Occidente. Identità dell'Europa 8846407709, 9788846407702


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Italian Pages 304 [297] Year 1998

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Table of contents :
Occidente
Indice
Ringraziamenti
Introduzione
1. La tesi e il metodo
2. La caduta delle ideologie
3. Oceania, Eurasia e Penisole
4. Europa e America
5. Le strategie dell’ Occidente
6. La minaccia Eurasiatica
7. I vincoli del potere marittimo
8. La deterrenza e il mito di Occidente
9. La ricostruzione dell’Europa
Bibliografia
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Occidente. Identità dell'Europa
 8846407709, 9788846407702

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Carlo Maria Santoro

Occidente

Identità dell’Europa

FrancoAngeli

Copyright © 1998 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy

Edizione P 2a 3a 4a 5a 6a 7a

Anno 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, non autorizzata. Per la legge la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita ed è punita con una sanzione penale (art. 171 legge 22.4.1941, n. 633). Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Stampa: Tipomonza, via Merano 18, Milano. I lettori che desiderano essere informati sulle novità da noi pubblicate possono scrivere, inviando il loro indirizzo a: “FrancoAngeli, viale Monza 106, 20127 Milano”.

Indice

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8. La deterrenza e il mito di Occidente 9. La ricostruzione dell’Europa

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Bibliografìa

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Ringraziamenti Introduzione

I - Metafore 1. 2. 3. 4.

La tesi e il metodo La caduta delle ideologie Oceania, Eurasia e Penisole Europa e America II - Strategie

5. Le strategie dell’occidente 6. La minaccia Eurasiatica 7.1 vincoli del potere marittimo III • Identità

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In ricordo di Eric A. Nordlinger

Ringraziamenti

La faticosa gestazione di questo libro, che risale al 1995, ha rice­ vuto il generoso contributo di osservazioni e commenti da parte di molti studiosi e amici che ne hanno letto, in tutto o in parte, le varie stesure. Vorrei quindi ringraziare anzitutto coloro che mi hanno stimolato a trasformare in volume alcune riflessioni e concetti esposti in forma embrionale in precedenti saggi e articoli. In particolare sono grato a coloro che mi hanno indotto a speri­ mentare una serie di ipotesi teoriche d’interpretazione del sistema politico intemazionale attraverso la consultazione di opere, spesso dimenticate o rimosse dal dominio della cultura contemporanea, molte delle quali a me precedentemente ignote. Anzitutto Gianfranco Pardi che, in innumerevoli discussioni, mi ha calorosamente spinto ad approfondire gli argomenti del volume dopo aver letto una mia relazione del 1994 al Congresso di Berlino deìV International Politicai Science Association. Ringrazio poi tutti coloro che hanno avuto la benevolenza di leggere il manoscritto in una versione non definitiva, e che mi hanno fornito preziosi suggeri­ menti, critiche o commenti, fra i quali voglio ricordare Marco Antonsich, Antonio G. Balistreri, Ugo Bilardo, Paolo Calzini, Ales­ sandro Campi, Alessandro Colombo, Vittorio Dan Segre, Luigi Vit­ torio Ferraris, Carlo Galli, Ernesto Galli della Loggia, Carlo Jean, Angelo Mariani, Richard Ned Lebow, Angelo Panebianco, Robert D. Putnam, Sergio Romano, GianEnrico Rusconi, Mario Stoppino, Alessandro Vitale e molti altri. Desidero infine ringraziare Daniele Frustali, Claudio Mollicone e Fiorella Fabbri per il tenace e fitto lavoro di battitura e revisione 7

delle numerose stesure successive che il volume ha subito prima di essere licenziato alle stampe. Com’è naturale la responsabilità per gli errori o le sviste di quan­ to scritto in queste pagine ricade sull’Autore.

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Introduzione

Alle soglie del Duemila, con alle spalle quel “Secolo di Ferro” che è stato il Novecento, si può tentare un bilancio. Il metodo e le procedure d’analisi debbono però essere compren­ sibili e legittimi, evitando gli errori usuali, tipici della tradizione cul­ turale “evoluzionistica”, che tende a prolungare nel tempo, dilatan­ done arbitrariamente la dimensione, i trend più evidenti e i risultati già accertati. Nello studio della politica intemazionale sembra oggi prevalere un paradigma di matrice economicistica, che si fonde con una altret­ tanto grave deviazione concettuale, di matrice normativa, orientata a illuminare il futuro con la fumigante torcia del recente passato. Secondo queste tesi il mondo marnerebbe indiscutibilmente verso il progresso e l’evoluzione, che ne è la premessa, di cui lo sviluppo lineare è il fondamento mistico, armandosi di una corazza istituzio­ nale, architettata dagli ingegneri delle istituzioni (una professione a redditività crescente), che attutisca le eventuali cadute e che fornisca il quadro di riferimento del progresso lineare. Cadono vittime di questo orizzonte concettuale anzitutto l’analisi comparata della storia, della cultura e della geografia, i cardini dun­ que degli studi internazionalistici, che vengono sostituiti dalle ideo­ logie vincenti (liberaldemocrazia anglosassone) e perdenti (comuni­ Smo intemazionale) in un singolare intreccio che, tutto sommato, fa iniziare la Storia nella seconda metà del Settecento (Illuminismo e Rivoluzione Francese), per completarne l’opera con gli anni Novan­ ta del Novecento. La Storia si concentra così essenzialmente nella lettura guidata e nell’interpretazione autentica del Novecento da cui germoglia il pro­ 9

getto per il Duemila. Si “telescopizza” in questo modo il tempo schiacciando i secoli precedenti, le culture, perfino il “Nomos della Terra”1, sulle vicende e le categorie del secolo più recente. Ne deriva un quadro coerente per definizione, anzi la rappresen­ tazione del “migliore dei mondi possibili” basata sull’assenza, da un paradigma scientifico così concepito, di qualsiasi ipotesi di “discon­ tinuità”, ovvero di “crisi”, ovvero di “catastrofe” del modello, che è invece percepito come immortale, e che, per ciò stesso, si trasforma ancora una volta in una categoria aggiornata della filosofia della storia. Questo discorso vale soprattutto per la politica e, di conseguenza, per la politica internazionale. La fine del Novecento, infatti, che ha anche marcato la fine del “ciclo delle guerre” del secolo (1914-18; 1939-45; 1947-1990), ha preso di sorpresa le élites politiche del mondo intero e ha rivelato l’inconsistenza intellettuale e politica di generazioni di intellettuali occidentali d’ogni tendenza, che avevano disegnato inverosimili parametri d’interpretazione del mondo. Si pensi alle accreditate teorie sul Bipolarismo, che sembrava un modello di stabilizzazione permanente della politica intemazionale, oppure all’idea che i due blocchi contrapposti si sarebbero dissolti nella distensione e nella coesistenza pacifica, e che, in questo qua­ dro, l’Unione Sovietica e il suo sistema di potere imperiale avrebbe­ ro continuato a sopravvivere perché erano da considerare indistrutti­ bili (senza il “provvidenziale” intervento di una guerra nucleare) e che il ComuniSmo era un metodo di governo che, tutto sommato, aveva funzionato bene, almeno nel Terzo Mondo. Questo patrimonio concettuale è stato sconfessato clamorosamen­ te dagli eventi che hanno smentito tutte le previsioni e le linee di tendenza elaborate, seppellendo sotto la valanga di intere bibliote­ che, che sono improvvisamente diventate carta straccia, sia i pro­ grammi che le attese. Tuttavia, questa débàcle culturale non ha generato affatto quel sentimento di ricerca e quell’ansia di conoscenza e di interpretazio­ ne, priva di condizionamenti pregiudiziali che pure quello straordi­ nario fenomeno di discontinuità storica avrebbe dovuto, a rigore, provocare. Al contrario, lo choc era stato troppo forte e la reazione generale degli sconfitti (così come dei vincitori) diventò quella della rimozio­ ne collettiva del problema che si è manifestata sotto le specie della 1. Schmitt, 1974, 1991, ed. it„ pp. 20-21.

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impermeabilizzazione alle idee nuove e dell’adesione, tanto imme­ diata quanto formale, alle idee e ai modelli di coloro che avevano vinto, non per virtù propria, quanto per abbandono dell’avversario. Con uno zelo da neofiti così marcato che è riuscito a trasformare la libertà in imposizione della libertà e la democrazia in obbligo della democrazia, fino ad omologare il pensiero politico e la pratica empi­ rica in forme vicine a quelle di un nuovo autoritarismo. Le classi politiche e intellettuali, sia quelle vincenti sia quelle sconfitte, decisero, dopo il 1990, che il mondo doveva continuare co­ me prima, con tutto il suo bagaglio istituzionale, senza prendere atto del fatto che la fine della Guerra Fredda avrebbe dovuto comportare la necessità di riconvertire il patrimonio culturale dell’occidente ob­ bligando quindi ad un riesame dell’intero corpo dei valori, delle re­ gole, delle strutture e delle convinzioni del periodo precedente. Non andò così. Anzi, le élites politiche e intellettuali del mondo dei vincitori decisero di inglobare gradualmente i vinti (ad esempio allargando la Nato verso Est) senza interrogarsi sul perché di questa improvvisa catastrofe epocale, né sulle conseguenze di questa opera­ zione cosmetica di aggiustamento della realtà. Il pacchetto di strumenti politici e istituzionali elaborato nel corso del Novecento in quello straordinario laboratorio occidentale che so­ no stati gli Stati Uniti d’America, poteva e doveva essere esteso a comprendere anche il resto del mondo, senza tener conto delle spe­ cificità geografiche, delle tradizioni storiche e dei connotati cultura­ li, ignorandone anzi le tendenze e le aspirazioni, in un’ansia di omo­ geneizzazione che nascondeva il timore del confronto e al tempo stesso una fede cieca nel modello istituzionale e democratico2. Siamo entrati dunque in una fase in cui - come accade con le “leggende scientifiche”3 - non è più necessario “leggere” e quindi conoscere, ma è sufficiente “citare”. La stanca ripetizione di modelli di pensiero obsoleti (dall’anticomunismo all’antifascismo) ovvero di impulsi propositivi rituali (pace, libertà, democrazia, ecc.) sostitui­ scono il “principium individuationis” di cui parlava Nietzsche, che è andato perduto e che non si fa nulla per ritrovare. “Quando l’uomo improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’ap­ parenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezio­ ne in qualcuna delle sue configurazioni”4, allora il sapere si cristal­ lizza in formule, tesi prestabilite e biascicate orazioni. 2. Doyle e Ikenberry (a cura di), 1997. 3. Schmitt, 1970, 1992, p. 12. 4. Nietzsche, 1972, p. 105.

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Come è il caso dell’attuale situazione post-bipolare che oscilla nell’incertezza delle troppe certezze, ora che il “principium individuationis” si è dissolto. Ne deriva una seria difficoltà ad interpretare gli eventi e a individuare le linee di tendenza del sistema intemazionale. Perfino i progetti politici e istituzionali, ideati nel passato e porta­ ti avanti per inerzia, per fede o per mancanza di immaginazione, co­ me nel caso dell’utopia universalista delle Nazioni Unite, ovvero di quella tecno-federale dell’Unione Europea, risentono di questa ce­ cità ermeneutica ed epistemologica. L’Europa, ad esempio, che pure rappresenta un grande disegno costruito a tavolino più di cinquant’anni fa, in un contesto politico e strategico del tutto diverso da quello odierno, procede nella sua mar­ cia evoluzionistica e lineare senza interrogarsi davvero sulla sua fat­ tibilità in un mondo che è strutturalmente cambiato. Anche se ora la sua progettualità, che fu costretta nelle regole au­ ree della filosofia funzionalista e quindi «ielle pastoie dell’unificazio­ ne commerciale e monetaria perché, alle origini, il disegno dell’unità politica si era rivelato improponibile, lamenta i limiti concettuali di quell’ impostazione. In effetti l’Europa, per costituirsi in entità federale, dovrebbe ac­ quisire un’identità che non sia solo tecno-mercantile. Sarà quindi co­ stretta a trovare quello che si può definire come lo “Spirito” (Geist) dell’Europa, cioè un corpo di valori simbolici, riconosciuti e condi­ visi. In altri termini dovrà inventarsi una “nazionalità” federale di­ stinta da quella dei singoli stati-nazione che la compongono. Dovrà produrre un “anima” oltre che un “corpo” e quindi essere dotata di un comune senso di appartenenza che trascenda la retorica della ca­ micia di forza istituzionale e normativa dei Trattati di Roma e di Maastricht. La scelta non è difficile. Esiste infatti una sola appartenenza ne­ cessaria e possibile per la “ricostruzione” dell’Europa: quella che conduce all’unica identificazione dello spazio europeo, storicamente verificata fin dal più lontano passato, e che consiste nel principio della “separazione” attraverso il metodo della “differenza”. L’Euro­ pa è unificabile solo a patto che sia possibile distinguerla, per diffe­ renza appunto, dalla “non-Europa”. Gli Europei devono sapere che cosa potrebbe tenerli davvero in­ sieme, al di là delle guerre passate e delle diversità di cultura nazio­ nale, al di là della moneta comune o dell’integrazione economica. La ricerca del principio dell’identità europea è una grande scom­ messa sul futuro, ma è anche una pesante incognita politica. Il Geist 12

dell’Europa va infatti cercato attraverso una ricerca approfondita, agendo contemporaneamente su campi d’analisi diversi. E un princi­ pio che ha radici nello spazio e nel tempo dell’Europa, cioè nella geografia, nella storia, nella cultura e nelle istituzioni che talvolta si dice - “pensano”, cioè progettano da se stesse il proprio destino. Quanto al principio della “separazione” e al metodo della “diffe­ renza”, esso risale al tempo mitico della fondazione del concetto stesso di Europa, e in particolare al fatto che l’Europa originaria è nata per contrapposizione, quindi per “alterità”, per differenza e per separazione. Anzitutto come Occidente, il territorio dove cade il Sole, che per esistere si difende dall’oriente minaccioso e incombente. Dai Greci ad oggi l’Occidente ha infatti vissuto la propria gestazione, nascita, consolidamento ed. espansione, individuando una specificità propria rispetto all’Oriente nelle sue diverse forme, sia ad Est che a Sud. E stata la forma più riuscita di “destino” che una penisola abbia mai raggiunto, quella di trovare un’identità forte e alla fine domi­ nante, partendo da una necessità (la sopravvivenza dopo le invasioni da Est e da Sud), trasformandola in una cultura collettiva riconosci­ bile e duratura. L’Europa è la penisola più occidentale della landmass eurasiatica e come tale è sempre minacciata, nella sua sopravvivenza distinta, dalla contiguità terrestre con il continente, avendo però alle spalle il mare, che è stata l’unica via di fuga, ma al tempo stesso anche uno spazio libero adatto alla conquista. L’Europa ha così gradualmente costruito la propria ragion d’esse­ re, dalla Grecia a Roma, fino al nuovo Impero Sacro e Romano, e poi al Sistema Europeo per eccellenza, quello dell’“Equilibrio di Po­ tenza” (Balance of Power), prendendo via via coscienza della pro­ pria diversità e identità, negandosi all’Oriente, alla sua pressione e alle sue leggi di movimento. Generalmente sulla difensiva la “Fortezza Europa”, quando ha potuto, ha tentato una controffensiva. Dapprima senza molto succes­ so, con le Crociate, un tentativo fallito di restaurare l’unità mediter­ ranea di Roma, poi, più felicemente, fuggendo oltre le Colonne d’Èrcole, verso l’Africa, a partire dalla sua terra più occidentale, il Portogallo, e poi verso le Indie, approdando in quell “estremo occi­ dente” che è l’America. Da allora l’Europa si è consolidata, anche istituzionalmente e giu­ ridicamente (lo jus publicum europaeum), agendo contemporanea­ mente sulle due tastiere, diverse ma complementari, dell’espansione 13

verso Occidente, conquistando imperi terrestri garantiti dal “seacontrol” del potere marittimo (attaccando quindi) e del “contenimen­ to” dall’Oriente (quindi difendendosi) aH’Est e a Sud, dai Mongoli, dai Turchi, dai Russi. E questa la legge, univoca e duplice al tempo stesso, delle peniso­ le, grandi o piccole che siano, nella politica intemazionale: offensiva sul mare e difensiva per terra. In questo tormentato e ciclico percorso l’Europa si è gradualmen­ te identificata come il “cuore” dell’occidente, esportando i suoi uo­ mini e la sua cultura oltremare. Fino alla catastrofe del Novecento, quando l’Europa si è suicidata con le due guerre mondiali e la san­ zione stabilita dalla sua divisione in due parti, a conclusione della guerra nel 1945, il Vecchio Continente era vissuto in un miracoloso equilibrio, conflittuale al suo interno, ma distinto “per natura” - si potrebbe dire - dalla non-Europa. Gli equivoci della seconda metà del Novecento, fino a quello che stiamo vivendo oggi nella cosiddetta età postbipolare, sono la conse­ guenza di quella distruzione. Sono nate così le confusioni concettua­ li e terminologiche che generano insicurezza e domande senza rispo­ sta: il sistema Occidentale è diventato il sistema Atlantico e l’Euro­ pa divisa si è trasformata in un’appendice dell’Atlantico americano. Ma a partire dal 1990 si è aperta una fase nuova. L’Europa (e la Germania) si è riunificata mentre la minaccia orientale si è provvi­ soriamente frantumata. L’ineluttabilità della gerarchia interatlantica non è più un percorso obbligato, mentre il continente europeo cerca disperatamente di trovare un’identità nazional-federale sempre più lontana. La “renovatio imperii” avvenuta una prima volta con l’incorona­ zione di Carlo Magno, che immaginava di restaurare il dominio di Roma, potrebbe avvenire una seconda volta con la ricostruzione dell’Europa del Duemila, a patto che se ne ritrovi lo “Spirito”, e quindi identificandone l’identità attraverso la condivisione del patri­ monio comune e la separazione dagli “altri”, ad Est come a Ovest e a Sud. La teoria che questo libro sostiene postula dunque un’Europa ri­ costruita sulle macerie della sua distruzione novecentesca, attraverso un processo di “renovatio imperii” che esalti i caratteri originali del­ la sua millenaria vicenda, filtrando da essi il “Geist” che ne contrad­ distingue Toriginalità e l’unicità. Si tratta quindi di un libro, che potremmo chiamare di “geoteo­ ria”, nel senso che utilizza gli strumenti concettuali della spazialità 14

geopolitica, della storia comparata, nonché dell’analisi delle perma­ nenze mitico-culturali e degli archetipi collettivi, per dimostrare che l’Europa è il vero “cuore” dell’occidente e che la relazione dell’Occidente europeo con l’Oriente è stata, fin dalle nostre origini pro­ toindoeuropee, fondata, per differenza, sull’“alterità”, e spesso sulla contrapposizione. Il volume è diviso in tre parti e ciascuna di esse in capitoli che se­ guono i diversi e paralleli blocchi concettuali della ricerca. Nella prima parte si individuano e si definiscono le “Metafore”, e in particolare le coppie di concetti che della forma metaforica rap­ presentano il contenuto. Muovendo dalla constatazione della morte delle grandi ideologie globalistiche del Novecento e dell’affiora­ mento, dalle macerie di queste, di un certo numero di antiche me­ tafore spaziali e culturali (Terra/Mare; Eurasia/Oceania; Oriente/Occidente), il volume si propone di utilizzarle come categorie d’analisi, cioè come materiali da “ricostruzione” per la identificazione di un nuovo paradigma scientifico nello studio delle relazioni internazio­ nali (capp. 1-4). Nella seconda parte vengono prese in esame le “Strategie” che hanno caratterizzato i comportamenti spazio-temporali e quelle sedi­ mentazioni culturali che sottendono anche le permanenze e le conti­ nuità nascoste dietro la visibilità delle fratture e delle “catastrofi”. In particolare sono state messe in rilievo le costanti geopolitiche e le ri­ cadute mitico-culturali di queste, nella grande tradizione occidentale delle dottrine talassocratiche e del potere marittimo, nonché nell’esperienza storica delle relazioni conflittuali e di comunicazione fra l’Europa, intesa come Occidente, nei confronti di Eurasia, intesa come Oriente (capp. 5-7). Nella terza ed ultima parte si costruiscono delle “ipotesi d’iden­ tità”, e quindi si scommette sul futuro, nel tentativo di individuare le coordinate possibili della “ricostruzione” dell’occidente, e quindi dello “Spirito” dell’Europa. Ma poiché tutto il libro si basa proprio sul criterio dell’“identità” dell’occidente, enucleato per differenza rispetto all’Oriente, questa parte viene essenzialmente dedicata alla conquista dell’identità attraverso il doppio percorso: a) dell’autonomia/indipendenza rispetto al concetto postbellico di Occidente atlan­ tico, e b) della separazione/opposizione dell’Europa rispetto al­ l’Oriente eurasiatico. Nel primo caso si tratta di ricostruire l’identità europea attraverso il recupero della “diversità” dell’Europa dall’America, intesa come

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“estremo Occidente”. Nel secondo caso il problema centrale diventa quello di liberarsi, una volta per tutte, dalla “minaccia” eurasiatica che, fin dall’età del bronzo, è stata la chiave di volta dell’intera sto­ ria occidentale. L’eliminazione della “minaccia da Est” - secondo il classico codi­ ce di linguaggio della Nato - non è però ottenibile in termini di scontro militare, ma invece in termini di confronto politico, econo­ mico e culturale, utilizzando una complessa tastiera di attrezzi e concetti politici di confronto, come la deterrenza e la compellenza, nonché attraverso il negoziato e l’accordo. La “ricostruzione” dell’Europa, secondo le regole di quella che abbiamo definito la “teoria delle penisole” (o delle Rimlands) e la definitiva saldatura di questa con l’asse culturale della civiltà occi­ dentale, passa attraverso due vincoli obbligati: da un lato il recupero dell’identità europea scissa dal legame atlantico, e dall’altro lato la liquidazione dell’unità politica e territoriale di Eurasia (più Africa), con l’obiettivo di eliminarne l’oggettiva minaccia (capp. 8-9).

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I. Metafore

1. La tesi e il metodo

Il Novecento - come ha scritto qualcuno - è stato un secolo breve1, durato dal 1914 al 1990. Prima di allora splendeva ancora il sole al tramonto dell’ottocento. Dopo di allora è cominciato il Terzo Millennio. La brevità temporale del secolo non vuole però dire che si sia trattato di un secolo corto, e quindi senza importanza. Al contrario, il secolo XX ha preso la forma di un crogiolo infuo­ cato che ha fuso al suo interno, in una drammatica verifica speri­ mentale, gran parte di quanto il secolo “lungo” che lo precedeva, l’Ottocento, che si estende dal 1789 al 1914, aveva concettualmente costruito. In altri termini il Novecento ha bruciato in un immenso falò, tragico e grandioso, distruggendoli, quasi tutti gli assunti e i paradigmi dell’ottocento. Se riusciamo a distogliere l’attenzione dal tempo quotidiano e dall’illusionismo tecnologico nelle sue versioni mistificate dell’eco­ nomicismo, dell’istituzionalismo e del relativismo globalista, sarà assai facile intravedere i moduli operativi di questa antinomia fra i due secoli, basata sulla costruzione ottocentesca e sulla distruzione novecentesca. Già Ernst Jünger scorgeva, dietro il frastuono della seconda guer­ ra mondiale, questa singolare opposizione fra i due secoli2, di cui metteva in luce la irrisolta questione, nata con Nietzsche, della mor­ te di Dio, cioè della solitudine e della fine della speranza, quando le nuove certezze dell’Età dei Lumi e della secolarizzazione, alla fine del secolo scorso, cadevano in pezzi e si consumavano definitiva­ mente nella fornace della prima guerra mondiale. 1. Hobsbawm, 1994. 2. Jünger, 1943; Breuer, 1995.

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Nietzsche, per verità, era uscito di scena piuttosto presto, fin dalla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo. Tuttavia il Novecento sembrò, nelle sue diverse versioni, proprio l’esatta dimostrazione di quella profezia. Tre guerre mondiali, due calde e una fredda, hanno spazzato via senza pietà, insieme alle ideologie totalitarie (nazismo e comuniSmo), anche le operose attese dell’Ottocento. Leggere il Novecento quindi, può voler dire studiarne gli elementi di distruzione, di scompaginamento dei luoghi comuni, dei paradig­ mi non verificati. Può voler dire - con Gottfried Benn a proposito di Nietzsche - “far scintillare le superfici di frattura senza riguardo ai rischi e ai risultati”3. In termini ancora più astratti si può dire che il significato che at­ tribuiamo al Novecento (e per comparazione/opposizione all’Ottocento) è traducibile in termini di metafora, cioè di concetti che attra­ verso i nomi trasferiscono a un oggetto il nome, e quindi il contenu­ to, che è proprio di un altro oggetto4. Nella politica intemazionale, l’antinomia fra i due secoli, quello della “costruzione” e quello della “distruzione”, attraverso l’ideolo­ gia e la guerra totale, si è manifestata in forme diverse, ma più spes­ so travestita dei panni corruschi del totalitarismo populista e demo­ cratico e della intolleranza politica, rovesciando la razionalità dell’il­ luminismo nell’irrazionalismo dell’omologazione e della “norma­ lità” ad ogni costo. È quello che Karl Popper definiva, criticandolo, “il mito della cornice”5, la teoria che sostiene l’impossibilità di ogni discussione razionale e feconda, a meno che i partecipanti non con­ dividano un framework comune di assunzioni di base. Un mito da combattere perché isola il dialogo, lo sottopone a parametri predeterminati, ne regola le forme e assegna valori diversi agli argomenti, a seconda che essi appartengano o meno al codice di rappresentanza comune che la “cornice” appunto racchiude, selezionando e discri­ minando in anticipo, e quindi riducendo di molto, il campo dell’ana­ lisi e della ricerca. Ne deriva così un linguaggio di comunicazione specializzato, con vincoli di ammissibilità programmata, e con essi aumenta il rischio della perdita di senso, di ragione e di sentimento. Ma la differenza principale fra l’Ottocento e il Novecento è ri­ scontrabile soprattutto nel fatto che l’Ottocento ha, pragmaticamente e attraverso la tecnica, unificato lo spazio mondiale con il mercato, 3. Benn, 1938, cit. in Desideri; Nietzsche, 1993, p. 10. 4. Conte (a cura di), 1981, pp. 13 e sgg., ma anche pp. 60 e sgg., nonché Lakoff e Johnson, 1982, ed. it., pp. 19-25. 5. Popper, 1994, 1995, ed. it., pp. 57 e sgg.

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le comunicazioni, le colonie, l’industrializzazione, mentre il Nove­ cento ha tentato di renderlo uguale, omologandone le diversità, attra­ verso la tecnica, le ideologie e la loro traduzione politica violenta6. Il “paradosso delle conseguenze”, di weberiana memoria7, è stata quindi la formula del Novecento che ha sperimentato le teorie dell’ottocento, consumando e distruggendo insieme ad esse anche il mondo delle consolidate tradizioni che già nel secolo scorso erano state messe a dura prova. Ma di una distruzione rigeneratrice e creativa sembrava trattarsi. Una sorta di Fenice che si ricostituisce dalle sue ceneri, ovvero la ri­ petizione del mito di Osiride, ucciso e fatto a pezzi, che risorge dalla morte. Esso respinge la gabbia (ovvero la cornice) e con essa anche le classifiche stabilite dalla politica tecnologica. E per molti aspetti proprio di questo si trattava8. Il mito della Fe­ nice rimescola infatti le carte prima di aprire il gioco. Tutti i gioca­ tori rimasti si debbono misurare con tutte le regole possibili, anche con quelle della contraddizione e della antinomia, cioè con quelle considerate inaccettabili o superate. È anche il mito dell’“eterno ritorno”9, quindi, che nella dimensio­ ne politica, interna o intemazionale, si traduce nella rinascita o nell’aggiornamento inatteso delle culture precedenti, accanto alla presenza inquietante delle ideologie futuribili. Tutto questo è il modello dell’antinomia fra l’Ottocento e il No­ vecento, fra il “secolo lungo” e il “secolo breve”, fra costruzione e distruzione. Si tratta dunque, in prima istanza, di un modello “tem­ porale”, che assegna valori esplicativi alle differenze cronologiche e misura i quadri di riferimento con l’uso delle ipotesi “evoluzionisti­ che” o “cicliche”. Il conflitto fra i due approcci resta comunque in­ sanabile. Ma questa struttura temporale e dicotomica, e anzi antagonistica, della nostra analisi non può impedirci di cercare un riscontro anche nella dimensione “spaziale”. Il “secolo breve”, infatti, può essere letto altrettanto bene muovendo proprio dalle sue coordinate spazia­ li. Anzi, nessun secolo come il Novecento ha mostrato geografica­ mente la propria natura e cultura, inducendo le diversità concettuali e i blocchi ideologici separati, attribuendoli, volta per volta, a preci­ se e diverse macroregioni del mondo. 6. 7. 8. 9.

Dumont, 1966, 1991, ed. it., pp. 71 e sgg., nonché p. 84. Momsen, 1959, 1974, 1993, ed. it. e Weber M., 1984, 1995. Hart, 1993, 1994, ed. it., pp. 51 e sgg. Nietzsche, 1888, 1964, VI, III, 322.

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Anche sotto questo profilo il Novecento ha dunque ripercorso il tracciato del passato, modernizzando la propria apparenza attraverso la contrapposizione ideologica che, ancora una volta, dietro le ipote­ si globaliste e universaliste, nascondeva le due metafore classiche di occupazione dello spazio. Da un lato la “terra” e dall’altra il “mare”, con tutto ciò che questo comporta nell’ analisi delle relazioni spazia­ li. Da un lato le isole (e in parte le penisole) dall’altro il grande con­ tinente eurasiatico; da un lato l’Occidente e dall’altro l’Oriente. L’integrazione fra il tempo e lo spazio infatti, produce di per sé la necessità di collegare il tempo della geografia a quello della storia. Così come, d’altra parte, impone di riconoscere lo spazio del tempo e la spazialità della storia. Ma non basta. La relazione biunivoca fra tempo e spazio, nello studio delle coordinate della politica mondiale, non può non essere integrata dalla ancor più impalpabile dimensione della “cultura”, cioè di quella manifestazione del pensare e del sentire la cui accu­ mulazione progressiva, attraverso la ripetizione costante dei compor­ tamenti (tradizione) ne consolida la struttura e ne aumenta lo spesso­ re, e attraverso l’immaginazione creativa dei nuovi parametri ne ar­ ricchisce e rimescola i caratteri, trasformandoli (innovazione). La “cultura”, in questa interpretazione, diventa così una griglia spazio-temporale che aiuta a identificare le prevalenze, quelle spa­ ziali nel concetto di “civilizzazione”10, e quelle temporali nel con­ cetto di “ere culturali”11. Ed è stato proprio muovendo da queste considerazioni generali e, anzi tenendole a mente come una bussola metodologica sempre atti­ va, che questo volume è stato scritto. Ne è derivato un libro a tesi, che potremmo definire di “geoteoria” spazio-temporale. La tesi è piuttosto semplice. Meno semplice è stato invece il tentativo di dar­ ne una ragione scientifica, o almeno argomentativa12. L’assunto da cui muoviamo si basa in primo luogo sulla possibi­ lità di leggere la dinamica del sistema politico intemazionale in ter­ mini di rotazione ciclica invece che in termini di evoluzione linea­ re13, e si fonda sull’impiego del metodo analitico della “separazio­ ne”, della “diversità”, ovvero dell’“alterità”14 fra i due macro-con­ 10. Huntington, 1993. 11. Breuer, 1995, pp. 3-33. 12. Sulla distinzione fra “dimostrazione” e “argomentazione”, ovvero tra “logi­ ca” e “retorica”, si veda il classico testo di Perelman e Olbrechts-Tyteca, 1958, 1966. 13. Nisbet, 1970; Lasch, 1991, 1992, ed. it. 14. Miglio (a cura di), 1992, pp. 7-83, e in particolare la relazione fra “alterità” e “nemico” (p. 14). Si veda il saggio di Moreno Moroni.

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cetti culturali di Occidente e di Oriente. È una diade questa che comporta una relazione complessa e integrata sia con lo spazio che con il tempo, e con quella realìa virtuale che è la mente. Di qui la necessità dell’identificazione delle due strutture concet­ tuali, sia in termini spaziali che geopolitici, ma anche storici e com­ parati, nonché delle modalità di contrapposizione culturale e tecnica, di mentalità, di percezione e autopercezione, quindi di identità rico­ noscibile. Questa è la ragione prima che ci ha indotto a sostenere la tesi del libro con un corredo di richiami bibliografici e di mappe co­ sì esteso da apparire talvolta ridondante. La tesi si sviluppa articolandosi su una serie di passaggi successi­ vi. Anzitutto si è constatato che il “paradigma”15, ovvero il grappolo di paradigmi kuhniani che ha governato la “scienza normale” della politica intemazionale nel secolo XX, e in particolare fra la fine del­ la Seconda Guerra Mondiale e il crollo del Muro di Berlino, fondata sulla contrapposizione guerresca delle tre ideologie (comuniSmo, fa­ scismo e liberal-democrazia), aveva rimosso, e forse sepolto, le “forces profondes” - per dirla con Pierre Renouvin16 -, e quindi i diritti della geografia, della storia e della cultura. La vendetta inevitabile delle forze profonde e della “longue durée”17, dal nazionalismo18 al determinismo geopolitico, alla geoe­ conomia, alle divisioni etniche e strategiche19, si è scatenata come un vulcano che, dopo una fase di latenza, improvvisamente comincia a risvegliarsi eruttando materiali diversi (fuoco, cenere, lapilli, fango e lava) ciascuno dei quali va studiato e trattato in modo diverso. Con questa “catastrofe”20 imprevista la scienza normale ha certa­ mente perso la sua valenza predittiva, ma anche quella descrittiva ed esplicativa. Si è dissolta senza lasciare tracce la “spiegabilità” del paradigma dominante al punto che il mondo di oggi, ma anche quel­ lo di domani, è improvvisamente diventato una “black box”, una scatola nera senza informazioni. D’altro canto, l’uso ostinato e inutile degli schemi intellettivi del passato, generalmente “universalisti” o “globalisti” e tutti d’impian­ 15. Kuhn, 1962, 1969, ed. it., pp. 29 e sgg. 16. Renouvin, 1958. 17. Braudel, 1973, 1974, ed. it. 18. Sulla rinascita del nazionalismo, anche in Europa, e sul rilancio degli studi spaziali di geopolitica e di geoeconomia si rinvia a Jean, 1994, e Antonsich, 1995; Gellner, 1983; Mayall, 1990; Kellas, 1991, 1993, ed. it. 19. Rothschild, 1981; Smith, 1981, 1984; Smith, 1986; Breuilly, 1985, 1995, ed. it., a Hobsbawm, 1991. 20. Thom, 1980, ed. it.; Woodcock e Davis, 1978, 1982.

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to economicistico21, non fa che protrarre nel tempo l’incomprensio­ ne, come dimostra l’affannoso inseguimento degli eventi da parte delle grandi istituzioni intemazionali, incapaci di anticiparli, di in­ terpretarli, e quindi di prevenirne i guasti. Di qui la necessità di sostituire il “paradigma” della politica inter­ nazionale postbellica con qualcosa di più efficace e rispondente all’esigenza di comprendere il mondo in cui viviamo. Il concetto di “paradigma” è, peraltro, usato dallo stesso Kuhn in almeno venti modi diversi. La ricerca del nuovo paradigma, vale a dire l’acquisi­ zione della “rivoluzione scientifica” in atto, non è quindi cosa facile, anche se nella maggior parte dei casi i significati del termine para­ digma sono comprensibili e convincenti, poiché abbracciano l’intero campo delle scienze, anche di quelle sociali, e possono quindi essere applicati anche allo studio degli eventi e delle connessioni sistemi­ che intemazionali22. Si possono allora azzardare delle ipotesi dirette a sondare l’am­ piezza e la profondità del campo analitico. La prima ipotesi consiste nel recupero dei concetti di “spazio”, “tempo” e “cultura” (o “men­ talità”, nel senso di Theodor Geiger23), da innestare sul modello si­ stemico classico della politica intemazionale, in modo tale da ridise­ gnare le coordinate concettuali che sono alla base della costruzione del nuovo paradigma, abbandonando quelle “ideologiche” che hanno caratterizzato il vecchio paradigma24. Il paradigma di analisi che abbiamo formulato consiste perciò in un modello interpretativo delle relazioni intemazionali, in chiave comparata e/o diacronica, basato sull’ipotesi che l’intero meccani­ smo delle relazioni fra gli attori e la struttura25 si fondi sull’analisi dell’interazione permanente, sia conflittuale che cooperativa, fra le tre coppie (o diadi) di metafore concettuali, i cui caratteri originali, espressi nei due termini della opposizione (Terra contro Mare; Eura­ sia contro Oceania; Oriente contro Occidente), li rendono struttural­ mente irriducibili l’uno all’altro. La coppia Oriente-Occidente è, delle tre, quella che meglio descri­ ve il sistema interattivo diadico del sistema politico intemazionale nel suo complesso. E ciò perché la coppia Terra-Mare esclude un 21. Schmitt, 1932, 1972; Freund, 1995. 22. Masterman Margaret, 1976, ed. it. “La natura di un paradigma”, in Lakatos e Musgrave, 1970, 1976, pp. 129 e sgg. 23. Geiger, 1987. 24. Bracher, 1982, 1984; Nisbet, 1970. 25. Waltz, 1979, 1987, pp. 97-132. 24

ruolo preciso alle “Rimlands”, cioè alle penisole e alle terre eurasiati­ che che in qualche misura risentono sia della condizione “terrestre” sia di quella “marittima”, mentre la coppia Eurasia-Oceania non rap­ presenta bene la contrapposizione culturale e. strategica fra le due “mentalità”, né - come nel caso precedente - il carattere e gli interes­ si delle Rimlands, ma invece solo quelli delle isole e dei continenti. In effetti la terza diade, quella definita dalla coppia Oriente-Occi­ dente, coglie meglio nel segno perché arricchisce la dualità fisica e strettamente spaziale della coppia Terra-Mare di un contenuto cultu­ rale e storico riconoscibile e, al tempo stesso, dilata gli orizzonti della dualità, essenzialmente strategica, della coppia Eurasia-Oceania, innestandovi la dimensione della globalità. L’Occidente infatti è una filiazione dell’oriente che, per germina­ zione spontanea ma faticosa, se ne è separato, e si è poi identificato, per contrapposizione o “alterità”26, in una concezione indipendente. La separazione “per differenza” è avvenuta a seguito delle grandi migrazioni indoeuropee che hanno gettato le basi della civiltà occi­ dentale, minoica prima, micenea poi e quindi greco-romana27. Di qui l’identificazione primaria fra il concetto di Occidente e la sua territorializzazione in Europa28. Il topos dell’occidente, però, non è solo una localizzazione spaziale, ma anche e soprattutto un luogo dello Spirito29, che contiene al suo interno un corpo di valori polivalente e multicolore, di carattere spaziale, temporale e culturale. La grande metafora dell’occidente, dunque, è una sorta di confe­ zione geopolitica spaziale individuabile attraverso la “teoria delle penisole”, ma anche storica, nella dinamica del suo significato lessi­ cale e semantico attraverso le diverse civiltà, e finalmente culturale nella identificazione della comunanza di esperienze, nella formazio­ ne della personalità individuale e collettiva dello spazio storico in cui esso si è completato. In altri termini l’Occidente è il prodotto di risulta del suo sforzo di identità per opposizione rispetto all’Oriente, e come tale deve essere analizzato. Il concetto di Occidente è quindi una questione di “linguaggio”, di “ordine del discorso”, che comporta altresì “pratiche e posizioni sociali che incorporano potere”30. Distinguere, delimitare e mettere 26. Dalby, 1990, pp. 6-7. 27. Mallory, 1989 pp. 66-109; Masti (a cura di), 1991, pp. 3-12, 37-72, 173-200. 28. Duroselle, 1964; Chabod, 1961; Coudenhove-Khalergi, 1929; Davies, 1996, pp. 19-46, 47-94. 29. Hegel, 1817, 1994, ed. it., pp. 630-631. 30. Sul concetto di “alterità” si veda, fra gli altri, anche Foucault, 1977, pp. 200 e sgg.

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in ordine i concetti significa perciò distribuire le risorse assegnando­ le ai diversi soggetti, e quindi governare il ciclo. D’altra parte l’“alterità” che contraddistingue l’Occidente rispetto all’oriente, è un concetto strettamente inerente all’analisi del discor­ so; “essa comporta la costruzione sociale di un’altra persona, di un gruppo, cultura, razza, nazionalità o sistema politico come diverso dalla ‘nostra’ persona, gruppo, ecc.”31. Da questo basamento d’identità fondato sulla differenza e l’alterità discende la constatazione che l’Occidente ha trovato la sua sede naturale in quel concetto di “Europa” che ormai trascende la sua mera spazialità. Diventa allora opportuno procedere attraverso tre successivi gradi di analisi per raggiungere: a) l’identificazione dello “spazio europeo”; b) la definizione delle componenti extraeuropee dell’occidente, in particolare il rapporto con l’America; c) la identi­ ficazione dell’“altro”, quindi dell’oriente, nelle sue componenti spa­ ziali eurasiatiche (Asia + Africa), e storico-culturali attraverso il ri­ conoscimento delle diverse “Civilizzazioni”32. Queste premesse di ordine generale costituiscono la condizione necessaria per affrontare il tema della ricerca, vale a dire quello del­ la “ricostruzione” dell’Europa alla conclusione del secolo delle ideo­ logie e delle guerre che l’hanno accompagnato. La “ricostruzione” dell’Europa fa quindi seguito, come progetto palingenetico, alla sua “distruzione” che si era quasi del tutto completata nel 194533. E un processo, per molti versi simbolico, che può nascere solo dalla ricerca delle origini dell’Europa e dal ritrovamento delle sue tradizioni34. Ciò che ne ha impedito la costruzione prima e la rico­ struzione poi, sono stati anzitutto i conflitti intestini al continente, che ne hanno per secoli divorato le viscere, a partire dal declino del Sacro Romano Impero. Ma, successivamente, anche il classico Siste­ ma dell’Equilibrio, faticosamente raggiunto in Westfalia nel 1648, a seguito del terribile ciclo delle guerre di religione, è stato un formi­ dabile ostacolo all’unificazione per timore dell’egemonia, fino alla sua carbonizzazione nella prima e nella seconda guerra mondiale35. In effetti non è stato tanto il processo di “sviluppo politico” e di “globalizzazione economica” - come invece molti mostrano di cre31. Dalby, 1990, p. 7. 32. Huntington, 1993, 1996a. 33. Hillgruber, 1988, 1991. 34. Si veda, oltre al recente volume di Davies, 1996, anche la ricerca di J. Evola, 1988, sulla simbologia tradizionale dell’occidente. 35. Krasner, 1995.

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dere36 - a spaccare il mondo in due parti ideologicamente contrap­ poste, quanto il fenomeno sadomasochistico dell’autodistruzione eu­ ropea a permettere quella soluzione politica speculare e bipolare dei rapporti mondiali che si è appena conclusa. Ma ora che il ciclo della “guerra civile europea”37 sembra essere finalmente terminato e cominciano a prevalere i fattori unificanti ri­ spetto a quelli centrifughi, è giunto il momento di recuperare anche il senso profondo dell’Europa, e con esso il suo “Spirito”, che consi­ ste nella sua funzione originaria di cuore dell’occidente. Su queste premesse diventa allora possibile impostare un programma di ricerca e di azione politica i cui segnali di fumo sono già visibili all’oriz­ zonte nell’incompleto progetto dell’Unione Europea di Bruxelles, costruzione astratta e tecno-mercantile, nonché nei disegni incerti della politica estera e di sicurezza comune (Pese), e nelle formule, ancora incoerenti, dell’arcipelago concettuale federalista basato solo su una architettura istituzionale e normativa, senza l’alito di vita dell’identità38.

36. Rodrik, 1997. 37. Schmitt, 1950, 1992; Nolte, 1995; Portinaro, 1982. 38. Bassani, Stewart, Vitale (a cura di), 1995. 27

2. La caduta delle ideologie

Le lunghe ombre dei vincitori delle guerre passate si stagliano sempre sulle costruzioni del tempo come ipotesi di eternità. Esse sbiadiscono tuttavia gradualmente, sottratte della loro forza a mano a mano che i giorni e gli anni trascorrono, e le generazioni degli uo­ mini succedono alle generazioni. “Allorché un’epoca tramonta, il suo principio deperisce” - scrive­ va qualche anno fa, a proposito di Heidegger, Reiver Schürmann1 Si tratta di un procedimento lungo e silenzioso, che, sulle prime, non lascia tracce apparenti né incrina lo smalto dell’egemonia, o del vero e proprio dominio culturale che i vincitori esercitano, per dirit­ to di guerra, sui vinti e sui neutrali, determinando la collezione delle idee comuni e delle ideologie condivise. Si modificano però impercettibilmente i rapporti di forza, sia nel­ la politica che nell’economia. Diminuisce a poco a poco il valore dei trattati e quello delle istituzioni, che rappresentano la materializ­ zazione dell’astratta progettualità dei vincitori. Talvolta si falsano le proporzioni nelle capacità militari effettive delle Grandi Potenze, egemoni o essenziali, e delle Potenze sconfitte. Evolvono intanto le tecniche, ma stentano nel frattempo a rinnovarsi le dottrine. Soprattutto invecchiano le ideologie, e quindi la fonte primaria di legittimità dell’intero sistema intemazionale; anche se proprio le ideologie, queste manifestazioni ultime del desiderio, sembrano es­ sere proprio le più lente a scomparire. Lo status dell’uomo contem­ poraneo postbipolare è rappresentato, dunque, dalla condizione astratta ipotizzata da Norbert Elias nel suo “Saggio sul tempo”2 se­ 1. Schürmann, 1986, 1995, ed. it., p. 63. 2. Elias, 1984, 1986, ed. it., pp. 75 e sgg.

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condo cui “gli appartenenti a un gruppo originariamente privo di concetti hanno l’intero potenziale biologico di sintesi che possiedo­ no gli uomini d’oggi: essi hanno la stessa capacità di collegare gli avvenimenti che hanno percepito, ma non tutte le conoscenze relati­ ve al come devono collegare gli avvenimenti. Devono essere ancora elaborati tutti i simboli relativi a determinate relazioni”. Questa specie di tabula rasa concettuale di cui parla Elias è mol­ to simile alla situazione dell’uomo contemporaneo che ha perduto, con le ideologie e il crollo del sistema bipolare, i referenti intellet­ tuali e i paradigmi scientifici di analisi. Esso possiede intatto il pro­ prio “potenziale biologico di sintesi”, ma non ha più le conoscenze necessarie a collegare i fatti e a identificare i nuovi simboli. Il “recipiente immutabile” della ragione cartesiana dovrebbe purtuttavia continuare a funzionare, anche nel corso di questa “catastro­ fe” intellettuale. Ma nella realtà non accade così. L’idea è più forte della ragione. Essa è radicata nel contesto del proprio arsenale di co­ noscenze e concetti, appresi oppure ereditati. La perdita del filo di Arianna che lo guida nel labirinto delle conoscenze “apprese” lo fa smarrire. Ed è per questo che deve ricorrere a dei surrogati basati sull’esperienza storica e/o culturale. Per queste ragioni di fatto il mutamento non è mai anticipato, né tantomeno percepito, dalle élites, e soprattutto dalle leadership indi­ viduali o organizzate, che vengono così prese alla sprovvista quando il cambiamento superficiale si trasforma in “catastrofe”3 e in rottura epocale, da un tempo all’altro, ruotando così l’asse del mondo dalla fase consolidata del dopoguerra a quella incerta dell’anteguerra. In effetti è proprio il contenuto “sacrale” delle ideologie - che è il luogo della loro forza - ad essere messo in discussione dal tempo, oltre che il loro carattere “misto”, di metodo d’analisi e di interpre­ tazione, spesso strumentale, della realtà e al tempo stesso di pro­ gramma d’azione politica per l’acquisizione e il mantenimento del potere4. Le ideologie del Novecento, che sono alla base delle tre guerre mondiali occorse fra il 1914 e il 1990, sono entrate nella storia degli uomini quasi contemporaneamente, allo stesso modo dell’ideologia della Rivoluzione Francese, che fu generata intellettualmente dall’Il­ luminismo e poi realizzata - a modo suo - da Napoleone5. Esse si 3. Thom, 1980, ed. it.; Rokkan, 1970, 1982, ed. it. 4. Baldwin, 1978; Barnes, 1988, 1995; Mann, 1986, 1993. 5. Venturi, 1970; Rousseau, 1971, 1982, ed. it.; D’Alembert e Diderot, 1966, ed. it.; Diderot, 1971, 1982, ed. it.; Adorno e Horkheimer, 1974, ed. it.

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sono presentate infatti come macro-utopie palingenetiche al cui ine­ vitabile destino erano sacralmente predestinati, sia i vincitori sia i vinti, sia in termini di classi e gruppi sociali, sia in termini di con­ trollo territoriale e di egemonia culturale6. In altre parole, le ideologie si sono rivelate per essere dei gigante­ schi addensamenti di energia proiettati nel futuro, e al tempo stesso delle cariche concentrate di potenza culturale, che hanno infranto le barriere del reale travolgendole con l’impatto violento di una mistica virtualità progettuale. Esse si sono imposte con la forza messianica dell’utopia razionale sulla rarefatta continuità della tradizione che, giorno dopo giorno, aveva costruito la propria consuetudinaria legit­ timazione sulla base dell’essere quotidiano, delle condizioni mate­ riali dello spazio, nonché sulla diacronicità della storia7. Ebbene, tutto questo delicato e resistente mondo stratificato della tradizione d’un tratto è scomparso, demolito come un castello di carte dall’irruzione delle ideologie omnicomprensive, anima e spiri­ to del loro tempo, prima nel 17898 e poi nel XX secolo9 fino ad oggi10. Ma tutto quello che sta accadendo oggi è assolutamente diverso da quanto era accaduto nel passato, anche recente. Per la prima volta in quasi cento anni, la caduta fragorosa di un’ideologia è avvenuta senza che ad essa se ne sostituisse ufficialmente un’altra. Anzi, par­ rebbe quasi che una costruzione ideologica e politica totalizzante co­ me il comuniSmo che aveva riempito la vita di centinaia di milioni di uomini, sia caduta da sé, senza una guerra combattuta e senza es­ sere stata immediatamente compensata, perlomeno intellettualmente, da una ideologia della stessa portata ed alternativa ad essa. Il mondo nel quale siamo stati abituati a vivere, fondato da almeno due secoli proprio sulla valuta ideologica, è così restato “orfano” della propria pseudo-legittimazione globale. Dovrebbe, in teoria, poter finalmente cominciare a ragionare da solo, sulla base delle proprie capacità di ordinamento e di territorializzazione, utilizzando a questo scopo i materiali a disposizione trat­ 6. Mosse, 1964; Nolte, 1987, 1988, ed. it.; Marx-Engels, 1845, 1972; Hitler, 1925; Lenin, 1914, 1975. 7. Bendix, 1978, 1980, ed. it. 8. Gaxotte, 1951; Furet, 1973, 1974. 9. Trotzky, 1960, 1964, ed. it. e 1967, ed. it.; Pipes, 1990, 1994. 10. Bracher, 1982, 1984, ed. it.; Derathé, 1950, 1988, 1993, ed. it.; Prodi, 1992, pp. 441 e sgg.; Rossi, 1956, 1971, pp. 365-391; Talmon, 1952, 1967, ed. it., pp. 726, 183-206, 277-304, 319-339; Lasch, 1991, 1992, ed. it., pp. 35-74; Serra, 1994, pp. 151 e sgg.

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ti dalla multiforme sedimentazione delle culture locali e spazialmen­ te diversificate. Ma le cose non stanno proprio così. La fine delle ar­ chitetture ideologiche, quelle immaginarie costruzioni erette dal mondo delle idee, sottratte al mutamento, quindi non definibili stori­ camente, ma invece generatrici di nuovi mondi utopistici costruiti su quei fondamenti, è stata un processo violento e spesso distruttivo che ha verniciato di sangue intere generazioni, ma che soprattutto ha intaccato le menti e i comportamenti di coloro che ne sono stati vit­ time o carnefici11. La fine del comuniSmo, quindi, così come era stato per il nazifa­ scismo, è anch’essa il risultato di una guerra perduta che ha semina­ to di cadaveri e distruzioni i territori su cui ha regnato. Con la se­ conda guerra mondiale è morto il fascismo, con la guerra fredda è morto il comuniSmo. Il principio che le “cose sensibili” partecipano o somigliano alle “idee” è infatti un vizio antico che risale a Parme­ nide e alla filosofia classica greca12. Ma in questo caso i risultati sono ben diversi. Le idee, così come le parole che le rappresentano, lasciano tracce profonde e durature e sedimenti interminabili, fatti della stessa pasta dei miti. Quando si esaurisce la loro capacità di dominio e di controllo, esse rivelano un grande “vuoto”, commisurabile alla dimensione e alla latitudine del “pieno” che fino ad allora esse avevano abusivamente colmato. La morte delle ideologie totalitarie, avvenuta a quasi mèzzo seco­ lo l’una dall’altra (il nazifascismo nel 1945 e il comuniSmo nel 1990), non ha però sgombrato del tutto il campo, né ha lasciato solo un vuoto da riempire, né ha cancellato del tutto la dimensione ideo­ logica del mondo. Esisteva infatti, accanto alle altre due, una terza ideologia, anch’essa globale che, dopo aver combattuto e vinto le sue guerre contro le prime due, ha oggi l’opportunità di rendersi egemone a livello mondiale. Si tratta dell’ideologia istituzionalista o liberaldemocratica, che è nata insieme all’Età Moderna, ma che solo nel Novecento si è dav­ vero contrapposta a quelle ora scomparse, e che oggi ha finito per rappresentare l’unico paradigma di riferimento rimasto. Per questo motivo il modello liberal-democratico è diventato universale. Tutti debbono accettarne la sua nuova versione dilagante, tesa a conqui­ stare, per irraggiamento, la spazio lasciato vuoto dalla morte delle due ideologie sconfitte13. 11. Courtois et al., 1997. 12. Parmenide, Entifore, 6 do', Platone, I, 1950, 1993. 13. Mearsheimer, 1994; Keohane e Martin, 1995.

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Il “poliedro ideologico” di Carlo Cattaneo e quella “istoria delle idee nei popoli”, iniziata da Gian Battista Vico e ripresa poi da He­ gel, sono i paradigmi concettuali alla base degli avventurosi percorsi ideologici del Novecento. Essi sono il tentativo di trasformare l’uo­ mo trasformando anzitutto il contesto dei rapporti sociali, economi­ ci, politici e giuridici in cui esso vive, razionalizzando e specializ­ zando la cultura e l’informazione, espungendo deliberatamente tutto ciò che non collima con il quadro di riferimento teorico da cui essa prende le mosse. Gli “Ideenkleid”, i vestiti ideologici, hanno dunque una funzione limitativa della ricchezza vitale del mondo proprio per­ ché ne vincolano la libertà creativa attraverso il giudizio, prima ma­ gistratura del pensiero. Queste considerazioni peraltro hanno un va­ lore generale, e sono quindi applicabili ad ogni sorta di ideologia o religione politica, ad ogni selezione concettuale, discriminatoria o predeterminata. La fine delle ideologie ottocentesche e novecentesche (sociali­ smo, comuniSmo, nazionalismo, fascismo, nazismo) ha ridato così forza nuova proprio alle vecchie “utopie” illuministiche settecente­ sche, liberate dall’equazione materialista engelsiana, tipica del pen­ siero socialista, evoluzionista e religioso al tempo stesso, fondate sullo schema teorico basato sul passaggio obbligato dall’“utopia alla scienza”. Gli utopisti attuali, infatti, a differenza degli “idéologues” settecenteschi, prefigurano mondi perfetti e astratti, sfere tolemaiche di cristallo, senza più bisogno di contatto e verifica nella realtà. Galleggiano così, sullo sfondo delle conferenze intemazionali, nella “neolingua” globalista (l’inglese povero e rudimentale delle or­ ganizzazioni intemazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite) i pro­ getti utopistici dell’Età dei Lumi, parto della fantasia di Monte­ squieu con i suoi Trogloditi, di Voltaire con il suo Eldorado, di Rousseau con i suoi Montagnons, e della società di Clärens nella “Nouvelle Héloïse”14. Questa rinnovata invenzione è diventata così la terza utopia nove­ centesca, fondata sulle idee del liberalismo istituzionale, direttamen­ te collegata a quell’ingenuo, e al tempo stesso scettico, mondo sette­ centesco degli Enciclopedisti, letterati e sapienti, educatori e mae­ stri, senza altro potere se non quello delle idee, operanti in contesti autoritari e disordinati sui quali era possibile favoleggiare, in manie­ ra garbata e disinvolta, facendo le mostre di essere in possesso di un 14. Rousseau, 1964, 1966, ed. it.; Venturi, 1970, 1975-1990. Vedi in particolare il voi. 4, t. 1, uscito nel 1984.

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disegno ordinato e democratico al quale riferirsi come progetto ra­ zionale (e impossibile) di razionalizzazione delle passioni. La traduzione di questi principi nell’età contemporanea è in parte avvenuta - e anzi per definizione dovrebbe in ogni caso avvenire attraverso la “teologia” più che la fondazione delle Istituzioni. Istitu­ zioni politiche all’interno dello Stato e traduzioni istituzionali all’esterno, che impersonano quelle idee nell’organizzazione della politica intemazionale15. Il rischio di queste “traduzioni” dall’astratto al concreto è molto elevato, anche perché - come scrive Mary Douglas - “ogni istituzio­ ne che vuole conservare la propria forma, deve venire legittimata da una fondazione specifica nella natura e nella ragione e su questa ba­ se trasmettere ai propri membri un insieme di analogie per esplorare il mondo”16. E questo il territorio delle “piccole utopie”, che segna il passaggio dall’“etica” aristotelica e hegeliana all’“etichetta”, quindi alla “mo­ da”. Dalla religione all’ etica laica, e poi a\V ideologia, il passo è sta­ to lungo, mentre dall’ideologia a\V etichetta, e finalmente alla moda, il percorso è stato agevole e la strada piana17. Il “modismo” globalista sostituisce oggi le ideologie precedenti che si erano ormai trasformate in “etichette”, vale a dire in procedu­ re di protocollo, in norme di buona creanza, in giaculatorie ripetute. Ma il “modismo” è, come sempre, una forma di continuismo ma­ scherato, ed è altresì il battistrada del conformismo, cioè dell’“ade­ guamento alla moda”. Le metafore di cui si compone il “modismo” internazionalista contemporaneo si basano su una costruzione retori­ ca del mondo che può essere paragonata ad una vera e propria “co­ smogonia”18. La diffuse teorie sull’“ordine intemazionale”, di cui le istituzioni dovrebbero essere l’inevitabile materializzazione, sono tutte basate sugli stessi procedimenti del “modismo” di cui parlava trent’anni fa Roland Barthes. I principi e le nozioni, i codici di comportamento e le procedure, nonché le regole scritte (e non scritte) rovesciano la 15. Vedi ancora Mearsheimer, 1994; Keohane e Martin, 1995, cit.; Carlsson, 1995. 16. Douglas, 1986,1990, ed. it, p. 168. 17. Nietzsche, 1887, 1993, ed. it, pp. 581-603; Rohls, 1991, 1995, ed. it. 18. Sul significato interno di “cosmogonia” si rimanda ai classici, da Esiodo, 1984, 1994, che identifica Cosmogonia e Teogonia, a Plinio, 1982, che la rappre­ senta come un dato, ovvero come un “ordine” supremo definendola cosmologia, pp. 215 sgg.

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realtà inducendo un “sistema” della moda, ovvero “un insieme di oggetti e situazioni legate fra loro, non già secondo la logica degli usi e dei segni, ma per vincoli di tutt’altro ordine, che sono quelle della recita (e del teatro)”19. In altre parole l’invenzione di una teoria politica intemazionale come quella globalista, produce, attraverso la diffusione retorica, la propaganda e l’autoconvincimento, la sua stessa dimostrazione me­ diante la metafora “ordinista” e la paratassi rafforzativa. Si tratta di figure retoriche che hanno la funzione, nel primo caso, quello della “metafora”, di diffondere la convinzione dell’attualità mondana - si potrebbe dire - del progetto “ordinista”, e quindi del suo significato creativo, mentre si tratta di trasformare una unità se­ mantica usuale, che spesso rinvia ad uno stereotipo rassicurante (1’“ordine” e 1’“equilibrio” sono concetti giudicati più accettabili di “discordia” e di “squilibrio”), in una contingenza apparentemente originale (il “governo mondiale” delle Nazioni Unite, ovvero “l’Unità Europea”). Nel secondo caso, invece, la “paratassi” estende il potere della metafora sviluppando, a partire da situazioni e oggetti discontinui, ciò che si può definire un’“atmosfera”. Nel nostro tipo di analisi l’atmosfera è data dalla componente pseudoemotiva che richiama concetti diversi e incompatibili fra loro (come “Federazione” e “Unità”, oppure “Patria” e “Cittadinanza Europea”, e ancora come “Eguaglianza” e “Multinazionalità”)20. La metafora dell’“orologio”, per intendere un ordine automatico che basta caricare regolarmente perché poi funzioni da sé, si accop­ pia bene, nella tradizione politica moderna dell’occidente, a quella della “bilancia”, simbolo dei meccanismi anch’essi automatici, di re­ troazione e feedback, che garantivano la tenuta del sistema dell’Equilibrio21. Il sistema intemazionale, che nasce da questo intreccio fra “orolo­ gio” e “bilancia”, è il fondamento del conflitto permanente fra “li­ bertà” e “autorità”, ma è anche il prodotto della cultura politica mo­ derna dell’occidente. Questa cultura politica e ideologica ha conti­ li Barthes, 1967, p. 250. 20. Vedasi sulla questione dell“identità”, e dell’“identità nazionale” in particola­ re, il saggio di Dittmer e Kim, 1993, pp. 1-31, ma anche il libro di Billig, 1995. 21. Omagni in Mayr, 1986, 1988, ed. it, pp. 9 e sgg., ma anche pp. 213 e sgg. e 275 e sgg. Ordine ed Equilibrio sono i due termini estremi del continuum fra diver­ se forme di stabilità. La fine del sistema dell’Equilibrio di Potenza europeo, garante della stabilità intemazionale, ha indotto la scelta alternativa dell’Ordine.

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imamente bisogno di legittimazione e a questo fine è costretta a “ve­ stire il mondo” (invece di spogliarlo) dei suoi buoni sentimenti per capirne o rimuoverne i cattivi comportamenti. Le Nazioni Unite di­ ventano, quindi, l’abito invisible dell’imperatore così come l’Unione Europea, che può trasformarsi gradualmente da colonia degli Stati Uniti sul territorio di Eurasia, in basamento e trampolino di lancio per una nuova Germania unificata nel suo rapporto con l’Oriente22, diventa il modello universale dell’ordine normativo e istituzionale. Per ottenere questo risultato l’utopia liberaldemocratica si è dota­ ta di strumenti complessi, apparentemente neutrali, come l’intelaia­ tura istituzionale delle grandi organizzazioni intemazionali (Nazioni Unite, Unione Europea), la cui credibilità ed efficienza sono però li­ mitate, perché questo approccio razionalista alla politica restringe il proprio livello di controllo rispetto alla tradizione autoritaria e nor­ malizzante degli imperi, senza pretendere quindi quell’omologazio­ ne obbligata delle scienze, dei simboli, e dei comportamenti che era tipica delle ideologie assolutiste e totalitarie. Le istituzioni intemazionali, politiche, economiche, della sicurez­ za, e altre, sono quindi un tentativo, tutto sommato poco riuscito, di indurre l’interiorizzazione della norma, ovvero la sua generalizza­ zione a tutti gli individui, e poi agli stessi stati che, pur essendo dei soggetti giuridici “artificiali”, sono tanto complessi e sofisticati da apparire (organicisticamente) quasi “naturali”23. “A questo punto - sottolinea la Douglas - ogni istituzione inizia a controllare la memoria dei suoi membri; fa loro dimenticare le espe­ rienze incompatibili con la propria immagine virtuosa e fa loro ri­ cordare una serie di eventi che confermano la visione della natura che le è propria”24. In altri termini le istituzioni si sovrappongono alla realtà come delle macchine omologanti e respingono ai margini, fino a crimina­ lizzarle, le idee pregresse e perfino i mondi del passato, come, nel caso recente, quello delle identità nazionali o etniche. Nuove catego­ rie di pensiero sostituiscono quelle precedenti, fissano i “confini dell’autoconoscenza” e definiscono le identità25. “Ma tutto ciò non basta. L’istituzione deve altresì garantire l’edi­ fìcio sociale sacralizzando i principi della giustizia”26. Nelle relazio­ 22. Burleigh, 1988. 23. Weber, 1922, 1974, ed. it. 24. Douglas, 1986, 1990, ed. it., p. 169. 25. Smith A.D., 1986, 1991. 26. Douglas, cit.

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ni intemazionali questa “piccola utopia” si è trasformata nella ipo­ crisia della logica “ordinista” e nella ineluttabile teoria della “demo­ crazia intemazionale”27. La relativa “tolleranza”, che è propria del modello liberaldemocratico, dipende infatti essenzialmente dalla fisiologica e culturale incapacità di ammissione, da parte del “leader di blocco”28 (gli Stati Uniti), che un’“egemonia” conquistata sul campo possa (o debba) gradualmente trasformarsi in “dominium”, se non addirittura in “im­ perium”. I tre concetti di “egemonia”, “dominium” e “imperium” sono in­ fatti tutti sinonimi del concetto di “potere”29 ma hanno un’origine che è diversa per ciascuno di loro. In particolare gli ultimi due deno­ tano, nel diritto romano, la differenza fra le due principali forme di potere. Il dominium connota la proprietà delle cose (o della terra) mentre 1’ imperium rappresenta il potere di comando militare o di governo su cose e persone. Su questa differenza, è necessario riflettere un momento. Il domi­ nium, in effetti, sottolinea una forma di potere che è tipica del diritto privato, mentre 1’ imperium indica la forza dello Stato ed è caratteri­ stica del diritto pubblico30. In effetti sono due forme della politica che attengono a sfere di­ verse e che nel diritto interno dei paesi “occidentali” sono nettamen­ te distinte e separate, mentre nei paesi “orientali” sono tradizional­ mente sovrapposte, e spesso intercambiabili, come è il caso degli Stati a regime comunista, che prendono le mosse dalle più antiche forme dello “Stato Patrimoniale”31. Qualcosa di simile potrebbe ac­ cadere anche oggi nelle forme nuove che sta assumendo il sistema intemazionale che, secondo la filosofia delle istituzioni, individua delle fattispecie che si riferiscono ad entrambe le modalità di acqui­ sizione e organizzazione del potere, sia quella del dominium che quella dell’imperium. Quanto al concetto di “egemonia”, la relazione di questo termine con quelli di dominium e di imperium può essere descritta in due modi diversi: a) sia come immagine diminuita ed indistinta tanto del dominium quanto dell’imperium, una forma cioè di influenza indi­ retta ma efficace; oppure: b) sia come categoria analitica a sé, dotata 27. Bonanate, 1994; Huntington, 1991, 1993, ed. it., pp. 27 e sgg. 28. Santoro, 1988. 29. Barnes, 1988, 1995, ed. it. 30. Schmitt, 1932, 1972, ed. it., p. 102, n. 1. 31. Pipes, 1974, 1994.

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di caratteristiche precise, secondo la lezione gramsciana dello stesso concetto32. Tuttavia il progetto dell’“egemonia ordinista” è molto complesso e irto di ostacoli che ne rendono piuttosto improbabile l’attuazione. Non lo rende facile anzitutto quel tipo di ideologia, che è soft per definizione, né le “forze” disponibili e le risorse (i cosiddetti Natio­ nal Attributes33), né lo permette la volontà e la determinazione poli­ tica, travestita ora da “interesse nazionale” ora da “missione” soste­ nuta dal consenso dell’opinione pubblica, che deve essere rinnovata e legittimata in ogni occasione, con risultati incerti e provvisori. Ne deriva che la formula dell’ordine intemazionale alla fine risulta es­ sere solo parzialmente funzionale alla conservazione (e all’estensio­ ne) della sua stessa capacità egemonica. In effetti, il limite di diffusione di tutte le forme egemoniche d’ir­ raggiamento intemazionale, vale a dire di tutte le forme imperiali “indirette”34, sta proprio nel tentativo di esercitare il dominio in mo­ do surrettizio, cioè trasformando il proprio modo di vivere e il pro­ prio bagaglio concettuale e culturale in modello esportabile a tutti gli altri, senza vincoli ed obblighi ma solo per spinta imitativa naturale. Sono così nate in diverse parti del mondo quelle caricature della democrazia americana e/o occidentale che si scontrano con una realtà sociale e culturale ad essa incompatibile. Si sono create quelle architetture istituzionali posticce che nascondono delle realtà ben di­ verse e spesso del tutto opposte rispetto alle apparenze e alle dichia­ razioni ufficiali. Il vincolo dell’egemonia imperiale indiretta, basata sui principi li­ berali, risiede infatti all’interno deh concetto stesso di democrazia. Se si volesse davvero rispettare la volontà dei cittadini, si dovrebbe­ ro rispettare anche le forme proprie di organizzazione politica che sono il prodotto della storia culturale degli altri popoli, anche nel ca­ so in cui si trattasse di forme plebiscitarie, o maggioritarie, non ispi­ rate ai canoni delle democrazie occidentali35. Nel caso in cui, inve­ ce, non si volesse tener conto delle caratteristiche nazionali ed etni­ che dei popoli si rifiuterebbe il relativismo culturale per abbracciare la strada dell’inposizione autoritaria della democrazia nelle forme degli imperi coloniali europei del passato. 32. Gramsci, 1967. 33. Vedi Stoll e Ward (a cura di), 1989, sugli indici di misurazione del poterepotenza, pp. 11-98. 34. Doyle, 1986. 35. Huntington, 1993, 1995, ed. it., pp. 25-54.

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La definizione di “democrazia” in senso classico e moderno è in­ fatti assai controversa36. Se adoperiamo la recente formula di Hun­ tington secondo il quale “la democrazia può essere definita come fonte di autorità per i governi come fine ultimo perseguito e servito dai governi stessi e come procedura di base per l’istituzione dei go­ verni”37 ci troviamo di fronte ad una dizione ragionevolmente neu­ trale, all’interno della quale possono rientrare tutte le democrazie apparenti del mondo autoritario. Elezioni truccate, organi eterodiretti ma formalmente eletti, ecc., sono infatti gli attrezzi quotidiani delle dittature travestite da democrazie. Se invece risaliamo alla definizione di Schumpeter38 secondo cui “il metodo democratico consiste in una configurazione istituzionale tesa al conseguimento di decisioni politiche, nella quale gli individui acquisiscono il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare”, allora siamo di fronte ad una interpretazione “procedurale” della democrazia che esclude la concezione della de­ mocrazia “come valore originario”, in quanto volontà popolare, e come “fine ultimo”, cioè come bene comune, e per ciò stesso la spo­ glia della sua esportabile assolutezza. Il modello più antico, in questo contesto, è fornito dalla democra­ zia “imperiale” ateniese del V secolo a.C., che s’imponeva per il “differenziale” di sviluppo, e quindi di “appeal”, che Atene esercita­ va rispetto alle altre città della Grecia39. Nei fatti, però, questa ambizione autolegittimata, in quanto giudi­ cata “naturale”, all’egemonia regionale o mondiale, è stata sempre contrastata dalla persistenza di fattori indigeribili, la cui presenza contraddiceva la linearità e la razionalità del processo di omologa­ zione ideologica, sintetizzabile in una serie di motivazioni geografi­ che, storiche e culturali. Si pensi, per fare un esempio attuale, alla contraddizione rispetto al modello globalista che esiste nella tendenziale formazione, oggi in corso, di almeno quattro “Trade Zones”40, ovvero di grandi aree regionali di interscambio in cui si sta, naturalmente e artificialmente, dividendo il pianeta, le quali determineranno probabilmente la geoe­ conomia commerciale del futuro sul mercato mondiale, smentendo 36. Carothers, 1997; Talmon, 1952, 1967, ed. it. 37. Ibidem, p. 28. 38. Schumpeter, 1942, pp. 269. 39. Tucidide, 1984; Senofonte, 1978; Platone, 1993. 40. Vedi le dichiarazioni, più volte espresse, da Renato Ruggiero che, come Di­ rettore Generale della World Trade Organization, è il più indicato a sostenerle.

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per questa via l’eterno miraggio del mercato unico41. Tale orienta­ mento prelude alla constatazione dei limiti oggettivi perfino di quel­ la “transnazionalità” economica, fin qui giudicata come irreversibile, e quindi dell’impossibilità di realizzare il mito geoeconomico del mondo governato dai flussi della “finanziarizzazione”, ovvero dal Sistema delle Multinational Corporations42 il cui controllo globale è perlomeno improbabile. Si potrebbe anzi azzardare che il trend in questo campo è diretto piuttosto alla formazione di aree protette (alla Friedrich List)43, de­ stinate a gettare le basi di possibili guerre tariffarie e commerciali nel medio futuro44, che non alla ottimistica “globalizzazione” gene­ rale dell’economia mondiale45. Lo stesso potrebbe dirsi per l’altro grande obiettivo dell’ideologia liberaldemocratica e istituzionalista, quello che si fonda sull’utopia dell’eliminazione dei conflitti e sulla necessità di modificare le rego­ le delle relazioni intemazionali, trasformando le guerre in operazioni di gendarmeria (Società delle Nazioni e Nazioni Unite) e il mondo intero in una grande democrazia pacifica e protetta46. Il terzo segmento di questa illusione è quello, più radicale, che confida nella possibile e definitiva omologazione di nazioni, razze ed etnie all’interno del calderone dell’unificazione culturale e antro­ pologica. Le differenze resterebbero solo per garantire, con il “mul­ ticulturalismo”, uno spettacolo variopinto senza salvaguardia reale delle diversità creative e delle autonomie47. Date le coordinate del contesto, il processo di liquidazione delle ideologie, quindi, fintanto che non verrà apertamente riconosciuta anche la valenza “ideologica” delle teorie liberaldemocratiche e istituzionaliste, e non solo il connotato “naturale” di esse48, non sarà af­ fatto concluso. Si tratterà di attraversare una lunga fase di transizio­ ne, forse dolorosa, con ritorni di fiamma brevi e violenti. Tuttavia la fine delle ideologie, mentre da un lato acquista il significato di una irreversibile vicenda, certamente liberatoria, dall’altro lato è un per­ 41. Polanyi, 1944, 1974, ed. it. 42. Jean e Savona (a cura di), 1995; Luttwak, Pelanda, Tremonti, 1995; Luttwak, 1993, 1994, ed. it.; Wallerstein, 1974. 43. List, 1972, ed. it. 44. Vedi i 4 modelli di “Nuovi Poli Geopolitici” in Santoro, 1997, che stanno gradualmente sostituendo il mondo bipolare e implicitamente negando il disegno globalista. 45. Wallerstein, 1974, 1978, 1982, 1995, ed. it.; Rodrik, 1997; Copeland, 1996. 46. Bonanate, 1994; Mansfield e Snlder, 1995; Layne, 1994. 47. Huntington, 1996b. 48. Fukuyama, 1992.

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corso che può far smarrire il senso di sé perché sottrae la sicurezza fornita dalla persistenza delle griglie di protezione, politica e psico­ logica, che erano state assicurate, per tutto il secolo, dalla gabbia' “realista” del sistema dell’Equilibrio di Potenza europeo, basato sull’interazione conflittuale fra le tre ideologie (comuniSmo, fasci­ smo, democrazia), e, dopo il 1945, da quello Bipolare, che si fonda­ va sulle due ideologie residuali comuniSmo e liberal-democrazia. Ciò comporta la rinascita di forti sollecitazioni a favore delle di­ verse ipotesi di restaurazione che spesso richiamano in vita i fanta­ smi evocati dai gas di putrefazione dei cadaveri delle ideologie, co­ me accade oggi nell’ex impero comunista e in alcuni paesi dell’Eu­ ropa occidentale, ovvero attraverso l’ostinazione a non voler modifi­ care i propri parametri di percezione, riproponendo vecchi schemi di rappresentazione della realtà e un consunto lessico internazionalisti­ co, come accade ancora oggi in Occidente49. Di qui l’attonito “stupore” con cui è stato accolto il crollo del si­ stema intemazionale bipolare che ha rivelato quanto distante fosse la dinamica del reale rispetto al paradigma interpretativo dominante. Il “modello” della guerra fredda incarnava, infatti, una lettura del mondo e delle sue regole che, volutamente, tendeva a mettere in ombra le differenze per valorizzare le affinità, e perfino le ugua­ glianze, come conseguenza logica discendente da un inarrestabile processo di omologazione. Era questo il “punto di vista”50 da cui prendeva le mosse quella lettura ideologica del mondo secondo cui il trend delle relazioni in­ temazionali, invece di essere ciclicamente ricorrente51, sostiene la natura “evoluzionista” e “ordinista” della storia, e quindi anche del sistema intemazionale, accentuando l’unicità irreversibile della fase di “concentrazione” della potenza intemazionale, riducendo e sfron­ dando le diversità e le differenze, in nome della lotta alla “frammen­ tazione” (ovvero alla “diffusione” di potenza) da esorcizzare come antistoria o come primitivismo politico e culturale, per il “disordine” implicito che da questo processo potrebbe derivare52. 49. Si pensi alla “lingua franca” in vigore negli ambulacri delle Nazioni Unite, nei documenti dell’unione Europea, o alla letteratura scientifica delle Relazioni In­ temazionali, per accertarsi della siderale distanza che esiste fra i fatti e la loro para­ digmatica rappresentazione. Per una verifica in dettaglio si rimanda ai Programmi delle “Annual Conferences” dell’ International Studies Association (Isa) ovvero a quelli triennali dell’“International Politicai Science Association” (Ipsa), a partire dalla fine degli anni Ottanta. 50. Weber, 1922, 1974, ed. it„ pp. 72, 83-84, 97. 51. Goldstein, 1988; Modelski & Thompson, 1988; Fischer, 1996. 52. Santoro, 1995e.

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Di qui l’improvviso e imprevisto scricchiolio del sistema intema­ zionale, la sua fragorosa rovina con il collasso del polo sovietico, e soprattutto l’evidente disidratazione culturale e l’impotenza euristica delle più accreditate ideologie “ordiniste”. Il mondo delle idee “universali” e dei sistemi “globali”, basati sulla estensione applicativa delle filosofie politiche “intorbidite dalla filosofia popolare e dalla lotta ideologica”53, fondate sulla teoria economica e, per converso, su quella istituzionale e normativa di de­ rivazione illuministica prima e poi ottocentesca, ha improvvisamente rivelato la sua minacciosa incapacità a spiegare e rileggere gli eventi che avevano tracimato al di sopra della griglia ideologica e istituzio­ nale costruita nel Novecento per ingabbiarli e addomesticarli54. Si sono così destrutturati, per primi, i sistemi politici ed ideologi­ ci che più degli altri avevano risentito di questa cultura dell’omoge­ neità, a partire da quelli dell’utopia comunista (Unione Sovietica, Jugoslavia), dell’Ordine Nuovo nazista, fino a quelli, tuttora in vita, della “teologia” istituzionale e federalista classica (Nazioni Unite, Unione Europea, ecc.). “Si potrebbe dire all’ingrosso - scriveva Emst Jünger, già nel 1943 - che il diciannovesimo secolo fu un secolo razionale e il ven­ tesimo è il secolo dei culti”55, intendendo per culti quella sfera delle ideologie la cui oscura mistica traspare dietro le apparenti verità del­ la ragione. È stata, in altri termini, la vittoria delle “profezie”56 prefigurate ri­ spetto all’analisi libera della realtà quella che ha prevalso nel Nove­ cento, giungendo a mascherare dopo il fallimento del fascismo e del comuniSmo, sotto le specie del pensiero liberaldemocratico, un cru­ dele quanto banale totalitarismo ideologico che ha cercato di rinchiu­ dere nella gabbia istituzionale delle organizzazioni la libertà di ricer­ ca e di azione degli uomini, e la spontaneità dell’autodisciplina che deriva dalla consapevolezza delle radici, sia storiche che culturali. Ma anche le consolidate identità nazionali o imperiali, sopravvis­ sute alla tempesta del Novecento, come quella statunitense o cinese, quella giapponese o franco-inglese, stanno ora risentendo della crisi del “modello” globalista, e soprattutto della sua perdita di “senso”, vale a dire della frantumazione di criteri convincenti e credibili di analisi e di interpretazione dei fatti. 53. 54. 55. 56.

Venturi, 1970, p. 10; Wolin, 1960, 1996, ed. it„ pp. 511-640. Wallerstein, 1974; Bonanate, 1994, pp. 198 e sgg.; Kaufman, !997. Juenger, 1955, 1983, ed. it. Spengler, 1918-1922, 1957, ed. it., vol. 1, pp. 57 e sgg.

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Ed è per questa ragione che le organizzazioni umane più struttura­ te, nel tempo o nello spazio (o in entrambi), tendono oggi a recupe­ rare acriticamente strumenti analitici già presenti al proprio interno, come è il caso della dissepolta diade concettuale tra “identità nazio­ nale” e “interesse nazionale”, senza sottoporli però al vaglio della revisione critica e dell’analisi storica necessaria per il loro utilizzo nel mondo contemporaneo57. Di qui la rinascita di fenomeni consi­ derati scomparsi, o in via di sparizione, come è il caso del “naziona­ lismo”, e poi dell’“etnicismo”, vale a dire la resurrezione politica dei valori culturali profondi, dal territorialismo alla mito-simbologia dei gruppi e dei popoli58. Che questi temi e soggetti culturali, oggi di nuovo posti al centro dell’attenzione, anche scientifica, degli studi intemazionali, fossero sempre stati presenti, sia pure in posizione defilata rispetto alla cen­ tralità delle motivazioni ideologiche e istituzionali che tenevano il campo in tempo di ideologie, è un dato certo e dimostrabile. E che, anzi, questi filoni di ricerca rappresentassero un momento ineliminabile della conoscenza, perfino di tipo antropologico, è pro­ vato dall’uso che di essi è stato fatto nella letteratura politica ed eco­ nomica del secondo dopoguerra, relativamente ai processi di eman­ cipazione e di sviluppo dei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”59. Questi attori, infatti, obbligati a trovare un’identità nazionale artifi­ ciosa dopo l’esperienza coloniale, si vedevano costretti a valorizza­ re, e talvolta a inventare, proprio quelle esperienze nazionali ed etni­ che (vere o presunte che fossero) assunte a modelli di sviluppo poli­ tico60, che venivano così illuminati per definizione da una valenza morale e da una legittimità superiore rispetto al tendenziale processo di omologazione e di appiattimento culturale introdotto dalla “seco­ larizzazione”, dalla “modernizzazione”61 e dall’“imperialismo”62 eu­ ropeo o americano, in altre parole “occidentale”63. La doppia verità secondo la quale le lotte di “liberazione naziona­ le”, oppure quelle di “difesa etnica”, sono sempre state valutate 57. Bibo, 1946; Dittmer e Kim, 1993. 58. Smith, 1986; Breuilly, 1985, 1995, ed. it.; Kellas, 1991, 1993; Hobsbawn, 1991; Gellner, 1983; Sternhell, 1978, 1983, e bibliografìa sul nazionalismo in Sny­ der, 1990. 59. Gurr & Harff, 1994. 60. Vedi letteratura sulla teoria dello “Sviluppo politico” e sulla correlazione fra questo e il “nazionalismo” in Huntington, 1968; Santoro (a cura di), 1995d. 61. Polanyi, 1944, 1974, ed. it.; ecc. 62. Hobson, 1903, 1972, ed. it.; Lenin, 1916; Luxemburg, 1975; Hilferding, 1910; ecc. 63. Barratt Brown, 1974; ma anche Pannikar, 1958; Borsa, 1977.

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dall’intellettualità liberal-radicale e marxista occidentale come azio­ ni legittime e perfino come guerre giustificate, purché avvenissero al di fuori della componente territoriale euroatlantica, mentre venivano ripudiate se nascevano all’interno, consiste nella riproposizione, al­ largata a comprendere gli Stati Uniti, del vecchio “jus publicum europaeum” di cui scrisse Cari Schmitt in Der Nomos der ErdeM. In altri termini, nel mezzo secolo del secondo dopoguerra è stata demonizzata ogni forma di nazionalismo e di etnicismo, quando es­ so si manifestava nel mondo occidentale, quasi si trattasse di un “al­ tro da sé” da espungere, mentre si approvavano, e anzi si favoriva­ no, gli stessi fenomeni se erano localizzati nel “Terzo Mondo”, in quanto diretti a “liberarsi” dal giogo imperialistico di matrice occi­ dentale. Questo approccio, che ha trovato la sua formula messianica e ineluttabile nella figura retorica sintetizzata dalla frase “Il Vietnam vincerà”64 65, nascondeva un sottile metro razzistico di svalutazione dello sviluppo politico e culturale dei paesi del Terzo Mondo, asse­ gnando così ai popoli sottosviluppati un rango oggettivamente infe­ riore, tale da giustificarne la violenza politica nazionalista, proprio in nome del loro “primitivismo”, mentre negava ai popoli sviluppati il diritto allo stesso comportamento. Questa divaricazione logica, basata esclusivamente su una gerar­ chia di valori fondata sulla distanza spaziale, è ancora presente nella coscienza collettiva dell’occidente, come dimostra l’imbarazzo, se non l’ostilità, con cui è stato trattato per decenni dagli alleati europei e americano il “nazionalismo” francese del Generale De Gaulle66, fin dagli inizi del dopoguerra, e che ancora oggi si manifesta nella evi­ dente disparità di trattamento fra la Francia e la Repubblica Popolare Cinese, relativamente alla serie di esperimenti nucleari sotterranei compiuti da entrambe queste Potenze nel corso del 1995 e del 1996. Ne fa fede, inoltre, il vano ma frequente tentativo di forzare la lo­ gica attribuendo ai paesi del mondo ex-coloniale, generalmente retti da regimi politici autoritari, una sorta di “indulto” politico intema­ zionale che ha trovato espressione nell’altra infelice formula, detta della “democrazia degli altri”, con cui si sono connotate, per poi ac­ cettarle in un’orgia di relativismo culturale, le dittature più lontane dalla democrazia occidentale, a cominciare da quella vietnamita, cu­ bana, cinese, jugoslava, ecc.67. 64. Schmitt, 1950, 1992 e poi Nolte, 1987, 1988, ed. it. e 1995; Portinaro, 1982. 65. Collotti Pischel (a cura di), 1968. 66. De Gaulle, 1970. 67. Collotti Pischel (a cura di), 1997. Si veda il volume di Hollander, Pellegrini politici, Bologna, Il Mulino.

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Sulla base di queste considerazioni preliminari si può quindi dire che dietro i processi di globalizzazione e di omologazione delle dif­ ferenze che hanno caratterizzato il Ventesimo Secolo (il secolo delle ideologie), resiste tenacemente la radicata consapevolezza da parte dell’occidente, che è stato anche l’unico inventore dei sistemi ideo­ logici che hanno dominato il Novecento, che lo spazio occidentale e sviluppato costituisca, nonostante tutto, il “primum” concettuale e che l’unificazione del modello dei rapporti intemazionali, nonché la diffusione delle sue idee cardinali, costituiscano un package cultura­ le e tecnico “brevettato” da imporre agli altri, con le buone o con le cattive, piuttosto che un democratico amalgama di dottrine e fedi tratte dalle diverse aree del mondo. In effetti l’equivoco costante che esiste ancora oggi nel dibattito fra “democrazia” e “autoritarismo”, e che ha connotato la storia e la filosofia della politica nel corso del Novecento, è stato proprio quel­ lo relativo ai caratteri specifici e alle particolarità della democrazia, sia di quella interna sia di quella intemazionale68. Già Hans Kelsen rilevava, fin dal 1929, che in quel tipo di dibat­ tito si manifestava “un indebito eccessivo apprezzamento della for­ ma a spese del contenuto nel fatto che le discussioni politiche verto­ no quasi sempre sull’alternativa democrazia o autocrazia”69. Ed è stata proprio una questione di “forma” quella che ha, nel corso del secolo XX, annullato ogni contrapposizione fra democra­ zia e autocrazia trasferendo aH’intemo dell’unico lemma legittimato, quello di “democrazia” entrambi i concetti, lasciando intatte le diffe­ renze di sostanza dietro l’identità verbale70. Non a caso i principali progetti istituzionali di questo secolo, da quello della Società delle Nazioni alle Nazioni Unite, si sono essen­ zialmente basati sull’esportazione del modello politico americano, al punto da assegnare, per traslazione automatica71 e in nome di una pre­ sunta “democrazia intemazionale”, da un lato la “collezione” di valori presente nella Costituzione degli Stati Uniti al sistema di governo po­ litico dell’organizzazione intemazionale, mentre dall’altro lato veniva mutuata dalla filosofia giuridico-economica delle Società per Azioni, la ripartizione delle quote di potere nelle istituzioni specializzate, co­ me il Fondo Monetario Intemazionale e la Banca Mondiale72. 68. 69. 70. 71. 72.

Lijphart, 1984, 1988, ed. it. Kelsen, 1929, 1955, ed. it., pp. 137 e sgg. Sartori, 1957. Huntington, 1981. Russell, 1958, 1968; Chandler Jr. Alfred, 1990.

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Questa riproduzione quasi meccanica della formula politico-istitu­ zionale statunitense è così radicata nella cultura politica della classe politica americana che si è tradotta negli anni Settanta, quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite era dominata da attori nazionali e gruppi di paesi del Terzo Mondo poco controllabili e molto militanti, in un progetto di riforma dello Statuto delle Nazioni Unite (the Char­ ter), proposto da Richard Gardner, a quel tempo esponente democrati­ co dell’Amministrazione Carter, che cercò, senza successo, di modifi­ care la regola “one State one Vote” trasferendo il meccanismo “azio­ nario” per quote di votazione vigente nel Fondo Monetario Intema­ zionale alle procedure di voto dell’Assemblea Generale dell’Onu73. Tale attenzione residuale alle questioni delle “differenze”, e quin­ di delle “identità”, rispetto ai processi di globalizzazione istituziona­ le ed economica in atto nel secondo dopoguerra, aveva quindi anch’essa una matrice ideologica o, nel migliore dei casi, una deriva­ zione antropologica, spazialmente e culturalmente determinata74. Consisteva infatti nella rappresentazione della “differenza” etnica o razziale rispetto all’occidente, in nome della comune appartenen­ za ad una “globalità” alternativa, quella della “unità” dei paesi del Terzo Mondo nelle varie forme dei “Paesi Non-Allineati”, dell’unità “Tricontinentale”, della “Unctad”, ovvero del “New International Economie Order” o, finalmente, del programma ideologico totale delle “campagne contro le città” del mondo75. Il valore di acquisizione della differenza etnica, linguistica, reli­ giosa, nazionale, in quella chiave ideologica, servì così ad alimenta­ re la crescita e il consolidamento formali del “mito originario” di stati-nazione costituiti sulla base delle differenze amministrative alla fine degli imperi coloniali europei, privi quindi di ogni sorta di le­ gittimazione e giustificazione storico-culturale. I differenziali geoculturali e storico-antropologici ebbero, quindi, una funzione del tutto sussidiaria rispetto a quella ideologica, ma non in contrasto con questa, alimentando anzi, nella gran parte dei casi, la falsificazione ideologica delle realtà etniche e nazionali pro­ dotte dalle divisioni amministrative delle ex potenze coloniali, so­ vrapponendo ad esse una sequenza di false identità e di falsi miti co­ stitutivi76. 73. Gardner, 1976, in Santoro (a cura di), 1978. 74. Pauly e Reich, 1997. 75. Si veda la ridondante letteratura sul “terzomondismo”. Vedi anche Lin Piao, ecc. 76. Smith, 1986, 1994.

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La resurrezione di questi fermenti politici, e quindi la necessità di adottare nuovi criteri analitici in Occidente, come sono appunto quelli relativi al nazionalismo, all’etnicismo o al territorialismo, si è così imposta da sola a partire dallo smembramento dell’Unione So­ vietica e, più sanguinosamente, con il disfacimento violento della Jugoslavia77. Si è trattato però di un fenomeno complesso che non può essere riguardato solo come l’affioramento alla superficie di un fiume sot­ terraneo, ovvero come la rinnovata presenza politica di un tessuto culturale che aveva difeso, silenziosamente, l’integrità di una parte del suo disegno dalla fornace eguagliatrice delle rivoluzioni ideolo­ giche “universaliste” del Novecento. In altri termini, non siamo difronte alla riproposizione di un qua­ dro politico e culturale della stessa natura di quelli del passato, e in particolare della prima metà di questo secolo, quando questi movi­ menti e sentimenti erano il prodotto immediato di culture e geostorie dotate di caratteri, obiettivi, problemi e procedure specifiche, stori­ camente determinate78. Si tratta infatti di “forme”79 e strumenti politici nuovi, il cui uso, nella dinamica delle relazioni interne ed esterne ai diversi sistemi, è particolarmente difficile e dà facilmente luogo ad errori di sottovalu­ tazione, ovvero di sopravvalutazione. Queste nuove categorie anali­ tiche della politica rappresentano, in molti casi, non già un ritorno indietro, bensì un passo avanti, nella definizione dei punti di riferi­ mento dello “sviluppo politico”80 e del “nation-building”81, vale a dire della differenziazione e della crescita delle funzioni complesse di governo. Il “nazionalismo” e le diverse varietà deH’“etnicismo” potrebbero, in altre parole, essere letti come “forma” trasversale dell’azione po­ litica che attraversa il confine fra “interno” ed “esterno”, modifican­ do regole e comportamenti, sia della politica interna degli attori, sia della politica intemazionale intesa come sistema82. Riaffiora - come 77. Santoro, 1996. 78. Segré, 1994, pp. 19-48; Sontheimer, 1978, 1992; Herf, 1984, 1988, pp. 27-42. 79. Per il concetto di “forma” (Gestalt) si rinvia a Jünger, 1932, 1991, ed. it., pp. 31 e sgg. 80. Huntington, 1981, nonché la letteratura sullo “sviluppo politico”, da Pye agli autori del volume curato da Huntington, 1968. 81. Rokkan, 1970, 1982, ed. it.; Tilly, 1975, 1985. 82. Scriveva Jünger, 1932, cit., che “nel segno della forma la regola non distin­ gue fra causa e effetto, bensì tra sigillo e impronta” (p. 31). In un certo senso la vi­ sione letteraria di Jünger sulla relazione fra “dominio” e “forma”, tra Herrschaft e

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abbiamo già detto - la necessità di identificare nuovi “paradigmi” analitici83 che sostituiscano quelli ormai consunti delle grandi ideo­ logie globalste del secolo XX, dal comuniSmo al fascismo all’istitu­ zionalismo democratico e normativo. In effetti la costruzione di un “paradigma” scientifico non è che la conseguenza di una “crisi”, una risposta che si tenta di fornire quan­ do le risposte della “scienza normale”84 diventano inutilizzabili, co­ me è oggi il caso per qualsiasi formula interpretativa della politica intemazionale. Si potrebbe perfino sostenere che l’ostinazione a te­ nere in vita il paradigma che ha condotto alla presente crisi, vale a dire quello delle ideologie globaliste e istituzionaliste, rischia di di­ ventare pericoloso perché quel tipo di “ordine” e/o di “nuovo ordi­ ne” intemazionale che pure si vorrebbe assicurare, impedisce, per la sua dogmatica rigidità, la flessibilità richiesta dalle circostanze e, al­ la fine, rischia di demolirne l’operatività euristica. In effetti il processo di individuazione di un nuovo “paradigma” scientifico è, in termini tecnici, il prodotto combinato dell’impiego di due formule operative interagenti: quella del metodo e quella dell’ invenzione. In entrambi i casi si tratterà di identificare e poi co­ struire delle ipotesi interpretative accettabili e di utilizzare una me­ todologia analitica fondata su strumenti tratti da discipline diverse che consentano poi la verifica delle ipotesi assunte. Nella circostanza che ci riguarda il primo punto è quello del meto­ do da utilizzare, di fronte all’evidente logoramento del “paradigma” delle ideologie del Novecento. La caduta della “falsa coscienza”85 ha aperto la strada alla liberazione dai vincoli obbligati che un’episte­ mologia subalterna, prodotta dalle ideologie, aveva imposto perfino nella ricerca di autonomi criteri metodologici da impiegare nell’ana­ lisi internazionalista. Fra gli altri, quello dell’intreccio fra diverse ca­ tegorie analitiche e disciplinari, a partire dalla geografia, dalla storia e dalla cultura che, di per sé, costituiscono una efficace griglia po­ tenziale e polivalente di lettura politica dello “spazio mondiale”. Queste categorie tradizionali, respinte per troppo tempo sullo sfondo, tornano a campeggiare ponendo in relazione i due concetti Gestalt, che contraddistingue la società moderna non è che la traduzione poetica della individuazione degli “ideal-tipi” di Max Weber, categorie astratte (e forse spi­ rituali, in quanto non motivate dalla ragione totale) di analisi della realtà. Weber, 1922, 1974; Adorno e Horkheimer, 1974. 83. Kuhn, 1962, pp. 65 e sgg.; Lakatos e Musgrave (a cura di), 1970, 1976. 84. Ibidem, pp. 42 e sgg. 85. Marx e Engels, 1845,1972.

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chiave dell’esperienza umana, quella dello “spazio” e quella del “tempo”. L’uso pressoché esclusivo del “tempo”, dal 1945 in poi, aveva infatti ridotto all’osso il rapporto di conoscenza e di “uso” della categoria dello “spazio”, trascurato e dismesso come un reame protetto e periferico rispetto alla centralità e superiorità dell’impero temporale. “Il tempo infatti non ci è dato. Lo spazio sì” scrive il medievista Paul Zumthor, soggiungendo che “fin dalle remote e lente origini dell’umanità, ogni discorso sul mondo fu articolato a partire da que­ ste contrapposizioni”86. La “spazio-temporalità” come strumento d’analisi è quindi un metodo molto antico, troppo spesso dimentica­ to. Tutte le filosofie della storia, e in particolare quelle semplifica­ zioni della filosofia e della teologia che sono le ideologie, rimanda­ no, per esempio, solo al “tempo” e alla sua definitiva irreversibilità. Ma non è così perche se da una parte è “il tempo che ci comanda e dà il senso” alla memoria e al pensiero, è purtuttavia lo spazio il da­ to materiale, il contenitore, il contesto che ci rende attivi87. Nella storia della politica intemazionale la riduzione dello spazio a concetti astratti, destinati all’omologazione, come è accaduto nel Novecento, dove lo spazio è sembrato rimpicciolire fino a trasfor­ marsi in un sistema di comunicazione misurato dal tempo (il “villag­ gio globale” di MacLuhan), l’unico modo per tornare alle origini e ricominciare daccapo è stato quello di riguadagnare il senso e la di­ mensione dello spazio, con i suoi assi e i suoi punti cardinali dotati di un “centro”, con le sue “continuità” e “permanenze”, con le sue “immagini”, i suoi “schemi” e i suoi “archetipi”, le sue “diversità” e “contrapposizioni” che formano, appunto, il variopinto tappeto della spazialità88. Lo spazio, in questa veste di riferimento quasi biologico, evoca dunque e sollecita il richiamo alla realtà e alla percezione dell’esi­ stere89. Ma al tempo stesso consente la riscoperta del significato del­ 86. Zumthor, 1993, p. 11. 87. Si veda il modo in cui i geografi e gli scrittori del mondo antico e medieva­ le, fino alla rivoluzione copernicana, guardavano allo spazio come al contenitore della conoscenza e, al tempo stesso, del mistero. Da Plinio ad Omero, fino allo stes­ so Copernico, lo spazio crea e immagina, esattamente come fa il tempo. Cfr. Plinio, 1982; Esiodo, 1958, 1993; Frazer, 1900, 1994; Copernico. 88. Non casualmente Zumthor rimanda all’esempio del “corpo” come modello primario dello spazio e alla “mente” come schema di lettura del tempo. Ibidem, pp. 16 e sgg. 89. Si veda a questo punto il noto volume di Matte Bianco, 1957, 1981, ed. it., che dedica al concetto di “spazio”, in relazione a quello di “tempo”, l’ultima parte

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la memoria, quindi del tempo, dotandola di un territorio, fornendo così lo spunto per quella operazione mista di intreccio spazio-tem­ porale che ricostruisce appunto la mito-simbologia della differenza. Il secondo punto è quello deW“invenzione”, che è altresì definibi­ le come il risultato della sperimentazione di ipotesi. Essa si manife­ sta oggi con il recupero, sotto altre vesti, della teoria geopolitica classica, sostenuta però dalla doppia analisi geostorica di breve pe­ riodo (événementielle) e di lungo termine (longue durée)90, tale da identificare, accanto alla diacronia degli eventi politici e sociali che si svolgono nello spazio geopolitico, anche la sincronia delle rispon­ denze contestuali, contrassegnando per questa via, non esclusivamente spaziale, anche la loro valenza profonda (le “permanenze” e le “mentalità”) che formano il substrato continuo della spazialità e della storicità, vale a dire che ne delimitano la dimensione culturale, etno-nazionale, religiosa o mito-simbolica91. Muovendo da queste premesse l’utilizzo di categorie analitiche da tempo in disuso, che si riferiscono alla determinazione politica dei macro-aggregati spaziali o confinate all’interno di discipline “colo­ niali”, come l’etnologia, l’antropologia, l’ecologia92, che integra il concetto di spazio con quello di ambiente, e che si possono identifi­ care come tali per complesse ragioni di affinità geostorica e antropo­ dei suo studio (pp. 443-508). L’A. entra in una dimensione dello spazio che penetra, come potrebbe fare solo il tempo, secondo là lettura occidentale della relazione fra i due termini, in quanto “risultato di un’attività della nostra mente che ha una base nel mondo esterno trascendente”. In altre parole “lo spazio è un modo in cui la mente traduce determinate relazioni oggettive (cioè relazioni del mondo esterno). È insom­ ma un indice o un segno del mondo esterno filtrato dalla nostra ménte” (p. 444). 90. Febvre, 1956; Bloch, 1946, 1949, ed. it.; Braudel, 1973, 1974, ma anche Jean 1995, Moreau Defarges, 1994, 1996, ed. it. 91. Braudel, 1973, 1974, pp. 153-193. In particolare vedi i saggi di Dumézil, 1959, 1974, ed. it., pp. 1-17; pp. 194-205; Abaev, ..., pp. 257-295. La questione “nazionale”, come veniva definita dai teorici marxisti, a partire da Karl Marx e Fiedrich Engels, e successivamente da Rosa Luxemburg (Luxemburg, 1975, ed. it., pp. 263 e sgg.), da V.I. Lenin (Lenin, 1914, 1975, vol. 1, pp..538-583), da J.V. Stalin, e poi da Antonio Gramsci e da molti altri, è stato un argomento indigeribile e irrisol­ to per il movimento operaio intemazionale. Si potrebbe dire che in tutto il Nove­ cento l’unico modo per combattere lo spazio, che di per sé contraddiceva l’ideolo­ gia del conflitto di classe, è stato quello di negare la realtà e di combattere median­ te .il doppio processo della rimozione e della demonizzazione quegli uomini e quei popoli che si opponevano a questa verità evidente (si veda in particolare l’approc­ cio degli ultimi studiosi marxisti dell’imperialismo come Baran e Sweezy, 1966 e Magdoff, 1969). 92. Vedi Levy-Strauss, 1958; Cresswell Robert, 1975, 1981, ed. it.; Kautskj, 1977, ed. it.

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culturale, può condurre all’interpretazione aggiornata, non solo delle trasformazioni strutturali avvenute nei maggiori comparti spaziali (crollo del sistema politico sovietico e poi disgregazione territoriale dell’unione), ma anche delle tendenze in atto o potenziali, sia nel senso dell’ulteriore “frammentazione”, ovvero della “ricomposizio­ ne” differenziata, geografica e del sistema politico intemazionale93. Di qui l’opportunità interpretativa di servirsi di concetti sintetici e onnicomprensivi, quindi di “metafore” tratte dalle costanti geografi­ che e storiche che sono alla radice della geopolitica moderna,antici­ pando quella più complessa di Oriente e Occidente. Fra queste quel­ la di “Oceania” e di “Eurasia” che è una specificazione culturale della più primitiva diade fra Terra e mare. Cos’è infatti nella sua essenza la metafora “se non il paragone con un fenomeno materiale, e cioè con un fenomeno spaziale?”, scriveva lo psicanalista Ignacio Matte Bianco nel 1957, sottolinean­ do come questa figura retorica abbia in realtà la potenza euristica di “estrarre” relazioni generali da un esempio particolare e “il ricono­ scimento successivo che queste stesse relazioni generali si applicano anche ad un altro esempio particolare”94.

93. Santoro, 1997. 94. Matte Bianco, 1975, 1981, ed. it.; vedi altresì, sul termine di “metafora”, i volumi di Conte (a cura di), 1981, e di Lakoff e Johnson, 1982, ed. it. 57

3. Oceania, Eurasia e Penisole

La coppia di metafore in opposizione (Oceania vs. Eurasia) ha una funzione euristica importante e fa da premessa alla coppia di metafore (Occidente vs. Oriente), che è al centro della nostra ricer­ ca. Eurasia, in termini generali, comprende il tricontinente antico, la “World Island” di cui scriveva Sir Halford Mackinder agli inizi di questo secolo. Ma più che per questo tratto geografico discutibile, Eurasia è la metafora simbolica della vicenda ciclica degli imperi terrestri, sia nomadici che stanziali, che puntano all’occupazione ter­ ritoriale deli’Heartland e delle Rimlands'. Storicamente invece il concetto di Oceania identificava anzitutto le talassocrazie mediterra­ nee dell’antichità, ovvero quelle asiatiche, poi gli imperi marittimi moderni. Più in generale, però, Oceania è una metafora che esprime ogni sorta di network di relazione fra le terre attraverso il mare. Geograficamente tuttavia, il termine di Oceania è stato oggi ridot­ to a rappresentare il “Quinto Continente”, cioè quello che abbraccia il bacino del Pacifico, che comprende l’Australia, la Nuova Zelanda e la polvere di arcipelaghi che popolano quell’area. È il dominio del mare sulla terra. Con più del 10% della superficie del globo questa parte del mondo ha meno di 27 milioni di abitanti. Il nome che venne attribuito a questa regione acquorea tuttavia era un retaggio della mitica concezione di Oceano, divinità olimpica rap­ presentata come un fiume che scorre attorno e abbraccia tutta la terra intesa come un disco piatto. Si stende quindi tanto a Ovest quanto a Est, a Sud e a Nord di quest’ultima, della quale delimita le frontiere più lontane. Esso è anche il padre di tutti i fiumi, nato però, secondo 1. Mackinder, 1904, 1919; Spykman, 1942, 1944.

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Fonie: Brzezinski Z, The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997

la teogonia di Esiodo, dopo Gaia, la Terra, e anzi da lei generato2. Esso aveva inizio alle “colonne d’Èrcole”, quindi allo stretto di Gi­ bilterra e costeggiava lungo il suo percorso i Campi Elisi e l’Ade, cioè il paradiso e l’inferno'. Ma ciò che è più significativo “le fonti che lo alimentavano erano in Occidente dove tramontava il Sole”3. Esiste in realtà una relazione stretta fra il mito dell’inclito “fiu­ me” Oceano e la sua marittimità “dai gorghi profondi”4. Essa non è altro che il risultato dell’evoluzione della civiltà terrestre e, soprat­ tutto, della conoscenza, dei viaggi, delle scoperte, della tecnologia e della navigazione. Nella mitologia antica, sia occidentale che orientale, la relazione fra fiumi e mare è molto più stretta di quanto non lo sia nella nostra concezione moderna. Oceano era un fiume, anzi il padre di tutti i fiumi, e al tempo stesso la “personificazione dell’acqua”5, figlio di Urano e di Gaia (Gea), è il maggiore dei Titani e fa coppia con sua sorella Teti che rappresenta la potenza del mare. Ma anche il rapporto terra-mare è molto meno distinto di quanto non lo sarà in seguito, con la costituzione delle prime talassocrazie. Il mare è quasi un fiume perché le traversate sono impensabili, la navigazione è costiera e la sua vastità non è conosciuta. Rappresenta quindi solo una separazione fra le terre, un ostacolo da superare. In altri termini, nella filosofia generale di Oceania, prodotto del Medioevo e dell’età moderna, è il mare che, al di là dell’occidente, “fluidifica” le relazioni territoriali, le espande varcando lo spazio fra i continenti, permette l’esportazione di persone, merci, idee, civiltà, senza però consolidarle o imporle una volta per sempre. Nessun im­ pero marittimo è infatti riuscito a penetrare davvero a fondo, e in modo permanente, nel tessuto sociale, etnico, religioso, e quindi cul­ turale, dei mondi dell’interscambio verso i quali esso si è storica­ mente avventurato al di là del mare6. Neppure l’Occidente, che pure può essere considerato come la forma storicamente più riuscita di Oceania, è stato in grado di rag­ giungere la globalità, cioè di imporre una diffusione generale, e anzi una omogeneizzazione dei suoi valori e contenuti spirituali, nel cor­ po interno degli spazi profondi di Eurasia7. 2. Esiodo, 1984, 1994, p. 73. 3. Aa.Vv., 1993b, Dizionario di storia, p. 908. Vedi anche Butel, 1997, pp. 15-41. 4. Esiodo, cit., p. 71. 5. Grimal, 1979, 1990, ed. it, pp. 453 e sgg. 6. Black, 1996. Si veda in particolare la mappa n. 1 che rappresenta cartografi­ camente lo stato della potenza militare mondiale nel 1500, p. 11. 7. Fieldhouse, 1973, 1975, ed. it. 55

Oceania è così diventata la rappresentazione contemporanea dell’idea di Occidente solo quando si è costituita come spazio marit­ timo fra l’Europa e il “Western Hemisphere” (quindi il continente americano), cioè sotto le specie di Atlantide. Ma Oceania non è più Occidente quando si costituisce come spazio marittimo fra il “We­ stern Hemisphere” e l’Asia Orientale, attraverso il Bacino del Paci­ fico. Oceania diventa, infine, un sinonimo di Oriente quando si co­ stituisce come spazio marittimo fra l’Africa e l’Asia meridionale8 at­ traverso l’Oceano Indiano. I tre grandi bacini marittimi (Atlantico, Pacifico, Indiano) rappre­ sentano, quindi, le tre forme che Oceania può assumere ed ha stori­ camente assunto. Tuttavia, la loro “marittimità”, per il fatto di essere intercambiabile, resta alla superficie omogenea delle acque e non coglie appieno l’essenza dei polivalenti percorsi della civilizzazione. Oceania può, quindi, essere considerata come un metodo, ovvero come un criterio epistemologico di analisi e di azione politica e cul­ turale, ovvero come una modalità specifica di influenza e di control­ lo delle coste e dei litorali, ma non certo come una modalità di con­ quista e di dominio, sia politico che militare o spirituale, dei conti­ nenti, che sono poi il cuore delle civiltà umane. Si potrebbe sostenere anche, in termini di metafisica dello spazio, che i valori marittimi, e attraverso questi i criteri analitici e operativi di Oceania - come è il caso di tutte le talassocrazie - sono essen­ zialmente di tipo “orizzontale” e quindi limitati alla forma della pre­ senza e dell’attraversamento, mentre quelli continentalisti di Eurasia hanno connotati duplici, tanto orizzontali nella spazialità delle step­ pe, delle foreste, dei deserti, del permafrost, quanto “verticali”, nella ricognizione spazio-temporale, e quindi nella loro sedimentazione storica, dalle montagne alle città, alla territorializzazione urbanizza­ ta, alle frontiere e ai limes naturali e/o artificiali9. Oceania, quindi, non ha i mezzi, né concettuali, né politici, né mi­ litari, per poter prevalere a lungo e, soprattutto, non può annientare le civiltà estranee, né eliminare definitivamente le minacce perma­ nenti, e periodicamente rinnovate, che provengono dal “cuore di ter­ ra” del mondo (Heartland)10. 8. Si veda la letteratura araba e indiana medievale relativa a questa forma di Oceania e in particolare al bacino dell’Oceano Indiano. Cfr. “Le Mille e una Notte” e “Le Avventure di Sindbad il Marinaio”. Vedi anche Janni, 1996; Lewis, 1995, Hourani, 1991. 9. Braudel, 1949, 1976, ed. it. 10. Mackinder, 1904, 1919.

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Oceania è perciò un concetto, ovvero un metodo “neutrale”, tec­ nico, che individua lo spazio marittimo in generale, senza distinzio­ ne di Ortung né di Ordnung. Non ci consente, cioè, di assegnarle un contenuto spaziale specifico, vale a dire di designare il “senso e lo spirito”, del suo statuto concettuale11. Questa distinzione fra le tre Oceanie (Atlantico, Pacifico, India­ no), la loro diversità storico-culturale, e finalmente le loro affinità, impediscono infatti di riconoscere in esse una essenza unificante e uno “spirito” comune che le saldi tutte insieme. Il controllo globale di Oceania, e perfino delle tre Oceanie in quanto articolazioni spaziali del concetto più generale, è però un’operazione geostrategica sempre possibile, ma solo attraverso il controllo delle linee di comunicazione marittime (istmi, capi, ecc.), e dei flussi di traffico mercantile12. In questo senso, nel secolo scor­ so, Oceania è stata apparentemente unificata, proprio attraverso il “controllo” (sea-control), dalla Gran Bretagna13 e, nel Novecento, dagli Stati Uniti14. Di unificazione apparente però si trattava che non scalfiva, se non marginalmente attraverso i processi di “modernizzazione” e di “oc­ cidentalizzazione”, le culture precedenti, il Geist, e quindi il conte­ nuto profondo degli spazi sterminati del retroterra costiero. Nessuna vera trasformazione culturale è intervenuta in quelle ampie aree, dalla Cina all’Asia Meridionale e Orientale, al di là della propaga­ zione del mercato e dei consumi, che certamente modificano com­ portamenti e abitudini, ma non disgregano le antiche fonti dell’iden­ tità dei popoli. La relazione “Terra-Mare” prima ancora di quella fra Oceania ed Eurasia, è però aH’origine dell’“invenzione” greca dell’occidente, così come anche la diversità interna del suo paesaggio geografico e l’innata conflittualità dei suoi popoli è stata all’origine della sua 11. Schmitt, 1950, 1992, ma anche 1942, 1986, nonché, 1996. Per il concetto di Geist si veda Hegel, 1887, 1967 e 1817, 1994. 12. Mahan, 1890, 1965; Corbett, 1911, 1988; Gray e Bamett (a cura di), 1989. Si vedano in particolare i saggi di Gray (pp. 3-26), Gooch (27-46), Stranss (pp. 7799). Per una tesi “Oceanica”, profondamente critica del continentalismo si veda an­ che Gray, 1992. In particolare le pp. 56-91. 13. Si veda l’interessante “manuale” di “geografica imperiale” britannica di J. Fitzgerald Lee, che rivela in modo molto significativo pregi e limiti della concezio­ ne marittima nella conduzione di un vasto impero territoriale tenuto insieme dalla flotta. Lee, 1908, 1923. 14. Per un’analisi tardo-bipolare della strategia statunitense, buona per tutto l’Occidente, si veda Gray, 1989, pp. 275 e sgg. 57

espansione e della sua creatività. La Grecia delle città-stato dell’età classica, divise dagli interessi e unite dalla cultura, lingua, religione, etnia e mito-simbologia, è un modello di Koinè che ritroviamo an­ che in altri contesti geografici, come nella Cina antica dall’epoca “Primavera e Autunno” (722-454 a.C.) agli “Stati Combattenti” (453-221 a.C.)15, ovvero nei Comuni medievali dell’Italia centro-set­ tentrionale, delle Fiandre e del Baltico16, e, poi, nell’Europa degli Stati Regionali e delle Monarchie assolute del Cinquecento17. Ma la Grecia classica18 rivela anche un’altra dimensione della geopolitica, vale a dire il significato di quella condizione particolare della vita associata, che è data dall’intreccio geografico inestricabile delle “penisole”, immerse nel mare ma ancorate alla terra. È questa la condizione particolare delle “Rimlands” dislocate alla periferia dei continenti. Territori di questa natura vivono una duplice e sem­ pre instabile condizione. Sono in grado di costruirsi una flotta, di fondare colonie e, forse anche degli imperi oltremare19, di conoscere e viaggiare il mondo, come appare già nel mito omerico di Ulisse e dell’odissea, ma, al tempo stesso, sono costretti anche a restare sul­ la difensiva, perennemente in guardia perché il loro cordone ombeli­ cale con la terra - che è poi sempre il grande continente eurasiatico - non è solo una questione di linfa vitale e di sopravvivenza, ma rappresenta anche una minaccia permanente, e quindi suggella un destino di insicurezza psicologica e strutturale che è senza speranza di riscatto. Sarebbe perfino possibile ipotizzare l’esistenza di una correlazione fra la “forma” assunta dalle diverse “civilizzazioni” nel corso del tempo e la conformazione geografica delle penisole sulle quali queste “formazioni” fiorirono. La loro ambivalenza oggettiva, accompagna­ ta dall’incertezza necessaria e permanente della duplice condizione a cavallo fra la terra e il mare, quindi dal trade-off continuo fra ambi­ zioni espansive e necessità difensive, costituiscono un package di condizioni, anche culturali, che rendono sempre instabile quell’equi­ librio. Ben diversa invece è la condizione delle “isole”, il cui isola­ mento è spesso funzionale al loro consolidamento interno e alla sicu­ rezza esterna, inducendo gli “insulari” a scegliere liberamente fra 15. Confucio, 1984; Sabattini e Santangelo, 1986, pp. 95-133; Gemet, 1972, 1978, ed. it., pp. 56 e sgg.; Aa.Vv., 1993. 16. Alighieri, 1950 e la nascita della politica estera; Boutruche, 1975. 17. Mattingly, 1959, 1967, ed. it.; Roteili e Schiera, 1971. 18. Hammond e Scullard (a cura di), 1970; Musti, 1989, 1991. 19. Manfredi, 1996.

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espansione (come gli inglesi) o isolamento (come i giapponesi). Il mito moderno dell’insularità è dato dal Robinson Crusoe di Daniel Defoe, nonché dall’isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson. Una “teoria delle penisole”, però, non è mai stata davvero elabo­ rata dagli studiosi della politica, neppure dagli autori classici della geopolitica, se non come una variante secondaria delle teorie continentaliste, oppure di quelle marittime20. In particolare, ogni analisi geopolitica delle aree peninsulari ha sempre posto l’attenzione piut­ tosto sul meccanismo della “prevalenza”, ovvero della maggiore o minore influenza che rispettivamente il pensiero terrestre o quello navale hanno avuto nella ispirazione e conduzione dei sistemi politi­ ci di attori nazionali (o di aree regionali) peninsulari, che non sulle risultanti di un sistema strutturale interattivo fra terra e mare, con tutto ciò che questo comporta in termini di comportamenti politici, storici e culturali21. Di qui il destino e il carattere originale della “civilizzazione” dell’occidente, che è “civiltà” delle penisole, di qui quello che Spengler definiva, nel bel mezzo della prima guerra mondiale, come il “Tramonto dell’occidente” o meglio come “Der Untergang des Abendslandes” vale a dire, “il declino della terra della sera”, perché si rendeva conto, sia pure in modo confuso, che “nulla di meno che il problema stesso della civilizzazione”, quello che chiamava “una delle questioni fondamentali di ogni storia superiore”22, era racchiu­ so proprio nel destino dell’Europa, simbolo e cuore dell’occidente. In effetti nulla come la relazione fra terra e mare precisa, fin dall’Antichità, l’equilibrio sempre in bilico della civiltà occidentale. Essa si è autorappresentata, emblematicamente, nel passato della grande guerra bipolare greca del V Secolo a.C. fra Sparta e Atene, di cui ha scritto Tucidide23, che fu un grandioso, quanto fallito, ten­ tativo, da parte di Atene, di stabilire contemporaneamente un’ege­ monia terrestre e marittima, quasi impossibile da concepire come obiettivo strategico all’interno delle penisole. Nel più recente passa­ to prossimo europeo tale modello si è realizzato, per quasi tre secoli, 20. Vedi Mackinder, 1919, o Spykman, 1942, 1970, per la teoria delle “Rimlands” o dell’“Outer Crescent”, che in qualche modo rimanda a quel territorio inter­ medio fra terra e mare che sono le penisole, ovvero a Mahan, 1890, e poi a Corbett, 1911, 1988, che intendono le coste come fascia intermedia, con caratteristiche parti­ colari, della relazione complessa fra terra e mare (stretti, accessi, passaggi, ecc.). 21. Vedi bibliografia su Geopolitica in Jean, 1994. 22. Spengler, 1918-1922, 1957, ed. it., vol. 1, p. 57. Si veda anche Herman, 1997. 23. Tucidide, 1984; Kagan, 1974, 1981, 1987, 1995.

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attraverso il difficile equilibrio interno al sistema europeo di Balan­ ce of Power2425 in cui la relazione fra le potenze marittime e le poten­ ze terrestri, pur nella loro periodica conflittualità, ha comportato la definizione prima, e poi la prevalenza, del modello occidentale su quello di tutti gli altri. Ciò che il pensiero tedesco della fine del se­ colo scorso (e dei primi venti anni di questo) nominava come la re­ lazione di dipendenza fra “civiltà” e “civilizzazione”, si è periodica­ mente ripetuta nella storia dell’Europa moderna, almeno fino al 191425. Ma anche il classico sistema politico intemazionale dell’“Equili­ brio di Potenza”, nato dalle guerre di religione, e dalla formazione delle monarchie assolute europee, prolungatosi nel tempo, al di là delle Rivoluzioni e delle Restaurazioni fino alla Prima Guerra Mon­ diale26, può essere interpretato con qualche forzatura, come il pro­ dotto dell’interazione fra isole, penisole e continenti. Varrebbe il caso di decifrare fino a che punto la “peninsularità” di alcune Grandi Potenze europee dell’“Età dell’Equilibrio”, a partire dalla fine del Rinascimento, come la Spagna e la Francia o anche, su scala minore, il Portogallo e l’Olanda, abbiano vissuto le loro grandi stagioni imperiali, fra il XV e il XIX secolo, sulla falsariga “atona­ le” di una ineliminabile contraddizione fra 1’“immaginazione” marit­ tima e imperiale, che è sintetica, globalista e unificante, e la dura “realtà” dei rapporti di forza terrestri27, che sono invece frammenta­ ti, analitici, epperò differenziati e variopinti. In qualche caso la condizione peninsulare è diventata, per Potenze minori come il Portogallo e l’Olanda, un vincolo limitativo imposto all’espansione, obbligandole ad una politica schizofrenica che aveva simultaneamente i tratti di una grande potenza navale e di una media o minuscola potenza terrestre. In altri casi, invece, la peninsularità si è trasformata in un’ardito progetto d’impero “mediterraneo”, come è accaduto nel passato, per le due principali penisole del Baltico (il Mediterraneo del Nord), prima la Danimarca e poi la Svezia28. In entrambi questi casi la peninsularità “mediterranea” provocò una naturale tendenza alla formazione di imperi costieri sullo stam­ po di quello, realizzato millecinquecento anni prima, da Roma nel 24. Gulick, 1955; Taylor, 1954; Mattingly 1959, 1967, ed. it. 25. Breuer, 1995; Mohler, 1972, 1990. 26. Chevallier, 1971, 1981. 27. Kennedy, 1987; Modelski e Thompson, 1988; ecc. 28. Anderson, 1969.

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bacino mediterraneo del Sud. In altri termini, la peninsularità, come categoria analitica, può assumere connotati radicalmente diversi fra loro. Nell’un caso si “specializza” nella dimensione talassocratica, mentre in altri si completa nella costruzione di imperi terrestri sui li­ torali, controllati e difesi dalla flotta29. In un certo senso può dirsi che anche i tratti dell’Italia postunita­ ria hanno risentito di questa contraddizione30, e che il disegno delle classi politiche postrisorgimentali, prima di Francesco Crispi, e poi, più concretamente, di Giovanni Giolitti, Volpi e Mussolini31, corri­ spondesse bene all’ipotesi della costruzione di un impero mediterra­ neo basato sul semi-controllo navale del bacino, e su un sistema di difesa-alleanza nei confronti delle potenze continentali del Nord (Austria-Ungheria, e soprattutto Germania)32. La contraddizione, rivelatasi poi ineliminabile, risiedeva nel tenta­ tivo di giocare un ruolo impossibile sia nei confronti delle potenze marittime sia di quelle terrestri, definito all’epoca come la teoria del “peso determinante” che avrebbe dovuto assegnare all’Italia la fun­ zione di “ago” nella bilancia mediterranea33. Ancora diversa, invece, è stata la condizione, relativamente penin­ sulare, delle Grandi Potenze europee occidentali, come la Spagna e la Francia. Si trattava, infatti, di attori essenziali allo scacchiere eu­ ropeo che hanno per secoli manifestato una periodica tendenza, tal­ volta quasi riuscita, all’egemonia terrestre sul continente europeo34. L’ambizione egemonica terrestre, quello che venne chiamato il di­ segno di “Astrea”35, sembrò raggiungere, per la prima volta, dopo Carlo Magno, e per breve tempo, i suoi scopi, come accadde nel corso delle guerre d’Italia, fra il 1494 e il 1559, dominate dalla figu­ ra imperiale di Carlo V d’Asburgo e, successivamente, con altri at­ tori e con successivi alterni, a partire dalle ambizioni di Luigi XIV e poi di Napoleone I. Ma mentre nel primo caso la componente peninsulare iberica dell’impero di Carlo V si coniugava male alla componente strettamente continentale dell’impero asburgico, al punto da far emergere 29. Luttwak, 1976, 1986. 30. Santoro, 1991. 31. Romano, 1977, pp. 44 e sgg. 32. Seton-Watson, 1967, 1973, ed. it.; Candeloro, 1974, p. 343; Webster, 1979, 1985; Gooch, 1982. 33. Grandi, 1985. 34. Kennedy P., 1987. 35. Yates, 1975, 1990, ed. it., pp. 6-38.

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in pochi anni l’impossibilità di controllare politicamente e dinastica­ mente entrambe le componenti, che ben presto si separarono con l’abdicazione del vecchio imperatore, nel secondo caso, il tratto pe­ ninsulare della Francia, la penisola fra i due mari, dovette misurarsi prima con la coalizione di tutti gli altri europei, poi con lo stermina­ to continentalismo russo in un confronto che ancora una volta rive­ lava l’organica inconciliabilità, fra Occidente e Oriente. In altre pa­ role, la vicenda egemonica di queste due Grandi Potenze europee, fra il 1500 e il 1800, può riassumersi nell’incapacità di risolvere una volta per tutte la loro strutturale ambivalenza fra terra e mare. Il destino dei due imperi d’oltremare, quello spagnolo e quello francese prima della Grande Rivoluzione, è un’ulteriore conferma del fatto che l’impossibilità di stabilire una vera egemonia sul conti­ nente europeo s’invertiva concettualmente, tanto nelle aspirazioni quanto nei risultati, quando si passava alla dimensione oceanica, do­ ve era stato invece assai più facile non solo per le potenze peninsu­ lari, ma anche per le potenze insulari come l’Inghilterra, costruirsi degli imperi terrestri36. Nel caso della Spagna questa doppiezza geopolitica diventò pro­ getto geostrategico quando apparve davvero difficile tenere insieme “l’impero dove non tramonta mai il sole” di Carlo V. Troppo espo­ sto era infatti il fianco orientale, cioè quello dei territori dinastici de­ gli Asburgo, nonché assai fragile appariva il controllo della dimen­ sione territoriale del Sacro Romano Impero, anzitutto rispetto alla minaccia terrestre e continentalista, prima degli Ottomani e successi­ vamente dei Russi. E ciò anche perché la guerra civile fra cristiani (con la Riforma e la Controriforma)37 diedero all’Europa della prima Età Moderna un carattere così politicamente e militarmente autocen­ trato da minimizzarne l’influenza al di fuori del proprio contesto geografico e geopolitico. In ogni caso la lunga stagione delle guerre di religione aveva de­ finitivamente liquidato ogni aspirazione dellTmpero Sacro e Roma­ no al recupero della sua potenza e della sua egemonia38. Accadde dunque che, così come la Grecia aveva del tutto dimenti­ cato nel fuoco della grande guerra civile fra Sparta e Atene, la concor­ danza e la reciproca funzionalità politica e militare delle Guerre Per­ siane39, allo stesso modo l’Europa del Seicento, dopo la vittoria di Le36. 37. 38. 39.

Spate, 1979-1988, 1987-1993, ed. it.; McAlister Lyle, 1985, 1986, ed. it. Spini; Konigsberger e Mosse, 1968, 1974, ed. it.; Kamen, 1971, 1975, ed. it. Lortz, 1962, 1981, ed. it.; Heer, 1967, 1968, ed. it. Green, 1996.

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panto e la difesa di Vienna, nella lotta per l’egemonia fra Francia, Spa­ gna e Impero, aveva dimenticato la sua funzione di contenimento e di controffensiva nei confronti dell’oriente, cioè verso l’Est e il Sud-Est. Basterà ricordare la drammatica, quanto inutile e lunga vicenda, delle guerre nei Paesi Bassi che determinarono il dissanguamento militare e finanziario della Spagna40, ovvero la Guerra dei Trent’an­ ni, che dimezzò la popolazione della Germania41, per comprendere come l’antinomia strutturale delle penisole si ripercuota periodica­ mente sulla instabilità delle loro scelte politiche intemazionali. Lasciare all’impero (e talvolta alla Polonia o alla Prussia), con i suoi mezzi relativamente modesti, tutto o quasi tutto il cruciale com­ pito di difendere la frontiera sudorientale del continente europeo (non a caso si chiamò Militärgrenze il confine ad arco che separa i territori asburgici, inclusa la Croazia, dalla Bosnia ottomana) dalle minacce ottomana e russa, è stata una scelta pericolosa e contraddit­ toria che ha messo più di una volta a repentaglio l’indipendenza del continente. Due assedi di Vienna da parte dei Turchi nel corso di un solo secolo, sono le tappe di questo rischio permanente. Lo stesso può dirsi per la Francia, che ha oscillato costantemente fra una politica terrestre, più consona alle sue caratteristiche geografi­ che e culturali, ma anche demografiche ed economiche, e una politica navale, intesa però soprattutto come strumento di politica coloniale. Il primo impero coloniale francese nasce, infatti, come proposta ambivalente fra un’ambizione continentalista (dalla frontiera sul Re­ no di Richelieu, e poi di Luigi XIV, a Napoleone che forma la “Con­ federazione Renana”) diretta a sottomettere il “centro” dell’Europa, cioè la Germania, e invece la tentazione imperiale e marittima della “Nuova Francia”, che faceva il paio con quella della “Nuova Inghil­ terra” nel Nord America42 e della “Nuova Spagna” in America Cen­ tro Meridionale43. Le “Nuove” terre, quindi, si proponevano, al di là del mare, come modelli ingranditi della metropoli, dotati di una “natura” essenzial­ mente terrestre che, però, si coniugava, per forza di cose, al delicato cordone ombelicale marittimo che imponeva il controllo delle rotte e degli Stretti. In effetti, l’ambivalenza peninsulare di Grandi Potenze come la Spagna e la Francia, era più spiccata di quella di potenze minori, co­ 40. Elliott, 1984, 1990, ed. it. 41. Wedgwood, 1963, 1991, ed. it.; Parker Geoffrey, 1984. 42. Morison, 1971, 1976. 43. Elliott, 1981, 1982, ed. it.

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me il Portogallo e l’Olanda, e del tutto diversa rispetto alle Potenze insulari, come l’Inghilterra, la cui “marittimità” era essenzialmente dovuta alla sua “sicurezza” geografica44 che la esonerava dalla ne­ cessità di una permanente “guardiania” terrestre. I primi grandi imperi d’oltremare, infatti, soprattutto quello spa­ gnolo e quello francese (assai meno quello portoghese in Brasile, sempre a cavallo fra la condizione di dominio e quella di integrazio­ ne)45, avevano un carattere imitativo rispetto alla madrepatria, che ne condizionava lo sviluppo, limitandone le prospettive. La loro “diversità”, e quindi la loro autonomia culturale, fino a quella politica, definita dalla rivoluzione indipendentista, nasce in­ fatti tardi, e sempre sulla base del modello burocratico-militare, al punto che anche dopo l’acquisizione dell’indipendenza (tardiva ri­ spetto a quella delle colonie inglesi dell’America del Nord), la for­ ma e la pratica di governo, nonostante l’imitazione degli Stati Uniti, restano per molto tempo quelle del modello “caudillista”46. Le grandi penisole, dunque, anche a cagione della loro struttura geopolitica, costituiscono un modello di attore irrequieto, permanen­ temente instabile nel proprio orientamento strategico, con prevalen­ ze alternate di gruppi di pressione e di interesse legati al commercio estero, ovvero alla potenza militare, alla Marina o all’Esercito. Tutto questo sì è generalmente tradotto in strategie d’azione inconciliabili o contraddittorie, ciascuna delle quali non è sempre riuscita a bene­ ficiare della totalità delle energie disponibili, e neppure dell’identità spirituale necessaria a costruire un modello definitivo e duraturo. È stata questa la condizione dell’Italia postunitaria che, nel tenta­ tivo di individuare un proprio ruolo, e quindi una vera identità na­ zionale all’interno della grande politica europea, che fosse adeguato alla sua struttura geopolitica, è stata costante preda dell’incertezza, oscillando tra fasi di impegno eccessivo, con conseguente “disper­ sione degli obiettivi”, e fasi di riegamento su se stessa, altrettanto fuori luogo, con atteggiamenti subalterni dovuti al permanente stato di insicurezza politica e strategica47. La “teoria delle penisole” è quindi un’ipotesi interpretativa sugge­ stiva che deve però essere sottoposta a più puntuale verifica. Può, in ogni caso, essere utilizzata come strumentò analitico nell’esame del­ le rivalità e delle contraddizioni storiche degli attori europei proprio 44. 45. 46. . 47.

Padfield, 1979, 1982, vol. 1, pp. 42 e sgg. Freyre, 1946, 1965, ed. it.; Diffie e Winius, 1977, 1985, ed. it. Incisa di Camerana, 1994. Santoro, 1991, pp. 47-70.

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perché trova la sua logica profonda nella instabilità strutturale della formula “egemonia contro sicurezza”. In altri termini la “teoria delle penisole” può diventare il basa­ mento geografico della duplicità di condizione (terra e mare) che si traduce in cultura politica ambivalente, e spesso contraddittoria (egemonia contro sicurezza) e finalmente in una conduzione operati­ va della politica estera e intemazionale degli attori peninsulari, che è sempre a cavallo fra ambizioni imperiali (o almeno espansive), e ti­ mori radicati per la propria sicurezza nazionale o collettiva. Esiste insomma una “natura” delle penisole che s’innesta dialetti­ camente sulla loro “cultura” determinandone almeno in parte, ovve­ ro influenzandone, il comportamento politico. A questo si aggiunga il fatto che il sistema di interazione degli attori peninsulari moltipli­ ca i fattori di determinazione comportamentale contribuendo a ren­ dere molto complesso il loro meccanismo di comunicazione e a fa­ vorire le soluzioni di equilibrio instabile. La storia dell’Europa medievale e moderna è contrassegnata da questo tipo di dinamica interna, sia a livello continentale (con il si­ stema di Balance of Power), sia a livello subcontinentale (con il Si­ stema dell’Equilibrio degli Stati Italiani nel XV secolo)4?. D’altra parte l’uso della categoria geopolitica della “penisola” aiuta altresì a comprendere come le “Rimlands”48 49, che sono un sino­ nimo concettuale delle penisole, svolgano un ruolo che è in generale ambivalente poiché, da una parte “contengono” la massa eurasiatica, mentre dall’altra parte sono sempre sottoposte al rischio di venire travolte dalla pressione continentale. Questa condizione di perma­ nente insicurezza, sottolineata dal fatto di non essere in grado di co­ stituire una struttura difensiva compatta, ha alimentato l’illusione di potersi salvare solo attraverso una “fuga nel mare”50, come è stato il caso del Portogallo e dell’olanda ma, come nel caso dell’Inghilterra e poi degli Stati Uniti, attraverso la teoria e la pratica politica della strategia di “sea-control”51. L’eccessiva “continentalizzazione” dei primi imperi coloniali euro­ pei, operata oltremare dalla filosofia peninsulare del Portogallo, della Spagna e della Francia, aveva infatti creato le premesse, in assenza di una capacità strategica di “sea-control” e di contenimento dei costi di esercizio dell’amministrazione e delle guerre coloniali, di quel feno­ 48. 49. 50. 51.

Kaplan, 1957; Gullick, 1955; Taylor, 1954; Albrecht-Carrié, 1968. Spykman, 1942, 1944. Santoro, 1997. Mahan, 1890, 1965; Corbett, 1911, 1988.

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meno di overstretching, messo in luce da Paul Kennedy, con tutti “i pericoli di sovraccarico di territori politicamente inutili e fuori pro­ porzione rispetto alla metropoli, che tendono a squilibrare”52. Il concetto di “overstretching” è quindi anteriore alla sua scoperta e definizione da parte di Paul Kennedy, come sostiene peraltro an­ che Pierre Gallois53, che esamina in dettaglio i vincoli dell’eccessiva estensione degli imperi coloniali. A questo proposito basterebbe ricordare il caso dello squilibrio dell’impero portoghese, rispetto alle dimensioni e alla potenza della madrepatria, per capire come la “fuga nel mare” fosse davvero una “fuga”, voltata in “scoperta” e poi in “conquista”. Ma di “conquista” virtuale e a colpo d’occhio si trattava, nel senso che, soprattutto nei primi decenni, la “scoperta” e la simbologia della croce e della ban­ diera, o del nome del Re, era sufficiente per designare l’acquisizione, del tutto teorica, del “dominium”, prima ancora dell’“imperium”54. La virtualità dell’impero portoghese in Africa, in India e nel Me­ dio Oriente è evidentissima55, così come altrettanto evidente era la sua fragilità, dimostrata dalla relativa facilità e rapidità con cui soc­ combette agli attacchi olandesi e inglesi56. Ma anche nel caso del Brasile, che fu sempre il “beef’ dell’impe­ ro portoghese, lo squilibrio fra colonia e madrepatria era così grande da creare continui rischi di ribaltamento nei ruoli, come finalmente accadde nel 1822 con l’indipendenza e la traslazione dinastica dei Bragança da Lisbona a Rio de Janeiro. Il pericolo dell’“overstretching”, dunque, è sempre presente nelle ambizioni espansive, in particolare qualora si abbia una strategia co­ loniale o imperiale di tipo continentalista, senza però avere alcuna contiguità terrestre fra colonie e madrepatria, ma invece solo un esi­ le legame oltremare mantenuto faticosamente in vita, senza avere un corrispondente controllo marittimo dell’Oceano. Il controllo del mare, che è molto difficile da ottenere in generale, e in particolare quando si tratti di quello oceanico, non è comunque sufficiente a garantire la conservazione di un impero di dimensioni continentali, se non a patto di indebolire la propria capacità di difesa interna, soprattutto nel caso delle penisole che hanno sempre una frontiera terrestre esposta57. 52. 53. 54. 55. 56. 57.

Kennedy, 1987, pp. 17 e sgg. Gallois, 1990, pp. 211 e sgg. McAllister, 1985, 1986, ed. it., pp. 93 e sgg. Diffie e Winius, 1977, 1985, ed. it., pp. 81-98. Furber, 1976, 1986, ed. it., pp. 19 e sgg. Kennedy, 1979, pp. 17 e sgg.

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L’Europa, intesa come regione geografica, e come “cuore” del­ l’Occidente, ha avuto dunque fin dalle sue origini indoeuropee una serie di esperienze di questa natura, in parte dovute alla geografia, in parte alla sua dimensione culturale e politica. L’origine “indoeuropea” dell’Europa contemporanea e dell’Occidente, a partire dalle grandi migrazioni della fine dell’“Età del Fer­ ro”, dal quinto fino all’inizio del quarto millennio a.C. (fra il 4300 e il 3000 a.C.), a quella dei Dori del XII secolo a.C., che diede vita al­ la Grecia classica, è indubitabile e in quanto tale essa designa un “cleavage” storico e culturale profondo rispetto alle civiltà mediter­ ranee preindoeuropee, che erano invece di tradizione orientale58. Questa storica frattura si dilata nel tempo ed accentua la differen­ za fra Occidente e Oriente. In un certo senso si può perfino azzarda­ re che l’Europa, in quanto spazio geografico, è stato un contenitore della prima ondata di popoli indoeuropei, la cui comune affinità lin­ guistica è ancora oggi il segnale più evidente59 e che, successiva­ mente, tutti gli indicatori delle civiltà e delle culture europee non hanno fatto che confermare. In questo senso l’archetipo, ovvero l’immagine primordiale della “Grande Madre” che affiora ancora dalla psicologia del profondo, “nelle raffigurazioni e forme della grande dea femminile che l’uma­ nità ha rappresentato nelle creazioni artistiche e nei miti”, può essere preso in esame come il contenuto originario (e di derivazione quasi certamente orientale) del contenitore europeo pre-indoeuropeo60. I “due mondi”, quello preindoeuropeo e quello protoindoeuropeo, sono dunque inconciliabili. Esiste una “diversità estrema fra gli at­ teggiamenti verso la pace e verso la guerra”61. Si può quindi soste­ nere che la società pre-indoeuropea era essenzialmente una società di tipo “orientale”, mentre quella proto-indoeuropea era una società di tipo “occidentale”. Il contenitore rimase lo stesso, ma il contenuto cambiò radicalmente con l’arrivo degli Indoeuropei62 per non più trasformarsi. Anche George Dumézil aveva individuato questa spe­ cificità proprio nello studio della mitologia comparata di Oriente e Occidente63. 58. Dumézil, 1968, 1982. 59. Bocchi e Ceruti, 1993, pp. 21 e sgg.; Villar, 1991, 1996. 60. Neumann, 1974, 1981, ed. it., p. 15; Kerényi, 1955, 1976, ed. it.; 1939, 1943, 1944, 1979. 61. Ibidem, p. 31. 62. Eisler, 1987; Villar, 1991, 1996, cit., pp. 131 e sgg. 63. Dumézil, 1992, 1985, ed. it.; 1959, 1974, ed. it.

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L’Occidente nasce, quindi, come concetto e come idea culturale, molto tempo fa. Resiste tuttavia ancora oggi, negli stessi termini (o quasi) rispetto al suo lontano e mitologico passato. Si pensi alla lette­ ratura di viaggio dell’ottocento verso 1’“Oriente”, ovvero alla tradi­ zione occidentalista del “Grand Tour”, da De Brosse a Goethe64, da Montesquieu a Stendahl, fino ai giovani inglesi, da Lord Byron a Shelley e, più recentemente, a Forster e a T.E. Lawrence, nonché alle forme di esotismo e di “orientalismo” per designare una diversità, una contrapposizione, ma anche un’attrazione, e infine una gerarchia65. La letteratura nordica sul “viaggio” in Italia e in Grecia, periodo essenziale di ricerca delle radici culturali e storiche dell’occidente, una sorta di Bildungsroman necessario per la formazione delle classi elevate e dirigenti dei paesi maggiori, è qualcosa di più di una mo­ da. Rappresenta infatti il modo di riconoscere i confini di se stessi nel momento stesso in cui si riconoscono i confini dell’occidente e si sperimentano le Porte dell’Oriente. In effetti, mentre l’Oriente si è sempre diretto verso Occidente per invaderlo, occuparlo, servirsene, sottometterlo, colonizzarlo e di­ struggerlo o anche solo sedurlo o esserne sedotto, l’Occidente si è spesso indirizzato àll’ Oriente con altro spirito, cioè per conoscerlo e per riconoscersi, solo raramente con la forza, e anche in quel caso con modalità controffensive preventive piuttosto che naturalmente offensive. Nella maggioranza dei casi invece è stata la curiosità, for­ ma primaria della conoscenza, ovvero la nostalgia delle origini, a spingere l’Occidente verso Oriente. Il “Viaggio” (e la sua filosofia) non è infatti, per l’Europeo, come è invece per l’Ebreo errante, una forma dell’inseguire Dio, ovvero un surrogato dell’inutilità e dell’assenza (“lontano da dove?)66, ma è invece una specie di “ricerca delle radici”, un cammino a ritroso nel tempo e nello spazio che ripercorre “lo sviluppo della storia, se­ guendo i sentieri dei circuiti e dei ritorni degli avi”67. Anche in questo caso il “viaggio”, visto come “eterno ritorno”6869 , ovvero come Heimgefahrfi®, e il “riorientamento dei luoghi” comin­ cia per l’Occidente contemporaneo, quindi per l’Europa, agli inizi 64. E, per converso, al suo rovesciamento speculare, proprio in Goethe che scri­ ve appunto il “Divano occidentale-orientale”. Vedi Goethe, 1990, ed. it. 65. Saïd, 1978; Guadalupi, 1989. 66. Magris, 1979. 67. Leed, 1991, 1992, ed. it., pp. 163 e sgg. 68. Heidegger, 1961, 1994, p. 217-391; Nietzsche, 1993, ed. it., XV, 65. 69. Schnitzler, 1973.

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dell’Età Moderna, quando dai “centri” sacri della civiltà occidentale classica (Egitto, Palestina, Grecia e Roma), cioè a partire dalla “cen­ tratura” mediterranea dell’occidente, si passa alle “periferie” del mondo, scoperte appunto dai viaggiatori medievali, per via di terra, e da quelli rinascimentali, per via di mare. Ma la contrapposizione fra il “centro” e la “periferia” ci ricondu­ ce ancora una volta, nella lettura di Immanuel Wallerstein70 e della letteratura “sistemica” e “terzomondista” del secondo« Novecento, al­ la distinzione-contrapposizione fra Occidente e Oriente. E anzi pro­ prio questo l’unico percorso possibile di identificazione definitiva dell’occidente moderno, la cui natura si esplicita nel rapporto difensivo/controffensivo, e, finalmente, nel rapporto gerarchico dominato sullo sfondo dalla “paura”, ma poi mitigato dalla “curiosità”, quindi dalla ricerca delle origini, e cioè dalla “conoscenza”. La “paura” è infatti il motore primo della civiltà - scriveva Lu­ cien Febvre71 - quando metteva in luce il “bisogno di sicurezza”, che nasce proprio dalla paura e che diventa uno stimolo alla crescita degli strumenti e delle procedure per superarla72. Il viaggio e l’esplorazione tuttavia esorcizzano la paura e accrescono gli stru­ menti che possono infondere sicurezza a chi resta. Il complesso del­ la “città assediata”, di cui parla Jean Delumeau, che nella paura del­ la peste trova la spiegazione dell’oscura minaccia che viene da Oriente (la “Morte Nera”, che fra il 1340 e il 1350 dimezzò la popo­ lazione europea, proveniva infatti dall’Eurasia), è una metafora con­ vincente della condizione di Europeo e di Occidentale, tanto nel Medioevo quanto nell’Età Moderna73. Se è vero quindi che “ogni civiltà ha una sua civilizzazione” - come sosteneva Spengler - nel senso che esiste una “successione organica ri­ gorosa e necessaria” fra questa e quella, allora la nostra “civilizzazione è l’inevitabile destino di una civiltà” basata sulla vittoria dell’Occidente, terra della “Sera” e del “Buio”, sopra la propria paura74. Su questa relazione che si stabilisce fra “civiltà” e “civilizzazio­ ne”75 si è costruito soprattutto il pensiero politico e storico germani­ co, perlomeno a partire dal raggiungimento dell’unità nazionale nel 1871. Tuttavia essa può essere ulteriormente semplificata attraverso 70. Wallerstein, 1974. 71. Febvre, 1956, p. 244. 72. Delumeau, 1978, 1979, ed. it., pp. 9 e sgg. 73. Delumeau, 1978, 1979, ed. it., pp. 53 e sgg. 74. Spengler, 1918-1922, 1957, ed. it., pp. 57-61. 75. Toynbee, 1957, 1985, vol. VII-X, pp. 144-240.

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la distinzione fra “epifenomeno” (Zivilisation) ed “essenza” (Kultur). In altre parole il rapporto è dello stesso tipo di quello che esiste fra “genus” e “specie”, ovvero fra “idealtipo” e “caso studio”76. Anche nell’ambito della relazione diadica Terra-Mare, quindi, la comples­ sità dell’“essenza” è traducibile, sia pure in modo relativamente im­ proprio, nella leggibilità dell’“epifenomeno”. Il potere marittimo in­ glese nel secolo XVIII e XIX, oppure quello statunitense nel XX, sono solo degli epifenomeni della grande diade Terra-Mare, che è comunque ben più complessa e profonda di quanto non appaia a pri­ ma vista la sua storicizzazione77. Perfino la “fuga nel mare” dei popoli dell’Europa Occidentale, prima nel Mediterraneo con le Repubbliche Marinare italiane e le Crociate in Terrasanta78, poi, dall’inizio del Quattrocento, con la grande epopea atlantica delle esplorazioni geografiche verso Occi­ dente, culminate nella scoperta dell’America79, fino all’accerchia­ mento completo di Eurasia (più l’Africa) attraverso il controllo dell’Oceano Indiano e finalmente del Pacifico80, può essere letta co­ me una estrema manifestazione della interminabile “corsa” a senso unico da Oriente verso Occidente, fino all’“Estremo Occidente”81 rappresentato dal continente americano, e poi dal ricongiungimento con Eurasia sulla sponda del Pacifico che, non a caso, nella tradizio­ ne politica europea, è stato sempre definito con il termine di “Estre­ mo Oriente”82. Ma il significato profondo di Occidente è racchiuso soprattutto all’interno del pensiero occidentale e dell’uomo occidentale83, che Nietzsche dichiarava essere portatore di quella “iperbolica ingenuità” che postula se stessa come senso e misura del valore delle cose84. Questa “necessità” individuale è alla base della forza (potenza) dell’occidente, della sua persistenza (energia), e della sua frammen­ tazione (conflitto), così come della sua sostanziale riconoscibilità 76. Weber, 1922, 1974, ed. it. 77. Schmitt, 1942, 1986, ed. it. 78. Alphandéry e Dupront, 1954, 1974, ed. it.; Cahen, 1983, 1986, ed. it.; Chri­ stiansen, 1980, 1983, ed. it.; Riley-Smith, 1987, 1990, 1995; Runciman, 1951, 1966, ed. it.; Smail, 1956, 1995. 79. McAllister, 1985, 1986, ed. it.; Morison, 1971 e 1974; Elliott, 1981, 1982. 80. Spate, 1979-1988, 1987-1933, ed. it. 81. Gil, 1989, 1993, ed. it.; Alvi, 1993. 82. Joyaux, 1991. 83. Skinner, 1978, 1989, ed. it. 84. Heidegger, 1961, 1994, ed. it., pp. 636 e sgg.; Nietzsche, 1993, ed. it., vol. VII, 4/2, n. 34, p. 71.

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(unità spirituale), di cui l’Europa medievale e moderna sono stati gli esempi storici più indicativi85 e della sua materializzazione scientifi­ ca e tecnologica86. A conclusione di questo lungo argomentare si può dunque affer­ mare che il concetto di Oceania non può più essere considerato co­ me il vero sinonimo dell’occidente, ma solamente come una speci­ ficazione di esso. In particolare, Oceania è il prodotto della vittoria ideologica e politica delle grandi potenze marittime e insulari del se­ colo XX contro le grandi potenze peninsulari (Germania, Francia e Italia), il cui trionfo è stato scandito dalle tre guerre mondiali del Novecento (1914-18; 1939-45; 1947-90). Essa scaturisce dal gradua­ le ampliamento del sistema delle relazioni intemazionali, con le grandi Scoperte Geografiche iniziate a partire dal XV secolo87, che hanno aperto le vie del mare. Il cammino delle esplorazioni e delle conquiste si è infatti svolto, a partire da quel momento, essenzial­ mente per via marittima, e quindi varcando l’Oceano. Le potenze marittime, per conseguenza, hanno consolidato il proprio potere ri­ spetto alle potenze terrestri che continuarono a dissanguarsi per lun­ ghi secoli in cerca di un’impossibile egemonia sul Continente euro­ peo. Anzitutto la Spagna e l’impero, poi la Francia, infine l’Austria e la Germania, hanno tutte inseguito l’inarrivabile sogno di restaura­ zione del dominium e imperium unificante, mentre l’Inghilterra, pur senza pretenderlo, globalizzava da un lato la sua presenza mediante il controllo dei Sette Mari, favorendo al tempo stesso la frammenta­ zione e la conflittualità sul continente europeo. Si potrebbe perfino sostenere che l’invenzione del concetto di “Oceania”, contrapposto a quello di “Eurasia”, sia stata un conio con un carattere, almeno parzialmente, anti-europeo, messo in atto come già sosteneva Cari Schmitt in un saggio del 1943-4488 - pro­ prio per sottolineare la diversità della potenza marittima rispetto ad una “idea” dell’Europa89 che, tutto sommato, metteva in risalto so­ prattutto la sua stanzialità territoriale, e quindi la sua terrestre e for­ tificata eurasiaticità90. Oceania diventò così l’agglomerata proiezione metaforica del “mito di Astrea”91, ovvero della rinascita della vocazione imperiale 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91.

Santoro, 1995a, 1-2, e bibliografia citata nel testo. Landes, 1961, 197. Wallerstein, 1974, vol. 1; Braudel, 1979, 1982, ed. it. Schmitt, 1943-44. Chabod, 1961. Vedi anche, su questo punto, il già citato volume di Davies, 1996. Yates, 1975, 1990, ed. it., pp. 39-104.

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nell’Europa del Rinascimento, personificata prima dall’imperatore Carlo V d’Asburgo e, poi, trasferita dalla terra al mare nella morfogenesi del nascente impero inglese, impersonato dalla Regina Elisabetta I Tudor92. È, in un certo senso, qualcosa di simile ad un “passaggio di con­ segne” fra la terra e il mare che avviene attraverso il passaggio equi­ noziale dal Segno Zodiacale del Leone a quello della Vergine - di cui Astrea è sinonimo - e che nei panni della Regina Elisabetta, vie­ ne rappresentata nell’iconografia e nella letteratura della corte ingle­ se come la “Vergine Regina”. I testi d’epoca, che sottolineano e conferiscono una teoria e un’ideologia a questa nuova concezione imperiale, sono il “Libro dei martiri” di John Foxe (1563) e il “General and Rare Memorials pertayning to the perfect art of Navigation” di John Dee, che aperta­ mente equipara l’idea imperiale a quella della supremazia marittima. Il Regno d’Inghilterra aspira così a diventare impero sui generis ri­ spetto alla tradizione e basa questa sua “imperialità” potenziale sulla “favola delle terre e dei mari che le spettano di diritto perché si ba­ savano sui domini che il mito voleva essere appartenuti al britannico re Artù e su quelli governati dal sassone re Edgar”93. Da questa prima configurazione imperiale marittima è ormai pas­ sato molto tempo. Tuttavìa essa si è via via consolidata fino a diven­ tare una dottrina generale del potere marittimo a fronte del potere continentale di Eurasia. In altri termini, il mito di Astrea, nato per imitazione inglese dal recupero rinascimentale dell’idea imperiale, promossa e personificata da Carlo V Asburgo, venne a suggellare, con una simbologia autonoma e marittima, quello di “Eliza Triumphans”, vincitrice sia dell’Armada spagnola, sia del potere spi­ rituale del Papa, che nella Spagna aveva il suo braccio secolare94. Questo “corpus” teorico, di derivazione insulare, è il sottofondo dei secoli che seguiranno fino allo scoccare del secolo ventesimo. La “distruzione dell’Europa”95, iniziata nel 1914, è infatti passata attraverso la sconfitta delle quattro maggiori Grandi Potenze terrestri di Eurasia: Germania, Austria, Turchia e Russia. I quattro Imperi della grande tradizione continentale europea si sono tutti dissolti 92. Ritter, 1950, 1976, ed. it., pp. 146-147, sul concetto di “Renovatio Imperii” e di “Monarchia universale”, elaborato durante il regno di Carlo V da Marcusio Gattinara. 93. Yates, p. 60. 94. Yates, pp. 70 e sgg. 95. Hillgruber, 1988, 1991. 72

quasi contemporaneamente nel 1918. Ha attraversato, successiva­ mente, la stagione ferrigna della seconda sconfitta della Germania, nel 1945, unico impero continentale europeo sopravvissuto alla di­ sfatta del primo conflitto mondiale attraverso l’idea portante dello spazio “Grossdeutsch”. Si è finalmente conclusa con la sconfitta dell’unione Sovietica, nel 1990, terzultimo grande impero eurasia­ tico del Novecento (oltre alla Cina e all’india). “Oceania”, e tutto il contesto culturale che questo termine rappre­ senta, è quindi solo un parto della vittoria anglosassone, confermata sia dal sistema bipolare successivo al 1945, che esaltava la contrap­ posizione “terra-mare”, sia dalla duplicità degli schieramenti con­ trapposti, che per mezzo secolo hanno diviso l’Europa in due parti e si sono costantemente fronteggiati, fino al prevedibile esito che, co­ me in ogni sistema di guerra, produce l’inevitabile sconfitta dell’uno o dell’altro contendente96. L’idea che il sistema bipolare potesse costituire un’eccezione alla regola secondo la quale ogni situazione di conflitto tende a conclu­ dersi con la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro contendente, era corroborata dal fatto che la guerra fredda non era considerata sog­ getta ai vincoli di un “sistema di guerra” di tipo classico97, e che la presenza del deterrente nucleare avrebbe dovuto escludere qualsiasi soluzione espressa nei termini del binomio “vittoria/sconfitta”. E ciò anche se qualcuno, prima nel I9609899 e poi più modernamente nel 1979", aveva già azzardato l’ipotesi della possibile “combattibilità” della guerra nucleare. In effetti la “Teoria della Vittoria”, anche nel caso di un sistema bipolare basato sulla deterrenza nucleare, non ha subito eccezioni, nonostante che non si sia realizzata attraverso lo scatenamento di un conflitto armato, perché uno dei due poli, quello Orientale, è implo­ so collassando su se stesso. Tuttavia il senso politico e sistemico della “legge” dei conflitti è stato concretamente verificato e il risul­ tato politico della guerra, ancorché fredda, è stato più o meno equi­ valente. Ma questo tipo di confronto bipolare che è stato anche la rappre­ sentazione politica e militare dell’antico confronto fra terra e mare, fra Oceania ed Eurasia, quindi, fra la metafora dell’occidente e quella dell’Oriente che ha commesso suicidio, non ha risolto però il 96. 97. 98. 99.

Santoro, 1988. Santoro, 1984. Kahn, 1960; Jons, 1984; Freedman, 1981. Gray, 1979; Abt, 1985, pp. 15-38; Carter, Steinbruner e Zraket, 1987.

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problema geopolitico delle rispettive identità e, soprattutto, quello dei “confini”, ovvero dei termini e dei comportamenti dei due “spa­ zi” contrapposti. L’Oriente, infatti, ha perso una battaglia, ma non ha certo perso la guerra. La sua frammentazione attuale risulterà essere un fenomeno provvisorio qualora non venisse confermata, consolidata e sostenuta dall’occidente, attraverso la difficile prova della pace. L’Oriente in­ fatti non era solo l’Unione Sovietica ormai defunta, del confronto bipolare, quindi neppure l’Occidente può più essere definito sulla base dei soli parametri dell’Alleanza Atlantica.

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4. Europa e America

In effetti, durante il mezzo secolo bipolare, la metafora ideologica di “Oceania”, si è tradotta nella concreta struttura politico-militare dell’Alleanza Atlantica, mentre quella di “Eurasia” - per simpatia o per necessità - è stata parzialmente costretta a rispecchiarsi nella formula politico-militare del Patto di Varsavia. Per estensione, quin­ di, Oceania (il blocco euro-atlantico) è stata investita pienamente della parte di monopolista del concetto di Occidente, mentre Eurasia (il blocco euro-asiatico), con procedimento più macchinoso, stentava ad inserirsi nel ruolo esclusivo di Oriente, che venne infatti quasi subito contestato tanto dalla Cina e, più blandamente, dall’india, quanto dagli attori mediorientali e africani. Le ragioni fondamentali di questa oggettiva diversità, di forma e di contenuto, nell’organizzazione politica e militare dei due blocchi, non hanno tuttavia alterato la sostanziale specularità sistemica dei poli contrapposti. Anche se, fin dal principio, fu l’Est a doversi mi­ surare con le formule politiche imposte dall’Ovest attraverso l’ege­ monia ideologica e politica occidentale sulle formule istituzionali di democrazia formale, pure il senso di quell’inconciliabile confronto non venne mai meno. L’uso strumentale delle formule istituzionali, iniziato a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919, si è consolidato nel secondo dopoguerra, con le Nazioni Unite, attraverso l’imposizione genera­ lizzata di un metodo di confronto e di un sistema di procedure nego­ ziali del quale anche i Sovietici, nonostante la struttura totalitaria del proprio sistema politico e di alleanza, non esitarono a servirsi1. 1. Blechmann e Kaplan, 1978; Gaddis, 1997. 75

Il paradosso della cosiddetta “democrazia intemazionale” consiste proprio in questo uso finalizzato e formalistico delle regole e delle procedure, che nulla ha a che fare con la sostanza concreta dei pro­ cessi democratici2. In questo senso la finzione istituzionale sostitui­ sce la capacità di decisione e la verifica democratica degli interessi degli Stati, creando falsi “fori” di dialogo e di comunicazione che, apparentemente, dovrebbero condurre a soluzione le crisi e i conflit­ ti, mentre invece si limitano a mascherarne la reale valenza, pospo­ nendone sovente la naturale conclusione. Di qui la necessaria diversità strutturale e concettuale del princi­ pio di organizzazione dell’occidente oceanico, sotto la guida ege­ monica degli Stati Uniti durante la guerra fredda, e il principio di organizzazione dell’oriente eurasiatico, sotto la guida autoritaria e imperiale dell’Unione Sovietica. Siffatta dissonanza nei principi di organizzazione interna dei due blocchi contrapposti ebbe delle conseguenze operative notevoli, nel senso che il sistema delle relazioni di alleanza, interno a ciascun blocco, era profondamente diverso e si basava su regole e comporta­ menti contrastanti3. Mentre da un lato il sistema occidentale era retto da una flessibi­ lità e autonomia che ne preservava la coerenza e la funzionalità, ac­ centuata peraltro dalla maggiore affinità concettuale e culturale fra i diversi modelli di sistema politico interno ai singoli attori (la demo­ crazia parlamentare) e il quadro istituzionale esterno (Onu, Nato e la democrazia degli stati), dall’altro lato la contraddizione fra la natura dei sistemi politici interni, di tipo totalitario e gerarchico, e il quadro istituzionale esterno, di taglio formalmente egualitario, rendeva dif­ ficile l’armonizzazione e l’elasticità fra di loro creando anzi malinte­ si ed equivoci ripetuti. A questo si aggiunga il fatto che, mentre l’egemonia statunitense sul polo Ovest era fuori discussione, tranne che nell’estrema perife­ ria, la dittatura sovietica sul polo Est era sottoposta a contestazioni (Germania Est, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia), e talvolta a rot­ ture decisive (Jugoslavia, Cina, Albania, ecc.), talché la compattezza eurasiatica dell’Oriente si rivelava per essere, nei fatti, sempre fragi­ le e incompleta. Per queste ragioni politiche e strutturali una teoria che si propon­ ga di individuare le forme della “ricostruzione” dell’Europa non può 2. Bonanate, 1994b, pp. 147-176; 1997, pp. 15-58. 3. Walt, 1987, pp. 181-217.

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passare - sic et simpliciter - attraverso l’accettazione, ovvero l’inglobamento, del concetto di Oceania all’interno del processo di uni­ ficazione europeo, così come esso è stato minuziosamente previsto dalla logica funzionale dell’istituzionalismo. Nella filosofia di Ocea­ nia, infatti, erroneamente intesa durante la guerra fredda come sino­ nimo di Occidente, non possono essere inseriti, se non con un ruolo subalterno o meglio periferico, i paesi “continentali” del sistema eu­ ro-atlantico, come la Germania e parzialmente anche l’Italia, per non dire dei paesi minori dell’Europa Centrale e Orientale, che atlantici non sono e neppure oceanici. Una delle principali conseguenze della fine del bipolarismo è sta­ ta infatti quella di ridimensionare in misura consistente la filosofia originaria dell’atlantismo, consistente nella logica del “coupling” fra le due sponde dell’Oceano, e quindi di rendere meno necessaria, e non più obbligata, la perfetta sincronia e consonanza dei comporta­ menti politici degli Europei e degli Stati Uniti. In particolare, si è destrutturata quella concezione geopolitica che “atlantizzava” anche i paesi senza confini marittimi, come la Svizze­ ra o l’Austria, per affinità o comunanza culturale e di sistema politi­ co, all’ipotesi di Oceania, indipendentemente dall’affiliazione politi­ ca formale all’Alleanza e alla Nato, ovvero i paesi con confini ma­ rittimi mediterranei, come l’Italia, la Grecia e la Turchia. Soprattutto oggi che lo sfaldamento del sistema Est, centrato sul­ la grande potenza eurasiatica russa, ha spostato nuovamente il bari­ centro della relazione euroatlantica dall’Atlantico all’Europa Occi­ dentale, “stirando” la relazione euroamericana ben al di là della sua capacità di tenuta indolore, il proposito di mantenere in vita la vec­ chia identità fra Oceania e Occidente rischia di diventare contropro­ ducente, tanto per gli Europei quanto per gli Americani. Se non si procederà, infatti, alla ridefinizione, guidata e consapevole, dei ruo­ li, Oceania correrà il rischio di dover malinconicamente constatare la divisione in due parti del suo spazio organizzato, dotate entrambe di un proprio baricentro autonomo, quello americano “da una parte dell’acqua”, e quello europeo “dall’altra parte dell’acqua” con tutto quello che potrebbe comportare in termini di doppioni istituzionali, ambiguità e malintesi, come dimostra già la sovrapposizione di ruo­ li fra la Nato e l’Ueo4. Si avrebbe in sostanza la fine della rappre­ sentazione, anche culturale, dell’Oceania immaginata come sistema gerarchico centrato Sull’Oceano Atlantico o sugli Stati Uniti, senza 4. Jervis, 1976; Walt, 1987, pp. 1-16; Christensen, 1997. 77

peraltro aver ancora costruito un’idea comprensibile ed efficace di Europa. In termini concreti però, questa tendenza di Oceania a dividersi almeno in due parti5 e a perdere le sue caratteristiche unicellulari, non è da considerarsi del tutto negativa, poiché da un lato restituisce ad una delle sue componenti, l’Europa, la complessità originaria dei propri elementi costitutivi che, nella concezione esclusivamente oceanica, avevano perduto una parte importante della loro identità e diversità, mentre dall’altro lato garantisce agli Stati Uniti quella li­ bertà d’azione e di movimento a 360 gradi che il “coupling” con l’Europa, attraverso l’Atlantico, aveva indubbiamente ridotto. In effetti il problema dell’identità dell’Europa, in termini attuali, è una questione che, al di là delle giaculatorie federaliste tradizionali, ovvero delle tecnocratiche illusioni di stampo neofunzionalista e istituzionale, è un argomento vecchio e nuovo che comincia a ripro­ porsi in modo serio solo ora che il continente, con la riunificazione della Germania e la correlata tendenza alla frammentazione delle unità nazionali artificiali, o determinate da assetti intemazionali pro­ dotti da guerre e paci superate da tempo - come è stato il caso della Jugoslavia, della Cecoslovacchia, dell’Unione Sovietica, e potrebbe diventare un giorno il caso del Belgio o di altre regioni europee - ha nuovamente assunto un carattere più omogeneo e più sistematicamente interattivo. 5. In realtà Oceania, nella lettura che la vuole sinonimo dell’occidente, non si compone solo di Atlantide, vale a dire del Nord America più l’Europa Occidentale, ma comprende anche quelle aree localizzate al di fuori dell’occidente geografico, ma certamente propaggine dell’occidente oceanico europeo classico. Si pensi ai paesi del Commonwealth bianco nell’Oceano Pacifico (Australia e Nuova Zelanda), ovvero a quegli attori, non bianchi, ma formalmente membri del “partenariato” oc­ cidentale come il Giappone, anche se nei confronti di quest’ultimo la locuzione “Occidente” non sembra più essere una caratteristica di assimilazione, soprattutto dopo la fine della guerra fredda che ha restituito autonomia, anche culturale, ai membri del blocco occidentale, restituendo loro la libertà di riconoscere la varietà dei propri caratteri originari. Nel caso del Giappone è evidente che la sua esperien­ za “occidentalista”, durata un secolo, non ne ha intaccato i valori e le radici “orien­ tali” e per di più marcatamente “nazionali”. Lo stesso dicasi per l’Australia e la Nuova Zelanda che, al di là della loro indiscutibile “occidentalità” bianca, sono sempre più influenzati dalla pressione indiretta dell’immigrazione asiatica e dal loro contatto ravvicinato con l’Asia, al punto da essere spesso definiti come “Asia bian­ ca”. Vedi bibliografia sulla “Security” nel Bacino Asia-Pacifico: in particolare Sur­ vival, trimestrale dell’International Institute for Strategie Studies (IISS), vol. 37, nn. 2 e 3, vol. 38, n. 3, nonché Foreign Affairs, bimestrale del Council on Foreign Relations di New York, vol. 76, nn. 2 e 5.

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Il fenomeno davvero innovativo che si sta manifestando è dato dal fatto che l’Europa di oggi toma ad essere il “topos” della risco­ perta dell’identità dell’occidente, con tutto il suo variopinto tessuto di affinità e di diversità, distinta quindi in modo sempre più netto dalla sua componente estremo-occidentale, che comprende appunto il Nord America6 e in particolare gli Stati Uniti e il Canada. Che questo problema fosse relativamente presente nel periodo ini­ ziale, e poi anche negli anni d’oro della guerra fredda, è dimostrato da molte ricerche e studi7. Ma soprattutto dal fatto che la proiezione militare dell’Alleanza Atlantica, cioè la Nato, intesa come alleanza difensiva contro la minaccia orientale, si basava su una strategia ge­ nerale che era fondata, in modo piuttosto anomalo, su tre principi di dottrina strategica sostanzialmente diversi e relativamente incompa­ tibili fra loro: a) da un lato il “continentalismo” aeroterrestre per la difesa dell’Europa Centrale e Settentrionale, b) dall’altra il “navali­ smo” classico, nel sistema di controllo del mare per l’organizzazione dei rifornimenti all’Europa dagli Stati Uniti, e, finalmente, c) una strategia, non solamente “aeronavale” ma anche di proiezione sui li­ torali (oggi si direbbe: From the Sea), per il Fianco Sud dello schie­ ramento nel Mediterraneo. Questi tre criteri, per quanto spazialmente determinati dalla diffe­ renza geostrategica fra i potenziali teatri d’azione, cozzavano con­ cettualmente fra di loro, e anzi rendevano precario, se non improba­ bile in caso di guerra, il risultato militare. In particolare, l’antinomia concettuale fra la dottrina relativa al Fronte Centrale e quella, total­ mente marittima, di sostegno al teatro d’operazioni, per non dire della fragilità concettuale di quella riservata al Fianco Sud, aveva creato le premesse della mancanza di congruità fra la logistica e il combattimento8. 6. A conferma di quanto sia diffuso l’equivoco sull’identificazione abusiva di Oceania, Occidente ed Europa, un recente sondaggio sulla “Europeità”, di alcuni paesi, il 51% dei rispondenti hanno collocato gli Stati Uniti in Europa, mentre solo il 40% dei rispondente ha collocato la Russia e i Balcani nel Vecchio Continente. Vedi Difebarometro, n. 3 (gennaio 1996), tavola 5. 7. Si rinvia agli studi degli storici del dopoguerra, da Herbert Feis a David W. Ellwood, da Kolko e Kolko a Langer e Gleason, nonché, per l’Europa e l’Italia, a Di Nolfo, Bariè, Vigezzi, ecc. Quasi tutte queste analisi mettono bene in rilievo che la scelta “atlantica” non fu solo il naturale risultato della Seconda Guerra Mondiale, e che anzi l’orientamento politico delle élites dominanti, in Europa più che in Ame­ rica, fosse piuttosto incerto sulle forme e le modalità di adesione all’Alleanza. Fu soprattutto il timore crescente e giustificato per la minaccia da Est a liquidare le ti­ tubanze e i dubbi. Il differenziale di forza politica e militare, soprattutto economica, fra Stati Uniti e Europa Occidentale, fece il resto. 8. Luttwak, 1983. Vedi altresì: Feeding Mars, Supplying War ecc. 79

Se si considera poi che la strategia della Nato sul Fronte intertedesco prevedeva, per esigenze politiche, che la battaglia d’arresto si svolgesse alla frontiera (Forward Defense), e che si riducesse, nei li­ miti del possibile, ad una battaglia d’attrito e di logoramento, come testimonia perfino la letteratura di “fanta-guerra” che ha ipotizzato il carattere militare dello scontro fra Nato e Patto (da quelli di Sir John Hackett a quelli, più recenti, di Tom Clancy)9 secondo i canoni del modulo classico della battaglia frontale, diventa subito evidente che con questi principi operativi il livello della guerra non avrebbe potu­ to restare a lungo nell’ambito dei mezzi convenzionali, ma invece avrebbe rapidamente varcato la soglia di quelli nucleari10. Questa diversità strategica concettuale e al tempo stesso l’antino­ mia strutturale e operativa degli schieramenti, è diventata una con­ traddizione insolubile dopo la caduta del Muro di Berlino. La “scomparsa del nemico”11 ha infatti tolto di mezzo la gran parte del­ le ragioni politico-ideologiche della solidarietà obbligata e dell’una­ nimità operativa fra alleati che giustificavano la scelta strategica e dottrinale dell’Alleanza Atlantica, nonostante le sue clamorose con­ traddizioni concettuali. Consapevole di questa novità, la dottrina strategica della Nato è ora in una fase di lenta trasformazione, orien­ tandosi gradualmente da una prevalenza quantitativa e “continentalista” ad una qualitativa e a “connotazione marittima”, attraverso la faticosa elaborazione di concetti nuovi, e relativamente poco defini­ ti, come quelli di “intervento” con funzioni di prevenzione e deter­ renza, oltre che di controllo delle crisi e dei conflitti. Tale riconver­ sione concettuale risponde però più alle nuove esigenze globali ame­ ricane di tipo “unilateralista” che non a quelle regionali e di teatro dei partners europei. Gli Stati Uniti, infatti, stanno mettendo a punto una nuova dottrina del potere marittimo che risente sempre meno delle teorie “navaliste” di Mahan, e sempre più delle teorie “maritti­ me” di Corbett12, nel senso che tende a passare da una strategia di “controllo” oceanico, ormai indiscussa, ad una strategia di “inter­ vento” costiero di compellenza13. 9. Clancy, 1987; Hackett, 1978. 10. Freedman, 1981; Bobbitt, Freedman e Treverton (a cura di), 1989. 11. Colombo, 1992. Va peraltro aggiunto che la Russia contemporanea rappre­ senta lo stesso una minaccia potenziale, non tanto come gigante militare, quanto co­ me attore nazionale instabile, dotato di armi nucleari, e minacciato da fenomeni al­ ternati di disgregazione e di rivincita. 12. Mahan, 1990; Corbett, 1911, 1988. 13. Hays, Vallance, Van Tassel, 1997, pp. 503-592.

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La fine della minaccia navale sovietica ha infatti risolto il proble­ ma del “Sea-Control” oceanico. Il modello di Oceania, in senso stra­ tegico, è per il momento, e anche nel prevedibile futuro, perfetta­ mente sotto controllo da parte americana. Ciò che invece manca an­ cora quasi del tutto è la capacità di intervenire ovunque e poi di so­ stenere, dopo un attacco anfibio, le forze sbarcate alfine di penetrare in profondità nel territorio avversario. Si apre, cioè, per la prima volta nell’ambito del pensiero strategico di Oceania, la questione della teoria strategica offensiva, e non solo di quella difensiva, detta del contenimento, che può essere altresì de­ finita come la prima fase dello strangolamento, tipico della tradizione marittima, del “blocco” navale e dell’“embargo” sulle merci. Il principio motore della nuova strategia americana, che è in via di elaborazione dal 1989 a oggi, si è gradualmente precisato, a parti­ re dal concetto transitorio della “Discriminate-Deterrence”, fino all’attuale concezione “navalista” detta “Forward From the Sea”, che si coniuga bene alla dottrina dell’Esercito, detta “Force XXI” e, più recentemente, della “Quadrennial Defense Review”14. Alla base di questa rifondazione concettuale della dottrina strategi­ ca statunitense vi è in fondo la convinzione che il mondo resti “l’ostri­ ca” di cui gli Stati Uniti sono “la perla”15, vale a dire la riscoperta di quella filosofia “unilateralista” dell’intervento, che viene ideato e deci­ so autonomamente, quindi modulato secondo procedure americane, senza sottostare a vincoli o condizioni posti dagli alleati16. Non ca­ sualmente è proprio la Marina la Forza Armata che, prima fra tutte, sta elaborando la sua dottrina di “presenza” e “risposta”, basata sulla totale autonomia politica dell’intervento, anche di quello in profondità. La politica statunitense di intervento, diretta a sedare o prevenire i conflitti, avviene infatti nel quadro di un pianeta che, bene o male, ha ormai accettato le regole del gioco americano (mercato e demo­ crazia formale), non si contrappone più ideologicamente al suo do­ minio culturale, è tecnologicamente inferiore, o almeno largamente distaccato, e quindi risulta potenzialmente “globalizzato” e omoge­ neizzato sul modello americano17. Di qui la possibilità e l’opportu­ 14. Vedi a questo proposito la ricca letteratura tecnica sull’evoluzione dei con­ cetti e delle dottrine statunitensi in: Kitfield, 1995. 15. Santoro, 1987, 1992, ed. ingl. 16. Su questo punto si veda il recente volume di Nordlinger, 1995 che per primo ha teorizzato la dottrina unilateralista intesa come forma moderna di neoisolazioni­ smo imperiale. 17. Si veda su questo punto il dibattito in corso negli Stati Uniti in Gholz, Press e Sapolsky, 1997 e in Mastanduno, 1997, oltre che in Huntington, 1997.

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nità per gli Stati Uniti di sganciarsi da impegni permanenti con gli Alleati (come era accaduto, sia pure in un contesto diverso, fino al 1941), e quindi recuperare, per questa via, tanto la capacità di deci­ sione quando la libertà di manovra. Nel contesto di questa radicale trasformazione strategica, si mani­ festano, peraltro, in modo più vistoso che nel passato, le contraddi­ zioni implicite nella nuova strategia della Nato, che pure dovrebbe configurarsi come la dottrina ufficiale della futura “Oceania” globa­ le, egemonizzata dagli Stati Uniti. La proiezione di forza “from the sea” sui litorali e nell’entroterra è infatti una riformulazione egemonica della dottrina del Seacontrol, tipica delle Grandi Potenze insulari classiche, che contrasta radicalmente con le necessità peninsulari dell’Europa di prevenire, deterrere (ed eventualmente intervenire) anche in aree continéntali land-locked, cioè senza sbocco al mare, come è oggi il caso della Bosnia, o peggio ancora sarebbe, in territori eurasiatici molto più lontani dal mare. Esiste cioè una contraddizione crescente fra le esi­ genze dei paesi non direttamente oceanici dell’Europa e i vincoli che la dottrina di Oceania, per sua natura, si vede costretta a impor­ re. Di qui la necessità di una revisione culturale profonda delle ipo­ tesi di partenza, ma anche dei capisaldi della teoria occidentale post­ bellica. L’Europa dovrebbe ormai prendere atto del fatto che non può più essere considerata solo come una parte di Oceania, ma che deve in­ vece trovare un’identità più complessa e variata, sia culturale che geopolitica e geostrategica. Questa chiave d’analisi, più specificapiente europea, potrebbe essere individuata sulla base della consoli­ data tradizione storico-culturale del continente, nella coppia opposizionale dei macro-concetti di “Occidente” e di “Oriente”. La diade “Occidente - Oriente”18 riconduce infatti alla grande tra­ dizione etnica, storica e culturale che, dall’antichità ad oggi, ha con­ notato le relazioni aU’intemo del “Continente Antico” (Eurasia + Africa). Se l’Occidente è - come cercheremo di dimostrare - una conseguenza dell’oriente, che trae origine e si autonomizza, anche concettualmente, per separazione e per contrapposizione, allora la sua “localizzazione” spaziale primaria non può non essere quella del territorio che, con dimensioni e con centralità diverse, venne gra­ dualmente chiamato Europa, e gradualmente identificato come tale. 18. Mazzarino, 1947, 1989; Jünger e Schmitt, 1987, ed. it.; Guenon, 1924, 1993, ed. it.; Campbell, 1993, 1996, ed. it.

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La nostra tesi è che l’esistenza autonoma dell’occidente e dell’Europa, intesi come denominazione e come caratterizzazione di uno spazio territoriale organizzato e definibile, sia il prodotto deri­ vato di una specie di fall-out culturale e storico e che la sua identità si sia definita essenzialmente per divisione e per differenza rispetto all’Oriente. II suo cuore (o motore) geografico e geostorico ha infat­ ti cambiato più volte dimensione nel corso del tempo, ma il “siste­ ma” Europa è ancora, grosso modo, lo stesso. Esso comprende uno spazio concettuale elastico, dai confini in­ certi e modificabili, che è però sempre individuabile, e che può esse­ re ricavato dalle dimensioni riconoscibili della sovrapposizione dell’“idea” di Occidente allo “spirito” dell’Europa. Si tratta di un Ortung (localizzazione) relativamente ristretto, dotato però di un “alone” d’influenza che talvolta può essere confuso con il suo nu­ cleo centrale, ma che invece illumina solo le aree di influenza. La differenza fra “localizzazione e “alone” è comunque rilevante e non può essere sovrapposta. Lo Schwerpunkt dell’occidente che in questo Ortung può identi­ ficarsi dovrebbe quindi tornare ad essere collocato in Europa, senza abusive estensioni né verso Ovest né, tantomeno, verso Est. La con­ trapposizione geopolitica fra Oceania ed Eurasia, dunque, che è stata il frutto della graduale prevalenza della modalità di relazione che abbiamo definito con la diade “Terra-Mare”, globalista ed extraeuro­ pea, se non antieuropea19, e che ha trovato la sua massima verifica nel sistema bipolare postbellico, dovrebbe ormai lasciare spazio alla rinnovata potenziale contrapposizione fra Occidente e Oriente, cen­ trata sull’Europa riunificata e sui suoi elastici confini. Il concetto teorico di Occidente comporta quindi una rilettura “idiosincratica” della storia dell’Europa fin dalle sue origini nel mondo antico che, accoppiata a quella più “nomotetica” della geo­ grafia del continente, ci aiuterebbe a leggerne le vicende attuali, or­ ganizzandole in una dimensione molto più comprensibile e assai meno superficiale di quanto non sia quella funzionalista o istituzio­ nale. D’altra parte è proprio la crisi strutturale delle organizzazioni intemazionali create durante la guerra fredda20, a partire dalle Na­ zioni Unite e dall’Unione Europea, a suggerire la necessità di una ri­ flessione meno convenzionale sul significato da attribuire a quei/rameworks istituzionali, normativi e procedurali, che sono sempre me­ no in grado di svolgere le loro funzioni operative (per non dire degli obiettivi strategici) per le quali erano stati immaginati e organizzati. 19. Schmitt, 1950, 1992, ed. it. 20. Santoro, 1997.

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A questo si aggiunga che la crisi sempre più palese del sistema delle relazioni istituzionali di tipo multilaterale, nonostante la sua apparente generalizzazione, ha fatto andare in crisi anche la credibi­ lità filosofica dei principali riferimenti teorici della cultura politica anglosassone, basati appunto sul navalismo e sul normativismo, che hanno fatto da sfondo per decenni al concetto di Oceania (e quindi anche all’Atlantismo) così come pure i riferimenti teorici della cul­ tura imperiale russa, e quindi alla sua recente versione comunista che hanno sempre fatto da sfondo ad Eurasia21. La “de-oceanizzazione” dell’occidente, come concetto e come oggetto, nonché la sua riorganizzazione all’interno di una concezio­ ne che abbiamo già definito come “peninsulare”, è tuttavia un pro­ cesso complesso e non lineare che è appena agli inizi e la cui evolu­ zione è di fatto molto problematica, aperta a tutte le soluzioni. Ma se l’Occidente è essenzialmente l’Europa, mentre l’America è solo l’Estremo Occidente22, e gli Oceani non sono altro che lo stru­ mento tecnico - si potrebbe dire - attraverso il quale l’Europa ha potuto difendersi attivamente dall’oriente, allora è chiaro che nel mondo postbipolare sarà necessario recuperare tutti gli aspetti e i ri­ ferimenti culturali dell’occidente europeo, ben al di là di quelli strettamente oceanici, coniugando la matrice terrestre a quella marit­ tima, in una chiave d’interazione che può essere appunto definita come “peninsulare”. Sarà, in altri termini, necessario riannodare i fili dispersi della oc­ cidentals continentale, difensivo-controffensiva al tempo stesso, la cui identità poggia sull’obiettivo comune di alleggerire la costante pressione e minaccia da Oriente, e a questo scopo rinverdire la cul­ tura dei “limes”, sia di quelli a Est che di quelli a Sud, ripercorrendo i sentieri dell’austerità e dell’ingegnosità dell’architettura militare, le radici psicologiche del pensiero ossidionale, di cui la Festung Euro­ pa è stata sistematica portatrice, perlomeno a partire dal Basso Im­ pero romano, fino alla gemmazione e alla fioritura dell’incastella­ mento medievale23. Sarà inoltre indispensabile finalizzare strategicamente le strutture della nuova Europa “ricostruita”, proiettate alla conquista del merca­ to culturale e quindi all’esportazione dei valori, uscendo finalmente dal percorso obbligato del “naturalismo” funzionalista, economicista e tecno-mercantile, nonché della sua proiezione normativa e istitu­ zionale, per recuperare invece la sua funzione “missionaria” e “libe21. Dughin, 1991, 1997. 22. Alvi, 1993, 1997. 23. Aa.Vv., 1992, 1994; Storia d’Europa, voi. 2 e 3.

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rale”, anche attraverso l’uso, nobile e ardito, delle regole umane e cristiane della nuova Cavalleria24. Non si tratta infatti per gli Europei solo di difendersi combattendo per ritrovare se stessi, ma invece di riannodare i fili di una trama an­ tica, quella della “missione”, e anche quella della “crociata”, per obiettivi di pacificazione. Come altrimenti potrebbero definirsi, in­ fatti, gli interventi di peace-keeping e anche quelli di peace-enforce­ ment messi in atto dagli Europei negli ultimi anni in diverse parti del mondo, a cominciare dalla Bosnia e dall’Albania, se non come i pri­ mi, timidi, tentativi di disegnare i contorni della nuova Europa “rico­ struita”? Scriveva oltre trenf anni fa Michel Foucault alcune parole che potrebbero essere applicate alla “missione” dell’occidente con­ temporaneo: “Non dico che tutto è male ma che tutto è pericoloso. Se tutto è pericoloso, allora abbiamo sempre qualcosa da fare”25. Ben diversi dalle previsioni istituzionali “globaliste” delle Nazioni Unite sono stati infatti gli interventi, relativamente più efficaci, delle “coalizioni ad hoc” alle quali hanno partecipato i singoli paesi euro­ pei, inclusa l’Italia, sia nel Golfo che nella ex Jugoslavia o in Albania. Il concetto di “missione” tende quindi oggi a farsi nuovamente “crociata” di pace o di imposizione della pace (peace-support ope­ rations') e potrebbe, un giorno, riprendere le forme di una ideale e culturale “colonizzazione” occidentale delle terre ai confini dell’Eu­ ropa, tanto a Est quanto (forse) a Sud. D’altro canto questo programma di recupero culturale dei valori europei è ancora più necessario oggi che l’Occidente (e quindi l’Eu­ ropa) è in grado di misurarsi, con alte probabilità di successo, con la gravissima crisi di Eurasia, anche se ciò comporta il rischio di un po­ tenziale conflitto multipolare sui principi generali della civilizzazione. In effetti, un Occidente che si ostinasse a fondarsi esclusivamente sulla concezione oceanica (quindi marittima) del proprio messaggio culturale, sarebbe del tutto impotente di fronte alla complessità cul­ turale, etnica, strategica e geopolitica di un Oriente terrestre in fase di frammentazione e di ricomposizione, ma tuttavia dotato di uno straordinario patrimonio culturale e storico, al quale solo lo spessore della grande tradizione occidentale europea, integrata dalle esperien­ ze oceaniche - ma non da quelle egemonizzata - potrebbe fornire una degna risposta26. 24. Cardini 1981, 1987; Riley-Smith, 1990. 25. Foucault, 1966, 1968, ed. it. 26. Vedi la letteratura sulla ricchezza dell’occidente terrestre, dalla Mitteleuropa alle culture di spada, di toga e di tonaca delle Monarchie Assolute, delle città inter­ ne, delle terre imperiali, delle Marche di frontiera.

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In altre parole, il processo di “ricostruzione” dell’Europa potrebbe diventare operativo solo a patto di diventare funzione della scelta, ovvero della individuazione, di un principio motore comune che fun­ ga da ispirazione e da coagulo delle energie differenziate e delle ric­ chezze polimorfe che, attraverso una simbolica unificazione “spiri­ tuale” troverebbero la forza e la capacità per esprimersi concretamen­ te. Tale principio ispiratore, originario e compiuto al tempo stesso, non può non essere altri che quello della “riscoperta dell’occidente”, simbolo forte e ricco di spessore storico e culturale, molto più antico e più significativo del relativamente recente concetto di Oceania atlantica, e quindi dell’intera tradizione culturale angloamericana. Le modalità d’azione che questo progetto dovrebbe adottare sono quelle tipiche della tradizione occidentale europea, vale a dire basate sulla procedura “difensivo-controffensiva”. Tale flessibile sistema interattivo fra difesa e attacco diventerebbe un fattore di rafforza­ mento dell’identità dell’Europa, ma, al tempo stesso, potrebbe tra­ sformarsi in un elemento di notevole attrazione per tutti i popoli di questo continente ideale che ancora oggi navigano nel limbo di una “Europeità” contestata e contrastata, e in particolare delle nazioni dell’Europa Orientale. Ne dà misura evidente la difficile situazione che si è creata con il faticoso negoziato di adesione dei paesi ex co­ munisti dell’Europa Centro Orientale alla Nato, o nelle complesse modalità di interazione di questa con la périclitante e instabile Fede­ razione russa27. Non così accadrebbe se si continuasse a procedere lungo il per­ corso obbligato del bipolarismo successivo alla seconda guerra mon­ diale che fondava le ragioni dell’occidente esclusivamente sul mo­ dello di Atlantide. “Atlantide”, infatti, che è una specificazione di Oceania, è un’al­ tra metafora rappresentativa dell’occidente euroamericano, nono­ stante la nobiltà mitologica del suo immaginario passato28. Nei fatti, invece, è stata solo la forma storica novecentesca dell’“Oceania” oc­ cidentale, in quanto ha rappresentato l’idea e la realtà obbligata del­ la saldatura politica e militare fra le due sponde di quell’oceano det­ tata dalla contrapposizione della Guerra Fredda. Oceania, in quanto tale, è però - come abbiamo già detto - un concetto molto più gene­ rale, che non ha una vera localizzazione definita e orientata. Si po­ trebbe piuttosto definirla come una concezione particolare della “spazialità” generale, e in particolare come la forma generale del 27. Vedi Kokoshin, 1996, e documenti Nato. 28. Campbell, 1964, 1992, ed. it.; Luce, 1969, 1994, ed. it„ pp. 15-29.

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“mare”, quindi come una modalità morfologica della “territorializzazione” marittima. In effetti però è stata proprio l’assenza di una vera “territorializzazione”, cioè l’assenza di Ortung, tipica della spazialità marittima, che ha impedito, o quantomeno ha vincolato seriamente, l’azione imperiale di Oceania, confinandola alla sua funzione precipua di “controllore” marittimo che non è mai in grado di assegnare le for­ me e stabilire le regole dell’“ordinamento” spaziale e terrestre, cioè dell’ Ordnung sul territorio che gestisce. Oceania non può quindi essere considerata come una “patria” co­ mune proprio perché non ha un Ortung, ma neppure un Ordnung. Lo stesso diritto del mare, che parrebbe codificare in norme generali i principi del potere marittimo, così come si sono consolidati fin dall’antichità e, in particolare, a partire dalle grandi scoperte geogra­ fiche del XV secolo, non ha alcuna localizzazione definita, ma rap­ presenta solo uno spazio globale deterritorializzato su cui esercita la sua legge, che è un compromesso fatto di aggiustamenti successivi della potenza marittima più forte con i suoi più immediati inseguito­ ri. Non ha quindi un “centro”, e neppure una vera patria d’origine, perché è il derivato di imperi marittimi “virtuali” che, nella globaliz­ zazione del diritto del mare, hanno perduto invece che guadagnato la loro identità presunta. Gli esempi più singolari di questo fenomeno di dispossessamento o di alienazione dell’identità sono fomiti dal co­ mune destino subito dalle talassocrazie dell’antichità, ovvero del me­ dioevo e dell’età moderna, da Creta a Cartagine, da Atene a Genova e Venezia, fino al Portogallo, all’olanda e, oggi, all’Inghilterra29. Tutte queste grandi potenze marittime, antesignane di Oceania nei “Sette Mari”, che hanno gettato le basi del diritto della navigazione, dapprima consuetudinario e poi pattizio, sono state ristrette e quindi ridotte a poca cosa, dall’emersione di potenze terrestri, molto spesso selvagge e primitive, che dal fondo dei continenti le hanno gradual­ mente piegate e sconfitte, con la forza delle armi e della demografia, ma soprattutto attraverso l’occupazione territoriale, ovvero la sua denegazione. In altre parole è stato quasi sempre il “retroterra” continentale a condizionare la libertà, e poi il destino, delle potenze marittime, so­ prattutto di quelle “peninsulari”. Con l’eccezione di Cartagine, infat­ ti, la partita delle città-stato greche e fenicie, quella delle Repubbli­ 29. Vedi letteratura sulle potenze marittime del passato. In particolare, per Car­ tagine, Lancel, 1992, 1995, ed. ingl.; e per Venezia, Cessi, 1968; Lane, 1973, 1991, ecc.

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che Marinare italiane e anseatiche, delle Grandi Potenze rinascimen­ tali, si è sempre conclusa con la loro inevitabile sconfitta proprio perché il “fronte a terra” non era mai all’altezza del “fronte a mare”. La premessa politico-filosofica della “libertà dei mari” è, quindi, sempre più spesso da mettere in discussione. Con essa viene peraltro decolorandosi anche il tratto innovativo delle concezioni ecumeniche e globali, tipiche della dottrina imperiale marittima, prima europea e poi americana, di cui la rete istituzionale delle relazioni intemaziona­ li contemporanee sono una moderna e concreta dimostrazione. Il rapporto fra pensiero navalista, diritto del mare e teorie istituzionaliste è infatti molto più stretto di quanto non appaia a prima vi­ sta. Come tale esso segue il destino del potere marittimo, nelle sue cicliche fasi di ascesa e declino30. L’indivisibilità e l’equivalenza dei mari oggettivamente unifica i bacini oceanici in aree distinte esclusi­ vamente su base geografica, “facendo il punto”, cioè differenziando i diversi spazi attraverso l’uso dei meridiani e dei paralleli. Il con­ trollo politico dello spazio marittimo e la universalizzazione delle norme favorisce il processo di formazione delle istituzioni regionali e/o globali. Il principio della “libertà dei mari”, che è la naturale conseguenza dell’impossibilità materiale della conquista del mare, è infatti la di­ mostrazione dell’assenza di un “ordine” territoriale e quindi di ogni possibile localizzazione gerarchica. Il concetto schmittiano di “No­ mos”, il cui significato primario è proprio quello di “appropriazione”, non può essere applicato al mare. Ma anche il suo secondo significa­ to, che è quello di “dividere e distribuire” ciò di cui ci si è appropria­ ti, è inapplicabile al mare, che è e resta indivisibile. Non rimane che il suo terzo significato, quello dell’“uso”, nel senso di “messa a frut­ to” che può essere applicato al mare31, in particolare da quando viene praticata la pesca oceanica, e si comincia a studiare l’utilizzazione del fondo marino alla ricerca non solo di giacimenti di idrocarburi, ma anche per la coltivazione dei noduli polimetallici32. Queste considerazioni potrebbero spiegare, almeno parzialmente, l’apparente contraddizione che ha animato tutto il corso della storia degli Stati Uniti d’America, sempre a cavallo fra “isolazionismo” ed “interventismo”. Perfino nel secolo XX, il “secolo americano” per eccellenza, queste oscillanti perplessità non sono mai del tutto 30. Modelsky e Thompson, 1988, pp. 3-26. 31. Non a caso il mito greco di Teti, dea del mare e sorella di Oceano, rappre­ senta proprio la “fecondità” del mare e non la navigazione; Apollodoro, 1995. 32. Schmitt, 1942, 1986, pp. 63-64; Bilardo e Mùreddu, 1984.

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scomparse33. Ed è per queste ragioni che anche il modello “Atlanti­ de” non può più essere adottato come rappresentazione adeguata dell’occidente. E ciò perché l’isolazionismo americano (America first, Fortress America) rinasce sempre dalle sue ceneri sotto le specie più diverse, anche sotto quelle più recenti deH’“unilateralismo”, cioè del recupe­ ro dell’assoluta libertà di manovra politica, nonostante le alleanze e gli impegni all’estero34. L’isolazionismo insulare degli Stati Uniti, infatti, non è tanto il frutto del provincialismo storico degli Ameri­ cani “interni”, e neppure il risvolto populista e sano che contrasta il naturale “imperialismo del grande capitale”, - come si sosteneva ne­ gli anni Trenta - ma è invece la costante e fisiologica riproduzione del dilemma irrisolto di uno “spazio organizzato” che è al tempo stesso “isola” e “continente”, e che da entrambi questi caratteri è strutturalmente plasmato. “Continental United States” è stata la for­ mula con cui fino ad oggi il pensiero strategico americano si è rivol­ to all’opinione pubblica americana e al mondo quando si è parlato di difesa territoriale degli Stati Uniti35. Si tratta quindi di una concezio­ ne continentale, che include anche il concetto di “Frontiera” mobile, tipico del secolo scorso, che contrasta logicamente, con la flessibi­ lità insulare e marittima (la “Nuova Frontiera” kennediana) della sua dimensione imperiale36. Basti pensare, per rendersi conto dell’aspetto continentalista del pensiero politico americano, che l’occupazione ottocentesca del “West” americano avvenne in modo sostanzialmente parallelo, an­ che se più tardivo, alla conquista del grande Est siberiano da parte dei Russi dei due secoli precedenti37. Come i Russi si sono gradualmente identificati nell’immensità dello spazio conquistato, così gli Americani sono cresciuti di statura politica e di identità nazionale, proprio attraverso la conquista terri­ toriale del proprio continente. Non è stata dunque solo la comune cultura, lingua, religione, co­ stume, origine etnica a decidere della “russità” o dell’“americanità”, ma è stata invece la capacità di espandersi sul territorio, di occupar­ lo, di dissodarlo e coltivarlo, di erigere prima fortezze e poi città, 33. Schlesinger, 1986, 1991. 34. Nordlinger, 1995; Luttwak, 1993, 1994, ed. it. 35. Vedi la pianificazione strategica dello US Army in WW-II, e l’attuale “Centcom”, il cui comando era fino al 1997 situato a Panama, e che difende appunto gli “Stati Uniti Continentali”; vedi anche Annual Defense Report 1995, 1996, 1997. 36. Turner, 1893, 1968, ed. it. 37. Bobrick, 1992, 1995; Pipes, 1974.

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cioè di denominarlo, poi dividerlo e finalmente farne uso (i tre si­ gnificati del “Nomos della Terra” secondo Schmitt) a decidere della “natura” degli Americani38. Per fare un esempio le installazioni militari degli Stati Uniti con­ servano tuttora, e in tutto il paese, gli antichi nomi dei “fortini” mili­ tari del passato, eretti a difesa del territorio conquistato: da Fort Benning a Fort Knox, a Fort Bliss, allo stesso modo di come le città siberiane non sono altro che delle fortezze allargate a contenere la popolazione civile. Il continente americano in quanto tale, e non il mare che lo cir­ conda, rappresenta quindi V Ortung sulla cui base si è costruito Y Ordnung politico ed intellettuale americano, i cui fondamenti idea­ li poggiano sui testi dei Padri Fondatori39. L’eterna tentazione isola­ zionista è forse il fondamento originario dell’eccezionale e ambigua energia americana proiettata verso l’esterno. E una specie di perenne “nostalgia dell’Heartland”, che definisce lo spazio interno (domesti­ co) nelle forme di uno stato federale forzatamente unificato con la guerra di Secessione, e sempre più preoccupato dall’equilibrio fra “melting pot” patriottico e multiculturalismo subnazionale. E questa la componente più genuina (perché terrestre) di un paese che ha pe­ raltro ereditato dagli Inglesi una filosofia marittima dominante40. In effetti la “terrestrità” del continentalismo americano ha una doppia matrice culturale che ne ha contrassegnato lo stile. Da una parte è di derivazione anglosassone, e risente quindi indirettamente della specifica “marittimità” britannica. In questo senso le prime on­ date di “conquistatori del West” erano cacciatori di pellicce, sempre in movimento, esploratori, e poi, con la seconda generazione, anche allevatori. Ma a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la ter­ za ondata di immigrazione, fatta di tedeschi e irlandesi soprattutto, muoveva verso Ovest, non più per controllarne e sfruttarne le ric­ chezze, bensì per occuparlo stabilmente, dividersi la terra e coltivar­ la. La vicenda della formazione degli Stati Uniti è stata quindi divi­ sa fra queste due anime in conflitto potenziale e comunque mai dav­ vero in armonia. La mancanza di un Ortung sufficientemente dimensionato, e per derivazione la mancanza di un Ordnung stabile, valido sia per il ma38. Per quel che riguarda la Russia si rinvia a Pipes, 1974, nonché a Santoro, 1995f. 39. Tocqueville, Bonazzi, 1977, 1986; Federalist Papers; Bairati, 1976; Hunting­ ton, 1981. 40. Schlesinger, 1992; Beard, 1934.

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Fonte: Brzezinski Z., Game Plan, Boston, The Atlantic Press, 1986

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tonte: Brzezinski Z., (jame Plan, Boston, The Atlantic Press, 1986

re che per la terra, era stata la questione irrisolta alla radice del falli­ mento strategico di quasi tutte le potenze marittime. L’ Ordnung, in­ fatti, presuppone il “dominium”, se non l’“imperium”, e non sola­ mente il “controllo”. Non scaturisce quindi solo dall’influenza o dall’egemonia informale, ma invece dalla capacità di possesso e di organizzazione del territorio, anche sotto le specie dell’“equilibrio” di potenza multipolare41. Che questo sia stato, nel lungo termine, il destino di quasi tutte le potenze marittime, dall’antichità ad oggi, è storicamente dimostrato da innumerevoli casi. Quello che però non viene mai messo suffi­ cientemente in rilievo è il fatto che, spesso, la causa originaria del loro declino era dovuta soprattutto alla mancanza di spazio “dome­ stico” che ha caratterizzato la vicenda storica di gran parte delle po­ tenze marittime42. In particolare gli imperi talassocratici hanno regi­ strato tempi di declino più rapidi a seconda che avessero o meno un territorio sufficiente, oppure troppo ridotto (Portogallo, Inghilterra, Olanda, Atene, Creta, Genova, Venezia, ecc.). Non esiste, in altri termini, una vera possibilità di autoprotezione nell’acquisizione delle risorse, ovvero la possibilità di affidarsi alla “self-reliance” o all’autosostentamento, qualora il sistema di comu­ nicazione della madrepatria con il sistema delle colonie e con l’im­ pero, venga compromesso o bloccato dalla fragilità e dall’insicurez­ za della Madrepatria. La difficoltà di proporzionare la dimensione territoriale della Madrepatria rispetto all’estensione del controllo marittimo, è stato infatti sempre un problema insuperabile, Perfino nel caso degli Stati Uniti che, non casualmente, sono stati talvolta denominati la “Nuova Atlantide” per loro macrodimensione insulare e al tempo stesso continentale, il problema della dimensione terrestre e soprattutto la loro posizione nello spazio planetario ha sempre rappresentato un fattore estremo di limitazione. In effetti la loro “perifericità” spaziale rispetto all’“Isola del Mondo” eurasiati­ ca, alla lunga non poteva non diventare una forma di “estraneità” politica e culturale rispetto al macrocontinente. In altri termini gli Stati Uniti, che sono la potenza marittima più so­ vradimensionata territorialmente di tutta la storia del mondo, non so­ lamente non sono in grado di stabilire un Ordnung, secondo la tradi­ 41. Krasner, 1995. 42. Su questo punto si veda il contrasto politico fra i sostenitori dell’espansione terrestre nella Valle Padana e i fautori del consolidamento dell’impero marittimo nei secoli centrali della Repubblica di Venezia, fra il Trecento e il Quattrocento, fi­ no alla sconfitta di Agnadello (1509); cfr. Cessi, 1968; Hale, 1993.

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zione degli Imperi talassocratici ma, anzi, accentuano la loro “estra­ neità” rispetto al Tricontinente Antico, e alla conflittualità culturale ra­ dicata nella sua geostoria, perché si sforzano di esportare, senza poter “comprendere” né “sentire” l’altro da sé, il proprio modello di “Nuo­ va Gerusalemme” costruita “altrove” e negli ultimi due-tre secoli43. Ne deriva che, paradossalmente, V Ortung degli Stati Uniti, per quanto di dimensioni continentali - e anzi proprio per questo - tenda a diventare nel lungo periodo un ostacolo all’acquisizione e/o al mantenimento dell’egemonia marittima, perché la propria griglia in­ tellettuale e spirituale di lettura di Eurasia è viziata apriori proprio dalla specifica griglia di lettura che essi hanno acquisito, per forza di cose, in relazione al proprio territorio di base, il Western Hemisphere. La “distanza” culturale dell’America dal Tricontinente antico è infatti superiore a quella misurabile attraverso la sua distanza spa­ ziale dall’isola del Mondo. Gli Stati Uniti, in particolare, sono e re­ stano il prodotto dell’opposizione sia all’Europa che all’Asia. La lo­ ro occidentalità è marcata a fuoco da questa diversità di origine, an­ che costituzionale. Hamilton e Jefferson, così come Washington, avevano già inventato la diversità delTAmerica per costruirne l’identità. Come già Samuel P. Huntington ha rilevato, questa con­ traddizione esplode anche quando la relazione fra Europa-America si ribalta in quella fra America-Europa44. Resta comunque sempre aperto il problema della natura dell’“oc­ cidentalità” degli Stati Uniti e delle potenze marittime, inclusa la Gran Bretagna. Mentre gli attori con sufficiente territorio, e nel con­ tempo dotati di “insularità” ovvero di “contiguità protetta”, sopravvi­ vono più a lungo perché possono impiegare meno risorse per la pro­ pria difesa, quelli troppo sottodimensionati, e soprattutto senza conti­ guità protetta, sono costretti a investire crescenti risorse nella sicu­ rezza, e per converso a ridurre le attività d’investimento, anche poli­ tiche e militari, gettando le basi del proprio declino tendenziale45. Si pensi, per fare un esempio, che mentre nel 1914 la Gran Breta­ gna, nonostante fosse una potenza marittima insulare (e quindi natu­ ralmente protetta), era il principale creditore netto su scala mondiale e che la quota dei suoi investimenti all’estero era di gran lunga la più ampia del pianeta, nel 1918 era diventata debitrice netta verso l’estero, invertendo il rapporto con gli Stati Uniti che presero fin d’allora il suo posto sui mercati finanziari. 43. Merk, 1963. 44. Huntington, 1981. 45. Kennedy, 1987.

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In realtà anche le potenze marittime insulari, dotate di un impero coloniale terrestre, come era stato il caso del Regno Unito nella Pri­ ma Guerra Mondiale, non avevano mai risolto il grave problema della protezione e della sicurezza territoriale dell’impero oltremare che le rendeva quasi altrettanto vulnerabili delle potenze terrestri. Inoltre, le potenze marittime classiche, per mancanza di territorio sufficiente e/o per scarsità di popolazione, non erano state in grado di esportare un “modello” imperiale credibile il cui spessore rispon­ desse ad esigenze complesse, ben al di là dell’esclusiva capacità di dominio militare, ovvero della propria superiorità marittima e nava­ le, così che l’impatto politico e culturale da esse impresso ai popoli soggetti è stato generalmente limitato, e relativamente caduco. Nel caso degli Stati Uniti, che rappresentano invece l’eccezione rispetto ai limiti territoriali delle Madrepatrie negli Imperi talassocratici, l’ampiezza continentale dello spazio interno disponibile ha creato un altro tipo di dilemma permanente, quello del trade-off fra espansione degli impegni politici e militari assunti e la formazione delle risorse economiche necessarie a garantire il benessere interno del proprio territorio, che è ampio e popoloso. Tale insolubile con­ traddizione strutturale tende a risolversi attraverso al periodica oscil­ lazione della linea politica americana fra le due forme dell’“interna­ zionalismo” e dell’“isolazionismo” che ne hanno caratterizzato la storia fin dal Farewell Address del suo primo Presidente George Washington nel 1796. Le due anime della classe politica americana sono tuttora presenti nel panorama politico statunitense, come dimostra anche il recente studio di Eric A. Nordlinger46. Esse sono il prodotto della consape­ volezza di essere al tempo stesso “isola” e “continente”, di essere quindi, per natura, un attore oceanico (al centro fra Atlantico e Paci­ fico) destinato al mare, ma altrettanto capace di sopravvivere chiu­ dendosi a riccio all’intemo del solo Western Hemisphere4748 . E prevalso comunque, almeno a partire dalla fine del secolo scor­ so, il ruolo dell’America come grande potenza imperiale marittima. Tuttavia la “nostalgia” continentalista è ancora molto forte e radica­ ta, soprattutto nelle aree interne del Midwest e della Corn BelF*. Questa doppiezza strutturale della natura geopolitica e della filo­ sofia politica americana è però giustificata dall’incerto equilibrio spaziale fra terra e mare che caratterizza la geografia americana. Ma 46. Nordlinger, 1995. 47. Vedi i rapporti del War and Peace Studies del CFR in Santoro, 1987, 1992. 48. Nordlinger, 1995; vedi bibliografia sull’isolazionismo in Santoro, 1992, ecc. 95

è stata soprattutto la sua distanza geografica e psicologica da Eura­ sia a condizionarne l’attività, limitandone la capacità di accesso cul­ turale alla questione primordiale della relazione, critica e biunivoca, fra Oriente e Occidente, che è invece la condizione primaria della tradizione politica europea. Anche nei casi in cui la durata nel tempo dei sistemi imperiali “oltremare” di piccole potenze marittime ha caratterizzato, e spesso determinato, il destino delle proprie “colonie”, come è stato il caso di Venezia in Dalmazia e nel Mediterraneo Orientale, o del Porto­ gallo in Africa e in Brasile, va purtuttavia ammesso che l’eredità storica della madrepatria nelle colonie non è mai stata così radicata e globale da non poter essere rapidamente appannata, e resa tutto sommato superficiale ed epidermica, dalla vitalità prorompente delle terre sottomesse. La precarietà dei lasciti culturali delle Madrepatrie nei territori ex coloniali è soprattutto evidente nel caso degli Imperi di seconda ge­ nerazione delle potenze europee in Africa e Asia, a partire dal seco­ lo XIX, la cui durata, con qualche eccezione, si è limitata a meno di cento anni49 e il cui ricordo si è spento in tempi ancora più brevi.

49. Pannikar, 1958, ed. it.; Fieldhouse, 1973, 1975, ed. it.; Fage, 1978, 1988; Wesseling, 1991, 1996, ed. fr.; Deschamps (a cura di), 1970.

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II. Strategie

5. Le strategie dell’ Occidente

Il concetto di Oceania è dunque un’idea bifronte e politicamente insufficiente: rispecchia da un lato una potenziale capacità di gestio­ ne, diffusa ma limitata e sempre provvisoria, del potere globale, men­ tre dall’altro lato non risolve il problema centrale dell’occidente, e in particolare dell’Europa, che è quello di difendersi, sul fronte terre­ stre, dalla minaccia dell’oriente in qualsiasi forma essa si presenti. Possiamo quindi anticipare una prima considerazione da quanto detto: Oceania, anche nella sua forma attuale di Atlantide euroame­ ricana, non è identificabile con il concetto spazio-temporale di Occi­ dente, che ha una valenza molto più complessa e ricca di implica­ zioni, sia culturali che territoriali, in quanto presuppone sia un Or­ tung che un Ordnung differenziato e radicato nella diversità naturale e organizzativa della landmass eurasiatica. La frequente sovrapposizione dei due concetti, quello di Oceania e quello di Occidente, avvenuta soprattutto negli ultimi cinquanta anni, era dovuto esclusivamente al rispecchiamento della supremazia americana sull’Europa, a sua volta divisa in due dalla guerra e mi­ nacciata da Est. Ma l’idea che Oceania, o meglio “Atlantide” per i suoi connotati euroamericani attraverso l’oceano Atlantico, rappre­ sentasse il Geist dell’intero Occidente, è stata un’arbitraria operazio­ ne riduzionista postbellica di un problema più generale1. Questo è un punto di sostanza che va approfondito. L’atlantizzazione dell’occidente è stato un fenomeno derivato nel secolo delle ideologie dalla fine del sistema del diritto pubblico europeo e dalla 1. Per il concetto di “Geist” e la sua origine filosofica, si veda Hegel. 1807 e 1817.

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conseguente esplosione della “guerra civile europea” di cui hanno scritto molti studiosi del Novecento, e in particolare Cari Schmitt e, più recentemente, Ernst Nolte2. La distruzione del sistema del diritto pubblico europeo, a partire dal 1914, ha comportato infatti un drastico rimodellamento, non solo dell’ Ordnung (con il passaggio dalla “bilancia di potenza” del siste­ ma bipolare all’ordine mondiale), ma perfino dell’Ortung che, in no­ me delle ideologie “ordiniste” (dal comuniSmo, al fascismo, all’isti­ tuzionalismo) è stato per così dire “de-territorializzato”, assegnando allo spazio una pura e semplice funzione “virtuale” di raccordo fra informazioni e sistemi di controllo collegati fra loro, principalmente se non esclusivamente, dalla generalizzazione delle ideologie. La “deterritorializzazione” dello spazio è però un processo di­ struttivo in quanto tende a dematerializzare e ad astrarre dal biologi­ co e dal reale. Esso viene così sostituito dallo “spazio ideologico”, ovvero “teologico”, o perfino “tecnico”, che ne spoglia l’essenza concreta. Ne derivano forme spurie o virtuali d’uso dello spazio per fini di “destino” {Schicksal), ovvero per realizzare il “tempo”, quin­ di la filosofia della storia. “Destinarsi - scriveva Martin Heidegger nel 1962 - significa: incamminarsi verso l’assunzione di un mandato su cui impende un destino ancora inespressivo”3. Lo “spazio”, in questa prospettiva, viene dunque sacrificato al “tempo” in nome di un “progetto” generale, ovvero di un “destino” evoluzionista collet­ tivo, basato sull’indimostrabile principio che il “progresso” di per sé conduca all’omologazione4. In questo contesto la relazione stretta fra le ideologie universaliste o globaliste, dal comuniSmo all’istituzionalismo, e la filosofia del potere marittimo, è molto evidente. La uniformità indiscussa dello spazio marittimo induce, infatti, a considerare possibile una parallela omogeneizzazione anche dello spazio terrestre, e soprattutto l’ap­ piattimento delle differenze, delle tradizioni, delle etnie, delle cultu­ re. La “normalizzazione” marxista è stata il massimo, quanto invo­ lontario, esempio di questa trasposizione concettuale - dal mare alla terra - dell’ordine politico-istituzionale di origine marittima indiffe­ renziata, innestato sul filone imperiale russo-bizantino, tirannico e sanguinario. E pur vero, peraltro, che le idee universaliste hanno avuto spesso anche una origine terrestre, o continentalista. Ciò vale in particolare 2. Schmitt, 1950; Nolte, 1987, 1988, 1995; Galli C„ 1996; Portinaro, 1982. 3. Heidegger, 1962, 1990, ed. it., p. 11. 4. Nisbet, 1970; Lasch, 1991, 1992, ed. it.

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per la “teoria degli imperi” che nasce in Eurasia5, e in particolare in Cina, ovvero nell’Antico Oriente mesopotamico, o prima ancora in Egitto6. Vi è però una radicale differenza fra gli imperi terrestri clas­ sici, basati sull’aggregazione e sul controllo multietnico di territori e popoli diversi, e la concezione degli imperi virtuali, di radice ideolo­ gica o marittima. Nel primo gruppo di casi, infatti, gli imperi avevano anzitutto un problema di “territorializzazione”, quindi di delimitazione dei confi­ ni con una implicita distinzione fra il “sé” e gli “altri”. In questo senso la filosofia politica dell’impero Cinese è illuminante. La divi­ sione del mondo in cinesi e barbari è una chiave interpretativa chia­ rissima di questa incapacità degli imperi classici, anche dei più grandi, ad oltrepassare se stessi deterritorializzandosi 7. Nel secondo gruppo di casi, cioè nella concezione degli imperi ideologici o virtuali, il senso del limite non esiste più. E come se il “destino” spazzasse via la fisicità del territorio e ne abbattesse i con­ fini attraverso l’aspirazione totalizzante all’universalità. Lo spazio diventa pura “virtualità”, quindi un’astrazione indefinita rispetto al controllo degli uomini, delle loro coscienze e volontà. E il risultato di una “spazialità” diversa che solo nei mari, o nei pascoli nomadici, potrebbe essere ancora una volta, ma solo parzialmente, ritrovata8. Parve quindi giustificato ai più immaginare che il nuovo “Ordine” fosse possibile applicando le stesse regole d’ingaggio utilizzate dalla dottrina marittima del “controllo”, sottovalutando quindi le diversità, e le differenze che sono invece la forma profonda, e quindi l’espres­ sione interna, del Geist dei popoli e dei territori. Atlantide sembrò così prefigurare abusivamente un destino comu­ ne ai popoli sulle due sponde dell’Oceano che, per quelle stesse ra­ gioni, e proprio in una serie di sedi organizzative intemazionali, re­ gionali e globali, trovarono il loro referente ordinativo. Di qui la fi­ losofia profonda dell’alleanza atlantica, che va molto al di là del suo pur importante contenuto difensivo, rispetto alla ben identificata mi­ naccia proveniente da Oriente. Essa consiste infatti nella implemen­ tazione operativa del principio generale, di matrice americana, della cosiddetta “democrazia intemazionale” che ha fatto, e fa tuttora, da 5. Wittfogel, 1929; Doyle, 1986; Schmitt, 1996, ed. it. 6. Liverani, 1988; Grimal, 1988, 1990, ed. it.; Spence, 1974, 1986. 7. Su questo punto è illuminante sia il volume di Spence, cit., sia quello di Pey­ refitte, 1989. 8. Sulla relazione intercorrente fra dottrine marittime e talassocratiche, si veda Chaliand, 1995.

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sfondo al processo di unificazione istituzionale dell’Onu, della Nato e dell’unione Europea9. Ma, come era già accaduto alla Gran Bretagna nel secolo prece­ dente, la cui supremazia politica d’origine marittima giunse a conclu­ sione con la prima guerra mondiale, il conflitto ebbe il risultato di spezzare finanziariamente le reni all’egemonia imperiale britannica10. Ora però, anche il modello statunitense di Atlantide, forma rinnovata e specializzata del concetto più generale di Oceania, rischia un natu­ rale, e forse irreversibile, declino11. Le ragioni di questo invalicabile vincolo originario, sia progettua­ le che politico, sono di agevole intuibilità. Le aspirazioni delle Grandi Potenze marittime aW Ordnung mondiale sono costantemente fallite perché, nonostante la superiorità indiscussa delle flotte ingle­ se e americana, sia nell’ottocento che nel Novecento, a queste due potenze imperiali mancò sempre, non solo il dominio, ma perfino il controllo concreto, cioè terrestre e poi aeroterrestre, della landmass eurasiatica. E, quel eh’è peggio, fece loro difetto perfino la volontà e la capacità di concettualizzarlo intellettualmente. In altri termini, le grandi potenze marittime, e anche gli imperi talassocratici più svi­ luppati e forti della loro superiorità tecnica, navale, culturale, aveva­ no, ed hanno tuttora, un limite strutturale e culturale ineliminabile che ne condiziona l’operatività e la durata. Si tratta dell’impossibilità di concepire, sia pure in termini teorici e politici, il depotenziamento prima e lo sgretolamento poi di Eura­ sia, intesa come quell’area territoriale che un tempo veniva definita nei termini della locuzione del “Tricontinente Antico”. Nessun pro­ getto imperiale delle potenze marittime, neppure il più ambizioso, si è infatti mai posto concretamente il problema di “frammentare” (e quindi di “controllare”) territorialmente la World Island, e in parti­ colare di scardinare l’unità storica deW Heartland euroasiatico. Sono stati quindi l’impegno teorico e l’innovazione intellettuale non certo le risorse e la forza, a mancare costantemente nella pro­ gettualità possibile delle diverse forme di Oceania politica che si so­ no succedute nella storia. Oggi, ancora una volta, questa impotenza intellettuale si sta rive­ lando più che evidente in relazione alla fine del bipolarismo, alla cri­ si dell’impero russo-sovietico, e all’evidente logoramento dello stori­ 9. Huntington, 1991, 1993; Bonanate, 1994b. 10. Keynes, 1921, 1931, 1968, ed. it., pp. 17-70. 11. Kennedy, 1987; ma anche Quadrio Curzio, 1996

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co vincolo fra le due parti che hanno dato vita, quasi cinquantanni fa, ad Atlantide, vale a dire l’Europa e il Nord America12. Alla radice di questo limite intellettuale stanno le categorie anali­ tiche impiegate dal potere marittimo, elaborate nei secoli attraverso la loro esperienza dei popoli costruttori di imperi costieri che non avevano previsto, e neppure si curavano di verificare, le conseguen­ ze della propria scarsa sensibilità continentalista. Alla dottrina della conquista territoriale diretta ovvero del suo sur­ rogato, l’egemonia politica, il potere marittimo tende a sostituire la teoria del “controllo” del mare, estendibile fino ai litorali. Attraverso il controllo, nelle sue forme più operative, come il blocco, l’embar­ go, la rete delle basi o piazzeforti, il comando diretto o indiretto dei passaggi, degli istmi, degli stretti e dei bacini ristretti, la teoria del potere marittimo ritiene sia possibile esercitare un’“influenza” politi­ ca anche sui territori interni, fino alle desolate distese della taigà si­ beriana, alle steppe e ai deserti dell’Asia Centrale, alle vette immen­ se dell’Asia Meridionale, alle pianure di quella Orientale. È stata questa la permanente illusione degli imperi marittimi, co­ stantemente frustrati dalla realtà dei meccanismi di compressioneesplosione dell’ Heartland di Eurasia, e dal dilagamento sulle coste dei popoli nomadi o espansionisti dell’Eurasia interna. Tuttavia la tecnica moderna e la fine delle ideologie che, almeno in parte, da questa è stata determinata, attraverso la periodica con­ statazione che la tecnologia delle ideologie non resta al passo con l’evoluzione delle tecniche tout court, ci consente oggi di rivedere la lettura tradizionale della dottrina delle potenze marittime. La teoria del “controllo”, con il suo corollario politico che è quello dell’“influenza” e del “potere”, e il corollario militare che è quello della coppia “deterrenza-compellenza ”, ha oggi infatti la possibilità di es­ sere integrata dall’uso politico del “potere aereo”, inteso in senso moderno come strumento di penetrazione politica e militare senza confini all’interno di Heartland, e come forma di uso politico delle alleanze e delle coalizioni, sia difensive che offensive13. La lenta combustione del legame che ha unito nel Novecento l’Europa Occidentale al Nord America sta trovando alimento pro­ prio in questa ineliminabile contraddizione culturale fra chi, come le Potenze marittime insulari, non ritiene di concepire una politica di­ retta a depotenziare e a disinnescare i rischi provenienti da EurasiaHeartland, e chi, come le Potenze terrestri peninsulari, si preoccupa 12. Rothschild, 4981. 13. Douhefe*192kl955; De Severski. 1942; Brodie, 1959.

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invece di trovare il modo per contenere e, se del caso, destrutturare l’unità eurasiatica. È l’antica e irrisolta contraddizione di tutte le piazzaforti e le basi navali fra la vulnerabilità del “fronte a terra” e la forza del “fronte a mare”. Né d’altra parte poteva essere altrimenti perché la dottrina del po­ tere marittimo non prevede in alcun modo la possibilità di penetrare in Heartland, come già sapeva Sir Halford Mackinder fin dal 1904, o, prima di lui, Friedrich Ratzel, ma anche Ernst Kapp e gli altri progenitori della geopolitica tedesca14. Il valore negativo di questa carenza concettuale è dato dalla di­ mostrata incapacità di liquidare, una volta per tutte, la più seria e permanente minaccia che l’ipotesi dell’unificazione politica del Tri­ continente (Eurasia + Africa) ha fatto, e fa ancora oggi planare sulla sicurezza di tutti gli attori operanti nel sistema intemazionale. Il rischio dell’unificazione imperiale diretta, cioè dell’occupazio­ ne territoriale di Eurasia (più Africa) da parte di un attore centrale che muova dal “cuore del mondo” (Heartland) verso Occidente, o anche verso Oriente (Cina e Asia Sud-orientale), ovvero che di Heartland si impadronisca, è stato corso più di una volta nella storia dell’umanità. In termini generali l’esperienza più vistosa è stata quella dei due imperi mongoli di Gengis Khan e Kubilay Khan nel secolo XIII e poi, sia pure su scala minore, con Tamerlano15. In que­ sti casi la dimensione territoriale organizzata della forma-impero in Eurasia fu la più estesa che la storia ricordi. Ma molti altri esempi sono possibili, e molti altri progetti di unifi­ cazione del Tricontinente sono stati avviati, anche se non sempre pro­ venienti dal cuore di terra dell’“Isola del Mondo”, a cominciare dagli imperi “virtuali” di ispirazione religiosa, come quello dellTslam, o di quelli ideologici, come è stato il caso di quello comunista sovietico. In effetti, le spinte espansive di tipo imperiale che partono dall’in­ terno di Eurasia, cioè da zone non marittime, né costiere, tendono ad assumere delle forme atipiche a dimensione crescente, fino a trasfor­ marsi potenzialmente in strutture a valanga, che possono essere arre­ state, sia pure in modo temporaneo, solo con gli strumenti della con­ trapposizione politico-militare e/o della guerra “difensiva”. Ed è infatti stata sempre questa la forma di risposta che l’Europa “terrestre” ha storicamente saputo organizzare a fronte di una perio­ dica discesa di popolazioni da Est verso Ovest. Lo stesso dicasi per le forme assunte dalla risposta che la Cina, quasi per rispecchiamen14. Mackinder, 1904; Ratzel, 1882; Kapp, 1845. 15. Roux, 1991, 1995; Liddell Hart, 1927, 1990, pp. 3-34.

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Fonte: Mackinder H. J., Democratic Ideals and Reality, New York, Norton, 1962,

l a ed. 1919

The Natural Seats of Power

to, ha nel corso del tempo cercato di articolare, davanti alla ricorren­ te minaccia mongola, o dei nomadi di altra provenienza, sia da Ove­ st che verso Est16. Nella gran parte dei casi, tuttavia, la struttura di risposta è stata di tipo difensiva, basata quindi sulla differenza evidente nell’acquisi­ zione e nell’uso del territorio ora da parte degli invasori, ora da par­ te dagli invasi. Il limes, sotto le specie della Grande Muraglia, intesa come gi­ gantesca opera fortificata, rappresentava proprio un simbolo eretto a marcare una differenza di civiltà e al tempo stesso anche di civiliz­ zazione. Molto più rari sono stati, invece, i tentativi di risposta “controf­ fensiva”, che avrebbero dovuto esercitarsi secondo piani d’invasione certi, ma soprattutto secondo piani di uso e poi di divisione, per rot­ tura territoriale, del centro di Eurasia. Questo fenomeno di scompa­ ginamento della forza di Eurasia attraverso il dislocamento del cen­ tro europeo dell’intero sistema, non si è quasi mai verificato, tranne in rari casi tutti miseramente falliti. Eppure si trattava di ipotesi non impossibili dal punto di vista tecnico, neppure al tempo della prima guerra mondiale che, forse, è stata il momento più interessante, da questo punto di vista, ed anche il più ricco di tutti in termini di le­ zioni metodologiche da apprendere17. Le sconfitte russe in Prussia Orientale e in Polonia, fra il 1914 e il 1916, avevano infatti aperto le porte di Eurasia alle armate austro­ tedesche che però non ne approfittarono più di tanto. La rivoluzione del 1917, e la guerra civile che ne seguì (1918-1921), completarono questa apertura di Eurasia e misero in luce la facilità del suo smem­ bramento18. Nessuna vera riflessione venne peraltro compiuta, anche nel pe­ riodo successivo, quando il totalitarismo bolscevico riuscì a ricom­ porre l’impero, ordinandolo sotto le specie di una abusiva Federa­ zione, detta Unione Sovietica. Tanto è vero che quando, nel 1941, le armate germaniche invasero l’Urss, l’ispirazione politico-militare che le guidava era sempre d’impianto tradizionale e mirava alla con­ quista del territorio, non alla disgregazione del cuore di Eurasia19. Ogni forma di reazione basata su opere difensive, fortificazioni, valli, muraglie, o altro, ha infatti bisogno di una costante vigilanza 16. Sabattini e Santangelo, 1986; Gemet, 1972, 1978, ed. it.; Borsa, 1977. 17. Asprey, 1991, 1993, ed. it.; Kitchen, 1976; Hoetzsch, 1917, ecc. 18. Lincoln, 1989; Carr, 1950, 1964, pp. 279-368; Pipes, 1994. 19. Erickson. 1975; Carell, 1963, 1967, ed. it.; Boog, 1983; Burleigh. 1988; Korinman. 1990.

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Fonte: Cohen S.B., Geography and Politics in a Divided World, London, Methuen, 1964,

l

a ed.

Mackinder’s World - 1943

1963

Fonte: Cohen S.B., Geography and Politics in a Divided World, London, Methuen, 1964,

1" ed.

The World of Spykman

1963

che comporta la mobilitazione permanente delle risorse, con la con­ seguenza che ben difficilmente una linea di “contenimento” del tipo di quella caratteristica delle potenze marittime, dal “blocco” alle “sanzioni” ai “corpi di spedizione”, potrà raggiungere lo scopo per­ ché da un lato è mediamente molto più dispendiosa anche se non si serve di contingenti numerosi, mentre dall’altro lato può essere mantenuta in efficienza solo per periodi di tempo limitati. Queste considerazioni di ordine generale fanno sì che l’utilizzo di una concezione politica intemazionale mutuata dalle teorie del pote­ re marittimo e dalle talassocrazie, diventa certamente antieconomica e, tutto sommato controproducente, se applicata da attori che opera­ no in aree insulari e peninsulari che siano prossime, o anche parte stessa del continente, cioè nelle cosiddette “Rimlands” di Eurasia. Di qui la contraddizione che esiste, anche all’interno della comu­ nità degli attori euro-americani che definiamo, per comodità, col no­ me di occidentali, fra gli attori “insulari”, ovvero a contiguità protet­ ta, quelli “peninsulari” con tutta l’ambivalenza terra/mare riprodotta in vitro, e quelli semplicemente “continentali”. Ed è per queste ragioni di fondo che il sistema di protezione di Eu­ rasia, basato sui meccanismi di sicurezza collettiva o di alleanza, fon­ dato sulla deterrenza nucleare e su quella convenzionale, che pure ha salvaguardato la comunità di Atlantide durante il mezzo secolo post­ bellico, legittimata e resa credibile dalla presenza di oltre 300 mila soldati americani sul continente europeo, ha praticamente perduto la sua ragion d’essere nel momento stesso in cui la fine del bipolarismo ha restituito legittimità alla fino ad allora impossibile “modificabilità” delle frontiere nazionali europee attraverso la riunificazione della Germania e la dissoluzione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. Questa serie incalzante di eventi ha consentito l’affioramento del­ le diversità, sia di quelle strettamente spaziali sia di quelle dovute al background culturale fra paesi “insulari” (come gli Stati Uniti) e paesi “peninsulari” (come l’Europa). Sono emerse così anche le dif­ ferenze di “identità”, e con esse la divaricazione crescente della per­ cezione degli “interessi” e delle “minacce”. È infatti in corso un’ine­ vitabile processo di “rinazionalizzazione” della sicurezza che non è del tutto compensato dall’indubbia capacità operativa che l’unica or­ ganizzazione multinazionale militare integrata, sopravvissuta al crol­ lo del bipolarismo, la Nato, sta dimostrando, ancora una volta su ini­ ziativa e stimolo statunitense. Ma anche gli interventi della Nato, pur coronati dal successo, di­ mostrano i limiti concettuali della dottrina euroatlantica. Il corpo di 109

spedizione dell’Alleanza, schierato in Bosnia (I-FOR: Implementa­ tion Force poi S-FOR), corredato dalle sue premesse logistiche ed aeronavali (Operazioni Deny Flight e Sharp Guard), ha ancora tutti i connotati della vecchia strategia d’intervento stabilita negli anni Cinquanta per il Fianco Sud della Nato, basata sull’idea “marittima” del corpo di spedizione “From the Sea”. Non per caso, infatti, la ri­ serva strategica del corpo di spedizione era imbarcata, e buona parte delle truppe americane era ed è composta da Marines. La dottrina del “containment”, immaginata e definita a suo tempo per contrastare la minaccia sovietica al corpo di spedizione americano in Europa Occidentale e alla sicurezza degli alleati nell’area, non po­ trà più avere nel futuro lo stesso successo che ha riscosso nel passato. Rischia anzi di trasformarsi in un vincolo concettuale e operativo gra­ ve perché le minacce potenziali che potrebbe correre l’Occidente ri­ guardano gli Stati Uniti e l’Europa, con modalità che sono profonda­ mente diverse fra di loro20. Lo ha dimostrato la questione d’Albania nel 1997, quando l’Italia è stata costretta a costituire e guidare una coalizione ad hoc di paesi europei e non europei dopo il rifiuto della Nato (ma anche dell’Unione Europea) a intervenire in prima persona. Per gli Stati Uniti, infatti, soprattutto in questa fase di transizione sistemica la parcellizzazione di Eurasia non è un’azione politicamente auspicabile, né lontanamente ipotizzabile, anzi neppure ne­ cessaria, perché l’attore centrale di Eurasia (la Russia e, forse doma­ ni, anche l’india o la Cina) è oggi relativamente debole e, sia pure provvisoriamente, si mantiene sulla difensiva. Non rappresenta quin­ di più - come nel passato - una minaccia concreta alla sicurezza globale degli Stati Uniti. Per l’Europa, invece, che non ha una stra­ tegia globale, ma solo regionale, l’ipotesi di dislocazione dell’unità eurasiatica potrebbe diventare una condizione essenziale per la so­ pravvivenza futura del continente europeo unificato. Mentre gli Stati Uniti sono assolutamente consapevoli della ne­ cessità di mantenere anzitutto un equilibrio “unilateralista” che con­ senta loro di gestire, mediante l’uso de\V influenza politica ed econo­ mica, l’equilibrio globale e, attraverso il potere militare, controllare /le situazioni a rischio, senza coinvolgersi permanentemente in ope­ razioni territoriali costose, l’Europa riunificata si vedrà costretta ad imporre la propria ritrovata unità in termini di identità e, quindi, a li­ berarsi, una volta per tutte, dalla situazione di scacco e di schiaccia­ mento fra America ed Eurasia in cui si è costantemente trovata, al­ 20. Gaddis. 1982, 1997; Freedman, 1981.

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meno a partire dal 1914. Sono quindi proprio le ragioni di fondo della sua “distruzione” fra il 1914 e il 1990 quelle che potrebbero indurre l’Europa a favorire lo smembramento graduale di Eurasia nell’intento di consolidare la propria “ricostruzione”. L’occasione viene oggi fornita dal forte indebolimento dell’unità russa, e dalla sua instabilità strutturale che, a nostro giudizio, dovreb­ be essere alimentata, invece che protetta. Si tratta di un evento unico ed irripetibile che solo nel 1917-20 si era prodotto con caratteri assi­ milabili a quelli odierni. Con la differenza, però, che mentre la Russia della rivoluzione e della guerra civile aveva una forza nuova, emer­ gente e determinata, dotata di un progetto politico e ideologico totali­ tario, nel gruppo dei bolscevichi che aveva preso il potere a Retrogra­ do e a Mosca, oggi il sistema politico russo è costretto a misurarsi con il pesante logoramento della sua legittimità interna e intemazio­ nale, tanto nei confronti del comuniSmo quanto del nazionalismo21. La differenza d’impostazione fra gli “interessi” degli Stati Uniti e quelli dell’Europa rispetto al destino complessivo di Eurasia, si ma­ nifesta gradualmente, soprattutto in relazione al sistema d’interazio­ ne che si sta stabilendo nei confronti degli attori, vecchi e nuovi, che si sono liberati dalla dominazione russo-sovietica, e finalmente nei confronti della Russia stessa. Esiste ormai una sorta di gerarchia d’identificazione degli interes­ si nazionali (che potremmo definire “spaziali”), tanto nella condotta diplomatica degli Stati Uniti verso la massa eurasiatica quanto, con livelli di crescente differenziazione nei principali paesi europei, a partire dal Regno Unito, che è il più vicino alle tesi americane, fino alla Francia e poi alla Germania la cui attenzione verso l’Est euro­ peo è, proporzionalmente, molto più definita e attenta ai dettagli, di quanto non sia quella degli altri partners europei. Gli Stati Uniti continuano infatti a considerare la massa eurasiati­ ca come il dominio di elezione della Russia. È una sorta di specularità creata dalla cultura politica della contrapposizione prima e della distensione poi, che ha caratterizzato le relazioni russo-americane nel Novecento e che risale - si potrebbe dire - alla predizione di Tocqueville del 184022. Per la classe politica statunitense, infatti, la Russia nasce nel 1917, l’anno in cui gli Stati Uniti entrano nella prima guerra mon­ diale e la Russia ne esce con la Rivoluzione bolscevica. Non c’è 21. Pipes, 1990, 1994; Nahaylo e Swoboda, 1990, 1991, ed. it.; Ferrari, 1994: Carrere D’Encausse, 1978; James D., 1982; Piacentini, 1995; Clark, 1995. 22. Filene, 1967; Gaddis, 1982; Nordlinger, 1995; Tocqueville, 1840, 1982.

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La concezione geopolitica di Haushofer al tempo della Prima Guerra Mondiale

Fonte: Haushofer K., Weltpolitik von Heute, Berlin, Wilhelm Andermann, 1934

La concezione geopolitica di Haushofer alla fine degli anni Venti

Fonte: Haushofer K., Weltpolitik von Heute, Berlin, Wilhelm Andermann, 1934

passato prima di quella data nella cultura politica americana. A dif­ ferenza dell’Europa del Concerto delle Potenze che, a partire da Pie­ tro il Grande, aveva interagito costantemente con la politica russa, gli Stati Uniti affrontano ex novo il problema russo, che viene im­ mediatamente letto attraverso la lente deformante, perché più ideolo­ gica che spaziale, del confronto con il ComuniSmo. Non è certo un caso, infatti, che gli Stati Uniti siano stati l’ultima delle Grandi Potenze a riconoscere diplomaticamente la Russia sovie­ tica. Il che avviene solo quando nel 1933 PAmerica, con la Presidenza di F.D. Roosvelt, cominciò a modificare sensibilmente la propria linea di condotta politica intemazionale. Né sorprenderà che dopo quella data le relazioni russo-americane siano costantemente rimaste all’in­ terno di una “special relationship” basata prima sull’incontro e l’al­ leanza (nella Seconda Guerra Mondiale) e, successivamente, sullo scontro ideologico (nella Terza Guerra Mondiale) della Guerra Fredda. Nell’insieme, comunque, gli Stati Uniti non hanno mai considera­ to la Russia, nelle sue diverse versioni politiche e ideologiche, come uno spazio bicontinentale incombente, a differenza di come essa era stata invece percepita fin dalla metà del Settecento in Europa, anco­ ra più spesso in Cina e talvolta anche in India. E per questa ragione di fondo che anche oggi gli Stati Uniti trova­ no delle difficoltà ad accordare la propria esperienza, limitata e par­ ziale, nei confronti della Russia, con la realtà postbipolare di Eura­ sia. Incapaci di realizzare concettualmente l’idea, perfino simbolica, di Eurasia come spazio organizzato, gli Americani restano ai “bordi” - si potrebbe dire - della landmass occupata ora dalla Federazione russa. Essi misurano con il centimetro le fasi di avanzata e ritirata della frontiera, intesa però come “border” appunto, stentano a perce­ pire le esigenze di sicurezza dei paesi dell’Europa orientale, sono tranquillizzati dalle dichiarazioni russe in materia di fine del comuni­ Smo. Sono apprensivi, invece, solo per ciò che riguarda il versante ideologico, ovvero per quello, virtuale, della deterrenza e della proli­ ferazione nucleare. Risentono della tradizione oscillante, tipica delle Grandi Potenze marittime, che predilige l’interlocutore continentale più forte o più affine per garantirsi dall’egemonismo possibile di una potenza continentale sulle altre. E in questo senso la relazione prefe­ renziale che viene intrattenuta dagli Stati Uniti con la Cina Popolare, sottolinea storicamente, sia pure con alti e bassi, il fatto che gli Americani sono sbarcati in Eurasia dalla parte dell’Oceano Pacifico molto prima di approdarvi dal versante dell’Oceano Atlantico23. 23. Koen, 1974; US Department of State, 1959; Cohen W., 1978; Schaller, 1979.

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È questo un atteggiamento comprensibile da parte degli “Egèmo­ ni” marittimi24 che però spesso produce effetti perversi e non voluti, come quello di impedire la conoscenza delle regole interne della landmass, dettate dalla “spazialità” e dalla “cultura storica” delle Grandi Potenze e degli Egèmoni terrestri o continentali. Di qui la fragilità congenita della dottrina politica degli imperi marittimi che, a fronte delle necessità degli imperi terrestri, hanno sempre dimostrato un’incapacità strutturale, non solo a dominare la landmass eurasiatica, con la sua appendice africana, ma perfino a concepirne la dimensione e le sue leggi di movimento. Il tentativo inglese di controllare V Africa, ad esempio, che è uno dei tre perni spaziali di Eurasia, vale a dire del Tricontinente Antico, andò relativamente a buon fine, ma solo parzialmente e per pochi decenni, al cadere del secolo (al tempo della guerra contro i Boeri), che completò l’asse Nord-Sud dall’Egitto al Capo di Buona Speran­ za, e disinnescò la minaccia francese sull’asse Ovest-Est (al tempo di Eashoda), con la stipula dell’entente cordiale del 190425. Tuttavia, la Gran Bretagna non riuscì mai a realizzare il suo am­ bizioso progetto di legare la fascia meridionale dell’Asia, da Suez all’india fino alla Cina, che costituisce appunto il secondo perno della grande triade spaziale, in una catena di dominio permanente inglese, nonostante la vittoria di Pirro britannica nella prima guerra mondiale. L’Asia interna, e l’Eurasia in particolare, non vennero infatti mai davvero intaccate dal predominio inglese sulle Rimlands, nonostante le traversie subite dall’impero zarista, l’occasione fornita dalla di­ sgregazione occorsa agli inizi del potere bolscevico, e quella offerta dalla frammentazione della Cina rivoluzionaria postimperiale. Nonostante che il periodo 1917-20 abbia rappresentato il mo­ mento più alto raggiunto dal processo di disgregazione di Eurasia, con la guerra civile scoppiata contemporaneamente in Russia e in Cina, i risultati furono miseri. La ricostruzione della Russia Sovieti­ ca avvenne in relativamente pochi anni, con qualche perdita perife­ rica (Finlandia, Baltici, Polonia, parte della Bielorussia), mentre quella della Cina fu un processo più lungo, che però si concluse quasi del tutto nel 1949 con la sua riunificazione e il consolidamen­ to politico26. 24. Gilpin, 1981. 25. Pakenham, 1991; Moorehead. 1960, 1972; Davinson, 1974: Phillips, 1995; Fieldhouse, 1973, 1975. 26. Spence, ecc.

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In effetti le Potenze esterne allo spazio euroasiatico agirono 111 Iliodo casuale, senza una visione complessiva della relazione fra “vuoto” e “pieno” di potenza in aree immense, squassate da forti spinte cen­ trifughe e che aspiravano a riconquistare l’indipendenza, come fu il caso dell’ucraina, del Caucaso, del Turkestan russo e del Tibet. La risposta delle Potenze marittime (Regno Unito e Stati Uniti) fu molto incerta e priva di qualsiasi strategia complessiva. Il risultato, cioè la ricostituzione imperiale dell’unione delle Repubbliche So­ cialiste Sovietiche, fu determinato dalla prevalenza del gruppo poli­ tico e dell’ideologia unitaria più forte, quella comunista bolscevica, rispetto all’alternativa, altrettanto centralista ed imperiale, ma meno forte politicamente e militarmente, costituita dai Bianchi del Genera­ le Denikin, dell’Ammiraglio Kolciak, del Generale Judenic e final­ mente del Barone Wrangel27. Nel caso della guerra civile in Russia, tuttavia, le difficoltà dell’occidente erano indubbiamente maggiori di quanto non siano quelle odierne, con una sola eccezione, la presenza di un gigantesco arsenale nucleare nelle mani dei reggitori del Cremlino. Per il resto, invece, esistevano nel primo dopoguerra degli ostacoli politici e psi­ cologici così grandi (la fine della la Guerra Mondiale aveva reso impossibile opporsi alla smobilitazione generale) che si rivelarono rapidamente insormontabili e gli Occidentali, inclusi i Giapponesi e gli Americani in Siberia, nel giro di qualche anno, dopo la sconfitta sul campo delle Armate Bianche, prive di strategia e di mezzi, si ri­ tirarono definitivamente da quello che veniva ormai chiamato il ter­ ritorio della Russia Sovietica. La principale difficoltà era però di ordine geopolitico. Essa consi­ steva nel fatto che la Germania, sconfitta ad Occidente nella prima guerra mondiale, era stata costretta dai vincitori ad abbandonare ogni aspirazione a difendere la frontiera orientale e a proteggere i movimenti indipendentisti ucraini, bielorussi, finlandesi e baltici28. D’altra parte, se la guerra non si fosse conclusa in quel modo nell’Ottobre-Novembre 1918, anche la Turchia avrebbe potuto eser­ citare un’influenza maggiore di quanto pon ebbe modo di fare a fa­ vore dell’indipendenza del Caucaso e del Turkestan russo. Era stato comunque del tutto evidente, smentendo così i luoghi comuni sul “rullo compressore russo” che avevano dominato l’opi­ 27. Chamberlin, 1941, 1974, ed. it., pp. 196-228; Lincoln, 1994; Pipes, 1990 e 1994. 28. Von Salomon, 1927, 1994, ed. it.; 1960, s.d., ed. it.; si veda anche il volume di Dertzen, 1936; Venner, 1981, sui Freikorps tedeschi operanti nel “Baltikum”.

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nione occidentale prima del 1914, che il nucleo di Eurasia poteva essere frantumato e che il controllo di questo processo di frammen­ tazione poteva essere esercitato da forze relativamente ridotte. L’esempio più straordinario di quell’esperienza fu il ruolo assolto dal Corpo d’Armata autonomo cecoslovacco, formato nella Russia zarista da ex prigionieri di guerra dell’esercito austroungarico. Que­ sti 35.000 uomini furono in grado di occupare, lungo la linea ferro­ viaria transiberiana, le principali città della Siberia Occidentale e Orientale, da Celiabinsk a Tomsk e Omsk, fino a Samara sul Medio Volga, nonché altre città nella regione degli Urali. Il cuore di Eura­ sia era praticamente nelle loro mani. La Legione Ceca, divisa in sei gruppi, controllava un territorio latitudinale di oltre 5.000 miglia fra Penza a Ovest e Vladivostok a Est29. Quanto all’Enropa, terzo perno di forza di Eurasia, gli Inglesi non aspirarono neppure alla sua egemonia, ma solo al controllo (riuscito) del Medi terraneo e al mantenimento dell’equilibrio di potenza conti­ nentale (definitivamente fallito nel 1914) fra i maggiori attori euro­ pei. La presenza della Germania, a partire dal 1871, e la sua naturale aspirazione alla Weltmacht, rese tutto più difficile, e il sogno britan­ nico irrealizzabile30. Il conclamato “pragmatismo”, e la sostanziale “casualità”, della politica imperiale britannica, intesa come prodotto del potere marit­ timo dell’Inghilterra, è facilmente rilevabile attraverso la rappresen­ tazione cartografica della distribuzione spaziale delle sue colonie, e dalla loro graduale espansione nel corso degli anni. Lo stesso può dirsi per l’egemonia marittima statunitense durante il XX secolo. L’evoluzione del suo ruolo politico rispecchia bene la sostanziale “casualità” politica, e al tempo stesso la “necessità” strutturale del suo comportamento nel sistema delle relazioni inter­ nazionali fra la fine del secolo passato e la conclusione di questo. Trascinati nell’agone mondiale dal contemporaneo effetto dello straordinario sviluppo economico interno e dalla crescente contrap­ posizione delle Potenze europee, ormai sulla strada del loro “rialli­ neamento”31, che porterà alla Prima Guerra Mondiale e all’Età delle Rivoluzioni, gli Stati Uniti, senza avere alcun progetto consapevole, 29. Melgunov, 1925; Kennan, 1956; Lincoln, 1989, pp. 91-101; Chamberlin, 1941, 1974. 30. Taylor, 1954; 1961, 1963, ed. it.; Stürmer, 1983, 1993, ed. it.; Craig, 1978; Stem, 1977; Von Bülow, 1930, ed. it. 31. Taylor, 1914; Duroselle, 1980; Albrecht-Carriè, 1980; Hobsbawm, 1994.

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trasformarono la tradizione della “Frontiera” mobile verso l’Ovest in un’operazione globale di tipo imperiale32. Ma anche questo disegno implicito e surrettizio, che rilanciava la teoria del “modello” americano e del “Manifest Destiny” al di là del mare, contrabbandato quasi fosse una proiezione naturale della “missione” degli Stati Uniti, era stato un processo abbastanza casua­ le, determinato tanto da interessi economici e finanziari, quanto da autoimmagini forzate, come nel caso di Theodore Roosvelt, o da campagne di stampa e gruppi di pressione “navalisti”33. Tuttavia gli Stati Uniti, soprattutto dopo il 1941, hanno tentato di esercitare il dominio marittimo con maggiore sistematicità e con una ideologia politico-mercantile assai più coerente di quanto non aves­ sero fatto gli Inglesi i quali, empiricamente, avevano gradualmente allargato la loro influenza per via incrementale, attraverso le guerre europee e con lo strumento funzionale della loro macro appendice periferica coloniale, fino allo smantellamento degli imperi preesi­ stenti e all’occupazione dei punti di controllo e rifornimento, o com­ mercio, nelle diverse parti del mondo34. In particolare, lo strumento principale di questa operazione politi­ co-culturale fu la diffusione dell’ideologia dell’“americanismo”35, sia pure a “connotazione marittima”36 e “navalista”37, esportata ol­ tremare con l’ambizione di assumere una dimensione intemazionale globale che apparisse però la più neutrale possibile, e quindi capace di acquisire una valenza universale accettata da tutti. Il meccanismo normativo e istituzionale di questa complessa ope­ razione, iniziata fin dalla fine del secolo XIX con la germinazione delle prime organizzazioni intemazionali, a partire dall’“Unione Po­ stale Universale” fino alle Corti Arbitrali dell’Aja, fu l’espansione del diritto intemazionale pattizio, la diffusione quindi della diploma­ zia multilaterale, e l’impiego della filosofia politica di stampo idea­ listico e democraticistico che si ergeva come un blocco di granito ideologico dietro le sue spalle38. 32. Vedi letteratura sulla “svolta” della classe politica americana nel 1898, a se­ guito della crisi economica del 1896; Langer, 1935, 1942, ed. it. 33. Vedi bibliografia in May, 1961; Williams, 1952, 1972; Lafeber, 1963; ecc. 34. Williams, 1952, 1972; ma anche Langer, 1935, 1942, ed. it. 35. Kohn, 1957; Merk, 1963; Lippman, 1943; Kennam, 1951; Crabb. 1982. 36. Corbett, 1911, 1988. 37. Mahan, 1890 e 1897; May, 1961; Kolko, 1972; ecc. 38. Vedi bibliografia sulle scuole di dottrina delle Relazioni Intemazionali in Bonanate e Santoro, 1986, nonché Schmitt, 1994, 1996. ed. it.

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L’antica contrapposizione fra le due principali filosofie politiche dell’età moderna, quella di Thomas Hobbes e quella di Grotius trovò nella modernizzazione del “giusnaturalismo” secentesco e nel­ la traduzione politico-intemazionale del diritto pubblico contenuto nel De iure belli ac pads39, la “normatività spontanea della ragione umana”40. Ed è appunto su questa base teorica che venne formulandosi, at­ traverso il diritto intemazionale, il tentativo, sempre contrastato da­ gli eventi, di mettere “ordine” al “disordine” intemazionale median­ te la meccanica trasposizione delle proposizioni giusnaturalistiche alla politica intemazionale in modo da costruire una gabbia istituzio­ nale che potesse tenere a freno la spontaneità di un sistema politico sostanzialmente “anarchico”, secondo la lettura hobbesiana dello “stato di natura”41, trasformandolo gradualmente in un modello “or­ dinato”, regolato nel dettaglio dalle organizzazioni regionali e globa­ li42. È questa la sostanza politico-ideale del legato “americanistico” al mondo durante quello che a buon diritto è stato definito come “the American Century”43. La dottrina (e la pratica) politica americana, però, nella sua ine­ stricabile ambivalenza “insulare” e “continentale”, ha considerevol­ mente ridotto l’impatto potenziale della sua gigantesca impresa im­ periale globalista perché ha oscillato sempre fra “isolazionismo” e “interventismo”, senza peraltro abbandonare mai del tutto, neppure nel corso delle tre guerre mondiali del Novecento, la propria conce­ zione classica del potere marittimo, basata sulla connessione fra “sea-control” e “from the sea”, vale a dire fra dominio del mare (Mahan) e proiezione sui litorali dei corpi di spedizione (Corbett). Sarebbe infatti sufficiente esaminare da vicino l’evoluzione con­ cettuale della pianificazione strategica statunitense, fra la fine dell’ottocento e oggi, per rendersi immediatamente conto dell’asso­ luta fedeltà statunitense ai criteri generali del navalismo (oggi aero­ navalismo), e quindi dell’impossibilità oggettiva, quasi strutturale, di discostarsene davvero44. 39. Grozio, 1625. 40. Vedi: Hegel, 1807, 1817, 1821. 41. Hobbes, 1651, 1971; Bodin, 1964. 42. W. Wilson e il disegno istituzionalista della Società delle Nazioni, vedi an­ che Bonanate, 1994b; nonché Anzilotti, 1955. 43. Si veda l’articolo di Henry S. Luce su Life del 1941, in 1651, 1971. 44. Henig, 1976, che mette a confronto le strategie navali di Germania e Stati Uniti fra il 1889 e il 1941; Miller, 1991, Plan Orange e la pianificazione nel Pacifi­ co; Kirkpatrick, 1990; Livezy. 1947. 1981; Luttwak, 1993, 1994, ed. it.

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Così come sarebbe sufficiente analizzare le modalità del compor­ tamento politico americano nei confronti delle maggiori Potenze di Eurasia nel corso della loro storia (Russia, Cina, India), per verificare come anche la strategia del “containment”45 sia stata intesa essen­ zialmente come un surrogato {Ersatz) rispetto ad una vera strategia “continentalista” globale, che si rivelò per essere invece del tutto as­ sente. Ne dà recente testimonianza un recente volume di David Fromkin46 che analizza la storia e gli uomini del coinvolgimento dell’America nella politica intemazionale durante il ventesimo seco­ lo. Il nostro è un tempo di bilanci e questo approccio di sintesi co­ glie nel segno analizzando qualità e limiti di una generazione di lea­ der che plasmarono il molo e il destino degli Stati Uniti, da F.D. Roosvelt a Truman, da Eisenhower a Marshall, da MacArthur ai lo­ ro contemporanei. Anche in questo studio è possibile trovare conferma della sostan­ ziale ambivalenza della politica statunitense durante questo periodo. La figura, laterale ma certo simbolica, dell’Ambasciatore William C. Bullitt, uno dei protagonisti della diplomazia americana del “Secolo americano”, che modifica e capovolge più di una volta il proprio orientamento politico e ideale a seconda delle circostanze, è certo un simbolo dell’America alla ricerca, perennemente delusa, di una teo­ ria convincente della politica intemazionale47. Se ne ricava la certezza che la strategia americana che, fin dalla fine del secolo passato aveva risolto, una volta per tutte, tanto il pro­ blema dell’indipendenza continentale dall’influenza europea con la Dottrina Monroe, quanto quello della forma dello stato, con la guer­ ra di Secessione, tanto quello del suo completamento spaziale, con la conquista graduale e conflittuale della “Frontiera” mobile verso il West e il Far West, quanto quello dell’area di “influenza”, attraverso l’acquisizione dell’egemonia nei Caraibi e in America Centrale, nonché con l’irraggiamento politico e commerciale in America Me­ ridionale, non aveva mai neppure una volta immaginato quale avrebbe potuto essere il suo rapporto dialettico permanente con un’Eurasia di cui sapeva (e sa tuttora) poco e niente. Il fatto che gli Stati Uniti fossero sempre così riluttanti all’inter­ vento nelle guerre mondiali è un’ulteriore controprova del loro rifiu­ to ad ogni tipo di coinvolgimento permanente negli affari di Eurasia. Ed è proprio in nome di questa utopia, globalista ma di matrice ma­ 45. Gaddis, 1982. 46. Fromkin, 1995. 47. Ibidem, pp. 288-292; 306-308. 720

ottima, che l’eventuale fallimento del modello americano nella sua ambizione di controllo indiretto degli affari del mondo, potrebbe avere delle conseguenze ancora più gravi del fallimento del modello inglese per il destino dell’occidente europeo, qualora intendesse ad esso legarsi indissolubilmente. L’ipotesi di partenza del pensiero politico americano, fin dalle ori­ gini, ma soprattutto dopo la conquista della “frontiera” occidentale, è sempre stata quella della naturale centralità geopolitica globale del Western Hemisphere, basata su una strategia del potere marittimo che si sarebbe diramata, come le ali di una farfalla, dal cuore insula­ re del continente americano sia verso Est che verso Ovest. Che sa­ rebbe stata cioè in grado di autosostenersi attraverso il controllo oceanico, sia verso il bacino del Pacifico sia verso quello dell’Atlan­ tico48. Scriveva, già nel 1902, Brooks Adams che il “vortice del ci­ clone è vicino a New York”49 aggiungendo poi che “gli Stati Uniti supereranno ogni altro impero singolarmente preso, se non tutti gli imperi messi insieme”. Si trattava, in sostanza, di un progetto geopolitico e culturale di­ retto a spostare il “centro” della potenza mondiale dall’Europa agli Stati Uniti, trasformando il Far West americano (rispetto all’Occi­ dente europeo) in Occidente tout court. In questa ottica l’Europa avrebbe assunto un ruolo, dapprima paritario ma poi subalterno, di postazione territoriale avanzata, una vera e propria testa di ponte dell’occidente in Eurasia, perdendo così la sua primogenitura e con essa annullando gradualmente le sue specificità culturali, storiche, politiche, etniche, nel grande calderone (melting pot) americano, di­ latato all’Europa, che avrebbe via via omogeneizzato e “normalizza­ to”, sul modello gerarchico americano, l’intero Occidente50. In altri termini si sarebbe operato un rovesciamento radicale dei ruoli fra Europa e Stati Uniti, con un’Europa americanizzata a fronte di un’America che gradualmente avrebbe perduto i suoi connotati di collegamento, anche culturale, con la tradizione europea, ma di cui avrebbe ereditato il “Geist” nella forma alta e nobile della sua “de­ terminazione e magnanimità”51. Per quanto globale e ambizioso fosse questo disegno, si trattava comunque pur sempre di una strategia tipica delle potenze maritti­ me, diretta cioè alla conquista de\V egemonia e deW influenza, ma 48. 49. 50. 51.

Santoro, 1987, 1992. Adams Brooks, 1902, pp. 196-211. Lippmann, 1943, pp. 211-213; Liska, 1967, pp. 109-110. Liska, 1967.

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non del dominium e tantomeno dell’ imperium. In entrambi i casi l’obiettivo consisteva nell’instaurazione di una forma tutta particola­ re di “imperium”, con la differenza che mentre nel primo caso il si­ stema imperiale si regge sul “controllo” e sul “contenimento”, nel secondo, invece, è richiesta l’occupazione e, talvolta, anche lo stan­ ziamento territoriale permanente52. L’altra opzione, anch’essa di origine “egemonica”, consisteva nel praticare la formula politica del “divide et impera”, secondo il mo­ dello classico degli imperi coloniali (e territoriali) delle potenze eu­ ropee, che mantenevano le differenze fra le diverse aree e/o etnie, li­ mitandosi a depotenziarne (o stimolarne) i conflitti e a controllarne o sfruttarne le risorse. Ma negli Stati Uniti questo modello di tradizione britannica ven­ ne sempre giudicato inaccettabile, sia per ragioni storiche e culturali sia per motivazioni etiche53. Nessuna dislocazione diretta a indeboli­ re l’avversario potenziale dividendolo nelle sue componenti primarie sarebbe secondo questa tesi, auspicabile o praticabile, soprattutto per i rischi di destabilizzazione dell’ordine generale che ciò potrebbe comportare. La filosofia politica americana, infatti, intrisa di religiosità e di missionarismo, ha sempre avuto bisogno di crearsi degli avversari che possano essere convertiti o distrutti54. Non è invece comprensi­ bile, in questo orizzonte concettuale, l’ipotesi di una gestione prag­ matica, diretta a ridurre il livello di conflittualità permanente, senza pretendere di eliminarla completamente55. Come accadde per la Cina anteriormente alla prima guerra mondia­ le, con l’Unione Sovietica dopo la seconda e la terza guerra mondia­ le, e ancora una volta con la Cina contemporanea, la logica americana si è sempre fondata sull’idea che Eurasia non debba essere intaccata, o troppo indebolita, perché il rischio di un confronto a lunga distanza, anche con le armi nucleari, è l’unica vera minaccia percepita dagli Stati Uniti come un pericolo per la sua sicurezza continentale56. La “ratio” di questo inconsapevole disegno era stata elaborata molto tempo prima e la sua trama era solida. Il secolo XX, secolo delle ideologie, offrì il motivo e l’occasione per realizzarla concreta­ 52. Doyle, 1986. 53. Louis; 1978. 54. Fiske, 1885. 55. Fish, 1919. 56. Vedi per la Cina, Thompson, 1988; Perry, 1981; May, 1961; Koen, 1974; Fi­ lene, 1967.

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mente. Tre guerre mondiali, combattute principalmente in Europa, giustificarono infatti la costruzione di un Occidente guidato dagli Stati Uniti, il cui baricentro si era via via spostato dalla Germania, che a partire dal 1871 era diventata lo Schwerpunkt dell’Europa, all’Europa Occidentale negli anni fra le due guerre, poi al centro dell’Atlantico e, gradualmente, fin sulla Costa Orientale degli Stati Uniti. Tuttavia l’impero marittimo americano voleva diventare - ed era diventato - un impero quasi globale i cui interessi non si limitavano più all’Oceania atlantica, ma erano altrettanto importanti nell’Ocea­ nia del Pacifico e, a partire dagli anni Settanta di questo secolo, an­ che nel terzo bacino di Oceania, quello Indiano57. Tale progetto globale di lungo termine si era dapprima articolato attraverso la costruzione della “doppia flotta” (Atlantico-Pacifico) per arrivare, negli anni Settanta del Novecento, alla ideazione, e poi alla costituzione operativa, del Central Command per l’Oceano Indiano. Tale nuova calibratura degli interessi primari americani, che cul­ minò nella decisione di formare un comando “virtuale”, localizzato negli Stati Uniti, ma destinato ad intervenire nella zona petrolifera del Golfo e dei paesi limitrofi, basato su reparti predisposti e basi navali e aeree distribuite nell’area dell’Oceano Indiano (Diego Garcia in primo luogo), fu il risultato di un lungo dibattito politico interno all’America, retaggio della crisi petrolifera degli anni Settanta e della svaluta­ zione del dollaro, dopo la dichiarazione d’inconvertibilità (1971). La Dottrina Carter, elaborata dall’allora National Security Adviser, Zbignew Brzezinski nel 1978, è alla base di quella teoria dell’“arco d’instabilità” che segnò la saldatura fra le tre dottrine strategiche “oceaniche” (Europa, Corea-Giappone, Golfo Persico) statunitensi, completando così la cintura geopolitica del “contain­ ment” nei confronti di Eurasia-Urss58. La rappresentazione fisica di questa filosofia politica venne origi­ nariamente saldata insieme attraverso il completamento del sistema di comunicazione interoceanico, cioè dalla costruzione del Canale di Panama, anch’essa un rispecchiamento consapevole del taglio dell’istmo di Suez di cui gli Inglesi, solo tardivamente e certamente dopo i Francesi, percepirono l’importanza, la cui ideologia globale, valida in un primo tempo soprattutto per l’“ala del Pacifico”, riposa­ va sui principi politici e commerciali della Open Door Policy non­ ché sull’“apertura” forzata del Giappone e della Cina. 57. Vedi letteratura sugli “interessi” nazionali americani in Nuechterlein, 1973. 58. Santoro, 1984; Brzezinski, 1986; Clark et al., 1984.

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L’“ala atlantica”, invece, mosse i primi passi con l’inserimento degli Stati Uniti nella grande politica delle Conferenze europee, all’epoca di Theodore Roosvelt, diventò primaria a Versailles nel 1919, per poi consolidarsi definitivamente durante la neutralità (1939-41 ) con YAtlantic Charter, e, definitivamente, dopo la grande vittoria del 194559. Non è un caso però che il controllo del mare, nonostante la supe­ riorità delle flotte avvenisse operativamente attraverso il dominio sui perni di controllo oceanico delle potenze marittime globali che sono sempre stati i passaggi territoriali obbligati, e in particolare i “cana­ li” artificiali, come quello di Suez per gli Inglesi e quello di Panama per gli Americani. Risalendo più indietro nel tempo è possibile analizzare infatti da vicino la funzione politica svolta dagli “stretti” naturali, dai Dardanel­ li a Gibilterra per i Bizantini e gli Arabi, ovvero quello di Malacca, per le talassocrazie antiche e medioevali dell’Asia Sud Orientale60. Le tre guerre mondiali del Novecento, due calde e una fredda, permisero quindi agli Stati Uniti di penetrare egemonicamente in Europa, riducendo al ruolo di satellite la Gran Bretagna e a quello di potenza sconfitta prima, e poi per necessità, di baluardo centrale del sistema dell’Europa Occidentale atlantica, la Germania Ovest. Di qui la nascita, obbligata dalla minaccia sovietica ormai presen­ te nel cuore dell’Europa Centrale, del “sistema atlantico” (Atlanti­ de), forma parziale e soluzione provvisoria del sistema Oceania, spesso arbitrariamente identificato come “Sistema Occidentale” che, nonostante la sua presunta “globalità”, non è mai riuscito a costituir­ si saldamente in struttura spaziale definitiva, altro che per brevissimi periodi fra il 1945 e il 1947, prima e dopo la fase di prevalenza del bipolarismo, quando la supremazia americana era indiscussa, e an­ cora una volta nel 1991-92, quando gli Stati Uniti raggiunsero lo status di superpotenza unipolare. La globalità del sistema bipolare della guerra fredda aveva al suo interno il germe della sua instabilità e caducità. Si era infatti, nella sua logica funzionale, strutturato attorno a due progetti imperiali mondiali mancati: quello americano e quello sovietico la cui interru­ zione e mancato completamento restava nondimeno un progetto im­ plicito mai davvero abbandonato61. Fondati su ideologie universali59. Vedi ancora Fromkin, 1995, pp. 141-206 e 381-446. 60. Vedi letteratura sul potere marittimo e in particolare Spate, 1987, 1993; Her­ ring, 1968, 1971, ed. it.; Hemming, 1978, 1982, ed. it. 61. Santoro, 1987, 1992, 1997.

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ste contrapposte, quella liberal-democratica da un lato e quella co­ munista dall’altro, i due imperi incompiuti passarono il tempo a pro­ vocarsi e a negoziare, cercando di arrivare alla delimitazione dei propri rispettivi confini di egemonia, di dominio o di imperio. In Asia questo contrasto si trasformò per ben tre volte in guerra aperta. Corea, Vietnam e Afganistan, hanno infatti contrassegnato, insieme ad una serie di conflitti minori combattuti per delega, lo scontro permanente sulle frontiere dei due imperi, determinando il destino provvisorio di interi popoli. In Europa, per converso, il contrasto era in linea di principio an­ cora più difficile e pericoloso. La spaccatura del continente in due parti, sul cadavere della Germania vinta e divisa, aveva stabilito una frontiera militare più che una frontiera politica, una Militärgrenze paragonabile a quella che per tre secoli aveva diviso l’Occidente dall’oriente, cioè l’impero Austriaco da quello Ottomano, sugli at­ tuali confini fra Croazia, Serbia e Bosnia. Ma una frontiera militare, per quanto stabilizzata, è pur sempre un confine provvisorio. Essa può essere modificata, anche radical­ mente, e successivamente consolidata, solo a patto che uno dei con­ tendenti vinca la guerra. La guerra è stata fredda ed è durata molto a lungo, ma avrebbe potuto sempre trasformarsi in conflitto armato, sia convenzionale che nucleare. Così quando la guerra fredda è stata vinta dalla potenza più rappresentativa, e al tempo stesso dall’imma­ ginario dell’occidente, e a seguito di questo evento il sistema Orien­ tale è crollato implodendo su se stesso, le frontiere militari dell’Eu­ ropa divisa sono cadute anch’esse aprendo la strada alla revisione delle principali categorie dell’analisi intemazionale e dei paradigmi operativi corrispondenti. In questo modo si è conclusa un’epoca, e con essa si sono disfatti anche i motivi di fondo sulla base dei quali l’utopia americanista aveva trovato spazio e credibilità nella sua par­ ticolare e brillante versione di Occidente marittimo. Il tentativo di sopperire a questa sostanziale carenza di motivazio­ ne perché possa sopravvivere, anche nel mondo postbipolare, il con­ cetto e il progetto di Oceania atlantica euroamericana, può avere successo in due soli casi: a) qualora si ricostituisca una minaccia proveniente da Est, che obblighi l’Europa a rinviare il processo di autonomizzazione dagli Stati Uniti, ricompattando tutti gli occiden­ tali attorno alla struttura difensiva istituzionale della Nato; b) oppure qualora si estenda l’idea americana della “Comunità Atlantica”, al­ largando la partecipazione all’alleanza anche ai paesi dell’Europa 125

Orientale fino ai confini della Russia. La scelta fatta dagli Stati Uni­ ti sembra andare in questa seconda direzione. Deoccidentalizzare la Nato ed inserirla in un framework continentale di sicurezza colletti­ va è, infatti, alla base dell’elaborazione del “Nuovo Concetto Strate­ gico”, oggi in corso di perfezionamento a Bruxelles, e che rappre­ senta la prima forma possibile di una ricostruzione del pensiero stra­ tegico occidentale. In realtà questo proposito di riformulazione degli obiettivi dell’Alleanza, fondati non più solo sugli impegni di carattere milita­ re, ma su un meccanismo decisionale integrato che produca il salva­ taggio e la riutilizzazione delle altre organizzazioni della sicurezza conferendo loro nuova operatività, è ancora tutto da verificare62. L’utilizzo delle strutture istituzionali esistenti, dalle Nazioni Unite all’Osce, dalla Nato all’Unione Europea e all’Ueo, nell’intento di mettere ordine nella confusione del disordine postbipolare, cercando di adattare le organizzazioni alla realtà, ma senza modificare o sosti­ tuirne la logica originaria, che era quella bipolare e prima ancora an­ glo-americana, rappresenta con tutta probabilità un wishful thinking destinato, prima o poi, a infrangersi contro la dinamica dei fatti63. Non è infatti immaginabile che il crollo del sistema politico inter­ nazionale bipolare possa essere sostituito da una logica omnicom­ prensiva di “partecipazione” all’Alleanza, estesa progressivamente verso Oriente, senza che i principi costitutivi del nostro sistema di valori, basato sulla liberaldemocrazia e sul libero mercato, vengano messi in forse. La logica d’integrazione dell’occidente europeo e atlantico è cer­ tamente un aspetto forte, ma non sufficiente, a sciogliere l’inossida­ bile concezione imperiale della Russia, che è storicamente il centro geopolitico e culturale di Eurasia. Concludendo si può quindi dire che quell’astratto concetto di Oceania, intesa come sinonimo di Occidente, non si è mai davvero realizzato, né con gli Inglesi né con gli Americani, poiché facevano difetto sia le premesse funzionali che quelle territoriali dell’opera­ zione. In altri termini perché entrambe le filosofie marittime manca­ vano della corporeità spazio-temporale e della percezione territoriale che è necessaria a coinvolgere Eurasia. L’allargamento della Nato verso Est può, quindi, essere un’arma a doppio taglio. Da un lato estende la fascia di protezione dell’occidente, inglobando i paesi 62. Romeo, 1995. 63. Santoro, 1995b.

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dell’Europa Meridionale (Foucher, 1993), ma dall’altro lato rischia di estendersi troppo fino ad accettare la Russia. Ma soprattutto erano assenti le coordinate concettuali, e perfino la base filosofica, indispensabili per dare consapevolezza alla necessità storica di esercitare il controllo sulla landmass eurasiatica, con l’obiettivo primario di sgretolarne l’unità, attraverso la liquidazione delle organizzazioni multinazionali di tipo imperiale, sia russa che cinese o indiana, così da eliminare una volta per sempre la minaccia permanente che l’Oriente eurasiatico, da tempo immemorabile, fa gravitare Sull’Occidente europeo. La dimostrazione della pericolosità implicita dell’unità geopoliti­ ca di Eurasia, o almeno di quella de\V Heartland, di cui parleremo nel prossimo capitolo, è ricavabile dall’attenta lettura dei cicli storici alternati in cui 1’Heartland ha vissuto; da quelli segnati da una fase espansiva, a seguito della sua tendenziale unificazione, a quelli se­ gnati da una fase di oscuramento, dovuti alla sua tendenziale fram­ mentazione.

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6. La minaccia Eurasiatica

Come abbiamo cercato di dimostrare, l’impossibilità intellettuale e operativa di Oceania a intervenire nel cuore di Eurasia è il punto centrale di tutta la nostra argomentazione. Con una metafora suggestiva si potrebbe dire che l’incapacità in­ tellettuale della “balena” a farsi “orso” ne ha ridimensionato storica­ mente il potere, e soprattutto ne ha ridotto il tempo di sopravviven­ za. Costretta ad aggirarsi nelle tre “vasche” oceaniche (atlantica, pa­ cifica e indiana) senza poterne mai uscire, le potenze marittime glo­ bali, inclusi gli Stati Uniti, vivono come lo squalo in un acquario, obbligate a muoversi ininterrottamente in un eterno girotondo che non ha destino. La differenza sostanziale rispetto alla speculare potenza terrestre globale, detentrice del controllo di Eurasia, risiede nel fatto che, mentre per Oceania non esiste alcuna possibilità di penetrare in Eu­ rasia altro che attraverso i litorali, e con direttrici di penetrazione che non possono superare le poche centinaia di miglia dal mare, nel caso di Eurasia la contiguità territoriale del Tricontinente (Eurasia + Africa), che è ininterrotta, consente di ipotizzare la formazione di un impero globale sull’intera World Island^. Si tratta, in altre parole, di una situazione del tutto diversa da quella della Potenza oceanica che potrebbe consentire, in linea di principio, alla Potenza continentale il disegno strategico della conquista dell’intero tricontinente. Caduto il Tricontinente, le Isole e le Rimlands dell’“Inner” e dell’“Outer Cre1. Si veda il dibattito geopolitico nel Novecento sull’ipotesi elaborata da Mac Kinder nel 1904, e successivamente ripresa dal pensiero geopolitico tedesco e da quello eurasista russo. MacKinder, 1919; Haushofer, 1986, ed. fr.; Korinman, 1990; Dughin, 1991; Ferrari, 1994. 729

scent”2 perderebbero rapidamente la propria capacità di sopravvi­ venza, o in termini di indipendenza politica, o in termini di estrema periferizzazione3. In altri termini, mentre Eurasia potrebbe sempre sopravvivere come Impero Terrestre Tricontinentale, Oceania, per esser certa di potere nel tempo lungo - continuare a sopravvivere, sarebbe costretta a fare i conti con la propria marginalità, limitandosi a “contenere” Eurasia senza mai poterla davvero sottomettere. In entrambi i casi si trattereb­ be di una reciproca impossibilità a conquistarsi, perché Eurasia, senza il controllo del mare, non potrebbe mai occupare le “isole” al largo, mentre Oceania, senza un consapevole disegno di penetrazione territo­ riale, non avrebbe la possibilità di invadere e/o vincere Eurasia. Se le cose andassero davvero in questo modo il modello bipolare “orso-balena” non creerebbe problemi. Sarebbe un modello pacifico per la reciproca impossibilità di colpirsi a morte, trattandosi di av­ versari incompatibili perché incapaci di operare sullo stesso terreno. Ma le cose non vanno sempre così. E infatti possibile immaginare - e molti esempi tratti dalla storia lo confermano - che la “balena” si faccia “orso” e viceversa, cioè che l’uno dei due o entrambi decidano di “imparare a nuotare e a camminare”. La guerra del Peloponneso è il più lampante esempio di questo tentativo strategico4, ma anche alcuni casi-studio molto più vi­ cini a noi hanno confermato i rischi di questa aspirazione. Si pensi al “Modello Tirpitz” della Germania guglielmina5 e al “Modello Gor­ shkov” delTUnione Sovietica6 che segnalarono il tentativo della Ger­ mania prima, e della Russia poi, di farsi balena, oppure, in senso op­ posto, al “Modello Marshall” per gli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale7 che trasformò, nel giro di pochi mesi, un paese senza eser­ cito in una macchina militare da 12 milioni di soldati, per rendersi conto di come il tentàtivo di raggiungere una capacità globale, sia sulla terra che sul mare, sia stato messo in pratica più di una volta nella storia. E che anzi esiste una naturale tendenza da parte delle Grandi Potenze ad acquisire una capacità strategica a 360° gradi. 2. Mackinder, 1904; e Spykman, 1942, 1970. 3. Vedi i Rapporti dei Gruppi “Economico-Finanziario”, “Territoriale” e “Arma­ menti” istituiti dal Council on Foreign Relations di New York, fra il 1939 e il 1945, che prefiguravano in termini oceanici il sistema politico postbellico. Cfr. Santoro, 1987, 1992. 4. Kagan, 1969-1987, (4 voll.). 5. Tirpitz, 1920. 6. Gray e Barnett (a cura di), 1989. 7. Feis, 1966.

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Va però subito aggiunto che il risultato di queste operazioni di “riconversione” dalla terra al mare (e viceversa) sono state, con qualche eccezione, quasi sempre fallimentari, o comunque hanno dato dei risultati relativamente modesti, e, nella generalità dei casi, non duraturi. Con questo non s’intende escludere la possibilità di una trasfor­ mazione che abbia successo, anche se, storicamente, le riconversioni “orso/balena” hanno avuto l’effetto di condurre a guerre “assolute” rovinose, dirette ad escludere l’avversario dalla doppia capacità. Le ragioni di questa costante difficoltà sono state di varia natura. Le principali, però, restano quelle di carattere geopolitico e cultura­ le. Nel senso che, nella maggioranza dei casi, le Potenze terrestri non posseggono una “geografia” marittima sufficiente, e quindi par­ tono oggettivamente svantaggiate, mentre quelle marittime non pos­ siedono la “cultura” terrestre indispensabile a ipotizzare la riconver­ sione, e quindi spesso trascurano di prendere le misure necessarie. Questo tipo di vincoli geografici e culturali sono così radicati che anche gli esempi storici più significativi hanno svelato la difficoltà strutturale di una potenza marittima come la Gran Bretagna ad adot­ tare una strategia terrestre di tipo navale, né sulla Somme e neppure ad El Alamein o in Normandia, mentre la flotta tedesca di Tirpitz e quella sovietica di Gorshkov, hanno incontrato gravi difficoltà stra­ tegiche ed operative nell’articolarsi e dispiegarsi allo stesso modo della flotta inglese e di quella americana. È inoltre importante sottolineare come il processo di “riconversione” terra/mare non abbia la stessa valenza in entrambe le direzioni. Vale a dire che la trasformazione terrestre delle potenze marittime, qualunque sia il suo esito operativo e politico, non comporta mai la capacità di in­ vadere e conquistare il cuore di Eurasia, mentre la creazione di una flotta d’alto mare da parte di una potenza terrestre permette, in linea teorica, lo stabilimento del controllo marittimo sull’oceano. Questa diseguaglianza dei punti di partenza comporta una debo­ lezza potenziale maggiore da parte delle potenze marittime rispetto a quelle terrestri. Nel primo caso, infatti, il risultato sarà sempre infe­ riore all’obiettivo strategico, che è quello della conquista del cuore di Eurasia, mentre il suo contrario, cioè il controllo oceanico, non esclude la possibilità di successo, se accompagnato da una politica delle alleanze capace di garantire alla flotta un sistema di basi d’ap­ poggio sufficiente all’autosostentamento in mare8. 8. Vedi il ruolo svolto da Corinto, alleata di Sparta e dotata di una ragguardevo­ le flotta, nel conflitto con Atene. Tucidide, 1984; Kagan, 1969-1987.

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Il caso della guerra fra Sparta e Atene è particolarmente indicati­ vo di questa realtà. L’impero marittimo può infatti strangolarsi dì solo per sperpero di risorse, come accadde ad Atene con la spedizio­ ne in Sicilia, mentre l’impero terrestre deve essere non solo sconfit­ to sul campo, ma anche materialmente occupato. Già Clausewitz nel “Von Kriege”9 aveva messo in rilievo questa invulnerabilità di Eurasia, e poi anche nello scritto sulla “Campagna del 1812”, parlando della Russia, simbolo territoriale principe di Eu­ rasia, aveva sottolineato che “un paese di quella taglia non può esse­ re conquistato e... che le prospettive di un eventuale successo non sempre diminuiscono in proporzione alle battaglie perdute, capitali catturate e provincie occupate.. ,”10. Ne discende che V identità geografica, storica, politica e militare dell’occidente, e in particolare dell’Europa, non può essere concen­ trata solo sulle modalità di sopravvivenza di una civiltà marittima difronte alle pressioni e agli attacchi provenienti da una civiltà terre­ stre. E necessario invece dotare il concetto di Occidente (e di Euro­ pa) del suo naturale connotato di terrestrità, accanto a quello di ma­ rittimità. Lo statuto peninsulare dell’Europa, in questo senso, è in­ dubbiamente un vantaggio non secondario. Questo “progetto di sopravvivenza”, misto di terra e di mare, ha trovato conferme e riprove in molti momenti della storia dell’Occi­ dente, assumendo le sembianze di fine, e di contenuto allo stesso tempo, della storia europea, almeno a partire dall’età carolingia. La “ricostruzione” dell’Europa, non può quindi non essere un processo di recupero e di ridefinizione della propria identità, attraverso la ve­ rifica del cuore della civiltà autoctona che il continente ha prodotto nei secoli. Il concetto di “identità”, vale a dire la relazione che un ente, ov­ vero un’organismo e un’istituzione, intrattiene esclusivamente con se stesso, va posto in rapporto speculare con quello di “differenza”, in quanto relazione che un ente, ovvero un’organismo e un’istituzio­ ne, intrattiene con altri enti. Nel caso dell’Europa questa doppia re­ lazione fra identità e differenza è particolarmente delicata, ma non impossibile da configurare. E necessario però, a questo scopo, stabilire chiaramente i rapporti concettuali tra termini diversi: in particolare tra “essere”, “identità” e “unità”. L’“essere” dell’Europa, infatti, non corrisponde necessa­ riamente né alla sua identità né, tantomeno, alla sua unità. Tuttavia, 9. Clausewitz, 1832, III, 17, p. 220, voi. 7. 10. Ibidem, cit. in Wallach, 265.

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si tratta di passaggi successivi, anche se non necessari, che servono a verificare le fasi della sua “ricostruzione”, dopo la sua “distruzio­ ne” avvenuta fra il 1914 e il 1945 e protrattasi poi fino al 199011. L’“essere” dell’Europa è, comunque, un termine-concetto di per sé non caricato di valenza ideologica o politica. È, in un certo senso, una proprietà geografica, uno statuto territoriale prima ancora di es­ sere un segno culturale. Ben diverso è invece il contenuto del termi­ ne “identità”. In effetti un “dasein” basato sulla parziale mutilazione12 del Con­ tinente - come durante la Guerra Fredda - ovvero sulla pura soprav­ vivenza territoriale, che è anch’essa una forma dell’essere, non basta a definire l’identità. Tale condizione essenzialmente difensiva ha in­ fatti uno statuto teorico che è molto fragile. È sottoposta al rischio permanente di venire travolta, o almeno periodicamente sopraffatta, dalla spinta permanente dell’Oriente, la cui unità tendenziale rappre­ senta, di per sé, una minaccia potenziale gravissima13. E però possibile, come ipotesi di riserva, immaginare un’inversio­ ne di marcia, vale a dire che dopo un’interminabile fase “difensiva”, rotta solo a tratti da brevi periodi di rivalsa, l’Occidente possa pas­ sare ad una fase finalmente “controffensiva”. Storicamente, invece, non è mai esistita in Europa una concezione o una filosofia strategica, e per conseguenza una capacità politico­ militare europea, che non fosse essenzialmente difensiva. Per cui il fenomeno dei viaggiatori dell’Antichità e del Medioevo che percor­ revano a ritroso, rari e sperduti, la “via della seta e delle spezie”, era così infrequente da apparire eccezionale, anche se si trattava di iso­ li. Hillgruber, 1988, 199, ed. it. per un esame del processo di “distruzione” dell’Europa; Vedi anche, per un’interpretazione dei due punti di rottura cruciali del­ la “distruzione”, il saggio dello stesso Autore (Hillgruber, 1986, 1990), che nella frantumazione del Reich tedesco e nella fine dell’ebraismo europeo colloca il mo­ mento supremo di quella “catastrofe”. 12. Una visione restrittiva dell’Europa Occidentale è quella di Smith Clifford, 1967, 1974, che non include nella sua ricerca neppure le Isole Britanniche (p. V). 13. Campbell, 1964, 1992, 1993, 1996. Campbell, che è uno dei massimi siste­ matizzatori della mitologia mondiale, sostiene che i grandi blocchi mitologici mon­ diali sono quelli dell’india e dell’Estremo Oriente (Cina e Giappone), del Vicino Oriente e dell’Europa. L’Occidente, in questa lettura, comprenderebbe i due ultimi blocchi e il confine geografico (e culturale) fra Occidente e Oriente potrebbe essere localizzato su una “linea immaginaria tracciata attraverso l’Iran, seguendo il meri­ diano posto a 60 gradi a Est di Greenwich” (p. 37). In effetti la mitologia occiden­ tale, nel senso nostro, è identificabile solo con il blocco mitologico e culturale euro­ peo, anche se l’interazione con il blocco del Vicino Oriente è stata sempre molto intensa.

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lati e frammentari episodi i quali, in certo senso, punteggiavano piuttosto un’assenza, invece di segnalare una presenza dell’Occidente in Oriente. Per avere una ulteriore dimostrazione di questa sostanziale e qua­ si permanente difensività dell’Europa, basterà tener presente che nel lungo periodo che va dalla caduta dell’impero Romano d’Occidente (476 d.C.) fino alle prime esplorazioni marittime di Vasco de Gama (1498), e cioè per circa mille anni, solo pochi viaggiatori ebbero il cuore di avventurarsi in Eurasia per via di terra, in particolare nell’Età di Mezzo, e fra i pochissimi, ricordiamo Giovanni de Piano Carpini nel 1245-47, William of Rubruck, pochi anni dopo (125355), e Marco Polo, fra il 1271 e il 127514. Vale a dire che nei mille anni che vanno dal 476 al 1498, mentre i grandi flussi di migrazione e d’invasione da Oriente, i Völkerwande­ rungen15, toccavano il loro apice, con successive ondate di marea contro i bastioni della “Fortezza Europa”, gli episodi di segno con­ trario furono infinitesimali e quasi nulli. Lo spirito “controffensivo” di penetrazione in Eurasia, nella sua forma più politica e meno militare, di destabilizzazione della sua minacciosa unità politica e culturale, è rimasto dunque quasi del tut­ to assente in Europa, anche nei momenti più alti dell’Età coloniale. L’“identità” europea dunque, raggiunta attraverso la sopravviven­ za, e l’irraggiamento della propria civiltà per via marittima, è stato il solo paradigma storico permanente della vita dell’Europa, sin dai se­ coli bui dell’Alto Medioevo16, e poi in quelli delle sue diverse “Ri­ nascenze”, a partire dal secolo XII17. Il suo limite perenne e invalicabile è stato quindi quello di non avere altro che le proprie forze per resistere alla minaccia prove­ niente da Est, inventando, volta per volta, le forme della propria in­ dipendenza conflittuale. Muovendo dalV'essere ipotetico verso una teorica identità, l’Europa, però, non era mai stata sfiorata, fino ai tempi nostri, dalla possibilità concreta dell’auspicata unità. In altre parole il ciclo della storia europea, dall’Alto Medio Evo al Novecento, non ha fatto altro che organizzare una politica difensi­ va e fortificata, da Festung Europa, iniziata con la fondazione 14. R. Hanburg, Tenison, 1993, pp. 7-16. 15. Bloch, 1946, 1949, ed. it., pp. 15-53. 16. Si rinvia alla bella sintesi di Fumagalli Vito, 1993, L'alba del Medioevo, Bo­ logna, Il Mulino^ che individua bene l’affiorare del nuovo Occidente europeo dalle ceneri del mondo tardo-antico. 17. Haskins, 1927, 1955, ed. it.

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dell’impero Carolingio, compensata successivamente dalla politica marittima, prima verso le sponde Sud ed Est del Mediterraneo (Re­ pubbliche Marinare Italiane, e la lunga stagione delle Crociate, intri­ sa di spirito e di interessi) poi verso gli Oceani, con l’età delle gran­ di scoperte geografiche e la formazione dei primi imperi coloniali (Portoghesi, Olandesi, Spagnoli, Inglesi, Francesi). Perfino nell’aureo periodo della supremazia europea sugli altri continenti, durante i trecento anni di funzionamento del sistema dell’Equilibrio di Potenza, la questione della sua natura essenzial­ mente “difensiva” non venne mai messa in discussione18. Nessuna Potenza europea occidentale ritenne di realizzare (e nep­ pure di immaginare) la dislocazione, con azione offensiva, dell’unità di quella gran parte di Eurasia della tundra e delle steppe che, sotto il dominio imperiale russo, prima durante e dopo il tempo lungo dell’Europa successiva al Congresso di Vienna, andava intessendo una particolare trama di rapporti con l’altra parte della landmass, quella della Cina19. Oggi però l’Occidente è finalmente nelle condizioni di prendere l’iniziativa e dare corso all’immaginazione prospettando, per la pri­ ma volta, quell’ipotesi controffensiva di soluzione che lo liberereb­ be, una volta per tutte, dalla paura dell’invasione da Oriente. È chiaro peraltro che una conversione dalla difensiva all’offensiva non potrebbe essere altro che di tipo politico, diplomatico e cultura­ le20. Necessiterebbe inoltre di una ben più radicata identificazione spaziale da parte dell’Europa, e quindi di un ragionamento sulle frontiere del continente, di una percezione collettiva dello “spirito” dell’Europa, e finalmente di una netta distinzione dell’occidente nelle sue due parti (Europa da una parte e America dall’altra), che la filosofia politica oceanica di Atlantide, all’interno della quale abbia­ mo vissuto come Europei quasi tutto il Novecento, non poteva nep­ pure lontanamente ipotizzare. In altri termini, allargando il ventaglio delle opzioni geopolitiche e strategiche, da quelle del potere marittimo integrale, tipiche della tradizione anglo-americana, a quelle di matrice continentalista della Festung Europa a geometria variabile (dilatazione o contrazione del­ 18. Sul sistema dell’Equilibrio di Potenza, assunto a modello di stabilità dei si­ stemi intemazionali, oltre che a Gulick, 1955, si rinvia al recente studio di Niou, Ordeshook, Rose, 1989. 19. Stary, 1974; Schubert, 1938, 1947, ed. it.; Spence. 20. L’uso della “diplomazia” è qui inteso in senso ampio. Vedi a questo proposi­ to le argomentazioni contenute in Der Derian, 1987.

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lo spazio), tipico della tradizione germanica e alto imperiale, per passare ad un modello “misto” di interazione marittimo-terrestre, in­ tegrato dalla terza dimensione verticale del potere aereo21, inteso co­ me teoria politica della deterrenza nucleare e del controllo dello spa­ zio22, le possibilità di un’azione efficace dell’occidente europeo nei confronti della permanente minaccia da Oriente, non sono ipotesi del tutto cervellotiche e quindi opzioni da scartare. L’ipotesi della prevalenza assoluta di un modello sull’altro (potere marittimo contro potere terrestre), date le croniche carenze di autono­ mia scientifica e geopolitica della dottrina del potere aereo, sarebbe tut­ tavia ormai insufficiente, sia a rendere permanente l’egemonia dell’uno sull’altro, sia a risolvere una volta per tutte il problema dell’“eccesso di gravità” di Eurasia, intesa come Oriente, rispetto alla “leggerezza” co­ stituzionale e strutturale dell’Europa, intesa come Occidente. Sarà quindi opportuno rileggere analiticamente alcune fra le più grandi “avventure” politico-militari occidentali del passato, che nel corso del tempo hanno tentato di contrastare la minaccia di Eurasia, adottando una strategia contro l’Oriente che potremmo definire di “compellenza” controffensiva, o meglio di tipo “preemptive”23, ba­ sata essenzialmente sui modelli classici di invasione del tipo terre­ stre e/o continentale. Ognuno di questi grandi progetti utopici di “conquista” territoriale di Eurasia ha rivelato la sua inadeguatezza operativa, e anzi l’impossibilità congenita di vittoria, che pure quelle rare e fugaci spedizioni si proponevano di ottenere24. In ogni caso, gli esempi di penetrazione profonda all’interno della massa eurasiatica, da Ovest verso Est, nel tentativo di prevenire una minaccia permanente di segno contrario, anticipandone per questa via la probabile occorrenza, si contano sulle dita di una sola mano. Le più significative operazioni strategiche, delle quali sarebbe op­ portuno riesaminare attentamente i caratteri, sono state in tutto quat­ tro, quella di Alessandro Magno nel IV secolo a.C., che “addentò” Eurasia da Sud, quella di Napoleone Bonaparte nel 1812 che pene­ trò in Russia da Nord, quella della Germania Imperiale fra il 1915 e 21. Virilio, 1976; Freedman, 1981. 22. Vedi letteratura: in particolare Schelling, 1966, 1968, ed. it.; Kissinger, 1957; Kahn, 1964; Snyder Glenn H., 1984, “The Security Dilemma in Alliance Po­ litics”, in World Politics, n. 4. 23. Vedi i concetti di “compellenza” in Schelling, 1960, 1966, e di “preemption” in Kahn, 1960, 1962, 1965, nonché in Keith e Payne, 1978; Payne, 1979, ecc. 24. Paret, 1986, analizza bene le dottrine francesi napoleoniche e tedesche nell’invasione della Russia durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.

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il 1918 e infine quella di Adolf Hitler nel 1941, che tentarono di sfondare su tutto il fronte, dal Baltico al Caucaso. In tutti e quattro questi tentativi di conquista di Eurasia, che avevano come obiettivo primario l’uso dello spazio, inteso come soluzione politica e militare del problema geopolitico fondamentale (cioè il controllo di Hear­ tland) l’Occidente, pur senza riuscirvi, è stato in qualche momento molto vicino al successo. Il paradosso risiede proprio in questo: nel­ la possibilità del successo militare tattico ed operativo, ma nell’im­ possibilità del successo strategico. Si sarebbe potuto, teoricamente, vincere la guerra, ma non la pace. Nel caso di Alessandro Magno, anzi, il destino ha voluto che l’opera del Macedone s’interrompesse solo per cause naturali, e non certo per la forza di reazione di Eurasia, anche se, ancor prima della sua morte, notevoli difficoltà “spaziali”, di tipo logistico e perfino di natura psicologica, si erano già manifestate creando problemi non secondari all’esercito, che resisteva ormai apertamente all’inesauri­ bile sete di occupazione territoriale del Re. Basterà pensare ad alcu­ ne delle defatiganti operazioni condotte dal Macedone nella fascia meridionale dell’Arabia, nella Gedrosia e nella penisola iranica, ov­ vero a quelle per il controllo territoriale della Battriana e fino all’an­ temurale dell’indo, per comprendere come l’intuizione strategica di Alessandro fosse sostanzialmente corretta, mentre la correlata capa­ cità di realizzazione, in termini di risorse, uomini e tecnologie, fosse assai al di sotto delle minime necessità25. Il concetto strategico principale che guidava Alessandro, al di là dello spirito d’avventura che, pure, è sempre stata una caratteristica basilare dello “spirito” occidentale, si basava sull’idea di controllare e unificare la fascia meridionale di Eurasia, da Pella all’indo e, più a Nord-Est, verso l’Afghanistan, la Sogdiana e l’Oxus, cioè nella dire­ zione del cuore nevralgico del vitale sistema di comunicazione fra la Cina e l’Europa, attraverso il doppio percorso della “Via delle Spe­ zie” e della “Via della Seta”26. La distruzione dell’impero Persiano achemenide, che rappresentò il principale risultato di tutta l’operazione, avrebbe dovuto preludere alla graduale occupazione dell’india e dell’Asia Centrale, fino a rag25. Green, 1990; Fox, 1973, 1981; Bosworth, 1988, 1993; O’Brien, 1992; ecc. 26. Se la comunicazione dell’occidente europeo con la Cina, da Sud, attraverso la Persia e l’india, risale a tempi lontani, precedenti a Alessandro, è solo con lui che il sistema d’interscambio diventa “normale”. Tale sistema commerciale diven­ terà poi “regolare” durante la fase “argentea” dell’impero Romano. Cfr. Foccardi, 1992; Miller, 1969, 1974, ed. it.; Millar, 1993; Gemet, 1977 1978.

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Fonte: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

Fonte: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

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Fonte: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

giungere l’allora ignoto Estremo Oriente. L’errore fondamentale di questo grandioso disegno risiedeva nel fatto che il progetto di con­ quista era tecnicamente impossibile, soprattutto se accoppiato alla contemporanea conquista dell’Africa, dall’Egitto alla Nubia, ed era, per di più, erroneamente concepito in termini di strategia politica perché, invece di frammentare Eurasia, Alessandro si proponeva di unificarla27. Lo stesso può dirsi per l’altra grande avventura occidentale in Eu­ rasia, quella di Napoleone Bonaparte in Russia, oltre 2000 anni do­ po, nel 1812, il cui fallimento conclusivo riposa più sulla debolezza della sua intuizione strategica, sulle carenze logistiche e sulle sue in­ certezze politiche dopo l’occupazione di Mosca, che non sulla effet­ tiva capacità dei Russi28 di imbastire un progetto controffensivo di­ verso dal tradizionale meccanismo difensivo del trade-off fra spazio e tempo29. Molto meno ambizioso nei suoi contenuti strategici e politici ori­ ginari, è stato poi il tentativo tedesco imperiale del 1915-18 di allar­ garsi verso Est nei territori dell’impero Russo. Esso però fu corona­ to da un relativo successo a partire da Gorlice fino a Brest Litowsk. Mancava però di prospettiva e, soprattutto, fu vanificato dalla scon­ fitta subita a Occidente contro gli anglo-franco-americani e dallo spettro della rivoluzione bolscevica - che pure i tedeschi avevano contribuito ad evocare - ma che dilagava perfino all’interno della Germania sconfitta30. Molto più vicina al successo è stata, infine, l’operazione Barba­ rossa di attacco all’Unione Sovietica, condotta dall’esercito germa­ nico nel 1941, e interrotta solo dalla fatale decisione del Führer di distrarre le principali unità corazzate del Gruppo d’Armate Centro dall’occupazione della linea Mosca-Gorky, orientandole invece ver­ so Leningrado a Nord e l’Ucraina a Sud31. La letteratura sulla campagna di Russia non mette sempre in rilie­ vo questo punto di sostanza che solo qualche autore ha recentemente sviluppato con argomenti che sembrano incontrovertibili32. Era però 27. Dodge, 1890, 1993. 28. Riehn, 1990; Nicolson, 1985, 1987, ed. it. 29. Vedi letteratura, da Chandler, 1966, a Paret, 1986. 30. Schlögel, 1989. 31. Stolli, 1991; Carell, 1963, 1967, ed. it.; Erickson, 1975; Manstein, 1955, 1982; Macksey (a cura di), 1995, pp. 54-81; Seaton, 1971. 32. Boog et al., 1983; Seaton, 1971, pp. 133-152; Erickson, 1975; Giordano, 1989, 1991, pp. 297-320, ma soprattutto Stolli, 1991.

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assente anche da quel disegno di conquista, non solo un progetto or­ ganico e strategicamente possibile, ma anche un concetto geopoliti­ co fondamentale, quello che mette in linea i due termini di vittoria e conquista ordinandoli in modo inutilmente inscindibile. L’impossibilità teorica di invadere, e poi di occupare, più o meno stabilmente, il “cuore di terra” eurasiatico costituiva comunque un duplice vincolo, tanto di natura concettuale e simbolica, annidato nella cultura collettiva dell’Europa, quanto un’esperienza storica e strategica dovuta a queste grandi avventure finite male. La convinzione che Eurasia sia inattaccabile e invincibile, unita e omogenea, è infatti il rovescio psicologico del timore atavico, e sto­ ricamente ricorrente, dell’invasione da Oriente al quale fa da neces­ sario complemento la consapevolezza del fallimento dei più recenti tentativi di sfidarne la compattezza. Si tratta, invece, di un pregiudizio, ovvero di una valutazione irra­ zionale e non dimostrata, poiché non esistono, almeno in linea di principio, degli ostacoli naturali o spaziali davvero insormontabili alla destrutturazione di Eurasia, se non forse quelli generati dal dif­ ferenziale demografico fra Oriente e Occidente. Ma anche un eleva­ to divario demografico non è necessariamente un vincolo. Anzitutto perché la distribuzione della popolazione in Eurasia è molto inegua­ le, con un addensamento rilevante solo nelle regioni costiere meri­ dionali e nella fascia orientale della landmass. Assai meno concen­ trata è invece la popolazione della regione centrale e Nord Orientale (cioè 1’ Heartland) dove lo spopolamento di vaste aree è una condi­ zione naturale e permanente. Per di più va detto che in diverse occa­ sioni tale condizione non è stata affatto di impedimento a clamorose invasioni dell’Europa provenienti da Est e da Sud condotte da popo­ li nomadi numericamente molto inferiori rispetto agli abitanti delle terre invase. Si pensi, per fare qualche esempio, alle invasioni dei Goti e a quelle dei Normanni nel IV e V secolo d.C., oppure a quel­ la degli Arabi nel VII secolo, o ancora dei Mongoli nel secolo XIII, che pure hanno avuto l’effetto di interrompere per secoli la conti­ nuità culturale, e talvolta anche quella territoriale, della landmass eurasiatica, stabilendo così un singolare sistema permanente di sepa­ razione basato su frontiere33 mobili ma invalicabili34. In termini assoluti, infatti, e anche in termini di rapporto fra po­ polazione e territorio, almeno a partire dalla preistoria, il differen­ 33. Whittaker, 1994; Heather, 1991; Isaac, 1990, 1992. 34. Lapidus, 1988; Hoàng, 1988, 1992, ed. it.; Rossabi, 1988, 1990, ed. it.; Roux, 1993.

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ziale demografico fra Oriente e Occidente, se misurato sulla base del numero degli “invasori” rispetto al numero degli “invasi”, non ha mai rappresentato un’incolmabile distanza quantitativa35. Al contrario, in molti casi, come durante i secoli del Völkerwan­ derung, i numeri sono stati tutti a favore degli “invasi” rispetto a quelli degli “invasori”. Lo dimostrano gli studi sulle invasioni bar­ bariche in seno all’impero Romano, nelle successive ondate, a parti­ re dalle prime tribù Germaniche a quelle Unne, Slave, Arabe, Vi­ chinghe, Mongolo-Tartare, ecc.36. Né può essere del tutto ostativo il problema della logistica e dei rifornimenti, nel caso della penetra­ zione in profondità all’interno di Eurasia, che oggi può essere in gran parte superato dalla tecnologia37. Ma neppure sotto il profilo spaziale, al di là delle distanze, esisto­ no vincoli insuperabili all’invasione di Eurasia. Geograficamente, infatti, non possono essere certo considerati come un ostacolo di qualche rilievo i monti Urali, così come non lo sono neppure le po­ polazioni dell’area eurasiatica, divise tra etnie e nazionalità diverse, spesso unificate solo dall’odio antirusso o anticinese, né tantomeno rappresentano un impedimento tecnologicamente insormontabile i rigori del clima, che nell’area Nord di Eurasia, potrebbero certamen­ te rallentare, ma non impedirne l’attraversamento. Si può quindi concludere che l’ipotesi interpretativa che attribui­ sce una congenita “superiorità” dinamica dell’oriente rispetto all’occidente al differenziale demografico, ovvero alla distanza spa­ ziale e alle condizioni metereologiche, non ha molta consistenza38. Certo, un differenziale esisteva, soprattutto nel lontano passato, ma era di tipo essenzialmente strategico39, nel senso che la superio­ rità militare dell’oriente era legata, oltre che alla superiorità ricono­ sciuta dei barbari nella metallurgia e nell’equitazione40, anche alla diversa dimensione culturale dello spazio nelle due principali catego­ rie di abitanti di Eurasia, quella ristretta e difensiva delle popolazioni 35. Sulle cause della crisi di Eurasia, e in particolare degli imperi continentali (Roma, Persia, Cina) alla fine del mondo antico, sotto i colpi delle invasioni prove­ nienti da Heartland, vedi fra gli altri Lopez, 1962, 1966, ed. it., pp. 31-41, e in spe­ cie p. 34 dove si elenca la consistenza delle tribù barbariche: non più di poche deci­ ne di migliaia di persone, incluse le donne e i bambini. 36. Delbrück, 1918, 1975, vol. IL; Jones A.H.M., 1964. 37. Van Creveld, 1977; Thompson, 1991; Lynn, 1993; Pagonis, 1992. 38. Brzezinski, 1997, pp. 30-56. 39. Cardini, 1981, 1987; Delbrück, 1921, 1975; Kahn, 1960; Kissinger, 1957; Schelling, 1960; Brody, 1946. 40. Lopez, 1962, 1966, ed. it., pp. 33 e sgg.; Cardini, 1982, 1987; Van Creveld, 1989.

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stanziali e agricole, basata sulla fanteria in Europa o in Cina, e quel­ la, ampia e offensiva, dei popoli nomadi o seminomadi dell’Hear­ tland asiatico41. I cavalieri della steppa e gli opliti di Alessandro Magno non ave­ vano infatti una comune filosofia della guerra, e il risultato dello scontro fra Napoleone e Kutuzov, ovvero fra Hitler e Stalin, ben dif­ ficilmente avrebbe potuto essere diverso, poiché l’obiettivo che ani­ mava sia Napoleone che Hitler era sostanzialmente lo stesso, cioè quello dell’occupazione territoriale di Eurasia42. Tuttavia anche questo differenziale intellettuale e tecnico-militare non può essere considerato decisivo. E più facile infatti immaginare l’impostazione di un piano strategico occidentale vincente, basato su criteri tecnologici e dottrinali mutuati dalla grande tradizione della cavalleria nomadica asiatica43, diretto a sconfiggere Eurasia e l’Oriente con la teoria della Blitzkrieg44, soprattutto se integrata dal­ lo strumento innovatore della deterrenza nucleare, che non una ipo­ tesi di aggressione dell’occidente da parte dell’oriente, basata sui soli differenziali quantitativi di forza, quali la popolazione, le risorse e le materie prime. In altri termini la “frammentabilità” potenziale di Eurasia non può essere esclusa per motivi strutturali, né geografici, né di omogeneità etnica. Al contrario, è proprio il mosaico di popoli, nazioni, razze, etnie che abitano il cuore di Eurasia, nelle sue due fasce orizzontali, quella delle “foreste” e quella delle “steppe”, a rappresentare la principale debolezza potenziale di ogni sistema imperiale che pre­ tenda di unificare lo Heartland. La gestione politica dell’impero russo o sovietico che, dopo quel­ lo mongolo, è stata la più vasta concentrazione territoriale della sto­ ria, e che rappresenta ancora oggi un ottimo esempio di impero eu­ rasiatico con aspirazioni globali, ha sempre sofferto di un vincolo ineliminabile, proprio quello di dover trattare, per potersi imporre, con oltre cento nazionalità diverse. Il tentativo di “Russificazione” nell’Ottocento, e quello di “Sovietizzazione” nel Novecento45, è stato lo sforzo più consapevole e sistemati41. Vedi in Chaliand, 1995, pp. 47-112, la teoria dei “fronti militari” dei nomadi Altaici; Hanson, 1989. 42. Black, 1994; Chandler D.G., 1966, 1968, ed. it.; Boog et al., 1983. 43. Cardini, 1981, 1987; Keegan, 1993; Delbrück, 1921, 1975, ed. ingl., vol. I e II. 44. Corum, 1992; Liddel Hart, 1954, 1967; Betts, 1982; Perrett, 1983; Vigor, 1983; Deighton, 1979. 45. Per un’analisi ravvicinata delle diversità etniche e nazionali nella Russia at­ tuale e nell’ex Impero Sovietico si veda Santoro, 1995f.

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bonté: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

co di violenza omogeneizzatrice ed egualitaria mai posto in essere nel­ la storia. L’imperialismo zarista, e poi il comuniSmo bolscevico, aveva­ no infatti proprio l’obiettivo dichiarato di eliminare le differenze cultu­ rali nazionali, e quindi ogni rischio di frammentazione imperiale46. I venticinque milioni di russi che ancora oggi abitano le nuove nazioni uscite dalla dislocazione dell’Unione Sovietica, sono la vi­ stosa traccia di quell’opera di omologazione, in terre non russe, ini­ ziata da Ivan IV il Terribile, proseguita con Pietro I e Caterina II, fi­ no ad Alessandro III e a Stalin47. La fragilità di Eurasia e dei suoi imperi, la sua perenne tendenza alla disgregazione, che è l’alternativa costante alle altrettanto costan­ ti spinte unificatrici, è quindi essenzialmente provocata dalla sua stessa friabilità etnica e culturale. Sotto la scorza sottile dell’omoge­ neità amministrativa, politica, militare, e successivamente ideologi­ ca, dell’impero russo-sovietico, si celava infatti quell’assoluta diver­ sità e incomprimibilità delle etnie e delle culture che derivava dalla sua estesa dimensione spaziale, e quindi dall’impossibilità di impor­ re all’intero territorio, al di là della semplice occupazione militare, oltre aH’“imperium” e al “dominium”, anche l’“egemonia”. Ed è su questa leva dirompente e incomprimibile che l’Europa, cuore dell’occidente, potrebbe premere per liquidare, nel futuro e una volta per tutte, la costante minaccia che viene da Oriente48. In sintesi è perciò possibile sostenere: a) che Eurasia non è geostrategicamente invincibile e che, in linea teorica, potrebbe essere sconfitta, anche se non conquistata militarmente; b) che Eurasia è etnicamente friabile, e quindi non deve necessariamente essere considerata come un’unità compatta, ma invece come un’area soggetta a cicli periodi­ ci di unificazione-disgregazione 49. D’altra parte, la relativa facilità con cui sono avvenute le invasio­ ni da Est verso Ovest, di segno opposto quindi rispetto a quelle, spo­ radiche, da Ovest verso Est, le quali hanno periodicamente sfondato le difese dell’Europa, a partire dalla preistoria fino al secolo X, e poi l’hanno costantemente minacciata fino al secolo XX, confermano la tesi secondo la quale ogni tipo di vincolo geografico, demografico e climatico, ma anche di natura politico-militare, non deve essere con­ siderato come un dato assoluto e irreversibile solo perché si è ripetu­ to più volte nel tempo. 46. Seton-Watson, 1967, 1971, ed. it.; Pipes, 1974, 1990, 1994; Nahaylo & Swoboda, 1990, 1991, ed. it.; Bremer & Taras (a cura di), 1993. 47. Conquest (a cura di), 1986; Santoro (a cura di), 1995d. 48. Vedi in Fuller Jr., 1992; Lincoln, 1994, pp. 155 e sgg. 49. Brzezinski, 1997, vedi carta p. 34.

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È evidente però che se è stato più facile per l’Oriente, nelle sue di­ verse forme, invadere l’Occidente e l’Europa, è altresì ragionevole ipo­ tizzare che vi sono state delle motivazioni ben più importanti e profon­ de, anche se meno visibili, ad impedire che accadesse il contrario, e cioè che fosse l’Occidente a esercitare una pressione sull’Oriente. Quello che è sempre mancato infatti nel pensiero politico, geopo­ litico e strategico occidentale, e che ha “fatto la differenza”, è stata proprio l’incapacità occidentale di concepire la landmass Eurasiatica come una moltitudine frammentata di “Asie” diverse50. Il “cuore di terra” del mondo è stato sempre interpretato, per la sua vastità e lon­ tananza metafisica e inaccessibile, quasi fosse un unicum, quindi unitario e naturalmente indivisibile51, qualcosa che aprioristicamente doveva, per forza di cose, essere considerato come uno spazio conti­ nuo e organizzato, privo di vere differenziazioni52. È stato probabilmente questo il principale “atout” psicologico e culturale del cuore asiatico delf’Isola del Mondo” e degli Imperi storici che lo hanno dominato. L’aver fatto credere che Eurasia fosse un tutto omogeneo (uno “spazio liscio” alla Deleuze e Guattari), ca­ ratterizzato dalla mitologia truce e spaventosa della tradizione, stori­ ca e leggendaria insieme53, dalla inarrestabilità delle invasioni bar­ bariche provenienti da Est, e dalla loro invincibile successione di or­ de inarrestabili, ne ha protetto l’unità presunta e ha preservato il po­ tere di coloro che riuscivano a controllarne il “centro”54. Questa diversità e contrapposizione fra Occidente e Oriente, quin­ di fra Asia da un lato ed Europa-Mediterraneo dall’altro, si basa su fattori culturali profondi. Nella cosmogonia biblica, e in particolare nella Genesi55, la distinzione fra Dio e l’Uomo si fonda proprio sulla 50. MacKinder, 1904; Pannikar, 1958, ed. it.; Lattimore, 1962. 51. Lincoln, 1994, pp. 48 e sgg. e Brzezinski, 1997, p. 87 e sgg. 52. Vedi Deleuze e Guattari, 1980, che hanno costruito una vera metafisica se­ mantica dello spazio “liscio” o “striato” sulle cui categorie hanno innestato, un po’ fumosamente, la geografia e la storia. In particolare si rinvia al cap. 3 sulla “Geolo­ gia della morale” e al cap. 12 su “Trattato di nomadologia; la macchina da guerra”. 53. Campbell, 1962, 1991, ed. it., che mette in luce la questione centrale della diversità fra Occidente e Oriente, e quindi fra Asia ed Europa-Mediterraneo. 54. Si rimanda in particolare ai due volumi sulle invasioni degli Unni, nonché all’epica dei Mongoli che, nell’immaginario popolare europeo, sono forse stati i barbari più terrorizzanti, nonché alla non dissimile percezione che hanno avuto di essi sia i Romani all’estremo Occidente che i Cinesi all’estremo Oriente di Eurasia. Schreiber, 1976, 1983, ed. it.; Gumilev, 1960, 1972, ed. it. Vedi anche “La storia segreta dei Mongoli”, di Anonimo, in Kozin (a cura di), 1973. 55. Genesi 2, 21-22.

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“separazione”, e solo dopo sull’“Alleanza”, mentre nella tradizione indiana 1’“unità” non è mai messa in dubbio perché Dio si divide re­ stando se stesso, sia nell’Uomo che nella Creazione56. La diversità fra i due spazi culturali diventa così incommensurabile, anche se nelle apparenze esiste una comparabilità dei miti originari, che però non riesce mai a diventare identità. Nel confronto fra l’“Ego” e l’“Id” l’Asia sceglie sempre l’Id, mentre l’Europa sceglie sempre l’Ego. Di qui l’oggettività (l’Id) e la ripetuta continuità, senza soluzione, dello spazio-tempo asiatico e, per converso, le continue prove soggettive (l’Ego) di sopravvivenza, dalle fatiche d’Èrcole in poi, alle quali si è invece sottoposto lo spa­ zio-tempo europeo, spesso diviso al suo interno, ma proprio per que­ sto capace di creatività e di innovazione. Il presunto assioma dell’unità eurasiatica, indimostrabile ma indi­ scutibile, che ha illuso intellettuali, politici e conquistatori durante il corso dei secoli, ha così comportato che difronte alla minaccia per­ manente proveniente da Oriente le opzioni di risposta dell’occidente, fin dall’età di Alessandro e poi dei Romani, si riducessero a due sole:

a) quella basata su una strategia difensiva, articolata su sistemi fortifi­ cati fissi o mobili, dislocati - ove possibile - nei punti chiave di ac­ cesso all’Europa, quindi su milizie professionali o ausiliarie, su tat­ tiche di difesa flessibile, concerti e alleanze, coalizioni provvisorie o permanenti, ovvero - come è accaduto nel Secolo XX - su for­ mule ancora più ambiziose di sicurezza collettiva e o istituzionale; b) quella fondata su una strategia offensiva, globale e radicale, diret­ ta a sovvertire la regola mediante l’eccezione, avviando il tentati­ vo di uscire dalle proprie frontiere, di invadere Eurasia penetran­ do profondamente all’interno del “mare di terra”, con il proposito di occupare 1’ Heartland, sostituendo così definitivamente il pote­ re artificiale “unificatore” dell’Europa a quello naturalmente “unitario” dell’oriente. Nel primo caso si è trattato della più nota costante comportamen­ tale della cultura occidentale nei confronti di Eurasia. Già nel IV se­ colo d.C. un ignoto scrittore latino così descriveva lo stato d’animo dell’occidente difronte alla minaccia da Oriente: “l’impero romano trattiene dappertutto la rabbia delle nazioni che urlano intorno ad es­ so e che la perfida barbarie, protetta dalla natura dei luoghi, anela d’ogni intorno alle nostre frontiere”57. 56. Brihadaranyaka Upanishad 1.4.1-5. 57. In Lopez, 1962, 1966, ed. it., p. 9. 750

Il concetto strategico “difensivo” è infatti quasi un dato fisso e sembra connaturato alla condizione geopolitica et geostrategica di un’area come l’Europa, territorialmente ristretta, largamente urba­ nizzata ma ad alta produttività agricola, divisa al suo interno da cleavages culturali ed etnici importanti, ma in qualche misura comu­ ni, e ormai definitivamente stanziale. Esso corrisponde alla necessità di garantire la produzione e la riproduzione, quindi la base materiale per la formazione del surplus, e al rifiuto quasi completo dell’econo­ mia estensiva dei grandi spazi, fondata sulla raccolta, la caccia, la rapina, la guerra. Ne fa fede la vicenda secolare dell’Impero Romano fra il I e il V secolo d.C. Stretto fra due minacce permanenti, quella delle tribù germaniche e asiatiche da Nord-Est e quella dei Parti, e poi dei Per­ siani, da Sud-Est, l’impero percepiva la minaccia da Nord-Est come la più pericolosa58 perché rappresentata da popolazioni nomadiche la cui capacità di penetrazione attraverso le frontiere era maggiore di quella delle popolazioni stanziali della pianura mesopotamica e dell’altipiano iranico, come del resto dimostreranno ad abundantiam i fatti59. La difesa comporta certamente il vantaggio del terreno, specie se fortificato, del morale e dell’appoggio delle popolazioni. Tuttavia non si tratta di una regola senza eccezioni60. Le fortezze, infatti, pos­ sono essere accerchiate, ovvero evitate. Le popolazioni e il morale possono subire bruschi cambiamenti e il vantaggio di combattere sul proprio territorio si può rivoltare in danno, quando il livello deterren­ te delle distruziopi compiute dal nemico si fa troppo elevato. Fu questo il caso delle invasioni mongole in Europa Orientale nel XIII secolo, allorché molte città fortificate si arresero senza combat­ tere, terrorizzate dalla prospettiva del destino subito dalle prime for­ tezze conquistate con la forza dai luogotenenti di Gengis Khan61. Ma anche nel secondo caso, quello invece basato sul concetto strategico dell’“offensiva” da Ovest verso Est, simmetrico e specula­ re rispetto alle invasioni offensive, ben più frequenti, da Est verso Ovest, si manifestano gli stessi limiti operativi che abbiamo sin qui elencato. In primo luogo perché la penetrazione in Eurasia favorisce l’affioramento oggettivo di quel differenziale strategico dovuto alla 58. Delebriick, 1980, ed. it., vol. II, pp. 15-246. 59. Whittaker, 1994, pp. 132-191; Isaac, 1992, pp. 372-418; Millar Fergus, 1993, pp, 174-224; Heather, 1991, pp. 122-156, 240-271. 60. Clausewitz, 1832, 1993, pp. 427-438. 61. Roux, 1993.

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diversa dimensione concettuale dello spazio negli Europei rispetto agli Orientali e, al tempo stesso, diventa più macroscopico anche il differenziale demografico fra le due aree, nel momento in cui si ren­ desse operativo un piano di occupazione militare di Eurasia basato su una forza professionale, per definizione limitata anche nel dispo­ sitivo logistico, ovvero fidando esclusivamente sulla superiorità però tecnologica62. L’esperienza storica ha ampiamente dimostrato che entrambe le opzioni, sia quella strettamente difensiva, sia quella velleitariamente offensiva, sono del tutto insufficienti a risolvere alla radice il proble­ ma di fondo della minaccia permanente da Est e da Sud. E si potreb­ be aggiungere anche che si tratta di teorie perfino concettualmente sbagliate, in quanto l’impotenza operativa dell’Europa e dell’Occidente nei confronti dell’Oriente deriva soprattutto da un limite cultu­ rale di natura strutturale del pensiero politico europeo che va ben ol­ tre le opzioni strategiche alternative e i vincoli cui sono sottoposte. L’Europa, infatti, pur avendo dato vita ai principali concetti politici di cui oggi disponiamo, da quello di “politica”63 a quello di “demo­ crazia”64, non ha fatto il passo successivo, cioè quello della riflessio­ ne politica sulle relazioni spaziali. In particolare non ha tenuto conto della diversità qualitativa, in termini di dimensione, dello spazio eu­ ropeo rispetto a quello asiatico. Non ha preso in considerazione le caratteristiche specifiche del grande “spazio terrestre” che per gli Europei oltre ad essere pressoché sconosciuto, è misurabile in mi­ glia o chilometri, mentre per l’Eurasia è misurabile nell’ordine delle migliaia di miglia o chilometri. Nella tradizione occidentale, infatti, lo “spazio”, inteso come di­ mensione non primaria del potere65, e perciò stesso usabile in modo disinvolto, senza bisogno di occupazione ma solo mediante il con­ trollo, è quello marittimo, mentre quello terrestre è, per converso, considerato prezioso e scarso, quindi non consumabile. Si tratta di una concezione che risale molto indietro nel tempo, ma che è sempre presente nel retroterra culturale dell’Europa (e, in particolare, in Germania, Olanda e Italia) delle città-stato e della stanzialità fortificata o “incastellata”. Tale concezione dello spazio è però un fenomeno di matrice essen­ zialmente culturale e psicologica cui non corrisponde una oggettiva 62. Vedi Van Creveld, 1977 (pp. 40-74) e 1989 (pp. 153-234); Thompson, 1991, pp. 313-344. 63. Meier, 1980, 1988, ed. it.; Masters, 1989. 64. Musti, 1989, 1995. 65. Barnes, 1988, 1995.

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diversità. È, in sostanza, la trasposizione geopolitica verso la landmass eurasiatica del concetto primitivo della “lontananza” che - come ben sanno gli Ostjuden - è ben lontano da quello della “distanza”66. “Nel processo di autodefinizione dell’occidente - come scrive un sinologo tedesco67 - attraverso la delimitazione dell’opposto princi­ pio”, cioè quello dell’oriente, e in particolare dell’Estremo Oriente e della Cina, la categoria della “lontananza” e anche quella, più pragmatica, della “distanza” si trasforma in quella della “diversità”. Nulla infatti, nel pensiero occidentale, sembrava storicamente essere più distante e più diverso della Cina. Ma - si potrebbe aggiungere per arrivare in Cina è necessario attraversare Eurasia. L’Oriente, in altre parole, comincia molto prima della Cina, e con esso ha inizio la “diversità”68. Per Max Weber, ad esempio, la Cina rappresentava la cultura “al­ tra” per eccellenza “un sistema radicalmente contrapposto di regola­ mentazioni sociali, proprio un altro mondo”69. Tuttavia l’Oriente, che è concetto più lato di quello e meno ufficial­ mente contrapposto alla Cina, rispecchia gran parte delle “diversità” rispetto all’occidente che sono ancora oggi manifeste. In Occidente, ad esempio, prevale una cultura del tempo, là una cultura dello spa­ zio; qui il progresso storico, là l’eterno ritorno astorico del sempre uguale; qui la libertà dell’individuo, là la rete dei legami di clan e di usanze; qui il carattere autodiretto, là le tradizioni e le convenzioni eterodirette; qui la pubblicità del discorso come condizione della pos­ sibilità di critica del potere, là la scrittura come strumento di esercizio del potere; qui la polis e lo stato nazionale, là l’impero centralizzato70. Si potrebbe continuare a lungo, moltiplicando così le coppie con­ cettuali in opposizione. Anche se sono state costruite sul modello di contrapposizione fra Occidente e Cina, tale schema può essere ap­ plicato alla coppia di opposizione più generale di Occidente-Oriente. Ma vi sono molti altri parametri di valutazione della diversità. Sarà sufficiente, a questo proposito, verificare la configurazione del­ le strutture agricole e la ripartizione della proprietà nelle campagne in Europa Occidentale71 e in Italia72, per rendersi conto di quanto di­ 66. Sulla categoria culturale, piuttosto che etnica o razziale, degli Ostjuden si veda Magris, 1979. 67. Osterhammel, 1989, 1992, ed. it., pp. 5-6. 68. Cavalli-Sforza, 1996. 69. Weber, 1992, 1974, ed. it., pp. 67 e sgg. 70. Vedi ancora Osterhammel, 1989, 1992. 71. Abel, 1966, 1976, ed. it. 72. Sereni, 1993; Giorgetti, 1974. 753

versa sia sempre stata la consapevolezza degli Europei, in termini di spazio, rispetto ai Russi, ai Cinesi o anche agli Americani. Esattamente opposta è, per converso, la visione dello “spazio” propria della tradizione eurasiatica il cui concetto strategico prima­ rio è stato sempre quello della relazione di scambio “spazio contro tempo”. Nel passato, anche recente (Alessandro, i Crociati, Napoleone, Guglielmo II e Hitler), le ipotesi controffensive terrestri dell’Occi­ dente contro l’oriente (non quelle marittime - si badi - che invece, a partire dal XV secolo, hanno avuto un successo clamoroso, alme­ no fino alla seconda guerra mondiale73) vennero impostate sempre avendo come obiettivo strategico quello di invadere, e poi di con­ quistare, Eurasia - o parti di essa - senza peraltro distruggerne l’unità territoriale, ma invece cercando di sostituire agli imperi eura­ siatici un impero occidentale. Il modello classico, è quello dell’“egemonia”, tipico della tradi­ zione dei conflitti intraeuropei, dalla Guerra del Peloponneso alla Seconda Guerra Mondiale74. Basterà analizzare la vasta letteratura relativa a questi disegni “im­ perialisti” del passato per rendersi conto di quanto fosse radicato que­ sto inarrivabile progetto75. Non sorprenda perciò il fatto che tutti que­ sti tentativi di controffensiva terrestre fossero destinati a fallire mise­ ramente, né che, in breve tempo dopo il fallimento delle spedizioni offensive, il vento dell’energia invasiva, costante come un aliseo ro­ vesciato, riprendesse a soffiare, come sempre, da Est verso Ovest. Né poteva essere altrimenti se consideriamo il fatto che un’ipotetica vit­ toria occidentale in Eurasia si sarebbe proposta di creare un vasto im­ pero che, in buona sostanza, non avrebbe avuto altro effetto se non quello di tenere in piedi l’unità eurasiatica, sia pure sotto altra guida politica, creando così le premesse per il suo stesso rovesciamento, da­ te le evidenti ragioni di squilibrio del suo baricentro territoriale spo­ stato ad Est rispetto al centro politico collocato ad Ovest. In effetti la sproporzione fra terra, uomini e risorse esistente nelle due parti di Eurasia, un piccolo Occidente confinato nella penisola europea e un grande Oriente contiguo, disteso però fino a coprire più del 30% della superficie del mondo, rendeva praticamente im­ possibile la sua conquista territoriale definitiva, e soprattutto del tut­ to inimmaginabile la sua conquista politica e culturale permanente. 73. Vedi Padfield, 1979, 1982. 74. Kagan, 1995; Kennedy, 1979, 1987. 75. Smith Woodruff, 1986; Fieldhouse, 1973, 1975, ed. it.; Keegan, 1993.

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Già nell’antichità questo rischio era apparso molto concretamente, in particolare quando Alessandro il Macedone, disfatto l’impero per­ siano ed entrato in India, cominciò ad essere suggestionato e attratto dall’oriente trasformando la sua stessa figura, guerresca e occiden­ tale, di “re-militare” macedone in quella, ieratica e orientale, di “im­ peratore-dio” persiano, fino ad abbracciare l’utopia dell’unificazione definitiva di Oriente e Occidente76. Lo stesso dicasi per gli imperatori romani del III secolo e succes­ sivi, che si “orientalizzarono” gradualmente indebolendo il carattere originario occidentale-mediterraneo di Roma, città dell’Ovest, che si era forgiata appunto in una serie di guerre contro il Sud (Cartagine) e contro l’Est (Macedoni, Greci e Persiani)77. Il limite di queste grandi strategie di conquista consisteva nel fat­ to che si trattava sempre di ipotesi basate essenzialmente sul model­ lo terrestre e continentalista occidentale di scuola classica78, cioè su un modo di fare la guerra che contrastava, fin dal remoto passato, con quello alternativo degli Orientali79. Tale organizzazione offensiva, infatti, fondata sulla fanteria pe­ sante “oplita”, appoggiata dalla cavalleria solo in funzione di rico­ gnizione e di sfruttamento del successo, con un sistema logistico complesso e gravoso, contrastava in modo significativo con il mo­ dello orientale, basato invece sulla mobilità, quindi sulla cavalleria, e prima ancora sugli arcieri e i carri da battaglia. Gli Occidentali, quindi, anche se proiettati alla controffensiva, sia verso Est che verso Sud, conservavano pur sempre un imprinting di­ fensivista nonostante l’uso, fin dall’antichità, della cavalleria80. Ave­ vano cioè una velocità di marcia estremamente ridotta che rendeva difficile sorprendere l’avversario, supplendo inoltre alle carenze di mobilità e di flessibilità solo con la superiore capacità di pianificazio­ ne e con una tenacia addestrativa e morale indubbiamente superiore81. Tuttavia la ristrettezza degli spazi europei non permetteva agli Occidentali neppure di immaginare il macrospazio eurasiatico fin­ tanto che non venne, sia pur raramente, esplorato e quindi raggiun­ 76. Green, 1990; Bosworth, 1988, 1993; Fox, 1973, 1981, ed. it.; Green, 1991. 77. Vedi letteratura sul processo di “orientalizzazione” degli Imperatori del III e IV secolo in Millar, 1977, 1992. 78. Su questo punto si vedano i volumi di Hanson, 1989; Webster, 1979, 1985; Le Bohec, 1989, 1994; Hanson (a cura di), 1991; Parker H.M.D., 1928, 1993. 79. Cardini 1981, 1987; Delbrück, 1921, 1975, vol. I e II; Senofonte, 1964; Kee­ gan, 1991. 80. Bugh, 1988. 81. Howard, 1977. 755

to82. Le tappe della grande strategia imperiale romana mettono bene in luce questa difficoltà a concepire lo spazio in termini continenta­ li, anche da parte di un impero che pure aveva delle dimensioni più che ragguardevoli83. Perfino Alessandro Magno, che pure dimostrò una straordinaria capacità di iniziativa nonché una fulminea intuizione e flessibilità strategica, unita alla mobilità e alla sorpresa, fu condizionato - e in particolare furono condizionati i suoi generali - da questa concezio­ ne difensivista finché non cominciò ad impostare un modello milita­ re e tattico di tipo “misto”, fondato in parte sulla disciplina e la pro­ fessionalità dei suoi veterani macedoni, e in parte sulla tastiera degli strumenti militari orientali84. Gli Occidentali mancavano quindi della capacità, tipica degli im­ peri nomadici85, di utilizzare il territorio quasi fosse un oceano, pra­ ticando strategie di conquista di tipo marittimo, come già fecero gli Unni, in seguito gli Ungari, e i Mongolo-Tartari, dopo di loro86. Gli strateghi dell’occidente, invece, furono sempre condizionati dalla propria esperienza storica di popoli sedentari, urbanizzati o agricoli, ristretti all’interno di organizzazioni politiche e territoriali limitate, come nella città-stato o negli stati regionali, oppure confi­ nate in valli auguste, separate da catene montuose o solcate da bar­ riere fluviali che avevano sempre bisogno di un centro, e poi di con­ fini, di segnali di rappresentazione e differenziazione del territorio87. Tutto questo rallentava, e anzi comprometteva, ogni avanzata fol­ gorante, stabiliva una struttura e una logistica dell’attacco per tappe sempre troppo corte (vedasi Napoleone e Hitler)88, riduceva l’ener­ gia offensiva con frequenti arresti, ma soprattutto richiedeva un grande spreco di risorse per garantirsi l’acquisizione del suolo. Truppe di occupazione si disperdevano nella costruzione di fortezze, nel presidio delle città, nella protezione dei fianchi esposti89. Manca­ vano, in altre parole, della necessaria “marittimità” e autonomia ter­ restre di cui disponevano invece i popoli nomadici. 82. Charlesworth, 1940, ed. it.; Miller J.L, 1969, 1974, ed. it. 83. Luttwak, 1976, 1986, ed. it.; Ferrili, 1986. 84. Vedi, oltre a Green, 1990; Fox, 1973, 1981, ed. it.; Bosworth, 1988, 1993; eco. anche il testo di Arriano, 1980, ed. it. 85. Chaliand, 1995; Deleuze e Guattari, 1986. 86. Liddell Hart, 1954, 1967; Mearsheimer, 1988. 87. Earle, 1943; Paret (a cura di), 1986. 88. Chandler, 1966, 1968; Hillgruber, 1965, 1982, 1986, ed. it., nonché Fuller Jr. W.C., sulla tradizione strategica russa, 1992. 89. Rothenberg, 1978. 756

Le potenze marittime, peraltro, soffrono del problema opposto. Per quanto forti possano essere, sia sul terreno militare che econo­ mico (gli Stati Uniti nel 1945 avevano messo in campo oltre 12 mi­ lioni di soldati e producevano il 40% del PIL mondiale)90, esse non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e pro­ grammare P amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica, dei grandi imperi continentali91. La grande politica di ricostruzione postbellica messa in piedi da­ gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, nelle forme globali e univer­ salistiche dell’“UNRRA” {United Nations Reconstruction and Reco­ very Act), o in quelle multibilaterali del “Marshall Plan” {European Recovery Plan), dirette a ridurre il livello della potenziale conflittua­ lità generato dalle distruzioni belliche in Europa e in Asia, e poi ag­ ganciare al “modello americano” le economie dei paesi occidentali e del Giappone, è stata forse il massimo esempio di visione strategica che una potenza marittima è stata in grado storicamente di compiere nel tentativo di egemonizzare, o almeno di influenzare, una parte si­ gnificativa del continente eurasiatico92. Ma anche quel disegno, che peraltro in una prima fase (fino al 1947) si proponeva di trasformare la Grand Alliance della Seconda Guerra Mondiale in una struttura permanente postbellica, presentava delle limitazioni invalicabili93. Non prevedeva, infatti, altro che la traduzione meccanica della politica di “influenza” politico-militare in quella di “potere” economico e finanziario, senza che venisse ipo­ tizzata altra forma di intervento diretto nei confronti di Eurasia. Il paradosso consiste nel fatto che le potenze marittime, per quan­ to flessibili e veloci nel controllo e nella gestione strategica dei di­ versi bacini di Oceania, sono del tutto inabili a concepire lo stesso metodo d’azione nel momento in cui devono passare da una strate­ gia marittima ad una strategia terrestre94. E ciò accade nonostante che la potenze marittime siano promotrici della liberalizzazione de­ gli scambi e, alla lunga, della globalizzazione delle economie95. Lo studioso più interessante e innovativo, anch’egli però involon­ tario testimone di questa incapacità strutturale degli strateghi navali a concepire la trasformazione anfibia dal mare alla terra, è stato, 90. 91. 92. 93. 94. 95.

Milward, 1977, 1983. Watson, 1950; Morton, 1962; Matloff & Snell, 1953; Matloff, 1959. Maier, 1975. Ellwood, 1993. Kennedy (a cura di), 1979; Herwig, 1976; Miller, 1991. Gilpin, 1987; Rosencrance, 1986; Hardach, 1973, 1982, ed. it.

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probabilmente, Julian Corbett96 che, nel tentativo di concettualizzare la strategia navale britannica nella fase terminale di funzionamento del Sistema Intemazionale dell’Equilibrio di Potenza (Balance of Power), si era inutilmente proposto di uscire dal dilemma assoluto “terra-mare”, attraverso l’ideazione di una dottrina mista, detta “a connotazione marittima”. Conseguenze importanti di questa concezione anfibia erano state, nel passato, sia la creazione dei “fanti da mar” della Repubblica di Venezia, sia la costituzione dei Royal Marines inglesi, e dei ben più significativi reparti di US Marines negli Stati Uniti, i cui compiti, seppure estesi a dismisura, restano sempre relativamente modesti ri­ spetto alle necessità di contemperare le esigenze terrestri con quelle marittime. Le due eccezioni significative a questa costante latitanza strategica sono state offerte da una potenza essenzialmente peninsulare, ma a vo­ cazione terrestre, come la Francia, la cui intuizione relativa alla dottri­ na della convergenza per linee separate97 di scuola napoleonica ha fat­ to epoca, e, più recentemente, dalla Germania che, con la teoria della Blitzkrieg, illustrata a cavallo della seconda guerra mondiale dalle fol­ goranti vittorie militari di Guderian, von Manstein, Rommel, e dalle riflessioni intellettuali di studiosi inglesi come Fuller e Liddell Hart, tutti teorici dell’“approccio strategico indiretto”, ha dato dimostrazione di saper gestire in modo manovrato anche la guerra terrestre98. Ma tanto la teoria del Blitz, pure innovativa rispetto alla tradizio­ ne classica della battaglia frontale, di attrito e logoramento, che risa­ le agli opliti greci del V secolo a.C.99100 , quanto le teorie clausewitziane della Vemichtungsschlachtm, non rispondono alla domanda prin­ cipale che riguarda il senso ultimo della vittoria militare, vale a dire il problema dell’occupazione permanente, ovvero del controllo dei grandi spazi di Eurasia. La Blitzkrieg, infatti, consiste in una dottrina strategica e operativa che agisce più sul “tempo” che sullo “spazio”. Si propone cioè di ri­ durre la durata della battaglia, e quindi del conflitto, utilizzando al massimo grado il concetto della pressione-rottura dello Schwerpunkt, attraverso l’impiego razionale e combinato della tecnologia e del 96. Corbett, 1911, 1988. 97. Chandler e Rothenberg, 1978 e poi 1995, ma anche Jomini, 1838. 98. Manstein, 1955, 1982, ed. ingl.; Liddell Hart (a cura di), 1953, 1984; Gude­ rian, 1937, 1992, ed. ingl.; Perrett, 1983; Rommel, 1937, 1994; Mearsheimer, 1983. 99. Hanson, 1989, 1991. 100. Wallach, 1986.

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fuoco. In altri termini, la Guerra-Lampo è basata anzitutto sull’eco­ nomia delle risorse, quindi del tempo e delle forze, allo scopo di co­ stringere l’avversario a chiedere il più presto possibile la pace. E un sistema, quindi, che ipotizza uno spazio tutto sommato limi­ tato sul quale esercitare il braccio di forza della leva. Nel caso dei macrospazi, come la landmass eurasiatica, questo concetto incontra subito delle difficoltà perché implica una gestione del tempo, rispet­ to allo spazio, che è molto più complessa e difficile. Infatti, sia nella campagna di Russia di Napoleone, che, successivamente, in quella condotta da Hitler contro l’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale (trascuriamo qui la campagna sul Fronte Orientale di Hin­ denburg e Ludendorff nella Prima Guerra Mondiale, che non aveva un disegno strategico globale, anche se, nei fatti, ebbe più successo delle altre due)101, l’obiettivo spaziale dei due Condottieri era di tipo puntiforme, in quanto partiva dal presupposto (non dimostrato) che l’occupazione di Mosca, perno di forza della Russia, per ragioni po­ litiche e militari oltre che di carattere logistico, avrebbe di per sé ob­ bligato i Russi a chiedere la resa e quindi avrebbe concluso la guer­ ra. Si trattava di un errore psicologico e concettuale che venne paga­ to, in entrambi i casi, assai caro. In effetti la dottrina del Blitz presuppone alcuni elementi fonda­ mentali di “teoria della vittoria”102, primo fra tutti quello dell’“atterramento” dell’avversario attraverso la sorpresa, la forza e l’uso com­ binato del terreno e della superiorità di fuoco nel punto decisivo. La sua relativa debolezza consiste però nella difficoltà di sfruttamento del successo quando il rapporto fra tempo e spazio diventa troppo ampio e si trasforma quindi da fattore di soluzione del conflitto in fattore di indecisione. In altri termini, il Blitz tende a ridursi ad atto tattico vittorioso ma senza decisione strategica. E quello che è acca­ duto tanto a Napoleone quanto ad Hitler in Russia che hanno atteso invano che la “pera” recisa si staccasse da sola dal ramo. L’improponibilità della soluzione militare nel rapporto con Eura­ sia è dunque evidente, perché negata dalla impossibilità di stabilire una relazione equilibrata fra spazio e tempo. Ne discende che l’uni­ ca soluzione possibile non può non avere un carattere essenzialmen­ te politico ed economico, anche se integrato dal leverage militare. Il tentativo di Napoleone, basato sull’ipotesi politica del fattore decisivo individuato nella conquista di Mosca (e non di Pietroburgo 101. Kitchen, 1976, pp. 157-188, 231-246; Asprey, 1991, 1993, ed. it., capp. VI, X, XV, XVII, XXXI. 102. Gray e Payne, 1979.

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che venne del tutto trascurata) si muoveva proprio in questa direzio­ ne in quanto presupponeva che il sistema politico russo poggiasse, come accadeva nelle altre nazioni europee, sulla centralità della vec­ chia capitale del Granducato di Moscovia. Fu un grave errore di va­ lutazione geopolitica che tuttavia rispondeva, almeno in parte, ad una idea strategica giusta, quella dello sfondamento sullo Schwer­ punkt. Non funzionò invece, tanto per motivi operativi (sgranamento eccessivo della Grande Armée e difficoltà nei rifornimenti), quanto soprattutto per motivi politici, in quanto poggiava su un principio indimostrabile, cioè quello della centralità strategica di Mosca. Lo stesso, e ben più grave errore, venne commesso più di un se­ colo dopo da Adolf Hitler che, per di più, cambiò linea strategica nel corso delle battaglie d’accerchiamento dell’estate-autunno 1941. In questo caso infatti il fine politico del Blitz era fin dall’inizio og­ gettivamente irrealizzabile e tutto sommato anche controproducente. La ipotizzata trasformazione della Russia occupata in territorio e po­ polazione al servizio della Herrenrasse germanica103 ebbe infatti l’effetto opposto, quello di coagulare le forze interne del paese attor­ no al governo sovietico e di demonizzare il piano di guerra tedesco. Nel caso di Napoleone, dunque, gli ostacoli furono anzitutto di ti­ po tecnico: fu tuttavia ben presto evidente che la sottovalutazione del principio politico basilare della strategia russa, basata sul fradeq/Z'fra spazio e tempo, che ha caratterizzato sempre il comportamen­ to dei popoli di Eurasia era stata un errore decisivo per ovviare il quale non si aveva nessun rimedio104. Nel caso di Hitler, invece, gli errori strategici del Führer rispetto alla più lucida visione geostrategica dell’ Oberkommando des Heeres (OKH)105 sono di ben maggiore rilievo. L’incertezza del Piano Barba­ rossa e l’attacco su tre direttrici (Nord, Centro e Sud), l’indecisione dopo la battaglia di Smolensk106, l’incapacità di persuadere i Giappo­ nesi ad attaccare l’Unione Sovietica alle spalle107, il Piano del 1942 (Caucaso e Stalingrado), sono alla radice di un fallimento che era im­ plicito fin dalla partenza, anche se Hitler aveva più lucidamente in mente il proposito di frantumazione del blocco eurasiatico dell’Urss108. 103. Rosenberg, 1930, 1942; Rich, 1973; Hillgruber, 1988, 1991. 104. Chandler, 1990; Clausewitz, 1992, ed. ingl., pp. 110-204. 105. Burdick e Jacobsen (a cura di), 1988; Warlimont, 1962, 1964, ed. ingl.; Hillgruber, 1988, 1991, ed. it., in particolare i capp. XI-XV; Hinsley, 1951. 106. Stolfi, 1991; Hillgruber, 1988, pp. 354-373. 107. Hillgruber, 1988, pp. 325-352. 108. Giordano, 1989, 1991, pp. 153-214.

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In effetti il problema della strategia per il dominio e la disgrega­ zione di Eurasia potrebbe avere anche una valenza militare solo a patto che il disegno politico che dovrebbe sempre accompagnare gli eserciti in campagna fosse diretto a favorire l’autonomia, e quindi l’indipendenza, delle varie componenti etnico-territoriali di Eurasia, orientando e armonizzando l’uso della strategia “duale” (politica e militare) della “deterrenza/compellenza” con quella unicamente po­ litica del sostegno ai movimenti indipendentisti e di liberazione che pure proliferano all’intemo dello sterminato Impero Russo109. In questo senso possono essere di un certo interesse, in quanto modelli interpretativi di riferimento, le esperienze delle occupazioni militari postbelliche da parte delle potenze occidentali vincitrici in Europa e in Giappone. Il carattere provvisorio di queste occupazioni è sempre stato evidente. La loro labilità era però dovuta soprattutto al fatto che l’impegno militare per il controllo del territorio veniva assolto dalle Forze Armate di potenze marittime (gli anglo-america­ ni), la cui influenza era strutturalmente meno “imperiale” e più “ege­ monica”, e come tale destinata ad avere un carattere essenzialmente ideologico, basato sui criteri dell’influenza economica e culturale, più che davvero sulla potenza politica e militare. Tale “influenza” si manifestava mediante il trasferimento delle proprie tradizioni di tipo mercantile e/o istituzionale, di matrice democratico liberale, a popo­ lazioni di cultura gerarchica e di tradizione continentale110. Questa sovrapposizione concettuale di un modello atlantico a nazioni conti­ nentali era fittizia e prevedibilmente caduca e, in quanto tale, la sua fragilità traspariva chiaramente nelle procedure di governo dei paesi occupati. Si traduceva spesso in asserzioni contraddittorie: da un lato veniva affermato il principio generale del mercato e dell’ideologia liberaldemocratica, mentre dall’altro si manteneva un’occupazione mi­ litare, si emetteva valuta parallela e si istituivano perfino dei Tribu­ nali speciali, come quelli di Norimberga e Tokyo, che tutto sommato contraddicevano i principi di cui pure si facevano formalmente por­ tavoce111. Non casualmente Karl Polanyi, già nel 1944, era costretto a rilevare questo tipo di contraddizione nella logica delle potenze an­ glosassoni112 sottolineandone la precarietà. Con il prolungarsi del tempo però questo tipo di occupazione for­ zata fu costretta a cambiare natura. In Germania come in Giappone, 109. Santoro, 1995c; Nahaylo e Swoboda, 1990, 1991. Vedi anche Hopkinrk, 1990, 1994. 110. Rosecrance, 1986; Ellwood, 1977, 1993; Balfour e Mair, 1956. 111. Taylor, 1992, 1993, ed. it.; Neave, 1978; Tusa e Tusa, 1983. 112. Polanyi, 1944, 1974, ed. it„ pp. 173-209.

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dove fu mantenuta più a lungo, si trasformò in alleanza obbligata, più che indotta (come nel caso della Nato), e le truppe americane, lasciate a guardia dei confini del blocco egemonico occidentale, ben presto acquisirono lo status di “ospiti”, talvolta sgraditi ma non cer­ to più identificabili come potenze occupanti. Si trattava cioè di una condizione politica e culturale ben diversa da quella dei paesi del Patto di Varsavia, sottoposti alla tutela sovietica dove il peso milita­ re del controllo territoriale fu sempre pesante e visibile, giungendo perfino alla “rioccupazione” come in Ungheria nel 1956, e in Ceco­ slovacchia nel 1968. In effetti la teoria politica liberaldemocratica, che fa da sfondo concettuale ai comportamenti dei paesi occidentali, può essere con­ siderata, in tutte le sue versioni, come una forma storica della classi­ ca concezione marittima oceanica di cui abbiamo più volte detto113. Nel senso che introduce all’interno della logica terrestre della suddi­ visione spaziale, delle frontiere, del limes e della fortezza, la logica aperta e mercantile del libero scambio, del diritto egualitario all’ac­ cesso, dell’informazione, della suddivisione atomistica del potere, che contrasta con la concezione, contrapposta e autoritaria, della protezione, del dazio, della corporazione di mestiere del baratto. Si tratta, in altre parole, di una dottrina che può essere riprodotta per via imitativa, anche nel breve periodo, come dimostra l’uso gene­ ralizzato delle forme e dei termini della democrazia liberale, ma che non attecchisce ovunque facilmente nella sostanza della politica e della società, in quanto presuppone l’abbandono delle precedenti tra­ dizioni politiche e, spesso, anche di quelle economiche e culturali che sono profondamente radicate nella coscienza collettiva dei popoli. Anche per queste ragioni, dunque, le tracce della presenza degli anglosassoni in Europa, così come in Germania o in Giappone, sono state tutto sommato molto labili e non hanno lasciato altro che epi­ dermiche manifestazioni114. Perfino in Giappone, dove l’intero ordi­ namento costituzionale venne, dopo il 1945, sottoposto a radicale trasformazione e la carta costituzionale fu interamente riscritta dal governo americano di occupazione, l’influenza culturale profonda sulla coscienza nazionale nipponica è stata più che limitata115. Concludendo, si può quindi riaffermare che il controllo del mare, di per sé, è uno strumento politico flessibile e potente (Vespace 113. Gray, 1992; Dunn, 1979, 1992; Mill, 1858, 1981, ed. it.; Rawls, 1993; Mat­ teucci, 1983, pp. 592-610. 114. Gimbel, 1968. 115. Livingston, Moore, Oldfather, 1973; Halliday, 1975, 1979, ed. it. 762

lisse), ma incompleto, e soprattutto incapace di lasciare segni per­ manenti perché rifiuta in partenza ogni teoria dell’occupazione e dell’ integrazione116. Non è, infatti, senza significato che fra Europa e Stati Uniti si sia determinata una differenza concettuale importante nella creazione di istituzioni intemazionali sovraordinate rispetto agli Stati-nazione che dovrebbero fame parte. E che, mentre negli Stati Uniti la formula di più intenso “commitment” intemazionale è sempre stata quella, rela­ tivamente elastica e soprattutto non vincolante, della “interdipenden­ za”, o al massimo quella contrattuale della “alleanza” liberamente negoziata, secondo la tradizione mercantile e liberoscambista, nella recente esperienza istituzionale dell’Unione Europea invece, dal trat­ tato di Roma a quello di Maastricht, il concetto fondamentale sia stato sempre quello, unificante, dell’“integrazione”117. In altri termini, mentre la cultura politica statunitense non prevede la costruzione di architetture “non native” e istituzionali, prefigurate e “de jure condendo”, ma invece formule flessibili ed empiricamen­ te aggiustabili, secondo la tradizione marittima del “controllo” ocea­ nico, non quindi del suo possesso patrimoniale o politico (dominium e/o imperium), la cultura politica europea immagina invece schemi complessi e intelaiature giuridiche codificate, secondo la tradizione terrestre del negozio giuridico e delle fortezze delle gerarchie inter­ ne amministrative e delle tecniche ossidionali118. Scriveva già nel 1911 Julian S. Corbett, che pure è stato il massi­ mo scrittore inglese di cose marittime, che “Since men live upon the land and not upon the sea, great issues between nations at war have always been decided - except in the rarest cases - either by what your army can do against your enemy’s territory and national life or else by fear of what the fleet makes it possible for your army to do”119. Questa è la relazione che esiste fra terra, mare e loro uso po­ litico. Il mare è condizione di vita, ma la terra è il luogo dove vivo­ no anche i marinai. Di qui l’impotenza ultima del mare rispetto alla terra.

116. Deleuze e Guattari, 1980. 117. Santoro, 1984, pp. 67-132; Liska, 1962; Walt, 1982. 118. Nicolle, 1995; March e Olsen, 1989, 1992, ed. it.; Haas, 1964, pp. 3-138; Nugent, 1994, 1995, ed. it. 119. Corbett, 1911, 1988, p. 16.

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7. I vincoli del potere marittimo

L’egemonia americana in Europa occidentale (e poi centrale) è stata ottenuta a seguito di tre guerre mondiali. La sua solidità e in­ fluenza, considerate per decenni intramontabili, sono però oggi a ri­ schio per due ragioni opposte. In primo luogo per la fragilità concettuale dell’ideologia globalista e universalista statunitense di tradizione wilsoniana che, nonostante le illusioni eccessive, frenate però da una serie di fallimenti, non ha trovato né troverà facili alternative. Le Nazioni Unite, in particolare, che sono il capolavoro dell’ingegneria istituzionale americana nel Novecento, appaiono ormai come una sorta di caricatura dell’ordine mondiale che è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale1. La seconda causa di rischio per l’egemonia americana in Europa è data dalla evidente tendenza degli Stati Uniti a tornare, quasi natu­ ralmente, alla tradizionale concezione “insulare” contro la quale già autori come Raymond Buell ed altri, combattevano2, e che oggi prende il nome di “unilateralista” (non quindi “neoisolazionista”)3, dopo il lungo periodo di coinvolgimento forzato sulle “sponde” oc­ cidentali del continente eurasiatico4. Entrambe le cause di crisi potenziale dell’egemonia americana nascono all’interno del patrimonio concettuale ed etico degli Stati Uniti. Sono cioè delle termiti culturali che erodono daU’intemo il 1. Finger e Harbert, 1978; May H.F., 1959; Dallek, 1983; Steel, 1980. 2. Buell, 1940. 3. Nordlinger, 1995. 4. Per un esame della letteratura sull’isolazionismo americano si rinvia a Santo­ ro, 1987, 1992, ed. ingl., pp. 61-86.

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tronco della potenza americana più di quanto non possano fare le minacce esterne. In questo senso esse sono la conferma che le talassocrazie posso­ no incontrare il proprio destino finale allo stesso modo in cui avvia­ no il proprio destino iniziale, senza quindi interagire direttamente col mondo esterno e a patto che il proprio margine di sicurezza insu­ lare venga garantito. La certezza, o la quasi certezza, dell’invulnera­ bilità esterna non le mette però al riparo dalle proprie insicurezze in­ terne, ma anzi ne esalta la conflittualità e, con essa, i rischi. Non es­ sendo una questione prioritaria quella dell’unità del paese verso l’esterno, le Potenze insulari possono quindi dividersi più profonda­ mente all’interno. Non deve perciò essere considerato un caso eccezionale il fatto che gli Stati Uniti abbiano completato la propria unità solo attraver­ so una tentata Secessione e una violenta guerra civile che, a tutt’og­ gi, resta il più sanguinoso conflitto mai combattuto dagli Americani. Ma anche l’infrastruttura istituzionale “globalista” cui gli Stati Uniti hanno dato vita nel Novecento è stata generata dall’intemo del dibattito politico e giuridico americano. Non ha mai avuto, quindi, proprio perché troppo “nazionale”, né l’effettività né il carisma ne­ cessari a operare quella trasformazione, da “rospo in principe” che pure era nelle originali ambizioni dei Padri Fondatori, conferendo alla Società delle Nazioni prima e alle Nazioni Unite poi, un alito di vita indipendente. Per di più la fragilità strutturale di questa architettura istituzionale è ben presto venuta alla luce dimostrandosi del tutto impotente di­ fronte alla mutazione genetica del sistema intemazionale nel 1939, con la guerra, e ora, nell’età postbipolare con il ribaltamento del trend ciclico da una fase di concentrazione di potenza ad una di frammentazione. La crescita dei compiti operativi delle organizza­ zioni globali, con l’intensificarsi delle operazioni di “crisis manage­ ment” e di “peacekeeping”5, ha rivelato “ad abundantiam” l’incapa­ cità organica e concettuale dell’organizzazione delle Nazioni Unite a gestire operazioni militari complesse, nonché a contenere o a diri­ mere le occasioni di crisi e di conflitto. Il molo auspicato dagli Stati Uniti, quello cioè di “deus ex machi­ na” che opera dietro le quinte e che promuove e appoggia l’Organiz­ zazione senza esserne direttamente coinvolto, non aveva funzionato bene durante l’epoca della Guerra Fredda, quando il confronto bipo­ 5. Brecher e Wilkenfeld, 1989 e sgg.; Lebow, 1981, ecc.; Barravecchia, 1995, Bibliografia sul Peace-Keeping.

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lare obbligava alla visibilità, ma non ha avuto successo neppure nel periodo successivo, quando la contrapposizione bipolare si era già conclusa. In altri termini le Nazioni Unite hanno rivelato in modo chiarissimo la loro natura di “prodotto” postbellico, dettato dai vin­ citori per “ordinare” un mondo fatto di vincitori e di vinti, che avrebbe potuto durare solo fintanto che i vincitori rimanevano d’ac­ cordo e i vinti non rialzavano la testa. È il destino, questo, di tutte le forme di ordine istituzionale o di alleanza (dalla Pace di Nicia al Congresso di Vienna del 18156 oppure al Congresso di Berlino del 18787), che sono il prodotto della cosiddetta “guerra-costituente”8. Nel Novecento questo paradigma ha preso le forme della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi, due simulacri istitu­ zionali dell’ordine interno americano estesi a ordinare il mondo se­ condo i principi della democrazia intemazionale, la cui filosofia for­ malistica è oggi in fase di irreversibile declino. In effetti le potenze marittime, e in particolare quella americana, che è “estremo-occidentale” e quindi quasi del tutto priva della co­ noscenza diretta di Eurasia, cioè senza alcuna vera esperienza o tra­ dizione di contatto terrestre (per contiguità) con l’Oriente, non rie­ scono a concepire altro che una logica di controllo esterno della mi­ naccia, ovvero quella che viene definita come una “filosofia del contenimento”9. Il problema della “distanza” culturale degli Stati Uniti, rispetto ad Eurasia, non è però solo una questione di mancata “contiguità” territoriale, e neppure di limitata esperienza. E piuttosto una distanza politica e culturale che deriva dalla qualità e dalle for­ me del processo storico d’immigrazione (dall’Europa anzitutto) che ha dato luogo prima alle Tredici Colonie britanniche, e successiva­ mente, con la lotta per l’indipendenza, agli Stati Uniti d’America. Tutta la cultura politica degli Stati Uniti, fin dalle origini (si veda il Farewell Address di George Washington del 1796), è sostanzial­ mente antieuropea. Anzitutto per ragioni storiche, in quanto il gros­ so degli immigrati di origine anglosassone, i progenitori dei Wasp (White Anglo-Saxon Protestant) dell’ottocento e del Novecento, rappresentavano segmenti della popolazione inglese di estrazione e tradizione ribellistica, o per motivi di dissenso politico o persecuzio­ ne religiosa (i Puritani), o per ragioni di classe sociale ed estrazione 6. Nicholson, 1945. 7. Taylor, 1954. 8. Il concetto di “guerra costituente” è in Bobbio, 1979; ma anche in Aron, 1962, 1970. 9. Gaddis, 1982.

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culturale10. La Rivoluzione Americana contro gli Inglesi era in so­ stanza guidata proprio da coloro che nell’ostilità contro l’Europa delle Monarchie Assolute e dell’Ancien Régime, riconoscevano il cuore della propria distinta identità e, su questa base, avevano elabo­ rato il proprio modello di sistema politico. Ancora una volta, come sempre nella storia, la “Nazione” aveva trovato la sua identità per differenza11. Le divisioni, che poi si rive­ leranno insanabili nel 1860 e che condussero alla Guerra di Seces­ sione, erano allora meno forti difronte al peso della dominazione in­ glese contro la quale gli Americani si ribellarono. La “Nazione Americana” nacque quindi proprio per separazione e per differenza, e in funzione antieuropea, dando luogo ad importanti fenomeni d’imitazione, commisti di spinte nazionalistiche e rivalse sociali, sia in Europa con la Rivoluzione Francese, sia nell’America Latina con la Rivoluzione delle colonie spagnole12. Questo radicato antieuropeismo si consolidò, non tanto per motivi politici e nonostante la Dottrina Monroe del 1832, quanto per motivi culturali e sociali. La Rivoluzione del 1774 infatti si era conclusa con la sconfitta e la ritirata inglese nel Canada, che diventò il rifugio dei “Tories” filoinglesi delle Tredici Colonie, riducendo così ulte­ riormente i legami degli americani con l’Europa. La crescita del nuovo Stato, durante tutto l’Ottocento, obbligò le sue élites origina­ rie a quell’apertura verso l’esterno che si tradusse in flusso migrato­ rio che diede poi vita al “melting pot”13 etnico e multirazziale che è oggi l’America. Gli Stati Uniti, quindi, stabilirono rapporti con l’esterno non tanto con la presenza all’estero dello Stato e del potere politico o militare (eccezion fatta per la “Frontiera”)14, quanto accet­ tando, con l’immigrazione, gli stranieri e le loro culture. Tuttavia anche l’“americanizzazione” degli immigrati potè essere realizzata solo perché sussistevano due ragioni di carattere oggettivo che ne facilitarono il processo di assimilazione. In primo luogo per­ ché gli Stati Uniti erano (e sono) dotati di una ideologia forte15, ca­ pace cioè di assegnare agli immigrati un corpo di valori appetibile e funzionante. In secondo luogo perché gli immigrati in genere prove­ nivano da zone geografiche periferiche, ovvero da classi sociali 10. Hosbawm, 1959, 1966, ed. it.; 1969, 1974, ed. it. 11. Renan, 1993, ed. it.; Smith, 1986, 1993. 12. Tocqueville, 1840, 1982, ed. it. Incisa di Camerana, 1994. 13. Schlesinger Jr., 1986, 1991. 14. Turner, 1893, 1968, ed. it. 15. Huntington, 1981.

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umili, e anche da ceppi etnici minoritari dell’Europa, e più tardi dell’Eurasia (dalla Russia alla Cina e al Giappone), che vivevano in uno stato di sudditanza politica e culturale, oppure perché apparte­ nevano agli strati meno colti della popolazione16. Per queste ragioni il processo di sradicamento dall’Europa degli immigrati e il loro innesto sul tronco americano è avvenuto, soprat­ tutto nel passato, in modo quasi automatico, senza particolari traumi nel confronto fra un’ideologia forte e una frammentazione di subcul­ ture perdenti ma anzi con la convivenza di entrambe. Spesso questa cultura pervasiva si trasformò nell’orgoglio dell’acquisizione, non solo di una cittadinanza, ma anche di un’ideologia, isolana e conti­ nentale al tempo stesso, comunque contraria per principio alle radici e alle frustrazioni della patria d’origine. Ne derivò che i primi Americani rifiutavano 1’Eurasia che aveva­ no conosciuto, e nelle successive generazioni non ebbero mai modo di frequentare e conoscere quell’Eurasia da cui provenivano e che, pure, avrebbero dovuto o potuto conoscere. Anche coloro che si erano chiusi da soli nei ghetti etnici, a comin­ ciare dai Neri che insieme ai primi coloni inglesi popolarono gli Stati della fascia atlantica meridionale, conservavano della terra di origine solo confusi ricordi, spesso immaginari, e alcuni aspetti particolari delle terre lasciate per sempre, usanze scomparse, dialetti obsoleti, nostalgie di un passato leggendario perché dissolto con la “traversa­ ta” oceanica, che non aveva referenti veri nella patria d’origine. Questa è probabilmente la causa prima, ma anche la più radicata, della “distanza” culturale degli Stati Uniti da Eurasia e perfino dall’Europa di cui pure sono figli legittimi, che spesso si è tradotta in errori di valutazione politica, ovvero in ipersemplificazioni nell’interpretazione del comportamento presunto e reale dell’alleato e dell’avversario oltremarino17. Di qui gli schemi di comportamento e le incongruenze della politica estera americana imposti in larga misura da una lettura elementarmente geografica della relazione ter­ ra-mare, e in parte dettate dalla diffidenza (ovvero dall’ignoranza), che ha generato quella singolare dottrina del “containment”18, basata sull’idea della “quarantena” di antica origine marittima, che tradisce una concezione “sanitaria” appunto ed eziologica delle relazioni in­ temazionali e dei rapporti con tutto ciò che è “Un-American”. 16. Vedi dati sull’immigrazione negli Stati Uniti fra la fine del secolo XVIII e il 1914 in U.S. Department of Commerce, Bureau of Census, 1975, pp. 87-120. 17. Snyder, 1984; Alvi, 1997. 18. Gaddis, 1982.

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Sulla scorta di queste premesse, le teorie americane sul conteni­ mento di Eurasia, ovvero quegli atti politici che fin dall’inizio prese­ ro il nome di “cordone sanitario”, e che fallirono nel 1918-20 contro la Russia sovietica, successivamente si tradussero nel concetto churchilliano della “cortina di ferro”19. Esse non hanno certamente impe­ dito né il rafforzamento dell’Unione Sovietica dopo il 1945, né sono state in grado di risolvere il problema cruciale della storia del mondo, rappresentato dal conflitto permanente fra Occidente e Oriente20. Pur trattandosi di un continente insulare e occidentale, gli Stati Uniti non hanno quindi mai avuto la capacità di concepire l’Occidente nei suoi termini reali, fondato cioè sulla mille volte constatata esperienza che l’Oriente tende “naturalmente” a espandersi verso l’Occidente, e in particolare a premere sull’Europa, e che la sua lontananza è solo il frutto della volontà degli Europei di distanziarsi. Tale pericolosa, anche se per certi aspetti “fisiologica”, minaccia che da Oriente si accanisce fin dall’Antichità Sull’Occidente, non potrà mai essere eliminata attraverso una semplice politica di “con­ tenimento” (o di “cooperazione”) con l’Oriente, fondata sulle diver­ se dottrine del potere marittimo, nonché sulla pratica dei corpi di spedizione. Gli Americani, infatti, non hanno mai vissuto il travaglio delle origini dell’occidente. Essi lo hanno ricevuto in dono, quasi fosse un dato di partenza, indiscusso e non rovesciabile. La loro sicurezza, garantita dall’Atlantico e dal Pacifico, è stata ulteriormente rafforza­ ta dalla presenza di un Occidente europeo, quella che già nel 1940 il Presidente F.D. Roosvelt definiva “the first line of defense” del We­ stern Hemisphere21. In altri termini gli Americani hanno perduto (o forse non hanno mai avuto) la memoria storica del fatto che l’Occidente europeo è stato il prodotto della tenace quanto dolorosa lotta per la sopravvi­ venza contro tutti gli Orienti del passato. E che la relazione con l’Oriente deve essere misurata secondo questo paradigma della vici­ nanza (e non della distanza) dialettica e conflittuale. Gli Stati Uniti hanno creduto di aver superato una volta per sempre questo problema attraverso il lavacro purificatore e la rigenerazione dovuta alla propria Rivoluzione liberàldemocratica e mercantile. Di qui la tendenza a non farsi coinvolgere più di tanto con quella storia di contiguità guerresca e di scambio culturale ferrigno che ha 19. Kennan, 1951. 20. Mazzarino, 1947, 1989; Campbell, 1993. 21. Santoro, 1987, 1992.

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caratterizzato i rapporti fra Europa e Eurasia. Meglio allora praticare - si dissero - dietro la protezione dei due Oceani, l’invio eventuale dei corpi di spedizione secondo la tradizione culturale dell’esplora­ tore, del viaggiatore e del mercante. Su questo punto il Novecento non ha fatto altro che consolidare i principi di confronto terra-mare che sono basati appunto su quelle “filosofie del viaggio”22, arricchendoli ed ampliandoli attraverso la creazione e poi il coinvolgimento nelle istituzioni regionali e globa­ li, che sono una forma aggiornata delle vecchie politiche di alleanza basate sulla relazione principale fra una potenza marittima e una ter­ restre, unite provvisoriamente insieme, per fini di “contenimento” della (o delle) maggiori potenze continentali23. Ma anche l’attualizzazione della formula militare statunitense, elaborata dopo la fine della guerra fredda (From the Sea, Power Projection Army e Force XX/)24, non è altro che la modernizzazione e l’aggiustamento della “politica del pompiere” basata sulla vecchia filosofia del “containment”, senza un orientamento geografico speci­ fico, senza cioè che vi sia la materializzazione dell’avversario po­ tenziale e lo spazio virtuale da circoscrivere e contenere. È quindi una politica di containment “tout azimouth”, con funzioni di “inter­ national policing” mascherata da “peace-support”, a trecentosessanta gradi, che sconta in anticipo l’impossibilità di intervenire, politicamente e/o militarmente, sulla landmass eurasiatica in quanto tale25. In questo senso l’evoluzione in atto della dottrina e della politica della Nato che, faticosamente, cerca delle formule per allarga­ mento verso Est” dell’Alleanza, risponde al criterio del prudente ampliamento della fascia di protezione nei confronti della minaccia eurasiatica, fondata ancora una volta sulla filosofia del containment, piuttosto che sulla soluzione radicale del problema. Per certi aspetti si potrebbe sostenere, con qualche solido argo­ mento, che la grande potenza americana, pur dotata di una maritti­ mità globale (sea-control e protezione nucleare, minaccia e deterren­ za missilistica), non è riuscita a immaginare, né tantomeno a svilup­ pare, un vero esercizio del controllo terrestre, neppure nei ristretti li­ 22. Fussell, 1980, 1988, ed. it.; Leed, 1991, 1992, ed. it. 23. Si veda, a questo proposito, la politica britannica fra il Sette e l’Ottocento, e in particolare la relazione Inghilterra-Austria nella prima metà del secolo XIX. Cfr. Taylor, 1954; nonché Kissinger, 1957b. 24. U.S. Department of Defense, 1997. 25. Vedi letteratura sulla dottrina strategica degli Stati Uniti a partire dai primi anni Ottanta.

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miti della dottrina “from the sea” (e versioni successive), tale da ga­ rantirsi l’egemonia sulle coste e sui paesi rivieraschi del tricontinen­ te antico. Basterebbe pensare alle avventure militari americane in Asia durante la guerra fredda (Corea e Indocina) per rendersi conto di come l’operazionalizzazione della dottrina del “containment” in termini politico-militari, di per sé, non sia meno avventurosa di quella, più radicale, della frammentazione continentale, né dia sem­ pre buoni frutti26. La dottrina strategica americana del dopoguerra nei confronti dell’Asia comunista (Urss e Cina) contava, infatti, sulla profondità strategica di tre linee successive di resistenza nei confronti della landmass eurasiatica identificata ideologicamente come la terra d’elezione, reale e potenziale, del comuniSmo. La prima, che era anche la più ambiziosa, puntava - fin dalla fine del secolo scorso - a contenere il colonialismo Europeo e Russo at­ traverso la politica di “influenza penetrativa” in Cina che stava allo­ ra entrando in una fase di decomposizione politica e militare. Il ri­ sultato di quella politica fu perlomeno dubbio. Lo sfascio della Cina, e le lotte successive, fino all’unificazione comunista del 1949, sono certamente state anche il prodotto dell’influenza politica americana (ed europea), in particolare per il ruolo importante giocato dal go­ verno di Washington nelle lotte di fazione interne alla Cina post-im­ periale, da Sun-Yat-Sen a Ciang-Kai-Shek, fino a Mao Tse Tung27. La seconda linea di resistenza, instaurata a partire dalla cosiddetta “loss of China”, dopo il 1949, puntava essenzialmente alla difesa delle penisole principali, ovvero delle Rimlands Orientali dell’Asia (Corea, Indocina, Thailandia). Sconfitti anche su questa seconda linea, dopo lo stallo in Corea e l’espulsione dall’Indocina, gli Stati Uniti si arroccarono sulla terza linea di resistenza, quella delle isole e degli arcipelaghi (Giappone, Filippine, Taiwan). Le tre linee strategiche di resistenza erano però solo la conse­ guenza di una politica governativa assai oscillante (ma sostanzial­ mente pro-cinese e anti-europea) degli Stati Uniti, nonché di una po­ litica economica e commerciale, considerevolmente invasiva, del ca­ pitale finanziario (e industriale) americano in Asia28. 26. Bibliografia sulle guerre in Corea e Indocina: Hastings, 1987; Karnow, 1979. 27. Vedi US Department of State, 1950; Schaller, 1979. 28. Vedi letteratura sulla politica americana nel Pacifico e in Asia Orientale fra il 1854 (Commodoro Perry e il Giappone) e oggi, da Williams a May a Irvie, ecc.

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L’innesto della Rivoluzione Bolscevica in Russia e la dissoluzio­ ne dell’impero Cinese su questo modello concettuale di tipo duale (politico ed economico al tempo stesso) moltiplicarono le contraddi­ zioni del comportamento americano in Asia. Il solo punto fermo re­ stò quello dell’appoggio alla Cina Nazionale contro gli altri soggetti del conflitto cinese e, dopo la sconfitta di Ciang, il ripiegamento sul­ la seconda linea di resistenza, quella delle “penisole”, senza abban­ donare però la speranza di poter tornare sulla prima linea, quella dell’influenza penetrativa in Cina. Dalla dottrina del “roll back” di John Foster Dulles, Segretario di Stato con Eisenhower al “coup de theatre” di Henry Kissinger nel 1971 con Mao Tse Tung, fino alle relazioni con Deng Tsiao-Ping, l’apertura del mercato cinese e la rivoluzione economica oggi in at­ to, la politica americana non ha fatto altro che praticare la dottrina del controllo costiero, della penetrazione commerciale e finanziaria, quindi del “contenimento” secondo i dettami culturali delle potenze marittime. Esaminando più da vicino le linee portanti di questa politica emerge però subito una contraddizione. Una dottrina basata sull’“in­ fluenza” e non sul “potere” politico, sull’egemonia invece che sull’impero, ha in sé il limite di non avere per autonoma delibera­ zione né la profondità spaziale, né lo spessore culturale necessari a intervenire e controllare una landmass come la Cina. D’altra parte, neppure il tentativo, talvolta riuscito e più spesso fallito, di contrap­ porre una landmass (la Cina) ad un’altra landmass (la Russia), ga­ rantisce il buon esito dell’operazione. Altrettanto sterile infine è il tentativo di esercitare l’egemonia at­ traverso il controllo economico. Su spazi così vasti e popolati, come la Cina, l’imprinting capitalista può creare più problemi, nel medio termine, di quanti non ne risolva. È infatti evidente che lo sviluppo economico accelerato di grandi spazi unificati favorisce la nascita di Grandi Potenze politiche che, per forza di cose, tendono a contrap­ porsi, con l’andare del tempo, alle Potenze che sono state il modello da imitare29. Gli episodi conflittuali principali del dopoguerra, Corea e Viet­ nam, si collocano all’interno di questo sistema strategico basato sul­ le tre linee di resistenza. In entrambi i casi, però, l’obiettivo strategi­ co difensivo degli Stati Uniti non si è realizzato. Nel caso della Co­ rea30 la costosa funzione del contenimento ha, dopo 45 anni, lasciato 29. Dittmer e Kim (a cura di), 1993; Bernstein e Munro, 1997. 30. Alexander, 1986; Blair, 1987; Hastings, 1987.

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Fonte: Brzezinski Z., Game Plan, Boston, The Atlantic Press, 1986

Fonte: Brzezinski Z., The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997

176 Fonte: Brzezinski Z.. The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997

Fonte: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

in vita il problema così com’era, mentre nel secondo caso, quello del Vietnam, gli Americani hanno dovuto riconoscere la loro prima vera sconfitta militare e politica sul campo3132 . Ancora meno efficace è stata poi, in quasi tutti i casi in cui è stata messa in atto, la dottrina del “blocco” navale, dell’embargo e delle sanzioni, che sono un surrogato minore (e spesso inutile) della poli­ tica di penetrazione territoriale. Il blocco, infatti, trasferisce nei tem­ pi lunghi la soluzione del problema e spesso non lo risolve affatto (Cuba). Non sostituisce comunque la liquidazione della forza armata avversaria in uno scontro definitivo (Vernichtungsschlacht)22, né la resecazione delle vie di comunicazione e dei “nervi del governo”33 della più grande, o delle più grandi, potenze continentali, fino allo sfaldamento delle loro unità in subsistemi, o subunità nazionali e statali indipendenti. Ma al di là di queste storiche vicende, nonché delle motivazioni più sostanziali che rendono improbabile, se non addirittura impropo­ nibile, la realizzazione dell’“utopia” dell’impero occidentale eurasia­ tico34, va qui sottolineato che un piano politico credibile di penetra­ zione territoriale all’interno di Eurasia non dovrebbe avere lo scopo di sostituire l’impero “orientale” con un impero “occidentale”, bensì semplicemente quello della sua liquidazione definitiva in quanto en­ tità territoriale e strutturale unitaria. Il problema, quindi, non sarebbe più quello di occupare militar­ mente e in modo definitivo Eurasia, e in particolare di assorbirne le forme imperiali primarie (Russia, India, Cina) attraverso l’impiego delle forze armate dell’occidente. Al contrario, si tratterebbe di uti­ lizzare la forza politica deterrente dell’occidente, nonché la sua su­ periorità tecnologica, informativa, economica e finanziaria, per in­ durre le diverse componenti di Eurasia alla frantumazione, e quindi all’indipendenza dei diversi frammenti. In termini di politica intemazionale contemporanea questa ipotesi consisterebbe nella decisione, da parte dell’occidente, di favorire po­ liticamente le spinte e i processi di autonomia, sovranità e indipen­ denza (i tre gradi della libertà politica) che affiorano all’interno delle diverse repubbliche e regioni della Federazione russa, delle provincie della Cina popolare, e forse anche degli stati federati dell’india. 31. Thayer, 1985. 32. Wallach, 1986; Clausewitz, 1832, 1993. 33. Deutsch, 1963, 1972, ed. it. 34. Vedi, a questo proposito, lo stimolante libro di Brzezinski, 1986, pubblicato poco prima del crollo sovietico, che avrebbe meritato una maggiore attenzione, nonché il più recente Brzezinski, 1997, sullo stesso argomento.

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Invece di ostinarsi a considerare meccanicamente, come fattore essenziale della bilancia fra Occidente (Europa + America) e Orien­ te (Russia + Cina), e quindi come strumento della stabilità politica di Eurasia, la sua massima unità territoriale possibile, sarebbe più logico, e certamente più efficace, applicare la potenza occidentale alla trasformazione politica e strategica del sempre minaccioso “pie­ no” di Eurasia unita, nel “vuoto”, o nel “semi-vuoto”, più rassicu­ rante, di una Eurasia divisa e frammentata. Questo complesso e ardito disegno strategico di riorganizzazione dei “grandi spazi” politici non avrebbe solamente il benefico effetto di decomprimere le tensioni etniche, nazionali e religiose all’interno degli Imperi euroasiatici, ma potrebbe avere anche il positivo risul­ tato di accelerare, e quindi di consolidare, la “ricostruzione” dell’Europa intesa come matrice e “spirito” dell’occidente. Il con­ cetto di “ricostruzione” dell’Europa, più nettamente di quello, forse meno realistico, di “unificazione” del continente, corrisponde, sim­ metricamente e simbolicamente, all’altro concetto, altrettanto strate­ gico, che è stato quello della “distruzione” dell’Europa, il cui pro­ cesso è iniziato nel 1914 e si è completato nel 1990 con la fine della terza guerra mondiale del Novecento35. È evidente che un approccio politico-strategico, di questo tipo, di­ retto a favorire la frammentazione della sua landmass, condurrebbe alla graduale riduzione della pressione di Eurasia Sull’Occidente, con il conseguente rafforzamento e sviluppo dell’autonomia dell’Eu­ ropa in quanto tale e, con essa, anche alla necessaria ridefinizione, in modo meno sbilanciato di quanto non siano oggi, dell’insieme dei rapporti euro-americani. Ben diversa, invece, rispetto a ciascuna delle esperienze del pas­ sato, è la concezione strategica e operativa che il potere americano ha espresso durante tutto il corso del Novecento. Guidati da una ispirazione missionaria (l’America come “Nuova Gerusalemme” du­ rante quella che è stata definita “l’Età dei buoni sentimenti)36 e da una filosofia politica idealistica ma espansionista al tempo stesso, liberaldemocratica da una parte, ma anche classista e razzista dall’al­ tra, gli Stati Uniti hanno imbastito una politica estera che si potreb­ be definire a doppia lama37. Da un lato hanno tenacemente perseguito, per oltre un secolo, una linea isolazionista e difensiva nei confronti dell’Europa fino al mo­ 35. Hillgruber, 1988; Santoro, 1995a; Dangerfield, 1952, 1963, ed. it. 36. Merk, 1963. 37. Turner, 1893, 1968, ed. it.; May, 1961, 1973; Ambrose, 1971; Williams Ap­ pleman, 1952, 1972; Aquarone, 1973.

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mento in cui, trascinati dagli eventi e dalla propria evidente superio­ rità, sia produttiva che finanziaria e tecnologica, si sono trasformati definitivamente in Grande Potenza globale, e successivamente in Superpotenza unipolare. Dall’altra parte, però, la profonda consapevolezza del proprio “Manifest Destiny” ha costantemente accompagnato, come una spe­ cie di basso continuo, la dinamica della politica intemazionale ame­ ricana, trasformando gradualmente la riottosità originaria ad immi­ schiarsi negli affari del mondo, in una sorta di politica missionaria di “evangelizzazione” dei principi ispiratori di quel modello politico basato sulla “santificazione” della democrazia liberale e del libero mercato38. Questa veloce escalation di ruolo e di peso politico non dispone­ va, in partenza, né di un pensiero politico definito, né di una dottrina strategica che fossero all’altezza dei compiti crescenti che venivano affidati agli Stati Uniti dalla storia e dalla geografia. Alcuni autori, in particolare, hanno messo in evidenza questa “dissonanza cogniti­ va” per cui esiste strutturalmente una contraddizione nella politica americana fra gli “Ideali” e le “Istituzioni”, un vero e proprio “gap” che impedisce agli Stati Uniti di capire se stessi e soprattutto di ca­ pire gli altri, in specie i popoli del Tricontinente Antico39. Ne derivò la necessità di utilizzare lo strumentario tecnico e politico a disposi­ zione, tanto nei confronti della politica estera quanto di quella mili­ tare nell’intento di inventare delle procedure e delle regole capaci di sopperire alla mancanza di esperienza e di spessore culturale40. In politica estera prevalse così quèllo che, mutuando il termine dal linguaggio dell’economia, si potrebbe definire come il “modello esportativo”, basato appunto sull’esportazione verso l’estero, il più delle volte in modo pedissequo e banale, del modello di sistema po­ litico interno americano, tanto nei confronti di altri sistemi politici nazionali, quanto nelle istituzioni intemazionali, e nelle relazioni di dominio con gli attori colonizzati, vinti o satellizzati41. Sul piano della dottrina strategica e della politica militare si trattò invece di una, per molti versi banale, riproposizione aggiornata della teoria dell’Ammiraglio Alfred Mahan sul potere marittimo42, fonda38. Bairati (a cura di), 1976; D’Addio e Negri (a cura di), 1980; Beard, 1934. 39. Huntington, 1981, pp. 39 e sgg. 40. Duroselle, 1960; Karp, 1979; Dallek, 1979; Ferrell, 1985. 41. May, 1961; Kolko & Kolko, 1972; Lasch, 1979; Khon, 1957. 42. L’esempio più convincente di questo orientamento culturale è in Conn, Engelman, Fairchild, 1964; vedi anche Livezy, 1947, 1981.

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ta sulla costruzione di una rete di basi navali e d’appoggio oceani­ che, nonché sulla politica commerciale della “Porta Aperta” (Open Door Policy, Note di Jay, ecc.)43 capace di esercitare il controllo strategico e l’influenza economica. Tale sistema concettuale era quindi ben diverso, non solo rispetto alla politica continentalista della Germania sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, ma perfino nei confronti della assai più penetrante politica colonia­ le britannica, che integrava il potere marittimo puro con una politi­ ca “a connotazione marittima”4445 , e che si era già posto concreta­ mente, anche se senza un successo prolungato, il problema del con­ trollo terrestre di aree sterminate, come l’india, il Canada, l’Austra­ lia e l’Africa, legate fra loro solo dalla certezza del “sea control” e dalla garanzia fornita dall’esistenza di linee di comunicazione per­ manenti. La separazione abbastanza netta fra Army e Navy, che ha connota­ to tutta la storia degli Stati Uniti fino al momento in cui i “Services” vennero unificati nella formula postbellica del Department of Defen­ se1^, è un simbolo evidente di quella vera e propria schizofrenia concettuale che anche la presenza di un Corpo dei Marines relativa­ mente limitato, destinato a svolgere il ruolo di trait-d’union fra Esercito e Marina, non poteva certo bastare a ricomporre o a supera­ re definitivamente46. Un noto manuale accademico sulla storia della politica militare e strategica degli Stati Uniti è stato, infatti, costretto, nel suo tentativo di rappresentare l’intero campo della politica militare americana, ad alternare un capitolo dedicato alla strategia terrestre con uno dedica­ to alla strategia navale, senza peraltro trovare dei convincenti punti di conciliazione o di armonizzazione fra le due branche47. È quindi possibile sostenere che, nonostante le apparenze, l’attua­ le e indiscutibile superiorità della potenza statunitense, rispetto a quella dell’età d’Oro della potenza britannica, è un fenomeno poten­ zialmente molto più labile di quanto non si creda. La sua forza di “impero informale”48, infatti, si localizza essenzialmente nella vo­ lontà politica e nei programmi dell’Amministrazione al potere, non­ ché nella più o meno ampia disponibilità dei bilanci della Difesa, 43. Santoro, 1987, 1992. 44. Corbett, 1911. 45. Snow e Drew, 1994. 46. Weigley, 1967. 47. Weigley, 1973; vedi anche il più recente Snow e Drew, 1994. 48. Doyle, 1986.

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più che non nella logica territoriale globale dell’ Ortung/Ordnung di matrice occidentale classica49. In altri termini, e pur senza negare il fenomeno, comune a tutte le organizzazioni statuali, della ricorrenza periodica degli stessi com­ portamenti politici nella tradizione della politica estera50 degli Stati Uniti, la componente concettuale di derivazione “domestica”, non­ ché. quella che discende dalla relativa scarsità di esperienza politica intemazionale dell’America rispetto all’Europa, ha quasi sempre fat­ to premio sullo spessore dell’analisi storica e culturale51. Di qui la frequente incomprensione delle motivazioni profonde che animano tanto i partners quanto gli avversari degli Stati Uniti, e soprattutto, in assenza di illuminazione chiara del contesto storico­ culturale, il metodo, spesso adottato, di affidare alle iniziative più o meno brillanti dell’Amministrazione di Governo, l’organizzazione delle cosiddette “major issues”52. Tale comportamento, per quanto possa essere attivo e bene impo­ stato, è quasi sempre dettato da motivazioni di politica interna e, in qualche caso, dalla necessità di contrastare l’ascesa degli avversari presidenziali o di tacitare un Congresso ostile e un’opinione pubbli­ ca variabile. Ne è derivata spesso una certa casualità, se non addirittura l’erraticità delle iniziative, e quindi un ulteriore allontanamento da quel sistema di interazione permanente fra le Cancellerie che, nel passato europeo, costituiva la modalità principale di funzionamento della di­ plomazia del Concerto delle Potenze53. I risultati politici di questo approccio flessibile e pragmatico, ma senza disegno, sono stati di alterna rilevanza, dominati quindi da una sorta di “incertezza” nella definizione degli “interessi nazionali” 49. Vedi a questo proposito l’antologia di Graebner (a cura di), 1964; nonché il volume di Crabb, 1982; che analizza dettagliatamente le grandi linee della diploma­ zia statunitense attraverso quei pacchetti politici, a metà concettuali e a metà ideo­ logici, che sono le “dottrine” sulle quali i diversi Presidenti hanno costruito la loro politica estera. Si veda anche l’ormai classico, ma superato, testo di Hoffmann, 1978, quello di Gaddis, 1982, sulla dottrina del “containment”, nonché l’eccellente, quanto sconosciuto, volume di Liska, 1984, che fa seguito all’altrettanto stimolante volume dello stesso autore, Liska, 1978. 50. Vedi letteratura sulle teorie della politica estera in Santoro, 1991. 51. Gaddis, 1997. 52. Wallace, 1983. 53. Per una rassegna dei principali modelli di politica estera, vedi Santoro in Bonanate e Santoro (a cura di), 1986, 1990, pp. 164-209; nonché Hermann, Kegley, Rosenau, 1987; Allison, 1971; Peacock, 1987; Halperin, 1974.

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degli Stati Uniti54 che, al di là di una filosofia generale sul mondo e di procedure operative sperimentate, non ha ancora oggi delle tradi­ zioni consolidate, in materia di analisi delle “costanti”, cioè dei ca­ ratteri strutturali, geostorici e culturali del sistema intemazionale di Eurasia, dalla cui logica proviene peraltro la maggioranza dei com­ portamenti di gran parte dei suoi interlocutori politici. Manca, in altri termini, quel senso di “territorialità” spazio-tem­ porale, che è il patrimonio comune di Eurasia, tanto della civiltà oc­ cidentale quanto di quella orientale, e che si fonda sulla ripetizione, periodica e costante, dei principali comportamenti dei macro-aggre­ gati spaziali del Tricontinente Antico. E insomma 1’“antichità” e la “memoria storica”, cioè il tempo, inteso come verticalità diacronica, a caratterizzare e spesso a stabilire le regole di base delle relazioni intemazionali, quindi a designare le gerarchie e le priorità orizzonta­ li dello spazio, oltre che a definire il campo di quelle tre antinomie creative che possono essere poste a fondamento del “codice geneti­ co” e della mito-simbologia dell’uomo contemporaneo (Asia-Europa anzitutto, e poi Terra-Mare, fino alla più generale contrapposizione fra Oriente e Occidente)55. Questo vuol dire che gli Americani non possono essere definiti nel modo in cui, quasi automaticamente, molti Europei tendono a descriverli, vale a dire come i “nuovi Europei” d’Oltre Oceano. Essi vivono, invece, in una permanente condizione di “lontananza” spa­ zio-temporale che, in ogni occasione, dimostra la propria estrania­ zione, deliberata e conseguente, rispetto alle tradizioni di Eurasia. Il processo di “sradicamento” degli Americani, popolo d’immigrati an­ zitutto dall’Europa, è proprio il fondamento della loro identità, così come lo è anche il “gap” fra “Ideali” e “Istituzioni” (lo “Ivi gap” di Samuel Huntington) che è alla base di quella relazione fra “morali­ smo” e “ipocrisia”, “compiacenza” e “cinismo”, che caratterizza da sempre la politica statunitense56. Tale “lontananza” è dovuta essenzialmente al fatto che, a differen­ za di ogni altra nazione, gli Stàtì Uniti non sono il prodotto della propria territorialità o etnicità, ma invece il risultato della loro ideo­ logia57. L’“Americanismo” non è infatti una forma del nazionalismo moderno ma è invece paragonabile a molte altre ideologie o religio­ 54. 55. ed. it. 56. 57.

Nuechterlein, 1973. Dumézil, 1985, 1990; Campbell, 1968, 1992, ed. it.; Campbell, 1964, 1993, Huntington, 1981, p. 75. Kohn, 1957.

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ni politiche. “Per gli Americani l’Americanismo - ha scritto Leon Samson - non è una tradizione e neppure un territorio, come la Francia è per i Francesi o l’Inghilterra per gli Inglesi, ma invece è una dottrina, come il Socialismo per i Socialisti”58. L’identità nazionale americana è, quindi, anomala, ma per questa ragione, anche molto fragile, perché “minacciata non dal separati­ smo etnico ma dalla disillusione sugli ideali politici, ovvero sull’ef­ ficacia della sue istituzioni politiche. Se si distrugge il suo sistema politico si distrugge anche la base della comunità, eliminando la na­ zione e, quindi, restituendo i suoi membri... allo stato di natura, per­ ché... l’identità americana è definita in termini normativi, mentre l’identità francese lo è in termini esistenziali”59. Su questa diversità sostanziale, genetica e di formazione, s’inne­ sta il significato di quella “lontananza” culturale che impedisce agli Americani di comprendere Eurasia, e quindi di impostare dei pro­ getti politici su di essa. È una “lontananza” che sovrappone spazi di­ versi, incomunicabili e non sovrapponibili. Sulla base di queste con­ siderazioni si può allora sostenere che la distanza spaziale fra l’America e 1’Eurasia è di gran lunga più grande di quella strettamente geografica. Essa si nutre di storia e di cultura politica, di spi­ rito e di norme. Nell’insieme prospetta una definitiva impossibilità di vera e profonda comunicazione. L’Europa, intesa come Occiden­ te, è la sola parte di Eurasia che può fare da tramite fra le due landmass, quella di Eurasia e quella del Western Hemisphere. Tuttavia l’Europa ha un Geist diverso da quello degli Stati Uniti, che sono stati essenzialmente il prodotto della dilatazione dei concetti e dei ruoli politici e sociali tipici di quei ristretti gruppi di Europei che avevano abbandonato l’Europa nei secoli scorsi, proprio in funzione della loro diversità, ovvero della loro impossibilità a rimanere.

58. Cit. in Huntington, 1981, p. 25. 59. Ibidem, p. 30.

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III. Identità

8. La deterrenza e il mito di Occidente

Possiamo, a questo punto, considerare la diversità strutturale fra l’America e l’Eurasia come la forma culturale odierna dell’eterno e primordiale dilemma “terra-mare”, come aveva d’altronde già ben compreso, fin dalla fine del secolo scorso Friedrich Ratzel (che però si riferiva in modo rovesciato alla Germania guglielmina) e, ancora prima di lui, Alexis de Tocqueville1. Se questa ipotesi interpretativa è sostenibile, e se l’Europa è l’unico spazio culturale capace di “sen­ tire” la diversità ma, al tempo stesso, percepirne anche la vicinanza, potrebbe allora spettare proprio all’Europa “ricostruita” il compito di fornire la soluzione geopolitica, strategica e culturale, quindi la “riconciliazione” rispetto ai rischi contenuti nell’insuperabile con­ traddizione fra questi due elementi. Essa risiede, in sostanza, nell’acquisizione della consapevolezza che l’Occidente, per disfarsi una volta per tutte del problema della minaccia di Eurasia e del rischio della formazione di un impero uni­ ficato sul Tricontinente Antico, inteso come forma spaziale organiz­ zata, unitaria o comunque accentrata, che tende a gravitare verso Ovest, dovrà per forza di cose orientarsi, da un lato a favorire i pro­ cessi di sfaldamento della Federazione Russa, e forse anche quelli della Cina e dell’india, mentre, nel contempo, dovrà impedire che il militantisme fondamentalista riesca a portare operativamente a buon fine la minacciosa evenienza della rinnovata unità islamica. In termini mito-simbolici l’ipotesi della liberazione dell’Occidente dalla spada di Damocle permanente costituita dall’oriente, po­ trebbe altresì definirsi come un tentativo di liberarsi dall’ipoteca 1. Ratzel, 1894; Tocqueville, 1840, 1982, ed. it.

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permanente, e dalla speranza-delusione, eternamente rinnovata, del “Giardino dell’Eden”2. La “geopolitica” del Paradiso, di cui parla Jean Delumeau, non­ ché la “geostrategia” della felicità come sogno ad occhi aperti, e co­ me nostalgia dell’“Età dell’Oro”, che è tipica della tradizione me­ dievale cristiana, non fa che rincorrere, sia pure con formule diver­ se, la strada della maturazione collettiva del mondo occidentale difronte alla estaticità del mondo orientale. “L’affermazione che il paradiso terrestre è scomparso dal nostro pianeta è anteriore all’era cristiana” - scrive Delumeau - “Il Libro dei Giubilei, redatto fra il 167 e il 140 a.C. ... racconta come Noè divise la terra sorteggiandola fra i suoi figli, Sem, Cam, e Jafet” che rappresentano le tre parti del Tricontinente Antico. Nella parte toc­ cata a Sem, fra il Don e il Nilo, era incluso il giardino dell’Eden. Si trattava quindi dell’oriente, e in particolare del Medio Oriente, dell’Africa del Nord e dell’Asia Centrale3. La frattura definitiva fra Occidente e Oriente avviene però solo quando il complesso mito-simbolico del “paradiso terrestre”, dive­ nuto inaccessibile perché immerso all’interno della landmass eura­ siatica, si trasforma in mistica del “paradiso celeste”. Il giardino dell’Eden, dunque, paragonabile a quegli “horti conclusi” (traduzio­ ne dell’antica voce persiana “apiri-daeza”, poi “pardés” in ebraico, e finalmente “paradeisos” in greco), presenti anche nelle altre religioni e civiltà dell’oriente, perde il suo tratto di sogno e nostalgia per di­ ventare attesa e promessa. Da aspettativa di un ritorno forse impos­ sibile a speranza di conquista permanente4. A questo punto l’Asia e l’Europa non sono più figlie dello stesso padre (o madre), ma invece vicine di casa ineguali e differenziate. Si indebolisce così la cornice mitica della presunta identità di Oc­ cidente e di Oriente, tenuta insieme, almeno fino al secolo XIII, dal sottile ma tenace legame della “geografia cristiana” del Giardino dell’Eden “che diventò inaccessibile” perché spazialmente distante, localizzato al di là del fiume Oceano che circonda la terra. Il Giardi­ no dell’Eden “non è dunque scomparso” - come sosteneva nel VI secolo Cosma Indico, prete di Alessandria - perché l’Oceano “conti­ nua ad alimentare i grandi fiumi della terra”5, tuttavia non è più rag­ giungibile perché “deterritorializzato”. 2. Delumeau, 1992, 1994, pp. 12 e sgg. 3. Delumeau, 1992, 1994, pp. 57 e sgg. 4. Ibidem, p. 13 e p. 60. 5. Delumeau, 1992, 1994, p. 60.

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D’altra parte anche il “Regno del Prete Gianni”, il favoloso regno cristiano in Asia, talvolta identificato con l’Etiopia cristiano-copta e poi situato in India, allora tripartita in India Superior, India Inferior e ìndia Ultima (o India Egypti) non è che l’estremo tentativo (fra il XII e il XVII secolo) di ritrovare le tracce del Giardino dell’Eden,'e quindi un’identificazione fra l’Europa Cristiana e if mondo orientale. La tripartizione dell’india, in questo caso, ci aiuta a legittimare quell’idea di Eurasia che si prolunga in Africa Settentrionale unifi­ cando l’Oriente da Est e da Sud e geopoliticamente contrapponendo ­ lo all’Europa6. In effetti il vasto disegno geopolitico che qui stiamo descrivendo ha come valenza primaria quella di rappresentare una metafora cul­ turale dei compiti strategici del Nuovo Occidente. Ne ipotizza cioè il “senso” compiuto, attribuendogli, per la prima volta in modo netto e convincente, una funzione anzitutto “controffensiva'’, prima anco­ ra che difensiva, invertendo cioè la metodica di comportamento tra­ dizionale dell’Europa classica, che si basava invece sulla diade difensivo-controffensiva. Questa mutazione radicale del ruolo strategico dell’Europa è stata resa possibile dalla concorrenza di due fattori: - la riduzione della conflittualità intraeuropea, dovuta anzitutto al secolo delle guerre del Novecento e poi alla lunga esperienza po­ stbellica della contrapposizione frontale con l’Unione Sovietica, nonché all’esperienza istituzionale delle organizzazioni regionali, dalla Nato all’Unione Europea; - lo sfaldamento dell’impero Sovietico che ha allontanato il “fron­ te” e il confine Est-Ovest spostandolo verso Est dopo che per cin­ quanta anni esso era stato incombente sul centro dell’Europa, su Berlino, e sull’Europa Occidentale. Per ottenere questo risultato sarebbe però necessario che l’Occidente europeo fosse in grado di organizzare le sue forze, non solo sulla scorta delle teorie del potere marittimo, tipiche della funzione americana, ma invece integrandole con l’assunzione di una duplice capacità strategica, sia marittima che continentale (la “balena” si fa “orso”, ma non viceversa), tale da assicurare all’occidente la poten­ za politica ed economica, l’influenza culturale e tecnologica, e lo strumento militare, quindi la Weltmacht necessaria, a sconfiggere de­ finitivamente la pericolosa tendenza unitaria dell’oriente, e liberarsi per questa via dalla spada di Damocle dell’invasione. 6. Ibidem, pp. 97-128.

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Un ruolo ambivalente, di terra e di mare, di questa fatta può esse­ re giocato solo a partire da un’area peninsulare, come quella dello “spazio europeo”, dotata di un sostrato geografico sufficiente in ter­ mini territoriali, di un background storico, tecnico e culturale impo­ nente, e di una capacità militare integrata di tutto rispetto. In allean­ za con gli Stati Uniti questo modello potrebbe essere realizzato in tempi ragionevoli, e comunque prima che l’Oriente, nelle sue varie forme (Russia, Cina, India, Islam), sia in grado di raccogliere le for­ ze per il colpo finale da infliggere all’occidente. Il cuore dell’occidente europeo, quindi, in questa ipotetica pro­ spettiva, avrebbe una funzione decisiva di forza motrice per l’intero processo di transizione e di trasformazione. L’iniziativa potrebbe co­ sì assumere un ruolo centrale nella potenziale riorganizzazione delle relazioni fra le diverse aree geopolitiche, non solo fra Europa e Eu­ rasia, ma anche in relazione al Mediterraneo e all’Africa. In effetti, la contrapposizione Est-Ovest, almeno a partire dall’in­ vasione araba del VII secolo7, e poi con lo sgretolamento progressi­ vo dell’impero Bizantino8, si è tradotta in una contrapposizione dell’Ovest sia contro l’Est che contro il Sud. Di qui la nascita di quella concezione geopolitica del Mediterraneo, fondata sulla divi­ sione orizzontale fra la sponda Nord e la sponda Sud del bacino, che ha prevalso nel tempo e che costituisce ancora oggi il fondamento culturale e politico della relazione fra le due sponde9. E questa la formula geopolitica dell’“accerchiamento” strategico a tenaglia, da Est e da Sud, che ha caratterizzato per secoli la condi­ zione occidentale e che costituisce tuttora la premessa oggettiva del­ la “identità”, ma anche della “differenza”, europea rispetto al resto del mondo. Come abbiamo già detto, peraltro, da questa immanente condizio­ ne di accerchiamento, come una noce fra due mandibole, i popoli europei si salvarono, intorno alla fine del secolo XV, e in particolare in quei decenni chiave che vanno dalla caduta di Costantinopoli nel 1453 alla scoperta dell’America nel 1492 e all’inizio delle Guerre d’Italia nel 1494, con un colpo di genio strategico che ha cambiato la faccia del mondo. E una fase questa di straordinario interesse per comprendere la storia e il destino dell’Europa moderna e contemporanea, ma al tem­ 7. Lewis, 1982, 1991, ed. it. 8. Nicol, 1995; Meyendorff, 1989; Ducellier, 1986, 1988, ed. it.; Norwich, 1988, 1991, 1995; Ostrogorsky, 1963, 1968, ed. it. 9. Santoro, 1995a; Braudel, 1949, 1953; Santoro, 1997, n. 9; Pirenne, 1937; Lewis, 1982, 1991.

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po stesso per riconsiderare gli equilibri fra le diverse aree geopoliche del pianeta. Non solo, quindi, la vicenda originalissima dell’Eu­ ropa che sperimenta quella particolare condizione di “fuga nel ma­ re” verso l’Estremo Occidente, con la scoperta del Continente Ame­ ricano, ma anche la dura lotta contro la spinta ottomana verso l’Eu­ ropa Centrale da un lato, e verso il Mediterraneo Centrale dall’altro lato, che di quella “fuga nel mare” sono, almeno in parte, gli indiret­ ti responsabili. Anche in quel caso, come accadrà peraltro successivamente in più di un’occasione, il fuoco dello scontro si focalizzò nell’area SudEst, e in particolare nella regione danubiano-balcanica, nell’Egeo (Rodi, Cipro, Creta, Morea) e nello Ionio, con puntate frequenti nel Canale di Sicilia (Malta). La penisola italiana, a cavallo fra le due metà del bacino, e in particolare le penisole e le isole della penisola, come il Salente, la Calabria e la Sicilia, si trovarono in prima linea nella difesa dell’occidente cristiano ed europeo contro i Turchi e i pirati barbareschi e, come nessun’altra regione del continente, nella sua fascia occidentale, ebbe a soffrirne. Il periodo cruciale, iniziato con la conquista della capitale impe­ riale bizantina, collocata sulle sponde di uno stretto braccio di mare, nel 1453, si concluse in mare con la vittoria occidentale di Lepanto del 1571, che pose termine alle ambizioni ottomane di conquistare il controllo integrale del Mediterraneo10. Anche in questo caso però, come d’altronde in molti altri, la difensività e la discordia intestina prevalsero sull’attacco o sulla con­ troffensiva. Pochi anni dopo la vittoria di Lepanto, infatti, un’altret­ tanto gigantesca flotta cristiana indirizzò vanamente la sua formida­ bile potenza in Atlantico contro un altro attore europeo, l’Inghilter­ ra, liquidando così per secoli ogni possibilità di sfruttare il successo ottenuto a Lepanto11. L’Europa, dunque, impediva a se stessa di concentrare a lungo le proprie energie dirigendole contro il vero e irriducibile avversario orientale che assumeva, volta per volta, le vesti dell’Unno o del Ma­ giaro, del Mongolo o del Tartaro, dell’Arabo o del Turco, preferendo lacerarsi al suo interno con le guerre per l’egemonia e di religione, ovvero sfiancandosi in operazioni oltremare all’inseguimento di co­ stosi miraggi imperiali, più spesso per ambizione che per necessità12. 10. Königsberger e Mosse, 1968, 1974, ed. it., pp. 235-279; Parry, 1963, 1973, pp. 169-279. 11. Caetani e Diedo, 1995. 12. Mattingly, 1959, 1967, ed. it.

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Questa singolare attitudine, spesso ambivalente in alcuni attori eu­ ropei, come la Francia, che stabilisce, fin dalle “Guerre d’Italia” (1494-1521), una “relazione” particolare e quasi di alleanza, o meglio di reciproca “desistenza” con il Sultano in funzione antispagnola, op­ pure come Venezia che è costretta, anche per ragioni strategiche e commerciali, ad alternare fasi di guerra a fasi di diplomazia molto aperta con la Sublime Porta13, denunciava l’esistenza di una mentalità collettiva degli Europei che era da un lato sostanzialmente difensiva nei confronti dell’oriente in tutte le sue forme, mentre dall’altro lato faceva prevalere un comportamento conflittuale e “inward-looking”, nelle relazioni intraeuropee, soprattutto nella fase di consolidamento delle Monarchie Assolute che pure corrispondeva al momento della massima espansione oltremare dei moderni stati europei14. Questa “nazionalizzazione” statuale delle Monarchie europee si forma sulle ceneri del macro-progetto imperiale di cui Carlo V era stato ideatore e protagonista e che si era gradualmente trasformato in impero spagnolo15. Il gioco dell’“Equilibrio” diventò la nuova forma della politica intemazionale in Europa e, paradossalmente, an­ che lo strumento principe del rafforzamento del suo sistema politico, ma solo dopo che crudeli guerre di religione e duri conflitti per l’egemonia ebbero raggiunto l’acme e quindi il declino, riducendo la conflittualità interna a quel sopportabile tasso che permise la nascita dello “jus publicum europaeum”, nonché la limitazione del conflitto fra gli attori del continente1617 . La relazione di cui parlava Cari Schmitt fra 1’“equilibrio” degli Stati territoriali europei, in rapporto all’impero marittimo delle mag­ giori potenze (Portogallo, Spagna, Olanda, Francia e Inghilterra), e “sullo sfondo degli immensi spazi liberi”^, costituisce certamente il momento più alto dell’espansione europea oltremare, ma al tempo stesso diventa l’occasione mancata dall’occidente per fare fronte co­ mune contro la minaccia e l’avanzata orientale. In altri termini gli “spazi liberi”, sul mare e oltre il mare, possono essere interpretati anche come la motivazione psicologica fondamentale che ha portato alla rinunzia dell’“idea di Crociata” che, a partire dal secolo XI, era stata invece la formula attraverso la quale l’Europa si era sforzata di 13. 1982. 14. 15. 16. 17.

Parry, 1963, cit. ma anche Elliott, 1981, 1984; Furber, 1976; Padfield, 1979,

Prete, 1975, pp. 25-60. Kennedy P„ 1987. Yates, 1975, 1990; Elliott, 1984, 1990. Schmitt, 1942, 1986; 1943, 1994; 1950, 1991.

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avviare una sistematica controffensiva contro la minaccia orientale18. Nel classico studio di Alphandéry e Dupront questo punto è chia­ rissimo. “La Crociata - scrivono i due storici - si configura come il servizio di un ordine superiore alla normalità, il servizio di un’altra potenza, di un’altra esigenza, la sola veramente totale come la Guer­ ra Santa, anch’essa guerra totale, e, soprattutto, l’ultima delle guer­ re. Infatti, nel profondo della coscienza e nell’intima speranza col­ lettiva dell’umanità, solo l’ultima delle guerre è santa”19. Questo “spirito” era andato perduto insieme al Medioevo e il ro­ vello per la mancata soluzione del problema generale della relazione fra Occidente e Oriente sembrò provvisoriamente accantonato me­ diante l’uso delle due diverse regole del gioco, quella della “guerra limitata” e dello “jus publicum europaem”, e quella della libertà di “occupazione” degli spazi al di là del mare con la costruzione delle “linee globali”20. Venne così a mancare lo stimolo a respingere, o a frantumare, l’Oriente che proprio in quei decenni del secolo XVI si stava conso­ lidando nella sua fascia latitudinale alta, attraverso l’estensione terri­ toriale del Granducato di Moscovia, trasformato in Impero Russo, e l’espansione massima dell’impero Ottomano nei Balcani e nel Me­ diterraneo, alla quale si opposero costantemente, ma senza progetto strategico, sia gli Austriaci eredi dell’impero Sacro e Romano, sia gli Spagnoli. Il risultato di tutto questo è ben noto. Meno noto è invece il fatto che la mancata prosecuzione della controffensiva antiturca, e anzi il suo frequente boicottaggio da parte di coloro che avrebbero dovuto sostenerla, liquidò per oltre due secoli la possibilità per gli Europei di stabilire un bastione laterale difensivo contro la minaccia euroa­ siatica, che avrebbe potuto essere costituita dal controllo effettivo dell’Africa Settentrionale. Non sarebbe certamente stata, sopratutto all’epoca del massimo splendore del Sultanato ottomano, un’impresa facile quella di pene­ trare nel Maghreb arabo, e poi investire anche l’Africa Nera, elimi­ nando così la spina nel fianco dell’occidente costituita appunto dal­ la terza parte del Tricontinente Antico (Eurasia + Africa). 18. Schmitt, 1950, pp. 163-178; Partner, 1997. 19. Königsberger e Mosse, 1963, pp. 237-238; Schmitt, 1950, p. 163; Schmitt, 1943, 1994, ed. it., ora in Rivista Storica, n. 7, n. 4, pp. 46-53; Braudel, 1949, 1953, ed. it., pp. 979-1074 e 1344-1411; Alphandéry e Dupront, 1954, 1974, pp. 453 e sgg. 20. Alphandéry e Dupront, 1954, 1974, ed. it., p. 462. 793

Tuttavia, in qualche momento e per brevi periodi, questa strategia venne portata avanti con un certo successo. La Spagna unificata da Ferdinando e Isabella, ad esempio, che aveva completato la “Recon­ quista” proprio nel 1492, rafforzata dalla “Descubierta” delle Ameri­ che e, finalmente, legittimata a proseguire nell’impresa dall’investi­ tura imperiale di Carlo V, tentò più volte di intervenire in Africa Set­ tentrionale con l’obiettivo di proseguire sul suolo africano, dove con­ tinuava il mondo arabo, la sua secolare opera di “cristianizzazione”. Il tentativo, però, non venne perseguito ad oltranza. Nella prima metà del secolo XVI il Mediterraneo, che era stato “un lago cristia­ no”, almeno a partire dal XII secolo, si aprì alla lotta per la supre­ mazia con i Turchi ottomani21. Fra il 1522 (conquista di Rodi da parte dei Turchi) e il 1529 (indi­ pendenza totale di Algeri e scatenamento della pirateria barbaresca), il bacino del Mediterraneo fu teatro di operazioni contrapposte per il controllo dell’Africa Settentrionale. Dopo la sconfitta della Prevesa, nel 1538, la Spagna perdette definitivamente la partita. Sopravvive­ ranno, come “échantillons” di un progetto imperiale in Africa, le en­ claves di Ceuta e Melilla che ancora oggi segnalano un’ipotesi poli­ tica mai realizzata. Notava Fernand Braudel che, a partire da allora, “il Musulmano rioccupò, dopo parecchi secoli, tutti i giardini del mare”22. Fino al 1830, quando i soldati francesi di Carlo X misero piede ad Algeri, per rimanervi oltre 130 anni, la sponda Sud del bacino medi­ terraneo, e in particolare l’Africa araba, avevano svolto la funzione, via via più esangue, di braccio armato della tenaglia orientale prote­ sa verso Ovest, fino a lambire, con l’impero sceriffiano del Maroc­ co, l’Oceano Atlantico. Bisogna ammettere quindi, a secoli di distanza e in questa pro­ spettiva, che la crisi della politica spagnola in Africa, nel secolo XVI, può essere considerata come una sconfitta per tutto l’Occidente, così come la battaglia di Lepanto e, pochi anni prima, nel 1565, la difesa di Malta da parte dei Cavalieri dell’Ordine Gerosolimitano, erano stati due gravi colpi d’arresto all’espansione turca sul mare, necessari a contrastare la rigida “terrestrità” della tradizione ottoma­ na e a metterne in evidenza i limiti marittimi23. Ma se Lepanto fu compresa bene, non altrettanto può dirsi per la fine prematura dell’espansione spagnola nel Maghreb. Polarizzati 21. Carlo V, 1620, 1976, ed. it.; Schmitt, 1950, 1992, ed. it„ pp. 81-103. 22. Braudel, 1949, 1953, pp. 980 e sgg. 23. Braudel, 1949, 1953, p. 983.

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dall’inizio delle Guerre di Religione e dal conflitto intraeuropeo per l’egemonia, gli osservatori politici dell’epoca percepirono solo mar­ ginalmente la misura del fallimento che la fine delle guerre turco­ spagnole infliggeva all’intero Occidente europeo24. Nel secolo XVI, all’epoca di Selim I e poi di Solimano, la poten­ za turca era al suo apice25. Avrebbe potuto essere contrastata attac­ candola nelle sue propaggini più deboli, e in particolare nella sua area più occidentale, a cavallo fra il Mediterraneo e l’Atlantico, uti­ lizzando la presenza europea nell’Africa Nera che proprio in quel periodo, a partire dai Portoghesi nel sec. XV, fino ai Francesi, agli Olandesi e agli Inglesi, cominciava ad essere rilevante mediante lo stabilimento dei primi insediamenti lungo le coste del Continente. Un’analisi specifica del ruolo dell’Africa nel disegno geopolitico e geoculturale della contrapposizione fra Occidente e Oriente esula comunque dall’oggetto principale del nostro lavoro. E tuttavia op­ portuno inquadrare, almeno nelle sue linee generali, 1’ Ortung dell’Africa in seno all’eterno conflitto fra Oriente e Occidente nei confronti del quale ha giocato, alternativamente, la funzione di al­ leato oggettivo dell’Oriente (soprattutto nella sua fascia settentriona­ le e orientale), ovvero di avversario, timido e debole, nella sua parte centrale e quindi nell’Africa Nera vera e propria. In sintesi, comun­ que, va riconosciuto che l’Africa, nel suo insieme, è stata quasi sem­ pre un “oggetto” piuttosto che un “soggetto” di storia, e che questa sua passività deriva essenzialmente da due caratteri geografici, dis­ sonanti ma complementari. Da un lato, infatti, prevale l’assoluta “continentalità” dell’Africa, priva di vere e proprie penisole che sole sono in grado di mescolare lo spirito terrestre con l’anima oceanica. È questo un carattere domi­ nante che si accompagna alla sua “dipendenza” spaziale dagli “stret­ ti” che la legano da due parti alla landmass eurasiatica (Suez e Gi­ bilterra). Il continente africano, in questa chiave di lettura geografi­ ca, è come una specie di appendice periferica di Eurasia che ne su­ bisce l’influsso permanente attraverso gli Stretti e il Mediterraneo. Dall’altro lato, invece, l’Africa è una struttura geografica divisa in bande climatiche assolutamente diverse fra loro, e spesso fisicamente insuperabili. Questo “dispositivo zonale” copre una serie di condi­ zioni estreme che attraversano l’intera gamma pluviometrica, dalla estrema siccità del deserto assoluto ai dieci metri di precipitazioni 24. Seward, 1972, 1995. 25. Kamen, 1971, 1975, ed. it., pp. 299-349.

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Fonte: Saoudi M.A., “Qathaia afriqiya” (Questions africaines), Kuwait, CNCA, 1980, in “Limes”, 1997

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annue (Sahara meridionale e pianure sotto il monte Camerun)26. Anche per ragioni geografiche, dunque, sarebbe necessario studia­ re l’Africa nelle sue due componenti fisiche (e poi geopolitiche) principali: da una parte l’Africa detta “araba”, che ha nel Sahara meridionale il suo confine, e l’Africa “nera” vera e propria, che co­ pre il resto del continente. Nello scontro perpetuo fra Occidente e Oriente, le due Afriche si sono comportate quasi sempre in modo di­ verso fra loro. Si veda, a questo proposito, il tentativo, ideologico e culturale non riuscito, di unificare le “Afriche” nella Grande Esposi­ zione tenutasi a Londra e in altre capitali nel 1995 e 1996, dedicata all’arte africana, che organizzava il materiale sulla base di sette aree diverse: Antico Egitto e Nubia, Africa Orientale, Africa Meridiona­ le, Africa Centrale, Africa Occidentale e Golfo di Guinea, Sahel e Savana, Africa del Nord. L’obiettivo della Mostra era quello di sug­ gerire una improponibile unificazione ideologica delle Sette Afriche, nello spazio e anche nel tempo, sotto il comune denominatore dell’idea globale del Continente in quanto sistema unitario27. In realtà il paesaggio storico dell’Africa è ben diverso. L’Africa Settentrionale è stata per secoli, durante l’impero Romano e Bizanti­ no, una parte essenziale dell’occidente. Si è orientalizzata, una volta per tutte, solo a partire dall’invasione araba del VII secolo. L’Africa Nera, invece, immersa nel suo isolamento millenario, è stata tratta alla luce molto più recentemente, ed è tuttora il campo di battaglia fra Occidente e Oriente, vittima di un endemico scontro da­ gli esiti incerti. Nettamente divisa al suo interno in due fasce quasi perpendicolari che dal Sahara scendono al Capo di Buona Speranza, l’Africa Nera è diversa nella sua zona occidentale, atlantica e centra­ le, rispetto alla zona costiera orientale che, dal Mar Rosso all’Ocea­ no Indiano e alla grande isola di Madagascar, è sotto l’influsso do­ minante del mondo arabo-islamico e del subcontinente indiano. Tuttavia l’Africa non è ancora del tutto asservita all’Oriente. Non solo perché, a seguito delle scoperte e delle conquiste dei navigatori europei, dal Quattrocento in poi, l’Africa Nera è stata punteggiata di scali fortificati e castelli impervi, di basi e depositi, delle potenze europee dislocati ovunque, fino a costituire quella rete marittima di controllo politico-militare e commerciale, che è stata l’architettura e la forma dei primi imperi marittimi europei oltremare. Ma anche perché l’eco dello scontro fra l’Africa araba e l’Africa Nera, fra islamismo, animismo e cristianesimo, dal Sudan all’Etio­ 26. Inacik, 1973, 1994, pp. 35-40. 27. Deschamps (a cura di), 1970, tome 1, pp. 15-26.

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pia, dalla Mauritania al Senegai, durato per secoli come rappresenta­ zione africana del più vasto conflitto fra Oriente e Occidente, non si è ancora spento. Né la scomparsa del secondo sistema imperiale e coloniale euro­ peo in Africa (araba e nera insieme questa volta) nel secondo dopo­ guerra, ha tagliato questa forma particolare di Nodo di Gordio, come ben dimostrano le lotte etnico-religiose che insanguinano varie parti del continente africano e che denunciano una reciproca irriducibilità alla quale l’Occidente europeo dovrebbe forse prestare maggiore at­ tenzione28. Nonostante le illusioni dell’immediato periodo post colo­ niale, la realtà è stata molto diversa da quella che immaginava Basii Davidson negli anni Settanta, quando ipotizzava un modello inter­ pretativo ideologico della Storia dell’Africa che non aveva riscontro nei dati e nei fatti29. Ma anche in questa fase particolare del confronto fra Occidente e Oriente, in cui l’Africa tende sempre più ad essere marginalizzata, quasi non si trattasse di una componente essenziale del Tricontinente su cui si svolge la “Storia”, emerge la differenza strutturale e concet­ tuale fra le due forme di comportamento politico e culturale delle po­ tenze marittime o oceaniche, rispetto a quelle continentali o terrestri. Ed è proprio nei confronti dell’Africa che questa diversità si ma­ nifesta in modo singolarmente evidente. Basterà fare un raffronto fra il destino delle ex-colonie francesi e dei possedimenti inglesi. I due maggiori imperi coloniali europei in Africa, costruiti fra il 1830 e il 1920, furono infatti quello inglese e quello francese. L’Africa, al Congresso di Berlino del 1885, venne suddivisa come una torta di mele e assegnata a chi era abbastanza forte e sufficientemente inte­ ressato, fra le Potenze europee, da impossessarsene30. Ebbene, le due maggiori potenze, che da sole conquistarono i quattro quinti del territorio africano, gli Inglesi e i Francesi, con il resto nelle mani dei tedeschi, belgi, italiani, portoghesi e spagnoli, andandosene dall’Africa alla fine degli anni Cinquanta e agli inizi degli anni Sessan­ ta di questo secolo, hanno lasciato un legato che, per gli Inglesi, è stato radicalmente diverso da quello lasciato dai Francesi, e anche da quello dei Belgi e degli Italiani. Gli Inglesi hanno abbandonato l’Africa senza lasciarvi tracce per­ manenti e soprattutto non ci sono mai più tornati. Non si sono curati 28. Sulle guerre tribali fra popolazioni Nilotiche dei Grandi Laghi e i popoli dell’etnia Bantu, vedi, fra l’altro, Evans G., 1997 e il numero speciale di Limes, n. 3, 1997. 29. Phillips (a cura di), 1995. 30. Davidson, 1974.

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del destino dei governi e dei popoli, che pure avevano governato in modo soddisfacente per quasi un secolo. Non hanno avuto tentazioni neocoloniali o interventiste, con l’infelice eccezione dell’intervento militare (insieme ai Francesi) a Suez nel 1956, quando peraltro era­ no ancora in piedi le strutture dell’impero. Totalmente opposto è stato invece il comportamento dei Francesi che hanno continuato ad esercitare un’influenza, tutto considerato positiva e calmieratrice, delle tensioni e dei conflitti interetnici, en­ demici nell’Africa Nera, sia col mantenere delle truppe di pronto impiego in diversi Stati africani, quanto coll’usare di tanto in tanto, anche la forza (su chiamata) per ristabilire un simulacro di ordine31. Non è peraltro da escludere che il progressivo sganciamento della Francia dalla sua politica di impegno africano, secondo le linee della nuova politica estera e strategica del governo di Parigi, comporterà l’aumento dell’instabilità nell’Africa Occidentale e Centrale. Le due scuole di dottrina, quella marittima e quella terrestre, po­ ste a confronto, hanno comunque dimostrato, anche nel caso-studio dell’Africa contemporanea, come la maggiore consapevolezza terri­ toriale e la costanza nella decisione politica e strategica non sia una caratteristica propria delle potenze oceaniche, ma invece di quelle prevalentemente terrestri. Questa considerazione ci riporta al tema delle ipotesi strategiche da predisporre, o almeno da immaginare, per il futuro politico dell’occidente e per la “ricostruzione” dell’Europa. Ci sembra cioè giunto il momento di procedere ad una rivisitazione della tradiziona­ le concezione strategica postbellica basata sull’ambivalenza terra­ mare, innestando al suo interno quella serie di ipotesi e di teorie che hanno pragmaticamente trasformato e integrato, durante la Guerra Fredda, il quadro dottrinale dell’Alleanza Occidentale e Atlantica, mettendo insieme le due ali della politica intemazionale (diplomazia e forza) in una più ampia sintesi operativa32. A questa ambivalenza dottrinale e strategica di tipo aeroterrestre e aeronavale, che è stata il patrimonio originario e costitutivo della Nato e che, se praticata in senso assoluto, comporterebbe la neces­ sità di dotarsi di un arsenale sovradimensionato, costoso e irrealizza­ bile sia per ragioni politiche che finanziarie, dovrebbe gradualmente sostituirsi, come caposaldo concettuale, una terza grande strategia, 31. Pakenham, 1991; Thornton, 1977. Si vedano, a questo proposito, i numeri dedicati all’Africa Nera, e ai suoi conflitti, dalle due riviste di geopolitica più note in Italia (Limes, n. 3, 1997) e in Francia (Hérodote, n. 86-87, 1997). 32. Craig e George, 1990; Gaddis, 1997; Crockatt, 1995.

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flessibile, quella che unisce politica e guerra nella costruzione di una forma metastrategica del “potere aereo”, non già ristretto nei lacci della dottrina e dell’uso dell’arma aerea in quanto tale33, ma invece inteso come una teoria generale, quella della “filosofia della deterrenza”, convenzionale e nucleare, nelle sue due forme classiche della deterrenza by denial e by punishment34. L’uso della categoria analitica del “potere aereo”, così come quel­ le del “potere terrestre” e del “potere marittimo”, è di tipo simbolico e va calibrato in un ambito più generale di quanto non sia quello strettamente strategico. Si tratta infatti di grandi metafore della poli­ tica e delle sue forme principali, agganciate, molto blandamente, ai criteri della loro territorializzazione. Il “potere aereo”, in questa chiave di lettura, rappresenta la “vir­ tualità” della politica intemazionale, libera dai vincoli della localiz­ zazione e parzialmente anche dalla eterna contraddizione terra-mare. Non è in grado, da solo, di sostituirsi alle altre due forme della poli­ tica, quella d’ispirazione terrestre oppure navale, tuttavia ne comple­ ta e ne integra la funzionalità assegnando loro un compito aggiorna­ to e flessibile. Consente, in un quadro tendenzialmente globale, di concepire delle ipotesi di iniziativa politica che attraversano gli spa­ zi regionali per organizzare operazioni complesse e polivalenti. Contrariamente alle tradizioni originarie, infatti, il “potere aereo” ha trovato la sua effettiva operatività concettuale nel discrimine del­ la frontiera fra pace e guerra, a seguito dell’acquisizione del “potere nucleare”, composto dalla sintesi sinergica fra fuoco nucleare e vet­ tori missilistici35. La presenza della nuova “misura” del potere, quel­ lo nucleare, ha così modificato drasticamente la relazione guerra-pa­ ce, innestandovi delle nuove dimensioni politiche e nuovi gradini nella gerarchia dell’azione politica intemazionale. Il raccordo interattivo fra le due autonome proiezioni geopolitiche del potere strategico, quella “aeroterrestre” e quella “aeronavale”, in cui il potere aereo svolge solo una funzione di supporto al potere terrestre o marittimo, potrebbe quindi essere riconcettualizzato attra­ verso l’uso dell’equazione generale “deterrenza/compellenza ”36, uti­ lizzando cioè la leva della teoria globale del “potere aereo”, confi33. Nardi, Bullough, Nardi, 1974; Freedman, 1981; Jervis, 1977. 34. Gooch, 1995; Mearsheimer, 1983. Vedi anche Eurac, 1997, sulla dottrina eu­ ropea del “Potere Aereo”. 35. Bobbitt, Freedman, Treverton (a cura di), 1989; Carter, Steinbruner, Zraket, 1987; Steiner, 1991; George, Smoke, 1974. 36. Fredman, 1981.

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gurata in senso contemporaneo, come deterrenza strategica primaria e come forma generale di gestione delle crisi per metaforizzare la politica intemazionale tout court31. Si tratta quindi di impiegare una formula concettuale e operativa che risponda alla domanda teorica del presente politico e che, al tempo stesso, possa diventare - se manovrata con prudenza e abilità - lo scalpello politico destinato a facilitare la frammentazione ten­ denziale dell’unità eurasiatica. La teoria generale della deterrenza/compellenza, derivata dalla dottrina del potere aereo, potrebbe infatti sostituirsi alla vecchia dot­ trina del “containment” che, anche in versione aggiornata, è del tutto insufficiente a risolvere alla radice il problema di Eurasia, proprio perché non intende affrontarlo in termini sia concettuali che operati­ vi conseguenti37 38. L’interpolazione della teoria aggiornata del “potere aereo”, all’intemo della diade “potere terrestre” e “potere marittimo”, non è dun­ que un abuso intellettuale, in quanto rappresenta almeno potenzial­ mente un vero e proprio salto concettuale e paradigmatico rispetto al passato, arricchendo lo strumentario analitico a disposizione per una utile lettura critica del sistema intemazionale. Potrebbe, in altri termini, assumere la forma di un progetto com­ plessivo della strategia di Occidente, non solo come “verticalisa­ tion” del potere nel senso di Paul Virilio3940 , ma anche come unifica­ zione dell’irrisolto rapporto fra “forza” e “diplomazia”, vale a dire fra le due forme operative classiche della politica intemazionale41. 37. Schelling, 1960, 1966; Goldfischer, 1993; Rosen, 1991; Ullman, 1995. 38. Brecher, 1993; George (a cura di), 1991. L’interazione fa i due filoni analiti­ ci della “deterrenza” e del “crisis management” è una conquista scientifica del pe­ riodo bipolare allorché il problema “pace-guerra” diventò una costante della politi­ ca quotidiana e si perpetuò nel tempo. La fine della guerra fredda ha separato le due questioni dottrinali, assegnando un ruolo di primo piano alle questioni di “crisis management”, quasi che quelle della “deterrenza”, rese temibili dalla minaccia nu­ cleare ad essa correlata, fossero da rimuovere dall’inconscio collettivo del mondo. Il progetto ICB (International Crisis Behaviour), iniziato fin dal 1975 da Mi­ chael Brecher ed altri studiosi, è certamente il più completo sforzo di concettualiz­ zazione e analisi empirica della “Teoria delle Crisi”, anche se non è stato il primo. Si veda, a questo proposito, Brecher e James, 1986; Brecher, Wilkenfeld, Moser (a cura di), 1988; Brecher e Wilkenfield, 1989. Per un’analisi pionieristica della teoria delle crisi intemazionali si rinvia a Her­ mann, 1972; ma anche a Lebow, 1981; Il legame fra deterrenza e crisi è bene illu­ strato da Lebow, 1987; Per uno studio della Teoria delle crisi intessuta di casi stu­ dio si veda Richardson, 1994 nonché Roberts, 1988 e anche Lebow e Stein, 1994. 39. Deibel & Gaddis (a cura di), 1986. 40. Virilio, 1971.

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Nella concezione politica dell’Atlantismo, infatti, l’ambivalenza non risiedeva solo nella commistione operativa di matrice “interforze” fra la dottrina aeroterrestre e la dottrina aeronavale. Questa di­ versità, adattata ai diversi teatri operativi, è infatti più che legittima. D’altra parte, anche l’assegnazione al concetto di “potere aereo” di uno spazio strategico definito, ma non esclusivo, in alcune fasi dell’ipotetico conflitto, corrispondeva peraltro alle necessità operati­ ve e al disegno dottrinale d’insieme. Ciò che in quell’esperienza mancava - e manca tuttora - è invece l’uso politico permanente della relazione fra “guerra”, “deterrenza” e “pace”, che può essere interpretata ormai come una dimensione virtuale del “potere aereo”. L’interazione fra questi tre termini è piuttosto complessa e presen­ ta qualche difficoltà perché la “deterrenza” non è solo una “moda­ lità” dell’agire politico e strategico, ma invece si colloca, come una vera e propria “forma” - o meglio - come uno “status” del sistema politico a mezza strada fra la pace e la guerra. La “compellenza” in­ vece, che è il rovescio operativo della “deterrenza”, rappresenta, nel nuovo sistema post-bipolare in corso di formazione, uno strumento innovativo, consapevole e quindi utilizzabile, che potrebbe, nel caso fosse analizzato a fondo nelle sue componenti, diventare un metodo d’azione standard, se non addirittura una procedura politica norma­ le, qualcosa come un aggiornamento della diplomazia classica41. Per giungere a questa conclusione è però necessario aggiustare il ti­ ro su alcuni concetti come quelli di “pace”, “guerra”, e “deterrenza”, e in particolare verificare la relazione che esiste fra le dottrine strategi­ che (terra, mare, cielo), intese con significato politico aggiornato42. È consigliabile allora usare quel metodo che alcuni “storici nomotetici”, in quanto contrapposti agli “storici idiografici”, usano defini­ re come una metodologia cross-historical, cioè come una serie di casi studio tratti dal passato da utilizzare come “evidences” per te­ stare delle ipotesi sul presente, verificarne la probabilità, oppure de­ cidere di abbandonarle43. L’uso di concetti definiti solo recentemente infatti può essere utile per trovare assonanze e difformità fra il passato e il presente, a parti­ re dalla classica comparazione fra il sistema bipolare postbellico e la 41. Per una definizione del concetto di “compellenza” si rinvia ancora a Schel­ ling, 1960, 1966. 42. Craig e George, 1990; Santoro, 1988, pp. 127-159; Lebow e Strauss (a cura di), 1989. 43. Hattendorf e Jordan (a cura di), 1989.

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Guerra del Peloponneso44, stabilire “precedenti”, trovare soluzioni45. Lo stesso argomento vale per un’analisi aggiornata delle teorie strategiche classiche, così come di quelle moderne. Possiamo chia­ mare “classiche” quelle teorie o dottrine che si basavano sulla tradi­ zione del pensiero strategico fino alla scoperta dell’energia nucleare e della missilistica balistica e spaziale, mentre possono essere defi­ nite come “moderne” quelle che sono state elaborate e raffinate nel mezzo secolo che ci divide dalla seconda guerra mondiale, e che hanno tenuto conto dell’esistenza dell’arma nucleare46. La distinzione è assai netta, così come è cospicua anche la distin­ zione spaziale fra teorie strategiche marittime o terrestri, in correla­ zione con la distinzione temporale fra deterrenza “convenzionale” e deterrenza “nucleare”47. In effetti, la vera grande innovazione strategica del Novecento non è stata la scoperta della “verticalisation”, cioè la definitiva tridi­ mensionalità spaziale della strategia con l’avvento del “potere ae­ reo”. Tanto è vero che VAir-Power, nella sua versione più comune, si è rivelato, tutto sommato, un semi-fallimento, come ha dimostrato anche lo “Strategie Bombing Survey”, elaborato dopo la seconda guerra mondiale48, nonché la tattica dei bombardamenti americani nel Vietnam, un quarto di secolo dopo49. Il significato innovativo della dottrina dell’Air Power è invece rintracciabile nella strategia combinata della “Massive Retaliation”, ovvero della “Mutual Assured Destruction” nucleare, inserita all’intemo della “teoria politica” della deterrenza, che ha caratterizzato il tempo della Guerra Fredda, fra il 1945 e il 199050. Il Potere Aereo, ovvero il “Dominio dell’aria” di douhettiana me­ moria, ha infatti trovato un senso compiuto solo nella strategia della 44. Natoli et al., 1974, pp. XV-LX. 45. Lebow & Stein (a cura di), 1994; Kagan, 1995. 46. Papayoanu Paul A., 1996, “Interdependence, Institutions, and the Balance of Power: Britain, Germany and World War I”, International Security, vol. 20, n. 4, pp. 42-76; Kier Elizabeth & Mercer Jonathan, 1996, “Setting Precedents in Anar­ chy: Military Intervention and Weapons of Mass Destruction”, International Secu­ rity, vol. 20, n. 4, pp. 77-106. Vedi anche Aron, 1976; Murray, Knox, Bernstein, 1994. 47. Paret, 1986; Santoro, 1988; Freedman, 1981; Chaliand, 1990; Murray, Knox, Bernstein, 1994. 48. Sulle definizioni di “deterrenza convenzionale” si rimanda a Mearsheimer, 1983, ma anche ad Aron, 1976 e a Schelling, 1960, 1966, pp. 14-66. 49. Brody, 1946; Steiner, 1991; US Strategie Bombing Survey, 1976; Bobbit, Freedman & Treverton, 1989, pp. 2-45. 50. Kamow, 1984; Nalty (a cura di), 1996, e letteratura sul Vietnam.

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deterrenza (e della guerra) nucleare51. Ma la sua vittoria è stata anche il segno del suo limite operativo, perché il rischio del bombardamen­ to strategico nucleare, che certamente avrebbe la possibilità di risol­ vere la questione della prevalenza, e anzi della priorità dell’Aeronau­ tica sulle altre Forze Armate, ne condiziona in modo drastico l’uso e fa sì che il disegno strategico venga essenzialmente affidato alla “mi­ naccia” dell’uso della forza, piuttosto che al suo “impiego” effettivo. La sproporzione fra obiettivi politici e uso dell’arma nucleare ne ha infatti ridotto la fruizione operativa militare esaltandone invece quella, altrettanto importante, di strumento essenziale della diploma­ zia intemazionale delle Grandi e delle Medie Potenze52. Ma se que­ sta è la forma primaria del potere aereo, va anche detto che, nella quotidianità della politica intemazionale, la deterrenza nucleare, so­ prattutto dopo la fine del bipolarismo, è diventata, almeno in questa fase, sempre meno rilevante. Anzi, lo strumento nucleare sembra essere, provvisoriamente, inu­ tilizzabile perché nel disordine postbipolare, dominato da processi di “diffusione di potenza”53, il problema odierno della deterrenza com­ porta l’uso (o la minaccia d’uso) convenzionale della forza aerea (come in Bosnia, nella operazione Deny Flight, o nella Strong De­ termination della Nato), integrata con le altre forme di deterrenza “by punishment” del “potere strategico” (navale e terrestre). Queste recenti esperienze di “deterrenza” convenzionale, sia di quelle riuscite come di quelle fallite (Libia e Siria nel primo caso, Iran e Iraq nel secondo), hanno dimostrato che, contrariamente alla tesi ancora pochi anni fa sostenuta da alcuni autori, i due concetti di deterrenza, quella “by denial” e quella “by punishment”, si sono ro­ vesciati nel loro significato. Mentre nella tradizione teorica della Guerra Fredda “la deterrenza basata sulla punizione era normalmen­ te associata alle armi nucleari” il campo di battaglia era considerato difendibile solo con armi convenzionali, cioè con il metodo dell’in­ terdizione (by denial), gli eventi degli ultimi anni hanno messo in luce come la deterrenza by punishment possa essere usata anche con armi convenzionali. La conversione del contesto politico e strategico intemazionale, dalla priorità del nucleare alla prevalenza del convenzionale, non è tanto dovuto alla scomparsa degli arsenali nucleari delle principali 51. Freedman, 1981. 52. Douhet, 1921, 1955. Si veda anche l’ottima sintesi di Brodie, 1959, pp. 21145, davvero innovativa dal punto di vista concettuale. 53. Freedman, 1981; Brodie, 1959; Kissinger, 1957; Rotberg, Rabb (a cura di), 1989; Santoro, 1988.

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potenze detentrici di armi atomiche (che anzi stanno arricchendosi per la minacciosa crescita del fenomeno della proliferazione nucleare) quanto alla diminuita probabilità che le armi nucleari possano, in que­ sta fase, essere minacciosamente brandite da chiunque le possegga. Semmai il vero pericolo sta proprio nello spazio strategico vuoto, e quindi nel vuoto di sicurezza che si è creato in alcune regioni del mondo, inclusa l’Europa Orientale, proprio a seguito della fine del confronto bipolare che si esprimeva in termini di duello nucleare. Tutto ciò crea le premesse per la ricostruzione di scenari d’insta­ bilità relativa per i quali è necessario prevedere l’uso combinato dei tre poteri (marittimo, aereo e terrestre) intesi in senso aggiornato, fi­ nalizzati a mantenere l’equilibrio fra gli attori maggiori e la compa­ tibilità delle alleanze. Nel quadrante europeo postbipolare questa nuova situazione d’in­ stabilità relativa indica un grado di pericolosità potenziale abbastan­ za elevato. Tutte le teorie del “containment”, basate sulla controlla­ bilità del mare e sul mantenimento di teste di ponte sui bordi delle landmass (le Rimlands ovvero 1’Inner e V Outer Crescent di Spykman e di Mackinder)54, non hanno più troppo senso ora che sono ca­ dute le ragioni marittime e difensive della Guerra Fredda. Così co­ me, d’altra parte, si stanno rapidamente esaurendo le illusioni di un ordine pacifico mondiale succeduto alle tensioni del bipolarismo55. Vale quindi il caso di ipotizzare una ulteriore possibilità, quella di legare in modo sistematico la teoria della deterrenza nucleare, intesa come dottrina strategica, alla teoria della politica estera degli attori singoli o delle alleanze, secondo la lettura della scuola francese (De Gaulle, Beaufre, Gallois, ecc.5657 ). Si darebbe così maggior corpo, e perfino una funzione di stabilizzazione politica e di crisis prevention, ad uno strumento strategico assoluto, quale è appunto l’arma nuclea­ re, invece di limitarsi a considerarla come un elemento della tradizionale funzione deterrente bipolare di war avoidance51. 54. Mearsheimer, 1983, p. 15. 55. Mackinder, 1904; Spykman, 1942. 56. Beaufre, 1963, 1965; Gallois, 1990; De Gaulle, 1970. 57. Oltre al troppo noto testo di Fukuyama, 1992, si rinvia al ben più interessan­ te volume di Gray, 1988 che, essendo stato pubblicato un anno prima dalla caduta del Muro di Berlino, non ha avuto il successo che avrebbe dovuto avere. Il volume prende in considerazione proprio i concetti strategici di Oceania (gli Stati Uniti) e di Eurasia (FUnione Sovietica), analizzandone limiti e prospettive. Si vedano in particolare i capitoli Terzo, Ottavo, Decimo e Tredicesimo che studiano alcune for­ mule strategiche essenziali come: Sicurezza, Rimland, Containment e Rollback, che erano appunto la più puntuale rappresentazione del disegno di lungo termine che una potenza marittima globale poteva immaginare.

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La trasformazione della dottrina della “deterrenza”, da strumento bellico ad attrezzo politico, è però un’operazione molto complessa perché comporta l’uso combinato di più concetti. Anzitutto quello di deterrenza, come forma attualizzata del potere aereo e strategico nu­ cleare. In secondo luogo quello della transizione della deterrenza dal regno globale della minaccia d’uso dell’arma nucleare all’assunzio­ ne della deterrenza convenzionale come attrezzo specializzato e mi­ rato alla soluzione di “casi” particolari, in funzione di “prevenzione” o di “gestione” delle crisi intemazionali e dei conflitti di area58. La deterrenza nucleare resta dunque sullo sfondo ma non scompa­ re, mentre la deterrenza convenzionale acquista sempre più peso e sofisticazione nei concetti e nei mezzi operativi. In un certo senso la società intemazionale è stata obbligata, negli ultimi anni, ad assume­ re gradatamente, ma in modo sempre più netto, questa posizione ob­ bligando le maggiori potenze a specializzare le forze e ad usare sempre più spesso la deterrenza convenzionale, con alterni successi, come è accaduto nel Golfo, in Somalia e in Bosnia. Ne deriva, in terzo luogo, che accanto alla deterrenza convenzio­ nale “by denial”, sempre più determinante diventa quindi la deter­ renza “by punishment”. In altre parole la teoria della “deterrenza”, dal momento che si sta trasformando sempre più in teoria dell’inter­ vento con funzioni di prevenzione, ma più spesso di repressione del­ le crisi intemazionali che traboccano in conflitto, sotto le spoglie di formule esigenzialiste come “peace-keeping” o “peace-support” o “peace-enforcement”, fino all’eufemismo del “peace-making”, tende sempre più a far interagire la diade “deterrenza-compellenza” in senso favorevole alla “compellenza”. Questo concetto, che in linguaggio istituzionale è definito con formule come “Peace-Keeping” ovvero “Peace Enforcement”59, in realtà definisce e ricomprende al suo interno il duplice concetto dissuasivo-compulsivo che era stato studiato dai primi maestri del pen­ siero strategico bipolare e nucleare, a partire da Bernard Brodie in poi, e quindi, con più rigore analitico, da Thomas C. Schelling e da Herman Kahn. Con la sostanziale differenza, tuttavia, che per gli strateghi della prima età nucleare il concetto di “compellence” andava ad ogni co­ sto tenuto separato dal concetto parallelo di “deterrence”, in quanto 58. Beaufre, 1963, 1965; Gallois, 1990, per una teoria della deterrenza nucleare nazionale, come la “force de frappe”, ma anche Poirier, 1985, e soprattutto Aron, 1962, 1970, ed. it.; Kahn, 1965; Osgood, 1979; Quester, 1966. 59. Knorr (a cura di), 1976.

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l’impiego compulsivo del fuoco nucleare era da considerarsi impro­ ponibile perché avrebbe avuto un effetto distruttivo inaccettabile60. “If deterrence fails” era la terribile e minacciosa formula che na­ scondeva l’ipotesi della necessità della “compellence” nucleare, as­ soluta o limitata, tanto nella brutale strategia della “Massive Retalia­ tion” (1954), quanto nella più sofisticata teoria della “Mutual Assu­ red Destruction” (1960), e finalmente nella, tanto subdola quanto pericolosa, ipotesi strategica americana, assunta poi ufficialmente dalla Nato, della cosiddetta “Flexible Response” (1967) o, più tardi, della “Countervailing Strategy”(1979)61. Il concetto di “pace del terrore” si basava appunto sull’effettopaura contenuto nella minaccia di risposta nucleare ad atti aggressivi dell’avversario, lasciando peraltro irrisolta la questione della even­ tualità di un atto-irrazionale, accidentale o “preemptive”, che avreb­ be potuto provocare 1’“Olocausto nucleare”62. Si trattava sostanzialmente di una teoria strategica difensivo-controffensiva, tipica della tradizione marittima anglosassone, che ipo­ tizzava 1’esistenza di una costante minaccia da Est, ed elaborava la necessaria risposta ad essa correlata. Tale assunto strategico ipotizza­ va quindi 1’esistenza di un doppio stallo incrociato dovuto essenzial­ mente all’impossibilità materiale di trasformare la “deterrenza” nu­ cleare in “compellenza” nucleare, se non a patto di tragiche e inim­ maginabili conseguenze63. Non così ora che ha preso corpo la parziale conversione della de­ terrenza dall’ambito nucleare a quello convenzionale. Oggi, infatti, la “compellenza” è diventata uno strumento politico-strategico rela­ tivamente praticabile, e anzi viene spesso praticata in quanto tale. Essa si avvantaggia del fatto che la compellenza convenzionale può ammantarsi di principi etici tratti dal diritto intemazionale, e so­ prattutto si affida alla certezza che gli attori sottoposti a compellen­ za, come l’Irak, la Somalia o la Bosnia, non hanno la capacità mili­ tare per reagire innalzando il livello del conflitto fino allo scambio nucleare. Tuttavia la classica filosofia della “difesa/reazione”, tipica della Guerra Fredda, ovvero quella basata sulla classica formula “delitto e castigo”, del doppio scambio nucleare (primo colpo-se­ condo colpo), non è del tutto scomparsa. 61. Brodie, 1946; nonché Schelling, 1960, 1966; Kahn, 1960, 1965; Brodie, 1959; Santoro, 1984, 1988. 62. Bobbitt, Freedman, Treverton, 1989. 63. Si veda l’abbondante letteratura sulla “guerra catalitica” ovvero sulla “guerra preemptiva” che ha inondato il mondo nel periodo della guerra fredda. In particola­ re: Allison, Camesale, Nye, 1985.

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In primo luogo perché gli arsenali nucleari delle Grandi Potenze, sia pure ridotti, sono ancora dotati di una notevolissima capacità di “overkill”, cioè di annientare più di una volta la popolazione dell’in­ tero globo645. In secondo luogo perché il fenomeno della “diffusione di potenza”, che sta caratterizzando il mondo postbipolare, ha un ri­ svolto preoccupante nella “proliferazione nucleare”, che investe un considerevole numero di potenze medie dell’ex Terzo Mondo64 65. Resta comunque il fatto che la politica della “compellenza” con­ venzionale ha un senso politico importante, al di là dei suoi altissimi costi, che non tutti gli attori, neppure quelli maggiori, sono o saran­ no disposti a pagare nel futuro. La sola condizione che induce le po­ tenze più rappresentative a sobbarcarsi gli oneri della competenza è quella che si tratti di un processo politico condiviso e “indivisibile”. Che preveda cioè una capacità e una disponibilità all’intervento ri­ spondente alle esigenze di stabilità, prevenzione e gestione dei con­ flitti, secondo le regole delle istituzioni intemazionali o delle coali­ zioni di stati che ad esse si attengono66. Nel caso in cui, invece, questa “generalità”, e quindi con essa T “indivisibilità” della compellenza convenzionale, non venisse ap­ plicata, allora l’intero castello di carte della “crisis prevention” del “crisis management” e del “peace enforcement” verrebbe a crollare sotto i colpi della parzialità e dell’ineguaglianza. È questa, infatti, la debolezza principale della costruzione delle Nazioni Unite, che ha sostanzialmente fallito il suo compito di paci­ ficatore anche nella fase post-bipolare. Ma è la stessa debolezza strutturale che colpisce la Nato e l’Unione Europea, ovvero l’Occi­ dente nel suo complesso67, quando si sforza di “normalizzare” il mondo esclusivamente sulla base dell’applicazione generalizzata delle regole del gioco istituzionale di stampo anglosassone68, senza avere però, nel contempo, né la capacità né la volontà (perché non ha costruito i relativi parametri concettuali) di intervenire sulla Landmass eurasiatica per le stesse ragioni per le quali, invece, è in grado di intervenire sulle Rimlands costiere. In altri termini, il limite 64. Kahn, 1962. 65. Rosenberg, 1983, a. 7, n. 4, pp. 3-71; Mazarr, 1995. 66. Santoro, 1988, pp. 21-48; Waltz, 1985; Iklé, 1996, pp. 119-128; Santoro, 1995b. 67. Gompert, Watman, Wilkening, 1995. 68. Gupta Raj, 1993. Si veda in particolare il numero di Survival, voi. 37, n. 4, dedicato a “Conflict, Diplomacy and Intervention”, con articoli di A. Roberts, S. Hoffmann, S. Tharoor, C. Bertram e Y. Akashi, pp. 7-130.

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d’uso della compellenza convenzionale è quello di essere un’ennesi­ ma forma di “containment” di Eurasia, senza alcuna possibilità, nep­ pure concettuale, di agire sul contesto strutturale della territorialità complessa del macrocontinente. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è riscontrabile nel diverso comportamento assunto dagli Stati Uniti nei confronti della crisi dell’ex Jugoslavia e nei confronti della crisi nella Cecenia russa. Nel primo caso, dopo molte tergiversazioni dovute allo spirito unilateralista e neoisolazionista che affiorano all’intemo degli Stati Uniti, gli Americani (e gli Europei al loro seguito) hanno deciso di esercitare un’azione di compellenza diplomatico-militare in Bosnia, dopo aver provveduto a riconoscere la secessione delle repubbliche federate della ex Jugoslavia. Nel secondo caso, invece, nonostante si trattasse di un episodio secessionista all’intemo della Federazione Russa, da questa combat­ tuto con l’impiego massiccio delle armi, l’atteggiamento degli Ame­ ricani (e degli Europei in seguito) è stato di benevola anche se imba­ razzata comprensione, ovvero di rimozione collettiva. Tale comportamento schizofrenico non è però dovuto - come si potrebbe pensare - solo ad opportunismo politico, ovvero alla “Ra­ gion di Stato”, ma invece al fatto, più immediatamente evidente, che nessun paese occidentale, e in particolare gli Stati Uniti, è oggi in grado di concepire un’ipotesi di azione “compellente” nei confronti della Russia, intesa come “titolare” di Eurasia, del tipo di quella esercitata contro l’Irak nel Golfo nel 1991 o in Bosnia nel 1995. Questa impotenza concettuale ed operativa è ben visibile nell’in­ certa diplomazia che viene dispiegata nei confronti della Russia e dell’Europa Orientale da parte degli Stati Uniti e degli Europei. Nel quadro della Nato, in particolare, la questione della “Partnership for Peace”, che è un surrogato ambivalente dell’adesione all’Alleanza da parte di alcuni paesi dell’ex-Patto di Varsavia, ovvero la legitti­ mità dell’intervento Nato in Bosnia, per non dire di quello, ancora più difficile da classificare, della coalizione ad hoc guidata dall’Ita­ lia e costituita per l’intervento ih Albania nel 1997, sono oggetto di attenzione ma non di riflessione69. In effetti i limiti della compellenza convenzionale, e in particolare i rapporti di questa con la diplomazia, sono ancora molto significati­ vi. Soprattutto la relazione fra compellenza “convenzionale” e com69. Spinto da inesausto entusiasmo c’è perfino chi si affretta a proporre modelli teorici “neoistituzionalisti” per i due colossi eurasiatici in fase di transizione, vale a dire, Russia e Cina: Solnick, 1996.

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pellenza “nucleare” resta molto stretta e può diventare pericolosa qualora si trattasse di imporre a qualcuno di fare qualcosa che non vuol fare, e quel qualcuno sia dotato di armamento nucleare o NBC. Tuttavia, una tale argomentazione, pur logica e comprensibile, non è del tutto convincente perché non considera alcuna alternativa possibile alla “compellenza”, se non 1’“appeasement”. È un’alterna­ tiva, questa, assai squilibrata, che produce spesso degli effetti per­ versi. Basterà rileggersi la storia degli anni fra le due guerre per ricono­ scere i segni di questa drammatica alternativa fra “compellenza” e “appeasement”. Né poteva andare diversamente se, come spesso ac­ cade, la politica della “compellenza” è generalmente il risultato del­ le situazioni di emergenza mentre 1’“appeasement” è dettato dalla sensazione che gli interessi vitali non siano in pericolo, nonché dal timore che lo sforzo compulsivo sia troppo pericoloso per la posta in gioco. Con l’esito finale di essere costretti ad utilizzare la compel­ lenza quando è troppo tardi per evitare la guerra poiché il preceden­ te “appeasement” aveva già esaurito ogni spazio di manovra diplo­ matica. Gli esempi di questa logica ferrea delle democrazie maritti­ me o assimilate, sono molteplici70. D’altra parte una lettura più attenta della dottrina strategica ame­ ricana del “containment” nei confronti dell’Unione Sovietica, che ha guidato concettualmente la politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti nei cinquanta anni di guerra fredda, non fa che confermare l’ipotesi che anch’essa, nonostante i compiti globali che pure si era assegnata, non è stata altro che il prodotto aggiornato del pensiero strategico marittimo classico71. Sarebbe quindi necessaria, ove possibile, una revisione radicale della dottrina marittima, intesa come matrice “naturale” della politi­ ca estera. Essa infatti vincola fortemente lo spazio di manovra della politica e non consente in alcun modo l’intervento sistematico, di­ retto e indiretto, dell’occidente nel destino territoriale e politico di Eurasia e dello Heartland. Questa ipotesi strategica revisionista della dottrina politica dell’occidente, da marittimo-insulare, secon­ do la lezione anglosassone, a mista, ovvero peninsulare, secondo la lettura geostorica e culturale dell’Europa, presuppone però che il 70. Si veda il numero di Survival (1996, voi. 38, n. 1), interamente dedicato a “Nato, European Security and Transatlantic Relations” con articoli di P. Zelikov, N. Gnesotto, P.H. Gordon, R.P. Grant, C. Barry, N. Williams e R. Joseph che affronta­ no la materia da un punto di vista occidentale. 71. Carr, 1939, 1946, 1978; Gaddis, 1982, 1997.

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controllo di “Oceania”, e in particolare di quella sua parte che ab­ biamo chiamato “Atlantide”, non sia più solo il riflesso dell’egemo­ nia di un unico attore egemone, di cultura essenzialmente maritti­ mo-insulare, come sono gli Stati Uniti. Sarebbe infatti necessario per l’Occidente che l’egemonia marittima venisse temperata dall’integrazione del pensiero terrestre o continentalista, fino al rag­ giungimento di un giusto equilibrio “misto” che è proprio della condizione peninsulare. E ciò anche se gli Stati Uniti, mutuando concetti dalla grande tradizione del pensiero marittimo relativo alla teoria della “fleet in being”, ovvero della “Riskflotte”72, hanno già in parte modernizzato e affinato, primi fra tutti, l’antica pratica del­ la “deterrenza” trasformandola in teoria politica, sia nella versione nucleare che in quella molto meno sofisticata, della “compellenza” convenzionale7374 . Le formule della deterrenza “by denial” o “by punishment”, nella cornice teorica che abbiamo ipotizzato, potrebbero indubbiamente rappresentare un punto di partenza concettuale importante per elabo­ rare, nell’età postbipolare, una serie di concetti più complessi, a par­ tire da quello di “deterrenza politica”, che ha funzionato egregia­ mente durante la Guerra Fredda, e che è diretto a minare le basi di legittimità e di potenza dell’avversario attraverso la specularità e la competitività, ma anche attraverso l’egemonia economica o tecnolo­ gica, del modello di confronto745, nonché mediante l’appoggio siste­ matico alle spinte centrifughe interne ai diversi sistemi imperiali eu­ rasiatici75. Il concetto di “deterrenza politica” s’innesta bene all’interno del processo di evoluzione delle teorie sulla politica estera e sul sistema intemazionale in questa fase postbipolare76. Beneficia, infatti, con­ temporaneamente della doppia valenza, quella della guerra e quella della pace, pur senza essere né l’una né l’altra. In questo senso l’evoluzione del sistema intemazionale, da “sistema di guerra” bipo­ lare77 a sistema postbipolare a conflittualità diffusa, comporta l’ap­ plicabilità della logica sequenziale “Pace - Deterrenza - Compellen­ za - Guerra”. 72. Hattendorf e Jordan, 1989. 73. Tirpitz, 1920; Gray, 1992; Mahan, 1890, 1965, ecc. 74. Sloan, 1988; May, 1973; Spykman, 1942, 1970. 75. Santoro, 1997; Jean, 1994; Jean e Savona, 1996. 76. Grousset, 1970, ed. ingl.; Chaliand, 1995. 77. Hermann, Kegley e Rosenau, 1987; ma anche Brecher e Wilkenfeld, 1988; nonché Allison, 1971.

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7/ continuum “pace-guerra ” e le funzioni della “deterrenza-compellenza ” politica e militare

Il continuum “pace-guerra”, che racchiude al suo interno l’intero campo delle relazioni intemazionali78, non sarebbe però completo se non fosse integrato dai due concetti generali di “deterrenza-compel­ lenza” che rappresentano rispettivamente le fasi “ordinarie” e - si potrebbe dire - la vita quotidiana, sia della Pace (attraverso la De­ terrenza) sia della Guerra (attraverso la Compellenza) che, a loro volta, potrebbero essere considerate come le fasi “straordinarie” del­ la vita associata intemazionale e delle relazioni fra Stati, Alleanze e Istituzioni. In sostanza, la relazione P-D (Pace-Deterrenza) costituisce l’am­ bito dell’azione diplomatica degli attori intemazionali, sia in termini di spazialità e di uso della politica, sia in termini di interscambio fra competizione e cooperazione79, mentre la relazione C-G (Compellenza-Guerra) costituisce il campo d’azione della forza nelle relazio­ ni intemazionali, e al tempo stesso ne stabilisce il carattere e fissa la graduazione degli interventi. Il rapporto alternato e biunivoco fra Pace e Deterrenza rappresenta, comunque, molto esplicitamente, la filosofia profonda del pensiero marittimo, con la sua idea portante basata sul “controllo” del mare, e, per converso, sulla “fleet in being”, strumento principe e tradizionale della deterrenza politica navale, forma della diplomazia espansiva e imperiale, cui corrisponde sul versante opposto, quello della Compel­ lenza e della Guerra, la tradizionale “politica delle cannoniere” oggi rinverdita nelle missioni di Peace-keeping e Peace-enforcement. Nel Novecento però questa relazione, da eminentemente strategica è diventata soprattutto politica, ed è entrata a gonfie vele nello stru­ mentario della filosofia istituzionale delle organizzazioni universali, come la Società delle Nazioni o le Nazioni Unite, che addirittura nel linguaggio giuridico del Covenant (1919) e della Carta (1945), han­ 78. Santoro, 1988, pp. 127-168. 79. Aron, 1962. 272

no adottato il concetto di “minaccia” alla pace come forma “mali­ gna” della “Deterrenza” che rappresenterebbe invece, almeno nelle intenzioni, la forma “benigna” di allontanamento dalla Pace. La Deterrenza, infatti, previene e distoglie, dimostra potenza e frena il potenziale avversario, senza peraltro dare prova di sé fino al momento della verità costituito dal “denial by punishment”. Questa azione, però, trasforma il rapporto, innescando la seconda diade del­ la sequenza, cioè quella della “Compellenza-Guerra”. In altre parole, la diade “Pace-Deterrenza” esiste fintanto che non è davvero messa alla prova: decade quando è costretta a misurarsi con la “punizione” che ne trasforma la natura in “Compellenza-Guerra”. Anche sotto questo aspetto tuttavia il modello “Pace-Deterrenza”, che è stato alla base del sistema bipolare della Guerra Fredda, non è altro che il portato della cultura marittima. La dottrina strategica della Nato, che di questa cultura è stata forse la forma più alta, pre­ vedeva infatti, nel caso in cui la deterrenza fosse fallita, l’impiego graduato, ma pur sempre esorbitante, degli arsenali nucleari attraver­ so l’attuazione della dottrina della “Risposta Flessibile”, che iposta­ tizzava l’automatico passaggio dalla pace “virtuale” della deterrenza alla guerra “effettiva” della compellenza80. Né valeva a mitigare la brutalità del passaggio dalla pace alla guerra la teoria, dimostrativa solo nelle guerre convenzionali (e nep­ pure in tutte), della cosiddetta “intra-war deterrence”, la cui dinami­ ca ipotetica non è di per sé autonoma, ma solo funzionale rispetto alle necessità del conflitto. “In sostanza, un sistema intemazionale che ha per fine la coppia di concetti ‘Pace-Deterrenza’, nel momento in cui entra nell’area del conflitto perde la sua ragion d’essere e si trasforma in qualcos’al­ tro”81. Ma soprattutto - bisogna aggiungere - entra in un mondo di cui non conosce né le coordinate spaziali, né le regole del gioco. È stato questo, infatti, il limite strutturale delle teorie marittime e delle dottrine “ordiniste” che hanno per fine ultimo quello della “si­ curezza collettiva”, premessa indispensabile della pace universale82. La loro debolezza risiede proprio nell’incapacità di competere in un environment spaziale diverso, quello terrestre rispetto a quello marittimo, e quello della “Compellenza-Guerra” rispetto a quello, per esse fisiologico, del binomio “Pace-Deterrenza”. 80. Santoro, 1988, pp. 132-134. 81. Bonanate e Santoro, 1985, in Santoro, 1988, pp. 169-194; Kahn, 1962, 1965; Schelling, 1960, 1966; Freedman, 1981. 82. Santoro, 1988, p. 133. Vedi anche Santoro, 1995b.

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Ma la “deterrenza politica”, che possiamo considerare come la forma più complessa di “deterrenza strategica”, è un concetto molto più elaborato. Si tratta di una combinazione di azione e reazione, di prevenzione, di preemptiveness e di compellenza, cioè di un sistema di fattori che deve agire di conserva, e con opportuni meccanismi di graduazione operativa. Se questo non accade, l’intera architettura e la sequenza P-D-C-G si sfalda e si confonde, disgregando il sistema e i suoi meccanismi di controllo fino all’autodissolvimento in un pu­ ro e semplice “Sistema di guerra”83. La sua vulnerabilità è quindi dovuta anzitutto alla sua incapacità di essere un sistema “indivisibile” e “globale”, le cui regole valgano per tutto il mondo e agiscano in qualsiasi condizione e difronte a qualsiasi evento o crisi che possa sopravvenire. Questa è la ragione di fondo per la quale diventa indispensabile che l’integrazione concettuale e dottrinaria del patrimonio storico di Ocea­ nia si produca attraverso l’impiego consistente delle teorie continentaliste o meglio “peninsulari”, accanto a quelle strettamente marittime. E che quindi la supremazia americana venga integrata, come nel sistema ottocentesco di Balance of Power dell’Europa delle Grandi Potenze84, dall’attore che più ha interpretato, nell’ottocento e nel Novecento, la capacità di elaborare un pensiero strategico europeo, occidentale, ma continentalista e su scala continentale, vale a dire la Germania85. Uno studio più attento della dottrina strategica statunitense, non­ ché l’analisi ravvicinata delle campagne militari americane, rivela infatti quanto dipendente e poco innovativa, sia stata la pianificazio­ ne strategica, l’ordinamento delle forze di terra e la condotta opera­ tiva dello Stato Maggiore dell’Esercito americano, rispetto alla capa­ cità inventiva delle altre Forze Armate86. Né pare che anche le ipotesi strategiche e dottrinali per il futuro si discostino molto, al di là del salto tecnologico imponente nella con­ cezione e gestione del teatro e nella condotta delle operazioni (TRADOC Pamphlet 525-5), dalla specializzazione sofisticata di azioni e interventi di breve respiro87. 83. Gargaz, 1992; Kant, 1795, 1997, ed. it. 84. Il concetto di “sistema di guerra” è in Santoro, 1988. 85. Taylor, 1954; Niou, Ordeshook e Rose, 1989; Gulick, 1955. 86. Earle Edward Meade (a cura di), 1943; Paret (a cura di), 1986; Korinman, 1990; Raffestin, 1995; Matloff, 1989, 1996. 87. Alcuni recenti studi americani sulla condotta delle guerre e sull’organizza­ zione delle Forze Armate rivelano la persistenza di questo problema, senza però trovare una vera soluzione. Vedi: Kitfield, 1995; Ullman, 1995; Clark IV et al., 1984; Morelock, 1994; Lee, 1995. Vedi altresì i documenti più recenti che confer-

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Tanto nella Guerra di Secessione quanto nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, ma anche in Corea e perfino nel Vietnam, gli Ameri­ cani (e con loro anche gli Inglesi) hanno dimostrato l’assoluta inferio­ rità concettuale delle potenze marittime rispetto alla dottrina strategica, alla pianificazione e alla condotta operativa degli eserciti “continentalisti”, primo fra tutti quello tedesco, e poi quello russo e sovietico. So­ pravvalutando la guerra di logoramento e d’attrito rispetto alla mano­ vra, la potenza di fuoco rispetto all’economia delle forze, queste poten­ ze hanno praticato una caricatura delle teorie di Clausewitz, senza go­ dere dei benefici della guerra marittima trasferita sul terreno88. Per un singolare paradosso della storia il comportamento tattico, e anche strategico, delle forze terrestri anglo-americane, con l’eccezio­ ne della Guerra del Golfo (che peraltro conferma la regola)89, nelle diverse occasioni ricordate è stato l’esatto contrario di quei principi di mobilità, flessibilità e controllo, tipico delle dottrine navaliste. Nessuna forma o dottrina del Blitz, nessuna concezione strategica ba­ sata sulla dottrina dell’accerchiamento, e neppure una lucida prospet­ tiva tattica mirata ad effettuare l’esercizio di potenza sullo Schwer­ punkt, ha caratterizzato le campagne militari delle Grandi Potenze marittime90. La regola di quella che è stata chiamata, in un recente volume sulla seconda guerra mondiale, “Brute Force”91 ha prevalso su ogni altra considerazione, nella stragrande maggioranza dei casi92. Uno studio attento del Blitzkrieg militare tedesco, invece, tanto in Belgio e in Francia nel 1940, quanto successivamente in Africa Set­ tentrionale e poi in Unione Sovietica, nel 1941 e nel 1942, potrebbe fornire la “biblioteca” della gran parte delle intuizioni e delle rispo­ ste necessarie ad identificare le forme di prevenzione della minaccia proveniente da Eurasia, e poi gli strumenti politico-strategici per la dissoluzione della sua landmass93. mano in pieno, anche nella prospettiva del XXI secolo, questo tipo di impianto con­ cettuale. In particolare: JCS, 1997, Joint Vision 2010, Washington; JCS, 1997, Joint Doctrine, Washington. 88. Sull’evoluzione della dottrina strategica statunitense si vedano le riviste di Forza Armata o del Joint Defense Staff dedicate alle nuove teorie. In particolare Army, Military Review, Proceedings of the Naval Institute, Parameters, JDF, ecc. 89. Carroll & Baxter, 1993; vedi anche Westcott (a cura di), 1947; Cordesman, 1993; Cordesman e Wagner, 1996. 90. Atkinson, 1993. 91. Millett & Murray (a cura di), 1988, tre voll. 92. Ellis, 1990. 93. Quanto meno brillanti dei loro colleghi tedeschi, e anche sovietici, furono, ad esempio, i generali britannici che, nonostante il pregiudizio favorevole degli Au­ tori, escono da questa galleria di ritratti come personaggi tutto sommato di secondo piano. Keegan (a cura di), 1991.

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Diventerebbe così del tutto palese come, nel rapporto di forze fra tedeschi e sovietici, soprattutto nell’estate del 1941, utilizzando la teoria del Blitz basata sulla capacità di penetrare lungo gli assi stra­ tegici, solo i generali tedeschi siano stati capaci (ancor più di Napo­ leone e dello stesso Hitler) di comprendere in fondo proprio le rego­ le della strategia marittima da applicare, per analogia, agli ampi spa­ zi di Eurasia94. Quasi lo stesso disegno è possibile leggere anche nel comporta­ mento della leadership zarista, e poi sovietica, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, i cui disastri iniziali furono poi com­ pensati proprio attraverso l’uso della lezione inferta loro dai Tede­ schi, nonché dalla memoria storica mongolo-tartara, con effetti posi­ tivi sulla conduzione operativa della seconda parte del conflitto te­ desco-sovietico, fra il 1943 e il 194595. In effetti, la nascita della teoria della Blitzkrieg scaturì proprio dalla frustrante esperienza della “Grande Guerra”. La prima guerra mondiale aveva avuto la funzione di servire, almeno in parte, come una grande lezione strategica e tattica per la seconda. Non tutti gli allievi ebbero però la stessa capacità di apprendimento96. I tedeschi sono stati certamente quelli che concettualizzarono me­ glio i criteri della mobilità e della sorpresa, dotandoli dei mezzi ne­ cessari forniti dalla tecnologia, con l’obiettivo di sfondare nella landmass eurasiatica. I Russi, subito dopo, trovarono nella sequenza dei giovani Marescialli, succeduti alla generazione di coloro che erano stati epurati e uccisi da Stalin, una classe di condottieri mo­ derni97. Essi ripresero molte delle teorie di Tukacevsky, accoppiando il disegno strategico basato sulle grandi battaglie di sfondamento e poi di accerchiamento, allo sfruttamento strategico della vittoria tat­ tica, trovando così la soluzione, anche mediante l’impiego a massa della propria indiscussa superiorità numerica98 e dei materiali, per impedire il tracòllo di Eurasia, e anzi spezzare l’Europa in due99. 94. Machsey (a cura di), 1995; Stolti, 1991; Norman, 1962; Burdick e Jacobsen (a cura di), 1988; vedi inoltre, Corum, 1992; Vigor, 1983; Betts, 1982; Perrett, 1983; Deighton, 1979. 95. Hillgruber, 1988; Boog, 1983 e Stolti, 1991; vedi anche Roth, 1995 e, per i profili dei generali tedeschi, il volume curato da Correlli-Bamett, 1989; Mitcham, 1988 e 1992, nonché Mueller, 1992; Seaton, 1971. 96. Glantz, 1991, 1991a; Erickson, 1975, vol. IL 97. Vedi Griffith, 1994, per l’evoluzione del pensiero tattico inglese negli ultimi anni del primo conflitto mondiale, ma anche Ludendorff, 1936 e Liddell Hart, 1933. 98. Shukman (a cura di), 1993; Baxter, 1986; Vigor, 1983. 99. Liddell Hart, 1930, 1982. Si vedano, in particolare, le pp. 65-70 e 107-117 del primo volume e i capp. 12, 13, 18, 28, 32 e 36 del secondo volume.

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Una serie di recenti studi hanno analizzato nel dettaglio le caratte­ ristiche tattiche e operative della condotta tedesca durante le due guerre mondiali, e la risposta, più o meno tardiva, degli alleati a queste iniziative che dimostrano “ad abundantiam” la credibilità di questa tesi100. D’altra parte, neppure i Giapponesi riuscirono a risolvere il proble­ ma, come ha dimostrato la battaglia di Nomonhan in Manciuria, com­ battuta dai nipponici contro i sovietici nel 1939, che pose fine alle il­ lusioni delle gerarchie militari giapponesi di sfondare in Siberia101. Le premesse strategiche e il background culturale di questo dise­ gno di “frammentazione” dell’unità eurasiatica non sono quindi cer­ vellotiche o velleitarie, ma invece poggiano su una base molto soli­ da, anche in termini di capacità tecnologica, perché affondano le lo­ ro radici nel terreno dell’atavica contrapposizione storica e culturale, ma anche politica e militare, fra Occidente e Oriente102. In altri termini, se è ammissibile assumere, sia pure con cautela e come ipotesi di ricerca, la formula di Friedrich Ratzel, esposta in “Der Lebensraum”103, basata sul principio che la lotta per la vita è lotta per lo spazio, e che l’Occidente e l’Oriente, prima di essere concetti storici e culturali, sono anzitutto concetti spaziali, allora non si potrà più escludere la necessità di affidarsi ad opzioni di rior­ ganizzazione dello spazio - in particolare di quello eurasiatico - ba­ sandosi su una panoplia di nuovi strumenti strategici e concettuali che vanno dalle teorie del potere terrestre e aereo, a quelle del pote­ re marittimo e costiero, da quelle della deterrenza e della compellenza, a quelle della “deception”, “disinformation”, e/o, secondo la ver­ sione russa, della “maskirovka”104. L’appoggio sistematico ai movimenti secessionisti e indipendenti­ sti dello spazio eurasiatico potrebbe, in questa prospettiva struttura­ le, diventare lo strumento politico-strategico primario per far saltare il cuore di Eurasia. Esso dovrebbe accompagnarsi ad una gestione 100. Vedi ancora, Shukman, 1993, nonché Erickson, 1975. 101. Si vedano in particolare per la Germania: Newton, 1994; Lucas, 1993; Adair, 1994; Rauss e Natzmer, 1994; e infine il classico libro di Rommel, 1937, 1994, ed. ingl. Il punto di vista alleato è riportato, per la prima guerra mondiale, in Griffith, 1994, e per la seconda in Overy, 1995. 102. Coox, 1985; Harris Meirion and Susie, 1991. Vedi anche Fuller, 1992. 103. Si vedano, a questo proposito, i più recenti studi dedicati alle guerre “futu­ ribili”, alle loro dimensioni, tecniche e procedure per limitarne la gravità e svilup­ pare invece la qualità della contrapposizione. Connaughton, 1995; Libicki, 1994; Palin, 1995. 104. Ratzel, 1901; Korinman, 1990; Laqueur, 1985; Polmar e Alien, 1996.

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alternata del meccanismo della “deterrenza/compellenza”, tale da impedire la riorganizzazione territoriale e politico-strutturale di Eu­ rasia, accelerandone anzi la frantumazione, governando le crisi e li­ mitando i conflitti a distanza, fino a consolidare l’autonoma confi­ gurazione dello spazio terrestre nelle sue formazioni statuali indi­ pendenti, generate dalla disgregazione dell’unità. Né pare che contraddica questa ipotesi strategica la constatazione che quasi il 70% della popolazione mondiale si addensa in regioni che non distano più di 5-600 km dal mare. Questa tesi, infatti, presa essenzialmente in prestito alla teoria economica e demografica, non tiene alcun conto del fatto che, se l’attacco eventuale provenisse dal mare, quelle popolazioni costiere, e continentali al tempo stesso, po­ trebbero difendersi indefinitamente nell’entroterra sapendo bene che, ai sensi della nuova concezione strategica della Marina statunitense “Forward From the Sea”105, le potenzialità e le capacità militari di attacco dell’occidente non avrebbero la possibilità di andare mai al di là dei due-trecento, o al massimo cinque-seicento chilometri, dal­ la costa verso l’interno106. Il “cuore di terra” di Eurasia continuerebbe così a restare un obiettivo irraggiungibile, a meno di non voler impiegare la “compel­ lenza” nucleare che, peraltro, al di là della sua evidente pericolosità, non risolverebbe il problema, data la concreta impossibilità di occu­ pare successivamente il territorio devastato107. Che questa incapacità concettuale e politico-militare di concepire lo Heartland come un carciofo da sfogliare sia un “apriori” indiscuti­ bile, confitto nella cultura politica e strategica di tutte le potenze ma­ rittime, e anche di molte potenze semi-marittime, come sono la mag­ gioranza dei paesi europei, è dimostrato - per differenza - dal fatto che anche la dottrina strategica della Nato in Europa Centrale, fra i primi anni Cinquanta e il 1990, si è basata su una concezione essen­ zialmente “difensiva”, nonché sull’illusione di poter imporre una bat­ taglia d’attrito ai Sovietici, nel caso in cui si fosse giunti allo scontro decisivo fra Est e Ovest, o meglio fra Nato e Patto (di Varsavia)108. La dottrina Nato della “Forward Defense” e della “Flexible Re­ sponse”, che nelle sue diverse versioni ha governato la teoria strate­ 105. Gooch e Perlmutter, 1982; Rosen, 1991; Mays, Vallance, Van Tassell (a cura di), 1996, pp. 366-369. 106. US Department of the Navy, 1992, 1993; vedi anche Linn, 1992; Gray, 1994. 107. Per una visione europea (e francese) del “neonavalismo” postbipolare, si ri­ manda ai testi di Bussière, 1995 e Polycarpe, s.d. 108. Allison, Camesale, Nye Jr. (a cura di), 1985; Snow, 1983; Weston, 1984; Branch, 1984; Abt, 1985.

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gica dell’occidente per oltre quaranta anni, è stato un indice rivela­ tore indiscutibile di questa logica statica, a fronte di una minaccia da Est che prevedeva invece un “Blitz” a sorpresa. Era, qualora si fosse andati allo scontro, una concezione militare e politica perdente, ma tuttavia così fortemente radicata nella cultura strategica delI’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare109, che quando, verso la se­ conda metà degli anni Ottanta, Samuel P. Huntington propose, con la teoria della “Counteroffensive Defense”, secondo il suo costume di studioso dotato di immaginazione, di modificare la dottrina Nato sul fronte intertedesco, attribuendogli una quota di dinamicità e di manovra che essa originariamente non possedeva, il dibattito che ne seguì fu caratterizzato da una generale reazione di rigetto, e dal ti­ more per le conseguenze imprevedibili che tale disegno “controffen­ sivo” avrebbe potuto provocare nel sistema di relazioni Est-Ovest110. In altre parole la tesi che qui si sostiene è basata sulla convinzio­ ne che la dottrina del “Sea-Power”111, sia pure aggiornata in termini contemporanei dalla proiezione di forza sui litorali, non sarà mai sufficiente a risolvere alla radice il problema della possibile ricosti­ tuzione della minaccia di Eurasia, così come non è da considerare sufficiente neppure la dottrina, derivata dalla teoria dell’“AirPower”112, della deterrenza nucleare classica, la cui concettualizza­ zione aggiornata risale ormai ai primi decenni della Guerra Fred­ da113114 . In effetti, la dottrina della “deterrenza” venne allora concepita 115 come uno strumento operativo della dottrina americana del “contain­ ment”, le cui origini - come si è detto - vanno ricercate nella vec­ chia teoria navalista della “fleet in being”114115. 109. Cordesman, 1988; Huntington (a cura di), 1982. HO. Su questo punto la rivista International Security ha pubblicato nel 1995 al­ cuni articoli di notevole interesse. In particolare quello di Johnston, 1995 e di Ro­ sen, 1995 e di Joffe, 1995. 111. Huntington, 1983; Mearsheimer, 1982. 112. Till (a cura di), 1994. 113. Gooch (a cura di), 1995. 114. Un esempio di questa mentalità perdente, nonché della cautela con cui ipo­ tesi diverse venivano esaminate negli anni ottanta è in: Jones, 1984. 115. In altri termini era una teoria che non aveva alcuna autonomia intellettuale, almeno fintanto che Herman Kahn non cominciò a ragionarci sopra traendone le più ovvie conseguenze. Il limite di quelle ricerche consisteva però nel fatto che la deterrenza veniva considerata come uno strumento essenzialmente militare e, come tale, diretto a prevenire la guerra nucleare e, nel caso del suo fallimento, a combat­ terla e, possibilmente, vincerla. Vedi il dibattito che, da Brodie in poi, fino a Kis­ singer, 1957, e poi a Kahn, 1960 e 1962, fino a Schelling, 1966, e successori, come

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Tuttavia, se si accettassero le premesse di Ratzel, e cioè che lo Stato ha come suo sostrato primordiale esclusivamente il “suolo”, al­ lora lo spazio diventerebbe il solo criterio di valutazione oggettiva e obbligata, misurando i suoi comportamenti sulla base della logica spaziale e territoriale, finendo per accettare un criterio del tutto orga­ nicistico le cui mosse sarebbero deterministicamente predisposte. Ratzel, infatti estremizza questa posizione, secondo gli influssi delle teorie positiviste di fine secolo, arrivando al concetto di “biogeogra­ fìa”. Tuttavia, anche in tempi più vicini, l’antropomorfismo si è ri­ presentato autorevolmente all’appello della cultura contemporanea116, per non dire dell’espansione della sociobiologia, intesa come scienza generale del rapporto tra uomo e natura117. Se invece, accanto alla dimensione della “spazialità”, venisse acco­ stata anche quella della “temporalità”, quindi il metro della storia nel­ le sue diverse diacronie, e al tempo stesso della cultura e del Geist, allora lo Stato, la Nazione, l’Etnia, vale a dire i “grandi insiemi” storico-culturali, etnici, linguistici, religiosi, nazionali, che legittima­ no non solo l’identità degli Stati, ma anche quella degli spazi orga­ nizzati contigui e affini, speculari ovvero conflittuali, disposti sul suolo come simulacri consapevoli di esso, diventerebbero, per forza di cose, i luoghi deputati alla rappresentazione delle “civilizzazioni”, e quindi i veri poli geopolitici del nuovo sistema intemazionale118. L’ipotesi della formazione, per ricomposizione, di nuovi poli geo­ politici all’interno del sistema internazionale, rispetto alla struttura speculare della guerra fredda, nasce infatti dalla constatazione che l’intreccio geostorico e politico-culturale non consente di scavalcare arbitrariamente dei passaggi nelle diverse fasi del ciclo di “concen­ trazione e/o diffusione” di potenza119. La “natura” delle relazioni intemazionali “non facit saltus”, non è cioè in grado di mutare geneticamente escludendo, per definizione Gray e Payne, 1979, si è sviluppato in America. Vedi, in particolare, per l’uso poli­ tico e militare convenzionale della deterrenza come concetto, e dell’“escalation” co­ me sub-concetto, il recente volume di memorie di MacNamara, 1995. Vedi anche il volume curato da Carter Ashton B., Steinbruner John D., Zraket Charles A. (a cura di), 1987, che è un modello della concezione strategica e com­ plessa che caratterizzava il pensiero strategico americano, poco prima della fine della Guerra Fredda. Si veda anche Bracken, 1983; e Arkin William M., e Fieldhouse Richard W., 1985. 116. Ratzel, 1901, pp. 59 e sgg. 117. Vedi Miller J.G., 1978. 118. Quester, 1966; Caplan (a cura di), 1978; Huntington, 1996. 119. Toynbee, 1957, 1985; Huntington, 1993; Santoro, 1997.

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o, meglio, come per uno straordinario sforzo di volontà collettivo, le componenti fondamentali della organizzazione umana e sociale sul territorio120. Non si può quindi prefigurare il migliore dei mcftidi possibili, di cui peraltro si favoleggia da almeno un secolo, senza te­ ner conto del fatto che il crollo del sistema Est e dell’Unione Sovie­ tica, è avvenuto in modo del tutto indipendente121 rispetto alle valu­ tazioni, prospettive e ipotesi che, sulla base del pensiero liberaldemocratico, erano state anticipate in Occidente122. Si veda, ad esem­ pio, per la persistenza di questo modo di pensare e per una sorpren­ dente incapacità di rileggere il Novecento in termini di “cleavages” e di “discontinuità”, il recente volume di Eric Hobsbawm123, che non sente il bisogno di sottoporre a verifica neppure i concetti gene­ rati dal secolo delle ideologie e delle guerre, e quindi procedere ad una revisione obbligata dai fatti. “I tempi sono cambiati e così il nostro orecchio” scriveva Taci­ to124. Ed è sulla falsariga di questa saggezza che sarà possibile capi­ re novità e permanenze. Solo per questa via, e attraverso un accurato procedimento di revisione concettuale, l’Occidente potrebbe tornare ad essere qualcosa di comparabile all’immagine hegeliana dello “Spirito Assoluto”, il cardine teorico e al tempo stesso il cuore della civiltà del mondo moderno, fucina di trasformazione e di riscatto dal letargo delle altre civilizzazioni (Oriente, Sud, Nord), garanzia di or­ dine, libertà, benessere, gerarchia e controllo dell’intero mondo. E questo ciò che potremmo chiamare, in termini attuali, mutuan­ dolo dalla tradizione del pensiero filosofico ottocentesco e novecen­ tesco, nonché dalla letteratura fra le due guerre, lo “Spirito dell’Oc­ cidente” che anima ancora questa nuova fase della breve storia del mondo125. La concezione attualizzata dello “spirito” dell’Europa è quindi un impasto culturale di echi e risonanze diverse. Essa risale alle grandi scoperte geografiche, alla definizione del “politico” in senso moder­ no, alla Rivoluzione scientifica, e scende per li rami fino alla secola­ rizzazione settecentesca e alla modernizzazione ottocentesca, all’in­ dustrializzazione e al regno della tecnica, e finalmente alle più re­ 120. Schmitt, 1942, 1986. 121. Santoro, 1997. 122. Vedi Carrère D’Encausse, 1978; James Donald, 1982, 1983, ed. it. 123. Hobsbawm, 1994. 124. Cit. in Frazer, 1922, 1955, ed. it., p. XI. 125. Hegel, 1807; “La scala crea il fenomeno”, scriveva Mircea Eliade, ristabi­ lendo un principio gravemente compromesso da certe confusioni positiviste del XIX secolo. Eliade, 1948, 1976, p. IX. 227

centi esperienze di diffusione mondialistica dei modelli economici, finanziari, tecnologici, culturali e di consumo. L’Europa ha diffuso e distribuito ovunque il suo “Spirito” travestendolo in “forme” diffe­ renziate e - come Proteo - ha perfino inventato delle altre “Europe” a sua immagine e somiglianza, a cominciare dall’America e poi l’Australia. Ha costruito, quindi, delle realtà “virtuali” attraverso la stampa e l’informazione, per il tramite dell’organizzazione e della impresa, oltre che con la filosofia, l’ideologia, le palingenesi e la ra­ zionalizzazione della fede. Questa Europa ha preso anche il nome di Occidente, ma il suo cuore territoriale, il topos della sua entità è in questa penisola asiatica che si è autodefinita. In tutti questi casi si è trattato di una “forma” o Gestalt (Juenger), ovvero di mille forme dello “Spirito” che l’Europa ha prodotto a getto continuo, fino ad esaurirsi. Di qui la teoria (e forse la leggenda) del “Tramonto dell’Occiden­ te” (Spengler), della “Crisi delle Scienze Europee” (Husserl), della “Guerra Civile Europea” (Schmitt), e prima ancora, della “Morte di Dio” (Nietzsche), la scomparsa dell’“Essenza” e la nascita del Dasein (Heidegger), ma anche la teoria deU’.“Etemo Ritorno” (Nietzsche)126. In qualche caso il Geist dell’occidente fa parte di una tradizione culturale che è stata, in parte a ragione, delegittimata, e più spesso demonizzata, dalla cultura occidentale dopo il 1945, mentre in altri casi nasconde quella radice occidentale ed europea che era stata tra­ volta dall’esito della guerra e dallo schiacciamento dell’Europa (la sua “distruzione”, come sostiene Hillgruber) fra l’America e l’Unione Sovietica, cioè fra le due anime di Oceania e di Eurasia127. Scriveva, qualche anno fa, Edward W. Said, in un fortunato volu­ me dal suggestivo titolo di “Orientalism”, che poiché nessuno pro­ babilmente immaginava un campo d’analisi simmetrico a quello, chiamato “Occidentalismo”, è da presumere che l’Orientalismo fac­ cia parte di una “imaginative geography” inventata dall’occidente per designare, e quindi separare, l’Oriente128. 126. Breuer, 1995. 127. Hillgruber, 1986, 1988. 128. Si veda su questo punto, fra l’altro Smith A.D., 1986; Herf, 1984, 1988, ed. it.; Bendersky, 1983, 1989, ed. it. In effetti, nel calderone delle origini culturali del nazismo sono stati inseriti au­ tori, come Schmitt, Heidegger, Jünger e Spengler che, nella realtà, non erano il pro­ totipo di quella deviazione intellettuale e politica. Questa semplificazione culturale ha condotto alla rimozione collettiva di buona parte di quella cultura europea, por­ tatrice di questioni e tesi interpretative del ruolo dell’Europa e dell’occidente, e con essa alla liquidazione di un cospicuo patrimonio concettuale ad essa connesso. 222

Si tratterebbe quindi di una sorta di differenziazione discriminante dunque che l’Europa Occidentale cristiana avrebbe delineato fin dal Concilio di Vienna del 1312, allorché vennero istituite una serie di cattedre in “Arabo, Greco, Ebraico, e Siriaco, a Parigi, Oxford, Bo­ logna, Avignone e Salamanca”129. In questa chiave di lettura 1’“Orientalismo” sarebbe diventato uno strumento di contrapposizio­ ne, costruito dall’occidente, al quale non corrisponderebbe una pre­ sunta unità geografica ed etnica dell’Oriente, che invece non esiste e anzi non è esistita mai. E, in altre parola, “una distribuzione di consapevolezza geopoliti­ ca volta in testi di estetica, in studi economici, sociologici, storici e filologici; è una elaborazione, non solo sulla base di una distinzione geografica (il mondo è composto di due metà ineguali, l’Oriente e l’Occidente), ma anche di una intera serie di “interessi” che, attra­ verso l’uso di quegli strumenti, come le scoperte scientifiche, le ri­ costruzioni filologiche, l’analisi psicologica, la descrizione paesag­ gistica e sociologica, crea e sostiene quegli interessi”130. Said, credendo di liquidare il fenomeno dell’Orientalismo, creatu­ ra dell’occidente, volto a “controllare, manipolare e perfino a incor­ porare ciò che è un mondo manifestamente differente”131, in realtà non fa che confermare due cose. Anzitutto che Occidente e Oriente sono diversi e separati. E che anzi, se l’Occidente si propone, con l’invenzione dell’Orientalismo, di controllarlo manipolandolo e perfino di inglobarlo, nei fatti si è trattato di un tentativo di ridurre quella separazione interiorizzando ­ ne attraverso l’Orientalismo, la differenza. In secondo luogo Said conferma involontariamente 1’esistenza di quell’“Occidentalismo” che altrove negava, e che costituisce l’esatta controparte dell’Orien­ talismo, in quanto creatura evocata dagli Orientali. Basterebbe infatti pensare alla grande stagione della presenza e poi della dominazione europea, cioè occidentale, in Eurasia e in Africa (cioè in Oriente), per ottenere una lettura dell’Occidentalismo come “modernizzazione”, come decollo tecnologico, come imitazione. L’ambigua relazione fra questo tipo di Occidentalismo e l’Orien­ talismo di cui parla Said consiste specularmente nel tentativo fallito, esperito sia dall’occidente come dall’oriente, di interiorizzarsi reci­ procamente. 129. Said, 1978, p. 50. 130. Southern, 1962, p. 72, cit. in Said, 1978, p. 50. 131. Said, 1978, pp. 12 e sgg. 223

Al termine di questo processo, tuttavia, la distinzione, invece di dissolversi nella convivenza geografica, storica e culturale fra i due mondi, si è consolidata. Né le ideologie palingenetiche dell’Ottocento e del Novecento, né l’integrazione economica o la tecnologia so­ no riuscite a spezzare questa spirale di divisione. Tuttavia la relazione fra Oriente e Occidente non è rappresentabi­ le solamente con le metafore simboliche di Oriente e Occidente. In questa prospettiva, infatti, che appare piuttosto come la contrapposi­ zione teorica fra le due “metà ineguali” del mondo, e quindi come un sistema di conoscenza culturale che potremmo definire, con un’ardita comparazione, quasi antropologico132, ci troviamo di fron­ te a un tentativo di “concepire” in modo complessivo quello che è da considerare più come un “topos” dello spirito che non come un “luogo” dello spazio. Questa forma di Occidentalismo, nella cultura dell’Oriente, corrisponde infatti in modo uguale e contrario alla per­ cezione dell’Orientalismo da parte degli Occidentali. Ma si tratta in entrambi i casi di caricature, perfino nei loro aspet­ ti politici e culturali. L’Oriente non è TOrientalismo, ma esiste come metafora di Eurasia più Africa, mentre l’Occidente non è l’Occiden­ talismo orientale (di cui il Giappone è probabilmente il più riuscito esperimento), né quell’illusione occidentale e globalista che sono stati il mondo progettuale e la filosofia istituzionale di Oceania. La salvaguardia dello “spirito” dell’occidente, in quanto modello generale della civiltà, nella cornice culturale che fa da sfondo alla sua “potenza” e “intelligenza”, è invece la condizione stessa della sua operatività storica, e quindi anche del suo destino. Tuttavia, “il problema del destino si presenta eminentemente co­ me il problema della storia (cioè come il problema del tempo)”, scri­ veva quasi ottanta anni fa Oswald Spengler in “Il tramonto dell’Oc­ cidente”133, invitando a distinguere, nella fenomenologia degli even­ ti, non solamente un “fatto per l’intelletto”, ma anche qualcosa che raggiunga il “senso” dell’evento stesso. Anche di fronte all’apparen­ te casualità del reale - e in questo ci si riferisce alle incerte possibi­ lità di identificazione di un “carattere nazionale”, così come di uno “spirito” dell’occidente - perfino il termine “mito”, e quello più 132. Borsa, 1977; Pannikar, 1958, ed. it.; Fieldhouse, 1973, 1975, ed. it.; Morris James, 1968, 1983, ed. it. 133. Vedi sul concetto di “cultura” Rossi (a cura di), 1970, Il concetto di cultura, Torino, Einaudi, che esamina, attraverso una rassegna completa delle ela­ borazioni concettuali sui fondamenti teorici dell’antropologia, l’evidenza della plu­ ralità della culture e l’impossibilità della loro riduzione a uno schema unitario.

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concreto di “civilizzazione”, comportano una partecipazione politica e un’analisi culturale che sono molto difficili da verificare. Il termine “mito”, infatti, nella tradizione giudaico cristiana, ha acquisito un significato troppo complesso, ed è troppo spesso usato in modi diversi e non per questo meno vaghi, per non aver bisogno di essere meglio definito in questo contesto134. Il mito viene sovente attribuito ad una concezione primitiva, ov­ vero infantile, della politica che sconfina nella storia, anche se pro­ viene direttamente dalla favola o dalla tradizione. “Ma la mitologia racconta sempre delle origini o per lo meno di quello che è origina­ rio” - scrive Kàroly Kerenyi135. In altri termini il “mito” è “un rac­ conto che si riferisce a un ordine del mondo anteriore rispetto all’or­ dine attuale e destinato a spiegare non una particolarità locale, spa­ zialmente e temporalmente limitata (che è la funzione della semplice ‘leggenda eziologica’), ma invece una legge organica sulla natura delle cose”136. In questa chiave esso ha un significato simbolico ge­ nerale che rappresenta un insieme di concetti nel momento stesso in cui si compone di una collezione di esperienze collettive e indivi­ duali interiorizzate. Anche il “mito” dell’occidente riferisce, dunque, questo messag­ gio di continuità e di localizzazione, manifesta cioè una relazione fra tempo e luogo. È un rapporto variabile ma indistruttibile. Anzi pro­ prio per questa ragione il racconto diventa un “mito” che, “come la testa recisa di Orfeo, continua a cantare anche dopo la sua morte, an­ che a lunga distanza dal tempo della sua morte”137. La sua forza risie­ de nel fatto che non si tratta semplicemente della “narrazione di un racconto”, più o meno verosimile, ma invece di una “realtà vissuta”. Il “mito dell’occidente” è qualcosa che si rifà dunque ad un pas­ sato vivente: non è solo una Begründung, cioè una fondazione astratta virtuale, ma invece una Gründung, vale a dire una fondazio­ ne concreta, radicata nella realtà storica e geografica, cioè nella cul­ tura profonda di un luogo e di un tempo138. Il mito dell’occidente può perciò essere identificato utilizzando materiali diversi. Da quel­ lo storico e preistorico a quellrdella consistenza geografica, fino a quelli delle determinazioni culturali profonde. Si potrebbe perfino risalire a quello che Julius Evola chiama “il ciclo eroico-uranico oc134. 135. 136. 137. 138.

Spengler, 1918-1922, 1957, ed. it„ p. 86. Bernhard, 1969. Kerenyi, 1979, pp. 17 e sgg. Aa.Vv., 1979, pp. XIII. Kerenyi, 1979, p. 17 e 19.

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cidentale”139 e Joseph Campbell la mitologia della “Dea Madre”, fi­ no al momento della sua radicale trasformazione, avvenuta verso la fine dell’Età del Bronzo e all’alba dell’Età del Ferro140. “Da Erodoto in poi si è affermata un’immagine e un uso dell’Oriente come luogo geometrico degli elementi di polarità ri­ spetto all’occidente ‘nostro’” - scrive Mario Liverani che conferma con queste parole, oltre all’“alterità” dell’Oriente, anche la “diver­ sità” dell’occidente141. Anche se il generale percorso dello storicismo e del relativismo culturale che caratterizza la cultura moderna che rifugge dalle pola­ rità, come per timore e attrazione atavica del conflitto142, pure non è possibile negare che il “passaggio da questa antropologia della con­ trapposizione ad un’antropologia della diversità e della storicizzazione” non riduce la differenza né la consapevolezza delle due di­ verse appartenenze. Questo Occidente nasce infatti gradualmente, dapprima come “di­ versità” indotta dalla rottura degli equilibri complessivi del Levante Medio Orientale e del Mediterraneo, che includeva sia l’Europa Oc­ cidentale che l’Africa Settentrionale, successivamente come “iden­ tità”, e poi come “mito” che dell’identità è l’archetipo definitorio e definitivo, per contrapposizione con il mito di Eurasia, che si era a sua volta costruito nel tempo come lo spazio degli imperi nomadici143, circondato fin dal lontano passato dai tre maggiori imperi stan­ ziali, Roma, la Cina e la Persia144. “L’irruzione delle tribù dei guerrieri patriarcali le cui tradizioni ci sono state tramandate principalmente nell’Antico e Nuovo Testa­ mento e nei miti dei Greci”145, sono gli autori di questa “rottura” storica fra Oriente e Occidente. Essi erano di due origini diverse: “quelli semiti provenivano dai deserti siro-arabi dove, come nomadi, allevavano pecore e capre, e in seguito cammelli, mentre quelli Gre­ co-Ariani dalle grandi pianure dell’Europa e della Russia Meridio­ nale, dove allevavano il bestiame e utilizzavano il cavallo”146. La frattura dell’ordine indistinto della “Grande Madre” (la “Mater Tellus” delle religioni indiane - diceva Eliade147) che precede, nella 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147.

Ibidem, p. 20 e poi p. 30; Spengler, 1918-22, 1957. Evola, 1969, 1993, pp. 308 e sgg. Campbell, 1964, 1992, ed. it„ pp. 13-14. Liverani, 1988, pp. 7-8; Liverani, 1994, pp. 27-98. Freund, 1995. Chaliand, 1995. Cardini, 1981, 1987, pp. 9 e sgg. Vedi anche Foccardi, 1994. Campbell, 1964, 1992, p. 14. Ibidem. 226

notte dei tempi del paleolitico dei raccoglitori, e del neolitico degli agricoltori, l’avvento dei guerrieri semiti e ariani, è scolpita nelle origini del mito dell’occidente. “Ecco perché le letterature dell’Età del Ferro, sia dei Greci ariani che dei Romani, sia dei Semiti del Vicino Levante, ripetono il tema della sconfitta, da parte di un eroe solare (perché proveniente da Est), di uno spregevole mostro appartenente ad un ordine divino precedente e possessore di qualche tesoro: una terra, una fanciulla, dell’oro o semplicemente il proprio potere”148. Esiste infatti l’unità indistinta della “Grande Dea”149 che rappre­ senta la stabilità di un mondo regolato, senza differenze o variazio­ ni, che viene spezzata dal sopraggiungere dei “guerrieri”, soprattutto ariani, che non solo mettono in movimento l’intera area del Levante e del Mediterraneo, ma sconfiggono anche le popolazioni autoctone demonizzandone perfino il mito. La Dea-Madre si trasforma in Gorgona dalla testa tagliata, i suoi riti si trasformano in “misteri”, e la divisione conflittuale nasce proprio da questa prima grande vittoria e insediamento degli Indo-europei che vengono da Est. La memoria di questa invasione vittoriosa che sconfigge la civiltà precedente e l’annulla, modificandone perfino il sesso, da femminile a maschile, è presente in tutta la letteratura mitica e classica dell’età antica150. La vittoria biblica di Yakweh sul “serpente del mare cosmico”, il Leviatano151, ovvero quella di Zeus su Tifone, figlio più giovane della dea Terra, sono i simboli dell’affermazione del “regno degli dei patriarcali del Monte Olimpo sul preesistente dominio del Tita­ no, figlio della dea madre”152. Essi marcarono a fuoco la fine della mitica “Età dell’Oro”, ovvero del “Paradiso Terrestre”, quando non esisteva ancora la distinzione fra Occidente e Oriente. Dopo di allora, dunque, i popoli che “venivano dal sole”, con le loro leggende, i loro miti e i loro dei, costituirono il fondamento del­ la concezione Euromediterranea dell’occidente che si consoliderà gradualmente, a mano a mano che il cuore dell’occidente si sposterà dal Levante alla Grecia, poi a Roma, e finalmente al Nord Europa153. 148. Eliade, 1948, 1976, ed. it„ pp. 4-5. 149. Ibidem, p. 26. 150. James E.O., 1958, 1996, ed. it., pp. 737 e sgg. 151. Dumézil, 1985, 1990; Jung e Kerenyi, 1940-41, 1972, ed. it.; Campbell, 1969, 1990, ed. it. 152. Giobbe 41, 1-8. Cfr. Salmo 74, 13-14. 153. Campbell, 1964, 1992, pp. 30-31. 227

Sono questi i blocchi culturali che danno luogo a quelle che Ar­ nold Toynbee chiamava “Civilizations”154, intendendo con questo termine “i campi” di studio della storia, che essendo autoreferenzia­ li, possono essere comprensibili di per sé, nei loro limiti di spazio e tempo, senza riferimenti ad eventi storici esterni155. Toynbee indivi­ dua nella sua monumentale opera ben 21 diverse “Civilizzazioni”, o Culture, che si sono succedute fin dalla preistoria156. Il “senso” di questo Occidente ha quindi tutti i caratteri di un mi­ to che si è fondato sulla commistione dei tratti originari della cultura sacrale pre-ellenica e di uno strato più antico, quello “egeo” e “pelasgico”, “dove ricorre il tema generale della civiltà atlantica dell’età dell’argento”157, con lo strato più recente “della civiltà creata dai ceppi conquistatori achei e dorici, caratterizzata dall’ideale olimpico del ciclo omerico e dal culto dell’Apollo iperboreo”158. Su questo nucleo primigenio (il “mitologema” di cui parla Kerenyi159), che è ancora oggi alla base della concezione dell’Occiden­ te, lo spostamento avviene attraverso la “occidentalizzazione” della Grecia, e poi di Roma, e dopo di lei dalla “occidentalizzazione” dell’Europa Occidentale e Centrale, alla fine delle Völkerwanderun­ gen e con la “Renovatio Imperii” dell’800 d.C.160. Essere occidentali vuol dunque dire svolgere un compito missio­ nario e “crociato”, ovvero di evangelizzazione “in partibus infidelium”. Questa concezione, che nella sua forma più estrema conduce al “Mito del XX secolo” di Alfred Rosenberg161, è addolcita dal cor­ relato “archetipo del fanciullo”162, anzi del “fanciullo divino”163 che rappresenta la giovinezza del mondo, la sua inermità e al tempo stesso la sua invincibilità, quindi la singolare storia dell’occidente che è un fanciullo nato dopo l’Oriente, e che dall’oriente è costantemente aggredito, ma che “mentre è consegnato a nemici strapotenti 154. Graves e Patai, 1963, 1988, ed. it., pp. 9-21; Faure, 1983, 1995, ed. it., pp. 19 e sgg. per un’analisi della transizione mito-culturale dal Levante all’occidente. 155. Toynbee, 1957, 1985, vol. VII-X. 156. A questo tipo di lettura del concetto di “civilization” si riferiva recentemen­ te anche Huntington in uno stimolante, quanto semplificato, articolo (poi trasforma­ to in volume) sulla scacchiera delle “civilizations” che oggi (e nel futuro) si con­ frontano nel mondo. Vedi Huntington, 1993, 1996, nonché Breuer, 1995. 157. Ibidem, pp. 1-143. 158. Evola, 1969, 1933, p. 309. 159. Ibidem; Musti (a cura di), 1991. 160. Kerenyi, 1979, p. 15. 161. Pirenne, 1937, 1969, ed. it. 162. Rosenberg Alfred, 1930, 1942. 163. Jung, 1941, pp. 109 e sgg.

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ed è minacciato dal continuo pericolo dell’annientamento, dall’altra parte dispone di forze che superano di gran lunga ogni misura uma­ na”164. Il suo “scopo” e la sua “funzione” trovano perciò una ragio­ ne qualora esso non vada trattato soltanto come un “oggetto”, ma anche come un “simbolo” di qualcos’altro, definibile in termini di “archetipo”165, sia come “costante”, che è la ripetizione periodica nel tempo di comportamenti che si autolegittimano, sia come “prin­ cipio”, che è invece un sinonimo di esperienze filtrate e assunte co­ me valore indiscusso. Ma se questo in estrema sintesi è il senso generale che è possibile assegnare allo “spirito dell’occidente”, allora questo “principio”, che può anche definirsi “Kultur” in termini spengleriani, diventa po­ limorfo e può autorappresentarsi in modi diversi: sia come “cristia­ nità”, sia come “razionalità”, oppure come “forza”, come “tecnica”, come “sviluppo economico”, come “modernità” e infine, come “po­ litica”. Si tratta cioè di un sistema culturale complesso, che si è for­ giato nei millenni in Europa e che si irradia verso l’esterno, vinco­ lando l’Oriente alle sue culture e civilizzazioni differenziate, attra­ verso la filosofia e la prassi delle “frontiere”, dell’“alterità”, dello “scambio” e della “guerra”166. Non è un caso che la “categoria del politico”167, intesa in senso moderno come un intreccio fra “convivenza” e “guerra”, nasca nel mondo greco del VI e V secolo, e che sia il risultato della relazione elementare fra dimensione spaziale, trend demografico e disponibi­ lità di risorse. Lo spazio organizzato, nella sua versione di spazio ur­ banizzato (la “polis”), diventa così la prima formula “politica” che può essere caratterizzata come occidentale168: “Sviluppando il politi­ co - scrive Christian Meier - i Greci costruirono quella cruna d’ago entro cui doveva passare l’intera storia universale per poter approda­ re all’Europa moderna”169. Non è neppure accidentale il fatto che la “democrazia” antica sia un prodotto dell’articolazione della categoria del “politico”, che nasce so­ lo quando esista la convivenza politica (nella città)170. A differenza dei popoli nomadi, che non erano obbligati a convivere sullo stesso terri­ 164. Kerenyi, 1979, pp. 47 e sgg. 165. Jung, 1941, p. 134. 166. Jung e Kerényi, 1972, ed. it. 167. Heidegger, 1979, 1993, ed. it., pp. 7-34. 168. Schmitt, 1932; Freund, 1995, ed. it. 169. Meier, 1980, 1988, ed. it. 170. Ibidem, p. 10, vedi anche Musti, 1995. 229

torio, ma si limitavano ad attraversarlo, ovvero a rapinarne le risorse senza l’ambizione di lasciarvi tracce permanenti, che consideravano cioè lo spazio come una fonte non rinnovabile (secondo la leggenda moderna della vita on the road), le città-stato greche, ma anche i feno­ meni dell’urbanizzazione politica nel resto del mondo, obbligavano al­ la convivenza, e quindi all’alternanza permanente fra i due estremi: quello dell’esercizio collettivo del potere e quello della guerra di tutti contro tutti, cioè fra la “democrazia” e il “conflitto”. La democrazia diventava, in questa chiave, una forma primaria della politica, sempre presente potenzialmente, e quindi tutto sommato una procedura171. Già Platone nella Repubblica e nelle Leggi, e poi Aristotele nella Politica, quindi Polibio e Plutarco, avevano individuato le categorie analitiche del “politico”. Esse possono dunque essere considerate come un’invenzione esclusivamente occidentale che si prolunga nel tempo della storia fino alla fine del Settecento, quando i concetti di libertà contro autorità, e democrazia contro assolutismo, diventeran­ no le pietre di paragone intellettuale della “secolarizzazione” e della “modernizzazione” per tutto il mondo172. Il laboratorio è comunque ancora una volta europeo, in quanto è proprio alla fine del Settecento che lo spazio europeo e l’organizza­ zione urbana della convivenza diventano, con l’incremento demogra­ fico e l’applicazione industriale delle scoperte scientifiche, la condi­ zione di base e il modello comune del comportamento politico, giu­ stificato dalla necessità di diffondere il sapere e veicolarlo all’ester­ no, per riceverne un feedback, attraverso i sistemi di comunicazione. Lo “Spirito” dell’occidente, quindi, a differenza delle diverse “Anime” dell’oriente, il cui spazio è ampio ma meno urbanizzato, dotato di “nervi di governo”173 burocratico-amministrativi dai confi­ ni incerti, si traduce in un problema di gestione fra sovrapposizione di forme dello spazio, limitatezza delle aree disponibili, e interazio­ ne dei meccanismi di frontiera e di confine174. In alcuni casi la relazione urbana fra convivenza e politica si tra­ dusse perfino nelle forme anomale della “democrazia verticale”, tipica delle “insulae” romane o dei “grattacieli” americani175, che presuppo­ ne la necessità della cooperazione pena la distruzione della comunità. 171. Sartori, 1957, pp. 5-15. 172. Glotz, 1948, ed. it. 173. Vedi Platone, 1993; Aristotele, 1948; Chevallier, 1979-1981; Wallerstein, 1974, 1978. 174. Deutsch, 1963, 1972, ed. it. 175. Lacoste, 1993, 1994; Hérodote, 1987; Wittfogel, 1957, 1968, ed. it.; Liverani, 1994.

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Di questa anomalia occidentale sono testimonianza i conflitti che insorgono nelle aree metropolitane degradate delle grandi nazioni occidentali e del Terzo Mondo. Un simbolico esempio, infine, di questa impossibile anomia è riscontrabile, perfino visivamente, nelle città che sono state divorate dalla guerra interetnica, come Sarajevo in Bosnia, dove la misura della fine della connivenza etnica è data dagli episodi, frequenti, di aggressioni e violenze fra inquilini di pia­ ni diversi all’interno di uno stesso edificio o blocco. La “conquista” dello stabile diventa così, come nel Medioevo urbano dell’Italia co­ munale, un segnale evidente di confine e di fortificazione intraurbana. In termini più generali, la simbolicità del Muro di Berlino tradi­ va questa teoria dell’impossibilità di convivenza, indotta forzatamente dall’esterno e praticata a livello statuale. Lo Stato, e per lui l’Occidente, cioè l’Europa intesa come “Kul­ tur” di un superstate che si unifica sulla base di una “civilizzazione” comune, ha quindi le sue radici e il suo basamento costitutivo nella “terra” e nel “sangue”, cioè nello spazio e nell’etnia176, ma anche nel “tempo” e nella cultura, quindi tipicamente nel Geist dell’Occidente177. Dallo “Stato-suolo” alla “Civiltà-suolo” il passo è, tutto conside­ rato, sufficientemente breve e corrisponde meglio alla rappresenta­ zione dell’esperienza contemporanea di un mondo parzialmente “globalizzato” intessuto di networks di comunicazione e di informa­ zione. Di qui la relazione “Civiltà-Spazio” che si stabilisce sulla ba­ se dei punti di contatto-scontro, in particolare la questione delle “frontiere”, quella delle “migrazioni”, e finalmente quella degli “scambi”178. La lotta per 1’esistenza e l’eccesso di popolazione sta diventando infatti ancora una volta, come più volte nel passato, la forma supre­ ma della comunicazione fra Oriente e Occidente179. Essa, con tutta probabilità, dominerà il tempo a venire, insieme alla tecnica che ne modulerà (finché potrà) i flussi180. “Qui non si tratta di ciò che il mondo “è”, bensì di ciò che esso significa per l’essere vivente che 176. Ciucci, Dal Co, Manieri-Elia, 1973, pp. 418-552. The Cambridge Ancient History, 1971. 177. Kellas, 1991, 1993, ed. it. 178. Delaisi, 1929; Zischka, 1938. 179. Si vedano, oltre a Whittaker, 1994, anche altri testi sulla teoria dei confini nel mondo antico quali Isaac. 1990; Millar, 1966, 1981; Millar, 1993; Heather, 1991, pp. 84 e sgg.; Janni, 1996. pp. 453 e sgg. 180. Zischka, 1938, pp. 119 e sgg. Il volume anticipa le teorie geoeconomiche e ambientaliste.

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in esso si trova” scriveva Spengler alla fine della prima guerra mon­ diale181. La relazione fra Occidente e Oriente, fra Europa e Eurasia, è quindi ancora essenzialmente “simbolica”. Anche la sua “spazia­ lità”, i suoi confini, il suo territorio, possono quindi essere conside­ rati come il prodotto della creazione simbolica della propria identità, esattamente come accade nella rappresentazione del “complesso mi­ to-simbolico”182 per le comunità etniche o nazionali183. Ancora una volta la “simbolicità”, intesa come icona della rappre­ sentazione, riconduce a tutta una serie di concetti legati insieme da un rapporto gerarchico e, spesso, da una logica di successione tem­ porale: Yethos arcaico, ovvero l’etica delle culture dette primitive che, in quanto tale, è funzione di una teologia basata sul mito e sulla rivelazione; Vetica filosofica di matrice aristotelica; poi il mito, inte­ so come trasformazione e atemporalità delle “origini”; e finalmente la politica vista come prodotto della convivenza e della inconciliabi­ le prossimità fra morale, diritto e “polis”184. E per questa ragione sostanziale che il mito “europeista”, elabora­ to nel passato cinquantennio, vive all’interno di una ineliminabile contraddizione185. Da un lato è stato generato nel secondo dopoguer­ ra dal rifiuto del nazionalismo, delle culture etniche e della diversità, perfino di quella razziale, che pure hanno contraddistinto la storia europea e le sue guerre del passato, mentre dall’altro lato si è basata sull’auspicio, intriso della retorica normativa tipica delle “piccole utopie” istituzionaliste dell’Europa di Bruxelles e di Maastricht, del­ la creazione di un nuovo nazionalismo europeo tecno-mercantile, al quale però non viene assegnato alcun “senso”, né alcuno “spirito”186. In una struttura etnico-culturale diversificata, e storicamente divi­ sa come è quella dell’Europa del Novecento, l’ipotesi della “rico­ struzione”, e anzi quella della “invenzione” dell’Europa come unità federale e mercato integrato, non può avvenire se non attraverso una definizione spirituale e geostorica dell’identità europea, che nasca dalla coscienza delle differenze interne al “Sistema Europa” e, al tempo stesso della comunità d’interessi e di affinità, sia culturali che 181. Cavalli-Sforza, 1996; Sartori (a cura di), 1975; Collinson, 1993, 1994. 182. Spengler, 1918-1922, 1957, ed. it., I, 251. 183. Smith A.D. 1986, 1994, ed. it. 184. Per una diversa interpretazione, di Scuola modernista, del concetto di na­ zione, del suo derivato, quello di civiltà, si veda Breuilly, 1993, 1995, ed. it.; non­ ché Hobsbawm, 1994; Gellner, 1983; Kellas, 1991, 1993, ed. it. 185. Rohls, 1991, 1995, ed. it. 186. Vanderlip, 1922; Coudenhove-Kalergi, 1929 ed. fr. ; Femàndez-Armesto (a cura di), 1994.

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emozionali e di costume, che oggettivamente fanno dell’Europa un’ipotesi politica praticabile. Questa comunità dovrà liberarsi anzitutto dalla gabbia dei lacci normativi e istituzionali che ne condizionano e vincolano la dinami­ ca unificatrice. Solo attraverso questa liberazione potrà poi provve­ dere al recupero consapevole della propria identità. Il che vuol dire procedere al riconoscimento delle differenze geo­ storiche che l’attraversano e che rappresentano però la chiave della comunicazione intraeuropea, al di là delle frontiere nazionali e del­ la loro mobilità perenne, individuando tutti i gradi possibili di “de­ voluzione”, “autonomia” e “indipendenza”, così come tutti i possi­ bili contesti geopolitici delle crisi e dei conflitti già avvenuti o po­ tenziali187.

187. Chabod, 1961; Hale, 1993; Monnet, 1978, ed. ingl.; Ellwood, 1993.

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9. La ricostruzione dell’Europa

Concludendo, si può quindi sostenere che il contrasto, permanen­ temente rinnovato, fra Occidente e Oriente, che ha contrassegnato la storia del mondo non deve esser letto solo come un accidente della storia, ma invece come un segno incontrovertibile della loro struttu­ rale, e quasi fisiologica, incompatibilità. L’esempio della Germania “confine di sangue” fra Occidente e Oriente, secondo Ratzel1 - è par­ ticolarmente indicativo di questa difficile convivenza per il suo ruolo ambiguo, territorialmente mal determinato fra Est e Ovest, senza vere frontiere definite una volta per tutte, e con il suo “centro” geografico e politico spesso mobile. Basterà riflettere alle continue variazioni di posizione del “centro” del mondo germanico (la Mitteleuropa)2 nel corso del secolo XX per rendersi conto di quanto difficile possa esse­ re il progetto di riconoscerne l’identità in senso spaziale3. Cionondimeno la Germania, intesa come “corpo mistico” dell’idea di Europa, e quindi come potenziale erede del Reich impe­ riale (e “universale”, come Res Publica Christiana)4, esiste e si è identificata, volta per volta, e in tutte le sue forme politico-statuali, soprattutto per la funzione di barriera vivente, linguistica, religiosa, spirituale, oltre che di sangue, nei confronti del mondo slavo-orto­ dosso, e talvolta per delega, anche di quello turco-arabo-islamico. 1. Ratzel, 1901; Febvre, 1922, 1980, ed. it., pp. 58 e sgg. 2. Su questo dibattuto concetto, nonché sulle diverse “mappe” di Mitteleuropa si veda Le Rider, 1994, 1995, ed. it., e relativa bibliografia. In particolare si rinvia a Link e Wülfing (a cura di), 1991. 3. Vedi mappe di Europa e Germania. 4. Cuvillier, 1979, 1984, 1985, 1988; Schmitt, 1996, ed. it.; Boockmann et al., 1894, 1990.

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Si tratta, però, di una Germania ben diversa, quella odierna, ri­ spetto alla Germania del passato. Depurata nel corso degli ultimi cinquantanni della componente dominante prussiana e protestante5, essa si è ancor più occidentalizzata con la perdita della fascia orien­ tale, la divisione della sua parte centrale, l’occupazione alleata e americana, la gravitazione crescente sul Reno verso il confine fran­ cese, con una presenza cattolica che, nella sua fascia occidentale, si è rivelata decisiva6. Si potrebbe sostenere - e molti studiosi tedeschi ne sono convinti7 - che la Germania contemporanea si è definitivamente occidentaliz­ zata proprio attraverso la drammatica esperienza della sua recente divisione cinquantennale. La riunificazione del 1990 ha restituito così all’Europa una Germania molto diversa da quella del 1914 e del 1939, tutto sommato equilibrata, il cui trend di marcia verso l’Est, inclusa la sua perenne ambivalenza nei confronti della Russia, sono ormai largamente compensati dai forti legami con l’Ovest europeo e americano, che ne ha connotato la vita dopo il 19458. La disfatta del 1945, e i decenni di divisione delle due Germanie, hanno quindi avuto l’effetto di schiarire l’aria della terra tedesca, ri­ ducendo all’osso il rischio implicito per la stabilità nazionale e inter­ nazionale dovuto alla sua permanente anima autoritaria e filorussa e, al tempo stesso, spogliandola di ogni tipo di complesso (di inferio­ rità o di superiorità, a seconda dei casi e dei tempi) verso l’Occiden­ te, nei cui confronti non c’è ormai più spazio per la contrapposizio­ ne, ma neppure per la subalternità9. Si è trasformato il rapporto di amore-odio verso la Francia, dapprima sconfitta e poi recuperata in un legame bilaterale che è stato forte e fruttuoso, così come si è ri­ conciliato il rapporto verso la Gran Bretagna, cugina diversa e co­ munque poco integrabile, come nell’età dell’“oro e del ferro” di Bi­ smarck10, ma sempre percepita come molto affine. Si è altresì arric5. Carsten, 1954, 1982; Lutz, 1985, 1992; Koseliek, 1981, 1988; Cervelli, 1983; Herre, 1980, 1982; Gall, 1980, 1982. 6. Von Krockow, 1990, 1994, ed. it. 7. Si rimanda alla bibliografia su quel dibattito a proposito della “Deutsche Fra­ ge” definito come “Historikerstreif’. Cfr. Rusconi (a cura di), 1987, e relativo bi­ bliografia, nonché Cazzola e Rusconi (a cura di), 1988, per un dibattito dello stesso tipo, ma di dimensioni minori sull’Austria. Si rinvia inoltre alla serie di numeri spe­ ciali della Die Zeit (1992-1993) dedicati al dibattito sull’identità germanica dopo l’unificazione. 8. Burleigh, 1988. 9. Elias, 1989, 1991. 10. Stem, 1977.

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•chita la relazione con l’Italia, che sempre più condivide la stessa geopolitica dei confini dell’Europa, allineate entrambe, come nuove “marche di frontiera”, sull’attuale confine orientale e meridionale dell’occidente. D’altra parte, però, la costante filorussa dell’anima prussiana, che si è rivelata periodicamente nella storia tedesca e che anzi scaturisce dalla sua commistione etnica originaria con gli Slavi (Clausewitz stesso aveva combattuto insieme ai Russi e contro i Francesi durante le guerre napoleoniche), non è necessariamente morta o perduta11. Al contrario essa è ancora presente, ma svolge una funzione minori­ taria come componente parziale e integrativa, mai alternativa, della cultura politica tedesca12. La componente filorussa è stata infatti in grado di assumere politicamente le coloriture più disparate. All’affi­ nità dinastica e culturale dei Re prussiani, durante le prime fasi della autocrazia zarista, ha fatto seguito la politica dell’equilibrio bismarckiana, e successivamente, con la Repubblica di Weimar, l’op­ portunismo militare di Von Seeckt, fino alle teorie geopolitiche eurasiste di Karl Haushofer13 per giungere alla vera e propria annessione o satellizzazione della fascia orientale tedesca all’impero sovietico, nella versione della Deutsche Demokratische Republik, all’ambigua Ostpolitik dei Cancellieri Socialdemocratici, da Brandt a Schmidt, fino alle aperture filosovietiche di Helmut Kohl nei confronti dell’ultimo leader comunista, Michail Gorbaciov. Il dibattito sulla questione tedesca non si è comunque concluso. Esso continua ad essere assai vivo, anche per l’irrisolta questione dei rapporti con quell’ampia fascia di territori ad “Est di Berlino” che hanno gravitato per secoli nell’orbita germanica14. “È probabile - scriveva il politologo Amulf Baring - che la Ger­ mania otterrà per questa via (cioè attraverso la penetrazione econo­ mica nell’Europa dell’Est), quello che il Reich non ha mai potuto conquistare con qualche centinaio di divisioni, ossia la supremazia sui territori immensi situati tra la Vistola, il Bug, il Dniepr e il Don. 11. Clausewitz, 1992, pp. 110-204; si veda inoltre per il concetto moderno di “Ostforschung” Burleigh, 1988, pp. 14 e sgg., nonché Mohler, 1972, 1990, pp. 56 e sgg. 12. Per un esempio di questa consapevolezza si veda Schlögel, 1989; ma anche Groh, 1961, 1980, ed. it. e la letteratura sulla Ostpolitik nella Germania Occidentalle per la quale si rinvia ad Ash, 1995. 13. Haushofer, 1934, 1986, ed. fr.; ma anche il più recente Dughin, 1991, ed. it. e Ferrari, 1994. 14. Santoro, 1996b.

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La Germania è tornata ad essere veramente la potenza egemone sull’insieme dei territori designati con il termine di Mitteleuropa”15. Da Herder, che qualificò la Germania come “la parte tartara dell’Europa”, a Ratzel che ne ha sottolineato la posizione bloccata fra Slavi e Romani, il mito tedesco del tempo andato è infatti passa­ to attraverso fasi alterne, ma sempre indeciso nei termini della sua ambivalenza fra Est e Ovest. Ciò era in gran parte il risultato, (ma al tempo stesso la causa) della sua storica frammentazione statuale, che aveva fatto crescere in modo anche culturalmente differenziato, e allo stesso modo dell’Italia, le diverse regioni della Germania me­ dievale e moderna16. Alcune di queste fasi, infatti, avevano visto un eccesso di attenzione alla “spazialità” delle sue frontiere, invece che alla “legittimità” del suo ruolo politico in Europa. In altri casi, inve­ ce, il “sangue” tedesco aveva prevalso: il che poteva indurre a inter­ pretazioni parziali o esasperate, sia in senso ipemazionalistico, sia in senso imperiale o egemonico, e quindi euristicamente inutili o me­ glio pericolose, sia a sé che agli altri17. Senza l’Europa, e in particolare senza la caratterizzazione dell’Eu­ ropa come cuore dell’occidente, anche il destino della Germania mo­ derna potrebbe risultare quasi del tutto incomprensibile o incerto. Troppo ricca, popolosa e sviluppata per essere gestita da un riesuma­ to Sistema dell’Equilibrio multipolare di tipo ottocentesco, la Germa­ nia contemporanea è troppo “pesante” per non costituire un problema europeo. Anche perché la sua “spazialità” non è certo determinata dall’“estensione” del suo territorio. Questo si limita ad essere - per dirla con Spengler - 1’“impressione”18 puramente sensibile, l’epifenomeno della spazialità. La vera dimensione della spazialità è inve­ ce quella della “profondità”, vale a dire 1’“espressione” della sua lontananza, e quindi della sua distanza. Con la distanza infatti co­ mincia la conoscenza del mondo e al tempo stesso si definisce la “natura” dell’identità. Si individua così il contenuto simbolico di un ordine che si riconosce attraverso la “misurazione della distanza”, e quindi attraverso il metro della “differenza”19. In questo senso si muove la cultura politica imperiale e mandarina cinese che attribuisce, non certo alla “estensione” ma invece alla “di­ stanza”, il valore fondante della “civiltà”, e quindi il senso spaziale 15. Cit. in Le Rider, 1994, 1995, ed. it„ p. 123. 16. Cuvillier, 1979, 1984, 1988, vol. II, pp. 103-150. 17. Burleigh, 1988; Von Srbik, 1950, 1996. 18. Spengler, 1918-22, 1957, ed. it., p. I, 259. 19. Janni, 1996.

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della Cina stessa. Il criterio simbolico della “misurazione di distanza” rappresenta, infatti, in quella cultura, la scala di valutazione della quan­ tità di “barbarie” presente negli “stranieri” rispetto ai “cinesi”20. La di­ stanza dal cuore del palazzo imperiale di Pechino, centro simbolico della Cina, è in relazione diretta alla crescita della barbarie dello stra­ niero. Più grande è la “distanza”, maggiore è la “barbarie” presunta. Anche nel caso dell’Europa, ovvero della civiltà euro-occidentale, il criterio della “distanza” e quindi, per derivazione, quello della “differenza”, contribuiscono a definirne l’identità spaziale. Lo stesso dicasi per il concetto filosofico generale dell’identità germanica, che si definisce essenzialmente nel suo essere culturale e storico, prima ancora che geografico. In questa chiave interpretativa il ruolo della Germania non potrà più essere ridotto alla sua “spazialità”, intesa come rapporto fra la sua lunghezza e la sua larghezza, e quindi all’irrisolta questione del­ le sue “frontiere”, né potrà essere studiato solo in quanto Schwer­ punkt del continente, e al tempo stesso come minaccia costante all’Equilibrio di Potenza europeo. In effetti questa procedura tradizionale, che ha concentrato tutta l’attenzione del mondo sul “peso” della Germania in Europa durante l’Ottocento e il Novecento, ha fatto passare in secondo piano la que­ stione della funzione storica basilare che la Germania, per posizione, per civilizzazione e per sangue, ha svolto a favore dell’Europa du­ rante quasi dodici secoli, opponendosi sistematicamente alla marcia di Eurasia verso Occidente. E stata una costante questa che perfino durante il predominio della Prussia, il più orientale degli Stati tede­ schi, non è mai venuta del tutto meno21. Non è un caso infatti che se l’Europa Occidentale ha avuto l’invi­ diabile privilegio di non conoscere alcuna invasione esterna da Est, almeno a partire dalla metà del secolo X e fino al 1945, caso unico al mondo insieme a quello del Giappone, di indipendenza dalle pres­ sioni di Eurasia, la ragione prima di questa condizione, che ne ha connotato il carattere fortificato e difensivo, è da attribuire inconte­ stabilmente alla presenza tedesca. È stata soprattutto la Germania che, sotto le specie del Sacro Ro­ mano Impero di Nazione Germanica, nelle sue diverse versioni, ha fatto da sponda permanente, tanto contro gli attacchi provenienti da Nord-Est, dapprima attraverso Io strumento politico-militare-religio­ so del Deutscher Orden, poi con il Regno di Prussia, quanto contro quelli provenienti da Est e da Sud-Est, attraverso il Sacro Romano 20. Spence, 1974, 1986; Sabattini e Santangelo, 1986; Sawyer (a cura di), 1993. 21. Seward, 1995, pp. 55-142, ecc.

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Impero e gli Asburgo, fino alle formule più recenti e travagliate del Secondo Reich guglielmino, del Terzo Reich nazista, e, finalmente, come Repubblica Federale, mutilata e divisa che ne ha definitiva­ mente occidentalizzato lo spirito, e che l’ha consacrata come avam­ posto dell’occidente22. Tuttavia, questa sua inequivocabile funzione di baluardo difensivo nei confronti di Eurasia è stata assai spesso mal compresa, e in molti casi mistificata. Le lotte intestine all’occidente europeo, che si sono concluse solo cinquantanni fa con le due guerre mondiali, hanno per troppo tempo messo in ombra la funzione primaria della Germa­ nia verso l’Est. Né gli studi sulla Germania hanno contribuito molto a dissipare questo equivoco23. “Die deutsche Frage”, cioè la questione tedesca, è stata infatti generalmente valutata come un problema storiografico e politico chiuso all’intemo della dimensione spaziale intraeuropea del­ la Germania24. Non è stata proiettata, salvo poche eccezioni, nel con­ testo più generale, delle relazioni dell’Europa con l’Oriente, e quindi della funzione germanica di antemurale difensivo verso l’Eurasia25. Le due anime della Germania, quella occidentalista e quella filo­ russa, si sono infatti spartite il cuore della vicenda storica e politica della nazione e dello stato tedesco. Dopo alterne vicende essa si è conclusa con la rovina collettiva dell’identità tedesca nel 1945. Al punto che oggi la questione dell’identità germanica resta ancora un problema aperto tanto da sollecitare un dibattito lungo e intenso che si è sviluppato dopo la riunificazione perfino su giornali come Die Zeit e altre testate nazionali importanti26. D’altra parte, la nascita graduale della “nazione tedesca” è stato un processo cominciato tardi, non tanto sulle rovine del vecchio Sa­ cro Romano Impero di Nazione Germanica, che aveva concluso il suo ciclo ben prima del suo ufficiale scioglimento nel 1806, quanto a partire dal rafforzamento della Prussia, l’erede dinastica dei Gran Maestri del Deutscher Orden. Ciò significa che il problema del “pe22. Vedi bibliografia sulla Germania, e in particolare i volumi di Cuvillier, 1979-1985; Sheehan, 1989; Craig, 1978; Lutz, 1985, 1992; Schulze, 1982, 1987; Von Srbik, 1950, 1996, ed. it.; ecc. 23. Vedi in Aa.Vv., 1996b, i saggi di W.J. Mommsen, di G.G. Iggers e di G.E. Rusconi. 24. Todd, 1992, 1996; Taylor, 1963; Sheehan, 1989; vedi anche il volume curato da Rusconi, 1987 sull’“Historikerstreit”. 25. Haushofer, 1934; Metzger, 1894. 26. Si vedano i numeri del settimanale Die Zeit nonché sull’inserto mensile dello stesso giornale fra il 1992 e il 1995 (2/92; 1/94; 3/95; 4/95: 5/95; ecc.).

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Fonte: Chaliand G., Rageau J.-P., Atlas des empires, Paris, Payot, 1993

L'Empire allemand en 1871

so” tedesco, nato in Europa solo a partire dall’ottocento, e in parti­ colare dopo il 1871, trae origine anzitutto dal problema della Prussia che si estende verso Ovest in particolare a partire dal 1815, piuttosto che come una forma di sbilanciamento del suo baricentro di potenza nel cuore dell’Europa. In altri termini, non fu tanto l’eccesso di “peso” specifico della Germania rispetto agli altri attori europei, a provocare lo squilibrio che porterà alle due guerre mondiali, quanto il fatto che la “nuova Germania”, cioè l’impero tedesco restaurato da Bismarck, quello che venne definito il “Secondo Reich”, era il prodotto della interpre­ tazione “Kleindeutsche” della germanicità, vale a dire il frutto di una visione riduttiva del ruolo tedesco, che escludeva l’Austria, la Svizzera e tutti gli altri Volksdeutsche, e consisteva essenzialmente in un’operazione di allargamento della Prussia verso Occidente27. Ma questa scelta, tutto sommato tranquillizzante, di Bismarck non risolveva il problema perché la Prussia era portatrice di un messag­ gio ambivalente. Da un lato infatti era una potenza la cui espansione aveva integrato militarmente un vasto spazio in Europa centrale, adottando tutta la serie di misure che, nel giro di tre lustri, trasfor­ marono la nuova Germania nella maggiore potenza militare d’Euro­ pa. Dall’altro lato però era anche un attore europeo alla periferia dell’Europa, con propaggini orientali e inclusioni etniche slave mol­ to consistenti, che spesso si traducevano nell’equivoco di molti eu­ ropei, e perfino di molti tedeschi, di considerare i Prussiani quasi fossero degli Slavi Orientali solo superficialmente teutonizzati. Di qui la leggenda degli “Unni”, connotazione abusiva che sta per “orientali”, che caratterizzò la percezione europea, e specialmente francese, nei confronti dei soldati tedeschi, sia nella guerra franco­ prussiana del 1870-71 che nella prima guerra mondiale28. La Germania, dunque, appariva come un gigante collocato al cen­ tro dell’Europa, ma con troppi legami e presenze all’Est, quasi fosse davvero un paese orientale che si spingeva, minacciandoli, sia verso Occidente che verso Sud. C’è voluta la “terza” guerra mondiale, e la bipolarizzazione, cioè la guerra fredda da poco conclusa, a rivelare invece la preminenza assoluta della funzione tedesca nella difesa di Occidente, e quindi, anche di quella particolare macroregione di Oceania, che abbiamo chiamato Atlantide29. 27. Stem, 1977; Heer, 1968; Stuermer, 1983, 1993; Bismarck, 1898-1915; Thual, 1993, 1995. 28. Si veda ancora Carsten, 1954, 1982, pp. 15-24 e 45-60. 29. Colombo A., 1995, 1996; Donatucci, 1995.

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Sarà sufficiente leggere in prospettiva i fondamenti concettuali della dottrina strategica e operativa della Nato sul Fronte Centrale intertedesco, fra il 1955 e il 1990, per comprendere come, dietro la primogenitura americana, si stagliasse quell’indispensabilità germa­ nica determinata anzitutto dal suo spazio geostrategico, ma non solo da questo, e come questa indispensabilità fosse vincolante per il doppio impegno istituzionale e politico che l’Occidente postbellico si era proposto, quello del “coupling” militare fra Europa e America, e quello della costruzione “tecnomercantile”, prima ancora che fede­ rale, dell’Europa30. Questa essenzialità strutturale della funzione tedesca in Occidente si sta rivelando ancora più importante (in quanto progettuale e proiettata nel futuro) oggi che Atlantide, forma moderna di Oceania, si sta incrinando nelle sue due componenti spaziali costitutive (Eu­ ropa e America), e il potere marittimo risulta sempre più insufficien­ te di fronte ai problemi crescenti di instabilità di Eurasia31, e in par­ ticolare della Federazione russa, nonché dei nuovi attori usciti dal crollo dell’Unione Sovietica, della Jugoslavia e, in prospettiva, della Cina e dell’india. La sua specificità originaria, che è quella della prevalenza del “sangue” e quindi della concezione etnica rispetto alla essenzialità della “terra”, ha certamente contribuito, in molte occasioni, a rende­ re ambigua ed oscura la funzione tedesca perché ambigua ed oscura restava la sua identità. I suoi caratteri originali e le matrici culturali dell’idea di Germania, da Tacito in poi, impedivano infatti, per defi­ nizione, la fissazione definitiva e la concettualizzazione politico­ strategica dei suoi confini. Il “sangue”, infatti, di per sé è un residuo antropologico molto ra­ dicato che definisce storicamente l’identità dei popoli nomadi anche quando essi si trasformano in popoli sedentari. Attraverso il sangue, però, non si stabilisce una volta per tutte il rapporto fra “Sippe”, et­ nia, nazione e spazio di occupazione o insediamento territoriale32. Il collegamento fra le due forme più note di diritto all’identità, quella dello jus soli e quella dello jus sanguinis, rischia così di di­ ventare abnorme e impraticabile. Qualora peraltro si tentasse di as­ sumere come criterio di definizione, la coppia “sangue-terra” (Blut und Boden) si rischierebbe di trarre delle indebite e pericolose con­ seguenze. E ciò non tanto per ragioni politiche o ideologiche, quanto 30. Simon, 1988; Sloan, 1985; Gray, 1988; Ash, 1993. 31. Davis, 1995; Till, 1982. 32. Cuvillier, 1979, 1985; Smith A.D., 1991.

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perché si tratta di un intreccio che, invece di precisare, rende indeci­ frabile il concetto di identità dal momento che mentre assegna una spazialità incerta e indefinita al sangue, gli consente al tempo stesso di acquisire la terra ovunque esso si diffonda ovvero si effonda33. È questo il criterio intorno al quale si sono sviluppati i più cono­ sciuti miti slavofili russi34, quelli balcanici, e in particolare il tragico mito della “Grande Serbia”, o quello più gracile della “Grande Croa­ zia”, durante il XIX e il XX secolo35. Il legame fra sangue e terra con­ sente infatti al sangue di esercitare un diritto di maggiorasco presunto sul territorio storicamente invaso, come nel caso della Krajne serbe di Knin e di Slavonia, mentre permette alla terra di fare le veci del san­ gue, come nel caso del Kossovo, la cui “serbietà” è accreditata solo perché luogo d’insediamento antico, ma non più occupato da secoli. È lo stesso criterio che ha reso difficile lo sfruttamento razionale della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale, dove al mito nazionalista delle “terre irredente” (non del sangue irredento perché il mito del sangue non fa parte della cultura nazionale) si aggiunse quello strategico della sicurezza delle frontiere e dei “confini natura­ li”36, con l’effetto di rendere inaccettabili, perché in contraddizione, sia le pretese etniche, troppo estese in Dalmazia, sia le aspirazioni alla sicurezza, che ci fecero inglobare il Tiralo meridionale austriaco. In realtà, “sangue e terra”, nella versione germanica, di cui il libro di Darré del 1939 è un rivelatore illuminante, aveva un senso solo se l’aggiunta dello ius soli allo jus sanguinis fosse stato spazialmente riservato allo spazio orientale37. Fu quindi un grave errore, come so­ steneva lo stesso Bismarck nel 1871, annettersi l’Alsazia e la Lore­ na, territori dell’occidente che potevano essere lasciati alla Francia. La dimensione naturale della germanicità, infatti, non è basata tanto sul criterio, occidentalista e geopolitico, della “Wacht am Rhein”, la Guardia al Reno di napoleonica memoria, bensì sullo jus sanguinis, integrato dallo spirito di missione verso l’Est (Drang nach Osten)38. La permeabilità, anche culturale, e la mobilità storica delle fron­ tiere tedesche, hanno reso però impossibile ogni disegno di “clari33. Vedi, a questo proposito, la teoria della “Grande Serbia” che realizza portan­ dole alle estreme conseguenze il collegamento inestricabile fra sangue e terra. Vita­ le, 1995; Castellan, 1991; Cviic, 1991, 1993; Tapié, 1969, 1993; Bibo, 1946, 1994. 34. Dunlop, 1983; Agursky, 1987, 1989; Lewin, 1995; Pipes, 1974; Solzenicyn, 1994, 1995; Zinov’ev, 1994. 35. Ferrari, 1994. 36. Toscano, 1968; Seton-Watson Ch., 1967, 1973, ed. it. 37. Evola, 1979, 1989; Darrée, 1939, 1978; Merker, 1990; Raffestin, 1995; Po­ liakov, 1973, 1976; Serra, 1992, 1994. 38. Burleigh, 1988.

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Il confine orientale della civilizzazio­ ne occidentale Fonte: Huntington S.P., The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order, New York, Simon and Schuster, 1996

tas” romana, così come essa si esprimeva un tempo nel “limes”, o di quella cinese significata dalla “Grande Muraglia”. La spazialità del concetto di “limes”, infatti, che fa da cornice allo jus soli, non trova alcuna corrispondenza adeguata nella concezione, di origine nomadica, del diritto di sangue39. Tale distinzione resta ben netta nella cultura degli imperi territo­ riali, sia occidentali (Roma) che orientali (Persia, India, Cina), anche se nella concezione romana (e parzialmente anche in quella dell’im­ pero cinese) le “extemae gentes”, al di fuori del limes, erano pur sempre “sudditi”, ma in generale non meritevoli di essere fisicamen­ te occupati. Si trattava quindi di due forme diverse, ma non incom­ patibili, di jus soli, la prima, quella dell’“impero di amministrazio­ ne”, la seconda, quella dell’“impero di controllo”40. In altri termini il “limes” imperiale stabiliva il confine fra impero “formale” e im­ pero “informale”, vale a dire la classica distinzione fra “influenza” e “dominio”41. Non così in Germania, nonostante che la graduale “romanizzazio­ ne” dei Germani, fin dalla sussunzione del diritto romano, inteso co­ me asse portante e strumento normativo primario del processo di “sedentarizzazione”, alla più tarda invenzione della teoria della “renovatio imperii”, o addirittura della “traslatio imperii”, nella fonda­ zione del Sacro Romano Impero di Nazione germanica, e successi­ vamente con la teoria della “propagatio imperii”42, avessero avuto l’effetto di stabilizzare le popolazioni immigrate. Lo jus sanguinis infatti è sopravvissuto fino ad oggi assumendo gradualmente la for­ ma di “destino” permanente della Germania, rendendo nei fatti diffi­ cile, se non impossibile, la stabilizzazione dei suoi “confini natura­ li”, tanto verso Ovest, Nord e Sud, quanto verso Est e Sud-Est43. Di qui quella che è apparsa, a volte, come l’ambiguità congenita della Germania, sempre a cavallo fra Occidente e Oriente, che tanto ha influenzato, e in modo spesso pregiudiziale, la cultura europea, ma che la politica tedesca dopo l’unificazione del 1871 aveva spesso contribuito ad accreditare con i suoi comportamenti ambivalenti. Di qui il comprensibile ma grave errore di considerare, volta per volta, la Germania come “fonte” dell’occidente romano-germanico e cristia­ 39. Vedi bibliografia sui confini di Roma e della Cina in Millar, 1993; Isaac, 1990, 1992; Whittaker, 1994; Luttwak, 1976, 1986; Bums, 1994; Heather, 1991; Williams, 1996. 40. Whittaker, 1994. 41. Doyle, 1986; Wallace-Hadrill, 1967, 1985. 42. Richardson, 1979. 43. Vedi mappe sui confini della Germania.

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no, oppure come avanguardia storica, mistica e violenta, dell’oriente eurasiatico. Una suggestiva ipotesi interpretativa del passato e del futuro tede­ sco potrebbe invece essere quella che attribuisce alla Germania una funzione centrale, ma al tempo stesso confinaria, rispetto al più vasto concetto di Europa, inteso come cuore dell’occidente. Secondo que­ sta ipotesi le frontiere della Germania, quali che siano, debbono esse­ re considerate come le vere frontiere dell’intera Europa, proprio per­ ché alla Germania sarebbe stata assegnata in sorte la difesa dell’Oc­ cidente dalla pressione dell’oriente. In altri termini, la Germania, ov­ vero l’area d’influenza germanica (la nuova Mitteleuropa) rappresen­ ta tanto il bastione centrale permanente del continente europeo in espansione, quanto il confine mobile della Festung Europa44. Resta tuttavia il fatto che le frontiere della Germania sono ancora incerte. L’ambiguità, ovvero la doppiezza che pareva fisiologica nel­ la vecchia Germania, nasce dal fatto che lo jus sanguinis, originaria­ mente basato sulle aree linguistiche e talvolta etnico-tribali localiz­ zabili per grandi linee, non fissa una volta per tutte il tracciato di confini territoriali precisi e riconosciuti, ma invece penetra nello spazio esterno rispetto alle zone a maggioranza tedesca, soprattutto nella fascia orientale del continente, con sporgenze e rientranze, che hanno delimitato storicamente le rispettive zone, e anche le isole lin­ guistiche, in modo tale che neppure la “pulizia etnica” del secondo dopoguerra ha davvero risolto45. Dall’altra parte, diventa altrettanto difficile identificare con preci­ sione la “germanicità” nella mescolanza etnica, ma soprattutto cultu­ rale, che ad Oriente si è realizzata fin dall’Alto Medioevo fra Ger­ mani, Slavi e Scandinavi, frammentati in centinaia di etnie e tribù, che solo nei secoli successivi si trasformerà in sostanziale egemonia culturale tedesca46. È infatti qui che lo jus sanguinis, per legittimarsi e sopravvivere, diventa cultura, simbolo d’identificazione, e poi Geist, ovvero spiri­ to della Germania, conferendo alla grossolanità originaria e all’in­ compatibilità logica dell’alternativa o della commistione fra sangue e terra, la nobiltà della grande cultura tedesca e la sua capacità di in­ fluenzare, in modo naturale, gli altri popoli attraverso quella formula di “presenza-distanza” che può essere altresì definito, in contrappo44. Vedi Santoro, 1995c. 45. Vedi mappa degli insediamenti tedeschi nel 1933 in Hérodote, 1993. 46. Cuvillier, 1979, 1985; Von Srbik, 1950, 1996, ed. it.

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Le destin des populations allemandes à l’est du Reich et à l’étranger ( ma SUÈDE

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1S—Réfugiés en R.F.A. (1950: sans ta Sarre mais Berlin incluse)

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82.00Û Population allemande demeurée dans le pays d’origine (1950)

Répartition des réfugiés Sur les Länder de R F. A

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Fonte: Higelmann W., Atlas zur Deutschen Zeitgeschite, Munich, 1986

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sizione al modello “autoritario” di dominio della tradizione russa, il modello “egemonico”47. Questa incertezza originaria della “frontiera orientale” dell’Euro­ pa, e quindi delle frontiere della Germania, si è prolungata a lungo nel tempo, anche se le ultime incursioni devastatrici dell’Europa (Unni, Slavi, Ungati, Mongoli)48, obbligarono gradualmente i Tede­ schi a identificarsi, anche spazialmente, e molto prima della loro re­ cente unificazione politica, con l’area che ancor oggi popolano. Ed è a questo punto della Storia che vanno collocate le origini stesse dell’occidente, inteso in senso moderno, come culla e motore della civiltà mondiale. Si tratta cioè di quel processo di “germanizzazione ” dell’Europa Centrale, sulla direttrice Ovest-Est che, in modo graduale, dopo la lunga fase della transizione dovuta al crollo dell’impero Romano d’Occidente e alle invasioni barbariche, sostituì l’antico processo di “romanizzazione”, che era invece a struttura circolare e comunque orientato da Sud a Nord, e successivamente a Sud-Est. La nascita dell’occidente medievale franco-germanico si può quindi misurare sulla base di quella vera e propria “torsione geopolitica”, avvenuta a cavallo dei secoli V e IX, del “centro” d’irradiazione e di dominio del continente dal bacino del Mediterraneo all’area continentale cen­ tro-occidentale europea49. La “perdita del centro” localizzato a Roma, a partire dalla metà del IV secolo, quando la capitale dell’impero venne spostata a Co­ stantinopoli, fino alla sua ricostituzione seminomadica con lo stabi­ limento provvisorio della sede imperiale di Carlo Magno ad Aquisgrana, è la premessa concettuale della trasposizione deW imperium dall’area mediterranea all’area dell’Europa Occidentale renana. Per verità, fin dalla ripartizione imperiale di Diocleziano alla fine del III secolo, la centralità di Roma era andata perduta. Milano, per oltre un secolo, la sostituisce come capitale della “pars occidentalis” (dal 284 al 402 d.C.), testimoniando della graduale periferizzazione dell’area peninsulare (e mediterranea) dellTmpero rispetto alla sua concentrazione di potenza e di sofferenza, nell’area del limes RenoDanubio-Illirico, di cui Milano era il naturale retroterra50. Di qui la torsione verso Nord dell’intero sistema di controllo poli­ tico romano-germanico e la diversa concezione della relazione con 47. 48. 49. 50.

Santoro, 1997. Bloch, 1946, 1949. Chabod, 1961; Lopez, 1962; Duroselle, 1964, ed. it. Vedi bibliografia in Jones A.H.M., 1964.

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'

l’Est e con il Sud-Est, di cui le guerre di Carlo Magno contro i Sas­ soni costituiscono il fenomeno iniziale, e le Crociate di ogni tipo, in­ cluse quelle Baltiche, sono l’episodio più significativo51. La concezione stessa della “rénovâtio imperii", o meglio della “traslatio imperii”, prima franco-germanica e poi solo germanica, ba­ sata sul mirabile “progetto” descritto come “opus imperiale”, il cui fine era il dominio del mondo per continuare l’opera di Dio, resta, nonostante tutto, il cuore del Geist occidentale, dal Baltico al Medi­ terraneo, che proprio nella Germania medievale, e poi, attraverso la sua arbitraria restaurazione romantica, si è gradualmente identificato, sia pure con modalità costantemente incompiute, e arricchito dal pa­ trimonio culturale degli altri Europei, nella Germania moderna52. Questo disegno strategico universale di “opus imperiale” si è ri­ presentato in varie forme durante gli ultimi cinque-sei secoli, sotto le specie delle grandi ambizioni all’egemonia espresse in successione dalle maggiori Potenze europee. È infatti proprio dal declino politico e ideale del Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca che, non ca­ sualmente, germina quasi spontaneamente il disegno di dominio mondiale e imperiale degli Asburgo, gli eredi della corona imperiale, prima con Carlo V, poi con i suoi successori spagnoli e austriaci53. Dall’azione di contrasto verso questa strategia neo-imperiale sca­ turirono le altre ipotesi di egemonia, da quella francese a quella, al­ ternativa e marittima, inglese, finché l’unificazione tedesca, sotto la guida di Bismarck, non è tornata a proporre all’Europa quella stessa formula rivestita dei panni ambigui e, in certa misura, fuorvianti, del neofeudalesimo e del neogoticismo del Secondo Reich54. Se questa lettura per grandi comparti storici è accettabile, almeno come ipotesi di lavoro, allora anche i grandi conflitti interni all’Eu­ ropa che hanno contrassegnato la vita del continente a partire dalla dissoluzione del Sacro Romano Impero, non possono più essere letti solo come lo scontro anarchico fra Grandi Potenze, ovvero come un calibrato e sempre rinnovato equilibrio fra attori essenziali all’inter­ no di un sistema interattivo continentale (Balance of Power)55, ma 51. Pirenne, 1937, 1873; Riley-Smith, 1990; Riley-Smith (a cura di), 1995; Hou­ sley, 1993; Alphandéry e Dupront, 1954, 1974; Christiansen, 1980, 1983, ed. it.; Runciman, 1955, 1966, ed. it. 52. Heer, 1968; Kantorowitz, 1976, ed. it. 53. Kennedy, 1987; Yates, 1975, 1990; Kann, 1974, 1977; Evans, 1979, 1981; Feito, 1988, 1990. 54. Stuermer, 1983, 1993. 55. Kaplan, 1957; Gulick, 1955, cit. 250

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Fonte: Brzezinski Z., The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997

invece come una inconsapevole lotta per l’eredità di Carlo Magno, di cui Napoleone prima e Hitler poi, sono stati, sia pure per brevi anni, gli aspiranti più vicini alla trama di rifondazione dell’impero europeo unificato, di cui il disegno federale tecno-mercantile dell’Unione Europea è l’esempio più recente. Si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi interpretativa della storia d’Europa fondata sul conflitto e sull’ordine, sulla “norma” e il “nomos”, secondo la lezione di Cari Schmitt, anticipandone però la da­ tazione, dal 1914 al 1550, quando Carlo V Imperatore abdica, ovve­ ro ancora prima, quando Federico II muore nel 125056. L’Europa ha divorato se stessa, fino all’autodistruzione del 1945, proprio perché priva di una consistente minaccia da Est, ovvero da Sud, aveva avuto modo di scatenare delle vere e proprie guerre di egemonia, sia pure regolate e limitate, nell’intento di unificare il continente sotto un solo “ordine” e nell’intento di costruire Tempe­ ro” moderno57. L’Occidente, in altri termini, nasce dalla difesa contro l’Oriente e si cementa attraverso la cultura greca e la potenza romana. Viene travolto successivamente dalle invasioni barbariche e rinasce dalle sue ceneri nelle sue due anime, quella definitivamente occidentale incarnata dal Sacro Romano Impero e quella proiettata verso l’Oriente, incarnata dalla staticità ieratica dell’impero bizantino58. L’impero germanico medievale è stato, infatti, per tutti i membri della Res Publica Christiana il vero sinonimo dell’occidente, nu­ cleo spirituale solido e imprendibile, diverso e anzi “altro” rispetto all’oriente, nonostante la comune origine indoeuropea, nonostante la contiguità territoriale eurasiatica, nonostante la vicinanza ideale e culturale con l’impero Bizantino59. Forma suprema e riconosciuta da Dio della riconciliazione fra autorità politica e libertà, l’impero tede­ sco diventava così il simulacro dell’ordine divino in terra, e al tem­ po stesso attribuiva ai suoi modelli politici un valore assoluto, e quindi la sacralità del suo essere fonte prima del diritto. Un modello questo che, culturalmente, è possibile ritrovare tanto nella tradizione occidentale medievale di tutti i pensatori politici fi­ no a Dante Alighieri60, quanto nella dottrina del diritto pubblico eu56. Yates, 1975, 1990; Kantorowitz, 1976, ed. it. 57. Kennedy, 1987; Levy, 1983; Schmitt, 1950, 1992. 58. Norwich, 1988-1995; Ostrogorsky, 1963, 1968, ed. it.; Ducellier, 1986, 1988, ed. it; Nicol, 1995. 59. Kantorowitz, 1976, ed. it.; Abulafia, 1988, 1990; Bloch, 1946, 1949; Duby. 60. Alighieri, 1950; Chevallier, 1979, 1981, ed. it, pp. 187-310; Strauss e Cropsey, 1963, 1987, ed. it., pp. 295-332; 387-422; 423-446. 252

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Fonte: Brzezinski Z, The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997

ropeo del Concerto delle Potenze e, perfino, nel federalismo istituzionalista e neofunzionale contemporaneo dell’Unione Europea di Bruxelles61. Ovviamente non si è trattato di una vicenda lineare priva di osta­ coli o di contraddizioni interne. Non tanto perché fosse in discussio­ ne la legittimità della “posizione” imperiale rispetto ad ogni altro at­ tore occidentale e cristiano, quanto per i vincoli interni che il Sacro Romano Impero di Nazione Germanica era stato costretto a subire nel corso della sua evoluzione62. Tuttavia questi conflitti e queste antinomie, come la relazione fra ITmperatore e il Papa, ovvero fra il “Dom” e il “Burg”, e poi fra il trono, l’altare e le comunità autonome (come i Comuni italiani o le città anseatiche), ovvero fra missione apostolica e forza politico-mi­ litare, furono il meccanismo che gradualmente produsse quel connu­ bio politico, storico e culturale necessario a dare corpo e anima al concetto stesso di Occidente, liberandolo dai suoi vincoli spaziali obbligati, per farne appunto una “categoria dello spirito”, vale a dire la “metafora dell’occidente”. Tuttavia la superiorità della “Kaisertum” rispetto al “Reich”, cioè del principio ideale della “ragion di Stato” e della dignità imperiale, su quello della “territorialità ” dell’impero, non riesce a estrinsecarsi (e quindi ad imporsi), al di là dei vincoli che si manifestano in uno spazio dotato di frontiere territoriali, e quindi dei limiti di potenza operativi. Questa è l’insanabile contraddizione che non ha finora consentito all’occidente, né di materializzarsi una volta per tutte in uno “spazio” determinato all’interno della territorialità dell’Europa, individuando per questa via la sua costante storica e culturale basata sulla contrapposizione complessiva nei confronti dell’Oriente eura­ siatico, né di decollare nella sua forma spirituale, come modello glo­ bale di “cultura” e di “civilizzazione” egemone. Si può quindi concludere che l’Occidente come “concetto” (Be­ griff) è nato insieme all’idea di Europa, che anzi ne definisce i con­ torni sulla base di due fattori convergenti. Da un lato come impianto spaziale derivato dalla torsione territoriale dellTmpero Romano d’Occidente, dapprima nella Renovatio Imperii franco-teutonica, poi nel Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, mentre dall’altro lato ha preso corpo come contrapposizione necessaria e permanente, sotto le specie di un interminabile duello, basato sulla incolmabile “distanza-differenza”, nei confronti dell’oriente. 61. Bassani, Stewart e Vitale (a cura di), 1995. 62. Vedi bibliografia Heer, 1968.

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L’Occidente, in altre parole, può essere individuato come un terri­ torio vasto, multietnico e dai confini mal tracciati, sottoposto alla re­ gola rigorosa di una idea imperiale (Kaisertum) il cui peso spirituale è stato (ed è tuttora) molto più grande di quanto non fosse quello politico-militare, che ha trovato nelle comete politiche di Federico I e poi II, Hohenstaufen63, e quindi nella successione di “egemoni” mancati, la sua più alta rappresentazione e il modello ideale di fun­ zionamento. Questo Occidente confina a Sud con il Mediterraneo, e si difende, dal mondo arabo-musulmano, mentre a Nord continua l’evangelizzazione e la colonizzazione del Baltico e del mondo sla­ vo. Ad Est si misura con la dispersione dinamica del sangue germa­ nico nei Balcani, mentre ad Ovest fa i conti con la diaspora imperia­ le carolingia che, dal Trattato di Verdun (843) in poi, tende ad una ineliminabile frammentazione interna. Troneggia però, in questo contesto, una incoercibile diversità strutturale rispetto all’Oriente, sancita dal suo carattere difensivo, anche se nella prima fase di formazione dell’occidente moderno, l’identità collettiva, comune a tutti, era davvero molto forte, fondata sul terreno sacrale e mistico (in termini di Geist) offerto dalla reli­ gione cristiana, mentre restava molto incerta sul piano delle misure e delle dimensioni territoriali. Ed è in relazione a questa doppia tradizione che l’odierna “rico­ struzione dell’Europa” dovrà fare i conti, superando sia il concetto di Oceania sia quello, più ristretto ancora, di Atlantide, legando in­ sieme pragmaticamente il modello oceanico degli Stati Uniti a quel­ lo continentalista della Germania e della Francia, agganciando in questa chiave anche il fragile modello “misto” dell’Italia contempo­ ranea64. Il cemento di questa opera di ricostruzione, che punta al ri­ trovamento delle radici, dovrà tuttavia passare attraverso la cruna dell’ago della “separazione” fra l’Europa e l’America, i due emisferi dell’occidente, e la definizione della distanza per differenza, fra l’Europa e l’Asia. In entrambi i casi il destino dell’occidente è ancora una volta alla prova. La sfida è difficile ma l’ipotesi è affascinante.

63. Abulafia, 1988, 1990; Kantorowitz, 1976. 64. Vedi il “caso Italia” in Santoro, 1997.

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