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Italian Pages 71 [97] Year 2020
A cura di Andrea Grillo - Zeno Carra
Oltre Summorum Pontificum Per una riconciliazione liturgica possibile
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Andrea Grillo, Zeno Carra Oltre Summorum Pontificum
Alla memoria di p. Silvano Maggiani: uomo degli ordines e perciò uomo di pace.
Andrea Grillo– –Pierangelo Zeno Carra Daniele Menozzi Sequeri Stella Morra – Paolo Benanti Angelo Vincenzo Zani – Kurt Appel
Oltre Summorum Profezia Pontificum
di Francesco Beyond Summorum Pontificum
Traiettorie di un pontificato
Prefazione di Marcello neri
Per una riconciliazione liturgica possibile For a possible Liturgical Reconciliation
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Presentazione
Nel prendere la iniziativa di questo e-book vogliamo attestare una maturazione ecclesiale che, in qualche modo, passa attraverso le nostre storie, i nostri corpi, le nostre vite ecclesiali. È possibile che percorsi molto diversi possano riconoscersi, valorizzarsi a vicenda e collaborare a una riconciliazione ecclesiale. Un classico percorso «conciliare» non deve essere disattento alle ragioni della tradizione. D’altra parte, la piena assunzione della tradizione esige una vera valorizzazione del Concilio Vaticano II e della sua ermeneutica liturgica. Così, pur provenendo da generazioni e da attenzioni tanto diverse, come curatori e autori di questo testo abbiamo voluto promuovere questo «sondaggio teologico internazionale» plurilingue, nella convinzione che, proprio in questo momento, si apra per la Chiesa una possibilità di svolta vera, autentica e feconda: per superare i pregiudizi, per fare pace e per restituire alla azione rituale della Chiesa la sua potenza originaria e la sua profezia evangelica. Ringraziamo per la qualificata collaborazione i quattro coautori e professori di liturgia di Friburgo (in Svizzera), Lovanio, Boston ed Erfurt, che con tanta prontezza si sono resi disponibili a scrivere i loro contributi, p. Pierluigi Cabri delle Edizioni Dehoniane Bologna, che ha assunto il testo con
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grande fiducia, e Alberto Dal Maso, per la preziosa e sempre puntuale consulenza, formale e sostanziale. Andrea Grillo Zeno Carra
Introduzione Una riconciliazione liturgica sulle orme del Concilio Vaticano II Andrea Grillo
«Altiora principia, generalem liturgicam instaurationem respicentia, in proximo Concilio Oecumenico patribus esse proponenda» (Giovanni XXIII).
La «condizione di pandemia» ha richiesto, a livello civile, la attivazione di uno «stato di eccezione» che ha profondamente modificato le abitudini di vita, i suoi tempi e i suoi spazi. In questo contesto è emerso, con maggiore evidenza, ciò che la Chiesa stava vivendo, da tredici anni, come «stato di eccezione liturgica». La elaborazione di questa coscienza ha mobilitato, contemporaneamente, il «magistero della cattedra pastorale» (ossia il magistero papale ed episcopale) e il «magistero della cattedra magistrale» (ossia la ricerca e l’insegnamento dei teologi). Ne sono emersi non solo una lettera aperta rivolta da alcuni teologi alla Congregazione per la dottrina della fede, ma anche un questionario che la stessa Congregazione, su impulso di papa Francesco, ha rivolto a tutti i vescovi della Chiesa cattolica. Improvvisamente, la «doppia forma» del rito romano è stata riconosciuta come una «questione»: domande sono state rivolte dai teologi alla Congregazione e domande sono state rivolte dalla Congregazione ai vescovi. Questi ultimi interroga-
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tivi hanno composto un questionario di nove domande che meritano di essere considerate integralmente: 1) Qual è la situazione all’interno della Sua diocesi riguardo la forma straordinaria del rito romano? 2) Se vi è celebrata la forma straordinaria, ciò è dovuto a una necessità pastorale reale o è promosso dall’iniziativa di un singolo sacerdote? 3) Secondo Lei, esistono aspetti positivi o negativi dell’uso della forma straordinaria? 4) Le norme e le condizioni del motu proprio Summorum Pontificum sono rispettate? 5) Ritiene che all’interno della Sua diocesi la forma ordinaria abbia adottato elementi della forma straordinaria? 6) Per la celebrazione della messa, Lei usa il Messale promulgato da papa Giovanni XXIII nel 1962? 7) Oltre alla celebrazione della messa nella forma straordinaria, vengono fatte altre celebrazioni (per esempio il battesimo, la confermazione, il matrimonio, la penitenza, l’unzione degli infermi, l’ordinazione, l’ufficio divino, il triduo pasquale, i riti funerari) seguendo libri liturgici anteriori al Concilio Vaticano II? 8) Il motu proprio Summorum Pontificum ha influenzato la vita dei seminari (il seminario della diocesi) e di altri istituti di formazione? 9) Tredici anni dopo il motu proprio Summorum Pontificum, qual è il Suo giudizio sulla forma straordinaria del rito romano?
La questione che, in quanto teologi, ci siamo posti nell’ideare questo piccolo testo a più voci, è la seguente: come aiutare i vescovi a rispondere con discernimento e lungimiranza al questionario che il papa ha inviato loro, attraverso la Con-
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gregazione per la dottrina della fede, per valutare l’impatto pastorale di Summorum Pontificum? In effetti, la fine dello «stato di eccezione», ossia il superamento della disciplina introdotta da Summorum Pontificum, non significa superare il bisogno di «riconciliazione liturgica». La differenza tra la soluzione concreta e il problema deve essere messa a fuoco, rispondendo a tre interrogativi distinti, che qui vengono formulati: a) Perché la «doppia forma del rito romano» deve essere superata? Quali sono i motivi teologici e pastorali che dovrebbero sancire la fine di questa soluzione? b) Che cosa significa, allora, «riconciliazione liturgica»? Quale era il progetto del Vaticano II e in che senso merita di essere ripreso? c) Come si potrà tecnicamente uscire dalla condizione attuale? Quali passi a livello giuridico, ecclesiale, pastorale e liturgico saranno necessari sul piano della autorità episcopale, delle competenze delle Congregazioni e della unità ecclesiale? Ai sei autori di questo volume si è chiesto di rispondere a questi tre interrogativi: lo faranno – ciascuno nella propria lingua – a partire da differenti orizzonti ecclesiali e da tradizioni teologiche diverse, all’interno del grande corpo della Chiesa cattolica: dall’Università di Fribourg (Svizzera) all’Università di Louvain (Belgio), dal Boston College (USA) all’Università di Erfurt (Germania), dall’Università Gregoriana/Augustinianum al Pontificio Ateneo «S. Anselmo» (Roma).
Sei risposte
Zeno Carra Martin Klöckener John F. Baldovin sj Benedikt Kranemann Arnaud Join-Lambert Andrea Grillo
Riconciliazione liturgica: note di metodo e di contenuto Zeno Carra (Verona, Italia)
Qualche nota di metodo Riconciliarsi implica mettersi in discussione, superare punti di vista che fino a poc’anzi si davano per scontati. Sotto il profilo che qui ci interessa è necessario anzitutto deporre una certa impostazione del dibattito e trovare una forma delle questioni che permetta di maneggiare meglio i contenuti in gioco. Va cioè accantonata l’impostazione antitetica che, giocando sulla dinamica del «pro o contro», suddivide gli elementi troppo semplicisticamente tra schieramenti contrapposti: concilio vs. preconcilio, vetus ordo vs. novus ordo, innovazione vs. conservazione ecc. Va accettata la maggior complessità delle questioni: si deve, per esempio, anzitutto distinguere tra rito come struttura prescritta e prassi celebrative reali. Nello spazio tra i due sta il gioco di quei fattori che, se in parte ineriscono strutturalmente al primo, in parte gli conferiscono, nell’essere agìto, una fisionomia che lo supera e lo connota in modo assai vario (le spiritualità dei soggetti celebranti; le teologie con cui essi comprendono il rito; le condizioni di realizzazione dello stesso: tempo, spazio, culture, stili…). Si deve poi distinguere tra la teologia dominante che connota un rito e quegli elementi dello stesso che resistono a esserne inquadrati: fattore possibile nella misura in cui il rito resta conservativo
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di eredità precedenti alla codificazione dottrinale vigente.1 Si deve infine distinguere tra le istanze che guidano un processo di riforma e la sua attuazione effettiva.2 Alla luce di queste distinzioni, il panorama dei fattori in gioco può essere il seguente: vetus ordo in quanto: • ritus servandus (a); • prassi celebrative reali (b);
Per esempio, il venerdì santo, prima della riforma di Pio XII, il celebrante si comunicava anche da un calice di vino non consacrato in cui immetteva un frammento di ostia consacrata il giorno prima. Il gesto custodiva la memoria di modi di gestione delle specie eucaristiche non inquadrabili nella dogmatica tomista, come negli antichi travasi di vino «consacrato» in calici di vino «non-consacrato» secondo gli ordines romani altomedievali (cf. M. Righetti, Storia liturgica, II, Àncora, Milano 1955, 179s.; III, Àncora, Milano 1966, 177). La riforma di Pio XII, operando secondo l’inversione dell’antico adagio «legem credendi lex orandi statuat», per cui non il rito informa la dottrina, ma viceversa (cf. Mediator Dei in AAS 39, 538-541), ritenne forse opportuno normalizzare la prassi alla dogmatica tomista e sopprimere quell’elemento incongruo: cf. https://bit.ly/3cNVWfz (accesso: 11 giugno 2020). 2 Sovente si interroga la continuità tra una prima fase – il Concilio e la messa in atto della riforma – e una seconda iniziata negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II e denunziata come involutiva: cf. l’intervento di M. Klöckener, “Sacrosanctum concilium”: ricezione, attualità e problemi aperti, in G. Boselli (a cura di), Nobile semplicità. Liturgia, arte e architettura del Vaticano II, Qiqajon, Magnano 2014, 37-66. Va però interrogato anche il nesso tra le istanze conciliari e la messa in atto della riforma. Si vedano le diverse immagini-guida ivi espresse: SC 23 parla di crescita organica della liturgia riformata dal suo stadio precedente, mentre A. Bugnini, La riforma liturgica, 1948-1975, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1983, 78 e 351, usa il paragone di un ammasso di materiale edile da cui ricostruire. La riforma si pensò quindi come sviluppo o come ricostruzione? Va poi scandagliata la forza di certi postulati apriorici che dominavano la cultura dell’epoca: se e come abbiano influito, nell’attuazione della riforma, la mentalità «funzionalista» degli anni del boom economico (di cui è testimone tanta architettura coeva) e lo schema archeologista di «ritorno» alle fonti patristiche. Andrebbe anche interrogato il senso operativo del concetto stesso di «riforma»: fu inteso come consegna dell’esistente al futuro o come ripristino di una fase aurea originaria? Si veda al riguardo lo schema che spesso ci guida implicitamente nel leggere la storia del culto: epoca d’oro (patristica), decadenza (sviluppo successivo), ripristino (riforma liturgica del XX secolo). Lo si può avvertire, per esempio, nelle pur preziose pagine di storia della liturgia di S. Rosso, Un popolo di sacerdoti. Introduzione alla liturgia, Elledici, Leumann 20072, 155-289. 1
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• trasversalmente ad (a) e (b): lo scarto tra la teologia tomista e gli elementi rituali a essa non riducibili (c); istanze normative della riforma conciliare: Sacrosanctum concilium (d); novus ordo in quanto: • ordo missae (e); • prassi celebrative reali (f); • trasversalmente a (d) ed (f): l’eredità forte del tomismo; i nuovi apporti del XX secolo (g).3 Il superamento della logica contrappositiva, quindi, chiede in primo luogo di considerare i vari fattori come relazionati tra loro in modo più complesso che non secondo la consueta ripartizione in due blocchi monolitici: (a-c) vs. (d-g). In secondo luogo, l’orizzonte ecclesiale del processo di riconciliazione impone il riconoscimento del dettato conciliare (d) come criterio di regolazione del dialogo tra gli altri elementi in gioco: a meno di non incorrere nell’opzione scismatica, esso non può venir messo in discussione in quanto espressione non revocabile del soggetto Chiesa che fa atto solenne di tradizione: recepisce la sua propria storia e indica il percorso che le si apre davanti. Delineato così un metodo per il dialogo, possiamo abbozzarne alcuni contenuti.
Cf. Z. Carra, Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo, Cittadella, Assisi 2018, 121-216. 3
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Una coesistenza possibile? La domanda se sia possibile una coesistenza, più che sui due riti (a ed e) attualmente giustapposti, va focalizzata sulle istanze conciliari di riforma (d) e il rito preriformato (a e b) come catalizzatore di una determinata antropologia ed ecclesiologia. Sotto questi aspetti, infatti, SC 5-6 riporta al cuore della teologia e della spiritualità cristiana la duplice certezza che:4 la salvezza è intrinsecamente storica e come tale accade (come intreccio non semplificabile di relazioni, azioni, libertà, parole e interpretazioni);5 la liturgia, per la sua natura di fenomeno-evento, è luogo privilegiato per la prosecuzione della storia come storia di salvezza. Da questo duplice asse scaturisce con naturalezza uno dei caposaldi della riforma: la actuosa participatio (SC 11; 14; 48).6 La liturgia, come luogo di esercizio della storia di salvezza, è azione strutturata regolata comune di quei soggetti che in virtù del battesimo sono la Chiesa. La liturgia – e, al suo posto centrale, la celebrazione eucaristica – è intrinsecamente actio communis. In quanto communis, essa ha come soggetto agente l’insieme coordinato e diversificato dei battezzati: ciò suppone che non vi sia un attore e degli spettatori, ma che vi siano dei soggetti che con diversi ruoli agiscono l’unico dinamismo. Cf. L. Della Pietra, Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale, EMP, Padova 2012, 325-347; 370-389. 5 La salvezza non solo si dà nella storia, ma si dà come storia: ne va del fondamento formale e materiale della fede, l’evento Cristo Gesù. Cf. M. Belli, Caro veritatis cardo. L’interesse della fenomenologia francese per la teologia dei sacramenti, Pontificio Seminario Lombardo-Glossa, Roma-Milano 2013, 427-433. 6 Cf. A. Grillo, Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica, Queriniana, Brescia 2019, 261-266; 388-393. 4
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Così intesa (e così agìta) essa è catalizzatrice di un’ecclesiologia di popolo sacerdotale (cf. LG 9-11). In quanto actio che si dà sul piano dei fenomeni, essa ha come agente tutto l’uomo: corpo e anima; intelletto e sensibilità; interiorità ed esteriorità. Non gerarchizza tra loro le varie sezioni dell’umano, ma le pone in circolo eremeneutico,7 facendosi così catalizzatrice di un’antropologia olistica.8 Questi apporti di Sacrosanctum Concilium debbono fungere da criterio per vagliare la conformità del vetus ordo con le esigenze della riforma. Esso esige e promuove infatti disposizioni altre rispetto a quelle implicate dall’actuosa participatio. Dal punto di vista antropologico, il soggetto non è chiamato a prendere parte a un’azione comune, ma ad assistere (ad-stare) con fede e devozione all’azione che gli si para dinnanzi. Questa assistenza implica la gerarchizzazione delle sue dimensioni umane: egli deve elevare la sua parte ritenuta più nobile, la mente, perché sia toccata nella fede9 dal mistero della presenza divina, e lasciare progressivamente i sensi da parte.10 A questa impostazione corrisponde sul piano ecclesiologico una coerente ripartizione dei ruoli: se il fedele «assiste», il mistero è 7 Ciò implica che il rito non vada più considerato come derivazione esterna di una verità di fede aderita interiormente (unidirezionalità per cui l’interno comanda sull’esterno, l’intellettivo sul corporeo, il pensiero sulla pratica), ma venga ritrovato come pratica simbolica che, in quanto agìta, plasma le disposizioni anche interiori del soggetto: cf. G. Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella, Assisi 2006, 222-242. In questo senso utilizziamo il concetto di «catalizzazione» parlando del rito: in quanto non solo «esprime» idee, ma contribuisce a formarle. Si tratta di una delle grandi riscoperte del movimento liturgico: cf. M. Festugière, La liturgia cattolica, ed. it. a cura di A. Catella e A. Grillo, EMP, Padova 2002 (ed. orig., 1913). 8 È significativa la sostituzione della formula di comunione del vetus ordo («Corpus D.N.I.C. custodiat animam meam in vitam aeternam») con quella del novus ordo («Corpus Christi custodiat me in vitam aeternam»): vi si può scorgere il passaggio dalla visione di Tommaso (cf. STh I-II, q. 110, a. 4, ad 3 e III, q. 79, a. 1, vq 3, ad 3) a quella più olistica di Ireneo (cf. Adv. haer. 5,2,2s.). 9 Intesa come inferenza incentrata sull’intelletto: cf. Tommaso, STh II-II, qq. 1-9. 10 Cf. Carra, Hoc facite, 54-61; 116-118.
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presenziato «davanti» a lui per la mediazione del pontifex, che rinnova dinnanzi alla Chiesa la presenza di Cristo e il suo sacrificio. Il vetus ordo è catalizzatore di queste diverse impostazioni sotto vari aspetti. In quanto ritus servandus (a), ad esempio, la prescrizione del silenzio nel canone veicola la riserva della preghiera al solo presbitero e il concomitante disporsi dei fedeli all’introspezione mentale. Ciò ha il suo coerente risvolto sul piano dell’interpretazione teologica (c): il canone è valorizzato come sezione della presenzializzazione e del sacrificio che si compiono per il popolo, a scapito della dimensione di rendimento di grazie al Padre che il popolo tutto eleva per bocca del presidente.11 Quanto alle pratiche rituali (b) ciò trova applicazione nella mistica gesuita della messa bassa, in cui il canto è recepito come elemento di distrazione, o nella trasformazione delle sezioni cantate della messa solenne in esecuzione concertistica di cui il fedele si serve per elevare l’anima, ma cui non prende parte come soggetto agente. I due quadri abbozzati bastano a mostrare come la coesistenza tra istanze conciliari e vetus ordo riproposto qua talis sia difficilmente immaginabile. L’opera di riconciliazione quindi deve accogliere le istanze conciliari come volontà ecclesiale di superamento di quanto catalizzato dal vetus ordo e non più compatibile con il presente della vita della Chiesa.12
11 Cf. F. Cassingena-Trévedy, Te igitur. Le Missel de saint Pie V: herméneutique et déontologie d’un attachement, Ad Solem, Genève 2007, 47-58. 12 Incompatibilità visibile anche in altri aspetti, come, per esempio, nella questione del calendario: ove si frequentino entrambi i riti, nelle settimane precedenti la Quaresima – che nel vetus ordo sono a regime incipientemente penitenziale (Septuagesima ecc.), ma che nel novus ordo sono state rese tempo per annum – a quale calendario attenersi per le pratiche spirituali che sono connesse al tempo liturgico, come l’astinenza dalle carni? La coesistenza delle forme contribuisce a indebolire ulteriormente il già fragile ruolo della liturgia nel dare il ritmo della vita cristiana.
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Prosecuzione della riforma La riconciliazione non si deve però fermare qui: è necessario interrogare anche i nessi tra le istanze conciliari (d) e l’esito della riforma (e-f). Il novus ordo e le prassi che ha generato traducono al meglio le istanze suddette? Sono rivedibili in alcuni aspetti? Al contempo ci si può chiedere se non esistano elementi del vetus ordo, resistenti al loro quadro teologico dominante (c), che, se recuperati nel nuovo, possano aiutarne l’adempimento delle istanze conciliari. Tento alcuni esempi di questa interrogazione simultanea sotto le stesse prospettive evocate sopra per il vetus ordo. Sotto il taglio antropologico, la prassi celebrativa del novus ordo ha spesso fatto della «recezione mentale di un messaggio» il quid del fatto celebrativo. «Capire», da condizione necessaria per l’actio communis, ne è divenuta il sostituto sufficiente.13 L’antropologia implicata da Sacrosanctum concilium è stata schiacciata su una sola dimensione, in perfetta continuità con il quadro precedente: la facoltà che riguarda le cose di Dio è il solo intelletto.14 Un sano moto di autocritica di questa attuazione della riforma liturgica può trovare un alleato in dinamiche «corporee» del vetus ordo, come il fine cesello di gestione dello spazio che lo caratterizza: la simbolica delle direzioni degli atti ri Si pensi alle diffuse prassi di didatticizzazione e didascalizzazione della celebrazione; la sua interpretazione e attuazione come codice di significanti, anziché come esperienza performativa; la centralità della sola omelia nella preparazione del presidente e nell’attesa dell’assemblea; il fastidio per le parti canore del rito; la logica spaziale di molte nuove chiese, disposte come sale conferenze ecc. Cf. Della Pietra, Rituum forma, 396-431. 14 Complice forse anche il tomismo aggiornato di K. Rahner, Che cos’è un sacramento?, in Id., Nuovi Saggi V, Paoline, Roma 1975, 473-491 e Id., Parola ed eucaristia, in Id., Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, Paoline, Roma 1965, 109-172. Per una lettura critica, cf. Belli, Caro veritatis cardo, 150-153. 13
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tuali15 e la regolamentazione precisa dei loro movimenti. Fattori conservati dal vetus ordo ma atrofizzatisi attorno al solo presidente (l’unico celebrante), caduti nel novus ordo, che, se recuperati ed estesi all’assemblea,16 favorirebbero – assieme ai movimenti già previsti dal novus ordo17 – il riemergere del senso di azione comune che conforma corporalmente spazi e relazioni.18 La riduzione antropologica della actuosa participatio a comprensione del messaggio ha poi un suo correlato ecclesiologico nella riproposizione liturgica della distinzione preconciliare tra ecclesia docens ed ecclesia discens. Se partecipare al culto è ridotto a un «capire», allora presiedere l’assemblea è «insegnare». La riforma volle disattivare il nesso anticotestamentario pontifex/populus a favore dell’actio communis; molta prassi favorita dal novus ordo ha invece plasmato l’azione liturgica secondo il nesso magister/populus: nuovi contenuti, ma riproposizione della vecchia forma; riedizione del vecchio accentramento della ministerialità nell’unico soggetto ritenuto protagonista. Anche questa deviazione potrebbe trovare validi antidoti nel recupero di elementi del vetus ordo. Penso anzitutto all’orientamento comune delle sezioni eucologiche della messa:19 L’orientazione delle chiese, la direzione comune delle sezioni eucologiche, la proclamazione del Vangelo verso il Nord ecc.: cf. R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, Brescia 2007, 189s. 16 Andrebbe soppresso il presbiterio come spazio separato. Segnalo, tra i possibili esempi, la disposizione degli spazi nella nuova chiesa parrocchiale di Quartirolo, diocesi di Carpi (Modena, Italia), o – già nel 1958! – la basilica sotterranea di S. Pio X a Lourdes (per quanto, data l’epoca, difetti di una significativa collocazione dell’ambone). 17 Ad esempio, la spesso trascurata processione dei doni. 18 Cf. Cassingena-Trévedy, Te igitur, 59-72. 19 La frontalità del versus populum non è prescritta dal novus ordo, ma resa possibile; la prassi rituale diffusa ne ha però fatto uno dei fattori identificativi della messa riformata. Per un ripensamento della gestione dello spazio, cf. G. Boselli (a cura di), Spazio liturgico e orientamento, Qiqajon, Magnano 2007; U.M. Lang, Rivolti al Signo15
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l’idea di presiedere rivolti ad populum è sorretta dall’istanza di «far vedere» ai fedeli ciò che il ministro va facendo per loro, davanti a loro, e non con loro;20 il recupero della direzionalità delle orazioni permetterebbe al contempo di disattivare la frontalità tipica della dinamica di docenza, evitare di fare del presidente il polo di convergenza dell’assemblea e ritrovare il senso della celebrazione come atto comune ad Patrem. Un altro elemento da rivalutare potrebbe essere quella dinamica ecclesiologicamente significativa custodita dai riti di ingresso del vetus ordo: il sacerdote, inizialmente collocato sotto i gradini dell’altare, davanti ad esso assieme all’assemblea, di fatto non vi saliva se non dopo che l’assemblea stessa gli avesse espresso il perdono di Dio nel misereatur tui. Il presbitero esercita la sua necessaria funzione in quanto membro della Chiesa, da essa fuoriuscito e da essa costituitovi. Egli non sale al posto designatogli come fosse suo possesso, ma in quanto la Chiesa, per la mediazione liturgica dell’assemblea dei fedeli, gliene apre la via nell’invocare per lui la misericordia di Dio.21 Sono solo esempi di un possibile dialogo tra contenuti rituali, di cui l’instaurazione di un percorso di riconciliazione metodologicamente corretto non potrebbe che avvantaggiarsi, per proseguire quell’atto di tradizione che è la riforma liturgica del Concilio Vaticano II.
re. L’orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, Siena 2006; R. Messner, La direzione della preghiera, l’altare e il centro eccentrico dell’assemblea, in G. Boselli (a cura di), L’altare. Mistero di presenza, opera dell’arte, Qiqajon, Magnano 2005, 201-212. 20 Cf. L. Bouyer, Architettura e liturgia, Qiqajon, Magnano 2007, 49-53; 87-93. 21 Il recupero celebrativo di questa dinamica potrebbe aiutare a riequilibrare una certa spiritualità clericale troppo sbilanciata sulla concezione cristotipica del ministero ordinato (il presbitero come alter Christus). Cf. E. Castellucci, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 20144, 248-262.
Zwei Formen des einen römischen Ritus? Zur Überwindung eines problematischen Nebeneinanders Martin Klöckener (Freiburg, Schweiz)
Der Weg in die aktuelle Aporie Mit dem Motu proprio Summorum Pontificum vom 7. Juli 20071 hat Benedikt XVI. ein Novum in der Geschichte der Liturgie geschaffen: die päpstlich verfügte Koexistenz zweier Formen des römischen Ritus (duo usus unici ritus romani, Art. 1). Dabei wurde als „außerordentliche Form“ (forma extraordinaria) jene Gestalt der römischen Liturgie wiedereingeführt, die das Zweite Vatikanische Konzil (1962-1965) als unbedingt erneuerungsbedürftig betrachtet hatte und für deren Reform die Konzilsväter in der Liturgiekonstitution Sacrosanctum concilium (SC) ein im Wesentlichen theologisches Fundament gelegt hatten, auf das sich jede gottesdienstliche Erneuerung des römischen Ritus fortan beziehen musste. Betraf das Motu proprio Benedikts XVI. die Eucharistiefeier, das Stundengebet (Art. 9 § 3), einige Feiern des Rituale 1 Lateinisch-deutscher Text: Papst Benedikt XVI., Apostolisches Schreiben „Summorum Pontificum“. Bonn 2007 (Verlautbarungen des Apostolischen Stuhls = VApS 178). Vgl. besonders: Ein Ritus – zwei Formen. Die Richtlinie Papst Benedikts XVI. zur Liturgie. Hg. v. A. Gerhards. Freiburg/Br. [u.a.] 2008 (Theologie kontrovers); A. Grillo, Eine Bilanz des Motu Proprio „Summorum Pontificum“. Vier Paradoxien und eine vergessene Zielsetzung, in: Concilium 45. 2009, 215-221; W. Haunerland, Ein Ritus in zwei Ausdrucksformen? Hintergründe und Perspektiven zur Liturgiefeier nach dem Motu proprio „Summorum Pontificum“, in: Liturgisches Jahrbuch 58. 2008, 179203; M. Klöckener, Wie Liturgie verstehen? Anfragen an das Motu proprio „Summorum Pontificum“ Papst Benedikts XVI., in: Archiv für Liturgiewissenschaft 50. 2008, 268-305.
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Romanum2 sowie die Firmung nach dem Pontificale Romanum (Art. 9 § 2), so wurde mit der Instruktion Ecclesia Dei vom 30.4.20113 der generelle Gebrauch der vorkonziliaren Ausgaben des Pontificale Romanum, des Rituale Romanum und des Caeremoniale Episcoporum (Nr. 35) und die bis dahin noch untersagte Feier des Österlichen Triduums ebenfalls in vorkonziliarer Form erlaubt (Nr. 33), außerdem die 1972 abgeschafften Tonsur und Niederen Weihen (Nr. 31). Somit ist umfassend die tridentinische Liturgie, wie sie sich in den letzten vorkonziliaren Ausgaben der liturgischen Bücher fand, als „außerordentliche Form“ in der gesamten römisch-katholischen Kirche wieder zugelassen. Benedikt XVI. widerspricht damit der Entscheidung des Vaticanum II und schränkt außerdem die Verbindlichkeit aller anderslautenden Apostolischen Konstitutionen seiner Vorgänger, Dekrete der für den Gottesdienst zuständigen Kongregation und weitere Rechtsdokumente des Apostolischen Stuhls ein. Abgesehen von den Pontifikalriten liegt die Entscheidung über die Verwendung der einen oder anderen Form der Liturgie nicht beim Bischof beziehungsweise zuständigen Ortsordinarius, wie dies unter Papst Johannes Paul II. 1984 bei der ersten Etappe der Wiederzulassung des Missale Romanum von 1962 durch ein Indult der Fall war,4 sondern im Belieben jedes einzelnen Priesters. Die Tragweite der Entscheidung Benedikts XVI. in ihrem ganzen Umfang ermessen kann nur, wer sich der Mühe unterzieht, die liturgischen Bücher tridentinischen Benedikt XVI. nennt explizit in Art. 5 § 3 Trauungen, Begräbnisfeiern und Wallfahrten, in Art. 9 § 1 die Sakramente der Taufe, Ehe, Buße und Krankensalbung. 3 Vgl. https://bit.ly/2CaCmgZ 4 Vgl. Brief der Gottesdienstkongregation Quattuor abhinc annos (3.10.1984), in: Dokumente zur Erneuerung der Liturgie, Bd. 3: Dokumente des Apostolischen Stuhls (4.12.1983 – 3.12.1993). Übersetzt, bearb. und hg. von M. Klöckener. Kevelaer – Freiburg/Schweiz 2001, Nr. 5685-5686; siehe auch Johannes Paul II., Motu proprio Ecclesia Dei (2.7.1988), ebd. Nr. 6249-6253. 2
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Zuschnitts in ihrer Anlage sowie in den Details der Riten genauer zu studieren. Die „außerordentliche Form“ führt weithin eine Randexistenz im Leben der Kirche, allerdings nicht überall. Im frankophonen Raum beispielsweise gibt es erheblich mehr Gruppierungen, Gottesdienstorte, Priester und sogar Bischöfe als im deutschen Sprachgebiet, die diese Form der Liturgie begehen, viele davon regelmäßig oder exklusiv. Vorwiegend in der jüngeren Generation von Laien und Klerikern findet man auch „Bi-Ritualisten“, die – mitunter unbedarft – zwischen den beiden Formen wechseln, doch gibt es solche liturgischen „Wanderer“ auch in anderen Kreisen bis hin zu einzelnen Theologieprofessoren, die sich öffentlich dazu bekennen. In der Praxis haben sich – im Widerspruch zu den Vorschriften des Apostolischen Stuhls – häufiger Mischformen dahingehend herausgebildet, dass nicht die vorkonziliare Liturgie in Reinform vollzogen wird, sondern unter dem Einfluss der zeitgenössischen Individualisierung bestimmte Elemente und Vollzüge aus der ordentlichen in die außerordentliche Form übernommen werden, seltener in Gegenrichtung. Anfang 2020 hat die Glaubenskongregation, die inzwischen für die „außerordentliche Form“ des römischen Ritus zuständig ist,5 mit zwei Dekreten zur Erweiterung des Bestandes der Präfationen sowie zum Heiligenkalender Änderungen dieser Form verfügt, um sie an neuere Entwicklungen anzupassen.6 5 Damit ist die neue Problematik entstanden, dass ein Teil der Liturgie der eigentlich für dieses Feld zuständigen Kongregation für den Gottesdienst und die Sakramentenordnung entzogen ist. 6 Vgl. die Dekrete Quo magis (22.2.2020) und Cum sanctissima (25.3.2020); Text auf www.vatican.va. Vgl. die kritische Stellungnahme von M. Klöckener, „Alte Messe: Freiburger Theologe warnt vor Spaltung“ in: https://bit.ly/3hCwrBG (deutsch) und https://bit.ly/3e9hTHo (französisch). Diese Änderungen waren schon im Begleitbrief Benedikts XVI. zur Veröffentlichung von Summorum Pontificum (VApS 178, S. 24) und in der Instruktion Ecclesia Dei, Nr. 25, angekündigt worden.
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Worin aber besteht die Problematik dieses Nebeneinanders, worin die Aporie? Und warum ist sie zu überwinden?
Das irreführende Argument legitimer liturgischer Vielfalt zur Rechtfertigung der „außerordentlichen Form“ Die Liturgie der Kirche steht von jeher in der Spannung von Vielfalt und Einheit. Wenn hier die Vielfalt zuerst genannt wird, entspricht das den historischen Gegebenheiten, dass am Anfang des christlichen Gottesdienstes überhaupt, aber auch in späteren Epochen fast durchgängig eine anerkannte Vielfalt den Einheitsbestrebungen vorausgeht.7 Sie begegnet in der großen Zahl von Riten oder liturgischen Familien des Ostens und des Westens, die zumeist auf die altkirchlichen Patriarchate und bedeutende Bischofssitze zurückgehen. Jeder dieser Riten ist in bestimmten Kontexten verwurzelt und steht mit ihnen in beständiger Interaktion. Solche Kontexte sind zum Teil kultureller Art oder Ausdruck anderer Mentalitäten, haben mit unterschiedlichen kirchlichen Lebensformen zu tun, setzen bestimmte theologische Akzente oder sind durch geistliche Strömungen und Impulse beeinflusst. In Spannung dazu steht in der Liturgiegeschichte das Einheitsparadigma. Neben Bemühungen schon in der Alten Kirche (z.B. auf Konzilien) und im Mittelalter erlaubte die Erfin7 Zur neueren Forschung, die ältere gegenläufige Auffassungen korrigiert hat, vgl. die Sammelwerke: Liturgiereformen. Historische Studien zu einem bleibenden Grundzug des christlichen Gottesdienstes. Hg. v. M. Klöckener – B. Kranemann. 2 Bde. Münster 2002 (Liturgiewissenschaftliche Quellen u. Forschungen 88); Geschichte der Liturgie in den Kirchen des Westens. Rituelle Entwicklungen, theologische Konzepte und kulturelle Kontexte. 2 Bde. Hg. v. J. Bärsch – B. Kranemann in Verb. mit W. Haunerland – M. Klöckener. Münster 2018.
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dung des Buchdrucks die effektive Umsetzung weltweiter liturgischer Einheitlichkeit nach dem Konzil von Trient (1545– 1563). Zur Reform der Kirche nach innen, aber auch zur Abwehr der Reformation wurde nun erstmals eine strikte Einheit des römischen Ritus päpstlicherseits vorgeschrieben, wofür mit den Neuausgaben der liturgischen Bücher ab 1568 die quellenmäßige Basis geschaffen wurde.8 Solche Vielfalt der Riten besteht in den Kirchen heute fort. Daraus könnte man den Schluss ziehen, dass auch in der Gegenwart in der katholischen Kirche zwei Formen desselben Ritus koexistieren können. In der Tat wird dieses Argument von den Anhängern der „außerordentlichen Form“ ins Feld geführt. Doch ist es nicht zulässig. Denn hier geht es weder wie bei den Ostkirchen um den Ritus einer eigenen Kirche noch um einen selbständigen, auf eine Diözese oder ein bestimmtes, klar definiertes Gebiet begrenzten Ritus innerhalb der römisch-katholischen Kirche, wie es bei der Ambrosianischen Liturgie, der Spanisch-Mozarabischen Liturgie oder – in inkulturierter Form – beim römischen Messritus für die Diözesen des Zaire9 zutrifft. Vielmehr liegt hier ein Nebeneinander von zwei Formen desselben Ritus vor, die historisch gesehen aufeinander folgten und von denen die eine nach dem Vaticanum II vor inzwischen rund 50 Jahren die andere ersetzt hat. Die Neufassung der römischen Liturgie steht als Frucht des Konzils in Kontinuität zur vorausgehenden Fassung, aber hat diese kraft autoritativer Vorgabe von Papst und Konzil abgelöst, und zwar notwendigerweise, wie es alle Epo-
8 Breviarium Romanum 1568; Missale Romanum 1570; Martyrologium Romanum 1584; Pontificale Romanum 1595/96; Caeremoniale Episcoporum 1600; Rituale Romanum 1614. 9 Vgl. Missel Romain pour les diocèses du Zaire. Hg. von der Conférence Épiscopale du Zaire. Kinshasa/Gombe 1989.
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chen der Liturgiegeschichte bei Reformen bezeugen, weil nur so der erhoffte Fortschritt zum Tragen kommen kann. Zudem beziehen sich die Ambrosianische Liturgie als eigenständiger Ritus sowie die Eucharistiefeier nach dem römischen Ritus für die Diözesen des Zaire auf dieselbe liturgietheologische Grundlage wie die ordentliche Form des römischen Ritus: auf das Vaticanum II bzw. beim „Zaire-Messbuch“ auf das Missale Romanum von 1970/75. Demnach ist auch innerhalb der römisch-katholischen Kirche eine Vielfalt der Riten möglich, jedoch unter der Voraussetzung derselben theologischen Grundlagen. Eine neue Form von Vielfalt in der römischen Liturgie gibt es darüber hinaus durch die Volkssprachen. Doch haben die diversen Ausprägungen volkssprachlicher Liturgie ihre gemeinsame Basis im Vaticanum II und setzen die nach dessen Weisungen herausgegebenen liturgischen Bücher voraus. Hierin besteht der substantielle Unterschied zur „außerordentlichen Form“; diese stellt in diachroner Hinsicht selbstverständlich den römischen Ritus dar, aber eben in einer Form, deren grundlegende Erneuerung das Vaticanum II aufgrund jahrzehntelanger theologischer und historischer Studien und geistlich-pastoraler Erwägungen für notwendig hielt. Für die katholische Kirche ging es dabei um die Grundlagen der Liturgie überhaupt: die „innere Wesensart der Liturgie“ (SC 21), die Begründung aller Liturgie im Pascha-Mysterium, die Ekklesiologie, die Rollen der Mitfeiernden aufgrund von Taufe und Ordination, die Korrespondenz von lex orandi und lex credendi in Treue zur Tradition und angesichts der Herausforderungen der Gegenwart, die kirchlichen Lebensrhythmen und die rituelle Gestalt und Symbolik unter den Bedingungen des Heute. Wer einem strengen liturgischen Einheitsparadigma anhängt, kann nicht umhin, die Existenz zweier in grundlegen-
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den Punkten divergierender Formen des römischen Ritus, deren ältere kraft kirchlicher Entscheidung ersetzt worden ist, abzulehnen. Aber auch wer grundsätzlich die Vielfalt in der Liturgie als gebotenen Ausdruck von legitimen Gestalten des Glaubens, Mentalitäten und Kulturen bejaht, kann nicht mit Berufung auf die an anderen Stellen in der katholischen Kirche und den christlichen Kirchen insgesamt bestehende Varianz für das Nebeneinander der beiden Ritusformen plädieren. Vielmehr muss die Ausnahmesituation zweier Formen des römischen Ritus überwunden werden.
Die Unvereinbarkeit von ordentlicher und außerordentlicher Form Das Nebeneinander der beiden Formen des römischen Ritus lässt sich allerdings nicht durch ein paar Kunstgriffe in die „rituelle Trickkiste“ beenden. Denn obwohl die beiden Formen in derselben Traditionslinie stehen, die eine Form aus der anderen herausgewachsen ist und diese fortentwickelt,10 stößt man bei genauerem Zuschauen auf deren Unvereinbarkeit, weil sich in den vier Jahrhunderten, die zwischen den beiden Fassungen der römischen Liturgie liegen, wesentliche theologische Erkenntnisfortschritte ergeben haben, die Kirche in anderen Welten lebt und die Gegenwart völlig neue Herausforderungen aufwirft. Die Zeit ist eine Grunddimension allen menschlichen und sozialen Lebens; dasselbe rituelle Gefüge bedarf derselben 10 Vgl. zur Frage von Kontinuität und Diskontinuität A. Grillo, Liturgie 50 ans après Sacrosanctum Concilium. Bilan et perspectives, in: „Die sichtbarste Frucht des Konzils“. Beiträge zur Liturgie in der Schweiz – „Le fruit le plus visible du Concile“. Études sur la liturgie en Suisse. Hg. v. M. Klöckener – B. Jeggle-Merz – P. Spichtig. Freiburg/Schweiz 2015, 68-90.
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zeitlichen Ordnung. Deshalb kann die Kirche in der Liturgie nicht mit zwei verschiedenen zeitlichen Strukturierungen des Kirchenjahrs und abweichenden Kalendarien leben, deren Differenzen zum Teil gravierend sind (z.B. Dauer der Weihnachtszeit, Reduzierung der Oktaven, Einführung der Zeit im Jahreskreis, Divergenzen bei Vorkommen, Datum und Rang von Heiligenfesten). Das Konzil hatte die Bedeutung der Heiligen Schrift im Leben der Kirche und in der Liturgie von Neuem unterstrichen, was zu einer völligen Neuordnung der Schriftlesungen in der Eucharistiefeier führte. Darüber hinaus wurden konsequent auch Schriftlesungen in den Sakramentenfeiern, Segnungen sowie den Feiern unter dem Vorsitz des Bischofs nach dem Pontifikale vorgesehen, in denen die vorkonziliaren liturgischen Bücher bis auf wenige Ausnahmen keine Verkündigung des Wortes Gottes kennen. Bei aller möglichen Kritik an Details der Leseordnung kann niemand, der von der Bedeutung des Wortes Gottes für das Leben der Kirche und der Gläubigen überzeugt ist, mehr den früheren Zustand gutheißen. Die Sakramentenfeiern wurden grundlegend revidiert, damit das Wesentliche der Riten und Texte besser zum Ausdruck kommt. Dabei wurden durch Apostolische Konstitutionen mehrere sakramentale Formeln geändert. Mit der Wiederzulassung der tridentinischen Liturgie hat Benedikt XVI. zwar schon den früheren Formen der Sakramentenspendung wieder einen Platz gegeben, doch kann die katholische Kirche es sich nicht dauerhaft leisten, im Kern der sakramentlichen Feiern voneinander abweichende Formeln zu gebrauchen. Die „participatio actuosa“, die im Sakrament der Taufe begründete volle, bewusste, tätige, geistlich fruchtbringende, innere und äußere Teilnahme der Gläubigen an der Liturgie ist eine der wichtigsten, aus theologischen Gründen unverzicht-
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baren Errungenschaften des Konzils und der Liturgiereform. Das Liturgieverständnis der „außerordentlichen Form“, das allein Kleriker als Träger der liturgischen Handlung betrachtet und die Gläubigen wieder in die Rolle von „Außenstehenden und stummen Zuschauern“ (SC 48) drängt, ist nicht mehr akzeptabel. Die Einführung der Volkssprache in die Liturgie ist unverzichtbar für die verständige Mitfeier des ganzen Volkes Gottes. Keines der vorkonziliaren liturgischen Bücher der Universalkirche gewährt den Volkssprachen Raum, weil sie ein anderes, aus heutiger Sicht problematisches Liturgie- und Kirchenbild voraussetzen. Die Kirche hat in den liturgischen Büchern die Euchologie wesentlich bereichert und dabei aus der ganzen Fülle der kirchlichen Tradition geschöpft. Die weiteren Eucharistischen Hochgebete, die Segensgebete bei mehreren Sakramentenfeiern und den Benediktionen, die Feierlichen Schlusssegen und viele andere Texte sind eine wertvolle Frucht davon. Die „außerordentliche Form“ bietet im Vergleich zu diesem Reichtum des liturgischen Betens eine Armut an Gestaltungsvielfalt und – mehr noch – an theologischer Substanz der Liturgie. Der neu eingerichtete Katechumenat mit seinem Stufenmodell nach altkirchlichen Vorbildern zählt in vielen Ländern und Diözesen zu den pastoralen Schwerpunkten, gerade in einer Epoche zunehmenden Glaubensverlustes in der westlichen Welt. Die Trauungsliturgie einschließlich der großen Segensgebete über die Brautleute gehört zu jenen Feiern, deren Gestalt und theologische Substanz durch die Reform am meisten gewonnen hat. Im Vergleich zu diesen erneuerten Sakramentenfeiern ist die „außerordentliche Form“ völlig unzureichend. Mit der Instruktion Ecclesia Dei (2011) wurden in der „außerordentlichen Form“ bereits die im Laufe der Geschich-
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te bedeutungslos gewordenen Niederen Weihen wiedereingeführt. Kann es aber für den niederen Klerus von tonsurierten Ostiariern, Lektoren, Exorzisten, Akolythen, dazu von Subdiakonen angesichts der Konzilslehre über das Weiheamt sowie angesichts des Dienstes und der Aufgaben der Kirche in der Welt von heute noch einen Platz geben? Und um bei den Ordinationen zu bleiben: Kann man aus theologischen wie gestalterischen Gründen weiterhin die vorkonziliaren Ordinationsgebete mit ihrer einseitigen alttestamentlichen Typologie, die fern ist vom Bild des Bischofs, Presbyters und Diakons gemäß der Lehre des Vaticanum II, vertreten? Ebenso kann man doch nicht ernsthaft die völlig verunklarte Struktur der vorkonziliaren Weiheriten (besonders bei der Bischofs- und Presbyterweihe) wieder in den liturgischen Gebrauch nehmen wollen. Die Theologie des Segens, wie sie in den Praenotanda des Benediktionale ausgeführt wird, ist ein immenser Gewinn gegenüber der Segenstheologie und -praxis des früheren Rituale (vgl. z.B. die anamnetisch-epikletischen Segensgebete). Kann sich die Kirche als Ganze wieder auf die vorkonziliare zeremonielle Ausstattung der Liturgie einlassen, nachdem man – bei aller möglichen Kritik im Detail – insgesamt gut das Kriterium der „edlen Schönheit“ (SC 124) und Schlichtheit statt eines großen Aufwands umgesetzt hat? Hierbei geht es nicht nur um Äußerlichkeiten im Rahmen oder am Rande der Liturgie, sondern auch um die Glaubwürdigkeit der Kirche und der Botschaft des Evangeliums. Ein detaillierteres Studium der Riten und betreffenden liturgischen Bücher könnte diese Liste von Problematiken noch beträchtlich verlängern. Doch dürften schon die hier aufgeworfenen Fragen die Unvereinbarkeit der zwei Formen des römischen Ritus zeigen und verdeutlichen, dass deren Nebeneinander sowohl aus theologischen als auch aus pastoralliturgi-
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schen Gründen sowie im Blick auf eine kohärente und glaubwürdige Gestalt des Gottesdienstes der Kirche in der Welt von heute definitiv zu überwinden ist.
Die schwierige Rede von der „liturgischen Versöhnung“ Papst Benedikt XVI. sprach in seinem Begleitbrief an die Bischöfe zur Publikation von Summorum Pontificum in mehrfacher Hinsicht von der Versöhnung. Nach dem Scheitern der Versöhnung mit der Priesterbruderschaft Pius’ X. erhoffte er sich „eine innere Versöhnung in der Kirche“. Da in der Geschichte die Verantwortlichen nicht immer genug getan hätten, „um Versöhnung und Einheit zu erhalten oder neu zu gewinnen“, sehe er selbst die Verpflichtung, „alle Anstrengungen zu unternehmen, um all denen das Verbleiben in der Einheit oder das neue Finden zu ihr zu ermöglichen, die wirklich Sehnsucht nach Einheit tragen“.11 Die Instruktion Ecclesia Dei (Nr. 8.c) bezeichnet die Förderung der „Versöhnung innerhalb der Kirche“ als eines der drei Ziele von Summorum Pontificum. Unlängst hat Kardinal Kurt Koch von der Notwendigkeit der „liturgischen Versöhnung“ gesprochen, jedoch im Gegensatz zu den vorgenannten Dokumenten damit nicht die Koexistenz zweier Formen des römischen Ritus gerechtfertigt, sondern die Rückkehr zu einer einzigen Form gefordert. Wenn er nicht von „Versöhnung innerhalb der Kirche“, sondern von „liturgischer Versöhnung“ spricht, ist dann dasselbe gemeint? Oder verschieben sich damit nicht die Ziele und Perspektiven?
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Vgl. VApS 178, S. 24f.
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Es geht hier nicht um die Versöhnung zwischen Gott und den Menschen, die ansonsten bei diesem Begriff von der Bibel ausgehend in theologischen Kontexten primär im Blick ist, sondern um die Versöhnung zur Lösung eines innerkirchlichen Konflikts, speziell im Raum der Liturgie. Versöhnung setzt aber Schuld voraus, verlangt einen Akt der Umkehr und zielt auf Vergebung. Trifft dies überhaupt zu? Die Schwierigkeiten sind dadurch entstanden, dass bestimmte Gruppen und Personen den Weg der Kirche nach dem Vaticanum II nicht mitgegangen sind, sondern aus unterschiedlichen Gründen an der vorkonziliaren Liturgie festgehalten oder – inzwischen in den meisten Fällen – diese erst im Nachhinein für sich entdeckt haben. Teils geschieht dies in offener Ablehnung der auf dem Vaticanum II gründenden Liturgie, teils weniger aggressiv, aber mit mangelndem Problembewusstsein aus ästhetischen Gründen, wegen bestimmter Kirchen- und Priesterbilder, aus sonstigen persönlichen Vorlieben oder – das ist nicht zu übergehen – wegen schlechter Erfahrungen mit der faktisch erlebten Liturgie. Wie soll man sich aber unter solchen Voraussetzungen eine „liturgische Versöhnung“ denken? Ist dabei ein Aufeinander-Zugehen von ordentlicher und außerordentlicher Form, die Erarbeitung einer „Kompromissformel“ oder eine Verschmelzung der beiden Formen intendiert? Damit würde dem weitaus größten Teil der Gläubigen zugemutet, sich von Neuem auf die auf Weisung des Konzils außer Kraft gesetzte Liturgie einzulassen. Diesen Schritt kann und darf die Kirche aus theologischen und pastoralen Gründen nicht gehen, wenn sie das ernstnimmt, was in der identischen Tradition an Erkenntnis und Lebenspraxis in einem halben Jahrhundert gewachsen ist. „Liturgische Versöhnung“ kann nur bedeuten, dass jene Personen und Gruppen, die an der vorkonziliaren Liturgie festhalten, die Liturgie der katholischen Kirche, wie sie vom Apos-
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tolischen Stuhl, den Bischofskonferenzen und Bischöfen seit dem Konzil promulgiert worden ist, annehmen. Man wird allenfalls nach Wegen eines pastoralen Entgegenkommens suchen können, nicht aber die Liturgie selbst in Frage stellen.
Mögliche Schritte bei der Rückkehr zu einer einzigen Form des römischen Ritus Verschiedene Verantwortungsträger können gemeinsam zu Wegen in die Zukunft beitragen. • Beim Apostolischen Stuhl müsste die Verantwortung für die Liturgie ohne Einschränkungen der Kongregation für den Gottesdienst und die Sakramentenordnung übertragen und nicht auf zwei Dikasterien aufgeteilt werden. • Diese Kongregation müsste stärker einen lebendigen Austausch mit den Bischofskonferenzen führen, auch in der hier behandelten Problematik. Eine Umfrage, wie sie derzeit bei den Bischöfen über die außerordentliche Form veranstaltet wird, kann nützlich sein, wäre aber durch einen echten Dialog zu ergänzen. • Solange es den Ausnahmezustand zweier Formen des römischen Ritus gibt, ist den Bischöfen und Bischofskonferenzen für ihren Bereich die Leitung der Liturgie auch in diesem Punkt umfassend zurückzugeben. • Auch wenn es keine Verschmelzung der beiden Formen geben kann, ist eine kritische Evaluation der bestehenden Liturgie (der „ordentlichen Form“) nach rund fünf Jahrzehnten angebracht. Daraus kann sich die Notwendigkeit weiterer Reformschritte ergeben: in Treue zur Tradition, jedoch genauso im Blick auf die Erfordernisse der Gegen-
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wart, bei allem auf dem Boden des Zweiten Vatikanischen Konzils. • Denkbar wären spezielle pastorale Angebote für jene, die zuvor an der außerordentlichen Form teilgenommen haben, etwa spezifische Gesprächsforen oder Angebote liturgischer Bildung, um in einer sachlichen Atmosphäre in den Geist der Liturgie einzuführen und diese in ihrer ganzen Tiefe zu erschließen. • Nicht zuletzt bedarf es einer hochstehenden Feier der Liturgie selbst, und das gemäß der kirchlichen Ordnung. Eine zeitgemäße liturgische Ästhetik wäre verstärkt zu pflegen. Der Stille sollte mehr Raum gegeben werden. Einzelne weitere Akzente könnten denen, die sich zuvor in der außerordentlichen Form heimisch gefühlt haben, eine neue liturgische Heimat bieten.
Liturgical Reconciliation: How to Get Beyond the «exceptional status» of Summorum Pontificum? John F. Baldovin (Boston [MA], USA)
There can be little doubt that the permission to widen the use of the pre-Vatican II Roman liturgy (usus antiquior, as some refer to it) has been very liberally interpreted and practiced since it was initiated by Pope Benedict XVI in 2007. One will recall that the rationale that was given at the time foresaw celebration by groups and individual priests who remained attached to the older rite. The rationale also stated that there was one Roman Rite, which exists now in two forms: ordinary and extraordinary. That claim has been challenged because for some the two rites represent very different theological and pastoral approaches to the lex orandi of the Catholic tradition. Hence the need to respond to the following questions in light of Pope Francis’ desire to survey the use of the «extraordinary form».
Why should the two-fold form of the Roman Rite be abandoned? Theological and pastoral reasons A number of Catholics (including some of my own graduate students) argue that the pre-Vatican II rite should be allowed since they find it more prayerful and reverent. This may be more of a commentary on how the post-Vatican II liturgy is celebrated than on the liturgy itself. They appeal to freedom and diversity, often claiming that their desire for the old-
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er rite has nothing to do with ideology. Despite their goodwill, this is clearly not the case as Massimo Faggioli, Andrea Grillo, and Georgia Masters Keightley have shown.1 The two rites are based on different ecclesiologies. The pre-Vatican II rite emphasizes the role of the ordained priest to the exclusion of the common baptismal priesthood. As Keightley argues this is clearly demonstrated by the presence or absence of the Universal Prayer, the procession of the gifts by the faithful, and the exchange of peace. To this I would add a fuller participation in holy communion by means of sharing the common cup.2 A certain minimalistic approach to liturgy might lead some to consider these three elements superfluous to the «essence» of the liturgy but they are authentic expressions of what the Council laid out in the Constitution on the Sacred Liturgy, Sacrosanctum Concilium. As Peter Hünermann has argued very well, it is no accident that this document in a constitution. It needs to be appreciated as constitutional for the whole Church. One can reasonably contest Pope Benedict’s contention that the pre- and post- Vatican II liturgies represent the same rite in two different forms. To be honest, they communicate different ecclesiologies. In addition, one can point to the fact that the «form» itself of the words of consecration as well as of the sacrament of confirmation has been altered in the post-conciliar rite.
M. Faggioli, True Reform. Liturgy and Ecclesiology in Sacrosanctum concilium, Liturgical Press, Collegeville, MN 2012; A. Grillo, Beyond Pius V. Conflicting Interpretations of the Liturgical Reform, Liturgical Press, Collegeville, MN 2013; G. Masters Keightley, Summorum Pontificum and the Unmaking of the Lay Church, in Worship 86 (2012), 90-110. 2 Admittedly in these challenging times of pandemic it has been necessary to forego some of these elements. It would be extremely unfortunate if the values of communal participation they represent would be lost in a return to «normalcy». 1
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Moreover, despite Pope Benedict’s stated goals, a number of priests and seminarians who have an ecclesiological and liturgical preference for the older rite have begun to impose their will or at least pressure their parish communities. At a time which calls for unity, these practices only sow discord. Ironically the desire to return to the preconciliar liturgy is also symptomatic of the contemporary consumerism which so plagues many of our cultures. I do not mean to be flip in making the comparison to which brand of cereal I might prefer on the supermarket shelves. Anecdotally, I have heard of at least one priest who prefers to celebrate the Mozarabic Rite in private because he finds it more spiritually enriching. Moreover, a video recently appeared of a small group (this year – 2020 – in the time of the pandemic) celebrating the preconciliar Paschal Triduum – according to the pre1952/1955 rites. Despite being unlawful, this kind of picking and choosing cannot be what the Church means by celebrating the liturgy. An interesting corollary to the consumerism and commodification I have been referring to. Another profound loss in adopting the preconciliar liturgy relates to the diminution of the amount of Scripture that the people of God hear proclaimed and preached. The Constitution on the Sacred Liturgy (SC § 51, see also §§ 24, 35:1) is crystal clear in its insistence that the people be afforded a «richer fare» from the Bible. After all, hearing the Bible in Church is one of our most important means of catechesis in a world where we are in danger of being overwhelmed by religious illiteracy. The preconciliar Missal is limited on Sundays not only by a single yearly cycle but also by the almost complete lack of readings from the Old Testament. In addition, for the largest part of the year there is no daily lectionary at all. Similarly, the Roman Missal of Pope St. Paul VI is a vast enrichment of the previous missal in that it contains a treasury
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of prayers, especially prefaces and mass-sets which can be employed to make the liturgy suitable to varying circumstances, e.g. the Masses for Various Occasions in the back of the Missal.
What does «liturgical reconciliation» mean? What is the Vatican II project of liturgical reform – and how can it be renewed? The execution of the post-Vatican II liturgical reform has clearly been imperfect. In many (most?) places we are far from realizing the Council’s vision of a truly communal liturgy celebrated by the Body of Christ – head and members. We are far better off putting our time and energy into the project of helping our parishes to celebrate with full, conscious and active participation and training our priests to preside at the liturgy well: correctly and reverently. This is far preferable to divide our energies and encouraging those who, in the end result, want to reject the Council as a whole. Although some would argue that they do feel a sense of community when they are present at the celebration of the older rite this is clearly not the active participation envisioned by the Council. There can be no doubt that the Council insists on a different form of participation than had been the case for centuries. This is exemplified not only by the wellknown statement in Sacrosanctum Concilium § 14 but also in the following: «To promote active participation, the people should be encouraged to take part by means of acclamations, responses, psalmody, antiphons, and songs, as well as by actions, gestures, and bodily attitudes. And at the proper times all should observe a reverent silence» (SC §§ 30-31). The revi-
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sion of the liturgical books must carefully attend to the provision of rubrics also for the people’s parts. To the criticism that real participation is interior and spiritual, which is undeniably the case, one has to respond that as embodied human beings the manner in which we participate profoundly affects that interior participation. This basic sacramental and incarnational principle is one of the foundation stones of the whole movement for liturgical renewal. In addition, as observed above, our renewed understanding of the common or baptismal priesthood (e.g. Lumen gentium § 10) is fundamental to both our ecclesiology and our exercise of that priesthood in the liturgy as we participate with the priest in the eucharistic sacrifice. One of the greatest challenges of the past sixty years has been to find the equilibrium between the unique role of the ordained priest in the liturgy and the common priesthood which all (including the ordained) share. The use of the older rite makes it very difficult to find that balance. One can only applaud the frequent calls for greater reverence in our liturgical celebrations and this can and should be one of our major preoccupations. We need to ask ourselves, however, whether a return to the older rite is the correct solution. Nor will the push for a «reform of the reform» be a solution to the problem. After all some of the characteristics of the «reform of the reform» run directly counter to the post-conciliar liturgy, e.g. the use of the Roman Canon alone (silently and in Latin), the restoration of the older entrance rite (prayers at the foot of the altar), the restoration of the old offertory rite with its multiple prayers of the priest, sometimes in the singular («I offer…») and communion in one kind alone. Perhaps the greatest desire of the «reform of the reform» is to return to the ad orientem stance of the priest which is at least discour-
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aged by the insistence that the principal altar in a church be free-standing to allow for celebration versus populum: «The altar should be built separate from the wall, in such a way that it is possible to walk around it easily and that Mass can be celebrated at it facing the people, which is desirable wherever possible» (General Instruction of the Roman Missal § 299).
How, practically speaking, can we get beyond the current situation? The most urgent need in the current situation is two-fold. In the first place an intense effort needs to be made in seminaries such that seminarians are not given the impression that the older tie is in any way superior to the current «ordinary form» of the Roman Rite. In some seminaries the older rite is taught as a kind of alternative to the post-conciliar liturgy and this is totally unacceptable especially as it encourages an imposition of the priest’s predilections on the faithful. The alternative is competent instruction not only on the performance of the rites themselves but also on the meaning behind the Church’s ars celebrandi. For those who have already been ordained continuing education in the liturgy not to mention other areas is not a luxury but a necessity. Second, we need to have a renewed catechesis on the liturgy for the people. The reformed rites are fine but they need to be interiorized by the people. This comes about first of all through reverent and competent celebration but also by efforts at other forms of catechesis whether by means of brief explanations during the liturgy itself or by extra-liturgical instruction. It would be naïve to imagine that complete agreement as to whether or not the pre-Vatican liturgy should be encour-
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aged can be found in the various episcopal conferences. On the other hand, frank and open discussion by the bishops, especially with regard to the potential damage to the unity of the faithful represented by promotion of the older rite, would be most welcome. Clearly given the current legislation no bishop could be forced to disallow the «extraordinary form» in his own diocese but at least bishops might be encouraged to become more aware of the reasons favoring ardent promotion of the Church’s reformed liturgy. Thankfully Pope Francis has taken the lead in affirming the Church’s post-Vatican II way of celebrating the liturgy as well as in discouraging talk of a «reform of the reform». Pope Benedict gave permission for a more extended use of the pre-Vatican II liturgy, but it should not be forgotten that it was on the basis of small groups who were/are attached to the older rites (Summorum Pontificum, art. 5). Despite the theological, ecclesiological and liturgical issues mentioned above, it would seem in the interest of the Church as a whole that such celebration be limited to those groups. Indeed, it would be in the best interest of the Church to have one rite – celebrated well.
Gottesdienst weiterentwickeln: Wohin soll der Weg der römischen Liturgie führen? Benedikt Kranemann (Erfurt, Deutschland)
Die doppelte Form des römischen Ritus als Problem für Kirche und Theologie Das Nebeneinander zweier römischer Riten innerhalb der katholischen Kirche, des vorkonziliaren und des nachkonziliaren Ritus, ist historisch betrachtet singulär. Es betrifft, was häufig übersehen wird, nicht nur die Messfeier, sondern alle liturgischen Formen und damit das gesamte Gebäude der Liturgie. Die verschiedenen römisch-katholischen Liturgien – Messfeier und andere sakramentale Liturgien, Sakramentalien, Tagzeitenliturgie, aber auch die Feste und Gedenkund Feiertage der Heiligen u.v.m. – sind nach dem Konzil aufgrund von Anregungen, die Bischöfe aus der Weltkirche in Rom für die Konzilsberatungen und eine spätere Liturgiereform eingereicht hatten und von denen viele in die Liturgiekonstitution eingeflossen sind, fortgeschrieben, verändert oder in Teilen auch aufgegeben worden. Seit den 1960er und 1970er Jahren standen als Grundgedanken dabei u. a. das Paschamysterium als theologische Mitte, die volle, bewusste und tätige Teilnahme aller Getauften, der Gemeinschaftscharakter der Liturgie sowie die neue Gewichtung der Heiligen Schrift aus Altem und Neuem Testament im Vordergrund. Weiterhin waren die Muttersprachlichkeit der Liturgie, die strukturelle wie theologische Stringenz und Klarheit der einzelnen Feiern
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und die Begegnung der römischen Liturgie mit unterschiedlichen Kulturen von Bedeutung. Man muss auch die Verantwortung der Ortskirchen für die Liturgie innerhalb der einen Kirche nennen, die mit dem Konzil umfassend gestärkt worden war, dann aber mit Abstand zum Konzil immer deutlicher beschnitten wurde. Es handelt sich historisch betrachtet um die wohl weitreichendste Reform der Liturgie im Laufe der Kirchengeschichte. Sie hatte erhebliche Konsequenzen, die ein Zurück unmöglich machen. Aussagen kirchlicher Dokumente wie Analysen wissenschaftlicher Theologie kommen seit Jahrzehnten darin überein, dass Liturgie und Ekklesiologie eng zusammengehören. Veränderungen und Entwicklungen im Bereich des Gottesdienstes betreffen Bild und Selbstverständnis der Kirche – und umgekehrt. Durch die Verdoppelung der Form des römischen Ritus aufgrund des Apostolischen Schreibens Summorum Pontificum (2007) ist eine unter theologischen wie pastoralen Gesichtspunkten schwierige Situation entstanden. Das Kirchenverständnis der vorkonziliaren, der sogenannten „außerordentlichen“ Form ist ein anderes als das der nachkonziliaren, die auch „ordentlicher“ Form genannt wird. Aktive Teilnahme und Gemeinschaftscharakter sind dem alten Ritus als konstitutive Elemente nachweislich fremd. Aufgrund historischer Einflüsse war diese Liturgie auf den Priester konzentriert, sodass die anderen Gläubigen keine entscheidende Rolle spielten und in der Konsequenz innerhalb der Liturgie mit verschiedenen Frömmigkeitsübungen befasst waren, aber eben nicht mit der Liturgie selbst. Noch Liturgiken aus der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts machten deutlich, dass die Gemeinde zur Messe nur hinzutrat, aber für das liturgische Geschehen selbst nicht relevant war. Weltkirchlich wurde schon im Vorfeld des Konzils deutlich, dass das als ein Missstand empfunden wurde, der aus theologischen wie pastoralen
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Gründen nicht mehr gewünscht war. Er entsprach vor allem nicht der Würde und dem Recht der Getauften! Der vorkonziliaren Liturgie fehlten natürlich nicht biblische Texte, aber die heutige Liturgie geht weit darüber hinaus, insbesondere was das Alte Testament betrifft, und versteht und gestaltet Schriftlesung als Verkündigung. Das gilt für alle gottesdienstlichen Formen und hat in der Ökumene große Resonanz gefunden. Die heutige katholische Leseordnung der Messfeier ist auch in anderen christlichen Kirchen rezipiert und fortgeschrieben worden. Es gibt weitere Unterschiede, die es unmöglich machen, alten und neuen Ritus gleichzusetzen. So simulierte vorkonziliar der Taufritus Antworten des zu taufenden Säuglings, während der heutige Ritus in seinen Fragen und Antworten auf Eltern und Paten zugeschnitten ist. Säuglingstaufe war faktisch eine adaptierte Erwachsenentaufe. Das ist überwunden worden. Die große Zahl der Taufexorzismen ist mittlerweile auf ein theologisch wie pastoral tragfähiges Maß reduziert worden. Es gibt gute Gebete für die Taufwasserweihe in jeder Taufliturgie, demgegenüber man historisch nur die Taufwasserweihe an Ostern kannte. Für die Trauungsliturgie existiert heute ein großes Segensgebet in verschiedenen Textformen, das die Rolle von Mann und Frau, aber auch die Zugehörigkeit zu unterschiedlichen Konfessionen, Religionen und Weltanschauungen ernstnimmt. Die vorkonziliare Liturgie war hier theologisch deutlich ärmer. Aus dem Breviergebet des einzelnen Klerikers ist – zumindest dem Ideal und der Möglichkeit nach – die Tagzeitenliturgie vieler geworden. Gerade letzteres Beispiel zeigt: Die Möglichkeiten der nach dem Konzil erneuerten Liturgie sind längst noch nicht ausgeschöpft. Was Wortverkündigung für den Glauben der Kirche bedeutet und was die Aufgabe vielfältiger Formen von Wortgottesdiensten sein könnten, ist in der Praxis entweder
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noch zu entdecken oder wäre stärker zu fördern. Hierin liegt eine Zukunftsaufgabe der Kirche gerade in einer Zeit, in der sie nach innen wie nach außen in Bewegung ist. Es braucht ein überzeugendes und klares liturgisches Glaubensfundament. Das Nebeneinander zweier Riten dient dem nicht, sondern verunklart Liturgie wie Ekklesiologie. Es geht nicht um Variationen innerhalb eines Ritus, die an denselben theologischen und ästhetischen Grundüberzeugungen partizipieren. Es geht vielmehr um zwei Riten mit markanten theologischen Unterschieden, die für unterschiedliche Entwicklungsstufen der römischen Liturgie stehen, auch wenn Summorum Pontificum dies anders darstellt. An verschiedenen Stellen weisen sie explizit in gegensätzliche Richtungen, so z.B. bei der Bitte für die Juden und die getrennte Christenheit am Karfreitag in geradezu dramatischer Weise, hinsichtlich der Bedeutung der Homilie als Teil der Messfeier, in der Wiedergewinnung des Fürbittgebets, bei der Reduzierung sekundärer Elemente im Kirchenjahr zwecks Stärkung herausragender Feste und des Sonntags.
Eine Versöhnung der Riten als Widerspruch in sich Die Feier der vorkonziliaren Liturgie ist in Deutschland nur ein marginales Phänomen. Doch hat mancherorts der vorkonziliare Ritus zum Aufbau eigener Gruppen geführt. Hier entsteht in problematischer Weise eine Kirche in der Kirche, oftmals mit dem Anspruch, allein wahre Katholizität zu verkörpern. Bisweilen wird der Eindruck erweckt, als sei der nachkonziliare Ritus theologisch weniger gewichtig, in der Feierkultur flacher, ärmer in seiner Spiritualität. Genau diese Kritikpunkte, die zur Mitte des vergangenen Jahrhunderts am vorkonziliaren Ritus geäußert worden sind, haben
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zu dessen Reform geführt. Deshalb hat man die liturgischen Bücher und Ordnungen durch neue ersetzt, deshalb ist das vorkonziliare Missale Romanum am 3. April 1969 durch die Apostolische Konstitution Missale Romanum Papst Pauls VI. abgeschafft worden.1 Ist manches Bild des vorkonziliaren Ritus, das heute propagiert wird, nicht eher nostalgisch-romantisierend und trägt nicht manche Art und Weise, in der diese entsprechenden Riten heute praktiziert werden, eher Züge einer unhistorischen Inszenierung? Mit der Wiederzulassung des vorkonziliaren Ritus ist der Kirche kein guter Dienst erwiesen worden. Liturgiegeschichtliches Wissen und liturgietheologische Analyse lassen zu dem Schluss kommen: Das Nebeneinander der beiden Riten muss zugunsten des nachkonziliaren Ritus überwunden werden. Man kann allerdings immer wieder hören, das Ziel heute müsse die „liturgische Versöhnung“ des vor- und des nachkonziliaren Ritus sein. Offenbar steht im Hintergrund doch die Vorstellung zweier konkurrierender, zumindest konfligierender Riten, die zusammengeführt werden müssen, anders ergibt „Versöhnung“ keinen Sinn. Vermutlich soll aus zwei Riten ein dritter geschaffen werden, wie immer man sich das vorzustellen hat. Vielleicht erhofft man sich eine Überwindung von Defiziten in der nachkonziliaren Liturgie durch solch einen Schritt. Er wäre aber aus den dargelegten Gründen in historischer wie in theologischer Perspektive nicht akzeptabel. Das Ziel der Liturgiekonstitution und der nachkonziliaren Reformen war die Revision und Reform der bisherigen Liturgie auf der Basis einer theologischen Erneuerung des Verständnisses von Kirche. Die heutige römische Liturgie steht in der Tradi Der Text ist leicht zugänglich in H. Rennings – M. Klöckener (edd.), Dokumente zur Erneuerung der Liturgie. Dokumente des Apostolischen Stuhls 1963– 1973, Kevelaer 1983 (Dokumente zur Erneuerung der Liturgie 1), Nrr. 1362-1372, hier Nr. 1372. 1
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tion der vorkonziliaren Liturgie und hat das, was man im 20. Jahrhundert, zum Teil mit längerer Vorgeschichte, als Schwächen ausgemacht hatte, zu überwinden versucht. Sie ist das Ergebnis einer Reform, durchaus einer Weiterentwicklung, innerhalb derer manches aufgegeben, anderes revidiert, einiges neu hinzugekommen ist. Aber die innere Logik der durch die Kirchenleitung in Gang gesetzten Reform zielte auf eine veränderte Liturgie um einer Stärkung von Glaube und Kirche willen. Eine „Versöhnung“, die ja letztlich den vorkonziliaren Ritus und das damit verbundene Selbstverständnis der Kirche wieder stärken würde, liefe dem zuwider. Sie würde die skizzierten Entwicklungen wider besseres Wissen zurückdrehen.
Die Fortführung des Projekts „Liturgiereform“ als Aufgabe der Gegenwart Gegen die gerade angesprochene „Versöhnung“ sprechen zudem theologische Gründe. Mit der Betonung des Paschamysteriums für das theologische Verständnis der Liturgie ist ein Paradigmenwechsel vollzogen worden. Insbesondere für die Messliturgie gilt jetzt: Die aus historischen Gründen verengte Deutung der Messe vom Passions- und Kreuzesgeschehen her ist in Auseinandersetzung mit altkirchlichen Traditionen deutlich geweitet worden. Der österliche Aspekt, d. h. die stärkere Perspektivierung auf Auferstehung und Leben hin, wurde damit in allen Liturgiefeiern gestärkt, ohne das Leidens- und Kreuzesgedächtnis zu eliminieren. Die verschiedenen Feiern sind stärker auf das Zentrale des christlichen Glaubens insgesamt ausgerichtet worden. Von hierher haben viele Feiern wesentliche Impulse erhalten, und zwar nicht allein in ihrer Theologie, sondern auch in ihrer Gestalt. Ob man an die
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Feier des Triduum Sacrum mit einer Liturgie, die Leiden, Tod und Auferstehung zusammenschaut, denkt, an die Gemeindeakklamation im Eucharistischen Hochgebet, an die Veränderungen in der Begräbnisliturgie – immer ist die vergegenwärtigende Erinnerung des Todes und der Auferstehung Jesu Christi präsent. Was könnte hier eine „Versöhnung“ leisten? Die eigentliche Aufgabe besteht heute darin, im Wissen um den Zugewinn der nachkonziliaren Liturgie deren theologische und spirituelle Impulse für die Gegenwart verständlich und für Glaube und Leben dienlich zu machen. Hier liegt mit Abstand zum Konzil die entscheidende Herausforderung, der sich die Kirche stellen muss, wenn sie die Impulse des Konzils nicht verspielen will. Ein weiterer Aspekt: Wie soll man sich die Versöhnung einer gemeinschaftlich gefeierten Liturgie mit einer Liturgie vorstellen, zu deren Vorstellungswelt genau dieses Miteinander nicht gehört, weil sie aus einer anderen Mentalität und Theologie heraus entstanden ist? Die Erfahrung und die Hervorhebung des Gemeinschaftlichen im Gottesdienst ist für das Selbstverständnis der katholischen Kirche heute von großer Bedeutung. Es hat einen massiven Mentalitätswandel gegeben, der übrigens über lange Zeit gewachsen ist und nicht mehr dispensierbar ist. Gemeinsames Beten, gemeinsames Handeln, das Zusammenkommen und eine Form von Versammlung, die Gemeinschaft erfahren lässt, werden als Konstitutiva der Kirche wahrgenommen. Hier wird ins Bild gebracht, wie sich Kirche versteht. Wenn man beide Riten versöhnen wollte, müsste man sich entscheiden, welche Vorstellung von Kirche man zum Ausdruck bringen wollte. Man kann solch unterschiedliche Ekklesiologien nicht einfach in eins setzen. Das kann nicht verwundern, denn die Reform der Liturgie sollte ja gerade zu einer Erneuerung der Kirche beitragen. Die Liturgiereform war Teil der Kirchenreform. Bei ei-
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nem „Versöhnungsprozess“ der Riten besteht die Gefahr, diese Reform der Kirche zu gefährden, die ja längst nicht abgeschlossen ist, wie der Synodale Weg der katholischen Kirche in Deutschland zeigt. Entscheidend ist die Frage, ob eine „Versöhnung“ mit jenen Gläubigen möglich ist, die den alten Ritus feiern möchten, ob sie nicht doch für eine überzeugende und qualitätsvolle Gestalt der nachkonziliaren Liturgie gewonnen werden können und ob man den spirituellen Gewinn, der mit der heutigen Liturgie verbunden sein sollte, plausibler vermitteln kann. Die verschiedenen Riten wie Bausteine ineinander zu verschachteln, würde bedeuten, das Reformwerk des Konzils aufs Spiel zu setzen, die Majorität der Gläubigen vor den Kopf zu stoßen und die Zeichen der Zeit zu verkennen, die gerade für eine stärkere Einbeziehung aller Getauften in eine hoffnungsvoll gefeierte Liturgie sprechen. Die durch das Konzil erneuerte Liturgie verdient alles Engagement. Vorhandene Schwachpunkte müssen überwunden, die Stärken der verschiedenen Feiern besser zur Geltung gebracht werden. Nicht in der Rück-, sondern in der Fortentwicklung der durch das Konzil erneuerten Feiern liegt die Zukunft von Kirche und Liturgie.
Weiterführende Literatur Exkommunikation oder Kommunikation? Der Weg der Kirche nach dem II. Vatikanum und die Pius-Brüder. Hg. von Peter Hünermann. Freiburg/Br. [u.a.] 2009 (Quaestiones Disputatae 236). A. Grillo, Eine Bilanz des Motu Proprio „Summorum Pontificum“. Vier Paradoxien und eine vergessene Zielsetzung, in: Concilium 45. 2009, 215-221. W. Haunerland, Ein Ritus in zwei Ausdrucksformen? Hintergründe und Perspektiven zur Liturgiefeier nach dem Motu proprio „Sum-
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morum Pontificum“, in: Liturgisches Jahrbuch 58. 2008, 179203. M. Klöckener, Wie Liturgie verstehen? Anfragen an das Motu proprio „Summorum Pontificum“ Papst Benedikts XVI., in: Archiv für Liturgiewissenschaft 50. 2008, 268-305. Ein Ritus – zwei Formen. Die Richtlinie Papst Benedikts XVI. zur Liturgie. Hg. von Albert Gerhards. Freiburg/Br. [u.a.] 2008 (Theologie kontrovers).
Un point d’étape décisif dans la contestation liturgique traditionnaliste Arnaud Join-Lambert (Louvain-la-Neuve, Belgique)
En 2011, après une tribune dans le quotidien La Croix publiée avec mon collègue le professeur Joris Geldhof de la Katholieke Universiteit Leuven sur «L’ancien et l’actuel rite liturgique romain peuvent-ils coexister sans conséquence?»,1 nous fumes «agressés» par un article très violent dans le mensuel français d’extrême-droite Présent et diffusé ensuite par la newsletter La Paix liturgique (en français, anglais et polonais). Si je reçus ensuite des excuses personnelles et un droit de réponse (à ma demande), cette mésaventure m’a confirmé douloureusement combien la question d’une «double forme du rite romain» ne relevait pas seulement de la théologie de la liturgie. D’autres enjeux sont en cause, à ne pas négliger dans toute réflexion sur la question. Dans les newsletters, publications et articles de la mouvance traditionnaliste, la violence des propos est assez caractéristique dès que le sujet concerne la liturgie. On voit aisément que cela pose problème en Église. Parler de réconciliation est donc nécessaire, urgent et je dirai même essentiel, au sens propre du terme. Je ne parlerai pas ici de la réconciliation des deux formes, parce qu’il est démontré ailleurs qu’elle n’est pas possible (voir l’article de Benedikt Kranemann plus haut). Mais qu’en est-il de la réconciliation 1 J. Geldhof – A. Join-Lambert, «L’ancien et l’actuel rite liturgique romain peuvent-ils coexister sans conséquence?», en La Documentation catholique 2476 (16/10/2011), 893s.
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des personnes en conflit sur la liturgie ? Il ne s’agit pas seulement d’une crédibilité pour la mission, c’est la nature même de l’Église «Une, Sainte, Catholique et Apostolique» qui est en jeu ici. Une Église où la violence s’exprime autour de l’eucharistie – ce don le plus précieux qu’elle a reçu et qu’elle transmet – est une Église en grand danger et se doit de réagir.2
Pourquoi faut-il surmonter la «double forme» du rite romain? Quelles sont les raisons qui devraient sanctionner la fin de cette solution? Treize ans après le motu proprio Summorum Pontificum, le temps d’un bilan est venu. Après cet élargissement rendant possible la célébration avec des livres liturgiques préconciliaires par n’importe quel petit groupe, il ne s’agit pas ici de refaire tout le dossier historico-théologique de la réforme liturgique et de son rejet par des catholiques.3 On se contentera de souligner que personne n’avait anticipé la contestation de Sacrosanctum concilium et que le pape Paul VI était fermement opposé à tout maintien ou résurgence des anciennes formes liturgiques. Il l’a dit et écrit plusieurs fois, en mettant en avant des motifs théologiques. Tout ceci est bien connu. Mais ce n’est probablement pas en recourant à l’histoire ni aux commandements du Magistère, y compris pontifical, que la situation changera. Sinon, ce serait déjà fait depuis longtemps. On ne peut donc pas se limiter à la seule dimension liturgique pour surmonter ce moment espérons-le tran2 Voir la thèse de la liturgiste du Collège des Bernardins (Paris) F. Poulet, Célébrer l’eucharistie après Auschwitz. Penser la théodicée sur un mode sacramentel (Cogitatio fidei 295), Cerf, Paris 2015. 3 On se reportera aux ouvrages et articles historiques et théologiques très documentés et approfondis, surtout ceux publiés en allemand.
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sitoire, dans lequel l’Église catholique s’est déchirée douloureusement. Il faut ici convoquer l’ecclésiologie, parent pauvre de la théologie sacramentaire du concile de Trente, décisive pour celle du concile Vatican II. En peu de mots, c’est la formule tant citée du père de Lubac – dans sa Méditation sur l’Église (1953) – qui doit retentir: «L’Église fait l’eucharistie, l’eucharistie fait aussi l’Église». Il y a une cohérence entre le corps mystique et le vrai corps du Christ, l’un et l’autre termes étant attribués selon les époques tantôt à l’Église, tantôt à l’eucharistie, pour reprendre sa fameuse étude publiée en 1945.4 Pour le dire autrement, le rite romain médiéval est imprégné et porteur d’une ecclésiologie liturgique remontant entre autre à Isidore de Séville, pour qui «les sacrements sont ce qui est accompli par le service des évêques ou des prêtres». Ceci est un soubassement constant jusqu’à la version de 1962 du Missel romain inclue. Le rite romain actuel est par contre en consonnance avec une ecclésiologie qui a évolué. En plus de l’Église comme Corps du Christ, le concile Vatican II a promu trois autres compréhensions dogmatiques de l’Église: peuple de Dieu, temple de l’Esprit et sacrement du Royaume. On pourrait le résumer autrement par cette conviction de Dom Lambert Beauduin en 1914: «La liturgie est le culte de l’Église»; devenue progressivement évidente dans l’Église, jusqu’aux affirmations dogmatiques du Magistère pontifical et conciliaire. La liturgie est sommet et source de la vie de l’Église, selon l’expression de la constitution Sacrosanctum concilium (n. 10). Pastoralement, la question de ces deux formes ne se pose pas dans le monde entier, loin de là. Des centaines de millions de catholiques n’accordent aucune importance à cette célébration de l’ancienne forme du rite romain. Certains en H. de Lubac, Corpus Mysticum. L’eucharistie et l’Église au Moyen-Âge (Théologie 3), Aubier, Paris 1949, 2ème éd. augm. 4
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sont choqués. La plupart en ignore même l’existence. Mais là où la question se pose, les tensions ne diminuent pas. C’est principalement le cas en France, dans une moindre mesure aux États-Unis (avec des caractéristiques différentes) et dans quelques autres lieux. Les États-Unis sont passés d’une situation de paix liturgique large avec un traditionalisme très marginal, à une conflictualité liturgique en lien avec une polarisation politique, et un progrès récent du traditionalisme (voir l’article de John Baldovin plus haut). En France, le motu proprio de 2007 n’a pas résolu les problèmes persistant après la mise en œuvre – nécessaire à l’époque la plus aigüe de la crise lefebvriste – du motu proprio Ecclesia Dei de 1988 (précédé de l’indult de 1984).
Que signifie donc «réconciliation liturgique»? Quel était le projet de Vatican II et dans quel sens méritet-il d’être repris ? Le problème ici évoqué n’en est donc pas un pour la quasi totalité des catholiques. Ce n’est pas pour autant qu’il faut ignorer les blessures ou au moins les frustrations, qui subsistent chez ces dizaines de milliers de catholiques (non comptées ici les communautés en rupture avec Rome) célébrant avec les anciennes versions du missel, du pontifical, du rituel et du calendrier. Ce «nombre non négligeable», écrit le pape Benoit XVI en 2007, doit faire l’objet de la sollicitude pastorale des responsables ecclésiaux et de l’attention fraternelle des autres catholiques. Cela justifie le souhait d’une «réconciliation liturgique». Les acteurs principaux du mouvement liturgique, des travaux conciliaires et de la mise en œuvre des décisions, n’avaient pas pour intention de tout casser pour inventer d’autres rites.
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C’était bel et bien une évolution visant «la restauration, le progrès et l’adaptation de la liturgie» (SC 24). Nul n’aurait pu alors imaginer une continuation des anciennes formes à côté de ce qui fut intensément réfléchi, prié, parfois testé et enfin promulgué. Le malentendu fut donc profond, voire total. Un demi-siècle de contestations depuis le Missel de 1969, cela fait déjà très long, trop long. Comment le comprendre ? Il faut distinguer entre deux types de personnes. Il y a celles pour qui la motivation est uniquement un attachement à l’ancienne forme de la messe (sans les autres sacrements) et qui ne rejettent pas pour autant la forme actuelle. Cette préférence peut être nourrie par diverses dimensions (spirituelle, affective, esthétique, nostalgique, communautaire, familiale etc.). La plupart du temps, ces personnes ne contestent rien d’autre du concile Vatican II. Une «réconciliation liturgique» est d’autant plus possible que les oppositions sont finalement limitées. Il s’agit alors de les écouter pour entendre ce qui fonde et nourrit leur choix. C’est une approche très subjective, indispensable pour l’accompagnement pastoral. C’est la voie promue par le pape François en tout domaine, ouvrant à une culture du discernement en Église. Ajoutons un élément nouveau pour ces personnes, par rapport à la situation en France et aux États-Unis du début des années 1980. Il existe aujourd’hui une variété de styles dans la célébration de la messe selon la forme ordinaire. On peut maintenant trouver des messes avec un déploiement des rites, un décorum favorisant un certain sens du sacré, l’usage du chant grégorien, une présidence plutôt hiératique, de longs silences etc. Pour le dire autrement, leur motivation pour la forme ancienne du rite romain pourrait désormais s’orienter vers la forme nouvelle. L’autre type de traditionnalistes étend la revendication pour une messe selon l’ancienne forme à toutes les litur-
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gies. Un grand nombre ajoute à cette attitude des contestations de quelques points – voire de beaucoup – des textes conciliaires, et ce y compris des affirmations dogmatiques. Tout en souhaitant rester dans l’Église catholique, leurs diverses remises en cause sont problématiques, mêlant la liturgie à d’autres questions. Ils utilisent alors Summorum Pontificum en le classant dans les «droits acquis»,5 consolidant ainsi la poursuite d’autres objectifs.
Comment sera-t-il techniquement possible de sortir de la situation actuelle? Quelles mesures seront nécessaires? La situation actuelle est une impasse. La tentative de résoudre le problème par une facilitation des célébrations n’a pas porté les fruits attendus. Il existe certes des situations d’intégration harmonieuse d’une messe selon l’ancienne forme du rite dans des paroisses, dont les participants sont aussi engagés dans la vie de la communauté paroissiale tout entière. Dans presque tous les cas, cela consolide des «silos», communautés qui vivent en parallèle avec les autres catholiques du voisinage. La lecture de la littérature traditionnaliste (revue, bulletin, sites web) présente une vision cohérente d’activités de catéchèse, d’enseignement scolaire, de groupes de jeunes, de pastorale sacramentelle couvrant toute la vie chrétienne, au sein de la communauté traditionnaliste avec en son centre la messe selon l’ancienne forme. La focalisation de toute la pensée et l’agir sur un idéal de retour à une époque ancienne supposée meilleure, participe d’un modèle «intégraliste», pour re À propos de l’enquête romaine en cours, https://bit.ly/2BRDUMF (consulté le 5 juin 2020). 5
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prendre une catégorie proposée en son temps par Émile Poulat. D’un point de vue phénoménologique, on pourrait appliquer à ces groupes le but exprimé par C. Bouchacourt (Fraternité Saint Pie X, en rupture avec Rome): «C’est le rôle de nos prieurés de rebâtir des chrétientés miniatures».6 Là où le nombre de fidèles est plus réduit, c’est autour de la messe que se concentre toute la vie du groupe, en attendant d’étendre les activités jusqu’à constituer une structure autonome. Ceci est clairement exprimé dans les projets. Cette réalité «en silos» marque l’échec de l’intention exprimée par le motu proprio de 2007. Je n’évoque pas la question des monastères célébrant l’ancienne forme, en raison de leur situation particulière. Comment aller de l’avant ? Une réconciliation liturgique est en elle-même souhaitable – en raison de la nécessaire charité fraternelle intra-ecclésiale et de la crédibilité du témoignage évangélique aujourd’hui – mais est-elle possible ? C’est d’autant plus difficile que la structuration de ces groupes traditionnalistes en marge du reste de l’institution et leur attrait pour leurs membres confortent une posture très identitaire se manifestant par la valorisation de leurs différences. Ces groupes sont paradoxalement en phase avec la postmodernité ou modernité liquide analysée par tant de sociologues. Zygmunt Bauman tente ainsi de rendre compte de la déstructuration et la délégitimation des institutions au profit d’un triomphe de l’individu ou de petits groupes.7 Son Retrotopia esquisse à merveille un contexte favorable à cette adéquation paradoxale des traditionnalistes avec l’esprit du temps, marqué par le retour des identités et le retour des tribus.8 En https://bit.ly/2YjMwmY (consulté le 5 juin 2020). Z. Bauman, L’amour liquide. De la fragilité des liens entre les hommes, Éd. Le Rouergue-Chambon, Rodez 2004; Id., Le présent liquide. Peurs sociales et obsessions sécuritaires, Seuil, Paris 2007. 8 Z. Bauman, Retrotopia, Premier Parallèle, Paris 2019 (éd. angl. 2017). 6 7
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d’autres époques, ces groupes contestataires n’auraient pas pu subsister au sein de l’Église. C’était la soumission ou le départ volontaire ou forcé. Rappelons ici que les évêques au dernier Concile n’ont pas prononcé d’anathèmes. Ce choix sans aucun doute heureux facilite involontairement ces comportements postmodernes observables chez les traditionnalistes. Que faire alors? L’Église catholique latine devrait ici revenir aux textes dogmatiques qu’elle a formulés sur la compréhension d’elle-même (dans la constitution Lumen gentium et les décrets Christus Dominus et Presbyterorum ordinis). Certes des divergences d’interprétation, parfois légitimes et non résolues dans les textes eux-mêmes, subsistent. Il y a pourtant des options assez fondamentales et fondatrices, ainsi à propos des prêtres. La crise liée au Covid-19 a d’ailleurs manifesté de manière symbolique très forte deux grandes compréhensions du ministère des prêtres – «la distinction entre la pente sacerdotaliste et la pente presbytérale dans la désignation théologique des pasteurs de l’Église». Sylvain Brison en parle comme un conflit des imaginations.9 Cela fait partie incontestablement de notre dossier, car l’ancienne forme de la messe exprime symboliquement une compréhension du rôle du prêtre qui n’est plus tout-à-fait celle actuelle issue de la théologie conciliaire. Ce point permet de questionner l’existence de séminaires entièrement dévolus à préparer des prêtres pour l’ancienne forme. Ces séminaires ne délivrent d’ailleurs pas de diplôme canonique. Une telle option de formation en marge du système est-elle pertinente? Après le prêtre, l’évêque. Le concile Vatican II a remis en valeur l’évêque et l’Église locale qui lui est confiée. Les critiques ecclésiologiques les plus fortes sur Summorum Pontifi S. Brison, «L’imagination de l’Église au défi du confinement», en Prêtres diocésains 1561 (2020), 203-217. 9
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cum relèvent à juste titre une dépossession d’une compétence proprement et théologiquement réservée à l’évêque diocésain, contrairement aux orientations conciliaires. L’unique solution viable et fondée est de revenir au minimum à ce que promouvait Ecclesia Dei en 1988. La «relativisation» de l’autorité épiscopale par le texte de 2007 va dans le sens de l’éclatement postmoderne des institutions. Aller (involontairement) dans le sens du vent sociétal ne s’est pas révélé une option constructive. Il faut en effet considérer avec réalisme que la liturgie de la messe est très rarement la seule dimension mise en cause. Lorsque que c’est l’unique demande de traditionnalistes, nous avons évoqué plus haut les riches possibilités trop souvent inexploitées de la forme actuelle du rite romain. La situation au début des années 2020 est bien différente de celle des années 1980. Écoute réciproque et dialogue en vérité, menés par les évêques, pourrait aboutir aujourd’hui à une découverte inattendue du rite actuel par bon nombre de personnes. Dans le sens de ce qu’écrit Zeno Carra dans son article plus haut, cette nouvelle forme du rite n’est pas figée pour l’éternité. Les traditions liturgiques recellent encore des trésors dans lesquels il sera peut-être opportun de puiser encore un jour. La liturgie est appelée à connaitre d’autres aggiornamenti plus ou moins importants. Dans la situation transitoire que nous connaissons, sans doute convient-il de maintenir des messes selon l’ancienne forme, pour le bien spirituel de ces fidèles selon l’intention initiale d’Ecclesia Dei. Mais le défi ecclésiologique et pastoral sera alors de ne pas favoriser la pérennité ou l’émergence d’une Église en «silos communautaristes». Il faudra œuvrer intensément pour une fraternité effective (une «réconciliation liturgique») entre ceux et celles ayant des préférences rituelles différentes.
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Il en va autrement du rituel et du pontifical. Pour qui a étudié la théologie et l’anthropologie du rituel du mariage ou du rituel de l’onction des malades, il est évident que rien ne peux justifier leur pratique selon leur forme médiévale. C’est d’ailleurs le cas pour la plupart des sacramentaux. Pour le sacrement de l’ordre, il parait aussi difficile de maintenir côte à côte deux formes porteuses d’une théologie aux accents différents. Le baptême semble moins affecté, mais la forme actuelle du rite est tout de même beaucoup plus riche dans son euchologie, ses textes bibliques et le déploiement du langage symbolique. On peut concevoir que l’ancienne forme du sacrement de réconciliation puisse être célébrée, car la cohérence entre les deux formes est manifeste. Mais pourquoi le faire dans ce cas ? Pour le dire autrement, la célébration d’autres liturgies que la messe, selon les anciennes formes rituelles, remet en question d’autres décisions du concile Vatican II (à propos de la révélation chrétienne, de l’œcuménisme, du rapport au judaïsme, de la théologie des ministères etc.). Cela n’est pas défendable du point de vue théologique. Revenons à la situation présente. Comment avancer lorsque des personnes ou des groupes traditionnalistes prétendent à toute une vie ecclésiale selon des formes anciennes et pas seulement la messe, tout en voulant rester dans l’Église catholique. Je ne vois pas d’autres options que celles sans cesse promues et rappelées par le pape François pour l’Église aujourd’hui: la conversion pastorale et missionnaire, le dialogue, la décentralisation. Le premier point place la question liturgique dans le champ de la charité fraternelle intra-ecclésiale et à l’égard de tous les êtres humains. Pour le dire autrement la finalité de l’Église est la mission. L’Église n’est pas elle-même son propre but, pas plus que la consolidation de ses acquis et positions dans les diverses sociétés, voire le retranchement communautariste là où elle se sentirait menacée. Si l’être hu-
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main est fait pour louer et servir Dieu, la louange liturgique ne peut être l’expression que d’une communion et non d’une désunion. Si ces personnes et ces groupes n’entrent pas dans ce nouveau processus, une tentation pour les autorités de l’Église catholique serait de les garder à tout prix dans une communion incertaine. Le danger est alors très élevé de relativiser l’importance de la réforme liturgique, pourtant fondée théologiquement et juridiquement; la liturgie étant décisive pour la foi. On laisserait finalement ces groupes célébrer comme ils le veulent. En pensant manifester ainsi une charité pastorale, le risque serait grand de trahir la vérité de la mission confiée aux évêques par la succession apostolique, de contester de facto l’autorité du Concile et par là tant la collégialité épiscopale que la primauté pontificale. Ce pourrait aussi être une forme de paternalisme, en voulant être gentils avec tout le monde; ou une expression de la peur devant l’inévitable prise à partie violente qui ne manquera pas de survenir; ou enfin la crainte de voir des personnes jeunes et très engagées (familles et consacrés) quitter l’Église et rejoindre des groupes intégristes schismatiques qui rejettent l’autorité romaine.
Épilogue Après une quarantaine d’années de tâtonnements et d’enthousiasmes, le mouvement liturgique fut qualifié en 1956 de «passage du Saint Esprit dans son Église» par Pie XII, aboutissant à la réforme de la liturgie dans les années 1960. Une vingtaine d’années plus tard, Jean-Paul II était comme contraint d’autoriser les célébrations liturgiques selon l’ancienne forme du rite romain, pour des motifs pastoraux en réaction au schisme lefebvriste et non pour des raisons théologiques.
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Les tentatives d’élargir cette pratique en 2007 et d’ajouter des arguments théologiques n’ont pas donné les fruits espérés par leurs promoteurs. Aujourd’hui, le défi est de tourner la page grâce à une «réconciliation liturgique». Elle ne sera possible que dans un esprit de fraternité réciproque et en déployant toutes les potentialités de la forme actuelle de la liturgie. La situation des années 1980 a bien changé. Le maintien de la forme ante-conciliaire de la messe est difficile à justifier par des arguments qualitatifs, si l’on observe concrètement certaines célébrations actuelles faisant place à un «sacré» que des traditionnalistes pensaient disparu. Et si la revendication de la forme ancienne est liée à d’autres contestations théologiques du Concile, alors il faudra assumer la non-réconciliation, autrement dit la séparation. Car si «l’eucharistie fait aussi l’Église», il doit être possible de célébrer ensemble.
Superare lo stato di eccezione liturgica: restituire autorità alla lex orandi e ai vescovi Andrea Grillo (Roma, Italia)
«Per ritus et preces id bene intelligentes» (SC 48)
Trarre una nuova opportunità da una grave crisi è il senso più autentico di ciò che chiamiamo tradizione. Anche l’occasione di una serissima crisi pandemica, che apre una riflessione comune e collettiva sullo «stato di eccezione civile», permette di leggere con maggiore lucidità quel diverso «stato di eccezione» che la Chiesa cattolica vive da tredici anni, soffrendone non piccoli disagi interni ed esterni. Per comprendere il senso dei tre interrogativi, posti a cardine di questo volume e indicati nella Introduzione, pur profittando della condizione contemporanea, bisogna cominciare da lontano. Ossia dalla «riconciliazione liturgica» che il movimento liturgico e il Concilio Vaticano II hanno proposto e «istituito» nel corpo della Chiesa cattolica. Un accurato ripensamento dell’atto di riconciliazione iniziato formalmente sessant’anni anni fa è la condizione per non aggirare quella pace che ancora oggi ci è chiesta, con una nuova urgenza che si impone.
Due secoli di «riconciliazione liturgica» Sotto la spinta del lavoro di quasi due secoli, iniziato nella prima metà del XIX secolo da A. Rosmini e P. Guéranger,
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nutrito dal pensiero di profeti (come M. Festugière, L. Beauduin, R. Guardini, O. Casel) e da sperimentazioni pastorali (come quelle di Klosterneuburg, Lipsia, Mont César, Rothenfels) la questione liturgica è giunta con il Concilio a una svolta decisiva. Il compito di una «riconciliazione liturgica» è al cuore del Concilio Vaticano II e ne costituisce una delle acquisizioni decisive. Potremmo esprimerla così: avendo constatato l’«incapacità liturgica» della Chiesa cattolica, chiarita dal percorso di riflessione del movimento liturgico, che aveva identificato la «crisi liturgica» della tradizione come una «questione» inaggirabile, il Concilio intende rimediare a tale crisi – che è di almeno un secolo e mezzo antecedente al Vaticano II – mediante una adeguata riforma della tradizione e formazione alla tradizione. Ciò che dal Concilio abbiamo ricevuto, ossia una «riforma del rito romano» non è il sorgere del problema, al quale si possa rispondere con la «riabilitazione del rito preconciliare», ma è precisamente la riconciliazione di cui la tradizione aveva bisogno e di cui continua ad avere bisogno. Per capire bene questa storia proviamo a cogliere la paradossalità della «soluzione» approntata mediante il motu proprio Summorum Pontificum.
L’equivoco tra rito e forma Riepilogo per punti l’essenziale di questa storia recente: a) Papa Giovanni XXIII, nel 1960, valutando il da farsi, aveva esitato: doveva dar corso alle riforme che Pio XII aveva già preparato, oppure doveva aspettare lo svolgersi del Concilio, che aveva già convocato? Decise di procedere alla revisione del Messale tridentino, ma in forma provvisoria. Il Concilio avrebbe fissato gli altiora principia sulla base dei quali si sareb-
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be fatta la riforma. E così nacque il testo provvisorio del Messale Romano del 1962. b) Il Concilio, ai nn. 47-58 di Sacrosanctum Concilium, fissa esplicitamente le linee fondamentali della riforma dell’ordo missae, che verrà realizzato e approvato nel 1969. E chiede, per questo, di modificare profondamente, di integrare largamente, di implementare e arricchire strutturalmente il rito del 1962. c) Paolo VI, all’entrata in vigore nel novus ordo, ribadisce quello che il suo predecessore e il Concilio avevano detto: il nuovo testo sostituisce il precedente, a causa dei limiti rituali, teologici, pastorali e spirituali del testo precedente. d) Nel 2007, con il motu proprio Summorum Pontificum, Benedetto XVI cerca di favorire la «riconciliazione» nella Chiesa e concede un più largo uso del «Messale del 1962», costruendo una ipotesi sistematicamente assai discutibile e argomentata con il sofisma della «covigenza» di un rito ordinario e di un rito straordinario. Come ebbe a dire il cardinal Camillo Ruini, alla uscita di Summorum Pontificum: «Speriamo che un gesto di riconciliazione non diventi un principio di divisione».1 e) In questi tredici anni la presenza ufficiale di una «forma straordinaria», con la sua equivoca ufficialità, ha dato forza a tutte le forme di Chiesa «anticonciliare». Non era certo questa l’intenzione di Benedetto XVI, ma questo è stato uno dei suoi effetti principali. Questo rito «antico» ha coagulato intorno a sé, accanto ad attaccamenti convinti e a intenzioni sincere di custodia della tradizione, interessi della reazione ecclesiale e civile, passatisti di varia stoffa, aristocratici decaduti, insieme a qualche soggetto poco equilibrato. Nel frattempo, la commissione Ecclesia Dei conduceva trattative di accordo con i le Così su Avvenire 8 luglio 2007, 1.
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febvriani in cui non si capiva mai del tutto da quale parte del tavolo ci fossero i nemici del Concilio Vaticano II. Di amici, del Concilio, se ne vedevano sempre pochi. f ) Da ultimo, la Commissione, avendo in molti casi superato gravemente i limiti delle proprie competenze, è stata soppressa. Tuttavia, le sue competenze sono state trasferite a una sezione della Congregazione per la dottrina della fede.
La lacerazione della «doppia forma» Poniamo ora la questione più bruciante, che è di carattere non liturgico o giuridico, ma squisitamente sistematico. Sul piano della teologia sistematica questa impostazione della «riconciliazione liturgica» introduce alcune astrazioni pericolose, che di fatto ampliano piuttosto che ridurre il conflitto. Dire che sono vigenti contemporaneamente due forme dello stesso rito, di cui la seconda è nata per correggere, emendare e rinnovare la prima, è una argomentazione debole e fallace, che fin dall’inizio ha gravemente alterato le competenze liturgiche nella Chiesa cattolica. Si tratta di un ragionamento astratto, che non riesce a persuadere sul piano sistematico e che non è efficace sul piano pratico e pastorale. Tanto che, dal 2007, non solo i vescovi delle diocesi non possono sovrintendere alla liturgia nella loro diocesi, ma ora è chiaro che anche la Congregazione del culto divino non può esercitare il proprio discernimento in materia liturgica, perché una «forma straordinaria» viene controllata e modificata prima dalla commissione Ecclesia Dei e poi dalla Congregazione per la dottrina della fede. Questo «stato di eccezione» non costituisce causa di riconciliazione, ma di lacerazione. La «invenzione della duplice forma», introdotta dal motu proprio Summorum Pontificum, era orientata a una riconcilia-
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zione: una riconciliazione con il «tradizionalismo», sia esterno alla Chiesa cattolica sia interno alla comunione cattolica. Ma il nobile fine di una Chiesa liturgicamente riconciliata è stato perseguito mediante uno strumento troppo fragile, troppo astratto e non poco insidioso: ossia attraverso un «parallelismo rituale generalizzato». Ci si era convinti, nel 2007, che la presenza parallela di una «forma straordinaria» accanto alla «forma ordinaria» avrebbe riportato la pace nella Chiesa. L’esito dell’esperimento di questi tredici anni ha però mostrato ampiamente che il mezzo della «doppia forma dell’unico rito romano» è non soltanto una costruzione teologicamente astratta e senza solido fondamento teorico, ma è anche un rimedio istituzionalmente incontrollabile, ecclesialmente alquanto lacerante e spiritualmente insidioso. Non alimenta la riconciliazione, ma la divisione e la sedizione, su entrambi i versanti: rende il rito antico sempre più oscurantista e il rito riformato – per contrapposizione – sempre più intellettualistico. Ed è singolare che, sul piano strettamente teologico, molti teologi si siano semplicemente «adattati» – con scarsa responsabilità – a sostenere in modo acritico una tesi tanto debole sul piano teologico, quando pericolosa sul piano pratico.2
Il superamento della soluzione illusoria e il riconoscimento del problema Il cardinal Kurt Koch – come attestato da un recente articolo su Herder Korrespondenz3 – ha riconosciuto aperta Cf. H. Hoping, Il mio corpo dato per voi. Storia e teologia dell’eucaristia, Queriniana, Brescia 2015 (ed. or. 2011). 3 L. Wiegelmann, «Alte Messe: Zahlen bitte», in Herder Korrespondenz 6 (2020), 9s. 2
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mente la «questione sistematica», che molti teologi avevano sottoscritto in una «lettera aperta» del 27 marzo scorso,4 nella quale si auspicava il superamento dello stato di eccezione liturgica. Quale speranza di unità può venire alla Chiesa da una teoria della «duplice forma parallela» dello stesso rito romano? Questa domanda, che emerge come una questione davvero vitale per la Chiesa, ora riceve una considerazione nuova. Ciò che prima sembrava una acquisizione tutto sommato positiva, ora appare, agli occhi del cardinal Koch, come una minaccia. Poiché la centralità della esperienza eucaristica non può sopportare che al suo interno si dia un conflitto fra forme diverse. Così è necessario uscire da questa condizione innaturale e ritornare quanto prima a un’«unica forma» del rito romano. Lo stato di eccezione, che il motu proprio aveva introdotto nel 2007, non ha più ragion d’essere. «Al posto di due forme diverse – afferma il card. Koch – occorre tornare a una forma unica, come sintesi». Dunque un nuovo segnale di disagio di fronte a Summorum Pontificum giunge con chiarezza proprio dagli ambienti vaticani.5 Non solo è in corso una indagine presso tutti i vescovi dell’orbe cattolico, sull’impatto ecclesiale, liturgico e spirituale di Summorum Pontificum, voluta direttamente da papa Francesco,6 ma anche un capo dicastero dice esplicitamente che questa forzatura, che ha condotto a una «coesistenza conflittuale» tra due forme diverse dello stesso rito romano, deve essere apertamente riconosciuta come una «non-soluzione». Cf. A. Grillo, Una lettera aperta sullo «stato di eccezione liturgica», in https:// bit.ly/2MQZlzI (accesso: 11 giugno 2020). 5 Già vescovo di Basilea (1995-2010) e presidente della Conferenza episcopale svizzera (2006-2010), il cardinale Kurt Koch è presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani nonché della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. 6 Un resoconto si può trovare qui: https://bit.ly/2UAY6sL (accesso: 11 giugno 2020). 4
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Ci si chiede, dunque: dove sta il punto cardine per superare la debolezza di questa «non-soluzione»? Nell’individuare l’impossibile coesistenza di due forme diverse del medesimo rito romano, la via della riconciliazione – questa sorta di «ecumenismo intracattolico» – non deve essere pensata a livello di «forme parallele», ma come evoluzione dell’unica forma celebrativa, da assumere proprio nella serietà della sua natura di «forma rituale». Il bisogno di una riconciliazione liturgica, dal Concilio Vaticano II potentemente introdotta nella coscienza e nel corpo ecclesiale, deve abbandonare la strategia dello «stato di eccezione», che ha caratterizzato la Chiesa dal 2007 fino a oggi, e deve imboccare e riprendere il cammino di un’unica forma rituale, che assuma in pieno tutti i linguaggi della celebrazione.
Dalla dialettica tra «due forme» alla polarità tra «verbale/non verbale» Ed ecco, allora, finalmente precisata, la prospettiva che costituisce quasi un corollario delle prime due appena considerate. Una volta riacquisito un concetto originario di «riconciliazione liturgica» e superata la illusione di una soluzione mediante «forme rituali parallele», dobbiamo chiederci: che cosa rappresenta dunque la riconciliazione liturgica, se non può e non deve essere una «riforma della riforma», né un «nuovo movimento liturgico»? Credo che le sue caratteristiche fondamentali potrebbero essere così sinteticamente presentate: • la riconciliazione liturgica, se non vuole smentire il Concilio Vaticano II, implica un lavoro comune su un unico tavolo: il rito romano ha un’unica forma vigente, quella scaturita dalla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano
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II. Non può esservi alcuna riconciliazione liturgica senza ascoltare fedelmente la voce del Vaticano II: non si può fare la pace né contra Concilium né praeter Concilium; • la riunificazione della forma, con il superamento di ogni parallelismo generalizzato, permette di lavorare sulla stessa forma ma a diversi livelli: infatti si deve valorizzare la riforma liturgica non solo a livello verbale, ma anche a livello non verbale. Attivare tutti i linguaggi della celebrazione è, in effetti, una nuova definizione dell’ars celebrandi secondo Sacramentum caritatis, che al n. 40 la definisce come «l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti». Ed è su questo punto che il novus ordo può «essere riconciliato» con la tradizione che ha ricevuto e che ora trasmette fedelmente e creativamente; • il vetus ordo, sul piano della lingua, da secoli non viene più compreso: per questo ha saputo dar maggior valore sia al registro non verbale che a quello verbale. Questa condizione deve diventare una «luce» per lavorare sul novus ordo. È l’uso del novus ordo a diventare il terreno di lavoro su cui la Chiesa può recepire davvero, integralmente e plenariamente, tutta intera la tradizione del rito romano, in una unica forma vincolante per tutti, ma valorizzata sui diversi livelli della sua espressione «multimediale»: parola e canto, spazio e tempo, silenzio e movimento, tatto e odorato sono «organi» di esperienza e di espressione del rito romano – in una forma unica, ma non univoca né monotona. In conclusione, i compiti che si aprono dinanzi alla Chiesa cattolica nel prossimo futuro, in vista di un progresso nel-
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la «riconciliazione liturgica» inaugurata dal Concilio Vaticano II, possono essere identificati in tre diversi passi: a) Primo passo, istituzionale e sistematico: la esperienza della doppia forma parallela dello stesso rito romano ha dimostrato di essere fragile e astratta dal punto di vista teologico, pericolosa e ingestibile dal punto di vista pratico. Perciò deve essere superata uscendo dallo «stato di eccezione» che essa ha determinato sia nelle competenze sulla liturgia (da restituire integralmente a vescovi e Congregazione per il culto divino) sia nella unificazione della forma rituale per tutto il corpo ecclesiale, che non può sopportare un parallelismo generalizzato della forma rituale; b) Secondo passo, ecclesiale e pastorale: resta forte l’esigenza di una «riconciliazione liturgica», che riprenda il progetto del Concilio Vaticano II e lo recepisca in modo pieno, equilibrato e profetico, per «far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli» (SC 1). Tale crescita deve riflettere criticamente sul modo con cui la riforma è stata eseguita, recepita e pensata, per attuarne più radicalmente le implicazioni verbali e non verbali, corporee e simboliche; c) Terzo passo, simbolico-liturgico: alla concorrenza tra «forme parallele», che non genera pace ma discordia, si deve sostituire una lucida correlazione tra «forma verbale» e «forma rituale», sulla cui integrazione la sapienza ecclesiale deve saper predisporre strumenti teorici nuovi e buone pratiche comuni, perché l’unica forma del rito romano, in sé indivisa e concorde, possa brillare di nobile semplicità «per ritus et preces» (SC 48), mediante la partecipazione attiva di ogni fedele battezzato all’unica azione di culto comune.
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La felice convergenza tra le priorità del «magistero della cattedra pastorale» e le attenzioni del «magistero della cattedra magistrale» conferma la avvenuta maturazione della coscienza ecclesiale, che può aprirsi a una fase nuova nella recezione del Concilio Vaticano II, nel suo disegno di traduzione della tradizione cristiana, perché i riti e le preghiere assicurino al corpo ecclesiale una efficace intelligenza liturgica del mistero di Cristo e della Chiesa.
Conclusione, o meglio… riapertura Zeno Carra
Impressioni diverse possono lasciare queste pagine nel lettore: chi si aspettava una trattazione sistematica ed esaustiva delle questioni sarà ora rimasto un po’ deluso; chi voleva elementi su cui continuare (o cominciare) a riflettere e a discutere trova qui svariati spunti. È palpabile la diversità dei percorsi e delle idee che stanno dietro ai vari contributi: il tema stesso che ha generato questo libro e che ritorna nel sottotitolo – «riconciliazione liturgica» – non è approcciato dagli autori nello stesso modo né le loro proposte sono esattamente componibili. In che senso riconciliazione? È possibile? È un’idea da scartare? Tra chi e/o tra cosa potrebbe essere pensata e proposta? Sono emerse in merito idee plurali: stimolo a stare in guardia da frettolose semplificazioni e da soluzioni non adeguatamente ponderate. Idee che, fatte interagire, invitano a mettersi a pensare, a far diventare tema di riflessione e dialogo ciò che troppo spesso negli ultimi decenni è stato reso acriticamente insegna di una guerra di posizione. L’estrazione internazionale degli autori, poi, permette di rendersi conto che lo stesso tema tocca in modi diversi i diversi contesti geografici ed ecclesiali: sprone a rimettere in gioco la soggettualità delle Chiese locali nell’affrontare i problemi sul tavolo.
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Stante l’insopprimibile ricchezza e fatica delle diversità, sono comunque chiari alcuni elementi di convergenza tra i vari contributi. a) Il motu proprio Summorum Pontificum e la seguente legislazione applicativa hanno generato una situazione non sostenibile sotto vari aspetti: liturgico, ecclesiologico ed ecclesiale, giuridico, teologico. Situazione che impone di considerare la fase presente come «stato di eccezione», quindi transeunte, provvisoria. Uno strumento legislativo che si voleva strumento di pacificazione ha spesso sortito l’effetto contrario, di acuire il dissidio intraecclesiale. b) Si rivela una fictio fallace la precomprensione epistemologica su cui esso si basa, per cui i diversi riti sono concepiti come espressioni alternative di una medesima dottrina. I riti non solo esprimono, ma conformano il pensiero, le spiritualità, le appartenenze. E le dottrine crescono e si arricchiscono nella vita della Chiesa. c) Da questa fase provvisoria si deve quindi uscire, e il recente stimolo lanciato dal cardinal Koch di un processo di «riconciliazione liturgica» va fatto oggetto di seria riflessione nell’elaborazione di questa via di uscita. Al di là dello statuto che si giunga a riconoscere al concetto, è certo che non va trascurato quanto ogni riconciliazione suppone: l’ascolto empatico di tutte le istanze in gioco e dei soggetti che in tale processo si lascino coinvolgere. d) Tutto ciò che si farà per uscire dallo stato di eccezione (ascolto; dialogo; lavoro teologico, liturgico, giuridico ecc.), infine, non può che avvenire dentro il quadro normativo delle istanze del Concilio Vaticano II: conditio sine qua non perché il processo sia ecclesiale, cattolico. La Chiesa non può rinnegare quel cammino su cui ha riconosciuto essere guidata dallo Spirito.
Conclusione, o meglio… riapertura
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Coloro che scrivono passano quindi il testimone al lettore: confidiamo di avergli offerto uno strumento utile per esercitare la sua responsabilità di battezzato in una svolta non secondaria nel prosieguo di tale cammino.
Abstracts (Italiano/English)
Z. Carra, Riconciliazione liturgica: note di metodo e di contenuto (Liturgical Reconciliation: Some Method and Content Notes) Il modo per uscire dall’effettiva condizione di «eccezione liturgica» potrebbe essere costituito dalla «riconciliazione» tra le due forme del rito romano, come suggerito dal cardinal K. Koch. «Riconciliazione» implica un metodo di dialogo che abbandoni facili semplificazioni e faccia propria la complessità di tutti i fattori coinvolti. Questo dialogo va arbitrato dalle richieste di riforma avanzate dal Concilio Vaticano II, in cui la chiesa ha espresso solennemente la sua volontà riguardo a se stessa per i secoli a venire. Mettendo in campo chiare regole formali, il dialogo di riconciliazione dovrebbe analizzare se singoli elementi della forma rituale più antica potrebbero aiutare, una volta ripristinati, la forma rituale più recente a soddisfare le richieste conciliari meglio di quanto non faccia attualmente. The way to get out from the current condition of liturgical exceptionality could be «reconciliation» among the two forms of roman rite, as suggested by card. K. Koch. «Reconciliation» involves a method of dialogue that abandons easy simplifications and considers carefully the complexity of factors
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involved. This dialogue has to be arbitrated by the reforms foreseen by the Second Vatican Council, where the Church expressed solemnly her desire for renewal for ages to come. With clear formal rules the dialogue of reconciliation should consider if there are single items of the older ritual form that could help, if restored, the current ritual form to fulfill the council requests better than how now she does. M. Klöckener, Due forme dell’unico rito romano? Per superare una coesistenza problematica (Two Forms of the one Roman Rite? How to overcome a Problematic Coexistence) In una prima sezione, il contributo mostra come sia sorta e cresciuta la coesistenza delle due forme del rito romano a partire dalla pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI. Rifiuta poi l’argomentazione secondo cui la «forma straordinaria» andrebbe considerata alla stregua dei legittimi riti liturgici di altre Chiese, orientali e occidentali, che corrispondono alla varietà di mentalità, espressioni culturali e stili di vita ecclesiastica. Anche la Chiesa romana conosce una varietà di riti ed espressioni liturgiche, purché si fondino sulle stesse basi teologiche ed ecclesiali, in particolare sul Concilio Vaticano II. L’autore mostra quindi perché le due forme del rito romano, nonostante appartengano alla stessa tradizione, sono oggi incompatibili nell’uso. Ragionando sull’espressione «riconciliazione liturgica», esclude poi l’ipotesi di una coalescenza tra le due forme, onde presentare infine alcune prospettive per l’ulteriore sviluppo. The article shows in a first section, how the coexistence of the two forms of the Roman rite has arisen and been developed since the publication of the Motu proprio Summorum Pontificum of Pope Benedict XVI. It then refutes the argu-
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ment, that the «extraordinary form» is to be considered in the same way as the legitimate liturgical rites of other Churches, Eastern and Western, which correspond to the variety of mentalities, cultural expressions and ways of ecclesiastical life. The Roman Catholic Church does know a variety of rites and liturgical expressions, too, but they must be based on the same theological and ecclesiastical basis, especially the Second Vatican Council. The author then shows, why the two forms of the Roman rite, in spite of their belonging to the same tradition, are incompatible in use today. He discusses the term of «liturgical reconciliation» and excludes ideas of a coalescence of the two forms to present finally some perspectives for the further development. J.F. Baldovin, sj, Riconciliazione liturgica: come superare lo «stato d’eccezione» di Summorum Pontificum (Liturgical Reconciliation: How to Get Beyond the «exceptional status» of Summorum Pontificum?) Nella questione di un ritorno più diffuso alla liturgia preconciliare c’è in gioco qualcosa di più della forma stessa della liturgia. La riforma liturgica implica l’intero rinnovamento della Chiesa avviato dal Vaticano II, anzitutto nell’ecclesiologia ma anche negli ambiti dell’ecumenismo, della libertà religiosa e dell’incontro con il mondo moderno. Per ironia della sorte, proprio coloro che promuovono attivamente la liturgia anteriore al Vaticano II in nome della tradizione cedono in realtà a un certo individualismo e al consumismo postmoderno, così dannosi per l’unità della Chiesa. Seminano discordia, non diversità. Sul piano della liturgia stessa, il rito più antico esprime un’ecclesiologia problematica, in quanto minimizza il coinvolgimento attivo dei battezzati come membri del sacerdozio comune. La vera soluzione a un inadeguato adattamen-
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to delle riforme liturgiche postconciliari non risulta quindi un ritorno alla vecchia liturgia né una «riforma della riforma», ma casomai una più seria formazione all’ars celebrandi di coloro a cui sono state affidate la liturgia e la sua espressione – con l’obiettivo di sostenere un celebrare che sia veramente comunitario, degno del corpo di Cristo. There is more at stake in the question of the more widespread return to the pre-Vatican II liturgy than the form of the liturgy itself. The liturgical reform requires the whole renewal of the Church initiated by the Council, especially in ecclesiology but also in ecumenism, religious liberty and the encounter with the modern world. Ironically those who actively promote the pre-Vatican II liturgy in the name of tradition are actually succumbing to a certain individualism and postmodern consumerism which in harmful to the Church’s unity. They are sowing discord not diversity. In terms of the liturgy itself the older rite expresses a problematic ecclesiology in that it minimizes our active involvement as member of the common baptismal priesthood. The real solution to the inadequate adaptation of the post-conciliar liturgical reforms is not a return to the older liturgy nor a «reform of the reform» but rather serious training of those entrusted with the liturgy and its expression in a reverent ars celebrandi – with the goal of supporting truly communal worship as the Body of Christ. B. Kranemann, Sviluppo del culto: dove conduce il cammino della liturgia romana? (Developping Worship: Where should the Path of the Roman Liturgy lead?) L’attuale liturgia cattolica romana, creazione della riforma successiva al Concilio Vaticano II, mostra notevoli differenze teologiche rispetto al rito preconciliare, il che rende impossi-
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bile un ritorno a quello stato di cose. La situazione creata dal motu proprio Summorum Pontificum va vista come teologicamente e pastoralmente problematica. Una «riconciliazione» tra i due riti (vetus ordo e novus ordo) non può essere l’obiettivo. Casomai, va proseguito il progetto della «riforma liturgica»: questa è la sfida del momento presente. I punti deboli della liturgia di oggi vanno superati. La liturgia celebrata deve oggi convincere per la sua qualità. The Roman Catholic liturgy of today was created by the reform after the Second Vatican Council. It shows striking theological differences from the pre-conciliar rite, which make a return to this state of liturgy impossible. The situation created by the Motu proprio Summorum Pontificum must be seen as theologically and pastorally problematic. A «reconciliation» between the two rites cannot be the goal. Rather the project of «liturgical reform» must be continued. That is the challenge of the present. Weak points of today’s liturgy must be overcome. The liturgy celebrated today must convince by its quality. A. Join-Lambert, Una tappa decisiva nella contestazione liturgica tradizionalista (A Decisive Milestone in the Traditionalist Liturgical Protest) Sul tema della contestazione liturgica tradizionalista, la tendenza degli analisti è di considerare tutto quanto come un blocco omogeneo. Volendo rivedere l’estensione dell’autorizzazione a celebrare secondo l’antica forma del rito romano (2007), si richiedono due distinzioni necessarie, onde fare un passo avanti. La prima è la distinzione tra princìpi teologici, da un lato, e persone concrete e culto, dall’altro. La seconda è l’argomento principale di questo contributo: è necessario fare una distinzione tra coloro per i quali l’unica preoccupazione
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è la messa, e coloro per i quali la messa e tutte le altre celebrazioni sono un elemento fra tanti per contestare le decisioni del Concilio Vaticano II. Il concetto di «riconciliazione liturgica» è rilevante per la prima categoria di persone, ma non risulta operativa per l’altra. On the topic of traditionalist liturgical protest, the tendency of analysts is to consider everything in one homogeneous block. A review of the extension of the authorization to celebrate according to the ancient form of the Roman rite (2007), calls for two distinctions necessary to take a new step. The first is between theological principles on the one hand, and concrete persons and worship on the other. The second is the main subject of this article. A distinction must be made between persons for whom the only concern is the Mass, and those for whom the Mass and all the liturgies are one element among others in questioning the decisions of the Second Vatican Council. The notion of «liturgical reconciliation» is relevant for the first category of persons, but inoperative for the others. A. Grillo, Superare lo «stato di eccezione» liturgica: restituire autorità alla lex orandi e ai vescovi (To get beyond the «exceptional status»: Restoring Authority to the lex orandi and to the Bishops) La «riconciliazione liturgica» è la risposta alla «questione liturgica» ed è parte integrante della storia del movimento liturgico e della riforma liturgica. Per essere oggi una via percorribile deve anzitutto uscire dalla condizione di «stato di eccezione», nella quale si è trovata costretta dal «parallelismo rituale» introdotto dal motu proprio Summorum Pontificum. Al posto della logica conflittuale della concorrenza tra «forma or-
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dinaria e straordinaria», deve essere sostituita la convergenza differenziata, nell’unico rito comune, tra «forma verbale» e «forma rituale». Questa elaborazione ulteriore della riforma liturgica passa necessariamente attraverso la restituzione della «pienezza di autorità liturgica» ai vescovi. The so-called «liturgical reconciliation» is the answer to the «liturgical question»; it is also an integral part of the history of the Liturgical Movement and liturgical reform. In order to be a viable way today, first of all «liturgical reconciliation» must leave the condition of «exceptional status»: here it was compelled by the «ritual parallelism», who has been introduced by the motu proprio Summorum Pontificum. Instead of the conflicting logic of a competition between an ordinary and an extraordinary form, the differentiated convergence, in the unique common rite, between verbal form and ritual form must be replaced. This further elaboration of the liturgical reform necessarily passes through the restitution to the bishops of the fullness of their liturgical authority.
Gli autori / The Authors
John F. Baldovin, sj, is Professor of Historical and Liturgical Theology at the Boston College School of Theology and Ministry. He is the author of Reforming the Liturgy: A Response to the Critics (Liturgical Press, Collegeville, MN 2008) and served on the ICEL Advisory Committee from 1995-2002 as well as the USCCB advisory committee to the Bishops Committee on the Liturgy in the early 1990’s. He has been president of the international ecumenical Societas Liturgica and the North American Academy of Liturgy. He was honored with the latter’s Berakah Award in 2007. Fr. Baldovin is currently president of the International Jungmann Society for Jesuits and the Liturgy. Zeno Carra è prete della diocesi di Verona. Ha conseguito la licentia docendi in teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e sta attualmente lavorando alla sua tesi di dottorato all’Institutum Patristicum Augustinianum di Roma. Insegna antichità cristiane presso lo studio teologico della sua diocesi. Di argomento eucaristico ha scritto Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo, Cittadella, Assisi 2018. Andrea Grillo, teologo savonese, è professore di teologia dei sacramenti e di filosofia della religione presso l’Ateneo
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«S. Anselmo» di Roma e docente di liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale «S. Giustina» di Padova. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Introduzione alla teologia liturgica, EMP, Padova 20112; Riti che educano. I sette sacramenti, Cittadella, Assisi 2011; Genealogia della libertà, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013; Le cose nuove di ‘Amoris Laetitia’, Cittadella, Assisi 2016; Domande al Padre. La forma cristiana del pregare, EDB, Bologna 2016; Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il «dispositivo di blocco», Cittadella, Assisi 2019; Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica, Queriniana, Brescia 2019. Arnaud Join-Lambert est franco-suisse, marié et père de trois enfants. Docteur en théologie, il est professeur à l’Université catholique de Louvain. Il enseigne la liturgie et la théologie pastorale. Ses recherches portent notamment sur la liturgie en contexte postmoderne. Il a publié ou dirigé sept ouvrages de liturgie et une cinquantaine d’articles de recherche. Il a été président de la Société Internationale de Théologie Pratique. Martin Klöckener ist seit 1994 ordentlicher Professor auf dem zweisprachigen (deutsch/französisch) Lehrstuhl für Liturgiewissenschaft an der Universität Freiburg/Schweiz und Direktor des dortigen Instituts für Liturgiewissenschaft. Ein Schwerpunkt seiner Forschung und zahlreiche Publikationen befassen sich mit der Liturgiegeschichte sowie mit der Reform der Liturgie nach dem Vaticanum II. Er ist unter anderem hauptverantwortlicher Herausgeber des Archiv für Liturgiewissenschaft und des Spicilegium Friburgense sowie Berater in nationalen und internationalen kirchlichen Kommissionen zur Liturgie.
Gli autori / The Authors
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Benedikt Kranemann, Professor für Liturgiewissenschaft an der Universität Erfurt; Sprecher des dortigen „Theologischen Forschungskollegs“; Berater der Ökumenekommission der Deutschen Bischofskonferenz; Mitglied im Vorstand des Deutschen Liturgischen Instituts Trier; Mitglied der Liturgischen Konferenz. Buchpublikationen u.a.: mit Martin Klöckener (Hg.), Liturgiereformen. Historische Studien zu einem bleibenden Grundzug des christlichen Gottesdienstes. Münster 2002 (LQF 88); mit Jürgen Bärsch, Winfried Haunerland und Martin Klöckener (Hg.), Geschichte der Liturgie in den Kirchen des Westens. Rituelle Entwicklungen, theologische Konzepte und kulturelle Kontexte. Münster 2018; mit Albert Gerhards, Grundlagen und Perspektiven der Liturgiewissenschaft. Darmstadt 2019.
A proposito di questo volume
Nel contesto dello «stato di eccezione» causato dalla recente pandemia è emerso con maggiore evidenza come anche la Chiesa, dopo il motu proprio di Benedetto XVI, Summorum Pontificum (2007), viva in uno «stato di eccezione liturgica». Improvvisamente, la «doppia forma» del rito romano è stata riconosciuta come una «questione»: domande sono state rivolte dai teologi alla Congregazione per la dottrina della fede e domande sono state rivolte, su impulso di papa Francesco, dalla stessa Congregazione a tutti i vescovi. Come aiutare i vescovi a rispondere con discernimento e lungimiranza al questionario inviato loro per valutare l’impatto pastorale di Summorum Pontificum? Come curatori e autori di questo testo abbiamo voluto promuovere un «sondaggio teologico internazionale», nella convinzione che sia in gioco per la Chiesa una possibilità di svolta autentica e feconda: per superare i pregiudizi, fare pace e restituire alla liturgia la sua potenza originaria e la sua profezia evangelica. Andrea Grillo, teologo savonese, è professore di teologia dei sacramenti e di filosofia della religione presso l’Ateneo «S. Anselmo» di Roma e docente di liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale «S. Giustina» di Padova. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Introduzione alla teologia liturgica, EMP, Padova 20112; Riti che educano. I sette sacramenti, Citta-
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della, Assisi 2011; Genealogia della libertà, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013; Le cose nuove di ‘Amoris Laetitia’, Cittadella, Assisi 2016; Domande al Padre. La forma cristiana del pregare, EDB, Bologna 2016; Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il «dispositivo di blocco», Cittadella, Assisi 2019; Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica, Queriniana, Brescia 2019. Zeno Carra è prete della diocesi di Verona. Ha conseguito la licentia docendi in teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e sta attualmente lavorando alla sua tesi di dottorato all’Institutum Patristicum Augustinianum di Roma. Insegna antichità cristiane presso lo studio teologico della sua diocesi. Di argomento eucaristico ha scritto Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo, Cittadella, Assisi 2018.
Indice
Presentazione ................................................................... pag. 5 Introduzione Andrea Grillo ................................................................... » 7 Riconciliazione liturgica: note di metodo e di contenuto Zeno Carra ...................................................................... » 13 Zwei Formen des einen römischen Ritus? Martin Klöckener ............................................................. » 23 Liturgical Reconciliation: How to Get Beyond the «exceptional status» of Summorum Pontificum? John F. Baldovin ............................................................... » 37 Gottesdienst weiterentwickeln: Wohin soll der Weg der römischen Liturgie führen? Benedikt Kranemann ........................................................ » 45 Un point d’étape décisif dans la contestation liturgique traditionnaliste Arnaud Join-Lambert ....................................................... » 55 Superare lo stato di eccezione liturgica: restituire autorità alla lex orandi e ai vescovi Andrea Grillo ................................................................... » 67 Conclusione, o meglio… riapertura Zeno Carra ...................................................................... » 77 Abstracts ......................................................................... » 81
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Gli autori / The Authors .................................................. » 89 A proposito di questo volume .........................................
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