Nostro Ungaretti


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Nostro Ungaretti

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GMERICO GIACHERY

NUOVA UNIVERSALE STUDIUM 54.

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EMERICO GIACHERY

Nostro Ungaretti

EDIZIONI STUDIUM - ROMA

INDICE

Nostro Ungaretti: quasi un preludio

pes

Parte prima TRA PAESAGGI E STAGIONI

I. Paesaggi, stagioni e altro II. Variazioni d’autunno

25 88

Parte seconda TRA SEGNI E VARIANTI

III. A partire da un testo: «Dove la luce»

105

IV. L’inno per una civiltà minacciata

135

V. Poeta della speranza

167

Commiato: l’interprete e il poeta

179

Cenno bio-bibliografico

187

Antico, sei il più giovane di noi tutti, il più vicino ai cosmonauti... Romeo LuccHESE, Ottuagenario occhi di bimbo (poesia del 1968)

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NOSTRO UNGARETTI: QUASI UN PRELUDIO A poche cose ha creduto la nostra giovinezza: ma, fra quelle cose, certamente alla poesia. SERGIO SOLMI

Nostro Ungaretti! Quasi a preventivo risarcimento per qualche insistita minuzia tecnica che in un tratto o nell’altro del cammino interpretativo di questo libro inevitabilmente si incontrerà — e che si vorrebbe non risultasse mai fine a se stessa, ma sempre mirante e conducente ad altro — ci si apra qui a una rigenerante folata della memoria, evocatrice di un nostro magico tempo. Tempo di grazia, dall’aroma tuttora sottilmente struggente per chi poté viverlo, allora, in pienezza e può ritrovarne qualche traccia ripensandolo con intensità. Dopo aver attraversato le pagine che saranno dedicate a testi e motivi del Dolore, il lettore, sperabilmente, intenderà meglio il senso e la funzione, e

diciamo pure l’intimo lievito, di questo breve preludio orchestrato dalla memoria. Si sprigioni ora, dai ripostigli del ricordo, l’aroma di quel tempo. Slancio di adolescenze appena affacciate ai miraggi emergenti della giovinezza ci spingeva verso

la poesia, e la fede irriducibile di Ungaretti nell’uma-

nità della poesia trovava rispondenza nella nostra.

10

QUASI UN PRELUDIO

La freschezza dell’A/legria, che ci pareva libro di sempreverde giovinezza, consuonava con la nostra freschezza. E credo sia rimasto, quel libro con cui sembrava a volte ricominciare il mondo, quel libro-

oasi nella nostra troppo spesso accademica letteratura, credo sia rimasto appetibile alimento anche per i giovani delle nuove generazioni. Arditi accordi di Sentimento del Tempo scavavano, continuavano a scavare entro di noi — ancora, debbo soggiungere, continuano, stimolanti, inesauribili — con il pungolo del loro fascino e mistero, per riaffiorare, un giorno o l’altro, all'improvviso, suggerendo rapporti nuovi tra le cose, stupori di aspetti del mondo scoperti o riscoperti attraverso la parola. Credevamo nella poesia come privilegiato, per fulminea intensità privilegiato, strumento di conoscenza dell’esistere. Certo, la nostra generazione era ben lontana dall'aver accompagnato

col vivere,

come

quella

dei

nostri padri, le fasi delle generose inquietudini e delle crisi del primo Novecento, dell’immane rogo bellico,

delle recuperate misure del primo dopoguerra e anche delle sue raccolte macerazioni, riflesse nell’assiduo

travaglio di Sentimento del Tempo. Solo mediante un approfondimento storiografico, nei tempi lunghi e con adeguati strumenti, avremmo potuto tentare di intendere il senso di un itinerario poetico così dinamico e partecipe. . Il libro ungarettiano più vicino alle nostre esistenze era certamente I/ Dolore, che a distanza di tanti

anni — quasi una vita, ormai — torna ad affascinarci, ad attirarci come uno dei più densi e suggestivi approdi del Novecento lirico.

QUASI UN PRELUDIO

11

Si era in un tempo forse confuso, certo inebbriante della nostra storia, del quale difficilmente le pagine degli storiografi riescono a restituirci integro e autentico il sapore. E che qui piace rievocare non nei distinti

momenti,

nelle

singole

articolazioni,

nel

prima e nel poi, ma in una sintetica totalità omogenea. La vecchia, sempre carissima Europa, dalle rovine dolenti, si guardava attorno stravolta, scrollan-

dosi finalmente di dosso la lunga stagione dei mostri, che era cominciata

a Guernica, come

aveva intuito

Pablo Picasso, la cui contorta e straziata Donna che

piange, del 1937, poteva esser letta come un’immagine dell'Europa presaga dell'imminente destino. Del resto già prima della guerra del 14 gli espressionisti (e specialmente Egon Schiele morto di «spagnola» nel "18) nei loro quadri allucinati sembravano presagire e quasi profetizzare a tanta distanza di tempo la condizione umana straziata e stravolta nell’inferno dei campi di sterminio. Dopo lungo esilio o silenzio, voci spesso illustri tornavano a parlarci. In Italia, tra altri, un gran vecchio che Ungaretti certo non amava, Benedetto Croce, rimasto desto e vigile nella lunga notte, già nel 1942 scriveva che «l’ideale della libertà rimane intatto, e, passata la bufera, si riempie di nuova fre-

schezza e si riempie di giovanile vigore», e che «solo negli animi facili a scoraggiarsi e a smarrirsi e nelle menti aperte al confondersi» può nascere nei tempi oscuri il pensiero «che la libertà sia esulata dal mondo». Nelle sue parole diffuse nel dicembre 1943 dalla radio di Palermo ritroviamo vivo il senso di quella cruciale stagione. Dopo il 25 luglio e la caduta del fascismo — disse — «si riudirono parole che erano

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QUASI UN PRELUDIO

sempre state care al nostro cuore, e ripresero a mani-

festare liberamente il loro pensiero uomini che erano stati per vent'anni ridotti al silenzio, e si vennero rievocando fatti ed avvenimenti che ai più riuscivano nuovi». Per cui «i giovani furono colti da meraviglia e quasi da smarrimento innanzi a questo mondo che risorgeva, del quale si riconoscevano ignari e nel quale pur si sentivano impegnati». Croce sperava che

l’Italia nuova del dopoguerra potesse collegarsi e assomigliare a quella appena uscita dalle lotte risorgimentali, subito dopo la conquistata unità nazionale, «ringiovanita, senza stranieri dominatori, senza tiranni domestici, piena di fiducia, in cui gli avversari politici erano tra loro estimatori e amici»: un'Italia «coi problemi e con le forze dei tempi nuovi, ma col volto umano che serbava allora e che le avevano conferito gli uomini del Risorgimento». Rivolgendosi ai volontari della guerra di liberazione prendeva toni profetici ed encomiastici: «La salveremo e la rifaremo bella come è stata sempre, non solo per le glorie della sua arte, ma per la chiara sua intelligenza, per la sua comprensione e il suo rispetto di tutti i popoli». Da posizioni tanto diverse, in uno stesso volgere d’anni, Croce, intimamente e fermamente avverso al fascismo per religioso amore di libertà, e Ungaretti,

che a certi miti del fascismo aveva creduto e aderito — anche se non senza candore e non senza generose impazienze, come ha mostrato documentando Leone Piccioni - sembravano afferire verso il terreno comune di un caldo sentimento nazionale. Che però non era nazionalismo, precisava Croce, ma «il suo contrario», e differiva da esso come differisce dalla

morbosa lussuria «la gentilezza dell'amore umano per un’umana creatura». Un amore di patria, secondo

QUASI UN PRELUDIO

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Croce, fondato su un concetto di patria «che rappresenta l'umanità tutta e attraverso la quale si lavora effettualmente per l'umanità tutta». Spiriti lontani l’uno dall’altro come più non si potrebbe, il goethiano Croce, tutt’altro che estraneo agli aspetti drammatici

dell’esistenza individuale e storica, ma affascinato dai

templa serena della misura classica, e Ungaretti, il lampeggiante avventuroso Ungaretti. L’uno e l’altro però, profondamente e largamente europei e mediterranei, aperti a un sentimento planetario dell’uomo. Tra lievitare di speranze, dalla cui parte Ungaretti amava allora schierarsi, non va però dimenticato che presto l’ombra velenosa del fungo atomico, immagine di immensa energia disgregatrice scatenabile a volontà d’uomo, comincerà a imprimersi come un

marchio nel nostro inconscio. La fine tanto auspicata dell’inferno bellico non poteva certo dischiudere i cancelli di un eden. Avrebbe dovuto risultare evidente, ma non potevamo, e ancor meno volevamo, rendercene conto.

Troppi fermenti nell’aria, in noi. L'Italia stava forse perdendo la grande occasione storica di più profondo rinnovamento. Di lì a pochi anni ci saremmo sentiti, come tutti i giovani, esclusi dal vivo di una storia che si fa. Ma quanti di noi potevano già avere

lucidità di sguardo e strumenti dottrinali per accorgersene? Ci pareva la nostra grande ora. In qualche modo lo era. L’etica (e il mito) della ricostruzione univa e animava. Il recupero di valori a lungo oscurati, l’ansia di risanare lacerazioni e fratture col sentimento di una consolante continuità storica interrotta da tanto cata-

clisma: tutto ciò risuonava nelle parole di molti che ci

parlavano e riconoscevamo maestri e consuonava nei nostri cuori.

14

QUASI UN PRELUDIO

A non pochi di noi, meno propensi per formazione e temperamento alle passioni più pugnaci dell’azione rinnovatrice, pareva (intanto) impegno quasi religioso ritrovare il senso dell’antico umanesimo europeo, che si riproponeva in tutto il suo prestigio. Lo storicismo idealistico ancora dominante nelle scuole con l’ultima grande fiammata, nel suo sogno di totalità e di organicità e di una storia come logo concreto e incarnato e luminosa epifania dello spirito che travolge e trascende residui e remore, presumeva

offrirci una chiave per intendere il senso dell’uomo. Quanto ora si attesta parrà forse aberrante a certi pedagogisti che ripudiano con acredine lo spirito che informava i programmi scolastici di quegli anni. Eppure, che avventura intellettuale inebbriante quella cavalcata nei secoli attraverso le conquiste del pensiero umano, quell’affacciarci su un panorama d’insieme sommario, certo, ma smisurato: poche altre

nostre esperienze sono risultate altrettanto ricche di nutrimento e di senso. Ci si schiudeva a un sentimento globale, ma insieme storicisticamente dinamico della civiltà europea. Tra restrizioni di un’esistenza davvero tutt'altro che consumistica, e perciò forse più aderente a valori essenziali, non poche notti liceali trascorse (raro dono, in quell’immediato dopoguerra, la corrente elettrica) al tremolìo di candele e lumini a petrolio, a scoprite momenti, sensi e messaggi dell'Europa classica e cristiana (Santa Maria sopra Minerva, avrebbe detto il tenace umanista Leo Spitzer), gli stessi ai quali Ungaretti innalzava

con I/

Dolore patetico inno. Quel tremulo lume, lucula noctis, che accendevamo nella notte ci dava la sensazione (o l'illusione) di lavorare nella direzione dell’uomo,

dell’uomo perenne.

QUASI UN PRELUDIO

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Ogni voce che ci suggerisse il pathos di un umanesimo animatore ci era propizia: dal prodigioso secondo coro dell’Anzigone alla Vita di Don Chisciotte di Unamuno con l’invincibile giovinezza di quel guar-

dare alto e lontano. La nostra Europa era quella di Thomas Mann non soltanto grande narratore, ma autore degli splendidi saggi europei di Nobiltà dello spirito; di Ernst Wiechert che dopo lungo silenzio si rivolgeva alla gioventù tedesca nel momento storico così suggestivamente illustrato dal film di Rossellini Germania anno zero; di Stefan Zweig, che s’era tolta la

vita per non vedere l’Europa schiacciata dal nazismo vincitore e che aveva delineato l’ideale ritratto dell’homo europaeus nel suo Erasmo dalla dialogica saggezza, dal mite ma pertinace irenismo contrapposto al polemico fanatismo di Lutero. In quegli anni, nei Feuillets d’Hypnos, René Char donava alla notte il sogno di una bellezza che fosse gioia serenatrice, j0y forever, per gli uomini: «Il n’y a pas ure place pour la beauté. Toute la place est pour la beauté». La voce, tanto ascoltata nei primi anni del dopoguerra, di Antoine de Saint-Exupéry, dileguato nell’aria come il suo Petit prince, pronunciava parole di fede nell’uomo. In questo stesso spirito, pochissimi anni più tardi, cercavamo anche con estrosi vagabondaggi nei paesi d’oltralpe un'Europa dei giovani, cercavamo di vivere incarnata la speranza così efficacemente espressa nella ballata di Paul Fort: «Si tous les gars du monde pouvaient s° donner la main...» Un senso vivo dell’uomo, soprattutto, chiede-

vamo alla voce dei poeti d’ogni paese, a quell’ideale Internazionale della poesia che ci pareva il fiore di una civiltà. Sorprende che non venga più di frequente ricordata una presenza preziosa alle nostre giovinezze

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QUASI UN PRELUDIO

assetate: quella dei quaderni internazionali di «Poesia» diretti da Enrico Falqui tra il 1945 e il 1948. Nel primo quaderno, apparso nel febbraio del 1945, l’editoriale annunciava: «Sarà la voce dei poeti a soccorrere, quale concreta manifestazione di fratellanza tra uomini di buona volontà». E seguitava: «Mostrò Vico che il mondo nasce, e di continuo rinasce, come fanta-

sia e poesia. Rifacciamoci dunque a più ansiosamente cercare nella poesia di ieri, ed in quella che ricomincia a parlarci, la sorgente luminosa di ogni nostro orgoglio ed amore. Ci saranno così rivelati i segreti del dolore che ci opprime, insieme agli accenti che ridestano la speranza d’un più chiaro domani». Parole, forse, non immuni da risonanze oratorie, ma consen-

tanee a ciò che si aveva nel cuore. In quei quaderni trovavamo voci antiche e riflessioni di poetica accanto a voci di grandi poeti a noi ancora sconosciuti, a voci della più vibrante attualità: poeti francesi della resistenza, poeti russi proletari. Testi difficili, spesso, e non sempre pervii a noi usciti da un tirocinio più o

meno carducciano, ma talvolta testi chiave per intendere la storia della poesia e dell'anima europea. Su quelle pagine appunto, nel secondo quaderno, apparvero tre poesie del Dolore. Gioia della scoperta di un monumento di bellezza e di armonia, un quadro o una piazza o una cattedrale, che arricchiva le nostre vite e ci ridava il

senso di una pienezza dell’essere dopo tanta mutilazione e devastazione. Gioia della scoperta personale di un libro, adocchiato e subito sfogliato in libreria,

acquistato quando si poteva: gioia che ci si comunicava tra amici e sodali, con una sorta di complicità iniziatica. L'arca del libro sopravviveva al diluvio.

QUASI UN PRELUDIO

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L’arcobaleno della bellezza annunciava l’illimpidirsi, finalmente, del cielo.

Preferiti erano i libri dei poeti. Per i poeti stranieri, di solito, i quaderni bianchi di Guanda o i volumetti del «Melograno». Per i poeti italiani si trattava per lo più di volumi appartenenti alla collana, in quegli anni davvero gloriosa, dello «Specchio», con in copertina quella mano affusolata sul libro socchiuso, ritagliata da chissà quale misteriosa Annunciazione gotica, e oggi felicemente ritornata dopo anni di copertine e sopraccopertine assai meno attraenti. Salvatore Quasimodo, dopo che piedi stranieri

imbrattati di sangue ebbero calpestato la natìa isola dei miti, prendeva le distanze dalle incantate sillabazioni della stagione ermetica e con un nuovo verso e ritmo largo e caldo, aperto a nuovi spessori della realtà, si atteggiava a testimone del suo tempo e ambiva a ricoprire la cattedra di vate nazionale, rimasta a lungo vacante: «i poeti non dimenticano»; «più i

giorni s’allontanano dispersi / e più ritornano nel cuore dei poeti». Un critico non benevolo ha osservato come

il suo messaggio

e programma

(«rifare

l’uomo») risultasse quanto meno generico, per non dire pretensioso. E tuttavia è innegabile che non di

rado, in quegli anni, Quasimodo abbia saputo trovare la parola giusta, quella che tutti avevano nel cuore. Una parola, comunque, che ci pareva vivamente umana, non fosse che per la felice comunicativa di Non avrebbero potuto immagini a volte memorabili. non affascinarci certi scorci intensi: parole risalenti

«da un’acqua lapidata; / forse ilcuore ci resta, forse il

cuore...»; strade del Sud «nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse», dove bestemmie di invasori

d’ogni tempo e razza «hanno urlato morte con l’eco

18

QUASI UN PRELUDIO

dei [...] pozzi». Non potevamo, allora, avvederci di quanto viete e convenzionali fossero quelle cetre che, appese ai salici, ondeggiavano lievi al triste vento. E che continuano stancamente a ondeggiare in tante antologie a destinazione scolastica. Con ansia si aspettava la voce di Montale che taceva da tempo (solo pochi iniziati avevano messo l’occhio sulle pagine severe del quasi introvabile Firisterre). Un assaggio, apparso sul secondo quaderno di «Poesia», Iride, uno dei testi più ardui di Montale,

resisteva sfingeo e catafratto nella sua incomprensibilità. Il terzo libro dello schivo poeta, libro di grande respiro come lo stesso autore ebbe ad ammettere, spesso metafisico libro, stilnovista e petroso, comin-

cerà a circolare assai più tardi, inteso da pochi al suo

apparire, a volte rifiutato per gretti pregiudizi ideologici (si pensi alla proterva stroncatura di Carlo Salinari). Comincerà a circolare quando si sarà fatto lontano lo schianto della bufera, quando si saranno spenti gli echi dello «scalpicciare del fandango» infernale. La «grande presenza dei morti» che domina le parti più pensose del libro sarà ormai più presenza di lari nel sacrario interiore che non strazio di laceranti assenze. La bufera e altro non apparirà più libro di gridi, bensì di pietas commemorativa. Invece I/ Dolore si offriva al nostro attonimento di naufraghi appena approdati quando erano ancora calde, intorno, le ceneri. Più che non le raccoltine

postbelliche di Quasimodo, il terzo libro ungarettiano rappresentava forse davvero, almeno sul versante del dolore collettivo se non su quello del dolore privato, la voce di una sorta di «poeta ufficiale», come suggerirà Pasolini (il quale, sia pure in un suo modo anticonformista e «corsaro», finirà per diventarlo anche

QUASI UN PRELUDIO

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lui). La voce, cioè, di un erede non certo dei modi

espressivi, ma della funzione «nazionale» di poeti dello stampo di Carducci e di Pascoli. Fatto sta che quel libro ci accompagnava non soltanto in virtù di suggestioni meramente poetiche, ma anche in virtù di

certa alta oratoria, o in virtù di certe cadenze cantabili che ci andavamo, allora, ricantando dentro come fos-

sero melodie verdiane: «Cristo, pensoso palpito...», «Santo, santo, santo che soffri». Ci accompagnava con

la scoperta di versi non dimenticabili del diario doloroso di Giorno per giorno («E riempivano passeri la stanza...», «E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...», «Sono tornato ai colli, ai pini amati...»,

«E alla fermezza inquieta d’una linea / Azzurra ogni parete si dilegua»); ci accompagnava con «petrose» immagini di paesaggi esotici; o invece con la grazia di

incantevoli aperture o riprese: «Il tempo è muto tra canneti immoti...», «Alzavi le braccia come ali / E

ridavi nascita al vento...». Soprattutto ci accompagnava con le dense pagine di Roma occupata, che ci restituivano, trasfigurato per tensione metafisica, il paesaggio di nostri indimenticabili giorni d’ansia: l’insensato vagare nell’intrico di una città impietrita dallo sgomento e divenuta incapace di offrirci gioia e «grazie piene di tempo», le «strade esterrefatte» per «gemito d’agnelli» perseguitati e spauriti, i passanti simili a ombre ai piedi di un impassibile Colosseo dalle orbite vuote. Quasi emblema araldico del libro e

chiave della sua ragion poetica, si librava su quel paesaggio la «cupola febbrilmente superstite», lievitata dal sogno eroico del «teso Michelangelo» nello sconvolto secolo del sacco di Roma. A quella cupola — di pietra o di cielo o di sogno che fosse — si affiancavano la Crocifissione masaccesca o pseudomasaccesca

QUASI UN PRELUDIO

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di San Clemente, l’immagine del pino nostrano opposta alla mostruosità di esotiche giungle sotto cieli spie-

tati, i «pietrami memori» del significato di una civiltà capace ancora di parlare umanamente all’uomo. Ed ecco monumenti e opere d’arte raggiungere un vertice di pregnanza spirituale.

Quest’atmosfera e questa tematica si collegavano al senso della nostra vita d’allora, che nell’ansia di

schiudersi e rinnovarsi cercava però autentiche radici pet ancorarsi a quanto di bello e di umano sopravvivesse dai secoli. La prima mostra di capolavori pittorici recuperati, strappati alla distruzione, organizzata proprio nel Palazzo Venezia già tana del tiranno quando ancora tanta parte d’Italia non era stata liberata, ci esaltò

tutti, e vi accorremmo come in pellegrinaggio. Ne conservo ancora il catalogo, men che modesto nella veste tipografica, stampato in lingua inglese dalla Divisione

Monumenti,

Belle

Arti

e Archivi

del

Governo Militare Alleato. Tra i ricordi più commossi di quegli anni fu poter constatare di persona alle prime luci del giorno — dopo lunga notte di viaggio fortunoso l’alba rivelava Santa Maria Novella, l’aurora intiepidiva la pietra forte della torre della Signoria - che le care moli dei monumenti fiorentini sentite come parte di noi e quasi carne di nostra carne erano intatte poco dopo passata la bufera, e potevano e sapevano parlarci ancora. Ricordi come questi, a volte certo molto personali, ma anche - più o meno implicitamente — generazionali, si spera che possano agevolare gli appartenenti a generazioni più giovani a sintonizzarsi con motivi e atmosfere di un libro come Il Dolore, a .

QUASI UN PRELUDIO

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meglio intendere l’animo di chi allora lo lesse e l’amò, e oggi lo ricorda con gratitudine e lo rilegge con emozione.

Con animo non molto diverso un reduce della prima Grande Guerra ricorderebbe le pagine più umane, più tenacemente giovani dell’A/legria.

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PARTE PRIMA | TRA PAESAGGI E STAGIONI

I

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO La mia poesia è una cosa della natura, non una cosa esoterica. Una cosa che ha il mistero naturale delle cose naturali. GIUSEPPE UNGARETTI

Non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta. GIUSEPPE UNGARETTI

Four seasons fill the measure of the year; There are four seasons in the mind of man. JoHN KEATS

Paesaggi e stagioni. E legittimo muovere da questi elementi per un compendioso cosmogramma dell'universo di segni e di sensi della poesia ungarettiana? E una via che può valerne un’altra. Ma che risulterà, lo spero, tutt'altro che estrinseca o decen-

trata rispetto al nucleo vitale di quell’universo. Tali dati primari dell'esperienza spaziale e temporale assurgono senza troppe difficoltà alla funzione di piloni portanti dell’universo immaginario ungarettiano. «La natura, il paesaggio, l’ambiente che mi circonda, hanno sempre una parte fondamentale nella mia poesia», tiene a dichiarare Ungaretti. E inoltre il

TRA PAESAGGI E STAGIONI

26

lettore troverà, riportato all’inizio del saggio su Dove la luce, un passo in cui il poeta ricorda come i suoi testi, anche molto ardui, partano per lo più da un dato esistenziale.

molto

semplice,

elementare,

quale

appunto un paesaggio, una stagione. O un’ora della giornata, dato che i tempi della giornata, per ovvia affinità, possono ricondursi al paragrafo della vicenda delle stagioni, come del resto meglio si potrà constatare nel saggio successivo e come anche già si vedrà tra poco. L’itinerario della sua poesia è, intanto, anche

una storia di incontri con paesaggi, vissuti con l’impetuosa capacità di partecipare che è tra i suoi più vivi doni, e che implica anche calda complicità con la dimensione simbolica dell’evento. In un cosmo poetico, dunque, tutto penetrato

dal raggiare simbolico di elementi oggettuali e di eventi — animal symbolicum in genere l’homzo sapiens e in particolare il poeta — paesaggi e stagioni sono realtà d’esistenza in cui si è immersi, ma anche, a volte, per

un verso o per l’altro, quasi segni e messaggi di un senso ulteriore che li trascende, e che si integra poi nel senso totale di un vivere, e diciamo pure di un destino, se vogliamo affidarci a un termine così carico di pathos, e del resto non discaro a due fra i massimi critici-testimoni del nostro tempo, Albert Béguin e Giacomo Debenedetti. Una poesia di paesaggi e stagioni è una poesia fortemente incarnata negli aspetti visibili dell’universo e partecipe ai suoi ritmi, e viene ineluttabilmente ricondotta a una mediazione di cui forse Ungaretti non si rallegrerebbe troppo (pur avendo esplicitamente apprezzato la forza mitopoietica di tale esperienza espressiva): quella dannunziana e più specifica- |

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

27

tamente alcionica, senza la quale, credo, difficilmente

si immaginerebbero certi esiti poetici di Senztizzento del Tempo. Il fauno mallarmeano — magicamente rievocato dalle sonorità raccolte e insieme voluttuose e dal flessuoso arabesco di Claude Debussy, sintonico ai diffusi incantesimi solari del pennello di Auguste Renoir — è riassaporato con amore da Ungaretti anche traduttore (come si potrà del resto scorgere in pagine di questo libro). Il fauno ungarettiano, e verrebbe voglia di dire il fauno Ungaretti per la malizia faunesca - così evidente nel ritratto che di lui fece Scipione — che coesisteva o si alternava con lo stupore fanciullesco del suo sguardo cilestro, contava dunque fratelli oltralpe. Anche l’amico Pablo Picasso, non certo meno avven-

turoso di lui, portava in sé un fauno e restò a lungo affascinato dal mito del fauno. Ma non si può dimenticare, per un poeta italiano

formatosi nel periodo iniziale del Novecento, la presenza del dominante

fauno nostrano, D'Annunzio.

Quel D’Annunzio per il quale, secondo Rebay, Ungaretti esordiente aveva avuto «un periodo di acceso entusiasmo», energicamente rimosso in tempi succes-

sivi. D'Annunzio che Ungaretti aveva definito, in una lettera a Ardengo Soffici del 1923, «il maestro di noi tutti». Naturalmente non si vuole qui riproporre il problema del rapporto tra i due poeti, esaminato da Rebay, da Spezzani, da Mengaldo, da Ossola, e riesa-

minato con profitto da Mario Petrucciani nel fascicolo monografico ungarettiano di «Letteratura italiana contemporanea» (anno VIII,n. 20-21), apparso a ridosso del centenario della nascita. Anche

restando, comunque,

nell’ambito delle

stagioni da cui abbiamo preso le mosse, non si può

TRA PAESAGGI E STAGIONI

28

certo evitare di prendere in considerazione l'estate incipiente poi trionfante poi declinante e l’ora meridiana, ma anche antelucana o vesperale o notturna di Alcione: di un’opera, cioè, la cui centralità nell’orizzonte poetico italiano dei primi decenni del Novecento è stata ormai dimostrata ad abundantiam e con aderente acribia. Come in Alcione, intanto, anche in

Sentimento del Tempo — la cui stesura è, secondo Carlo Ossola, «dannunziana» — senza dubbio furif aestus. Può capitare, comunque, già nell’Allegria di imbattersi in momenti dai quali non parrebbe troppo lontana l’atmosfera, anche ritmica, di Alcione.

Per

esempio i seguenti versi, tratti dalla poesia intitolata Giugno. Fermo

restando, però, che la scansione è

diversa e che un passo isolato ed estrapolato è rondine che non fa primavera: Si estenua come il colore rilucente

del grano maturo.

Il poeta di A/cione è incardinato come pochi altri nei paesaggi e nelle stagioni. La presenza di paesaggi di una circoscritta e intensa geografia — paesaggi divenuti mitici e assunti stabilmente nella storia della poesia: Bocca d’Arno, le pinete di San Rossore, la Lucchesia degli antenati Ungaretti, i liti versiliesi, le azzurre

lontananze apuane tanto care a Pascoli — appare sostanziale, inevitabile in questo figlio, estremo forse, di Pan nell’estate piena di sua vita, tutto immerso, per

possederla e esserne posseduto, nella natura circostante. Ma è pienezza immersa, anche senza che ciò sia desiderato, nella dimensione temporale, e che attinge

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

29

il suo pathos da attesa e da nostalgia; a questo punto il paesaggio s'incontra col modularsi delle stagioni, con questi liturgici ritmi di vita naturale, si scandisce in essi, che al paesaggio infondono colore e sapore; ma anche introducono la presenza della temporalità in quell’effuso e liberante respiro di spazio che è l’oriz. zonte.

Consolazione

di puntuali ritorni, di annuali

appuntamenti, ma anche rapporto con un non sempre lieto «sentimento del tempo», col tarlo di una vicenda

temporale (scorrente, franante), che mette in crisi la gioiosa ma illusoria, o quanto meno precaria, identifi-

cazione col gran Tutto. Immerso nel tempo, allarmato e punto dalla sottile angoscia di esso, il poeta non può più identificarsi ir foto con l’atemporale Pan dagli eterni ritorni. Le prime, quasi impercettibili avvisaglie dell'imminente declino dell’estate sembrano trasformare D'Annunzio in una sorta di vibratile clessidra umana. Ognuno ricorderà i Madrigali dell'estate: «Come scorrea la calda sabbia lieve / Per entro il cavo della mano in ozio / Il cor sentì che il giorno era più breve / E un’ansia repentina il cor m’assalse / All’appressar dell’umido equinozio / Che offusca l’oro delle sabbie salse». Di qui il grido di uno smisurato delirio di vitalità mutilato dalla lama inesorabile del limite: «Estate, Estate mia, non declinare! / Fa’ che prima nel petto il cor mi scoppi / Come pomo granato a troppo

ardore. / Estate, Estate, indugia a maturare / I grappoli dei tralci su per gli oppi. / Fa’ che il colchico dia più tardo il fiore». Grido centrale nell'intero contesto dell’opera dannunziana: il più autentico forse dei non

| pochi suoi gridi, e forse anche (m’è già accaduto di ipotizzarlo altrove) grido-presagio di tutta un'età, la cosiddetta belle époque, di un'onda di vita storica giunta ormai alle soglie del declino, mentre s’avvici-

TRA PAESAGGI E STAGIONI

30

nano

grandi rivolgimenti che muteranno

il volto

d'Europa. Dopo il breve intermezzo o preludio dannunziano, non incongruo, si spera, a quanto seguirà (e che

se non altro è valso a mettere in vibrazione la sfera di risonanza del tema centrale di questa indagine), possiamo cominciare il previsto itinerario servendoci, come indicazioni privilegiate, di certi titoli ungarettiani

colmi

di semanticità,

davvero

pregnanti,

a

cominciare dal titolo dei titoli più e più volte riconsiderato dai critici: il tanto semplice quanto ambizioso Vita d’un uomo; al quale è necessaria glossa il noto passo in cui Ungaretti afferma che di sé vuol soprattutto lasciare una bella biografia. Termine, questo,

che proporrei, se bene interpreto, di leggere così: opera che condensa il senso di una vita, opera-vita. In un’accezione più dantesca che dannunziana. «Bella» non certo nel senso di «spettacolare», e meno ancora di «inimitabile», ma compiutamente e semplicemente umana, e «unanime» (senza escludere possibili collu-

sioni anche con il coevo «unanimismo» d’oltralpe). Vita tradotta in parola; pagina nutrita tutta di vita e in essa scavata «come un abisso». Sequela di momenti nodali, il cui empirico accadere venga trasceso in un senso, in un succo-senso, rivelato dal privilegio di conoscenza concesso al poeta, con gli strumenti orfici che sono sua prerogativa. Vita, comunque, ben consapevole del sentirsi incardinata entro le inevitabili categorie kantiane di spazio e di tempo. Incardinata perciò in paesaggi che possono a volte apparire — lo si è già accennato — segni di un senso che li trascende; e in ore e stagioni che la scandiscono. Stagioni della natura;

stagioni della vita, secondo

una

metafora

antica quanto ovvia, supponibilmente antica quanto .

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

31

l’uomo e perciò fruita da innumerevoli poeti, ma alla quale Ungaretti riesce a ridare nuovo sapore, e ricco senso nell’insieme dell’opera: è prerogativa della poesia, del resto, rigenerare la parola consunta, ridare

stupore e ricchezza di senso alla logora quotidianità.

Un sintetico bilancio, ormai quasi consuntivo, delle

stagioni del vivere e del loro senso possiamo trovarlo nel passo del Dolore che significativamente si apre nel segno del «non più»: Non più furori reca a me l’estate, Né primavera i suoi presentimenti; Puoi declinare, autunno,

Con le tue stolte glorie: Per uno spoglio desiderio, inverno Distende la stagione più clemente!...

Alle formano «modello meriggio,

radici del nostro «immaginario» le stagioni una sorta di sistema dinamico che è poi per i quattro periodi del giorno (mattino, sera, notte)» e per «i quattro periodi della

vita (gioventù, maturità, vecchiaia, morte)». Così Northrop Frye, ricordato da Gennaro Savarese, che in un

breve studio accosta Le stagioni di Ungaretti (1920) a Le quattro stagioni di Saba (1923). Né va dimenticato, e lo ha sottolineato di recente Riccardo Scrivano, che

le stagioni sono uno dei temi rilevanti anche dell’opera poetica di Cardarelli. Uno scorcio sul motivo delle stagioni, supponibilmente coeterno all’arte e alla poesia, dall’arguto frammento di Alcmane (che curiosamente Ateneo ci

ha serbato soltanto come esempio e testimonianza

della voracità di quel poeta) ci condurrebbe all'arte ‘squisita dei miniaturisti dei libri d’ore, coi quali ha

TRA PAESAGGI E STAGIONI

32

parentela il minuzioso, cortese inchiostro di Folgore da San Gimignano, e dopo altro cammino e altre tappe meno importanti ci indurrebbe a una proficua sosta nell’area dell’ Arcadia nostrana, tra Rolli e Meta-

stasio, quando il motivo delle stagioni diventa «quasi obbligatorio» e soprattutto nel vasto spazio del Settecento europeo, quando «le stagioni in quanto tali» fanno «un ingresso trionfale, non episodico nella storia della poesia» col Thomson e il Saint-Lambert, e nella storia della musica coi luminosi capolavori di Vivaldi e di Haydn. (Per il Settecento, oltre al buon volume di Luigi de Nardis sul Saint-Lambert, dispo-

niamo di una penetrante analisi filosofica di Rosario Assunto da cui son tratte le citazioni che precedono). E giungeremmo infine all’ultimo, sinora, dei poeti di

stagioni, Loris Jacopo Bononi, specialmente in quello straordinario libro che è I/ poeta muore (ora ripubblicato insieme all’intera Trilogia), la cui idea iniziale scaturì proprio dall'emozione per la morte di Ungaretti. Bononi, il quale «attraverso le stagioni partecipa ai moti più minuti, alle variazioni più sfumate dell’esistenza terrestre» — così m'è accaduto di scrivere recentemente — e «crea attorno agli accadimenti umani uno sfondo, un respiro che collega col cosmo, un ritmo di eterni

ritorni,

un

tempo

assorto

e spaziato».

Cogliendo affinità e distinzioni, da un percorso del genere potrebbero venirci forse chiarimenti non inutili a meglio intendere la specificità della poesia ungarettiana delle stagioni. Ma ci allontaneremmo dalla linea centrale del nostro discorso. Sono i paesaggi, dapprima, ad avviarci nel cammino. Ancora una volta un titolo può farci da guida: I/ deserto e dopo, non meno significativo nella versione francese A partir du désert.

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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In principio, dunque, era il deserto. «Sono nato

al limite del deserto e il miraggio del deserto è il

primo stimolo della mia poesia. È lo stimolo d’origine». Sul deserto in Ungaretti sono state scritte pagine:

pagine

anzitutto

di Mario

Petrucciani,

e

pagine di Renata Lollo, per esempio. È un motivo fondamentale, come si vedrà e come del resto si può facilmente immaginare. Se diversi sono i sensi della scrittura, come Dante insegna, ma già insegnava Boe-

zio, e il senso letterale è il primo a venirci incontro, constatiamo anzitutto che la presenza del deserto in senso letterale non potrebbe essere più piena. Il deserto africano con le tende dei nomadi è a due passi dalla casa natìia di Alessandria d’Egitto. Duplice deserto di sabbia e d’acqua: «Il deserto, e poi il mare, quel mare che da ragazzo scoprivo come una figliazione del deserto, quel mare che era la solitudine e il nulla come il deserto, quel paesaggio instabile, mutevole d’attimo in attimo». Così è detto in una nota d’autore all’edizione di Tutte le poesie nella collezione

mondadoriana «I Meridiani». E in un'intervista del 1965 rilasciata a Ferdinando Camon: «il deserto era il primo segno che muoveva familiarmente il mio sentimento e la mia fantasia. Circonda, come si sa, insieme al mare Alessandria, la mia città natale. Là, deserto e mare sono in continuo contatto e contrasto: l’uno è

statico e pare immutabile, l’altro è in agitazione per‘petua; il primo rappresenta, senza che uno possa avvedersene, ciò che va deteriorandosi senza posa; l’altro, senza sosta, manifesta furiosamente il rinnovamento.

Sono la mia prima visione della realtà». «Stimolo d’origine», «prima visione della realtà»: è bene tener presente questa sottolineatura della precedenza assoluta, del carattere

fondante

e originario, rispetto

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

all’intero universo immaginario, del paesaggio desertico, col quale si commisureranno gli altri paesaggiemblemi che appariranno in seguito, e gli altri momenti e segni «desertici»: il Carso, un certo paesaggio brasiliano (nonostante la lussureggiante violenza della vegetazione della giungla), il sabbioso deserto di alcuni significativi testi dell'età anziana, come si avrà

occasione di vedere nelle pagine che seguono. Per questa tenace fedeltà interiore al «protopaesaggio», vien fatto di ricordare il caso per qualche verso affine di Montale, così compenetrato col paesaggio marino dell’infanzia, adolescenza e prima giovinezza, da affermare, quando si stabilì a Firenze e fu circondato da quel paesaggio così diverso: «Vidi che il mare era dovunque per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga». Nonostante la presenza del «porto sepolto» dell’antica città (che secondo l’amico degli anni egiziani Enrico Pea poteva scorgersi «ancora

intatto sotto

quelle acque placide»), Alessandria è come estranea alla sua gloriosa storia passata, è figlia soprattutto, come s'è visto, del deserto e del mare. Nella poesia,

Alessandria sembra offrire al lettore — se dal piano letterale si passa al piano simbolico — il caso abbastanza raro di un'immagine archetipa che Ungaretti definisce «il segno stesso della stabilità, della resistenza al tempo» (l’immagine della città). Ora, quel

segno è qui sentito invece come labilità e instabilità: città friabile; quasi in sintonia con «quel senso di effimero che l’Arabo dà alle cose». Città continuamente erosa e come minata dalla lenta inquietudine del deserto attiguo: Ti vidi, Alessandria,

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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Friabile sulle tue basi spettrali Diventarmi ricordo In un abbraccio sospeso di lumi.

Al che non potrebbe trovarsi chiosa più pertinente di questa: «Alessandria è nel deserto, in un deserto dove la vita è intensissima dai tempi della sua fondazione, ma non lascia alcun segno di permanenza nel tempo. Alessandria è una città senza un monu-

mento che ci ricordi il suo antico passato. Muta incessantemente. Il tempo la porta sempre via, in ogni tempo. E una città dove il sentimento del tempo distruttore è presente all’immaginazione prima di tutto e soprattutto».

(Significativo esempio, questo

che precede, sia di interpretazione e rivelazione profonda del senso di un paesaggio, sia di «sentimento del tempo» esplodente nella realtà spaziale di un paesaggio). In un simile contesto, al pari degli altri segni

tangibili della memoria, «neanche le tombe resistono molto». È una città che «ha il deserto, ha i miraggi, ha il nulla, ha la sua nudità immaginaria». Deserto, dunque, così essenziale e condizionante

già soltanto come presenza letterale, e vissuto e introiettato da Ungaretti con tale intensità e pienezza che è impossibile non pensarlo quasi inesauribilmente aperto a sensi ulteriori e risonanze interiori, come del resto s'è già potuto intravedere nei brevi passi citati. Già di per sé, anche restando alla sola tradizione mediterranea, il deserto mostra una potenzialità simbolica di rilevante forza e ricchezza. Gli studiosi di simbologia ricordano la sua fortissima valenza reli-

giosa (si è persino affermato che «il monoteismo è la

religione del deserto», austeramente remoto dai culti

della fecondità), specialmente nelle Sacre Scritture e

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

in scrittori mistici, dove il deserto compare con frequenza e con risonanze simboliche non univoche. Gli stessi studiosi segnalano anche il deserto come luogo propizio alla rivelazione divina e alla supremazia della grazia, estraneo alla fecondità vitale e perciò tutto disponibile alla trascendenza; luogo, anche, dove il

sole regna come «puro fulgore celeste» che acceca manifestandosi,

la cui siccità infuocata «è il clima

ideale per eccellenza della spiritualità» (così JuanEduardo Cirlot). S’è fatto cenno a questa tradizione per certe consonanze possibili con la costellazione simbolica, complessa e mobile, del deserto nell’opera di Ungaretti. In Ungaretti, comunque, come s'è visto e ancora si avrà occasione di vedere, la dimensione simbolica sca-

turisce da una profonda partecipazione esperienziale, esistenziale, non cade in astratti allegorismi. Del deserto vengono colti aspetti certo lontanissimi dalla tradizione ricordata e da ogni astrazione, come «l’erotismo furente che non può non travolgere chi ci vive», con le «sabbie afrodisiache, che luccicano come bril-

lanti: sabbie che ti prendono dalla pianta del piede e ti sconvolgono». (Quella «pianta del piede» sembra quasi involontaria conferma di quanto questo poetaAnteo l’abbia conosciuto per contatto diretto e totale, il deserto). E ancora: «L'effetto più tremendo orrendo stupendo del deserto è l’effetto erotico». Nel deserto si trova anche la radice immediata e vissuta di quella «monotonia» che diverrà, come si confermerà in pagine di un successivo saggio, significativo termine

ungarettiano: «Nel deserto non c’è più né cielo né terra. Tutto ha un uguale e rovente giallo grigio nel quale vi muovete a stento ma come dentro a una nube». E ancora, in una straordinaria pagina sull’ora.

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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voraginosa: «Il sole già cade a piombo, tutto ora è

sospeso e turbato; ogni moto è coperto, ogni rumore

soffocato. Non è un’ora d’ombra né un’ora di luce. È

l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca;

questa è l’ora di notte del deserto». Al deserto «vissuto» Ungaretti fa risalire il suo sentimento della morte: «Sentimento della morte sino dal primo momento, e attorniato da un paesaggio annientante: tutto si sgretola, tutto, tutto non ha che una durata

minima, tutto è precario. Ero preda, in quel paesaggio, di quella presenza,

di quel ricordo,

di quel

richiamo costante alla morte». Al deserto in parte risalirebbe (e Leone Piccioni e Renata Lollo lo sottolineano) anche il sentimento di solitudine e di esilio: «Uno degli stimoli del mio sentirmi staccato da tutto e uomo solo, in assoluto uomo solo, proviene anche dalla prossimità, durante i miei primi vent'anni, del

deserto». Credo che l’esemplificazione sin qui prodotta sia sufficiente a dare un’idea dell’interpenetrazione col deserto di un poeta che dirà di sé, all’inizio

di Sentimento del Tempo, «e già sono deserto», quasi con una sfumatura d’identificazione che conferisce forza al predicato. Credo che non occorrano altre prove per ribadire quanto, nella ventura di questa nascita e crescita ai margini del deserto convergano,

s’incontrino i due termini evocati all’inizio di questo saggio, «destino» e «creazione», e quanto tale ventura sia fruita e messa a frutto dal poeta. Si potrebbe anche pensare al deserto come a una

sorta di metafora del vuoto, di zero iniziale, di spazio

illimite da riempirsi con lo slancio di una vita ancora tutta protesa, tutta aspettazione: pienezza e totalità d’orizzonte in cui tracciare una direzione di scelta e di destino.

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

In ogni caso è interessante soprattutto esaminare

gli elementi più rilevanti della «costellazione» di segni e simboli che fa corona al deserto. Anzitutto il miraggio, che in uno dei passi sopra citati sembra identificarsi col deserto stesso («il miraggio del deserto») e che, collegato intimamente

all’illusione,

rappresenta una delle parole chiave dell’universo immaginario ungarettiano. Il deserto, quello terrestre, ha oasi, come il deserto del mare ha isole, come il

deserto degli spazi siderali ha astri, e galassie, e «astrali nidi d’illusione». Oasi è forse, nello squallore dell’esistenza, il sogno della poesia che contesta il deserto, sfida il vuoto, il nulla, il silenzio del non essere: «vince di mille secoli il silenzio», «il deserto

consola». Oasi è l’affine sogno dell’amore: «Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore». Il nomade: altro termine fondamentale dell’universo di un poeta definito dal «gentile» Ettore Serra «un nomade, calmo in apparenza e rivoltoso nell'anima». L’amico suicida Moammed Sceab era un «discendente / di emiri di nomadi» che «non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi». Al nomade, seguendo l’indicazione di Petrucciani (il quale richiama anche l’attenzione sull’importanza simbolica della sete), deve aggiungersi, povero come il deserto, il fachir che compare nelle prose egiziane: «uomo che non fa conti e non ha vincoli», «uomo che testimonia che solo vive

chi vede l'Angelo», uomo di prodigi e di veggenza, «segno vivente del sacro»; e che perciò, secondo lo studioso ora ricordato, «interpreta simbolicamente la tendenza dell’arte all’inesprimibile». Naturalmente non va dimenticata, nel destino di

questo poeta luminista come pochi altri (e lo si vedrà in uno dei capitoli che compongono questo libro), la

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

5,

smisurata luce del deserto: «L'elemento di vita e anche l’elemento tragico del deserto è la luce». Al che Renata Lollo aggiungerebbe: «Del deserto la luce è l'elemento

fondamentale

ed essa, divenuta motivo

poetico, caratterizzerà direttamente o per emblemi l’intera opera ungarettiana».

Ungaretti stesso, in una lettera del 1947 a Giu-

seppe De Robertis, compendia l'intimo rapporto tra il proprio destino di poeta e il deserto egiziano. All’influsso di questo si deve «quel senso di sete, d’arido, di

miraggio, di sfolgorante e di provvisorio che mi viene dalle apparenze. Ed anche quel senso che le cose che più mi erano

vicine, che erano le mie, erano cose

lontane, assenti, cose d’esilio».

Di deserto si potrebbe anche parlare — con estensione in apparenza alquanto forzata — in senso culturale: non, ovviamente, nel senso di carenza di cultura,

ma nel senso di una sorta di grado zero rispetto alla cultura accademica tradizionale italiana. Rispetto a questa, Ungaretti ha la ventura di cominciare davvero à partir du désert, senza soggiacere a condizionamenti,

con scelte d’istinto, e per forza di occasioni o d’intima sete. Senza, cioè, l’ancoraggio, il bagaglio obbligato che gli sarebbe toccato in sorte se i suoi ascendenti fossero rimasti nella campagna lucchese: avrebbe dovuto raccogliere una probabile eredità di coloritura carducciano-dannunziana, che il forte temperamento

avrebbe senza dubbio sbaragliato e trasceso, ma non forse senza dispendio di sofferenza e fatica. È un fatto che da Svevo in poi (o da Verga in poi) le novità provengono di solito da scrittori marginali in senso di geografia culturale, almeno rispetto alla tenace tradi-

zione toscana; non mancano, si capisce, eccezioni. In ogni modo, anche il biografo-amico di Ungaretti,

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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Leone Piccioni, insiste nel mettere in rilievo quanto importante sia stato per lui «l’essersi formato ad Alessandria d'Egitto, libero d’ogni scelta, e disinteressato alla carriera letteraria», totalmente disponibile all’inebbriante avventura cosmopolita del più magmatico e creativo Novecento tutto incentrato in Parigi. I fiumi, in cui Ungaretti si identifica per un

momento col beduino del deserto chinato a ricevere il sole, evocano questa prima fase della vita contrassegnandola fortemente con l’inconsapevolezza, che è certo il vocabolo di maggior peso, anche fonico, dei celebri cinque versi concernenti il Nilo: Questo è il Nilo

che mi ha visto nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza nelle estese pianure.

L’ardente inconsapevolezza è quella dell’adolescente che, libero da fardelli, s'apre e si abbandona

all’abbaglio degli orizzonti, all’ebbrezza del proprio destino. (Viene in mente una significativa sequenza filmica dell’Edipo re di Pasolini in cui il giovane eroe, al quadrivio del proprio destino, si volge su se stesso, perché tutti i punti dell’orizzonte gli sono egualmente offerti, nessuno a preferenza di un altro). Stagione di grazia, in cui il vuoto non è il nulla, ma è sete, pura e

assoluta potenzialità, tensione entelechiale. Altri paesaggi scandiranno il cammino di consapevolezza. Anzitutto, nel fondamentale recupero di radici, il paesaggio della patria degli avi, incontrato in un’epifania e agnizione di cui si dovrà riparlare in altra tappa di questa nostra esplorazione di territori

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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dell'universo ungarettiano. Dopo tanta ebbrezza di

infinito orizzonte, tanta orizzontalità senza limite, sarà il grande momento, colmo di senso, dell’espe-

rienza della verticalità, la scoperta delle gravi presenze antiche dei monti, verticali come le radici, perché sono i monti della terra degli avi, sconosciuta sino allora ma sempre evocata e sognata nel contesto familiare dell’infanzia. Vedeva per la prima volta i monti Consueti agli occhi e ai sogni Di tutti i suoi defunti.

Ancora una volta è Ungaretti stesso a fornirci la più suggestiva delle chiose. «Quel paesaggio instabile, mutevole

d’attimo in attimo: scomparso,

e, al suo

posto, la montagna: la montagna che sta ferma contro il tempo, che resiste al tempo, che sfida il tempo. Fu quello un fortissimo stupore, forse il più forte che ricordi. Ogni volta che provo una profonda emozione, la provo perché uno spettacolo della natura mi ha fatto conoscere, insieme a una novità oggettiva, la mia novità». Non più vuoto illimitatamente, a perdita d’occhio, l’orizzonte ora si mostra dunque «orlato» di creste e cime talora innevate: è forse anche la scoperta del limite, sul cammino ormai della non lontana matu-

rità. Al silenzio solitario del deserto subentra una patria folta di presenze, ricca di echi e di brusii, di voci

del passato e del presente, sia nelle numerose tormentate redazioni di Popolo sia in 1914-15, che a Popolo

strettamente si collega anche per esplicita dichiarazione del poeta. Fonti sgorgano dal seno profondo della terra madre (in una redazione di Popolo non

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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definitiva si trova il bel distico «Fanfare sperdute nei monti / lembi fragranti di fonti»); e acque serbano antiche immagini, divengono specchi della memoria. Il figlio d’emigranti ritrova la terra dei padri in densa sintesi. Il motivo della patria lo investe nel profondo, e ritorna attraverso gli anni dalla prima apparizione di Popolo (in «Lacerba» del 1915) a Terra, che concluderà significativamente il Dolore. Riprendiamo per un momento 1914-15: Sciamare udiva voci appassionate Nelle gole granitiche; Gli scoprivi boschiva la tua notte; Guizzi d’acque pudiche, Specchi tornavano di fiere origini; Neve vedeva per la prima volta, In ultimi virgulti ormai taglienti Che orlavano la luce delle vette E ne legavano gli ampi discorsi Tra viti, qualche cipresso, gli ulivi,

I fumi delle casipole sparse, Per la calma dei campi seminati Giù giù sino agli orizzonti d’oceani Assopiti in pescatori alle vele, Spiegate, pronte in un leggiadro seno.

Il primo incontro con l’Italia, comunque, nonostante la ricchezza di pathos che lo contraddistirigue, è per ora solo una sosta nel viaggio verso Parigi, verso

un soggiorno fondamentale per il contatto intensamente partecipato con un crogiolo di cultura senza eguali in quegli anni, che consentirà al giovane poeta di conoscere Apollinaire, Breton, Aragon, Rivière,

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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Paulhan, Desnos, e inoltre Picasso, Braque, Delaunay, Modigliani, Soffici. Dopo la scoperta dei monti e della verticalità,

sarà la scoperta, graduale, dell’architettura: corpo sto-

rico, e si vorrebbe dire carne storica, tangibile di una

civiltà. «Mi ero accorto della montagna. L’architettura imparai a conoscerla

dopo, ne fui sedotto in

Francia. E ciò che in Francia mi ha di più sedotto e insegnato: Saint-Julien le Pauvre, oppure la cattedrale di Chartres, insomma certe tappe dell’architettura

prima della Rinascenza». Significativo il fatto che l’architettura è così assimilata da essere scelta come termine di paragone per la pagina del proprio libro poetico: «La pagina del libro la concepisco come la facciata di un bel palazzo, e siccome sono toscano mi piace un’architettura nobile, serena, semplice». Oltre

a quella dell’architettura c’è in quegli anni cruciali la

scoperta di un nuovo mondo di colori lontano da quello desertico come più non si potrebbe (colori reali, s'intende, ma subito fruiti nelle loro vive equivalenze o risonanze simboliche): «Fu la scoperta d’un colore nuovo quella che feci in particolare a Parigi; anzi, delle sfumature all’infinito smorzate del colore;

di come gli oggetti, le persone, il cielo, un albero e tutto possa graduarsi in incessante delicatezza di colore. I grigi di Parigi. I valori dei grigi, lo spegnersi o l’accendersi dei grigi. Non malinconici, mai; è come il risveglio perenne e l’innamorarsi, da un’agonia dolcissima.

Nell’arrivarci,

fui colto

da smarrimento,

subito vinto dalle confidenze di quei grigi inenarrabili». Il dialogo culturale, multivalente e appassionato, in una città nel senso più pieno del termine è strumento privilegiato di conoscenza di sé, del mondo. L’inconsapevolezza dell'adolescenza non

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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potrà più sussistere se non come oggetto di sogno o di

nostalgia. Questa è la Senna

e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto.

Torbido il colore della non-innocenza, dell’acre consapevolezza, della limacciosa memoria, che però

non è soltanto tabe originale, biblico rimorso («Figlia indiscreta della noia, / Memoria, memoria incessante,

/ Le nuvole della tua polvere / Non c’è vento che se le porti via?»). E anche storia, civiltà, perciò fattore essenziale

di piena umanità,

come

si vedrà

nelle

pagine qui dedicate al Dolore. Milano, dove Ungaretti soggiornò nel 1914, stringendo amicizia con Carlo Carrà e discutendo con lui d’arte contemporanea durante interminabili passeggiate su e giù per la Galleria, non può considerarsi tappa fondamentale del cammino, anche se in quella città scrisse le prime poesie. Tuttavia questo non lungo soggiorno nel bilancio della Vita d’un uomo trova un suo senso, anche simbolico: «A Milano è la

nebbia, e le poesie mie di quel periodo danno alla nebbia risalto: è un modo di condurmi a sentire la

confusione della mia mente e di mutare la nebbia in

sentimento d’infinito, per vederci più chiaro». ‘ A segnare una grande stazione del destino sarà ancora una volta un paesaggio di densa tensione emblematica,

quello del Carso,

scoperto

alla co-

scienza letteraria d’Italia dal generoso libro di Slataper, che non è senza convergenze con momenti pressappoco coevi dell’A/legria. Sorta di fratello minore

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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del deserto, il Carso, nel senso che non conosce altra storia se non geologica, come precisa lo stesso Unga-

retti. Ma che entra nella storia, nasce alla storia proprio allora, nel dolore e nel sangue (come purtroppo quasi sempre accade per le nascite alla storia nella tormentata

vicenda

dell’umanità),

con

la terribile

guerra mondiale alla quale così umanamente partecipa il fantaccino Ungaretti. E che, paradossalmente, fa riscoprire il senso dell’uomo, tanto più intenso quanto più minacciato e offeso; come lo riscoprirà

Saint-Exupéry durante la seconda guerra mondiale, nelle sofferenze e speranze condivise tra commilitoni riconosciutisi fratelli. Fratelli: «Parola tremante / nella notte // Foglia appena nata».

Saint-Exupéry scriverà nella Terre des bommes: «Dans un monde devenu désert, nous avions soif de

retrouver des camarades: le goùt du pain rompu entre camarades nous a fait accepter les valeurs de la guerre». Ma subito aggiungerà che in realtà la guerra inganna, che l’esistenza offre ben altre occasioni per lottare insieme costruttivamente, e che l’odio è sem-

pre negatività. E Ungaretti, ripensando, alle soglie della vecchiaia, il tempo della prima guerra, ribadisce che non ha mai odiato, e che nella sua poesia «non c’è traccia di odio per il nemico, né per nessuno». Asserirà che, uomo di pace, aveva accettato la guerra nella convinzione che «la guerra s'imponesse per eliminare

finalmente la guerra». Aggiungendo però subito che queste speranze «erano bubbole, ma gli uomini a volte s’illudono e si mettono in fila dietro le bubbole». Il poeta che ha espresso con tanta autenticità la nuda realtà della guerra e, come egli stesso precisa, «la

presa di coscienza della condizione umana, della fra-

| ternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema pre-

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

carietà della loro condizione», tiene a riaffermare, con

marcata intenzione, quanto il suo modo di partecipare al conflitto fosse agli antipodi di quello di D’Annunzio. Scrive infatti: «Non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi, avevo [...] un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com'è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione». E aggiunge: «Qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante,

mi sarebbe sembrato un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nel suo stato più umile, avevo inteso dare un segno di completa dedizione». In una lettera del 1918 il poeta, così umano e vitale, di Allegria di naufragi e

futuro poeta della civiltà minacciata nella seconda guerra mondiale (come si vedrà a lungo) scriveva dal fronte francese a Jean-Léon Thuile, amico degli anni egiziani: «Non posso rassegnarmi a non sapere ancora

luminosa la civiltà che ho amato tanti anni, e per questo sono lieto di ogni sacrificio che mi si chiede, pet questo, perché non muoia il senso libero della mia anima spiegata al sole». Importante per noi sapere quanto a fondo l’esperienza di guerra, drammatica e totale, col suo reale e

simbolico paesaggio di pietra scabra e dura, abbia inciso nell’itinerario di conoscenza, e come abbia por-

tato al calor bianco l’incontro tra creazione e destino. Scriverà in una lettera a De Robertis: «Poi scoppiò la guerra, e trovai, partecipando alle sofferenze di tanta umanità nelle trincee, il segreto umano, il mistero

poetico, il segno della mia poesia». Sappiamo da altro scritto dell’urgenza della parola in quel tempo ascetica pena: «Non avevo altro ristoro se non cercarmi e di trovarmi in qualche parola», ed era

un di di «il

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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mio modo di progredire umanamente». Al che si potrebbero utilmente aggiungere le seguenti riflessioni, dettate al magnetofono nel 1963, e che possono

intensamente riassumere il senso della lunga stagione di guerra nella «vita d’un uomo»: «La mia poesia è nata in realtà in trincea». Dopo primi tentativi ecco

che «la guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta, perché il tempo poteva mancare, e nel modo più tragico». Perciò, «se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole che avessero avuto un’intensità straordinaria di significato». Dopo la nudità iniziale, originaria del deserto, interpretata spesso nella valenza simbolica di madre di palingenesi poetica, di ripartenza della parola dal fondo e dal silenzio, ecco un’altra nudità, anche più drammatica, della condizione umana e di uno scarnificato destino: «Così si è trovato il mio linguaggio: poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento: quest'uomo solo in mezzo ad altri uomini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti

questi uomini, ciascuno singolarmente, la propria fragilità. E che sentivano, nello stesso tempo, nascere nel loro cuore qualche cosa che era molto più importante della guerra,

che sentivano

nascere

affetto, amore

l’uno per l’altro. E si sentivano così piccoli come erano di fronte al pericolo, si sentivano così disarmati con tutte le loro armi, si sentivano fratelli». Carico di destino — e si direbbe, con termine caro

a Ungaretti, «fatale» come per Enea - l'approdo a quel Lazio che rappresenta, se così è lecito dire, l’antideserto, tanto è folto di nobili alberi e di memorie antichissime, popolato di presenze mitiche. La bella,

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

antica selva presso Marino, sui Colli Albani ancora

intatti negli anni Venti quando Ungaretti abitava a Marino, incantava l’appassionato lettore e interprete della canzone leopardiana Alla primavera o delle favole antiche. Con Jean Amrouche,

che lo intervi-

stava per la radio francese, il poeta rievocava la memorabile selva di lecci o di querce (non certo di ginestre, come è erroneamente registrato) distrutta nell’ultima guerra, e che aveva ispirato Poussin, Corot, Delacroix: una selva dove ci si poteva aspettare, con tutta naturalezza, di veder circolare ninfe, o

di veder apparire Diana, o di veder nascere, al primo fiammeggiare del sole, Apollo appena dissotterrato da Veio (e naturalmente si pensa subito all’emozione numinosa di Apollo: «Inquieto Apollo, siamo desti! // La fronte intrepida ergi, destati! // Spira il sanguigno balzo...»). Alla parola del poeta alla radio si accompagna felicemente la testimonianza di Giovanni Battista Angioletti: «Verso sera Ungaretti ci accompagnò a

piedi da Marino a Castel Gandolfo. Chi sa quante volte aveva già fatto quella stupenda passeggiata; eppure ce ne parlava come fosse la prima. “In questi

boschi abitano le ninfe”, disse con voce leggermente commossa, e l’affermazione parve anche a noi naturalissima, tanto erano colme quelle antiche ombre di grazia, tanto erano nobili insieme e misteriose. Un’aura mitica correva per quei colli risplendenti, un senso di grandezza abitava le valli, e le acque del lago d’Albano raccolte e solitarie riflettevano un cielo da cui gli Dei guardarono corrucciati o compiaciuti le gesta degli uomini, e beatissimi contemplarono le donne che avrebbero rapite a volo, e forse anch'essi trasognati videro la bellezza dell’erbe, la pace dei greggi, la siesta inquieta dei fauni». Presente in più

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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d’una poesia, il lacus albanus (specchio incastonato nel folto verde), è evocato quasi enigmisticamente nel titolo Lago luna alba notte: lago [luna] alba-noltte]. Dal poeta stesso sappiamo che il paesaggio di Tivoli, caro a non pochi pittori del passato e da lui vissuto come uno spazio di remota Arcadia, è quello da cui nasce L'isola («Perché l'isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove son solo: è un punto separato dal resto del mondo,

non

perché lo sia in realtà, ma

perché nel mio stato d’animo posso separarmene»). Se L’isola ha lo «stridulo / Batticuore dell’acqua torrida», in Inno alla morte troviamo un «botro d’irruenti / Acque sontuoso, d’antri / Funesto», che è la cascata della Villa Gregoriana di Tivoli (dove, a quel che dice Ungaretti intervistato da Amrouche, le Sibille avevano i loro antri). Anche in Aura il paesaggio è «probabilmente quello di Tivoli», che però nessun segno del testo caratterizza: non c’è che un monte che «sale

in grembo al cielo» e un «albereto stanco». All’area tiburtina, e precisamente a quella Villa Adriana in cui il raffinato imperatore filelleno pateticamente sognò di ricostruire una sua minuscola Grecia, si può ascri-

vere anche il notturno di U/tizz0 quarto, dominato da esile, «velina» luna che sembra trasportare attraverso

il firmamento «il murmure d’anime spoglie», con presenze animali («toute sort d’animaux se réveillaient,

et appelaient», ricorda Ungaretti) quasi in un miste-

rioso rito di magia naturale «tra i ruderi del teatro».

Di altri luoghi «antichi» si potrebbe parlare, luo-

ghi intrisi di suggestione mitica (forse la metà della vita è il tempo in cui il fascino del mito si fa più forte). I luoghi cioè ricordati in una lettera del 1952 a Piero Bigongiari: «Ieri ho ascoltato Pesto, e Elea e Palinuro, e Cuma: i luoghi che con la Toscana e il deserto

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

amo sopra ogni altro». I luoghi nei quali scrisse una delle sue pagine più alte: una prosa con vivo senso del sublime dedicata a Elea e al pensiero dei grandi eleati. Ma è giunto il momento di parlare dell’incontro con Roma, destinata a diventare la città della vita,

eccetto la sola parentesi degli anni brasiliani. Incontro cruciale anche per questo nostro itinerario, perché a questo punto soprattutto, in questa città così colma di memoria, così densa di storia, il motivo paesistico

s’interseca col motivo delle stagioni, e va maturando il sentimento del tempo (di pari passo con il libro che da questo sentimento s'intitola): «Nel corso di quegli anni la mia poesia trova forma soprattutto osservando il paesaggio, osservando Roma sotto il mutamento delle stagioni, Roma o la campagna romana. Chi segua le poesie di Sentizzento del Tempo vedrà che quasi tutte le poesie della prima parte descrivono paesaggi d’estate, l’estate essendo allora la mia stagione. Amavo, amo ancora l’estate, ma dalle mie ossa

è lontana, non è più la mia stagione. Sono paesaggi d’estate, oltre misura violenti, dove l’aria è pura, e

hanno il carattere, di cui m’ero appropriato, del barocco, perché l’estate è la stagione del barocco. Il

barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s'è sbriciolato in mille briciole: è una cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova integrità, il vero. L’estate fa come il barocco: sbriciola e ricostituisce. Gli autunni arriveranno un po’ più tardi, con la Terra Promessa. Se c'è qualche ricordo primaverile in quelle poesie, per esempio in Senza più peso, è un’eccezione:

non c’era in quegli anni che l’estate. In quegli anni non arrivavo ad afferrare la natura che quando era in

preda al sole e bruciava il travertino, pietra con la

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

51

quale hanno fabbricato Roma, che segue le stagioni, che le incarna, e in estate è pietra che si dissecca atroce. Poi, in autunno, s’infuoca e, giunto l’inverno,

e cupa».

Altre pagine, concomitanti con queste appena

riportate e tratte da una nota a Sentimento del Tempo, meriterebbero d’essere ricordate. Sono le pagine di Interpretazione di Roma (1954/1965), che hanno certo meritato l’elegante e acuto commento di Luigi de Nardis (nei recenti Saggi di filologia affettiva). Pagine che cominciano col ricordo dell’ingresso a Roma, al pari di tanti illustri viaggiatori del passato, da Porta del Popolo, e, attraverso la mediazione di scrittori e di artisti, da Michelangelo a Piranesi a Scipione, coi suoi

«rossi di porpora» e «rossi in penombra», col «rosso delle ferite» e «il rosso della passione» e «il rosso gloria», approdano inevitabilmente ai motivi nodali del barocco e delle stagioni. (E se ricorre a mediazioni di chiavi letterarie e artistiche è segno, secondo Luigi de Nardis, che forse il fascino più segreto di Roma gli sfugge, e perciò usa «filtri e schermi deformanti», e in definitiva si concentra su un’unica chiave, quella del Barocco). Pagine, comunque, di intensa suggestione: «Quando, capito il Barocco, Roma incominciò a diventarmi familiare, fu mediante l’avvicendarsi delle stagioni che incominciò a farmisi vicina» [...]. «Conobbi, tra San Giovanni e Santa Croce, l’estate in furia, macina calcinante, e l’urlo afono di un travertino inaridito sino a sembrare dissolversi in un acre,

polveroso fumo azzurrognolo. Conobbi l'estate quando il temporale minaccia, quando le nuvole si fanno pietre e le pietre nuvole e i Dioscuri di piazza del Campidoglio s’avventano contro i Dioscuri di Piazza del Quirinale, quando e cieli e palazzi e gente

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

che passa sono travolti e mescolati in un turbine di finimondo che dura poco. Il travertino a Roma è la polpa delle stagioni, le incarna, le veste, le nuda, e

l'autunno è la sua stagione più felice, quando s’impregna d’oro e d’angoscia. L’albero autunnale a Roma è il platano. Fiancheggia i lungoteveri, e ai primi venti d’ottobre sparpaglia un volo di foglie intorno a sé, gialle o magramente verdi striate di giallo, e quando sono a terra sul selciato, tante, un tappeto, chi vi passa su, fugge ossesso dal loro scricchiolìo. [...] L'inverno è dei rari alberi nudi di Roma, città dei pini, sempreverdi».

Citazioni lunghe, certo. Ma valeva la pena di soffermarsi, attraverso la voce non di rado concitata di Ungaretti, sul nesso cruciale tra Roma, estate dell’anno e della vita, e Barocco. Barocco sentito dram-

maticamente. Non come respiro ed estro di «forme che volano» (secondo la celebre definizione di Eugenio D’Ors), bensì come esito estremo, spastico di un

sogno eroico, quello michelangiolesco, portato al parossismo (si pensi al furore plastico del Giona della Sistina uscente dalla balena con slancio incontenibile); giunto a tanta tensione da trovarsi prossimo a

scoppiare, a disintegrarsi. Barocco romano e sostan-

zialmente cristiano, figlio appunto di quel Michelangelo che scriveva «né pinger né scolpir fia più che queti / L’anima», e al quale negli anni tardi non nasceva pensiero che non vi fosse «dentro scolpita la morte», del «teso Michelangelò» (evocato nel Dolore) che non concedeva all’anima «neppure la risorsa di spezzarsi». Barocco che assomiglia all’estate. A troppo colma estate, troppo maturo frutto che sta per frantumarsi, inciso e corroso dal dramma della tempo-

ralità. Roma, dunque, città dell’estate (come talvolta

. PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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per Cardarelli) e città del barocco, incontrata e scoperta nel momento dell’estate della vita, con la luce inesorabile che scruta in ogni recesso, con gli amari bilanci,

«i dolorosi

risvegli».

Città

predestinata,

quindi, intrisa com’è di passato e di memoria, con spazi e silenzi in cui naufraga e si perde il «suono» (leopardianamente) d’antiche età, con vicenda bene avvertibile di luci e colori stagionali, a diventare il

luogo privilegiato per il maturare del sentimento del tempo, per l’elaborazione del centrale libro che quel sentimento esprime, certo non soltanto nel titolo. Non che le stagioni e le ore del giorno siano assenti dal primo libro ungarettiano: e sorprenderebbe se lo fossero in un genere di poesia che si vuole simile alle «cose naturali» e fondato «sull’esperienza diretta», opera di un poeta che tiene a riconoscersi nella propria gente che è «gente di terra» (così in Trasfigurazione) dagli occhi «attenti alle fasi / del cielo». Nell’itinerario del ricettivo discepolo di Henri Bergson, con la sua «continua tensione» a «definire il concetto stesso di tempo, a cogliere in esso i momenti

particolari, come il recluso percorre i muri della prigione alla ricerca di una breccia» — così si esprime Giorgio Baroni in uno studio sul tempo secondo Ungaretti —, L’Allegria rappresenta la fase in cui l’attenzione «alla dimensione temporale è svelata principalmente attraverso i tentativi di significare un tempo indeterminato quando non addirittura infinito». In questo libro i segnali di stagioni sono sporadici e non certo frequenti, per lo più primaverili. In Nostalgia ci si trova in un momento «poco prima di primavera». Nella poesia intitolata Si porta domina il tempo di fine marzo: «principio / che ogni anno / scatena la terra». In Ironia si ode «la primavera nei rami neri indolenpe, per 1

Ù

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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ziti», e «benché sia d’aprile nevica sulla città»; ma da

un momento all’altro esploderanno le gemme. In Sentimento del Tempo la scansione in fasi del giorno e stagioni forma una fitta trama, che non si può esaminare partitamente senza incorrere nel fastidio di un lungo elenco. Nonostante l’«ampia ansia dell’alba» che apre in aspettazione di luce, sul testo iniziale, O rotte, incombe il distacco da gioventù, con

«curva malinconia» e «moribonde dolcezze» di presagio autunnale. Seguono immediatamente, con precisa intenzione e indicazione, Paesaggio, ossia un paesag-

gio temporalmente

scandito in Mattina, Meriggio,

Sera, Notte, e Le stagioni, stagioni della vita non meno

che dell’anno. (Ma su ciò si tornerà nel capitolo che segue). Dopo le Prizze, ecco la sezione significativamente intitolata La fine di Crono, tutta permeata dal senso del tempo. La poesia, poi, che dà il titolo al libro, conclude gli Inni: E per la luce giusta Cadendo solo un’ombra viola Sopra il giogo meno alto, La lontananza aperta alla misura,

Ogni mio palpito, come usa il cuore, Ma ora l’ascolto,

T’affretta, tempo, a pormi sulle labbra Le tue labbra ultime.

Questa breve lirica - secondo Piero Bigongiari, che di essa ebbe a fare un’analisi nel prezioso fascicolo di «Letteratura» offerto al poeta settuagenario — rappresenta in modo esemplare lo stadio in cui la parola di Ungaretti «fa il punto dell’elementare complesso spazio-tempo in cui si trova a essere immerso». Testo incentrato nel segno della misura esplicitamente

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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denominata nel verso quarto, quasi in «rima di significato» (e del resto in assonanza di significante) con la parola finale del primo verso, giusta, che sembra porre il suggestivo tema e sembra richiamare (secondo Bigongiari) accanto all’idea di giustezza quella di giustizia, ossia di ciò che è come è giusto che sia, di ciò

che va accettato, perché fa parte del destino della

creatura.

Luce giusta, quasi a mezzo

il cielo, non

molto diversamente dal celebre midi le juste di Paul Valéry. E un’apertura difficilmente dimenticabile, con l’immobilità sospesa come di quadro metafisico, così sobrio di elementi («ecco il tempo farsi cosciente - nello spazio — di questo suo esistere», osserva Bigongiari). La sospensione è resa con molta efficacia mediante la sintassi «assoluta» del secondo verso, col gerundio, e del quarto, col suo costrutto quasi latino,

senza stavolta il gerundio (quel gerundio che, per esempio, aveva reso felicemente libera, absoluta, la «tregua» estiva e panica di A/cione: «Or ode i Fauni ridere tra i mirti, / l’Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo»). L'ombra viola sul giogo (viola e lilla di tramonti non mancano in questo libro), col suo segno occiduo, richiama, come ribadisce Baroni, all’affine

fuliggine lilla che «corona i monti» in La fine di Crono.

L’immagine del «giogo meno

alto» introduce un

senso di «riduzione», di ridimensionamento, che rie-

cheggia nel felicissimo verso seguente: «La lontananza aperta alla misura», col suo contrappeso ossimorico e col suo esteso respiro, che segna il culmine della fase «contemplativa», se così si può dire, della consapevolezza piena del tempo acquisita nella matu-

rità. Col senso del limite, ormai, dell’orizzonte, ma senza obliterare — anzi, sertbandola proprio nel cuore del verso — una condizione tuttavia aperta. Se ne

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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potrebbe dedurre, secondo Bigongiari, un’implicita, certo molto implicita, illazione di poetica: «E il proprio della poesia ungarettiana questo chiedere istantemente alla misura —- ch’è il segno di coscienza nell’inconoscibile della creazione — all’infinito del creato». Ma un'estensione di senso come questa ci allontanerebbe dal discorso sulla stagione di maturità, con la presa di coscienza della temporalità che essa implica e che, nella seconda parte della lirica, sembra farsi come

affannosa. La misura, che nel verso quarto appariva espansa nello spazio, nel quinto è demandata al palpito, è scandita dal battito dell’orologio-cuore. Lo sgomento sarà espresso dalla rottura energica, quasi «a strappo», della linea sintattica prodotta dall’inciso: «Ma ora l’ascolto» («Ma ora consapevole», recitava,

un poco più astrattamente, una precedente redazione). Va in ogni modo ricordato che già nell’Allegria, già in quel 1916 che aveva visto sbocciare tante memorabili illuminazioni liriche, questo motivo era apparso, sia pure temporaneamente negato e trasceso nell’annientamento — questo appunto il titolo della poesia — di una fresca e obliosa partecipazione panica, che nella stagione di Sentimento del Tempo non risulterà più possibile: «Appieno infine / sfrenato / il solito essere sgomento [“ragazzo sgomento”, in una precedente redazione] / non batte più il tempo col cuore / non ha tempo né luogo / è felice // Ho sulle labbra / il bacio di marmo». : L’«ombra viola» dell’occaso-autunno sembra come dilatarsi sul finire del libro, nella terzultima poesia, Auguri per il proprio compleanno: Dolce declina il sole. Dal giorno si distacca

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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Un cielo troppo chiaro. Dirama solitudine Come da gran distanza Un muoversi di voci.

uti Non è il primo apparire Dell’autunno già libero?

Il germe del declino, il presagio autunnale si annida nel cuor dell’estate. Ma sappiamo che al centro dell’esperienza di Sentimento del Tempo Ungaretti pone l’estate, in cui regna sovrano il meriggio: «Midi, roi des étés», aveva cantato un altro notevole poeta dell’estate, Leconte de Lisle. Estate violenta, spietata, con l’inquieto, «turbato» demone meridiano, quando

intorno «l’invadente

deserto

formicola

d’impa-

zienze». E «l’ora d’estate che disanima», ossimoricamente «oscura», oltre che «fonda»: il «notturno

meriggio», fratello dell’«ora cieca» evocata nell’intensa pagina sul deserto già riportata in questo saggio e forse non immemore di quanto scriveva Leopardi

poco più che adolescente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi a proposito del momento panico meridiano considerato dagli antichi «tempo di ter‘rore» per il possibile apparire di Dei: «In quel momento, dice Nonno, il sole stesso sembra imbrunire per il calore». Naturalmente nel «notturno meriggio» c’è la violenta pregnanza, o pregnante violenza dell’ossimoro. Violenza barocca. Ma barocca, per Ungaretti, è l’estate: Strugge forre, beve fiumi, Macina scogli, splende, È furia che s’ostina, è l’implacabile,

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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Sparge spazio, acceca mete, È l’estate e nei secoli Con i suoi occhi calcinanti

Va della terra spogliando lo scheletro.

«Potente e quasi intramontabile», secondo Baroni, l’estate di Ungaretti. Specialmente, si potrebbe aggiungere, nel passo appena riportato che appartiene (il lettore l'avrà immediatamente riconosciuto) a Di luglio. Insomma, qui l'estate sembra attin-

gere una sfera mitica, quasi metatemporale, affine a quella attinta dal pur realissimo, all’origine, «protopaesaggio» del deserto, il quale, attraverso la violenza dell’estate, sembra insinuarsi proprio in quel contesto romano

che sembrava

invece, quanto

a densità, a

impregnazione di storia-memoria, rappresentare, come s'è accennato a suo tempo, l’antideserto. Furore dell’estate, dunque, e corrispondente furor espressivo,

che poi fa parte, secondo Cambon, del temperamento di Ungaretti anche dove sembra più «classico». Furor, si potrebbe anche dire, barocco. Tenendo conto del fatto,

naturalmente,

che

l’idea

ungarettiana

di

barocco, nella sua ardita originalità, nella sua polivalenza, meriterebbe un non breve, complesso discorso,

avviato utilmente dal contributo di Francesca Bernardini Napolitano al convegno del 1980 su Ungaretti e la cultura romana. S'intende che il termine «barocco» più che una precisa categoria storica in senso esàtto è per Ungaretti e per l’interpretazione della sua poesia

- come del resto per Gadda e per l’interpretazione del suo mondo espressivo — un termine discorsivo, dialettico, di cui va precisato di volta in volta il senso. Qui si potrebbe quasi parlare di barocco espressionistico, superando la possibile contraddizione tra sostantivo e

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

aggettivo

nel comun

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denominatore

di tensione

estrema, di stravolgimento della misura: di dismisura. Barocco «spastico», direbbe Gadda. All’area del

barocco, alla costellazione di corrispondenze che da esso emana, può condurci anche il senso di morte connesso all'estate ungarettiana. Senso di morte presente anche in immagini del barocco romano (ereditato sotto questo e sotto altri aspetti dalla grande arte di Giuseppe Gioachino Belli), con teschi e scheletri che parlano con voce cristiana e controriformistica di vanitas vanitatum. In questa Roma, ai tempi del Petrarca «universale perché morta da mille anni, perché memoria, perché universo di fantasmi», anche i

ruderi possono apparire come scheletri: il Colosseo, che apparirà in altro capitolo di questo libro, «con orbite senz’occhi» genera «il sentimento dell’eterno» non

meno

del «sentimento

del vuoto».

«Quando

dicevo che il barocco provoca il sentimento del vuoto, che l’estetica del barocco romano era stata mossa dall'orrore del vuoto citavo il Colosseo. Temo di non essere stato chiaro. L’orrore del barocco proviene dall’idea insopportabile d’un corpo privo d’anima. Uno scheletro provoca orrore del vuoto». Se un «corpo privo d’anima» esemplare affiora nel ricordo prima di tutti gli altri, ripensando alla tradizione pur così lunga e ricca dell’arte occidentale, è quello del Cristo della michelangiolesca Pietà Rondanini: di un’opera, cioè,

che Ungaretti non mancava di mostrare (quando ancora si trovava nel Palazzo Rondanini e non era stata trasportata a Milano) agli amici forestieri, e che in occasione della sua ultima visita romana mostrò anche a Gide che ne rimase fortemente impressionato. E non escluderei nel verso del Dolore «E pietà in grido si contrae di pietra» un ricordo della ultima

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

Pietà dell’artista: contratto grido di pietra. Michelangelo degli anni tardi sente, attraverso la crisi delle forme, la crisi di un’età, di un sentimento del mondo; «Nelle muscolature che si tendono o si torcono, nei

corpi che si divincolano ciclopici è entrato uno spasimo dell’animo: pietà!» Da qui (séguita Ungaretti in una delle lezioni tenute in Brasile) «verrà il barocco: la disciplina delle forme ottenuta per assurdo: sconquassandole. Si farà l’ordine col terremoto, si farà la putrefazione col marmo. Con le tibie e con i teschi, si divertiranno a fare le margheritine». «Romano», un simile barocco, ma non berniniano, o comunque non berniniano degli anni pieni. Barocco, s'è detto più

d’una volta, drammatico: «il segno del cataclisma che è in noi, la nostra disperazione», lo definirà in una

lettera del 1952 a Piero Bigongiari. Ma torniamo all'estate spietata e lugubre in D'agosto, che risale cronologicamente a sei anni prima della poesia intitolata Di luglio, anche se nell’impaginazione del libro è collocata dopo. Il senso di morte suggerito dal furore dell’estate è già evidente nel primo verso: «Avido lutto ronzante nei vivi». Ma ecco il seguito: Monotono altomare, ma senza solitudine,

Repressi squilli da prostrate messi, Estate,

Sino ad orbite ombrate spolpi selci, Risvegli ceneri nei colossei... Quale Erebo t’'urlò?

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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Non è questo il luogo per un approfondimento delle interessanti varianti, a partite da un testo amebeo, apparso sulla rivista «Commerce» e intitolato Roma, in cui si alternano le voci di Clio (che rappresenta supponibilmente il tempo, la storia) e quella del Coro,

come

accade

del resto

in tutta la serie di

Appunti per una poesia di cui Roma faceva parte. Nella redazione definitiva trascritta poc'anzi l’allusione all’ambientazione romana del testo traspare soltanto dal verso «Risvegli ceneri nei colossei». È invece esplicita nella prima redazione. Già nel titolo, come s'è visto, e nell’indicazione della Piazza di Santa

Croce, che è ovviamente quella di Roma, non quella più nota di Firenze, come conferma un passo riportato in precedenti pagine sull’estate «in furia, macina calcinante» conosciuta «tra San Giovanni e Santa Croce»: In piazza Santa Croce lastricata D’orbite spolpe il palio corrono Stinchi abbagliati.

L’elaborazione attraverso le varianti chiarisce qualche punto di D’agosto (in cui Carlo Ossola suppone presenza di suggestioni da lirici marinisti, la cui poetica, negli anni del futurismo, era stata «rivisitata» da Ardengo Soffici). Intanto ronzante del primo verso, che ritornerà con tanta intensità in un grande testo «brasiliano» del Dolore, Tu ti spezzasti («ronzante ruggito» di un «sole ignudo»), ha origine da una sinestesia della prima redazione in cui anche si associano i quasi omofoni bronzo e ronza: «Il bronzo delle messi ronza, ape / malinconiosa carne». Che ricorre in successiva redazione: «bronzo ronzante da prostrate messi». E che diverrà infine «repressi squilli da

TRA PAESAGGI E STAGIONI

62

prostrate messi», con evidente analogia tra repressi e

prostrate: entrambi riferiti all’oppressione schiacciante dell’afa estiva. Cosa può suggerire quel luttuoso ronzio del primo verso? Visto dal passo del Dolore, che però è di molti anni dopo e perciò può avere

dato

al segno

valenza

diversa,

significato

diverso, potrebbe far pensare a un folto assillante ronzare di insetti nella giungla brasiliana, con carattere di yzonotonia ossessiva. Mentre la variante bronzo delle messi può ugualmente ricondurre a connotazione ossessiva, attraverso l’ardita sinestesia colore-suono, evocando una sorta di lancinante, inesorabile clan-

gore di gong. Allarmante, funereo clangore, sintonico alla desolazione estiva. Due versi espunti confermano la presenza, nel paesaggio romano, dei segni dell’«invadente deserto»: «Ah! non è il deserto un ricordo / da custodirsi in cuore». S'è visto che tra i termini che caratterizzavano

il deserto

c’era

la monotonia,

poc'anzi ricordata. Monotono, il deserto, per allucinante ripetitività spaziale e temporale. Monotono altomare (altro deserto, sappiamo, anche il mare) è qui apposizione dell’estate, chiarita nella sua genesi dalla prima redazione: «Come l’altomare / monotona stagione / ma senza solitudine». «Senza solitudine» è quasi dire «senza intimità», «senza raccoglimento», in atmosfera popolata da presenze forse invisibili, certo

allarmanti. Prima di lasciare questo motivo dell’estate con le sue corrispondenze simboliche e segniche, ‘questo motivo così intenso e centrale, coi suoi «specchi polverosi», ossia col suo barocco ingannevole abbaglio, si potrebbe fare una marginale osservazione. Tra

i due testi qui analizzati or ora, Di luglio e D’agosto, momenti barocco-espressionistici di ferale furore, s’inserisce — stavolta, almeno nel referente, se non nel

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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significante più che conciso, d’altro barocco, che diremmo rubensiano - Giunone, «tonda quel tanto

che mi dà tormento». Testo brevissimo, al quale Jean

Amrouche,

dialogando col poeta, sembra annettere

non poca importanza. Condensata figurazione mitica (a mio avviso) dell’estate, della sua colma tormentosa carnalità. Gli anni brasiliani (tra il 1936 e il 1942) creano una frattura ricca di conseguenze nella lunga stagione romana,

dividendola in due tronconi, ciascuno con

caratteristiche proprie. E un fatto che entro la «biografia allegorica» di Ungaretti — ribadisce Luciana Stegagno Picchio — «l’esperienza brasiliana è sempre stata vista, dagli altri come

da lui stesso, come un

crinale», che comportò non soltanto i fatti ben noti ai biografi (morte del figlio Antonietto, assiduo scavo nella letteratura italiana del passato per l’impegno di insegnamento, esperimenti di traduzione, totale stasi creativa), ma affinamento artistico, legato a ricchezza

di emozioni scaturite dal contatto con quel mondo così diverso. «Dopo di allora la sua poesia era divenuta diversa: per sempre», continua la studiosa. Con la consueta capacità di partecipare, di immedesimarsi, Ungaretti è riuscito a conoscere a fondo il Brasile; e non si è limitato a visitare le città, ma

(testimonia Murilo Mendes) «ha voluto viaggiare per l’interno e venire a contatto con la gente del popolo e con i suoi rudi costumi»; si è interessato alla musica,

«tanto alla popolare quanto alla erudita»: ha ricercato i canti degli indii e «ha ascoltato meravigliato e com-

mosso i Chéros e le Bachianas di Villa-Lobos»; ha

studiato il portoghese in modo da poter leggere in originale i poeti, tradurli, divulgarli; ha stretto amici-

zia con molti poeti, scrittori e critici del Brasile; si è

TRA PAESAGGI E STAGIONI

64

interessato alle arti figurative, come verrà ricordato in

altre pagine del libro relative al «barocco brasiliano». Pagine alle quali potranno utilmente aggiungersi alcuni passi del discorso tenuto da Ungaretti alla Camera di commercio italo-brasiliana al suo ritorno in Brasile nel 1968 (discorso pubblicato in appendice alle lezioni brasiliane di letteratura nel volume Invenzione della poesia moderna a cura di Paola Montefoschi). «C'era la natura vergine, spaventosa, grandiosa,

imponente, ermetica, colma di prodigi, e le stava di fronte l’uomo civile, con le sue remote e incessantemente rianimate civiltà, l’uomo che si sentiva, di

fronte a quel terrore e a quella magnificenza di foreste e di fiumi, un minuscolo nulla anche se armato d’una potenza di dominio sulla natura, dovuta ai mezzi for-

nitigli dalla sua scienza in vertiginoso sviluppo, ormai più forti di lui. Voglio insomma confessare che devo al Brasile se ho capito il Barocco che tanto tormento dà, da lunghi anni, alla mia ispirazione e alla mia tecnica espressiva. Ho capito in Brasile chiaramente il valore di urto che era nel Barocco, e perché tra innocenza

e memoria,

tra natura

e ragione l’incontro

dovesse sempre manifestarsi violento, e l’ho capito, devo riconoscerlo, più contemplandone il cielo e il paesaggio, viaggiandoci e leggendone gli scrittori, più conoscendovi, in quei luoghi, in quel quadro, faccia a faccia la Morte mentre infuriava sulla creatura umana che mi era più cara, che ammirandone le chièse a Bahia o a Minas, chiese che pure sono incarnazioni bellissime del Barocco». Interessante pagina, questa, non soltanto per l’interazione tra biografia e creazione poetica, ma per meglio intendere l’ipostasi e la

polivalenza della nozione di Barocco in Ungaretti, la sua incidenza anche esistenziale. x

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

65

Si può dire che l’efficacia profonda del paesaggio brasiliano per Ungaretti abbia qualche affinità con l’esperienza del paesaggio vesuviano per l’ultimo Leopardi: con La ginestra, definita in una delle lezioni all’Università di Roma (trascritta dalla viva voce e pubblicata nel 1970 sulla rivista «Prospetti» a cura di Adele Marziale Ligi) «la più alta poesia del Leopardi, e forse nel mondo durante questi due ultimi secoli»; affine la desolazione del deserto sentito dal poeta «come

stato che più gli è consueto», affine il senti-

mento del vuoto, e della piccolezza e fragilità dell’uomo di fronte a una natura violenta e ostile. «Spesso pomposo», il linguaggio della Ginestra si lega «forse all’atmosfera di Napoli»; e «barocco» può dirsi «l’amore per le rovine, il modo di contrapporle ad uno stato di splendore», specie in immagini come «e fur città famose»; ma anche immagini come «l’ignea bocca» richiamano a una sensibilità barocca: «il nero e il rosso, colori della notte e del fuoco sono colori

dominanti nel gusto barocco». L’affinità tra le due esperienze è nell’appropriazione, che è allargamento e arricchimento di conoscenza, di un paesaggio estremo e violento. Specialmente in Tu ti spezzasti, che può corrispondere all’esperienza della Ginestra col «flutto indurato», l’«impietrata lava» figlia del-

l’«utero tonante» del vulcano: I molti, immani, sparsi, grigi sassi Frementi ancora alle segrete fionde Di originarie fiamme soffocate Od ai terrori di fiumane vergini Ruinanti in implacabili carezze

Sopra l’abbaglio della sabbia rigidi In un vuoto orizzonte, non rammenti?

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

Si potrebbe ricordare «lo vòto seren» accanto a questo «vuoto orizzonte», che però si collega piutto-

sto al segno del deserto: Tu ti spezzasti, scrive Glauco Cambon, «ripropone il mito del deserto sotto forma di spiaggia e giungla come forza distruttiva». La sintonia con Leopardi non implica certo un rapporto di dipendenza. Se c'è mediazione letteraria —- e Giacinto Spagnoletti ha parlato di richiamo petrarchesco a proposito del vistoso asindeto del verso iniziale, di selva

dantesca dei suicidi a proposito dell’araucaria della strofa successiva, «Volta nell’ardua selce d’erme fibre

/ Più dell’altre dannate refrattaria» — c'è soprattutto richiamo alla propria poesia. Anzitutto a Dannazione che fa parte degli Inni di Sentimento del Tempo, e non va confusa con l’omonima poesia della serie I/ porto sepolto in L’Allegria: Come il sasso aspro del vulcano, Come il logoro sasso del torrente, Come la notte sola e nuda,

Anima da fionda e da terrori Perché non ti raccatta La mano ferma del Signore?

La doppia e parallela immagine di Dannazione si rinnova e.si dilata in T fi spezzasti con una sorta di sublimità barocca in un’apertura dî paesaggio tutt’altro che privo di «dannazione», non soltanto implicita nell'atmosfera evocata dal testo, ma chiaramente espressa a proposito dell’araucaria, fra le altre piante di questa dantesca foresta pietrificata: «Più dell’altre dannate refrattaria». Ma anche refrattaria è parola troppo specifica per non richiamare esplicitamente a un altro momento cruciale della poesia di Ungaretti

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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espresso nella pietra carsica del San Michele «così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata». E l’«abbaglio della sabbia» , non meno del «vuoto orizzonte», richiama alla

costellazione semantica del deserto. Domina questo paesaggio la tensione «della natura estrema», evocata nel seguito di Ty ti spezzasti. Il nono movimento di Giorro per giorno si apre con un verso drammatico che sarebbe a suo agio in un madrigale destinato alla musica di Claudio Monteverdi: «Inferocita terra, immane mare». In Amaro accordo la

dismisura si congiunge col motivo dell’esotica estraneità; vi compaiono

«giganti erranti / Tartarughe

entro blocchi / D’enormi acque impassibili: / Sotto altro ordine d’astri / Tra insoliti gabbiani». Oltranza e alienità si ritrovano nel «grido» di Un grido e paesaggi, cioè in Gridasti: soffoco: È troppo azzurro questo cielo australe Troppi astri lo gremiscono, Troppi, e per noi non uno familiare...

Un grido e paesaggi contiene altri due testi, Monologhetto e Semantica, in cui il paesaggio brasiliano è evocato in tutt'altra chiave. Se si escludono quattro brevi testi (i tre Svaghi, due legati a un viaggio ad Amsterdam ed uno a Ravenna, più un Esercizio di metrica), si può dire che in questa scarna raccolta, come sostiene Luciana Stegagno Picchio, il Brasile «è

dappertutto. Ma ormai è uno sfondo dell’anima più che un paesaggio reale. C'è nello sfondo tragico del grido (“È troppo azzurro questo cielo australe”) e c'è nell’iniziale Monologhetto, dove il ricordo brasiliano si trascina immediata l’immagine dell’Africa dell’infan-

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

zia: dove di nuovo pensare al Brasile significa da un lato recuperare la propria individuale infanzia di africano e dall’altra rammemorare con strazio l’altra infanzia, perduta nel figlio bruciato dall’esperienza brasiliana. Coerente e perfetta quindi la collocazione qui di Semantica, “paesaggio” reinventato attraverso le parole»; singolare e bizzarra invenzione che muove dalla vitalità di significanti esotici («Il libarò del Guaranì», col gioco estroso su seringuetra, seringa, seringu-

eiro e infine seringal «Con suoni ormai solo da clinica»): una sorta di scherzo fonico sul caucciù originariamente destinato alla rivista «Pirelli», elaborato con

un impegno espressivo che ha meritato un attento studio da parte della Stegagno Picchio. Per quanto concerne Monologhetto, testo a sé nella produzione ungarettiana, dotato di forte carica sperimentale, con

libertà di collegamenti, con travolgenti ritmi di danza da moderno ditirambo, in sintonia col Carnevale di

Rio, si può dire che stagione e paesaggi vi s’intreccino. La mossa iniziale è data dal senso vivo di un particolare momento dell’inverno ormai in declino, il carne-

valesco febbraio, che ha visto nascere il poeta e al quale il poeta sente perciò per qualche vetso di assomigliare: Sotto le scorze, e come per un vuoto,

Di già gli umori si risentono; Si snodano, delirando di gemme.

s

Tra altre immagini di paesi della vita rievocati attraverso il febbraio, il Brasile ha questo di profondamente diverso: che si trova nell’emisfero opposto. Una sorta di mondo alla rovescia, in pieno accordo col motivo carnevalesco sviluppato con tanto estro. Il

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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Carnevale di Rio - che farà da sottofondo orgiastico a una memorabile opera filmica, Orpheu negro di Marcel Camus - può rappresentare una variante tutta particolare della dismisura che altrove assume, come s'è visto, connotazioni drammatiche, e qui si scatena

in una ridda di maschere:

Ovunque, per la scala della nave, Per le strade gremite, Sui predellini dei tranvai, Non c’è più nulla che non balli, Sia cosa, sia bestia, sia gente, Giorno e notte, e notte

-

E giorno, essendo Carnevale. [ul Si soffoca dal caldo: L’equatore è a due passi. Non penò poco l'Europeo a assuefarsi Alle stagioni alla rovescia. E, più che mai, facendosi Il suo sangue meticcio: Non è Febbraio il mese degli innesti? [a] Ma, nella terra australe,

Giunse infine a mettere a un solleone La propria più inattesa maschera.

Fuori dei testi qui ricordati, la presenza del Brasile è affidata a imprecise allusioni: i «canneti immoti» di Il tempo è muto (nel Dolore) appartengono a quel paesaggio, insieme con la «canoa», col «cielo già decaduto a baratri di fumi», ma quella natura impassibile e remota è già immersa in aura mitica, se è vero che il

rematore della canoa «stremato, inerte» è una prima

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idea di Palinuro della Terra Promessa. Oppure, senza contrassegni appariscenti, «il rigoglio / Della selvaggia altura» e «un giardino triste / Della città convulsa» nel primo testo del tardo Dialogo amoroso con la poetessa

brasiliana

Bruna

Bianco;

alla

quale,

comunque, è rivolta una lettera che rievoca il paesaggio di quella terra, rivista negli anni Sessanta: «Non mi era mai parso tanto violento, brutale e attraente il paesaggio di San Paolo. Lo scoprivo ai miei occhi con una spontaneità di immagini che ancora mi sorprende. Le lacerazioni nel rigoglio [ecco il rigoglio della poesia appena ricordata] della vegetazione forsennata, me ne rammento. Quelle torture, quelle scor-

ticature d’aridità sanguinolenti, quelle tigne ossessive che sbiadivano in un colore prezioso di ruggine, me ne rammento». A meglio far intendere la tecnica ungarettiana delle «contaminazioni e intersezioni di paesaggi» appresa già negli anni giovani del «contatto con le avanguardie francesi», Luciana Stegagno Picchio ricorda una bella pagina, pertinente a un discorso come il nostro, di Fernando Pessoa, negli anni brasi-

liani probabilmente non ancora noto a Ungaretti per diretta lettura. È una pagina che in un punto sembra avvicinarsi a un passo famoso dello Zibaldone leopardiano: il pensiero del 30 novembre 1828 sull’«uomo sensibile e immaginoso», per il quale «il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi». Scrive dunque Pessoa: «Ogni stato d’animo è un paesaggio. Voglio dire che ogni stato d’animo è non solo rappresentabile con un paesaggio, ma è veramente un paesaggio». Avendo noi «allo stesso tempo, coscienza dell’esterno e del nostro spirito, ed essendo il nostro spirito un paesaggio, abbiamo al tempo stesso coscienza di due

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paesaggi. Questi paesaggi si fondono, si interpenetrano», così che «l’arte che voglia rappresentare convenientemente la realtà dovrà renderla con una rappresentazione simultanea e del paesaggio interno e del paesaggio esterno. Ne risulta che egli dovrà tentare di produrre un’intersezione tra due paesaggi». (Naturalmente, certe «intersezioni» del Dolore sono

altra cosa da quelle che intende Pessoa). Nel saggio L’inno per una civiltà in pericolo si darà rilievo alla fondamentale importanza, nel contesto della Vita d’un uomo, e al pathos del ritorno dal

Brasile, e si sottolineerà la specificità del secondo tempo «romano» che si apre con questo ritorno, negli anni da cui nascono grandi pagine del Dolore. Dopo il primo approdo in patria del «figlio d’emigranti» che «arriva da un’Africa divenutagli favolosa» (suggerisce Glauco Cambon), questo è il ritorno, nell’Italia coin-

volta nel conflitto, di «un suo figliol prodigo che si lascia alle spalle un’altra terra selvaggia e favolosa, il torrido Brasile, dove la natura non è meno spietata del deserto africano e che appunto per questo fornisce un riscontro negativo all’Italia ritrovata nella sofferenza di una seconda guerra mondiale tanto più

distruttiva» della prima. Si tratta di «un pellegrinaggio dalla natura irredenta alla storia, dal deserto alla città, e dal personale dolore al dolore comune».

Il primo tempo romano comportò, prima dell’incontro pieno e della compenetrazione col barocco lacerato e drammatico che s'è avuto modo di vedere, soprattutto un sentimento del mito, un assorbimento dell’aura mitica: «Vivendo a Roma, nel Lazio, come

potevano non diventarmi famigliari i miti, gli antichi miti?

Li incontravo

ovunque

e continuamente,

e

accorrevano a rappresentare i miei stati d'animo con

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

naturalezza. Non erano che voci del vocabolario accorse ad evocare i fantasmi che di frequente mi apparivano nella città dove vivevo. Non erano figure di rettorica, ma una specie di appropriazione dei miti che tanto mi diventavano famigliari da farmi scrivere una poesia come Girone dove si nasconde chissà quale erotico ricorso». Erano, all’incirca, gli anni in

cui Pablo Picasso attendeva con una sorta di ossessivo furore alla splendida serie della Minotauromachia: discesa alle tragiche profondità del mito, del mito mediterraneo; episodio della durata di circa un decennio, che si pone al centro, per esplicita ammissione dell’artista, del lungo e avventuroso cammino. Non

solo riduttivo, ma inautentico sarebbe, a proposito di Picasso come di Ungaretti, considerare eventi come questi alla stregua di meri fatti di gusto, di semplici fasi di «classicismo». Sono ben altro. Sono il necessario, spesso tormentato incontro con vitali e esigenti quanto affascinanti archetipi.

Dopo la fase mitica che distingue gli anni iniziali di questo primo tempo romano, sappiamo dallo stesso Ungaretti che la scoperta dell'anima barocca della città, con la conseguente partecipe adesione a tale anima, induce a «considerare il barocco anche nel suo

aspetto metafisico e religioso, cioè nel suo rapporto con l’uomo in preda, nel medesimo tempo, all’esalta-

zione della propria infallibilità fantastica di facitore, e al sentimento della precarietà della propria condizione». E Roma diventa la città dove, nella poesia di Ungaretti, l’esperienza religiosa «si ritrova con un carattere inatteso di iniziazione». Ci si avvia, cioè,

verso un modo di sentire Roma che sarà quello degli anni del Dolore. Roma, in questi anni Trenta, è ormai

«al centro delle meditazioni» del poeta. Ma va anche

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detto che, se la città è presente come atmosfera diffusa nella sostanza stessa della poesia, tale presenza voluta-

mente non viene evocata da segni troppo caratteriz-

zanti. Vi si trova poco più che qualche allusione a generici «colossei»: nell’elaborazione dei testi il titolo Roma, come

s’è visto, viene rimosso; l’allusione al

piazzale di Santa Croce in Gerusalemme, soppressa. A dire il vero un’eccezione c’è. C'è menzione esplicita di Roma non soltanto nell’aggettivo del titolo, ma anche nel testo di La pietà romana: «un antico mito di Roma (vedilo in Virgilio) che converge nel cristiano sentimento. Il titolo si riferisce a una statua, conservata, se

ricordo bene, in Campidoglio». Così postilla Ungaretti. La pietà romana è comunque un testo a sé. Si

trova tra gli Inzzi, ma «non si capisce cosa ci stia a fare», dice Cambon,

essendo

un’«ingenua

e bolsa

celebrazione politica», in sintonia con una certa tematica ufficiale del regime fascista. Interessante, comunque, ai fini di quanto seguirà, la notazione che appare nella postilla a proposito di una continuità tra un mito di Roma antica e il «cristiano sentimento». Espliciti, evidenti sono invece, nella seconda stagione romana dopo il ritorno dal Brasile, i segni che caratterizzano Roma bagnata dal «Tevere fatale» testimone di due grandi civiltà. Romz4 occupata non è solo una sezione del libro del Dolore, ma è suo centro

e lievito. Il Dolore «come libro si costituisce a partire dalle poesie romane in esso comprese; sono queste, è

il tema romano, che per meglio dire lo costituiscono nella sua imponente e incalcolata originalità». Così, giustamente, Domenico De Robertis, che insiste sulla «straordinaria vitalità» del nucleo romano nel terzo libro ungarettiano. Segni espliciti, a volte addirittura tipici del paesaggio romano vi compaiono. Accanto al

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quasi araldico

pino mediterraneo

tra le antiche

rovine, accanto al Colosseo, accanto ai Cavalli dei

Dioscuri (evocati per la prima volta in un discorso brasiliano, come ricorda Domenico De Robertis) s’in-

contrano ora anche monumenti cristiani: dalla cupola michelangiolesca di San Pietro alla basilica di San Clemente con gli affreschi della cappella Branda di Castiglione. In Defunti su montagne sembra che all’epifania pagana del Colosseo «su estremi fumi emerso», un Colosseo impassibile e remoto, quasi spettrale, venga contrapposta l’epifania cristiana della crocifissione di San Clemente: Allora fu che, entrato in San Clemente, Dalla crocefissione di Masaccio M’accolsero, d’un alito staccati Mentre l’equestre rabbia Convertita giù in roccia ammutoliva, Desti dietro il biancore Delle tombe abolite,

Defunti, su montagne Sbocciate lievi da leggere nuvole. Da pettinaci fumi risalito Fu allora che intravvidi Perché m’accende ancora la speranza.

Domenico De Robertis ha documentato esemplarmente la genesi di questa poesia, scaturita da una visita nella basilica prossima al Colosseo in compagnia di Alessandro Parronchi. «Ti ricordi quella visita a Masaccio fatta insieme durante l’occupazione tedesca di Roma, credo. Ne nacque una poesia. Te l’offro». Con queste parole Ungaretti accompagnava l’invio di Defunti su montagne a Parronchi, la cui parte nell’in- .

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

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contro romano segnato dal sopralluogo a San Cle-

mente «non fu di testimone, ma di attivo rivelatore»,

secondo l'indicazione di De Robertis. «Attivo rivelatore» nei confronti della lettura dell’affresco. Ungaretti, al quale erano note le luminose pagine di Roberto Longhi intitolate Fatti di Masolino e Masaccio e apparse all’inizio degli anni Quaranta, parla senza esitazione di «crocifissione di Masaccio», scavalcando con decisione la vexata quaestio dell’attribuzione, a

tutt'oggi molto controversa, nonostante l’affermazione di Giorgio Vasari, secondo cui Masaccio «lavorò al Cardinale di San Clemente nella chiesa di San Clemente una cappella dove fece la Passione di Cristo, co’ ladroni in croce». Il testo poetico ha «d’un alito staccati», e la pagina critica di Parronchi parla di esigenza, per il pittore, di «staccare da quell’etere ancora giottesco dove i corpi splendono senza vibrare»; e lo stacco, il passaggio tra le parti dell’affresco avverrebbe «a traverso uno strato di nubi: non più i cirri gelidi che corrono in alto, ma piuttosto vapori che stanno a indicare la perturbazione degli elementi»: le «leggere nuvole» evocate nella poesia. Parronchi, naturalmente, sottolinea la vistosa presenza dei cavalli nella zona inferiore della composizione: «Il movimento dei gruppi è dato dalle masse oscure dei cavalli, su cui si levano, controluce e nell’aria tempestosa, i busti dei cavalieri», e «il gesto del cavallo

bianco impennato col soldato che alza il braccio mette un grido in quella solitudine»; il testo poetico dà rilievo all’«equestre rabbia» che «convertita giù in roccia ammutoliva». E riporta l’immagine entro un contesto dialettico di risonanze simboliche costanti nell’universo ungarettiano: la rabbia convertita in roccia — grido, come dirà Parronchi, ma grido pietrificato

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

- è contrapposta al segno iterato della leggerezza («sbocciate lievi da leggere nuvole»). E la dialettica peso-leggerezza così centrale e vitale nell'opera poetica di Ungaretti, qui riferita a una lettura figurativa sùbito fruita in poesia, e comunque consentanea a un’interpretazione critica proveniente dall’area specifica della storia dell’arte, legata a un vivo dibattito culturale di quegli anni. Ed è molto significativo, è nel profondo pertinente a un libro come I/ Dolore il fatto, sottolineato da Domenico De Robertis, che «in pieno Novecento la parola di un poeta europeo, attivamente partecipe del rinnovamento poetico di questo secolo, entri (o si trovi) anch’essa, a suo modo, nel vivo della

ricognizione e rimeditazione del nostro Rinascimento, e che anzi proprio in essa parola si polarizzi, come

momento

drammatico, decisivo (al momento

cioè che tutto era in giuoco) l’attenzione all’eredità storica di un paese, il senso di una civiltà». Tutto ciò

risulterà meglio nel saggio intitolato L’inmo per una civiltà in pericolo. Per quanto riguarda Defunti su montagne si potrebbe aggiungere, con Glauco Cambon, che in questo testo, come in Folli i miei passi, si invoca «l’esorcismo della grande arte rinascimentale contro le sinistre ambiguità e follie del momento: la scena “reale” della città è miraggio, la scena “finta” della crocifissione masaccesca in San Clemente è la realtà vera e l'emblema profetico di quanto sta accadendo del mondo». Certo qui l’opera d’arte pittorica — analogamente alla parola poetica di Ungaretti — è segno di altro, è messaggio. Messaggio di speranza attraverso e oltre la Passione, di trascendente levità oltre la pietrificazione angosciosa, da leggersi sullo sfondo di una città (che è

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

TR;

anche /a città, figura della civitas bominis) stravolta,

incerta sul proprio destino; con i passi di truppe ostili che risuonano per le strade, coi cannoni del fronte di guerra ormai alle porte, che tuonano, che lampeggiano nell’orizzonte notturno. E l’aprile della Settimana Santa, immersa nell’evocazione memoriale della

Passione e della Resurrezione, aprile «trascinante la nuvola insolubile / Ma d’improvviso splendido». E andrebbe ancora notato che quei «defunti su montagne» richiamano un po’ misteriosamente altri segni della poesia ungarettiana. Defunti e montagne si sono

già incontrati,

gli uni accanto

alle altre, in

1914-15: «Vedeva per la prima volta i monti / Consueti agli occhi e i sogni Di tutti i suoi defunti»; ed ecco che così l'approdo alla patria degli antenati alle soglie della prima guerra si collega al secondo ritorno in patria durante la seconda guerra. Ma ci si potrebbe richiamare, stavolta in luce di speranza cristiana, ad altra immagine di defunto su altezze montane; caris-

sima immagine che emerge da prossime pagine dello stesso libro del Dolore: «Ogni altra voce è un’eco che si spegne / Ora che una mi chiama / Dalle vette immortali...»

L’atmosfera di Roma negli anni più drammatici della guerra è evocata in Folli i miei passi, che è poesia sorella di Defunti su montagne. Il senso stesso del «conversar cittadino» è messo in crisi dai tempi minacciosi. Si vaga senza meta («Folli i miei passi come d’un automa») per le «usate strade», che erano un tempo movimento e vita, quasi partecipi all’esistenza affettiva degli abitanti («una volta d’incanto si muovevano / Con la mia corsa», erano «a ogni mio umore

rimutate»),

e ora sono

come

inerti, mute.

Quasi non più sentite, come una volta, felicemente

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TRA PAESAGGI E STAGIONI

intrise di memoria storica e di tempo vissuto: «ora svolgersi più non sanno in grazie / Piene di tempo». Quasi non più arricchite di significato e bellezza dalla presenza di monumenti: «I segni vani che le fanno vive / Se ci misurano». Secondo la pertinente spiegazione di Cambon, le «opere umane che hanno scandito il tempo, che hanno fatto storia visibile e visibile la storia, diventano “segni vani”, la vanitas vanitatum della storia». Segni, dunque, siga, che danno senso

alla città dell’uomo «se ci misurano»: ossia «se ci danno la misura di quello che fummo e che non sappiamo più essere», suggerisce Cambon.

Forse si

potrebbe anche parafrasare più cautamente: ci danno la misura di quello che siamo attraverso la coscienza storica del passato. Non frequenti, nella poesia ungarettiana immersa nel respiro cosmico di paesaggi e stagioni, gli interni. Uno, molto significativo, è contenuto in Folli i

miei passi. Il centro ideale del «conversar cittadino» è per ciascuno la casa, di cui Ungaretti suggerisce l’intimità, più cara e raccolta in tempi di tempeste storiche, e tuttavia anch’essa, come «le usate strade», divenuta

ormai sorda e spenta: «le penombre caute / Delle stanze raccolte», con «sparsi oggetti», solitamente dalla «tenera voce», che invecchiano con noi, si colo-

rano di tempo, si caricano di memorie (legati come sono «a residui d’immagini» di eventi del viver quotidiano), sembrano non poterci più parlare. Città e casa sembrano dunque depauperate della preziosa umanità delle memorie (anche Montale, negli anni della Bufera,

sembra provare analogo sentimento e sgomento).Il rapporto tra poeta e città, sempre ricco di lieviti, sembra farsi problematico, e tuttavia proprio la ten-

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sione spirituale dell’arte può contenere un germe di speranza, di possibile riscatto: Appresero così le braccia offerte — I carnali occhi Disfatti da dissimulate lacrime, L’orecchio assurdo, — Quell’umile speranza

Che travolgeva il teso Michelangelo A murare ogni spazio in un baleno

Non concedendo all’anima Nemmeno la risorsa di spezzarsi. Per desolato fremito ale dava A un’urbe come una semenza, arcana,

Perpetuava in sé il certo cielo, cupola Febbrilmente superstite.

Ancora una volta è opportuno ricorrere all’esegesi di Glauco Cambon, che meglio di altri può aiutarci a sciogliere i nodi di questi versi. Soprattutto a proposito dell’«umile speranza» appresa da Michelangelo, artefice insonne che «imponeva la misura umana allo spazio disponibile, e così facendo, anziché morti-

ficare la vita le garantiva una continuità nella forma». E a proposito del «rapporto iconico cielo-cupola», e di quel «perpetuava» che sembra alludere all’«arte come lotta col tempo»: «Michelangelo, frammezzo al crollo della civiltà rinascimentale e alle invasioni devastatrici che preannunciarono quelle del secolo attuale, interiorizzava il cielo, teneva viva nel suo

spirito solitario l’idea platonica, e appunto per questo la incarnava in forma spaziale duratura, traduceva l'i sé soggettivo nell’In Sé oggettivo, nel Merzento vivere febbrilmente strappato all’epoca convulsa. La forma

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chiusa, la cupola, con la sua sfericità, allude alla forma aperta, al cielo intero, ed è quindi misura viva, formaidea, incarnazione simbolica dell'armonia cosmica».

«Febbrilmente superstite» nell’intenso finale del testo, ma anche nella memoria del lettore, la cupola

che un grande artista ha donato all’urbe, rendendola alata, e all’orbe, e che si leva verso il cielo dal cuore

misterioso della città, è segno che sintetizza quasi araldicamente la stagione drammatica di Roma occu-

pata.

In questo secondo tempo romano

cominciato

negli anni del Dolore, tempo sul quale sembrano diffondersi luci di tramonto — «clamore di crepuscolo» in Incontro a un pino, il cui titolo in una precedente redazione era stato Lungotevere al tramonto, «quando squillano al tramonto i vetri» in Folli i miei passi —, l'equivalenza Roma-estate non opera più. D'altra parte, l’estate della vita va ormai declinando nell’au-

tunno come il giorno declina nel tramonto. Non so quanti poeti abbiano saputo significare con tanta intensità lo struggimento di quella stagione della vita in cui nel declino vitale chiaramente avvertito gridano ancora i sensi. Il crepuscolo sembra indugiare, non volerci lasciare ancora: «La sera si prolunga / Per un sospeso fuoco». Il sole è ormai sotto l’orizzonte; e sola sopravvive un’illusoria chiarità:

Già m'è nelle ossa scesa L’autunnale secchezza, Ma, protratto dalle ombre,

Sopravviene infinito Un demente fulgore: La tortura segreta del crepuscolo Inabissato...

:

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x

E un motivo poetico di notevole fascino, sul quale si potrà tornare a lungo nel capitolo ad hoc che

segue queste pagine. «Grand age, nous voici. Fraîcheur du soir sur les hauteurs, souffle du large sur tous les seuils, et nos

fronts mis à nu pour de plus vastes cirques...»: così saluta l’arrivo della vecchiezza un poeta amato e tradotto da Ungaretti, Saint-John Perse. Non è facile per una creatura ancora impetuosamente vitale accettare il calar della notte, il soprag-

giungere dell’inverno. Non è facile per un poeta che scriverà in anni tardi a Bruna Bianco (in una lettera riportata da Leone Piccioni) rievocando un giorno invernale di violenta bise (simile alla nostra bora) a Losanna: «Andavo sui ponti, con gli orecchi bruciati, e il vento mi respingeva, un vento con una mano gigante inesorabile, e finivo col vincerlo, e non sono

molti anni. Sono stato d’inverno in cima alle Alpi, e non sono molti anni. D'inverno... d’inverno... e lo sopportavo come fosse la mia stagione, e non la sopporto più, odio questa stagione dei vecchi». («Vuota» e «odiosa» era definita la vecchiaia in Giorno per giorno). E il poeta che dirà, nel Dialogo in versi con Bruna, rivolgendosi al proprio cuore: «Dormi, inverno / Ti ha invaso, ti minaccia». Che nel Finale di La Terra Promessa dichiara la morte del mare, che intitola un libro (contenente La Terra Promessa, Il

Taccuino del Vecchio, Apocalissi) Morte delle stagioni: due indizi simbolici di morte di cui tiene conto non poco un profondo saggio di Piero Bigongiari. Ma è anche il poeta consapevole del fatto che l’uomo capace di rendersi pio verso la totalità della vita può sperare che la stagione estrema contenga e

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manifesti un suo specifico senso entro il senso globale del vivere. Il poeta che saprà trarre dagli anni tardi versi come i seguenti: L’amore più non è quella tempesta Che nel notturno abbaglio Ancora mi avvinceva poco fa Tra l’insonnia e le smanie,

Balugina da un faro Verso cui va tranquillo Il vecchio capitano.

Sappiamo che su questi versi non possiamo concludere il nostro cammino. Sappiamo che non mancano testi ulteriori in cui l’amore torna a essere lacerazione e tormento («Dimentico che brucia la ferita»). Ma prendiamo atto di questo pacificato ritorno dell'antica immagine del «superstite lupo di mare» di Allegria di naufragi. Immagine alla quale assomiglia

l’ottuagenario che si farà crescere una corta barba da lupo di mare, che si farà ritrarre col berretto e la pipa. Tutto sommato anche le fotografie di quel volto espressivo e mobilissimo possono farci meglio intendere il senso della «vita d’un uomo», se ha ragione Enzo Paci, che a proposito delle ultime fotografie fatte al poeta a Salsomaggiore, poche settimane prima della morte, scrive: «Sembrano una sintesi «prima luminosa e poi oscura di tutta l’opera di Ungaretti e della vita di tutti gli uomini. Egli è se stesso e tutti gli altri». Il «vecchio capitano» si accinge all’ultima navigazione, la più difficile e misteriosa. Verso quale Terra Promessa lo porterà?

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Si percorre il deserto con residui Di qualche immagine di prima in mente, Della Terra Promessa Nient'altro un vivo sa.

Negli anni tardi, dunque, a ritornare non è soltanto l’immagine del navigatore, dell’ulisside, ma anche, e con particolare intensità, quella del deserto.

In pagine sul motivo del deserto già ricordate, Renata Lollo osservava che nella stagione del Dolore, quando «sopraggiungono dall’esterno tragedie personali e l’esperienza bellica, si arrestano temporaneamente le ricerche su una realtà umana sempre più disgregata e sembra quindi interrompersi il filone che legava al deserto la cultura ungarettiana». Alla studiosa, comunque, non sono sfuggiti, anche nel Dolore,

certi segni che al deserto richiamano. Per esempio, immagini di sabbia: «Frugando nella sabbia», «l’abbaglio della sabbia», «Il risvegliarsi vano / Di sabbia che si muove / Senza pesare sulla sabbia» (ma sulle valenze simboliche della sabbia, insieme «allegoria dell’esistenza ridotta a polvere» e, «con il suo granello infinitesimo», anche «testimone della durata», non si

può non rimandare alle pagine particolarmente suggestive di Mario Petrucciani in I/ condizionale di Didone). Per esempio, il «sole ignudo», la violenza del paesaggio brasiliano, che si collega, come s’è del resto già constatato, al «protopaesaggio» del deserto africano. Il quale, nel Dolore, è anche evocato, se così si può dire, in absentia — sotto forma di ot inarticulé,

direbbe con Mallarmé Carlo Ossola — e per via di

allusione intertestuale in Nelle vene: il «rimorso, latrato sterminato» richiama esplicitamente un testo

84

TRA PAESAGGI E STAGIONI

dell’Allegria, Godimento: «Avrò / stanotte / un rimorso come un / latrato / perso nel / deserto». Il nesso rimorso-latrato non lascia dubbi sul voluto collegamento tra i due testi. Nelle vere non ha il sostantivo deserto, ma l’attributo sterzzinato («la piana sterminata» di Ricordo d’Affrica non può non venire in mente),

accanto

all’allusione

intertestuale,

basta

a

evocarlo. La Terra Promessa già nel titolo, col richiamo a un grande tema biblico, evoca implicitamente, o, se si vuole, per antitesi, il deserto, e per di più s’incentra nella passione «desolante, deserta» (così l’autocom-

mento del poeta) di Didone, nata come Ungaretti ai margini del deserto e «ultima ipostasi della memoria africana»,

secondo

l’indicazione

di Petrucciani.

Il

quale ci ricorda, nel diciassettesimo dei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, un verso come «Un’Affrica

di sabbia», poi sostituito da «Senza fine la sabbia»,

seguito da «Forse ravviveresti»: e ciò significa che nel «sogno impossibile» di Didone l’amore di Enea potrebbe «capovolgere il destino, della sabbia fare oasi». E lo stesso studioso a dirci che il tessuto di Variazioni su nulla, dominato dal motivo della sabbia,

potrebbe sembrare «la ripresa di una lontana prosa “desertica” del giornalista Ungaretti»; e infine a segnalarci che la simbolica «morte

del mare»

(che

suggella La Terra Promessa e che sembrerà per un attimo riecheggiare nello «spento flutto» dell’ùltimo testo scritto dal poeta), secondo una nota dell’autore stesso «Evoca quella solitudine e quel deserto che, alla resa dei conti, alla somma di tutto, sono le materiali

cose». E la fine desolata (varitas vanitatum) del tentativo poematico dedicato a quella Terra Promessa che, come è stato detto, è soltanto un miraggio. Motivo

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

85

fondamentale, quello del miraggio, strettamente connesso al deserto, e che avrà una balenante apparizione

sul finire di Monologhetto, con l’immagine dell’uomo, del «vivo», consapevole della vanità del mondo, e tuttavia teso sempre, poeta e «matto incorreggibile, /

Incontro al lampo dei miraggi». Da questa fase che secondo la constatazione del poeta stesso voleva essere poesia dell’autunno e ha finito per risultare poesia dell'inverno, a un libro come I/ Taccuino del Vecchio il passo non è lungo. È il libro che contiene gli Ultimi cori per la Terra Promessa, uno dei quali è quello già riportato, che comincia Si percorre il deserto, e nei quali, nonostante l’occasione specifica di «un breve ritorno in Egitto fatto [...] insieme a Leonardo Sinisgalli» e della visita a una ben precisa località desertica («il paesaggio di deserto della necropoli di Sakkarah»), il segno del deserto sembra diventare sempre più allegorico. Sempre più segno della condizione umana fra desolazione e miraggi, e in particolare della condizione del vecchio, quasi a ripresa e verifica di una celebre identificazione, nel testo iniziale di Sentimento del Tempo, tra l’uomo lontano dalla giovinezza e il deserto: «E già sono deserto». Nel deserto degli «anni vecchi» le oasi di poesia, almeno di poesia scritta, sono sempre più rare. L’ultima è il tormentato trittico di Croazia segreta, oggetto

di acuto studio variantistico da parte di Leone Piccioni e di Piero Bigongiari. In questo testo estremo, rigenerando in immagine di fresca giovinezza il ricordo della vetusta donna croata che nella prima infanzia l’aveva tenuto fra le braccia come una nutrice o una seconda madre, Ungaretti scriverà: «Di continuo ora la vedo bellissima giovane, Dunja, nell’oasi

TRA PAESAGGI E STAGIONI

86

apparire, e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto dove da tanto erravo». L’accostamento allitterante tra desolare e deserto rafforza in extremis l’affinità e il reciproco legame tra i due importanti segni. Un segno nuovo, comunque, sembra potersi indicare nell’ultimo Ungaretti: un segno cosmico diverso da quello dell’Allegria, e in qualche modo affine a questo deserto di solitudine e vuoto. Accanto al naufragio, si direbbe, delle stagioni — Morte delle

stagioni, sera detto — in un tempo dilatato, senza più scansioni, il naufragio del paesaggio terreno nello spazio cosmico, che è anche deserto cosmico. Le imprese spaziali di quegli anni sono soltanto l’occasione esterna per la presa di coscienza, attraverso la parola poetica, di una sorta di sgomenta cosmicità. Si rilegga

il sedicesimo degli Ultimi cori per la Terra Promessa: Da quella stella all’altra Si carcera la notte In turbinante vuota dismisura,

Da quella solitudine di stella A quella solitudine di stella.

Oppure il diciassettesimo: Rilucere inveduto d’abbagliati Spazi ove immemorabile Vita passano gli astri Dal peso pazzi della solitudine.

é

E non si dimentichi la conclusione del primo testo del trittico supremo: «Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo. Rinnova occhi d’universo, Dunja».

PAESAGGI, STAGIONI E ALTRO

87

Ungaretti, che ha saputo sensuosamente amare, sino alla fine, le calde forme della vita, ha atteso con

umiltà il sopraggiungere della notte col suo mistero forse stellato, ha accolto con coraggio l’ascesi del gelo, il messaggio scarno e scarnificante della stagione invernale. Ha scritto: «Io credo che nella poesia della vecchiaia ci sia una tale esperienza, che se s’arriva a trovare la parola giusta per esprimerla, s'arriva a fare la poesia più alta». E certo alti messaggi di artisti in età veneranda non mancano: da Sofocle, che evoca l’arrivo del vecchio Edipo, cieco e ramingo, nella

campagna luminosa di Colono «amata dagli usignoli», a Richard Strauss che ultraottuagenario si congeda dalla vita con la calda luce dorata e con l’intimo pathos dei Vier lezte Lieder, che non si possono ascoltare senza profonda emozione. Se la «parola giusta» Ungaretti abbia saputo trovarla, non è intento di queste pagine accertarlo. Basti qui aver indicato il tenace, coerente impegno di costruire la «bella biografia» (nel senso indicato all’inizio) di Vita d’un uomo. Quella Vita d'un

uomo il cui senso globale ha indotto Enzo Paci a ricordare un pensiero di Husserl: «L’ego costituisce se stesso nell’unità di una storia». L'ultima parola scritta in poesia, parola tutt'altro che insignificante nell’universo ungarettiano, è pietà (che è anche, con connota-

zioni certo diverse, l’ultima del gran libro montaliano centrale, Le Occasioni). Ma il secondo testo del trittico

si apre col verso «Si volge verso l’est l’ultimo amore»: ritorno alle aurorali origini, evocato del resto (s°è visto) da altri segnali di Croazia segreta; fermo gesto che chiude, alle soglie ormai del «gran silenzio», il cerchio di un esemplare destino di poeta.

II

VARIAZIONI D'AUTUNNO L’uva è matura, il campo arato, Si stacca il monte dalle nuvole.

Sui polverosi specchi dell’estate Caduta è l’ombra. GIUSEPPE UNGARETTI

Di paesaggio in paesaggio, di stagione in stagione ecco rapidamente attraversato, nelle pagine del capitolo che precede, l’arco della poesia di Ungaretti.

La stagione autunnale, anche a un primo, sommario contatto, era apparsa così ricca di suggestione

da far nascere l'esigenza di una sosta più attenta e riposata in una fase così nodale dell’itinerario. A questa attraente sosta saranno dedicate le pagine che seguono. Per cominciare, una considerazione di metodo. Se è vero che una qualche affinità empatica, una

qualche corrispondenza tra oggetto letterario e sguardo interpretativo rende più proficuo e fecondo l'atto ermeneutico, rende il metodo più pertinente all’oggetto, si può anche seguitare dicendo che universi immaginari diversi possano richiedere metodi diversi, che ad interpretare alcune opere siano più pertinenti alcuni strumenti piuttosto che altri. Lo si è già visto nelle pagine che precedono e anche più lo si vedrà in altre pagine del libro: l’opera poetica di Ungaretti è fittamente intessuta di richiami

VARIAZIONI D'AUTUNNO

89

tra segni affini e interdipendenti, a volte contigui, a volte distanziati. Dal suo punto d'osservazione, sito sulla centrale altura che è La Terra Promessa da dove sì può spaziare su gran parte dell’intera opera, Mario Petrucciani conferma che Ungaretti ha fissato sin dal 1926 (o 1928) una «serie di simboli ad altissima concentrazione di energia, formalizzati quindi con il massimo di essenzialità in alcune parole nucleari»; e poi «in un sistema dinamico di germinazioni innovative e di intersecazioni molteplici, ha proiettato quelle parole-simboli in forme nuove, ma con la medesima ener-

gia della scoperta, nella intera galassia del suo lavoro». — L’opera di Ungaretti si presenta dunque come una sorta di continua concordanza,

ricca com'è di

corrispondenze che fecondamente interagiscono, che reciprocamente si arricchiscono illuminano attivano. Se così davvero stanno le cose, lo strumento ese-

getico più pertinente — e in ogni modo inevitabile è quello che accerta, collega e interpreta echi, riprese variate, corrispondenze, sviluppi dinamici. Gratificante strumento, oltre tutto. Gratificante perché si allea al movimento creativo, alle forze in fermento e

ai germi in crescita: si allea insomma alla vita (implicita o immanente) dell’opera, a ciò che germoglia, non a ciò che riduce o coarta. Gratificante anche perché conduce — con l’attento viavai attraverso il mutevole paesaggio poetico — a una proficua familiarità con l’opera, non raggiungibile forse con altri strumenti interpretativi. Quando

certe

corrispondenze

e ricorrenze

si

strutturano in modo da coagularsi in fondamentali pilastri allegorici, essenziali alla scansione stessa dell’universo ungarettiano, possono considerarsi come

TRA PAESAGGI E STAGIONI

90

veri e propri temi atti a diventare motivi, secondo

l'utile distinzione che Giacomo Debenedetti ha mutuato da Gundolf: ossia vengono incorporati nel vivo dell’opera e attivati funzionalmente. Tra i temi divenuti motivi uno ve n’è che chiede di essere qui esaminato con agevolezza. Un motivo la cui centralità irrinunciabile può esser messa in rilievo, come spesso

accade in poesia, non tanto dalla frequenza — attenzione perciò ai miraggi di certezze statistiche! — quanto dall’intensità. È il motivo, come il lettore ha già

inteso,

dell'autunno.

Anzi,

dell’autunno-cre-

puscolo. Dell’omologia tra stagioni e fasi del giorno s'è fatto cenno nel capitolo precedente. E omologia quanto mai ovvia. Ovvia, dunque, elementare come

più non si potrebbe, l'equazione autunno-sera; ma i poeti spesso muovono

da elementari realtà per un

cammino che conduce lontano. Non c’è bisogno di ricordare il titolo dannunziano,

che sintetizza ora

vespertina e stagione: Sogro d’un tramonto d'autunno. Ma certo a Ungaretti così fraterno al suo prediletto Petrarca anche per il sentimento erodente del tempo non è estranea (anche se è assai meno

disposto a

riconoscerla) la presenza di quel grande poeta di stagioni, capace di immergersi con colma adesione esistenziale e col potere trasfigurante di un sentire mitico nell’evento terrestre delle stagioni: il poeta d’Alcione, naturalmente, come s'è ricordato nel precedente capitolo. ’ Poeta di stagioni, dunque, non solo perché calato all’interno di una temporalità — con Petrarca, dunque, e con certi grandi barocchi — misurata e scandita ossessivamente da orologi e calendari. Ma anche, e più, perché immerso — analogamente a D'Annunzio, appunto — nell'evento naturale di aurora-primavera,

VARIAZIONI D'AUTUNNO

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meriggio-estate, tramonto-autunno, con un’impetuo-

sità di partecipazione di cui non è facile trovare l’uguale. Partecipazione, dunque, calda di passione esistenziale, ma insieme rituale, quasi liturgica. Si lascia coinvolgere nel caleidoscopio degli aspetti visibili del mondo, ma poi sa anche sollevarli, quegli aspetti, a una sfera assorta e remota, di mito (anche qui non è poi lontanissimo, come s’è visto or ora, il

nome di Gabriele alcionio). Mito, comunque, mai decorativo, come forse è parso a detrattori (a mio avviso abusivi e fallaci) di esperienze come Sentimento del Tempo e La Terra Promessa. Mito può significare un linguaggio nostalgico di continuità e di durata, e magari una cava di pietre dure, ringiovanite però da non libreschi recuperi, perché nulla resta davvero libresco nelle pur letteratissime mani di Ungaretti. Mito è anche luogo di emersioni archetipiche, impregnate di pathos e di quella implicita universalità che pertiene all’inconscio collettivo ipotizzato da Jung. La parola «emersione» mi viene da associazioni mentali con certi affioramenti mitici dal profondo in quadri di Alberto Savinio, per il quale «tutta la realtà è anadiomene»,

o magari con le amorose

Nereidi oceanine

affioranti da altro mare di mito, quello di Foscolo: un poeta di cui Ungaretti (che pure menziona Keats) non suole parlare. Ma di cui giustamente Giuseppe De Robertis ha fatto il nome, a proposito di certe esperienze ungarettiane. Oltrettutto si può dire che La Terra Promessa corrisponda in qualche modo a Le Grazie. Il vitale motivo ungarettiano delle stagioni è concomitante con quello delle fasi del giorno già nell’edizione Vallecchi di Allegria di naufragi (1919), in cui Atti primaverili e d’altre stagioni è una sezione del

TRA PAESAGGI E STAGIONI

92

libro accanto a I/ ciclo delle 24 ore (e del 1916 è Tramonto: «Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore»). A ribadire l’affinità fra tramonto e autunno non è soltanto la gloria di colori effimera, illusoria, e comunque suprema, prima della nudità della notte e dell’inverno, ma anche il pathos di quell’indugio struggente, quasi in un’estrema e disperata velleità di durata prima dell’addio. Il 1920 vede in pendant, pagina contro pagina, un testo scandito sulle quattro fasi del giorno, Paesaggio, e uno scandito sulle quattro fasi dell’anno, Le stagioni, nel quale il senso dell’autunno è suggerito dai colori stessi del finire del giorno: il rosso del tramonto, lo scolorare, che qui sarà evocato dal grigio di tortore: Indi passò sulla fronte dell’anno Un ultimo rossore.

Del grigio (colore anche dell’età non più giovane, quando i «cieli alti» di gioventù si sono allontanati e si resta persi in «curva malinconia») si parlerà tra poco. Intanto si può rilevare che nella sera evocata nel coevo e concomitante Paesaggio il segno più vistoso e basilare è l’arrossire, che attraversa l’elabora-

zione in progress di significative varianti. Si muove dall’immagine dell’arrossire per vergogna di una bella

ragazza nuda, personificazione mitica di un mero effetto di colori già intriso di malinconia crepuscolare: L’ombra

[ambra,

nella

redazione

successiva]

rosata del corpo gentile si modula d’infinita malinconia nello smeraldo impassibile del mare.

VARIAZIONI D'AUTUNNO

93

Stabat nuda vespera, si potrebbe dire ritoccando un sintomatico titolo alcionio e ripescando, per salvare il segno femminile, un sinonimo latino meno comune di vesper. Malinconia è il dissolversi, nella

sera incombente, di quel colore di sensuosa carne (il

ricordato carnato di Tramonto e le numerose varianti ungarettiane memori dell’incarnat léger delle ninfe mallarmeane), e dunque lo svanire di quella mitica donna-sera. L'equazione, anch’essa comunissima, quasi banale, rossore-vergogna si rigenera, si arricchisce di risonanze. Vergogna di che? Di questo lasciarsi sorprendere in tutta l’ignuda debolezza della labilità? O dell’inganno di questo trascolorare del «florido carnato del mare» che subito s’incupisce e sbiadisce: floridezza apparente che illude nascondendo l’imminenza della rapida fine? E meglio non insistere in arbitrarie parafrasi, nel voler costringere in interpretazioni limitanti il fascino di una mitica polivalenza di sapore simbolista. Pure, un discreto, rispettoso tentativo di decifrazione aiuta l'appropriazione del testo, l’intimità con esso. A condizione di non arroccarsi in spiegazioni univoche, e di servirsene come di stimo-

lanti approssimazioni, destinate a mettere in moto il nostro strumento associativo e interpretativo; ma per

poi rifonderle in globalità di ricezione. Ma torniamo a quel «moto di vergogna delle cose»: forse anche, dunque, per la coscienza amara della menzogna, dell’impostura rappresentata da una fantasmagoria di attraenti apparenze, mentre il franare del tempo rende ogni cosa vanitas vanitatum. «Mentre infiammandosi s'avvede che è nuda». È difficile che la mente analogica, di fronte alla nozione di vergogna per la nudità, non corra a Eva cacciata dall’Eden, al senso di un paradiso perduto che del resto è così

94

TRA PAESAGGI E STAGIONI

intenso e centrale in Ungaretti. La sera, dunque, evoca anche la coscienza di un’irreparabile perdita di Eden, Eden di pienezza e durata illusorie, condannate

a dileguare trascolorando in labili splendori cromatici e luministici, i quali altro non sono (ricordando O notte) se non «moribonde dolcezze». Non si dimentichi che subito dopo nel testo, ossia nella spoglia ora di verità della notte, apparirà il «vero viso, stanco e deluso». Ora si torni a Le stagioni e alla elaborazione di questo testo. Nella prima redazione a stampa l’equazione tra fasi del giorno e fasi dell’anno è così data per presupposta, che dell’anno neppure si parla: Indi passò, del giorno in su la fronte, l’ultimo pallore.

La «fronte» sembra elemento privilegiato per la personificazione mitica: fidiaca, olimpicamente eroica quella di Apollo («La fronte intrepida ergi, dèstati»); questa, forse, malinconicamente pensosa come certe fronti michelangiolesche. Si noterà, comunque, che in

questa redazione l'elemento cromatico è ancora il pallore, lo scolorare della sera, in accordo con il grigio delle tortore tendente a fondersi con l’impallidire del cielo in cui cominciano ad accendersi prime stelle. Si ricorderà, nella redazione definitiva: Nell’acqua garrula Vidi riflesso uno stormo di tortore Allo stellato grigiore s’unirono.

Queste parole, dovute al coro e perciò in corsivo,

sono precedute da una sorta di didascalia, che nella. redazione iniziale suonava così:

VARIAZIONI D'AUTUNNO

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E il coro delle ninfe in fuga, giunte alla conca ombrosa, modulò.

In una successiva redazione, apparsa nella «Gazzetta del Popolo» di Torino il 2 marzo 1932, troviamo: E il coro della gioventù lontana Modulare s’udì.

L’esito definitivo acquista in concisione. Scompare il verbo modulare, che altrove era stato rigenerato e quasi reinventato da Ungaretti: in un ardito

passo di Annientamento, testo del 1916 compreso in I/ Porto Sepolto («mi modulo / di / sommesso uguale / cuore»). Ma qui si rivela inessenziale, tanto che la soppressione non nuoce certo al testo: E lontanissimo un giovane coro

S'udì.

Attraverso le varianti, si ha l’impressione di soggiornare in una di quelle suggestive aree mitiche e mitopoietiche che gratificano e riscattano anche certi indugi minuziosi del nostro lavoro e lavorio interpretativo. All’inizio, ninfe in fuga, ninfe da leopardiana canzone Alla primavera, che potrebbero richiamare,

nella mente analogica di cui già s'è discorso, una sorta di cacciata dall’Eden in tonalità pagana. Eden e «favole antiche» non sono poi sempre lontani in Ungaretti. La coscienza dell’irrimediabile fine dell’uno e delle altre è consapevolezza della labilità, dell’illusorietà, è angoscioso «sentimento del tempo» (non ci sono stagioni nel dantesco Paradiso terrestre dove tutto è durata inalterabile).

TRA PAESAGGI E STAGIONI

96

A partire dalla redazione apparsa nella «Gazzetta del Popolo» ecco apparire un importante segno che si fisserà nell’universo semantico ungarettiano, quello del carattere derzente dell’ora di sera. Un epiteto denso e ardito, derzente, divenuto tipicamente

ungarettiano e destinato a ritornare in una delle incarnazioni più alte del motivo autunnale. Che è la poesia quattordicesima della serie Giorno per giorno, cuore emotivo della raccolta Il Dolore, che è già occorso di citare nel capitolo precedente: Già m'è nelle ossa scesa L’autunnale secchezza, Ma, protratto dalle ombre, Sopravviene infinito

Un demente fulgore: La tortura segreta del crepuscolo Inabissato.

Anche la serie così dolorosamente, mente

«esistenziale»,

così

«vita

d’un

scopertauomo»,

di

Giorno per giorno è fortemente segnata dal sentimento del tempo, delle stagioni: «Mi porteranno gli anni / Chissà quali altri orrori»; «Passa la rondine e con essa estate, / E anch'io, mi dico, passerò». La poesia tredi-

cesima (anch’essa citata nel capitolo precedente), che sintetizza tutte e quattro le stagioni, dell'autunno dice: Puoi tramontare autunno

Con le tue stolte glorie.

A parte la stretta contiguità testuale fra il tramontare e l'autunno, le «stolte glorie» prefigurano da è)

.

o

VARIAZIONI D'AUTUNNO

97

molto vicino il «demente fulgore» della poesia seguente, e qui sembrano evocare atmosfere barocche: le pompe cromatiche e luministiche dell’«ultimo rossore», apparenze di vuota gloria, che possono evocare la morte, se è lecito collegarci al canto quinto di La morte meditata, in cui amore e morte si fondono in una sottile e sfumata concertazione, e in cui la donna

portatrice di fuoco d’amore e di segnali d’autunno sembra anche immagine di morte, portatrice di ardente consumazione e insieme di addio («Sei la donna che passa / Come una foglia / E lascia agli alberi un fuoco d’autunno»). La poesia quattordicesima di Giorno per giorno, ricordata e trascritta poco fa, rappresenta una stazione

fondamentale di questo nostro vagabondaggio autunnale-vespertino. E il momento poetico in cui si coagula l’incarnata e sofferta «allegoria dell’autunno» (se vogliamo applicare questa etichetta dannunziana). Le cadenze iniziali sono gravi, severe (né certo manca nella poesia italiana una tradizione ritmica di segno austero, dal coro del Torriszzondo al leopardiano Coro di morti del Ruysch). Il #24 che scuote quei ritmi

severi ha la forza, più che di un mero strumento

grammaticale, di uno slancio dal fondo. Forza affine, si direbbe, al «germe d’ira» che, nella Canzone che apre La Terra Promessa «Rifreme, avversa al nulla, in

breve salma». E che qui annuncia il propagarsi di luminosità estrema all’intero orizzonte: «Sopravviene infinito / Un demente fulgore». E non si può passare sotto silenzio quel protratto, così caratteristico, così fermo nella sua tensione e durata, da spiccare netto,

richiamando subito altro contiguo momento vespertino, intitolato Incontro a un pino (in una precedente redazione, Lungotevere al tramonto), che culmina

TRA PAESAGGI E STAGIONI

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nella solitaria, tormentata immagine-emblema, quasi araldica, di un pino (che in qualche lettore può forse far venire in mente un memorabile attacco del dannunziano Notturno, «Essere un bel pino italico / sopra un colle romano»): Un pino aereo attorto per i fuochi D’ultimi raggi supplici Che, ospite ambito di pietrami memori,

Invitto macerandosi protrasse.

Il pino «italico» o «domestico» (Pinus pirea) si contrappone senza dubbio all’araucaria esotica di Tx ti spezzasti («Araucaria imbricata è il pino brasiliano», chiosa lo stesso poeta). Il primo sorge, sintonico; tra «pietrami memori» di una civiltà che è umana misura. Il secondo sorge tra «molti, sparsi, immani, grigi sassi», veramente «refrattari» e disumani, mostruosi.

Sul segno della pietra in Ungaretti si potrebbe condurre con qualche profitto un’indagine. Non su questo comunque, si vuole qui richiamare l’attenzione. Bensì sull’intenso primo piano dell’albero — che forse sarebbe troppo accostare all'immagine del dulce lignum di una croce cristiana — eretto, e si direbbe eroico nel grande crepuscolo drammatico (quegli «ultimi raggi supplici»!) che sembra incombere su tutta una civiltà. Ma torniamo alla poesia quattordicesima dalla quale eravamo partiti, e soffermiamoci sulla novità (rivelatrice

del cociore

segreto

che cova

sotto

la

cenere dell’«autunnale secchezza») di un’immagine che

rappresenta

un’acquisizione,

un’illuminazione

per la coscienza letteraria del nostro tempo. Un’im-

magine che rivela e sintetizza il tormento segreto del-

VARIAZIONI D'AUTUNNO

99

l’allegoria ungarettiana dell’autunno. Immagine indimenticabile: La tortura segreta del crepuscolo Inabissato.

Scoperta poetica così viva, questa della luce che resta (simile al «perduto nimbo» di Dove la luce) librata come una sorta di assurda speranza e volontà di pienezza quando il sole s'è ormai inabissato, da toccare uno dei punti nevralgici dell’opera-vita di Ungaretti, che darà nascita al mito-allegoria di Didone: La sera si prolunga Per un sospeso fuoco E un fremito nell’erbe a poco a poco Pare infinito a sorte ricongiunga.

Splendido momento tassesco, o tassesco-monteverdiano (l’ascolto di un madrigale di Monteverdi aveva messo in moto stavolta l'immaginazione del poeta) questo del nono dei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone. Ungaretti commenta l’intera serie dei cori con la seguente postilla: «Sono 19 cori che sogliono descrivere drammaticamente il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, poiché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono. Qui si è voluta dare

l’esperienza fisica del dramma con le riapparizioni di momenti felici, con trasognate incertezze, con pudori allarmati, in mezzo al delirare d’una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta». A questo commento va aggiunto quello che risulta, proprio a proposito della «descrizione di tra-

TRA PAESAGGI E STAGIONI

100

monto» di questo coro nono, da una lettera a Enzo Paci del gennaio 1959: «Immagino il tramonto d’Europa (ma sarà tramonto?) visto in lontananza di memoria (o in memoria senza coscienza = sogno). Il

fenomeno in natura, presenta a volte quei rossi che si prolungano soli, nel silenzio (facendo un viaggio lungo in mare, per esempio). Rossi che hanno l’orrido del sangue». Dalle parole di Ungaretti emerge dunque un progetto d’alta ambizione: la penultima stagione (tale il titolo non definitivo di La Terra Promessa) può essere anche quella di «una civiltà» e il poeta può dunque farsi vate del tramonto di una civiltà. Ora, forse, si

può meglio intendere e giustificare l’indugio, che poteva sembrare mera divagazione, sull’araldico pino, emblema di una civiltà: l’umanissima civiltà classicocristiana,

occidentale,

minacciata

dalla

dismisura,

come meglio appare in altri momenti di questo libro. La strada imboccata in queste pagine conduce verso il mito e l’allegoria di Didone, in cui tanti momenti della maggior poesia europea si incontrano e si rigenerano. Denso mito, riassuntiva allegoria di una poesia angosciata perché «le apparenze non durano», perché il tempo dell’uomo frana verso la notte. Ma anche di una poesia irriducibilmente assetata di durata e di attesa. Intrinsecamente avversa alla morte, al nulla, all’oblio, all’addio. Fiore nel deserto, che

non è solo deserto leopardiano, ma anche l’iniziale e natio deserto africano, al quale Didone —- secondo

un'osservazione già ricordata di Petrucciani — viene a

ricollegarsi, per le stesse risonanze collegate al suo mito.

Per una consonanza del tutto estrinseca ma non

VARIAZIONI D'AUTUNNO

101

priva di suggestione le variazioni autunnali che qui si concludono sono nate sul crinale d'autunno, quando

l’anno in declino sembra ritrovare, dopo torrida estate, il tenero d’una nuova giovinezza. Piace coglierla e sottolinearla, questa concordanza, perché sembra quasi consacrare una sorta di corrispondenza tra esistenza e pagina, di cui anche la scrittura critica deve giovarsi. Esteriore e banale quanto si vuole, la coincidenza va salutata con gioia, quasi per farne un amuleto mentale contro l’uggia tecnicistica, accademica che nel nostro lavoro tanto spesso ci minaccia e a volte ci soverchia. Composta, raffinata, spesso pensierosa è la Musa addetta a noialtri interpreti di testi letterari. Ma non per questo (cerchiamo di ricordarcene con maggior frequenza per evitare che la nostra scrittura risulti troppo difforme dall’amabile oggetto), non per questo arcigna, né inamabile.

PARTE SECONDA TRA SEGNI E VARIANTI

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A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE» Le bon Dieu se cache dans le détail. ABy WARBURG

In un cosmo ben differenziato e articolato negli sviluppi, ma nella sostanza coerente e organico quale è quello della lirica ungarettiana, anche un solo testo di proporzioni limitate o addirittura esigue può a volte consentire proficui incontri con strutture e funzioni di un sistema espressivo. Esiste — naturalmente in diversa misura da valutarsi caso per caso —- una microcosmicità del testo breve talvolta feconda di acquisti per il lettore tenace. Quando ci imbattiamo in un testo che ci inte-

ressa a prima vista e che mostra di volere a sua volta interessarsi a noi, è buona regola sollecitarlo con benevolenza a parlare, a dirci tutto quello che ha da dirci. Ci parlerà di se stesso, del se stesso apparente e di quello recondito, che non è sempre il meno affascinante. Ci parlerà della rete di rapporti nei quali consiste il nodo vitale del suo esserci: rapporti con ciò che lo ha preceduto, con ciò che lo circonda, e non di rado

con ciò a cui tende, rapporti con l’universo immaginario in movimento di cui fa parte. Se, attenti e intenti, e

anche disponibili ad associare come i bravi psicanalisti, lasciamo parlare il testo e lo lasciamo - se così si può dire - «respirare», è quasi certo che ne resteremo

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remunerati e gratificati. Ci ritroveremo, intanto, con

una più piena e fitta consapevolezza dei modi e dei sensi di una poesia. Una poesia che, nel caso di Ungaretti, è particolarmente ricca di germi dinamici; è esigente come poche nel chiedere al lettore assiduità e intensità di frequentazione, nel fare appello a quella capacità di connivenza, di integrazione che nei suoi studi di stilistica, forse riletti oggi meno del dovuto,

Giacomo Devoto, utilizzando originalmente uno spunto di Charles Bally, soleva definire «evocazione». Concordo con quanto afferma — in un bel saggio di semantica intitolato Il «pudore» di Ungaretti — Maria Luisa Altieri Biagi: «Forse Ungaretti non ha più bisogno di elogi che mirino a perpetuare il suo mito, ma ha ancora bisogno di analisi minute che ce lo restituiscano come presenza reale, tanto più tangibile

quanto meno intoccabile». Perciò mi è caro che dopo il breve «momento musicale» (musica di memoria già quasi mitica) del preludio, dopo il non breve trascorrere attraverso paesaggi e stagioni, l’itinerario forse complesso di questo libro riprenda ora le mosse dall’hic et nunc di un preciso testo. Tanto più che l’autore del libro milita da anni in favore di una critica e di un insegnamento essenzialmente testocentrici. La scelta cade stavolta su un testo noto, tanto da

sedurre persino qualche antologista scolastico (e degli approcci ermeneutici d’uno d’essi si darà notizia, per indicare possibili reazioni interpretative di un lettore presumibilmente medio). Testo breve: ma si provi a metterlo in movimento. Potrà sprigionarne, in direzioni diverse, un

fecondo

articolarsi

di nessi, di

richiami, di tensioni espressive. Trattandosi di un

poeta di solito così parco di chiarimenti, è già soddi-

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sfacente reperto il cenno, sia pure indiretto, di cui

disponiamo a proposito di Dove la luce. Nella prima

lezione tenuta alla Columbia University, nel maggio del 1964, sulla Canzone che apre e giustifica La Terra Promessa, Ungaretti tiene a indicare l’affinità genetica tra le complesse esperienze tecniche dell’ardua canzone e alcuni testi, certo più semplici, di Sentimento del Tempo (e cita, come esempio di un gruppo di testi, Dove la luce, del 1930): «Se si leggono le poesie di quel periodo, ci si accorgerà del valore mitico che io attribuisco alla natura. Questo valore mitico assume il carattere di riflessione metafisica [...]. Come vedete,

si parte sempre da qualche cosa che è nella natura e che è spettacolo offerto dalla natura che tutti gli occhi degli uomini possono contemplare: lo spettacolo che si svolge nelle ventiquattro ore di ciascuna giornata o nel ciclo delle stagioni. Si parte da qualche cosa di molto reale, e questo qualcosa di molto reale presta al poeta i simboli che gli serviranno ad esprimere cose che sono per lui urgenti, i simboli che l’aiuteranno a rispondere a interrogativi ai quali non sa logicamente rispondere, e una risposta logica sarebbe per lui risolutiva — se potesse darla». Ma le apparenze del mondo sublunare, con le sue ombre e luci, non saranno «sem-

pre illusione ottica? Come sentire la realtà, non quella effimera: quella che va oltre la conoscenza mutevole

della materia e gli effetti di luce?» Importante pagina di poetica, come si vede, e

anche implicita chiave (ma sotto forma remota, di «prologo in cielo»), per accedere al senso del testo che verrà esaminato. Intanto apprendiamo che bisogna non tralasciare (e lo vediamo anche dalle scarne postille che a volte il poeta si degna di apporre ad alcuni dei suoi

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testi più misteriosi) il referente fenomenico dell’ispirazione; nella fattispecie, non dimenticare che la le

tera 0, se si preferisce, la raffigurazione di partenza del testo allude a un incontro mattutino in un prato primaverile. Dalla giornata che si apre in gioia d’amore e che contiene in sé l’inevitabile declino, si passa all’immagine della luce del crepuscolo che indugia su colline lontane, e sembra suggerire l’immagine di una definitività, di una durata obliosa.

Prima di affrontare il testo, può essere non inutile tener conto del settore di Sentizzento del Tempo in cui si trova: il settore delle Leggende, che nelle esplicite intenzioni dell’autore si distinguono per «un carattere particolare», ossia per «un contenuto più

oggettivo, che mettesse come una certa distanza fra il poeta e la propria ispirazione: come non si trattasse

più interamente di sé, ma d’una raffigurazione di sé quale persona drammatica»; a differenza di quanto accadeva nell’A/legria, in cui era centro l’io, la prima

persona, «qui si gira attorno a quell’io, lo si giudica e se ne parla con maggiore libertà». In altre parole: dalla necessaria immediatezza del grido unanime alla scoperta di una distanza (appunto, leggendaria), dal presente istantaneo della partecipazione panica e mistica a un’ottica più complessa e mediata, dilatata al passato e al futuro, attraverso la soglia obbligata della Preghiera conclusiva dell’A/legria, che mostra.senza equivoci, a chi ne consideri la dinamica variantistica,

il punto di raccordo tra le due diverse sfere espressive. Leggende significa, anche strutturalmente, altro che

accordi, connessi a effetti di frammentaria intensità e

novità associativa (si pensi a Sogni e accordì) e altro che

gridi. Vi si connette una nozione di racconto (sia pure

affabulato) di cose accadute o sperate, molto prossima

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alla ragion poetica sopra riportata, una nozione di più

larga, più riposata strutturazione (sia pure con imprevisti nessi associativi che rimandano a una struttura

subconscia e oscura ma non per ciò meno presente e reale). In questo senso l’esempio più tipico di leggenda è senza dubbio Il Capitano, specie nella prima redazione che comprendeva anche quasi tutti i versi di Primo amore e meglio rivelava la propria indole di sequenza di ricordi rivissuti in luci e prospettive favolose. Ma l’esempio più significativo del limpido e pacato strutturare delle Leggende è proprio Dove la luce: Come allodola ondosa Nel vento lieto sui giovani prati, Le braccia ti sanno leggera, vieni. Ci scorderemo di quaggiù, E del male e del cielo,

E del mio sangue rapido alla guerra, Di passi d’ombre memori Entro rossori di mattine nuove. Dove non muove foglia più la luce, Sogni e crucci passati ad altre rive, Dov'è posata sera, Vieni ti porterò Alle colline d’oro. L’ora costante, liberi d’età,

Nel suo perduto nimbo Sarà nostro lenzuolo.

Limpidezza di strutture, tendenza a riposata e bilanciata armonia: non si esclude però il consueto ampio margine e alone di mistero e di ambiguità,

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necessario a un poeta fedele alle poetiche di Mallarmé e Valéry e convinto che «conta poco capire alla lettera la poesia»:

«la quale, se c’è, seduce

mediante

la

musica dei suoi vocaboli, mediante un segreto». S’intende che poi l’interprete, il cui specifico daimon entra in contatto col daîrzon del poeta senza coincidere ir foto con esso, non può limitarsi a consta-

tare l’esistenza di un segreto, a parafrasare un’esclamazione ammirativa o complice nei confronti di quel segreto, ma deve a sua volta sfidare, armato di esprit

de finesse (e de souplesse) che è suo privilegiato e pri-

mario strumento, la sfida di quel mistero. E forse giunto il momento di concludere queste premesse e di metter mano a un esame ravvicinato del testo, con le sue tensioni diacroniche e con la sua

raffinata dialettica sincronica. Le tensioni diacroniche sono attestate da un sobrio apparato di varianti, appartenenti a tre diverse redazioni (delle altre, divergenti in un solo particolare minimo, non mette ora conto parlare). Si potranno distinguere con A (stesura destinata all’antologia Scrittori nuovi di Falqui e Vittorini, Carabba, Lan-

ciano 1930), B (stesura per «L'Italia letteraria» del 14 giugno 1931) e M (il testo dell’edizione mondadoriana del 1943). Della redazione A (che non si trova compresa nell’apparato vulgato delle varianti), esiste una nitida trascrizione autografa riprodotta nel prezioso zibaldone ungarettiano di «Letteratura» del 1958 (n. 35-36, tav. 7 fuori testo), che ci indica un

pentimento dell’autore. Il titolo era dapprima Sarà dove la luce...; poi quel futuro, pure così ungarettiano, è soppresso, e con esso il segnale della temporalità, lasciando intero il campo al puro, immobile spazio. Sappiamo quanto diffuso fosse in quegli anni il vezzo

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di utilizzare un verso, o una parte di verso, di un testo

poetico come titolo del testo stesso. Singolare qui, semmai, il fatto che sussista come titolo l’inizio di un

verso che appartiene a una redazione precedente: come si vedrà fra non molto, A, «Dove la luce non

muove più foglia», oppure B, «Dove la luce più non muove foglia». Nell'edizione definitiva il verso suona ormai «Dove non muove foglia più la luce», del quale, comunque, il titolo rappresenta l’intenso compendio. E inoltre titolo che giova — anche se non è detto che il risultato sia intenzionale, dato il costume

espressivo ungarettiano — a indicare il giusto ordine sintattico di un verso che potrebbe indurre in equivoci. Non senza ragione, infatti, Gianfranco Contini,

nell’antologia Letteratura dell’Italia unita, tiene a precisare a piè di pagina: «La luce è naturalmente soggetto (si veda il titolo), foglia oggetto». L'indicazione fornita dal titolo non è stata sufficiente per qualche antologista scolastico, uno dei quali produce una interpretazione a dir poco sorprendente: «E la luce che muove le foglie riscaldandole o facendole aprire, o la foglia che muove la luce, variandone i segni sul terreno». Si riporta questa interpretazione di un anto-

logista, dal quale si trarranno in seguito altri esempi, non già per riprovarne la frettolosità — tutti possiamo sbagliare, e perciò non indichiamo qui il nome dell’errante —, ma per mettere in guardia contro i rischi della banalizzazione didascalica. (A tali rischi, alla fenome-

nologia dell’errore interpretativo nei confronti di testi poetici contemporanei, ho del resto dedicato un intero libretto: L'avventura del testo, Japadre, L’Aquila 1977). La questione del titolo, sebbene abbastanza esemplare da meritare una rapida sosta, non è comun-

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que molto rilevante. È il testo a offrire varianti più significative, anche se quantitativamente modeste. L’esame anche sommario di esse può risultare suggestivo e istruttivo. Lo si comincerà dando la precedenza alle varianti che si differenziano in tutte e tre le redazioni qui considerate: A Ci scorderemo della terra E del cielo, del male, E di memori passi d’ombre B Ci scorderemo della terra, E del cielo e del male,

E del mio sangue rapido alla guerra Di passi d’ombre memori M Ci scorderemo di quaggiù, E del male e del cielo, E del mio sangue rapido alla guerra Di passi d’ombre memori

La tripartita sinossi suggerisce con sottile evidenza il senso di un processo poetico ir fieri meritevole senz’altrto di attenzione. L'indicazione più o meno vagamente cosmica del binomio, in A, «della terra e del cielo» — la cui unità risulta più sottolineata che divisa dal vigoroso enjambement — si attenua in B, che sposta il centro dell’attenzione verso il binomio

«del cielo e del male». In M il segnale della cosmicità è rimosso. Scompare la terra — col vantaggio, anche, di eliminare la rima ferra-guerra reperibile tra l’altro nel peggiore D'Annunzio encomiastico — a vantaggio di un più colloquiale quaggià, di sonorità meno vibrata, e

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che evoca, per assenza e opposizione, un lassà molto labile. Il binomio è ormai soltanto quello, apparso già in B, riportabile al contrasto manicheo tra bene e male, ma significato con uno scarto rispetto all’attesa «banale» del lettore: non la consunta, convenzionale

opposizione terra-cielo, male-bene, ma opposizione

«del male e del cielo», con precedenza al male, che forse non senza ragione è posto di seguito a quag-

giù. Quanto ai «memori passi d’ombre» che diventano «passi d’ombre memori», anche col risultato di ottenere un bel settenario sdrucciolo, tra l’altro di più raffinata aderenza fonosimbolica, si può dire che il mutamento

nella seconda

lezione

sfochi, sfumi il

nitore semantico. Memori ancora i passi? Memoti le ombre? Nella versione francese di Jean Chuzeville si ha «Et les ombres du souvenir / Qui s’insinuent dans

la rougeur / De tout matin nouveau». La traduzione all’incirca coeva (siamo nella prima metà degli anni Cinquanta) di Jean Lescure, nel volume Les cing livres, Texte frangais établi par l’Auteur et Jean Lescure (in quale misura «établi par l’Auteur»?) suona invece così: «Et l’oubli des pas qui se souviennent des ombres / Dans la rougeur des matins nouveaux». (La lingua francese non dispone di un termine elegante e sintetico come zerzori). Philippe Jaccottet una ven-

tina d’anni dopo traduce: «Les pas d’ombres qui se souviennent». E si potrebbe ricordare che Ioan Gutia,

esaminando la figura stilistica dei «sostantivi concreti + epiteti spirituali» che conferisce alle cose una sorta di dinamismo suggestivo, non tiene conto della possibile indicazione contenuta nella redazione precedente e interpreta così: «Ombre dei nostri morti i quali vivono in noi stessi e risvegliano il passato». Il fatto è

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che la possibile polisemia è sentita come ricchezza nella stagione così detta ermetica. «Salgo vertici aerei precipizi» di Quasimodo, con l’ambigua centralità dell’aggettivo aerei attribuibile sia a vertici sia a precipizi è esempio canonico, segnalato nella purtroppo da anni non più reperibile Poetica dell’ermetismo italiano di Petrucciani. La correzione ungarettiana qui esami-

nata sembra quasi invitare il lettore ad assaporare la ricchezza dell’ambiguità che nulla toglie al senso dell'insieme. L'importante, però, è non estendere l’ambi-

guità possibile sino a considerare rzemzori apposizione di roi, come fa l’approssimativo antologista già ricordato, il quale interpreta così: «Ricordandoci invece del trapassare delle ombre nel rossore dell’alba», ossia: ci scorderemo della terta, ma invece resteremo

memori, chissà poi perché, del trapassare delle ombre notturne nella chiarità del nuovo giorno; laddove è evidente che anche «di passi» è retto da «ci scorderemo».

A sottilizzare, si potrebbe forse cogliere un implicito gioco di opposizioni, secondo il quale al rapporto tra ombre e rossori si affianca quello tra memori e nuove. Il «motivo dell’aurora», comunque,

simboleggia

sempre

innocenza,

a quanto

esplicitamente Ungaretti: rappresenta

afferma

una sorta di

quotidiano rito lustrale affine a quello del primo canto del Purgatorio dantesco. Ma uno degli aspetti della condizione umana da dimenticare («ci scorderemo») comporta l'impossibilità di assaporare quella innocenza edenica di «vita iniziale», a cui simbolicamente e quasi ritualmente allude ogni nuovo sorgere

del giorno. Quel pregnante memori, che l’acquistata posizione in fine di verso rende più marcato, si collega al motivo ungarettiano della memoria come ossessiva

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non innocenza: «Figlia indiscreta della noia, / Memo-

ria, memoria incessante, / Le nuvole della tua polvere, / Non c’è vento che se le porti via?» E le ombre sono simili, col loro passo spettrale, a revenants che

riappaiono, perturbando, alle prime luci. Lo confermano probanti riscontri contestuali. Già nell’Allegria,

in Chiaroscuro, il compagno arabo suicida, senza alcun dubbio Mohammed Sceab, va a ritrovare sul far del

giorno l’amico poeta destinato a tramandarne la memoria. Alba parigina; nebbiosa, come preciserà Ungaretti conversando con Jean Amrouche: Tornano le tombe appiattate nel verde tetro delle ultime oscurità nel, verde torbido del primo chiaro.

Ancora più pertinente dell'esempio appena riportato (in cui si noterà la coloritura ossimorica che rende torbido il chiaro), è il finale dell’ultimo canto di

La morte meditata: Con voi, fantasmi, non ho mai ritegno,

E dei vostri rimorsi ho pieno il cuore Quando fa giorno.

Del resto, il giorno come consapevolezza dolorosa rispetto all'oblio e alla comunione cosmica della notte è grande tema romantico da Novalis al Tristano wagneriano. Da tale tema parrebbero discendere gli «astrali nidi d’illusione» e i «dolorosi risvegli» della suggestiva poesia iniziale di Sentimento del Tempo: O notte.

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Le varianti del già ricordato verso chiave da cui è tratto il titolo presentano un caso davvero esemplare di esplorazione sistematica delle possibilità di rapporti fra i singoli lessemi, come se la sintassi poetica ritrovasse — scavalcando la lunga vicenda storica che portò alla scomparsa dei casi e alla formazione delle lingue romanze - la felice condizione di libertà combinatoria della poesia latina. Comunque ben altro, in questa direzione, si troverà nel furor variantistico di certi momenti di La Terra Promessa. (Libro nel quale, si può tra parentesi notare, il verso in questione tro-

verà una sorta d’eco in un verso significativo della Canzone d’apertura: «Dove foglia non nasce o cade o sverna»).

A Dove la luce non muove più foglia B Dove la luce più non muove foglia M Dove non muove foglia più la luce

Davvero sembra di ritrovare il lavorìo del Petrarca, nel senso di una sempre più compiuta armonia, di un’attenzione suprema ai valori fonici; del Petrarca che annotava in margine alle proprie varianti «placet quia sonantior». Petrarca del resto è nome che non a caso affiora a proposito di questo verso: nellà terza redazione echeggia un verso petrarchesco che Ungaretti predilige vedendovi quasi l'emblema stesso di

quella poesia: «E m'è rimasa nel pensier la luce». Il progresso dell’elaborazione fonica non richiede commento. Basterà ricordare che il processo di raggruppare insieme parole omofone è frequente in Unga-

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retti, ed è documentato in altre varianti, anche nel

Dolore: qui, oltre che dall’omogeneità fonica ottenuta col raggruppare in due gruppi distinti le parole con l'accento sulla o e quelle con l’accento sulla 4, l’effetto di immobile durata è sottolineato dal delicato omoteleuto all’inizio. Tutto il peso dell’accento grava su luce, vera parola-chiave (insieme a non moltissime altre) della poesia ungarettiana, da quella balenante nelle «illuminazioni favolose» dell’Allegria a quella ferma di questa lirica, alla luce sempre più metafisica, sempre più «quintessenza iperurania» in testi della maturità o degli anni tardi: da Segreto del poeta di La Terra Promessa in cui «luce» occupa un intero verso,

quello finale, alla luce che intride Cantetto senza parole nella raccoltina Il Taccuino dei Vecchio, sino al verso così sintomatico del senile Dizlogo con Bruna:

«Farsi lontana vidi la tua luce» (nella poesia intitolata La tua luce). Già a proposito della celeberrima Mattina, comunque, Umberto Marvardi richiamava, a torto o a ragione, la «tradizione neoplatonica, agostiniana, bonaventuriana», secondo la quale la luce rap-

presenta l’anima, l'essenza dello spirito. Sarebbe forse troppo ipotizzare nella variante di M, con quella luce dislocata in posizione finale, una sorta di immagine iconica alludente a un paesaggio in cui la luce si attesti nella lontananza dell’orizzonte. Ma certo la ferma luce è qui contrapposta a foglie, quasi mobili per definizione. Non a caso Alexander Calder, volendo rendere in scultura il senso della mobilità, suggerisce coi celebri «mobiles» immagini di | foglie in movimento. Nel parlar quotidiano per l’idea di immobilità si ricorre volentieri all’espressione «non si muove foglia». E anche in una illustre immagine leopardiana di altissima quiete «erba e foglia non si

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crolla al vento» (La vita solitaria, come ognuno ricorda). Banalizzato, s'intende, nella parafrasi, il

significato del verso in questione è più o meno il seguente: «dove la luce è immobile, e non si muove foglia». Ma l’immagine è rigenerata, sottratta interamente alla banalità dall’audace raccordo d’azione ottenuto rendendo la luce soggetto del verbo. Il che evoca una sorta di sinestesia indiretta, non molto diîs-

simile da quella suggerita da un memorabile madrigale tassesco: «E nella notte bruna / Alto silenzio fa la bianca luna». Quello che è certo, comunque, è che dal

verso non può in alcun modo dedursi una luce che «muove le foglie riscaldandole e facendole aprire», come vorrebbe il candido evemerismo o piuttosto il tenace buon senso appiattitore dell’antologista (lo stesso che nell’acqua chiara colore dell’uliva che in Sera «giunge al breve fuoco smemorato» del tramonto vede - ahimé - un ruscello che «giunge dov'è un piccolo fuoco dimenticato» e «lo spegne levando un po’ di fumo»); bensì una luce quasi personificata che in qualche modo vince il vento-movimento, lo placa, lo riassorbe, divenendo protagonista assoluta nell’opposizione movimento-immobilità che è il paradigma poetico del testo. Gli esempi che seguono possono rappresentare un'ennesima conferma dell’utilità dell'esame delle varianti anche per la retta interpretazione di singoli passi. Specialmente per un poeta come Ungaretti, il quale non per mero compiacimento narcisistico o per civetteria filologica ha tenuto a che restasse documento stampato, quando ancora era nel fiore degli anni creativi, anche delle successive scelte, del lavorìo

di approssimazione, delle minute germinazioni del-

l'invenzione verbale, capace (come è stato finemente

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LO

notato) «di rinnovare e di rinnovarsi». Di un poeta la cui presenza ha contribuito in modo determinante nella cultura letteraria italiana - specie per merito del fecondo magistero fiorentino di Giuseppe De Robertis — al riaccendersi dell’interesse anche metodologico e teorico per l’analisi variantistica; di un poeta che ha sentito, come probabilmente nessun altro italiano di questo secolo, l’atto poetico come un continuur ininterrotto e inconcluso: «La poesia — nell’umana espressione almeno — rimane sempre in cantiere. Sempre allo stato imperfetto, sempre in continua sollecitazione di ritocchi». Così scriveva nel 1958 a Enzo Paci;

e così diceva in un’intervista del 1967 ritradotta dal portoghese da Luciana Stegagno Picchio: «L’orecchio insegue il significato, insegue il suono, insegue tante cose, non si sa. Insomma tutto alla fine deve combi-

nare e dare la sensazione che la poesia ha trovato espressione. Ma essa non si esprime mai veramente e noi restiamo sempre scontenti. Preferiremmo che fosse detto in un altro modo, ma la parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dire il segreto che è in noi, mai. Gli si avvicina». Per Ungaretti più che per qualsiasi altro poeta del nostro Novecento è necessario disporre di apparati che consentano un’agevole sinossi delle varianti ed è auspicabile che nelle concordanze dell’opera poetica, particolarmente utili, possano reperirsi (come nelle concordanze apprestate da

Antonietta Bufano per i Canti leopardiani) anche i i; lemmi compresi nelle varianti. Ma torniamo al nostro esame ravvicinato: A Da un ricco sole obliato nimbo, L’ora costante, liberi d'età,

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L’ora costante, liberi d'età,

Da un ricco sole perso nimbo, M L’ora costante, liberi d'età, Nel suo perduto nimbo,

Anche in questo caso a un inequivocabile acquisto in compattezza e armonia metrica (assistiamo alla nascita di un agile settenario) corrisponde una minore perspicuità del senso. Quel perduto nimbo, senza sapere che è stato obliato o perso dal sole pieno dell’esistenza diurna, difficilmente s'intende. Il sole ricco

della vita è e dev'essere assente (anche linguisticamente) da questo assorto finale. E vero che Ungaretti è figlio di Mallarmé, la cui Beatrice è l’assenza e per il quale «nommer un objet, c'est supprimer les trois quarts de la jouissance du poème qui est faite du bonheur de deviner peu à peu»; è vero che la nozione di nimbo (affine ad aura, aureola, corona, e ad altre

immagini circolari, avvolgenti, come ha indicato Fredi Chiappelli in un breve studio) e quella di perduto (epiteto che, «assai caratteristico, evoca la malin-

conia delle cose amate e perdute, la separazione irreparabile dai beni cui si partecipa», osserva Gutia) sono bene integrate nel cosmo poetico ungarettiano, ma è anche vero che nella forma linguistica definitiva non è facile, neppure per lettori esperti di enigmistica ungarettiana, arrivare a «deviner peu à peu». È bene

che quell’alone resti «sospeso», davvero «perduto» anche grammaticalmente per la scomparsa del ter-

mine di riferimento, in un’ambiguità da punto interrogativo. A preservarci, comunque, da possibili fraintendimenti, ecco che le varianti soccorrono come una

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implicita didascalia, e la traccia dello strato precedente, l’eco rimasta in qualche parte del cosmo poetico ungarettiano illumina con la luce più discreta e indiretta possibile la fase definitiva. Restano da esaminare le varianti comuni ad A e B.

AB Nel venticello sui giovani prati, Ti sanno leggera le braccia, vieni. M Nel vento lieto sui giovani prati Le braccia ti sanno leggera, vieni.

Il vento lieto, sostituendosi al venticello, sottrae il

verso a ogni possibile avvicinamento alla categoria più o meno arcadica del «grazioso» che non sarebbe pertinente. Lo rende meno episodico, gli conferisce durata e magari un tocco appena percettibile di mitico animismo. Pio Spezzani vuol vedere in quel diminutivo un residuo di «estenuazioni ironistico-parodistiche» di estrazione crepuscolare, via via espunte nell’elaborazione ungarettiana; la coppia aggettivo + sostantivo che vi si sostituisce farebbe «acquistare al verso una fisionomia più classica e composta». Il secondo verso, oltre a subire il processo di riduzione a maggior omogeneità fonica di cui s'è detto poc'anzi (due parole accentate sulla 4 nella prima parte, due parole accentate sulla e nella seconda), viene ad acquisire un più spigliato ritmo di danza. AB Passati ad altre rive i crucci e i sogni Ti porterò alle colline d’oro Vieni dov'è sera posata.

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M Sogni e crucci passati ad altre rive, Dov'è posata sera, Vieni ti porterò Alle colline d’oro.

Il primo verso in M risulta più assoluto (nel senso grammaticale: quello di «ablativo assoluto») con quell’inversione che, anche nel mimetismo sintattico, davvero sembra «gettare dietro le spalle» crucci e sogni (corrispondenti in sostanza a wz4le e cielo), e acquista espressività dall’eliminazione degli articoli. La ripetizione dell'importante avverbio dove (che compare nel titolo) ne rafforza la presenza spaziale. Quel contorto (forse per appoggiarsi tutto con evidenza enfatica su posata) terzo verso di AB, acquista ordine, anche metrico come si vedrà. Va segnalata la

presenza di una virgola («vieni, ti porterò») in tre redazioni anteriori a M e qui non considerate. Evidentemente quella pausa dava uno stacco di tipo consecutivo che il poeta ha voluto sopprimere, accrescendo la densità emotiva e non ragionata e perciò non analitica dell’espressione, che è importante raccordo tra l’impeto dell’esortazione iniziale, qui ripresa, e il futuro «profetico» dominante. Va detto, prima di metter da parte le varianti, che il chiasmo già esisteva nella struttura strofica di A. A si compone di 14 versi e di due quartine e due

terzine (anche se qui di versi non uguali, e senza il gioco strutturante delle rime) come un sonetto, ma in disposizione più armonica: 3-4//4-3. In M il chiasmo sussiste e in un certo senso risulta più omogeneo, per il fatto di organarsi in membri non più dispari pari dispari, ma tutti dispari: 3-5//5-3.

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Sia pure con minor rigore che sul piano strofico, anche nel rapporto versi lunghi versi brevi (i primi

endecasillabi, i secondi tutti settenari meno uno del tutto anomalo, una specie di novenario tronco), si

tende a una situazione di ordine. Inoltre il primo e l’ultimo verso si corrispondono per affinità metrica e per un certo grado di opposizione semantica: moto aperto e lineare contro avvolgimento su di sé e chiusura. Se si vuole, anche tra l’endecasillabo finale della prima metà e quello iniziale della seconda metà può sussistere un rapporto di opposizione: tra l’aprirsi mattutino della luce, che è una sorta di movimento germinale, e una luce immota, definitiva. Senza dire del legame di una singolare rimalmezzo: «dove non muove» col precedente nuove (che tra l’altro, sul piano del significante, sottolinea con una specie di lieve ingorgo il senso di stasi

comunicato dal significato). Nessun dubbio, dunque, sul fatto che l’elabora-

zione metrica documentata dalle varianti proceda nella direzione della regolarità. (Si aggiunga, tra parentesi, che è norma quasi generale che la diacronia variantistica del testo, salvo specifici interventi dell’autore per particolari intenti di accentuazione espressivistica, tenda verso forme sempre più regolari e armoniche). In un contesto, comunque, di regolari endecasillabi e settenari (di cui uno soltanto sdrucciolo, il verso 7) sussiste qualche anomalia ritmica e metrica. Il verso 4 («Ci scorderemo di quaggiù») è del

tutto abnorme, e forse è rimasto nel testo definitivo

per il piglio discorsivo anche nel ritmo, conveniente all’incipit energico della seconda strofa. Tra gli endecasillabi, due hanno accentuazione irregolare: i versi 3 e 4 («Nel vento lieto sui giovani prati, / Le braccia ti

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sanno leggera, vieni»). Conosciamo bene, del resto,

quello che potrebbe definirsi il tenace sperimentali smo metrico di Ungaretti, così intenso nell’àmbito del

verso tradizionale, e quasi naturale, del tanto ricer-

cato «vero canto italiano» che è l’endecasillabo. Nella memoria di ciascuno affiorano esempi di endecasillabi anomali per effetto di ricerca espressiva. Nel Dolore, per esempio, a sottolineare stanchezza di movenze cascanti («Per abitudine se alfine sosto»).e desolate («Ma le case più non ne hanno allegria»), o monotoni ritmi marini («Inesauribile fragore d’onde»). Senza dire, poi, dell’accanito esercizio della Terra Promessa:

libro che resta ricco d’interesse (tra tante altre forse più importanti ragioni) per il fatto d’essere un laboratorio, oltre che variantistico, anche metrico e ritmico

senza eguali. Anche l'anomalia dei versi 2 e 3 di Dove la luce, sopra riportati, può ricondursi a motivazione espressiva: l’esigenza di sottolineare il ritmo impetuoso dell’attacco: ritmo, s'è detto, quasi di danza,

conforme all’immagine del volo dell’allodola fissato nella posizione forte di ondosa. Non si può fare a meno di constatare che queste anomalie (alle quali si potrebbe aggiungere quella, minuscola, costituita dall’unico verso sdrucciolo accanto a quindici versi piani) si concentrano esclusivamente nella prima metà del testo. Si tratta di un fatto casuale, o esiste una motivazione strutturale-espressiva? E facile incorrere in astrazioni,

in forzature,

credendo

forse

troppo

all’autonomia e alla forza centripeta e strutturante di certe unità espressive (le parti, le strofe, ecc.). Comunque, anche restando in una fase di mera ipotesi, come

non supporre che il contenuto duplice, bipartito del testo non tenda a disporsi in armonica e bilanciata

A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE»

giustapposizione?

Non

un’analisi ravvicinata

è difficile

125

verificarlo

con

che deve diventare, a questo

punto del discorso, sincronica. Sul fatto che Dove la luce sia una poesia d’amore, non credo che sussistano dubbi. Non è facile associarci all'opinione di Gutia: che il poeta si rivolga non a una creatura femminile, bensì «alla sua stessa anima

logorata dal soffrire e oppressa dal tempo». Tuttavia ben poco di «passionale» è rimasto in questa amorosa leggenda. Il senso del movimento, che pure vi è, si concentra tutto nella prima metà, a mimarvi quanto

persiste di battito d’esistenza. Non si può mettere in dubbio l’energia impressa dal movimento d’apertura a tutto lo slancio iniziale, con l’evocazione del volo

ondeggiante, lieto e impetuoso, dell’allodola, trasmesso in un ritmo che richiama un verso della metrica classica: il ferecrateo. Il bestiario poetico di Ungaretti, pur suggestivo, è certo meno ricco e pittoresco di quello di Pascoli; o di Montale, il quale pare conservasse impagliati il gallo cedrone, l’upupa e altri uccelli della sua poesia. In Ungaretti non sono molti gli animali «reali»: come grilli e rane serali, capre e pipistrelli lunari con un usignolo, teneri passeri accanto al bimbo (nel Dolore) malato a morte. Il suo bestiario è per lo più «indiretto», se così si può dire: un lupo allegorico; talpe e serpi per indicate colori; e non di rado animali come riserva di caccia per similitudini. Il poeta oscilla «come una lucciola», per esempio; e accanto alla quaglia affranta e al cardellino accecato, troviamo agonia di allodole assetate di miraggio, sempre per alludere a momenti della condizione umana. (Del tutto a sé l’immagine estrema della donna-cerva che diviene leo-

126

TRA SEGNI E VARIANTI

parda ombrosa). Ora, il battito d’ali di questa lodola ondosa trova riscontro, all’alba della poesia occidentale, presso il più melodioso dei trovatori: «Can vei la lauzeta mover / De joi sas alas contra’l rai» («quando la lodoletta vedo batter gioiosamente l’ali incontro al sole», traduce Aurelio Roncaglia). Quanto a festevo-

lezza mimetica, non sembra che l’incipit di Ungaretti ceda a quello raggiante di Bernardo di Ventadorn. E sarebbe d’obbligo, trattandosi anche in quel caso di una gioiosa e ariosa similitudine e non di una figurazione letterale come

in Bernardo,

il richiamo

alla

dantesca «allodetta che ’n aere si spazia». Anche la seconda strofa contiene segni di movimento esistenziale, sia pure rimosso dallo schietto e

(come s'è detto) quasi colloquiale «ci scorderemo». Ma ciò che ha da essere scordato è tuttavia evocato per un fondamentale paradosso inerente alla natura della parola poetica (Lucienne Portier e Cesare Galimberti ebbero a insegnarci per diverse vie quanto la negazione leopardiana, anche come figura grammaticale, risulti in fondo implicita affermazione per antifrasi, struggente recupero della memoria). Ed è sottolineato da una figura che potremmo definire «di vitalità» come il polisindeto. Molto segnato dal movimento — per l’indole delle tre bene accentate forme nominali, per il ritmo d’insieme — è senza dubbio il verso centrale «E del mio sangue rapido alla guerra», non ancor presente in A ma immutato in B e in tutte le altre edizioni, e sarebbe forse buon criterio tener

conto anche di quali elementi, nel variare dell’elaborazione, restino tenacemente immutati. La legge (o almeno norma) ritmico-strutturale ipotizzata da Jakobson, secondo la quale in un’unità poetica di

A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE»

127

versi dispari e di limitata ampiezza il verso centrale spicca per una particolare caratterizzazione, potrebbe valere per il verso centrale di questa cinquina che rappresenta il culmine ritmico ed espressivo di essa. E si potrebbe osservare che, in corrispondenza di quel «pieno» di movimento e vitalità, anche il corrispondente verso della cinquina della seconda parte, non rinuncia ad assumere la propria «centralità», segna un culmine sintattico ed espressivo che risalta nella lettura ad alta voce, e si appoggia su quel «pieno» d’immobilità che è l’intenso e centrale posata. Un termine, quest’ultimo (come suggerì un giorno, conversando, Mario Petrucciani) di probabile osservanza leopardiana: tutti difatti abbiamo nella memoria «posa la luna», «tutto posa / Il mondo», «o greggia mia che posi», e specialmente il peso, la quasi tombale, pietrificata fermezza di quel raggelante «Or poserai per sempre / Stanco mio cor». I passi del v. 7 non possiamo considerarli a pieno titolo come segno di movimento: se è lecito interpretare l’ambigua espressione come «passi di ombre»

(memori i passi o le ombre, non

importa) e non «passi che serbano memoria delle ombre» come interpreta il traduttore francese, si tratta di passi di spettri. Il gioco sottile di opposizioni e contrappesi può riassumersi nello schema che segue, certo discutibile e probabilmente perfettibile. Destinato, in ogni caso, a rimanere eccezionale nelle pagine di uno studioso tanto avverso a grafici e classificazioni nella saggistica letteraria, tanto avverso alla mentalità che genera elencazioni e schematizzazioni, quanto convinto della desolante sterilità dell’esprit de géométrie nell’esperienza critica.

TRA SEGNI E VARIANTI

128

PARTE SECONDA

PARTE PRIMA segni di movimento

segni di staticità sarà nostro lenzuolo

come allodola ondosa

(moto libero, «aperto») vento lieto sui prati (che certo muove foglie) sangue rapido alla guerra (passi)

(chiusura su di sé),

non muove foglia più la luce dov'è posata sera l’ora costante

segni di durata

segni di temporalità rapido

liberi d’età

giovani

posata

nuove

costante fattori naturali

vento prati > (orizzontalità)

luce colline > (verticalità)

[verde]

oro

Altre opposizioni potrebbero trovarsi, per esempio tra l’io e il tu iniziali (fi sanno, vieni) e l’indistinto noi finale, indirettamente alluso (sarà rostro lenzuolo);

oppure tra le due onomatopee sintattiche (per usare un'espressione cara a Benvenuto Terracini): quella ricordata del polisindeto, che esprime foltezza di fatti

e oggetti, e insomma groppi e moti di vita, e quella,

nella seconda parte, dei costrutti assoluti. Di questi il primo (sogni e crucci passati ad altre rive) sopprime, sospingendoli nell’inaccessibile alterità di rive remote, sogni (tensioni, probabilmente, verso un ipotetico futuro) e crucci (ansie, o residui di un pertur-

bante passato, affini alle ombre del verso 7), e promuove perciò con energia l’instaurarsi della condizione di immota atemporalità senza incrinature né

A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE»

129

macchie; e specialmente il secondo (liberi d’età) con la sua ardita spregiudicatezza di anacoluto, efficacemente rappresenta sul piano della sintassi e del significante la «assoluta» libertà contenuta nel significato. E dall’assoluto in senso etimologico e grammaticale, di

cui già si è parlato, si è quasi indotti, a poco a poco, a scivolare verso un assoluto in senso filosofico. A commento delle ultime opposizioni prodotte, si potrebbero approfondire le ascendenze di certe risonanze simboliche nel thesaurus imaginum depositatosi lungo i secoli. Gli esempi potrebbero reperirsi nella letteratura (nessi tra vento ed esistenza: splendido esempio uno dei versi più suggestivi, più intensi di carica orfica

della moderna poesia occidentale, Le vent se lève. Il

faut tenter de vivre; nozione di immobilità atemporale delle colline: Pavese). Ma se ne potrebbero reperire anche fuori della letteratura. Per esempio nella tradizione ermetica, alchemica, rivisitata dalla scuola jun-

ghiana, che ci indicherebbe nel verdeggiare dei prati un simbolo di vitalità fisica, nell’oro un simbolo di

durata (la moneta che si tesaurizza per sottrarla al tempo, gli immarcescibili giardini d’oro della civiltà incaica), di atemporalità metacorporea: «L'oro non è un colore», scrive Spengler, «è uno splendore quasi assente in natura; così il fondo oro delle pitture che esprime l’essenza e l’azione dello spirito divino». «L’oro è pura luce, incontaminata», confermerà Rosita Tordi in pagine su Ungaretti e Nietzsche. Nel testo esaminato si assiste dunque a una metamorfosi, se così si può dire, dall'esistenza all'essenza,

dal dionisiaco iniziale (quelle movenze impetuose e danzanti: Nietzsche diceva che il dionisiaco è ritmo prima che linguaggio) all’apollineo, che è invece linguaggio al più alto grado, misurata e limpida armonia,

130

TRA SEGNI E VARIANTI

luminosità ferma e costante, rarefazione, leggerezza,

proporzione. L’esame metrico e lessicale fa toccare con mano questo processo, che è il vero contenuto, il

«cuor del cuore» del testo esaminato. E vien fatto di domandarsi: soltanto del testo qui esaminato? Non potremmo leggere in questa metamorfosi quasi un’allegoria di una delle istanze fondamentali della poesia e della poetica di Ungaretti, di uno dei sensi profondi e centrali di una «vita d’un uomo» tradotta in opera, di un’intera opera-vita? Non tanto parrebbe qui lecito parlare di riscatto etico dalla sensualità nel senso cristiano suggerito da Folco Portinari - e che semmai andrà cercato, e sem-

pre soltanto come aspirazione irraggiunta, in quel settore a parte di Sentimzento del Tempo che sono gli Inni — quanto invece di una sorta di riscatto apollineo in un ordine puro e imperturbato, in una costante durata che tende a eternare senza obliterarlo, come si

vedrà fra poco, anche un segno finale di sensualità. Ed ecco che il volto radioso di Eros si va trasfigurando in quello pensieroso di Thanatos. Dalla gioia d’amore nasce angoscia per la sua precarietà, la quale va d'altronde accettata insieme con la stessa scommessa dell’esistenza. Allora s’invoca l’eternarsi dell’attimo, si grida all’attimo caldo e palpitante che fugge: «Verveile doch, du bist so schén» (Ungaretti echeggia Faust con un’apostrofe di tono più domestico, più dimesso: «o bel ricordo, siediti un momento»). Ormai, senza saperlo, è come se si fosse invocàta la

morte. A proposito del rapporto, sempre così colmo di pathos, tra amore e morte, non mancano certo pagine (per esempio di Luciano Rebay) nella vastissima letteratura critica su questo poeta che incomincia l'Inno

A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE»

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alla morte proprio invocando l’amore; che nel Canto beduino concerta il motivo amore-morte in un sottile gioco di rime e di parole: nuda/druda, forte/morte (nudo è il suolo desertico, arido, senza vita; forte è il vento impetuoso dell’amore); che nel Taccuino del

Vecchio scriverà «Somiglia a luce in crescita, / Od al

colmo l’amore, / Se solo d’un momento / Essa dal Sud si parte, / Già puoi chiamarla morte».

Ora, il rapporto amore-morte sembra suggellare in modo davvero singolare Dove la luce. Si osservi la parola conclusiva e perciò fortemente marcata: lerzuolo. Già in un saggio giovanile e di solito poco ricordato (Incontri con Ungaretti, Emiliano degli Orfini, Genova 1933), Aldo Capasso osservava: «Qui lenzuolo è il linceul francese, il lenzuolo funebre». E

giudiziosamente

aggiungeva:

«Ma

già nel Porto

sepolto, la pace naturale si chiamava bara, si chiamava

urna. Per comprendere il fono alto di Ungaretti bisogna analizzare anche questo senso di “funebre” ch'è nella pace di lui: ciò che gli dà, pur nei momenti felici, una voce assorta, inabissata». Rebay ipotizza più cautamente che «non sia da escludere che lenzuolo possa avere anche il senso di linceul». Ungaretti teneva alla propria immagine di poeta

bilingue, a cavallo tra cultura italiana e cultura francese. Teneva alla metà francese della propria anima in una stagione in cui quasi tutti i grandi modelli e fermenti di poesia provenivano dalla Francia. Il francese della prima formazione culturale e dei fecondi anni parigini affiora anche nel quotidiano. Scrivendo, nel 1948, in occasione del comune onomastico a Giu-

seppe De Robertis, Ungaretti invierà «caldi auguri per la San Giuseppe»; e si tratta, come suppone Domenico De Robertis, di un francesismo del tipo «la Saint-

TRA SEGNI E VARIANTI

62

Jean». E non è improbabile che il poeta avesse presente la forma numerale francese quando, in occasione dell’ottantesimo compleanno, asserì di avere quattro volte vent'anni. E se ha usato in poesia anziano in luogo di «antico», producendo uno scarto,

sia pur minimo, rispetto alla supponibile attesa del lettore, forse il francese c'entra per qualche verso. Si ricordino i passi di Sentimento del Tempo in cui questa scelta lessicale si manifesta. Anzitutto, in Alla rosa: «Quale fonte timida a un’ombra / Anziana di ulivi /

Ritorni ad assopirmi». Poi in L'Isola: «A una proda ove sera era perenne / D’anziane selve assorte, scese». Piero Bigongiari suppone che anziane significhi qui non

solo «antiche»,

ma

anche

«cariche

d’anni»,

quindi «invecchiate». Non escluderei tuttavia un’eco del prediletto Mallarmé, dell’Après midi d’un faune centellinato anni dopo nella celebre traduzione. L’egloga mallarmeana, suggerisce Luigi de Nardis, «proprio perché favola intessuta di memoria, con quel precisissimo senso di durata tra i due assopimenti, iniziale e finale, con quel vocabolo caldo e impressio-

nisticamente colorito ha indubbiamente esercitato una notevole influenza sulla sensibilità che fa da sottofondo alle poesie di Sentimento del Tempo». In questo caso penso all’«amas de nuit ancienne» attribuito al doute (che forse echeggia nel «dubbio» di altri celebri momenti ungarettiani), da Ungaretti tradotto con «di notte antica ammasso», e che andrebbe interpretato, secondo l’attento Alessandro Dommarco,

come residuo di trascorsa «confusione di coscienza». Tra l’altro nell’egloga esistono «prode» (i bords), e intrichi selvosi di bois e bosquets che celano presenze di ninfe. «Da simulacro a fiamma vera / Errando», quasi implicita allusione di poetica pertinente a un

A PARTIRE DA UN TESTO: «DOVE LA LUCE»

153

testo come L'Isola, esprime una condizione non lon-

tana da quella dell’egloga, nella quale ha rilievo la distanza tra «gli stessi boschi veri» (così tradurrà Ungaretti) e l’«abbaglio ideale», l’illusione. L'Isola sembra accogliere diffusi e disseminati momenti di sintonia col Faure: vi si trova «una pioggia pigra di dardi»; e il Faure, da parte sua, ha, sia pure netta-

mente separati e non poco distanti tra loro, pluse, inerte, dardait; ha flamme; ha non una «coltre luminosa», come L'Isola, ma «peaux lumineuses». Si tratta, comunque, di «labili assorbimenti o ideali

incontri tra anime», per usare una definizione di Luigi de Nardis a proposito delle convergenze tra i due poeti, studiate anche brevemente da Gutia e diffusamente da Rebaye da Ossola e riesaminate da Gian-

carlo Quiriconi. E il caso, comunque, di concludere la

breve digressione per tornare al verso finale di Dove la luce. Il poeta, che del resto ricorda un lenzuolo usato

come sudario in una prosa intitolata Giornata di fantasmi («Qui sotterrano in un lenzuolo, sotto un velo di

sabbia»), sa benissimo che nella tradizione linguistica italiana lenzuolo usato senza specificazione ha il senso di drappo da letto e quasi mai di sudario, mentre il francese linceul si adopera soltanto nel senso del meno comune suaîre; anche, s'intende, nell’uso figu-

rato: Siracusa, ad esempio, in una poesia di Heredia «dort sous le bleu linceul de son ciel indulgent». I due coevi traduttori francesi già ricordati, Jean Chuzeville e Jean Lescure, offrono per il verso finale identica versione: «Sera notre linceul», in pieno accordo con Pedro-Juan Vignale che traduce in spagnolo con

«Serà nuestro sudario»; e sudario significa anche lo svedese svepring della versione di Anders Osterling.

134

TRA SEGNI E VARIANTI

Philippe Jaccottet, nella traduzione pure ricordata, ha invece «Sera notre lit». A questo punto è difficile non lasciarsi tentare dalla suggestiva ipotesi di un tipo di allargamento o arricchimento semantico tutto particolare, per via di ambiguità, se così si può dire. Il poeta bilingue avrebbe cioè conservato la bivalenza del segno, evocando esplicitamente l’immagine di lenzuolo d’amorosa alcova, corrispondente al lit della traduzioneinterpretazione di Jaccottet (e si tenga presente che il sintagma «sarà nostro lenzuolo» non è, in fondo, che

espressiva e sensuale perifrasi per «ci avvolgerà»), ma suggerendo nel contempo al lettore, attraverso l’implicita evocazione del paronimo francese, la nozione di indefinita durata collegata all'idea della morte. Se questa ipotesi dovesse risultare plausibile, il vocabolo lenzuolo reso per tal via singolarmente ancipite diverrebbe diretto portatore dell’equivalenza (da Ungaretti altrove evocata anche col segno del bacio) di amore e morte. La quale può apparire all’orizzonte quando si voglia conferire perenne durata, definitività assoluta all’ebbrezza d'amore: «un desiderio di morir si sente»,

insegna il severo canto leopardiano. Privilegiato, comunque, il poeta adepto di Apollo, che può transustanziarla senza estinguerla, quell’ebbrezza, in stabili forme di ‘elaborata e perciò pacificata armonia, e in quella sfera di assoluto.recupero che l’orfico Rilke amava definire «larica».

IV.

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA L'artista, il poeta, nella sua adesione, lo

sappia o meno, alle circostanze sino nel loro segreto, cerca di ristabilire un’unità nell’essere, di ritrovare una serenità. E

per questo, se noi vogliamo conoscere a fondo un dato momento della storia, noi

dobbiamo interrogare gli artisti, i poeti. Sono essi gli interpreti più veri per i secoli, del divenire di una società.

GIUSEPPE UNGARETTI

Merci des poèmes... Mais à quoi tient l’étrange sentiment où ils me jettent: c’est — sans que toi le dises précisément — que l’àme humaine est sauvée, et nous avec elle. JEAN PAuULHAN, Lettera del 1958

a Ungaretti

Il Dolore, anche se in misura minore di quanto non avvenisse per le precedenti raccolte e di quanto non avverrà per La Terra Promessa, presenta notoriamente varianti degne di attenzione. Le quali, s’intende, meglio risulteranno fruibili quando vedrà la luce l'imminente e da anni promessa edizione critica dell’opera, dovuta alla perizia filologica di Domenico

136

TRA SEGNI E VARIANTI

De Robertis, che già ne ha anticipato attraenti campioni.

Si può dire che il materiale variantistico più vistoso e interessante del terzo libro ungarettiano provenga da quella che potremmo definire una specie di moltiplicazione delle cellule, di riproduzione per cariocinesi poetica, che investe perciò un importante

problema strutturale. Ognuno ricorderà un caso affine, di rilevante portata, nel Sentizzento del Tempo, in cui da un unico ceppo, una specie di egloga a più voci (Eco, Clio, il Coro), prende vita tutta una serie di

brevi poesie, dandoci la misura delle nuove monadi liriche ungarettiane dopo L’Allegria. Il caso del Dolore è analogo, ma non identico: più che uno smembramento che dà vita a unità compiute, si tratta di nuclei vitali che si sviluppano in organismi molto diversi. Il rapporto fra i differenti momenti è quindi, in quest’ultimo caso, quasi più prossimo alla concezione crociana di testi poetici autonomi e in sé compiuti — nel circuito chiuso intuizione-espressione dei singoli atti poetici - che non all'idea di Work in Progress, di poesia in evoluzione perenne, mai compiuta, cara a Valéry e allo stesso Ungaretti. Si vuole qui ricordare il caso di Roma occupata, una delle sezioni, come s'è visto, più organiche e suggestive del Dolore, la cui idea primigenia si incarnò per la prima volta in una minuscola edizione pregiata, uscita nel 1944 per i tipi dell’Urbinati, con una serie di disegni di Tamburi. Protagonisti della plaguette dovevano essere proprio i disegni più che la poesia; non per niente il titolo era: «Orfeo Tamburi, Piccola Roma, con una poesia di occasione di Giuseppe Ungaretti». I versi erano accompagnati dal seguente laco-

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

137

nico messaggio: «Caro Tamburi, queste sequenze nate in occasione dei Suoi disegni sono dunque Sue, le gradisca». Il titolo di Roma occupata non appare ancora, ma non vi si parla d’altro. Bisogna aggiungere che i disegni di Tamburi nulla hanno a che vedere col tragico tempo dell’occupazione nazista evocato dalla poesia: risalgono anzi a diversi anni prima (i più, e forse tutti, al 1935).

In che senso, dunque, si può dire che le pagine ungarettiane siano «nate in occasione dei suoi disegni»? I disegni rappresentano a dire il vero una sorta di Roma perennis, di essenza di romanità, tutta monumenti, quasi interamente sguarnita di uomini (se si

esclude una sola scena animata, ma di un pittoresco quasi ottocentesco, colta in un vicolo del vecchio Trastevere: il vicolo Moroni). Qualche rara figuretta — minuto segno nero — appare anche in altri disegni di monumenti più che altro come parametro per meglio far risaltare l’imponenza delle moli e i vasti vuoti: segni effimeri e provvisori accanto alla durata delle opere dei secoli. Per di più — e chiunque abbia presente l’arte di Tamburi subito intenderà — le masse monumentali non sono tanto vissute in se stesse, nella

loro presenza plastica, quanto compenetrate o lievitate nell’atmosfera, in un giuoco arioso e franto di spazio vibrante che ricorda lo sciogliersi di certe moli veneziane nel segno inquieto e «atmosferico» di De Pisis. È dunque una Roma di monumenti risolti in un tempo remoto, assoluto, in una durata che è fatta, più che di pietre, di spazio e di perenne vicenda di stagioni. Una simile immagine di Roma è soltanto uno dei poli del discorsodi Ungaretti, la cui poesia ne sottolinea il rapporto con la temporalità minacciosa e dolente, con la precarietà sofferta nell’infierire di una

TRA SEGNI E VARIANTI

138

smisurata tragedia storica. I monumenti evocati dalle «sequenze» (teniamo a mente che lo stesso poeta a ragione così definisce quei versi) sono per lo più quelli ritratti da Tamburi:

i Dioscuri

del Quirinale; pini

famosi in scorci famosi (si ricordi Incontro a un pino); naturalmente San Pietro (uno dei disegni più belli è proprio quello della piazza berniniana tutta lievitante nello spazio: e si pensi al simbolo di speranza che questa piazza incarnò nei giorni oscuri dell’occupazione nazista); infine il Colosseo,

che in versi del

Dolore non ancora presenti, però, nelle sequenze del 1944 (e cioè nella poesia intitolata Defunti su monta-

gne) verrà definito «strano tamburo»: Agli echi fondi attento Dello strano tamburo A quale ansia suprema rispondevo Di volontà, bruciante

Quando appariva esausta?

Nessuno, oggi, sosterrebbe ancora che si tratti del «tamburo di Radio Londra», come si affermava

senza perplessità in una monografia su Ungaretti con la quale polemizzai (su questo e su altri punti) una ventina d’anni or sono. Per i meno attempati va precisato che le trasmissioni di Radio Londra in lingua italiana negli ultimi anni della guerra, cioè proprio negli anni evocati dalla poesia di Ungaretti, ascoltate da molti come unica tra le fonti accessibili di nbtizie non controllata dai nazifascisti, erano precedute da quattro cupe note (probabilmente non di tamburo, ma di timpano) che sembravano riecheggiare sordamente la celeberrima battuta iniziale della Quinta Sinfonia di Beethoven, e che volevano senza alcun dub-

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

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bio significare il destino che batte alle porte e che sta per compiersi. A parte altre considerazioni (alle quali ebbi ad accennare in quella polemica rettifica), per convincersi che l’ipotesi di Radio Londra non ha alcun fondamento basta leggere la seguente nota di Ungaretti stesso a Sentimento del Tempo: «Quando si è in presenza del Colosseo, erorzze tamburo con orbite senz’occhi, si ha il sentimento del vuoto». Nella poesia, dunque, non più ezorme, ma strano: con acquisto,

certo, di peregrinità. La semantica di strazo è sfumata in Ungaretti: trasognata e smarrita l’ora che «erra strana» nella «fantasia della fine del mondo» intitolata Fine di Crono; un’altra «ora», quella di un’esistenza

che scivola verso l’autunno, in Auguri per il proprio compleanno, ha «l’arte strana», ossia, presumibilmente, ha un’ambiguità insidiosa e allarmante, come

di sirena. E non va dimenticata la «strana strada» (si noti la suggestiva paronomasia) della Carzone che apre La Terra Promessa, «Dove foglia non nasce, o cade o sverna»: strada, spiegherà Ungaretti stesso, «non

visibile,

non

sensibile»,

dove

«non

esiste

parola» e «non esistono segni» per identificarla. In che senso, dunque, strano il tamburo del Colosseo?

Forse per essere tutto perforato di orbite vuote come un immenso teschio di fossile mostruoso? Forse per la sua allucinata estraneità (e certo Ungaretti sente il legame di strano con estraneo, straniato) alla misura umana? La pregnanza dell’epiteto, la sua voluta polisemia rifiutano, s'intende, queste parafrasi limitanti e banalizzanti, le quali però non pretendono fornire un termine equivalente, e solo chiedono di suscitare un alone di risonanze, di sollecitare una fruizione più ricca del segno. Quanto alla metafora visiva del tamburo, potrebbe risultare ardita e quasi barocca se l’uso

140

TRA SEGNI E VARIANTI

figurato del termine in senso architettonico non fosse usuale, anzi persino tecnico. Ardita invece (e quasi implicita sinestesia) l’estensione della metafora alla nozione acustica che all'immagine del tamburo si associa. Un tamburo ha risonanze. Echi: della storia, della memoria umana; eventualmente anche di voci

umane, voci dei piccoli uomini evocati nel testo e che producevano sorpresa «se, ombre, parlavano», in quel vuoto impassibile, quasi spettrale, dell'enorme tamburo: «Col precipizio alle orbite D’un azzurro che sorte più non eccita / Né turba». Echi fondi, cioè,

probabilmente, remoti. Trattandosi del Colosseo, anche possibili grida di vittime innocenti, di folle imbestiate, in consonanza con la rinnovata barbarie

che minaccia la misura umana. Difficilmente evitabile il riscontro, che ci condurrebbe proprio nella direzione di quest'area evocativa, con il verso di altra

poesia «romana» di una ventina d’anni prima, D’agosto: «Risvegli ceneri nei colossei». Anche in questo caso la parafrasi esplicativa banalizza, e va dimenticata o, se si vuole, riassorbita nella constatata pre-

gnanza dell’espressione. Analogamente, conviene lasciarsi dietro le spalle questa vera e propria digressione suscitata dalla suggestione epifanica del Colosseo «su estremi fumi emerso», e riprendere la linea del discorso sulle sequenze; nella speranza che la digressione non sia stata sviamento, bensì contributo a evo-

care l'atmosfera storica e poetica di Roma occupata. La struttura delle sequenze — per le quali il'frontespizio usa la definizione che è anche nobilmente goethiana di «poesia d’occasione» — corrisponde difatti in pieno all’«occasione» della poesia. Le

sequenze scandiscono con aderenza un girovagare assorto, sbigottito, «di pensier in pensier», di strada in

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

141

strada, attraverso la capitale oppressa e minacciata; ritraggono i passaggi imprevedibili delle associazioni

mentali, delle riflessioni. A vederle così, spezzettate

nell’apparato critico mondadoriano, non se ne percepisce la profonda unità poetica, che invece balza evidente a chi abbia sottocchio la ormai introvabile plaquette.

La differenza con la redazione successiva è cospicua. Quantitativamente: contro 141 versi stannoi 194

delle cinque diverse poesie di Roma occupata (di cui una, Nelle vene, utilizza spunti preesistenti estranei

alle sequenze); e si tenga conto che una sequenza di 22 versi (vv. 40-61) e una di 10 versi (vv. 62-71) daranno vita a due poesie entrambe esterne alla sezione di Roma occupata (Amaro accordo e Lungotevere al tramonto, che prenderà poi il titolo molto meno episodico di Incontro a un pino). I 141 versi si

riducono a meno di 110. Strutturalmente: l’unità di struttura della redazione 1944 scaturisce da una compatta unità d’atmosfera che indurrebbe — se fosse possibile in un caso così complesso una scelta di valore — a optare per la prima redazione, la quale ci pare uno dei testi più alti e significativi che suggeriscano e tramandino il senso di un vissuto tragico, l’autentico sapore di un momento

storico tra i più intensi, sia

pure più sub specie aeternitatis, in una vertigine meditativa da Cinque maggio manzoniano, che non sub specie chronicae, come invece gli splendidi episodi di

Paisà di Rossellini, iquali in parecchi lustri non perduto di freschezza e di intensità a un tempo mentaria e poetica. Questa singolare proliferazione poetica articola da Piccola Roma al Dolore potrebbe

hanno docu-

che si offrire

materiali a uno studio analitico e sistematico. Qui ci si

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TRA SEGNI E VARIANTI

limiterà a qualche spunto, osservando la metamorfosi più vistosa, anche sul piano quantitativo, che genera i 69 versi di Mio fiume anche tu (la più ampia e cantabile, certo la più popolare poesia di Rorza occupata) da una sequenza di 25 destinata a confluire nella sola prima strofa del nuovo testo. Nell’elaborazione viene sacrificato un imponente incipit colmo di pathos con cui si avviava, nelle sequenze, il largo, biblico mo-

tivo dei fiumi. Per una specie di flash back o «amaro accordo ‘dei ricordi», agli «armoniosi colli di Roma» subentrava il selvaggio e teso paesaggio brasiliano; indi, ritorno al paesaggio nostrano emblematizzato nella familiare sagoma del pino mediterraneo e nei «pietrami memori» in riva al Tevere; ed ecco il motivo del Tevere, il motivo fluviale: Mescolato al Tieté di selve impervio Echeggianti al mio pianto più profondo, Ti collocasti allora al Serchio, al Nilo, Alla Senna, all’Isonzo chiaro accanto, Tevere, sacro fiume, tu anche mio. Anche tu mio, Tevere fatale.

Senza dubbio un attacco di sostenuta gravitas sia per il classicheggiante assetto dei costrutti (un classicismo che parrebbe quasi di sapore tassesco, teso ai limiti del'barocco), sia per le sonorità intense e profonde del secondo verso che investono di patimento umano l’impassibile incombere di un paesaggio esotico appena balenato in quell’intrico di selve selvagge; ma poi, ecco quasi un impacciarsi della sintassi poetica, un senso di non risolto.

Ancora un «amaro accordo», in questa mescolanza. Una variabile dell’antitesi dialettica dominante

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

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nel Dolore, che qui collega il più civile dei fiumi, il più carico di storia e perciò in un certo senso (che è poi il senso che prevale in questo libro) il più umano, il Tevere vergiliano e cristiano, col più remoto, col più ostico dei fiumi ungarettiani: il Rio Tieté. Il quale, uscito dalla città di San Paolo del Brasile, selvaggio («di selve impervio»), dopo lunghissimi errori va a gettarsi nel Paranà. Fiume ostico e alieno, comunque,

soltanto a orecchi nostrani e alla nostra memoria letteraria europea. Nel bel saggio I/ sesto fiume, primizia di un promesso volume su Ungaretti e il Brasile, Luciana Stegagno Picchio ci fa sapere che il Rio Tieté non è estraneo tout court alla storia della poesia. Infatti Mario de Andrade, imbevuto tra l’altro di cultura italiana e ammirato lettore di / fiurzi, considerato

da Ungaretti «il maggiore dei poeti brasiliani contemporanei», aveva

cantato

come

«suo

fiume» il Rio

Tieté. Comunque, la mescolanza-antitesi tra Tevere e Tieté verrà espunta nel corso dell’elaborazione poetica e ogni richiamo brasiliano scomparirà da Mio fiume anche tu. Altra suggestiva associazione-antitesi, questa però destinata a restare nel Dolore, sarà quella tra pietre e pietre. (Sia detto in parentesi che a tali riscontri ermeneutici per accostamenti di segni ci autorizza lo stesso Ungaretti, quando, per esempio, nel commentare Manzoni sottolinea il significato del rapporto tra l’«orzza di pie’ mortale» e la «più vasta ormza» che

del creator suo Spirito Dio volle stampare attraverso il genio napoleonico). Tra pietre e pietre, sidiceva. Tra i «pietrami memori», umanizzati da storia e memoria

(in Incontro a un pino) e (in Tu ti spezzasti) le «molte, sparse, immani pietre grige», divenute nella redazione definitiva i «molti immani, sparsi, grigi sassi / Fre-

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TRA SEGNI E VARIANTI

menti ancora alle segrete fionde / Di originarie fiamme soffocate / Od ai terrori di fiumane vergini / Ruinanti in implacabili carezze»: sontuosa e superbamente ritmata raffigurazione di paesaggio con tutta la tensione stilistica di un barocco che è altra cosa dal barocco romano-cristiano scoperto così fecondamente negli anni romani di Sentizzento del Tempo. La Stegagno Picchio segnala l'arricchimento, in Brasile, della coscienza ungarettiana del barocco, e definisce persino un «barocco brasiliano», ancorato a

riscontri, stavolta, più scultorii e pittorici che architettonici. E in ogni caso «stimolato anche e soprattutto

da spettacoli di natura», cioè da quel violento «paesaggio, animato per un attimo da una fragile anima

italiana», secondo la tenerissima chiosa di Ungaretti: immagine viva e reale, ma intensamente emblematiz-

zata non certo dell’intero Brasile con la sua cultura letteraria artistica musicale, col suo affascinante con-

testo antropologico; soltanto di un Brasile come segno negativo di un’antitesi, qui (per dirla con Glauco Cambon) «demonicamente mitizzato come natura selvaggia e sterminata, come dismisura». Antitesi, dunque, tra esotico e nostrano, tra giun-

gla sudamericana e Roma (Roma come Italia e intera civiltà europea). Antinomia — su cui anche insiste Cambon, in questo e in altri momenti fraterno al mio approccio ermeneutico — tra dismisura e misura. E perciò antitesi concomitante con quella tra barbarie e civiltà che è al centro della poesia corale nata dalla guerra. Uno dei nodi di un libro come Il Dolore è proprio il rapporto tra queste due tematiche antinomiche (o antinomie tematiche) che collega così i due nuclei principali che s'incentrano a vicenda nel dolore privato e in quello collettivo. Nei due nuclei di dolore

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

145

distinti, ma paralleli e interferenti, il titolo stesso del

libro si articola e arricchisce di spessore e senso. Da

una parte, dunque, il ricordo insieme lancinante e

mitico del figlio fanciullo, «semplice soffio e cristallo»

nello spietato paesaggio di pietra, «troppo umano

lampo» soverchiato dalla primigenia violenza dell’«empio / Selvoso accanito ronzante / Ruggito di un sole ignudo» (della cui oltranza è mimesi lo stesso barocco furore dell’aggettivazione); dall’altra la barbarie bellica minacciante creature umane smarrite e monumenti che non sono «pietrami memori» soltanto, ma quasi carni memori, vive perché memori

(oggetto e insieme segno di memoria) del corpo di una civiltà millenaria. Concomitanti, come s'è visto, e tal-

volta interferenti, le due antinomie non possono però considerarsi del tutto intercambiabili (certo Ungaretti non intendeva identificare Brasile e barbarie, ma solo

evocare una natura-dismisura) e rifluiscono in sezioni diverse del libro. Roma occupata, come s'è accennato,

perché meglio risalti l’unità tematica e tonale, guadagna a escludere il Tieté, il paesaggio brasiliano e la soverchiante presenza del dolore privato, guadagna a concentrarsi sul Tevere, emblema di tutta una civiltà minacciata, anche a costo di rinunciare a un suggestivo attacco, a un bel verso. La variante soppressa resta, nell’apparato, a testimoniare la presenza del

sesto fiume. L'attacco della redazione definitiva è una sorta di «improvviso» con l’irrompere impetuoso del verso iniziale segnato da una cesura fortissima che travolge, e quasi stravolge, il ritmo endecasillabico. E si direbbe, lasciandosi portare dalla corrente del testo, che il fluire rigoglioso di questa poesia contenga una sorta di implicita icona del tema fluviale, della fluvialità (che del resto l’iterazione del verbo scorrere finisce 10

TRA SEGNI E VARIANTI

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per sottolineare): Mio fiume anche tu, Tevere fatale,

Ora che notte già turbata scorre; Ora che persistente E come a stento erotto dalla pietra Un gemito d’agnelli si propaga Smarrito per le strade esterrefatte; Che di male l’attesa senza requie, Il peggiore dei mali, Che l’attesa di male imprevedibile Intralcia animo e passi; Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli Agghiacciano le case tane incerte; Ora che scorre notte già straziata, Che ogni attimo spariscono di schianto O temono l’offesa tanti segni Giunti, quasi divine forme, a splendere Per ascensione di millenni umani;

Ora che già sconvolta scorre notte, E quanto un uomo può patire imparo; Ora ora, mentre schiavo Il mondo d’abissale pena soffoca;

Ora che insopportabile il tormento Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;

Ora che osano dire Le mie blasfeme labbra: «Cristo, pensoso palpito, Perché la Tua bontà S'è tanto allontanata?» Se si volesse indugiare in minuzie formali (ma

non è questo, qui, l’intento), potrebbe venir voglia di esaminare la significativa frequenza, in certi momenti

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

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del testo, del fonema /#/, riproposto con impeto da quel «tu, Tevere fatale», e riscoperto nei suoi effetti di martellamento che formano quasi ingorghi nel fluviale fluire. Si ricorderà, naturalmente, il martellare

doloroso che culmina in un verso della sezione Giorno per giorno, un verso indimenticabile che da solo costituisce un testo autonomo: «E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...»; (in altri casi, come di solito accade,

lo stesso fonema ripetuto ottiene effetti diversi e quasi opposti, per esempio di stasi che si volge su se stessa nel verso non meno indimenticabile «Il tempo è muto tra canneti immoti»). In Mio fiume anche tu, il fonico

martellare che sottolinea l’angoscioso incalzare di un tempo tragico, espresso dall’inarrestabile anafora «ora che»: «iterazione ossessiva del richiamo presenziale», di «una temporalità fortemente legata al presente» (così,

rispettivamente,

Pasquale

Tuscano

e Carla

Baroni). A nessun lettore attento può sfuggire — e infatti gli studiosi l’hanno ridetto — il richiamo al momento conclusivo, e anche per questo fortemente marcato, del drammatico

bilancio di I fiumi, testo

chiave, tappa fondamentale, sia per l’autore sia per il lettore, dell’itinerario di Vita d’un uomo: Ora ch'è notte

che la mia vita mi pare una corolla di tenebre.

E in Mio fiume anche tu: «Ora che notte già turbata scorre», «Ora che scorre notte già straziata», «Ora che già sconvolta scorre notte»; quegli «ora

che» sono anche seguiti da una ripresa del «che», come nel finale di I fiumi. I fiumi si concludono

148

TRA SEGNI E VARIANTI

sintomaticamente nella notte, e Mio fiumze anche tu si dilata in una notte sterminata, che è notte dell'Europa

e del mondo: nuovo esplicito, energico collegamento, ricco per noi di senso,

tra due momenti

affini e

diversi, e comunque ugualmente cruciali nella Vita d'un uomo. Non si dimentichi che la grande poesia europea in lingua italiana dell’entre-deux-guerres, a pochi mesi dallo scatenarsi dell’inferno bellico che sconvolgerà il mondo, si concludeva proprio con un notturno carico di misteriose minacce. Si concludeva cioè con quel vertice della poesia montaliana che è Notizie dall’Amiata, la cui notte è anche — tanto più suggestivamente quanto più implicitamente e indirettamente — la notte calante sull’umanissima civiltà d'Europa. A questo punto si potrebbe, di passaggio, rilevare l’affinità, già accennata nel Preludio, tra i due

dioscuri della nostra poesia novecentesca, Ungaretti e Montale, nello stesso momento dolente della storia europea. Una convergenza piena di significato, sulla quale avevo richiamato l’attenzione, nel mio volume montaliano (Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani, Bonacci, Roma 1985), a proposito di una sinto-

matica poesia di La Bufera e altro: L’orto. Scrivevo così: «Identica tensione animava negli stessi anni Ungaretti; che andava approdando a una poesia di elaborata struttura ed eloquenza lievitata nel trascendente. Suggestiva riprova di un’esigenza storica-che si verifica nel convergere di tono e di segni tra La Bufera e Il Dolore. Si potrebbe, ad esempio, accostare il querulo, disarmato lamento di nido che proviene da

L’orto al “gemito d’agnelli” minacciati e perseguitati che proviene dal grande ovile o nido umano della civitas in Mio fiume anche tu»; e anche il fatto che il.

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

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lamento sia «a stento erotto dalla pietra», collegato dunque al segno «petroso» che evoca città ma anche minerale durezza ed è sempre significativo in Ungaretti, aggiunge una connotazione straziata.

Naturalmente si potrebbe aggiungere, nello stesso volger d’anni e d’eventi, il «lamento d’agnello dei fanciulli» che compare, accanto a immagini di bellico orrore che si potrebbero definire «alla maniera di Renato Guttuso», in Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo, come del resto ricorda, proprio a proposito di Mio fiume anche tu, anche Carla Baroni. (Quasimodo che, secondo il corrosivo giudizio conte-

nuto in una lettera di Ungaretti a Giuseppe De Robertis, «scopiazzava prima il Sentimzento e ora scopiazza I/ Dolore», rendendo ciò che copia «rettorico e falso»). Continuando nel «parallelo» tra Ungaretti e Montale, ricordavo che «in entrambi i testi si insiste con patetica anafora sul senso di un tempo dolente, espresso nell’ora, avverbio nell’uno, sostantivo nell’altro. L’imperativo, etico e poetico, di quell’ora tragica è salvare,

sottrarre alla distruzione i segni più certi dell'umano». Segni (nel testo ungarettiano la parola è usata con intenzione,

messa

in evidenza), che per Ungaretti

sono, in questo caso, monumenti, con un’estensione

di significato affine a quella del vocabolo greco opa. Sono valori visibili di una civiltà, dei quali canta l’umana ricchezza e lamenta l’offesa e la distruzione un poeta che parla a nome della collettività («D'un pianto solo mio non piango più»). Per Montale invece - non in generale, si capisce, ma limitatamente a L’orto e a qualche altro testo contiguo — sono privati affetti e memorie. Distinzione, comunque, esteriore,

se non si è d’accordo con chi rifiuta «il privatismo in poesia» (l’espressione appartiene a un epigramma del-

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TRA SEGNI E VARIANTI

l’anziano Montale), con chi discrimina in campo poetico, per vieto e mal riposto moralismo, il pubblico dal privato, il quale ultimo è poi spesso nient’altro che l’esistenzialmente umano. Resta il fatto che in uno

stesso momento di angoscia e di minaccia Montale avverte come centrale «la grande presenza dei morti» e Ungaretti conclude e suggella I/ Dolore con le parole: «silente / Il grido dei morti è più forte». Ma questo «grido dei morti», erede del leopardiano «clamor de’ sepolti», comprende anche gli avi più remoti. Il nesso ora che, quale compare in Mio fiume anche tu, sotto il rispetto strutturale serve a costruire i

piloni di un periodo unico davvero smisurato di quarantacinque versi, solo di tanto in tanto scandito dal punto e virgola, e scavalcante anche la netta e forte distinzione tra prima e seconda parte del testo. Sotto il rispetto semantico, segna con l’ossessiva iterazione anaforica, con un’incantatoria

fissità da litania un

punto nevralgico del tempo: l’angosciato presente, la fragilità del contingente; ossia proprio ciò che si giustappone all’eterno. Rispetto al bilancio individuale di I fiumi — come sottolinea quel «mi pare», introducente una connotazione individuale nella tragedia storica della guerra, tipico dell’Allegria dominata dall’io anche a detta del poeta —- questo prolungato, insistito bilancio si dilata nell’immensa notte che opprime il mondo, notte della storia e dell'anima, e non solo

della natura, che scorre con l’estraneità e l’impassibilità del destino. Che la situazione del Dolore a distanza di un quarto di secolo sia così diversa da quella dell’Allegria non può certo far meraviglia. Più singolare, invece, il fatto che da una matrice comune sostanzialmente omogenea, quale la «poesia d’occasione» dell’aprile ’44, scaturiscano esiti diversi anche .

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

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sul piano stilistico, come l’aristocratica tensione formale di Defunti su montagne e di Terra, i cui ritmi e nessi sintattici densi e complicati rimandano all’esercizio assiduo della Terra Promessa, e le intenzioni corali,

e popolari quasi nel senso degli Inzi Sacri manzoniani, di questo Mio fiume anche tu. In esso trovano posto espressioni come «dopo gli strappi dell’emigrazione /

La stolta iniquità / Delle deportazioni», prossime più al linguaggio dell’eloquenza politica o giornalistica che non alla rarefazione e tensione lirica abituale in Ungaretti: Ora che pecorelle cogli agnelli Si sbandano stupite e, per le strade Che già furono urbane, si desolano; Ora che prova un popolo Dopo gli strappi dell’emigrazione, La stolta iniquità Delle deportazioni; Ora che nelle fosse Con fantasia ritorta E mani spudorate Dalle fattezze umane l’uomo lacera L’immagine divina E pietà in grido si contrae di pietra; Ora che l’innocenza Reclama almeno un’eco, E geme anche nel cuore più indurito;

Ora che sono vani gli altri gridi; Vedo ora chiaro nella notte triste.

L’eloquente fluvialità di Mio fiume anche tu ha forse fatto rimpiangere a qualche lettore la sobrietà

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TRA SEGNI E VARIANTI

dell’Allegria, oppure l'intensità contenuta — per evocare altro momento indicato di solito come «religioso» — di testi come La preghiera, con quell’avvio soave, quasi da corale di Bach: «Come dolce prima dell’uomo / Doveva andare il mondo». Ma non va dimenticato che imomenti «religiosi» della poesia ungarettiana, quello degli Inzi e quello di Roma occupata — ai quali, secondo Pier Paolo Pasolini nel saggio Ur poeta e Dio, si possono accompagnare già due testi dell’Allegria, Dannazione e Preghiera sono profondamente diversi, e ogni studio approfondito sull’argomento dovrà tener conto largamente di questa distinzione. Anche chi prediliga gli Inzi non può per questo negare il valore, valore in sé e valore nel contesto dell’intero itinerario, dell’esperienza di Mio fiume anche tu che con Accadrà? forma una sorta di sottosezione nella già esigua sezione di Rorz4 occupata. È un testo che rappresenta un tentativo di poesia

religiosa nuovo in Ungaretti, per la fluenza patetica non priva, si direbbe, di intonazione parenetica e tensione psicagogica affidata a una techne rbetoriké piuttosto colma. S'è detto poc'anzi che qui va cercato il momento degli Inni sacri di Ungaretti nel senso manzoniano. Qui, e non negli Inni di Sentimento del Tempo, i quali sinora da non molti studiosi sono stati affrontati. nella loro specificità e fermentante ricchezza. Certo, pur nella profonda diversità fra gli Inni di Sentimento del Tempo e questo nuovo momento innografico che compare nel Dolore, c'è qualcosa di comune. Non era sfuggito a Pier Paolo Pasolini che qualche momento degli Inzi preludesse alla nuova stagione religiosa di Mio fiume anche tu. Non sono,

però, molti quei momenti. Il più significativo appartiene a un testo da poco ricordato, La preghiera:

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

1593

Fa’ che l’uomo torni a sentire Che, uomo, fino a te salisti Per l’infinita sofferenza. Sii la misura, sii il mistero.

Ma si torni a Mio fiume anche tu: Fa piaga nel Tuo cuore La somma del dolore

Che va spargendo sulla terra l’uomo; Il Tuo cuore è la sede appassionata Dell’amore non vano. Cristo, pensoso palpito, Astro incarnato nell’umane tenebre, Fratello che t'immoli

Perennemente per riedificare Umanamente l’uomo, Santo, Santo che soffri, Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, Santo, Santo che soffri

Per liberare dalla morte i morti

E sorreggere noi infelici vivi, D’un pianto solo mio non piango più, Ecco, Ti chiamo, Santo, Santo, Santo che soffri.

Ligio o renitente che sia alla fede dell’infanzia, difficilmente il lettore di formazione cattolica può sottrarsi alla suggestione di quell’iterato «Santo,

Santo che soffri», così sagacemente inserito e scandito

nelle strutture dell’intenso finale. È un procedimento analogo a quello manzoniano del triplice «è risorto», riecheggiante il Resurrexit della liturgia pasquale, e

TRA SEGNI E VARIANTI

154

senza dubbio va subito a sollecitare nel lettore la sfera mnemica

del sacro,

evoca

di necessità

uno

dei

momenti più assorti e mistici della Messa, conferendo così all’invocazione lirica una sorta di consacrazione liturgica. Non mancano

esempi di «Santo, santo, santo»

nella storia della nostra poesia: dal coro di beati intonanti l’incipit del cantico dell'Apocalisse, che a sua volta riecheggia l’attacco del canto dei serafini in Isaia (Paradiso, XXVI, 69) sino a Pascoli, che se ne serve

ripetutamente per evocare una messa di spettri (Diario

autunnale, pubblicato in appendice ai Canti di Castelvecchio). Ma in Ungaretti non si tratta né di una citazione in discorso diretto, né di un’evocazione ai limiti dell’onomatopea. La novità, ricca d’efficacia, consiste

nell’immetterlo abilmente entro il fluire di un ritmo | invocativo.

Altro acquisto di indubbia efficacia è il verso più celebre (forse) del Dolore, «Cristo, pensoso palpito». Che viene ripetuto due volte ed è, metricamente,

carico di valori evocativi col suo richiamarsi ai metri più illustri dell’innografia cristiana: «Veni, Creator Spiritus», «Te lucis ante terminum», e così via sino al

Natale e alla Pentecoste del Manzoni. In Piccola Roma e nella redazione pubblicata nel fascicolo del 1° novembre 1945 della rivista «Le Tre Arti», il verso

appare una volta sola e in una forma, se così si può dire, di grado ridotto sotto il rispetto dell’audacia espressiva: «Cristo, pensoso martire». Nonostante la stretta affinità fonica (perfetta identità metrica e ritmica, composizione vocalica quasi identica), la differente compagine consonantica della parola sostituita

alla precedente introduce una vellutata allitterazione | carica di pathos. Ma ciò che più conta è l’effetto di .

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

195

sottile mistero che promana dall’inconsueto incontro e dal nuovo nesso che si stabilisce tra sostantivo e aggettivo. Martire non mancava certo di pertinenza.

Evocava, del Cristo, la sofferenza perenne e più che mai sanguinante nel tempo di tante mostruose perse-

cuzioni e stragi, più che mai fraterna alla comune sofferenza degli uomini. Pal/pito è però voce di più sottile e intensa evocatività: un battere del cuore che può richiamare in qualche lettore il diffusissimo culto del Sacro Cuore («Fa piaga nel Tuo cuore / La somma del dolore / Che va spargendo sulla terra l’uomo; / Il Tuo cuore è la sede appassionata / Dell’amore non vano»). Cuore divino che batte dolorosamente vicino al cuore degli uomini, e magari al centro del cosmo, in una partecipazione cosmica alla Teilhard de Chardin, se si vuole accogliere la suggestione associativa del verso Astro incarnato nelle umane tenebre, che segue e sviluppa la seconda invocazione. Ciò si osserva, naturalmente, non per proporre interpretazioni o chiavi di lettura, ma soltanto per mostrare gli innumerevoli echi associativi che potrebbero suscitare nella sfera evocativa dei singoli lettori gli incontri tra campi semantici così carichi di suggestione. Pensoso è parola, non vocabolo, direbbe Unga-

retti; parola poetica in senso leopardiano: carica cioè di echi, vaga, e in questo caso con tradizione illustre, dalla Vita Nuova a Cino da Pistoia — per il quale rappresenta una sorta di parola chiave, come ebbe a sottolineare in anni ormai lontani Maria Corti — a Petrarca, a Leopardi. Splendido uso ne aveva fatto lo stesso Ungaretti all’inizio di Merzoria di Ofelia d'Alba:

«Da voi, pensosi innanzi tempo / Troppo presto / Tutta la luce vana fu bevuta», in cui sembra rivivere,

squisitamente trasmutata, la pensosità di altra gentile

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TRA SEGNI E VARIANTI

creatura, destinata secoli prima di Silvia recanatese a precoce dipartita, l’«immortal Margherita» che appare «pensosa e pia» in un celebre madrigale del Tasso. Anche palpito ha un’aura vaga, carica di evocazione, quantunque inflazionata nel linguaggio dei libretti di melodramma. Qui, pensoso sembra evocare prevalentemente l’assorta malinconia del Christus patiens, nell’orto degli ulivi o dall’alto della croce, che una lunga tradizione iconografica ha radicato nel subconscio di tutti i cristiani. Immagine certo più vicina e cara al cuore dell’uomo in pena di quanto non sia quella severa del Cristo giudice nel Giudizio michelangiolesco © assorto trionfatore sulla morte nella Resurrezione di Piero. Sulla genesi di questa suggestiva espressione si potrebbe formulare un’ipotesi suggerita forse dalla contiguità di quell’«astro incarnato» che segue e sviluppa l’invocazione al Cristo. L’ipotesi è che «pensoso palpito» possa essere una variante, velata di mistero, dell’espressione scritturale Verbo incarnato, sopravvivendo in pensoso un’eco della nozione di Logos e in palpito una traccia evocativa del calore vitale connesso alla nozione di incarnazione. Se così fosse, le due nozioni (pensiero primo, natura umana) serberebbero il medesimo ordine nel sintagma «pensoso palpito», ma con un dislocarsi (e perciò accen-

tuarsi) della nozione di umanità dall’aggettivo (incarnato) al sostantivo (palpito). S Ma forse è meglio non insistere in ipotesi. Il fascino di espressioni come questa, che si lasciano intorno «un margine d’ombra, di vago, di impreciso»,

indizio stilistico (secondo Bàrberi Squarotti) di parte-. cipazione al mistero, consiste in una sorta di asemanticità, che forse meglio si potrebbe definire metaseman-

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

ID

ticità, poiché in definitiva il senso ne riceve arricchimento e respiro. E uno dei casi in cui la parola ungarettiana — per far nostra una definizione di Rosario Assunto — «dice più (non meno) di quel che significa nella sua pura valenza significativa; e proprio per questo eccede la significatività». Per trovare un’invocazione analoga, come funzione evocativa e come struttura, bisogna richiamarsi al celebre «Signore, sogno fermo» del Sentimento del Tempo, con quel condensare per accostamento le nozioni di incorporea interiorità (il sogno germina dalla parte più profonda dell’essere) e di immobile

durata (a differenza dei comuni sogni labili per definizione, il sogno di Dio sussiste come immobile astro librato sulla storia dell’umanità). Anche se non si consideri l’ipotesi di un’allusione «umanizzata» al Verbo incarnato, resta il fatto che la scelta della seconda persona della Trinità,

quella in cui si congiungono le due nature umana e divina, è suffragata da un insistere in ogni senso sulla nozione di umano: «dolore che va spargendo sulla terra l’uomo», «umane tenebre», «fratello», «riedifi-

care umanamente l’uomo». Non qui l’abissale esperienza d’estasi da cui è travolto Dante, quando nel supremo momento della visione si avvede che la luce divina è «pinta della nostra effige», ma la consolazione che può nascere rammentando l’umanità del Figlio dell'Uomo in quell’ora di disumana minaccia all’umanità della creatura che nel volto dovrebbe portare qualche traccia dell'immagine e somiglianza di Dio: «Con fantasia ritorta / E mani spudorate / Dalle fattezze umane l’uomo lacera / L'immagine divina». ad Più che il Dio padre è dunque il Dio fratello

essere invocato e presente. Questo senso di fraternità,

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TRA SEGNI E VARIANTI

stavolta riconsacrato in Cristo e ancorato così al divino, può richiamare alla mente l’invocazione «fratelli» («parola tremante / nella notte / foglia appena nata») emblematica della parte più umana dell’Allegria, in cui l’Ungaretti del grido unanime si scopre fratello alla sofferenza dei commilitoni. Nel cuore di una nuova catastrofe storica, dopo un lungo e assiduo tirocinio formale ricco di scoperte umane, si riaccende il senso fraterno del poeta «unanimista» dell’ Allegria

giunto ormai all’altro estremo

della parabola. La

stessa sobrietà dell’ Allegria era ricerca di freschezza, ansia di reinventare la parola consumata, appiattita, appannata dall’uso e di reinventare la vita liberandola dall’ipoteca della memoria: un minuto di vita iniziale, un paese innocente, un giovane giorno, erano mète

all’ansia di un nomadismo incessante. Negli anni del Dolore, la lunga familiarità con l’esercizio retorico sulla parola, la meditazione sui testi dei grandi del passato, la carica di anni e di esperienze, hanno placato il nomade. La parola fratelli, non più «foglia appena nata» (la felice immagine par quasi simboleggiare e condensare come una fresca impresa araldica la poetica dell’A/legria e la ricerca esistenziale e tecnica di quegli anni), s'è ormai legata a «pietrami memori», al sapore di tutta una civiltà lievitata nell’antica fede dei padri.-In essa il nomade ha trovato infine nutrienti e consolanti radici. Si potrebbe dire che la scoperta della fraternità germzizale, immediatamente umana, della prima guerra, legata alla stessa vita di trincea, alla lotta e sofferenza comune, si trasformi nel Dolore in una fraternità storica. Naturalmente qui si vuol dire non che quella non fosse condizionata a un preciso contesto storico, ma che questa è di una storicità anche verticale, non soltanto orizzontale: fa corpo con .

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

159

tutta una civiltà stratificata e radicata profondamente,

nasce da comunione non solo con i sofferenti, ma con tutta una compagine di valori sperimentati, con una

tradizione. Non per nulla uno dei motivi base del Dolore è quello — s'è visto più volte - dei monumenti, tesoro di valori elaborati da secoli di umanità pensante e sperante, parte viva di un paesaggio modellato dai coltivatori dei campi, dai costruttori di città e dal canto dei poeti. Quelle opere in pericolo, D’ogni arte, inimitabili, Che via via nei millenni suscitasti

Avida d’ascoltare il giusto Dio, Ancora il tuo terreno dramma attestano, Italia, Roma mia.

Così suonava la stesura di Piccola Roma. In Mio fiume anche tu si acquista, attraverso la più sapiente tensione della sintassi che culmina nell’immagine dell’ascensione dei millenni, un balenante scorcio di storia della civiltà: Ora che scorre notte già straziata, Che ogni attimo spariscono di schianto O temono l’offesa tanti segni Giunti, quasi divine forme, a splendere

Per ascensione di millenni umani.

Va ribadito in ogni modo che il motivo della terra degli antenati, sognata e ritrovata dal figlio di emigranti cresciuto in prossimità dei nomadi del deserto, è presente dall’inizio come controtema del motivo del nomadismo. Solo che si fa con gli anni più complesso e dominante. L’apparire dell’Italia nel

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TRA SEGNI E VARIANTI

primo chiarore dell’alba al giovane proveniente dal mare (Popolo: «i virgulti dell’alta neve orlano / la vista consueta ai miei vecchi [...] O patria ogni tua età / s'è desta nel mio sangue»), sarà ripreso e orchestrato nella celebre «leggenda», intitolata 1914-1915 (e che è del 1932: chi voglia saperne di più sull’elaborazione di questi spunti, legga le pagine finali del volume biografico di Leone Piccioni). A essere «strana» stavolta è la patria («A quei tempi,

com’eri

strana,

Italia»):

ancora

estranea,

ancora sconosciuta e muta, ma presto offerta in epifania rivelatrice, quando le prime luci del giorno dissolveranno la notte in cui è avvolta. E un momento che potrebbe dirsi «carducciano» in Ungaretti nel senso che Pasolini potrebbe dare a questo attributo, e prelude a significativi momenti del Dolore non solo come substrato tematico, ma anche in certe cadenze e in

certi toni: Chiara Italia, parlasti finalmente AI figlio d’emigranti. Vedeva per la prima volta i monti Consueti agli occhi e ai sogni Di tutti i suoi defunti. ad Mi destavi nel sangue ogni tua età, M’apparivi tenace, umana, libera e sulla terra il vivere più bello. Con la grazia fatale dei millenni Riprendendo a parlare ad ogni senso, Patria fruttuosa, rinascevi prode, Degna che uno per te muoia d’amore.

\

Davvero non occorre ricordare quanto sia in

Ungaretti centrale, addirittura mitica, l’antitesi tra.

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

161

innocenza e memoria (che poi sono le «persone del nostro dramma di artisti del primo Novecento»), inevitabilmente riesaminata più volte dagli interpreti sino a Mario Petrucciani nel bel volume I/ condizionale di Didone. Naturalmente non si tratta di un’antitesi dai sensi rigorosamente univoci e fissi, ma di un lievito dialettico mosso e sottile, che può assumere valenze

e connotazioni

diverse; e di ciò va tenuto

conto. Il poeta è tornato più volte a riflettere sull’argomento e si potrebbe riesaminare questa meditazione, in cui la memoria non è soltanto negatività, irriducibile spettro di una colpa remota, ma anche

storia, condensato di umanità. Il «terzo» Ungaretti partecipe dei tradizionali valori di fede e di civiltà, tanto convinto dell’importanza di radicarsi alla terra natìa da considerare (come s’è visto) sommo dolore l’esserne strappato per emigrazione o deportazione, ha attenuato in sé la tensione dell’antitesi. E vero che Nelle vene, testo peraltro un po’ a parte, riattivati antichi segni di rimorso e di brama, si conclude in sete d’innocenza: «Fa, nel librato paesaggio, ch'io possa / Risillabare le parole ingenue». Ma l’antica nostalgia, si direbbe, di «limpida e attonita sfera», nel contesto

nuovo del Dolore va probabilmente interpretata alla luce di collegamenti diversi, e non è escluso che le «parole ingenue» possano richiamarsi anche alla sorgiva semplicità del colloquio col figlioletto scomparso nella sezione intitolata Giorno per giorno. Importante

è rilevare che nella presa di coscienza totale e appassionata

del senso

di comune

civiltà, innocenza

e

memoria possono conciliarsi. Non soltanto per il cristiano che vede la storia tutta riscattata e purificata

attraverso la redenzione del nuovo Adamo, ma anche

per l’artista solidale a tutto un universo di cultura. Il

TRA SEGNI E VARIANTI

162

poeta, che in ciò si scopre partecipe o quanto meno

emulo e alleato della Redenzione, riesce a rinverginare la parola (partecipazione all’innocenza), ma anche a intendere e interpretare, a serbare e trasmet-

tere l'essenziale di una civiltà (partecipazione alla memoria). Sul piano della poetica, la memoria è recupero, spesso personalissimo, di una linea tradizionale che anche in quella specie di «memoria in atto» che è il tenace esercizio retorico di alcune parti del Dolore, è ben lungi dal negarsi possibilità linguistiche di «innocenza», come s'è visto nelle pochissime invenzioni esaminate. Se memoria non sempre contamina innocenza,

ma può essere anche sorgente di luce e di speranza, e se la non-memoria può avere aspetti di dismisura di una natura incolta e crudele, di tenebra, di barbarie,

allora il nomade può desistere dall’incessante ricerca del paese innocente e prestare orecchio sempre più attento al già presente richiamo degli avi in ciò che ha di più attinente alle ragioni eterne dell’uomo. Il poeta — che in una lettera del 1966 riportata nella nota biografia di Leone Piccioni dice di sé, contrapponendosi all’antico sodale Picasso: «bene o male, pur non omettendo di esprimere la tragedia umana del creato che ai giorni nostri si fa così sfacciatamente palese, il sottoscritto, umilmente, dal 1919 non ha più smesso

di correre

dietro l'armonia»

— .può contrapporre

misura a dismisura, armonia a disarmonia, strytturazione a distruzione. L’avventuroso tardo-romantico,

che nel romanticismo riconosce difatti l’origine del grande mito dell’innocenza accompagnato in letteratura a volte dal grande mito dell’originalità, può assaporare con pacata ebbrezza il senso della classicità che circola nelle intime strutture e non nell’orpello delle

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

163

superfici. Può risentirsi attivamente immerso nella continuità di un umano messaggio millenario, sostando all’ombra resinosa di un pino mediterraneo cresciuto sulla proda di Itaca. S'è qui evocato ad arte questo magico nome-simbolo di terra del ritorno per il secondo approdo dell’ulisside: il rostos degli anni in cui matura e prende corpo I/ Dolore, libro nel quale tra l’altro non manca rumor di mare né mancano orizzonti di lontananze. Se nel 1914 il «nomade Ungaretti», secondo quanto precisa Cambon, nell’Ita-

lia dei padri aveva potuto trovare «la sua Terra Promessa e nell’Isonzo il suo Giordano, arrivandovi nel

1942 dal Brasile egli la ritrova sotto altra forma concreta e sofferta, e il suo è veramente un ritorno a terra nonché alla terra avita». Terra del ritorno, Itaca, e

anche — «nous choisirons Ithaque, la terre fidèle», annunzierà Albert Camus in un momento cruciale di L’homme révolté — di una umana e civile misura, nel poema omerico contaminata e stravolta dagli eccessi dei proci e restaurata da Odisseo. «D’Itaca varco le fuggenti mura» è uno splendido endecasillabo quasi foscoliano, e non è da escludere che quel varco, sebbene sia qui presente indicativo, possa evocare un eco del dantesco «varco folle

d’Ulisse». Luigi Martellini, in pagine sul tardo ulissismo ungarettiano, postilla il verso in questo modo: «perdiamo così anche l’allegoria del ritorzo (e della fedeltà), e il viaggio/esodo riprende verso la Terra Promessa»;

e

non

occorre

certo

sottolineare

il

richiamo, in questa chiosa, al «superstite lupo di mare» che in Allegria di naufragi «riprende il viaggio». In uno degli Ultimi cori per la Terra Promessa, densi di drammatica suggestione e compresi, come è

TRA SEGNI E VARIANTI

164

noto, nella raccolta Il Taccuino del Vecchio, a Itaca

subentrerà l’approdo del Sinai; il «sogno fermo» del Sinai, verrebbe fatto di dire riprendendo in contesto tanto mutato un’espressione memorabile già esami-

nata nel corso di questo saggio; ma forse meglio ancora si direbbe «sogno remoto»: sogno dell’Oltre librato su senile desolazione di deserto. Ma si tratterà,

ormai, di un momento diverso. Un momento di spoglia religiosità come raggelata in brivido di vuoto: Verso meta si fugge: Chi la conoscerà?

Non d’Itaca si sogna Smarriti in vario mare,

Ma va la mira al Sinai sopra sabbie Che novera monotone giornate.

«Si fugge» può richiamare le «fuggenti mura» della Canzone. E «conoscerà» potrebbe, soltanto potrebbe in modo tutto velato e remoto, richiamare la conoscenza che caratterizza Ulisse sia omerico sia dantesco. Il deserto, natìo, certo, per Ungaretti, ma qui

certo anche biblico si collega all'immagine del Sinai, destinata a riaffacciarsi molto presto in un altro degli Ultimi cori: «Se s'interrompe [il vivere terreno] sulla cima al Sinai / La legge a chi rimane si rinnova»; e certo il Sinai è luogo delle tavole della legge, ma è legge, quella qui evocata, che non offre lapidee certezze: «Riprende a incrudelire l’illusione». Sinai, anche, precisa Martellini, come «tappa ‘di un uomo errante (Mosè) e di un popolo sperduto (la gente d'Israele)». «Sopra sabbia» della redazione manoscritta inviata a Enzo Paci, e che poteva suscitare associazione d’idee con una clessidra che scandisce

L’INNO PER UNA CIVILTÀ MINACCIATA

monotono

165

tempo, si trasforma, con singolare e non

prevedibile scarto dalla norma sintattica più piana, in sopra sabbie, impedendo così che a sabbie possa collegarsi la relativa che segue. E un prevalere di connessione poetica su quella logica, una minima, compiaciuta violenza, che dilata col plurale l’orizzonte desertico e disloca sul Sinai la funzione di scandire, dal-

l'alto e come dall’esterno, il tempo umano. Tempo monotono, ormai, tempo di vecchiezza, di scarna con-

templazione che spesso è ascetica conterzplatio mortis. Giustapposta, quella monotonia, al «vario mare» dell’avventura ulissiaca. Inoltre, il lettore assiduo sa che anche monotono è parola ungarettiana, poeticamente

reinventata da L’Allegria, già con Monotonia del 1916 (in cui la monotonia parrebbe lo squallore della non innocenza contrapposto all’ardente «inconsapevolezza» dell'adolescenza) e con «l’estesa monotonia di assenze» (Ritorno) a Sentimento del Tempo con «monotono altomare» (D’agosto), con l’«erba monotona» (Grido) e con l’«uomo, monotono

universo»

(La pietà). Ma non è il caso di attardarsi qui nella «mira al Sinai» che è anche attenzione all’ultimo lembo dell’opera ungarettiana e che distoglierebbe dall’area senza dubbio densa di attrattiva in cui abbiamo per ora deciso di sostare. Resteremo perciò, nel conclu-

dere questa tappa dell’itinerario interpretativo, all’esperienza da cui nasce il settore del Dolore preso in esame in questo capitolo. Non ci allontaneremo pet ora da quell’Itaca nostrana che poi altro non è se non - l’antico Lazio dell’approdo d’Enea (e di Pietro), attraversato dal Tevere fatale. Esistono sperabilmente lettori che nella maggior poesia con attento amore cercano e trovano l’espres-

166

TRA SEGNI E VARIANTI

sione, prima che di una società determinata, di una

civiltà in tutta la sua stratificata geologia culturale e — perché no? - spirituale. Non meno sperabilmente esistono interpreti che nei tormenti formali di un poeta della qualità di Ungaretti scorgono non tanto virtuosismi di gioco combinatorio o di mero esercizio retorico (l’ars certo non manca mai in Ungaretti, ma è segno di altro), quanto invece dinamismi genetici ed evolutivi di un sentimento del mondo e del vivere che si va rivelando a se stesso attraverso la parola. A questi auspicati lettori e interpreti soprattutto sono offerte le pagine che precedono. L’autore di esse a tali lettori e interpreti si accompagna con gioia, perché sente di appartenere alla loro famiglia.

V.

POETA DELLA SPERANZA Sono un uomo della speranza, un servitore della speranza, un soldato della speranza. GIUSEPPE UNGARETTI

Considerazioni di vent'anni or sono si possono forse qui riproporre, non fosse che come postilla intesa, anzitutto, a evitare equivoci su alcune afferma-

zioni conclusive del capitolo che precede. S'è visto come la tentazione del vate sia tutt’altro che assente in Ungaretti, il quale non teme di dichiarare con energia — a differenza di poeti dell’area crepuscolare, come ebbe a sottolineare Stefano Jacomuzzi — «sono un poeta»; poeta, per di più, «unanime» e con fiducia irriducibile nella funzione del poeta e della poesia. «Soltanto la poesia — l’ho imparato terribilmente, lo so — la poesia sola può recuperare l’uomo»: sono le parole conclusive di Ragioni di una poesia. Parole non troppo lontane da quelle di uno dei grandi padri della poesia novecentesca che alla tentazione del vate cedette ripetutamente, Giovanni Pascoli, il quale affermava: «La poesia in quanto

è poesia, la poesia senz’aggettivi

ha una

suprema utilità morale e sociale».

Nell’esperienza di Ungaretti «vate» andrebbero forse distinti momenti o piani diversi. Un momento o

livello,

anzitutto,

che

potremmo

definire

«mon-

tiano». E che comprende Epigrafe per un caduto della

168

TRA SEGNI E VARIANTI

rivoluzione (fascista), La pietà romana (di cui s'è parlato), Per i morti della Resistenza (epigrafe per una lapide nel parco di Bossolasco), e infine Grecia 1970, testo non compreso nel corpus poetico della collezione mondadoriana «I Meridiani» e scritto su invito per figurare in una plaquette di solidarietà col popolo greco oppresso dal regime dei colonnelli. Grecia 1970 s'incentra in una diade dialettica cruciale per la poesia di tutta una matura stagione ungarettiana: l’antitesi misura-dismisura. Come già nel Dolore, la misura è considerata essenza della più alta civiltà d'Europa, che ha origine nell’antica Ellade: «Sul proprio azzurro insorta in minimi limiti, per essere misura, libertà

della misura, libertà di legge che a sé liberi legge». Ma l’Ellade culla della misura rischia, sotto la rozza tirannia dei colonnelli, di trasformarsi in «tana della dismi-

sura». L’interrogazione finale («Chi ti ha ridotta a tale, quali mostri?»), ricorda i mostri di Picasso evo-

cati nel preludio di questo libro. L’evocazione di una tematica che sintetizza una civiltà è in qualche modo un tramite che dal momento sopra definito «montiano», segnato dallo zelo di volersi mostrare e sentire partecipi a eventi «d’attualità», ci avvicina a un'esigenza più profonda in Ungaretti, quella di sentirsi «unanime» con la cultura (nel-

l’accezione più ampia) del proprio popolo. È un’esigenza che nel «figlio d’emigranti» si colora di un pathos particolare e che attraversa i primi tre grandi tempi della poesia di Ungaretti: L’Allegria (con Popolo), Sentimento del Tempo (con 1914-15) e Il Dolore che si conclude con Terra, uno dei testi, a detta

del poeta stesso, «d’una audacia d’invenzione paragonabile solo a certe cose ottime di Picasso». A questa linea può avvicinarsi Accadrà?, che segue, con stretti .

POETA DELLA SPERANZA

169

legami, Mio fiume anche tu. Vi compare il termine patria, oggi scarsamente usato, ma in quegli anni del secondo dopoguerra ancora caro a qualche poeta, per esempio a Quasimodo («Ma l’uomo grida dovunque le sorti d’una patria»; e altrove, anche senza pronun-

ciare esplicitamente quella parola, «Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero, / e io canto il suo

popolo, [...] canto la sua vita»). La patria evocata in Accadrà? è diversa da quella di Popolo, 1914-15 e Terra («terra» che è patria tellus). La «tragica Patria», «Patria stanca delle anime» (tragica e stanca per le innumeri

vicissitudini patite in due millenni) è in

Accadrà? Roma-Chiesa, «quella Roma onde Cristo è romano». Patria quindi dell’uomo cristiano sia storicamente sia raturaliter, patria che sembra patire, nel dramma della storia, in mistica unione col Christus patiens: Tesa sempre in angoscia E al limite di morte: Terribile ventura; Ma, anelante di grazia,

In tanta Tua agonia Ritornavi a scoprire, Senza darti mai pace, Che, nel principio e nei sospiri sommi Da una stessa speranza consolati, Gli uomini sono uguali, Figli d’un solo, d’un eterno Soffio.

Di questo testo forse non del tutto risolto, forse non immune da patine di ufficialità encomiastica, quelle pagine di vent'anni or sono privilegiavano, per

TRA SEGNI E VARIANTI

170

analizzarli con una certa minuzia, i quattro ultimi versi: Sogno, grido, miracolo spezzante, Seme d’amore nell’umana notte, Speranza, fiore, canto,

Ora accadrà che cenere prevalga?

Un finale portatore della domanda espressa nel titolo che è il germe da cui si genera la poesia; un finale che è culmine stilistico del testo e prova di consumata virtuosità. Nasceva allora un interrogativo. Come mai quello che avrebbe dovuto essere grido, «grido di pietra» semmai, di un tempo tragico, si esprimeva

invece

attraverso

forme

armonicamente

elaborate? Non serve, certo, rispondere che il lavorìo for-

male rappresenta strumento di consolazione e di rassicurazione («Perché cantando il duol si disacerba»). E già risposta più adeguata il supporre che il senso di un ordine umano, di una sopravvivente armonia, quale di necessità scaturisce dal travaglio formante e strutturante dell’arte («Quell’umile speranza / Che travolgeva il teso Michelangelo / A murare ogni spazio in un baleno»), possa far baluginare qualche lume, possa servire da contraltare al caos, al mostruoso di una

storia febbrile e sconvolta. Quei quattro versi, che si aggregano e si asse-

stano in equilibri armonici dopo un’elaborazione variantistica non breve, meritano forse una sosta ana-

litica. i Vincendo più che legittime riluttanze a scolastiche partizioni, si può distinguere nella «quartina» (se così possiamo definirla) un nucleo «vocativo» di tre versi e un verso contenente l’interrogazione finale. Il

POETA DELLA SPERANZA

171

tradizionale ritmo ternario - e si stava per dire trinita-

rio, trattandosi di un poeta senza dubbio, almeno in

questa fase, cristiano e non immemore di Dante scandisce la prima parte, che rappresenta il punto di massima condensazione di una tensione invocativa già rivelatasi, sia pure a tratti spaziati, nelle parti precedenti del testo, con una serie di intensi appellativi: «tragica Patria», «Patria stanca delle anime», «universale fonte». L’azizzus di Ungaretti, funzionale alla sua poesia mistico-magica ed evocatrice, è fondamentalmente «vocativo», e tanto più funzionale in una poesia di tensione religiosa, legata forse, in modo più o

meno consapevole, a ritmi di litanie. L’incalzare dei cola può ricordare altri momenti, per esempio il primo degli Inni, intitolato Danni con fantasia: «Silenzi trepidi, infiniti slanci, / Corsa; gelose arsure, titubanze, / E strazi, risa, inquiete labbra, fremito, / È delirio

clamante / E abbandono schiumante / E gloria intollerante / E numerosa solitudine». Splendida ritmazione, questa, di una sintesi aperta e mossa di esistenza appassionata. Mentre l’accumulazione di Accadrà? si scandisce in graduate simmetrie. Ricostruito, dopo la frantumazione metrica estrema praticata con motivato, ma forse eccessivo

accanimento nell’A/legria, il verso compatto e fermamente ritmato che un diverso discorso poetico richiede, non c'è più bisogno per segnare le cesure (che sono qui nettissime) di mezzi tutto sommato esteriori e alla lunga stucchevoli come i continui accapo e i soverchi vuoti di spazio bianco. Anche disponendo le parole entro schemi metrici per lo più tradizionali, si può riuscire ugualmente — e qui con i netta efficacia — a energiche scansioni. sl così se ni, La scansione produce qui espressio

172

TRA SEGNI E VARIANTI

può dire, «une e trine» nel primo e nel terzo verso, entro una compagine invocativa che potrebbe definirsi anch’essa nel suo complesso una e trina. Con effetto di crescendo, di climax, che si conclude nel terzo verso, con una sorta di ciclicità, in effetto di

lieve attenuazione, se non proprio di dirzinuendo. Abbiamo dunque un primo verso triadico spezzato da forti cesure («Sogno, grido, miracolo spezzante»), un secondo verso pieno e fuso («Seme d’amore nell’umana notte»), un terzo verso triadico nettamente scandito («Speranza, fiore, canto»). L’ef-

fetto di climzax è evidente sul piano ritmico nel passaggio dalla tensione fortemente scandita del primo verso alla fusa pienezza del secondo. Ma già all’interno del primo verso si ha climzax. Sul piano dei significati anzitutto; dal sogno al grido al miracolo spezzante. Sogno, ovattato o magari remoto sogno, quasi «prologo in cielo» che richiama «Signore, sogno fermo» di uno dei luoghi d’oro della religiosità ungarettiana, La preghiera. Poi il grido di un’Incarnazione calata nel tragico della storia e immolata sul Calvario. Dal grido, infine, al miracolo accompagnato dall’inabituale «spezzante», che con la sua peregrinità e eccezionalità sottolinea il prodigio e la rottura operata dal «miracolo» (al quale, dopo il grido, vien fatto di associare il miracolo per antonomasia, la Risurrezione). I valori fonici accompagnano l’effetto di climzax. Il verso «Seme d’amore nell’umana notte», con l’intima

dicotomia tra il positivo del seme gravido di vita e il negativo della notte che ottenebra l’umanità, è certo fratello del già a lungo esaminato «Astro incarnato nelle umane tenebre». Fratello nella struttura e nel senso, ma con sonorità più sommesse (un glissando su omogenee corde di nasali e di liquide) e con attenua-

POETA DELLA SPERANZA

173

zione di quella tensione ossimorica da grande barocco

cristiano. Al centro non soltanto del verso, ma di tutto il coerente, armonico nucleo del «tristico» è amore. E il serze richiama «un’urbe come una semenza, arcana»,

quasi a ribadire attraverso impliciti, sotterranei circuiti associativi il collegamento fra il Cristo dell’«Astro incarnato» (un Cristo qui sentito, secondo un sottile suggerimento di Cambon, come «nemico dell’informe») e la civitas che simbolicamente lo rappresenta. Il terzo verso accomuna in associazione non consueta tre parole usuali (speranza, fiore e canto), ma cariche di positività e come rinfrescate, rigenerate

nella sequenza gentile che le unisce. Anche qui si può dire che la singola parola ritrovi quel peso e quella pienezza

che

Ungaretti

aveva

cercato

con

scavo

d’anima prima d’ogni altro valore espressivo. Però qui la solinga evidenza della parola è raggiunta con mezzi diversi se non proprio opposti rispetto alla frantumazione dell’A/legria, e risulta stavolta dai rapporti interni dei singoli elementi di un contesto stroficosintattico bene architettato e serrato. Il verso finale, che come s'è visto fa parte a sé, è

portatore di tutta la tensione accumulata nel corso della composizione che sfocia nella forma interrogativa, analogamente a quanto avviene nel finale di un’altra poesia del Dolore, la seconda del diario lirico Giorno per giorno, che si conclude con l’interrogazione Come si può ch'io regga a tanta notte? L'efficacia

emotiva dell’interrogazione — vultus animi di una condizione di smarrito sgomento — era uno degli strumenti più scontati della vecchia tradizione retorica; e si potrebbero anche ricordare precedenti illustri, come quello, documentato dal famoso Codice Vati-

cano Latino 3196, di Francesco Petrarca che, rive-

174

TRA SEGNI E VARIANTI

dendo la tormentata canzone in morte di Madonna Laura, sostituiva l’apostrofe iniziale Arzore, in pianto ogni mio riso è volto con l'interrogazione Che debb’io far, che mi consigli, Amore?, perché nella prima redazione non gli pareva sazis triste principium. E si pensi alla funzione dominante, portante, dell’interrogativo

in testi come il leopardiano Canzo notturno, in opere come Per il battesimo dei nostri frammenti di Mario Luzi. Il futuro, «tempo lirico», che caratterizza il

secondo Ungaretti, evocando elementi assenti per virtù di magìa poetica e sollevando il reale in «una regione pura e inafferrabile» di metafisica aspettazione (come ebbe a precisare Ioan Gutia), in questo momento del terzo Ungaretti si carica di tensione dubitativa e perciò muta di segno. Tutta una civiltà, qui riassunta nell'immagine di una Roma ecclesiale, più volte percorsa e scossa da immani bufere storiche («Tesa sempre in angoscia / E al limite di morte») è ancora una volta minacciata. La sua sopravvivenza sembra messa in forse. Ma davvero accadrà tanta rovina? Domanda certo drammatica, ma sostanzialmente ficta. Tutto, nel testo, finisce per indi-

care l'assurdità di una risposta affermativa. «L’interrogazione è già una risposta piena d’amore» suggeriva Gigi Cavalli nel suo lontano libro su Ungaretti, ed è intuizione che può essere verificata con un’analisi della compagine espressiva. l Nelle parti precedenti di Accadrà?, intanto, comparivano semplici e grandi parole, segni di ‘grandi

motivi umani, per lo più in fine di verso e con una posizione di tale rilievo da far pensare al peso delle parole-chiave della sestina dantesca e petrarchesca: la sestina destinata a ricomparire nella Terra Promessa, e, per così dire, immanente in una parte dell’opera del

POETA DELLA SPERANZA

175

più maturo Ungaretti che si configura come continua ricerca e serie di variazioni. Argoscia, morte, ventura,

grazia, agonia, pace, Soffio, radice, popoli, cuore, fonte, uomo, Dio, tutti, anime: parole tutte che illustrano con

fermezza il valore umano di ciò che l’incombente distruzione minaccia, parole tipiche del lessico del Dolore, con la sua «perfetta unità, mai delusa e incri-

nata», quale è descritto da Giorgio Bàrberi Squarotti. L’assurdità e mostruosità di una simile distruzione è riaffermata nella «quartina» finale dallo stesso rilievo d’intensità dei valori fonici che affermano, se così si

può dire, la vitalità di ciò che è minacciato, e dalla ricordata distinzione in due parti. In altre parole, da una parte troviamo un accumularsi appassionato di

segni, una specie di intensa estasi ritmica che sottolinea la ricchezza di risonanze e di irradiazione e insieme l’umana bellezza del messaggio cristiano messa in rilievo dalla scelta così soppesata dei termini, dall’energica scansione. E che troviamo dall’altra parte? Un solo verso, contenente un solo sostantivo: cezere. Parola di scarsa consistenza a paragone di tutto ciò che precede. Parola spenta, appunto: smorto residuo di fuochi estinti, grigiore, indifferente freddezza, assenza di vita e di bellezza. Potrebbe prevalere, questa piccola parola spenta, contro il luminoso canto che la sorgente del Verbo ha generato? La risposta non può essere che no, e l’implicito richiamo memoriale di quel conclusivo prevalga? all’espressione scritturale non praevalebunt, sta a confermarlo. Questo no alla distruzione e alla morte nasce non da una certezza

della ragione, che legittimamente potrebbe dubitare

in tanta tragedia, ma da un’indicazione tutta poetica,

da una «motivazione» espressiva.

176

TRA SEGNI E VARIANTI

A concludere l’incalzante serie è la parola canto,

un canto espanso come la speranza, come il fiore. Che la forte posizione conclusiva spetti al canto è un fatto significativo. Attraverso quei sotterranei, impliciti circuiti associativi poc'anzi ricordati quel canto, che della serie invocativa è felice foce, collega l’area del divino alla poesia e al poeta, tanto più che il divino è qui Verbo incarnato, e la sua Chiesa è per eccellenza luogo della parola: Ma nella mente ora avverrà dei popoli Che non più torni fertile La parola ispirata, E che Tu nel Tuo cuore, Più generosa quanto più patisci, Non la ritrovi ancora, più incantevole Quanto più ascosa bruci?

«Speranza, fiore, canto» è non soltanto il divino messaggio che s’incarna in una civiltà, nel fiore di una civiltà, ma anche, in fondo, la poesia sintonica a quel

messaggio, a quella civiltà. E forse il momento di riprendere le fila del discorso avviato all’inizio sulla tentazione del vate, sui diversi modi e livelli dell’esser vate, chiarendo il nesso

di quell’acchito con la sosta analitica di poc'anzi concentrata su forme e strutture. Il modo migliore, non estrinsecamente «montiano» (e che richiede un approccio critico non rozzamente contenutistico) di farsi vate è quello che s’incarna in strutture e forme. Farsi poeta della misura vuol dire partecipare alla misura, divenire misura, rea-

lizzandosi in forme e strutture di misura. La parola speranza compare spesso, quasi parola-chiave, in certi

POETA DELLA SPERANZA

177

settori del Dolore, e compare ben due volte in Acca-

drà? Ma farsi poeta della speranza, non vuol dire soltanto nominare la speranza. Vuol dire violare l'inerzia del silenzio, far sbocciare calore di parola da desolazione di silenzio. Vuol dire sfidare il silenzio. E una speranza che è, nel senso più alto, misura, è quella del «teso Michelangelo» che traduce tensione in misura di forme incarnate, dona misura, misura colma

di respiro, agli uomini e ai secoli. I valori espressivi sono, è ovvio, legittimi e speci-

fici mezzi del poeta, dell’artista. L’atto poetico, il canto, è un no alla morte e alla cenere — révolte contro il nulla, direbbe Albert Camus

— al pari delle due opere d’arte così fortemente «epifaniche» nel Dolore, quasi (s'è detto) araldiche: la Crocifissione di San Clemente, la michelangiolesca cupola «febbrilmente superstite». E «febbrilmente superstite» è sintagma che associa tensione e durata, ardore e misura, di un genio tempestoso che emblematicamente murava «ogni spazio in un baleno». Da questo no alla morte espresso qui da Ungaretti «vate» di una civiltà della speranza, uno scatto della memoria associativa, forse non del tutto immotivato, lascia affiorare alla mente un altro molto illustre,

ma certo tanto diverso no alla morte che la poesia italiana contrappose ad altro interrogativo, quello scaturito dal tragico deteriorarsi di tutto, quale lo prospettava il pensiero sensistico. All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? La risposta, già prefigurata da quell’espressione «confortate di pianto» che suona umana e poetica sfida al gelo della pietra sepolcrale, è proferita dalla pienezza dell'inno che segue, dalle Pimplee che fan liete di lor canto i deserti, dall’armo12*

178

TRA SEGNI E VARIANTI

nia che vince il silenzio e che è pietas verso tutto ciò che è umano. E anche in Foscolo la parola canto

conclude molto significativamente, in posizione di forza serenatrice, un impetuoso incalzare di periodi. Secondo una bella e consacrata accezione, dunque, conforme a una certa attitudine «sacerdotale»

del maturo Ungaretti, la poesia si rende alleata alla caritas, si pone come un sì alla vita e all'amore, un atto di fede in ciò che germoglia e sopravvive («febbrilmente superstite»), non fosse che attraverso la vita non necessariamente spettrale della memoria. In una notte della prima guerra, per istintiva rivincita vitale, Ungaretti accanto

a un compagno

massacrato dal nemico aveva scritto «lettere piene d’amore». Poi, con la maturazione degli anni, il senso

della notte sembra approfondirsi, avvicinandosi alla suggestiva affermazione di Heidegger intento a commentare Hélderlin: «Nel tempo della notte del mondo il poeta canta il sacro». Ed ecco che nella grande notte (davvero «notte del mondo») della seconda guerra, fra tanto scempio di corpi e cuori umani e di opere e valori di civiltà e bellezza, Ungaretti torna a scrivere parole d’amore e inneggia di nuovo alla vita. Si tratta stavolta d’ un diverso amore,

cristiano e fraterno e storico, come s'è potuto constatare nel capitolo precedente. Oggetto del canto, divenuto inno carico di affannosa speranza, è ora la vita di

tutta una civiltà, ancorata al sacro che si è storicamente incarnato in essa.

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Finis libri, sed non quaerendi. Commiato, dunque: sperabilmente soltanto temporaneo. «Ungaretti è fra i poeti che continuerò a rileggere, è fra le voci che mi accompagneranno sino alla fine». Sono parole di uno studioso appena scomparso e molto presente in questo libro: Glauco Cambon. Parole che toto corde possiamo far nostre. Finis libri. Ecco dunque concluso l'itinerario. Alle soglie, cari stimoli di memorie. Poi, soste di scavo, di rielaborazione e ripensamento. E percorsi diversi: alcuni già tracciati in anni più e meno lontani, convalidati in seguito dall’esperienza di altri studiosi, ora ripresi, rigenerati, approfonditi, ampliati. Percorsi adducenti verso un unico cuore da cui scaturisce l’unità del libro che non vuol essere quella, tutto sommato estrinseca, del convenzionale approccio monografico («l’uomo e l’opera», o magari soltanto «tutta l’opera»). Approccio sconsigliabile, al punto in cui siamo, per un poeta studiato a fondo e da ogni lato per oltre un cinquantennio: approccio che non potrebbe se non accodarsi, con scarso profitto, a opere d’insieme già utilmente fruibili.

COMMIATO

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D'altra parte è proprio la pluralità dei piani interpretativi interferenti o convergenti a far sperare in accrescimento di spessore e di respiro, in avvicinamento a quella sostanziale unità che risulta dal diffuso senso della totalità dell’opera presente e operante nell’analisi di parti e di campioni, nei diversi tagli e attraversamenti.

Sed non finis quaerendi. S'è detto, all’inizio, che Ungaretti «accompagna», è di quei poeti che ci è caro portare con noi, che «ci lavorano dentro», come asse-

riva Giuseppe De Robertis; che incontriamo di nuovo a una svolta del cammino e riscopriamo compagni di strada, anche quando ci pareva forse di esserci allontanati.

A frequentarlo, costituisce un elisir di giovinezza per l’interprete, provocato, sollecitato da sintesi balenanti, da ardita densità che per sciogliersi e liberare appieno tutto quanto è coagulato e implicito nella parola poetica richiede assiduità, impegno, tempi lunghi e talvolta lunghissimi. Assiduità tenace, tempi lunghi sono, del resto,

peculiari dell’arte complessa e sottile dell’interprete di poesia, arte d’inesauribile attrattiva, capace di dare nutrimento e senso a un'intera vita di studioso. (Vita,

in ogni modo, che per quanto lunga e colma possa essere, non riuscirà neppure lontanamente ad adeguarsi all’identikit dell’interprete ideale che emerge da queste pagine). Il rapporto coi testi è un rapporto interpersonale. A saperli interrogare con attenzione e riguardo, essi «per loro umanità ci rispondono». I testi sono persone. Persone che con altre persone hanno necessariamente tratti comuni, ma che ci interessano per i

caratteri che li distinguono. Il senso e il rilievo del

L’INTERPRETE E IL POETA

181

loro porsi come testi consiste proprio nella loro specificità che li rende ciascuno diverso da ogni altro. Per questa specificità di voce e di timbro ancor prima che di messaggio, per questa singolarità di persone li cerchiamo scegliamo preferiamo. Davvero non si dice nulla di nuovo

quando si

riafferma che l’arte dell’interprete ha molto a che vedere con le modalità dell’amicizia e dell'amore. Ci è caro quell’amico (o quel testo) soprattutto e anzitutto perché è quello, distinto e diverso da ogni altro, irripetibile. Nella creatura amata amiamo la condizione d’amore attraverso quella persona sentita come insostituibile ed unica. Doveroso,

certo, restare amabilmente

disposto

verso tutti gli esseri umani (e, per l’interprete, verso

tutti i possibili testi). Ma di fatto —- come riconosceva un santo del tempo nostro — possiamo amare soltanto un numero limitato di persone. E, tornando al nostro discorso, possiamo interessarci a fondo soltanto a un numero limitato di testi, e ancor più limitato, ovviamente, di autori. Vita brevis ars longa, anzitutto. Poi la

congenialità e le occasioni a volte anche esterne che ci fanno incontrare un testo. Tutte ragioni per cui la conoscenza ermeneutica può attuarsi soltanto «per saggi». Può esistere l’epifania di qualche eventuale coup de foudre, ma poi occorre lunga amorosa pazienza. Occorre un lavorìo di avvicinamento filologico, di comprensione plurima e articolata, di sintonizzazione con l’oggetto, che ha in sé il suo premio e che, se ben condotto, rende l’interprete più scrittore.

Fuori da ogni valenza estetizzante di artifex additus artifici, «più scrittore» può qui significare requisiti diversi. Più preciso nel definire e distinguere, sottile e raffinato nel modulare implicazioni e sfumature,

182

COMMIATO

comunicativo nella «presa diretta» col testo, maieutico nel far emergere ciò che è riposto. Plasticamente fluente nel continuum della pagina insidiata il meno possibile dall’uggia di sigle, schemi e paradigmi. Empatico, partecipe, anche: partecipe «musicalmente» al testo, a volta quasi mimeticamente. Però,

ad un tempo, dialetticamente partecipe: consapevole a ogni istante della propria intrinseca, irriducibile alterità rispetto al testo. Alterità di «ospite», di testimone

disposto a districarsi ove occorra dal pur fecondo e necessario abbraccio di una «critique d’identification».

Può sembrare (ma forse non è del tutto) inutile riaffermare con energia la vocazione di scrittore richiesta all’interprete. Scrittore non certo dimidiato, ma invece optimo iure, sia pure con una sua partico-

lare attitudine che è anzitutto attitudine a pertinenza sintonica — e insieme, come s'è appena visto, dialettica — nei confronti della «persona» del testo. Ciò richiede una particolare forma e qualità d’immaginazione e di inventio, affine a quella che Alessandro Manzoni attri-

buiva al narratore di realtà umane, per raccontare artisticamente le quali occorre — pressappoco diceva — molto più autentica e ricca immaginazione di quanta

ne occorra per inventar favole. E un tipo di immaginazione «ricostruttrice», dotata di capacità tattiche nel-

l'impatto continuo con l’bic et nunc della concretezza (l’esserci) e dei diversi momenti e del movimento dei testi; e dotata di capacità strategiche per il ripensamento d’insieme, strutturato e armonico, della pre-

senza di un’opera o di qualche sua fase o parte. Insomma: tanto miglior interprete risulterà quanto migliore scrittore e viceversa. Comes artificis, l'interprete convive a lungo e

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fraternizza coi testi i quali «pernoctant nobiscum, peregrinantur, rusticantur» (è singolare che per con-

fortare l’immagine di un rapporto non asettico, rapporto «di vita» con i testi si citi Cicerone, ma l’umanesimo europeo è consolante continuità). In questa

lunga familiarità entrerà in prolungato contatto anche tecnico, contatto «d’amor tecnico», col significante,

ma non resterà mai prigioniero del mero significante. In qualche momento del suo cammino farà il punto, verificherà gli strumenti. Gli sarà persino consentita — perché no? — qualche sobria confessione, simile a questa libera meditazione con cui piace prender congedo qui dai lettori di Nostro Ungaretti. Se ha il privilegio di insegnare, farà bene a render partecipi i giovani di queste feconde ore di verità. Potrà accadergli di sentirsi sollecitato a testimoniare in frasi compendiose sul senso dell’incontro con un poeta che gli è stato compagno di cammino, sintetizzando quello che gli pare il succo vitale di questa presenza e l’essenza di quella «persona», lasciando intravedere quanto quella presenza e persona abbia inciso sulla sua esperienza di interprete. «Testimoniare»,

dunque. Anche ora, qui. Alla

testimonianza implicitamente «generazionale» del preludio fa riscontro nel commiato una testimonianza forse più «personale», nel senso non certo limitativo che a questo attributo conferiva Rilke: «Più andiamo lontano, e più personale, più unica si fa la vita». Più «individuata», direbbe Jung. Poche battute, intanto, sul poeta. Di densità e arditezza s'è già fatto cenno, nel corso di queste pagine di commiato, a proposito di Ungaretti. E una sorta di icona della poetica della densità si potrebbe reperire nel sin troppo noto «M'illumino / d’im-

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COMMIATO

menso»: punto di condensazione al centro della pagina bianca come minuscolo astro in solitudine di spazio celeste; punto di centralità, però misticamente partecipe al tutto che lo circonda. Ma potrebbe rica-

varsene un'immagine statica, mentre la densità di Ungaretti è, se così si può dire, dinamica. E ottenuta

scavando, scarnificando, decantando, sperimentando senza tregua, rimpastando, accostando con arditezza a volte persino bizzarra, tra barocca e surrealista,

capace di generare scintille tra le parole. Si potrebbe anche parlare di una poesia «protesa». Si pensi all’ansia creativa, più volte ricordata e da Ungaretti segnalata come fraterna, del teso Michelangelo: teso nell’umile (e alta) speranza di costruire,

mediante l’arte, umanità e civiltà. Si pensi al non meno sintomatico, anzi addirittura araldico a partire da un certo momento, mito della Terra Promessa: così centrale, si vorrebbe dire «entelechiale». Con tutta

una costellazione di altrettanto sintomatici segni che al mito della Terra Promessa fanno corona: il lupo di mare, il girovago, il nomade (capace anchein anni tardi di attraversare sensuosamente le calde occasioni del vivere terreno, ma sempre con nostalgia di ontologica assolutezza o di edenica purezza); e poi Ulisse, Enea. Si pensi al futuro, «tempo lirico», tipico di una poesia di attesa e talvolta di annunzio. Si pensi al non meno tipico vocativo che, come lo sciamano, presenti-

fica l'assenza: un’assenza che comunque non è — lo precisa una giovane studiosa, Rosalma Salina Borello

— quella di Mallarmé, ossia «una tensione all’inesistente, un desiderio che concresce su se stesso sino alla nullificazione della parola, al silenzio, all’indi-

stinto senza nome della pagina bianca»; è invece «un perenne altrove, l’ossessiva mira di un viaggio senza

L’INTERPRETE E IL POETA

185

fine». Poesia non acquietata nella parola, ma protesa a uno spazio oltre la parola: eden di nostalgia e d’irraggiungimento, limpida e attonita sfera, mistero calato nella misura della parola e della forma, ma per trascenderla,

per lievitare

nel cuore

della misura;

luogo dell’Essere. Sebbene nel discorso filosofico certi termini abbiano spesso un valore diverso, con un tecnicismo terminologico mirato a un preciso sistema di pensiero, certe indicazioni di grandi pensatori del Novecento si associano volentieri a modalità della poesia ungarettiana, sembrano attagliarsi ad essa, o comunque mostrare con essa qualche convergenza possibile. Non a caso un filosofo come Enzo Paci, con un saggio da Ungaretti molto apprezzato, ha potuto compiere questa operazione di accostamento, trovando suggestive consonanze tra Ungaretti e la fenomenologia. E per quanto riguarda il punto del discorso in cui ci troviamo, vien fatto di associare con

quanto ora si andava dicendo certe indicazioni di Husserl secondo cui vivere è sempre «vivere oltre», è proiettarsi in figure trascendenti, vissute come possi-

bili, espresse in intuizioni che danno significato alla vita. E ancor pi vien fatto di pensare a quello che Heidegger dice della poesia come ritorno dell’uomo alla patria del sacro, come custodia del sacro e del mistero. Una poesia, quella di Ungaretti, che nel profondo tende dall’esistenza all'essenza, ma senza tra-

dire il battito dell’esistenza e senza tradire la giovinezza del rimanere disponibile e attento a imprevedibili epifanie, a intime avventure di conoscenza. Ungaretti scriveva nel 1931 a Paul Valéry che in lui gli sembravano «riassunti e spinti oltre cinque secoli di poesia italiana ed europea».

Qualcosa di

simile possiamo dire noi di Ungaretti, e agli occhi di

186

COMMIATO

alcuni di noi non è certo il minore dei suoi meriti. Ha senza dubbio attraversato attivamente nodi cruciali della poesia del Novecento. Ha partecipato. Ha rappresentato esemplarmente. Ai nostri occhi poco più che adolescenti (come s'è visto nelle pagine iniziali), ma anche agli occhi di forse tre generazioni, Ungaretti è apparso come una

sorta di incarnazione del mito del poeta. Ma, come s'è intravisto or ora e d’altra parte s'è andato vedendo nel corso di questo libro, per quanto riguarda l’esperienza dell’autore di queste pagine, i molti lustri trascorsi da quel lontano schiudersi di un’adolescenza in giovinezza, con ondate di rinnovato interesse e impegno a capire, hanno infuso in quel mito un po’ astratto contenuti sempre più ricchi e concreti. Come i vini schietti e generosi, la poesia di Ungaretti ha acquisito con gli anni aroma e gusto. Attraverso la frequentazione costante, attraverso il ripetuto minuzioso approccio tematico simbolico stilistico strutturale ai testi di alcuni poeti amati di ermeneutico amore — tra i quali Ungaretti è forse nell’intimo il più congeniale per affinità elettive — il giovanile slancio verso la poesia si è maturato in un motivato sentire che nulla ha perduto di quel gioioso fervore, nulla ha perduto di stupore e freschezza. Come ogni autentico amore, anche l’amor di poesia si arricchisce e consolida nella conoscenza dell’ oggetto amato e nel formulare in parola sempre più piena e pertinente le proprie ragioni. Privilegio gioioso delDUERSSS poterne rendere partecipi ascoltatori e ettori.

CENNO BIO-BIBLIOGRAFICO

Le tappe fondamentali dell’itinerario umano e poetico di Ungaretti sono state evocate nel corso di questo libro, specialmente nel capitolo intitolato Paesaggi, stagioni e altro. Tuttavia si ricorderà qui qualche momento significativo della sua vita per comodità del lettore non specializzato, il quale in ogni caso può ricorrere con profitto al bel volume biografico di Leone Piccioni, Ungaretti: vita di un poeta, Rizzoli, Milano 1970, in seguito intitolato Vita di Ungaretti.

Del poeta, nato da emigrati lucchesi ad Alessandria d'Egitto il 10 febbraio 1888, vanno anzitutto ricordati gli anni di studio presso una delle migliori scuole della città, in cui si accostò per tempo ai testi di Baudelaire, di Mallarmé, di Nietzsche (altra sua lettura prediletta era, già in quegli anni, Leopardi). Amici degli anni egiziani furono Moammed Sceab (morto suicida a Parigi ed evocato nella notissima poesia In memoria), i fratelli Thuile, che misero a disposizione del giovane Ungaretti una ricca e moderna biblioteca, ed Enrico Pea, emigrato dalla Versilia, che soleva accogliere nella sua celebre «Baracca rossa» rivoluzionari e anarchici di diversi paesi.

Nel 1912 Ungaretti lascia l'Egitto e, dopo una sosta in Italia, raggiunge Parigi, dove seguirà le lezioni di Bergson,

188

CENNO BIO-BIBLIOGRAFICO

di Bédier, di Lanson e di altri illustri maestri universitari, e dove incontrerà alcuni degli scrittori e artisti più innova-

tori, da Apollinaire a Cendrars a Jacob, da Picasso a Braque a Léger a Modigliani. Papini, Soffici e Palazzeschi lo inviteranno a pubblicare su «Lacerba» le sue prime poesie nel 1915, anno in cui, entrata in guerra l’Italia, verrà inviato

come soldato semplice di fanteria sul fronte del Carso. Nel 1916 vede la luce, in sole ottanta copie, il suo primo volume di versi, Il Porto Sepolto. Alla fine della guerra, in cui aveva combattuto anche sul fronte francese, si stabilisce a Parigi e pubblica, nel 1919, un volumetto di versi in francese, La Guerre, e, per i

tipi di Vallecchi, Allegria di Naufragi. Dal 1921 la città della vita sarà Roma, dove il poeta si guadagnerà dapprima da vivere tutt’altro che agiatamente collaborando con l’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri. Sentimzento del Tempo, sempre per i tipi di Vallecchi, vede la luce nel 1933. Nel 1936 Ungaretti, accettando l’invito a insegnare Lingua e letteratura italiana all’Università di San Paolo, apre la parentesi brasiliana della sua vita, che comprende anni di dolori (per la morte del fratello Costantino e del figlio Antonietto), di silenzio della poesia, di tenace scavo nella tradizione poetica italiana. Il rientro definitivo a Roma, nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, si accompagna alla nomina a membro dell’Accademia d’Italia e a professore «per,chiara fama» di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma e all’inizio, nell’importante collana «Lo Specchio» di Mondadori, dell'edizione delle sue opere, col titolo d’insieme di «Vita d’un uomo». Questa edizione, in qualche senso «ufficiale»,

comprenderà i seguenti volumi di poesia: L’Allegria (1942), .

CENNO BIO-BIBLIOGRAFICO

189

Sentimento del Tempo (1943), Poesie disperse (1945), Il Dolore (1947), La Terra Promessa (1950), Un Grido e Pae-

saggi (1954), Il Taccuino del Vecchio (1961). Della stessa edizione faranno parte un volume di prose, Il Deserto e dopo (1961), e alcuni volumi di traduzioni: 40 Sonetti di Shakespeare tradotti (1946), Da Gongora e da Mallarmé (1948), Fedra di Jean Racine (1958), Visioni di William Blake (1965). Non comprese in questi volumi altre traduzioni di Ungaretti da Omero, Lucrezio, Ezra Pound, Saint-

John Perse, Francis Ponge, André Frénaud, Murilo Mendes, Vinicius de Moraes.

Negli ultimi anni il poeta riceve importanti riconoscimenti e omaggi e compie diversi viaggi in paesi lontani, dalla Scandinavia al Giappone, dagli Stati Uniti all’America del Sud. La morte lo coglie a Milano, nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970. L’opera poetica di Ungaretti è raccolta nell’unico volume Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori,

Milano 1969, giunto ormai all’undicesima edizione e corredato di note, varianti e indici. In edizione critica sono

apparsi sinora I/ Porto Sepolto, a cura di C. Ossola, Il Saggiatore, Milano 1981 (con utilissimo commento) e L’A/-

legria, a cura di C. Maggi Romano, Fondazione Arnoldo e

Alberto Mondadori, Milano 1982. Per i tipi di questo stesso editore è in corso di stampa, sempre a cura della Maggi Romano, l’edizione critica di Sentimento del Tempo, e, a cura stavolta di Domenico De Robertis, è in prepara-

zione quella di I/ Dolore. Particolarmente utili per lo studio dell’opera poetica di Ungaretti, le concordanze dovranno apparire, a cura di G. Savoca, nella serie degli «Strumenti di lessicografia letteraria italiana» della CLIPON, editi da Olschki, Firenze.

Per ora disponiamo soltanto di un primo limitato tentativo

190

CENNO BIO-BIBLIOGRAFICO

di Concordanze dell’«Allegria» di E. Chierici ed E. Paradisi, Bulzoni, Roma 1977.

Un volume mondadoriano di Saggi e interventi (gemello di quello contenente Tutte le poesie), a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano 1974, raccoglie gli scritti critici di Ungaretti, del quale non vanno dimenticate le lezioni universitarie raccolte nel volume Invenzione della poesia moderna. Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942), a cura di P. Montefoschi, Edizioni Scientifi-

che Italiane, Napoli 1984. Si attende la pubblicazione di un secondo volume comprendente le lezioni su Manzoni e D'Annunzio, oltre che una raccolta degli scritti su Leopardi, che verrà stampata sotto gli auspici della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ricco e interessante l’epistolario. Oltre alle tante lettere pubblicate in riviste e a quelle comprese nel volume di L. Piccioni, Ungarettiana. Lettura della poesia, aneddoti, epistolari inediti, Vallecchi, Firenze 1980, esistono già diversi

carteggi in volume: Lettere a un fenomenologo, con un saggio di E. Paci, All’Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1972; Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), a cura di A. Marone e L. Piccioni, Mondadori, Milano 1975; Lettere a Soffici (1917-1930), a cura di P. Montefoschi e L. Piccioni, Sansoni, Firenze 1981; Lettere a Enrico Pea, a cura di J. Soldateschi, All’Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1983;

G. Ungaretti-G. De Robertis, Carteggio (1931-1962), a cura di D. De Robertis, Il Saggiatore, Milano 1984. Si aggiunga ora il volume di F. Livi, Ungaretti, Pea e altri. Lettere agli amici «egiziani», Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988. Entro il 1988 è prevista la pubblicazione dell’importante carteggio con Jean Paulhan, a cura di L. Rebay. Imminente anche la pubblicazione del carteggio con Papini, a cura di L. Piccioni e A. Terzoli. )

CENNO BIO-BIBLIOGRAFICO

191

Per l’estesissima bibliografia critica Ungaretti, si rimanda il lettore all’appendice contenuta nel citato volume Tutte le poesie bibliografia (a cura di A. Balduino) che segue retti

del

Dizionario

critico

sull'opera di bibliografica e all’accurata

la voce Unga-

della letteratura

italiana,

U.T.E.T., Torino 1984, da integrarsi con la Bibliografia della critica ungarettiana, degli scritti e delle lettere del poeta (1979-1986), a cura di S. Simone, compresa nel fascicolo

doppio di «Letteratura italiana contemporanea», n. 20-21, dedicato interamente a Ungaretti nell’imminenza del centenario della nascita. Una sintesi con antologia della critica ungarettiana è nel volume Ungaretti e la critica, Cappelli, Bologna 1977, a cura di G. Faso, e in G. Baroni, Giuseppe Ungaretti. Introduzione e guida allo studio dell’opera ungarettiana, storia e antologia della critica, Le Monnier, Firenze

1980. Impossibile qui segnalare anche soltanto i fondamentali studi critici su Ungaretti. Tuttavia non si possono non ricordare le irrinunciabili monografie di G. Cambon, La poesia di Ungaretti, Einaudi, Torino 1976, e di C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, nuova edizione riveduta e ampliata, Mursia, Milano 1982, nonché le seguenti opere miscellanee: il fascicolo doppio di «Letteratura», n. 35-36, per i settant'anni del poeta (1958) e i due ponderosi volumi degli Atti del Convegno internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino, ottobre 1979), 4 Venti, Urbino 1981 (ai quali si

potrebbero aggiungere gli atti del Convegno svoltosi a Roma nel novembre 1980 su Ungaretti e la cultura romana, Bulzoni, Roma 1983). Tra i più recenti contributi in volume si ricorderà almeno M. Petrucciani, I/ condizionale

di Didone. Studi su Ungaretti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1986 (dedicato in buona parte a La Terra Pro| messa).

NUOVA UNIVERSALE STUDIUM

. Achille Albonetti, Energia nucleare e crisi energetica europea

. Giovanni Antonucci, Lo spettacolo futurista in Italia . Mario Bendiscioli, Antifascismo e resistenza . Enrico Lucatello, Giornalismo e misura dell’uomo

. Adriano Alippi, Segnali in superficie. Verso un’ot-

MdAUWN

tica e un’acustica integrate

. Adriano Ossicini, Problemi di psicologia clinica . Aldo Maffey, L’idea di Stato nell’illuminismo francese

. Jacques Guy Bougerol, Solo i poveri possono capire. San Bonaventura e l’uomo d'oggi

D Aurelia Accame Bobbio, Alessandro Manzoni. Segno di contraddizione 10. Mario Puppo, Il romanticismo LI Tullio Tentori, Antropologia culturale 12/13. Evandro Botto, I/ neomarxismo 14. Paola Urbani, Modelli e teoria del racconto Bb Paolo Guidicini, I centri storici 16. Ugo Perone, Storia e ontologia. Saggi sulla teologia

di Bonhoeffer IT. Adriano Gallia, Sapere storico e insegnamento della storia

. Giacomo

Martina,

Pio

IX.

Chiesa

e mondo

moderno

. Mario Crespi, La malattia reumatica . Elio Gioanola, Il decadentismo

. Giacomo Martina, La Chiesa în Italia negli ultimi trent'anni

. Giandomenico Curi, I/ cinema francese della Nouvelle Vague . Domenico Consoli, Leopardi. Natura e società . Federico Caffè, Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica . Fausto Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l'Unità

. Valerio Tonini, Le scelte della scienza

. Mario Puppo, La critica letteraria del Novecento . Gianni Dotto, Il secolo XII. Illuminismo logico e umanesimo del limite

. Michele Pellegrino, Letteratura greca cristiana . Valerio Volpini, Prosa e narrativa dei contemporanei. Dalla «Voce» agli anni Settanta . Giovanna Scarsi, Scapigliatura e Novecento. Poesia/Pittura/Musica

. Ennio Grassi, Sociologie del fatto letterario . Mario Belardinelli, Movimento cattolico e questione comunale dopo l'Unità. . Enrico Berti, Profilo di Aristotele . Pietro Scoppola, Dal neoguelfismo alla DemocraLI

zia cristiana

. Francesco Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-45) . Enzo Rossi, L’arte sacra oggi. Bellezza e verità

. Pier

Luigi

Cerisola,

La

critica

semiotico-

strutturalistica

. Ernesto G. Laura, Storia del giallo. Da Poe a Borges . Vera Paronetto, Agostino. Messaggio di una vita

. Emilio

Baccarini,

La

fenomenologia.

Filosofia

come vocazione

. Maria Teresa Gentile, L'albero di Pinocchio. I precedenti culturali de «Le Avventure» . Pietro Borzomati, Chiesa e società meridionale. .

Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra . Giuseppe D’Eufemia, Le costituzioni. La Costituzione italiana

. Michele Pellegrino, Letteratura latina cristiana . Vera Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane d'Europa . Mario Puppo, Poetica e critica del romanticismo italiano

. Ugo Bianchi, Problemi di storia delle religioni . Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento

. Alberto Frattini, Giacomo Leopardi . Filippo Puglisi, L’arte del Manzoni . R. Bubner, L. Sichirollo, V. Verra, B. Waldenfels, La filosofia oggi, tra ermeneutica e dialettica.

A cura di E. Berti 5I: M. C. Potenza, S. Scalabrella, La mitologia classica

34. Emerico Giachery, Nostro Ungaretti

COLLANA NUOVA UNIVERSALE STUDIUM 4, Nel centenario della nascita si offre qui un intenso ripensamento dell’opera poetica di Ungaretti. Già il titolo, Nostro Ungaretti, segnala che il libro non vuole essere una convenzionale monografia, ma la testimonianza partecipe dell'incontro fra un interprete (appartenente a una generazione affasci-

nata già nella prima giovinezza dalla poesia ungarettiana) e uno dei suoi poeti prediletti, uno dei suoi «compagni di strada».

Il senso globale di un’opera-vita, con l'inesauribile circolazione dei suoì richiami interni, risulta dal convergere di ango- — lazioni interpretative diverse e complementari: anzitutto, il riattraversamento, passo dopo passo, dei tempi e dei luoghi che contano nell’itinerario coerente della «vita d’un uomo», con soste e scavi nei punti nodali più fecondi di suggestionee di senso; poi, l'esplorazione ravvicinata, mediante l’analisi A

approfondita di un testo molto significativo, dell’officina del — poeta e della capillare rete del suo universo immaginario; infine il riesame dell'impegnodi Ungaretti a farsi poeta di una civiltà, poeta di quella che potrebbe definirsì ta «geolo spirituale» Sala civiltà occidentale.

Emerico Giachery è professore ordinario di Storiadella ratura italiana moderna e contemporanea nella Il Unive di Roma («Tor Vergata»). Tra i suoi scritti in volume: ; i

'

. D'Annunzio, Silva, Milano 1968; Illettore in panta zonì, Roma 1971; Due maestri, cinque amici,”

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