proprio della natura umana lo scegliere volontariamente il male, senza che si precisasse la natura di quella scienza di cui si affermava la necessità, e che sarebbe stata il tema di una ricerca ulteriore 1 57). Il Gorgia è la prima completa rivelazione del programma che là si annunziava, il programma della paideia socratica, nel suo contenuto etico e nella meta.fisica in esso implicita. Si comprende da ci9 come il Gorgia rappresenti un gradino d'importanza decisiva in quel grande colloquio con Socrate che si attua attraverso i dialoghi platonici, e che noi abbiamo definito come la progressiva presa di coscienza dei presupposti filosofici sui quali poggiano la vita e il pensiero di Socrate 158). Questo processo è assai multiforme, diretto com'è a cogliere in Socrate sia l'elemento logico e metodico, sia la sua eticità e la sua vita. Il Gorgia è la prima opera in cui tutti questi elementi siano messi in valore insieme, sempre però con un accento particolare sull'elemento etico. E in ciò consiste anche il suo valore di documento riguardo alla paideia platonica. Nei primi dialoghi platonici, il valore pedagogico del modo di conversazione socratico era visto essenzialmente nell'eleménto metodico, e anche nel tema stesso, il problema della virtù. Il Protagora, poi, aveva dimostrato le fondamentale importanza dell'indirizzo socratico, volto alla scienza dei valori supremi, rispetto al problema dell'educazione umana, pur senza ancora discendere al chiarimento di come doveva configurarsi l'educazione, sulla base di quell'indirizzo. Il resultato del Protagora era solo la scopert!l del valore del sapere come via all'areté e la riconosciuta esigenza di una techne del retto operare. Se questa techne è possibile, 167) Prot. 357 b 5. Cfr. supra, pp. 112, 170 s.
158)
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l'educazione dei Sofisti è fondamentalmente superata, o almeno relegata in una posizione secondaria. Il Gorgia riprende il problema a questo punto e svolge il tema cli questa techne descrivendone i tratti essenziali e distintivi e indicandone i presupposti. Il che si attua nella forma di un dibattito con la retorica che, comè mostra la chiusa del clialogo, è considerata, essenzialmente, come una sola cosa con la sofistica. Tuttavia la scelta della retorica in particolare come bersaglio della critica, si spiega non solo con la ragione della varietà formale, ma in quanto essa è forza direttiva della vita politica e, come tale, attira la nostra attenzione sul collegamento dell'educazione con lo stato~ In questo contesto di idee ci sono apparsi, per ragioni interne, inseribili già i primi dialoghi platonici; nel Protagora esso viene chiaramente in luce ed ora, nel Gorgia, esso è esplicitamente ragionato, e definito più precisamente. Anche la cultura sofistica aveva tentato, come mostra il Protagora, di prepa_rare i cittaclini alla vita politica. Non solo essa aveva impartito un complesso di co~zioni sullo stato, ma si era anche occupata teoreticamente del problema so· ciologico dell'educazione, in quanto questa riceve le sue condizioni dalla vita e dalla forma dello stato. Ma il suo scopo era stato solo cli formare capi della vita pubblica destinati al successo, capi che sapessero pra· ticamente accomodarsi alle circostanze esistenti e operare con esse. E, perciò, dal punto cli vista cli Socrate, la relazione di stato ed educazione era stata nei Sofisti assolutamente unilaterale, in quanto essi accettavano lo stato così com'era, come dato, e quincli considera· vano norma e criterio dell'opera educativa le esigenze di una vita politica ormai del tutto degenere. Di contro a ciò il Gorgia svolge la radicale opinione · platonica, che il problema fondamentale dell'educarione
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è il problema della norma suprema, alla quale essa debba adeguarsi, e della conoscenza del suo fine. Socrate nel Gorgia appare il vero educatore perché è il solo che conosca il suo telos. Nell'Apologia e negli altri scritti giovanili fino al Protago~a incluso, il Socrate di Platone, in evidente conformità col Socrate della storia, rinunzia ancora, ironicamente, a ogni pretesa di educare uomini, anche se Platone già lo disegna come il vero educatore. Nel Gorgia, invece, non solo egli pone la paide·a, nel senso etico che egli le dà, come il bene più alto e il culmine della beatitudine umana, ma anche rivendica a sé il possesso di questa paideia. Platone ora attribuisce a lui quella che è la sua propria appassionata convinzione, che Socrate sia il vero educatore di cui lo stato ha bisogno, e fa che Socrate, con un appassionato orgoglio, che non è socratico ma del tutto platonico, si dica, in virtù della sua opera educativa, l'unico nomo politico del suo tempo 1 59). Il vero compito dell'uomo di stato non è quello di accomodarsi alla massa, come lo intende la falsa paideia di retori e sofisti 160), ma è appunto di natura educativa, poiché consiste nel fare gli nomini migliori. Nel Gorgia, però, non si apprende ancora quale forma ecJ. aspetto dovrebbe avere uno stato che ·volgesse a questo scopo ogni sua energia. Il compito di questo chiarimento sarà assegnato alla Repubblica. Il Gorgia si limita a bandire, con profetico affiato, lo scopo in se stesso, cioè il ritorno dello stato al suo compito educativo. In uno stato come questo, e certo soltanto in esso, appar possibile e giusto che una forma educativa, intesa, come la socratica, a scoprire la norma assoluta 169) Gorg. 521 d. 160) Questa critica della paideia contemporanea è svolta più a fondo nella Repubblica 492 b ss., e sopra tutto 493 a-e. Cfr. infra pp. 454-55.
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della perfezione umana, pretenda di porsi come il centro e l'essenza dell'arte di governo. Fino da quest'opera, la prima in cui Platone svolga esplicitamente la paideia socratica in una techne politica. egli la pone nel contrasto più netto con lo stato esistente. Anche fra l'educazione sofistica e rappresentanti della politica c'erano, come sappiamo, elementi di divergenza e di tensione: ma il conflitto che si rivela nel Gorgia è di ben altra qualità. I Sofisti furono un'apparizione innovatrice, una nuova moda, e come tali provocarono l'attenzione e la diffidenza degli ambienti conservatori; pertanto essi furono sempre in un atteggiamento di difensiva, ma sempre si tennero strettamente nei limiti di questa. Anche là dove essi davano armi all'opposizione con atteggiamenti teorici quali la teoria del diritto del più forte o la critica del principio egualitario della democrazia, essi erano costretti a conciliare questi principii professati in cerchie ristrette con il conformismo esteriore. Socrate non ebbe certo tanti riguardi, e Platone pone un particolare impegno nel dipingere la sua franchezza, oggetto degli ammonimenti di Callicle 161). Ma il Gorgia va anche più in là, esaltando questa franchezza in una imponente opera letteraria e portando il contrasto dell'educazione socratica con la realtà politica nella piena luce della pubblicità. Già lApologia aveva avuto il compito, mostrando Socrate in conflitto · col pubblico potere, di .porre questo problema al centro dell'attenzione, ed 161) Callicle scambia le critiche rivolte da Socrate allo Stato ateniese per l'atteggiamento di opposizione filospartana proprio, in Atene, della minoranza, Gorg. 515 e. Egli crede Socrate spiritualmente legato a questo ambiente. Ma Socrate sottolinea espressamente che il suo giudizio riguarda solamente quello che lui stesso come ogni altro può vedere e sentire da sé. Con ciò evidentemente Platone vuole appartarsi da ogni politica meramente di partito, e mettere la sua critica su ben altro piano.
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era riuscita in questo senza togliere al conflitto nulla della sua gravità. Per essa, anzi, l'urto di Socrate con lo stato, era apparso, come già si è mostrato, non un caso, ma una necessità ineluttabile 162). Nei primi dialoghi platonici, invece, con l'apparire in primo piano dell'indagine socratica, in quanto forma e in quanto contenuto, la tensione tra questa nuova scienza politica e lo stato sembra quasi dimenticata. Ma ecco il Gorgia a mostrare che questa calma era apparente e solo di superficie. In quest'opera, in cui Platone per la prima volta espone la paideia socratica come un programma concluso, egli la concepisce radicalmente, essenzialmente, in contrasto con la politica dominante e con lo spirito che informava la vita pubblica, fino al punto che, per rivelarne interamente il carattere, basta la discussione critica con la retorica, rappresentante autentica, come a lui sembra, con la sua brillante apparenza, della politica contemporanea. Davvero sembra che egli ammassi le nuvole minacciose da cui non tarderà a scatenarsi la tempesta. Ma la novità vera nel Gorgia è che l'accusato non è più Socrate, ma lo stato. Nello svolgere dal messaggio socratico, incitante i concittadini' a darsi cura dell'anima loro, una compiuta filosofia dell'educazione, tt Platone accetta, di quel messaggio, tutta la passività, accetta in pieno il grave conflitto con lo stato in cui si era conclusa la vita di Socrate. Nell'Apologia, più di un lettore, ancora, avrebbe potuto ravvisare la catastrofe irripetibile di una particolare congiuntura; ma nel Gorgia appare di assoluta evidenza che il pensiero stesso di Platone rimane permanentemente sul fronte di quel conflitto. Quello che è vero per la sua filosofia m generale, che, cioè, essa si svolge nella ricerca dei 162) Cfr. supra, p. 120 ss.
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presupposti di vita e pensiero socratici, è particolarmente vero in questo punto essenziale: ché il momento germinale di tutta la sua filosofia dell'educazione è il tentativo di capire nella sua necessità il conflitto che aveva condotto alla morte « del più giusto di tutti i cittadini» 163). La lettera VII mostra in una luce chiarissima l'impòrtanza duratura che quell'evento ebbe nel pensiero filosofico di Platone, sicché, si può dire, l'opera e la testimonianza autobiografica si completano mirabilmente a vicenda 164). Nel Gorgia è rappresentato iJl atto quel conflitto radicale con lo stato de] presente che Platone, secondo la lettera VII, aveva giudicato insanabile. In pari tempo, però, si fa manifesto con quanta concretezza d'interessi politici, Platone, più di ogni altro scolaro di Socrate, avesse fin da principio interpretato la missione educativa del maestro. Il rifiuto di quello stato che aveva giudicato intollerabile la presenza di Socrate non importa per Platone il rifiuto di ogni stato, dello stato in sé. Anzi, proprio il fallimento di Socrate, «l'unico vero uomo politico del suo tempo»~ chiarisce perfettamente il compito che ora s'impone: il compito di mettere lo stato in armonia con le esigenze socratiche. Non è qUindi l'educazione che debba mutarsi, come avevano creduto gli accusatori e i giudici di Socrate, ma è lo stato che deve rinnovarsi dalle radici. Ma che significa questo per Platone ? La critica del Gorgia è esclusivamente diretta contro i politici ateniesi del presente e del passato, sicché può sembrare che Platone, nella sua volontà riformatrice, facesse ancora assegnamento su un rovesciamento politico all'interno della sua patria. Sennonché la lettera VII mostra che in quel tempo Platone non
168) 184)
Cfr. Ep. VII 324 e, e il Fedone, alla fine. Ep. VII 324 e, 325 b, 325 b-326 b.
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pensava già più a questa possibilità 165). In realtà come avrebbe potuto lo spirito socratico far brecc·a nello stato ateniese, lo stato, per eccellenza, «retorico» ? Al fondo del Gorgia, dunque, sta già il nuovo pensiero, il pensiero della repubblica dei :filosofi. La critica, in tutto negativa, che è svolta nel dialogo di fronte allo stato quale era dato dalla realtà storica non mira ad una rivoluzione violenta 166), e non è neppure il frutto un cupo fatalismo, di un senso dj rovina totale; i] che, de] resto, sarebbe pur comprensibile dopo il crollo materiale e spirituale di Atene nel quale finì la guerra peloponnesiaca. 11 senso di quella dura negazione della realtà è ben diverso. Con essa Platone si apre la via all'edificazione di quell'«ottimo stato». a cui mira e di cui si prepara ad abbozzare le linee, senza preoccuparsi della possibilità di realizzarlo ora o più tardi. Il primo passo in questo cammino che ora s'inizia, è l'esposizione, contenuta nel Gorgia, della paideia socratica e del suo :fine, e ciò indica chiaramente che anche idealmente essa è per lui l'unico punto da cui possa prendere l'avvio la sua volontà di costruzione politica, l'unico punto fermo e stabile in un mondo sociale in rovina. Il principio paradossale che l'arte della politica debba fondarsi su una scienza sicura dei beni umani più alti, ed avere l'unico fine di rendere i cittadini buoni e felici, nasce evidentemente dalla sintesi del proposito politico proprio di Platone e della sua fede nella missione politica di Socrate. Ma questa, che è spiegazione personale, psicologica, n~n basta per dar pienamente ragione della concezione platonica di una techne che sia nello stesso tempo edificazione dello stato e cura dell'anima. Per il modo di sentire moderno, ies) Ep. VII 325 e ss. 166 )
Ep. VII 331 d.
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qui ci si trova di fronte ad una mescolanza di due compiti, tra i quali noi, almeno fino a non molto tempo fa, usavamo 'distinguere rigorosamente. La nostra politica è realismo politico, la nostra etica è morale individuale. Sebbene lo stato moderno, in molte parti del mondo, si sia attribuito il compito dell'educazione dei giovani, rivendicando con ciò una parte del compito dello stato antico, pure rimane difficile per noi accettare, anche solo come ipotesi, a concezione greca antica, che per "Platone è ancora, assolutamente, l'ideale, secondo la quale la legge dello stato è anche la fonte di ogni norma di vita e la virtù dell'uomo coincide con quella del cittadino. Questa unità soffrì un primo serio colpo proprio nell'età di Socrate. Ragion di stato e sentire morale dell'individuo cominciarono a trovarsi sempre meno coincidenti, quanto più la vita politica si faceva aspra e dura e quanto più di fronte al « bene » si affina va e si di1ferenziava, autonomo, il sentimento etico dell'individuo. Questa frattura, da noi già descritta, nella primitiva armonia di virtù umana e virtù civica è il presupposto storico del pensiero politico di Platone. Era ormai divenuto chiaro che il potere dello stato di vincolare lo spirito, che era cosa ovvia per lo stato-città della Grecia più antica, aveva il suo lato pericoloso. Date le circostanze del momento, quel potere doveva necessariamente portare a una di queste conseguenze: o che l'individuo di cultura superiore si ritraesse dalla vita politica, o che tentasse di applicare ad essa la sua ideale misura etica, e perciò venisse a trovarsi in una continua insanabile tensione con lo stato quale era nella realtà. Dalla prima soluzione, dalla fuga di fronte ai compiti politici, Platone è, in linea di principio, assolutamente alieno, cresciuto in una · tradizione familiare e sociale per cui era indiscutibile che i migliori dovessero dedicare la loro vita
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allo stato. Del resto, la critica di Socrate non avrebbe fatto su lui una cosi profonda impressione se egli non avesse in origine condiviso l'antica concezione secondo cui lo stato era il legislatore etico per i cittadini. Anche il conflitto di Socrate col pubblico potere non viene interpretato da Platone nel senso che sia venuto il tempo di dare allo stato quel che è dello stato e a Dio quel che è di Dio. Egli non pensa a sottrarre al dominio dello stato la parte migliore dell'uomo. Per lui individuo e comunità formano un tutto e la norma che regoli il loro rapporto spetta allo stato e solo allo stato di determinarla. Però dall'affermazione di un tale diritto dello stato al possesso indiviso dell'anima umana, scaturisce il più difficile dei problemi, nel momento in cui l'anima scopre nell'intimo della sua coscienza morale il criterio universale del valore e della felicità umana. A questo punto lo stato non può rimanere in una posizione inadeguata al grado di sviluppo in.orale raggiunto e deve divenire, per Platone, l'educatore e il medico delle anime: e se poi esso non si rivela pari a un tal compito, si dovrà ritenerlo degenere e indegno della autorità che si arroga. Nel Gorgia, insomma, si proclama il fermo proposito di sacrificare al compito eticoeducativo tutte le altre funzioni dello stato. Inoltre, accanto alla concezione tradizionale dell'alta importanza della polis per la vita del singolo, anche un secondo motivo ci fu che condusse a questo nuovo e singolare atteggiamento politico. Ed era un motivo implicito nella stessa teoria socratica della virtù. Nell'atto in cui Platone, d'accordo con Socrate, fonda la rettitudine dell'azione in una scienza dei valori supremi. l'attuazione di tali valori si fa, di cosa meramente soggetta all'opinione e al sentimento soggettivo, compito della conoscenza più alta a cui possa elevarsi l'intelletto umano. Socrate stesso aveva, di questa
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. scienza del bene, indicato l'altezza e la difficoltà, quando, con la sua ironica confessione d'ignoranza, aveva significato che essa non era cosa di tutti. Non si interpreta, quindi, rettamente la libertà, rappresentata da Socrate di fronte alla tradizione, quando si vuol vedere in essa la conquistata indipendenza della «coscienza» individuale. Quando Platone dà al concetto di questo sapere socratico il rigoroso senso della sua « arte politica», egli ne accentua con energia il carattere obiettivo. È un sapere, questo, che non si contrappone al sapere dell'uomo di scienza, dello specialista; anzi fa il suo ideale e modello del sapere di questo. Per ciò un tale sapere non è accessibile alla massa ma è oggetto della più alta conoscenza filosofica. Proprio in quel punto del processo .di pensiero, dove noi aspetteremmo di veder nascere il concetto moderno della coscienza individuale e della libera scelta etica del singolo, questo concetto è di nuovo scartato ed al suo posto è ristabilita l'autorità di una verità filosofica obiettiva, che si arroga di reggere tutta la vita della comunità umana e, per essa, dell'individuo. Se esiste una scienza nel senso socratico essa non può, secondo Platone, realizzarsi pienamente se non nel quadro di una comunità associata, che egli concepisce, nella maniera tradizionale, come una civitas.
CAPITOLO SETI'IMO
IL MENONE IL NUOVO CONCETTO DELLA SCIENZA Nei primi dialoghi Platone aveva tentato per varie vie di accostarsi alla conoscenza della virtù, e tutte avevano condotto a scoprire che le cosiddette virtù singolarmente prese, fortezza, sapienza, pietà religiosa e giustizia, non erano che parti di un tutto, dell'unica «virtù», e che questa, nella sua essenza era un sapere. Nel Protagora e nel Gorgia, questa conclusione, presup· posta valida, era stata assunta a nucleo essenziale del problema educativo, e si era delineata per la prima volta in maniera precisa una paideia basata su questo fondamento. Platone, in quei dialoghi, aveva mostrato, mediante un dibattito a fondo coi rappresentanti del!'educazione del tempo, che gli unici fra essi che dessero al sapere una vera importanza, i Sofisti, non sapevano poi trarre dalla loro premessa la legittima conseguenza, che su una scienza si dovesse fondare anche la formazione morale e politica dell'uomo. Quanto poi ai rappresentanti dell'educazione tradizionale, essi erano completamente al di fuori, perfino dalla posizione di questo problema. In sostanza Socrate, nel Protagora, aveva tentato di tirar dalla sua i Sofisti. Ma, quanto più egli, nello sforzo di pensar fino in fondo la sua fa. mosa proposizione per cui la virtù si riduce alla fine
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a conoscenza, si era trovato imbarazzato dalla sua ne• gazione iniziale che la virtù sia insegnabile, tanto più fortemente Protagora si era rifiutato di riconoscere che l'unico modo di salvare la sua pretesa di essere maestro di virtù era di accettare lassioma socratico, secondo cui la virtù è scienza. Per questo, era fin: da quel momento apparso chiaro che quella scienza del bene di cui parlava Socrate era qualcosa di diverso da ciò che s'intende usualmente con quella parola, senza che però si fosse giunti a ri· cercare la natura particolare di quella scienza. Il Pro· tagora si limita - voluta limitazione - a dimostrare che la virtù è insegnabile, solo nel caso che Socrate abbia ragione nell'affermare che la virtù è una scienza. Tutt'al più, c'è nel Protagora una suggestione riguardo a questa scienza, che essa sia, cioè, un'arte della misura; ma di che specie di arte si tratti, e quale sia il metro che le appartiene, è questione che resta in sospeso e che si rimanda a un'altra occasione 1). Ciò non significa necessariamente che si alluda a un determinato dialogo. Platone tratta parecchie volte il problema della scienza, e non lo conduce mai a una soluzione del tutto acquietante. Ma comunque l'accenno a una discussione ulteriore del problema significa chiara~ente che, una volta posta questa equazione virtù-scienza, e chiarita l'importanza di questa scienza della virtù rispetto all'educazione, s'impone ormai urgentemente la ricerca di che cosa sia scienza in questo senso. Ed è il Menone il primo dialogo nel quale sia affrontato il problema, un dialogo che anche cronologicamente è tra i più prossimi a quelli trattati fin qui, tale, perciò, da potersi considerare come il primo tentativo di risposta alla domanda posta nel Protagora: che specie 1) Prot. 357 b.
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di s~ienza è quella che Socrate considera fondamentale per l' areté ? Si sa qu~to sia importante il problema della scienza nella filosofia platonica. Ma è stato un esagerare questo giusto riconoscimento, quello di chiamare, come si è fatto, il Menone, il programma dell'Accademia. Con que· sto si è mostrato soltanto di fraintendere Platone per piegarlo a significati moderni. Nessun programma di una scuola platonica avrebbe mai potuto limitare la :filosofia al problema della scienza, specialmente se queste parole s'intendono nell'astratta universalità della moderna teoria della conoscenza e logica. Nello stesso Menone, anzi, dove per la prima volta questo compl~sso di problemi è trattato con relativa compiutezza e autonomia, Platone si dà cura di mostrare come per lui il problema della scienza si svolga organicamente dal complesso della sua indagine etica e riceva da essa si~ gnificato. Anche qui egli parte dalla domanda: come si può giungere al possesso dell' areté? 2) La questione, senza dubbio, non viene sottoposta nel Menone allo stesso minuto esame che si ha in altri dialoghi, dove fa capo all'affermazione consueta, essere l'areté raggiungibile solo attraverso il sapere. TI punto centrale ed essenziale è occupato, questa volta, dal problema della scienza e dell'origine di essa. Bisogna, però, non perdere di vista, che in tutta la discussione di questo problema, Platone intende per scienza, la scienza della virtù e del bene, la nuova scienza socratica. E questa non è separabile dal suo oggetto e non è intelligibile se non si parta da esso. Platone comincia il dialogo ponendo a tema di discussione, ma in forma succinta e quasi da scuola, le varie possibili risposte al problema della genesi dell'areté: è insegnabile la virtù 2)
Meno, 70 a.
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oppure la si acquista con l'esercizio? oppure nessuno di questi due mezzi è valido, ma essa è largita all'uomo o per natura o in altra diversa maniera ? Questa era la forma tradizionale del problema, la forma in cui esso ci è familiare già fin dai poeti antichi, da Esiodo, Teognide, Simonide e Pindaro, e in essa lo troviamo anche nei Sofisti, che a quella tradizione si riallacciarono. Quello che, per Platone, è nuovo, nella maniera socratica di porre il problema, è che ora, ci si domandi per prima cosa che cosa sia, in sé, l'areté, prima di avventurarsi a dire come si viene a possederla 3). Il significato logico di questo problema, al quale continuamente riportavano le discussioni sulle singole virtù, contenute nei dialoghi minori, è chiarito con particolar cura e con ampiezza nel Menone. Più che in qualsiasi dei dialoghi minori, Platone rende evidente al lettore tutta la portata della domanda: che cosa è la virtù, in sé ? Prima di tutto è chiarito il significato di questo «in sé» e la distinzione tra la virtù in sé e le singole particolari forme fenomeniche della virtù; giacché Menone ha imparato dal suo maestro Gorgia a far differenza tra la virtù dell'uomo e quella della donna, tra la virtù dell'adulto e del fanciullo, del libero e dello schiavo 4). Socrate ~on sa che farsi di tutto questo «sciame di virtù» che Menone gli presenta, invece dell'unica virtù che sta a fondamento di tutte 3 ) Meno, 71 a. Dal punto di vista scientifico sembra che questo ordine nella posizione dei problemi sia l'unico logico e naturale. Ma gli antichi poeti erano stati ben lontani dal porre il problema della natura dell'areté in una forma così generale, anche se essi, p. es. Tirteo, Teognide, Senofane, credettero di dover dare la preferenza a u n a vlliù di fronte alle altre. Il fatto che Socrate faccia dipendere l'acquisto dell'areté dalla soluzione del problema della sua natura, cioè da un difficile e complesso procedimento intellettuale, mostra che l'areté in se stessa è divenuta problematica per Socrate e per il sno tempo. ') Meno, 71 d-e.
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queste apparenze 5). Una classificazione delle virtù. secondo il sesso, l'età, la posizione sociale, potrà risultare utile ed appropriata da altri punti di vista, ma perché essa stessa si possa attuare è necessario considerare la virtù unica nella relazione che passa tra essa e i diversi uomini che la posseggono e i modi diversi di realizzarla. Questo, però, sarebbe in ogni caso il lato relativo della virtù, mentre ci si era mossi a ricercare la sua essenza assoluta 6). Questo « qualche cosa » per cui le virtù non più appaiono distinte e varie, ma sono una e identica cosa, Platone lo chiama eidos 7). Esso è « quello per cui» esse tutte sono viitù 8). Questo nome di eidos Platone lo sceglie, perché solo g u a r d a n d o a questo « qualche cosa» 9 ), si può dare una chiara ed esatta risposta a chi domandi che cosa è virtù. Le parole« guardando a qualche cosa» (&:no~ÀÉ'ltCùV e:tç ·n) si trovano continuamente in Platone ed esprimono efficacemente e plasticamente la natura di ciò che egli intende per eidos o idea. Come per I'areté, esiste un eidos anche per altri « concetti» affini (« concetti» diremmo. noi ; ma Platone non ha ancora né la consapevolezza di questo « qualche cosa» logico, né un nome adatto per esso, e perciò meglio si farebbe a chiamarle «entità»). Tali sono gli eide o idee della sanità, della grandezza e della forza 10). Già nel Gorgia e altrove queste entità si vedono contrapposte come virtù (aretai) del corpo alle virtù dell'anima 11). Tutti questi esempi, quindi, non sono scelti a caso e mostrano 5) Meno, 72 a. 6 ) Meno, 72 b, dove si indica come scopo dell'indagine l'essenza (oùa(ci:) di una cosa; ma cfr. già nel Protagora 349 b. 1) Meno, 72 e 8. B) Meno, 72 e; cfr. l'esempio di 72 b. Il) Meno, 72 c-d. 1°) Meno, 72 e. ll) Gorg. 499 d, 504 b, dove Platone «tra l'altro» nomina la
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una volta di più che l'eidos platonico prende concreta forma sempre e soltanto in relazione al problema della virtù. Come, quando si vuol sapere che cosa è sanità, non ci si cura di precisare se essa si manifesta in maniere diverse nell'uomo, nella donna e così via, ma di cogliere l' eidos sempre identico della sanità, e nello stesso modo ci comportiamo con la forza, la grandezza e con tutte le altre virtù del corpo, così, trattandosi di virtù dell'anima, non fa alcuna differenza che la giustizia p. es., o la sapienza, si riscontri in un uomo o in una donna. Essa è sempre la stessa 12). L'esame di questi problemi logici si mantiene di proposito in un terreno elementare e vuol solo chiarire i passaggi essenziali del pensiero socratico. Platone stesso designa il dialogo di Socrate con Menone come un «esercizio (µi::ìhni) f~tto a fine di rispondere alla domanda sull'essenza dell'areté» 13). Questa essenza, però, non è soltanto caratterizzata dal fatto che essa si contrappone, come ciò che è semplice ed assoluto, alle varie relazioni della virtù con esseri umani diversi, ma anche dal suo contrapporsi a quel che Platone chiama le parti della virtù, cioè giustlzla, prudenza, e simili 14). Si è detto di sopra che riguardo all'unità della virtù, non fa alcuna differenza che si tratti, p. es., della giustizia di un nomo o di una donna. Ma, con tutto ciò, non sarà la virtù, in quanto essa è giustizia, diversa dalla virt~ in quanto è prudenza? E la divisione della virtù nelle varie forme salute e la forza come esempi delle « virtù del corpo» ( &pe:-r0tl LÀov), che è, secondo Platone, la fonte e l'origine necessaria: di ogni legame amichevole tra uomini 4). In grazia di questo universale oggetto primo dell'amore, quello a cui si rivolge essenzialmente il nostro desiderio, si ama tutto quello che nel particolare si ama 5). È questo il :fine che noi cerchiamo di raggiungere o realizzare in ogni legame cbe si stringa con altri uomini, qualunque sia il particolare carattere di questo legame. In altri termini, l'oggetto dell'indagine di Platone è il principio che dà senso e scopo a ogni forma di umana società, e a questo principio si riferisce il Liside ponendo come guida il concetto di « ciò che prima è caro». Siamo, con ciò, in accordo pieno con quel che si dice nel Gorgia, dove si professa non essere possibile una vera società tra uomini che vivono una vita di banditi; ché società non si dà se non tra buoni 6). ·Quell'idea del bene che appare, negli altri dialoghi socratici, punto fisso di orientamento, si rivela misura assoluta e ultima istanza anche rispetto al problema dell'amicizia; poiché, anche senza che Platone fo dica espressamente, è chiaro per il lettore intelligente, che dietro « ciò che prima è caro», per cui tutto il resto si ama, si cela il valore supremo, il «buono in sé» 7). Cosi già nel Liside s'inLys. 219 c-d. Lys. 219 c-d. La formulazione fa pensare al luogo del Gorgia (499 e), dove Platone indica il Bene come meta finale di ogni azione e definisce il Bene come ciò per cui si fa ogni altra cosa. Anche nel Liside è chiaro da 220 b, che egli vuole affermare la stessa idea. L'allusione al concetto di telos, oltre che in 220 b -raÀitUTro•nv, è anche in 220 d tTltÀEUTOC. Ciò che è ) Symp. 199 c. b1 ) Symp. 199 d. 52 ) Symp. 203 b.
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rezza di tocco, di far trionfare l'arte critica di Socrate in una vittoria schiacciante, che non sarebbe stata in tono in una sede, come questa, di libera gaiezza e di arditi voli della fantasia. Quan.do Agatone, appena alle prime domande, ha confessato, con elegante accentuazione di debolezza, che tutt'a un tratto gli sembra di non saper più niente di quel che ha discorso un momento prima 53 ), Socrate lo lascia in pace; ed è evitato così quell'atteggiamento di chi ha ragione, che non sta bene nella buona società. Platone però trova un mezzo di non rinunziare al.la discussione dialettica, e lo trova col riportare a un lontano passato questa discussione, e col fare apparire Socrate non più nel solito aspetto di molesto e temibile esaminatore, ma come l'esaminato, con tutta la sua ingenuità. Egli racconta un colloquio sul tema di Eros, da lui avnto molto tempo prima con. la profetessa mantineese Diotirii.a 54). Quello che egli sta per dire, quindi, non è dato come il frutto della sua propria superiore saggezza, ma come rivelazione della veggente. Questa immagine della mistagogia, Platone l'ha scelta e sviluppata a ragion veduta. Nella gradualità del procedimento istruttivo, col quale la divina Diotima introduce i suoi adepti alla profonda conoscenza di Eros, il lettore deve ravvisare i gradi inferiori e superiori dei riti iniziatici che lo guidano alla suprema contemplazione. La religiosità misterica era nella religione greca la forma più personale della fede; Socrate ritrae appunto come una visione, a lui personalmente largita, l'ascesa del filosofo alla più alta v~tta dove si appaga la nostalgia della bellezza eterna, insita sempre nell'eros. Dalla conclusione raggiunta che Eros non è bello, egli stesso, ma non è neanche l'opposto del bello, si 63) Symp. 201 b. H) Symp. 201 d ss.
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arriva subito a riconoscere la sua posizione mediana tra bello e brutto. Non diversa è la sua relazione con scienza ed ignoranza. Non ha nessuna delle due, ma, tra le due, sta in mezzo 55). Stabilita questa sua medietà tra perfetto e imperfetto, se ne ricava immediatamente che egli non può essere un dio. Non possiede né bontà né bellezza, né perciò beatitudine, i segni essenziali della divinità 56)~ Tuttavia non è neanche un mortale e sta in mezzo ha il mortale e l'immortale, grande demone che fa da interprete tra uomini e dei 57). Il suo posto, in ogni modo, è d'importanza essenziale, nell'organismo della teologia platonica. Per lui si colma la lacuna che separa i due regni, del terreno e del divino; egli è il legame, il sjndesmos che tiene unito il Tutto 58). Che la sua natura sia fatta di due elementi in dissidio, è l'eredità lasciatagli dall'impari coppia dei suoi genitori, il ricco Poros, e Penia, la povera 59). Eternamente unito all'indigenza egli è anche sovrabbondante di ricchezza e opera in una tensione continua, gran cacciatore, pioniere audace e insidiatore, fonte inesausta di ogni energia spirituale, eternamente attivo, grande incantatore e mago. Nello stesso giorno può vivere e fiorire, morire e risorgere; riceve dagli altri e crea per gli altri, dà e dissipa e non è mai né ricco né povero 60). Così la genealogia allegorica di Eros, che Socrate sostituisce a quella esiodea, è come confermata dall'esame della sua natura. Ma ecco che di questa posizione mediana tra bellezza e bruttezza, sag· gezza e ignoranza, divinità e mortalità, povertà e rie· 60) Symp. 201 e-202 b. Symp. 202 b. 57 ) Symp. 202 e. 68 ) "Symp. 202 e. In Gorg. 508 si afferma la stessa cosa dell'ami· cizia: essa ti'.ene in sé unito il cosmo. 69 ) Symp. 203 b-c. 60 ) Symp. 203 c-e. 116)
CAP.
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chezza, Socrate si serve per costruire un ponte tra Eros e la filosofia. Gli dei non filosofeggiano e non si educano, perché già possiedono ogni sapienza. Gli stolti e gl'ignoranti, a loro volta, non tendono alla conoscenza, essendo difetto specifico di una tale rozzezza, il non sapere, eppure ritenersi sapienti. Solo il filosofo si affatica dietro la conoscenza perché sa di non possederla e se ne sente bisognoso. Posto a metà tra sapienza e ignoranza, è il solo che sia capace d'istruzione, e ad essa si dedica con impegno onesto e serio. Alla sua schiera appartiene anche Eros, conforme a ogni elemento della sua natura. Eros è il vero filosofo, che, a mezza via tra sapienza e stoltezza, si tormenta in perpetuo sforzo e desiderio 61). Così Platone contrappone all'immagine di Eros ritratta da Agatone, che era immagine dell'essere amabile e amato, un altro ritratto, il suo, che desume i tratti essenziali dall'amatore 62). All'essere immobile, quieto in se stesso, beato e perfetto, egli contrappone quello che mai non ha pace e sempre si affatica e combatte per giungere alla perfezione e alla beatitudine eterna. A questo punto Diotima passa, dalla trattazione della natura di Eros, a illustrare il valore che egli ha per gli uomini 63), ma fin da ora è chiaro che tale valore non sarà da ricercare in qualche particolare effetto di natura sociale, come quelli che sono stati, in parte, attribuiti a lui nei discorsi precedenti, cioè la capacità di ispirare senso d'onore e di verecondia (Fedro) o di disporre l'amante a contribuire all'educazione dell'amato (Pausania). Non che quelle osservazioni fossero del tutto inesatte. Esse, piuttosto, non andavano al fondo delle cose. Diotima dà una interpretazione schietta61) Symp. 204 a-b.
62) Symp. 204 c.
68) Symp. 204 e ss.
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mente socratica del desiderio del bello - ché questo e non altro è Eros - ravvisando in esso la tendenza umana alla beatitudine, alla eudaimonia 84). A questa deve essere riferito, come a ultima istanza, ogni desiderio forte e profondo della natura umana, e in questo senso il desiderio deve essere guidato e informato con azione cosciente. Il desiderio porta in sé l'indicazione e come la rivendicazione di un possesso ultimo e supremo, di un bene perfetto ; e, del resto, la volontà umana .è, per Socrate, sempre, volontà di bene. Perciò Eros, dall'essere semplicemente .un caso particolare del volere, diventa l'espressione più chiara e più convincente di quel principio fondamentale dell'etica platonica, ·per cui l'uomo non può mai desiderare se non cosa che ritenga per sé bene. Se poi la lingua, con tutto ciò, non designa con eros o con eran ogni atto del volere, ma riserba queste parole a una particolare forma di desiderio, questo è un fatto che, secondo Platone, si avvera anche per altre parole, come « poesia», che significa genericamente l'atto del fare, ma nell'uso linguistico designa solo una ·determinata forma di « fattività ». In realtà, questa nuova consapevolezza di quanto siano arbitrarie « limitazioni» di questo genere nel significato di parole come « eros» o « poesia», non è che un aspetto accessorio di quell'estensione, che Platone operò, di tali concetti, da lui riempiti di significato universale 65). Cosl il concetto di eros diventa per Platone il concetto comprensivo di tutte le tendenze umane al bene. Ed ecco, ancora una volta, che da questo più alto punto di vista ora raggiunto, una delle osservazioni di un oratore precedente, esatta e penetrante in pro-
64)
85)
Symp. 204 d-205 a. Symp. 2-05 b-c.
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fondo, viene a collocarsi nel posto che le compete, e s'invera. Eros non è soltanto, come aveva detto Aristofane, un tendere all'altra metà di noi stessi, cioè a una totalità, anche se per totalità s'intende ciò che è buono e perfetto 66). Soltanto se questa totalità di un essere si concepisce non come mera individualità contingente ma come l'Io vero dell'uomo, cioè se quel che è pròprio e pertinente alla nostra natura si identifica col bene, e quel che alla nostra natura è estraneo, col male, soltanto allora l'amore per quello che fu« un tempo» proprio della nostra « antica natura» (come hà detto Aristofane), può essere considerato il significato profondo di ogni forma d'amore. L'amore è dunque il desiderio « di avere sempre per sé il bene» 67). Ed è questo un pensiero molto vicino alla definizione che Aristotele, nell'Etica Nicomachea, dà dell'« amor di sé» {~LÀOCu't'fot), in senso elevato, quando riconosce in esso la forma suprema del perfezionamento morale 68). Aristotele deriva da Platone questo principio, e la sua fonte è il -Simposio. Le parole di Diotima sono il più breve e il migliore commento del concetto aristotelico dell'amor di sé. Eros, inteso come amor del bene, è in pari tempo l'impulso della natura umana all'attuazione vera e piena di sé stessa e, perciò impulso edu'cativo nel più profondo senso della parola. Aristotele segue Platone anche in un altro corollario: nel derivare, cioè, tutte le altre specie d'amore 66 )
67)
Symp. 205 e. Symp. 206 a
dVIXL &;e;l. 68) L'uomo
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o
è:pw; -roii -rò &yix.&òv
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che ha il vero amor di sé (cpEJ.ixu-roc;) è rappresentato da Aristotele (Eth. Nic. IX 8) come l'opposto preciso dell'egoista. È colui che fa sua ogni cosa buona e nobile (1168 b 27, 1169 a 21) e - si comporta di froute al suo vero Io come col suo amico migliore. E l'amico migliore è colui a cui si desidera ogni bene (cfr. 1166 a 20, 1168 b 1). Il teorizzamento della jilautia è uno degli elementi schiettamente platonici dell'etica aristotelica.
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e d'amicizia, da questo ideale amor di sé 69). È il caso di ricordarci, ora, di quel che si è detto poco fa del discorso di Agatone e del suo apparirci «innamorato» di sé 70). La parlata di Agatone è, anche per questo rispetto, il contrapposto perfetto del discorso di Socrate. L'amor di sé di cui parla Socrate, scoprendo al fondo di ogni eros questa tendenza alla nostra vera natura, non ha niente che fare con la soddisfazione o con l'ammirazione di sé stesso. Non c'è nulla che sia cosi alieno dalla jìlazaia socratica, come il narcisismo, al quale· una falsa interpretazione. psicologistica la potrebbe impa-. rentare. L'eros socratico è l'impulso di chi conosce la propria imperfezione, alla formazione spirituale di se stesso, sul modello, sempre presente, dell'Idea. Ed è proprio questo, quel che Platone intende per « filosofia»: il tendere a che nell'uomo prenda forma il vero uomo 71). Cosi, con questo porre l'oggetto di Eros in un sommo bene da lui desiderato, quello che appariva un mero impulso irrazionale, è da Platone spiritualizzato e riempito di significato profondo. D'altra parte, però, sembra che con questa interpretazione vada perduto il significato limitato, proprio e primo, di Eros, cioè il desiderio di un bello individuale, particolare. Anche a questo Platone cerca di render giustizia nella parte seguente del discorso di Diotima. Il problema che, in questo senso, deve esser affrontato per primo è: quale specie di attività o di tendenza merita, considerata dal superiore punto di vista ora raggiunto, il nome di Eros. La risposta platonica a questo quesito può sorprenderci, perché essa non sa affatto di
Eth. Nic. IX 4, 1166 a l ss., cfr. 1168 b I. Cfr. supra, p. 318 s. 71) Questa è la formulazione platonica nella Repubblica; cfr. infra, pp. 478, 616 s. 69 )
?O)
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moralismo o di elevata metafisica, ma è del tutto dedotta da un processo di natura, dall'amore fisico. Il nome di Eros spetta al desiderio di «generare nel bello» 72). Il modo volgare di veder le cose sbaglia solo in quanto limita questo impulso generativo al corpo, laddove, in verità, esso trova un'analogia perfetta nella vita spirituale 73). Il modo volgare è, però, limitato ma non del tutto erroneo, ed è bene partire dalla considerazione dell'atto generativo fisico, perché esso chiarisce la natura del corrispondente atto spirituale. La volontà generatrice :fisica è fenomeno che si estende molto oltre il mondo umano 74). Se si tiene per fermo che Eros è sempre, per ogni vivente, il desiderio di favorire la realizzazione del più proprio e più vero sé stesso 75), allora l'impulso generativo e riproduttivo di animali e di uomini si rivela in sostanza come il desiderio di lasciare dietro di sé qualcosa di identico a sé stesso 76). Durare eternamente, nella sua individuale essenza è interdetto a ogni vivente dalla legge della natura finita. Neppure l'Io umano, che pure ha coscienza di rimanere identico attraverso le varie fasi della vita, non possiede un'identità di tal sorta, un'identità assoluta, ma soggiace a un rinnovamento incessante, fisico e spirituale 77 ). Solo il Divino è sempre lo stesso, in senso assoluto. Perciò la generazione di un essere identico nella specie, o di specie identica, è l'unica via, per il mortale e finito, di conservarsi immortale. Questo è il significato di Eros che, come impulso fisico, è appunto la tendenza alla conservazione della nostra specie fisica 78). •2) 73) n) 75)
Symp. 206 b. Cfr. Symp. 206 h·c. Symp. 207 a ss. Cfr. supra, p~ 325. 76) Symp. 207 d. 77) Symp. 207 c. 78) Symp. 208 a-b.
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La stessa legge vale, secondo Platone, per la natura spirituale dell'uomo 79). L'identità, la personalità spirituale è costituita dall'areté che s'irradia, sotto l'aspetto di« fama», nella vita della comunità. Tutto ciò l'aveva già visto Omero e Platone seppe scavare in questa originaria e schiettamente greca concezione dell'areté SO). Era dunque assolutamente accettabile quel che Fedro aveva accennato nel suo discorso sull'amor dell'onore (cptÀo·nµ.loi:) come uno degli effetti di Eros 81); solo il significato di questa idea era molto più ricco di quanto egli non pensasse. L'eros spirituale è sempre generazione, desiderio di eternare se stesso in un atto o in un'opera d'amore, che duri nella memoria degli uomini e seguiti ad operare. Tutti i grandi poeti e artisti sono esseri forniti di questa virtù generante; ma tali sono nel grado massimo i creatori e i formatori di comunità statali e domestiche 82). Chi è gravido nell'anima di forza generatrice cerca un essere bello, per generare in lui. Se incontra un'anima bella nobile e di buona natura, fa festa dell'incontro e sente sovrabbondare in sé una piena di discorsi da farsi all'amato sulla areté, e sui costumi che deve avere un uomo onesto, e su quel che deve fare e desiderare; intraprende, insomma, a educarlo (èmx.e:tpe:~ "lt1Xt3e:ue:tv). E nel contatto e conversando con lui, egli dà alla luce e genera quello di cui era gravido. Presente e assente, egli ha l'altro sempre nella mente, e, in comune con lui, alleva ed educa il nato. Il legame che per questa creatura si stringe è più forte di quello dei figli di carne e l'amore è più durevole di quello dei coniugi, poiché i due amici hanno parte in una creatura più bella e immortale. •9) Symp. 208-209 a.
80) Cfr. voi. I, p. 39 e l'intero capitolo. 81) Symp. 178 d. B2) Symp. 209 a.
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Omero ed Esiodo, Licurgo e Solone sono per Platone i più alti rappresentanti in Grecia di questa sorta d'amore, perché, con le loro opere, generarono negli uomini ogni maniera di virtù. Poeti e legislatori sono pari nella virtù educativa, che nelle loro opere s;incarna. Per questo rispetto, Platone vede la tradizione spirituale greca, da Omero e Licurgo fino a se stesso, come un'unità. Poesia e :filosofia, per quanto i concetti che l'una e l'altra possiedono di verità e realtà siano diversi, sono però strette da un vincolo unificatore, dall'idea della paideia, che si genera dall'eros per l'areté 83). Il discorso di Diotima, con questo porre ogni attività spirituale creatrice nella luce di Eros, è rimasto :6.n qui sul terreno della più alta tradizione greca. L'interpretazione di Eros come forza educatrice, che connette tutto questo cosmos spirituale, appare una conquista, una rivelazione adatta per Socrate, nel quale questa forza stessa si incarna ancora una volta in tutta la sua purezza. Ma Diotima si domanda dubbiosa se egli sarà davvero capace di ricevere i gradi più alti dell'iniziazione e di elevarsi alla vetta della contemplazione suprema 84). Poiché l'oggetto di una tale con· templazione è l'idea del bello, sembra ovvio pensare che Platone abbia voluto significare in questo accenno il punto fino al quale è arrivata l'indagine propriamente socratica e donde comincia la sua, superatrice. Già in quel che fin qui è stato esposto si poteva chiaramente ravvisare un processo graduale dal corporeo allo spirituale. Nella parte finale del discorso, questo processo diventa il principio fondamentale di tutta la struttura teorica. Platone, seguitando a valersi dell'immagine dei sa) Symp. 209 b-e. 84) Symp. 210 a.
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misteri, traccia tutto un sistema di gradi (èmltvcx.~ix&µo(), sui quali ascende, o per intimo impulso, o condotto da altri, l'uomo vinto dal vero Eros 85). A questa ascesa spirituale egli dà, alla fine, il nome di «pedagogia» 86). Qui non è più il caso di pensare alla virtù educat~ce dell'amante sull'amato, di cui si è parlato fin qui e di cui, anchè qui, Platone fa cenno 87): Eros è descritto, ora, come forza educatrice anche per l'amante, come quella che lo conduce di grado in grado, in alto. Questa ascesa comincia nella prima giovinezza con l'ammirazione della bellezza corporea di un essere umano. L'ammiratore, cosi, è infiammato e ispirato a «nobili discorsi» 88). Egli si accorge ben presto, però, se veramente- è servo di Eros, chiamato ad amare, che la bellezza di un corpo è sorella di quella di un altro, ed ama la bellezza in tutti e la riconosce come identica sempre. Cosi il vincolo di dipendenza da un solo individuo perde a poco a poco di forza. Ciò non significa, naturalmente, una vita di indiscriminate avventure amorose, ma soltanto il formarsi e il crescere del suo senso per la bellezza in sé. Ed ecco che egli comincia a notare anche la bellezza dell'anima e a pregiarla più della corpo~ea e a preferire, perfino, la bellezza e l'incanto dell'anima, quand'anche essa non dimori in un corpo fiorente 89). È questo il grado in cui il suo amore diventa forza educatrice anche per l'altro e ispira all'amatore discorsi capaci di far migliori i giovani 90). Ora egli può riconoscere il bello, come unica essenza, in tutte le operazioni e leggi umane - nn Symp. 88) Symp. 87) Cfr. il Diotima). 88) Symp. 89 ) Symp. 90) Symp. 86 )
211 c. 210 e. discorso di Pausania e inoltre 209 e (discorso di 210 a. 210 b. 210 c.
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chiaro accenno, questo, alla funzione sinottica della dialettica che Platone ha descritto altrove. A ritrarre questo processo dialettico, per cui dal bello molteplice e visibile si ascende alla sintetica visione dell'invisibile « l.>ello in sé», mira tutta la descrizione della iniziazione graduale ai misteri di Eros. Il processo termina con la conoscenza della bellezza di ogni scienza. Ora l'amante è liberato dalla schiavitù che lo legava con le catene della passione a una singola persQna umana. o a una singola attività prescelta 91). Egli si volge orinai all' «infinito mare del bello» finché, :finalmente, percorsa interamente tutta la via del sapere, attraverso ogni forma di scienza, egli mira la divina bellezza nella sua forma pura, sciolta da tutte_ le singole apparenze fenomeniche e relazioni 92 ). Platone contrappone alle «molte belle scienze», Punica scienza (µ.cf.\hiµ.ot), il cui oggetto è il bello in sé 93). «Belle» sono dette da lui le scienze, non certo nel senso in cui, in tempi moderni, si è parlato di « belle» lettere. Le scienze tutte, di ogni genere, hanno per lui la loro propria bellezza, il loro valore e significato particolare. Ma ogni conoscenza del particolare deve trovar conclusione nella conoscenza del bello in sé 94). Anche questa affermazione suona strana per noi, inclinati a intendere «bello», in senso estetico, prima di tutto. Ma Platone, con parecchi chiari accenni, ci ammonisce di guardarci da una tale interpretazione, puramente estetica. Per lui è veramente degna di esser vissuta soltanto una vita che si spenda nella contemplazione continua di questa bellezza eterna 95). Non si tratta, è 91) Symp. Symp. 93} Symp. 9 •) Symp. 96) Symp.
92)
210 d. 210 e. 211 c. 211 d. 211 d.
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LIBRO I!I - ALLA RICERCA DEL DIVINO
chiaro, di una vetta isolata di contemplazione, di un momento solo di esaltazione estatica, ma di un'intera esistenza umana da trascorrersi con quel « fine» (-tiÀoç) dinanzi agli occhi 96). Ma è chiaro altresi che Platone pensa ancora meno a una vita che sia un solo ininterrotto sogno di bellezza, sottratto a ogni realtà. Ricordiamo, a questo punto, quel che Diotima ha detto prima sull'essenza di Eros, definendolo come la tendenza ad avere« sempre» per sé il Bene 97). Anche là si parla di un possesso duraturo, di una virtù efficace che compenetra di sé una vita intera. Il« bello in sé», o, come Platone lo chiama proprio in quel luogo 98), il« divino bello in sé» non è fondamentalmente diverso di significato dal Bene, di cui ll si parla. La scienza (µoc.&"IJ!J.OC) del bello, posta come meta finale di quel viaggio nel regno delle scienze particolari che si descrive nel Simposio 99), corrisponde all'idea del bene e alla sua posizione dominante nel sistema della paideia descritto nella Repubblica, dove anche l'espressione che Platone usa è simile: «il massimo oggetto di scienza» (µ1yLa't'ov µoc&"l]µoc) 100). Il Bello e il Buono sono soltanto due aspetti, strettamente affini, di una e identica realtà, che perfino il comune uso linguistico, in greco, fonde in un concetto unico, designando la suprema areté umana come « l'esser bello e buono» (xccÀox&yoc&Ecc). In questo « Bello» o in questo « Buono»; in questa kalokagathia contemplata nella sua pura essenza, noi scorgiamo il supremo principio di ogni volere e agire llÌD.ano, la sua causa motrice ultima, agente per intima necessità, che è al tempo •6) Symp. 97 ) Symp. 98) Symp. 99 ) Symp. 100) Resp.
211 h. 206 a. 211 e. 211 c. 505 a.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO
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stesso la causa motrice di ogni accadimento della na· tura. Ché per Platone esiste un'assoluta armonia tra il cosmos fisico e quello morale. Già nei primi discorsi su Eros era stata rilevata questa tendenza, a lui insita, al bello morale, manifestantesi nel desiderio d'onore dell'amante, nella cura che egli si prende della eccellenza e perfezione del1'amato. Così Eros ha avuto il suo posto nell'edificio etico della convivenza umana. Cosi pure, quando Diotima descrive i vari gradi dell'iniziazione d'amore, essa fa cenno, fin dal grado più basso, quello dell'amore per la bellezza corporea, ai « discorsi belli » che un tale amore ispira. E per « discorsi belli» sono da intendere quelli che rivelano senso e gusto di cose alte, di idealità, di onore. Le attività e le scienze belle, che rappresentano il grado seguente sono, anch'esse, non puramente di natura estetica, ma comprendono il buono e il perfetto, tutto quello cioè che dà significato a ogni sorta di scienza e di azione. Il progresso dunque rivela sempre più chiaramente che il bello non è solo un rag· gio di luce che cada a illuminare un punto solo del mondo visibile, ma è la tendenza, insita in ogni cosa e in ognuno, al buono e al perfetto. Quanto più si ascende, quanto più ci si spiega dinanzi agli occhi il quadro di un mondo tutto dominato da questa forza, tanto più cresce in noi il desiderio di contemplarla nella sua purezza e di comprenderla come causa motrice della vita. Però, questa liberazione dell'idea universale del bello dalle sue finite apparenze non ha per conseguenza, nella vita pratica, che l'uomo giunto alla conoscenza debba liberarsi dal mondo e straniarsi da esso. Anzi per essa, e per essa soltanto, egli diventa capace di comprendere a pieno tutta la realtà concreta, in quanto è dominata dalla forza onnipresente del principio del bello, e di realizzare consapevolmente nella su~ stessa esi-
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
stenza questo principio. Giacché, quello che l'uomo ha scoperto, nel mondo esteriore, coni.e causa universale dell'essere, egli, nell'atto in cui lo spirito si affi.sa in se stesso ael raccoglimento supremo, lo riscopre in sé, come la sua più vera natura. Se coglie nel segno la nostra interpretazione di Eros, per la quale l'impulso ad «avere sempre per sé il bene» è il·vero e rettamente inteso amor di se stesso, l'oggetto di questo impulso cioè l'eternamente Bello e Buono, non può essere che il cuore vero di questo «se stesso». Cosi, il significato profondo di quel processo graduale che Platone chiama qui «pedagogia» è che per esso si forma la vera natura umana, dalla materia grezza dell'individualità, e viene a fondarsi, su quel che in noi è eterno, la personalità. Lo splendore di cui Platone circonfonde, nel descriverla, questa invisibile idea del «bello» irraggia dalla luce intima allo spirito, che ha trovato in essa il suo centro, la sua causa essenziale. Non c'è bisogno di diffondersi sul significato urna. nistico di questa teoria di Eros, che lo concepisce come l'impulso innato dell'uomo allo spiegamento e sviluppo del suo io superiore. Il pensiero ritorna nella Repubblica, quando si afferma che senso e scopo della paideia è di condurre l'uomo a dominare nell'uomo 101). La distinzione dell'uomo, come individualità intesa naturalisticamente, e della umanità superiore che costituisce il vero io, è la base di ogni umanesimo. Che questa base si sia potuta porre e con tale consapevolezza 6losofica, si deve a Platone, che nel Simposin, per la prima volta, svolse questa concezione. Ma l'umanesimo, in Platone, non rimane astratta teoria. Come ogni altro elemento della sua filosofia, esso si sviluppa 101)
Resp. 589 a., cfr. infra, p. 616.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO
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dalla meditazione sulla straordinaria e unica personalità di Socrate. Perciò è troppo ristretta ogni iriterpretazione del Simposio che miri solo a sceverare il nocciolo dialettico dall'insieme delle parlate e soprattutto dalla rivelazione :filosofica di Diotima. Questo nocciolo esiste, senza dubbio, né Platone si preoccupa mai di dissimularlo. Ma sarebbe errato credere che il vero scopo di Platone sia stato di offrire al lettore esperto di dialettfoa, la soddisfazione di scoprire il puro contenuto logico, di sotto a un cosi vario e molteplice velame di figurazioni sensibili. Infatti, il dialogo non si conclude con lo svelarsi dell'idea del bello e con l'interpretazione filosofica di Eros. Esso culmina nella scena iri cui Alcibiade, alla testa di una schiera di compagni avvinazzati, irrompe nella casa, ed esalta Socrate, iri un discorso audacissimo, come maestro di Eros, iri quel senso altissimo che il discorso di Diotima ha svelato. La serie degli encomii di Eros si chiude dunque con l'encomio di Socrate. Eros s'iriearna iri lui, Eros che è anche filosofia 102). Socrate è attratto dalla sua passione di educatore 103), verso i giovirietti belli e di alte doti, ma, nel caso di Alcibiade, la profonda forza attrattiva che emana da Socrate rovescia il rapporto consueto di amante e amato, sicché, alla :fine è Alcibiade che invano desidera l'amore di Socrate. Per il modo di sen1°2 )
Quest'ultimo passo è preparato dal discorso di Diotima.
204 a. 1 03) Socrate costituisce l'esempio tipico di quell'impulso educativo (è1nxs:tps:t: 1toctlìs:us:w, 209 b), in cui Diotima vede il sintomo infallibile dell'amore per ogni bella e nobile anima. Egli incarna appunto quello stato intermedio dell'aninla tra conoscenza e ignoranza, in cui essa è affaticata in una perpetua ricerca di conoscenza. E, pertanto, il discorso di Diotima è da capo a fondo· un'analisi dell'indole socratica. Questa è in tutto e per tutto mossa da Eros. Ma quando Eros viene ad abitare in un'anima di tale altezza. Eros stesso appare mutato e sottoposto alla legge di Dio. Certo Platone direbbe che occorreva un Socrate perché Eros manifestasse la sua vera natura di forza capace di innalzare la natura umana alla divina.
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L LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVJNO
tire greco è proprio il colmo del paradosso che il giovinetto bellissimo, oggetto dell'ammirazione di tutti, si metta ad amare quell'uomo di grottesca bruttezza; ma si esprime potentemente nel discorso di Alcibiade il nuovo senso, proclamato dal Simposio, per il valore della bel· lezza interiore, quando egli paragona Socrate con le statuette dei Sileni che gli scultori tengono nelle loro botteghe, che quando uno le apre, son piene di belle immagini di dei 104). Alla fine del Fedro, Platone fa pronunziare a Socrate una preghiera, in cui egli chiede la bellezza interiore; ché d'altro non ha bisogno. Ed è l'unica preghiera, questa, in tutto Platone, il mo· dello e l'esempio di come prega il filosofo 105). In Alcibiade, nel suo amore per Socrate c'è un'alta tra· gicità. Lo ama ma pur rilutta a lui e cerca di sottrarglisi; perché Socrate è la: sua stessa coscienza accusa· trice 106). È il tragico, questo, di un'anima altamente disposta al filosofare che degenera poi, per ambizione, in quell'uomo bramoso di successo e di potenza, che Platone ritrae nella Repubblica 107). La sua complicata psicologia - ammirazione e venerazione per Socrate, ma mescolate di paura e d'odio-egli la mette a nudo nel superbo discorso-confessione alla fine del Simposio. È in essa l'ammirazione istintiva del forte per quello che egli vede in Socrate di vittoriosa fortezza, e l'avversione del debole, dell'ambizioso, del geloso per la grandezza morale di una personalità vera, che, egli lo sente, non raggiungerà mai. Qui Platone volle anche rispondere tanto a coloro che, come il sofista Policrate nella sua « accusa», avevano imputato a Socrate un
104) :Symp. 215 a-b. 105) Phaedr. 279 h-c. 1os) Symp. 215 e-216 c. 107) Resp. 490 e ss.
CAP. VIII: IL SIMPOSIO
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discepolo come Alcibiade, quanto a Isocrate che trovava ridicolo fare di un uomo così grande uno scolaro di Socrate 108). Alcibiade avrebbe certo voluto essere scolaro di Socrate, ma la sua natura non era capace di dominare sé stessa 109). L'eros socratico poté accender· glisi, un istante, nell'anima, ma non si affermò fiamma duratura. io•) lsocr. Busiris 5 ss. l09) Alcibiade rappresenta il tipo di uomo più adatto perché Platone possa chiarire col suo esempio il vero e specifico intento di Socrate: è il giovane geniale che « si affaccenda per gli affari degli Ateniesi e non si occupa di se stesso (&µe:ì.e:'L) sebbene ne abbia tanto bisogno» (Symp. 216 a). Questo contegno è l'opposto del precetto socratico, èmµe::ì.e:i:a.&ix~ -r'ijc; tjiux'ijc; (cfr. supra, p. 60 ss.). Alcibiade vorrebbe edificare lo Stato, prima di avere edificato « lo Stato in se stesso» ( cfr. Repubblica, alla fine).
CAPITOLO
NONO
LA REPUBBLICA
I. Introduzione. - Il pensiero di Platone è voltò fin dagli inizi a risolvere il problema dello Stato. Dissimulato dapprima, questo problema viene sempre più chiaramente in luce come il fine di tutto lo sforzo dialettico delle opere giovanili platoniche. Le indagini socratiche sulle virtù, come si è visto, mirano, già nei dialoghi minori, alla virtù politica 1), e nel Protagora e nel Gorgia la scienza socratica del Bene in sé, è presentata come l'arte politica, l'arte sanatrice per eccellenza 2). Chi non perde di vista questo fatto, non ha neppure bisogno della testimonianza autobiografica offerta dalla lettera Vll 3), per ravvisare nella Repub-
l-) Cfr. supra, p. 160 s. 2 ) Cfr. supra, pp. 187, 217
8S.
Cfr. p. 163 ss. Nella immensa letteratura sulla Repubblica sono da citare, come i libri che più specialmente interessano lo storico della paideia: E. BAllKER, Greek Political Theory, Londra 1905; R. L. NETTLESlllP, Lectures on the Republic of Plato, Londra 1901; e, dello stesso autore, The Theory of Education in the Republic of Plato, Chicago 1906. Inoltre, J. STENZEL, Platon der Erzieher, Lipsia 1928, contenente penetranti interpretazioni di passi scelti della Repubblica e concetti di fondamentale portata filosofica, e P. FRIEDLANDER, Die platonischen Schriften, Berlino 1930, p. 345 88. 8)
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LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO
blica l'opera centrale di Platone, quella in cui confluiscono le linee essenziali delle opere precedenti. Per lungo tempo, commisurando l'opera platonica a schemi di pensiero posteriori, si è andati cercando in essa il « sistema», finché si è creduto di acquetarsi nel constatare, che il filosofo, o per motivi artistici o per motivi di natura critica, non tendeva, al modo di altri pensatori, alla salda struttura di un edificio dottrinale, ma voleva mostrare la conoscenza nel suo farsi. Non sfuggì però agli interpreti più acuti che, anche riguardo al contenuto costruttivo, sussistono differenze grandi tra i varii dialoghi platonici. Tra. tutti il più costruttivo è quello che s'intitola alla Repubblica, allo Stato. Il che porta a concludere, appunto, che la forma espositiva più fortemente unitaria parve a Platone, non quella astrattamente logica del sistema, ma quella del quadro, plasticamente efficace, dello Stato che gli consentiva di abbracciare tutto l'ambito dei suoi problemi etico-sociali, al modo stesso che nel Timeo la fisica non è svolta come sistema logico della natura, ma come l'immagine, di immediata e plastica ~videnza, di tutto il cosmos nella sua origine e formazione 4). Che cosa, però, significa, per Platone, lo stato ? La sua Politeia non è una trattazione di diritto pubblico o di arte di governo, di legislazione o di politica, nel senso moderno. Platone non prende le mosse dallo studio di una nazione, storicamente data, coine l'ateniese o la spartana, e, benché egli tenga presenti di proposito situazioni e circostanze greche, non si sente
') La parola« sistema» (aua-.riµoc) per designare un edificio dottrinale, scientifico o filosofico, non s'incontra prima dell' ellenismo ed è c~atteristica della visione della scienza propria di quell'età. La parola non è usata con questo significato neppure da Aristotele, nel quale siamo soliti di vedere il sistematico per eccellenza.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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però legato a nessuna regione; a nessuna città in particolare. Nemmeno menzionate sono le condizioni :fisicogeogra:fiche dello stato; Platone, non s'interessa ad esse, in questo contesto, né dal punto di vista geologico né da quello antropologico. L' « allevamento» del quale Platone parla non prende affatto in considerazione la totalità del popolo come razza. La gran massa della popolazione, i suoi movimenti di persone o di merci, i suoi costumi e le condizioni di vita, tutto ciò è escluso dalla trattazione, o tutt'al più, periferico. Traccia di tutto ciò si cercherà forse nella trattazione del « terzo stato» platonico, il quale, però, è soltanto oggetto passivo di governo 5 ) e non è, neppur come tale, sot· toposto a studio particolare. Sono tutti aspetti questi, della vita di uno stato, per i quali Platone, come non stabilisce, così non registra una norma; ma li lascia, semplicemente, da parte come privi d'importanza essenziale. Per contro, si stende per libri interi la discussione sulla poesia e sulla musica (Il. 2-3); la questione del valore. delle scienze astratte occupa il centro dell'opera (5-7), e, infine, nel 10° libro si ritorna ancora alla poesia per esaminarla da nuovi punti di vista. Sembra fare eccezione l'indagine condotta nei libri 30 e 90 sulle varie forme di costituzione. Ma, anche qui, si rivela ad una più attenta osservazione, che le forme di costituzione sono vedute dal filosofo soltanto in funzione di atteggiamenti e forme dell'anima, che in esse si esprimono. Le cose stanno così anche per il problema della giustizia, il problema iniziale di tutta la trattazione e da cui si sviluppa tutto ciò che segue. Un tema, questo, di va-
i;) Questo fatto è strettamente connesso col rigoroso paralle~ lismo istituito tra stato e anima: il« terzo stato» interessa Platone solo come immagine dell'elemento istintivo dell'anima umana.
1030
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
stità incomparabile per il giurista, e non per il giurista del nostro tempo soltanto, ma anche per il tempo di Platone, nel quale venne al mondo, per la prima volta, la scienza politica comparata. Eppure, anche qui, nessun interesse per la vita giuridica reale; l'esame del problema : « che cos'è la giustizia ? » sbocca nella teoria delle «parti dell'anima» 6 ). E, in realtà, è questo, dell'anima dell'uomo, il tema vero e l'interesse fondamentale di Platone nella Repubblica. Quel che egli dice, propriamente, sullo stato e sulla sua struttura, quella che si suol chiamare la concezione organica dello stato, nella quale molti vedono il nucleo della Politeia platonica, è introdotta soltanto come immagine ingrandita dell'anima e della sua struttura. Anzi: nello stesso problema dell'anima l'interesse primo di Platone non è teoretico ma pratico : è l'interesse del formatore di anime. La formazione dell'anima è la leva che il suo Socrate adopra per sollevare l'intera mole dello stato. Il significato dello stato, svelato da Platone nell'opera capitale, non è diverso da quello che ci facevano aspettare i dialoghi precedenti, il Protagora e il Gorgia. Esso è educazione, nella parte essenziale, e più alta, della sua natura 7). Dopo tutto quel che si è visto fin qui, questo modo platonico di descriver lo stato, non dovrebbe sembrarci strano. Platone chiarisce, con la sua trattazione filosofica, come la_ comunità statale sia una delle condizioni permanenti per la paideia del-
6 ) Cfr. infra, p. 413. Platone pensa alle diverse attitudini «morali» dell'anima, alle varie forme (etal)) assunte dalla sua attività morale. 7 ) Il ,commentatore neoplatonico Porfirio osserva giustamente che in Platone la teoria delle parti dell'anima non è psicologia in senso genetico, ma psicologia morale. Questa teoria non è adottata da Aristotele nella sua opera sulla psicologia, mentre egli se ne serve nelle sue opere etiche. Ha un valore « pedagogico». V. il mio Nemesios von Emesa. Berlino 1913, p. 61.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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l'uomo greco 8). In pari tempo però, egli, ponendo in primo piano la paideia, intende mostra.re un aspetto dello stato: aspetto ormai infiacchito, la cui .decadenza è per lui causa prima della progrediente degenerazione nella vita statale del suo tempo. Cosi, paideia e politeia, delle quali, anche al suo tempo, ben pochi vedevano chiari i rapporti d'interdipendenza, diventano i punti focali della sua opera. Una volta che le cose si son cominciate a vedere sotto questo aspetto, non c'è nulla di più sorprendente dell'osservazione, fatta da un eminente storico della filosofia di formazione positivistica, che trova, sì, nella Repubblica, copia di pensieri affascinanti, ma si adom· bra perché in essa si parla tanto di educazione 9 ). Tanto varrebbe dire che la Bibbia è, si, un libro geniale, ma che in essa si parla troppo di Dio. Ma non è il caso di sorridere, perché questo atteggiamento non è un caso isolato. Esso anzi è tipico di quella mancanza di intendimento che il sec. XIX ha mostrato di fronte a quest' opera. La scienza, che si era elevata a superba al8 ) Più di una volta si è già messo in rilievo questo aspetto educativo della polis; cfr. vol. I, pp. 155, 206, 548. Ma per Platone, a questo proposito, non si tratteLV, 8~ocypci q>etv}, vorrebbe soppresse intere parti dell'epos, e non si farebbe scrupolo di rifare qua e là i poeti, al modo di cui dà dimostrazione pratica più tardi, nelle Leggi 75). A chi è filologicamente educato al rispetto e alla conservazione della tradizione, tutto ciò fa l'effetto del più deplorevole arbitrio e violenza. La parola originale del poeta è sacra per lui. Ma questo .modo di ve74) Platone comincia con una critica dei miti relativi agli dei ispirata alle esigenze di una pietà (e:ùai~e:tci:) autentica (da 377 e fino alla fine del secondo libro). Col libro terzo comincia la critica di quei luoghi dei poeti che offendono l'ideale della fortezza, e a questa si attacca (389 d) la critica relativa al dominio di sé. Tutte e due queste parti si riferiscono alla rappresentazione poetica degli eroi. Sembra poi che dehha immediatamente seguire la critica alla rappresentazione degli uomini: e quest'ultima dovrebbe essere esaminata in confronto all'ideale della giustizia (392 a. c), che è l'unica virtù di cui ancora rimanga da trattare. Ma Platone rimanda questa parte della sua critica, giacché è necessario prima che si ven11:a in chiaro sulla natura della giustizia. 71) Cfr. « Paideia» III 382, n. 31 e 384.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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dere in noi connaturato e ormai istintivo è il prodotto di una cultura giunta all'epilogo che conserva le opere del passato come tesori, salvi per fortunato caso, e non vede che un'unica ragione per operare in essi un cambiamento: che si possa, mercé una fonte testuale più pura, ricostruire nella forma originaria la scrittura dei poeti. Non cosi nei tempi in cui la poesia era ancora operante nella vita. E, a guardar meglio, si scorge che c'era stato prima di Platone buon numero di spunti e tentativi, nel senso dell'esigenza platonica di rifare i poeti, che fanno apparire in una luce meno cruda la violenza che egli vorrebbe esercitare sui testi. Solone, p. es., invita il suo contemporaneo Mimnermo a rifare un verso, ormai già di pubblico dominio, perché vi era espressa la sentenza, ispirata a un morbido pessimismo, che l'uomo dovesse morire raggiunti i sessant'anni: «Leva sessanta», gli dice Solone «e mettici ottant'anni » 76). E tutta la storia della poesia greca mostra parecchi esempi di poeti che volendo ribattere o correggere le idee di un predecessore sulla più alta areté umana, si tengono sensibilmente aderenti alla poesia di lui e mettono · nelle vecchie botti il vino di un nuovo pensiero 77). Si tratta. spesso di un vero e proprio rifacimento dell'antico. Anche nella tradizione :rapsodica orale della poesia omerica ed esiodea, e molto più spesso di quanto noi oggi si possa dimostrare, questo motivo dové condurre ad alterazioni e rifacimenti nel senso che più andava a genio ai poeti. Questo singolare fenomeno è comprensibile, na· turalmente, solo nel quadro del valore, conferito alla 73) Sol. fr. 22 Diehl. .• 77 ) lo stesso, nella memoria Tyrtaios. Uber die wahre Arete (« Sitz. Ber!. Akad >>. 1932, p. 556) ho esaminato un certo numero di esempi significativi di un tal modo di ritrattare poesie famose e di gi:ande autorità•.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
poesia, di autorità educativa, valore che, come fu ovvio per gli uomini di quella età, cosi è divenuto estraneo al nostro pensiero. Rifacimenti di questo genere servono, in modo ingenuo, ad adattare tutto ciò che è divenuto classico al mutato sentire etico, e con ciò gli fanno in qualche modo il più grande onore. Questa epart6rthosis fu accettata poi universalmente dai filosofi. nelle loro interpretazioni di poeti, e dai filosofi. passò in eredità agli scrittori cristiani: «Conia a nuovo la moneta» fu la massima di una tradizio:tte non ancora estinta, ma rimasta attiva nell'opera di creazione finché i suoi rappresentanti ebbero la coscienza di partecipare ad essa, come cooperatori e conservatori di vita 78). Perciò il rimprovero che si suol fare a Platone di una razionalistica inintelligenza dei poeti del passato non va esente esso stesso da una certa mancanza d'intendimento storico, per il significato che ebbe P.er Platone e per i contemporanei la tradizione poetica del popolo greco. Quando egli, p. es., nelle Leggi vuole che l'antico poeta· spartano Tirteo, rimasto ·sempre la Bibbia del popolo spartano, poeta che aveva esaltato la fortezza come il coronamento supremo della virtù virile, sia accomodato in modo che la giustizia prenda il posto della fortezza 79}, noi sentiamo immediatamente qual potere di suggestione debba avere avuto la poesia di Tirteo sull'animo di colui che credeva, proponendo di correggerlo, di compiere un doppio dovere, verso il poeta e verso la verità. Platone, però, non procede con quella ingenuità che era stata propria dei più antichi rifacitori della sapienza poetica. Sulla sua severa maschera censoria aleggia un fiato d'ironia. Egli non si mette a discutere 78) Cfr. in proposito, ED. NoRDEN, Agnostos Theos, p. 122 (e Nachtriige, p. 391). 79) Legg. 660 e-f.
CAP. IX: LA REPUBBUCA, I
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con quelli che vogliono dar la sua parte al godimento estetico e argomentano che la pittura omerica dell'Ade, facendo più poetica la poesia, la rende di maggior godimento per i più. Quanto più quelle scene sono poetiche, tanto meno è opportuno che le ascoltino ragazzi e uomini destinati ad essere liberi e decisi sempre a preferire la morte alla servitù 80). Così pure Platone taglia da Omero, senza misericordia, tutti i lamenti funebri per gli eroi, ma anche è spietato per il riso infinito degli dei d'Olimpo, perché esso induce gli ascoltatori ad indulgere eccessivamente al piacere di ridere. Descrizioni di illegalità, di brama di godimento, di avidità, di corruttibilità sono espunte da lui, come rovinose. Lo stesso genere di critica si applica ai caratteri dell'epos 81). Achille che per il corpo di Ettore accetta il prezzo del riscatto e. il risarcimento da Agamennone, ferisce il senso morale di un'età più tarda, come il suo Fenice che gli consiglia di riconciliarsi, a prezzo, con Agamennone. Così non meritano fede· te parole di sfida che Achille rivolge· al dio fluviale Sperchéo, i suoi insulti ad Apollo, lo strazio del corpo del nobilissimo Ettore, l'uccisione dei prigionieri sulla pira di Patroclo. O la morale degli eroi omerici induce ad escludere la loro divinità, o le descrizioni che li ritraggono non sono veraci 82). Platone non trae da da tutto ciò la conseguenza. che l'epos ha in sé molto di arcaico e di rozzo, in quanto rispecchia il modo di 80 ) Il IUogo è istruttivo per il rapporto di quel che noi chiamiamo godimento artistico col compito della -poesia, nel senso dei Greci, di formare anime umane. L'uno non esclude l'altro; anzi quan:to più intenso è il godimento tanto più grande è la potenza. formatrice di un'opera d'arte su chi la osserva. Perciò è comprensibile che l'idea del potere formativo della poesia sia nata proprio nel popolo più artista del mondo, nei Greci, che ebbero in grado supremo la capacità del godimento estetico. Bl) Resp. 387 d ss., 389 e. 82) Resp. 390 e ss.
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LIBRO Ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO
pensare di un'età primitiva, ma insiste nell'affermare che, mentre i poeti debbono, e vogliono, presentare esempi della più alta areté, gli uomini d'Omero spesso non sono affatto esemplari. Di fronte a una tesi come questa, chi si mettesse a spiegare storicamente il difetto omerico sarebbe assolutamente fuori strada e riuscirebbe inefficace, perché una tale spiegazione pri· verebbe del tutto la poesia del valore normativo su cui si fonda ogni suo titolo ad ammaestrare e guidare gli uomini. È necessario un metro di valore assoluto per valutarla, e perciò alla poesia non rimane che ce· dere il campo o sottomettersi all'impero della verità che Platone le contrappone 83 ). Questa verità è l'op· posto assoluto di quel che noi chiamiamo realismo artistico, atteggiamento che la generazione precedente a Platone aveva già conosciuto. La rappresentazione di malvagità o debolezze umane o di apparenti defi· cienze nel divino ordine del mondo concerne solo il lato fenomenico della realtà, non la sua essenza, t:ome la concepisce la filosofi.a platonica. Con tutto ciò non viene in mente a Platone, neppure un momento, che la poesia possa esser sostituita, nel. suo potere educativo, dalla conoscenza astratta propria della filosofia. Anzi l'aspra energia che anima tutto il dibattito si spiega solo con la convinzione profonda che niente possa sostituire la potenza formatrice delle immagini poetiche provate dai secoli. E, posto che la filosofia riesca a cogliere la conoscenza liberatrice di una norma suprema, Platone sente che, con questo, il compito educativo è assolto sol 0 per metà, finché la verità nuova non ha informato di sé, come anima un corpo, una nuova poesia. L'e:Qicacia delle opere musicali e poetiche non sta sofo nel contenuto, ma nella forma, prima di 83)
Resp. 391 d.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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tutto. E con ciò sì giustifica che la critica platonica della educazione musicale tradizionale consti di due parti principali: critica dei miti e critica di lingua e stile 84). Di particolare interesse è la trattazione dell'elocuzione poetica (ì..&;Li;) perché essa mette in luce per la prima volta certi fondamentali concetti che s'in· contrano svolti sistematicamente in un più vasto con· testo, solo nella Poetica aristotelica. Non però da un interesse per l'arte poetica in se stessa è animata la teoria di Platone: la sua poetica è critica della poesia in quanto paideia. Mentre egli precedentemente deduceva tutte le arti dalla comune radice del diletto prodotto dall'imitazione 85), si nota ora che il concetto della mimési viene limitato, nella classificazione dei modi di discorso poetico, alla imitazione drammatica in senso stretto. La classificazione è la seguente: 1 o atteggiamento puramente narrativo, come quello p. es. del ditirambo, 20 rappresentazione per mezzo di imitazione drammatica, 30 rappresentazione mista di narrazione e imitazione, nella quale l'Io del narratore si cela, come avviene nell'epos, dove narrazione e discorso diretto, elemento drammatico, si alternano 86). Platone illustra con esempi particolareggiati tratti dall'Iliadè questa sua trattazione: evidentemente egli non può fare assegnamento sulla familiarità dei lettori con tali criteri. Essi sono ancora una novità. 84) La trattazione sui miti si conclude con 392 c. Ad essa succede la critica dello stile. 85) Ciò è rilevato, sia pur di passaggio, in 373 b; cfr. anche quel che è detto, 377 e, sul« ritrarre» (dx~~etv), che è compito co· nmne del poeta come del pittore. 86 ) Resp. 392 d. Il concetto di imitazione di cui Platone fa uso in questa classificazione dei generi poetici non significa copia fatta dall'uomo di questo o quell'oggetto naturale, ma quel processo per cui la personalità del poeta o dell'attore, quando egli parla non in persona propria ma altrui, si configura a simiglianza della personalità aliena (oµotouv Éo:u-r6v).
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Anche qui sorge la questione quali di questi vari modi possano essere ammessi nello stato ideale. Il criterio decisivo per risolverla è unicamente questo: che cosa si richiede per l'educazione dei guerrieri. Tenendosi strettamentè al principio che ciascuno debba conoscere a fondo il proprio mestiere e non occuparsi di niente altro, Platone chiarisce che la tendenza e la capacità di imitare molte altre cose non si concilia con le qualità di un vero « custode» della patria. Anzi normalmente neppure un attore tragico è buono interprete di commedia, e un declamatore raramente è adatto a una parte drammatica 87). I «custodi» sono una categoria professionale che deve intendersi di un solo mestiere: quello di difendere la libertà dello stato 88). L'antica paideia non si era proposta di formare specialisti, ma solo buoni cittadini, muniti di una conveniente preparazione generale ai loro compiti. Anche Platone, certo, prende esplicitamente in considerazione per la formazione dei guerrieri quell'antico ideale di kalokagathia 89). Ma, valendosi di un confronto, naturalmente sfavorevole, fra i tentativi di dilettanti d'arte drammatica e l'alto grado di specializzazione degli attori professionali del suo tempo, egli ravvisa nel problema dell'ammissibilità della poesia drammatica nell'educazione dei guerrieri un punto di conflitto tra due diverse attitudini speciali, che meglio farebbero, secondo lui, a nQn impacciarsi a Vicenda. In un genio universale come Platone sembra strana questa dichiarata predilezione per i limiti della specializzazione; strana ma psicologicamente comprensibile. Essa è un segno chiaro di un conflitto intimo, di un dissidio che, qui come in altri punti, condusse Platone a soluzioni in 87)
88) 89 )
Resp. 395 a. Resp. 395 h-c. Resp. 396 h.
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qualche modo sforzate. Dal fatto che la natura umana« è divisa in parti minute» egli trae la conseguenza che per un soldato è meglio essere deliberatamente unilaterale 90). Però, accanto a un argomento come questo, di rigida ed esagerata astrattezza, sta un'affermazione profonda di verità, cioè che l'imitazione, specialmente se prolungata, influisce sul carattere dell'imitatore. L'imitazione è sempre una mutazione spirituale, un abbandono temporaneo della propria forma spirituale, e un assimilarsi alla natura del modello, migliore o peggiore che questo sia 91). Perciò Platone limita i contatti d.ei guerrieri con le rappresentazioni drammatiche, col non permettere che essi interpretino se non personaggi rappresentativi di genuina areté. Vieta assolutamente l'imitazione di donne, di schiavi, di uomini di carattere o di contegno volgare e di persone « banausiche», di ogni genere, che non possono pretendere alla kalokagathia. Anche le voci degli animali, il rumore di un fiume scorrente, il fragor del mare, il tuono, il fruscio del vento, lo scricchiolar delle ruote, son tutti suoni che un giovane di contegno elevato non deve imitare, se non talvolta per scherzo 92). C'è una lingua dell'uomo nobile e una dell'uomo ordinario, e, se colui che vuol essere soldato imita ·qualche cosa, soltanto la prima 90) Resp. 395 h. 111 ) È eVidente che questo carattere non compete a quella imitazione in senso lato che si è distinta (v. sopra n. 86), dall'imitazione del poeta o dell'attore drammatico, ma solo a quest'ultima, che per Platone comprende anche i discorsi dei poemi epici. Questo genere d'imitazione che impronta fortemente corpo, voce, carattere dell'imitante e fa dell'oggetto imitato una sua seconda natura (395 d), è la sola in cui Platone veda una categoria etica, mentre l'imitazione di una realtà qualsiasi come la praticano le arti in generale è moralmente indifferente per il carattere dell'imitatore. Il concetto di mimesi in quanto rinunzia alla propria personalità è concetto paideutico, quello dell'imitazione della natura in generale, concetto tecnico. 92) Resp. 395 d-396 e.
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può essere oggetto della sua imitazione 93). Il suo stile sia semplice, come si conviene al ni.odo di pensare di un onest'uomo, e non gli piaccia una lingua policroma, ricca di variazioni, la quale, quando debba essere rivestita di note musicali e di ritmo, esiga un'arte di variazione altrettanto sapiente nelle tonalità e nei mo· vimenti 9'). Ai virtuosi di questa moderna sorta sarà reso, nello Stato di Platone, ogni onore, sarà pagato ogni tributo di ammirazione; ma, cosparso loro il capo di profumi e recintolo di bende di lana, saranno, in que· sta pompa solenne, ricondotti ai confini perché vadano in altra città; ché nello Stato della educazione pura non c'è posto per loro. In questo Stato può aver luogo solo un poeta più austero e meno dilettoso 95). Platone, anzi, arriva :fino a posporre nel giudizio la poesia drammatica a quella narrativa e vorrebbe che, anche nell'epica, l'elemento drammatico, il discorso diretto, fosse il più possibile ridotto 98). Il suo modo di trattar questo punto, è, naturalmente, in relazione con la passione dei giovani del suo tempo per il teatro e la poesia drammatica. Del pericolo di una tale pas· sione, Platone, che si era dilettato di comporre trage· die prima di conoscere Socrate, dové aver fatto esperimento in se stesso e in altri. Si sente l'esperienza viva, nell'umore asprigno con cui ne parla. Nella cultura dei Greci poesia e musica erano sorelle inseparabili, e nella !oro lingua una sola parola le designa iilsieme ambedue. Perciò dopo le regole per contenuto e forma della poesia, segue !a trattazione 93) Resp. 396 c-d. ") Cfr. Resp. 3?.7 a. e la descrizione delle due forme (etllr,) o tipi (~u~o~) di stile (ì..~~i;). 96) Rup. 398 a. 86) Resp. 396 e.
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della musica, nel senso nostro della parola 97). Questa nella poesia lirica, caso limite, si fonde in una superiore unità con l'arte della parola. Ciò_ che riguarda contenuto e forma della poesia è già tstato trattato con esempi tratti essenzialmente dalle forme poetiche parlate, epos e dramma, e si capisce perciò che non sem· hri più necessaria una trattazione speciale deaa lirica, in quanto poesia: per essa valgono gli stessi principii che per gli altri due generi 98). Ma tanto più è necessario che ora si parli di tonalità e armonie, in se stesse, scio!te dalla parola. Ad esse si congiunge, altro elemento della poesia cantata e insieme della musica danzata, il ritmo. Legge suprema della cooperazione di questi tre elementi, Logos, Armonia, Ritmo, è per Platone il principio che suono e ritmo siano subordinati alla parola 99). Con ciò i principii stabiliti per la poesia vengono senz'altro a essere validi anche nel mondo dei suoni, e si rende possibile trattare complessivamente, da un unico punto di vista, parola armonia e ritmo. La parola è diretta espressione dell' intelligenza. e all'intelligenza spetta il posto di comando. Non questa però era la -condizione di cose che la musica còntemporanea presentava a Platone. Come sulla scena l'elemento spettacolo aveva sopraffatto la poesia, producendo quello che Platone chiama « teatrocrazia » 100), 91) Cfr. Resp. 398 b-c. Contenuto e. forma sono & n: Àe:xtto11 wxl wi; Àe:>e't"éo\I. Il primo punto ( &) si identifica con la trattazione particolare dedicata ai miti, il secondo (wi;) con quella dello stile (ÀÉ~tpot v(cr:) lega, il particolarismo (t8k.>atç) separa MD). Platone, però, non pensa ad estendere le conseguenze di questo principio relative al matrimonio, agli strati lavoratori e produttivi dello stato: esse- rimangono limitate ai governanti e difensori. Questi dunque costituiscono la ragione prima dell'unità di esso. La seconda ragione è data dalla subordinazione volontaria alla quale, come Platone spera, la classe inferiore sarà persuasa dall'esempio di disinteresse dell:o Resp. H11) Rnp. 247) Resp. 248) Rnp. Rnp.
1" )
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461 d. 462 b. 462 c. 462 c-d. 462 b.
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più elevata. In questo stato i reggitori non saranno per
il popolo i padroni, ma i cooperatori, e il popolo non sarà per loro il servo ma il produttore dei mezzi di sussistenza
250).
M~ a sua volta, la totalità, lo stato di dove deriva il suo valore, il suo titolo alla supremazia ? Non è il concetto di totalità e comunità de:fìnihile in parecchi e diversi significati, di maggiore o minore estensione ? Per il pensiero moderno la risposta più ovvia è che sia la nazione, formata dalla natura e dalla storia, la rappresentante di questa totalità, e che lo stato sia la forma in cui la nazione esiste e opera politicamente. In tal caso la selezione fisica dei futuri reggitori tenderebbe a formare, mediante un adatto allevamento, una nobiltà di razza in cui si attuassero in maniera eminente le caratteristiche etniche di una determinata nazione. Ma non è questo il pensiero di Platone. Il suo stato perfetto egli lo concepisce come stato-città, accordandosi in ciò con la realtà della vita politica, come si era svolta nel corso della storia greca. E se anche qua e là egli chiama «città greca» questo suo stato 251), esso non rappresenta la nazione dei Greci; ché gli stanno accanto altri stati, anch'essi greci, coi quali, può aversi pace o guerra 252). Che i suoi abitanti siano di stirpe greca non è, dunque, la sua ragione di essere come stato. Lo stato perfetto di Platone può essere realizzato altrettanto .bene tra barbari; anzi è possibile che tra essi sia esistito una volta in passato, senza che ne sia giunta notizia 253). Non è il materiale etnico da 250 )
Resp. 463 a-b.
Il carattere «greco» della sua polis è messo consapevolmente in rilievo da Platone nelle prescrizioni relative alla guerra di Greci contro Greci; cfr. Resp. 469 b-c, 470 a. c, 471 a ( cfr. p. 441). In 470 e è detto espressamente che la città che Socrate si accinge a fondare deve essere città greca. 252) Cfr. i luoghi addotti nella nota precedente. 248) La possibilità che lo stato ideale si sia realizzato presso 251)
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cui risulta, quello che conferisce il suo pregio a questo complesso statale, ma è la sua interezza, l'unità delle parti nel tutto 254). Questo è il punto di vista che solo permette di capire il carattere di statocittà dello stato platonico. Il fatto che Platone non abbia concepito la sua Politeia come un grande stato nazionale o come un impero mondiale, ma come polis, non si spiega affatto, come pur potrebbe sembrare a tutta prima al cosiddetto pensiero storico, come una pura e semplice aderenza del filosofo alle circostanze offertegli accidentalmente dall'esperienza e dalla tradizione, ma si fonda sul suo ideale assoluto. Uno stato cosi limitato in grandezza, ma in sé fortemente stretto e concluso, deve costituire per Platone un'unità più perfetta di qualunque altro stato più esteso o più popoloso 255). La «vita politica» nel senso che i Greci davano a questa espressione, poté svolgersi nella sua incomparabile intensità solo in una polis e con la polis tramontò. Ed anche per Platone lo stato come egli lo concepisce è più stato di qualunque altro. Egli fu convinto che in esso gli uomini avrebbero potuto realizzare la più alta forma della virtù umana e della felicità 256). Anche la selezione razziale che egli sostiene è posta, come l'educazione alla quale deve offrire il fondamento, al servizio assoluto di questo ideale.
altri popoli è affermata in 499 c. Il passo testimonia in Platone un'alta considerazione dei barbari, per l'antichità della loro civiltà e sapienza. 254) Questo concetto è ripetuto con insistenza. Cfr. specialmente Resp. 462 a-b. Nel passo si coglie una reminiscenza delle Eumen.idi di Eschilo, v. 985, dove l'unità della cittadinanza nell'amore e D,ell'odio è lodata come il bene supremo. 266) In questa opinione Aristotele, Pol. VII 5, 1327 a 1, si accorda con Platone. 256 ) Cfr. sulla felicità della polis intera, che per Platone è la meta suprema, Resp. 420 b: sulla felicità dei guerrieri, 419 a ss. Il problema è poi ripreso e finalmente risolto in 466 a. I guer-
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Educazione e legislazione militare. - Anche se l'appartenenza dei suoi abitanti alla medesima nazione non è fattore determinante per l'esistenza dello stato platonico, pure la crescente importanza del sentimento nazionale tra i Greci del IV sec. si fa chiaramente sentire anche nella Repubblica 257). E, prima di tutto, esso diventa fonte di nuove norme etiche sulla condotta della guerra. .A questo riguardo Platone espone una serie di principii, che oggi si vedono piuttosto come norme di diritto internazionale, in quanto la guerra è per noi, normalmente, conflitto tra stati di_ nazionalità diversa, e quindi le regole che la disciplinano non si basano sul diritto pubblico dei singoli popoli, ma su accordi internazionali. Il caso normale per i Greci, invece, finché conservarono la libertà politica, fu sempre la guerra tra più stati greci, e se anche avvenne che non greci venissero a trovarsi implicati nei loro conilitti, assoluta:çiente eccezionale rimase la guerra diretta unicamente contro una nazione straniera. Perciò le norme di Platone per la condotta della guerra prendono prima di tutto in considerazione la guerra fra Greci 258). Ma neppure in questo campo limitato esse si fondano su rapporti tra stati; Platone le dà semplicemente come prescrizioni per il suo stato ideale, e non può certo presupporre che per ciò solo esse debbano essere accettate dagli altri. Così le sue regole per la condotta della guerra tra Greci vengono a essere piuttosto parte di mi codice etico della guerra, posto da lui a fondamento dell'educazione dei suoi guerrieri 259). rieri staranno al posto più alto anche nella gerarchia delle felicità, sebbene il loro ufficio esiga dedizione assoluta. 257) Cfr. « Paideia » III, cap. III, sul panelleuismo del quarto secolo. 258) Cfr. i luoghi citati. nella n. 251. 269) Resp. 469 b.
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A dire il vero, non è molto lo spazio che nei libri della Repubblica dedicati all'educazione musicale e ginnastica è assegnato all'educazione guerriera in senso specifico. Platone si limita, a questo proposito, a espungere da Omero i passi che potrebbero, secondo lui, ispirare al futuro guerriero il terrore della morte, e poi, trattando della ginnastica, a rilevare che lo scopo essenziale della formazione fisica è l'addestramento militare, sicché deve evitarsi che essa degeneri in allenamento atletico 260). Ma in che modo si possa eccitare nei guerrieri lo spirito bellicoso non è mai detto, in quei libri. Solo molto dopo che l'argomento della educazione musicale e ginnastica è esaurito, dopo la trattazione dell'educazione femminile e del regime nuziale, Platone inserisce l'educazione militare dei guerrieri. Egli la connette alla descrizione dell'allevamento ('t'flQ(p-fi) dei fanciulli, i quali per tempo debbono essere assuefatti a impressioni di guerra 261). Ma ciò è soltanto un'occasione che gli serve a esporre da capo a fondo la sua etica della guerra, la quale, in sé avrebbe ben poco che fare con lo studio della puerizia 2 62). In realtà, si tratta propriamente di un'appendice, e il fatto che essa sia separata dalla trattazione principale dell'educazione dei guerrieri rimane singolare e degno di riflessione 263). Una tale partizione della materia include in sé un problema che è ben più che un problema di struttura letteraria. Platone evita intenzionalmente di collegare strettamente tra loro educazione musico-gin280 ) In Resp. 403 e Platone chiama ironicamente i suoi phylakes «atleti del più grande degli agoni», cioè della guerra. 281) Resp. 466 e. 282) Già in Resp. 468 a, la descrizione dell'educazione guerriera della gioventù si svolge e si trasforma in una serie ·di precetti sull'etica di guerra in generale. 283) L'educazione musicale e ginnastica dei guerrieri è esposta nei libri II-III, l'educazione militare nél libro V, 468 a-471 c.
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nastica e preparazione militare dei guerrieri, e la ragione non è nella circostanza esteriore, che l'educazione militare deve cominciare anche prima che s'inizi.i la paideia in senso specifico. In realtà, Platone concepiva l'educazione musico-ginnastica come unità organica che la tradizione aveva formato e la ragione giustificava, e non volle, perciò, inserire nella trattazione di essa alcun elemento che non fosse strettamente di sua pertinenza. Le virtù guerriere del mondo greco non erano nate da questo tronco, ma si riallacciavano ad altra tradizione. Però, come già occupandosi della paideia musico-ginnastica Platone si era dato cura di unificare in una superiore armonia spirituale le due forme naturalmente distinte della cultura greca, la forma spirituale e quella corporale 264), così egli ripete ora su un piano più alto il medesimo tentativo nello stabilire il rapporto dell'educazione musico-ginnastica dei guerrieri con la loro preparazione militare. Fino a quel momento in Grecia nessuno era pienamente riuscito ad attuare tra esse unione e compenetrazione scambievole. Cosi, a Sparta la disciplina militare prevaleva su· ogni altra forma di educazione, e in Atene l'addestramento degli efebi, limitato a due anni di servizio militare obbligatorio per tutti i cittadini, era cosa secondaria di fronte all'educazione nella musica e nella ginnastica. Nell'educazione della classe dei guerrieri Platone vorrebbe riunire in una sola corrente questi due rivi della tradizione educativa. L'educazione militare che Platone immagina per i suoi guerrieri è destinata a non soddisfare un militare di professione dei nostri tempi, a quel modo che inadeguata parrà l'educazione musicale a un musicista e 26 4 ) Sulla giusta armonia di formazione musicale e di ginnastica, come meta della paideia, cfr. Resp. 410 e-412 a e supra. p. 402.
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l'educazione ginnastica a un allenatore sportivo. E sì che anche nell'età di Platone l'arte della guer:ra, come tattica, strategia, apprestamenti tecnici, era già molto evoluta, anzi l'elemento meccanizzato prendeva, di decennio in decennio, sempre maggiore importanza nella condotta della guerra. .Axistotele, più moderno anche in questo punto, rileva espressamente, contro Platone, questa nuova realtà 265). Platone invece, qui come nel caso della musica e ginnastica, scarta tutto ciò che è puramente tecnico e tutto concentra in ciò che è paideia in senso proprio 266). Il suo licopo è di trarre dagli uomini e dalle donne della classe militare dei guerrieri veri. E in questo caso la questione principale non è la loro destrezza nell'uso delle armi, ma l'esistenza di una precisa impronta spirituale che investa l'intera personalità •. Anche nella paideia musicale, come si è visto, l'essenziale è che essa è formazione interiore. E perciò deve cominciare per tempo, finché l'anima è ancora fa.cilmerite plasmabile, e darle, senza che essa se ne accorga, quella impronta che diventerà più tardi forma consapevole 267). Nello stesso modo procede Platone nell'educazione' guerriera dei soldati del suo piccolo ma scelto esercito. Essi devono fare esperienza di guer:ra fin dalla fanciullezza, come i figli dei vasai imparali.o l'arte stando ·accanto ai padri e guardandoli lavo· rare e dando qualche volta una mano. I figli dei guerrieri non debbono essere educati peggio dei figli degli artigiani 268). Ma non debbono neppure essere esposti al pericolo, pur essendo condotti in guerra insieme coi grandi; e perciò Platone prende speciali misure per la loro sicurezza. Vuole che si diano loro, come guide 266) Arist. Pol. VII 11, 1331 a 1. 266) Cfr. supra, p. 387. 267) Cfr. supra, p. 363 s. 268) Resp. 466 e-467 a.
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«pedagoghi», i più capaci e sperimentati soldati anziani e pensa a render possibile il loro allontanamento sollecito dalla zona di battaglia nel caso che eventi improvvisi dovessero metterli a contatto immediato col fronte di combattimento 269). Può sembrare a prima vista che il semplice assistere alla battaglia come osservatori sia, come mezzo di educazione :militare, meno appropriato di esercitazioni regolari dei giovani in giochi guerreschi ai quali essi stessi prendano parte 210). Ma anche in questo caso lo scopo di Platone non è l'abilità tecnica, bensi la formazione del carattere, un processo, çioè, in cui lo spirito s'indurisca, con l'assuefarsi allo spettacolo terribile della guerra vera. Platone ha certo in mente il carme di Tirteo che esalta il pregio dell'antica virtù guerriera spartana. Il poeta la mette in confronto con ogni altro pregio personale e sociale che un uomo possa avere, e non ne trova nessun.o che possa starle a pari quand«? si tratti della salvezza della patria, poiché nessuno rende l'uomo capace «di guardare la strage sanguinosa» e di rimanere imperterrito sul posto «mordendo coi denti le labbra». Il « sostenere la vista » pa~e a Tirteo la prova più sicura della capacità di tener duro coraggiosamente in battaglia 271). In questo, e non in una collezione di cognizioni militari, consiste quella « esperfonza » della guerra di cui parla Platone. Resp. 467 d. Resp. 467 e .&e:pe:i:v T&: ite:pt TÒv it6:bµov, .&e:ropoòr,; itoÀɵou Toòr,; mxi:lìc:r,; itote:i:v. 271) Tyrt. fr. 7. 31, 8. 21, 9. 16; a questo proposito, v. « Paideia», I, p. 180 88. Il v. di Tirteo sulla vista del ip6vor,; cxlµcxT6e:Lr,; è citato due volte nelle Leggi, 629 e e 699 a. Perciò è probabile che Platone avesse in mente Tirteo nei luoghi della Repubblica 467 e, e, dove il concetto di « osservare», «guardare», .&écx, &e:ei>pe:i:v, .&e:ciaovTott è ripetuto con insistenza. Tirteo e Platone sono gli psicologi della battaglia, che vedono il problema reale che essa rappresenta per ogni essere umano. 28 9)
270)
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Quest'unico princ1p10 esaurisce per Platone tutta l'educazione guerriera dei giovani; l'istruzione nell'uso delle armi e nelle altre attività soldatesche non è trattata espressamente, come cosa ovvia. Se la ·nostra interpretazione etica del «sostenere la vista» (.&eù)pe~v) è esatta, è facile capire perché Platone, in connessione immediata con questo punto, impianti tutta un'etica militare, tutta una serie di norme sul contegno dei guerrieri tra loro e contro il nemico. Onta suprema è abbandonare il posto di combattimento o gettar via le armi o commettere altre simili mancanze per viltà. Il guerriero che se ne renda colpevole, Platone vuole che sia degradato a membro della classe inferiore diventando artigiano o contadino. Questo genere di punizione, invece dell' atimia, che era in Grecia la pena normale, corrisponù~ alla posizione privilegiata che spetta ai guerrieri nello «stato perfetto» 272). Giacché i membri della classe lavoratrice sono sl designati anch'essi come cittadini, ~a, come mostra appunto questa pena, non sono che cittadini di seconda classe 273). Chi poi cade vivo in mano del nemico non deve essere riscattato, nìa lasciato come preda al nemico 274), il che significa, secondo l'antica legge di guerra, che deve essere o venduto schiavo o ucciso .. Chi invece si è distinto in battaglia sarà festeggiato e premiato con corone. E un certo privilegio gli spetta anche in amore, come del resto suole avvenire in tempo di guerra. Non che Platone pensi a una specie di« nozze di guerra»; anche in guerra l'unione sessuale resta vincolata alle regole tendenti a produrre una razza eletta. Ma, appunto per questo, il guerriero coraggioso è preferito,
Resp. 468 a. 213) Qualcosa di simile in Arlst. Pol. VII 8-9. 17') Resp. 468 a. 272)
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e sono ammesse concessioni alle sue inclinazioni personali, di cui Platone non fa parola in alcun altro luogo della Repubblica 275). Per questo caso eccezionale Platone spiritosamente invoca, ancora una volta, l'autorità etica di Omero che, dopo un combattimento glorioso, fa sì che venga assegnato al suo Aiace il dono onorifico e corroborante di un'intera spalla di bue 276). Ed anche l'eroe platonico, nei sacrifici solenni e nelle feste, sarà onorato con inni di gloria, e avrà i compensi di cui si è. parlato e inoltre posto d'onore, bevanda e cibo più scelti e copiosi. Chi poi cade gloriosamente in battaglia è annoverato «nell'aurea progenie», cioè diventa eroe e gli si consacra una tomba oggetto di religiosa venerazione 277). Lo stesso onore spetta alla fine a chi, sopravvissuto al cimento, muore di vecchiaia dopo una vita spesa tutta in servizio dello stato 278). Tutta questa etica della guerra, richiama, nella struttura come nel contenuto, la poesia di Tirteo, che celebrando come virtù suprema la fortezza del guerriero di fronte al nemico, enuncia compiutamente quel sistema di premi per gli eroi caduti e per i superstiti, che era sostegno e vincolo della struttura statale spartana. Si è già trattato, al suo posto, di questo carme valutandolo come documento dell'educazione di stato a Sparta 279). Platone non prende da esso soltanto l'elemento del «sostener la vista della strage», ma ne deriva, per farne elemento costruttivo del suo stato, tutto il sistema di etica della guerra in esso incluso. Non però - :si può dirlo fin da ora - ne accoglie il principio che fa della fortezza la virtù suprema. Glielo vieta la
275 ) 276 ) 277 )
27 8) 279)
Resp. 468 b-c. Resp. 468 d. Resp. 468 e. Resp. 469 b. Cfr. voi. I, p. 180 ss.
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posizione dominante da lui data alla giustizia, considerata origine prima e fondamento di tutto l'edificio statale. Ma a una più minuta trattazione del problema Platone verrà nelle Leggi, dove si troverà discussa questa supremazia della fortezza nell'etica spartana 280). Se letica platonica della guerra è, per necessità naturale, arcaica in quel suo aspetto che riguarda le relazioni dei guerrieri tra loro e la concezione di onore e disonore militare, moderna è nelle norme che si riferiscono alle relazioni col nemico 281). Tali norme non si possono ricondurre che a una fonte: il vivo senso del diritto dei più elevati e colti spiriti della Grecia di quel tempo. Questo, per Platone, è il punto in cui il sentimento nazionale, se pur non opera come forza formatrice dello stato, deve affermarsi come freno morale di fronte alla lotta senza quartiere degli stati greci fra loro. Era stata appunto la politica di sterminio condotta dalle città greche durante la guerra peloponnesiaca e nei decenni seguenti, durante i quali si era venuto sempre più dissolvendo il mondo degli stati greci, che aveva nutrito nei migliori la nostalgia della pace e concordia tra i Greci. Questo desiderio sembrava certo ancor molto lontano da una realizzazione pratica, in un mondo in cui legge suprema di ogni concezione politica era l'autonomia statale e l'interesse particolare delle singole città, ma esso aveva tuttavia rese sensibili le coscienze contro la brutalità annientatrice che era ormai la regola .nelle guerre tra Greci. La coscienza della comunità di lingua, costumi, stirpe faceva apparir contro natura così il fine come i mezzi di conflitti come questi. Che i Greci si massacrassero a vicenda, mentre il loro paese, la loro civiltà erano sempre più esposti 2so) Cfr. « Paideia» III 382 se. :a1) Cfr. Resji. 469 b ss.
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alla pressione di nazioni straniere e nemiche, era follia suicida. E il pericolo tanto più cresceva quanto più s'indebolivano gli stati greci. Platone scrive queste sue norme di una legge di guerra panellenica negli anni del risorgimento della potenza ateniese e della seconda lega marittima, la quale poté imporsi alla fine solo con una lunga guerra contro Sparta e i suoi alleati. Perciò la sua parola ha un fortissimo accento di attualità, e un valore di ammonimento agli stati della nazione greca in lotta tra loro. Formalmente le norme di Platone sulla guerra sono esposte in una maniera generica come se dovessero valere in ogni specie di guerra, sia contro Greci, sia contro barbari. Ma in realtà non c'è a sorreggerle un'idea universale di umanit~ giacché in esse si fa una differenza di principio nel trattamento da usare con gli avversari, secondo che siano greci o non greci. L'umanità di cui qui si parla vale unicamente, o almeno principalmente, per i Greci. I Greci sono per natura affini tra loro e amici, i barbari, stranieri e nemici 282). È la stessa idea su cui si fonda il panellenismo di Isocrate, l'idea a cui si ispirò Aristotele quando dette ad Alessandro il consiglio di governare i Greci da egemone e i barbari da signore 283). Non si trova, però, in Platone, almeno all'inizio, un'affermazione del principio generale; più opportuna gli sembra, per immediata virtù persuasiva, un'osservazione particolare: è ingiusto che
Resp. 470 c. Cfr. per l'atteggiamento panellenico di Isocrate, vol. III, cap. III. L'espressione di Aristotele, fr. 658 Rose, ci è conservata da Plutarco, De Fort. Alexandri, 1, 6. La formulazione è evidentemente reminiscenza da Isocrate, De Pace, 134. L'atteggiamento 282)
28 3)
pratico di Aristotele di fronte alla democrazia ateniese come alla politica panellenica segue la linea di Isocrate, come spero di poter dimostrare altrove. Aristotele professa un platonismo moderato solo nell'edificazione dello stato ideale.
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Greci riducano in schiavitù città greche 284). Ma anche questo precetto, che si risparmino i Greci, è da lui giustificato col timore della schiavitù da parte dei barbari. Perciò egli vieta il possesso di schiavi greci nel suo stato e vorrebbe che questo si adoperasse presso gli altri stati perché osservassero lo stesso divieto 285). L'effetto che egli da ciò si ripromette è che i Greci imparino a volgersi piuttosto contro i barbari che contro la loro stessa gente 286). In questo punto Platone si avvicina a Isocrate 287), tranne che egli si limita a formulare la sua tesi in generale e non parla, come il retore, della guerra contro i Persiani come di un mezzo per l'unificazione dei Greci. Più tardi, nelle Lettere, egli applicò lo stesso pensiero politico· alla situazione dei Greci di Sicilia di fronte al pericolo cartaginese e dette come ragione della loro unificazione la necessità della difesa contro i barbari 288). La linea del suo pensiero è dunque cQerente, per quel · che riguarda relazioni di Greci e barbari, e considera sempre fondato in natura che i rapporti tra gli uni e gli altri siano di guerra, mentre di una «guerra» tra Greci egli preferirebbe che non si parlasse, potendosi dar guerra solo tra stranieri e nemici, non tra congiunti. Gli soccorre qui un argomento di cui gli oratori politici di quel tempo fanno largo uso; la distinzione, cioè, tra guerra (7toÀe:µoç) e lotta civile o sedizione (cr-r&cnç). Solo la seconda delle due espressioni gli pare appropriata per i conflitti tra Elleni 289). Egli li pone, dunque, sullo stesso piano con le lotte interne a una città ed applica ad essi la stessa Resp. 469 b. Resp. 469 c. Resp. 469 c. Cfr. Isocr. Paneg. 3, 133 s. Ep. VIl; 331 d ss.; 336 a; VIII, 353 a s. 2 89 ) Resp. 470 b, 471 a. Cfr. il lavoro del mio scolaro W. WoESSNER, Die synonymische Unterscheidung bei Thukydides und den politischen Rednern d. Griechen, Wiirzburg 1937. 284)
285) 286) 287) 288)
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regola e disciplina giuridica. In base a questa è da vietare, per lui, che si devastino i campi, che si brucino le case, forme tutte di ostilità che non sono consuete, egli dice, nelle lotte tra cittadini di una città civile del suo tempo, ma tali da chiamare su chi se ne rende colpevole. la maledizione degli dei e da segnarlo col marchio del nemico della patria 290). In una contesa tra Greci, perciò, non è da considerat come nemica la popolazione intera dello stato avversario; i vincitori si devono limitare ad esigere che i colpevoli siano chiamati a render conto 291). Il massimo di danni materiali che, secondo Platone, è lecito infliggere ali' avversario è la distruzione del raccolto dell'anno 292). Infine, in tutti gli atti d'ostilità che avvenga di compiere in una guerra tra stati della stessa ·nazionalità, un pensiero deve essere sempre presente: che lo scopo naturale di essa è la riconciliazione con l'avversario, non il suo annientamento 293). Accanto, però, a queste norme sulla guerra contro Greci si trovano disposizioni d'indole generale destinate a valere per ogni specie di guerra. Cosi il divieto, come di cosa indegna di un libero, di spogliare i nemici caduti sul campo, pe.r puro amor di preda; nello stesso modo è disonorante che s'impedisca al nemico di raccogliere i suoi morti. La sola cosa che un guerriero può prendere a un nemico caduto sono le sue armi 294). Tuttavia deve cessare l'uso di appendere armi predate come doni .votivi ai templi degli dei tanto più se sono armi greche, poiché c'è da temere che esse siano, piuttosto che ornamento, profanazione del santuario 295). Resp. Resp. 292) Resp. 293) Resp. 294) Resp. 295) Resp. 290)
291)
470 d, 471 a. 471 a-b. 470 b, d-e. 470 e, 471 a. 469 e-e. 469 e-470 a.
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Sono, queste, prescrizioni che in parte derivano da un senso morale, di rispetto di se stesso, in parte da una fede religiosa purificata. Esse formano il complemento alle norme sul trattamento dei :qemiei della stessa nazionalità, in quanto le une come le altre mirano a una umanizzazione dei metodi usuali di guerra, che, come Platone stesso ammette, erano, presso i Greci, ben lontani dai suoi postulati. Esse non sono, perciò, un semplice sommario degli usi di guerra in vigore; anzi costituiscono un attacco audace alle condizioni reali. La realtà, in questo campo, è· barbarica per Platone, e questo egli dice indirettamente quando propone che si limitino i costumi di guerra attualmente praticati dai Greci, alla guerra contro i barbari 29 6). Si pensi, per valutare il progresso della sensibilità etica che queste norme rivelano, che al tempo di Platone era ancora diritto di guerra fare schiavo il nemico prigioniero. Ancora nel sec. XVII Ugo Grozio, il grande umanista, il padre del moderno diritto internazionale, nella sua opera De iure belli acpacis, dichiara non essere contro natura il ridurre in schiavitò. il nemico prigioniero. Egli stesso, però, alla fine del capitolo De iure in captivos cita lo storico bizantino Gregoras a testimone del fatto che Romaici e Tessali, Illiri, Triballi e Bulgari, sul fondamento della loro comunità nella fede cristiana, osservavano per antica tradizione la norma di limitarsi, nelle guerre tra ·loro, a depredare il nemico delle robe, senza ridurre in schiaviru le persone, e di non uccidere alcuno fuorché sul campo di battaglia. Secondo Grozio, dunque~ soltanto il cristianesimo poté raggiungere quel fine che il Socrate platonico aveva vanamente cercato di indicare ai Greci, come imposto dal solo istinto di conservazione nazio296 )
Resp. 471 b.
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nale 297). Lo stesso Grozio, però, nota che i maomettani osservano, nelle guerre contro correligionari, le stesse norme di diritto internazionale. Si deve perciò generalizzare ed estendere la sua affermazione, nel senso che né lo Stato antico né l'idea nazionale del IV sec., avevano in sé di che render possibile l'attuazione delle idee di Platone su questo punto, e che solo poté attuarne una parte la comunità di molte genti in una fede, propria delle posteriori religioni universali. Una tale comunità fondata su base religiosa era senza dubbio più vasta e comprensiva di quella su base nazionale, alla quale Platone aveva diretto le sue norme. Essa tuttavia era in qualche in.odo affine allo schema platonico, in quanto anch'essa non ahbracciava un'astratta umanità universale, ma s'identificava con la concreta comunità dei credenti, cristiani o maomettani, il. cui nesso, anche nella guerra, non cessa di vincolare· le genti che la compongono.
La repubblica ideale come sede perfetta dell'uomo filosofico. - Il disegno dello Stato perfetto è ormai tutto ahbozzato. Platone non ha, su questo tema, più nulla da dire, prima ancora di essere arrivato a metà dell'opera e senza che questa abhia raggiunto il punto culminante. Ora s'impone un'altra questione: questo Stato perfetto testé ·disegnato può realizzarsi ? e come ? 298) Siamo a una svolta del discorso, in cui Platone si ferma a riguardar la sua opera con certo distacco di giudice. « Socrate» si paragona a un pittore che abbia appena
287) De iure belli ac pacis p. 557 (ed. Molhuysen, Leyden 1919). Grozio, naturalmente, considerava il capitolo della Repubblica sul diritto di guerra, come un'autorità di prim'ordine. 298) Resp. 471 c-e.
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levata la mano da un meraviglioso dipinto: l'immagine ideale dell'uomo perfettamente giusto, della sua natura e della sua beatitudine 299). E l'immagine cosi disegnata prende ancora maggior rilievo e determinazione dalla figura che le è contrapposta dell'uomo assolutamente ingiusto nella sua infelicità. Questo ritratto Platone lo chiama paradigma; esso è cioè ritratto e modello nello stesso tempo 300). Dal paragone della costruzione ideale socratica con l'immagine dell'uomo più bello risulta chiaro quale è per Platone il tema vero della sua Repubblica: non soltanto né prima di tutto lo stato, ma l'uomo nella sua facoltà di edificatore dello stato. E se anche Platone adopera lo stesso termine di « paradigma» anche per lo stato, questo tuttavia non può essere direttamente raffrontato, con paragone immediato, all'uomo più bello 301), a cui piuttosto corrisponde il tipo ideale del vero giusto, il soggetto vero, come dice Platone, del suo quadro 302). Perciò lo stato perfetto è solo lo spazio adatto perché egli possa farvi campeggiare la figura che intende disegnare, la figura dell'uomo, giusto. Questo modo platonico di definire la propria opera concorda col risultato della nostra analisi. La Repubblica di Platone è un'opera di formazione della personalità umana; opera politica, pertanto, ma nel senso che a questa parola dà Socrate, ben lontano dal senso usuale 303). Tuttavia la grande verità nuova che la Repubblica rende evidente, anche in quel campo educativo che le è proprio, è l'esistenza di una corre-
2 99 ) Resp. 472 c-d. 800) Resp. 472 c, 472 d. 301 ) Resp. 472 d 9. 302) Resp. 47.2 d 5, cfr. c. 5. 303) Cfr. supra, pp. 100-102, 220. La politica socratica è «cura . dell'anima» ('t'LXlJ TConasEc.c:) che possa resistere a tutto ciò 356). Il singolo, in questa condizione, non può far nient'altro che trovar buono o cattivo quello che buono o cattivo pare alla massa, e considerare il suo giudizio norma della propria azione, se, almeno, gli preme di vivere. Nessun carattere, nessuna personalità si può forma1 '~ altrimenti che in conformità di questa« paideia », esercitata dalla massa, tranne il caso che la salvezza sia disposta da particolare provvidenza divina 357). Gli individui mercenari (µ.Lcr.&ocpvouv't'e:t; rnLW't'OCL), che si soglionl} chiamare maestri o educatori, non possono educare a niente altro che a quel che loro prescrive la massa dominante. La terminologia che essi adoprano riguardo a ciò che è. onesto o vergognoso, è, a guardarla bene, quella stessa dei più 358). E qui consiste la debolezza vera dell'educazione dei Sofisti, che pur pretendono di creare gli uomini di cultura superiore, in questo dover derivare ogni loro giudizio di valore da una fonte impura, dalla massa. Questi « educatori» sono la classe di persone che meglio s'intende di quali suoni e parole piacciono alla « gran bestia » 359) ; sono gli uomini che della docilità ad essa si son fatti una professione. Cosi per Platone l'educazione e la pedagogia dominanti. non Resp. Resp. 358) Resp. 359) Resp. 356 )
35 7)
492 h·c. 492 d-e. 4.93 a. 493 a-b.
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sono che la caricatura della vera paideia 360). Anch'essa può prodursi in questo mondo come la salvezza delle indoli :filosofiche, che solo per essa è possibile soltanto isolatamente e per uno speciale. miracolo divino 361). Questo miracolo, Platone lo sentiva, era avvenuto anche per lui, nel suo incontro col vero educatore, con Socrate; e il riferimento a questa esperienza è il sottinteso, inespresso ma evidente, di tutta questa parte del discorso platonico. Quello era stato il caso eccezionale in cui una singola personalità aveva comunicato ai discepoli beni di valore eterno. Ma, per quella sua indipendenza dall'opinione dei più, il maestro dei maestri, nonché ricever mercede, aveva dovuto, lui, pagare con la vita. Senza dubbio, lo sfondo storico su cui si leva quest'immagine, è la democrazia ateniese del IV sec., ma la « massa» di cui parla Platone è da ·lui concepita in un senso più generale. Non è proprio il demos ateniese, quello a cui egli pensa, ma la «massa» senza ulteriori determinazioni, quando la definisce come quella che non sa nulla di ciò che è buono, e giusto · in s é 362). La conoscenza di ciò che in sé è buono è il segno distintivo del filosofo, ed è intima contraddizione parlare di una massa :filosofica ( qnì..6crorpov 'ltÀ lj&oç) 363). L'atteggiamento naturale della massa verso la :filosofia .è di ostilità, e tale, per necessità, deve essere anche l'atteggiamento naturale degli individui che hanno per compito e fine di lusingare la massa. Come è possibile che, di fronte a tutto ciò, un'indole nata alla filosofia si affermi e giunga al pieno sviluppo della sua vocazione? Essa è esposta allo sfruttamento da parte di Resp. 3&1) Resp. 2 36 ) Resp. 363) Resp. 360)
493 c. 492 e. 493 h 7. 494 a.
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uomini che intuiscono le sue magnifiche possibilità di successo e sanno lu8ingare i suoi istinti deteriori. Alla fantasia del giovane essi fanno balenare la signoria su Greci e barbari e lo empiono d'ogni sorta di speranze insensate 364). Platone ha certo in mente caratteri come quelli di Alcibiade e di Crizia, i cui falli erano stati messi a carico dell'educazione socratica 365). Platone, non fa come Senofonte, e non cerca di disfarsi di loro 366); li riconosce, anzi, come adepti., un tempo, della :filosofia e li eleva ad esempio delle indoli filosofiche che, chiamate alle mete più alte, sono poi rovinate dal mondo circostante. In queste grandi figure di avventurieri politici, c'è davvero qualcosa di« filosofico», lo slancio alle grandi cose, la luce dell'intelletto, che li fanno superiori alla massa. Ché la massa non è fatta per la grandezza, né in bene né in male. Solo l'uomo di indole filosofi.ca ne è capace; egli solo si trova di fronte alla scelta di divenire uno dei benefattori più grandi degli uomini, o uno fil quei malfattori geniali che infliggono ai popoli le rovine più gravi 367). Questo confronto fra le indoli « alcihiadee » e la natura del filosofo platonico - che dal confronto prende forza e colore - ci aiuta meglio di ogni altra cosa a penetrare il sogno del governo filosofico, nel suo timbro e tono psicologico. Il confronto .è fatto da un uomo che aveva e.onosciuto per consuetudine familiare figure come quelle, e si sentiva con esse dello stesso livello intellettuale, ma pur sapeva bene in che punto la sua via si era divisa dalla loro. Il loro problema egli lo vede dall'intimo, come può esser vista, da chi se ne senta egli pure colpito, la tragedia morale di un mem3 6 4) 365) 386) 387 )
Resp. 494 c. Cfr. supra, pp. 44, 78. Cfr. Xen. Mem. I 2. Resp. 495 b.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
hro della sua famiglia. L'apostasia di giovani come questi aveva defraudato la filosofia di quelle personalità che erano destinate, anziché a essere i diabolici oppositori della verità, a stare come arcangeli accanto al suo trono. Al loro posto, ormai erano penetrati degli intrusi, indegni e incapaci di una cosi alta iniziazione e non certo fatti per rafforzare nella gente la :fiducia nella supremazia dei filosofi 368). Tali gli epigoni da cui Platone si vedeva circondato. Solo pochissimi uomini, di più alto ingegno e spiritualità sfuggivano alla corruzione universale; forse un uomo di profonda cultura e di nobile carattere, che, costretto a vivere da straniero in esilio, fosse riuscito a sali varsi per questo involontario isolamento dagli influssi corruttori, forse una grande anima che, nata in una piccola città, si fosse volta per disdegno di questa, alla v.ita dello spirito, oppure uno che a causa di salute malferma si tenesse lontano dalla carriera politica o forse il cultore di una disciplina speciale, che, facendo giustamente scarso conto di questa, avesse trovato la strada per la :filosofia 369). Rara e singolare galleria di ritratti, questa accolta di superstiti, in cui chiaramente si ravvisano tratti di :figure individuali della cerchia platonica 370) ; singolare anche, questo ironico deprimere se stesso, proprio nello stesso momento in cui seriamente si afferma il diritto della filosofi.a al dominio del mondo. È una nota di sentimento questa, che apre la via alla confessione di rassegnata rinunzia, Resp. 495 c-d. ee) Vedi in Resp. 496 b-c enumerati i tipi umani che son salvi per la filosofia, in quanto, trovandosi a vivere isolati, restano immuni dal contagio. 370) L'unico di cui sia detto espressamente il nome è Teagete, uno scolaro di Socrate, a cui la eattiva salute vietava la vita politica. I lettori contemporanei potero;no mettere un nome anche sulle altre figure. Noi non lo possiamo più. 388) 3
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con la quale Platone conclude la sua difesa della filosofia 371). « Quelli che appartengono a questa piccola schiera e hanno gustato una volta la dolcezza e la beatitudine di quel bene, conoscono anche per esperienza la pazzia della moltitudine e sanno che non c'è, si può dire, nessuno che faccia nulla di sano o di buono in politica, e che non si trova neppure un compagno col quale combattere in difesa del giusto, con una minima speranza di sfuggire a certa rovina, sì che l'uomo che a questo si accinga è come chi piombi in mezzo a bestie feroci, che non essendo disposto ad associarsi all'ingiustizia altrui, e, d'altra parte, non avendo da sé forze bastanti per opporsi a tutti quei furiosi, forza è che perisca prima di aver appena cominciato a far qualcosa di bene, e cosi non serve né a sé né agli altri: tutto ciò ben considerato, l'uomo assennato se ne sta tranquillo e fa il fatto suo, come chi, in mezzo a una tempesta di vento e pioggia e a turbini di polvere, si mette al riparo sotto un muretto; e vedendo gli altri sguazzare nell'ingiustizia, si contenta se gli riesce di rimanere, lui, puro d'ingiustizia e d'empietà in questa vita, e di partirsi di qui tranquillo e di buon animo, con buona speranza». Ecco; il filosofo è disceso dall'altezza della rivendicazione ideale del suo diritto al regno nel vero Stato, ed è ritornato al quieto riserbo del suo angolo inosservato 372), che il mondo reale ancora gli consente. Noi ora sappiamo quale aspetto avrebbe lo stato che egli edificherebbe, se ne avesse il potere. Ma in realtà il :filosofo si trova ora, dopo questo volo sublime dello spirito, sempre allo stesso punto in cui era nel Gorgia, 171) Resp. 496 e 5-e 2. 112) Cfr. Gorg. 485 d.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
dove lo vedemmo soggetto ad aspre tribolazioni ed amaro biasimo da parte di retori e politici. Lontano dall'immaginarsi di poter trasformare lo stato della realtà contemporanea, non disposto a scendere nel1'arena della lotta politica, il filosofo rimane, ora come allora, l'uomo vero che il mondo disconosce. n centro di gravità della sua esistenza cade al di là della sfera di successo, di pubblica influenza e potere, nella quale si aggirano i grandi della realtà quotidiana. E così il suo ritrarsi dalla effettiva azione politica diventa la sua vera forza. Già ri.ell' Apologia Platone aveva dato questi lineamenti al suo Socrate; i lineamenti dell'uomo che si era reso ben conto, perché il suo demone lo avesse per tutta la vita distolto dall'occuparsi di politica. Egli esprime ben chiara dinanzi ai giudici questa con· vinzione, che nessuno si può· sostenere a lungo di fronte alla massa, se vuole opporsi apertamente alla sua ingiu· stizia. Chi vuole realmente combattere per la giustizia deve farlo soltanto da privato, non come politico 373). Non è esatto perciò quello che molti studiosi dicono, che, cioè, solo nelle rassegnate parole della Repubblica sia da vedere espressa per la prima volta la rinunzia agli originarli propositi di azione politica. La lettera settima dice con ogni chiarezza che la morte di Socrate era stata il punto di crisi della volontà politica di Pla· tone 374), e l'Apologia lo conferma. La tragica confes· sione della Repubblica non si distacca, nell'essenziale, dallo scritto più antico, ma solo ne differisce nçl grado di capacità d'espressione poetica, che Platone ilaggiunse nella meditazione a lungo sofferta di questo destino. La rinunzia dell'Apologia, chiara e pacata affermazione di principio, si trasforma in un atteggiamento religioso, 873) 81~)
Apol. 31 e. Ep. VII, 325 b s.
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di quieto :raccoglimento, in cui il filosofo sembra prepararsi a una prova suprema, quella prova che i miti escatologici del Gorgia e di altri dialoghi descrivono. L'uomo filosofico di Platone si distingue da tutti gli altri ideali umani a cui i poeti avevano dato forma, proprio per questo suo essere disconosciuto dal mondo. Tutti quegli ideali erano stati espressione di virtù che erano radicate in una polis della realtà. Nella loro luminosa realizzazione poetica, la comunità dei cittadini aveva visto rispecchiata ogni sua più alta aspirazione e tutto il suo modo di intender la vita. Invece il quadro esemplare platonico dell'uomo filosofico e della virtù filosofica si pone in contrasto con la virtù civica della comunità politica, la quale pertanto, cessa di essere comunità. Quell'involontario isolamento del filosofo nasce dalla coscienza di mirare più alto degli altri, di posseder più profonda coscienza dei veri valori della vita, anche se gli .altri sono ancora in maggioranza così soverchiante. Dal danno della condizione di minoranza il filosofo crea una virtù. Perciò la comunità, quale esiste nella realtà politica, si degrada per lui a pura massa. E, dal lato opposto, un'altra comunità di coscienza unitaria comincia a profilarsi, nel piccolo gruppo dei sopravvissuti, che hanno salvata e conservata pura l'indole filosofica attraverso ogni rischio, la comunità ristretta della scuola o setta. L'avvio alla formazione di tali scuole è un fatto storico d'importanza capitale, che determina in maniera decisiva il carattere del rapporto fra individuo e comunità, fino ai nostri giorni. Dietro la scuola, dietro la piccola comunità di fedeli, sta sempre come forza animatrice una singola personalità intellettuale, che parla in nome di una sua verità e accoglie intorno a .sé i partecipi della stessa convinzione. Se lo stato disegnato da Platone è stato autoritario, ciò non deve però
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza - inattuabile nella realtà politica - di fare della verità filosofica l'istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore. Nella realtà pratica l'unico effetto di questa sovranità. spirituale, sotto l'aspetto sociale, fu la formazione dì' comunità di scuola, come quella che Platone fondò in Atene con la sua Accademia. Ogni tempo, naturalmente, ha conosciuto maestri e scolari; ma sa-. rebbe anacronismo l'immaginarsi che anche nella filosofia presocratica i rapporti tra maestri e scolari abbiano potuto dar luogo a scuole, nel senso di Platone. Il solo precedente e modello che egli si trovò davanti fu il sodalizio dei Pitagorici nell'Italia meridio.nale; e, indubbiamente, la fondazione dell'Accademia, avvenuta subito dopo il suo ritorno dal primo viaggio nell' occidente greco, durante il quale egli aveva praticato assai da vicino cerchie pitagoriche, fa pensare a una connessione tra le due istituzioni. Il sodalizio pitagorico era retto da una precisa regola di vita, che sembra, in qualche modo, il presupposto del (3(oc; filosofico di Platone, seppure è da ritenere sicuramente leggendaria la tradizione che riporta a Pitagora il concetto di un ideale filosofico di vita nel senso platonico, e perfino la parola « filosofia» 375). D'altra parte, non ostante il contenuto speculativo della teoria politica di Platone, la sua scuola non ebbe alcuna attività di gruppo politico nella vita della sua, patria, come invece avvenne
8'16 )
Cfr. il mio « Aristotele », p. 99 (trad. Calogero, p. 128).
J. L. STOCKS tentò di provare fa validità storica della tradizione rappresentata da Cicerone (Tusc. disp. V 3, 8), secondo la quale già Pitagora avrebbe usato e attribuito a se stesso il nome di « filosofo». Ma io ·non ho mai potuto cqndividere gli argomenti addotti dall'amico eminente, troppo pre11.~.o mancato ai vivi.
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per i Pitagorici, prima che il loro sodalizio venisse distrutto. Nella lettera settima, commentando l'avven· tura politica del suo scolaro prediletto Dione, a Siracusa, egli si ferma di proposito a spiegare la propria radicale astensione da ogni attività rivoluzionaria in Atene. Con la patria egli si sente nello stesso rapporto di un figlio ormai adulto e indipendente coi genitori, che può non approvarne azioni e principii, può anche, se necessario, esprimere la sua disapprovazione, ma non per questo si sente svincolato dal dovere della pietà, e tanto meno giustificato nel ricorrere alla violenza 376). In realtà l'esistenza dell'Accademia non sarebbe stata possibile in altro luogo che nella democrazia ateniese, che lasciava parlare Platone, anche quando faceva lo stato oggetto delle sue critiche. Da lungo tempo si pensava ormai che la condanna di Socrate fosse stata delitto, e nell'erede di lui si vedeva soprattutto la glo· ria domestica, l'liomo che accresceva il· prestigio intellettuale della città, sempre più avviata . a. diventare, in tempi di mediocre situazione politica esteriore, il centro spirituale del mondo greco. L'esistenza appartata e estranea al mondo condotta dai filosofi dell'Accademia, lontana anche spazialmente dal rumor cittadino, sulla verde quieta collina di Colono, die' origine a quel singolare tipo d'uomo che Platone descrive con affet· tuosa ironia in una digressione del Teeteto 877). È gente, questa, che dell'agorà non sa neppure la strada, e non sa dove sono i tribunali, o gli altri luoghi di pubblica riunione;. sulle parentele e genealogie delle famiglie più importanti è altrettanto male informata che sulla cronaca e il pettegolezzo cittadino. Sono cosi sprofon· dati, costoro, in problemi matematici e astronomici, 876)
177)
Ep. VII, 331 b-d. Theaei. 17 3 e a.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
il loro occhio è cosi fisso a regioni supreme, che in questo mondo non si sentono a casa loro e inciampano in cose che ·per uomini con occhi aperti e testa sana, non sono ostacolo di sorta. Platone, però, è tanto persuaso dell'intimo valore di questi uomini, e sicuro della presenza di una scintilla divina nel loro spirito, che il constatare quanto sia inevitabile il disconoscimento del loro pregio da parte dei più, gli vale solo di stimolo a calcare i tratti del suo quadro fino alla caricatura. E tanto meglio, se da ciò sarà eccitata l'indignazione della gente filistea, il cui scandalo è causa d'intima soddisfazione per l'intelligente amatore di quel raro tipo di uomini, degli uomini :filosofici. Nel senso che questi hanno della vita è una profonda nota di artistica genialità, ma senza le esaltazioni artefatte e senza la vanità che si accompagnano al deliberato proposito di originalità. Questo ritratto ha qualche maggiore probabilità di rassomigliare al :filosofo della vita reale, di quante ne abbia quell'ideale di armoniosa educazione fisica e spirituale, che Platone si foggia nella Repubblica per i suoi guerrieri. Ma quello che Platone dice nel Teeteto degli interessi spirituali del filosofo è perfettamente conforme al corso di studi del reggitore :filosofico, quale è disegnato nella Repubblica. In esso, si può dire, si chiarisce e si attua la sentenza del Teeteto, che la scienza del :filosofo non è qualcosa di facile come la percezione sensibile che l'uomo possiede dalla nascita, ma qualcosa che« cresce in lui» solo con lunga fatica e per via di lunga educazione (7tot~~etoc) 378). La Repubblica ci consente di gettare uno sguardo sulla struttura di questa paideia all'interno dell'Acc~demia platonica; in questa parte non è solo un ideale quello che Platone ci propone, ma è un frammento della realtà. 378) Theaet. 186 e 8LÒ: 'ltOÀÀOOV 'ltpcxyµ.&-rV xcci 'ltCtLBdccc; 'ltCtpcx:ytyve:-retL.
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Ora che il filosofo è giunto a questo stato di rassegnazione cli fronte all'incomprensione generale e alla necessità di appartarsi dal mondo, non è facile per noi ritornare alla concezione del :filosofo reggitore nello stato ·dell'avvenire. Il filosofo com'è nella realtà e come ora ci si è rivelato, appare, di fronte a questa aspirazione, perfino tlll po' ridicolo. Ma per Platone questa è soltanto una prova di più in favore della sua teoria che, istituendo un esatto confronto tra uomini e piante, afferma l'influenza nociva sull'educazione dell'amhiente malsano. Il filosofo è una creatura celeste, che, trapiantata nell'infelice terreno dello stato attuale, deve per forza intristire o assimilarsi ad esso 379). Trasferita, invece, nelle condizioni favorevoli dello stato perfetto, farà chiaramente apparire la sua origine divina 3Bo). In nessun luogo della Repubblica meglio e più chiaramente che a questo punto, è espressa l'intima natura dello stato perfetto platonico: che altro non è se non la forma ideale di comunità, necessaria perché le disposizioni naturali dell'indole :filosofica possano pienamente svilupparsi e attuarsi. D'altro canto, col fare del filosofo il reggitore dello stato, Platone immette in questo lo spirito che garantisce la conservazione del sistema educativo e il formarsi di una tradizione. La costruzione della repubblica ideale culminava alla fine nell'esigenza che fosse posta una suprema autorità educativa che della sua virtù creatrice informasse tutto l'edificio; e a questa esigenza, soltanto il filosofo poteva soddisfare 381). Però l'educazione :filosofica come si era praticata fino a quel momento non poteva raggiungere il suo fine più alto di essere educazione « politica», 379) qrn-ròv oùpcivLov Tim. 90 a, « seme straniero» (~e:vLxÒv cmÉpµo:) Resp. 497 b. 380) Rssp. 497 b 7- e 4. 381) Cfr. supra, p. 403.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVlNO
perché l'età in cui s1 soleva praticarla non era l'età adatta. Era essa soltanto « una paideia e una :filosofia da ragazzi» 382). Con ciò Platone riprende la sua battaglia contro lo studio filosofico « per un puro scopo di cultura», caratteristico della concezione sofistica 383), e annunzia il programma suo, che dà al concetto di cultura un senso molto più comprensivo, considerandolo un processo che impegna tutto il corso della vita. Gli uomini muteranno il loro giudizio sulla potenza educatrice del sapere, se potranno una sola volta conoscere e sperimentare che cosa sia il vero sapere, lontani come sono, ancora, dal pensiero di un sapere libero, da ricercarsi solo per se stesso 384). Il sapere è conosciuto solo nella forma di un complesso di artifici oratori, brillanti e acuti, che in sé non hanno né scopo né importanza e servono soltanto a soddi"sfare la passione personale della litigiosa soperchieria 385). Gli uomini devono accorgersi una buona volta che non sono filosofi veri quelli che essi chiamano con questo nome. La cosiddetta incapacità alla vita dei filosofi sembrerà meno ridicola quando si sia compreso che è impossibile, per chi abbia dedicato la vita alla considerazione delle supreme divine armonie, partecipare alle troppo terrene gare e rivalità, all'affaccendarsi astioso e maldicente di quella classe di uomini che il mondo falsamente considera dotti e intellettuali,· mentre non sono in realtà che intrusi impudenti nella casa della filosofia 386). Una divina serena armonia deve riempire tutto lessere di colui, che si volge a cQnoscere il mondo divino e ordinato all'eterno dell'essere puro 387). 382) Resp. 498 b, cfr. a. 383) Cfr. supra, p. 238. 38&) Resp. 4'8 d-499 a. 886) Resp. 499 a-b. •) Resp. SOO a-b. 387) Resp. 500 c.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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Qui, come nel Teeteto, il tipo del :6.losofo, specialmente se paragonato col Socrate dei dialoghi più antichi, colpisce per la sua rassomiglianza al matematico e all'astronomo. Ed anche l'idea che il :6.losofo viene ad assimilarsi al suo oggetto, il divino, ritorna, in contesto analogo, in ambedue queste opere cronologicamente vicine 388); Nella Repubblica, tuttavia, la vita prevalentemente contemplativa a cui il filosofo è costretto dal mondo circostante, non appare come la sua definitiva vocazione. Nello stato perfetto egli trapasserà dalla condizione della contemplazione pura a quella del1'azione. Diventerà « demiurgo» e cosi lascerà quello che nelle circostanze presenti è l'unico lavoro creativo a cui gli sia concesso di dedicarsi, la formazione di se stesso (écxil't'ÒV 1tÀcX't"t'eLv), per l'altro lavoro di formare caratteri umani (~-3-11), tanto nella vita privata quanto in servigio della comunità 389). Egli diverrà. allora il grande pittore, chl", l'occhio rivolto al modello divino, dà forma dentro di sé all'immagine della polis perfetta 390). E se a questo punto ci torna a mente, come già Socrate, compiuto il suo abbozzo dello stato, si fosse paragonato a un pittore che avesse creato l'immagine dell'uomo hellissimo 391); c'è pure da notare una differenza: ed è che questa volta l'immagine non è più inodello da trasformare in realtà, ma è essa stessa la nuova realtà che si viene attuando in conformità del paradigma divino, posto nell'anima del :6.losofo. Il pittore è, questa volta, l'uomo di stato, lo stato è il « pinax », il quadro, sul quale, pulito che esso sia a fondo, Cfr. Tkeaet. 176 b òµ.oEroa~ç .&e;éi) x~-.a -.ò 3uvo;-.6v. Resp. 500 d. Il luogo è molto importante, prima perché appare qui per la prima volta, nella storia dell'educazione, il concetto dell'autoeducazione, e poi perché esso chiarisce, con mirabile acutezza, idealità e realtà della paideia filosofica di Platone. 890) Resp. 500 e. 891) Resp. 472 d; cfr. supra, p. 446. 388 ) 888)
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LIBRO ill - ALLA RICERCA DEL DIVINO
prende contorno ·e colore il ritratto dell'uomo nuovo. Dall'unione di note varie, da un lato della giustizia eterna, della bellezza, della temperanza e di ogni altra virtù e, dall'altro, degli elementi osservabili nell?uomo reale, cioè da una fusione di Idee e di esperienza, ecco che nelle mani dell'artista :filosofo, in luogo di quel «simile agli dei» che Omero aveva :figurato negli uomini del suo epos, sboccia, ad esso corrispondente, il «simile all'uomo» ( !Xv8peExeÀov) 392). Platone dunque imposta di nuovo qui, esplicitamente, quel parallelismo tra poesia e filosofia che pervade e don;rlna tutta la sua opera di pensiero e d'arte. Il :filosofo può cimentarsi vittoriosamente con la paideia del poeta, perché ha un nuovo ideale dell'uomo. A questo punto la trasposizione platonica dell'immagine dell'uomo epico-eroica in quella :filosofica è perfetta, e l'opera massima del pensatore è orientata a quel polo umanistico a cui si muove tutta la storia dello spirito greco. Ché di umanesimo si può parlare in ogni caso in cui un'educazione sia consapevolmente condotta secondo un'immagine ideale della natura umana. Ma in pari tempo Platone contrappone il suo umanesimo filosofico al tipo di educazione sofistica, che non possedeva alcun ideale umail.o di questa specie, ma che, secondo la caratteristica da Platone stesso delineata, co~si steva :ill un conformismo spirituale alla forma di stato di volta in volta vigente nella realtà. Questo umanesimo platonico non è estraneo, in linea di principio, alla politica, ma cerca il suo punto d'appoggio politico, non già nella realtà, sihbene nell'Idea. Esso permane in una tenace e quasi escatologica attesa e proposito di attuarsi d'un tratto, come forza operante, in quel regno divinamente perfetto che appartiene all'avve392) Resp. 501 b.
CAP. IX: LA REPUBBLICA, I
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nire. Ma non per questo rinunzia al suo diritto di cri· tica di fronte ad alcuna forma di stato reale, poiché non mira a un modello temporale, ma all'eterno 393). L'immagine ideale dell'umano o del« simile all'umano» è posta da Platone simbolicamente, come contenuto e significato essenziale del vero stato, all'ingresso di una nuova trattazione: quella della paideia dei reggitori; ché non si dà formazione umana senza un'ideale forma umana a cui affissarsi. La « formazione di se stesso», alla quale per il momento deve limitarsi la paideia del filosofo, ha anche un alto significato sociale, che le viene dal suo riferirsi costantemente allo Stato perfetto, a cui prepara la via. In questa relazione Platone non ~ede soltanto un « come se», una mera ipotesi, ma anche qui coglie l'occasione di affermare realizzabile lo stato perfetto, seppure difficile a realizzarsi 394). Con ciò egli previene il pericolo che il concetto di « avvenire», di quel « futuro» in vista del quale il filosofo si prepara, si dissolva nel mondo delle immaginazioni, e conferisce alla « vita teoretica » del filosofo, sempre in procinto di trasferirsi in una possibile azione, un senso stimolante, una tensione di cui difetta la scienza « pura ». E proprio per questa sua posizione di centro tra la ricerca pura ignara di ogni fine praticoetico, e la formazione meramente pratica e politica dei Sofisti, l'umanesimo platonico trascende e supera l'una e l'altra. 393) Il rapporto della filosofia con lo stato è, nel mondo greco, l'analogo del rapporto dei profeti coi re d'Israele. 394) Resp. 499 c-d.
CAPITOLO
DECIMO
LA REPUBBLICA
II. LA P AIDEIA DEI REGGITORI
Essenza e valore della conoscenza suprema. - La necessità di una speciale educazione per i reggitori, ai quali spetta di vegliare a che la vera educazione sia . conservata nello Stato ideale, era già emersa, appena terminata la descrizione dell'educazione dei guerrieri 1); ma il problema aveva dovuto cedere il passo ad altre questioni, come quella dell'educazione di donne e fanciulli, e della comunità delle donne 2). Però, la tesi del «governo ai filosofi», che a prima vista sembra introdotta solo come condizione preliminare per la realizzazione di quei postulati, riconduce naturalmente all'educazione dei reggitori 3), giacché la « pre-
1 ) Si tratta di una scelta dei migliori tra i guerrieri. Resp. 412 c. ·n primo accenno alla necessità di una formazione speciale per i reggitori è in 416 c IS·n 8er a:1hoùç òp.&ljç -roxetv 1ta:~8eEa:ç ij·rn; 7to"t"é: É:anv. Nella proposizione relativa è implicito il riconoscimento che la paideia di cui si parla è identica a quella già descritta dei guerrieri, e un'allusione anticipante all'educazione dei reggitori, materia dei libri VI e VII. 2) Resp. 449 e ss. li) La trattazione dell'educazione dei reggitori comincia a 502 c·d.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
servazione dell'indole filosofi.ca» si è risolta nel problema di come educare una tale indole. L'educazione musico-ginn"astica dei guerrieri non è che l'antica paideia ellenica, filosoficamente riformata: come educazione e istruzione dell'intelletto essa si fonda in tutto sulla consuetudine e sul costume 4). Sicché gli argomenti in suo favore addotti da Platone consistono in concezioni di ciò che è buono ed opportuno, che sono da lui piuttosto presupposte che dimostrate. Scopo di una tale educazione è creare nell'anima euritmia e armonia, non quello di far conoscere la causa, per cui quella sorta di ritmo e di armonia è buona. La causa, a questo livello dell'educazione, non può ancora essere conosciuta, mentre, invece, essa deve essere ben posseduta da colui cui spetta di organizzare l'educazione e di sorvegliarla, cioè dal reggitore. La conoscenza della causa è il fine dell'educazione specifica di lui, che, pertanto, deve essere filosofica. Essa,. se cronologicamente è posteriore alla formazione musico-ginnastica, in realtà, idealmente e naturalmente, è la prima, è il punto di partenza dell'intera opera edificatrice dell'educazione. TI concetto che lega il primo piano educativo al secondo è quello di « paradigma», posto da Platone tra i due come quel pregio, il cui possesso destina il .filosofo al compito · di reggitore e di educatore nel più alto senso· 6). La norma suprema o il « modello», sul quale è stata disegnata la paideia dei guerrieri, Platone lo chiama « la nozione massima» (µÉj'LCl''t'OV µci.&'fjµoc), perché è la più difficile ') Cfr. supra, p. 363 ss. ') Resp. 484 c. L'apparizione del concetto di «paradigma» In questo punto, è già preparata dall'uso che di esso è stato fatto in 472 c-d, per caratterizzare l'immagine dello stato ideale e dell'uomo giusto. Ma queste stesse immagini ideali di stato e di uomo, può possederle solo il filosofo, poiché ha in sé la conoscenza del Bene. Per l'idea del Bene come paradigma dei reggitori cfr. 540 a.
CAP. X: LA REPUBBLICA, II
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a comprendersi e insieme la più importante che il reg· gitore dello stato debba. possedere 6). Nell'espressione mathema è insito l'elemento essenziale di novità pro· prio della formazione filosofica rispetto agli stadii precedenti della paideia : il fatto che, cioè, il contenuto paradigmatico, non sia racchiuso, · questa volta, in una molteplicità di personaggi poetici o di precetti staccati di morale, ma stia in una cognizione generale, e per di più nella cognizione di un unico oggetto. Quella fermezza inflessibile di carattere che Platone richiede per il reggitore deve essere accompagnata dalle più alte capacità intellettuali e addestrata nel sapere più esatto (iixfa~cr"t"&TIJ r.oct8doc) 7). Anche di fronte alle difficoltà del sapere, ora che dopo le fatiche dell'addestramento fisico comincia la « ginnastica della mente» 8), il reggitore mostrerà la stessa intrepidezza di cui dà prova nel resto. Disse Hegel una volta un motto famoso: la scor· ciatoia dell'intelligenza è la via più lunga. In realtà, mentre la via naturale sembra essere quella che punta diritta al suo fine, avviene spesso che essa sia interrotta da qualche profondo crepaccio invisibile a chi guarda da lontano, o che ostacoli di altra sorta si parino dinanzi a impedire l'accostamento diretto. Superare tali ostacoli, mediante un accorto aggiramento, e giungere così alla meta, sia pure, come spesso, a prezzo di grandi difficoltà, è l'essenza di ogni proce-
6) Resp. 503 e; 504 a; 504 de; 505 a. 1) Platone richiede per i reggitori fermezza e sicurezza di carattere (Resp. 503 e) e subito dopo la più accurata ed esatta formazione dell'intelletto (503 d; cfr. anche 504 be). Il concetto di acribia o esattezza è il vero e proprio elemento distintivo del· l'educazione dei reggitori di fronte a quella dei guerrieri. A pro· posito delle Leggi, dove si fa la stessa distinzione cfr. « Paideia » III 432, n. 240. 8) Resp. 503 e.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
dimento di ricerca metodica, e in particolare del pensiero filosofico. Quanto a Hegel e al suo motto, si ha l'impressione che egli non abbia fatto altro che portare a formulazione più generale un'intuizione che trovava già espressa da Platone. Questi nella Repubblica, là dove stabilisce la necessità di un'educazione speciale per i reggitori 9 ), rammenta anche che prima, trattando il problema delle quattro virtù, nel quale veniva a _risolversi l'educazione dei guerrieri, aveva detto trattarsi di uu cenno schematico e di passaggio, essendo necessaria per la piena conoscenza del tema « una strada più lunga». Addentrarsi in questa non gli_ era parso opportuno, per il momento, in quello stadio inferiore dell'educazione dei guerrieri. Ma al principio dell'educazione filosofica vera e propria ecco che egli si rifà a quel punto, ed esprime l'esigenza che il futuro reggitore si accinga ora a mettersi per quella « strada>>. senza di che non potrà mai giungere alla conoscenza della «cognizione massima». Si è discusso assai - su quel che si debba vedere in questa «strada lunga», ma nonostante l'espressione un po' equivoca del luogo in cui se ne parla per la prima volta 10), il modo con_cui è ripresa l'immagine della « strada » o del « giro », al ptj~cip_io della educazione dei filosofi, non consente dubbio: con essa può essere soltanto significata la via della formazione filosofi.ca, nella quale debbono entrare i reggitori. Proprio se questa si considera come via di educazione per futuri uomini di stato, come « educazione politica», è particolarmente appropriata,
9 ) Cfr, Resp. 503 e-504 h, dove Platone si richiama a una pagina precedente, 435 d. Là si è parlato per la prima volta di una µ1ucp0Tépot b66c;, che in 504 b è chiamata µotxpoTépot m:p!o3oc;. Cfr. anche 504 c 9 µotxpoTépot11 (scil. 08611) T0(11u11 7>epL"CTéov Tij>
'tOtOÒ't'ro. 10)
0
Resp. 435 d.
CAP. X: LA REPUBBLICA, Il
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per. l'addestramento matematico-dialettico voluto da Platone, l'espressione di «strada lunga» o «giro» 11). È un'espressione che caratterizza precisamente tutto quello che di nuovo e d'insolito c'è in questo programma: l'esigenza che uomini destinati alla vita pratica consumino lunghi anni in una formazione puramente intellettuale. Così, poi, Platone formula il principio che lo induce a ritener necessaria una strada come questa: quanto più alto è il valore di cui si tratta, tanto più alto deve essere il grado di esattezza e purezza della nostra conoscenza dell'oggetto 12). È questa la vecchia esigenza di Socrate, che il politico abbia una conoscenza competente, esatta, del fine supremo di ogni agire umano. Il mezzo di soddisfarla è per Platone quella scienza della dialettica che egli svolse dall'arte dialogica di Socrate. Prima, • però, di dire qualcosa di pm preciso sulle tappe di questa lunga strada, Platone c'invita a volger l'occhio alla meta, alla vetta vertiginosa da conquistare. E la meta, fin qui designata sempre col solo nome generico di «cognizione massima», non. è altro che l'idea del Bene, quello, cioè, per cui tu.tto ciò che è giusto, bello, e così via, è utile e salutare 13). Ogni altro sapere sarà inutile se questo non si conosce. Che valore infatti avrebbe il possesso di qualcosa che, non partecipando 11) Non si dovrebbe trascurare il fatto che la concezione dell'educazione dialettica come« strada traversa» necessaria a peroorrersi per il futuro uomo di stato si trova anche nel Fedro. Anche n, per Platone, si tratta di dimostrare che quella dialettica biasimata da avversari come Isocrate come remota dalla vita e per· ciò di nessuna utilità, è invece indispensabile _per l'uomo politico, per il« :retore». Cfr. vol. III 336 ss. Isocrate suol contrapporre la paideia sua propria, alla ginnastica intellettuale platonica, come l'unica che . sia propriamente politica. Cfr. vol. III 252 ss. 12 ) Resp. 504 e. 13) Resp. 505 a.
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del bene, non fosse buono a niente ? Il fatto poi che Platone, pur adoprando per lo più l'espressione più semplice,« il bene», intenda« l'idea del bene», significa prima di tutto, come sempre quando si usa la parola « idea», l'universalità del bene, l'unità di tutto eiò che è buono preso nella sua totalità, in contrapposto alla molteplicità delle cose singole, di cui si predica la qualità di « buone», in quanto, come dice Platone,« partecipano» in qualche modo all'idea del bene. Se è vero che una concezione di questo genere è aliena dall'intendimento dell'uomo comune, è vero altresi che anche i più riconoscono l'esistenza di un summum bonum, e ciò nell'atto in cui riconducono al piacere ogni cosa che abbia per essi valore 14). Si è visto, però, già :fin dal Gorgia, e indirettamente :fin dal Protagora, che con questo concetto volgare - il piacere come bene supremo - non si concilia la distinzione - che è pur essa ovvia anche per i più - 15), tra piaceri buoni e piaceri cattivi. In realtà anche tra i più, gli uomini un po' più colti tendono piuttosto a considerare bene supremo la saggezza e la ragione. Ma se si domanda loro, qual genere di saggezza o conoscenza hanno in mente, la risposta è: la conoscenza del bene 16). Ora, come risulta da altri dialoghi, l'intenzione di Platone non è affatto di rifiutare senz'altro tutte e due queste contrastanti opinioni. Ambedue mirano al « bene umano» e questo, considerato con verità, secondo la teoria esposta ne] Filebo, consiste in una giusta e proporzionata fusione e di piacere e di conoscenza razionale 17). In sé e per sé, però, né iJ piacere né la ragione U) Resp. SOS b. 16) Resp. 505 c. Cfr. la distinzione tra piaceri buoni e cattivi nel Gorgia, su cui v. p. 249. 16) Resp. 50S b-c. 11) Phileb. 65 b-c. Il« bene umano» 'è diverso dal«bene in sé».
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sono il culmine supremo 18), come riconoscono, senza rendersene conto, gli stessi sostenitori di ambedue le opposte opinioni, i quali, come Platone mostra nella Repubblica, di fatto pongono, gli uni e gli altri, il bene al di sopra di ciò che a parole proclamano valore supremo, sia che antepongano il piacere buono al piacere cattivo, sia che preferiscano la conoscenza del bene a ogni altra conoscenza 19). Comunque, per il momento, trattandosi di stabilire l'importanza dell'idea del bene per l'educazione dei reggitori, non c'è bisogno di una preliminare definizione di essa; basta che si tenga presente quello che è, del bene, il segno distintivo più wriversale, il segno che ognuno conosce, e cioè che il bene è ciò su cui nessuno per nessuna ragione accetterebbe mai di ingannarsi volontariamente 20), per capire che non si potrà affidare la guida dello stato a un custode che, su questo problema dei problemi, brancoli egli stesso nel buio 21). Platone non tenta, neppure nel seguito del libro, di definir propriamente la natura del bene in sé. Anzi, a rigore, questo tentativo non si trova mai nei suoi scritti, per quanto spessissimo la discussione che in essi si svolge porti a questo punto. Tra gli scritti più tardi, il Filebo è quello dove si ricerca più di proposito sul problema qui impostato, se cioè il piacere o la ragione sia il bene supremo; ma anche là non si fa lo sforzo finale per giungere a una definizione esauriente del bene. In luogo di ciò, Platone si limita a operare la deduzione di tre delle note di quel concetto, cioè bellezza, simmetria e verità 22), per decidere in base a 18) Phileb. 22 b. 19) Resp. 505 c. 20) Resp. 505 d. 21) Resp. 505 e. 22 ) Phileb. 65 a.
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questi tre criteri, se il piacere o la ragione sia relativa· mente più vicina al bene. Nella Repubblica, sul primo momento, il Socrate platonico sembra ritornare alla professione di «ignoranza» del Socrate storico, di fronte alla richiesta di Glaucone, che non si limiti a esporre i pensieri altrui, ma dica lui stesso la sua opinione sul bene 23). Ma questa volta, dopo che Socrate in molti luoghi della Repubblica ha abbandonato queste posizioni di scetticismo, anzi ha affermato energicamente che l'arte di navigazione politica è insegnabile 24), Platone non può più consentirgli il rifugio nella vecchia «ignoranza». Gli fa quindi insinuare da Glaucone che basterebbe che egli dicesse il suo parere sul bene in una maniera sommaria, come quella che ha già usato parlando della virtù civile25). A quel proposito, come si ricorda, Socrate non aveva dato una definizione conclusiva della essenza delle quattro virtù, ma si era limitato ad accennare schematicamente al loro posto e funzione nell'anima, ponendole come parallele alle classi e alla funzione di queste nello stato 26). In modo analogo si comporta ora col problema del bene, evitando ogni elemento troppo tecnico-:6.loso:fico, e chiarendo invece la posizione e il modo d'azione del bene nel mondo con una figurazione sensibile. Così una similitudine, in cui si uniscono la più alta forza poetica e la più precisa acutezza logica, svela d'un colpo quello che fin qui è stato di proposito, negli scritti platonici, tenuto nell'ombra, o solo accennato come lontano punto d'arrivo: il luogo e il significato dell'idea del bene come principio supremo della filosofi.a. 23) Resp. 506 c. 24) Cfr. supra, p. 459. Nella similitudine del buon nocchiero, Resp. 488 b-e,' sono soltanto i 7tOÀÀo( a pensare che l'arte della navigazione politica non si possa insegnare. 25) Resp. 506 d. 26) Cfr. supra, p. 413.
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Nel corso della discussione è apparso dubbio che un'adeguata conoscenza de] bene possa darsi, nella forma della definizione concettuale: la similitudine, che ora Platone offre al posto di questa, accenna a un'altra via di accostamento. Il «vedere», nella dialettica platonica, è l'espressione propria per designare la funzione intellettuale sintetizzante che coglie nel molteplice l'unità dell'idea. Platone stesso, occasionalmente adopra, per caratterizzare tale funzione, l'espressione « sinossi» 27). Dato però, che la via dialettica alla visione dell'idea non è assolutamente esprimibile, nel suo tratto estremo, con la parola scritta, egli la sostituisce con la visione sensibile di ciò che è il suo « analogo » nel mondo sensibile. Il Bene eterno, cosi egli dice 28), manifesta la sua natura nel suo :figliuolo, nel massimo Dio visibile nel cielo, Helios, il sole. Platone non dice subito che anche il padre di Helios è un dio; ciò equivarrebbe a dare per noto quello che si sta cercando, e perciò il simbolismo della sua teologia, sul primo momento, non si spinge al di là del figlio. Glaucone è vero, esprime il desiderio di udire un'altra volta, una « storia » dello stesso genere anche sul padre; ma Socrate declina la richiesta osservando che egli sarebbe ben contento di raccontarla, sol che ne fosse capace e che trovasse ascoltatori capaci di comprenderla. Per il momento, Socrate si richiama brevemente a ciò che ha esposto, in compendio in questo dialogo e più precisamente in altre occasioni, sulla teoria delle idee 29), e distingue, in conformità con l'opposizione ~- i~ea e Cfr. supra, pp. 172, 282 s., 331. Resp. 507 a. 29) Resp. 507 a, e precedentemente, 476 a s. Le parole &ÀÀo-re: -!18"1) nollblica, chiama figlio questo supremo dio celeste, il sole, e padre, il Bene. ") Cfr. le « grandi linee di teologia» ( Tuno L T'ìjc; .&e:oÀoy(occ;) in Resp. 379 a. Il principale assioma di questa teologia è che Dio è nell'esse.nza buono (&yoc.&òc; Téj'> 6Yn). L'espressione Téj) ilYTt è il modo platonico di designare la realtà dell'Idea.
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
mento della sua critica a poeti epici e tragici per il modo di rappresentare le divinità, è in realtà fondata, come ora si vede chiaramente, sul riconoscimento dell'idea del bene come principio supremo. E forse c'è un'altra ragione per cui Platone evita di designarla espressamente come «Dio», ed è che questo nome non avrebbe aggiunto niente di essenziale alla sua definizione, mentre, al contrario, la massima che Dio può solo operare il bene, subordina e condiziona l'essenza e l'azione della Divinità all'idea del bene, come a suprema misura 45 ). In realtà l'argomento capitale per a:ffer~re la dignità « divina» del Bene è proprio il fatto che esso ha impresso nel concetto platonico del divino il suo proprio carattere di « misura». Poiché Dio è, come è detto nelle Leggi, la misura di tutte le cose 46), ed è tale perché è il Bene. L'idea del bene nella Repubblica è la norma assoluta .di quella concezione della :filosofia - che appare assai presto nel pensiero platonico e che vi rimane fino alla fine - che vede in essa una suprema «arte della misura». Quest'arte, però, non può consistere, secondo l'idea dei Sofisti e della massa espressa nel Protagora, in un bilancio puro e semplice di piaceri e dispiaceri soggettivi; quella che essa esige è una misura assolutamente obbiettiva 47). E, a questo proposito, possiamo 41i) Certo, in termini di religione greca, la parola « dio » è un predicato che converrebbe al Bene supremo operante in ogni cosa, a maggior diritto che !!.d alcun'altra delle potenze di questo mondo che i Greci venerano come dei. Ma naturalmente, quello che interessa essenzialmente Platone, dal punto di vista :filosofico, è il contributo che egli dà alla retta concezione del divino col definire il principio del mondo come il Bene in sé. 46) L'affermazione di Platone nelle Leggi 716 e, che Dio è misura di tutte le cose, è, ovviamente, in consapevole antitesi col famoso detto di Protagora: «l'uomo è misura di tutte le cose». 47) Prot. 356 d-357 h. Il vero criterio di misura è il Bene in sé. L'idea che esista una suprema arte della misura e che la conoscenza dei valori propria del filosofo (qip6v1jO't. Se Dio è il Bene in sé, l' oµ.o[(,)crt'C; .&céj> diventa la formula della conquista deirareté. Cfr. infra, p. 514, n. 87.
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la dottrina capitale. Se infatti Dio è per essenza buono, anzi se è il Bene in sé, la più alta areté che l'uomo possa raggiungere è veramente un processo conducente a somigliare a Dio. Giacché, come già si è visto nei dialoghi minori, a fondamento comune di tutte le singole virtù sta il Bene in sé. Quei brevi scritti mirano tutti con le loro indagini sulle virtù, a un solo scopo, che non è quello di definire le singole virtù, ma di av· viare al principio del Bene in sé, che nella Repubblica si chiarisce come la divina causa prima di ogni pensiero e di ogni realtà 53). A prima vista sembra che ciò non si _accordi col fatto, già da noi rilevato, che Platone, là dove s'inizia l'esame della paideia più alta, ha posto espressamente come fine e compito del pit· tore filosofo quello di ritrarre l' « umano» 54). Ma, a guardar meglio, già allora egli stabiliva un parallelismo tra questo «umano» e l'esser« simile a un dio» dell'uomo omerico e osservava che la nuo'"a immagine umana deve essere èosì commista di lineamenti ideali e reali da essere il più possibile cara a Dio 55). Anche là quindi non è l'uomo, nella contingenza della sua individualità, la norma suprema, come lo è invece per la paideia dei Sofisti, che fa dell'uomo la misura di tutte le cose. L'umanità vera e piena si realizza solo nello sforzo di avvicinarsi al divino, cioè alla « misura» eterna 56 ). Queste considerazioni ci hanno condotto ad anticipare alquanto i resultati della ricerca platonica. Giacché, apparentemente, Platone qui si trattiene solo sul-
03) Resp. 511 b; vedi pure 508 e. 64) Resp. 501 b TÒ &:vòpe:lxe:)..ov; cfr. supra, p. 478. 55) Resp. 501 b TÒ .&e:oe:Loeç "e: xcxt .&e:oe:lxe:)..ov e 501 e e:tç l5crov ivòtxe:TcxL .&e:oqn)..ij ::rotdv (scil. &:v.&pw7te:tcx 'ij.&71). 56) Cfr. nota 46.
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LIBRO III - ALLA RJCERCA DEL DIVINO
l'aspetto metafisico dell'idea del bene, sì da far sembrare, sul primo momento, che egli abbia perduto completamente di vista il rapporto di essa col compito dell'educazione umana. E questa apparenza ha sempre indotto gli espositori a sciogliere dal contesto la similitudine del sole e a intenderla come simbolo, a sé stante, della metafisica o della dottrina della conoscenza di Platone, anche perché con essa termina il VI libro e pertanto essa può apparire (contro l'intenzione dello scrittore) come un punto culminante dell'esposizione, separato da ciò che segue. In realtà, quello che la similitudine vuol chiarire è certo una scienza, ma questa è pur la scienza del B e n e ed è perdò intimamente connessa col problema della virtù. Anche quando Platone svolge dai presupposti socratici conseguenze metafisiche estreme, fa struttura del suo pensiero seguita a mostrare le tracce di quel terreno educativo in cui affonda le radici. Una ontologia che culmina nell'idea del bene è la metafisica della paideia. L'Essere di cui Platone parla non è senza connessione con l'uomo, con la volontà dell'uomo. L'idea del bene, che riempie di senso e di valore il mondo platonico delle Idee, appare come la natural meta di ogni sforzo umano, e la conoscenza di essa esige dall'uomo, nell'azione, un atteggiamento che le corrisponda. Questa meta sta però al di là del dato immediato, del mondo dell'apparenza, ed è come nascosta all'occhio dell'uomo, in quanto essere di sensi, da veli di varia natura. Il primo passo a che la luce del Bene investa nel suo pieno fulgore l'occhio dell'anima, è quello di dissipare l'ostacolo di questi veli. . Platone, perciò, a chiusa della similitudine del sole, ricorre ad un'altra immagine, significante i piani di conoscenza che di grado in grado 'conducono dalla più illusoria apparenza fino alla visione della più alta realtà.
(II501J
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L'immagine è di natura matematica. D grado di approssimazione della nostra conoscenza alla realtà può essere rappresentato da una retta divisa in due segmenti ineguali.
A
/
/
B
Ciascuno dei due segmenti a sua volta è diviso in due parti, secondo lo stesso rapporto secondo il quale è divisa la linea intera 57).
Ai
/
Az /
B1 /
B2
/ I due segmenti maggiori A e B rappresentano rispettivamente il mondo visibile e il mondo intelligibile, o (dal punto di vista della teoria delle idee) il mondo della mera opinione e il mondo della verità e conoscenza. Delle due parti in cui si suddivide il segmento che indica il mondo visibile, Al e A2, là prima sta ad indicare ogni sorta di fenomeni di puro riflesso o copia, come le ombre, le immagini speculari di cose riflesse nell'acqua o su superfici solide lucide; la seconda suddivisione rappresenta tutto il mondo di piante e di animali che ci circonda e inoltre ogni sorta di cose fabbricate artificialmente. Gli oggetti della prima sezione A1 sono i riflessi di quelli della seconda sezione A2 • Si tratta cioè sempre degli stessi oggetti che, sui due piani, ci si presentano in due diversi gradi di chiarezza e di realtà. Ma un rapporto corrispondente deve sussistere anche tra gli oggetti indicati dalla terza sezione B1 e quelli della quarta B 2 , giacché la divisione della linea 57 )
Resp. 509 d.
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intera e la suddivisione di ciascuno dei due segmenti, in cui essa si divide, secondo lo stesso rapporto, significa che Platone pensa a una vera proporzione. Naturalmente il significato vero e proprio di questa non è adeguatamente esprimibile per mezzo di linee geometriche, in quanto non si tratta qui tra gli oggetti messi a confronto, di rapporto quantitativo, bensi del loro relativo grado di realtà e dell'esattezza della conoscenza che noi abbiamo di essi. Solo con la seconda delle due sezioni principali (B} si giunge, fuor dal regno della mera opinione, in quello della conoscenza e ricerca scientillca, in quello della verità, cioè nella regione in cui deve muoversi, secondo Platone, l'educazione del reggitore filosofo. Qui per la prima volta è chiaramente espresso il fondamento metodico-pedagogico su cui essa riposa. Anch'essa a sua· volta è concepita come un processo graduale, che, elevando il discepolo al di sopra del mondo sensibile, lo innalza finalmente al culmine supremo del vero. La prima sezione B1 del secondo segmento B rappresenta le discipline speciali ("téx_von) 58), che, come la matematica, partono da ipotesi, e sviluppando fino alla fine tutte le conseguenze di queste, giungono a nuove conoscenze 59). Esse si servono nel loro lavoro, come di modelli, di figure visibili, ma le verità che esse dimostrano non sono propriamente valevoli per quei modelli, bensì per il Triangolo- in sé, per il Cerchio in sé, che esse si vedono davanti come oggetto, nel pensiero 60). In quanto esse si sforzano di astrarre dal sensibile e di concepire il vero in sé di triangolo, circolo, angolo ecc., esse sono strettamente affini al più 68) Resp. 511 c 6, dove le scienze, a questo livello, sono chiamate « le cosiddette -.éxvccL ». 59) Resp. 510 b. !IO) Resp. 510 d; cfr. 510 b.
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alto metodo di conoscenza :fìloso:fica. Ma d'altro canto rimangono legate al mondo sensibile e al piano di conoscenza che gli corrisponde, la doxa., in due modi: 1° partono da ipotesi costruite sul fondamento di immagini sensibili, di :figure visibili, anche se le proposizioni che dimostrano, non propriamente a tali immagini si riferiscono; 2° non si elevano mai al disopra del piano dei loro presupposti, accettati come veri («postulati»), mentre non altro fanno che rimanere in essi, addentrandovisi con lo svolgimento logico di tutte le loro conseguenze; sono costrette a trattarli, questi postulati ipotetici, come « principii» (à:px.cx() 61). Solo nell'ultima sezione del secondo segmento rappresentante il mondo intelligibile (B2) si giunge a una sorta di conoscenza, che muove, anch'essa, da ipotesi, ma non le accoglie, come la matematica, con valore di principii, bensì secondo il preciso significato della parola, come fondamenti e basi, da cui si leva in alto per penetrare :fino all'incondizionato, al principio del Tutto 62). Questa specie di conoscenza è il vero, o puro logos. Esso si solleva a comprendere il principio supremo; raggiuntolo poi, ne discende di grado in grado, da quello che è ad esso più vicino, giù giù :fino alla :fine, senza ricorrere all'aiuto di alcuna percezione sensibile, sicché passando sempre da Idee a Idee, nelle Idee alla :fine si ferma 63). Più di una volta Platone stesso rileva la difficoltà di fare intendere, in forma cosi compendiosa, questo processò graduale, facendo che l'interlocutore di Socrate, del resto assai bene addestrato :filosoficamente, da principio non capisca affatto, e all~ :fine ·capisca 61 ) Resp. 511 c-d. 6Z) Resp. 510 b (cfr. anche nota seguente). 63) Resp. 511 b.
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solo a un dipresso, ciò di cui si tratta 114). Ma, evidentemente, per Platone non si tratta qui di svolgere in una pagina la parte più riposta della sua dottrina del metodo e della sua logica - come sembra credere la più parte degli espositori che hanno sempre trovato in questo passo il loro paradiso - ; quel che egli vuole è solo chiarire, à grandi linee, il processo graduale del conoscere giungente :fino alla dialettica liberata da ogni immagine sensibile, la quale conduce al principio del Tutto, all'incondizionato, e con ciò si fa capace di comprendere tutto il resto, come derivato da quello. Solo una tale conoscenza merita il nome di ragione (nous); paragonato con essa il grado matematico del sapere non è che intelletto (dianoia); il grado della percezione sensibile del mondo delle cose · è solo una opinione, ferma ed evidente, ma non dimostrata (pistis); il quarto grado infine è pura e semplice congettura (eikasia) 65) e il suo oggetto, considerato dal gradino immediatamente precedente della percezione sensibile delle cose reali, appare come mera copia 66). Nello stesso modo però, il reale sensibile (p. es. una sfera di legno) è a sua volta una mera copia di quel tipo di realtà con la quale ha a che fare il matematico (la Sfera in sé) 67). Platone non dice che anche la realtà concepita nella conoscenza matematica sta in un rapporto di copia a
64) Resp. 510 b 10, 511 e 3. 85) Resp. 511 d. Il criterio base del confronto qui istituito da Platone tra i quattro piani di conoscenza è il grado maggiore o minore di aa:cp1Jveta: (e rispettivamente di &.a&cpe:ta:) che ciascuno di essi rappresenta: aa:cp1Jve:La: è da intendere tanto come intelligibilità quanto come oggettività reale; Cfr. 510 a 9 cXÀ'l).&d~ 66) elxci>v vale« copia» non solo nel senso di «ripetizione» o « riproduzione», ma anche nel senso di « attenuazione» dell'iinmagine rispetto al modello, come mostrano gli esempi. Così Platone chiama etx6ve:ç le ombre e le immagini speculari delle cose sensibili: 509 e-510 a. 67) Resp. 510 e, 511 a.
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modello con la realtà della dialettica. Pure egli deve avere in mente' qualcosa di simile, quando dice che le proposizioni più generali, che il matematico assume come principii, non sono che ipotesi per il :filosofo, dalle quali egli soltanto risale al vero e proprio principio 68). La proporzione matematica che rappresenta i quattro gradi conduce dalla comparazione del sole, termine e punto culminante del sesto libro, alla similitudine della caverna, che configura simbolicamente, con altissima forza poetica, l'ascensione, :fin qui descritta solo astrattamente, della conoscenza all'idea del bene. « Dopo ciò» - cosi comincia Socrate il famoso racconto degli uomini della caverna 69)-« paragona la nostra disposizione naturale, in quel che riguarda paideia, e apaideusia, a una condizione di vita di questo genere: uomini vivono in una caverna sotterranea, che per mezzo di una larga e lunga galleria ascendente si apre alla luce esterna. Questi uomini son vissuti :fin da fanciulli incatenati, per le gambe e per il collo, sicché non possono né muoversi né girarsi, e sono. costretti a guardar sempre davanti a sé, rivolti con le spalle all'uscita. Dietro di loro, a grande distanza e presso allo sbocco della galleria, divampa un fuoco, e il riverbero di questo, passando sulle teste dei prigionieri va a colpire la parete di fondo della caverna. Tra loro e il fuoco corre una strada ascendente, e lungo questa un muricciolo paragonabile a una di quelle ribalte di teatro di marionette sulle quali i burattinai fanno agire i loro 68) Resp. 511 h 5. 89) Resp. 514 a: la parola &7tdxa:crov mette espressamente la similitudine che segue sullo stesso piano delle altre dx6veç a cui Platone è ricorso in questo contesto, cioè la similitudine del sole e quella della proporzione matematica. Anche quest'ultima, infatti, è una dx©v di tipo regolare, come mostrano il sinonimo òµo~6Tljç (509 c 6) e l'uso del verbo fo1xe, connesso con dx©v (510 a 5; 510 d 7).
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fantocci. Dietro il muretto sono uomini che portano, lungo di esso, oggetti usuali d'ogni genere e figure di legno e di pietra, ,talvolta in silenzio, tal altra anche parlando tra loro. Questi oggetti sporgono al di sopra del muretto e il fuoco proietta le loro ombre sulla parete di fondo della caverna., I prigionieri che non possono volgere il .capo verso lo shocco· della caverna, e che, perciò, non hanno mai visto nulla in vita loro se non ombre, le prendono, naturalmente, per la realtà, e quando nello stesso tempo sentono l'eco delle voci dei passanti, credono che siano le ombre a parlare. Immaginiamo ora che uno di costoro sia sciolto dalle catene e, da un momento all'altro, salga in alto e veda la luce: non sarà certo capace di scorgere, in tutto il lòro variopinto splendore, le cose di cui fin qui ha visto le ombre e non crederà a chi gli assicuri che tutto· quel che ha visto fin qui è come nulla, e che ora il suo occhio scorge un mondo di superiore realtà 70). Al contrario, sarà fermamente convinto che quelle fono.e umbratili alle quali è abituato· sono la vera realtà, e finirà per rifugiarsi, con occhi doloranti, nel buio della caverna. Una lunga assuefazione sarà necessaria prima che egli sia in grado di mirare il mondo di sopra. Da principio riuscirà. soltanto a vedere ombre e poi immagini rlllesse nell'acqua degli uomini e delle altre cose, e solo a stento, alla fine, vedrà le cose stesse. Poi riuscirà a guardare il cielo . e gli astri della notte, in tutto il loro splendore, finché sarà capace di volger l'occhio al sole, non più al suo riflesso nell'acqua o in altro luogo, ma al sole stesso nella purezza della sua luce· e proprio là dove esso è. Poi si renderà conto che il sole è quello che produce la vicenda delle stagioni e degli anni e che dom.i:Ila e regola ogni accadimento ?O) Resp. 515 c.
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del mondo visibile, che, insomma, esso è la causa di tutto quello che egli stesso e gli altri hanno sempre visto, anche come mera ombra. Se egli allora si ricorderà della sua primitiva abitazione e delle sue opinioni d'al, lora, e · dei suoi compagni di prigionia, stimerà felice se stesso, per la mutazione avvenuta, e compiangerà quegli altri. Supposto che ·tra quegli incatenati esista qualche forma di onore o di riconoscimento per colui che meglio e più acutamente riesca a vedere le ombre trascorrenti e meglio tenga a mente quali di quelle apparenze " sogliono " venir prima e. quali dopo e· quali contemporaneamente, sicché a lui meglio riesca di predire in qualche modo il futuro imminente [Platone ha in mente qui l'uomo politico che si fonda puramente sull'esperienza], allora quell'uomo sciolto dalle catene non penserà con rimpianto a tali onori e non invidierà i compagni che ancora li godono, ma vorrà piuttosto, come l'Achille omerico, aver la sorte del più umile lavoratore a giornata nel mondo superiore della ragione, che quella di re nel mondo delle ombre 71 ). E se egli poi dovesse ritornare nella caverna e là mettersi come prima a gareggiare con gli altri, a chi meglio riesce a distinguere le ombre, non riuscirebbe più in questo lavoro e desterebbe il riso, perché non sarebbe più in 11 ) Resp. 516 c 9. Evidentemente Platone contrappone qui la politica come conoscenza delle Idee, culminante nella visione del Divino, alla politica della pura esperienza. È significativo, a questo proposito, l'uso di d~e:L (516 d) per caratterizzare l'uomo politico nel senso convenzionale, non socratico. Giacché ogni proposizione o giudizio fondato solo sull'esperienza può, nel migliore dei casi, giungere solo alla percezione di ciò che di regola suole avvenire in un certo modo e non altrimenti. Sull'uso della formula y[yvccr-&1n (o cruµ~a[ve:Lv) e:tro-&e:, caratteristica del metodo empirico, in medicina come in politica, cfr., per la prima il mio Diokles von Karystos, p. 31 e, per la seconda, il mio saggio The date of Isocrates' Areopagiticus and the Athenian opposition in « Athenian Studies» presented to W. S. Ferguson, Cambridge 1940, p. 432.
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grado di vedere al buio, cioè, come direbbero gli altri, perché si sarebbe rovinati gli occhi nel suo viaggio al mondo superiore. E se poi gli venisse in mente di liberare uno degli altri e di portarlo su, allora gli altri lo ucciderebbero se gli potessero mettere le mani addosso». L'interpretazione della similitudine è data anche qui dallo stesso "Platone. Essa risulta chiara quando la si collega con la similitudine del sole e con la proporzione matematica dei gradi dell'essere 72). La caverna corrisponde al mondo visibile, e il fuoco che la illumina è il sole. L'ascesa verso l'alto e la visione del mondo superiore è immagine del viaggio dell'anima, su su fino al mondo intelligibile. Tutto questo Socrate lo presenta come una sua personale « speranza», che egli ha esposto perché Glaucone l'ha voluto. Se essa sia speranza verace lo sa Iddio; a lui, Socrate, pare che lo sia 73). Questo concetto di speranza è quello stesso che si suole usare nel linguaggio dei misteri per designare l'aspettazione che l'iniziato alberga nell'animo riguardo all'aldilà. Qui> dunque, il concetto di passaggio da questo mondo all'oltremondo è trasferito o assimilato al passaggio che l'anima compie dal mondo visibile all'invisibile 74). E davvero anche la conoscenza del vero Essere è un passaggio dal tempo all'eternità. Nella regione del puro conoscere è quel termine estremo che l'anima « con fatica» apprende a vedere, l'idea del bene. Ma, una volta contemplatala, si deve concludere che essa è la causa di tutto quello che nel mondo è vero e bello, e che se si vuole agire secondo ragione, nella vita privata come nella pubblica, bisogna averla contemplata 75). Resp. 517 L. •.3) Resp. 517 b 6. 74 ) :Vedi la parola tÀ7tLneppure gli occhi e non hanno mai gustato una gioia durevole e pura. Con l'occhio rivolto « al basso» come bestie in pastura, proni alla terra e alle tavole dei loro banchetti, brucano e vanno dietro ai loro diletti, e per averne di più, vengono ai cozzi tra loro, con corna e zoccoli di ferro, e si uccidono senza potersi saziare, perché ciò di cui si riempiono non è quello che veramente « è». Del piacere non conoscono che ombre e fantasmi, rimanendo ignoto a loro il piacere vero, connesso alla parte intellettiva dell'uomo, alla phronesis, tanto che, perfino, intelletto e ragione paiono a loro opposti al piacere. La loro sorte è quella dei Greci combattenti dinanzi a Troia per la riconquista di Elena; frattanto l'Elena che era nella città non era che mi fantasma ingannevole e la vera Elena era in Egitto, come narrava Stesicoro 417). Così il filosofo, anche dal punto di vista del contenuto di realtà del piacere, risulta essere il solo che prova un piacere vero 418). Il più distante da lui è l'uomo tirannico, il più vicino, l'uomo regale, il « giusto» dello stato perfetto. Platone spinge il gioco della sua ironia fino a determinare con precisione le distanze relative dei tipi umani corrispondenti alle diverse forme politiche dal piacere vero, e trova, calcolando, che il tiranno è settecento ventidue volte meno felice dell'uomo regale. Ma se l'uomo buono e giusto supera di tanto il tiranno nel piacere, di quanto
Resp. 585 e-e. U?) Resp. 586 a-e. 41 8 ) Resp. 586 e.
ll6 )
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mai non lo supererà in dignità, in bellezza, in pienezza di umanità ! '19) Non soltanto, però, è più felice l'esistenza del giusto di quella dell'ingiusto, ma non è neppur vero che sia più utile essere ingiusto con l'apparenza della giustizia, secondo l'opinione di molti esposta al principio del dialogo da Glaucone e Adimanto 420), Platone è arrivato a questa conclusione già prima, quando ha definito la giustizia come salute e armonia dell'anima 421). Ed ora la conferma ancora una volta, v.iunto alla fine della ricerca 422), col mezzo artistico del simbolci- -immaginoso, al quale egli ricorre così spesso nei momenti decisivi. - Qui egli foggia una similitudine allegorica che rappresenta la natura umana in tutta la sua complicata struttura intima. Questa immagine dell'uomo, o meglio, dell'anima, la presenta, conforme alla dottrina psicologica di Platone, sotto tre diversi aspetti: in primo luogo come mostro dalle molte teste, poi come leone, infine come uomo. Quel che noi chiamiamo comunemente «l'uomo» è solo un illusorio involucro esteriore che racchiude tutte e tre queste nature, dissimili e indipendenti tra loro, e così produce l'impressione che l'uomo sia un'unità tutta levigata senza scabrezza di problemi 423). Il mostro, circondato da ogni lato di teste di animali sia mansueti sia feroci, è l'uomo come natura istintiva, è la parte bramosa dell'anima, che Platone distingue dalla coraggiosa e da quella pensante. Il leone è l'uomo come natura emozionale, quella che si adira e si vergogna, che ardisce e si esalta. Ma l'uomo vero, «l'uomo nell'uomo» come Platone dice con espres419) Resp. 587 a-e. 420) Cfr. supra, p. 350 ss. 421) Resp. 445 a; cfr. 444 e-e. 422) Resp. 588 b ss. 423) Resp. 582 c-d.
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sione mirabilmente illuminante· del suo nuovo pensiero, è la parte intellettuale dell'anima 424). Non occorrono parole per mettere in luce l'importanza di questo pensiero per la storia dell'umanesimo. L'immagine illumina in un lampo la direzione e il significato della paideia platonica, in quanto questa si fonda su una valutazione nuova dell'uomo e della sua natura. Il fine dell'opera educativa è lo sviluppo dell'uomo nell'uomo. Col subordinare rigidamente tutto il resto all'elemento intellettuale si opera una mutazione totale nel quadro della vita e della vera perfezione umana. E si chiarisce ancora una volta che tutto questo complesso edificio dello stato perfetto non ha alla fine altro scopo che di offrire uno sfondo su cui venga a profilarsi questa immagine dell'anima umana, a quel modo che anche la descrizione del digradare · progressivo delle forme' politiche serve solo di sfondo a chiarire la decadenza progressiva nelle varie forme dell'anima. Perciò chi approva l'ingiustizia non fa altro che dare il sopravvento alla bestilJ selvaggia dalle cento teste che è in noi. Il filosofo soltanto che rinsalda e fa prevalere la parte buona della natura umana, subor· dina tutto il resto a quello che jn no è divino. Fare il contrario, subordinare il meglio al peggio, non può mai essere profittevole, essendo contro natura. Infine, nell'immagine del leone si chiarisce ancora una volta ragione e significato del duplice sistema educativo della Repubblica platonica; quello filosofico dei reggitori e quello guerriero dei « custodi »: il leone saggiamente domato, invece di far causa comune col mostro dalle cento teste, si sottopone all'uomo che è nell'uomo e lo aiuta a vincere la sua lotta con l'idra 425). È il compito '24) Resp. 588 e-589 b. 425) Resp. 589 b. Il passo in pari tempo chiarisce anche la differenza che passa tra ogni forma di educazione che voglia formar
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dell'educazione questo, di mettere gli elementi irrazionali più nobili dell'anima in un tale accordo con l'elemento razionale, che questa in sé così debole parte veramente umana, riesca, appoggiata dall'altra, a tenere in iscacco la parte men che umana. Questo è lo stato che la paideia platonica mira a fondare. I giovani non si possono licenziare dalla tutela educativa finché nell'animo loro non sia formato e durevolmente stabilito questo governo: la supremazia del divino su ciò che è bestiale nell'uomo 426). L'uomo che Platone chiama giusto, identico per natura allo stato veramente giusto, non può trovare sostegno alcuno, né per leducazione né per altra attività, nello stato reale, che è solo una copia deforme della superiore natura umana. Come dice Platone in altro luogo, egli provvederà prima di tutto, in mancanza di uno stato perfetto in cui mettersi ad agire, a formare se stesso (blu-ròv 1tÀOC't"'t"E:tv) 427). Ma egli porta in sé, nell'anima sua, lo stato perfetto e vive guardando a quello anche se non in quello. Egli si guarderà dunque dall'apportarvi alcun cambiamento, e regolerà i propri rapporti coi beni di questa vita terrena, denaro, possessioni, onori e simili sul criterio della conciliabilità di essi con la legge dello stato che è in lui 428). Pertanto, gli si presenterà anche il problema se debba o no occuparsi attivamente di politica. Ma è questo un problema già risolto da tutto ciò che fin qui si è detto, e, come ritiene non senza ragione il giovane interlocul'uomo a essere uomo e il puro e semplice« ammansimento di :fiere». Però, da un punto di vista sociale, il secondo non è meno necessario del primo, in quanto la pura educazione umana non può estendersi a tutti i membri dello stato, ma può esistere solo come educazione di reggitori. 426) Resp. 590 e; cfr. 589 d, 590 d. 417) Resp. 500 d. 68) Resp. 591 e-592 a.
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tore di Socrate, in senso negativo. Ma Socrate ribatte: nel suo stato egli farà politica e con tutte le sue forze; non però nella sua patria, tranne che una divina Tyche gli renda possibile di intervenire in maniera decisiva secondo i propri principii 429) : il suo stato; cioè quello che si è ora finito di fondare e che sta nel mondo delle idee, ma non esiste in alcun luogo della terra. Però, il fatto che esso esista o no - e con ciò Platone conclude la sua indagine - non ha importanza per la condotta da seguire. Quello stato sarà forse in cielo, paradigma eterno per chi lo contempla e, ·tenendolo a modello, vuol fondare se stesso come vero stato 430). Partiti con Platone alla ricerca dello stato, abbiamo trovato, invece, l'uomo. Possa o no attuarsi nel futuro lo stato ideale, noi possiamo e dobbiamo lavorare instancabili all'edificazione dello« stato che è in noi». Di tutti i paradossi e le inaspettate allegorie a cui ci ha abituato l'approfondimento metafisico e la mutata interpretazione della natura umana che hanno luogo nella filosofi.a platonica, questo è certo il paradosso più grande e l'allegoria più sorprendente. Fin dai primissimi scritti di Platone si è potuto seguir lo sviluppo di un nuovo atteggiarsi della volontà di fronte allo stato, e più di una volta, certo, ci è venuto spontaneo di domandarci se veramente la strada indicata da Platone ci avrebbe condotto a quella che egli asseriva essere la sua meta: e ciò perché, nel fatto, Platone si trova in contrasto permanente con tutto ciò che' secondo l'opinione comune è indispensabile per l'esistenza esteriore di uno stato 431). Giunti alla meta, ci rendiamo finalmente Resp. 592 a. Resp. 592 b. Già Aristotele, Pol. I. II, critica lo Stato di Platone da questo punto di vista, valutandolo col criterio della possibilità di 12") 430 ) 431 )
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conto che, se lo stato è per il pensatore una delle condizioni primarie della vita umana - e ciò in armonia con la più genuina tradizione del pensiero greco ...:.._ tuttavia il criterio col quale egli valuta lo stato è esclusivamente il suo compito educativo e morale. Già nel1'opera storica di Tucidide questo aspetto dell'attività statale ci è apparso in conflitto con lo stato concepito come potenza, sebbene lo storico si dia cura, nel suo quadro ideale di Atene, di conciliare ed equilibrare ancora i due aspetti 432). Ed anche altrove abbondano nell'età di Platone i segni di un turbamento nell'armonia originaria. Da . questo punto di vista si comprende bene quella scissione dello stato in due parti che si attua con inesorabile consequenziarietà tanto nella vita politica reale di quel tempo quanto nella filosofia politica di Platone. Mentre in quei decenni si viene accentuando la tendenza ad uno stato concepito come forza, e la pura ragion di stato sembra imporsi spregiudicatamente, ad opera di notevoli personalità politiche, di tiranni e simili, dall'altro lato si annunzia, nella concezione educativa .dello stato creata dai filosofi, la volontà etica di pervenire ad una nuova forma di comunità. Per essi l'unico criterio normativo - l'ha mostrato già il Gorgia - non è la potenza, ma l'uomo, l'anima, il valore interiore 433). Ora, nell'atto in cui Platone sembra applicare coerentemente questo criterio per purgare lo stato attuale da ·tutte le sue brutture, non altro gli resta nelle mani alla fine se non lo « stato interiore dell'anima». Originariamente, nello sforzo di rinnovamento della polis, questo rinnovamento dell'inrealizzazione. Ma Platone stesso aveva dichiarato del tutto secondaria, per il fine che egli si poneva, questo problema. E il fatto che poi egli facesse a Siracusa un tentativo di educazione filoso• fica di un tiranno, non cambia le cose. 432) Cfr. « Paideia» I, p. 687. 433) Cfr. supra, pp. 225, 248.
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dividuo era stato concepito come cellula germinale di un ordine nuovo totale, ma poi è l'interiorità del!'anima che finisce per apparire come il rifugio ultimo di quell'infrangibile volontà legislatrice che aveva animato gli uomini dell'antica polis greca e che ora non trovava più una patria nel mondo. Così alla fine Platone enuncia, in risposta alla domanda se il suo stato ideale possa essere «realizzato », un principio sorprendente, degno del più grande degli educatori: «realizza il vero stato nell'anima tua». Interpreti antichi e moderni, che si aspettavano di trovare nella Repubblica un manuale di scienza politica concernente le varie forme costituzionali esistenti, hanno più e più volte tentato di scoprire qua e là su questa terra lo stato platonico, e lo hanno identificato in questa o quella forma reale di stato che sembrasse avvicinarglisi nella struttura. Ma lessenza dello Stato di Platone non sta nella struttura esterna - se pur ne abbia una - ma nel suo nucleo metafisico, nell'idea di realtà assoluta e valore, su cui è costruito. Non è possibile realizzare la repubblica di Platone imitandone l'organizzazione esterna, ma solo adempiendone la legge di bene assoluto che ne costituisce l'anima. Perciò colui che è riescito ad attuare quest'ordine divino nella sua anima individuale ha portato alla realizzazione dello stato platonico un contributo più grande, di colui che edifica una città intera esternamente somigliante allo schema politico di Platone, ma priva della sua essenza divina, l'Idea del Bene, la fonte della sua perfezione e beatitudine. Il giusto dello stato platonico non è, perciò, il cittadino ideale dello stato reale, qualunque sia la costituzione di questo. Egli è"in esso, come Platone stesso visto chiaro, necessariamente un estraneo. Sempre pronto a metter tutto se stesso al servizio di uno stato ideale in armonia con le sue esigenze etiche, nello stato
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LIBRO III - ALLA RICERCA DEL DIVINO
della realtà egli vive ritirato in se stesso. Il che non significa che si sottragga ai suoi doveri di membro di una comunità sociale. Anzi egli si dà cura di adempiervi nella maniera più scrupolosa, se veramente fa «il fatto suo» nel più pieno senso. Questo è richiesto dal concetto platonico di . giustizia, il quale può servire di regola in ogni stato e in ogni situazione. Ma, cittadino vero, egli non è se non nello stato che ha in sé, nell'anima, e proprio alle leggi di questo stato e non ad altre obbedisce quando fa in quel modo l'opera sua 434). Da questo momento in poi sembra conseguenza inevitabile, per una personalità di coscienza morale elevata, l'essere cittadino di due mondi. Questa situazione si propaga poi nel mondo cristiano, dove il credente vive ad un tempo nello stato temporale di questò mondo e .nell'eterno e invisibile regno di Dio, di cui è membro. È situazione che nasce da quella « conversione al vero essere» che per Platone è l'essenza della paideia. Ma questa rottura dell'antica armonia della vita greca non ·è dovuta all'invasione dall'esterno di una religione oltremondana. È il prodotto del dissolvimento interiore dell'unità greca di individuo e città. In fondo tutto quel che Platone dice non è che la raggiunta consapevolezza della situazione reale dell'uomo :6.losofì.co, quale gli si era venuta configurando tipicamente nella vita e nella morte di Socrate. Non è un caso, ma si deve a una profonda necessità spirituale e storica il fatto che questa riforma radicale dell'uomo sulla base dello« stato che è in lui» si attuasse nel momento in cui la civiltà greca raggiungeva il suo apogeo. Nell'età arcaica e nella classica la relazione tra individuo e comunità era stata concepita e vissuta con una serietà 434 ) Cfr. Resp. 592 b. «È indifferente se [lo stato ideale] esista o esisterà; ché l'uomo l!:iusto osserva nel suo agire soltanto. la legge di questo vero stato, e non di alcun altro».
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profonda, sì da dar luogo a una compenetrazione, senza precedenti o paragoni, della vita del singolo con lo spirito della polis 435). « Lo stato educa l'uomo », 7t6Àt~ &vapix ata&axe:t, era stata una sentenza famosa, non di Platone, ma del grande antico poeta Simonide, che in essa aveva espresso il più genuino ideale greco. Ma dal punto di vista a cui Platone ci ha condotti si comprende che proprio questa totale compenetrazione, meditata coerentemente fino in fondo, doveva condurci, ·fuori dall'ambito della politicità terrena, nell'unico regno in cui essa può realmente e veramente aver luogo: nel regno del divino. Qui soltanto l'uomo trova la sua libertà vera, nel vincolarsi consapevolmente alla legge di questo regno, che ha scoperto in se stesso. Così il pensiero politico greco riesce, nell'estremo sviluppo logico dei suoi presupposti, alla creazione dell'idea - fondamentale nel mondo d'occidente - della libera personalità umana, non fondata su alcuna sanzione di umane leggi, ma sulla conoscenza immediata della norma eterna. Norma e misura eterna che Platone identifica, nella similitudine della caverna, con la natura di Dio. È chiaro ormai che l'ascesa alla conoscenza di questa norma, quell'ascesa che nella similitudine di Platone rappresenta la paideia, ha come meta la fondazione dello « Stato che è in noi», sul modello di Dio.
1135) Aristotele nella Politica (III 4) chiarisce, in uno spirito del tutto platonico, che l'uomo perfetto e il perfetto cittadino si identificano s o l o nello stato perfetto. Nello stato reale il miglior cittadino è quello che più perfettamente si forma nello spirito del suo stato e vi si adatta (anche se, in senso assoluto, questo spirito sia ancora imperfetto), mentre l'uomo perfetto in senso assoluto può in certe circostanze apparire, in un tale stato, cattivo cittadino. Ed è questo il punto su cui il grande storico di Roma Barthold Georg Niebuhr fece rimprovero a Platone. Chiamandolo cattivo cittadino egli misurava Platone sul metro di Demostene.
CAPITOLO
UNDECIMO
LA REPUBBLICA
III. Il valore educativo della poesia. - Il decimo e ultimo libro della .ijepubblica è dedicato a un nuovo esame del problema della poesia e del valore educativo di essa. Sembra strano, a prima v,ista, che Platone, dalla vetta suprema ora raggiunta che consente la vista totale di tutto il cammino percorso, ritorni a trattare una questione particolare e, se realmente la cosa stesse così, il resultato · non potrebbe essere che una diminuzione di vigore del quadro ora compiuto. Ma, come accade spesso in Platone, il problema di composizione riporta ad un sottostante problema filosofico, ed è perciò importante venire perfettamente in chiaro sul procedimento da lui scelto. È fa. cile vedere, naturalment6, che la critica della poesia, fatta in principio dell'opera a proposito dell'educazione dei guerrieri, quella censura esercitata dal pun:to di vista di una migliore, e più moralmente vera, rappresentazione degli dei, fa appello, con quella forma dogmatica in cui Platone l'atteggia, alla «retta opinione» del lettore, senza fornirgli alcuna vera nozione del prin-
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LIBRO Ili - ALLA RICERCA DEL DIVINO
cipio da cui muove 1). Nella successiva educazione dei reggitori, fondata come essa è sulla pura conoscenza filosofi.ca, la poesia e la cultura musicale non hanno assolutamente alcuna parte, e Platone perciò non ha fin qui trovato occasione di dir la sua parola conclusiva sul compito educativo della poesia, dal punto di vista della filosofi.a, ciòè della conoscenza pura del vero. Per questo bisognava che fosse svolta la teoria delle idee che frattanto era entrata nel dialogo, come tema fondamentale della formazione dei reggitori. È dunque perfettamente logico che la questione della poesia sia ripresa ancora una volta su questo piano più alto. Ma l'essenzi~le è che ci si renda conto del perché Platone abbia scelto proprio questo punto per mettere a fronte, in battaglia decisiva, filosofi.a e poesia. A tale comprensione noi siamo preparati dall'avere osservato che l'intera trattazione dello stato ideale, compresa la larga indagine sulle forme degenerative dello stato reale, Iion è che wi mezzo per rendere evidenti in immagine ingrandita la struttura morale dell'anima e la cooperazione vicendevole delle sue parti 2). La descrizione della paideia come processo graduale include anche i libri sulle forme costituzionali e sui corrispondenti tipi psichici. Solò da questo punto di vista noi siamo in grado di capire che la trattazione culmina nella fondazione dello« stato che è in noi», della 1 ) Che l'educazione dei guerrieri si fondi non già sulla scienza (b:LaTfiµ.11) ma sulla retta opinione (òp-9-lj 86l;oc) è detto chiaramente quando si tratta delle virtù della classe guerriera, e, in essa dei« custodi» in senso stretto, cioè dei reggitori. La areté specifica dei guerrieri, la fortezza, è definita « retta opinione su ciò che è da teml."re e ciò che è da non temere» (Resp. 430 h), perché essi in quanto non posseggono la scienza del bene, non hanno neppure la suprema fortezza socratica che su essa si fonda. Invece i reggitori hanno scienza e sapienza e lo stato possiede questa sapienza soltanto perché essi esistono in lui: cfr. Resp. 428 d-c. 2) Resp. 368 d-e.
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personalità umana, meta dell'opera intera 3). :pall'educazione dei guerrieri, che comprende ancora l'antica paideia musicale, siamo saliti ad una forma di educazione filosofi.ca che deve formare lo spirito del reggitore con a conoscenza della verità e della norma suprema. Per mezzo di questa educazione, l'anima si deve fondare su un ordine e su una legge a lei interiori, cioè su quello che nella sua struttura e attività c'è di affine allo stato. C'è la parentela più stretta tra questo modo di concepire l'essenza del compito educativo e il logos filosofico, che Platone considera la forma più alta di cultura. Pertanto, la 'contrapposizione fra poesia e filosofia che sul piano d~ll'educazione dei guerrieri era soltanto relativa, diventa, vista di qui, assoluta. Le forze ordinatrici e legislatrici dell'anima, impersonate dalla filosofi.a, stanno, di fronte all'elemento riflessivo e imitativo da cui la poesia si origina, in un rapporto di decisa superiorità e vogliono da esse omaggio e sottomissione all'impero del logos. Questa esigenza, dal punto di vista moderno, per cui la poesia è soltanto letteratura, è difficile da comprendere e fa l'effetto di una pretesa tirannica e usurpatrice di diritti altrui. Ma nella concezione greca della poesia, che ne fa la rappresentante prima e la trasmettrice della paideia, la disputa tra filosofi.a e poesia deve farsi acuta nel preciso momento in cui la filosofi.a si fa consapevole del proprio valore di paideia e rivendica a sé il primato educativo. Il problema manifesta tutta la sua urgente importanza nel momento in cui si affronta Omero, prima di tutto perché ognuno lo ama, ed è perciò facile rendersi conto della gravità della questione, che proprio lui, il poeta dei poeti, sia messo in discussione. Il So3) Cfr. supra, p. 619.
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crate platonico si sofferma anche a scusarsi per l'ardimento di esporre in tal modo alla critica il suo pensiero segreto sulla poesia"). Egli stesso fin qui è stato trattenuto, per una sorta di sacro rispetto e di amore per il poeta nutrito fin da bambino, dal dichiarare apertamente queste opinioni. Cosi Platop.e previene coloro che ora si metter~o a elevare alti lai sulla sua mancanza d'intelligenza o sulla sua «empietà». Ma Omero non è scelto a obbiettivo dell'attacco per il. solo scopo di rendere più netto ed evidente il paradosso filoso:6.co,. bensl anche per altre due ragioni. Una di queste, Platone la dice subito, al principio della discussione, là dove chiama Omero, maestro e guida della tragedia 5). CoJ:!.tro la poesia tragica grava il peso principale dell'attacco, poiché essa rivela, più pienamente di ogni altra forma, l'efficacia della poesia sull'elemento istintivo« patetico» dell'anima 6). La seconda ragione è che, vertendo la disputa proprio sulle pretese educatrici della poesia, Omero viene per forza di cose a mettersi nel centro di essa. Nella pratica tradizionale e nel senso convenzionale della paideia, Omero ne era l'assoluta incarnazione 7). E quest'idea era vecchia, come .si è precedentemente mostrato. Già nel VI sec. Senofane, il censore di Omero, aveva parlato di lui come della fonte da cui tutti, :6.n dai tempi . dei tempi, avevano ricavato tutta la loro sapienza 8). A questa idea aveva dato nuovo alimento il movimento intellettuale della sofistica, con la sua consapevole e sempre presente preoccupazione educativa 9). Ed anche Platone, come ") Resp. 595 b 9. &) Resp. 595 c 1, efr. 598 d 8. ') Cfr. la discussione del concetto di imitazione artistica (p.l.P. lJaLc;) in Resp. 595 c ss. 7) Cfr. la critica a Omero come educatore in Resp. 598 e, ss. 8 ) Cfr. Xenophanes. fr. 9 (Diehl) ~ &p:x'ìjc; xix&' "Op.TJpov ~ p.e:p.ix.&lJlCIXaL mxv-re:c;, 1) Cfr. « Paideia » I, p. 510 s.
CAP. XI: LA REPUBBLICA, ID
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appar chiaro verso la fine della sua trattazione polemica, ha in mente un qualche scritto o discorso sofistico, rappresentante la tesi che Omero era stato l'educatore di tutta la Grecia 16), uno scritto nel quale il tema era svolto con la dimostrazione che il poeta era stato una specie di maestro enciclopedico, intenditore di ogni arte ('tixvcxt) ll). Pensieri del genere dovettero essere correnti in quel tempo, ed ebbero certamente una parte anche nell'esposizione omerica dei rapsodi, interpreti ed esaltatori del poeta, come mostra l'Ione platonico 12). Ancora in età imperiale nell'opuscolo «plutarcheo », Sulla vita e la poesia di Omero, appare la stessa valutazione realistico-pedagogica della poesia omerica come fonte di ogni sapienza 18). Sicché Platone polemizza contro lopinione greca comune sul valore educativo della poesia, e in particolare di Omero. Siamo con ciò ad una svolta nella storia della pai~ deia greca. La lotta è, per Platone, lotta della verità contro l'apparenza. Egli si richiama appena fuggevolmente alla già raggiunta conclusione secondo cui la poesia imitativa deve essere bandita dallo stato ideale 14). 10 ) Resp. 606 e 6li; Tijv 'EUcilltX m::ittXllleuKEV où-.oi; .!2· ~~~?lgo~.!> nei loro sistemi di pensiero scoperte mediche, fi~~~l.()~- giche specialmente, oppure sono addirittur~ 1nedjci essi stessi, come Alcmeone, Empedocle e_ Ippon,~Lt~iiL~.. tre appartenenti alla scuola greco-occidentale. D'altro lato questa fusione d'in:teressi non mane~ di-ri_p;;;;~;;~ tersi sui medici, i q1lali accolgono in parte. dai fil~~~fi,' come fondamento di proprie dottrine, le teori~ di'fi~i~a sistematica di quelli, il che si osserva negll-scriitf"èOsiddetti ippocratici •. Cosi ad un accostam~JliP. ini~d; mente fecondo di due così diverse forme di conoscenza dellà--natura segue un periodo ~- iil~~_i~~i~fa. inva:.. --denza scambievole, nel quale i co~ni . iaj.nacç~v und die Sammlung der hippokratischen Schriften (Berlino 1931) p. 117 ss., nota e.on ragione che Ippocrate non era ancora per Platone e Aristotele quella infallibile autorità che fu poi per l'età di Galeno. Però sembra a me che l'Edelstein vada troppo in là in senso contrario, quando cerca di dimostrare, con acutezza ma non senza sforzo, che i noti luoghi di Platone (Prot. 311 b-c, Phaedr. 270 c) e di Aristotele (Pol. VII 4, 1326 a 15), pur esprimendo grande considerazione per Ippocrate, non lo pongono però più in alto di altri medici. Ippocrate è - non ci può esser dubbio su questo punto - già per Platone e Aristotele la personificazione stessa dell'arte medica.
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LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE
vero Ippocrate di dentro la massa della letteratura ippocratica. Sempre più piccolo si è venuto facendo il numero delle opere che la critica moderna ha creduto di potere isolare dalla raccolta per attribuirle a Ippocrate, e la schiera è venuta sempre variando di consistenza e qualità, a seconda che si scegliesse, per ascriverla a Ippocrate, questa o quella tra le diverse tendenze mediche distinguibili nel corpus.· Sembra cosi che la rassegnazione ad ignorare debba essere .il frutto finale di tutta quell'enorme misura ·d'industria e di acume che si è spesa in questi tentativi 1 7). D'altro canto la grande, esuberante copia di materiale contenuto in questa raccolta ippocratica ha fatto si che, nel tentativo di scoprire l'Ippocrate genuino, il quadro complessivo dell'indagine medica nel periodo classico del pensiero greco abbia acquistato, al di là del proposito degli studiosi, in complessità e precisione. E sebbene questo quadro ci si offra solo a grandi linee, esso è tuttavia di un interesse sommo, giacché, al posto di un unico sistema di dottrina, ci presenta in atto lo sviluppo di tutta una scienza, in tutte le sue ramificazioni, in tutti i suoi conflitti. Si è fatto chiaro ormai che quel che si possiede col nome del maestro di Cos non è mai esistito nel commercio librario del suo tempo come l'edizione corrente delle
17) Il più recente tentativo critico di determinare quali degli scritti del corpw siano da assegnare alle prime generazioni della seuola ippocratica (il saggio di K. DEICBGBABER, Die Epidemien. un.d da& Corpus Hippocraticum. « Abh. d. Berl. Akad•. » 1933) prende le mosse dalle parti più antiche, in qnalche misura databili, delle Epidemie. L'autore rinunzia ad attribuire scritti allo stesso Ippocrate. Mettendosi con prudenza su questa via è possibile che si giunga a qualche resultato relativamente sicuro. La cosa essenziale è di raggiungere un intendimento pieno delle opere a. noi giunte, rispetto alla loro forma lingnistica e metodico-intellettuale: un compito che, si può dire, non è stato ancora affrontato.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA
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sue « opera omnia», ma è la « Summa» di tutto ciò che i fifologi alessandrini del III sec. a. C. trova· rono superstite della vecchia letteratura, nell'archivio della scuola medica di Cos, quando si accinsero a sal· vare per la posterità l'eredità di Ippocrate, come quella degli altri classici. Appar chiaro che queste ca11:e non si presentavano affatto come un materiale ordinato e vagliato. Accanto a scritti che erano stati pubbli· cati o, in ogni modo, destinati alla pubblicazione, si trovavano copiose :raccolte di materiale grezzo o, anche se di materiale elaborato, :raccolte non destinate però a scopo letterario ma solo all'informazione e allo -stu· dio degli specialisti. E c'erano perfino opere non pro· venienti dalla cerchia medica di Cos, il che è natu· ralissimo, giacché la scienza sarebbe ben presto giunta a un punto morto e all'inerzia, se quei dotti non si fossero occupati dei pensieri e delle scoperte altrui. Che opere come queste si siano trovate mischiate con quelle della cerchia ippocratica e che i lavori degli scolari non siano stati accuratamente separati da quelli -del maestro, è cosa che si spiega con la qualità di un lavoro di scuola, con l'impersonalità obbiettiva che di esso è propria. E del resto era ben noto a ognuno, nell'ambito della scuola, quello che l'altro pensava. Lo stesso fenomeno :riappare, seppure in una misura minore che per Ippocrate, anche nelle raccolte di scritti di fondatori di scuole filosofiche, come Platone e Aristotele 18). _!!_-~~gi~~P-.!9-~> ip,p_oC1l!~ _al suo propri~ lavoro. Questo formarsi di una sfera intermedia tra il puro sap~re delio specialista e }'_i~~~~~~~ del profano assoluto, ~-- fei\~~~no CllJ'.~t: ~~ristfoo de!l~- ~!()r!,a __cJ,~l).l:l .. cultura greca nel peri~d_!>_
all;
85)
Xen. Mem. IV 2, 10. Xen. Mem. IV 2, 1. Tote; 8è
voiil~ou yéve~ XOLV(J)Vfov). Cfr. PL Soph. 257 a ss., che pure parla di una XOLV(J)v(a: dei yév'l] cioè degli et3'1] (cfr. 259 e). •S) Per es. PI. Polit. 299 c; Arist. Eth. Nic. II 2, 1104 a 9; III 5, 1112 b 5, e poi De vet. med. c. 9 (seconda metà). ••) Cfr. Arist. Eth. Nic. X 10, 1180 b 7.
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LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE
l'_,tica per .A.ristotel,e .ç~çr.p,e__ jJ__~«!!o di ~go~are gli Um.~9_jLpiacere._e __iL __11-g~--f!.~J!~~~~':Pl~ tone aveva ~!~--!_~!~~:t.ti _m,~_di_çi_ d~~Jlleire JL~el _ vuoiare-applicandoli all~~-!~2ri1Ld~L~~n&!ienti piacevò'it-è ..aveva·--;;~;gji__ai~·-::questi--a---quel---gen;;;::]i~ eh~ ~ -~ più _o un. meno:»._,___,e.J!~-~-~~'!!!a appunt0" di regolarè-60). E il Criterio di quest~ reg~i;è fissato da Aristotele ~eil -~ùSìomezzo~· :llòJT"~ ····-·--·-·-···· --·· ·....... :...,.·., ..., .. ·...;.·· '·-'- ....:,_:;,.__ .•.:.: :......, ...........,;,. .... ..--·--Wl,ool-...-.-............... _ . . . ._
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eh.~ ~ siiit:o ~PP~!~~I~
Sulla medicina· antica 82). · - - ~fcJarebhe p~Pva'·di-Wi'm~omprensfon,~.-a~~!!!~~ forma mentale greca se si_ cercasse dì svalutare queforse in no.me dì -------, ~a «ori "'""à:iìià:»'''màfe -sto fatto, ---------------~---------->-----. ··--intesa in_ sens_o mo_derno. Un tal criterio JlOD pptrebbe ~he ~viarci. J>laton~ e -~t~tel~ -inten:~9iQ.-i~::~ccre ~ere autorità alla_p:r1?pria dot~~~-P:t:Qp~o-~,.9.,~~;t~ eo) PL Pki"leb. 34 e-35 b, 35 e ss. 11) Arist. Eth. Nic. II S, 1106 a 26-32; b 15; b 27. Cfr. De 11ei. med. c. 9 9 citato sopra, n. 42. 91) Il passo De t1er. med. 9 si trova più volte echeggiato anche nella letteratura medica del IV sec.; cfr. Diocle di Caristo fr. 138 (Wellmann) e la polemica che si trova nel libro Sulla dieta I 2 (Littré vol. VI, p. 470, seconda metà). L'autore contesta la possibilità di una reale precisa applicazione di regole generali alla natura individuale del paziente. In ciò egli vede l'inevitabile debolezza di tutta l'arte medica.
CAP. I: LA MEDICINA GRECA COME PAIDEIA
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si connettono _a .con~e,.,.tlL.!!aP!'.rn, _gj,à.. _a~sodate.. in. un piano parallelo al 1()1,'.'()~. La __ yita (.lW,1'.lJ!~~ ___greca. è una com~lessa~iii.itiW:_l\_Jn,,c.ui tµtto si_ leg!l .c.~n !ll,t!9 ~~~ .P!~~a ~li_f:l 11011 _regga _e _sia .r~!:ta. È .anzi .im:-.. portante ~~--~~sto ,_«.'.l:l!~tt,ere dell' edifìçio spiritu.,~e greco, già da -noi osservato i.n _pre~edenti gradi -di sviluppo ;tO-ri~?.- tr?vi. un~ conferma ora, in- un punto _4!_~~~~~-~-- com~ 'i~-- di>ttrina, centrale in Platon_e e Aristotele, dell' areté umana. E non si tratta qui, come semh~a . prima Vista,' di s~emplici analogie: è la dottrina medica, nel suo complesso, della retta terapia del corpo che vien congiunta con la dottrina socratica della retta cura e terapia dell'anima, in una sintesi diversa e superiore all'una e all'altra. l!_ concetto platonico e aristotelico dell.:ai:.e.té'._JJ,Jil._BJ!a___>. p. 199 ss. e «Isokrates und der Humanismus», p. 211 ss.; posteriori sono le- quattro conferenze dello stesso DREBUP, raccolte col titolo Der Humanismua in seiner Geschichte, seinen K uùurwerten und seiner Vorbereitung im Unterrichtswesen der Griechen (Paderhom 1934). 1 ) Ciò sia detto in particolare anche per coloro che pretenderebbero che una storia della paideia cominciasse col definire, una volta per tutte, che cosa l'autore intende per paideia. Sarebbe proprio come se si pretendesse dallo storico della filosofia di
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notare, che quel che è dagli educatori moderni considerato come lessenza dell'umanesimo prosegue essen· zialmente, della cultura antica, il solo filone retorico. Ma la storia dell'umanesimo ha un ambito infinita· mente più vasto; essa si estende alla totalità della paideia greca, e comprende perciò anche la filosofia greca e la scienza, in quanto abbiano operato ed operino tuttavia nella storia spirituale del mondo 4). Da questo punto di vista, l'intelligenza di quel che veramente sia la paideia greca, si fa immediatamente autocritica dell'umanesimo accademico dei tempi moderni 5). D'altro canto, la posizione e l'essenza della filosofia e della scienza in seno alla cultura greca nel suo complesso si cominciano a scorgere soltanto quando siano considerate al loro posto, nella contesa con altre forme di vita tenersi alla definizione o di Platone o di Epicuro, di Kant o di Hume, i quali tutti, per filosofia., intendono qualcosa di com· pletamente diverso l'uno dall'altro. Il compito di un libro storico sulla paideia deve essere di descrivere con la maggiore fedeltà possibile i diversi significati, le diverse forme, i diversi livelli spirituali in cui si attuò la paideia greca nella loro indivi· dualità e nella loro storica connessione. ') Cfr. a questo proposito il mio saggio: Platos SieUung im Auf· bau der griechischen Bildung, in« Die Antike» vol. IV (1928), nn. 1-2. ") Considerata da questo punto di vista, la filosofia, e specialmente la filosofia greca, viene a prendere un posto d'importanza decisiva nella creazione di un umanesimo moderno. Il quale senza di essa sarebbe privato in partenza della sua più valida forza di penetrazione, anzi non riuscirebbe neppure a chiarirsi e fondarsi veramente. Di fatto, poi, l'indagine sul momento filosofico della cultura antica ha acquistato un'ampiezza sempre maggiore non solo nella filosofia, ma anche neJla filologia del nostro tempo ed ha avuto influenza profonda sulla nuova con· figurazione dei :fini e dei metodi della filologia. Ma anche la storia deJI'umanesimo appare, vista di qui, in un'altra luce. Il vecchio ~dificio storico dell'umanesimo, con le sue rigide opposizioni di medioevo e rinascimento, di scolastica e umanesimo si fa sem· pre più insostenibile, via via che impariamo a ravvisare, fondamentalmente, neJla rinascita della filosofia greca nell'alto medioevo una deJle grandi epoche storiche della sopravvivenza feconda della paideia greca. Questa sopravvivenza nell'evo di mezzo e nel moderno è un processo continuo. Non datur saltus in historia humanitatis.
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LIBRO IV - IDEALI DI CULTURA NELL'ETÀ DI PLATONE
intellettuale per il pregio e il primato della vera forma· zione umana. L'una e laltra, :filosofia e retorica, discen· dono in ultima analisi dal grembo materno della poesia, la paideia greca più antica, e non sono comprensibili senza che questa origine sia chiara 6). Ma la limitazione, che si venne sempre più accentuando, di questa contesa per il primato nella cultura al problema, se la palma spetti alla filosofia o alla retorica, mostra a sufficienza che l'antica dualità greca di formazione ginnastica e «musicale» è scaduta ormai a un piano d'importanza molto più basso. A chi è fresco della lettura del Protagora o del Gorgia, il sistema educativo di sofisti e retori appare come uno stadio fondamentalmente superato, e di fatto è cosi, di fronte all'esigenza ideale posta dalla filosofia che ogni formazione, ogni cultura umana si debbano, da questo momento in poi, fondare esclusivamente sulla scienza dei valori supremi. Ma in realtà, come già ci è apparso da un primo sguardo ai secoli della grecità tard3: 7), il vecchio tipo di formazione sofistico-retorica seguita a vivere, accanto a quello filosofico, con vigore non declinante; si afferma, anzi, come grande potenza di primo piano nella vita spirituale dei Greci. Forse r asprezza stessa e lo scherno sanguinoso di Platone verso questa cultura si spiegano in parte col senso che egli ha,· pur essendo vincitore, di combattere contro un nemico che, quando si contenga nei suoi confini, rimane indomabile. È difficile rendersi conto dell'im· . pegno appassionato di Platone in questa lotta, quando si creda che i suoi attacchi si dirigano solo contro i 6 ) La filosofia greca può essere valutata nella sua importanza