Negroland
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Negroland Margo Jefferson

Negroland non è Harlem a New York, né Bronzeville a Chicago, è un’enclave senza confini geografici, protetta da benessere e privilegi

in un paese segnato dai conflitti razziali. Negroland è “l'élite di colore”, una classe nascosta tra

le pieghe di una nazione che ha creato il mito della società senza classi. È un microcosmo regolato da un'etichetta minuziosa, ossessionato dalla perfezione, dove si bada alla tonalità della pelle, alla forma del naso, a lozioni, parrucche e capelli.

Figlia dell'alta borghesia nera, Margo Jefferson ha il lignaggio ideale per demolire una dopo l’altra le nostre convinzioni sulla “razza”,

trasformandola in un concetto mutevole in cui si intrecciano lingua, genere,

censo,

ingegno

e ambizioni personali. E per riappropriarsi

fin dal titolo di una parola diventata tabù — “Negro”, con la N maiuscola —, in cui vibrano ancora, sedimentati sotto strati di significato, i proclami per i diritti civili, le taglie sugli schiavi

fuggiaschi, gli scritti di W.E.B. Du Bois e James

Baldwin. Il risultato è un “lessico famigliare” intessuto di illuminanti digressioni storiche: sui lasciti della segregazione e sul Black Power, ma anche su Lena Horne e Donyale Luna, feticci glamour di un'epoca passata, sugli schiavisti neri,

sui film di Audrey Hepburn, sugli “esercizi

di suicidio” delle ragazze di Negroland. Perché questo è un memoir sorprendente,

sincero, con cui

l'autrice si propone, come fanno Claudia Rankine e Ta-Nehisi Coates, di ampliare e ridefinire i contorni di una nuova coscienza afroamericana.

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Mi hanno insegnato a non mettermi in mostra. Mi hanno insegnato a distinguermi con i comportamenti, evitando

i proclami, a eccellere con i fatti e le buone maniere, senza sfoggio. Ma il memoir non è forse un modo di mettersi in mostra? Questo, nella mia infanzia a Negroland, era un rischio. Negroland è il nome che ho assegnato a una piccola regione dell'America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi. Ai bambini di Negroland insegnavano che solo pochi Negri godevano di benessere e privilegi, e che la maggior parte dei bianchi sarebbe stata felice di vederci tornare tutti all’indigenza, all’ubbidienza e alla sottomissione. Ai bambini di Negroland insegnavano che la maggioranza dei Negri avrebbe dovuto seguire il nostro esempio, e che invece fin troppi (per invidia o ignoranza) persistevano in comportamenti che favorivano il prer

giudizio razziale. C'erano troppi Negri che mettevano in mostra le cose sbagliate: la voce alta, i modi sfrontati e appariscenti, il talento per la musica

pop e il ballo, per lo sport piuttosto che per le discipline umanistiche e le scienze. La maggioranza dei bianchi faceva attenzione,

ci dicevano,

ai cosiddetti tratti razziali di base. E la maggioranza

dei bianchi era anche molto attenta a un'esibizione troppo spavalda da parte nostra del loro genere di successi, dei loro privilegi, del loro

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benessere — in pratica, quelli che i bianchi consideravano i loro tratti razziali. Davanti ai bianchi non dovevi mai comportarti in maniera indecorosa, ma neppure esuberante. Mettersi in mostra era consentito, perfino incoraggiato, soltanto

quando il risultato si rifletteva positivamente sulla tua famiglia, sui loro amici e sul complesso dei tuoi antenati. E allora eccomi qui, a quattro anni, durante uno spettacolo organizzato da un club per bambini, dietro le quinte di una sala da

concerto insieme ad altri “Jack e Jillini” elettrizzati. Mentre ci impongono di fare silenzio con gesti benevoli e decisi, io mi stacco dal gruppo e faccio il mio ingresso sul palcoscenico. La mia amichetta di cinque anni sta recitando un brano a memoria. Mi piazzo davanti a lei, mi giro e dico all’adulto al pianoforte: "Continua pure con questa musica”. Lui ubbidisce. Io mi giro di nuovo verso il pubblico e per alcuni minuti improvviso un balletto. Sento gli adulti che urlano e ridono in segno di approvazione. Li ho conquistati perché lo sanno tutti che sono vivace e brillante; anche la madre della mia amichetta si mostra indulgente. Non ricordo la reazione della mia amica: e perché dovrei? Ero entrata sul palco per annientarla. Mi capitava di sopravvalutare la benevolenza degli adulti quando il bisogno di brillare offuscava la mia capacità di giudizio. Poco tempo dopo, a una cena in cui i grandi erano più interessati l’uno

all’altro che a noi bambini, attesi una pausa nella conversazione e poi annunciai: “Certe volte mi scordo di usare la carta igienica”. Le risate arrivarono, ma solo dopo un breve silenzio, e mi accorsi che prima di guardare me, gli ospiti si erano scambiati un'occhiata

tra loro. Compresi che invece di essere ammirata ero tollerata, e intuii che ripetere una dichiarazione come quella — sbandierare in pubblico quello che si fa in privato — avrebbe sempre suscitato il biasimo altrui. Sono cresciuta così. E crescendo ho capito che nel mondo al di fuori della tua famiglia e dei suoi amici, gli errori — la maleducazione, il

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cattivo gusto, l'entusiasmo eccessivo — possono mettere in pericolo

te, i tuoi genitori e la tua gente. Puoi essere bollato, in un colpo solo e per tutta la vita, come volgare, grossolano e inferiore.

Ho fatto bene a diventare una critica. Noi critici analizziamo e ci mettiamo in mostra per un fine superiore. Per un bene più grande.

Le nostre maniere, i nostri gusti, le nostre dichiarazioni sono ben accolte. Siamo superiori a vita. Tranne le volte in cui non lo siamo. Tranne le volte in cui siamo liquidati ed etichettati come invidiosi e meschini, imitatori e dipendenti per natura. Di seconda categoria a vita.

Il senso generale della storia è questo. Ora quello specifico: storia di una ragazzina del Midwest, a metà del Novecento, una delle due

figlie di una coppia attraente, soddisfatta della propria vita e delle proprie conquiste, che vuole il meglio per le figlie e vuole che le figlie siano tra le migliori. Che abbiano successo, professionalmente e personalmente. E che siano felici. I bambini trovano sempre il sistema di stravolgere tutto anche quando si impegnano a collaborare. Vuoi sapere come ha fatto questa bambina a stravolgere tutto? Raggiungeva il successo, ma lo con-

siderava alla stregua di una concessione che era stata costretta a fare. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto. La bambina arrivò a convincersi che avevano preteso troppo da lei. Che si sarebbe vendicata. Che avrebbe avuto una vita interiore in cui a guidarla sa-

rebbe stata la disperazione. La storia che compone è la seguente: cora, una bambina.

C'era una volta, e c'è an-

Fino a un certo punto ha accettato la sua vita,

poi l’ha rifiutata, e da quel rifiuto sono sorti tutti i suoi problemi. Arriva a convincersi che la sua vita sia stata un fallimento. In parte

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dipende da una normalissima ambizione frustrata: è brava, abba-

stanza brava nella sua professione. Avrebbe dovuto essere strepitosa. Per certi versi lo è, strepitosa, ma non è fenomenale. Sa che fare la scrittrice è un privilegio. Che dovrebbe amare quello che fa. Ma non è così. Passa gran parte del tempo a convincersi che odia scrivere, e di conseguenza sente di odiarlo. Quanto all'amore e al sesso, avrebbe dovuto essere intrepida, non cauta. Come fa una persona così, troppo spesso angosciata da ciò che è, sempre angosciata da quello che le manca, a scrivere di sé? D'ora in poi cambierò tono. Penso che sia troppo semplice, quando scriviamo di noi, indugiare sui brutti ricordi. Crogiolarsi

nella propria innocenza. Rendere omaggio al proprio dolore. Presentare il nostro risentimento dalla prospettiva più conveniente. Non voglio che i miei ricordi siano guidati da questo genere di indulgenza. E (mi hanno

insegnato) non

si va in giro a raccontare

i propri

segreti agli sconosciuti — di certo non i segreti che mettono in evidenza l'errore, la debolezza, il fallimento. Nulla è esclusivamente personale. E tutti i lettori sono sconosciuti. In questo momento sono sopraffatta dal tentativo di calcolare, di immaginare cosa potrebbero aspettarsi i lettori da me, cosa potrebbero rifiutare, pretendere, insistere, mentre

smentire,

come uno vorrebbe

un altro resiste...

Per cui consentitemi di tornare indietro, di sottomettere il mio io individuale, e di entrare nella Storia.

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Sono una

cronachista

di Negroland,

una testimone partecipe,

un'elogista, una dissenziente e un’ammiratrice,

a volte un'espa-

triata, sempre un'interlocutrice.

La chiamo Negroland perché trovo ancora che “Negro” sia una parola sbalorditiva, illustre e terrificante. Una parola che trovi sui manifesti con gli schiavi fuggiaschi e sugli editti con i diritti civili; nelle convenzioni sociali e negli sbruffoni all'angolo della strada. Una parola di una lingua tonale il cui significato varia in base alla collocazione e al contesto, e ai modi in cui la Storia curva, sbanda, avanza e ristagna. Intanto le lettere maiuscole sembrano enfatizzare la sua dignità; intanto nascono altre nomenclature che ne sfidano il primato. La chiamo Negroland perché per molto tempo la parola “Negro” ha dominato la nostra storia, perché per molto tempo ho vissuto con i suoi significati e le sue insinuazioni, e perché questi ultimi sono stati decisivi per le prime scoperte che ho fatto su ciò che era la razza 0, come si dice adesso, su come è stata costruita la razza. Per quasi duecento anni noi di Negroland ci siamo descritti in qualunque maniera.

Come

l'aristocrazia di colore l'élite di colore

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i 400 di colore

i 400 la società dal sangue blu le grandi famiglie, le vecchie famiglie, i vecchi

colonizzatori, i pionieri la buona società Negra, la buona società nera

l'élite o l’alta borghesia Negra, nera, afroamericana.

Sono nata nel 1947 e poiché alla mia generazione, come alle precedenti, era stato insegnato che le nostre conquiste ricevevano poca attenzione e credito da parte dell'America bianca, non dovevamo mai discutere in pubblico delle nostre colpe, cadute o incertezze (ancora oggi evito la parola “difetti”). Anche la più insignificante tra queste si sarebbe rivoltata contro tutta la nostra razza. La mag-

gioranza dei bianchi non applicava la dottrina "umano, troppo umano”: le nostre imperfezioni erano subumane o umane solo in via provvisoria.

Per la mia generazione era ancora valido un motto: Affermazione. Invulnerabilità. Portamento. Una parte di me teme che in queste pagine svelerà tutto fuorché la nostra determinazione a eccellere. Ma temo anche l’inibizione espressiva che ne deriva. E poi tendiamo a essere suscettibili. Ipocritamente compiaciuti e snob. Di conseguenza, lasciate che inizi in modo pacato, clinico. Sono nata nella succursale di Negroland di Chicago. Mio padre faceva il medico, il pediatra, e per qualche anno è stato il primario di pediatria del Provident, l'ospedale nero più antico del paese. Mia madre era un'assistente sociale che ha smesso di lavorare dopo il matrimonio, e per tutta la mia infanzia è stata moglie, madre e donna mondana a tempo pieno. Ma da dove sono partiti per arrivare fino a lì? E a quali circoli e organizzazioni hanno aderito per sancire la loro appartenenza a questo mondo? Breve curriculum dell’autrice.

15 Margo Jefferson: ANTENATI (in ordine cronologico): schiavi e proprietari di schiavi della Virginia, del Kentucky e del Mississippi, e poi agricoltori, musicisti, maggiordomi, capicantiere, insegnanti, estetiste e cameriere,

rammendatrici e sarte,

ingegneri, poliziotte, impresarie immobiliari, avvocati,

giudici, medici e assistenti sociali ASSOCIAZIONE STUDENTESCA PATERNA Kappa Alpha Psi

ASSOCIAZIONE STUDENTESCA DELLA MADRE (e peLLA soreLLA) Delta Sigma Theta CIRCOLO DEI GENITORI A LIVELLO NAZIONALE il Boulé (padre); le Northeasterners (madre) CIRCOLO

MIO

E DI

MIA

SORELLA

A LIVELLO

NAZIONALE

Jack and Jill; i Co-Ettes I circoli bito. Il valutati, geranno

locali, le scuole e i campeggi saranno indicati a tempo decolore della pelle e quello dei capelli saranno descritti, e insieme agli altri tratti fisici che definiscono la razza. Sorinevitabilmente delle domande. Tra queste: Come si fa —

come fate, come faccio — ad analizzare classe, razza, famiglia e tem-

peramento? Quanti tipi di privazione esistono? Qual è l'estensione del privilegio? Cosa mi ha dato e cosa mi ha tolto? Ecco alcune delle categorie fondanti di questo gruppo di persone,

le opposizioni e i distinguo con cui hanno vissuto.

nordista/sudista schiavo domestico/bracciante agricolo nero libero/nero schiavo nero libero/mulatto libero operaio specializzato/operaio non qualificato (libero o schiavo) possiede proprietà/non possiede niente

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legge e scrive bene/legge un po’ ma non scrive/legge e scrive un po’/non legge e non scrive discende da una famiglia reale africana o indiana/discende da oscuri ceppi africani/discende dall’alta borghesia bianca/discende dalla classe operaia bianca/non discende dai bianchi

Gli americani bianchi hanno sempre saputo come elaborare aristocrazie a partire dalle risorse locali, ancorché scarse. I bottegai inglesi sono arrivati con il Mayflower e sono diventati i padri fondatori. I braccianti tedeschi sono emigrati a Chicago e sono diventati gli imperatori dei mattatoi. Donne di origini altrettanto modeste li hanno sposati o hanno sposato i loro rivali e superiori, e sono diventate autorità mondane. Noi abbiamo fatto la stessa cosa. In origine “la buona società di colore” era un mélange di uomini e donne che godevano di un trattamento di favore, di soldi, proprietà e anche di libertà offerta da proprietari, datori di lavoro e genitori caucasici di buona famiglia;

uomini e donne che hanno comprato la loro libertà con

monete

sonanti

e lavoro

pesante;

uomini, donne e bambini comprati e liberati da bianchi che odiavano la schiavitù o da amici e parenti Negri; uomini e donne che discendevano da Negri liberi, e quindi nati liberi

Uomini e donne che hanno imparato l’alfabeto e le buone maniere, che hanno imparato un mestiere (barbiere, ristoratore, fornaio, gioielliere, macchinista, sarto, sarta), che sono diventati i domestici più preparati nelle case e nei migliori hotel per bianchi, che hanno acquistato proprietà, pubblicato giornali, fondato

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scuole e chiese, che hanno creato circoli e associazioni di mutuo soccorso, che hanno fatto attenzione a sposarsi tra loro. Alcuni sono arrivati da Haiti insieme ai bianchi in fuga dalla rivoluzione nera di Toussaint L’Ouverture: nei loro ranghi c'erano mulatti liberi e schiavi che, dopo aver simulato una sorta di fedeltà, sono riusciti ad abbandonare i loro vecchi padroni per buttarsi nell’avventura della mobilità sociale. Da New Orleans a New York, gli uomini e le donne di sangue misto hanno affermato con ostinazione il loro primato.

Sono scivolata in un tono canzonatorio che suona prematuramente sleale. Tra i fondatori prebellici di Negroland sono davvero molte le persone che hanno primeggiato grazie alla determinazione e a un'intelligenza fondata su sani princìpi. Alcuni esempi: James Forten di Philadelphia, abolizionista e imprenditore. Nato da genitori Negri liberi, cominciò a lavorare in una veleria a otto anni, divenne caposquadra a venti e proprietario a ventitré, e gestì

l'azienda talmente bene da diventare uno degli uomini, nerio bianchi,

più ricchi della città. Inventò un congegno per manovrare le vele, si rifiutò di vendere il sartiame alle navi che trasportavano schiavi, mobilitò l'opinione pubblica contro la schiavitù e la colonizzazione, si oppose ai tentativi di limitare i diritti dei neri liberi e offrì somme preziose che aiutarono William Lloyd Garrison ad avviare “The Liberator”. Frances Jackson Coppin, educatrice. Nata a Washington Defte fu schiava fino all’età di dodici anni. Il nonno Negro comprò la libertà di tutti i suoi figli a eccezione della madre di Frances, lasciata in schiavitù perché aveva avuto Frances da un bianco. Quando una zia comprò finalmente la sua libertà, Frances lavorò come domestica in Massachusetts, quindi in Rhode Island. Con il salario si pagò un

precettore,

riuscì a finire le superiori

e a iscriversi al-

l’Oberlin College. Qui, mentre completava brillantemente un diploma in greco, latino e matematica avanzata riservato agli uomini,

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fondò una scuola per schiavi fuggiaschi. Divenne un'educatrice — la prima donna Negra a capo di una scuola superiore con un corso di studi classici — che bramava, come spiegò a Frederick Douglass,

“di vedere la mia razza che esce dal pantano dell’ignoranza, del vizio e della degradazione; non più confinata in angoli oscuri a divorare quegli scampoli di sapere che le lanciano i suoi superiori”.* L’eccezionalismo Negro ha avuto anche una parte molto sgradevole: dei progenitori che si sono fatti valere grazie alla loro determinazione e all'intelligenza, e sfruttando i loro simili. Anthony Johnson nacque in Angola e fu condotto in Virginia nel 1621; iniziò a lavorare in una piantagione come servo a contratto, prima che venisse istituita la schiavitù. Prese in moglie Mary, una domestica Negra. Insieme fecero quattro figli e completarono il loro periodo di servizio; nel 1640 Johnson comprò duecentocinquanta acri di terra (in quello stesso anno un servo a contratto nero che era fuggito fu catturato e condannato “a servire il padrone per la durata naturale della sua vita”). Anthony e Mary riuscirono ad ampliare i loro duecentocinquanta acri arrivando a cinquecentocinquanta,

e acquistarono bestiame e servi a contratto.

Nel 1654

uno di questi, il Negro John Casor, accusò Johnson di volerlo trasformare in schiavo e se ne andò a lavorare per un proprietario ter-

riero bianco disposto a trattarlo da servo a contratto. Johnson trascinò il proprietario bianco in tribunale, vinse la causa in appello e riportò Casor in uno stato di servitù perpetua, diventando così, legalmente, uno dei primi proprietari di schiavi delle colonie. Genevieve Belly Ricard della Louisiana veniva da un piccolo gruppo di gens de couleur libres che comprava e vendeva grosse quantità di terra, zucchero, riso, cotone, bestiame, macchine e schiavi. Quando suo

* Quella che una volta, a Baltimora, Maryland, era stata la Douglass High School,

diventò la Coppin State University nel 1926.

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marito, Cyprian Ricard, morì, Genevieve ereditò la sua prospera piantagione; da quel momento

in avanti la vedova Ricard, come la

chiamavano, amministrò con successo (con l’aiuto ma non la supervisione del figlio) all'incirca mille acri di terra e quasi cento schiavi, del valore, alla vigilia della Guerra Civile, di 200.000 dollari. I cittadini di Negroland sono, più modestamente, pastori di chiesa, insegnanti e artigiani specializzati. Sono proprietari di beni immobili che danno in affitto, di taverne e piccoli hotel; fanno i barbieri, i falegnami, i meccanici, i sarti e le sarte, i gioiellieri, i fornai. La maggioranza è di discendenza razziale mista e quella discendenza offre loro più possibilità di accedere a clienti bianchi e parenti facoltosi. Che significava essere un Negro libero privilegiato? Che eri libero di guadagnare dei soldi, libero di sposarti legalmente e (talvolta) in pompa magna, libero di educare legalmente dei figli liberi

e lasciare loro delle proprietà, libero di viaggiare, di acquistare una casa per le vacanze, libero di creare società letterarie, società di mutuo donna,

soccorso, gruppi di discussione.

Che eri libera, se eri una

di coltivare "talenti più frivoli, [...] di dar prova di buon

gusto e abilità nella pittura, nel suonare uno strumento, nel canto e in vari ambiti della decorazione a ricamo eccetera”; libera di avere una cameriera e una governante; libera di avere la tua versione del Social Register, l’annuario delle famiglie più in vista d'America. Libero al Nord di mobilitarti contro la schiavitù e per il diritto di voto e contemporaneamente di escludere dal tuo circolo sociale i Negri che hanno avuto minor fortuna. Libero al Sud di esercitare pressioni in favore dei tuoi diritti fluttuanti e allo stesso tempo di ignorare saggiamente le richieste dei Negri liberi più poveri e dalla pelle più scura. Libero di batterti per ottenere dei privilegi nella speranza che i

tuoi figli potessero averne diritto.

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“Avete letto come un uomo è diventato uno schiavo; leggerete come uno schiavo fu fatto uomo” scrisse Frederick Douglass nella sua au-

tobiografia. E allora proviamo a capire come gli schiavi, maschi e femmine, siano diventati autorità mondane e personalità influenti. All’inizio del Diciannovesimo secolo un'élite Negra, composta di schiavi fuggiaschi come Douglass, come William Wells Brown, come Ellen e William Craft, sì fa avanti attraverso la stampa e comincia a pubblicare le sue storie. Il primo autore che definì formalmente "l'élite del nostro popolo” era anche luì sfuggito, con tipica discrezione, alla schiavitù. Nel 184I

Joseph Willson, un dentista di Philadelphia, pubblicò Sketches ofthe Higher Classes of Colored Society, sotto lo pseudonimo dì “un Uomo del

Sud”. Alla nascita, ad Augusta, in Georgia, si chiamava Joseph Keating, ed era il primogenito di uno schiavista benestante di mezza età,

John Willson Jr, celibe, e di una schiava adolescente, Betsy Keating, nubile e liberata da Willson prima che nascesse il maggiore dei loro cinque figli. Potremmo dire che la coppia avesse un passato comune: per molti anni la zia schiava di Betsy aveva lavorato per lo zio schìia-

vista di John. Il suo testamento stabilì che lei, la loro figlia e ì suoì fratelli erano liberi “per il riguardo e la cura dimostrate verso ì mìeì affari domestici”. Ah, gli eufemismi della legge!

Quando suo padre morì, nel 1822, Joseph aveva cinque annì. Il testamento lasciava alla famiglia Negra alcune azioni della banca dì Augusta che Willson aveva contribuito a fondare, così come la protezione di un esecutore testamentario fidato e un'abitazione a titolo gratuito in campagna, con “adeguate suppellettili e mobilio per la cucina, e dotata di un numero congruo dì servì maschiì e femmine che si occupino di loro”. Quanti di queì servì erano schiavi?

Quando era giovane Betsy ne aveva forse conosciuto qualcuno? La sua vita iniziò

in schiavitù,

în seguito divenne

una

matrona

astuta e accorta. 1 Keating godettero dì un benessere discreto per undici anni. Poiché in Georgia ì Negri non potevano accedere a un istruzione formale, Betsy mandò ì figli maschi a studiare fuorì

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dallo Stato, mentre le figlie furono istruite in casa. Anno dopo anno il sospetto con cui la Georgia considerava le persone di colore libere aumentò, di conseguenza lo stato fece ricorso a sistemi sempre diversi per limitarne le azioni e le opportunità. Nel 1833, quando Joseph aveva sedici anni, la Georgia si adoperò per far approvare leggi che I) punissero con una multa chiunque permetteva a uno schiavo o a un Negro libero di servirsi di una stampatrice o di svolgere qualsiasi lavoro richiedesse la capacità di leggere e scrivere, 2) proibissero a chiunque di insegnare a leggere e scrivere a uno schiavo o a un Negro libero, 3) consentissero di vendere come schiavi i Negri liberi ritenuti colpevoli di “vivere nell’ozio” (che poteva anche significare camminare

tranquillamente per strada).

A quel punto i Keating si trasferirono a Philadelphia, nota da sempre per la sua comunità di Negri di talento. Betsy Keating conosceva le norme del riserbo sociale. A Philadelphia divenne la signora Elizabeth Willson, vedova. Acquistò una casa a tre piani in un quartiere prevalentemente

bianco — sapeva

come fare a vivere con discrezione tra i bianchi —, diventò un membro della prestigiosa chiesa episcopale africana di St. Thomas e si dedicò a introdurre la propria famiglia nella buona società Negra. Era gente affascinante, e in quel mondo piccolo e circospetto stabilì

dei solidi legami. Joseph trovò un mentore in un altro profugo Negro del Sud, il fervente abolizionista Frederick Augustus Hinton, uno dei barbieri e profumieri più richiesti dall’élite bianca

cittadina. Hinton fece in modo che Joseph imparasse il mestiere allora proibito dello stampatore — ma non a Philadelphia, dove la consuetudine suggeriva agli stampatori bianchi di rifiutare apprendisti Negri, bensì a Boston, dal fervente abolizionista bianco Wil-

liam Lloyd Garrison. Tornato a Philadelphia, Joseph aprì una stamperia e sposò una signorina della Georgia con un retroterra simile al suo. Elizabeth Harnett era figlia di uno schiavista scozzese e di una donna libera di colore.

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Ghe sollievo deve essere stato per questa giovane coppia poter parlare tranquillamente del loro passato e di quello dei loro genitori! Il libro di Willson avrebbe influenzato il tono dei successivi centocinquant’anni di prosa dedicati all'argomento. L'idea stessa che nella comunità di colore vi siano “classi elevate”, dichiara l’autore, “susciterà senza dubbio l’ilarità di una società prevenuta nei riguardi della sua esistenza”, ciononostante "è assolutamente cor-

retta e appropriata”. Willson si prefigge di “rimuovere” il pregiudizio diffuso e infondato del lettore bianco. Si prefigge anche di correggere l'eccessiva enfasi di scrittori inglesi come Frederick Marryat,

Harriet Martineau e Frances Trollope che nel plauso ge-

nerale avevano messo alla gogna le abitudini e i costumi americani. Così facendo mostra di essere perfettamente in grado di dare giudizi letterari ed etici sul mondo

dei bianchi. E, sebbene intenda

trattare talune “pecche” comportamentali della società di colore, garantisce alla sua gente che “potrà verificare come nulla, se non l'influsso dei sentimenti più alti, abbia guidato la penna del loro umile servo, l'Autore”. Willson è chiaramente sulla difensiva, come lo saranno genera-

zioni di cronachisti in futuro. “Un mondo vittima di pregiudizi è caduto troppo a lungo nell'errore di farsi un'opinione su quelle che possono essere definite le caratteristiche, o le abitudini sociali, delle classi elevate della buona società di colore, attraverso individui che ai loro occhi vestono in qualunque circostanza i panni dei ‘tagliatori di legna e portatori d'acqua’. Una valutazione tanto sconsiderata — giudicare la bellezza di un paesaggio dalle cupe ombreggiature sullo sfondo del quadro — è stata all'origine di tante calunnie infondate e ingiuste sul loro carattere generale, e il comune senso di giustizia impone che sia rimossa”. Per dimostrare il proprio acume intellettuale, Willson elenca i criteri che di norma definiscono le élite — benessere, cultura, occupazione, nascita, rapporti tra famiglie — e poi li qualifica. Il ceto elevato è per lui “quella porzione della società di colore il cui reddito,

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derivante da lavoro o altre attività (escluse, ovviamente, quelle immorali o criminali), permette loro di essere proprietari di immobili e di mantenere le famiglie in relativo agio e benessere”. Inoltre, tale reddito consente loro, e in questo l’istinto li incoraggia, di studiare, farsi una cultura e sostenere cause come la temperanza e l’abolizionismo. Willson ha deciso di tenersi alla larga dalle vanterie, dalla pomposità. Ha deciso di fissare standard sublimi, di dubitare (seppure con un filo di retorica) del valore di qualunque eccellenza che non poggi in primo luogo sulla virtù. Ha rispetto per la mobilità sociale verso l'alto se questa riflette una crescita dell’individuo. Deplora le faide e le rivalità meschine che ostacolano il processo di avanzamento razziale. Dovrebbe dunque sorprenderci che scriva in una prosa formale e vagamente settecentesca,

che citi Shakespeare, Alexander Pope e

Thomas Gray, e che gli piacciano metafore ed espressioni molto elaborate? Il meccanismo dell’orologio non riuscirebbe nei suoi scopi,

a meno

di non esercitare una pressione sulla molla;

e, sebbene gli oggetti inanimati non possano

essere accostati

all’animo umano, in base allo stesso principio non è lecito aspettarsi che un uomo raggiunga le vette in un determinato campo laddove, come accade all'uomo di colore, non solo incontri una totale assenza di incoraggiamento — di qualunque pressione, di qualunque motivazione plausibile che lo spinga in avanti —, ma gli sia totalmente precluso l'esercizio dei suoi diritti legittimi, anche nel caso in cui ne fosse all'altezza!

Non esistono testimonianze che indichino che voce avesse, ma doveva avere certamente eliminato qualunque traccia di accento del Sud. Il termine di paragone che ha scelto è a mio parere straziante:

24 la tensione tra un meccanismo costruito in modo perfetto e l'animo umano che vorrebbe funzionare in modo altrettanto perfetto, perché com'è ovvio l’uomo non potrà mai raggiungere quel grado di perfezione, non più di quanto un Negro nell'America prebellica potesse aspettarsi un’uguaglianza o un rispetto assoluti. Perché ha scelto lo pseudonimo “un Uomo del Sud”? La paternità dell’opera era ben nota all’élite di colore di cui scriveva. Ma gli offriva un'apparenza di riserbo che, deve aver sperato, poteva placare il timore largamente condiviso secondo cui una qualunque critica pubblica avrebbe infiammato l’ostracismo anglosassone. A momenti Willson sembra insinuare che soltanto “un Uomo del Sud” può sapere quanto siano fragili i diritti di un Negro, anche al Nord. I Negri della Pennsylvania farebbero bene a dedicarsi ai loro interessi “così come fanno i corteggiatori; e a mostrarsi molto umili anche nell’esercizio di tale prerogativa”. Forse era convinto che quel soprannome avrebbe incoraggiato i lettori bianchi del Nord a considerarsi più progressisti degli schiavisti del Sud, e quindi a dare maggior credito alle sue osservazioni. Però, dopo aver ricevuto un numero limitato di recensioni positive sui giornali sia Negri sia bianchi, il libro sparì dalla circolazione. I recensori bianchi si distinsero per un'amabile condiscendenza. Uno di loro, un abolizionista, “diede un’occhiata” all'opera e concluse che “dall’apparenza esteriore si direbbe credibile”, e che l’autore, “di colore egli stesso”, dimostrava un certo talento per la scrittura. Un altro lodò Willson perché correggeva “gli errori” dei suoi simili, non rendendosi conto di quanto Willson fosse più incline a correggere quelli dei bianchi. I recensori Negri si affannarono a dimostrare di essere aggiornati sullo stato del dibattito: uno riportò la “disapprovazione” di alcuni membri delle classi superiori, un altro, vista la delicatezza del tema, encomiò l’ardimento morale dell’autore. Avevamo già iniziato a elencare in dettaglio le nostre conquiste: scritto “in uno stile piuttosto bello” (c’è forse un tocco di competizione fraterna?), il libro di

25 Willson, annotò il recensore, stri autori”.

“va ad arricchire il numero

dei no-

Quasi vent'anni dopo — due prima della Guerra Civile — Cyprian Clamorgan dà alle stampe The Colored Aristocracy ofSt. Louis. Questo autore ci offre un punto di vista più mondano e pittoresco. I tempi sono cambiati e, in linea con un nome

tanto sontuoso

e roboante,

si concede il piacere di qualche libertà espressiva. Clamorgan esordisce mettendo in chiaro di essere un uomo che ha familiarità con diverse persone importanti, da “Fred. Douglass e i suoi validi compatrioti” ai viaggiatori di alto rango del Settecento, come suo nonno, discendente da una delle Prime famiglie bianche di St. Louis. Nel corso dei loro viaggi, spiega Clamorgan, questi uomini, commerciando in terre, pellicce e schiavi, a volte “ricevevano in cambio delle mogli” con sangue africano nelle vene, e da tale mescolanza è nata l'aristocrazia di colore cittadina: "quelli che frequentano circoli, che per ricchezza, cultura o abilità naturali, formano una classe specifica — l'élite della razza di colore”. In base a tale pratica suo nonno ricevette e si ritrovò più di una moglie, fu il padrone di tutte e non ne sposò neanche una; sua nonna era la terza delle cinque donne che avevano dato alla luce figli suoi. I Clamorgan di colore ereditarono ibeni di questo notabile, al quale il re di Spagna pare avesse assegnato, nel 1796, circa mezzo milione di acri. Cyprian appartiene a quella che vezzosamente definisce “la professione di barbitonsore”. Dopo aver iniziato come barbiere in uno dei migliori hotel della città, si era messo in affari con i fratelli, proprietari di un "negozio di eleganti fragranze francesi e inglesi, articoli da toletta e alla moda, spazzole, pettini, rasoi e simili”. Giacché molti aristocratici di colore sono

“cavalieri del rasoio”,

può essere, si chiede, che siano loro gli unici uomini della comunità a godere di libertà d'espressione? Dopotutto “prendono per il naso un bianco senza offenderlo e senza causare versamenti di sangue”. Adorava fare battute.

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Cyprian ostenta i propri natali e il colore della pelle tanto quanto l'aspetto, le sostanze, le proprietà e il buon gusto della sua gente; si

considera più un'autorità mondana che un cronachista. Joseph Willsson avrebbe avuto un fremito di orrore al pensiero di dichiarare quanto guadagna un gentiluomo, di discutere gli amori di una signora

o di celebrare chi “è separato dai bianchi da una linea così leggera da poter essere individuata solo dall'occhio acutissimo del pregiudizio”. Ma abbiamo abbandonato l'Est per una città in cui i modi bruschi del West si mescolano al lusso sudista, dove il sangue è bollente, dove le fortune e le reputazioni si fanno e si disfano da un giorno all’altro. Di conseguenza il libro è concepito come un tour di abitazioni importanti, veicolo di promozione

da una parte e pubblicazione

scandalistica dall'altra. “Qualora il lettore volesse seguirmi lungo la Settima Strada per arrivare dai Rutgers, vedrà un grande palazzo che occupa, compreso il cortile e gli edifici annessi,

mezzo

isolato. Una volta entrati, lo

presenterò alla padrona di casa”. Intende la signora Pelagie Rutgers, un'ex schiava che aveva comprato la propria libertà per tre dollari e che adesso vale mezzo milione: “La signora Rutgers è analfabeta ma vive con stile; in casa ha un pianoforte che è costato duemila dollari, ma la figlia, ricchissima, l’unica erede della sua immensa

tenuta,

non sa suonarlo”. L'affascinante Samuel Mordecai ha costruito la propria fortuna al gioco, “e quando è in vena è capace di portare a casa anche centomila dollari”; la figlia è andata a studiare in Inghil-

terra e lui parla di volersi stabilire a Parigi, dove “sarebbe accolto nei circoli più prestigiosi”.

William Johnson aprì un negozio di barbiere, mise da parte i soldi, acquistò un caseggiato cittadino per mille dollari quando i prezzi degli immobili erano bassi, e in seguito lo rivendette a centomila: “Una speculazione niente male per uno di colore!”. Cyprian encomia le signore per la loro intelligenza ma si sofferma in modo assai più particolareggiato sulla tonalità della loro pelle, su quella dei loro capelli, e sui loro successi e scivoloni in società.

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London Berry “è un brav'uomo, con un unico difetto: un’eccessiva passione per le carte”. Di recente, però, sua moglie ha commesso l'errore di partecipare a un ballo dato da “gente di colore di seconda classe” ed è stata bandita dalle feste più eleganti. Il commento dell’assennato Cyprian: “E indubbio che siano entrambi dispiaciuti della loro condotta, ma il prossimo inverno saranno riammessi e quell’avventatezza gli verrà perdonata”. La “"malridotta” signora Pelagie Foreman, annota con soddisfazione, era un tempo un'affascinante ma impertinente “mucchietto di carne gialla”, che una volta si era presa una bella frustata, sicuramente meritata, dal suo amante bianco; le sue imprudenze ne hanno fatto una reietta, benché resti (questo lo annota con approvazione) una proprietaria accorta che “può disporre liberamente della somma di centomila dollari tondi”. Altre città, al Nord e al Sud, vantano élite prebelliche variegate: tra le più antiche ci sono quelle di Boston, New York, Baltimora, Washington,

D.C., Lexington,

Fayetteville, Natchez,

Cincinnati e

Cleveland. Da un punto di vista sociologico, si va dalla piccola, alla media e all'alta borghesia. I loro antenati, come non dimenticano mai di millantare con orgoglio, raggiungono le vette più elevate della buona società bianca. Sono ben accetti anche i legami con l'aristocrazia africana e indiana. Cyprian Clamorgan conclude il suo Colored Aristocracy con la promessa di scrivere un nuovo volume dedicato ai cittadini di colore di “seconda” classe di St. Louis — gli animatori di quei balli a cui l'aristocrazia sa di non dover partecipare, ma le cui gesta “sorprenderebbero molti dei nostri amici bianchi”. Ma è il 1858. Clamorgan aveva iniziato il libro con un’invocazione a Harriet Beecher Stowe,

Solomon

Northup e Frederick Douglass; aveva definito il

Partito dell’emancipazione del Missouri “il risultato dell’azione solidale e instancabile degli uomini liberi di colore di St. Louis, con-

sapevoli che l'abolizione della schiavitù in Missouri rimuoverebbe lo stigma che grava sulla loro razza, facendoli avanzare lungo la scala

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sociale”. Il secondo libro non uscì mai. Sarebbe toccato alla Guerra Civile far progredire uomini, donne e bambini, benestanti, poveri,

liberi e schiavi di colore.

29

1861-1865: Al Sud gli schiavi costruiscono i fortini confederati, fabbricano l'artiglieria confederata, si prendono cura delle ferrovie confederate e accudiscono i loro padroni negli accampamenti militari confederati. Le schiave lavorano nei campi in cui si produce il cibo per l’esercito confederato, cucinano e fanno le pulizie per le padrone confederate che ora, in assenza dei loro uomini, amministrano fattorie e piantagioni; si occupano dei bambini delle padrone confederate, oltre che dei loro bambini, cucinano e fanno le pulizie e le infermiere per i soldati negli ospedali confederati. Mentre la guerra continua, gli schiavi iniziano ad abbandonare i loro padroni, ad abbandonare i campi e le città confederate per trovare rifugio negli accampamenti unionisti, dove — considerati “merce di contrabbando” e non proprietà in stato di schiavitù — costruiscono fortini, riparano le ferrovie, trasportano provviste e attrezzature e prestano servizio come esploratori e spie per le truppe

unioniste, mentre le schiave cucinano e fanno le pulizie negli accampamenti, lavorano come infermiere per i soldati, prestano servizio come

esploratrici e spie per le truppe unioniste,

e si prendono

cura dei figli che hanno portato con loro. I Negri liberi lottano per sconfiggere o evitare le nuove leggi che limitano le loro libertà. Una minoranza di mulatti della classe elevata giura fedeltà alla causa sudista e si arruola volontariamente (quasi tutte le offerte vengono respinte: l’esercito confederato non

30

gradisce l'uguaglianza nella spada e nel moschetto). I Negri che possiedono terre e schiavi devono metterli a disposizione per rifornire di cibo e forza lavoro le truppe confederate. Gli altri, i meno

esposti, rimangono

nell'ombra,

e soprattutto fanno quello

che possono per sostenere la causa della libertà: si preparano a diventare maggiorenti non appena,

finita la guerra, la schiavitù di-

venterà una reliquia del passato,

e ci sarà una

comunità

Negra e

collegi elettorali da amministrare. I Negri liberi emigrati verso nord poco prima della guerra hanno imparato le verità scomode che i Negri del Nord conoscono da tempo: gran parte degli alloggi pubblici sono loro preclusi, gran parte delle chiese sono loro precluse, gran parte delle scuole sono

precluse ai loro figli. La legge e le usanze limitano il loro diritto a fare leva sulle proprie abilità professionali, e ad acquisirne di nuove: i bianchi non li vogliono come rivali. A due anni dall'inizio di una guerra che l’ Unione teme di perdere, il Proclama di emancipazione libera gli schiavi. Ai maschi Negri è finalmente consentito di arruolarsi nell'esercito unionista. Lo fanno all'incirca in 180.000, al Nord e al Sud. È un'occasione per dimostrare le loro capacità e la loro lealtà; è un nuovo mercato del lavoro, anche se per gran parte del conflitto riceveranno una paga più bassa delle loro controparti bianche. La guerra offre nuove occupazioni anche alle donne Negre, o perlomeno nuovi contesti per lavori antichi. Molte di loro continuano a cucinare, a fare le pulizie, a fare il bucato, a cucire e a fare le infermiere per il loro paese, sia negli ospe-

dali sia negli accampamenti militari unionisti. Sono pagate meno, per tutta la durata della guerra, delle loro controparti bianche. E tuttavia, per un piccolo gruppo di Negri liberi che rivendicano

l'appartenenza ai ranghi più elevati del movimento abolizionista, ci

sono opportunità decisive. Alcuni sono liberi da anni: sono i maggiorenti delle loro comunità. Alcuni sono ex schiavi che si sono fatti apprezzare a livello nazionale pubblicando la storia della loro vita. Questi uomini e queste donne attraversano l'America e l'Europa

31 per tenere conferenze sui danni della schiavitù, per sostenere un'emancipazione immediata, per raccogliere fondi da destinare ai soccorsi di guerra. Alcuni si recano anche al Sud per insegnare a leggere e scrivere a schiavi entusiasti e provvisoriamente liberi (i

cosiddetti “contrabbandi” dell'esercito unionista). È un'opportunità unica e un profondo shock culturale. Ottobre 1862: Charlotte Forten arriva in South Carolina. Viene da una delle famiglie di colore più in vista di Philadelphia, abolizionisti influenti fin dal Diciottesimo secolo (suo nonno era James Forten). È stata la prima della razza a ricevere un diploma dalla Normal School di Salem, Massachusetts, e arriva a Port Royal per

insegnare a leggere e scrivere ai “contrabbandi” gli schiavi liberati dall'esercito unionista. "Sul pontile c'era un gruppo eterogeneo: soldati, ufficiali e ‘contrabbandi’ di qualunque sfumatura e statura. Quasi tutti, in verità,

erano

neri, e certamente

gli esemplari più

penosi che avessi mai visto” racconta nel diario. Quella stessa sera, mentre attende nella stanza dell’ufficiale di commissariato, incontra “il piccolo ufficiale in persona... un perfetto damerino, e que-

sti, insieme al colonnello non-so-cosa, un uomo dall’aria niente affatto più assennata, ha conversato in modo elegante, evidentemente a nostro esclusivo beneficio. Hanno usato con insistenza la parola ‘nigger’, pertanto li ho immediatamente collocati tra i non gentiluomini”. Forten ha venticinque anni e ha passato la vita a studiare il francese e il latino, l'astronomia e la storia, a leggere Spenser, Milton e Elizabeth Barrett Browning, Dickens, le sorelle Bronté, Emerson

e Stowe, “The Atlantic” e “The Liberator”. Ha fatto amicizia con abolizionisti influenti, di colore e bianchi, partecipa con la massima diligenza a convegni letterari e incontri antischiavisti, è solita

denigrare le poesie o gli articoli che pubblica di tanto in tanto sulle riviste antischiaviste. Inveisce contro i pregiudizi, grandi e piccoli; si deprime ("Mi stupisce che le persone di colore non siano tutte misantrope. Abbiamo

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senz'altro tutte le ragioni per odiare il genere umano”), e poi si fustiga per non essere abbastanza stoica. Si sforza di diventare completamente altruista. “La coscienza mi dice di no, che è ignobile disperarsi, [...] facciamoci coraggio, senza mai smettere di lavorare, sperando e credendo che se non sarà per noi, per un’altra generazione ci saranno giorni più belli e luminosi”. Poi torna a dubitare di sé stessa. Non è una misantropa, è una malinconica: è una gentildonna depressa. Ligia e ostinata, prima che la cattiva salute mini le sue capacità di guadagnarsi da vivere insegna in una scuola elementare bianca del Massachusetts e in una scuola elementare nera di Philadelphia; desidera andare in Italia, essere un genio della letteratura, fare qualcosa che la renda “famosa per sempre”. Dubita delle sue capacità e delle sue opportunità. Infine dichiara: “Pregherò affinché Dio, nella sua infinita bontà, mi renda nobile al punto di trovare la somma felicità nell’adempiere al mio dovere”. È molto facile, irresistibilmente facile, condannare o perlomeno deridere i suoi atti di devozione, il decoro che la ottenebra, l'ombra di un ingenuo snobismo. Com'è felice e sorpresa che alcuni dei suoi studenti siano così brillanti; quanto è ridicola nell’annotare la loro vitalità e prestanza fisica (il leader del coro, una domenica, è Prince: grosso, nero e “colmo di uno spirito urlante [...] era spassoso vedere le sue esecuzioni ginniche. Erano nel più perfetto stile metodista etiope”). “Queste persone sono dotate di un grande talento musicale” scrive in una lettera a “The Liberator”, aggiungendo, come hanno fatto e faranno tanti ascoltatori bianchi, che le loro canzoni sono praticamente impossibili da descrivere: “Sono così sfrenate, strane, eppure sempre dolci e armoniose”. E quanto le piace la galanteria di Thomas Wentworth Higginson e del colonnello Robert Shaw! Ma poteva essere altrimenti? I bianchi progressisti dell'Est sono stati parte integrante del suo mondo fin dall’infanzia: i “contrabbandi” e i Negri della classe operaia no. E i Negri liberi sono stati

Sa

costretti a fare affidamento sulla correttezza dei progressisti. Sappiamo che gli schiavi distinguevano tra bianchi buoni e bianchi cattivi, e che si comportavano di conseguenza. I Negri liberi facevano lo stesso. In entrambi i casi può esserci uno sfoggio di gratitudine (entusiasta, servile, un tantino abietta) che ci fa rabbrividire. Nondimeno, Charlotte Forten riesce a stabilire una relazione sincera con alcuni dei neri di Port Royal. E quando il reggimento

nero di Higginson si prepara per andare a Jacksonville, Florida, la invitano a seguire i soldati come insegnante (ma l’evacuazione della città cancellerà il viaggio). Polmoni malati, emicranie invalidanti e solitudine — ciò che in seguito definirà premonizioni della follia — la riportano a casa dopo diciotto mesi. Qui, divorata dal senso di colpa, si dedica alle organizzazioni che istruiscono le schiave e gli schiavi liberati del New England. Aspira “alla più nobile delle ricompense”, come scrive a un'amica: "Il sapere che stai dedicando la tua vita alla rigenerazione di un popolo troppo a lungo calpestato & sofferente”. Finisce la guerra, inizia la “Ricostruzione”. vendicati,

assicurati,

sottratti;

I diritti vengono ri-

pretesi, ripristinati,

rettificati. Le

opportunità inseguite e strappate con i denti, concesse

e poi riti-

rate. Un emendamento costituzionale proibisce la schiavitù. I neri del Sud coltivano la loro terra, danno vita a piccole imprese e si avventurano

in nuove

professioni;

aprono

più scuole e chiese, cer-

cano di istruirsi sia nelle scuole bianche di lunga tradizione sia nelle scuole nere appena fondate; chiedono paghe migliori, ottengono

visibilità politica nei governi locali e federali. E, fin dall’inizio, gli stati del Sud fanno ricorso a mezzi legali e

illegali (leggi, violenze occasionali, terrorismo organizzato) per contrastare l'aumento salariale e l'equità nelle pratiche di assunzione; per far tornare i Negri al modello lavorativo della pianta-

gione, che verrà chiamato mezzadria; per limitare o negare l’avanzamento politico agli uomini, alle donne e ai bambini Negri; per

34 limitare o negare l'istruzione agli uomini, alle donne e ai bambini Negri. A ogni progresso corrisponde un nuovo attacco:

1865 e 1866: approvazione di una legge sui diritti civili; fondazione del Ku Klux Klan. 1868: Il Quattordicesimo emendamento concede il diritto di voto ai maschi Negri. Il Quattordicesimo emendamento nega a tutte le donne — Negre, bianche e altro — il diritto di voto. Cinque anni più tardi il Quindicesimo emendamento vieta ai governi statali di ricorrere a sistemi che privino i cittadini del diritto di voto sulla base della razza. Il Quindicesimo emendamento non protegge il diritto dei neri di accedere a incarichi politici. Né vieta agli stati del Sud di attaccare e scagliarsi contro tali diritti costituzionali tramite una valanga di leggi chiamate Black Code o le aggressioni terroristiche del KKK. Nonostante tutto questo,

i Negri conquistano risorse politiche e

una limitata autorità, sia sociale che politica. Nei decenni successivi alla guerra i Negri liberi che prima del conflitto godevano di privilegi e i Negri appartenenti agli strati più alti della schiavitù acquisiscono potere come politici e personalità influenti delle comunità. Si adoperano per mantenere un equilibrio tra i loro privilegi in continua crescita e i doveri, anche questi cresciuti, nei

riguardi di una sempre più vasta comunità Negra.

Ma a questo punto intervengono nuovi attori. Chi un tempo viveva in schiavitù o sui gradini più bassi della classe dei Negri liberi adesso si trova in condizione di cogliere al volo le opportunità e di fornire a una popolazione impaziente sia buone scuole, negozi e ristoranti, sia chiese, assicurazioni sulla vita, prodotti per i capelli e benefici culturali.

Diventano

anche loro insegnanti,

avvocati,

becchini, dottori, giornalisti e alcuni ambiscono a diventare artisti.

35

Studiano chimica e zoologia, il greco, il latino e le lingue romanze. Mandano

i figli nelle università Negre che crescono

di numero,

talvolta li mandano nelle università bianche, di tanto in tanto anche all’estero per ampliare i loro orizzonti culturali. Le vecchie famiglie devono dimostrarsi all'altezza: la fine della schiavitù non ha liberato una popolazione e basta; ha liberato i vincenti, gli ingegnosi, gli arrivisti dei ranghi più bassi. Chiamateli come preferite. Le vecchie élite non mancano di notare che la maggior parte di queste persone hanno la pelle più scura, che hanno modi ruvidi e abitudini sregolate. Le loro abitazioni e il loro guardaroba sono giudicati chiassosi, le voci hanno un evidente timbro del Sud, la loro grammatica può essere... anomala. Ma sono qui. Raggiungeranno

i loro

scopi e avanzeranno;

pagando

o nego-

ziando, riusciranno a infiltrarsi nella vecchia élite e stabiliranno la loro élite competitiva ed energica.

Che fine hanno fatto i vecchi aristocratici come Joseph Willson, Cyprian Clamorgan e Charlotte Forten?

A Joseph Willsson è andata a gonfie vele: adesso è il dottor Wilsson, dentista. A veland, una città delphia. Ha uno Negri rispettabili

metà dell'Ottocento ha portato la famiglia a Cleche vanta un'élite stabile come quella di Philastudio prospero, e tra i suoi pazienti ci sono e anche caucasici; la moglie di Joseph, Elizabeth,

ha fama di essere un'eccellente musicista e un'ospite raffinata. Joseph ed Elizabeth aderiscono a una prestigiosa chiesa episcopaliana bianca, oltre che a un circolo il cui scopo è “promuovere i rapporti sociali e culturali tra le famiglie di colore più istruite” della città. Il loro figlio maschio diventa avvocato, le figlie insegnanti (una tipica divisione di genere sia per questa sia per le successive genera-

zioni). Nel 1878 la figlia minore ottiene una cosa che la nonna materna

schiava non

avrebbe

mai potuto

avere:

un

matrimonio

elegante e alla moda con un influente gentiluomo del Sud. Blanche K. Bruce, suo marito, è un ex schiavo mulatto istruito, diventato

prima insegnante,

poi proprietario di una piantagione

di

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seicentoquaranta acri, e infine senatore del cosiddetto Stato della magnolia, il Mississippi.

A Cyprian Clamorgan non è andata altrettanto bene. Ha fatto due matrimoni

sfortunati.

La prima moglie, Joanna,

è morta,

e

pochi anni più tardi accadrà lo stesso alla seconda, Hebe, e alla loro figlia, Mary. Dalla fine della guerra lavora sui battelli come barbiere e assistente di bordo, tra St. Louis, New Orleans e la contea di Calhoun, in Illinois. Se si rivela vantaggioso si fa passare per bianco (durante la guerra ha vissuto a New Orleans, razza e occupazione sconosciute). Quando è a corto di soldi vende qualche terreno che lui e i suoi parenti hanno ereditato dal nonno importante. La maggior parte non è più nelle mani dei Clamorgan: negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta dell'Ottocento, la famiglia denuncia ripetutamente le compagnie ferroviarie e gli individui che ora occupano le loro terre. Perdono ogni volta. Charlotte Forten ha continuato a lavorare per “un popolo troppo a lungo calpestato & sofferente”, organizzando gli aiuti nordisti per gli insegnanti del Sud, e tornando brevemente al Sud per insegnare. Si trasferisce a Washington, D.C., per lavorare nella Preparatory High School for Colored Youth che diventerà la Dunbar High, rinomata per aver formato i notabili e le bellezze della razza del futuro. Fa l’impiegata al Tesoro. Nel 1878 sposa il ministro presbiteriano Francis Grimké, una personalità influente della razza, e trascorre il resto della vita come autrice, attivista e compagna fisicamente fragile e immancabilmente affidabile.

Sono anni di feroce crescita industriale e tecnologica: ferro, acciaio, ferrovie, elettricità. Di feroce lotta di classe: monopoli contro sindacati, apparati politici contro riformatori civici, immigrati con-

tro nativisti, espansioni e collassi economici, vecchi milionari contro nuovi milionari, una classe media in espansione contro il numero sempre crescente di poveri o semi-poveri. I bianchi istigano sommosse, al Nord e al Sud, e linciaggi, solitamente al Sud; i bianchi

e |

approvano leggi federali e statali che garantiscano l'esclusione o una posizione inferiore ai neri in qualsivoglia attività o spazio pubblici: viaggi in autobus o in treno, ospedali, ristoranti, biblioteche, teatri, parchi, spiagge e scuole, dalla materna all'università.

E i nostri cronachisti come fanno a raccontare tutto questo? Le nostre cronachiste non possono farlo senza parlare di stupro e di miscegenation, cioè di mescolanza razziale. Innanzi tutto devono difendere la loro reputazione, troppo a lungo svilita, di donne Negre, considerate intrinsecamente lascive fin dalla schiavitù e incapaci di essere mogli e madri virtuose. Poi devono denunciare il numero crescente di linciaggi, molti dei quali basati sulla convinzione, emersa alla fine della schiavitù, che i Negri siano tutti stupratori compulsivi di donne bianche.

Nel 1895 Ida B. Wells, una giovane insegnante diventata giornalista, figlia di schiavi affrancati e determinati a progredire istruendo sé stessi e i loro figli, pubblica The Red Record: Tabulated Statistics andAlleged

Causes ofLynching in the United States. La sua “testimonianza” comprende il linciaggio di Negri "per qualunque crimine, dall’omicidio all'infrazione”, il linciaggio di uomini, donne e bambini accusati di sommossa e insurrezione; il linciaggio di Negri il cui successo politico o economico minaccia i bianchi; il linciaggio di uomini Negri che hanno avuto relazioni consensuali con donne bianche. Wells raccoglie le sue prove sia sui giornali bianchi e sulla documentazione legale sia da testimoni e giornali Negri. Le presenta in racconti mento

incisivi, vivaci,

pungenti,

sempre

seguiti da un

ragiona-

appassionato È

L'uomo bianco sudista ritiene impossibile che tra una donna bianca e un uomo di colore possa esserci una relazione volontaria, e dunque, il verificarsi di una tale relazione dimostra che c’è stata una costrizione. Nei numerosi casi di linciaggio in cui gli uomini di colore sono

stati accusati di stupro,

era noto

a tutti, al momento

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del linciaggio, e dimostrato incontestabilmente dopo la morte della vittima, che la relazione esistente tra l’uomo e la donna era volontaria e segreta, e che persino l'accusa di aggressione non avrebbe retto a un processo in tribunale.

Quanto alle legioni di donne di colore lascive, le “leggi contro la miscegenation del Sud valgono solo contro le unioni legali tra razze, e lasciano all'uomo bianco la libertà di sedurre tutte le ragazze di colore che vuole, e [a tale riguardo fornisce prove docu-

mentali] anche di stuprarle”. A Voice from the South, firmato da “una Donna nera del Sud”, esce

nel 1892. La donna nera dietro lo pseudonimo si chiama Anna

Julia Cooper: figlia di uno schiavista e di una schiava, educata a Oberlin (senza ricevere alcun aiuto del padre), insegnante di matematica, scienze e latino nella rispettabilissima Preparatory High School for Colored Youth di Washington,

D.C.

La sua è la prosa di una donna vittoriana scrupolosamente colta e riservata, che pullula di allusioni letterarie, paragoni storici e in-

vocazioni cristiane. Cooper condanna la pulsione “mascolinista” a dominare innanzi tutto in casa e poi nella nazione e nel mondo intero.

Lo pseudonimo rivela il desiderio di farsi interprete della voce collettiva di una Donna Anonima inascoltata e che non gode di stima, un'Anonima nera che parla in vece di, ma anche a, tutti gli oppressi. La causa della donna è — o dovrebbe essere — “legata a quella di qualunque sofferenza sia stata messa a tacere, a ogni ingiustizia che abbia bisogno di espressione”. Come molte protagoniste della lotta per i diritti delle donne, l’Anonima sostiene di credere che le donne possiedano capacità empatiche e doni spirituali che gli uomini non hanno. Ma- e qui si trasforma in una pragmatista politicamente inflessibile — le donne non possono riformare la società senza prima lottare per la

39

propria istruzione. E le donne bianche non possono riformare nulla fintanto che non saranno disposte a rinunciare al loro privilegio di casta, e a quei comportamenti che poggiano sulla medesima superiorità sociale e razziale che decantano nei loro uomini e che trasmettono ai loro figli. Ciononostante Cooper trabocca di speranza: "Davanti a noi si spalancano orizzonti nuovi e affascinanti, proposte originali e radicali per l'allineamento di lavoro e capitale, di governo e governati, di famiglia, chiesa e Stato”. Esulta: “In quest'epoca essere donna offre occasioni e privilegi mai esistiti prima. Ma essere una

donna Negra in America, e comprendere il significato profondo delle possibilità aperte da questa svolta storica, equivale a ricevere un dono, mi pare, un'eredità unica nella Storia”. E lo stesso senso del destino che galvanizza una massa critica di donne Negre privilegiate. Ma sono poche quelle disposte a definirsi nere, come fece Cooper, poche sono apertamente militanti come Wells. Molte insistono troppo per essere considerate “signore”. Orgogliose della loro educazione e raffinatezza, si infuriano e si vergognano di essere incluse tra "le donne semplici, tra le analfabete o addirittura tra le viziose alle quali sono legate per sesso e razza”. Eppure si rimboccano le maniche e si dedicano a riabilitare e riscattare proprio queste donne, e così facendo a far progredire la razza. Creano circoli e associazioni per raccogliere fondi destinati alle scuole e alle case popolari, organizzano asili e scuole per l’infanzia, insegnano

a leggere, a scrivere e a cucire,

insegnano

nomia domestica e igiene, lavorano per il movimento

eco-

suffragista,

per promuovere l'astinenza dall’alcol, per ottenere migliori condizioni lavorative e per far approvare leggi contro il linciaggio. Quando fondano l'Associazione nazionale dei circoli delle donne di colore il motto che scelgono è "Lifting As We Climb”. Ci eleviamo salendo. È vigoroso. Virtuoso. Magnanimo e perentorio. Il Ventesimo secolo ci chiama. Nel1903, il magnanimo e perentorio W.E.B. Du Bois, del New England, pubblica Le anime del popolo

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nero, un’opera che coniuga erudizione, riflessione, attivismo e confessione. Du Bois è un vittoriano ma è anche un modernista. E severo e rigoroso. E orgoglioso: "Quanti uomini e quante donne eccezionali produce una razza — il dieci per cento al massimo?” si chiede in un altro saggio dello stesso anno. "Esiste una nazione che sia diventata più civile con un movimento dal basso?”. Il timido esclusivismo dell’“élite di colore” di Willson si è ora trasformato nel cosiddetto “Decimo di talento”, più aggressivo politicamente e

sociologicamente più rigoroso, dai cui ranghi sono destinati a emergere i maggiorenti della razza. La frivolezza giuliva di Clamorgan è del tutto bandita. La fede cristiana di Cooper non è radicata nel profondo, è piuttosto un tropo morale, una maniera per Du Bois di richiamarsi alle eterne verità di giustizia e ingiustizia. Condivide il romanticismo radicale di Cooper, condivide l’indignazione di Wells per i linciaggi e per le altre barbarie sudiste. Conosce la loro opera. Ma punta ad attirare maggiore attenzione, talvolta anche a loro spese, portando in primo piano l’anima di un intellettuale Negro

— di un intellettuale Negro maschio — orgogliosamente sicuro di sé. Du Bois non potrebbe essere più qualificato. E detta il programma per le generazioni a venire: le persone istruite e i privilegiati dovranno guidare la Massa dei Negri, lottare contro l'oppressione e difendere le conquiste. A differenza dei predecessori, Le anime del popolo nero suscita un dibattito intellettuale e scuote i lettori più attenti su entrambi i lati della sempre più rigida linea del colore.

James Weldon Johnson paragona il suo impatto a quello della Capanna dello zio Tom; Henry James lo definisce “l’unico libro sudista di

valore apparso in tanti anni” — e si lamenta del fatto che ciò dipende dal vuoto lasciato dall’impoverita cultura sudista. La sua reazione illustra un altro tema cruciale di Du Bois. Gli uomini e le donne del Decimo di talento possono anche avere il culto di Shakespeare,

di Dumas e di Balzac (o di Henry James), ma sanno benissimo che nel cuore e nel cervello della maggior parte degli americani sono

41

dei pretenziosi malaccetti che provano a sfuggire la posizione che gli spetta tra i ranghi sociali e biologici più bassi. In pratica, gli uomini e le donne del Decimo di talento devono convivere con una doppia coscienza. O con una delle sue declinazioni. L'altra è la doppia coscienza che deriva dall'aver capito che la storia li ha destinati ad atrocità e calunnie con le quali, per molte ore del giorno, per molti giorni della settimana e per molte settimane dell’anno non desiderano né sentono di avere alcun legame. No, si dicono,

mi sono guadagnato il diritto di badare agli affari che mi consentono una vita agiata — di tener fede ai miei doveri professionali, alle mie aspirazioni sociali, alle responsabilità familiari. Non voglio pensare costantemente a Loro come se fossero Noi. Nel 1948 Du Bois formulerà una critica severa e stringente al Decimo di talento davanti a una boriosa associazione di eminenti professionisti maschi del gruppo. Appellandosi a Marx incoraggerà nei membri del Boule "la disponibilità a fare sacrifici e progetti che portino a [...] una rivoluzione nell’industria e a un'equa distribuzione della ricchezza”. Ha sempre saputo, afferma, che un Decimo di talento avrebbe portato a “un gruppo di individui ricchi, egoisti e indulgenti con sé stessi, il cui primo interesse nel risolvere il problema Negro sarebbe stato personale: libertà personale e vantaggi mondani” senza “il minimo interesse per il destino della massa dei Negri americani”. Nove anni più tardi un sociologo marxista nero al quale Du Bois fece da maestro trasformerà questa sfida in randellate verbali.

È il 1957, e il sociologo di Chicago E. Franklin Frazier pubblica Black Bourgeoisie. Il titolo dice tutto. Nonostante i suoi desideri, il Decimo di talento è ancora nero, e le pretenziosità classiste che lo caratterizzano non sono altro che cascami borghesi. I suoi affiliati hanno un peso politico e finanziario insufficiente, e per consolarsi

si perdono in rivalità e millanterie. Hanno abdicato al ruolo di responsabili esemplari della razza, disprezzano le masse e le evitano come

possono

.

42

Sono degli arrampicatori, non sono aristocratici, bensì degli ar-

rivisti privi di un reale punto d'arrivo. Il loro complesso d’inferiorità emerge nella “lotta patologica per raggiungere uno status all’interno del mondo Negro e nel desiderio di riconoscimento da parte del mondo bianco”. La doppia coscienza si è ridotta a imitare e a trovare consolazione. Frazier respinge l’accusa di traditore. Anzi, lo shock e il risenti-

mento che rileva nei suoi soggetti di studio alimentano le sue certezze. Come avrà modo di dire più avanti con pacata soddisfazione: “Si direbbe che i Negri della classe media si siano visti per la prima volta e, come temevano, abbiano compreso come li vedevano gli estranei”. Non è stato bello. Ciononostante, noi di Negroland abbiamo avuto il nostro ruolo nel movimento per i diritti civili che si preparava a nascere. Siamo stati nei tribunali, tra i giornalisti, per la strada e dentro i freedom bus; siamo stati leader, seguaci e finanziatori. Alla fine degli anni

Sessanta le politiche di sinistra e il nazionalismo culturale hanno donato alla nomenclatura “black”, che in passato evitavamo, uno splendore vivo e sfavillante. Black Power, Black Beauty, Black Studies, Black Man e (in quanto bastione e ornamento) Black Woman. Ci siamo adattati pur con qualche dissapore interno. E ne abbiamo approfittato. Negli anni Settanta la società bianca si affretta a includerci nei suoi ranghi. Diventiamo sindaci e membri del Congresso, giornalisti nei periodici e nelle televisioni bianche, soci o perlomeno avvocati di primo livello negli sudi legali bianchi, investiamo a Wall Street,

lavoriamo per le corporazioni (in genere come responsabili delle risorse umane).

Ma ecco alzarsi la marea del conservatorismo bianco, seguita a stretto giro da una forma accattivante di orgoglio etnico. Ciò porta a una serie di libri e articoli sui gruppi minoritari che inneggiano

43 all’aristocrazia. Un autore prolifico di discendenza anglosassone,

Stephen Birmingham, guida la carica con Our Crowd: The Great Jewish Families ofNew York (1967), Real Lace: America's Irish Rich (19173) e Certain People: America's Black Elite (19777, dalla copertina color mogano, nientemeno). Alcuni dei suoi soggetti di studio giudicano le fonti dubbie e il tono eccessivamente familiare. Per fortuna, l’anno prima, una dei nostri, un’editorialista che scrive della buona società nera, mette insieme un libro strenna che celebra la nostra storia, dal Diciassettesimo secolo alla fine del Ventesimo. È un volume color oro. È Black Society, di Gerri Major: “Ci ho vissuto per più di ottant'anni,” dichiara “e prima di me ci ha vissuto la mia famiglia”. (Ha raccontato per diversi decenni le sue avventure nei giornali e nelle riviste nere). La sua dichiarazione di indipendenza? "L'albero genealogico della miscegenation è stato rimpiazzato da azioni, titoli di deposito, conti correnti bancari, proprietà e/o una posizione professionale di alto livello. Affermano tutti orgogliosamente la loro identità nera”. Non sono dei visionari e non sono anacronistici.

Il libro di Major circola quasi esclusivamente all’interno della buona società nera di cui parla. È una celebrazione, ma non ha nulla di grandioso: è un piacevole oggetto da bicentenario. Manca solo un anno alla fine del Ventesimo secolo quando il racconto della buona società nera da parte di un rappresentante del gruppo trova un editore bianco ortodosso e richiama un'attenzione dei media bianchi che sconfina nell’entusiasmo. Se Major era una narratrice loquace, Lawrence Otis Graham è un brioso chiacchierone sul tipo di Clamorgan:

scrive soprattutto per riviste bianche,

e i neri della vecchia guardia lo considerano l’ultimo arrivato. Il suo Our Kind of People: Inside America's Black Upper Class, del 1999, è un turbine di interviste mondane e aneddoti personali raccolti in tutto il paese. Graham racconta le nostre vecchie usanze e fa in modo di certificare il loro attuale valore tra gli status symbol dell’integrazione: scuole e quartieri “esclusivi” e “prestigiosi”; credenziali

44 professionali “impeccabili” o addirittura “elettrizzanti”; amicizie

e alleanze con “l'élite wasp” e “le celebrità più in vista”. E tuttavia io appartengo a una generazione precedente, quella degli

anni Cinquanta e Sessanta: è di noi e dei nostri predecessori che voglio scrivere. La maggior parte dei bianchi non sa quasi niente di noi, e sono ben pochi quelli ai quali interessiamo. Ci hanno insegnato che rappresentavamo

quanto di meglio si sapesse o si im-

maginasse sulla — e della — vita Negra. Ci hanno insegnato a lamentarci della relativa mancanza di attenzione suscitata dai nostri successi. Ci hanno insegnato che eravamo migliori di molti bianchi, punto. Ma che i bianchi, pur con tutti i loro diritti, lo avrebbero riconosciuto con difficoltà, o forse mai. Non parlo di diritti stabiliti da un governo, ma di quelli elargiti dalla Storia. Questo qui è un diritto di nascita, insegna la Storia. Il privilegio è provvisorio. Il privilegio può essere negato, sospeso,

dato di malagrazia e sommariamente

ritirato.

Il diritto è

sordo al genere di verbi che modificano il privilegio. La nostra gente ha dovuto faticare, ha dovuto strisciare per il privilegio, l’ha dovuto trangugiare in fretta mentre quelli che avrebbero voluto sottrarglielo guardavano da un’altra parte. Tieni gli occhi ben aperti.

45

6 Marzo 1964. Tombstone, Arizona Mia madre ha raggiunto mio padre a Fort Huachuca, Arizona, dove nel corso della guerra sono state assegnate molte unità Negre. L'esercito era ancora segregato, quindi tutte le strutture, dagli alloggiamenti civili agli ospedali, erano doppie. Una per il per-

sonale militare bianco, una per quello nero. L'ospedale della base in cui prestava servizio mio padre era il più grande di quelli riservati ai Negri negli Stati Uniti e l’unico dell'esercito con comando e personale Negri. Questa relativa indipendenza non esisteva altrove nelle forze armate. Come scrive Welton Taylor *, di Chicago, nel suo memoir Two Steps from Glory: A World War II

Liaison Pilot Confronts Jim Crow and the Enemy in the South Pacific: “Tutti gli ufficiali Negri dell'artiglieria da campo, inclusi quelli mandati a Fort Huachuca,

furono costretti a prestare servizio sotto la direzione di superiori diretti e comandanti di batteria bianchi. L'esercito si assicurava che i Negri restassero al loro posto indipendentemente dalla posizione che occupavano”.

Mio padre era capitano. Tra ilpersonale dell’ospedale di Fort Huachuca c'erano alcuni degli amici con cui aveva lavorato al Provident Hospital di Chicago. Il 6 marzo

1944 mia madre era incinta di tre mesi di mia sorella Denise. A Deborah Raines, una sua carissima amica della Delta e della University of Chicago, scrisse:

* Welton Taylor è un ricercatore di microbiologia. Ha insegnato nella facoltà di

Medicina della University of Illinois e alla Northwestern.

46

Carissima Debbie,

Il tuo addomesticamento sembra una meraviglia. E non va male neanche il mio. Da quando sono qui, a cucinare e sprimacciare cuscini, Ronald si è come taftizzato* — e pensare

che è povero come un topo di campagna! (L’ho detto io?).

Sua moglie non è fatta per il lavoro d'ufficio. La Croce rossa sarebbe ok, ma ho sgobbato abbastanza e dovrò tornare nella mischia tra pochissimo, per cui mi conviene battere il ferro finché è caldo (parole sue). Malgrado gli sforzi che hai dovuto fare per farmi venire qui, mi fa piacere essere rimasta tanto a lungo, altrimenti non avremmo

niente che dica che siamo sposati se non l’amore,

e quello lo abbiamo già. Sebbene non abbia acquistato nulla per me, e non ci sia modo di spendere i propri soldi se non per il necessario, direi che è già molto.

Comunque, sono contenta di essere qui proprio adesso, perché è stato il momento peggiore per il mio piccolo adorato. Fortunatamente sta bene, e questo lo imputo

a me e alla mia presenza... Sai già naturalmente che la scorsa settimana abbiamo festeggiato tre nuovi tenenti colonnello e addirittura un colonello, tutti meritevoli. Sono solo infuriata perché non siamo stati inclusi nella cuccagna delle manovre politiche. Per gli ufficiali di rango inferiore nulla...

Abbiamo ricevuto una lettera di Joe Mitchell (Provident Hospital, radiologia) dall'Australia. Sua moglie è tornata a Los Angeles dalla famiglia e lavora all'ufficio postale. La famiglia di Sparky Matthews è qui in visita e al momento

* Taft C. Raines era un chirurgo in servizio al Provident Hospital. Era grasso e robusto

mentre

mio

padre

magro

e ossuto.

47

sono nostri vicini di casa.* È consolante parlare con una donna che non si è fatta schiacciare dalla limitatezza di tante ragazze di qui. Ora come ora Tombstone vanta tredici famiglie Negre. Pare che un paio di scocciatori abbiano cominciato a tormentarsi con “il Problema Negro di Tombstone”, forse perché noi siamo tutti abituati ad avere più di chiunque di loro — altrimenti non sarebbero qui. Giochiamo qualche spicciolo a poker, ruotando ogni sabato di casa in casa, e io e Ronald siamo avanti di 12 dollari. In caserma il morale è talmente basso e il lavoro così scarso che in un mese capita che migliaia di dollari cambino di mano. In due mesi un tizio ha guadagnato 2500 dollari a poker e a blackjack. Ovviamente si fanno anche giochi più innocenti. Shaw, l’ultima volta che l'ho sentito, si dedicava al deuces wild... Ieri sera ho visto La casa sulla scogliera e mi è piaciuto molto. Nessun riferimento alla guerra, e sebbene la trama sia improponibile, è stata congegnata con una tale maestria che la segui con la stessa partecipazione di Rebecca o Cime tempestose. Ho visto anche il film tratto da Jane Eyre e, a differenza dei critici,

non sono rimasta colpita da Orson Welles. In quello stesso ruolo secondo me Luther Adler è stato altrettanto cupo e burrascoso. Alcune parti, però, sono diverse dalla commedia.

Mi è piaciuto anche l’ultimo di Lena,

quello in cui canta Brazilian Boogie. Uno dei suoi costumi non mi è sembrato un granché, e neppure quello di Hazel Scott...

sa Henry “Sparky” Matthews era internista al Provident Hospital. Sua moglie, Harryetta Matthews, diventò una delle amiche più care di mia madre. Î Maurice Shaw lavorava in ostetricia e ginecologia al Provident.

48

Ce l’ha fatta la nostra piccola Frances comesichiama a farsi ammettere al Pyramid Club? Ho sentito che in un modo o nell’altro Richardson dovrebbe fidanzarsi.*

Si tratta di Florence Jace? So che gli è molto affezionato. Da queste parti si dice anche che Horace Cayton e sua moglie hanno divorziato, ma nessuno ha il coraggio di chiedere conferma delle voci che girano. Pare anche che lui faccia l’accompagnatore di Dolores Renfroe e Florence Draper. Adesso il caro Ronald ammonta all'incirca a 73 chili di bellezza mentre io continuo a combattere con la bilancia. Penso che siamo entrambi molto felici di esserci sposati. Di’ a Herta che le auguro di essere felice quanto me, perché non si può desiderare altro.Ì A volte quasi mi dimentico di essere Negra. Non male, vero? Tanti saluti a Taft e ai tuoi. Con affetto, Irma

P.S. Che carina sei stata a chiamare mamma.

Ha molto

apprezzato la tua premura.

* James Richardson era l’oftalmologo in servizio al Provident. Horace Cayton era un sociologo. Il suo Black Metropolis, scritto insieme a St. Clair Drake, sarebbe uscito l’anno seguente. Sua moglie — si sono sposati

e hanno divorziato due volte — era Irma Jackson, un'assistente sociale e un'ufficiale del Wac. Le due signore cui Horace Cayton ha fatto da cavaliere erano due briose “donne alla moda” del bel mondo di Chicago. Un'altra delle Delta, pensa mia madre.

49

i Siamo ricchi noi? Mamma solleva le sopracciglia ben depilate, disegnate con quel colore intenso che rendeva così espressive le donne degli anni Cinquanta. Alzavi l'arcata fatta a matita di tre o quattro millimetri e avevi sconcertato, palesemente disprezzato oppure disapprovato con

quel tanto di ironia che avrebbe fatto cadere l’interlocutore in un altro errore. Le labbra di mamma accennano un sorriso imperturbabile che fa il paio con l'arco sopraccigliare. Mette una breve pausa enfatica tra una parola e l’altra: "Siamo ricchi noi?”... e poi aggiunge: "Ma perché ti interessa?”. Mi interessa perché quel giorno mi hanno detto: "La tua famiglia deve essere ricca”. È stata una compagna, e io prima ho balbettato poi mi sono bloccata... lusingata e umiliata dalla consapevolezza di essere ricca. Alla Laboratory School della University of Chicago dovremmo astenerci da meschinità snobistiche: il nostro dovere è la superiorità intellettuale. I nostri padri sono medici. Le nostre madri vestono alla moda e guidano automobili eleganti. Interrogarmi su cosa possa aver suscitato la domanda mi ha fatto venire l’ansia e un po’ di disgusto. Mamma mi spiega che: “Non siamo ricchi. E fare una domanda del genere è segno di maleducazione. Tienilo a mente. Quando te lo chiederanno ancora, basterà dire che ‘siamo benestanti””

50

Assorbo quelle parole e proseguo perché la compagna ha fatto una seconda domanda. Apparteniamo alla classe elevata ? A questo punto le sopracciglia di mamma si riassestano. Si accomoda nella poltrona del tinello e fa una pausa solenne. Sto per ricevere un insegnamento universale sulle liturgie della classe e della razza. “Ci consideriamo Negri della classe elevata e al contempo americani dell'alta borghesia” dice. “Ma per la gran parte della gente noi siamo ‘Negri come tutti gli altri "79

ii

“D. e J. mi hanno chiesto se conosciamo il loro portiere, il signor Johnson. Pensano che abiti vicino a noi”. (Avevano parlato di lui

con un tale affetto che mi sarebbe tanto piaciuto poter dire che anche io conoscevo bene il nostro portiere, e che gli piacevo tanto quanto al signor Johnson piacevano loro. Vantavano il diritto di essere in amicizia con il portiere che io non avevo). Devo fermarmi qui, però. In queste pagine mi sono

ripromessa

di ricorrere alle iniziali solo nel rievocare disavventure e misfatti dei miei simili. Le loro azioni e le loro parole mi appartengono, i loro nomi no. So bene che quando un dialogo vuole essere reali-

stico le iniziali sono ridicole. Ma non volevo usare i loro nomi. Erano mie care amiche: una fin dalla prima media, l’altra dai vent'anni in poi, e abbiamo imparato a parlare con franchezza di questi argomenti. Erano gemelle e ora sono morte, entrambe uccise dal cancro. Non volevo che qui apparissero inesorabilmente imperfette. Ma per ora sarà così. E dunque: “"Debi e Judi mi hanno chiesto se conoscevo il loro portiere, il signor Johnson. Pensano che abiti vicino a noi”.

“E un quartiere grande”

risponde mamma.

“Perché

mai do-

vremmo conoscerlo? I bianchi pensano che i Negri si conoscano tutti, e vogliono sempre che tu conosca il loro portiere. Per caso loro conoscono il nostro fattorino della lavanderia?”.

si Questo sarebbe Wally, un signore bianco gioviale e dalle spalle possenti, che ogni settimana bussa alla porta sul retro per recapitare le camicie inamidate e ripiegate nei loro sacchetti, insieme ai suoi saluti più cordiali. ‘Buongiorno Ciao ragazze”.

signora Jefferson”

dice.

“Buongiorno

dottore.

"Ciao Wally” cantileniamo noi, e intanto finiamo di fare colazione. Poi, un pomeriggio, durante un fine settimana, mentre mi trovavo

in cucina

con

mamma e l’aiutavo

a fare una

cosa

come

un'altra, tipo sistemare la spesa, senza neppure guardarmi lei ha detto lentamente: "Oggi, da Sears, ho incontrato Wally. Cercavo un aspirapolvere. Ho alzato gli occhi e l’ho visto...”. (Qui si era fermata per prendere le distanze con un'ironia da Rodgers e Hammerstein: “in una sala affollata”). “Si è girato dall’altra parte, per evitare di rivolgermi la parola. Wally, il facchino della lavanderia, ha

finto di non avermi vista”. Se fossimo state su un palco mamma avrebbe fatto una pausa per esprimere qualcosa tramite un oggetto eloquente — una scatola di cibo della marca migliore o una posata particolarmente carina. Alla fine ha detto: "E io non vado mai a fare compere da Sears, se non per gli elettrodomestici”. L'umorismo è ridere di ciò di cui non hai riso quando avresti dovuto: il diritto, in questo caso, di ignorare oppure decidere di rivolgerti con gentilezza al facchino della tua lavanderia in un negozio dove evidentemente lui compra i vestiti e tu vai solo per acquistare elettrodomestici. Nondimeno, Wally ha continuato a consegnarci la biancheria pulita con allegra deferenza mentre noi rispondevamo con una più distaccata — ma non importuna — educazione. Non esisteva una lavanderia Negra altrettanto buona, o migliore, dove portare le camicie di papà? Il nostro lattaio era Negro. È così il nostro portiere, l'idraulico, il falegname, il tappezziere, il dro-

ghiere e il sarto. Anche se non ricordo tutti i loro nomi so che avevano un modo di fare rilassato. Tranquillo. Se un dipendente Negro era sciatto oppure

lento nel proprio

lavoro

(e capitava), mamma

e

52 papà reagivano in due modi. Il primo era con la battuta classica, una

frase tipo: “Beh, anche se non si dovrebbe dire, alcuni di noi sono davvero sfaticati”. L’umorismo è ridere di ciò di cui non hai riso quando avresti dovuto: in questo caso la reputazione di una razza senza macchia.

Il secondo modo di reagire era inquietante: "Alcuni Negri preferiscono lavorare per i bianchi perché il loro status sociale non li infastidisce quanto il nostro”. Allora, facciamo conto che tu sia una donna delle pulizie Negra, che in questo momento è piegata sulle ginocchia a strofinare una vasca da bagno segnata tutt’attorno da un bell’alone scuro di sporco corporeo, perché chiunque abbia fatto il bagno la sera prima ha pensato: Che bellezza. Non devo lavare la vasca perché domani verrà Cleo/Melba/la

signora Jenkins! Sistemata la vasca da bagno controlli dietro il water (dove inevitabilmente

è andato a incastrarsi uno

straccio per pu-

lire); gli asciugamani non stanno più appesi ma sono tutti appal-

lottolati e sei appena uscita dalla stanza dei bambini, dove le lenzuola andrebbero sbrogliate e risistemate quasi a bastonate prima di riuscire a metterle a lavare. Preferiresti osservare le persone per cui fai tutto questo e pensare:

Se il mio futuro resterà uguale al mio passato non sarò mai alposto loro. Oppure preferiresti osservare il tuo datore di lavoro e pensare: Beh, se fossi

andata a scuola come il dottor Jefferson e sua moglie, se a quindici anni, dopo che ci siamo trasferiti qui dal Mississippi, nonfossi stata costretta ad andare a fare le pulizie per dare una mano in famiglia, allora al posto loro potrei starci io. Quale privilegio troveresti più facile da sopportare? Chi sei “tu”? Quanto influisce il tuo profilo sociologico — razza o etnia, classe, genere, storia familiare — sulla risposta che dai? Chiunque tu sia, lettore, tieni a mente per favore che né i miei genitori, né mia sorella, né io abbiamo mai lasciato la vasca sporca solo perché sarebbe venuta a pulirla la signora Blake (io e mia sorella la chiamavamo signora Blake, mia madre Blake). Era grossa, ma non grassa. Aveva i capelli molto corti e molto stirati, e se li premeva fino ad appiattirseli dietro le orecchie. Quando

53

nel seminterrato, dove tenevamo sia la lavatrice sia l'asciugatrice, oppure nella stanza in cui si stirava c'era troppa umidità, i capelli della signora B. rispuntavano su a ciuffetti, in barba alla lozione e al ferro caldo. Non abbiamo mai riso dei suoi capelli perché saremmo state punite. Ma i capelli da Negra che rifiutavano sfacciatamente qualunque riabilitazione ci facevano sempre ridere. La voce della signora B. era del South Side sudista: lenta e nasale. Ora che rivolgo un'attenzione da persona adulta alle cantanti del blues classico, mi rendo conto che aveva la ponderata dizione di campagna di Ma Rainey e i brevi toni nasali di Sippie Wallace. Le vocali addolcite, le consonanti a fine parola eliminate o attenuate. Mamma ci aveva detto chiaro e tondo che quando veniva la signora Blake non dovevamo mai lasciare il letto da rifare. Non veniva certo per occuparsi di noi. Quando diventammo abbastanza grandi toglievamo le lenzuola e prima di metterle nel cesto della biancheria sporca, dove lei le avrebbe prese e lavate, le piegavamo. La nonna

paterna dimamma,

la sua prozia e sua zia erano state a

servizio, di conseguenza non accettava la presunzione inopportuna

dei bambini. La signora Blake consumava i pasti (un pranzo caldo che mamma preparava con gli avanzi del giorno prima) in cucina. Al termine della giornata di lavoro il signor Blake veniva a prenderla in macchina con le figlie. Le mandava a prendere la madre davanti alla nostra porta. Avevano le nostre stesse iniziali. Mildred e Diane. Margo e Denise. Mamma ci accompagnava all'ingresso per dire ciao. Talvolta la signora Blake usciva portando con sé un paio di buste di vestiti ripiegati con cura. Chissà se a Mildred e Diane faceva piacere scartocciare,

esaminare

dinati di seconda mano.

e indossare

quei completi e COOr-

54

“Abbiamo sangue indiano?” chiedo. “Perché lo vuoi sapere?” risponde mamma. Lo voglio sapere dopo aver passato due settimane vivendo come una ragazza della tribù Potawatomi, al campeggio estivo di Palos Park, nella riserva forestale dell'Illinois, dove ho percorso sentieri

a piedi e a cavallo e condiviso lo spazio con cervi, uccelli, anfibi e piccoli mammiferi. Secondo la storia ufficiale del villaggio di Palos Park, nel Diciottesimo secolo gli indiani “scorrazzavano per le montagne” insieme agli esploratori, ai mercanti e ai soldati francesi, ma il primo bianco

che “colonizzò” Palos fu James Paddock, nel 1834. Adesso, centoventi anni più tardi, Denise e Margo Jefferson sono diventate due delle prime ragazzine Negre a frequentare il campeggio di Palos Park, accanto ai discendenti dei colonizzatori bianchi.

E una di queste discendenti mi aveva chiesto se avessi sangue indiano. Quando avevo risposto che non lo sapevo, lei mi aveva studiato il volto e aveva sentenziato: “Ce l’hai di sicuro. Chiedilo a tua madre quando verrà a prenderti”. L'ultimo giorno di campeggio, mentre mia madre scendeva dalla macchina, la piccola discendente si piazzò accanto a me. Mia madre aveva un vestito a strisce bianche e rosa in piqué di cotone. La pelle leggermente scura. Un caschetto di capelli neri alla Claudette Colbert. Sotto gli occhiali da sole neri c'era un naso a becco che si faceva

55 valere. La piccola discendente si girò verso di me, annuì e mi sussurròo: “Te l'avevo detto, hai sangue indiano. Mentre torni a casa chiediglielo”. Perché mai dovrei essere privata di questa informazione? Sarebbe eccitante essere qualcos'altro oltre che una semplice Negra. Aspetto fino a quando non arriviamo a casa, fino a quando io e Denise non ci siamo lasciate alle spalle i racconti sulle compagne e le capogruppo, le passeggiate e i viaggi in canoa, e i successi raggiunti an-

cora

una

mamma

volta con

la nostra

normalità.

Faccio

la domanda

e

sospira.

‘Sssss-ì,”, allungato per esprimere riluttanza “abbiamo sangue indiano. Ma sono veramente stufa dei Negri che non fanno altro che parlare del loro sangue indiano. E veramente stufa dei bianchi che non smettono di chiederlo”. Ecco qui un’inaspettata somiglianza tra Negri e bianchi: il bisogno vagamente patetico di credere che abbiamo sangue indiano o, almeno, grazie ai rituali del campeggio, diritti per parentela culturale. L'anno dopo, al campeggio arriva un'indiana al cento per cento. Io e Denise

facciamo

amicizia con lei, ci piacciono i suoi modi

dolci e le lunghe trecce scure che le arrivano fino alla vita. Misteriosamente, l’ultimo giorno di campeggio, nessuno viene e pren-

derla. Mettiamo a disposizione nostra madre. L. si sistema con noi sul sedile posteriore e comunica il suo indirizzo a mamma. Mentre mamma guida, guida, guida, noi tre diventiamo silenziose. Alla fine arriviamo davanti a un gruppo di palazzi malconci. Niente alberi, niente siepi ben curate. Evitiamo di abbracciarci, ma ci diamo appuntamento all'estate seguente. L. scende dall’auto, si volta e si dirige verso uno di quei brutti casermoni popolari. Indossa la stessa maglietta color ruggine e gli stessi jeans che ha indossato ogni giorno al campeggio. Mamma mette in moto e si allontana veloce. Nessuno fa commenti su L. L’estate successiva, al campeggio di Palos Park non vedo né lei né altri indiani. Ma c'è un altro Negro, R., arrivato qualche giorno

56

dopo gli altri. Fa parte del gruppo dei ragazzi della mia età, è un

po’ cicciottello e porta gli occhiali, seppure non spessi quanto i miei. È indubbiamente più scuro di me, di parecchie sfumature. È color marrone scuro. Non posso fare a meno di notare l’attenzione con cui è stato ripiegato e stirato il risvolto dei suoi pantaloni,

mentre la maglietta bianca e blu, con il colletto inamidato a tre bottoni, sembra essere appena uscita dal negozio. Capisco che ha

dei capelli pessimi perché li porta rasati. Quando arriva il fine settimana la mia capogruppo mi prende da parte. Potresti aiutare R. a inserirsi?, mi chiede. Potresti andare a parlare con lui? Lo chiamano ancora “il ragazzino nuovo”. Sono mortificata. Odio quando vorrei divertirmi e invece la Razza mi richiama a compiti e doveri specifici. Va bene, le dico, sforzandomi di sembrare disponibile. E lo sono. Ancora adesso riesco a vedere noi due, io e R., impegnati in una banale e penosa conversazione.

Dopodiché lui sparisce dai miei pensieri. Non lo incontro più. Ma quello che voglio sapere è: Perché non hanno chiesto a Philip di parlare con R.? Visto che anche Philip era Negro e che era stato lì due settimane anche lui? (Denise è passata alle quattro settimane del Martin Johnson, un campeggio interrazziale dove lei e un gruppetto di amici di famiglia hanno dato vita al loro sottogruppo). Philip era maschio, per cui spettava a lui parlare con Ronnie. Philip era un mio amico, i nostri genitori erano cari amici. Philip aveva i capelli da Negro,

ma

erano

capelli ricci e crespi che

nessuno

avrebbe voluto carezzare. Philip era di un leggero colore olivastro e aveva i lineamenti marcati, quasi eleganti. "Dovevano chiederlo a Philip di parlare con Ronnie!” protestai anni — decenni — dopo, mentre raccontavo la storia a un'amica bianca. “La capogruppo non lo considerava un Negro” replica Elizabeth. Ha visto una foto di noi due a Washington Park insieme alle nostre madri. “Philip appartiene al mondo dei bianchi”. Sì. E l'abbiamo mappato noi. Probabile che le capogruppo non si siano neppure poste il problema. Ma se l’avessero fatto, avrebbero

57 concluso che R. si sarebbe sentito ancora più a suo agio parlando con qualcuno che gli somigliava. Oggi, se ripenso a lui, avverto un moto di dolore. E quel dolore contiene la colpa per averlo guardato dall'alto in basso. E la vergogna. Perché dire che "l'ho guardato dall'alto in basso” è corretto,

ma non è sufficiente. Mi faceva paura.

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A Negroland ci consideravamo la Terza Razza, sospesa tra le masse di Negri e tutte le classi di caucasici. Come il terzo occhio, la Terza Razza possedeva una saggezza, una capacità intuitiva e un sa-

pere illuminato che mancavano alle altre due. I suoi membri avevano cultura, ambizione, eleganza e un'abilità verbale standardizzata. —Se, come dicevamo tutti, troppi di noi si struggevano, desideravano, si sforzavano di essere essere essere Bianchi, Bianchi, Bianchi, BIANCHI...

—Se (come dicevano tutti) molti di noi si vantavano fin troppo del sangue des blancs che per secoli aveva trovato un modo evidente o subdolo di fluire, scorrere e stillare tiepidamente nelle nostre vene e arterie (cefalica, aortica, renale, femorale, giugulare, succlavia e mesenterica superiore)...

—Se assegnavamo un valore eccessivo all’aspetto, agli atteggiamenti e ai costumi considerati anglosassoni per diritto di nascita... I bianchi volevano essere bianchi tanto quanto noi. E anche loro ce la mettevano tutta. Fallivano come noi. Fallivano anche più di noi. Ma potevano passare per bianchi, e così non protestava nessuno.

59

Denise e Margo indossano giacche di lana abbinate con il collo di astrakan. Tengono le mani nascoste nei manicotti di astrakan. Sono in uno stato di auto-fascinazione. È raro che indossino capi abbinati ma questi equivalgono a una dichiarazione. Denise e Margo sono un coordinato e al contempo un pezzo unico. Il loro abbigliamento è la ricompensa per essere due ragazzine immacolate: vestiti di velluto e taffetà con il colletto di merletto, sottogonne, cinturino alla caviglia, borsetta e fazzolettino con le iniziali, guanti di cotone o capretto in base alla stagione, manicotti e giacche abbinate. Cappelli di paglia e fasce per capelli adorne di fiori. Non un fiore singolo, come quelli che si appuntano, ma una sequenza ovale di fiorellini, come una coroncina. La coroncina dell’adolescente perfetta. Non parliamo né ridiamo sguaiatamente in pubblico. Non siamo scomposte. Parliamo in modo chiaro e senza alcuna inflessione. Quando la zia Ruby, un'insegnante delle elementari, viene a trovarci dalla California, mi fa mettere un penny in un salvadanaio ogni volta che dico “perdiana”. Mi piace. Mi piace essere inappuntabile. A Negroland gli standard di bellezza per le ragazzine degli anni Cinquanta sono inesorabili. Le ragazze Negre devono essere sempre attentissime ai loro presunti difetti. Spietate. Devono catalo-

garli e rimediare. - Piedi piatti invece di un arco plantare pronunciato.

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+ Didietro appariscente che rifiuta di scivolare quietamente dentro una guaina, di rimpicciolire e di starsene buono. - “Pelle cinerea”. Sedimento bianco sulla superficie della pelle scura sul quale non si passa da troppo tempo un olio emolliente. Ginocchia e gomiti devono essere curati. "Olio di gomito” non è una metafora. COLORE

DELLA

PELLE

Avorio, panna, beige, grano, tanno, camoscio, fulvo, café au lait e le sfumature più chiare di miele, ambra e bronzo sono i colori migliori. Terra di Siena, cioccolato, tenné, mogano e terra d'ombra (bruciata o naturale) si abbinano meglio a capelli dal discreto al bello e a tratti

del viso dal regolare al deciso. In questi casi il guardaroba femminile deve puntare su toni riposanti. I colori brillanti indicano una donna che vuole mettersi in mostra. In generale, per le donne, le tonalità di pelle più scura come il nocciola, il cioccolato, il nero e il nero con

sfumature bluastre sono proibite. La pelle nera richiama alla mente una disponibilità sessuale indiscriminata e aggressiva. Come minimo, attira attenzione sulla tua razza e può suscitare associazioni degradanti. CATEGORIE

DI CAPELLI

1. I capelli lisci possono diventare delle trecce folte e splendenti che arrivano fino a metà schiena, o addirittura alla vita.

2. I capelli lucidi con onde e ricci: evocano richiami alla Spagna moresca e al Messico. 3. Onde più compatte di consistenza meno setosa: capelli così si possono spazzolare fino a farli diventare quasi lisci, ma vanno trattati con una crema per capelli leggera. L'umidità tende a farli diventare più ispidi alla nuca (“kitchen”) e crespi attorno al viso. Passarci rapidamente un po’ di pettine bollente. 4. Crespi, tipo I. Richiedono un’applicazione massiccia e giornaliera di crema e l’azione regolare di un pettine bollente. Di solito non arrivano più giù delle spalle.

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5. Crespi, tipo 2. Richiedono applicazioni sempre più massicce di crema per capelli e ricorso continuo al pettine bollente. Di solito non arrivano più giù di metà collo. NASI

Quelli che nessuno

desidera sono larghi e piatti, e con le narici

ampie. Le narici ampie non sono mai belle, ma un naso stretto e

affusolato che termina con delle narici dilatate è accettabile, addi-

rittura seducente. Un naso aquilino o a becco indica discendenza indiana. Si può anche chiamare naso romano. I nasi piccoli, sbarazzini, all'insù sono sempre benaccetti. LE FIGLIE

DEI JEFFERSON

Il loro didietro non è piatto, anzi, ha una forma morbida e non è eccessivamente pieno.

Le figlie dei Jefferson non hanno i capelli che rientrano in una delle prime due categorie. La madre ci passa il pettine bollente e l’arricciacapelli. Applica l’olio tutti i giorni; assediati dalla pioggia o da forte umidità i capelli Negri tornano a una consistenza cespugliosa, crespa, ricciuta.

La parola più usata è “cespugliosa”; "crespa” e "ricciuta” sono parole più aspre, dure. I capelli di Denise sono inferiori a quelli di Margo di più di una categoria. Tuttavia, quando era ancora molto piccola, Margo era così sciocca da credere che i suoi capelli sarebbero diventati biondi appena la mamma li avesse lavati. Fortunatamente,

avendola

espressa a voce

alta, questa sua convinzione

in-

cappò in una morte rapida e senza appello. L’olio per capelli ti può macchiare i nastri e i fiori delle fasce per capelli, e anche il bordino interno dei cappellini di paglia più carini che si indossano per le feste della chiesa o in occasioni eleganti — se, quando li metti o li togli, non hai le mani pulite. La signora Jefferson ha un naso aquilino importante. Denise ha un naso piccolo e grazioso, più decoroso che sbarazzino. Sebbene

62

le narici di Margo siano dilatate, non lo sono al punto di attrarre lo sguardo ostinato di un osservatore mal disposto. Entrambe le ragazze hanno bocche piene, ma senza esagerare. Le

avrebbero preferite più piccole e strette, ma la forma è ben definita. Nessuno potrebbe dire che sono labbrute. LE FIGLIE

DEI JEFFERSON

La maggiore,

Denise,

E LA DANZA

CLASSICA

ha un arco plantare più che rispettabile,

anche per gli standard rigorosi di Edna McRae,

la sua insegnante

scozzese di danza classica. L'arco plantare pronunciato del padre è una bellezza che le figlie osservano con estatica avidità quando lui si allunga sul letto dopo una giornata in ufficio. Margo e la madre hanno il piede piatto. Andiamo a vedere tutte le compagnie di balletto che vengono a Chicago. Il Royal Ballet, il New York City Ballet, il Royal Danish Ballet, il Ballet Russe de Monte Carlo, l'American Ballet Theatre.

Studiamo i testi classici sulla danza: A Candle for St. Jude, The Classic Ballet: Basic Technique and Terminology, i racconti su les petits rats, i giovani allievi del corpo di ballo dell’Opéra di Parigi, i profili e le bellissime fotografie dei più importanti ballerini: Alicia Markova, Margot Fonteyn, Alexandra Danilova, Maria Tallchief, Alicia Alonso... Nel catalogo delle caratteristiche fisiche che rendono i Negri inadatti o perlomeno inadeguati al balletto, la corporatura muscolosa e non slanciata è rilevante quanto il piede piatto. Ci sono le eccezioni, e ripetiamo i loro nomi con entusiasmo, ostinazione e senso del dovere. Janet Collins, Metropolitan Opera Ballet

Raven Wilkinson, Ballet Russe de Monte Carlo La pelle di Raven Wilkinson irradiava un pallore sufficiente a giustificare la sua inclusione in una compagnia di ventiquattro silfidi, che si aggirava tra le radure

di un'Europa

immersa

in un’eterea

63 malinconia, e i cui corpi erano mere estensioni luminose di tulle

e satin. La tenue tinta epidermica di Janet Collins rovinava la coerenza narrativa del palcoscenico. Il Ballet Russe de Monte Carlo l'avrebbe ammessa a condizione che si tingesse il volto e le gambe di bianco. Lei rifiutò, prese i body e le calzamaglie e se ne andò. Con le sue scarpette percorse la strada che portava ai musical incentrati sulla razza e sulle favole mitiche (Run, Little Chillun’, The Swing

Mikado, Out ofThis World) e alla danza moderna, dove piccole compagnie di Negri e asiatici si esibivano sui palcoscenici dell’Ymca o negli auditorium cittadini, spesso accanto a quei caucasici etnici (ebrei e cattolici) che difficilmente riuscivano a trovare posto nella danza classica.

Nel 1951, quando il Metropolitan Opera Ballet la scelse per interpretare le diverse eroine di quegli interludi operistici che avevano luogo tra zingari francesi, membri della famiglia reale etiope e semiti

biblici, Janet Collins aveva trentaquattro anni. Era un fatto senza precedenti, così come era noto a tutti che il Metropolitan Opera Bal-

let non era una compagnia di primo piano. Quello di Judy Collins è un ruolo ausiliario, supplementare (Aspettano fino a quando non seipiù all'apice, lamentavano i nostri genitori e i giornalisti. Marian Andersonè stata invitata per la prima volta al Metropolitan Opera solo nel 1955. Faceva l’indovina zingara in Un ballo in maschera, e aveva cinquantotto anni).

Denise, nel 195I, ne aveva sette, quando disse alla mamma che voleva prendere lezioni di danza classica. Sul serio. Fino a quel momento era semplicemente andata a divertirsi con le amiche, sprimacciando il suo tutù alla Beatrice Betts Ballet School. Mamma si consultò con alcuni amici Negri vicini al mondo dell’arte, che conoscevano le migliori insegnanti bianche e che sapevano dire quali tra queste avrebbero accettato un’allieva non bianca. Sua figlia ha un vero talento, dice la signorina Edna McRae,

nel suo

studio in centro, nel Fine Arts Building. Ma, considerando le convenzioni teatrali e ipregiudizi diffusi anche fuori dal palcoscenico, è probabile che potrà danzare

soltanto in una compagnia di soli Negri, come quella di Katherine Dunham. Non ci

64 vergogniamo di Katherine Dunham, ne siamo fieri: è una pioniera della danza di grande valore, con tanto di diploma universitario, e

non di un'università di secondo piano, ma della University of Chicago, quella di nostra madre. Le sue danze caraibiche e africane si basano sulla tesi di dottorato che dedicò alla cultura e al folklore di quelle aree. La parola che si usa di solito in questi casi è “folklore”. Suggerisce l’esistenza di una tradizione, ma si trova qualche

gradino più in giù di “civiltà”. A prescindere dalla loro preparazione tecnica, dall'impegno che hanno messo nello studio e nella pratica, questi danzatori/performer rappresentano rituali che una

vasta parte del loro pubblico crede dipendano più dalla biologia che dall’arte. E allora perché, considerate le ottime scuole di danza

classica di Chicago, Denise scelse di fare quello che molti americani credevano fosse una naturale tendenza del suo corpo? Soprattutto dopo che la sua insegnante le aveva detto che probabilmente quella sarebbe stata la sua unica opzione? Denise è dotata sia di talento sia di arco plantare. I suoi piedi si curvano in modo corretto sulle punte. LE FIGLIE

DEI JEFFERSON

E LA BELLEZZA

La pelle di Denise è terra di Siena bruciata. Margo e sua madre sono café au lait, ele vene blu sulle loro mani sono evidenti a tutti. Questo fatto, già subito dopo la Ricostruzione, avrebbe assicurato loro l'appartenenza alle chiese e ai circoli Negri più rinomati; avrebbe garantito la loro presenza a eventi simili alla cena danzante che negli anni Trenta venne organizzata da un circolo per soli uomini di Washington, D.C., il cui nome era What Good Are We's. “Non portare ragazze di pelle scura” disse l'organizzatore al signor Jefferson, color terra bruciata e ancora scapolo, che all’epoca faceva

l'internato a Baltimora. E lui ubbidì. Quella sera nessuna tra le poche donne presenti era più scura di Margo e di sua madre. Radiosamente in bella mostra c'erano il beige chiaro, il panna, l’avorio e addirittura l’alabastro.

65 Quando guardavano il concorso di Miss America, le sue figlie non pensavano che alla signora Jefferson mancasse qualcosa. “Mamma, potresti essere Miss America!” gridarono la mattina in cui andò a prenderle dopo una notte entusiasmante passata a guardare il concorso in casa della nonna. La risata della madre le fece desistere tanto quanto il sorriso della nonna.

(Queste bambine sanno così poco del

mondo. Non è ilcaso difare loro la predica né di disilluderle, ma non incoraggeremo questo modo di pensare e cambieremo argomento) . Entrambe sapevano perfettamente chi era bella, chi era carina e chi era attraente in base ai criteri di bellezza nazionale. "Attraente” è la parola che indica quelle donne che hanno sfruttato al massimo le loro doti, benché queste non siano sufficienti a renderle carine o belle. Sanno quali abiti possono far risaltare i loro punti di forza, quale trucco attenui i loro difetti. Mamma si considera attraente. Lei e Nonna pensano che la maggior parte delle donne Negre possano essere considerate, al massimo, attraenti, o avvenenti. Qualche anno dopo, mentre continuano fedelmente a guardare il concorso, Denise e Margo provano un'intensa delusione quando a Miss Hawaii, provvista senza dubbio di antenati nativi, è negato l’accesso tra le finaliste. Ma le assegnano il titolo di Miss Amabilità. A quel punto la mamma decide che per noi è arrivato il momento di sapere la storia di Geraldine, una delle ragazze della sua associazione studentesca. In base a tutti i criteri condivisi, Geraldine era una bellezza. L’avevamo vista agli incontri del circolo di mamma e avevamo ammirato la simmetria decisa dei suoi tratti, i capelli splendenti, con

le onde come Jane Russell, la pelle di un bruno messicano. Geraldine aveva vinto il concorso di bellezza Cap and Gown quando diava alla University of Chicago. Era una ragazza seria che non andata in cerca di voti, perché era stata candidata da un amico non le aveva nemmeno chiesto l'autorizzazione. Comunque

stuera che sia,

aveva raccolto la maggioranza dei voti. Quando i dirigenti dell’università scoprirono che si trattava di una studentessa Negra la squalificarono.

66

Il titolo non l’aveva mai desiderato, diceva sempre. Ma non li perdonò mai per averglielo tolto. Pari opportunità non significa forse che un pubblico di americani dovrebbe mostrarsi pronto, incline ed entusiasta quando tu,

una donna Negra di irreprensibile straordinarietà, ti fai avanti per sollevare, suscitare e ottenere la loro ammirazione? Le donne realmente eroiche sono diventate celebri mettendo al primo posto i bisogni altrui. Ciò ha richiesto una fermezza implacabile e la rinuncia a ogni spensieratezza. Ha richiesto la rinuncia alla vanità. Due imponenti signore anziane in due poltrone antiquate occu-

pano la copertina di “Ebony” del febbraio 1953. Vestono con completi dalle gonne dritte, squadrate, che arrivano fino alla caviglia.

Hanno dei cappellini totalmente inadatti in testa. Non mostrano alcun interesse per il mazzolino di fiori rosa che portano appuntato sulle spalle. Una è una Negra, e per questo non apparirà mai sulla copertina di “Life”; l’altra è una caucasica che invece ci è già apparsa due volte,

e che ora fa un’ospitata benevola

e straordinaria

su

“Ebony”. Mary McLeod Bethune è la Negra grossa e robusta. La caucasica segaligna e imponente è Eleanor Roosevelt. Quando delle donne attraenti in completo siedono a gambe incrociate vediamo il cilindro aggraziato della coscia ricoperta di tessuto e poi un secondo cilindro di carne scoperta. Queste due donne, però, pare che non abbiano gambe. Hanno un ventre ampio. Le mani sono poggiate lì, insieme a tutti i guai del mondo.

Di sicuro hanno quell’aspetto perché hanno lavorato indefesse giorno e notte, lottando per sconfiggere le forze del pregiudizio e

dell'ignoranza. Si sono adoperate per dimostrare che persone come noi hanno i loro stessi diritti. Hanno rinunciato ai privilegi della femminilità che invece noi stiamo imparando sulle ginocchia raffinate delle nostre mamme. E tuttavia le nostre mamme vogliono che noi mostriamo rispetto per la signora Bethune. Senza donne come

67 lei, ci dicono, non avremmo alcuna possibilità di essere ragazze Negre perbene e con delle mamme eleganti. Lezione per la Settimana della storia Negra Mary Jane McLeod nacque in una piccola capanna di legno, in una famiglia di laboriosi agricoltori che un tempo erano stati schiavi. Con l’aiuto dei loro diciassette figli i McLeod della South Carolina avevano coltivato diligentemente i loro cinque acri di terra. Talvolta la signora McLeod riusciva a portare a casa qualche soldo in più andando a cucinare per la famiglia del suo ex padrone. Nel corso di queste visite portava spesso con sé la piccola Mary, e così un bel giorno capitò che questa bambina di nove anni, proba-

bilmente per la noia, o per solitudine, vagabondò fino alla stanza in cui stavano studiando dei bambini bianchi. Fece scorrere lo sguardo sopra una schiera di oggetti sconosciuti: matite, lavagne, libri, riviste; mentre allungava la mano per afferrarne uno, una voce le disse: "Quello lì non lo sai leggere. Mettilo giù”, aggiungendo con più gentilezza: “Ora ti mostro le figure che ci sono in quell'altro”. Ma era troppo tardi. La bambina nera era stata umiliata... e ciò la rese ambiziosa. Le ragazzine brillanti e molto ambiziose che vengono da un ambiente umile hanno bisogno di mimetizzare il loro carattere con il buonumore e la fede religiosa. Quando vincono borse di studio per un convitto Negro e per un'università teologica bianca devono lavorare senza sosta, devono dire chiaramente che nessuna mansione è troppo umile, nessun compito sgradito. È opportuno avere

anche un'espressione allegra e franca: aiuta la bambina a entrare nelle simpatie di tutte le maestre (Negre e bianche) intente ad affermare precetti quali la modestia e l'umiltà, mettendola al riparo dagli istruttori maschi, tentati a volte da quei desideri che sono stati incoraggiati a mettere in atto con le ragazze di colore. Mary riuscì a farsi benvolere in ogni scuola che frequentò. Da anziana si sarebbe vantata di appartenere a una stirpe africana pura

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e incontaminata, di discendere per via materna da una popolazione

in cui le donne sono regine. Da giovane non si vantava. Professava la deferenza, il dovere e il decoro. E faceva in modo di eccellere.

Desiderava andare in Africa come missionaria. Il Baptist Mission Service la informò che in Africa non c’era posto per una missionaria Negra, e così tornò nel Sud degli Stati Uniti a fare la missionaria tra le ragazzine nere minacciate dalla povertà, dall’ignoranza e dal degrado. Sulla fatiscente cultura Negra della Florida edificò un impero matriarcale.

Nel 1904 Mary McLeod Bethune (già moglie e madre) aprì il suo Daytona Educational and Industrial Training Institute sulle macerie di una discarica, in una capanna ripulita e tirata a lucido a be-

neficio di cinque ragazzine che avrebbero imparato a leggere, scrivere,

cucinare,

cucire

e appreso

le norme

igieniche

e sanitarie:

sarebbero passate dall’indigenza alla competenza ricevendo in dono il decoro invece della promiscuità. Suo marito non la incoraggiò in modo particolare, e tre anni dopo le loro strade avevano già preso direzioni diverse. Postilla alla Lezione di Storia Negra Lapiccola Carrie Butler del South Carolina aveva cinque anni quando la signora Bethune aprì la sua scuola. Se i suoi genitori avessero potuto farle percorrere le 576 miglia fino a Daytona, nel 1925 la sedicenne Carrie avrebbe potuto studiare per prendere il diploma. Si sarebbe ritrovata con orgoglio all’ingresso di un palazzo denominato Faith Hall, entusiasta di intrecciare scendiletto, impagliare sedie e allevare polli nella casa di suo marito, entusiasta di insegnare ad altre ragazzine come trasformare il lavoro domestico

in princìpi di economia domestica, entusiasta di diventare un'infermiera. Quello stesso anno, dopo aver dato alla luce la figlia dell'avvocato venticinquenne Strom Thurmond

Jr, dai cui genitori era stata assunta come cameriera, Carrie divenne una ragazza madre. Nel 1927 la signora Bethune aveva trasformato la sua piccola scuola in un college a tutti gli effetti. Successivamente fondò il National Council of Negro Women e lottò senza sosta per i nostri diritti, lottò per dimostrare a una nazione dubbiosa che eravamo

operose

69 e magnanime, inclini a migliorare noi stesse, le nostre comunità e le nostre famiglie. A elevarci risalendo il baratro della Storia. Quando Franklin Roosevelt riunì un piccolo gruppo di Negri distinti e di prim'ordine per il suo “Gabinetto nero”, lei fu l’unica donna. Essendo tutti concordi che alla base di ogni donna di successo ci fossero i bambini, fu inviata alla National Youth Administration. Con la convinzione che i Negri potessero occuparsi di ben poche questioni oltre a quelle di loro specifico interesse, la signora Bethune ricevette l’incarico di guidare la divisione della Gioventù Negra. Tramite il National Council of Negro Women riuscì ad ampliare lo spettro d'azione: le sue associate dedicarono le proprie energie alla politica, al lavoro, agli alloggi e ai diritti civili. Esattamente le stesse battaglie che Eleanor Roosevelt, forte della sua posizione, combatteva come first lady. Ora sono vecchie, la signora Bethune e la signora Roosevelt. Ma sono state sempre così, anche quando erano più giovani e le fotografavano in velluto e crépe de chine, con fili di perle e granati at-

torno al collo che ricadevano lungo l’avvallamento del seno. I capelli raccolti in alto, i cappellini aggraziati sono come i ripensamenti di un arredatore frenetico che abbia ricevuto l’incarico di abbellire una casa malinconica. Nulla potrebbe attenuare il naso largo e la pelle scura della signora Bethune, né mitigare le rughe smorte e il mento sfuggente della signora Roosevelt. Eppure a donne così dobbiamo la nostra stessa vita. Ma il loro valore ci deprime nel momento stesso in cui ci incita. Anche nel 1953, a otto anni, non provo alcun interesse per il Bethune-Cookman College. Anche da giovane so che io e mia sorella non ci andremo mai. Lo sanno tutti che il presidente Roosevelt era più bello della moglie. E questa non è la posizione in cui io o le mie amiche vorremmo trovarci una volta sposate. Visto che non possiamo eguagliare quello che ha fatto la signora Roosevelt, ci limiteremo a pagare per essere normali.

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Denise è nella stanza dei nostri genitori, davanti alla toletta di mamma. Prova orecchini e collane, azzarda un sorriso provocante; punta il gomito destro sul piano di vetro del mobile e appoggia il mento sulla mano (una mano da ballerina, morbida ma decisa e leggermente arrotondata). Prima di cena chiederà: “A chi somiglio di più, a Lena Horne o a Dorothy Dandridge?”.

Io intanto ascolto dei dischi. Guys and Dolls, The King andI, Oklahoma! ... Interpreto le sbruffonerie di un libertino, i capricci di una soubrette, la prudenza femminile. Il bel tenentino di Main Line, a Philadelphia, si rende conto di essersi innamorato di una meravigliosa

ragazza dalla pelle scura del Sud Pacifico. È polinesiana e non parla inglese (ma noi sappiamo, anche se il resto dell'America non lo sa,

che Juanita Hall, che interpreta sua madre, in realtà è una Negra). Il tenente ha imparato qualcosa che io già so, una lezione che canta in legato con l’intrepida veemenza di chi è al riparo da tutto. “You've got to be taught to be afraid / Of people whose eyes are oddly made”. Mentre canto insieme a lui faccio in modo che “oddly” suoni in staccato, e arriccio le labbra. Il suo “And people whose skin is a different shade” è sincero, commosso. Lascio intatta la commozione ma attenuo la sincerità, sollevando un sopracciglio. E il fine settimana e guardiamo la televisione. Al Milton Berle Show ci sarà Sammy Davis Jr.

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Al Jerry Lewis Colgate Comedy Hour ci sarà Dorothy Dandridge. Al Frank Sinatra Timex Show Si tratta di svolte decisive nelle Dopo cena ci ritroviamo tutti nostri genitori sono sul divano,

ci sarà Lena Horne.

abitudini del pubblico nazionale. e quattro nella stanza con la tv. I io e Denise spingiamo il pouf più vicino possibile allo schermo oppure ci sdraiamo sul pavimento fino a quando non ci dicono di alzarci. “Signore e signori, diamo il nostro benvenuto a...” Sammy DavisJr arriva sul palcoscenico con la sua tipica corsetta sciolta. Indossa un completo lindo e attillato e un paio di occhiali dalla montatura rettangolare. I miei sono andati a vederlo a New York. Mio padre: "Sa fare proprio tutto!”. Mia madre: “"Assolutamente!”. (Pausa). “Però ha sempre troppa brillantina sui capelli”. Parlavano sempre di come nel mondo dello spettacolo gli uomini tendano a esagerare con la brillantina o a preferire quelle troppo grasse. Di come questi uomini dimentichino spesso di usare quella retina che fissa i capelli in tante piccole onde in rilievo, così da non dare la falsa impressione di essere lisci. Sammy balla (meravigliosamente) e canta (molto bene). Parla in modo chiaro e senza una traccia di accento Negro. Sa riprodurre la neutralità razziale dello stile vocale di Nat King Cole e Billy Daniels e anche lo stile vocale inconfondibilmente bianco di Cary Grant, James Stewart e James Cagney. È una sfacciataggine, ed è molto appagante. Papà si sposta indietro sul divano. Ci accorgiamo che ride. Mamma si protende entusiasta in avanti e schiaccia la sigaretta nel posacenere di vetro color acquamarina. Sammy non è solo, però, non ancora. È accompagnato da due signori pacati e dignitosi che si stanno stempiando. È legato al guinzaglio del padre, Sammy Davis Sr, e all’amabile impresario della sua infanzia, che chiama ancora “Zio Will”. Sammy fa parte del Will Mastin Trio.

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“Guarda come se li tira dietro” commenta mamma impaziente. I due anziani hanno sul volto il sorriso di circostanza delle vecchie spalle del vaudeville, che sanno da sempre come fare da cornice alla star, come tenere il tempo,

indietreggiare, eseguire il proprio numero,

indietreggiare e andarsene — dal palco e dalla memoria. Parlano con un lieve e affabile accento Negro. Vengono da un'epoca che precede la televisione, che precede i teatri di Broadway come quello di Ed Sul-

livan, frequentati da bianchi spensierati in cerca di divertimento; un'epoca che precede gli studi di registrazione televisivi, che precede i tinelli delle famiglie Negre, anche loro in cerca di divertimento,

nella speranza che nessuno gli manchi di rispetto. Will Mastin e Sammy Davis Sr sono folk prima che il folk arrivasse nei musei. “Dovrebbero proprio farsi da parte” dice mio padre con perentoria cordialità. Le narici di Lena Horne si dilatano, senza allargarsi. L'attaccatura del naso è stretta e ben definita. Il naso di Dorothy Dandridge è un pochino più pieno, ma non grosso. E ha una fossetta appena sopra le labbra. Labbra a cuore. Labbra da fanciulla. Lena ha un sorriso largo, ma non le labbra. Ha zigomi alti, ampi, da indiana, per cui il suo sor-

riso deve essere largo per forza. Il labbro superiore è così stretto che mettersi il rossetto non deve essere facile. Come per mia nonna. Lena e Dorothy possono portare i capelli come gli pare e piace.

Sollevati in alto con la frangetta, o ricci come Jennifer Jones, lunghi fino alle spalle con ciocche ondulate, come Elizabeth Taylor, tagliati fino a formare una calottina di ricci capricciosi, come Ava Gardner, che è del Sud e che potrebbe avere un po’ di sangue nero. Appaiono elegantissime, perfettamente a loro agio con gli abiti da sera e le stole di pelliccia. Come mamma e le sue amiche. Ma gran parte della gente ignora che noi Negri ci vestiamo così. Dorothy Dandridge canta in uno studio arredato come un appartamento. Se in uno spettacolo televisivo a cantare è una donna, deve

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sempre esibirsi in un grazioso salotto o nel suo buodoir molto fru fru. Alle sue spalle c'è la sagoma di una finestra con una tenda. Dorothy attende un gentiluomo. Sbircia in uno specchio e fa il broncio. Si siede appollaiata su una piccola sedia imbottita e porta in alto le gambe. Si può allungare su un divanetto. Può prendere su un barboncino vero e abbracciarlo con fare civettuolo. Nel suo appartamento da signorina single, Dorothy Dandridge indossa un pallido vestito da sera tutto gonfio. Ha sistemato i capelli in uno chignon e si è fatta la riga in mezzo come farebbe una padrona di casa della buona società. Porta quattro fili di perle al collo. Abbassa lo sguardo come per vergognarsi del suo comportamento, poi solleva il capo e sorride. "Blow out the candle” canta con impertinenza, Blow out the candle, Blow out the candle so the neighbors won't see! Unisce

le mani

per formare

una

coppa

all’altezza della vita, le

stringe all'altezza del collo — in tvlo fanno tutte le cantanti d'opera —, getta un pochino indietro la testa e sorride ancora. Allunga un braccio, poi lo solleva e muove il polso. E quasi spagnola! Scuote leggermente

le spalle, per non

più di qualche battuta,

e fuori

tempo. Poi oscilla i fianchi, fingendo di non accorgersi che oscillano (“Quel tanto che basta” dice mia madre). Mima l’atto di soffiare su una candela come fanno le cameriere all'opera. Won't you blow the candle.

So there will be no scandal? And no one will know

You've been ki-i-i-ssing me! “Perché non le fanno cantare una canzone decente? Una di Ellington o una di un musical” vuole sapere mio padre. Non è che voglia

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saperlo davvero. Lo sa già, e lo sappiamo anche noi. "Con una canzoncina come quella meglio di così non si può fare”. Lena Horne, invece, si è fatta strada fino a raggiungere i piani alti del musical. Lena Horne canta Cole Porter. Indossa un abito nero aderente con maniche lunghe e trasparenti. Le tende bianche alle sue spalle sono arrotolate e drappeggiate. “While tearing off a game of golf...”. Ah-ah! A mio padre non piace il golf, ma molti dei suoi amici lo adorano.

Il colletto del vestito di Lena Horne ha una decorazione di tulle che si abbina ai polsini, che sono guarniti di tulle. Lena Horne non

fa il minimo movimento. Resta di profilo per tutto il tempo. Ha un fondoschiena perfettamente tondo, non grande. Un braccio è poggiato sul fianco. L'altro si muove di soppiatto verso la sedia elaboratissima di una toletta invisibile, che non fa parte della scenografia. Lena poggia il polso sullo schienale della sedia con cura estrema (mia madre la trova “altezzosa”). Ha mani da ballerina, ma un po’

puntute. Sono mani da ballerina adattate al mondo dello spettacolo. Fa in modo che due dita tocchino la curva della sedia e si muovano

avanti e indietro.

“Ah just adore his asking for more...”. Questa volta pronuncia la “I” come un “Ah”, mentre “adore” suona come “adohaar” e “more” (sul “more” spalanca gli occhi e guarda fisso) lo arrota e lo fa diventare “mohrr”. Le sillabe, invece, rimangono

nette.

Non sono gutturali. Sono

decorazioni intagliate sulla superficie di ogni parola. Lena Horne distende la bocca e poi la apre, allargandola, fino a mostrare i denti. Sono tutti pari e scintillanti, allineati in formazione perfetta. Sorride, ma mentre canta “But my heart belongs to Daddy” arriccia le labbra. Si volta e solleva il mento. Per l’ultimo verso — “’cause my daddy, he treats it so well” — la vediamo solo di profilo. I miei genitori discutono di come muove il volto. Concordano sul fatto che Lena faccia delle smorfie, ma che se lo possa permettere. Perché è bella.

75 E pensare che prima non era niente di speciale. Poi ha sposato Lennie Hayton. Un direttore d'orchestra e arrangiatore, un pezzo grosso della Mgm, che le ha procurato dei motivi raffinati e le ha insegnato a interpretare una canzone con originalità, con brio. A dominare una canzone,

senza lasciarsi intimidire.

Lennie Hayton è bianco, ma quando vedi una loro fotografia su “Ebony”, diresti che quello riconoscente è proprio lui, Hayton. Non manca mai di sorridere. E resta quasi sempre dietro di lei, con i capelli bianchi e un pochino di barba. Lena sapeva il fatto suo. Non è mai incorsa nelle cadute di stile di Dorothy Dandridge. Una domenica sera, all’Ed Sullivan il sipario si apre su Dorothy Dandridge con un abito senza spalline che le strizza i seni spingendoli in avanti verso gli spettatori. Con voce sussurrante, chiudendo di tanto in tanto gli occhi e facendo scivolare il capo all’indietro sulle spalle che dondolano, intona: “He's a smooth operator, a cool sweet potato and a gone alligator”. I'm here to tell you One natural fact

(cHA cha cha CHA CHA CHA CHA!) I like it like that! You drive me wild You make me shout Have mercy Mister Percy Now cut that out! “Mercy Mister Percy?” ripete mia madre, mentre Ed Sullivan allunga il braccio, saluta la signorina Dandridge e annuncia la pausa

pubblicitaria. "Perché non lo chiama direttamente ‘Padrone’ e non si mette a cantare al mercato degli schiavi?”. Lo sanno tutti che Dorothy Dandridge vuole sposare un bianco. Che non le è mai riuscito di trasformare un amante bianco in un marito, e che non smetterà mai di provarci. Lo sanno tutti che Otto Preminger non la sposerà

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mai, anche se lei spera che dopo averla diretta in Carmen Jones lo farà,

e che diventerà la prima Negra nominata all'Oscar come migliore attrice. Carmen era una sgualdrina e ci offende vederla interpretata da una donna Negra, perché questo è proprio quello che pensa la

gente delle donne Negre, però almeno nell'opera francese originale Carmen era una zingara. Due anni più tardi Dorothy Dandridge avrebbe dovuto interpretare Tuptim in Jo e il re — Tuptim è l'elegante fanciulla di Burma, che un padre ambizioso ha promesso in sposa al re della Thailandia, benché lei sia innamorata di Lun Ha, l’uomo gentile e affascinante con il quale era stata fidanzata. Ma Dorothy Dandridge rinunciò al ruolo: Tuptim è poco più di una schiava, spiegò. E per questa risposta la classe dirigente Negra

la osannò. Così facendo Dorothy Dandridge negò a centinaia di ragazzine Negre la possibilità di sedersi estasiate al cinema davanti a una donna Negra che incede leggiadra lungo i pavimenti di un palazzo, avvolta in sete orientali (turchesi, fucsia, verde smeraldo

e

oro), la voce dolce e melodiosa, un accenno di occhi a mandorla, e i capelli neri e lisci come le ali di un corvo. Ricercata, timidamente eccitante, è degna di adorazione, tormento, sacrificio. A interpretare il ruolo fu la portoricana Rita Moreno. Che scrupoli bislacchi! Il fascino di una bella donna asiatica non ha nulla di squallido, è stato riscattato da quegli antichi riti orientali che i bianchi devono rispettare nonostante la loro diffidenza razziale e culturale. Noi Negri faremmo qualunque cosa per avere quell’aura. Quello stesso anno, quando la mia scuola mette in scena una rivista musicale che comprende The March ofthe Siamese Children, io devo recitare il ruolo di una bambina vestita in raso rosso,

con il fiocco in testa, il fard alle guance, il rossetto e gli occhi a mandorla disegnati con la matita da trucco blu di un'insegnante. L'anno dopo guardo la giapponese Miiko Take che ammalia Marlon Brando in Sayonara. Lui vuole sposarla e alla fine ci riesce. È esaltante.

77 Due anni dopo lo e il re, Dorothy Dandridge reciterà la parte di una schiava Negra in Tamango e poi quella di una sgualdrina drogata, contesa da un bruto, un magnaccia e un barbone menomato, in Porgy and Bess. Dorothy Dandridge sposerà un bianco di cui nessuno ha mai sentito parlare — che la stampa Negra e bianca definisce ristoratore oppure proprietario di un nightclub. I miei genitori ridicolizzano i mariti delle stelle con un curriculum mediocre. Generalmente sono liquidati come manager delle rispettive mogli.

Jack Dennison gestisce una specie di ristorante a Las Vegas, e sta per aprirne un altro a Los Angeles — viene da chiedersi a che genere di servizi si dedicasse prima di incontrare Dorothy Dandridge, i suoi soldi e le conoscenze giuste a Hollywood. Non era riuscito a sposarsi con una bianca di pari valore, direi.

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Ogni mese mi metto a studiare le copie di “Ebony” lasciate nel salotto. La cronaca delle conquiste e delle glorie, ricercate, raggiunte, frustrate, negate. Sono come Libri di curiosità sociologiche. Le celebrità Negre più eminenti arrivano anche su “Life” e su “Look”. Ma lì non trovi le discussioni infinite tra la redazione e i lettori (che non hanno bisogno di essere chiamati "la nostra gente”). “Life” e “Look” affermano e difendono norme già acclarate; su “Ebony” noi cerchiamo di stabilirle, le norme,

e applauditi per quelle che sosteniamo. La normalità: noi dieriamo, e lottiamo per lei in campo sia razziale sia non Ciononostante, a ogni piè sospinto sbandieriamo anche prevedibili anormalità.

di essere

la sbanrazziale. le nostre

Strano ma vero: “Mamma ‘bianca’ partorisce gemelli Negri”, “Sceriffo della Florida scambia una famiglia bianca per una nera”, “La vita segreta di un ex Negro”, “Madri affidatarie in Gran Bretagna: le londinesi aiutano più Negri di tutte le altre”, “La ragazza senza razza”. Ma sipuò sapere che tipo di uomini e donne siamo ? Qvunque andiamo dobbiamo sovvertire l'ordine.

Psicologia sociale della razza:

“I problemi

dei Negri biondi”

"Cosa pensano di noi gli africani”, “Dove vivono le coppie miste”

,

,

a, “Il Negro è felice?”. Niente che ci riguardi è mai scontato, per nessuno e in nessun posto al mondo. Progresso e Avanzamento: “La più grande azienda Negra del Nord”, "Il primo laureato in medicina Negro della Virginia”, “Regina del tennis di Harlem”, “Architetto Negro progetta la casa di Sinatra”, “Ragazza calendario universitario: studentessa di un’università Negra vince premio ragazza copertina della Southern Illinois University”. La parola magica è “Negro”, è un incantesimo. Ilpiccolo si fagrande, il quotidiano si trasforma in eccezionale, e l’individuale diventa cosmico. Prodigi e sconfitte:

"Iroppi Negri nel baseball?”,

"Gli impren-

ditori Negri sono spacciati?”, ‘Perché ho abbandonato il mio show televisivo,

di Nat King Cole, raccontato da Lerone Bennett Jr”. (“Per 18 mesi sono stato ilJackie Robinson della tv... E questo non andava giù ai pezzi grossi che decidono quello che vedono e sentono gli americani”), “L’avanzamento dei Negri nel 1959: ancora segnato da forte opposizione”. La società sa trasformare qualunque nostro successo in una battuta d'arresto; ci con-

sente di progredire, poi sostiene che abbiamo fallito e che, pena la morte, abbiamo mollato. Louis Armstrong firmò un pezzo intitolato Perché preferisco le donne più scure?, ricordo bene? Sì, eccolo qui, è l'articolo annunciato in copertina, in maiuscolo, sul numero di “Ebony” dell'agosto 1954. La moglie di Louis, Lucille, gli sorride, guardandolo dal basso, bella,

paffuta e nera di pelle, sicura delle sue fossette, sicura di sé. Ha la pelle di un colore nocciola quasi come quella di lui, ma con un tocco rossastro in più. Venti anni fa Lucille ha infranto la barriera del colore al Cotton Club, il celebre locale segregato, per diven-

tare la prima ballerina dalla pelle marrone nell’esclusivo corpo di ballo “Tall, Tan and Terrific”. Tre mesi prima che il marito spieghi

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ai lettori perché gli piacciono le donne scure, la Corte suprema

abolisce la segregazione nelle scuole pubbliche. Questo articolo mi è rimasto impresso perché all’epoca trovai che il titolo fosse imbarazzante, che non rispecchiasse il gusto condiviso

del mondo a cui appartenevo; inoltre ero già consapevole del dop-

pio senso osceno dell'espressione “carne nera”. Ora, rileggendolo, è evidente che Louis e Lucille stanno dicendo ai Negri che non dobbiamo permettere che i toni più scuri delle nostre vite e della nostra storia siano cancellati dalle esigenze dell'integrazione. In quello stesso momento nove giudici della Corte suprema stavano spiegando all'America bianca "perché è necessario accettare i bambini neri”.

Dicembre 1954: ricordo bene anche stavolta. C'è un articolo che spiega “perché ai Negri non piace Fartha Kitt”. Io adoro Eartha Kitt. Conosco tutte le parole di Monotonous, il grande successo che interpreta in modo stravagante e sfacciatamente annoiato nel varietà di Broadway

New Faces of1952. L'articolo dice che la signorina Kitt frequenta il mondo celebre ed elegante dei nightclub bianchi e delle prime a Broadway non solo per affari ma anche per socializzare. Il giornalista Negro è comprensivo: scrive che la signorina Kitt preferisce questo genere di integrazione alle feste eleganti organizzate dall’aristocrazia di Harlem o di Bronzeville. E che i Negri devono imparare a rispettare una donna “che desidera essere famosa come star a prescindere dalla razza,

e non come donna di spettacolo Negra”. Devono imparare ad

accettare una donna che un'infanzia difficile — povera e illegittima, passò da un parente del Sud all’altro, guardata dall'alto in basso sia dai bianchi sia dalla sua gente perché aveva sangue misto e la pelle color marrone chiaro — ha trasformato in una donna difficile. Permalosa. Quelli di noi che si fanno strada nel mondo bianco non possono non comprendere le complessità caratteriali di Eartha Kitt. Nella fotografia di “Ebony” le spalle scure di Eartha Kitt sono ricoperte di perle bianche e rivolte alla macchina fotografica. Una

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mano, con un anello tempestato di pietre e unghie a punta triangolare, sembra che le carezzi il mento; l’altra stringe un ventaglio imperlato, bianco ma non certo più bianco dei denti che spuntano dalle labbra rosse e semiaperte. Quando New Faces arriva a Chicago gli amici dei miei genitori ne diventano i promotori. Capitanati da Kay Davis Wimp,

che ha cantato con Duke Ellington, incon-

trano il suo sagace produttore, Leonid Sillman. E, cosa del tutto inaspettata, i miei genitori danno una festa per tutta la compagnia. La signorina Kitt è l'unica dei protagonisti a non partecipare. La sua assenza fa male. La signorina Kitt rappresenta le fantasie che facciamo su noi stesse — un glamour insolente e un accento di una raffinatezza irreale, come se fosse stata concepita all'incrocio di Mayfair e Casablanca. Mentre afferma languidamente di essere la donna più desiderabile del mondo, di essere annoiatissima da tutti gli uomini più autorevoli — T.S. Eliot, re Farouk e il presidente Eisenhower — che il mondo le possa offrire, Monotonous sorvola sui divieti sociali e sessuali del passato. “Sherman Billingsley cooks for me/Monotonous” sussurra, un anno dopo che questi è finito sulle prime pagine di tutti i giornali per essersi rifiutato di sedere a un tavolo del suo Stork Club, accanto all’ancora desiderabile Josephine Baker. Siamo stati insultati. I miei genitori e i loro amici dicono che quel gesto rivela quanto lei si vergogni delle sue umili origini, che

non voglia correre il rischio di essere circondata da professionisti Negri. Il loro successo le ricorderebbe che il glamour del mondo dello spettacolo non può avere la meglio su cultura e famiglia. E tuttavia le ha permesso di ignorarci. Monotono.

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Mettetevi a sedere sulle scale insieme a me e Denise mentre i nostri genitori danno una festa. Sul giradischi potrebbe esserci Ellington (la suadente autorevolezza di In a Mellow Tone). O Autumn Leaves di Erroll Garner. Rapsodica, poi bizzarra e sorniona. I gioielli scintillano come il ghiaccio nei bicchieri da cocktail. Le donne si chinano per farsi accendere le sigarette. Le loro voci percorrono l’intera gamma dei soprano. E gli uomini: il baritono alla Arthur Prysock completo dei suoi ondeggiamenti sudisti, la dizione da solista del Nord alla Billy Eckstine, i cicalecci e i sussurri alla Nat King Cole. Dall’inglese standard a quello del blues e ritorno,

come Joe Williams. Due tra gli uomini più affascinanti della festa si accorgono di noi e insistono per farci scendere in fondo alle scale e farsi dare un bacio sulle guance. Everett White ha la pelle di un marrone intenso, le fossette, i capelli bianchi pettinati in piccole onde increspate. Ed Wimp è di un avorio pallido, ha fattezze decise e capelli neri lisci.

La Basie Band si lancia in Corner Pocket. Io mi risistemo sulle scale, appena sotto Denise, con gli occhiali che premono sulla ringhiera. Ogni ragazzina cerca qualcosa di sé da poter odiare, e io odiavo i miei occhiali. Mio padre raccontava che un giorno, mentre se ne stava tranquillamente seduto in veranda, sentì mia madre, che in quel momento

83 usciva dal garage con me in braccio, che piangeva fragorosamente. Probabile che a quel chiasso abbia contribuito anch'io, ignara della ragione e tuttavia impaurita dal ribaltamento dei ruoli. Avevo due anni ed eravamo appena state dall’oculista. La diagnosi diceva miopia, astigmatismo e strabismo, il che significava che non ci vedevo da lontano, che vedevo offuscato e che avevo gli assi oculari che si incrociavano — forse era per questo che poco prima avevo sbattuto contro un tavolinetto e avevo rotto qualche tazza di un bel servizio da tè. Il dottor Richardson mi aveva prescritto un paio di occhiali dalla capacità di correzione talmente forte che le lenti sporgevano dalla montatura di almeno un centimetro. Da lì dietro i miei occhi sembravano due puntini sfocati. A quattro anni mi operai. Migliorai, ma in prima elementare fui costretta a portare una benda nera per aiutare un occhio pigro. Non ero l’unica: la benda la portavano anche altre due bambine. Ma Millicent aveva i capelli ondulati, i tratti del volto sbarazzini,

le guance con le fossette e una pelle di un marrone rossastro che al confronto la mia appariva sbiadita. Mimi invece aveva un viso dai tratti marcati, la pelle color beige-crema che al confronto la mia sembrava scura, e i capelli lisci al punto di potersi permettere un caschetto corto adorabile. Indossavamo tutte una variante dello stesso modello: occhi di gatto in plastica con la base chiara e la parte in alto scura (il mio colore preferito era il rosso), occhi di

gatto in plastica a tinta unita oppure con un (andavano di moda quelli a righe colorate). unita avevano delle decorazioni — dei puntini sui terminali. Qualunque cosa pur di rendere rino non

motivo sbarazzino Alcune paia a tinta o delle foglioline — carino quel che ca-

era.

In prima media ho rimesso la benda, ma sull'altro occhio. A quel punto le bende erano di colori sgargianti, una miglioria che non migliorava un bel nulla. La portavo solo io. Le persone che si ricordano di me a quell'età menzionano sempre gli occhiali. “Avevi gli occhiali così spessi! Te li vedo ancora

84 indosso!”. La benevolenza di quel tono scherzoso la detesto. Ma perché non stanno zitte? Misi le lenti a contatto l’estate del mio primo anno di superiori. E feci la mia entrata trionfale nel mondo dell’Avvenenza. Mi guardavo allo specchio colma di speranza e soddisfazione. La matita per gli occhi e il mascara facevano un bell’effetto. Il mio fisico aggraziato mi avvantaggiava ma non mi risarciva.

Il gruppetto di ragazzi

che mi aveva chiamata “Guercia” — “Ehi, Guercia,

come va?” mi avevano apostrofata belli tranquilli — cominciò a scherzare con più

educazione. Talvolta, quando mi sento sicura di me al punto di fare una battuta, dico che in passato, quando per sopravvivere una tribù doveva prendere decisioni spietate, i miei occhi mi avrebbero destinata a morire abbandonata su una montagna, accanto ai feriti, agli anziani

e ai malati di mente.

Penso (e me ne rammarico

come

scrittrice) che parte del mio

equipaggiamento sensoriale sia stato come anestetizzato. Fin dall’inizio, rifletto, ho smesso di fare affidamento sul mio acume visivo, e questo ha significato non poter fare affidamento

minate

impressioni visive.

E nonostante

su deter-

tutta l’attenzione

che

presto al mio aspetto, nonostante l’amore che ho per la moda, no-

nostante la mia vanità, quando mi capita di sentirmi completamente a mio agio con le persone,

con qualunque persona,

mi sco-

pro a pensare di essere diventata fisicamente invisibile, che a chiunque io mi stia rivolgendo, questi reagisca alla mia personalità, non alla mia persona. Questa storia dell’invisibilità è iniziata, credo, come

un espe-

diente — e non un espediente ingannevole — per sentirmi meno impacciata, nonostante la benda e gli occhiali spessi. Facevo sempre il confronto con gli amici Negri e anche nel caso in cui avessimo avuto il medesimo equipaggiamento di base (sfumatura della pelle,

tipo di capelli, forma e grandezza dei tratti del viso), gli occhiali mi collocavano in una posizione di svantaggio. Con gli amici bianchi

85 della Lab School avevo raggiunto una tregua illusoria. Naturalmente mi paragonavo alle ragazze, come era ovvio che facessi. Ma se loro non potevano vedermi, com'era possibile che mi considerassero così radicalmente diversa?

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I nostri genitori vollero mandarci in scuole private di prima categoria. All'epoca le uniche che a Chicago accettassero i Negri erano la Francis Parker e la Laboratory School della University of Chicago (collegate in origine e poi diventate cordialmente rivali). La Lab fu fondata dal filosofo pragmatista John Dewey nel 1896, appena due anni prima dell’università. Al pari di altri riformatori

progressisti, come Horace Mann e Jane Addams, Dewey desiderava che la formazione scolastica somigliasse a un'avventura sociale di natura creativa e idealistica, e che non si riducesse a una serie di lezioni da imparare meccanicamente. “Al centro dell'attenzione dell’insegnante c'è il bambino, non la lezione”, diceva. Una classe dovrebbe incoraggiare la sperimentazione e il talento individuale, dovrebbe prevedere attività — gite scolastiche, osservazione della natura, discussioni e progetti senza limiti di tempo (se studi il pomodoro, farai una zuppa di pomodoro) — che ‘rispecchino la vita della società reale, [...] attività compenetrate dallo spirito dell’arte, della storia e della scienza”. Era un'istituzione mista e mono-razziale in un tranquillo, immacolato e circospetto quartiere bianco.

La high school dell'università fu fondata nel 1904. Era mista e mono-razziale come le altre — la riforma razziale prese piede solo nei primi anni della Seconda guerra mondiale. “La democrazia nel campo dell'istruzione è un tema rilevante” scrivono gli autori di Experiencing Education: 101 Years ofLearning at the University ofChicago Laboratory

87 School, la storia ufficiale di questa istituzione, e un gruppo di genitori “approfittarono della realtà del razzismo in Europa per affrontare la discriminazione razziale interna alla nazione”. Due insegnanti fecero un corso interdisciplinare sui “problemi delle minoranze” che comprendeva un convegno interrazziale con studenti delle superiori, sia della Lab sia della DuSable High School, una scuola a maggioranza Negra. Era un programma di scambio urbano in una città spietatamente segregata, e benché fosse stato giudicato un

successo,

non

mancarono

i momenti

depri-

menti. In attesa che arrivassero gli studenti Negri, ricordava Edith Shepherd, un'insegnante della Lab, “proponemmo di offrire agli ospiti punch o Coca-Cola. Fummo immediatamente bloccati dalla reazione scioccata e dalla contrarietà di alcuni studenti del nostro gruppo”. Offrire bevande ai Negri? “Non avevano nulla in contrario a fare un dibattito con quegli studenti, ma le relazioni sociali erano tutt'altra cosa, e dovemmo sudare sette camicie per convincere dei ragazzi che proprio

non

riuscivano

a concepire neppure

l’idea di partecipare a un rinfresco con loro”. Grazie al sostegno della maggioranza dell’Associazione genitori, nel 1942 furono ammessi quattro studenti Negri. Nel 1951 Denise si iscrisse alla seconda classe della Lab, dopo un anno di asilo alla scuola per Negri Rosenwald e un anno alla St. Edmund's Episcopal Day School per soli Negri. L’anno successivo, priva di precedenti esperienze scolastiche, andai alla scuola materna della Lab. Ogni mattina mamma

ci portava in macchina da Park Manor, dove

abitavamo, fino alla scuola, a Hyde Park. La maggioranza dei quartieri di Chicago, che io ricordo essere stati impeccabilmente Negri, erano stati impeccabilmente bianchi fino a quando non ci erano andati a vivere i Negri, come i miei genitori: ragazzi appena congedati da un esercito in gran parte ancora segregato, e novelle spose in attesa di diventare madri. Tutti animati da un orgoglio e da privilegi conquistati a caro prezzo. Frano medici,

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avvocati, uomini d’affari, contabili, presidi e insegnanti, assistenti

sociali e personaggi dell'alta società. L'unico quartiere integrato del South Side — Hyde Park-Kenwood — era sotto stretta sorveglianza della University of Chicago, garantendo che l'affinità di classe compensasse la differenza razziale. Integrazione significava un piccolo numero di neri borghesi in mezzo a dei borghesi bianchi che avevano deciso che la loro presenza poteva essere tollerata. Un numero esiguo di famiglie Negre vivevano praticamente isolate nei pochi sobborghi dove era avvenuta una timida integrazione. Venivano in città, in macchina, solo per partecipare a quegli eventi mondani considerati essenziali per le relazioni sociali dei figli. Il South Side della mia infanzia era benevolo e ordinato. Ma era percorso

da una corrente

sotterranea

carica di emozione,

di ecci-

tazione. In qualunque città i quartieri che i tuoi genitori chiamano “belli” e “brutti” — con chi giocare serenamente, con chi no, le case ben messe, quelle scalcagnate, i saluti garbati, le occhiate lascive, percepire di essere riverita, percepire di essere malaccetta — sono separati da isolati, da mezzi isolati, talvolta bastava svoltare dietro l'angolo. E tuttavia in certi posti sembrava che noi Negri fossimo una cosa sola, che fossimo tutti a sproloquiare nelle drogherie, dai fornai, nei negozi di scarpe; a ciondolare agli angoli delle strade, con la musica che si diffondeva esplosiva dai negozi di dischi e dai ristoranti. Quarantasettesima e South Park: andavamo a farci i capelli al salone di

bellezza di Stormy. Sessantatreesima e Cottage Grove: Jesse Miller, il nostro dentista, aveva lo studio proprio lì, vicino alla sopraelevata. C'era un'atmosfera da: “Fuori tutti: suono, luci, azione!”. I Negri che portavano abiti sgargianti e cappelli bizzarri mimavano le percussioni agli angoli della strada: Che—eee? O anche: Chi? Chiiii? (più acuto). Lo ummm ummnn ummn (per far capire subito che: “È davvero ungran peccato, ora però muoviamoci”). L’enfatico, ma più morbido: “Un-uNn-nh...”. La risata. (Con le mani che sbattono, i piedi che strisciano o che pestano avanti e indietro, il corpo chino in avanti. Ora vai giù e poi

89 rialzati; piega le ginocchia, più volte, ma veloce, e ritorna su in posizione rilassata). Una goduria. Una volta, in preda all’eccitazione, tra la Sessantatreesima e Cottage Grove domandai a mia madre se anche lei si sentisse così. Sì, rispose, si sentiva anche lei così tra la Quarantasettesima e South Park. Eravamo due ragazzine di Bronzeville fino a quando io compii tre anni e Denise sei; poi ci trasferimmo a Park Manor. Bronzeville era la seconda città Negra più grande d'America, e nostra nonna era la proprietaria di due palazzi. Vivevamo sereni proprio in uno di questi quando un bel giorno del 194.9 la storia dice che “il tentativo di due famiglie nere di trasferirsi nel quartiere di Park Manor, nel South Side di Chicago, ha scatenato una marmaglia di

duemila bianchi che cantava: 'Ci vuole il fuoco. E anche il sangue’, mentre i poliziotti bianchi sono rimasti a guardare in silenzio”.* E

ta Seguivano queste parole: "Diedero fuoco ad alcune croci e tirarono pietre contro due case”. Ma non mi è riuscito di scriverle nella stessa pagina, qui sopra, insieme a tutto il resto. Queste croci ormai mi disgustano troppo: odio che siano

un cliché del fanatismo, che siano una rappresentazione drammatica che conserva intatto il potere che ha nella vita reale. Ma per quante volte bisogna continuare a

leggere di queste croci? Il lancio di pietre è più scioccante. Più primitivo e alieno: non riesco a proteggermi dallo shock che mi procura, né dal suo potere. Ma c’è

dell'altro. Voglio proteggere mio padre, anche se è morto. Nel 1918 fuggì dal Mississippi insieme alla famiglia d'origine, e pochi anni dopo si stabilì con loro in California. Acquistarono una casa in quello che in seguito avrebbe descritto

come "un modesto quartiere per la classe operaia bianca”. Il giorno stesso in cui arrivarono qualcuno diede fuoco a una croce nel loro giardino. Mio nonno restò seduto nella veranda della sua nuova casa di Los Angeles per tutta la notte, im-

bracciando lo stesso fucile che già una volta aveva puntato contro un gruppo di

bianchi recalcitranti di Coffeeville, in Mississippi. E poi la storia andò avanti. La famiglia sporse denuncia, andò in tribunale e ottenne il diritto di tenersi la casa.

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cosa mai avrebbero dovuto fare i poliziotti bianchi? Stavano difendendo leggi approvate almeno venticinque anni prima e più di cento anni di usanze condivise. Stavano proteggendo le proprietà dei loro colleghi che vivevano a Park Manor. Una sera, diversi anni più tardi, quando ormai ci eravamo tran-

quillamente

stabiliti

ferma papà mentre

a Park Manor,

una

macchina

della polizia

rientra a casa.

“Che ci fai qui?”. “Ci vivo”. “Cosa c'è nella borsa nera? Droga?”. “Faccio il medico”. Il contenuto della borsa dimostra che è vero, che è un pediatra, per fortuna,

e non

un

anestesista.

Ma non era una storia che si poteva raccontare ai bambini. Non

ce la raccontarono perché:

La questione del futuro dei bambini rappresenta un dilemma serio per i genitori Negri. Oltre ai problemi che chiunque deve affrontare in giovane età, i bambini di colore hanno davanti a sé limitazioni castranti e ostacoli insormontabili; e tale dilemma diventa più angosciante in proporzione alla consapevolezza dei genitori e all’ignoranza del bambino rispetto alla condizione in cui si trova. Alcuni genitori provano fino all'ultimo a salvaguardare il figlio da quest'amara presa di coscienza; è probabile che un bambino con genitori meno premurosi capisca tutto fin dall'infanzia. E nessun genitore può dire con certezza quale sia la strategia migliore, giacché potrebbero condurre entrambe al crollo spirituale del bambino. Il bambino,

certo. Ma che dire dei genitori, che sono

costretti a

rivivere la loro amarezza, che possono averla sepolta fino a quando

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per il bene del figlio non sono costretti a riportarla in superficie e a espellerla oppure a spingerla ancora più sotto? Possono subire un crollo spirituale anche loro. Abbiamo comprato un palazzo. Dei quattro piani, tre sono per noi. Il quarto lo abbiamo affittato a una divorziata, la signora Collins (Negra), che confeziona cappelli e gira nell’appartamento in

vestagliette dai colori sgargianti e ciabattine con rifiniture piumate. Fuma, e sussurra accuratamente le parole con voce roca. Come Peggy Lee quando canta Black Coffee. Accanto a noi c'è il dottor Hall (Negro), un uomo gioviale e con la faccia rotonda, che in inverno porta un cappello di feltro marrone e in estate uno di paglia chiara. Direi che ha la pelle color tabacco scuro.

Jesse Owens (celebre atleta Negro) ha vissuto per un po’ alla fine dell’isolato, ma portava i figli da un altro pediatra. Nella casa di fronte, di pietra chiara, vivono il signor Willie Hull e sua moglie. Il loro accento conserva ancora un lieve timbro del Sud. Il signor Hull fa il tassista. La signora Hull è un'infermiera, e ha una bella frangetta e dei riccioli scuri che le arrivano alle spalle. La figlia Shirley ha la mia età, giochiamo spesso insieme, nel nostro giardino sul retro o nel suo. Ora nessuno dà più fuoco alle croci né atteggia il volto in una brutta smorfia e si mette a sbraitare. Stiamo arrivando noi e il vicinato se ne va. Drrrin fanno i telefoni di tutti i palazzi. “Buongiorno, siamo agenti immobiliari bianchi e privi di scrupoli, e voi siete proprietari bianchi inferociti. Dateci le vostre case e noi penseremo a rivenderle ai Negri a un prezzo molto più alto di quanto voi o qualunque altro bianco sarebbe disposto a sborsare. Portare i soldi in banca vi farà molto felici. Se lo desiderano tanto, facciamo in modo

che la paghino cara per aver mandato in malora il quartiere. “Mamma,

nel nostro isolato ci sono mai state delle famiglie bian-

che?” le chiedo vent’anni più tardi. “Certo, figliola, come no. Ce n'era una nella casa accanto, prima che venisse ad abitarci la famiglia Hull. Avevano due figlie.

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All’incirca della vostra età. E i genitori si raccomandavano che giocassero con voi due il meno possibile”.

Un giorno d’estate nel 1952... La signora Jefferson accompagnò in camera Denise e Margo per il sonnellino pomeridiano, poi scese nella stanza della colazione. Si

sedette al tavolo e si versò una tazza di caffè. Rifletteva su qualcosa oppure sognava a occhi aperti. Gli avvolgibili erano aperti sul giardino sul retro. C'erano le pansé nelle aiuole, le rose sul pergolato. C'era un'atmosfera da l’allodola-spiega-le-ali e la-lumaca-scivolasul-biancospino, fino al momento in cui si accorse che le due bambine bianche della casa accanto avevano aperto il cancello, erano entrate nel nostro giardino, avevano puntato verso le altalene dipinte a colori vivaci, e ci avevano messo sopra il culetto.

L'ennesima parabola estratta dalla cripta dell’infanzia Negra. Interrompo per chiedere come erano fatte. "Due bambine bianche qualsiasi. Niente di speciale. Con i capelli biondo scuro”. “Ed erano tutte e due femmine ?”. (Sospiro) “Direi di sì”.

La signora Jefferson le osserva mentre le altalene cominciano a muoversi, poi si alza e raddrizza le spalle. I suoi pensieri potevano somigliare a questi? Le mille offese dei Caucasici avevo tollerato come meglio m'era riuscito; ma quando osò l’oltraggio, giurai vendetta. Chi, come voi, ben conosce la natura della mia anima, non supporrà che io abbia pronunciato minacce...

Quando uscì sulla veranda non fu né brusca né maleducata.

“Ra-

gazze,” disse calma ma decisa “Margo e Denise stanno facendo un sonnellino. Visto che non scenderanno a giocare, andate pure a casa”.

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E così fecero. Ma la settimana dopo tornarono.

E anche quella

successiva. Ogni volta la signora Jefferson uscì sulla veranda e pronunciò le stesse identiche parole. Ogni volta le bambine se ne andarono in silenzio. Dopo la terza volta non vennero più. E nel giro di un anno scomparvero del tutto. Non si ripara un torto, quando la punizione ricade sul vendicatore. Allo stesso modo, non lo si ripara se il vendicatore non si rivela come tale a colui che ha offeso. Ora, un'infinità di anni dopo, la signora Jefferson abbasserà lo sguardo e il tono di voce e chiuderà il racconto così: “Avevo troppa paura di affrontare la madre”. Non riesco a sopportare il pensiero di saperla impaurita. “C'era da aver paura, infatti” dico subito. "Con i poliziotti che abitavano in zona che pattugliavano il quartiere in borghese”. Silenzio. Ancora silenzio, così butto là una battuta: "Dovevi fare attenzione ai sorveglianti di schiavi di Park Manor”. È una battuta trita e riceve una risatina di prammatica. Posso fare di meglio. “Sai mamma, peccato che quella famiglia sia andata via prima di vedere la nostra rete da badminton. Gli avrebbe dato il colpo di grazia”. Mi lancia un'occhiata per dire che apprezza la mia impertinenza o almeno le mie buone intenzioni. Poi si alza, per mettere fine alla conversazione, vergognandosi ancora di sé stessa. Quando

la mattina

ci porta a scuola

in macchina,

mamma

ha

un'aria elegante e sicura. Il primo giorno di scuola materna lotto con tutte le mie forze perché non voglio separarmi da lei e piango senza requie. Per staccarmi da lei e trascinarmi in classe ci vogliono due adulti: la mamma e l'insegnante, la signorina Thurston. Nel giro di una settimana mi sono adattata, con un aiutino da parte del

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vestito rosso. Lo voglio indossare ogni giorno, almeno per un po’, perché mi fa sentire coraggiosa. Mamma, posso? Sì, certo. La seconda settimana torno a casa tutta trionfante e faccio il verso

a un compagno di classe che ancora piange tutte le mattine. “Voglio andare a casa da maaaa-mmaaaa!”. Per la delizia dei miei genitori riproduco perfettamente il tremolio delle due sillabe. Il vestito rosso torna al posto che gli spetta nel mio ricco guardaroba. Ci insegnano gli esercizi di coordinazione. A fare le capriole, a far rimbalzare due palloni, uno su ciascuna mano. A volte la signo-

rina Thurston ci dispone in circolo e ci fa fare la lotta due per volta. La competizione era solo bambino/bambino e bambina/bambina, oppure i bambini facevano la lotta con le bambine? Ricordo solo l'eccitazione nervosa che provo quando sono nel cerchio e guardo i corpicini inferociti che si afferrano e si picchiano fino al momento in cui la signorina Thurston non dichiara la fine del round. So di aver fatto una lotta tremenda contro Judy Winter, che mi lascia con una sensazione di appiccicaticcio stomachevole. Forse per-

ché Judy ha vinto l’incontro? Perché mi vergognavo della furia da gladiatore che avevo scoperto in me? Ero forse confusa perché intuivo che i nostri corpi avvinghiati e ruzzolanti gridavano a gran voce che eravamo due dei quattro Negri della classe? In prima Durante la ricreazione gioco con tale entusiasmo

che spesso rientro

a casa con la cinta del vestito strappata e penzolante. Non so mai dov'è che ho esagerato per ridurla così: la rete da arrampicata, l’acchiapparella. Ho l'impressione che la cinta faccia la spia su di me così come io faccio la spia su mia sorella quando lei mi mette al tappeto. Le mattine d'inverno entriamo nello spogliatoio per toglierci i cappotti, le giacche, gli stivali e le ghette lunghe. Un giorno, mentre noi

bambine siamo giù in classe, sentiamo che da lì dietro si alza un gran chiasso: piedi che si muovono, voci di bambini, uno shhhhhhhhhkh insistente. La nostra maestra, la signorina Polkinghorne, una donna

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paffuta e benevola, con le trecce bianche avvolte attorno alla testa e gli occhiali da vecchietta, deve essere corsa nel guardaroba. O deve averci mandato un'assistente. Perché il rumore cessa, e i bambini vengono fatti entrare in classe in silenzio. Durante la ricreazione una delle bambine, che deve averlo sentito da uno dei bambini, ci dice sottovoce che mentre era nel guardaroba T. si è tirato giù i pantaloni. Perché mai lo avrà fatto? Forse è stato sfidato da un bambino alfa, come S.? T. è vivace ma non è uno di quei dispettosi che secondo me si tirano giù i pantaloni. Ora però mi viene in mente che lui è anche quello che ogni giorno porta a scuola il cestino del pranzo del ragazzino più grosso di tutti. Un contenitore nero con la parte superiore tondeggiante, una V al centro, delle righe a rilievo su entrambi i lati e due ganci possenti in alluminio. In seconda Mi mettono in un gruppetto di lettura avanzato. Senza fanfare, noi

bambini sappiamo che di queste cose non bisogna mai vantarsi. Poi nel gruppo arriva una bambina della prima classe. Capiamo presto, sebbene lei non dica nulla, che non solo l'hanno ammessa nel gruppo di lettura avanzato, ma che è anche passata direttamente in seconda. Vorrà forse dire che è più intelligente di tutti di noi? Lo spirito di apprendimento comunitario della Lab comporta una valutazione costante di te stessa e della concorrenza. Nell'autunno del 1955 siamo nel bel mezzo di un'importante campagna elettorale che porterà all'elezione del sindaco. Per chi voteranno i vostri genitori, per Merriam

o Daley?,

ci chiede un

giorno la maestra mentre discutiamo in circolo seduti a gambe incrociate. Merriam Merriam Merriam, Merriam, Merriam Merriam

Merriam, dicono uno dopo l’altro i compagni. Molti dei loro genitori sono professori della University of Chicago. Il padre di Merriam è un professore e preside di facoltà dell'università. Merriam è il candidato intellettuale e progressista che ha denunciato le incessanti macchinazioni d’apparato del Partito democratico.

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Mia madre in passato si era occupata di un distretto elettorale del Partito democratico, come Richard J. Daley, il candidato democratico. Daley e il suo alleato Negro, il deputato William L. Dawson, hanno molti avversari a Negroland, ma io ho sentito le discus-

sioni degli adulti: Dawson è uno dei due Negri eletti al Congresso degli Stati Uniti, e quando Emmett Till è stato assassinato Daley si

è comportato in modo impeccabile. Sono quasi sicura che i miei genitori voteranno

per Daley.

È arrivato il mio turno. “Merriam” dico senza esitazione alla maestra. Neanche gli altri hanno esitato. Faccio attenzione a usare il mio tono di voce più compassato e cortese; potrei anche aver spa-

lancato leggermente gli occhi, e fatto un sorrisino, come a dire che

so bene di essere prevedibile. So che una bugia detta male è dannosa quanto

una bugia non

detta.

In terza La signorina Randolph, che a metà anno diventa la signora Boverman,

ha i capelli neri con un taglio brioso alla June Allyson (le

punte si arricciano appena sotto l'orecchio; la frangetta è spostata tutta su un lato). È vivace, è piena di entusiasmo, e mi sceglie per fare la figlia in una commedia su una famiglia Hopi che abbiamo scritto tutti insieme. Se non erro, prima di tutto mettevamo in scena come gli Hopi vivevano nella riserva, e poi l'eccitazione che provavano quando andavano a vedere una grande città del Midwest. Stavamo forse documentando la differenza culturale e lo spirito di adattamento? L'unica cosa di cui mi importava è che avevo un ruolo da protagonista. La nostra insegnante di musica, la signorina Schoff, ha i capelli neri e ricci, e se li lega con un nastro di velluto nero. Porta un completo rosso stile Chanel. Cantiamo canzoni folk (esiste forse una casa che non abbia accanto al pianoforte The Fireside Book of Folk

Songs?), cantiamo delle famose canzoni folk come Jambalaya e Shrimp Boats Are a-Comin', cantiamo le canzoni di Stephen Foster, come Swanee

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River e Jeanie with the Light Brown Hair, cantiamo gli spiritual. Cantiamo Swing Low, Sweet Chariot, lentamente e sottovoce. Ci scateniamo con Rock-a My Soul in the Bosom ofAbraham; in seguito la signorina Schoff ce la fa ballare, e dopo averci osservati mi chiede di ballare da sola davanti a tutta la classe. Trionfante dimeno le braccia e piroetto a destra e a sinistra.

Chi di noi ha fratelli o sorelle in prima media è sempre molto attenta a ciò che fanno. Un pomeriggio ci giunge voce che Denise ha battuto un piccolo campione, B., sulle 50 yard. Bobby dice che suo fratello Steve ha detto che è stato B., e non Denise, a vincere la gara.

Tutta infervorata, io gli dico che si sbaglia. I maschi parteggiano per Steve, le femmine stanno con me. Cominciamo a litigare. Poi, tutto

a un tratto , Bobby e Daphne si lanciano l’uno contro l’altra e finiscono a terra, per prendersi a pugni, azzuffarsi, picchiarsi. La signo-

rina Randolph riesce a fermarli prima che si trasformi in una guerra di genere. In seguito Denise mi dice che B. l’ha sfidata tre volte. “Proviamo ancora, Denise”. Ha vinto sempre lei. Un, due, tre.

Tutte le terze classi studiano il francese con Monsiuer Pillet. “Ti ricordi quando ha accompagnato un gruppo di studenti all’Hilton,

in centro, per metterci in mostra alla Mla?” mi scrive anni dopo un amico della Lab? “Ci siamo andati con la macchina di mia madre”. Non ricordo che qualcuno mi abbia messa in mostra al Conrad Hilton. Ma ricordo benissimo il terrore che provai dopo,

quando sua madre mi riportò a casa: intuii che non aveva idea di come arrivare nel mio quartiere. Non disse niente, ma mi resi conto

di tutto, e purtroppo

non si sa come,

giungemmo

non sapevo come

aiutarla. Alla fine,

vicino ad alcune strade che conoscevo,

e dissi “siamo quasi arrivate”, e quando scesi la ringraziai tutta allegra. Non ebbi il coraggio di confessare ai miei genitori di aver temuto che non sarebbe mai riuscita a trovare casa nostra. Nulla ti rende consapevole del privilegio quanto il fatto che sia minacciato. All’interno della razza ci autoproclamiamo aristocratici,

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colti, benestanti, di successo; agli occhi dei caucasici siamo bizzarri,

dei perdenti e degli intrusi. I bianchi che, come noi, sono beneducati, ricchi e istruiti... Aspettate, però: "come noi” negli anni Cinquanta è da presuntuosi. I bianchi progressisti ammettono che anche noi abbiamo buone maniere, soldi e cultura, e si dispiacciono per gli svantaggi che subisce la nostra casta. I bianchi meno progressisti e quelli non progressisti preferirebbero evitare di trovarci nelle scuole private e negli spazi pubblici che frequentano loro. Dispongono di una collezione di insulti pronti all'uso: per gli scettici, sguardo sorpreso e convenevoli ridotti al minimo; per gli incerti, la cortesia, ma con gli occhi rivolti da un'altra parte; per gli sprezzanti un disdegno plateale. I caucasici più abbienti hanno concesso ai caucasici meno abbienti di noi il permesso di sabotare e attaccare la nostra condizione di privilegio. I caucasici vivevano i loro privilegi in modo tranquillo e rilassato, sentendosi sempre a loro agio, ma restando vigili e autoritari, scaltri e ingannevoli. La loro gamma espressiva, la varietà, la munificenza nel condividere con i più umili i piaceri della casta ci ha sempre lasciati sbalorditi. Capivamo benissimo cosa si aspettavano da noi. I Negri che hanno dei privilegi dovevano essere molto accorti: impeccabili ma non arroganti, sicuri di sé e tuttavia cedevoli, dignitosi, non invadenti.

Inizio dell’estate 1956 Due genitori Negri e due figlie Negre davanti alla reception di un albergo di Atlantic City. È l’ultima tappa del loro viaggio in macchina: dopo Montréal, Quebec City e New York, il nostro programma prevede di rilassarci in spiaggia e di bighellonare sul lungomare. È mezzogiorno e gli ospiti girellano nell'atrio in abiti vacanzieri. L'impiegato caucasico in uniforme marrone esamina il registro delle prenotazioni, facendo scorrere il dito sulla lista con aria perplessa. “Ha detto il signore e la signora Jefferson...”.

"Il dottor Jefferson e sua moglie” risponde mio padre.

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L'impiegato gira la pagina, esamina la lista un’altra volta, scorrendola lentamente con lo sguardo e con l’indice, dall’alto in basso. Un attimo prima di rigirarla, si ferma. "Oh, eccovi qui, dottore. Siamo al completo e vi abbiamo messo in un’altra stanza”. Il padre, la madre e le figlie seguono il fattorino in uniforme dentro l'ascensore. Si fermano pochi piani più in alto; escono; il fattorino li guida fino al termine di un lungo corridoio e poi gira l'angolo, apre la porta e mette le valigie in una stanzetta che si apre su un'altra stanzetta. La finestra affaccia su un parcheggio. Quando il fattorino esce, nostro padre va nella stanzetta più grande senza dire una parola. Ha smesso di parlare da quando il dito dell'impiegato è arrivato in fondo alla prima pagina. “Tirate fuori gli asciugamani e i costumi” ci ordina la mamma. Fino a che non usciremo per andare in spiaggia, potete leggere o giocare, ma senza fare rumore”. Segue mio padre nell’altra stanza e chiude la porta. Disfiamo rapide i bagagli in modo che non si irriti quando tornerà da noi. Ma si può sapere che succede? Negli altri hotel la nostra prenotazione si era sempre trovata. Mamma ha detto che a molti bianchi non piace rivolgersi a un Negro chiamandolo “dottore”. In spiaggia ci stendiamo sugli asciugamani nuovi e accarezziamo

la sabbia. I nostri genitori, il dottor Jefferson e signora, siedono sui loro asciugamani

e parlano a bassa voce.

Mamma

non

nuota

mai, ma nostro padre adora nuotare. Oggi però ci accompagna fino alla riva e si limita a guardarci entrare e uscire dall'acqua. L'aria si sta raffreddando, è il tardo pomeriggio; è il momento di piegare gli asciugamani, riporli nelle borse da spiaggia e tornare in albergo. “Fatevi il bagno” dice la mamma, ma solo dopo aver preso un asciugamano e una saponetta dell'albergo per lavare lo

sporco incrostato della vasca. “Dove andiamo a mangiare?” le chiedo io. "Come ci dobbiamo vestire?”. “Mangiamo qui” risponde mamma. “Perché non andiamo nella sala ristorante?”.

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“Perché chiamiamo il servizio in camera e mangiamo qui” dice lei con voce implacabile. "E domani ce ne andiamo”. Denise dà voce a quello che pensiamo entrambe: “Siamo appena arrivati. Siamo stati in spiaggia troppo poco. Perché non andiamo nella sala ristorante?”. Siamo contrariate dal malumore che è calato sui nostri genitori. Vogliamo la spiaggia e vogliamo la passeggiata sul lungomare che ci hanno promesso dall’inizio del viaggio. Mamma fa una pausa prima di dire a noi e anche a sé stessa: “In questo posto sono prevenuti. Credete che al ristorante ci tratterebbero bene? Guardate che brutte camere. Hanno fatto finta di non trovare la prenotazione. Domani ce ne andiamo. E tuo padre gli dirà anche perché”. Nostro padre ha smesso di sorridere dal momento in cui ci siamo ritrovati davanti all’impiegato che ci registrava come signore e signora Negri Vattelapesca con figlie Negre, venuti da un posto qual-

siasi di Niggerland. Il mattino seguente, mentre pagano il conto, i nostri genitori ci chiedono di sederci sul divano all'ingresso. Da lì non riusciamo a sentire quel che dice nostro padre né capiamo se dica qualcosa. Rientriamo a Chicago in macchina, una classica famiglia americana che torna a casa dopo quel genere di vacanza che fanno le famiglie americane benestanti. Durante il viaggio ci siamo fermati allo Statler Hilton di New York e abbiamo mangiato al ristorante interno. Abbiamo saltato e giocato tra i cuscini del Chateau Frontenac di Quebec City. A Montréal, quando papà chiedeva indicazioni stradali agli sconosciuti, riceveva sempre spiegazioni corrette e educate. È andata male solo ad Atlantic City. In macchina i nostri genitori si rimproverano di non aver indagato meglio, di aver voluto rischiare senza aver chiesto prima ai loro amici della East Coast. Un trattamento come quello incoraggiava i Negri privilegiati a con-

siderare i nostri privilegi più che giustificati: li avevamo conquistati

101

a caro prezzo,

erano

politicamente giusti, erano

un vantaggio per

tutta la razza; erano una consolante fonte di orgoglio, un esempio di quello che tutti avrebbero potuto raggiungere. Nel privato di un esclusivamente

mondo

Negro,

i privilegiati

potevano

vivere

in

modo tranquillo e rilassato come l’élite bianca, ostentare tutto il loro armamentario e dettare legge; potevano denunciare regolarmente i caucasici il cui comportamento,

verso di noi e tutte le per-

sone di pelle scura, dimostrava che non erano moralmente all'altezza dei loro privilegi. Noi avevamo il vantaggio morale, loro avevano le armi d'assalto della “grande civiltà” e della “storia che trionfa”. Annotavamo senza requie i successi della nostra gente. Condannavamo senza requie gli errori della nostra gente. Troppi di noi neanche ci provano. Non hanno ambizioni. Nessun interesse per la scuola. Se sei povero non vuol dire che il tuo quartiere debba diventare una discarica. Negri come questi ci rendevano la vita difficile. Erano una zavorra. Punivano noi per quello che facevano loro.

1956, un mese dopo il viaggio I professionisti e i piccoli commercianti vivono a un capo del nostro isolato. In quello opposto c'è Betty Ann, la figlia di qualcuno,

non so bene di chi. Ha tante treccine in testa, fissate con dei fermacapelli di plastica rossi, gialli e verdi. Porta lo smalto alle unghie e se lo tiene fino a che non è diventato un frammento minuscolo. Io devo supplicare per poter mettere lo smalto anche quando esco, non solo quando gioco con ivestiti smessi di mamma. E la risposta è no, le bambine con lo smalto rosso sono volgari. D'estate Betty Ann passeggia su e giù per l’isolato con il retro della scarpa che le sbatacchia sul calcagno. Quando vede una cosa

incrocia le braccia e fa 0000-0000- 0000, Uh-un-UNNNh. Quando ride si piega dalla vita in giù e strascica i piedi a terra. Io e Denise iniziamo a fare come lei, a casa nostra. "E questo dove l'avete imparato?” ci chiede mamma. “Quando ridete, non afflo-

buffa

sciatevi così”. .

.

-_”

102

Un pomeriggio vediamo Betty Ann che gioca a Double Dutch insieme a due ragazzine che non abbiamo mai visto. Ridono tantissimo e dicono “Raaagaaazze...”. E poi si mettono a girare le due corde in direzioni opposte. A saltare tra le due corde che girano è Betty Ann. Si china, con le braccia piegate e i pugni stretti per calcolare il momento migliore per farsi sotto. Un giro e un colpo, un giro e un colpo, un giro e un colpo, e poi alla fine entra. Le ginocchia fanno su e giù, i piedi battono veloci a terra, schivando le due corde fino al momento

in cui, precisa e

lesta di piede, esce con un salto. Estasiate e invidiose, le vediamo

saltare a turno. Ora Betty Ann non viene più da noi a giocare a dadi né a prendere in prestito la bici di Denise. Ride e mangia caramelle con le sue amiche, e gioca a Double Dutch. Dopo una settimana così prendiamo a gironzolare in fondo all’isolato sperando che ci chiedano di giocare con loro. Ci invitano a farlo dopo qualche giorno. Denise non è molto brava ma non è malaccio: gira correttamente la corda e prima di essere colpita resiste per qualche salto di fila. Quando a girare tocca a me, non sono abbastanza veloce né regolare, e non appena provo a saltare la corda, spinge via i miei piedi esitanti nel giro di pochi secondi. Quando imploro un terzo tentativo Betty Ann e le sue amiche dicono di no. Non ricordo tanto il loro no, quanto le loro risatine sprezzanti. Ogni volta che mi capita di giocare con Denise e le sue amiche sono sempre la più inesperta e la più goffa, ma se una di loro mi prende in giro o mi rimprovera un'altra rimedia subito con una carezza. Se qualcuna esagera, intervengono le mamme. O interviene Denise, e dopo un breve litigio e qualche scusa si torna a giocare. Non è questo il caso. Gli 000 00h 00000, un-un-unhhhh sono definitivi. Denise alza la voce: Dobbiamo andare a casa adesso. Betty Ann e le sue amiche ridono un pochino più forte. Denise sceglie un’andatura lenta, come se ce ne fossimo andate di nostra volontà. Mio padre e mio zio ci aspettano davanti alla porta di casa: hanno sentito ridere e hanno lanciato uno sguardo verso la fine dell’isolato, in

103 tempo per vederci battere umiliate in orgogliosa ritirata. A cena gli adulti sono tutti concordi: Non dobbiamo giocare più con Betty Ann. Lei e le sue amiche sono rozze e sguaiate. Sono invidiose di voi due. Ci siamo

trasferiti qui appena cinque anni fa. Potremmo essere costretti a farlo ancora. In autunno inizio la quarta. La signora Pollack è calma e cortese, ed è la nostra insegnante di musica e la responsabile della nostra aula di coordinamento. Anche stavolta cantiamo le canzoni di Stephen Foster, e anche stavolta cantiamo Swanee River, che io adoro, per quell’ottava in crescendo su "Swanee—Riveeeer”. Un bel pomeriggio mi metto a marciare attorno al salotto cantandola a squarciagola come avevo fatto lo stesso giorno in classe: “All the world is sad and dreary, everywhere I roam / Oh darkies! How my heart grows weary! / Far...”. “Margo” dice la voce di mamma dalla cucina, seguita immediatamente dopo da mamma in persona. "Si può sapere cosa canti?”. Io ripeto: “All the world is sad and dreary, everywhere I roam / Oh dar...”. Mi ferma in maniera decisa prima della k. “Margo, ma lo sai che significa ‘darkies’” Non lo so. “E una parola brutta per descrivere le persone come noi. Non la usa più nessuno, ma se qualcuno lo fa equivale a ‘nigger’”. Mentre ci rifletto, mamma si infuria. "La signora Pollack dovrebbe saperlo. Quando l’hai cantata l’anno scorso la signorina Schoff è stata più rispettosa. Ha sostituito quella parola con

‘lordy”” È forse il bisogno di simmetria tematica a farmi pensare che questo sia lo stesso anno in cui la nonna si accorge che nel giardino di casa sua sto facendo un gioco che ha proposto la bambina bianca della casa accanto? Ci chiniamo, rannicchiando le spalle, abbassiamo il capo verso terra e portiamo le braccia, che abbiamo già arcuato, avanti

e indietro, bofonchiando “io venire dalla giungla”. In un attimo mia nonna si fionda alla porta a zanzariera e mi dice di rientrare. Severa

104 e solenne mi spiega che “quello è un gioco brutto. Quella bambina lo vuole fare per offenderti. Quando qualcuno vuole offendere i Negri gli dice che sono uguali alle scimmie”. Questi ricordi riportano a galla la sensazione di sentirsi umiliata sia dalle conoscenze degli adulti sia dal pregiudizio razziale. Mia madre e mia nonna sottolineano gli errori che ho commesso. Davanti a loro mi sento umiliata. Si direbbe che io piaccia alla mia maestra, ma non al punto di risparmiarmi un'offesa razzista umiliante. Fino al momento in cui abbiamo fatto "io venire dalla giungla”, giocare con quella bambina bianca mi era piaciuto molto. Quando sei piccola è facile sentirsi tutta sbagliata davanti agli adulti. E se questo accade quando tu neppure ti accorgi di fare una cosa sbagliata... Odiavo essere presa alla sprovvista. Era pericoloso e disonorevole non sapere quello che invece dovevo sapere. D: Perché dovrei saperlo? Ridimmelo. R: Così eviterai che ti insultino e ti umilino.

Così potrai

evitare che la tua gente ti insulti e ti umili. L’umiliazione e l’offesa sono te lo aspetti.

meno

pronte

a saltarti addosso

quando

105

Guarda tutti quei visetti giovani e splendenti, generazioni di visetti, che mettono insieme il curriculum standard di ingiurie e ingiustizie razziste! Il progresso o la rovina della Razza dipendono da quello che fai, da quello che sei e quello che vorresti essere. Era questa la nostra realtà, questa la nostra paura. Le generazioni che verranno dopo di noi saranno risparmiate? Avranno gli stessi problemi che fin troppi di noi hanno ereditato? O acquisito. O in cui ci siamo trovati.

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Quando scrivi sulla razza è troppo semplice indugiare sui brutti ricordi. Crogiolarsi nella propria innocenza. Rendere omaggio al proprio dolore. Presentare il nostro risentimento dalla prospettiva più conveniente.

Nel santuario di quella scuola elementare neogotica ero felice. Scendere ogni mattina dalla Oldsmobile

rosso scuro di mamma,

salire i gradini di pietra di Blaine Hall insieme ad altri bambini e bambine, osservare le sue guglie ed entrare in una delle tre grandi porte di legno ad arco, superare l'ingresso con le panchine di pie-

tra, percependo un che di umbratile e maestoso nelle aule, in cui sentivo fluttuare le nostre voci, mi rendeva felice. Non mi era mai venuto

in mente,

fino al giorno in cui lessi gli scritti di Ruskin

sull’architettura gotica, che la concretezza di questo germoglio piantato nella prateria potesse segnarmi come lui diceva che avrebbe fatto — sosteneva che quell’immaginazione aveva lo stesso valore di un fatto, che piaceva ai colti e agli umili, che onorava le arti e le usanze che la cultura ufficiale riteneva grossolane. Attraversavamo i corridoi per andare in una biblioteca piena di classici della letteratura per l'infanzia e utilissimi manuali, di ogni libro di favole a colori di Andrew Lang: il cremisi, il verde, il rosso, il giallo, il verde oliva, il grigio, il marrone. Visto che studiavo pianoforte leggevo doverosamente le biografie dei compositori. Chissà perché ricordo tanto bene Nannerl e Wolfgang Mozart, che passavano

107 da una corte all'altra per suonare il pianoforte suscitando l’entusiasmo degli adulti. E che la madre e le sorelle di Hindel gli si fecero attorno gioiose per festeggiare il suo primo incarico importante con la canzone: Georg Friederic Hin-del Or-ganista e maestro del cor-o!

Questi ricordi stanno lì a indicare una precoce coscienza femminista? (Il padre fece ritirare Nannerl a diciotto anni, l’età del matrimonio. La madre e le sorelle di Handel non furono altro che questo: la madre e le sorelle di Handel). Forse testimoniano la mia adorazione infantile per le piccole star e il mio desiderio di diventare una di loro. In biblioteca trovai anche la biografia di Althea Gibson: I Always Wanted to Be Somebody. In quelle pagine c'era ambizione pura, bisogno puro. Lo trovai impressionante e leggermente imbarazzante. Pur consapevole che i Negri ricevevano sempre lodi esagerate come sportivi e che venivano

sminuiti come

artisti o accademici,

le sue

vittorie tennistiche erano inconfutabili. L'unica cosa che mi sarebbe piaciuto non avesse fatto era spiegare come si lisciava i capelli con il Dixie Peach prima e dopo ogni incontro. Perché scrivere una cosa del genere? E soprattutto perché menzionare il Dixie Peach? Era un nome rozzo, e poi la lozione era grassa e pesante. In famiglia noi usavamo Ultra-Sheen (e non si dovrebbe scrivere neanche questo). In prima media ogni classe metteva in scena un'operetta di Gilbert e Sullivan. Venivano invitate tutte le classi inferiori, e se nell’operetta ci recitavano tuo fratello o tua sorella, brillavi anche tu.

Denise interpretava Hebe in H.M.S. Pinafore: quando il primo Lord dell’Ammiragliato si dichiara “il Monarca del Mare”, lei si inchinava e cantava “And we are his sisters, his cousins and his aunts”. Mi chiedo se i bambini di oggi siano ancora affascinati da Gilbert

108

e Sullivan. A noi diedero abilità oratoria e gestualità raffinata. Copiavamo i riti degli adulti senza venir meno ai princìpi del divertimento infantile: sicurezza nel ritmo, varietà sonora, un lieto fine che scongiurava i rischi e i pericoli di una parodia. Andando a scuola in macchina Denise leggeva poesie ad alta voce, millantando spacconate vittoriane che traboccavano stragi e atroci sofferenze. E cuci! e cuci! e cuci! E pur cantava,

In mezzo a fame e stenti, In mezzo a squallor tanto, Pur cantava, ma strazio eran gli accenti, (Oh, il grido di dolore De’ ricchi arrivi al core), Della Camicia il Canto Io adoravo i nonsense. Mamma mi leggeva Lewis Carroll ad alta voce, e se in macchina c'eravamo solo noi due le recitavo le sue poesie. Humpty Dumpty, Padre William, Jabberwock e l’allegra perfidia di Il tri-

checo e il legnaiuolo. Lewis Carroll ti lasciava sistematicamente martoriare,

maltrattare

e tiranneggiare

persone,

animali,

paesaggi

e

vocabolari. Ma Edward Lear ti portava in un mondo dolce e bizzarro di alieni dai nomi melliflui e dalle aspirazioni umane. I belli scombinatelli Il pobbolo Il tocco-rintocco-co Malinconia senza un'ombra di realismo. Si ferma a singhiozzar da maledetti In cima ai monti ed in riva al mare Compra frittelle, unguenti e gamberetti Di cioccolato allo spaccio aziendale.

109 Un pomeriggio mamma

rientra a casa dopo qualche commissione

e trova me e Denise sedute tutte scomposte sulle scale, un braccio di qua e una gamba di là, con la voce arrochita per le troppe risate. Senti, mamma, senti!, le urliamo, e ci mettiamo a recitare la poe-

sia che abbiamo appena letto:

Well, son, I'll tell you: Life for me ain't been no crystal stair. It's had tacks in it, And splinters, And boards torn up, And places with no carpet on the floor— Bare. But all the time l’se been a-climbin' on, And reachin' landin's, And turnin’' corners, And sometimes goin’ in the dark Where there ain't been no light. So boy, don't you turn back. Don't you set down on the steps "Cause you finds it's kinder hard. Don't you fall now— For I'se still goin’, honey, I'se still climbin’, And life for me ain't been no crystal stair.* * “Figliolo, ti dirò una cosa: / la vita per me non è stata una scala di cristallo. / Ha avuto chiodi, / e schegge, e tavole sconnesse, e tratti senza tappeto: / nudi. / Ma sempre / continuavo a salire, / raggiungevo un pianerottolo, / svoltavo un angolo, / e certe volte entravo nel buio / dove non c’era luce. / Perciò, figliolo, non tornare indietro. / Non fermarti sugli scalini / perché ti è faticoso andare. / Non cadere, adesso: / perché io continuo ancora, amore, / ancora mi arrampico, / e la vita per me non è stata una scala di cristallo” [NdT].

110

I primi versi li declamiamo:

“Well, son, I'll tell you: / Life for me ain't been no crystal stair”, poi cominciamo ad accelerare: vogliamo arrivare subito a “I’se” e all’elisione delle g, al punto in cui “kind

of” diventa “kinder”... Leggiamo come farebbe Willie Best nello Stu Erwin Show: bocca spalancata,

scivolando

a

rauche sul “Ise”, e con tantissimo

vibrato. Leggiamo come i nostri personaggi preferiti in Amos n Andy: come Calhoun (Denise), l’iperattivo e intrigante avvocato che ama parlarsi addosso, e come Lightning (io), sempre in ritardo rispetto al

ritmo fisico e mentale di chiunque, e con tanto di arti scombinati, occhi storti e vaghi monosillabi strozzati in gola. Entrambi i nostri genitori deplorano questa serie e ci sconsigliano di guardarla. Proibirla la trasformerebbe in attraente. Adesso siamo piegate sul libro come due tipiche bimbette nere. Il silenzio con cui è accolto il nostro elaborato verso finale, “life for me ain't been no crystal stair”, ci sorprende. La mamma inizia a parlare lentamente, per cui ci sediamo composte e ascoltiamo con attenzione.

“E una bella poesia, bambine, ma voi la state storpiando. La state

leggendo in un dialetto da ignoranti. Langston Hughes è uno dei nostri migliori poeti, e uno dei più influenti. Dovrebbe essere letta così”. Per addolcire il “Ise” la mamma chiama a raccolta tutte le risorse della storia e della cultura Negra. Elimina l’accento che cade sulla prima sillaba di ogni verbo (che fa suonare lagelisa come una goffa

stonatura), abbassa la voce in modo che non risulti tutto in mezzo forte, e trasforma il dialetto in vernacolo. Che cosa può fare un genitore quando, dopo essersi sforzato di garantire ai figli la possibilità di farsi strada nel mondo, dopo aver provato a rivendicare per loro il diritto all'istruzione e alla cultura, improvvisamente gli si spalanca davanti una voragine di ignoranza e di senso di inferiorità, che minaccia di inghiottire il suo piccolo, raffinatissimo ego?

L1I

Com'è possibile che i demoni del dileggio e dello scherno si siano impossessati delle tue figlie? Quando nel 1949 Langston Hughes ha insegnato per tre mesi alla Lab School, ha tenuto corsi di scrittura alla materna, alle elementari e alle superiori; ha parlato del “Negro e la poesia” e per ben due volte ha letto le sue opere in pubblico. Cos'era accaduto da allora? Le sue opere avevano forse lasciato la scuola nel 1949, quando lui se ne andò? Quella sua poesia faceva ancora parte del programma? La facevamo a pezzi perché era fonte di imbarazzo? A casa non ci avevano letto poeti Negri a sufficienza? (Come sarebbe stata strana “La madre al figlio” tra le erbacce estirpate dal “Florilegio poetico per i più piccini”, che la mamma ci leggeva tutte le sere). Per certi versi la segregazione fu una fortezza. Subivamo minacce e infiltrazioni nemiche, ma la vita al suo interno poteva funzionare. Alcuni dei nostri amici frequentavano scuole nere o a maggioranza nera. Imparavano a conoscere la cultura bianca all’interno della fortezza, circondati da varianti di loro stessi, e i loro insegnanti — talvolta — erano varianti dei loro genitori e vi-

cini di casa. Mamma era cresciuta così, e ora noi le davamo da pensare. “Quando avevo la vostra età festeggiavamo la Settimana della storia

Negra. L'Associazione per lo studio della cultura e della storia Negra fu fondata da Carter G. Woodson proprio qui a Chicago. Leggevamo The Crisis. Ed eravamo molto fieri quando alle assemblee e alle feste della chiesa cantavamo Lift Every Voice and Sing”. Come era possibile proteggere chi tra noi si stava acclimatando alla cultura bianca senza lo scudo della segregazione culturale? Come si poteva istillare un vero orgoglio intellettuale? Da quel giorno in avanti mamma diede inizio al suo corso di arricchimento

culturale, a cui papà contribuiva la sera e nel fine

nate?)

settimana. Sebbene il suo intento fosse nazionale, il punto focale era Chicago, con un enfasi particolare su amici e conoscenti. Ragazze, sapevate che... La Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato legittima la tesi contro le restrizioni in materia di edilizia privata, sostenuta dai nostri amici Earl Dickerson e Truman Gibson, i quali rappresentavano Carl Hansberry, un nostro conoscente nonché il padre di Lorraine Hansberry? Che il nostro Provident Hospital è stato il primo in questo paese a essere fondato e amministrato

da Negri, e il fondatore,

Daniel

Hale Williams, è stato il primo chirurgo a eseguire un intervento a

cuore aperto? Che Ida B. Wells, l’attivista per i diritti civili che guidò la campagna contro il linciaggio, visse e lavorò e svolse la sua attività politica qui a Chicago? Che il nostro amico Allison Davis è stato il primo Negro a ottenere una cattedra in una grande università (la University of Chicago?). Che ha firmato lavori pioneristici sulla razza e sulla cultura e sugli errori nella misurazione del quoziente intellettivo? Che un tempo il “Chicago Defender” è stato il quotidiano più influente dell'America Negra? Che è diretto dal nostro amico Ro-

bert Sengstacke e da sua moglie, Myrtle? Che “Ebony”, “Jet” e la Johnson Publishing sono state fondate dal nostro amico Johnny, con l’aiuto di sua moglie Eunice? Che il nostro amico, il reverendo Archibal Carey, della Quinn Chapel, è stato un delegato supplente alle Nazioni Unite e presidente della Commissione sulle politiche di assunzione governative istituita da Eisenhower? Che Black Metropolis, una ricerca sociologica di grande rilevanza,

interessa Chicago ed è stata elaborata da due studiosi Negri della University of Chicago, St. Clair Drake e Horace R. Cayton? Che Oscar De Priest, il cugino di Helen Harvey, è stato il primo Negro eletto al Congresso in questo secolo?

113

Che Katherine Dunham è cresciuta qui, ha compiuto gli studi in antropologia alla University of Chicago e qui ha fondato la sua compagnia di danza? Che l'Associazione dei musicisti Negri è nata a Chicago? Che la nostra amica Etta Moten ha recitato nella messinscena del 194.3 di Porgy and Bess, e ha cantato (con dignità e sapienza) in Donne di lusso 1935 e Flying Down to Rio? Che suo marito, Claude Barnett, anche lui di Chicago, ha fondato l'Associazione della stampa Negra? Che il nostro amico Ralph Metcalfe Sr ha vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1936? Ci tenete davvero a non sapere da dove veniamo e cosa abbiamo fatto, come i vostri compagni di scuola bianchi? In quinta La signorina Torrance ha i capelli tagliati come Doris Day nel ruolo di Babe in The Pajama Game. Frangetta sulla fronte, corti e piatti die-

tro. Mi sceglie per fare Amahl nella nostra messinscena scolastica di Amahl and the Night Visitors. Ascoltiamo ripetutamente lo spartito di Menotti, lo impariamo a memoria. È come una favola, completa di una raffica di situazioni drammatiche e sentimentali prevedibilmente emozionanti. Recitiamo in playback come se il playback fosse un obbligo imposto dall’opera. Non provo alcun terrore di “non essere all'altezza”, non ho quei sentimenti contrastanti che negli anni a venire mi spingeranno

a fare cose come

1) gettarmi lungo

una rampa di scale per poter dire di essere ferita così da evitare il provino per entrare nella squadra di scherma del college, 2) immergermi tutta emozionata nella stesura di un saggio per una rivista pur essendo già un’autrice navigata, per poi tirarmi indietro con la convinzione di non potercela assolutamente fare. Ora non

desidero altro che essere un ragazzo sulle stampelle, a

Betlemme, tra il 7 e il 3 avanti Cristo, un ragazzino noto per le storie fantasiose che racconta, un bugiardo, e perché no, che accudisce

114 le pecore da solo per tutto il giorno, senza amici, perché le ragazze e i ragazzi dagli arti flessuosi non hanno tempo da perdere con lui.

Un ragazzino con una madre talmente povera da dover vendere le pecore e mandarlo a chiedere l'elemosina (ma si sa che i mendicanti sono bugiardi). Un ragazzino che lotta per essere l’uomo di casa, ma che desidera ardentemente essere solo un bambino, con una mamma che sia premurosa e indulgente e non impaziente e spaventata. Un ragazzino che odia essere menomato, che dovrebbe proteggere la madre, e che non può. Un ragazzino che sente di dover essere eccezionale e che non lo è, un ragazzino che racconta bugie non per attirare l’attenzione su di sé, ma perché è pieno di immaginazione. Un ragazzino salvato dall’intervento del mito. Un ragazzino ricompensato

da un miracolo.

Io e Sandy Mentschikoff siamo così infervorate! Lei fa la madre espressiva: il suo personaggio è intenso e generoso, abituato al dolore. I nostri compagni di classe ci applaudono, ci acclamano tanto quanto i loro geangustiata e disperata, ed è straordinariamente

nitori. È emozionante.

Torno a casa dalla recita finale con una grossa vescica piena di sangue sul piede, di cui si occupa mio padre. Siedo nella sedia a pozzetto del tinello e papà arriva con la borsa da medico. Buca e sterilizza la vescica. È premuroso, impressionato. È stato costretto a saltare la recita perché non poteva assentarsi dal lavoro. Eppure, mentre mi sorride e si prende cura di me, percepisco il suo orgoglio. Il mio talento e il mio successo meritano tutta la sua attenzione. Ogni Natale trasmettono Amahl and the Night Visitors alla tv. Lo guardiamo fedelmente dal 1951, e la nostra gioia assume i connotati dell’estasi quando la ballerina Negra Carmen de Lavallade, vestita da pastorella, entra in scena per rendere omaggio ai re magi: inizialmente timida, poi giocosa, ma comunque straordinaria. Denise

ci si è identificata prima di me. Io però adesso reclamo Amabhl. Chet Allen ha degli enormi occhi neri. Una capigliatura riccioluta che davanti alla macchina da presa si illumina.

Lis

Forse dopo il mio trionfo nei panni di Amahl sono diventata arrogante e superba, e forse è per questa ragione che quello stesso anno commetto uno sbaglio terribile. M. è una mia buona amica. Andiamo a danza insieme (lei ha piedi più adatti ed è più aggraziata di me, ed è anche più carina). Studiamo tutte e due musica (io il piano, lei il violino, ma dicono che io abbia più talento). Mi confessa che quando tutta la sua classe ha dovuto disegnare la propria silhouette di profilo lei si è tagliata via la punta del naso a becco. L'ha fatto davvero. Il becco è scomparso, e il suo profilo è finito bello mansueto sulla parete, lungo una fila di altri nasi dritti. Un mattino bisticciamo per qualcosa e non ci parliamo più. Più tardi, nel corso di quella giornata, lei prova a fare pace. Mentre le nostre classi attraversano il corridoio, entrando oppure uscendo dall'aula di coordinamento, lei emerge dalla fila per chinarsi verso di me e sussurrare "ehi, Margo!”, con veemenza, come implorante. Io porto in alto il naso, sollevo la testa, e proseguo dritta per la mia strada. Stavo esagerando. Il successo aveva forse risvegliato l'invidia e il risentimento? Me la stavo prendendo con Mary perché aveva piedi migliori dei miei ed era più aggraziata di me? Perché non portava gli occhiali spessi ed era più carina? Poco dopo ci faccio pace. Ma la sento distante. Ho la brutta sensazione di aver passato il limite. Ed è proprio così. La conferma arriva l’anno seguente, quando

una ragazzina nuova, simpatica e allegra, inizia a farle la corte, con

successo. E l’anno dopo, quando accetta le attenzioni della ragazzina che in passato era stata la mia migliore amica. Sapevo anch'io come essere simpatica e socievole, sebbene avessi il timore

che la mia vivacità potesse essere travisata,

tassero vuota.

Descrissi

questa sensazione

che mi repu-

in un lungo componi-

per il corso di scrittura tenuto dalla signorina Torrance (scrivevamo tutti i giorni). Volevo che fosse evidente che avevo un lato taciturno e contemplativo, che amavo la natura. Ma temevo che, dopo averlo detto, mi avrebbero derisa. La signorina Torrance mento

116

deve aver letto il componimento a voce alta, perché il demonio della classe, un piccoletto che si chiamava Vernon, con la frangetta e un vago accento britannico, mi informò,

con una voce tetra e gli

occhi che gli brillavano, di aver sentito dire che certi ragazzini volevano canzonarmi. Ero furibonda e mortificata. Avevo dieci anni ed ero ed già una sbruffona. Alla fine non ci fu alcuna canzonatura e Vernon non provò alcun rimpianto. Era il tipo che sapeva farti a pezzi con una sicurezza invidiabile! Fu all’incirca in questo periodo che il prozio Lucious ricominciò a vivere da Negro. I nostri amici di Negroland sembravano appartenere a tutti i gruppi etnici noti all’epoca: Negro, caucasico, asiatico, latino o mediorientale. A scuola sembravano quasi tutti bianchi, ma questo succedeva perché erano quasi tutti bianchi. Gli studenti Negri erano nella maggior parte dei casi di svariate e diverse sfumature di marrone. Le tre amiche speciali che ho avuto in prima e in seconda sembravano bianche. Ma quando le nostre mamme venivano a prenderci, la mia e quella di Carolyn si chiamavano per nome e si salutavano

come si fa tra amiche. Con le madri di J. e di A., invece, i nomi di battesimo e le battute erano esclusi. Talvolta ho sentito mamma diceva a papà quali erano le mamme

che

sinceramente gentili (come la

madre di A.), quali erano quelle che provavano — senza esagerare,

perché si trattava di una scuola progressista — a far finta di non vederla, e chi, come la madre di ]., la salutava in un modo che lasciava

intendere che avrebbero preferito far finta di non vederla. A. e J. erano bianche, non c'è dubbio. E quando cominciai a vedere Carolyn anche fuori dalla scuola, a qualche incontro per le

famiglie — le feste del Jack and Jill, il tè di beneficienza per il Provident Hospital, la cena al Parkway Ballroom — mi resi conto che

era di Negroland anche lei. All’epoca gli eufemismi di cui mi servivo stavano diventando un po tortuosi. Non ricordo di aver mai

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detto “Negro” o “bianco”, ma ricordo che prestavo attenzione nel dire “i miei amici di scuola” e "i miei amici di fuori”; ma visto che alcuni degli amici di fuori venivano anche a scuola con me, questa nomenclatura non era di nessun aiuto ai miei espedienti strategici.

Stavo provando a tenere sotto controllo il mio spazio d’aria razziale. Quando zio Lucious smise di essere bianco, i miei genitori lo invitarono

a cena.

Aveva

lavorato

per molti anni

come

commesso

viaggiatore, mantenendo contatti periodici con le sorelle e i cugini

che, quando capitava in città, erano bianchi a sufficienza per poterlo incontrare nei locali segregati. Poi andò in pensione, e a quel punto la comunità in cui scelse di vivere fu Negroland. A me e Denise raccontarono la storia per sommi capi, e lo salu-

tammo con gentilezza. Ma non smisi di guardarlo di nascosto per tutta la sera. Aveva la faccia allungata dei Jefferson. Ma non mi riuscì di scorgervi nessun — nessun — segno tangibile che fosse un Negro. Il naso era affilato come una lama, le labbra sottili come uno spago, la pelle bianca quasi come i capelli. Dissi tra me e me: Alcuni dei nostri amici sono bianchi come zio Lucious. Ma li avevo sempre considerati Negri. La parola aveva mantenuto una sua fluidità visiva anche mentre si arricchiva di obblighi sociali e restrizioni politiche. Ora ero in caduta libera. Chi e cosa eravamo "noi Negri” se così tanti di noi potevano essere bianchi? Mi fermai a ragionarci sopra: Se sono imparentata con zio Lucious e sono visibilmente Negra e

zio Lucious è invisibilmente Negro e visibilmente bianco... Tutto d’un tratto la realtà dello scollamento razziale ebbe la meglio. E per diversi giorni mi sentii elettrizzata. Sapevo qualcosa che nessuno dei miei compagni bianchi poteva sapere. Non era solo che alcuni di noi erano capaci quanto loro. Alcuni di noi erano loro. L'aspetto di nostra cugina Lillian Granberry Thompson era tale che il suo ritratto avrebbe potuto figurare senza problemi nel Museo della Confederazione. (“Lillian,” le diceva sempre suo padre “nelle

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tue vene scorre il sangue migliore del Mississippi”). Di qualche anno più grande di mio padre, aveva scelto di vivere come Negra di

pelle chiara, spacciandosi per bianca ogni volta che desiderava spendere i suoi soldi in negozi e ristoranti per soli bianchi, beneficiando così dei piccoli omaggi (rispetto qui, adulazione là) che spesso le tributavano i Negri di pelle scura. Nella famiglia di papà era l'anello di congiunzione tra chi “passava” e chi “non passava”. Nel mondo dei miei genitori, erano moltissimi quelli con parenti che in un modo o nell’altro avevano scelto di vivere come bianchi. Passare per un mero svago era segno di spensieratezza. Fare shopping nei negozi per soli bianchi, ricevere un trattamento rispettoso

nei ristoranti per soli bianchi. Tornavi a casa ridacchiando sotto i baffi: Che tonti questi del Nord! Chi passava per bianco per tutta la vita diventava una fonte inesauribile di spunti melodrammatici. P. visse da Negra, ma separata dal fratello gemello, che visse da bianco. N. fu l’unico in una famiglia di otto persone a restare Negro. Il fratello di H. aveva vissuto per decenni come un bianco in una cittadina inglese e quando, l'estate prima del college, io e sua nipote, che avrebbe potuto passare per bianca, andammo in Europa, lei andò a trovarlo da sola; le nostre madri ne avevano discusso in anticipo.

Fu allora che papà mi raccontò di nostro cucino J.E., che da qualche parte nel Midwest passava da decenni per un padre di famiglia e uomo d'affari bianco. Uso le iniziali per nascondere la sua identità. Sua madre, la prozia Bessie, viveva a Chicago. Quando

J.E. veniva in città (era giunto al vertice, o in prossimità del vertice, di una compagnia assicurativa) contattava sua cugina Lil; a quel

punto lei chiamava altri parenti Negri e organizzava le visite. Dalle parole di mio padre, la conversazione era a dir poco ellittica. “In città c'è un nostro amico d'infanzia e vorrebbe vederti... se venisse nel tuo ufficio stasera dopo l'orario di lavoro andrebbe bene?”. Mentre mi raccontava tutta la storia papà abbassò perfino la voce. Io la ricordo così: È calato il buio. I pazienti sono andati a casa, l'infermiera e la segretaria sono andate a casa. Qualcuno bussa alla

119 porta. La cugina Lil entra per prima, lei e mio padre si baciano

sulle guance, e subito dopo entra J.E. Si abbracciano oppure si stringono la mano? Direi che si stringono la mano, poi (forse dopo un attimo di esitazione?) si scambiano qualche pacca sulle spalle. “Allora come va?”. "Bene, molto bene. Che piacere vederti”. Se è inverno, parlare del freddo di Chicago gli permetterà di superare l'imbarazzo iniziale. Se è primavera o estate, il caldo li spingerà a rievocare la loro infanzia nel Sud. "Di cosa avete parlato?” chiesi. “Dei vecchi tempi” rispose mio padre, con lo sguardo fisso su un punto alle mie spalle. I vecchi tempi, quando erano due ragazzi del Mississippi, registrati dai rispettivi genitori come “mulatti” nel modulo statale del censimento. Ma perché a J.E. venne in mente di rivedere papà? Un tempo erano stati grandi amici oppure si trattava di una semplice visita di

cortesia? Non glielo chiesi. Era come se questo incontro, come se

tutta la vita di ].E., dovesse restare un segreto, come se proseguire nella conversazione potesse far emergere quello che doveva restare

nascosto. Papà mi raccontò che i figli bianchi di J.E. seppero della sua razza solo quando lui morì. Successe perché la moglie lo aveva sempre saputo, o lo aveva soltanto sospettato? O grazie a una confessione in punto di morte? I figli avevano scoperto documenti scottanti rovistando tra le sue carte? Come avevano fatto ad arrivare

fino a Rust, il college Negro che J.E. aveva frequentato in Mississippi, prima di passare all'università di M., più a nord? A Rust incontrarono degli ostacoli, qualcuno disse loro che un incendio aveva distrutto molti documenti scolastici, inclusi quelli del padre. Era la verità o era un inganno perpetrato dai vecchi amministratori dell'università per sviare i parenti bianchi dalla pista degli ex Negri? I figli insistettero, arrivarono non si sa come a Chicago e si presentarono alla porta della loro nonna solo per essere respinti. In che modo si erano presentati? Parlando timidamente, con gentilezza,

oppure con un tono scortese e accusatorio? Le mostrarono forse una fotografia del figlio e del padre che aveva gettato nel dubbio tutta la

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loro stirpe? Non mi fu raccontato nulla, se non che la nonna diede la risposta che avrebbe voluto il figlio. "Di quest'uomo non so niente” disse, e chiuse la porta. Ogni melodramma richiede una scena ad alta tensione emotiva. Scena risolutiva — la madre, con aria di sfida, tranquilla in maniera soprannaturale,

un leggero fremito rivelatore nella voce — e costernazione: facciamo che un figlio arretri, confuso e scioccato; che l’altro si giri, con la mano alpetto, mentre ogni muscolo del

corpo dice: “Grazie a Dio! Sono stato risparmiato”.

Il melodramma svanisce e i miei cugini vita oppure ne iniziano una nuova. Cosa J.E. e sua moglie quando parlavano di Negri prima di inciampare nel fatto di

fanno ritorno alla vecchia avranno detto ai loro figli Negri? Che sapevano dei essere Negri anche loro?

Sarà questo a influenzare il loro giudizio. Insieme, oppure ognuno per conto

suo, potranno

continuare

a essere bianchi,

senza più il

privilegio, però, di dare per scontato quello che sono e tutto ciò che li riguarda. O potrebbero assumere l’ipersensibile e permalosa identità dei Negri pallidi, chiari, quasi-bianchi. In ogni caso, d’ora in avanti non potranno più fidarsi ciecamente delle apparenze. Torniamo alla prozia Bessie: aveva recitato la parte della madre sacrificale, quella costretta dall’illecita posizione (sociale, razziale, sessuale: scegliete voi la trama) a rinunciare a qualunque diritto sul figlio. Le spiegazioni più tradizionali prediligono il dolore e la grandezza stoica. Proviamo con l’ira. Qualunque cosa abbia visto sui loro volti — paura, desiderio, imbarazzo, disprezzo — la frase della prozia Bessie è stata la sua vendetta. Significava: “Nessuno di voi, ora, potrà accettarmi o riftutarmi. Non so più nulla dell’uomo che è stato vostro padre e non so chi siete voi. Qualunque cosa vogliate sapere io manterrò il segreto. E se sperate che il mio silenzio vi autorizzi a tornare bianchi, non è così. Mi avete vista, avete intravisto la sua faccia nella mia. D'ora in poi non potrete più contare su un passato bianco e immacolato.

Non riuscirete mai più a

RS

dimenticare l'eventualità che io possa essere la nonna Negra che vi ha respinti, che vi ha rifiutati”. Tutte fantasie. Esagerazioni. È probabile che i nipoti della mia. prozia ne sappiano di più, ma non ho ancora trovato il coraggio di chiederglielo. Al funerale della prozia Bessie ero seduta accanto a mia cugina Lil, e ho tirato di nuovo fuori questa storia nella speranza che la morte le sciogliesse la lingua. Lei ha scosso il capo e mi ha preso la mano come se dovesse calmare un bambino sul punto di comportarsi in modo inappropriato. “Non dovremmo parlare di questo” mi ha detto, e poi si è messa a conversare con altre persone. Zio Lucious non è più tornato a trovarci. Nel cabinato di mio padre, il Bali Ha'i, c'è una sua fotografia. È seduto accanto alla sorella. Lui ha un'aria soddisfatta, lei esuberante. Mio padre mi raccontò che, dopo essersi sistemato a Negroland, lo zio Lucious cominciò a telefonare ai suoi parenti Negri e ad accusarli di trascurarlo. Psicologicamente trasparente. Ma zio Lucious era stato permaloso anche come bianco, continuò mio padre, un bianco che minava di continuo la propria pace personale mettendosi a litigare con chiunque dicesse qualcosa di offensivo o irrispettoso sui Negri,

come inevitabilmente succedeva nei bar e nei ristoranti bianchi in cui si recava spesso. "Stanno tutto il tempo a parlare di noi” raccontava a mio padre. Ma talvolta dovevano parlare anche di altre cose. E nei primi tempi, queste chiacchiere ordinarie tra bianchi ordinari per zio Lucious

devono

aver rappresentato

un lusso per

zio Lucious. All’inizio le digressioni sgradevoli deve averle sopportate benino. Poi non ci riuscì più. Iniziò a ribellarsi, ad azzuffarsi e a mettersi

in situazioni che suscitavano

Perciò, quando venne il momento

risentimento.

Sospetto.

di andare in pensione, ci andò,

si fece da parte, e si ristabilì tra i Negri. Ma a quel punto non era più veramente Negro. Era un ex bianco. Nei suoi riguardi i miei genitori provavano un po’ di disprezzo. Non tanto perché era passato per bianco, quanto perché non aveva mai superato il livello di commesso

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viaggiatore. Se ti affanni tanto per essere bianco, dovresti avere molto più successo di quello che avresti potuto ottenere da Negro.

Jack and Jill dovrebbe incoraggiare la nostra crescita come Negri capaci di arrivare più in alto della maggior parte dei bianchi. Jack and Jill, Majors and Minors, Trees and Iwigs: sono associazioni nazionali e locali fondate dalle madri per essere certe che i figli rappresentino e perpetuino ivalori dell’élite Negra. Jack and Jill è stata fondata nel 1938 da ventisei madri di Philadelphia, tutte discendenti delle "classi elevate della società di co-

lore” descritta da Joseph Willson. Ventisei donne dotate della classica vanagloria del Decimo di talento, che prescrive: “Ci adopereremo per stabilire standard elevati per la vita sociale e culturale delle nostre famiglie nonostante la società bianca continui a sminuire o a ignorare i nostri successi”. Sono galvanizzate dalla rinvigorita campagna

Negra per ottenere pari opportunità e van-

taggi. Sono galvanizzate dal lungimirante riformismo progressista in materia di accudimento dei figli, che indica come spetti a loro, in quanto donne, la responsabilità di contribuire al percorso di crescita con rigore pedagogico e intuizione psicologica. L’autore-

vole BabiesAreHuman Beings viene pubblicato proprio quell’anno. SCOPI DELL’ORGANIZZAZIONE NAZIONALE Promuovere lo sviluppo di un bambino completamente integrato seguendo precise linee pedagogiche, fisiche, ricreative, religiose e sociali. Promuovere una maggiore conoscenza dei figli da parte delle madri attraverso lo studio.

Promuovere le azioni in favore dei bambini meno fortunati dei nostri. Sostenere tutte le leggi nazionali che mirano a migliorare le condizioni di vita dei bambini.

123 E mettere in mostra i nostri talenti. A una festa natalizia del Jack and Jill, il piccolo Nicky Roberts, eccessivamente brillante e attraente (folti boccoli neri, pelle beige-giallastra, grandi occhi scuri), recita tutti i quattordici versi della Notte di Natale. Avrà al massimo cinque o sei anni. Mentre con un filo di voce lui recita un verso dopo l’altro l'entusiasmo dei genitori seduti nel pubblico diventa incontenibile. Sto sfogliando i numeri degli anni Cinquanta di “Up the Hill”, la

rivista confezionata ogni anno dalle madri dei Jack and Jill. Su ogni copertina c'è il disegno di un idillio americano. Nel 1950 un ragazzino sorridente spinge una ragazzina seduta su un’altalena legata a un ramo fiorito. (Tra noi e l'associazione bianca Dick and Jane non c'è differenza). Nel 1952 un bambino e una bambina sono in bicicletta insieme, sopra di loro un cielo pulito e alle loro spalle alberi e prati. (Non viviamo nel bassifondi). Ibambini sembrano caucasici come quelli sulle copertine delle riviste a diffusione nazionale. L’anno dopo tre adolescenti in uniforme scout si stringono le mani su un virtuoso paesaggio di vita pubblica Negra: una chiesa, una villetta a un piano e tre edifici dall'aria imponente che indicano il fronte più avanzato del progresso razziale rappresentato dalla Naacp, l'Ymca e la Ywca. La copertina è color oro e blu notte, e l'atmosfera è quella di un luminoso crepuscolo. La famiglia sulla copertina del numero uscito in occasione del decennale, nel 1956, ha un aspetto e un abbigliamento tipicamente anglosassone, e per suggerire che si tratta di Negri sono state aggiunte delle linee scure.

La copertina del 1957 ha invece il sapore internazionale delle Nazioni Unite (dopotutto il dottor Ralph Buncher, uno dei nostri, è sottosegretario agli affari politici dell'Onu): ogni immagine evoca un continente mentre un gruppo di giovani di diverse etnie sorregge

il globo terrestre. "Il Mondo avanza seguendo i passi dei bambini”. Che facevamo quando eravamo piccoli, o preadolescenti, o “Dieci

più uno”, o liceali che si chiamavamo l’un l’altro Vogue ed Esquire

124 oppure Gonne e Camicie? Esattamente quello che facevano i ragazzini americani bianchi: arti decorative (bambole e gioielli le femmine, aeroplani i maschi), scampagnate e giri in slitta, feste ac-

quatiche (“a bordo piscina”), feste con lo slittino, tennis, equitavisite al circo, ai musei, ai teatri e agli studi televisivi.

zione,

C'erano le feste con gli spettacoli di marionette, le feste a tema western o messicano,

i balli di coppia o di gruppo,

i rinfreschi e le

feste danzanti, e “quando gli affascinanti giovanotti scortavano le adorabili damigelle al tavolo della cena illuminato dalle candele, erano le buone maniere a dettar legge”.

Ricordo la festa a tema messicano perché la madre diJose R. era per metà messicana e ci insegnò il ritornello di Cielito Lindo in spagnolo. Quella scampagnata mi diede l'impressione di stare nel simpatico sketch “Facciamo un picnic” che avevo visto al Mickey Mouse Club,

in cui recitava Darlene,

la mia Mous-chettiera

preferita

(provo una piacevole sensazione di rivalsa ogni volta che vedo Nanette Fabray e un cast tutto bianco alle prese con il dialetto di The Band Wagon: “Get goin’, Louisiana hayride, / Get goin’, we all is ready!” cantano disinvolti, e quando alla fine arriva un bimbetto Negro con il cappello di paglia che si mette a saltellare sul fieno per cinguettare: “I is here!”). Ricordo la festa con gli slittini in uno chalet dei sobborghi perché c'erano dei ragazzi bianchi che ridevano sguaiatamente e che ballavano senza che ci fosse qualcuno a sorvegliare. Forse avevo già visto qualche scena di film come Giungla d'asfalto. Sembrava pericolosamente attraente. Cos'era che si addiceva di più alle nostre necessità di Negri? Le lezioni di scienze sociali che dimostravano che avevamo una storia

e un'eredità culturale. I Jack and Jill di Philadelphia studiarono ‘l'esotica Haiti”: sotto la guida di una mamma che aveva visitato l’isola ed era “a suo modo un'artista”, confezionarono cestini, tamburi e ceramiche, e invitarono a parlare un “vero haitiano”, l’insigne dottor Bonhomme. Fu un tale successo che l’anno successivo decisero di studiare l'Africa, si recarono

a imparare la sua storia

125 alla Schomburg Library, e a vedere la sua produzione artistica alla Lincoln University. Ci furono anche tentativi di integrazione: nel 1952, la succursale di Columbus, in Ohio, studiò Israele e la cultura ebraica. I bambini delle elementari impararono “i giochi e le poesie preferite dei bambini ebrei”, il gruppo delle medie andò in visita a un centro di cultura ebraico, quello delle superiori, gli “Adolescenti pungenti” diedero un tè interraziale a cui invitarono gli appartenenti a un tempio ebraico. L'affermazione nella professione era essenziale, di conseguenza ecco “Papà fa notizia”. E anche la beneficienza: i contribuiti allo United Negro College Fund, i regali di Natale per i bambini delle Isole Vergini, un televisore per il Boys’ Club di Washington, D.C.

Eccomi in una foto del 1954 con bambini dai due ai cinque anni, mentre indosso un pagliaccetto e la camicia bianca con le maniche a sbuffo. Nella relazione della succursale (ogni succursale inoltra una relazione a “Up the Hill”) c’è scritto che l’anno è iniziato con una festa di Halloween: "I bambini sono venuti mascherati con abiti di mille colori”. A novembre ognuno di noi ha portato un regalo (un puzzle di legno, libri cartonati e dischi indistruttibili) de-

stinato al reparto di pediatria del Provident, e a dicembre il nostro altruismo fu ricompensato: ci guadagnammo le decorazioni per la nostra festa di Natale e la pesca a sorpresa. A gennaio noi “piccolini” imparammo a fare lavoretti artigianali; febbraio ci portò San Valentino e marzo delle "lezioni di danze popolari per i più piccini”. Il fatto più rilevante fu che formammo un gruppo musicale

e che ci preparammo per il Jack and Jill Day di primavera. Deve essere stato il giorno in cui ho interrotto la mia amichetta sul palco per improvvisare il mio balletto. Le mamme si affidavano alle intuizioni e agli ideali illuminati della psicologia infantile. Il Credo dei genitori intitolato "Le necessità emotive di tuo figlio” rappresentava il modello pedagogico

126

e di autoanalisi che ci si aspettava — che si pretendeva — dalle madri di allora. Era un atto di lealtà, un giuramento di fedeltà allo Spirito materno.

Qualche esempio: il bisogno di appartenenza (“mi impegno a incoraggiare nel mio bambino un senso di sicurezza evitando di ricorrere a metodi coercitivi”), il bisogno di affermazione (“non cercherò di realizzare le mie ambizioni personali imponendole a mio figlio”), il bisogno di integrità personale per poter condividere (“mostrerò cortesia e considerazione verso gli altri a prescindere da età, sesso, colore, credo religioso, nazionalità”). In termini sociologici e pratici, come ricompensare l'impegno delle nostre madri? Il nostro obiettivo, secondo il giuramento della succursale di Los Angeles, dice che: “In cima a tutto c’è la LauREA e una cARRIERA DI SUCCESSO”. Personifichiamo il progresso di una popolazione, e non da ultimo — sicuramente non da ultimo — il successo della sua vita familiare ingiustamente calunniata. Le nostre madri portano avanti il progetto di glorificazione perpetua della Donna Negra, dimostrando che si tratta di una vera signora, di un membro responsabile della comunità, di una moglie esemplare che educa bambini esemplari. Per quei bambini che la mamma e suo marito hanno iscritto alle

scuole per bianchi, Jack and Jill diventa un corso di arricchimento razziale, una garanzia che le nostre vite sociali non

dalla benevolenza loro genitori.

dipendono

dei nostri compagni bianchi né da quella dei

Talvolta, davanti a quei giovani neri che non fanno altro che dire di essere stati meglio — o che sarebbero stati meglio — in una scuola nera, almeno

nella fase che va dall’asilo alle medie, perdo la pa-

zienza. Davanti a quelli che ne hanno tratto, o che ne avrebbero tratto, un'identità razziale e sociale più decisa, un'identità depurata dal sospetto, dal sotterfugio, dalla confusione, dall’eufemismo,

127 dall’arroganza, dal paternalismo, e dal disprezzo. Non ho elementi per proporre un confronto. Le uniche scuole che ho frequentato erano bianche e avevano al loro interno piccoli gruppi di Negri. Sono sempre rimasta convinta che alla Lab, perlomeno fino alla quinta, siamo stati liberi di assolvere i nostri doveri infantili — imparare a lavorare e a giocare, a competere, a collaborare in un ambiente in larga misura senza etichette razziali. No, ovviamente non era “libero”, ma almeno era uno spazio che ci proteggeva dal pregiudizio razziale e dalla coscienza degli adulti. A tutti gli effetti, sì, eravamo al riparo. Ma non c'era nulla che potesse proteggerci dagli insegnanti. Né dai nostri genitori. Né dagli shock causati dalle differenze fisiche.

“Quando in seconda mi ritrovai alla Lab, mi accorsi subito di essere in una realtà straniera” mi disse Denise. "I ragazzini avevano la frangetta”. “Denise,” le dissi io “ho visto delle foto di te all'asilo Rosenwald. Più della metà degli alunni sembrano bianchi”. “Ma non c'erano ragazzini con la frangetta, Margo. Avevano i capelli ricci oppure mossi. Ma nessuno aveva la frangetta”. “Con i capelli lisci che si ritrovava, Butch Dale avrebbe potuto benissimo avere la frangetta”.

“Però non ce l'aveva”. Nessuno poteva proteggerci dalle nostre fantasie. Come mi piacerebbe cancellare il ricordo della prima volta in cui smaniai per farmi lavare i capelli. Ero sicura, assolutamente sicura, che sarebbero diventati biondi. “Fatemi uscire da questa storia di bambole bionde/bambole brune”. Vorrei mettermi a urlare. "Io valgo di più!”. può sfuggire al tempo 0 alla geografia. Mi ripeto le parole Poi mi calmo. Nessuno dello psicoterapeuta: “Una fantasia è una costruzione”. Mi concedo un momento cechoviano: Le generazioni che verranno dopo non dovranno più sopportare ilpeso di queste costruzioni.

Quelle brutte storie che hai ascoltato di nascosto o che ti hanno raccontato nonni e genitori fanno parte del tuo curriculum, storie

128

che invariabilmente smentiscono le opinioni più diffuse, secondo

cui se i Negri si mostrassero all'altezza non avrebbero difficoltà a farsi trattare da pari. Nonni e genitori ti dicono che a qualche bianco piaceresti ancora meno di adesso se fossi dichiaratamente uguale a loro. Ecco alcuni esempi tratti dalle loro vite e da quelle dei loro amici. Un professore della University of Chicago è così infastidito dalla sfida rappresentata da una studentessa Negra da dirle: “Fino a quando io sarò in questo dipartimento tu resterai senza master”. A quel punto zia Vera andò alla Northwestern. Il personale medico sudista bianco dell'ospedale della University of Chicago protesta contro l’internato di un medico Negro, in particolare perché gli è stato consentito

di entrare nelle stanze in cui sono

ricoverate

delle pazienti bianche. “Quando facciamo il giro tu resta sempre accanto a me” disse il primario a mio padre. Così fece e alla fine concluse l’internato. “Il segnale segreto che, camuffato, una generazione passa all'altra, è l’odio, il disgusto, la disperazione”. E il risultato di tutto questo è una sensazione di violazione perpetua.

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Ma devo passare ad altro.

Perché ci siamo quasi. Qualunque sia la nostra razza, il nostro colore o la nostra religione, io e i miei compagni siamo pronti a

Sgusciare via Sbracarci Mettere il broncio Fare i duri Ondeggiando sinuosi Nelle braccia dell'adolescenza. Convulsi e indolenti Per vivere il momento che il più delle volte è il momento

sbagliato.

Applichiamo Clerasil sui brufoli, iniziamo a mangiucchiarci le un-

ghie, impariamo a usare i Kotex, poii Tampax, e diciamo frasi tipo “Neve a Sud!” se dal vestito ti sporge la sottoveste.

Mi manca

ancora qualche anno,

— in parte come

ma comincio già a partecipare

recluta, in parte da ammiratrice

—, quando

il

sabato e la domenica sera Denise si mette ad ascoltare Jam with Sam sulla stazione Wges, o convince nostra madre a portarci a The Girl Can't Help It ("Little Richard è fantastico e Jayne

vedere

130 Mansfield è un’attrice bravissima” la rassicuriamo quando viene a riprenderci). Denise inizierà a saltare e piroettare, userà il ripostiglio delle scope per fare gli esercizi di danza, impilerà i suoi ultimi 45 giri sul giradischi del secondo piano. Ballerà il cha-cha-cha su Quiet Village e Poinciana, il bop seguendo “she was a foxy little mama with great big hips/Pretty long hair and pretty red lips!”. Sussurrerà "I sit in my room looking out at the rain/My tears are like crystal, they cover my windowpanes”. Io leggerò i numeri che ormai non le interessano più di “Polly Pigtail”, “Calling Girls”, “Mademoiselle”

e “Mad Magazine”,

così

come le sue copie di Seventeenth Summer e Mara, Daughter ofthe Nile. Denise inizierà ad andare nel salone di bellezza di Stormy, tra la Quarantasettesima e South Park, vicino al Regal Theater, per farsi tagliare e stirare i capelli. Le amiche di mamma vanno tutte lì, oppure da Mister Paul. Le estetiste indossano camici rosa, e lo scintillante

caschetto nero di Stormy ha una sfumatura blu cobalto. Quando Denise si lamenterà che lo stiracapelli brucia, le diranno: “La bellezza è sacrificio, Denise”. A insegnarglielo è Marva Louis Spaulding, ex

moglie di Joe Louis, apparsa nella doppia pagina di “Ebony” dedicata alla moda. La sua bellezza supera le nostre più rosee speranze. Grazie a Denise girerò le spalle al Mickey Mouse Club, dove lei era Doreen,

la ballerina più brava e con la frangetta più carina,

ero Darlene,

e io

sempre allegra e mai sfacciata, con lunghe trecce e

ruoli di primo piano nelle serie Disney. (Quando la competizione con Doreen/Denise si faceva troppo impegnativa, diventavo la piccola Karen, la versione disneyana di Flossie Bobbsey. Ricciolini sulla testa e Cubby al seguito). Comincerò a guardare American Bandstand e ripeterò a pappagallo quello che dice Denise: Arlene e Kenny sono gli unici adolescenti realistici in questo spettacolo totalmente bianco. Hanno i capelli neri, ricci e imbrillantinati. Quando ballano hanno un'espressione sicura. Nessuno sa vestire con stile come loro, né stare al passo.

131 Quando ero sola continuavo a leggere poesia, abbandonandomi alle ampollosità di Christina Rossetti, Sara Teasdale ed Elinor Wylie, nascondendo la mia aggressività nell’assurda costruzione di “Il tricheco e il carpentiere”, “Padre William” e “La caccia allo Snark”. Almeno fino a quando non incappai in una poesia completamente diversa. Si trovava nel mio volume di Modern American Poetry. E il primo verso mi dilaniò. Grassi esemplari neri in una cantina,

Re della casa delle botti, con passo insicuro...

Repulsione/compulsione/repulsione/compulsione mi rono addosso come i colpi violenti sferrati con i manici da quei maschioni grassi che ciondolavano, annaspavano vano su un tavolo del Congo primordiale, da cui deriva

piombadi scopa e pestail Negro

americano.

“Bubum,

bubum, bubum,

Bum”,

Una melodia ragtime ruggente, magna. Era la poesia "Il Congo” di Vachel Lindsay, dalla quale non riuscii a staccarmi, né quella volta né i giorni seguenti.

Allora lungo l’argine nero Un migliaio di miglia Cannibali tatuati ballavano in squadriglia;

[nd E "sancue” gridarono i fischi e i pifferi dei soldati,

“sancue” gridarono gli stregoni scheletrici, slanciati,

“Fa’ girare il letale sonaglio voodoo, Infastidisci gli altopiani, Ruba il bestiame lassù,

132 La tve giornali ci raccontavano dei Mau Mau del Kenya, la società

segreta di guerrieri tribali che uccidevano i bianchi senza pietà, terrorizzando gli africani che non volevano stare dalla loro parte, utilizzando gli stessi termini. Il sottotitolo della poesia di Lindsay mi consentì un minimo distacco ironico: “Uno studio sulla razza negra”. Gli unici studi seri sulla nostra razza li avevano scritti intellettuali Negri come Du Bois e Woodson.

E in quel momento,

proprio mentre

questa poesia, c'erano due Congo,

io incappavo

in

entrambi guidati da africani

giovani e colti che chiedevano l'indipendenza dal Belgio e dalla Francia. E la loro richiesta era sostenuta dal nostro dottor Ralph Bunche, premio Nobel, un leader delle Nazioni Unite.

Nelle mie febbrili letture ad alta voce, facevo in modo di concentrare il sarcasmo sui titoli delle varie sezioni. “La loro brutalità di fondo” ripetevo con sprezzante diletto. “I loro irreprimibili alti spiriti”! (Qui ridacchiavo). “La speranza della loro religione”! (Con noia sprezzante). Per le parti restanti, seguivo le indicazioni di Vachel Lindsay, scritte ai margini.

ALLORA VIDI IL CONGO STRISCIARE FRA I NERI,

Più ponderato.

TAGLIARE LA GIUNGLA

Canto solenne.

CON

DORATI

SENTIERI

DEA “Attenzione a ciò che fai tu, O Mumbo-Jumbo, Dio del Congo, E tutti gli altri Dei del Congo Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo, Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo, Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo”.

Tutte le o dorate. Accenti forti molto forti. Accenti lievi molto lievi. Ultimo verso sussurrato.

133 Cannibali che brandiscono ossa, Negri abietti e dalla bocca enorme l’altro in mezzo alla strada. Negri neggiano nelle loro giacche rosse e

stregoni con facce di teschio, che urlano e si chiamano l’un grassi come maiali che si pavosollevando il cappello rosso (ma perché così tanti di noi devono ancora imparare a tenere a freno l’amore per i colori sgargianti che spinge i bianchi a considerarci ridicoli? — è una lamentela che conosco benissimo). Compulsione/repulsione/compulsione/repulsione: “Bum, uccidi i bianchi, / va, va, va”. Tutti gli orrori che noi Negri ci eravamo impegnati ad allontanare dalle nostre vite e dalla testa dei bianchi erano stati spiattellati lì, nella mia stanza, e mi avvolgevano in un delirio di suoni e immagini. Poi era la volta di un disordine ammaliante. Una terra fatata, un palazzo d'ebano, infissi d’oro e d'avorio, ragazzette dai piedi minuscoli profumate di gelsomino,

con le perle tra i capelli, che io

mi immaginavo cadessero fino alla vita in onde oscillanti. Quella terra fatata mi placava, benché rifiutassi i dettagli più degradanti. Odiavo Lindsay per aver piantato un osso d’elefante negli infissi d'oro e avorio, per aver creato ragazze nere come il carbone invece che d’ebano, lo odiavo per non aver usato la maiuscola per “Negro”. Sentivo di avere tutti i mezzi necessari per reggere fino all'ultima sezione, là dove un “buon vecchio negro nel quartiere decaduto” predica la pietà, denuncia il peccato, batte il pugno sulla Bibbia e convince la congregazione a cantare e a fare atto di fede. C'era condiscendenza, ma non cattiveria, perversione — almeno non per quella parte di me che rispetto all’ostentata religiosità delle classi più basse la pensava esattamente come Lindsay. Eppure, quando "tutti si pentirono, sicuri e senza timore / Per il loro torpore e brutalità e peccato ed errore”, la perversione c'era. I Negri americani non erano una popolazione intorpidita e neppure bru-

tale. Quegli aggettivi si addicevano piuttosto all’ignoranza carica di preconcetti di Lindsay, un tipo di ignoranza che sconfiggevamo

134 ogni giorno con le lotte, le conquiste, l’aperta indignazione. E gli spiritual erano una musica fantastica. Lyndsay l'aveva capito benissimo, nonostante i pregiudizi. Perché ecco qualche altro brandello ammaliante, una celebrazione, mentre il cielo grigio si apriva e le nostre voci si alzavano per vibrare in un melodioso afflato di gloria,

gloria, gloria. Poi, “morendo con un penetrante, terrorizzato sussurro”, le ultime parole mi fecero tornare

sui miei passi.

Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo, Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo, Mumbo-Jumbo ti farà l’hoodoo”. La sussurrai, la cantai, la lessi in silenzio. La lessi da sola nella mia stanza e non

lo raccontai

mai a nessuno.

Leggevo furtiva e piena

d’eccitazione, di sensuale ribrezzo.

Avevo undici anni. E se la pornografia ti tenta, ti inorridisce e ti offre un'immagine degradata di te stessa davanti alla quale una parte di te si sottomette, allora “The Congo” fu la mia prima esperienza pornografica.

Edwin L. Jefferson,

Ronald

Nelson Jefferson e Ruby Cozette Jefferson, 1908.

La famiglia viveva a Coffeeville, in Mississippi, ma è probabile che questa fotografia sia stata scattata a Jackson.

Irma James Armstrong e sua madre,

Lillian MeClendon

Armstrong,

a Chicago, 1920 circa. La fotografia era destinata ai parenti di St. Louis che avevano regalato a Irma un cappotto assai carino ancorché troppo grande.

Bernard

Jefferson e Ronald Jefferson con i loro strumenti a Los Angeles, 1922 circa.

Irma in uno scatto di Gordon Parks, 1940-41. Parks era il fotografo ufficiale del South Side Community Center, e si stava perfezionando

accanto ad artisti come Charles White e Margaret Goss Burroughs.

Marva Louis, celebre modella e moglie di Joe Louis, aveva visto le foto che Parks aveva scattato

a Minneapolis e lo aveva invitato

a Chicago promettendogli che l'avrebbe aiutato a trovare lavoro.

Irma e Ronald appena fidanzati,

Los Angeles, I94I.

Il capitano dell'esercito degli Stati Uniti Ronald Jefferson nella base segregata di Fort Huachuca, in Arizona, 1944 circa. Restò nell'esercito dal 1942 al 1946.

Irma e Ronald con la prima figlia, Denise, nel loro appartamento

di Bronzeville, Chicago, 1946 circa.

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Sopra: Margo Jefferson, 1950 circa. Sotto: Margo e Denise in Canada durante la vacanza in macchina con i genitori,

1956 circa.

Denise riflette sulla sua immagine riflessa, 1951 circa.

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Sopra: Irma con una giacca cinese tradizionale e un taglio alla Claudette Colbert

alla festa di Capodanno organizzata in casa, 1956 circa. Sotto: La foto di Margo nell'annuario scolastico, 1964.

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Le cheerleader della University High. Margo, una delle due capitane,

è in seconda fila, al centro, 1964.

146

Giunta alle medie compresi, per la prima volta, che esistevano cose che non sarei mai stata capace di ottenere, in cui non sarei mai

stata brava. La prima media offriva nuove possibilità all’incertezza. Non rispetto a chi fosse il più in gamba. Con quell’incertezza convivevamo tutti fin dai tempi dell'asilo: ci eravamo abituati. Fu la valanga di nuovi studenti che si iscrissero alla Lab, molti dei quali erano almeno sei mesi più grandi di noi Vecchi. Molti dei quali venivano da scuole pubbliche in cui avevano appreso modi di fare disinvolti. Individuavano subito chi aveva cominciato a emanare ferormoni. Chi aveva la battuta pronta. Chi era carina e chi era senza speranza. Scoprii che esisteva la Classifica il giorno in cui mi fermai a spettegolare con tre amiche prima dell’ora di ginnastica.

D.: I ragazzi hanno fatto una Classifica su di noi. 10: (canticchiando) “As someday it may happen that a victim must be found, I've got a little list. l’va got a little list”. D.: Dice chi è la più carina, chi è la più simpatica, chi balla meglio. IO: (Continuo a canticchiare ma non ride nessuno) “And I don't think shell be missed, Im sure she’ll not be missed”. J.: Ghi te lo ha detto? B.: Chi ci sta? D.: Margo, tu sei la prima in ballo e simpatia.

147

IO: Sono la figlia prediletta del signore e il suo campione (ironica, per non suscitare gelosie). E per questo verrò messa a morte tra una settimana.

D.: Sei sesta in bellezza. IO: Quante ce ne sono? »$

Sei.

: .: : .: :

Chi è la prima? lo e J. siamo alla pari. Le gemelline! E tu sei la seconda. E per la simpatia?

DEI .: (Una breve pausa) Io e J. siamo al secondo posto in simpatia e ballo. Tu sei al terzo. (J. canticchia qualche battuta di Bird Dog e fa qualche passo di danza) IO: Oggi proprio non mi va di nuotare. Dirò che ho le mestruazioni. Ero brava nei tuffi. Carpiato. Ad angelo. Salto mortale. Li sapevo fare tutti. Mentre mamma e le sue amiche non la smettevano di cercare,

collezionare

e scambiarsi prodotti per domare

i capelli,

noi, prima di infilarci la cuffia, avevamo imparato ad avvolgerci la testa nella pelle di camoscio. Io riuscivo a farlo con grande rapidità (beh, mantiene i capelli asciutti, rispondevo disinvolta se qualcuno faceva domande nello spogliatoio). Una volta umidi, i capelli si potevano schiacciare con la spazzola. Ma, col passare delle ore a scuola, vivevi nel terrore che non avrebbero resistito, che si sarebbero alzati e gonfiati, fino a quando non tornavi a casa e potevi sedarli con la crema,

i bigodini, le mollette e il pettine caldo. Quell'anno S. si prese una cotta per me, ed era proprio carino,

uno dei ragazzi nuovi, coni capelli castano chiaro e un sorriso tutto pepe. Un sorriso così ce l'avevano solo i ragazzini della Disney come Tim Considine. Quella circostanza mi fece entrare nel cerchio magico in cui si parla di ragazzi e di futuri fidanzati. Io e S. eravamo

148

in aule di coordinamento diverse. D. mi disse che S. si era preso una cotta per me, e poco dopo mi accorsi che se lo incrociavo nei corridoi lui mi sorrideva. Una settimana più tardi era ancora lì a sorridermi e io a bearmi dei suoi sorrisi, quando D. disse: "Dovresti sentirti onorata di piacere a S. Nel palazzo dove vive i Negri non li fanno entrare”. Ma era un palazzo di Hyde Park, e Hyde Park era integrato. Io vivevo in un quartiere esclusivamente Negro, ma molti dei miei amici Negri vivevano a Hyde Park. Andavo a casa loro per le feste, per un pomeriggio

di giochi, per le riunioni del Jack and Jill. Ero stata anche a casa di D. Non avrei mai immaginato che alcuni palazzi seguissero ancora quell’antico esclusivismo razziale. Desiderai con tutta me stessa che a dirmelo fosse stata un'amica Negra, così da condividere quella esclusione con lei. Ma qualcosa devo averla detta. E mi devo essere vergognata, più tardi, per non essere stata anche più esplicita, altrimenti me ne ricorderei. So solo che ben presto smisi di contraccambiare i sorrisi di S. Iniziai a ignorarlo. Lo ignorai fino a quando lui cessò di sorridermi. Eravamo la terza razza. Avevamo a cuore la nostra gente — amavamo la nostra gente —, ma rifiutavamo di farci trascinare in basso dagli elementi più umili. Non amavamo i bianchi, nutrivamo poco o nessun interesse per la maggior parte di loro, ma li invidiavamo e talvolta ci facevamo vincere dalla paura e dall'odio. Il sospetto era la nostra pratica quotidiana, o perlomeno la cautela. Lo sdegno preventivo. "Chi ci sarà?” chiedeva sempre il nonno della mia amica P., e quando non riconosceva il nome di qualcuno, il suo volto mostrava un leggero disappunto e la voce si faceva distante. “Ah, uno dei vostri amichetti bianchi”.

In prima media mia madre, prevedendo i rischi della pubertà al posto mio, mi prese da parte per una chiacchierata sui miei amici bianchi. Io e tuo padre desideriamo che tu possa competere ovunque e desideriamo che

sia a tuo agio in qualunque posto ti trovi. È per questo che frequenti la scuola chefrequenti. Avere degli amici bianchièuna bella cosa. Ma seisicura dipoterti fidare di loro ?

149

Sì, pensavo di sì — ero idealista, seppure non del tutto coerente. Sì, sentivo che potevo e che dovevo fidarmi. Margo, ovunque ci sia un bianco ci sarà anche il pregiudizio razziale. Non hanno ancora inventato un test che permetta di accorgertene. E non lofaranno. Probabilmente è una cosa genetica.

La Lab School mette insieme la seconda e la terza media per formare una classe di undicenni e dodicenni accademicamente precoci e socialmente molto disorientati. Ci chiamano i pre-liceali. “Eravate come dei piccoli insetti che ronzavano nei corridoi” disse una volta un ragazzo più grande. Eravamo nervosi, eravamo impazienti, eravamo intrappolati tra la pre-adolescenza e l’adolescenza conclamata.

Bzzz, Bzzz, Bzzz.

Quell'anno fu, e lo è anche adesso, una nube di caos e di fatica. Lessi e rilessi Dance to the Piber di Agnes de Mille. Disperata, su di giri, spostavo il bisogno di essere speciale da un'icona all'altra: Audrey Hepburn (La storia di una monaca e Cenerentola a Parigi), Leslie Caron (La scarpetta di vetro e Un americano a Parigi) , Tammy Grimes (la versione televisiva di Archy and Mehitabel). Osservai un attore del Goodman Theatre, che era venuto nella nostra classe di inglese a recitare "La mia ultima Duchessa” e "Soliloquio del chiostro spagnolo” di Browning. Non c’era giorno in cui non mi venisse un inutile attacco di invidia nei riguardi del piccolo monaco

spagnolo:

Gr-r-r... eccolo, chi m’avvelena il cuore! Annaffia pure i tuoi vasi maledetti, fai pure!

Se l'odio può uccidere un uomo,

frate Lorenzo,

Sarà il sangue di Dio, non il mio a uccidere te!

Quello che volevo era uno

sfondo

sul quale rappresentare — sul

quale irradiare — l'arroganza di quel duca vendicativo.

150 — Persino allora sarebbe un’umiliazione; ed io scelgo di non umiliarmi.

Decisi di diventare un'attrice caratterista. A uno spettacolo scolastico nella palestra mi fermo qualche passo indietro rispetto a M. e B. mentre loro si sistemano su un paio di sedie e cantano When Love Goes Wrong (Nothing Goes Right). È il duetto di

Marilyn Monroe e Jane Russell in Gli uomini preferiscono le bionde. Saltano la danza provocante, ricordano più Gidget. Sono impudentemente malinconiche, smorfiosamente tenere. Mi hanno detto di aiutarle nelle ultime otto battute di una melodia da cantare in due parti: la mia voce deve sostenere la più bassa. Mi si vede benissimo, ma agisco come se fossi dietro il sipario. Il Voice Speaking Choir è diretto dall'insegnante di teatro delle superiori, Sheila Belmont. Ha una voce tenebrosa, un fisico allampanato, i capelli biondi lunghi fino alle spalle e fa strani gesti con le mani. Potrebbe stare benissimo nella scena del nightclub beat del film Cenerentola a Parigi, o interpretare il ruolo dell’esperta di moda che fu di Kay Thompson. Deve aver insegnato teatro ai pre-liceali: altrimenti non le sarebbe mai venuto in mente di invitare me e Mary a far parte di questo prestigioso coro scolastico.

Prima del concerto, in programma alla Mandel Hall (che non è solo per gli spettacoli studenteschi: qui si esibiscono anche attori e musicisti professionisti), facciamo delle prove massacranti. Il programma comprende scene drammatiche di gruppo, drammatizza-

zioni di “Gli uomini vuoti” di Eliot, della “Jazz Fantasia” di Sandburg e di "Il Negro parla di fiumi” di Hughes. Noi eseguiamo la maestosa “River City”, tratta da The Music Man. E Paul Butterfield, dell'ultimo anno, suona un blues simile a quelli che Muddy Waters e Junior Wells suonano

nei club a breve distanza da dove vivo.

151 I miei genitori vanno nei locali jazz e acquistano dischi jazz. Io e mia sorella ascoltiamo il rock and roll, ma non il blues. Paul Butterfield mi ricorda che tramite questi bluesman ruvidi e aspri ho accesso a un nuovo tipo di legittimità culturale. Alla legittimità degli anticonformisti bianchi. Alla legittimità dei beat: Negri, bianchi e avanguardisti. La mia vita sociale va male su entrambi i fronti. La mia migliore

amica Negra, alla Lab, ha un anno più di me ed è molto più navigata. Ma è davvero la mia migliore amica? (Ancora oggi adoro la sicurezza con cui le ragazze dicono “lei è la mia migliore amica”. A

me quella sicurezza è sempre mancata. Per conquistarmi la sua attenzione

dovevo sempre entrare in competizione

con le altre. Po-

tevo perderla da un momento all’altro, essere estromessa dal cono di luce dell'amica del cuore, rimanere sospesa nell'ombra accanto ad altre aspiranti. E da lì osservavo queste altre ragazzine, le stesse cui avevo rifiutato la mia amicizia in nome di un tesoro più prezioso. Adesso l'avevo perduto e loro si erano scelte altre amiche predilette). Non mi è rimasta neppure un'amica del cuore bianca, solo una costellazione di buone amiche che tuttavia sono emotivamente più coinvolte tra loro che con me. L'anno prima, l'amicizia tra me e D. era stata così tempestosa da lasciarci entrambe sfiancate: al momento lei insegue M., che viene anche concupita da B. Nessuna invece che aspiri a diventare la mia migliore amica. Quell'estate fui perciò ben felice di lasciare la città per un campeggio di artisti, sperduto tra i pascoli nel nordovest del Michigan. La confusione ormonale e la disperazione emotiva sarebbero state soggiogate dall'arte. E ciò significava che si poteva mettere da parte la razza. Interlochen era stato edificato su un vecchio territorio della tribù

degli Ottawa, tra due laghi e in mezzo ad altissimi pini. Il suo slogan era: “Per formare i giovani più talentuosi d'America”, e la risolutezza di quel proposito si rispecchiava perfettamente nelle nostre

152 uniformi: bermuda di velluto a coste blu per le ragazze, pantaloni di velluto a coste blu per i ragazzi, camice a maniche corte di cotone pesante celeste per entrambi. Quando venne a suonare per noi si mise in velluto blu anche Van Cliburn. I calzini erano contrassegnati da diversi colori in base all’età e alla classe. I miei erano rossi. Ogni ora del giorno era scandita da un'attività: lezioni, pratica, prove,

esercizio fisico, pasti, tempo

libero.

La partecipazione

ai

concerti serali era obbligatoria, e alla fine dell'estate ricevevamo le pagelle. Ci andai per tre anni dalle fatiche di un anno d’arte, sognare l’arte, esperta d’arte, realizzare

di fila, e quelle otto settimane di tregua intero di adolescenza le adorai. Occuparsi essere appassionata e pretenziosamente cose artisticamente discrete, buone o ec-

cezionali: tutte queste cose erano date per scontate.

Eri normale e

al contempo eri eccezionale. Se non eri eccezionale (se occupavi una delle posizioni minori nell'orchestra o la seconda fila nel corpo di ballo), soffrivi, sopportavi, continuavi a lavorare. Volevi essere eccezionale,

e anche

se (sotto sotto) non

te ne importava

nulla,

am-

miravi per chi lo era già.

Ed era anche normale non avere il ragazzo. Le regole della colonia erano rigorose... ovviamente era preferibile. Nessun mescolamento tra categorie e poche opportunità di incontrare ragazzi della tua età. Di tanto in tanto i più grandi venivano scoperti ad amoreggiare nelle cabine per le esercitazioni musicali e finivano in castigo. In un caso si ricorse all'espulsione — fu espulsa la ragazza, ne sono

sicura.

Il campeggio era stato istituito alla fine degli anni Venti da un in-

segnante di musica del Michigan, Joseph Maddy, ed era poi stato ampliato fino a includere corsi d’arte, teatro e danza. Quell’atmosfera da viva-la-vita e ama-la-gente, tipica del Midwest era rimasta intatta. Ma dall'inizio degli anni Sessanta si era affermato un ama-

la-gente di stampo repubblicano conservatore: nel 1962 la colonia invitò il magnate delle assicurazioni di Chicago, W. Clement Stone,

153 a tenere un discorso su come avanzare socialmente e fare soldi, ispirato al libro Success Through a Positive Mental Attitude (scritto da lui a quattro mani con Napoleon Hill, l’autore di Think and Grow Rich). Al cam-

peggio ognuno ne ricevette una copia. Noi delle superiori lo sfidavamo, allo stesso modo in cui noi ragazze aggiravamo le norme sull’abbigliamento indossando golfini attillati senza camicia sotto. Da quello che ricordo, il primo anno ero una degli unici due Negri. L'altro era più grande e decisamente più bravo di me. Darwyn Apple era un violinista di talento che in seguito sarebbe diventato un membro della St. Louis Symphony (un primo violino) e uno stimato solista. Non avevamo granché da dirci — le divisioni tra categorie d'età erano rigidissime. Ci scambiavamo però quei sorrisi luminosi e quei saluti allegri che rendevano entrambi tanto benvoluti. Alcuni dei miei amici mi incoraggiarono apertamente a fare coppia con lui. Raccolsi anch'io qualche piccolo successo. Fui ammessa alle lezioni del numero uno tra gli insegnanti di piano: Dorsey Whittington. E a un corso di teatro dove interpretai Charlotte Bronté in un

dramma radiofonico. E vissi un'esperienza quasi mistica come governante nera quando lo stesso insegnante di teatro mi scelse per

fare Berenice Sadie Brown, il ruolo che Ethel Waters si era cucita addosso in Invito di nozze. All'epoca della sua interpretazione, Waters aveva cinquant'anni ed era un'autorità delle epiche popolari. Io una pimpante dodicenne. Non ci vedevo niente di assurdo o, perlomeno, non volevo ammettere che fosse assurdo. L'insegnante era lo stesso che mi aveva presa per fare Charlotte Bronté. Poteva aver ceduto all’impulso — maldestro ma benevolo — di offrirmi qualcosa che fosse mio, un ruolo in cui aveva brillato una della mia razza. Il teatro, a mio parere, era un'arena in cui potevo migliorare e ampliare

i miei orizzonti, abitando non un semplice suono, ma altre identità. Una compagna dai capelli color miele, di nome Lauren, interpretava l’altra protagonista, Frankie. Il suo bungalow era di fronte al mio, e così provammo

spesso insieme e con impegno. Avevo visto

154

il film in tv. In quelle inarrivabili produzioni della Hallmark Hall of Fame, avevo visto anche Julie Harris che interpretava la mistica Giovanna d'Arco di Anouilh, e una delicata suora irlandese la cui fede viene messa alla prova dalla morte, dalla guerra e dal conflitto tra patriottismo e desiderio. Ovviamente avrei voluto avere la sua stessa intensità vocale e le sue particolarità. Ma era impossibile. Di conseguenza abbracciai l’epica e lo stoicismo. Avevo visto Ethel Waters anche in Pinky. E quando appariva sullo schermo non ti veniva certo in mente il “sopportavano” di Faulkner. Lei sopportava, e lo faceva notare, e poi presentava il conto a qualcuno. La sceneggiatura di Invito di nozze si concedeva battute e toni proibiti alle altre due colonne Negre dello schermo: Hattie McDaniel e Louise Beavers. Ma non era tanto la sceneggiatura: era Ethel Waters. Non si limitava a stare lì a guardare e rispondere ai personaggi bianchi; la vedevi riflettere su di loro e su sé stessa, e talvolta correggeva le sue reazioni

in base alle sue necessità, al suo stato d'animo. Del suo peso nemmeno

mi accorgevo.

Stavo provando a entrare in un mondo legato alla mia storia ma non alla mia autobiografia. Mi scuoteva nel profondo ma si trovava oltre la mia capacità di comprensione. Da quel punto di vista non ero molto diversa dai ragazzini bianchi della mia età che cercavano per la prima volta di fare il blues. Il mio profondo accento “blues” suonava meglio dei loro? (“Tesoro, io proprio non capisco” dicevo stoicamente, scuotendo afflitta il capo). Penso sia giusto rispondere: Probabilmente no. Penso sia più giusto dire: No. L'accento di Paul Butterfield era migliore.

155

University High: 1960-1964. Non c'è niente da fare, questa ragazza è destinata a essere infelice per almeno tre dei quattro anni venturi. Una delle tante liceali infelici, ognuna con la propria sfera di realtà e di dolore (è una frase che trovai in seguito leggendo Wil-

liam James). Chi di noi era stato insieme fin dall’asilo, fin dalla prima, dalla seconda o dalla terza, resta intimidito dai nuovi arrivati. A suscitare più attenzione sono Negri ed ebrei, soprattutto gli ebrei. I nuovi arrivati ebrei sono tipi “perbene” delle “migliori scuole del Midwest”: lui in pantaloni e camicia button-down camminava sicuro per i corridoi,

lei in golfino di mohair

e gonna

in tinta, capelli

perfetti alla paggetto con le punte all'insù; facevano tutti parte di associazioni studentesche

che

a U-High

non

erano

ammesse,

ma

di cui si parlava molto, famose. Avevano amici nelle scuole pubbliche. Amici spavaldi e disinvolti. I nuovi arrivati Negri sono inferiori di numero e nel complesso molto meno influenti. I ragazzi, tuttavia, affermano il loro stile, importando la scattante parlata nera. Incedono da bulli anche se portano maglie Henry Higgins, camicie button-down e pantaloni dritti. Le ragazze sono più tranquille, molte di loro non potrebbero permettersi quella stessa sbruffoneria da strada. (L’unica che lo fa è trattata come un facsimile di un ragazzo. Risponde a tono ai furbi senza alcun timore apparente. E questo, all'ultimo anno,

156

la porta a essere giudicata aggressiva sul piano sessuale oltre che verbale). Quello che entrambi i gruppi comunicano — apertamente, sfacciatamente — è il potere tipico di escludere o accettare di chi non è Wasp. In questo, naturalmente, gli ebrei sono più bravi. Sono di più e sono bianchi. Restano, prio questo

a essere

nonostante

così allettante,

tutto, una minoranza — è procosì attraente

—,

ma

una

mino-

ranza con il potere di stabilire i parametri che gli altri dovranno invidiare, imitare, rifiutare, o davanti ai quali dovranno indietreggiare.

ALCUNE SFERE DI REALTÀ E DI DOLORE — Coppie interrazziali,

a meno che tu non sia un beat di prima categoria che segue il programma

radiofonico di Studs Terkel, che non ascolti Mose Allison e Missa Luba, che non sgattaioli nei locali jazz e blues. — Essere bollati come “repellenti”. Dei gruppetti di ragazzi sfrontati si sistemavano lungo le scale e ti dicevano chiaramente cosa pensavano di te. — Desiderio di distinguersi — per intelligenza e talento — senza alienarsi le simpatie di qualcuno. Desiderare di essere onnipresente e benvoluta. Voglio essere capace di divertirmi per cose sciocche.

Conoscere

il

trucco per capire quando essere futile con intelligenza, spensierata,

e quando evitare eccessi di emotività.

Cos'altro vuole questo “io” da liceale, così angosciato e pieno di desideri? Volevo continuare a fare la ragazza pompon all'infinito, solo perché da matricola ero entrata, miracolosamente, in squadra, ed ero stata l’unica matricola a esserci riuscita. Era stata una decisione dettata esclusivamente

dai miei meriti scolastici, perché pur essendo

157 vivace non potevo contare né sul prestigio né su uno stile partico-

larmente credibile. Ah, le tristi ricompense per merito! Quei viaggi in autobus per andare alle partite, durante i quali non è che venissi deliberatamente ignorata, ma solo, con disinvoltura, non calcolata. Gli allenamenti con le altre ragazze pompon, tutte dotate della canonica bella presenza e di un prestigio consolidato, tutte al secondo anno o più grandi. Sempre gentili. E quella gentilezza perfetta, priva di qualsiasi crudeltà, stava lì a dimostrare che non ero una di loro. Le altre erano tutte bianche, certo, ma la vera crudeltà la subii dal mio gruppo: la ragazza che consideravo la mia migliore amica mi prese da parte per mostrarmi l’imitazione che G. faceva di me quando mi esercitavo in palestra con i miei occhiali a fondo di bottiglia — quando muovevo le braccia a tempo o eseguivo la spaccata aerea della vittoria, con stampato in faccia uno di quei sorrisi automatici e la testa che andava da una parte all'altra come una piccola Stevie Wonder. Ma ciò non mi impedì di provare a rientrare in squadra l’anno successivo. E di fallire. Di riprovarci quello dopo. E di fallire ancora, superata da quelle compagne che mai avrebbero sognato di farcela fino a quando l'impresa non riuscì a me. Ci dovrà pure essere qualcosa a parte queste stupidaggini! Che ne so, un interludio intellettuale. Noi, gli studenti di inglese del secondo anno di Audrey Borth, riceviamo

una preparazione

eccellente,

studiamo

i maggiori e i mi-

gliori scrittori inglesi e americani e siamo incoraggiati a entrare in

quel Noi adulto al quale appartengono critici, studiosi e lettori comuni. Quest'anno leggeremo dei saggi — piacevoli e ciononostante impegnativi — di E.M. Foster, George Orwell e James Baldwin.

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Io e Baldwin costituiamo un Noi più piccolo e godiamo di rapporti privilegiati. Siamo entrambi Negri, siamo entrambi intellettuali. Lui è un artista serio e famoso. Io desidero diventare seriamente

famosa

come

artista.

In questo

corso

posso

contare

su un

vantaggio che non avevo quando al primo anno abbiamo letto Mark Twain. Mia madre ha rifornito la nostra biblioteca di classici. Ho letto Tom Sawyer e Huckleberry Finn da piccola, dopodiché sono tranquillamente passata a Jl ragazzo rapito e all'Isola del tesoro per poi lasciarli, senza finirli, a mia sorella, che si identifica con l’eroe di qualunque avventura, e che addirittura si sdoppia nei cattivi più in gamba. Io ero una lettrice invidiosa: trovavo fastidioso mettermi nei panni di

eroi maschi. In classe facevo il mio dovere. Ero una brava studentessa.

Ma

Huck, un ragazzino del sottoproletariato bianco sudista prebellico,

insolente e sempre al centro della scena, non faceva per me. E che dire di Nigger Jim, lo schiavo che-in-realtà-è-un-uomo,

e che adempie al suo dovere di compagno di giochi di un ragazzino? Era l'esempio perfetto delle ingiustizie della schiavitù. Come era possibile che diventasse un compagno immaginario per me, una figlia di quel Noi, dell’élite Negra che non la smetteva di porre risentite domande retoriche, del tipo “perché nella narrativa di Mark Twain

arriva sempre un Nigger Jim? Perché Twain non ha mai creato un personaggio ispirato

a Warner Thornton McGuinn,

primo Negro

a laurearsi alla facoltà di Legge di Yale?”. E pensare che Twain lo incontrò davvero MceGuinn, e ne rimase talmente colpito da offrirgli sostegno finanziario, proprio mentre usciva Huckleberry Finn. Eppure non lo mise in nessuno dei suoi romanzi. Noi non siamo quello che Loro vogliono vedere nei loro libri e nei loro film. Il nostro Noi è troppo simile a Loro. Li minaccia, li annoia, o entrambe le cose. Ora però eccoci qui, studenti bianchi e neri, insieme, a leggere

il Negro James Baldwin. Ed eccomi a casa, al piano di sopra, da

159 sola, a leggerlo e a prepararmi per la lezione. Cosa pensano i miei amici bianchi mentre leggono? Cosa diranno domani in classe e

con che distacco contribuirò io alla nostra e alla loro discussione? Prendo il libro e vado al saggio che dobbiamo studiare. Appunti americani

di James Baldwin “A migliaia sono scomparsi” La storia dei Negri in America è la storia dell'America — 0 più precisamente, è la storia degli americani. Non è una gran bella storia: la storia di un popolo non è mai molto bella. Il Negro in America, al quale ci si riferisce cupamente come quell’ombra che incombe sulla vita del nostro paese, è molto più di questo. È una serie di ombre, autogenerate, che si intrecciano, e contro

cui noi lottiamo

invano.

Chi è questo “Noi”? Siete voi, i lettori bianchi. Ma che ne è di Noi, del suo gruppo

più ristretto di lettori Negri? In America

il suo

Negro è il Negro con il quale tanti Negri come me temono di avere svariate relazioni.

Uno potrebbe dire che in America il Negro non esiste veramente se non nel buio delle nostre menti.

“Uno” è un pronome insidioso in modo ancora più sottile di “noi”. È un “Io” che in un istante si trasforma nell’universale “Nostre”: pronuncialo lentamente, con voluttà. Baldwin ha accoppiato bianchi e neri, ci ha uniti in un incrocio razziale sintattico. Noi lettori Negri, una volta arrivati qui, ci fermeremo per goderci serenamente il nostro trionfo. Ci stiamo scrollando di dosso quell’"invano” che Baldwin ci aveva assegnato nel passo precedente. Ora, mentre lui snocciola frasi, volteggia tra punti e virgola,

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sottomette l’ignoranza al rigore e l’irragionevolezza a un inesorabile fervore, non siamo vani proprio per niente. Chiudi il libro (fai un profondo respiro). James Baldwin sta ri-

vendicando il diritto di ingresso con qualunque pronome possessivo, integrando l'America con la sintassi e la grammatica. Niente manifestanti che schizzano in aria a causa degli idranti e che si schiantano

sul marciapiede,

nessuno

che tossisca e si contorca per

i gas lacrimogeni, nessun bambino della tua età con indosso dei veprotetto da

stiti perfettamente lavati e stirati, che si incammini

guardie armate verso una scuola che è stata fatta per escluderlo. I modi in cui il Negro ha inciso sulla psicologia americana si rivelano nella nostra cultura popolare e nel nostro senso morale; nell’estraniamento da lui misuriamo l’estraniamento da noi stessi... Il Negro Baldwin si è inserito nella tua vita di lettore bianco: il possessivo “nostra/nostro” di questo ultimo brano rivendica tutto quello che possiedi. Credevi di dover semplicemente leggere Baldwin: e invece no, adesso vivi insieme a lui e a tutti i suoi parenti, e se ti venisse in mente di fuggire torneresti ad abitare in un territorio psichico devastato, dove vivresti in una situazione gravemente compromessa. Diventeresti estraneo all'unico Tu che vale la pena di avere. Non avresti alcun diritto che il mio Noi debba rispettare.

Non ce la faccio più a restare seduta. Passo dalla scrivania al divano nell'altra stanza, ma accoccolarsi tra i cuscini è un modo

di

fare infantile. Mentre leggo è opportuno che sia seduta in posizione dritta e vigile. Torno alla scrivania. Non possiamo chiederci che cosa proviamo veramente nei suoi confronti? Ciò che proviamo veramente nei confronti di tutto, di tutti, di... noi stessi.

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Ed è giusto che stia dritta e attenta. Conosco fin troppo bene cosa pensiamo Noi di questo Negro autorevole e deviante: a ogni nostra lodevole irruzione nella vita americana, questo Negro sta sempre lì a minacciare il successo dei Miei Negri. È giunto il momento di rinnegare quella vergogna e quel disprezzo, e di unirmi a Baldwin nella costruzione di un Noi che sia Negro, complesso e composito. Giunta alla fine del saggio, mi sento intrepida e avventurosa. Baldwin è così orgoglioso e al contempo così vulnerabile, così pieno di desiderio e di sacrosanto disprezzo. Ha quello che vorrei avere io, per cui vado avanti a leggere, lo seguo mentre passa l’estate in un oscuro villaggio svizzero (“Questo mondo non è più bianco, e non sarà bianco mai più”), mentre compone la musica del suo Un americano a Parigi, organizzando

africani, algerini e francesi in un

contrappunto, mentre nella brughiera di Harlem trasforma suo padre in un Lear e sé stesso in un Edgar che vuole solo prendere le misure di un mondo mutato. Alla fine passo alla terra sconsacrata e malmessa del primo saggio. Il romanzo diprotesta a uso di tutti, lo intitola Baldwin, e “tutti” è chiunque abbia scritto un libro socialmente consapevole,

ma viziato da

emozioni laceranti e fiacche esortazioni. La madre di questa stirpe indecorosa è Harriet Beecher Stowe. Non l'ho mai letta e non ne ho bisogno: il Negro istruito "a uso di tutti” del suo libro ne ha piene le tasche già dalla fine del secolo scorso. Mi metto al braccio di Baldwin e partiamo. Insieme eseguiamo una spensierata cabriole doppia.

La capanna dello zio Tom è un romanzo

molto brutto

che, col suo sentimentalismo virtuoso e ipocrita...

Tentenno,

esito. Già so dove andrà a parare. Mi raddrizzo, per te-

nere il passo della sua andatura. . che, col suo sentimentalismo virtuoso e ipocrita...

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Procedo a singhiozzo, perché ecco qui la condanna: . che, col suo sentimentalismo virtuoso e ipocrita

ha molto in comune con Piccole donne.

Eh no, questo no. Devo buttare alle ortiche le Piccole donne della mia adolescenza? Le Piccole donne di Noi Due Felici, io e mia sorella, con le scamiciate e le scarpe di pelle lucida, con i nostri dischi e le nostre lezioni di danza, i nostri diari, le nostre feste, il nostro ap-

prendimento infinito di norme

morali e comportamentali.

Due

ragazze con un padre assolutamente amabile, spesso lontano da casa

per fare del bene alla sua gente — il dottor Jefferson è il capitano March! Due ragazze con una mamma — nostra madre — che si insinua e si installa in ogni punto del loro essere. Il disprezzo di Baldwin è regale. Autrici sentimentali come Louisa May Alcott non provano

alcun sentimento vero,

accusa Baldwin;

giocano con i sentimenti proponendo "emozioni false ed eccessive" che mostrano semplicemente quanto temano la sostanza della vita vera, l’esperienza vera.

Alla fine non si degna neppure di dare a queste autrici il pronome personale femminile. Alla fine, l’unico sentimentalista degno del suo disprezzo è quello che rivela la sua “paura della morte”,

il suo

“cuore arido”. Romanziere stupide. Lettrici stupide. Il futuro mi chiama. Nel testardo tentativo di essere un'Intellettuale Negra, come Baldwin, sono disposta a rinunciare a tutte le frivolezze adolescenziali e a diventare in gamba quanto un Maschio bianco, o magari anche di più. Oppure potrei posso diventare un'Insegnante e una Madre esemplare, capace di trasmettere tutto il proprio amore per la letteratura, seria e sentimentale, ai bambini che le sono stati affidati. Richiudo il libro, raggiungo il divano e mi stendo.

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Quell'estate fu la mia terza e ultima pausa di respiro a Interlochen. Avevo deciso di diplomarmi in teatro e in pianoforte. Fui ricompensata con il ruolo di Grumio, il domestico buffo, sciocco e tuttavia abile di Petruccio nella Bisbetica domata. Genere sessuale superato, ma status di servitù immutata — e accentuata dalla razza, lo capisco solo adesso: in questa assegnazione di ruolo non tradizionale c'era tutto il tradizionalismo americano. Mi piaceva molto l'impertinenza di Grumio nei riguardi del suo padrone: “Dategli oro quanto basta e poi lo potete sposare con un fantoccio o con una bambolona di stoffa, o con una vecchia megera senza più un dente in bocca, avesse più malattie di cinquantadue cavalli. Basta che ci siano i quattrini, tutto va a posto”. Indossai il tulle e le ali per essere nel corpo di ballo di Iolanthe ("We are dainty little fairies, ever singing, ever dancing / We indulge in our vagaries in a manner most entrancing”). Decisi di essere spavalda e di trascorrere le otto settimane estive senza andare dal parrucchiere. Usai il pettine per lisciare i capelli senza vergognarmi, con allegria quasi, e come avevo sperato iniziarono a farlo

anche diverse ragazze bianche con i capelli ricci o addirittura crespi. A Chicago sapevamo benissimo quali ragazze bianche avevano bisogno di farsi stirare i capelli nei quartieri Negri: le osservavamo,

gli ridevamo dietro. Ma stavolta c'era una simpatica aria di cospi-

razione. Nessuna vergogna da ambo le parti. L'ultimo giorno di campeggio i premi furono assegnati un attimo prima che noi ragazze iniziassimo il rituale di scoppiare in lacrime una nelle braccia dell'altra durante il gran finale con Les Préludes di Liszt. Io vinsi quello di Campeggiatrice Onoraria tra mille applausi e acclamazioni. Ero stata brava in tutto davanti agli occhi di tutti. Ero la Miss Amabilità di Interlochen. Tutto questo accadeva la stessa estate in cui era apparsa un’altra ragazza Negra, in bermuda blu e calzettoni al ginocchio celesti, per via del raggruppamento scolastico. Era venuto anche un altro ragazzo, un clarinettista, ma lei era la seconda Ragazza Negra. Ci

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incrociammo lungo un sentiero tra i pini e quando ci fermammo per salutarci ne approfittai per studiarla bene. Portava gli occhiali (all’epoca io portavo già le lenti a contatto), e mi sembrò di percepire un lieve accento del Sud. Sapevo di non essere totalmente contenta di vederla. E mi sarei dovuta vergognare. Mi pareva di sentire i commenti dei miei genitori quando liquidavano quei Negri che si rifiutavano di salutare altri Negri in pubblico, che si limitavano a un cenno gentile del capo, e a sussurrare quei tradotti, significavano: “A noi due è andata bene. “Sono così insicuri” li deridevano i miei genitori. tanto a essere gli Unici”. Salutai la ragazzina per

convenevoli che,

Buona fortuna”. “Ci tengono così senso del dovere,

senza smancerie.

Devi stare proprio qui?, pensavo. I genitori e le famiglie arrivarono l’ultimo fine settimana, per i concerti e per riportarci a casa. È in quel mentre che la sorella minore di qualcuno, una ragazzina di sette o otto anni, mi si fa ac-

canto nell’area comune del campeggio, The Well, uno spazio dove si andava a ciondolare, a chiacchierare e a comprare dolci. “Scusami,” mi disse, evidentemente eccitatissima “ma tu sei quella che adesso recita in uno spettacolo di Broadway?”.

Era il 1962. E Diahann Carroll stava facendo No Strings a Broadway. Dentro di me per poco non esplodevo di gioia all’idea che qualcuno, anche una ragazzina bianca e credulona, pensava che somigliassi a Diahann Carroll, una donna audace, sicura di sé, che faceva la modella a Parigi, che aveva fattezze tonde e regolari, fattezze chiaramente Negre, attraenti ma non invadenti. (Era molto incoraggiante). Carroll si era impossessata di quello spazio sognante che in passato occupavano Lena, Dorothy ed Eartha. Sorrisi con educazione. “Beh no” dissi, come se parlassi a una mia piccola fan. “Credo che tu ti riferisca a Diahann Carroll. Che adesso è in scena con No Strings ed è fantastica”. Poi, testa alta e petto in fuori, continuai

tranquillamente

per la mia strada.

Ridicola,

certo, ma che me ne importava? Da ragazzina ero stata Ethel Waters,

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e quella era stata una cosa senza conseguenze nella realtà. Questa aveva a che fare con i miei sogni. Come fa quel verso di Yates: "Nei sogni cominciano le responsabilità”? A Interlochen le responsabilità del sogno davano tregua a quelle reali. Quando torno a casa i miei genitori hanno trasferito tutta la famiglia a Hyde Park-Kenwood. “Mio padre era così eccitato, ha detto che ‘questo dimostra che il quartiere sta migliorando’” mi racconta

esultante la mia amica biancaJ. E i miei genitori sono entusiasti? Anche se lo fossero, fanno in modo di apparire semplicemente contenti e soddisfatti. Da diverso tempo hanno preso a guardare di traverso i nuovi arrivati più rozzi di Park Manor. Vogliono un quartiere socialmente più omogeneo.

Eppure fanno attenzione

a

non dare l'impressione di voler vivere tra i bianchi, come se questo fosse desiderabile in sé. In questi quartieri più omogenei abitano anche dei nostri amici Negri. A organizzare il trasloco ci hanno pensato quegli agenti immobiliari che si occupano di favorire l’integrazione equilibrata di Hyde Park.

Ai miei genitori l'entusiasmo del padre di ]. fa piacere. È affiliato a una delle associazioni progressiste che a partire dagli anni Quaranta hanno proposto, corretto, negoziato e promulgato quelle leggi di edilizia abitativa e quei progetti di riqualificazione che garantiranno

a Hyde Park di restare il quartiere intellettualmente,

economicamente,

socialmente e culturalmente più ambito, come

è sempre stato fin dal Diciannovesimo secolo, e di rispecchiare il prestigio del suo padrone: la University of Chicago. Qualunque organizzazione — qualunque comitato, collegio, commissione, siglio, società,

con-

corporazione — segue ì propri princìpi costitutivi.

Ognuno di loro ha la propria sfera di influenza legale e politica, la sua etica, il suo interesse. Con qualche differenza di carattere e di approccio, i loro scopi de iure e de facto sono stati:

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rimuovere i Negri a basso reddito che vivono lì evitare che i Negri a basso reddito si trasferiscano lì convincere una buona parte della classe elevata bianca a rimanere lì permettere a un piccolo gruppo della classe elevata

Negra di trasferirsi lì La questione sostanziale, così come fu posta dal presidente di un'organizzazione in una nota privata indirizzata a un consigliere comu-

nale, era: “Come distinguere tra Negri indesiderabili e desiderabili?”. Il rettore dell'università provò a rispondere nel suo discorso ai Negri desiderabili che appartenevano all'associazione studentesca Kappa Alpha Psi: i bianchi di Hyde Park avrebbero dovuto cercare Negri "dai gusti e dai princìpi simili”. Reddito. Professione. Buone maniere. Intanto le organizzazioni continuavano

a monitorare

quale palazzo, strada ed enclave fosse

la più adatta per questi esperimenti di integrazione guidata. Viviamo in uno dei due condomini di tre piani tra la Cinquantesima e Woodlawn. Siamo circondati da amici di famiglia e conoscenti. Attorno a noi sono tutti Negri. Sul marciapiede opposto c’è l’enclave largamente ma non esclu-

sivamente bianca di Madison Park, dove vivono J., sua sorella e i loro genitori. Tra un anno, a casa loro, guarderò i Beatles esibirsi

all’Ed Sullivan Show e scoppierò a piangere quando Sidney Poitier vincerà un Oscar per Igigli del campo. Il nuovo appartamento è su un piano e non due, ma è enorme. Mi piacciono in particolare il salotto con i pannelli di legno alle pareti,

il solarium, la grata di ferro in stile Arts and Crafts che decora i possenti portoni d’ingresso. Sto per iniziare il terzo anno di superiori. Adesso posso andare a piedi da casa a scuola, da sola, oppure prendere l’autobus per un breve tratto.

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Ma prima come facevo a tornare a casa? E come hanno fatto, nel corso degli anni, a tornare a casa gli studenti N egri della Lab che non vivevano a Hyde Park? Quando eravamo diventati grandi abbastanza da prendere i mezzi pubblici formavamo dei gruppetti e traversavamo il Midway, dove giocavamo a calcio, lacrosse e hockey durante le ore di ginnastica. Il Midway: duecento metri di verde che separano l'università dal quartiere Negro di Woodlawn. Lo stesso Midway che, in aperto contrasto con i fasti neoclassici della Città bianca, ospitò il falso esotismo etnografico dell'Esposizione universale del 1893, al cui interno ivisitatori potevano osservare a bocca aperta i gradini più bassi della civiltà tra le strade del Cairo, riprodotte in fretta e furia, e poi in un villaggio eschimese, uno algerino, uno del Dahomey, uno cinese, uno giavanese, un villaggio indù e un accampamento indiano di Santa Fe: tutti provvisti di nativi importati o di nativi finti, resi ancora

più attraenti grazie a

forme di intrattenimento bastarde, giochi di destrezza e magia, danza del ventre, musica ragtime, e dalla meraviglia tecnologicotrionfante della ruota panoramica che girava alta nel cielo. Così noi Negri della Lab lasciavamo la Città bianca della Lab, tra-

versavamo il Midway, e prendevano uno o, più spesso, due autobus fino alle nostre false abitazioni esotiche negli insediamenti etnografici di Bronzeville, Park Manor e Chatham. Ora appartengo a Hyde Park, al suo raffinato passato poliglotta, dove i residenti della classe elevata e dell'alta borghesia hanno costruito o preso possesso di case grandi e di prestigio (alcune realizzate da architetti dai nomi altisonanti come Burnham, Baldwin e Wright), o di case più piccole ma graziose (alcune, anche in questo caso, benedette da famosi architetti). Ad Hyde Park e alla sua tipica progressione etnica e religiosa: coloni Wasp (e un pugno di cattolici) seguiti da ebrei, seguiti da asiatici, ispanici e da Altri Negri; da ricchi facoltosi, da quelli che avanzano rispettabilmente in società, da professionisti, studiosi, artisti e attivisti politici; da studenti che leggono,

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discutono, fumano con avidità nelle librerie e nel drugstore di Steinway, che mangiano polinesiano alla Tropical Hut, che si attardano nei caffè e nei negozi di design più originali, che frequentano lo Hyde Park Theater, dove io ho visto i primi film stranieri. Hyde Park ha sempre saputo come comunicare ai suoi abitanti che la loro boria poggia su basi solide, rassicuranti. Che se la sono guadagnata resistendo con fermezza alle lusinghe dei sobborghi, difendendo il modello urbano. Che loro — noi — possiamo accampare gli stessi diritti smargiassi dei pionieri, anche mentre godiamo semplicemente del benessere che i pionieri hanno lasciato ai loro discendenti. E dunque eccomi qui, a camminare verso casa passando davanti alla Robie House di Frank Lloyd Wright, a riflettere su questioni sia importanti che futili o a chiacchierare con i miei amici. Sono al terzo anno, vesto ancora da studentessa perbene, con gonne abbinate a golfini di mohair. L'anno dopo sarò già passata a un accattivante stile anticonformista: mocassini con le calze di nylon, invece dei calzettoni Adler, gonna nera svasata e camicia, una borsa greca che mia sorella ha preso per me da Kitty Hass, a Cambridge, in Massachusetts. Va tutto a meraviglia. Riesco perfino a rientrare nel gruppo delle ragazze pompon in tempo per l’ultimo anno. Era ora. Vengo eletta capitano e ci esercitiamo per tutta l'estate, talvolta facendo avanti e indietro nella MG rossa di Stefanie (è la MG rossa dei suoi genitori? Non è importante), con la capote abbassata e gli occhiali da sole. AI primo raduno in onore della squadra, a settembre, ci lanciamo in palestra in cinque, con le gonne marroni svolazzanti e i pompon bianchi e marroni che saettano. Il pubblico applaude e urla, e noi iniziamo la coreografia che accompagna il botta e riposta: Beh, bentornati tutti! (Beh, bentornati tutti!) Beh, perché mai siamo qui? (Beh, perché mai siamo qui?)

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Beh, siamo qui per vincere! (Beh, siamo qui per vincere!) Beh, chi lo dice? (Beh, chi lo dice ?) Beh, ma tutti quanti! (Beh, ma tutti quanti!)

Torniamoci sopra in terza persona. Questo dovrebbe implicare 0 perlomeno suggerire un maggior controllo intellettuale ed emotivo. All'ultimo anno la nostra eroina trionferà con il massimo dei voti, una dimostrazione, rilevano i suoi orgogliosi e un po' delusi genitori, che avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati anche negli anni precedenti. Quando diventa capitano delle ragazze pompon, entrerà a far parte dei ranghi selezionatissimi delle ragazze N egre che hanno

già avuto quest’onore (facciamo l'appello: Jean Hancock, la sorella di Herbie; Candace "Candy" Love, Dorothy "Dottie” Fleming, Nancy Gist, Bonnie Boswell). Le chiederanno di suonare ilpiano al ballo di fine anno. Eseguirà La Cathédrale Engloutie di Debussy, non troppo bene perché non ha voluto esercitarsi con l'impegno che sarebbe stato necessario. Le piace ancora l’idea di fare l'attrice, e ha una parte, da non protagonista, nella commedia difine anno. È il Pigmalione. L'insegnante di teatro, carismatico e umorale, nello spiegare lefasi della produzione osserverà che, nell’assegnare

le parti, farà affidamento innanzi tutto sulla corrispondenza fisica. Lei attende la fatale manciata di secondi richiesti a un'adeguata reazione comica, poi esegue una goffa, rapida scrollata di spalle, a mani aperte, con i palmi all’insù, suscitando le risate di tutti. "Beh, niente male” dice l'insegnante, scuotendo il capo; è soddisfatto e propenso

a sceglierla, come se lei avesse risposto alle sue istruzioni improvvisando la scenetta perfetta. Infatti viene presa per interpretare la signora Pearce, la governante. Anni dopo, quando ormai è diventata un’autrice, quell’insegnante di teatro le lascerà un messaggio in segreteria. Per caso è la stessa Margo Jefferson, e se così fosse

potrebbe richiamarlo ? In caso contrario (ha una voce leggermente timida, legger-

mente ansiosa) si scusa per il disturbo. Lei potrebbe richiamarlo e vendicarsi dicendogli quel che pensa dei suoi attacchi d'ira, che ora le appaiono dei ridicoli capricci tanto per darsi un tono e non spie di rigore artistico. Potrebbe ricordargli quei momenti crudeli durante i quali lui aveva voluto comunicarle con chiarezza il motivo

per cui non l'avrebbe scelta per il ruolo della madre ingegnosa di Henry Higgins. Ma perché farlo ad alta voce, mettendola a nudo davanti a tutti? Perché non limitarsi a darle la parte della signora Pearce, senza bisogno di aggiungere altro ?Evidentemente,

170 in cuor suo, quell’ometto insulso sapeva che era lei quella che meritava di interpretare la signora Higgins. Non lo richiama. La mia vendetta sarà questa, decide. Legge quello che scrivo, è in-

timidito, lo capisco dalla voce piena d'ansia, dal suo bisogno di telefonare. E tuttavia c'è sempre una seconda interpretazione. Avrebbe meritato di fare la signora Higgins, ma non di fare Eliza, la protagonista. L'insegnante pensava che la sua amica M. avesse più talento, e aveva ragione. Se ora lei lo prendesse dipetto, lui ri-

batterebbe così ? Si vede ancora fare — improvvisare — quel gesto comico, la classica scenetta umoristica pacificatrice che nel pubblico suscita sempre un “grazie per non farci sentire a disagio,

per suggerire che siamo migliori della verità rivelata dallo scherzo”. L'umorismo, quando hai timore di mostrare la tua aggressività, assolve tutti. La colpa del suo personaggio sta qui. (Non è una colpa tragica: siamo nel mondo del dramma borghese). Desidera appartenere a troppi ambienti: non riesce a trasformarsi in una ribelle, in un'inevitabile emarginata. È forse per questa ragione che non ha ancora un'amica del cuore, ma un viavai di amicizie gradevoli con ragazze già occupate ?

E come non tener conto delle distinzioni razziali? Con le sue amiche bianche non poteva parlare apertamente di ragazzi o difeste: ilpiù delle volte non andavano alle stesse feste né incontravano ragazzi della medesima razza. Ne erano state abituate, dopo scuola 0

neifine settimana, ad andare l’una a casa dell'altra. Quando stava con delle ragazze Negre, però, non si poteva certo dire che ilsuo stile fosse il massimo. Alle feste inalavano una sigaretta fino in fondo, tenendola abilmente tra le dita, e nel frattempo parlavano con disinvoltura. Lei era troppo seria e troppo giudiziosa. Le mancava quel pizzico di distacco, quella freddezza divertita. Sbagliava a pronunciare correttamente le espressioni

gergali più incisive (osservatela mentre prova “shoo-be-doo-be-doo!” in camera sua, dopo aver sentito come lo diceva Angela durante una partita di whist. Deve essere spensierato, quasi languido. Cerca di non caricare troppo sull'ultima sillaba. Osservatela mentre infila un “ma di che ti sei FATTA?” in una conversazione telefonica — per esprimere una beffarda incredulità — sentendosi subito un’idiota quando sua madre emerge dalla cucina per chiederle “ma lo sai che significa?”). Quando compie tredici anni, le sue amiche le organizzano unafesta di compleanno. Si sente ingannata

anche quando le fanno “sorpresa!” e lei resta a bocca aperta e sorride e urla come

171

una ragazzina. Della festa in mio onore non vi interessa nulla, pensa. Vi serviva solo una scusa per una festa a cui i vostri genitori non potessero opporsi.

RAGAZZI

Se ci riflette, capisce che il declino inizia in prima media, quando, essendo la meno attraente, viene votata la ragazza più simpatica. È una decisione che prendono dei ragazzi

caucasici, con la partecipazione di almeno un Negro. Non se la cavava troppo bene neppure con isuoi simili, sebbene José Randall gli

abbia dato un biglietto e una scatola di caramelle per San Valentino. (Perché non è riuscita ad aggrapparsi a questo, a usarlo per valorizzare meglio il suo fascino ?). A una festa natalizia per future matricole, sebbene indossi un abito troppo infantile (la sua princesse a maniche lunghe di velluto verde scuro con il colletto di pizzo è stato un errore, perché L. non le fa i complimenti), L. ha sentito dire a diversi ragazzi nel

gruppo delle loro sorelle che Margo svilupperà un belpersonale. Perché non si è aggrappata a questo ? Perché prendersela sempre con gli occhiali? Certo, in prima superiore le hanno dato non pochi problemi: P.W., il ragazzo sarcastico e sexy per il quale aveva una cotta, la chiama “Guercia”, ma confare affabile, quasi affettuoso, senza acredine, per cui glialtri ragazzi si sentono autorizzati a seguire il suo esempio.

Però B.G. aveva una cotta per lei — si erano incontrati a unafesta in agosto, quando lei era tornata dalla prima estate passata in un campeggio per giovani artisti, e portava

ancora gli occhiali. B.G. era un amico di Sullivan e frequentavano entrambi le scuole pubbliche. L. era a dir poco entusiasta di Sullivan, e in autunno B. G. sarebbe venuto a U-High. Qualche settimana dopo, quando andò con alcuni amici a Riverview, lui

la baciò nel Tunnel dell’amore. Lei rimase educatamente immobile. L. le aveva spiegato lo ricer quando sulgiradischi c’è un lento, il ragazzo preme il suo stomaco contro il tuo e... sfrega... e se ti va puoi sfregare delicatamente anche tu — quando un partner indesiderato diventa troppo insistente ti allontani e lo lasci lì a premere e a roteare la pelvi nel vuoto. “Noi alle festefacciamo tutto quello che voifate agli appuntamenti” dicevamo alle nostre amiche bianche — loro hanno iniziato a uscire con i ragazzi da matricole, noi no. Ma lei — cioè sempre io — faceva il meno possibile. Per tutte le superiori si prese cotte tremende per diversi ragazzi ma fu incapace di rispondere ai loro approcci.

172 Quando, al secondo anno, il bel R. le chiese di uscire, lei accettò, ma gli restituì l‘anello

dopo neppure una settimana. L'ultimo anno G.H. le chiese difare il viaggio insieme mentre, nella macchina dei suoi genitori, tornavano da un concerto di Nancy Wilson

a Ravinia. Lei rispose — amabile, senza crudeltà — “perché non lasciamo tutto a livello platonico ?”, chiudendo una volta per tutte quello che era iniziato tre anni prima, quando G.H., in palestra, l’aveva imitata, mentre con gli occhiali sul naso applaudiva

come una piccola Stevie Wonder. L'ultimo anno è l’anno di].L., un ragazzo dai tratti intensi e di un nero luminoso, particolarmente incline a interpretare il ruolo del ragazzo di strada, dello spaccone.

Abile nel gingillarsi contemporaneamente con tre ragazze del nostro gruppo Negro, ragazze serie, tutte quante, e per questo ancora più soggiogate. Non c’è speranza, pensa lei. Non posso credere di piacergli così come sono. E come saresti, signorina 2,

avrebbe fatto bene a chiedersi — ma se non altro G.H., che ha la lingua sciolta ed è un tantino stufo, apprezza il suo senso dell'umorismo. J.L. non si espresse al riguardo. La loro attrazione non aveva nulla di speciale. Lei era vivace e complicata e con un bel personale. Lui rappresentava ilpunto più alto del maschio Negro. Erano cresciuti in-

sieme. Erano stati nel Jack and Jill insieme. Il padre di lei e la madre di lui lavoravano come medici nello stesso posto. E non c'era nessuna possibilità che entrassero l'uno nella sfera difatti, problemi e desideri dell’altra.

Gli anni 1963 e 1964 furono dedicati agli esperimenti di integrazione. All’inizio alcuni di noi erano stati invitati sia a bar Mitzvah sia a bat Mitzvah, e talvolta anche a qualche festa serale. Ma per i tradizionalisti il sistema di riferimento fuori dalla scuola era: i ragazzi scherzano e fanno sport insieme; le ragazze fanno shopping e vanno a teatro, al cinema e ai musei insieme. Si vocifera che a tre Negri di U-High possa essere concessa l'iscrizione parziale a un’associazione studentesca, completa di privilegi atletici ma non sociali. Alla fine il progetto viene cassato, si dice, perché i membri delle scuole pubbliche sollevano l’obiezione (la minaccia) che in virtù delle doti atletiche si aprirebbe la possibilità di reclutare anche dei Negri poveri.

173

Le ragazze sì comportano

con

maggiore

discrezione.

Passare la

notte dalle amiche è praticamente vietato. Le feste di compleanno in genere non creano problemi. Meglio senza i genitori. I miei hanno un cabinato sul lago Michigan e andiamo spesso a trovare i nostri amici Negri sulle loro barche. Quando al lago incrociamo i compagni di scuola bianchi con i loro genitori, ci salutiamo con uno scrupoloso cenno della mano e tiriamo dritti. Le visite sono fuori discussione. Nessun dei due gruppi di genitori desidera quel tipo di stress sociale. Vogliono rilassarsi, mica mettersi a sgobbare. Noi facciamo del nostro meglio per trasformare quello stress in una scoperta stilistica. Igrandi cambiamenti politici portano a piccoli cambiamenti sociali. Piccoli e insulsi, ma che vale la pena notare.

Anno: 1963 Luogo: Una riunione delle Etta Quettes, uno dei club per sole ragazze Negre al quale appartengo. Due di noi chiesero alle altre di poter invitare alcune (poche) amiche bianche alla festa che si sarebbe tenuta in autunno. Il responso è sì. Scegliemmo delle ragazze che erano nostre amiche da anni. Ci fidavamo del loro stile: erano carine, erano sveglie, sapevano ballare — anche quelle canzoni che non erano riuscite a imporsi nelle classifiche bianche. Sapevamo che i loro genitori erano progressisti. Sapevamo che loro sapevano che i Negri erano gente giusta, che essere invitate a una delle nostre feste era un atto di coraggio e che era lusinghiero. E sapevamo che nella scelta degli accompagnatori ne avrebbero tenuto conto. Si comportarono tutte bene. Vennero ben vestite. Ballarono con

grazia e senza essere invadenti. Non rimasero ferme come allocche e non cercarono di attirare l’attenzione su di sé. E non parlarono d'altro per giorni e giorni. Trovarsi lì era stato emozionante.

Ovunque mi trovassi, qualunque cosa facessi, desideravo essere benvoluta. Dicevano tutti che avevo talento, e che sarei potuta diventare un’intellettuale. Mi rallegravo per entrambe le cose. Se qualcuno

174 mi elogiava, ero contenta, se qualcuno mi faceva sentire troppo eccentrica, gli stavo alla larga. Essere benvoluta in ogni ambiente rinforzava il posizionamento tra essere Eccezionale ed essere Irreprensibile. Compensava i costi che esigevano talento e cervello. Allontanava lo spettro di essere menomata dalla razza. Moltiplicata per due: menomata tra i bianchi e menomata tra i Negri, che mi trovavano — provo a dirlo con la dovuta precisione — socialmente inetta a causa di una sovrabbondanza di comportamenti e interessi

indotti dai bianchi. Errori di calcolo su tutti i fronti. Sebbene il più delle volte me la cavassi abbastanza bene, per anni questo desiderio di popolarità uccise le mie cellule cerebrali e la fiducia in me stessa. Non capivo che era una meschinità. Ma capivo di essere fragile. Quello che avrei fatto in seguito, all’inizio del college e negli anni a seguire, per diventare una persona interiormente salda: fare a pezzi quell’interiorità untuosa.

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Brandeis University, 1964-1968 LA SCATOLA

Ecco qui una scatola in cui sistemerò/ aggiungerò il materiale personale degli anni di college. Quattro anni in una scatola di quattro lati. E fuori dalla scatola un mondo

in subbuglio.

All’interno della scatola, quattro anni di disperazione interiore,

un farsi largo a fatica tra i miei limiti e miei difetti più evidenti. Non abbastanza talentuosa Non abbastanza brillante Priva di una personalità eccezionale Destinata a essere quel genere di femmina spregevole: una dilettante.

1964 Nella speranza di acquisire un po’ di prestigio extracurriculare, feci il provino per diventare ragazza pompon,

lo superai, ma compresi

quasi all'istante di aver sposato un ethos disinvolto che non suscitava alcun rispetto. Suscitavano rispetto gli intellettuali, suscitavano ri-

spetto gli anticonformisti, suscitava rispetto l’arte, suscitava rispetto

la vera angoscia. Suscitavano rispetto le mode e lo stile chic di Manhattan, Quinta Avenue al Greenwich Village.

dalla

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Feci un'audizione per la filodrammatica e ottenni una parte in Le serve di Genet. Interpretai Madame, il vacuo e scintillante oggetto del desiderio delle serve omicide, e davanti al talento e all’esperienza delle altre due attrici mi sentii vacua. Capii che diventare una ragazza pompon era stato un errore nella prima fase delle prove, quando un'attrice più grande disse: “Margo, sei entrata nella squadra delle pompon, congratulazioni” — la notizia era apparsa sul giornale universitario —, ma il suo tono di voce diceva: “Non dirò nulla di scortese, ma qui facciamo arte e tu sei un reperto folcloristico del Midwest americano”. Mi trascinai lungo un intero campionato di basket con tutti i miei pompon e le grida di incitamento, e poi non menzionai più l'accaduto. Quando diedi prova di un certo talento nella scherma (ero mancina e stabile sui piedi per via della danza classica), l'istruttore mi chiese di provare a entrare in squadra. Non mi interessava, ma quando insegnanti e genitori mi chiedevano di fare qualcosa di lusinghiero e di assolutamente ragionevole non sapevo dire di no: come si faceva a dire di no senza suscitare delusione e riprovazione, per le quali non c'erano scuse? Trovai altri modi per preferire di no: in questo caso mi allenai nella caduta da una mezza rampa di scale del dormitorio, e quando mi procurai un gonfiore alla gamba, ci misi sopra una benda, il giorno delle selezioni zoppicai fino alla palestra e dissi di essermi fatta male al ginocchio.

1966 A teatro riuscii a interpretare anche una serva, che tuttavia non poteva ambire allo splendore ferino di Genet. Fui una cordiale e adorabile cameriera Negra americana in un musical ispirato al libro Suzuki Beane, la spumeggiante alternativa beat alla serie Eloise. Era l’ultima cosa che avrei voluto fare — nessun Negro della classe media (Nmc), educato a trasalire e sospirare ogni volta che Hattie MeDanielo Louise Beavers comparivano davanti alla macchina da presa,

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avrebbe mai voluto quella parte. Noi Nem ci eravamo anche abituati a scambiare aneddoti su “io e la cameriera”, dopo ogni visita ad amici bianchi. Talvolta io e la cameriera ci guardavamo furtive: Sono orgogliosa di te, diceva il suo sguardo. Siamo comunque sulla stessa barca, diceva il mio. Altre volte la cameriera evitava i miei occhi ed era più premurosa con gli ospiti bianchi, ma a quel punto io mettevo

in evidenza

come

fossi perfettamente

a mio

agio in

mezzo a loro. Poteva anche succedere che io e la cameriera finissimo nella stessa trappola, come quella sera, durante il college, in cui un gruppo di studenti di teatro si mise attorno al pianoforte del padrone di casa durante una festa a Weston, in Massachusetts. Stavamo cantando delle canzoni tratte dai musical e a breve fare l’accompagnamento al piano sarebbe toccato a me. Stavamo facendo il repertorio di Gershwin, quando il nostro ospite si fermò di colpo e disse: "Aspettate... questa la dovete sentire”, e si precipitò in cucina. Tornò qualche istante più tardi, seguito dalla cameriera, che si stava ancora asciugando le mani con il grembiule. La condusse al pianoforte, aspettò che si sistemasse e si voltò verso di me. “Suona Summertime” disse. Poi al gruppo ammutolito attorno al piano: "Sentite che voce magnifica”. Io e la cameriera ci siamo scambiate un'occhiata (come poi sostenni)? Oppure evitammo l’una lo sguardo dell'altra (più probabile, visto che avevamo addosso gli sguardi di tutti)? Aveva una bella voce? So che era passabile. E so che facemmo Summertime insieme. Credo che ci fu un applauso un po’ incerto. Non erano tutti ottusi come il padrone di casa, ma eravamo tutti intrappolati dalla sua ospitalità. Era arrivato il momento di alzare la voce e farsi sentire. Dissi al regista di avere qualche riserva, perché le cameriere Negre il più delle volte erano stereotipi. “No, no, no” rispose lui. "Accade spesso. Ma non in questo caso. In questo caso la cameriera è una donna piena di dignità. E per te ci sarà anche una bella canzone”. E così cedetti ancora una volta al bisogno di stare sul palco e all’ansia di

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non apparire permalosa. E fui costretta a cantare una ballata intitolata There's More to Life Than You'll Ever Know, mentre cullavo una bimbetta che aveva la mia età e che il pubblico trovava adorabile. Gr-r-r... eccolo, chi m’avvelena il cuore! E poi... And THENNNNNNNNNN, vanti a una

come cantavano i Coasters da-

catastrofe senza senso...

Mi lasciai scappare una parte decente in una commedia inglese che adesso non voglio neanche menzionare. Ero sicura che l’avrei ottenuta: dopotutto ero stata l’unica Negra tra le matricole della filodrammatica, e nelle Serve ero stata brava. Ma ero un'attrice affettata e sardonica (ecco un’altra ragione per cui non avrei dovuto cullare Sukuzi Beane), e questa parte richiedeva una certa tensione drammatica,

un approccio emotivo.

Ero così delusa e mortificata che al college non feci più neanche un provino.

E quando l’anno dopo arrivarono le Pantere Nere, ne approfittai per smettere di rivolgere la parola a quelle persone che secondo me non mi avevano rispettata o considerata abbastanza. Chi ha detto che il personale deve essere sempre onestamente politico? Mi sforzavo di essere onesta nelle mie letture politiche, nelle mie opinioni politiche, nel mio modesto attivismo contro la Guerra del Vietnam e a favore delle Pantere Nere. Provarci non costava nulla: lo facevano tutti. L’ultimo anno mi ritrovai in un gruppo teatrale di Boston, uno dei tanti gruppi sperimentali che leggevano Artaud e Grotowski,

che seguivano Joseph Chaikin, Richard Schechner, Ellen Stewart e Joe Papp, che mettevano alla prova tecniche e rituali presi in prestito dall'Asia, dall'Africa, dall'America Latina. Preparammo uno spettacolo intitolato Riot, in cui, nel corso di una tavola rotonda con tre personaggi stereotipati (un onesto progressista bianco,

un

nazionalista nero, un cauto moderatore), arrivava un bombardamento di immagini che riproducevano fatti inquietanti (un topo su un secchio dell'immondizia, una coppia mista che fa l’amore);

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alla fine le immagini esplodevano in una rivolta di grandi proporzioni — o in un'insurrezione — che aggrediva il pubblico con luci stroboscopiche, con gente che correva (rivoltosi e polizia) e che di tanto in tanto si bloccava in pose di lotta, ira e terrore. I diritti civili. Il Movimento contro la guerra. Il Potere Nero. Il femminismo e i diritti dei gay ci stanno aspettando.

Che fortuna essere nata così vicina a un momento di svolta della storia! Per quanto tu fossi infelice sul piano personale, eri costretta a pensare al mondo, qualunque fossero le assurdità e i fallimenti di ciascun movimento. gettivo

ai tuoi

I movimenti

sentimenti.

offrivano un correlativo

Ti spingevano

a pensare

og-

superando

quell’io che tu davi per scontato. Dove era finita quella piccola integrazionista che alle superiori voleva ingraziarsi tutti e che per questo sopportava tutto, che a malapena consentì a un'ombra di dispiacere di apparirle sul viso quando S. la prese da parte per spiegarle che non poteva essere invitata alla festa dei sedici anni di P. perché la mamma di P. veniva dalla Georgia e si rifiutava di invitarla? Dove era finita quella piccola snob che mentre andava a vedere una prova di Utopia, Limited, di Gilbert e Sullivan con la sua migliore

amica Negra, poco prima della fermata si era piazzata davanti a un'ingobbita ragazzina del ghetto e le aveva detto "faresti meglio a depilarti le gambe” e, mentre la ragazzina alzava lo sguardo per dire “grazie”, era scesa di corsa ridendo? Era necessario

menare

imbracciare

le armi contro

intere parti di sé, e

colpi durissimi.

Era così che parlavo allora: fare a pezzi e menare colpi. Beh, ovviamente i ghetti andavano in fiamme: è morto l’ultimo ‘Nigger' buono. Provavo molto rispetto per Martin Luther King, ma la sua morte dimostra che la non

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violenza è inattuale. (Per Thurgood Marshall non provo che disprezzo: sostiene Johnson e laguerra). I media insistono a chiamarle rivolte, ma sono sollevazioni. Perché mai i neri, per godere dei loro diritti, dovrebbero comportarsi bene? I bianchi non si com-

portano bene e hanno tutti i diritti che vogliono. L'errore di noi Negri privilegiati è stato questo. Credere in massa che “per essere considerati bravi è meglio essere doppiamente bravi. Perché ogni cosa che facciamo deve influire positivamente su tutta la razza”. Adottiamo tutte le ridicole affettazioni dei bianchi, e questo ci fa apparire ancora

più ridicoli. Mamma diceva lo stesso dall'alto della sua posizione di privilegiata borghese. Lo spiegò a mia sorella alla vigilia dell’ultimo anno delle superiori: "Allora, l’anno prossimo puoi fare il tuo debutto in società oppure decidere di andare in Europa”. E non appena le prenotazioni di Denise furono fissate, aggiunse: "D'altra parte

per i Negri esiste forse una società in cui debuttare ?”. Mamma diceva sempre: “La maggior parte dei bianchi vorrebbe considerarci come degli altri Negri e basta”. Ed è esattamente questo che dobbiamo essere: degli Altri Negri e Basta. La nostra forza dovrebbe venire da lì. Dovremmo offrire quello che abbiamo e quello che sappiamo alla nostra comunità. Chi siamo ? A chi vogliamo bene ? L'estate che zio Archie venne al Nord e passò per bianco per poter lavorare da RR Donnelley e guadagnare i soldi necessari per andare all'università e studiare Legge, iNegriglimancarono così tanto che neifine settimana sgattaiolava nel South Side, e andava da un banchetto all’altro e farsi lucidare le scarpe. Un pomeriggio intero a farsi lucidare le scarpe. Basta offrirgli qualche bicchiere e comincia a raccontarti barzellette su un Negro di Shreveport così brutto, brutto come un maiale, che tutti lo chiamano “Oink”. Poi si mette il cappello da baseball con la visiera all'indietro e dice: “Andiamo a divertirci, ‘Nigger””. Mamma e le sue amiche adorano scherzare sui nostri capelli Afro. “Sai Margo,” mi dice, assaporando le parole durante uno dei suoi ricevimenti pomeridiani “se una mosca restasse impigliata qui dentro, e tentasse di uscire, si spez-

zerebbe le alucce”. Devono riesaminare le loro vite. Devono rispondere di così tante cose.

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A Negroland i ragazzi imparano a morire presto. Cominciano a morire durante l'adolescenza, in stanze da gioco rivestite di pannelli di legno, con i tavoli da biliardo, i trenini su rotaie, le mazze da golf, l’armadietto dei liquori. Sul muro il padre aveva forse appeso un fucile? Oppure il ragazzino ha scovato il suo vecchio fucile militare nell'armadio della camera da letto e l’ha portato di soppiatto al piano inferiore? Proprio lì, nella stanza del tempo libero, il figlio adorabile e tanto ammodo del medico si è sparato. Causa: sconosciuta. Verdetto: morte accidentale. Periodo: poco dopo che il padre era stato arrestato per aver aggredito la seconda moglie. Qualche anno più tardi, in un’altra stanza da gioco, il figlio di un altro medico,

con il viso dolcissimo e la voce gentile, farà lo stesso.

Motivo presunto: temeva di diventare come il padre, dal viso dolce e la voce gentile, troppo espansivo e (sospettosamente) divorziato. Il Vietnam spalancò altre possibilità di autoestinzione. Un ragazzo Negro poteva abbandonare

il college, arruolarsi e tornare a casa

trasformato in un drogato. Si metteva a bere, a farsi e a rubare per qualche anno, a impegnare l’argenteria della nonna, ad aggredire un senzatetto, eludendo il carcere perché i suoi genitori, entrambi

medici, conoscevano il giudice. Poi si ritirava nella fattoria di famiglia e assisteva al rapido declino della propria salute, per poi finire all’altro mondo a causa di un blocco renale.

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Ai bambini di Negroland i genitori insegnavano che solo pochi Negri godevano di benessere e privilegi; che gran parte degli Americani non Negri sarebbe stata felice di veder tornare i Negri come loro all’indigenza, all’ubbidienza e alla sottomissione.

I genitori si premuravano di mettere a disposizione dei figli case e appartamenti ben ammobiliati, una profusione di abiti eleganti, belle macchine, paghette generose, barche a vela, campeggi estivi, lezioni di musica, di danza, di volo, scuole private, tutori, e un as-

sortimento di club in cui altri bambini esattamente come loro si incontravano

per praticare sport, dirigere commedie,

partecipare

a escursioni culturali e andare in visita agli anziani negli ospizi e cantargli delle belle canzoni natalizie durante le feste. Eppure vivere a Negroland voleva dire che, in qualunque momento,

ogni conversazione poteva diventare un territorio di con-

quista dell'Uomo Bianco. Durante le cene era lui a dominare gli aneddoti militari sull’ufficiale Negro dalla pelle marrone che aveva dovuto condurre i suoi furibondi soldati nello squallido vagone di un treno segregato. O gli aneddoti sull’ufficiale Negro dalla pelle chiara che si accomodò sull'ultimo posto della sezione bianca di un treno, finché non rivelò di essere Negro, e al facchino (un altro Negro dalla pelle chiara) fu chiesto di reperire una tenda per separarlo dal caucasico che aveva davanti così da congiungerlo al Negro che gli stava dietro. Quando nontilincia, ti umilia, dicevano gli uomini seduti a cena. Si sporgevano in avanti e alzavano la voce, poi sprofondavano nuovamente

sulla sedia, scuotevano

il capo e facevano

“Ammnnnn”.

Non ti fa entrare nei suoi ospedali, nei suoi studi legali, nelle sue università. Addirittura nei suoi stupidi cimiteri. Non ti fa mai dimenticare che sei un cittadino di seconda classe. Privilegi concessi strategicamente e un benessere esibito senza vergogna te lo facevano dimenticare benissimo. I cocktail party e le cene danzanti spingevano a dimenticare. Così come l'abbonamento all'opera, le vacanze

estive ai Caraibi o in Messico.

O la famiglia

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riunita a guardare Ed Sullivan, a guardare Gunsmoke e Maverick, a guardare Playhouse 90 e le meravigliose produzioni culturali, come Peter Pan e Lo schiaccianoci. I matrimoni elegantemente complicati, e le garbate relazioni extramatrimoniali, i sommessi litigi al tavolo della colazione. I padri in ufficio, al club, che troppo spesso rincasano tardi. Le madri che vanno a prendere i figli a scuola, fanno shopping, organizzano i pasti, pranzano con le amiche, lavorano per salvaguardare i loro matrimoni. La Vie bourgeoise. Completa dei conflitti edipici e affettivi di prammatica. Padri, insistete affinché i vostri figli diventino Negri ambiziosi, attrezzati come voi a superare virilmente qualunque ostacolo. Come faranno? Con la forza di volontà. Voi ci siete riusciti. I ragazzi, però, hanno cominciato a morire.

Alle ragazze di Negroland non fu consentito di morire immediatamente. Il nostro percorso verso la morte andava pianificato e circumnavigato, facendo finta di puntare ad altro, come per esempio tentare di essere raffinata, benvoluta, amata. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta, le Brave Ragazze Negre conoscevano a memoria il vocabolario della femminilità. Avevano guanti, fazzolettini e agendine per ogni occasione. Una buona dizione per ogni situazione,

pelle sempre

curata

(nessun gomito

o

ginocchio grigiastro), capelli sempre in ordine (una serie infinita di trattamenti per eliminare quelli crespi e irsuti), buone maniere per compiacere

i nonni

e placare i sospetti di qualunque

scono-

sciuto bianco che volesse mettersi a studiare il tuo comportamento a scuola, nei negozi o al ristorante. Eravamo

ma non

occupatissime

a essere

sbarazzine,

chic, sarcastiche...,

“leggere”. Essere leggere comportava un progressivo an-

nientamento

sociale, perché i ragazzi che avevano

incontrato

una

ragazza leggera avrebbero detto a un'altra ragazza con cui avevano

184

fatto amicizia (una desiderabile ma non leggera), che la ragazza di

prima era una sgualdrina. I ragazzi l'avevano capito quando lei aveva commesso l’errore di essere leggera con più di un ragazzo, e poi ne avevano parlato tra loro. A quel punto anche le amiche della ragazza iniziavano a parlare di lei. Alle feste la trattavano ancora bene. E non l’avrebbero mai cacciata dai club. Ma se ancora non faceva parte dell’Etta Quettes o del Co-Ettes, di certo non le avrebbero proposto di entrarci. Di tanto in tanto, una figlia che era stata così stupida da farsi mettere incinta abbandonava il college, partoriva e poi si sposava con il padre del bambino. Questo voleva dire che si era rovinata e che aveva rovinato la sua famiglia. Perché era colpevole di matricidio: aveva distrutto la buona reputazione per cui la madre, le nonne e le nonne delle sue nonne avevano lottato fin dalla schiavitù. Attività sessuale prematura e gravidanza extramatrimoniale? La ragazza leggera forniva l'ennesimo puntello statistico che gettava discredito su tutta la razza. Per lasciar emergere le tante possibili sfumature che separano il decoro dal disonore, il mondo doveva prima ribaltarsi. E così all'improvviso quelle come noi iniziarono a condannare la guerra e l'imperialismo, a rifiutare il protocollo strategico dei diritti civili con l’aggressività combattiva del Black Power. Ci arricciammo di nuovo i capelli stirati, tornammo al nostro modo di parlare originale, rinunciammo allo snobismo e alle carinerie in società. I diritti acquisiti di Negroland non contavano più. Non rappresentavamo più quanto di meglio si sapeva e si pensava sulla vita e la storia nera. Eravamo una forma corrotta della Razza, una forma ingiustificatamente deviata. Avevamo accettato di diventare un mezzo per opprimere la comunità nera. Avevamo voltato le

spalle alla vitalità della cultura nera per accontentarci di un’arida copia di quella bianca. Avevamo

tentato invano di dimostrare che

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potevamo destreggiarci tre la regole della civiltà bianca, alla quale, però, non era mai saltato in mente, neanche per un secondo nell’arco della vita e della storia, di considerarci il meglio di alcunché. Ti tormentavi:

Mi piacciono ancora — li amo

— troppi scrittori,

musicisti e artisti bianchi? Mi sono immersa abbastanza nella storia e nella cultura africana? Dal mio lavoro emergono le mie convinzioni? E, convinzioni a parte, dentro di me sono ancora una snob? Il tuo retroterra, i tuoi vantaggi si insinuano nelle riunioni, durante una conversazione politica, in classe. Fai di tutto per cancellarli dalle tue dichiarazioni di intellettuale, e loro rispuntano nel modo in cui ti esprimi. Nel tono perentorio che a tuo parere è sintomo di rigore. Nel modo in cui sembri ascoltare con educazione quando in realtà non stai ascoltando affatto, perché sei sicura di saperne comunque di più. E anche quando non pensavi di saperne di più, ai reading di poesia o ai concerti, ti prendevi le occhiatacce del nazionalista di turno che ti aveva sentita parlare o che si era accorto della tua affettazione... e che continuava a guardarti finché tu non diventavi consapevole del suo sguardo e glielo restituivi, e lui lentamente storceva le labbra. E icommenti: Devi capire che non sei affidabile. Quelli come me, tu prima li insultavi. Figuriamoci, quello che voi di Chicago spendevate in whisky scozzese avrebbe potuto finanziare un anno di ricerche dell’Institute ofthe Black World.

Quando ci sarà la rivoluzione, quelli come te saranno messi al muro egiustiziati. “Sei abbastanza nera?” diventò essenziale per darsi della arie e per

intimidire sessualmente. Le Brave Ragazze Negre che desideravano una vita che i loro genitori non avevano avuto andavano spesso alla ricerca di uomini che i loro genitori non

conoscevano

e non

desideravano

conoscere.

Ovviamente incapparono in molti errori. La figlia del medico, studentessa di architettura, sposò un uomo sospettato di legami con

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i trafficanti di droga: nel giro di un anno le spararono in testa, da dietro, e la lasciarono lì insieme al marito assassinato, in una pozza di sangue che si allargava sul pavimento della loro “opulenta abitazione nel South Side”, come la descrisse la rivista “Jet”. La figlia di un insegnante socialmente consapevole, una ragazza dalla pelle scura, con un viso dai tratti provocanti e un paio di gambe

di lunghezza esorbitante, che aveva lasciato Parigi e una carriera da

modella per insegnare pedagogia infantile in un college di seconda categoria, ricevette molteplici pugnalate al collo e alla testa dal marito, da cui si era separata, che in seguito portò il cadavere alla sta-

zione di polizia e si costituì spiegando di aver “perso il controllo”. La donna media americana viene uccisa ogni giorno in modi uguali. Peccato che noi non fossimo state cresciute per essere donne medie, ma per diventare migliori della gran parte delle donne, di entrambe le razze. Le donne bianche, era il monito spietato delle nostre madri, potevano sopportare più vittime di noi. Erano di più, giusto?

I bianchi erano sempre di più. Noi eravamo talmente pochi, ed eravamo venuti al mondo a caro prezzo. Perché continuavamo a morire? I primi ragazzi a morire furono sopraffatti dalle ovvie sofferenze della vita in famiglia: il padre egoista e donnaiolo, il padre gentile ma segretamente omosessuale, la madre assente o inadeguata. In seguito arrivarono i ragazzi che si scrollarono di dosso i privilegi per inseguire una vita di strada: imitando la camminata barcollante di quelli che poltrivano agli angoli delle strade col cappello in testa e la giacca di pelle, esercitandosi nella sonora risata in cinque tempi (batti le mani, piegati all'altezza della vita, gettati in avanti, con le braccia sciolte come un pugile, rannicchiati e alla fine torna in posizione eretta ma rilassata) con lo stesso impegno di un qualsiasi ragazzo bianco che alle feste delle associazioni studentesche voglia suonare come Bo Diddley e Otis Redding. Provavano ardentemente a essere quel che erano e quel che non erano.

Ecco a voi il “Flaneur della razza”: il ribelle borghese che

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frequenta i bassifondi e vi trova non solo l'avventura ma il correlativo oggettivo della sua segreta disperazione. Non voglio assolvere le ragazze. Anche noi giocavamo al ghetto, facevamo roteare gli occhi e li strizzavamo con disprezzo, facevamo

schioccare la gomma da masticare e parlavamo in modo sguaiato. Ma erano i ragazzi a dettare legge. Noi aspiravamo solo a essere ornamentali, decorative, e d'altra parte cos'altro potevamo essere? Al centro delle ossessioni razziali della nostra cultura c'era il maschio Negro. La donna Negra era confinata miseramente nelle retrovie. Era importante solo quando si affermava nel mondo dello spettacolo, è ovvio. E così desiderammo l’autorevolezza erotica di Tina Turner, l'assoluta impertinenza di Diana Ross, l'autenticità melismatica di Aretha. Ma nella vita reale, quando una Brava Ragazza Negra si legava a un ragazzo dei ghetti nella speranza di accedere a un’emozionante vita di strada e fare ammenda dei privilegi borghesi, se non veniva uccisa insieme a lui, oppure da lui, diventava una donna nera finanziariamente incapace, disprezzata dalla società, destinata a produrre almeno un bambino del quale prendersi cura da sola. Ma cosa avevamo che non funzionava? Eravamo forse afflitti da un qualche mostruoso bisogno, da un qualche desiderio residuale di ripiombare nell'abisso in cui i Negri erano stati confinati per secoli? Era forse una variante del senso di colpa del sopravvissuto? No, questa frase è troppo generica. Preferisco sottolineare il colpevole imbarazzo di chi è stato abituato ad accettare i propri diritti con spavalderia. Abituato a essere più che un sopravvissuto, a essere un vincitore consapevole del fatto che la vittoria è minacciosa quanto il fallimento, e che in qualunque momento

ti si potrebbe

rivoltare contro. Continuo a essere ossessionata dalla diagnosi di questa condizione,

fatta da James Weldon Johnson nel 1933. Vale la pena ricordarla.

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Oltre a quelli che tutti noi dobbiamo affrontare in giovane età, ogni bambino di

colore ha davanti a sé limitazioni castranti e ostacoli insormontabili. Quanto è assennato. È inevitabile, tuttavia, che questo dilemma diventi più angosciante in rapporto alla consapevolezza di tali condizioni da parte dei genitori e all’ignoranza delle stesse da parte del bambino. Alcuni genitori provano a salvaguardare fino all'ultimo ilfiglio da un’amarezza delgenere. Genitori meno premurosi (quelli segnati dalla loro stessa amarezza) la inculcano nel bambino fin dall’infanzia.

In ogni frase, Johnson evita la drammaticità della retorica roboante. Sceglie “questo dilemma” invece di “il nostro fardello”, preferisce le nostre “condizioni” al nostro “destino” per giungere infine, con solennità, a questa conclusione: E nessun genitore può dire con certezza quale sia la strategia migliore, giacché potrebbero condurre entrambe al

crollo spirituale del bambino. La tragedia c'è, è arrivata, e si accontenta di restare acquattata nell’ombra. Con il tempo potrà reclamare sia il genitore che il figlio. Chi di noi è riuscito a evitare il disastro, ha conosciuto i vantaggi e i piaceri, i limiti e gli ostacoli che sono comuni a tutti. Se avevi ancora qualche pulsione di morte dovevi fare in modo di renderla compatibile con questo nuovo modello di vita. Verso la fine degli anni Settanta, iniziai a coltivare con impegno il desiderio di uccidermi. All'epoca ero una professionista di successo nel campo giornalistico. Ero anche una femminista convinta che rifiutava di riconoscere l’esistenza di contraddizioni tra, da un lato, il proprio impegno a combattere l'oppressione delle donne e, dall’altro, la sua convinzione

che il femminismo

l’avrebbe portata a

concepire una morte adeguata al successo sociale e alla consapevolezza politica. È opportuno aggiungere qualche dettaglio. In questa fase, nella comunità nera il movimento delle donne era controverso. Molti uomini e fin troppe donne accusavano il femminismo di esistere solo per la donna bianca, di essere un lusso, addirittura un’affermazione

del loro privilegio, perché adesso la donna

bianca

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competeva (in modo stridente) per quella porzione limitata di benefici che gli uomini bianchi avevano appena iniziato a concedere alle minoranze. Le femministe nere risposero che di solito, a causa del sessismo, le donne di colore si prendevano una dose doppia di discriminazione e di oppressione. E, in ogni caso, noi avevamo la nostra storia femminista.

I rapporti tra donne bianche e nere erano stati circo-

spetti, iniqui o fondati sul più brutale sfruttamento. poco frequenti e cariche di tensione.

Le alleanze

I progressi culturali e sociali avvenuti nel corso tempo avevano però consentito alla mia generazione di poter accedere ad amicizie

e collaborazioni interrazziali. Avevo avuto amiche bianche fin dall'asilo. E comprendevo benissimo quanto fosse ironico che i riti della femminilità borghese avessero dato alle ragazze di Negroland un livello di protezione che i ragazzi non avevano. Quel concetto di virilità nera, animalesca e affascinante, ossessionava gli americani di ogni classe e razza. Negli anni Cinquanta e Sessanta, essere una ragazza Negra dell'alta borghesia significava in realtà, e anche nell’immaginazione, essere una ragazza protestante bianca dell'alta borghesia. Le donne bianche giovani e carine erano le creature più desiderabili del mondo. Era impossibile non cercare di imitarle, ma era anche assolutamente distruttivo, come ci saremmo

accorte soltanto in seguito.

D'altra parte, questi riti davano alle ragazze la libertà di proseguire gli studi continuando a essere sbarazzine e benvolute, di coltivare le buone maniere ed essere socialmente flessibili, anche quando partecipavano alle proteste degli anni Sessanta. Per cui, quando il movimento nero e il movimento delle donne ci offrirono opportunità sociali e culturali completamente nuove, fummo pronte a farle nostre. E tuttavia esisteva un privilegio femminile bianco dal quale le ragazze di Negroland erano sempre state bandite. A parte il privilegio di essere effettivamente bianche, ci è stato negato il privilegio di

190 cedere alla depressione, di trasformare la nostra nevrosi in un sin-

tomo di complessità sociale e psichica. Un privilegio che la letteratura dedicata alla sofferenza e alla combattività delle donne bianche aveva esaltato. Un privilegio che alle Brave Ragazze Negre è stato negato da una storia, la nostra, fondata sull’obbligo morale, sul senso del dovere e sulla disciplina. Poiché la nostra gente aveva sopportato l’orrore e aveva vinto, direi trionfato, le loro discendenti sarebbero state troppo forti e orgogliose per simili comportamenti. Dovevamo essere signore eleganti, donne Negre responsabili, e donne nere in-

domite. Non potevamo essere depresse e neanche troppo su di giri, non potevamo permetterci crolli nervosi. Avevamo un'eredità da difendere. Eravamo troppo in gamba per quelle cose lì. Io reclamavo il diritto di mettermi con la faccia al muro, di inventare una morte degna del successo sociale e della consapevolezza politica, e di una disperazione femminile esteticamente affascinante. I primi tentativi compiuti

in questa direzione

non

condussero

a

nulla. Ingaggiai la mia piccola battaglia dei libri iniziando a far fuori dalla mia biblioteca le opere valorose e gagliarde scritte da donne nere e sostituendole, ove possibile, con quelle morbose e truculente delle mie sorelle. Fuori This Child's Gonna Live e dentro There's NothingI Own That I Want. Ciao ciao a My Lord, What a Morning di Marian Anderson, benvenuto Everything and Nothing di Dorothy Dandridge. Quanto alla poesia di Mari Evans più rappresentativa degli anni Sessanta: Sono una donna nera

oltre la definizione che ancora sfida spazio e tempo

e circostanze

decise inaccessibili

191

indistruttibili

Guardami e rinnovati

la strappai da un'antologia e le diedi fuoco nel lavandino del bagno. Trovai le mie eroine letterarie in Adrienne Kennedy, Nella Larsen e Ntozake Shange, scrittrici che avevano osato aprire uno spazio proibito, vietato, tra la vulnerabilità bianca e l’invincibilità nera. Una ragazza Negra non poteva mai essere candidamente innocente. C'era sempre la Fatina vendicatrice della razza appostata nelle vicinanze. L'unica speranza che avevano i tuoi genitori era che la fatina si presentasse alla festa di qualcun altro e si dedicasse a castigare la loro figlia. I genitori dovevano anche proteggere loro stessi, e proteggerti dall’eventualità di capire a quale pericolo eravate esposti tutti. E così si materializzò una variante della classica scena primaria freudiana, quella in cui la bambina vede o immagina di vedere i suoi genitori che hanno un rapporto sessuale e lo trova di una violenza entusiasmante. In questa variante, la bambina vede o immagina di vedere i propri genitori che hanno contatti angoscianti con i bianchi, i quali invadono le loro conversazioni e mettono in ombra le loro vite al di fuori dei confini domestici o del quartiere. Datti da fare, ragazzina!

Interiorizza le figure della madre,

del

padre, dei tuoi genitori (quell’onnipresente personaggio di genere doppio). Interiorizza la Razza. Interiorizza entrambe le razze. Poi interiorizza le contraddizioni. Insegna alla psiche come armonizzare una vita da solista con un obbligato di gruppo. Altrimenti lascia che abbandoni qualunque desiderio di indipendenza e si scagli convulsamente verso una perfetta rappresentazione della tua gente. Il primo sfrontato suicidio di una donna nera ebbe luogo in un teatrino Off-Broadway nel 1964, all’interno della breve pièce gotica di una commediografa Negra dall’immaginazione grintosa. Io non

192 ero presente, ma dedussi che Funnyhouse ofa Negro di Adrienne Ken-

nedy fosse una richiesta di libertà tanto quanto la Legge sui diritti civili approvata quello stesso anno. L’eroina di Kennedy,

Negro-Sarah,

è una giovane donna della

classe media, “carina ma banale: nessun tratto Negroide che mi faccia sfavillare, naso nella norma,

bocca nella media e pelle gial-

lastra. Il mio unico difetto è che ho una capigliatura riccia, capelli crespi inconfondibilmente da Negra”... Vive da sola in un palazzetto di arenaria dell’Upper West Side, desidera essere anticonformista e diversa dagli altri, teme di essere perbene e noiosa. Diffida

del suo ragazzo, un poeta bianco: lui ha un grande interesse per i Negri. Diffida del suo stesso entusiasmo per la cultura bianca, nei cui capolavori non c'è posto per lei, le cui celebrità la considererebbero un'arrivista insignificante. Una donna, una stanza, un'interiorità polifonica piena di angosce. La regina Vittoria e la duchessa d'Asburgo vagano all’interno della sua psiche, deplorando l’orrenda maledizione della pelle nera. Ci sono anche Patrice Lumumba e un nebuloso padre nero, che lottano e che vengono sconfitti mentre provano a cancellare la maledizione. Nel finale della commedia, le luci prima si spengono, poi diventano di un bianco scintillante. “Quella povera puttanella si è impiccata” dice la padrona di casa. “Era una patetica bugiarda” dice il ragazzo. Negro-Sarah incarna il retaggio dei divieti e dei privilegi, dei dolori e delle conquiste di Negroland: una miscela di odio e amore

per la nostra

gente,

una

miscela

di amore

e terrore

verso

la

cultura bianca. E poi (come se fossero il loro risultato) una disperazione e un desiderio furibondo di distruggere l’io. Ecco cosa hanno fatto i nemici della mia gente. Ma anche quelli che mi sono cari. I miei nemici hanno preso troppo per sé stessi. I miei cari hanno preteso troppo. Va detto che la responsabilità non è simmetrica: i miei nemici hanno costretto i miei cari a pretendere troppo da me.

193 I romanzi pubblicati negli anni Venti da Nella Larsen tornarono in libreria tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, insieme a una valanga di altri libri scritti da donne, da gay e da non bianchi di qualunque sfumatura, che la cultura ufficiale per anni aveva bellamente impedito di ristampare. Alcuni di questi libri apparvero in edizioni eleganti, realizzate con cura. Quelli di Larsen uscirono con la carta più economica e le copertine più rozze che un editore si potesse permettere. Le eroine di Larsen non si sarebbero mai abbassate a comprarle. Perché sono orgogliose e permalose, queste eroine dell'Età del

Jazz. Leggono di tutto, indossano abiti ricercati, danno feste raffinate e fanno osservazioni intelligenti. Hanno cervelli impazienti, volti impazienti e pelle chiara, e possono prendersi il lusso di essere adeguatamente ironiche rispetto al “ciò che si autodefinisce società Negra”. Sfruttano i vantaggi di essere Nuovi Negri e Donne Nuove; talvolta si compiacciono anche di essere Nuovi Negri che possono passare per bianchi. Perseguono la Vie buorgeoise con ansia eccessiva oppure con eccessiva indecisione. Finiscono incastrate dal loro desiderio sessuale oppure sono frenate dal loro riserbo sessuale. Sono timide quando dovrebbero essere audaci, sconsiderate quando sarebbe opportuno essere diplomatiche. Provano un segreto disprezzo per la loro incapacità di immaginare qualcosa di

meglio per sé stesse. Ognuna di loro va incontro in qualche modo alla propria morte: un matrimonio letale, un incidente fatale. Ma questo desiderio di morte, questo impulso, non è mai dichiarato. Le donne di Larsen si imbattono nel suicidio per disgrazia o per aver fatto male i propri calcoli. Evitano la premeditazione, tanto quanto evitano una rigorosa autoanalisi.

Così, quando nel 1975 Ntozake Shange si presentò sul palco del Public Theater e pronunciò le parole: "E questo è per le ragazze di colore che hanno preso in considerazione il suicidio”, il mio cuore

194

spiccò il volo. Avevamo la stessa età. Eravamo entrambe figlie di medici e avevamo voltato le spalle alla nostra raffinata fanciullezza imbracciando le armi del Black Power e del femminismo radicale. Adesso potevamo prendere in considerazione — giocare con, riflettere su, contemplare — il suicidio.

Provai a soffocare l’invidia andando a vedere la commedia due, tre, addirittura quattro volte, portandoci gli amici e pagandogli il biglietto. Mi dicevo: Ntozake sta gettando le basi per tutte le femministe nere. Lei ha preso posizione come artista, e invece tu ti nascondi dietro al fatto di essere una giornalista. Devi liberarti della gelosia. Tu i mediocri che si mettono a cavillare con le persone impavide li odi. Ho sempre deriso la competitività di Anne Sexton rispetto al suicidio di Sylvia Plath: “Ladra!” ha scritto Sexton. “Come hai osato strisciare / trascinarti sola / nella morte che ho desiderato tanto e per tanti anni...?”. Forse perché Plath era più coraggiosa e scriveva poesie più belle, rispondevo io. Incanalai la mia invidia nello sconforto estetico della frase seguente: “Per le ragazze di colore che hanno preso in considerazione il suicidio quando l'arcobaleno è abbastanza”. Non era abbastanza. Era meglio: “Per le ragazze di colore che camminano verso la fine del loro arcobaleno privato”. Ritenevo l'arcobaleno trito e abusato, sebbene in tutte le culture fosse un simbolo venerato, un tropo consacrato della poesia lirica. Ma una volta terminata quest’astiosa analisi formalista, rimasi sola con il mio furore. Ntozake diceva che avevamo trovato la divinità in noi stesse e che l’amavamo appassionatamente. lo non l’avevo trovata e non l’amavo per niente. Scrissi alcune cupe osservazioni sul mio taccuino e le chiamai aforismi di morte. Disprezzo i miei simili, cioè l'umanità. Storpiamo e insozziamo qualunque cosa incontriamo. Potremmo essere migliori, ma non accadrà mai.

Sono convinta che le persone che si uccidono dovrebbero essere di più. Come fare per incentivarle ?

195 Ammiriamo Freud per aver detto che “le civiltà nutrono pulsioni di morte”. Io dico che gli individui sono condannati a vivere, e rifiuto di essere una prigioniera modello. Guarderò alla mia morte come a un passo avanti nell'evoluzione della specie.

Scrissi alla Hemlock Society per ricevere istruzioni. Trenta aspirine come minimo, insieme a un liquido che dà sonnolenza. Poi ti leghi una busta di plastica attorno alla testa. Iniziai a studiare i biglietti dei suicidi. È un genere primitivo — seguono tutti lo stesso modello. “Non riesco ad andare avanti”. “Mi spiace tanto farvi questo”. “Siete stati così buoni con me”. “Siete stati buoni, come chiunque non abbia dovuto attraversare tutto questo”. Raccolsi le brutte copie dei miei biglietti in una cartellina. Esempio: "Caro s Non posso andare avanti così. Da molto tempo ormai ho capito che non c'è più niente da fare. A che serve continuare a lottare?”. Non è certo la prosa da usare quando scrivi alla famiglia — ma il messaggio arriva, o no? Puoi anche aggiungere un tocco personale. Io ci mettevo sempre una nota su chi si sarebbe presa i miei gioielli. Sapevo che avrei avuto bisogno di un metodo alternativo, e scelsi il forno. Mi piaceva il suo pedigree letterario: da Hansel e Gretel a Sylvia Plath. La volta in cui cercai seriamente di metterci la testa dentro, mi resi conto che il forno si apre all'altezza di circa trenta centimetri dal pavimento, per cui ti devi contorcere e poggiare la testa sulla porta piegandoti in maniera strana, innaturale. Mi esercitai perché non volevo essere trovata in una posizione scomposta o fetale. Cominciai con cinque minuti e arrivai fino a quindici. Ungiorno di questi, giurai, troverò anche il coraggio di aprire ilgas. Sapevo che un desiderio di morte non corrisposto è futile come l’amore non corrisposto. Ti devi imporre, mi dicevo. Soffri per le conseguenze croniche di un profondo affaticamento. È il risultato di tutto il lavoro che haifatto, dei tanti anni che ti sono serviti per diventare assolutamente normale e assolutamente eccezionale. Devi dare l'esempio alle altre ragazze di Negroland che soffrono come te. Devi dare loro una morte che non le deluda.

196

Esercizio, esercizio, esercizio. Come quando fai le scale o lavori alla sbarra. Farai i tuoi esercizi di suicidio ogni giorno. C'erano anche le pagine del diario, ovviamente.

Esempio I Ascolto Billie Holiday che canta “You don't know what Until you've learned the meaning of the blues”. E penso: cosa sia l’amore non corrisposto fino a che non ti capita una cultura che non contraccambia il tuo amore. Il mio intitola Torturarsi di promesse.

love is / Non sai di amare album si

Esempio 2 Morire per essere impeccabile. E al suo posto morire e basta. Perché non ribatti immediatamente alle parole che ti feriscono e ti umiliano?

Senza dare l’impressione di tenerci ho dimostrato di essere una brava persona. Tutti si accorgono della mia bontà e se ne vergognano. All'improvviso si sono convertiti e hanno smesso per sempre di avere pregiudizi. Io grido a te pietà, pietà, amore! Every day a little death.

197 Devi stringere i denti.

Seguono citazioni tratte dai testi di diverse scrittrici, nere e bianche, alternate in modo arbitrario. Una sensazione

di incalcolabili perdite e ingiustizie passate, e il

terrore di incalcolabili perdite e ingiustizie future... (Fanny Kemble,

1852, dopo aver conversato con gli schiavi della

piantagione di suo marito in Georgia). Non approvo chi si fa bella con le sofferenze degli antenati che hanno patito infinitamente più di noi. Eppure vivevo così molto prima di trovare queste parole. Credo

che questo diario sarà sconveniente,

perché passo il mio

tempo come un ragno che tesse le proprie viscere... (Mary Boykin Chesnut,

1860, mentre

riflette sul proprio stato

d'animo nella piantagione del South Carolina, in cui si occupa della casa, del marito, degli schiavi e di adempiere agli obblighi sociali).

È il mio modo di dimostrare una doppia coscienza consapevole: discendo dagli umiliati e offesi. Discendo anche dai salvati. Parte come una divisione razziale, che poi si trasforma in una divisione di classe, in cui il senso diperdita, di ingiustizia, di dolore diventa possesso di quello che altri hanno avuto tutto il tempo di articolare con gradevolezza. L’infelicità come svago.

Avrei voluto trovare un compromesso con il Fato: sfuggire alle grandi angosce del destino per sottomettermi a un'intera vita di privazione e piccoli dolori. Ma il Fato non si lasciò placare così [...]. “Ma se io sento, potrò mai esprimermi ?”. “Mai!” dichiarò la Ragione. Gemetti sotto la sua amara severità. [...] Se le ho obbedito è stato soprattutto con l'obbedienza della paura, non dell'amore. (Charlotte Bronté, Villette)

198

Paura, rassegnazione, e poi una tregua nella “desolata tranquillità” di Jane Austen, mentre giaci sul divano per ore, con la faccia girata verso il muro, ad ascoltare della musica, rinunciando a qualunque ambizione, facendo dei lunghi sonnellini pomeridiani.

A volte vorrei cadere in un sonno come quello di Rip Van Winkle e risvegliarmi felice credendo, come accade alla piccola Topsy, di non essere mai nata...

(Harriet Jacobs, riflettendo sul suo stato mentale, mentre, dopo

essere riuscita a conquistare la libertà dalla schiavitù, lavora al libro che diventerà Vita di una ragazza schiava). Oh, fuggire alla propria coscienza, e alla fine sparire! Smetterla una buona volta di

dire: Lo faccio per la mia gente. Tu sei tu e sarai tu per sempre. Era come buttarsi giù da una discesa, questo pensiero, solo molto, molto peggio, e si schiantava subito contro un albero. Ma perché ero un essere umano ? (Elizabeth Bishop, ‘The Country Mouse”) Sono completamente d'accordo, ed è il motivo per il quale non ho avuto figli. La mia mano

trasuda metodo, progettualità, espedienti.

Ma non ho accesso alla pietra più adatta a me. (Gwendolyn Brooks, The Womanhood: “The Children of the Poor”) Dopo aver avuto così tanti vantaggi. La tua disperazione è un lusso.

[...] bùttati, metti un piede davanti all’altro, raddrizza la schiena e le spalle e tutto quello che può curvarsi, datti una mossa e va’ avanti,

e in questo modo ogni ostacolo, fisico o solo immaginario, cade a faccia in giù riverente e sconfitto, perché buttarsi e darsi una mossa sconfigge sempre le avversità, così le aveva detto sua madre quando era piccola, magra nel corpo e nell'anima, e questo causava a sua madre molto dolore e grande vergogna, perché alla figlia — la giovane signora Sweet — bisognava inculcare le frasi fatte dei vincitori.

(Jamaica Kincaid, Vedi adesso allora)

199

Il significato che soggiace alle parole di sua madre è terrore — terrore e ira perché deve aver paura. Non è che i suoi cliché siano falsi. E che negano, che nascondono le emozioni che potrebbero comunicare alla bambina quello che ha bisogno di sentirsi dire.

Ho qualche storia da raccontare? Ho lividi e tagli che non danno vita a un percorso. (Wendy Walters, “A Letter from the Hunted Retrospect”) E nessuno di loro si puògiustificare a meno di non trovare il modo di rendere la storia degna di essere raccontata. Ci sono stati dei brevi scambi deprimenti con amiche nere che la pensavano come me.

Dialogo I — Sto leggendo Lost Woods di Rachel Carson. L'ambientalismo porta con sé l’idea dell'estinzione umana. Voglio andarmene da qui e passare i miei giorni “nella comunità alla deriva del plancton, tra le dia-

tomee e le dinoflagellate, e le altre piante microscopiche; in com-

pagnia dei più minuti crostacei, pteropodi, e di tante altre larve”. — Stamattina ho sentito una storia alla radio. Un pavone è entrato nel parcheggio di un Burger King. I clienti gli stavano dando da mangiare dei pezzetti di Whopper e avanzi di patatine fritte quando all'improvviso in mezzo a loro è comparso un Negro che ha cominciato

a picchiare il pavone.

ha continuato senza piume.

Prima

era un vampiro,

gridava, e

a picchiare il pavone fino a farlo rimanere Quelli del soccorso

animali,

quasi

quando sono arrivati,

hanno dovuto sopprimere il pavone. Poco dopo la polizia è venuta ad arrestare l’uomo che gridava. Nessuno sa cosa gli sia accaduto. Dialogo 2 — Le donne della nostra generazione non erano abituate alla realtà dei posti di lavoro maschili. Scopate e scazzottate, pisciate e baci. — Ma stiamo imparando. Torno ora da una gara di pisciate con un collega dello studio.

200

— Hai vinto tu? — Vincerò presto. Ora ho capito che non è necessario che sia il più grosso, deve solo pisciare più lontano.

Dialogo 3 — AI momento sono senza lavoro. Ho una casa con un mutuo che non riesco a pagare. Dentro di me canto James Brown: “Money won't change but time will take you on”. — Pensi che queste siano state le ultime parole della moglie prima di morire durante un intervento di chirurgia plastica? — Oppure avrà pensato: Perché mai non ho sposato quel fantastico Ike Turner?

Monologo d’addio — Non sono mai stata tanto stufa della RAZZA in vita mia come ora. Se devo parlare ancora della razza e di tutte le sue sottocategorie — etnia, cultura, religione — farò come Rumpelstiltskin: pianterò il piede al suolo e scomparirò sotto terra. Tutti i gruppi hanno diritti e rimostranze, una litania matematicamente precisa di ciò che è stato loro negato, cosà avrebbe dovuto essergli garantito da tempo, cosa gli deve essere restituito e cosa deve essere

corretto.

Oggi in questa

competizione

sono

entrati

anche i Wasp, giacché in un tempo incredibilmente breve la loro impressione di essere stati espropriati, soppiantati, intimoriti è diventata profonda, indignata e farisaica come quella di qualsiasi altro gruppo che loro stessi hanno a lungo dominato e lacerato. — Vuoi sapere cosa sogno? Di eliminarli tutti. Poi mi risistemo i capelli e ficco le mani nel manicotto mentre i tacchi fanno tic e tac sul marciapiede. — La posso aiutare, signora ? — Grazie, signore. Ho appena ucciso un mucchio di persone e avrei bisogno di un taxi.

201

Ripensandoci,

credo che le parole di mia madre: “A volte quasi mi dimentico di essere una Negra”, mi fossero tornate in mente in

un tono diverso e più polemico.

Scartato il disastro pubblico, il

disaccordo interiore appariva l’unica possibilità di protesta. Un’intemperanza che mi potevo permettere. L'espressione privata di quel che mi era stato proibito. A proibirlo era stata l’Attivista Negra, la nostra progenitrice, apostolo di successo e disciplina. “Siate ferme e virtuose” ci esortava. “Mettete a frutto l’istruzione e la buona educazione che avete ricevuto per promuovere

la causa della vostra gente e dimostrare

quanto

valete in società, per provare che le nostre donne meritano un rispetto assoluto. Non permettete a nessuno di pensare che le vostre

idee siano egoistiche o ribelli. Non mostratevi deboli. E ricordate: meritate lo stesso rispetto di una qualsiasi donna bianca, e per questo rispetto avete dovuto faticare il doppio”. Aveva fondato associazioni benefiche, si adoperava per allargare i diritti sociali e politici. Non permetteva a nessuno di illudersi che mancasse di iniziativa. La sua razza e il suo sesso non glielo consentivano,

diceva, quando gli uomini della sua razza e della sua classe sociale ne contestavano la leadership energica. Alcune di queste attiviste scelsero di non sposarsi, altre si sposarono tardi; altre

si trovarono un marito che già lavorava con o per loro, e che dopo una decina d’anni se ne andava. Alcune fecero del matrimonio la

202

loro seconda professione, e in questo caso diventarono delle perfette padrone di casa: delle fuoriclasse nelle arti domestiche e sociali. Dalla condotta esemplare. Charlotte Hawkins Brown “Se mai ci sarà una gentildonna di colore quella devi essere tu”. La prozia bianca, la nonna di colore e la madre di colore le asse-

gnarono questo destino. “Fu una sfida alla quale dedicai tutta me stessa” disse Charlotte Hawkins Brown. Lottie Hawkins nacque in North Carolina nel 1883, ma all’età di cinque anni si trasferì in Massachusetts. La sua famiglia gestiva una lavanderia e una pensione per gli studenti di Harvard. Lottie studiò arte e musica e frequentò l’ottima Cambridge English School. Le sarebbe piaciuto andare al Radcliffe College, e anche avere una sottoveste di seta da indossare con l’abito di organza durante la cerimonia della consegna del diploma scolastico. Le altre ragazze (bianche) la portano tutte, disse Lottie alla madre. Io però

non me lo posso permettere, rispose la mamma. Per l’abito di organza non c'è problema, ma se vuoi la sottoveste, i soldi dovrai procurarteli tu. E così Charlotte Eugenia — aveva cambiato nome, in previsione di come sarebbe apparso sul diploma — trovò lavoro come babysitter. Un

giorno,

mentre

camminava

(o era seduta)

in un parco

di

Cambridge, fu vista spingere (o tenere ferma) con una mano una carrozzina e con l’altra mano reggere un libro di latino. Un'osservatrice incuriosita notò che stava leggendo Virgilio in lingua originale. L'osservatrice era la signora Alice Freeman Palmer, ex rettore (e prima donna a ricoprire quel ruolo) del Wellesley College. La signora Palmer le chiese se fosse una studentessa e, nel caso, di quale scuola; poco tempo dopo la signora Palmer si recò dal preside dell'istituto per avere altre informazioni su quella ragazza di colore tanto precoce. Dopodiché passò ad altre questioni.

203 L'ipotesi Wellseley o Radcliffe morì lì. La madre di Charlotte pensava fosse arrivato il momento che sua figlia smettesse di studiare e iniziasse a insegnare. Madre e figlia giunsero a un compromesso: Lottie avrebbe frequentato due anni allo State Normal College nella vicina Salem. Ma alla figlia non andava giù di essere privata di un destino più importante. A Salem, quando scoprì che la signora Palmer sedeva nel Consiglio scolastico statale, decise “di

scriverle immediatamente per dirle di essere quella ragazza di colore che aveva visto leggere Virgilio spingendo la carrozzina”. Le chiese una raccomandazione. La signora Palmer rispose con un aiuto finanziario. Cinque anni più tardi Charlotte fondò una scuola con corsi biennali per i bambini Negri di Sedalia, in North Carolina. Nel 1902 la battezzò Palmer Memorial Institute. Fin dall'inizio Charlotte avrebbe voluto avviare un diploma in scienze umanistiche. Purtroppo i suoi finanziatori bianchi, in maggioranza donne, pensavano che, oltre a ricevere un’alfabetizzazione di base, sarebbe stato

meglio che i bambini imparassero i mestieri agricoli e industriali e le bambine le tradizionali arti domestiche quali cucire, apparecchiare la tavola e confezionare cappellini. Una donatrice del Nord, parlando a nome di tutte, disse a Charlotte che “né i loro genitori né i loro futuri mariti né loro stesse erano pronte ad accogliere” i benefici di un'istruzione superiore. “Ienga sempre a mente che i suoi studenti non sono come lei” ammonì un’altra. I Negri del Sud rurale non avevano il suo straordinario livello di istruzione: non gli si poteva insegnare "più di ciò che al momento la loro natura sarebbe stata pronta a ricevere”. Charlotte continuò a raccogliere fondi e a scendere a compromessi, a migliorarsi ed elevarsi. Sostituì il sogno di andare a Radcliffe con dei corsi estivi

a Harvard, dove incontrò e sposò, nel I9II,

un docente come lei. Edmund Brown la seguì al Palmer Institute per insegnare, ma un anno dopo aveva già cambiato lavoro e nel

1915 il loro matrimonio finì. A quell'epoca si cominciava già a

204

parlare di maternità per procura, e Charlotte si occupò di crescere ed educare i figli dei suoi parenti, sette in tutto. E a poco a poco, un decennio dopo l’altro, riuscì a svincolarsi dal sostegno dei finanziatori bianchi per legarsi alla crescente classe

media Negra, passando dalla formazione professionale e industriale alle materie umanistiche, e attirando genitori Negri che cercavano una scuola che offrisse ai loro figli un solido programma accademico e insegnasse loro a stare in società.

“Con quali immagini scegliamo di decorare la nostra casa, così da mostrarle ai nostri figli?” domandò in un discorso del 1929. “Quanti Negri gioiscono per una sinfonia?”. Santo cielo! “Quanti di noi si dedicano ad ascoltare Bach, Schubert, Beethoven?” chiede. La mia risposta: Ma, signora Brown, se

ne è accorta, per caso, che ci è piombata addosso la crisi economica? Ciononostante il suo attivismo superò la Depressione. Lei continuò a radicare sempre più l'istituto Palmer all’interno dell’élite Negra, e a guidare le associazioni femminili Negre nel loro impegno per i diritti civili e per il progresso a tutto campo della razza. All'epoca della Seconda guerra mondiale era diventata la decana e la più autorevole madrina dell'etichetta Negra. Nel 1941 uscì il suo galateo: The Correct Thing: To Do... to Say... to Wear. Pensate, Amy Vanderbilt avrebbe pubblicato il suo bestseller solo nel 1952. Etica perfetta, perfette buone maniere, perfetta conoscenza della lingua della creanza, perfetta padronanza dei riti sociali.

E ben più di un

manuale: è una conquista. Soprattutto se ti hanno sempre detto che quelle cose — per esempio l’istruzione superiore o le materie umanistiche — erano al di là della tua portata. Ecco le “cose giuste” secondo Charlotte Hawkins Brown: “Quando ricevete la paghetta, regalate una scatola di fazzoletti alla mamma e una cravatta al papà. Lo apprezzeranno moltissimo. Mangiate lentamente e in silenzio. Non '‘abbuffatevi’. Muovere troppo il corpo ci fa apparire sgraziate. Ricordatevi che si balla con i piedi e non con il tronco. Non approfittate di un viaggio in treno o su altri

205 mezzi pubblici per completare la toilette, attività da riservare agli ambienti privati. E consentito usare con moderazione il piumino da cipria e sistemarsi i capelli arruffati. Un gentiluomo non è mai scortese. Se può permettersi del personale di servizio, il suo vero carattere si giudicherà soprattutto dal modo in cui si comporta con chi si trova in una posizione inferiore alla sua — anche qualora fossero incaricati di far fronte ai banali servizi domestici”. Prese nel complesso, le "cose giuste” testimoniano il progresso civile di un popolo e la sua evoluzione spirituale.

“Caro Amico,” chiede la signora Brown al lettore, perché scrivere un altro galateo quando ne esistono già centinaia? Si risponde da sé, con uno

zelo missionario

che comporta però una sintassi fati-

cosa: “Il desiderio di veder riconosciute le qualità fondamentali dell'anima è nato nel cuore della gente più umile, che infatti le sente e prova quando può a coltivarle, sebbene nel tentativo di esprimerle sia frustrata dalla poca conoscenza dei mezzi di espressione più adeguati”. Le cose giuste "da fare e da dire e da indossare” in realtà non sono altro che quelle “da pensare e da sentire e da diventare”. Senza trascurare un solo dettaglio. Né “a casa” né "in chiesa” né “al concerto, a teatro o al cinema” e neppure "al telefono” (dove non è consentito gridare e bisogna assicurarsi di dire sempre "per favore” e "la ringrazio” alla centralinista). Si va dalla perfetta ospitalità di una padrona di casa al comportamento dell’impiegato modello in ufficio. Dall’igiene di base (“non sostituite alla doccia fredda o tiepida frizioni con l'alcool o tamponi con l’acqua di colonia. Il profumo non potrà mai prendere il posto della vecchia ‘acqua saponata’”) al savoir faire ("essere ‘cortesi’ è il dovere più alto per qualunque

essere umano che voglia vivere accanto ai suoi simili, [...] le buone maniere dovrebbero essere naturali tanto quanto

mostrare i denti”). Tanto fervore mette in luce almeno tre aspirazioni pedagogiche: incoraggiare le masse, perfezionare gli arrampicatori e salvaguardare

206

la condotta di quelli che sono già arrivati in alto. Di conseguenza, a

ogni pagina ci imbattiamo più o meno esplicitamente in un conflitto sociale. I figli degli operai ora viaggiano sui treni della compagnia Pullman; è necessario insegnare loro come trattare i facchini e come farsi trattare a loro volta, così da ricevere un servizio adeguato. “Quando vi capita di andare nella carrozza ristorante, rilassatevi. Comportatevi al vostro meglio. I camerieri sanno sempre riconoscere un vero gentiluomo e gli riserveranno sempre un servizio adeguato”. In alcuni stati così come in alcuni negozi le signore Negre hanno la facoltà di provare i cappellini che avrebbero piacere di acquistare: “Ma evitate di farlo se avete appena messo la lozione per capelli. La commessa non può certo rischiare di macchiare di grasso gli articoli in vendita”. Le piccole cortesie sono il segno di "una personalità gentile e amabile” e una personalità gentile e amabile vi permetterà di incontrare

uno

sconosciuto — e i Negri devono

incon-

trare molti sconosciuti bianchi — “senza provare ansia o timore”. Ansia e timore sono parole sinistre. La signora Brown sta cercando di dare ai lettori una disciplina e una sicurezza in sé stessi che possa proteggerli dalle aggressioni sia emotive sia concrete dell’intolleranza. Oltre che dalle offese e dalle minacce degli sconosciuti bianchi. E sta dicendo loro, sottovoce,

che quegli sconosciuti intolle-

ranti che non potranno fare a meno di incontrare sono persone prive di garbo e di educazione: sono persone che, rispetto a tali questioni essenziali, vanno

giudicate come

inferiori a noi.

L'andamento composto della sua prosa è pervaso da questo stesso senso di urgenza. La padronanza di sé, consiglia l'autrice, conduce a “un animo calmo e tranquillo” che aiuta a fronteggiare le situazioni più sgradevoli. Parole trite e rispettabili, ma, attenzione, il suo esempio di situazione sgradevole è l’incidente automobilistico. La persona equilibrata informerà le autorità, si recherà all’officina più vicina,

presterà un primo

soccorso

“senza agitarsi

o emozio-

narsi”. Com'è possibile che una persona tanto composta incappi così spesso nel pericolo? A quei tempi i casi di incidente automobilistico

207 in cui i Negri finivano per essere lasciati in mezzo alla strada senza assistenza o con un'assistenza inadeguata erano, ahimè, tristemente noti. La signora Brown e i suoi lettori dovevano aver tenuto a mente

almeno due casi: lo scontro automobilistico del 1931 che causò la morte diJuliette Derricotte, preside della sezione femminile della Fisk University, e quello del 1937 in cui perse la vita Bessie Smith, l’"Imperatrice del blues”. “Se mai ci sarà una gentildonna di colore quella devi essere tu”. Lottie Hawkins trasformò l'ipotesi materna in un’esclamazione trionfante. Dimostrò che le gentildonne e i gentiluomini di colore esistevano davvero e che, grazie alla sua guida, quelle preziose categorie si sarebbero rafforzate, elevando la razza. Per molti di coloro che appartenevano alla generazione del Decimo di talento, le buone maniere, così come l’istruzione, dimostravano che uno era uguale a tutti e superiore alla maggioranza. Le possibilità che si schiudevano erano molto allettanti. Come un codice cavalleresco, le buone maniere dei Negri potevano avere una dimensione estetica, sociale e spirituale. E anche una dimensione erotica: nel processo che conduce a dominarle e ad accettarle c’è (o può esserci) qualcosa di molto seducente. Se ti è stato insegnato che tu e la tua gente non siete adatti a quel genere di cose, può essere addirittura eccitante. Mettere a posto qualcuno quando quel qualcuno ha sempre pensato di poter mettere a posto te dà una certa soddisfazione. Inutile aggiungere che essere una gentildonna di colore ti dava la forza di sbarazzarti in un istante di sconosciuti “troppo disinvolti” in autobus o in treno: “rispondete conservando intatta la vostra eleganza ma fategli capire di non avere alcun interesse a essere importunate un minuto di più”. Ma era iniziato tutto con una bambina soggiogata dall’immagine illusoria della benevola aristocrazia bianca. La giovane Charlotte Hawkins Brown era rimasta incantata dal modo di fare dei bianchi colti del New England. Sua madre, scrive Charlotte, le insegnò a essere cortese, gentile e generosa,

"a modo suo” (il corsivo è mio);

208

preso atto di quella peculiarità, lodò gli anglosassoni di buona famiglia “che a scuola e in case brulicanti di cultura mi hanno dato l'opportunità di imparare la raffinata arte di vivere”. La sua liberazione seguì questo percorso. Non vi colse alcun rischio etico. Non si accorse delle assurdità sociali. Dei limiti spirituali. “La nostra acconciatura può migliorare o peggiorare il nostro aspetto generale, determinando nel bene e nel male l'autorevolezza della nostra personalità. “Esaminate con cura il vostro viso: ciò che dona a Katherine Hepburn,

Greta Garbo o Marian Anderson quel pizzico di personalità

in più a voi potrebbe darne un pizzico in meno”. Così scrive Charlotte Hawkins Brown nel capitolo sulla toilette perfetta. Ma nel ritratto di Marian Anderson che ho avuto davanti agli occhi fin da piccola non c’è neanche un pizzico di quel fascino in più che avrebbe potuto interessare le ragazze della mia generazione. C'è accuratezza, c'è un'eleganza severa e c'è una certa solennità. Abbiamo tutte un gran rispetto per Anderson, anzi la veneriamo: una pioniera per tutta la nostra gente. E avendo

come artista è stata raggiunto la vetta

in un'arte occidentale, va considerata anche lei una del club delle attiviste. Ma in lei non c'è nulla di provocante o misterioso, nessuna espressione altezzosa. Nelle fotografie, le onde dei capelli di Marian Anderson sono precise al millimetro. Sembra che le abbiano fatte separatamente e poi gliele abbiano incollate sulla testa, come si fa con le bambole, per addolcire un volto troppo ferreo: un volto che molti giudicherebbero stoico come quello di un africano, a causa di quelle labbra grandi e carnose che secondo i caucasici impedivano ai Negri di recitare correttamente i classici. Siamo a metà del Ventesimo secolo, ma i capelli ondulati e lo chignon le servono tanto quanto la cuffietta bianca serviva a Sojourner Iruth quasi un secolo prima, allorché, dopo essersi lasciata alle spalle una vita indegna in una piantagione schiavista e aver iniziato a predicare l'uguaglianza dei diritti davanti a un pubblico di

209 bianchi e Negri del Nord, reputò necessario assumere un aspetto più signorile. “E io non sono forse una donna?” tuonò Sojourner a un convegno sui diritti delle donne nel 1851. Una donna “che può lavorare e mangiare quanto un uomo — se me lo posso permettere — e che sopporta la frusta altrettanto bene”. Osservatela in una fotografia di qualche anno dopo, con un cappellino bianco in testa perfettamente abbinato a un colletto bianco fresco di bucato e a uno scialle bianco, le cui frange si confondono con il filo che esce dal gomitolo che ha in grembo. E osservate il pugno stretto attorno ai ferri da calza e al bastone. Il giorno in cui Marian Anderson disse: “E non sono forse una donna anch'io?” fu il 9 aprile 1939. I nostri nonni e i nostri genitori salutarono con gioia la notizia alla radio: DOPO CHE L'ASSOCIAZIONE DELLE FIGLIE DELLA RIVOLUZIONE AMERICANA LE HA IMPEDITO DI ACCEDERE A UNA SALA DA CONCERTO, MARIAN ANDERSON CANTA

AL

LINCOLN

MEMORIAL.

Al Lincoln Memorial La statua di Abraham Lincoln è alta quasi sei metri ed è stata realizzata con ventotto blocchi di marmo bianco della Georgia. I francesi hanno installato un'illuminazione speciale al fine di amplificare ulteriormente la statura di quest'uomo nato in una capanna di tronchi del Kentucky. La figura elegante di Marian Anderson è un metro e settantotto di pelle nera montata su un'ossatura bianca; viene da un modesto quartiere di Philadelphia ed è stata smussata e tirata a lucido nelle capitali europee. Il presidente che ha salvato l'Unione indossa completo, cravatta a farfalla e gilet. La donna che riafferma i principi più alti dell'Unione ha un cappotto di visone, un cappello e una sciarpa giallo-arancione (i colori che più si adattano alla pelle Negra), decorata di gemme.

210

Lincoln è seduto, le gambe ben piantate a terra e distanti l’una

dall'altra, come se in quello spazio potesse accogliere il mondo intero. Il contralto che rappresenta un'intera popolazione è in piedi,

in attesa che le facciano segno di diventare immortale. Sopra la testa di Lincoln sono incise le seguenti parole: IN QUESTO TEMPIO E NEL CUORE DEL POPOLO PER IL QUALE EGLI SALVÒ L’UNIONE È CUSTODITO IN ETERNO IL RICORDO DI ABRAHAM LINCOLN. Il pianoforte suona l’introduzione. Marian Anderson sfiora la collana con le dita, sollevando il capo per posare lo sguardo sulla folla. Dalle labbra di “una figlia della razza per cui Lincoln ha spezzato le catene della schiavitù” giungono le parole “My country, ’tis for thee, Sweet land of liberty...” e, in quello stesso momento, custodito in eterno nel nostro ricordo, arriva il cambiamento di cui solo lei è responsabile. "Ofthee I sing” diventa “To thee We sing”. Il pronome singolare di una cittadina privilegiata diventa il pronome plurale di una popolazione assediata che deve indirizzarsi (parlare a), ma non possedere (parlare del) proprio paese. A Marian Anderson non era permesso avere un'identità singola se non quando cantava: allora accarezzava, assaporandole, i suoni e le sillabe, per abbandonarsi a un’estasi privata.

211

Quanta malinconia traspare da quello che ho appena scritto. Ma perché usare la parola “malinconia” invece di ‘depressione’? Beh, perché a forza di usarla “depressione” è diventata vuota. Non mi fido più di “depressione” perché è troppo semplice (almeno per me) dimenticare la collera, addirittura la stizza, che racchiude al suo interno. “Malinconia” è più bella di “depressione”, porta con sé una sorta di notturna leggiadria. Ti fa sentire assediata in maniera più innocente. Chi di noi è scampata al disastro ha ricevuto dalla vita le solite gioie e le solite soddisfazioni, sperimentando gli stessi limiti e gli stessi ostacoli di chiunque altro. Se qualcuna ha coltivato ancora un desiderio di morte, ha dovuto adattarlo a questo nuovo schema esistenziale. Tutto quel girare attorno a questioni di razza, classe sociale e genere porta con sé un clima da commedia:

mortificazioni comiche,

intermezzi comici, ribaltamenti comici (o comici aggiustamenti) del destino. A volte ci siamo sentite la versione postmoderna della

classica bambolina double-face. E allora accogli quel che segue come se fossero favole sulla relatività. Gli anni Settanta 1

Ora di punta nella redazione di “Newsweek”, che significa: prendi l'ascensore e siediti alla scrivania entro le 10 di mattina. Entro nella

212

cabina e mi ritrovo circondata da colleghi bianchi. Siamo tutti angustiati — c'è così tanto da leggere, da scrivere e da trasformare in una prosa uniforme. Ci salutiamo in un sussurro, scambiamo qualche parola frettolosa, sorseggiamo il caffè. Le porte dell'ascensore si richiudono, l'ascensore inizia a salire. Cade il silenzio.

Nell’ascensore c'è un altro nero: un fattorino che deve andare al diciottesimo o diciannovesimo

piano per recapitare non so che

documenti a un autore, a un ricercatore o alla segretaria del direttore. Giunti al quinto piano sento la sua voce, un sibilo ostinato e insidioso.

“So=rella...”. Se uno dei presenti fosse stato sul punto di dire qualcosa, si sarebbe immediatamente trattenuto. In mezzo a tutto quel silenzio il fattorino lancia un bel: “Ehi, sorella NERA!” Cinque piani più in alto, le porte dell'ascensore finalmente si

aprono. Esco, senza mostrare alcuna fretta. Mi giro a guardarlo con gli occhi ridotti a due fessure. Noto le facce diligentemente impassibili dei bianchi rimasti. Osservo le porte che si chiudono sul sorriso compiaciuto di lui. ii

Peachie sta parlando con il suo ragazzo italiano. “Nel nostro mondo, quando ero ragazzina, avere i capelli lisci era considerato un vantaggio” gli spiega. “Però mi facevano sentire a disagio anche allora”. Lui aggrotta le sopracciglia, sinceramente perplesso. “Ma tu non hai i capelli lisci” dice. iii

Agli eventi mondani,

soprattutto della comunità

nera,

la nostra

amica Shawn ha cominciato a indossare un'enorme parrucca afro. Molte altre donne nere politicamente consapevoli, con la pelle

213 chiara e i capelli lisci, fanno lo stesso: è l’unico modo per essere certe che gli altri prendano atto della loro identità razziale. In una serata torrida trascorsa all’interno di un affollatissimo locale di New Orleans, quei quindici centimetri di capelli umani attaccati alle fibre sintetiche della parrucca suscitano così tanto calore e sudore che Shawn deve scusarsi e andare al bagno. Si sente troppo a disagio per fare caso alla presenza di un’altra donna. Si china sul lavandino, chiude gli occhi, si toglie la parrucca e la scuote energicamente per rimuovere le gocce di sudore. Quando si rialza, vede l’altra donna che si toglie la parrucca, la scuote per rimuovere il sudore, prende la spazzola che ha nella borsetta e la fa scorrere sulle ciocche della parrucca, per far tornare all'insù le punte che si sono afflosciate, e infine tampona la frangetta con un fazzoletto di carta. Lo specchio le porta a incrociare gli sguardi. Shawn osserva con attenzione l’acconciatura corta e ricciuta della vicina, la vicina scruta i capelli perfettamente lisci, al momento raggomitolati sulle spalle, di Shawn. Poi, lentamente, quasi nello stesso istante, ognuna si rimette la propria parrucca ed esce in silenzio dal bagno. Gli anni Ottanta i

Io, Peachie e Joan siamo a una festa per il lancio di un libro. È pieno di scrittori e artisti che chiacchierano e formano gruppetti di amici, amanti e futuri amanti. Noi tre iniziamo a parlare di razza, ma non è nulla di serio: è un banale scambio di storie tra esperte del settore. Ho scoperto che in contesti sociali prevalentemente bianchi — tipo feste e concerti — a un certo punto i neri sì ritrovano sempre a fare conversazioni del genere, almeno per qualche minuto. Come per dire: Noi conosciamo il vostro mondo tanto quanto il

nostro. Quanti di voi possono dire lo stesso 2 Quella sera la conversazione è particolarmente piacevole, perché

due di noi non sono spudoratamente nere (e ognuna ha all'attivo una bella lista di gaffe razziali dei bianchi: Vieni dal Mediterraneo ? Sembri

214

sefardita. Per caso uno dei tuoi genitori è nero ? Sangue misto ?). Peachie scherza dicendo che a volte, per scongiurare commenti pericolosi — non si sa mai cosa potrebbe uscire di bocca a un bianco sui neri in un ambiente Esclusivamente Bianco —, comincia qualsiasi frase con “in quanto donna nera...”. Per esempio: "In quanto donna nera che sta ordinando un cappuccino al bar...”. Ma perché adesso abbiamo iniziato questa conversazione? Perché mai, essendo le uniche nere presenti, sentiamo il bisogno di sentirci superiori, di avere un vantaggio su questa stanza piena di bian-

chi che chiacchierano? “Ma ‘parlare da nere’ è troppo semplice” dice P. “Ho avuto una storia con un bianco del Mississippi e ogni volta che stavamo insieme non potevo evitare di imitare il suo accento. Il che mi rendeva più ‘nera’ che mai”. Siamo scoppiate a ridere, e in quel mentre ecco arrivare un ragazzo bianco. Nessuna di noi l’ha mai visto. È carino ma non si mette in mostra. Non ha un modo di fare invadente, ma di certo lo è la sua presenza. Come farglielo capire senza essere maleducate? Sorridiamo come per dire che è il benvenuto. Poi P. dice: “Stavamo giusto dicendo quanto sia bello sentire gli accenti del Sud, sia bianchi sia neri. Stavo raccontando che quando uscivo con un uomo del Mississippi imitavo sempre il suo accento”. Il tizio sorride. “Ti capisco benissimo. Quando uscivo con un bianco del Mississippi, anche io mi ritrovavo costantemente

a parlare come

lui”. Il fatto che abbia enfatizzato “anche io” ci fa capire che è bianco. E ha mostrato di avere un certo stile, e questo fa piacere a tutte. “Congratulazioni” dico io. “Hai appena vinto il premio del più esotico del gruppo”. ii

Io e George siamo amici fin dagli anni Settanta. È gay ed è bello in quel modo virile in cui sanno esserlo solo i protestanti del West: è

215 un tipo alla Gary Cooper, con una bella capigliatura castana che gli ricade sul sopracciglio sinistro, tratti decisi e al contempo raffinati, un fisico asciutto e fatto apposta per indossare camice button-down e pantaloni di tela color cachi oppure jeans Levis e bomber nero. È stato il mio primo grande amico gay e io sono stata la sua prima grande amica nera. Due circostanze che hanno causato adorabili equivoci. Quando ci capita di andare a una festa popolata in larga parte da eterosessuali, tutte le donne bianche che lo trovano attraente prima mi lanciano delle occhiate per congratularsi, oppure mi lanciano delle occhiatacce, e poi passano oltre. Quando per strada incrociamo un gay nero, di solito mi guarda come per dire “amica mia, questo non fa per te”, poi spostano l’at-

tenzione su di lui e gli sorridono sornioni, o gli fanno una smorfia buffa. Quando incrociamo neri eterosessuali, invece, mi lanciano uno sguardo severo e poi mormorano o sogghignano: “Ehi, sorella, ma che te ne fai di uno così?”.

Gli anni Novanta i

Il posto è Chez Josephine, il ristorante di New York in onore della prima superstar della razza Negra di fama mondiale. Ci sono sue fotografie appese su ogni parete, la pelle color crema, scintillante, elastica, ricoperta di piume, perle, paillettes, gonnellina di banane.

Il sorriso impertinente, le guance con la fossetta e le ginocchia seducenti sbeffeggiano, entusiasmano, allettano visitatori di ogni età e sfumatura della pelle. È la fine di gennaio del 1993.

Due donne nere sulla quarantina siedono a un tavolo e parlano delle due persone famose che quella settimana ci hanno lasciato, e che da quel momento

chiunque non può fare meno di menzionare.

216

Una delle due donne, quella che una volta indossava un'enorme parrucca afro, continua ad avere la pelle color marrone chiaro, solo che ora mostra senza timore i capelli lisci. L'altra sono io, ho la pelle chiara ma senza dubbio nera, e i capelli naturalmente ricci.

Shawn si protende verso di me, spostando il bicchiere di vino. Abbassa la voce, dà un'occhiata in giro per accertarsi che i tavoli più vicini non possano sentirla. E poi parla. A bassa voce. “Sai, devo dire che la morte di Audrey Hepburn mi ha colpito molto più di quella di Thurgood Marshall”. “Lo so!” rispondo io, chinandomi in avanti e guardandomi rapi-

damente attorno. Nessuno dei nostri vicini è minimamente interessato a quello che che abbiamo da dire. (E se il pianista del ristorante potesse suonare un accompagnamento adatto alla situazione, dovrebbe iniziare con le affettate note di apertura di Now It Can Be Told). Thurgood Marshall ha garantito davanti alla Corte suprema degli Stati Uniti d'America il nostro diritto di frequentare scuole pubbliche degne di tale nome. Thurgood Marshall è il simbolo di quello che i nostri genitori hanno dovuto superare per avere successo: aveva la coscienza sociale che tutti i Negri di successo dovrebbero avere. Rappresentava il coraggio e la costanza. Audrey Hupburn, invece, ci ha dato una vita immaginaria, fondata su secoli di vagheggiata adolescenza femminile europea. Ci ha dato la ragazza aristocratica amata da chiunque la incontri: Audrey Hepburn in Vacanze romane. La figlia adorabile di due persone semplici, leale verso la propria famiglia, gentile e tuttavia fiera quando viene respinta con sdegno da persone superbe e ignoranti, e che alla fine conquista l’amore del più bello e del più ricco: Audrey Hepburn in Sabrina. Ah, com'è fervida la vita delle ragazze che trovano ispirazione in eroine e modelli di vita esemplare! Una fanciulla incoraggiata dalla prospettiva di un destino che è al di là della sua portata, disposta a

217 soffrire come una martire anche quando lotta per i poveri e gli inermi: Audrey Hepburn in Storia di una monaca. Ma esiste anche il desiderio di non soffrire per nulla, di essere ricompensata, premiata, venerata per il proprio fascino e per il proprio aspetto, per lo spiritoso ardimento, per le proprie irresi-

stibili idiosincrasie: Audrey Hepburn in Funny Girl e in Colazione da Tiffany. L'uguaglianza, per una ragazza nera della borghesia americana, ha significato avere l'opportunità di essere allegra e seducente. Di essere viziata. Shawn dice: "Quei film di Audrey Hepburn e Doris Day riassumevano tutte le nostre fantasie di carriera e di vita elegante newyorkese ed europea”. Già... da questo elenco di fantasie adolescenziali non si può lasciare fuori Doris Day, sebbene ammettere di aver avuto così tanta ammirazione per questa audace ragazzaccia dell'Ohio sia ancora più imbarazzante (che Audrey Hepburn fosse europea era perfetto!). In ogni caso, alcune di noi non erano certo migliori di Doris Day. Eravamo

come

lei del Midwest,

ed eravamo

abituate,

come lei, a modi di fare spicci. A svolgere i doveri più ingrati con il sorriso. A essere insoddisfatte con brio. Il modo di cantare di Doris Day aveva fatto venire le lacrime agli occhi anche a Berry Gordy. Quando era ancora giovane e sconosciuto, Gordy scrisse una canzone per lei e la spedì (con la reverenza tipica di un ragazzino) a "Doris Day, Hollywood”. Continuava a raccontare questa storia anche dopo aver fondato l'etichetta discografica Motown e aver fatto di Diana Ross la sua musa. Non se ne vergognava. E dunque perché ce ne dovremmo vergognare noi? Fate attenzione al testo della prima canzone di successo di Martha and the Vandellas: Come and Get These Memories. Parla di amicizia, di lettere d'amore, di orsetti di peluche e di fiere cittadine. Trasformatela in un valzer. E avrete una canzone di Doris Day.

218

ii Denise dà il bacio della buonanotte taxi che la sta aspettando. Per via dei tista somiglia a un Doobie Brother. minuto. Poi a un semaforo si gira e il tuo ragazzo. La mia ragazza è nera.

al suo ragazzo bianco e sale sul baffi e dei capelli lunghi, l’auResta in silenzio per qualche sorride. "Prima ti ho vista con Mi dice che per lei a volte non

è facile. È così anche per te?”. Denise, dalla pelle colore terra di

Siena bruciata, lo guarda sforzandosi di apparire sprezzante. “Non

saprei” risponde. “I miei genitori sono bianchi”. Qui e adesso Leggo i numeri di “Ebony” degli anni Cinquanta da cima a fondo, facendo molta attenzione alle pubblicità delle creme per capelli e per il viso. Flashback su un episodio della terza stagione di Mad Men, in cui Peter Campbell, cioè lo stizzoso rampollo di una tipica famiglia disfunzionale di New York, lo studente di Dartmouth che ha sempre

saputo di essere troppo piccolo e infantile per fare colpo sulle altre persone (a meno di non dirottare furbescamente i loro impulsi punitivi da un’altra parte), l'aspirante scrittore mortificato da un collega di umili origini e di maggior talento che riesce a pubblicare un racconto su “Harper's” — insomma l'episodio in cui Peter Campbell comincia a interessarsi alla fascia di mercato dei Negri e viene inquadrato mentre legge avidamente “Ebony” nel suo ufficio di Madison Avenue. È un momento

che mi posso godere con un fremito di orrore, per-

ché non ho mai assistito a nulla del genere quando ero giovane. È una scena primaria, almeno dal punto di vista socioculturale, ritrovarsi a guardare un bianco che scopre i nostri segreti per finalità tutte sue. Come mai leggendo “Ebony” in passato non mi sono mai accorta delle inserzioni della crema per capelli Kongolene? Sono inevitabili, irrefutabili. Crema per capelli da uomo

Kongolene:

Logo: KKK (KONGO KONGOLENE KHEMICAL)

219

Fu pubblicizzata per la prima volta nel 1914, mentre gli uomini di colore reclamavano il diritto di partire e combattere per gli Stati Uniti, di migliorare la loro condizione economica e le loro prospettive sociali entro i confini della nazione e di avere dei bei capelli lisci e imbrillantinati, pettinati all'indietro con la riga in mezzo oppure da una parte, come Rudy Valentino e Douglas Fairbanks. Con il passare degli anni la richiesta aumentò. J.D. Murray, im-

prenditore nero di Chicago, pubblicizzò la sua versione della crema Kongolene per la prima volta nel 1925: “Scoprirai che resiste all’acqua e che avrai capelli lisci per 20 giorni o anche di più”. (E per questo prodotto che George Raft veniva ad Harlem?). Gli uomini impararono a farsi onde e pieghe perfettamente rigide (tipo James Cagney in posizione di comando) o che ricadevano alla rinfusa sulla testa e sulle orecchie (James Cagney sotto assedio), im-

pararono ad avere capelli che potevano dividersi in lunghe ciocche sottili da spostare di qua e di là (Robert Mitchum in difficoltà), ca-

pelli che potevano serenamente gonfiarsi in onde e riccioli scintillanti (Dean Martin) o diventare una bella acconciatura pompa-

pour, tonda e compatta (James Dean ed Elvis Presley). Qual era il significato di quelle iniziali, KKK, che in un altro contesto erano tanto spaventose? Indicavano tre fasi successive:

KI, il pre-trattamento, per proteggere capelli e cute e prepararli al K2, la crema stirante, che aggredisce i nodi innati con potassio o cloruro di sodio, e li prepara per il Kg, il risciacquo scurente, che maschera i residui capelli ricci, scoloriti e sbiaditi.

Ma è possibile che la maggioranza dei Negri, vedendo la pubblicità sui giornali, non abbia pensato al Ku Klux Klan? Non potevano

certo aver ignorato le lettere del logo, dritte e risolute come i guerrieri infilati nei lenzuoli bianchi in Nascita di una nazione. O come

220

queste lettere fossero tagliate a metà da un festone su cui stava scritto “Kongolene”. Vuol dire forse che il Kongo si fonde con il KKK e lo trasforma, tramite l'appropriazione dei capelli dei bianchi

da parte dei Negri? Continuando a leggere si nota addirittura un tentativo di orgoglio razziale: “Se il vostro farmacista ne fosse sprovvisto” recita un avviso alla base dell'annuncio, "faccia il suo ordine direttamente Nuovo Mondo:

a Konco

cHEMICcAL co., Inc.” (Indirizzo nel

Centoventiquattresima Strada, Harlem, Usa).

Era una battaglia che andava avanti da anni. I Negri avevano lottato per ottenere i capelli dei bianchi nel privato delle loro abitazioni mescolando uova, patate e lisciva, che bruciava ed era tossica, applicando il composto su ogni follicolo pilifero, sopportando il

dolore caldo, bruciante, ustionante sul cuoio capelluto, e il rischio di vedere i proprio capelli che si disintegravano. Il messaggio KKK per gli uomini non aveva nulla degli angosciosi consigli di bellezza e delle insinuazioni delle pubblicità destinate alle donne. Con Perma-Strate, “i capelli restano morbidi e lisci, senza quell’innaturale effetto spaghetto... E una sola applicazione di crema dura dai 3 ai 6 mesi!”. Non si nota quella smania di rispettabilità e desiderabilità tipica delle pubblicità femminili: “Indovineresti che ha usato Vapoil... anche se portasse il cappello. Perché è pulita ed elegante...”. (Questa storia della pulizia è un punto dolente: la lozione per capelli macchia inevitabilmente il bordo del cappello e anche il cerchietto). “I tuoi capelli vogliono farsi toccare?” chiede Dixie Peach. (E un successo, un successo pal-

pabile). “In passato” proclama Silky Strate “la forza motrice era generata dai cavalli e i capelli si stiravano con il pettine caldo. oggi... puoi avere i capelli sempre lisci e naturalmente soffici in mono moperno”. Vuoi vederli più lunghi? “Nessuna decolorazione, niente lozione, niente danni” anche i tuoi bambini!

promette

Lustrasilk.

E la possono

usare

Le pubblicità dei prodotti per la pelle, poi, è spudoratamente abietta. E diretta esclusivamente alle donne, e promette un colorito

Dal

più chiaro e di conseguenza una vita più luminosa: “Cancella le sventure causate da una pelle scura... ti bastano pochi giorni!”. Crema schiarente Black and White: “La bellezza si vede dalla pelle. Sperimenta fin d’ora il piacere di avere una pelle più chiara, morbida e levigata, e anche tanti ammiratori!”. Crema schiarente Nadiolina: "Lo sai che alle ragazze dalla pelle più chiara e soave accadono sempre le cose più belle?”. Intanto una donna dall'aria malinconica con indosso un abito da sera senza spalline se ne sta seduta tutta sola con un fiore in mano a fare "M’ama. Non m'ama... PERCHÉ AFFIDARSI ALLE MARGHERITE? DIVENTA PIÙ SICURA DI TE GRAZIE A UN COLORITO PIÙ CHIARO E SPLENDENTE!”. Lo Schiarente miracoloso per “pelli scure” brevettato e prodotto dal Pavone d'Oro viene definito "il preferito delle star nere della tv” (esiste anche questa categoria!). E mentre il dottor Fred Palmer stempera il messaggio affermando che la sua formula consente di liberarsi di foruncoli e macchie (la promessa di rito), il nome

del prodotto grida a squarciagola quello che le consumatrici vogliono sentirsi dire: Sbiancante per la pelle a doppia azione. Non sarete mai come le donne bianche, ma sarete disposte a tutto per essere

sempre più bianche.

i Sono da Ricky, nel West Village, per acquistare alcuni prodotti che daranno ai miei capelli l’enfatica naturalezza dell’artificialità. “Buongiorno. Ha trovato tutto quel che cercava?”. Il giovane commesso nero scandisce perfettamente la formula di cortesia e mi prepara il conto. "Sono 84 dollari e 90 centesimi” dice, e sebbene il suo viso rimanga impassibile davanti alla mia smorfia di disappunto,

afferrando

la mia carta di credito ammicca verso il

balsamo Devachan da cinquanta dollari a bottiglia, e aggiunge: "Le assicuro che durerà un bel po’, anche se all’inizio il prezzo è un po’ scioccante. Lei ha dei capelli bellissimi. É questi sono ottimi prodotti”.

222

“Grazie. Ha ragione, dura molto” dico io. Ritrovo la mia sicurezza. “Pensi che me li faccio tagliare e colorare in un negozio di parrucchiere Devachan”. “Ve-ra-men-te?” fa lui, stiracchiando la parola al massimo e passando da commesso gentile a persona sinceramente interessata. “Non immaginavo proprio che fossero bravi anche con i nostri....”. Non c'è neppure bisogno di pronunciare la parola capELLI. Si materializza davanti a noi, unendoci in una lotta che va avanti da secoli. “Il loro trattamento per capelli ricci è stato messo a punto da una donna inglese” dico. “Ma sono riusciti ad adattarlo ai nostri capelli. Funziona con tutti i tipi di ricci. Da quel loro parrucchiere incontro sempre altre donne nere. E ci sono sempre delle acconciatrici nere o ispaniche”. Ma a lui servono tutte queste informazioni? Il suo sguardo è ancora molto incuriosito, per cui proseguo.

Sento di dover chiarire

la differenza che entrambi sappiamo essere molto rilevante tra "capelli ricci” per una donna bianca e per una donna nera. La ragione per cui mi piace andare dal mio parrucchiere è che, a differenza di tanti saloni frequentati dalle bianche dove sono stata (scegliendo l’unica acconciatrice nera a disposizione o una bianca solo nel caso me l’abbia consigliata un'amica ben informata), ho come l’impressione di portare l'autorevolezza del Vecchio Mondo in questo Nuovo Ordine Mondiale. Chi meglio di me rappresenta la nuova moda dei Ricci Naturali? “Ummmmmmmm? fa lui. “Le spiace se le faccio una domanda?”. “Certo che no” rispondo allegra. “Qual è la sua origine etnica?”. Vacci piano, Margo. Ma sei stupefatta. “Sono afroamericana” rispondo. In genere dico “nera”, una conquista della mia generazione, perché nella vita quotidiana “afroamericana” mi pare abbia un sapore ufficiale, da testo scolastico. Allora perché mai l’ho appena utilizzata? Perché lui vuole una risposta precisa. E perché io voglio essere precisa, visto che la sua

223 pelle è color indossa abiti volto e della rivelano che

marrone scuro e la mia è color crema scuro: visto che neri che fanno risaltare il riflesso marrone scuro del testa rasata; visto che la pronuncia e il modo di fare si tratta di un giovane gay nero/afroamericano che fa vita di società e che fa caso alle distinzioni. E dunque dico: "Sono afroamericana”. E lui: “"Ve-ra-men-te?” spalancando un po’ gli occhi, piegando il

capo da un lato e facendo sporgere il mento leggermente in avanti. “Beh,” faccio io, ansiosa di trovare accoglienza in un “noi” che ci unisca e ci leghi ancora una volta uno all’altra, “sa, ognuno di noi — 0 almeno una buona parte — quando vai a scavare — ha qualche antenato bianco oppure indiano, siamo un misto...”. Sì, annuisce lui, convenendo con me. È qui esito un pochino perché potrebbe venirgli in mente di dichiarare (con orgoglio, durezza, malizia?): “No, io no. Non ho nessun antenato bianco né indiano”. Ma non lo fa. Annuisce, mormorando un "um-hmmm” e spalancando nuovamente gli occhi per dire: "Immagino glielo chiedano in molti”. Non mi va di correggerlo, potrebbe dargli l'impressione di aver fatto una domanda sciocca. “Non moltissimi, ma di tanto in tanto me lo chiedono, ha ragione” ammetto. Poi vado avanti con un “sa, se me lo chiedono penso sia perché il mio aspetto è grossomodo simile a quello di molti ispanici...” e qui mi fermo giusto il tempo di fare una pausa di grande effetto “penso sia per i capelli biondi. Non credo me lo chiederebbe nessuno se fossi ancora mora”. La risata che volevo suscitare finalmente arriva e provo a rendermi ancora più simpatica dicendo: "Ovviamente adesso il colore naturale dei miei capelli è il grigio”. No, attenzione, così sto rivelando troppo. Torno nel territorio più sicuro dei Nostri Capelli. “Devachan ha capito il meccanismo per cui i capelli ricci tendono a diventare crespi oppure” e qui arriva il colpo di teatro "ispidi”. Ecco, la parola “ispidi” sugella il nostro legame. Lui ride, coprendosi la bocca con la mano.

224 “Confessi, era un bel po’ che questa parola non le veniva in mente” dico, e poi facciamo una di quelle risatine lievi e soddisfatte

tipiche dei Negri che discutono in pubblico di una questione razziale proibita.

ii Quando un conoscente (bianco) mi ha detto che un mio ex amico (nero) aveva detto a lui e a un suo conoscente (bianco): “Beh, Margo

crede di essere bianca”, mi infurio. Tra noi c'era stata un po’ di tencon tale noncuranza! Se l'avesse detto a un conoscente nero, mi sarei infuriata, ma non mi sarei sentita mortificata: l'avrei considerato un attacco personale basato su una prevedibile retorica razziale, utile a mascherare risentimenti di altro genere. (Non sbagliava quando diceva di sentirsi trascurato, visto che mi limitavo a rispondere alle sue telefonate, senza mai chiamarlo per prima). C'era il rischio che queste ipotetiche conoscenze nere fossero d'accordo, e certo non mi sarebbe piaciuto. Ma immaginavo che sarei stata in grado di respingere l’accusa, almeno davanti a me stessa. Con il passare degli anni avevo sviluppato una certa resistenza ad attacchi simili. Questa situazione, tuttavia, era più insidiosa. Dovevo far fronte a dei bianchi probabilmente perplessi e intimoriti. Avrebbero potuto pensare (senza dirmelo): “Beh, lui è nero e saprà giudicarla in termini razziali meglio di noi. Forse Margo ha davvero un problema di identità”. Oppure: “Che tristezza. Non ne afferriamo bene il senso ma non ci affanneremo a cercarlo, perché qui ci troviamo in un territorio razziale pericoloso che, nonostante il loro successo personale, rivela il prezzo che entrambi hanno pagato a causa della razza”. Inutile dire che quel genere di pietà la detestavo. sione. Ma umiliarmi così, deliberatamente,

Qualche mese più tardi un'amica bianca una critica molto aspra nei suoi riguardi vata fino a lei facendola soffrire. “Ti è mai ti raccontasse quello che aveva detto di te

mi sta spiegando come fosse lentamente arricapitato che qualcuno un’altra persona? Una

225 cosa cattiva, che anche quando ci hai ripensato a freddo era totalmente falsa?”. "Beh, sì” rispondo, e le racconto. Lei si mette a ridere. “Tutto qui?”. “Tieni a mente, per favore, che un'accusa come questa richiama immediatamente un passato di distruttività psicologica, politica e sociologica” ribatto io. “Hai ragione” fa lei. “Non volevo mancarti di rispetto. Si tratta di un passato tremendo, del quale tu conosci tutte le pieghe, molto meglio di me”. “Direi di sì” rivendico io. “È un passato orribile e le ragioni possono essere le più diverse. Se desideri davvero essere bianca, tutto dipende dall’arroganza e dall’incapacità di accettarsi per come si è; se invece accusi falsamente qualcuno di provarci, il motivo è un misto di invidia e ignoranza. In tutta onestà credo che a disturbare il mio ex amico fosse quello che ai suoi occhi doveva apparire come una specie di snobismo: il mio modo di mantenere sempre una certa distanza, la tendenza che ho a considerare le mie nevrosi un

sintomo della mia unicità”. “E secondo te” mi chiede lei "questo è peggio che essere definita una narcisista predatoria?”. "Beh, no. In effetti non lo è”. E ho proseguito nella mia unicità.

226

Una volta, una decina di anni fa, a un mio amante ho detto: “In

effetti sono sia bianca sia nera”. Lui aveva afferrato una cosa che mi apparteneva — un cd o un libro — e scherzando aveva detto: "Non sono molti i neri ai quali piace Elly Ameling”. La risposta che gli diedi, anche a ripeterla adesso, con tutto il gran parlare che si fa di ibridazione, creolizzazione, cosmopolitismo e “coscienza mulatta,” continua a farmi paura. “A volte quasi mi dimentico di essere Negra” aveva scritto mia madre settant'anni fa. Non era un ripudio. Era il suo modo di reclamare uno spazio di libertà. Stava parlando della sua felicità, di come ti senti quando tutto, sia quello che sta dentro sia quello che sta fuori, si trova al posto giusto. Di come ti senti quando i tuoi diritti, in America, sono di per sé evidenti, quando non bisogna difenderli, giustificarli o metterli in discussione ogni giorno. Quei settant'anni mi avevano dato il diritto di reclamare qualunque ruolo in qualunque cultura senza limiti razziali. "“Reclamare”? Riflettere. Studiare. Trastullarsi. E quando mi va, amare. Dal giorno in cui sono nata, i libri per ragazzi di A.A. Milne e Kenneth Grahame si sono mescolati alla cultura Negra della mia famiglia, degli amici e dei vicini di casa. A mio padre che imitava il sermone di un pastore del Mississippi con un sepolcrale “quandoquandoquando”. Al modo in cui un uomo solleva un braccio, schiaffeggia l’aria, lo riporta giù disegnando un arco e inizia a girarsi, come per

227 dire: “Ehi, amico, non ci provare neppure”. Alle voci degli adulti che scivolano lungo i toni e la sintassi della parlata bianca e nera. A mia madre che dice “la discussione si chiude qui” seguendo il ritmo marziale delle consonanti. Al suo: “Non toccarmi” (che a me suona come “ticcarmi”), acuto, con un'enfasi discendente sulla “m” e sul “non” e l'accento forte tutto concentrato sul “ticc”. Quanti articoli ho scritto in cui la mia razza era invisibile? In seguito avrei scelto argomenti per i quali era essenziale. O un approccio

che non ammetteva che si parlasse solo in termini di bianco e nero. Non esiste solo la doppia coscienza in lotta di DuBois. O la dop-

pia personalità di cui ha parlato James Weldon Johnson, in base al quale adottiamo genericamente lo stile richiesto di volta in volta da ciascuna razza. Al nostro interno c'è uno spazio in cui si è deposi-

tato tutto il materiale razziale, che non è materiale statico, ma can-

giante, o perlomeno si mescola. Quante volte possiamo raccontare le nostre vite dal punto di vista culturale? A quante versioni di noi stesse possiamo raccontarle? Una nuova versione di “Piccole donne” Nel 1994, mentre uscivano due nuove edizioni del libro e una terza versione filmica, decido di rileggere Piccole donne, nonostante

sull'autobus e in metropolitana io attiri gli sguardi di diverse ragazzine che devono giudicarmi emotivamente

regredita oppure una

lettrice ottusa. E di colpo misi chiarisce tutto: avrei dovuto identificarmi con Amy. Meg è così carina che quasi ti tenta. Ha quella dolcezza, quel fare gentile... beh, è proprio per questo che Meg è fuori questione. Ci

risiamo: sei tornata a ripetere quelle sdolcinate banalità vittoriane dalle quali pensavi di esserti liberata quarant'anni fa. Meg è vanesia, com'è ovvio che sia, trattandosi di una ragazza carina, vanesia

nel modo in cui vorrebbe essere una ragazza ordinariamente carina. "Brutto guaio essere poveri” commentò con un sorriso Meg facendo scivolare lo sguardo sul suo vecchio vestito”. Sono

228

osservazioni come queste a non farla precipitare in una tetraggine

senza speranza, sebbene altrove incoraggi le sorelle a uniformarsi all’ideale ottuso delle buone maniere femminili. “Tu, Josephine, ormai sei grande abbastanza da lasciar perdere certe pose da ragazzaccio [...] dovresti ricordarti di essere diventata una signorina [do

“In quanto a te, Amy [...], sei un po’ troppo ricercata e anche un po’ troppo rigida. Per ora le arie che ti dai possono far sorridere ma

se

non

ci

stai

attenta

quando

sarai

cresciuta

sembrerai

un’ochetta”. Sarà la dignità a proteggere Meg dai capricci del destino e di una trama romanzesca che ha bisogno di sofferenza. Sposerà un uomo bello e generoso quanto lei (e più saggio e più di buon cuore, così da poterla guidare e consigliare). Avranno due gemelli, un bambino e una bambina. Ed ecco il piccolo cottage del New England dove andranno a vivere. Mi immagino uno stuoino davanti all’ingresso di casa, fatto a maglia proprio da Meg, con sopra scritto pIo BENEDICA LA NOSTRA casa. Poi la porta si chiude senza rimpianti. Non c'è ragione per cui io debba continuare a occuparmi di Meg. Ecco Jo, che maneggia sia la penna dell’artista sia la spada della ragazza che sa benissimo che avrebbe dovuto essere un maschio. Chi

non ha desiderato essereJo almeno per un istante? Jo, con tutta la sua ingovernabile impulsività e la sua folta chioma ribelle, Jo che sbraita, borbotta e che invece di dare risposte lancia provocazioni,

Jo che atteggia il corpo in pose sconvenienti, l’eroe dei racconti di cappa e spada che vuole lasciare tutti a bocca aperta e diventare una scrittrice ricca e famosa.

Jo ci autorizza a dare in escandescenze. Le sue paturnie sono altamente spettacolari e la sua indignazione sempre giustificata. Jo diventa il cuore di qualunque pagina in cui le capiti di intrufolarsi,

anche solo per dare una sbirciatina. Ha carisma da vendere, proprio come tu desideri.

229 Un'utile definizione di carisma per le ragazze ambiziose degli anni Cinquanta: con-

quistare l'attenzione, condita di meraviglia, di adulti importanti (insegnanti, parenti, amici di famiglia), conquistare l'amicizia di ragazze talentuose, caratterialmente interessanti e socialmente vincenti, conquistare l'ammirazione dei ragazzi oppure, senza che questi ti considerino una nemica, ilprimo premio dopo aver gareggiato contro di loro. Poter contare su “talenti” che non possono passare inosservati. Cerchiamo modelli in ogni dove: nei libri e nei film, negli sceneggiati tvpiù rispettabili e nelle commedie più spassose, tra le prime ballerine e le signore eleganti, tra le attrazioni dei varietà te-

levisivi (‘Signore e signori, ecco a voi l'incantevole... Signore e signori ecco a voi l’eclettica... Signore e signori diamo il nostro benvenuto alla ragazza che ormai fa parlare di sé tutta Broadway ...”).

Masi può essere una derelitta e al contempo una forza della natura come Judy Garland? Un'eccentrica senza pari come Tammy Grimes? Ho già capito che gli adulti si conquistano facendo osservazioni che suonino precoci, ma non sfacciate. In questo sono

bravissima. Ho imparato che avere personalità ti fa avere un ruolo nelle commedie scolastiche e un giudizio in pagella che sottolinea come tu sia dotata di unforte ascendente sugli altri. Dove miporterà tutto questo ? I miei insegnanti concordano nel dire che scrivo bene. Hopubblicato una poesia in una rivista indirizzata a giovani Negri e diretta da Charlaemae Rollins, una specialista di letteratura per l'infanzia, la pioneristica direttrice

della prima biblioteca pubblica degna di questo nome a Bronzeville. E tuttavia non vado in giro scribacchiando con la testa tra le nuvole, come Jo.Né suono ilpianoforte

estasiata come Beth. Sono veloce con ilpensiero e con le parole, ma le mie stravaganze non hanno nulla di affascinante.

Jo desidera diventare una scrittrice ricca e famosa. Desidera anche il matrimonio? Scrolla il capo altezzosa e dice no, e ancora no. Ma si sposerà eccome, perché Louisa May Alcott, trentasettenne ancora senza marito, intuisce benissimo quello che desiderano le sue lettrici: ragazze fissate con il matrimonio che la renderanno celebre e quasi ricca; le stesse “care ragazze”, come le apostrofa per ingraziarsele, che disprezzano le vecchie zitelle.

La Jo che dichiarava di

voler stupire tutti quando avrebbe avuto ventidue anni si ritrova a essere umiliata alla vigilia del suo venticinquesimo compleanno.

230 “Sto diventando una vecchia zitella” riflette dopo essersi stesa su un vecchio divano all’ora del tramonto. “Con manie letterarie, con una penna per marito, un sacco di racconti per bambini e tra ven-

t'anni, forse, un pizzico di celebrità. Ma non potrò godermela e

per di più non avrò nessuno con cui condividerla”.

Alcott mostra qui tutta la sua angoscia. Una ragazza come Jo potrebbe disperarsi, ci avverte l'autrice. Alcott sa che non tutte le ragazze in fiore diventeranno mogli e madri. È tuttavia ‘possiamo essere altrettanto felici, a patto di poter contare su qualcosa che abbiamo dentro”. Che frase deprimente e punitiva: “a patto di poter contare su qualcosa che ab-

biamo [...]”! Alcott intende il carattere, che nelle ragazze è spesso trascurato 0 sot-

tovalutato. Al giorno d’oggi penseremmo a un diploma universitario 0 a un dottorato che ci consenta di insegnare o di trovare un lavoro altrettanto rispettabile, qualora la morte, il divorzio o il nubilato ci abbiano escluse dalla classica famiglia con duegenitori. Ovviamente io e le mie coetanee avremo tutte quante una laurea o un dottorato sui

quali contare. E il nostro carattere ? È tato forse trascurato nel senso che intendeva Alcott? Quando mia madre sentiva che tutta eccitata rivelavo a un'amica un segreto che riguardava

un’altra amica (“Non dovrei raccontarlo a nessuno, ma...”), miprendeva da parte e mi impartiva una bella lezioncina sulla lealtà. “Hai personalità, ma la personalità, da sola, non basta”mi diceva. “Devi avere anche il carattere”. Devo avere qualcosa su cui contare. Porto gli occhiali spessi e sono affascinata dalle storie che parlano di donne bellissime che fanno innamorare gli uomini affascinanti: dolci e vulnerabili fanciulle che hanno bisogno di essere salvate o eroine piene di ardimento che devono essere conquistate da uomini ancora più arditi. Per dirla in modo elementare: il destino trova sempre il modo di ricompensare le ragazze più carine con dei ragazzi affascinanti. Io temo di nonfarcela, temo che rimarrò esclusa da quegli sguardi e da quei fervidi baci, da quelle scene estatiche abitualmente seguite da un’unione che reca felicità alle famiglie e che tutto il mondo approva. Non mi va proprio per niente di essere esclusa da tutto questo. “Mai ridere di una zitella, perché [...] sotto un abito modesto si nascondono spesso delle storie romantiche o tristi” implora Alcott.

231 “Anche queste donne tristi e inacidite”, quelle cui destinare i biglietti d'auguri per Vecchie Zitelle, meritano la nostra pietà, “per-

ché hanno dimenticato la parte più dolce della vita”. Non mi va proprio per niente di essere messa da parte e commiserata. Ad Alcott non andava di essere compatita, né trascurata, né sposata.

Voleva che Jo fosse come lei, una zitella con la mania letteraria. No!, le dicono le sue lettrici. Per favore, no!, le dice il suo edi-

tore. E così si mette a valutare i pro e i contro del matrimonio, così come deve fare ogni donna nella realtà. Non asseconderà quelle che vorrebbero che Jo sposi Laurie, un uomo sicuramente bello e affascinante,

e tuttavia caparbio e oziosamente

ricco. Alcott vuole

negare a Jo quello che ha negato a sé stessa? — un compagno amabile ed eccitante? Sta provando a ottenere più indipendenza e forza emotiva? Le ragazze della famiglia March hanno lottato contro le privazioni per troppo tempo: è arrivato il momento di far soffrire anche Laurie. È giusto che sia umiliato dall'amore che prova per la

poco femminile Jo, e anche dal suo rifiuto. Se Jo fosse stata innamorata di lui avrebbe dovuto esprimere tutta la sua gratitudine per essere stata scelta. E Laurie avrebbe avuto dalla sua il suo bell'aspetto, i soldi, lo status. Nonostante le buone intenzioni, non sarebbe riuscito a frenarsi. Perché è così che va il mondo. È lo stesso genere di considerazioni che sentivo fare quando si discuteva dei matrimoni misti. Un marito bianco sarebbe stato sempre consapevole di come eri considerata dalla sua famiglia o dai suoi amici e conoscenti, e quel che aveva comportato sposarsi con te

agli occhi del mondo. E tu saresti stata sempre in debito. Ad un certo punto ti si sarebbe inevitabilmente rivoltato contro. Le lettrici avranno il loro bel matrimonio quando Amy sposerà Laurie. PerJodovranno accontentarsi delle consolazioni della filosofia, rappresentate da un robusto professore di mezza età, dalle mani grandi, i vestiti frusti, e senza alcun "segno particolare in viso

a parte i denti che sono magnifici”. Il professore insegna a Jo il tedesco, le dà un volume di Shakespeare, difende la cristianità contro

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l’agnosticismo. Quando intuisce che Jo pubblica racconti "sensazionlistici” sotto pseudonimo, la sua reazione (più che irosa, penosamente triste) esprime un vigore morale da Nuovo Testamento. Basta con avventure raccapriccianti, basta con le passioni illecite che scoppiano in luoghi stranieri/esotici. Jo si ritira nella sua stanza, legge quello che ha scritto e lo infila nella stufa “senza neanche pensare che quella fiammata avrebbe potuto incendiare il camino”. Poi, come una delle sue malfattrici di carta, aggiunge: “Qualche volta vorrei quasi non averla la coscienza... è così scomoda! Se i miei genitori mi avessero educata in modo più pratico, senza inculcarmi troppi scrupoli!”. Però, povera Jo, ecco che interviene Alcott, e con quella stessa

voce che avrebbe spinto James Baldwin a farla a pezzi senza pietà: “Ma come fai a non provare compassione per coloro che nella vita non hanno mai avuto angeli custodi? I princìpi sani e rigidi danno qualche volta ai giovani la sensazione di essere in gabbia, mentre invece sono l’unico fondamento sicuro su cui costruire il proprio carattere”.

Non c'è niente da fare: Jo deve sposare il professor Bhaer. Ecco di nuovo la Fine... e una che anche la ragazza più giudiziosa non riesce a digerire. Non vorresti essere una patetica zitella, va bene,

e tuttavia è possibile che tu possa aspirare solo a un uomo gentile ma sciatto, che ha già due bambini a carico — i nipoti orfani — dei quali dovrai prontamente farti carico tu?

E non solo di loro. Alla fine del romanzo Jo si sarà smaterializzata nel corpo e nell'anima di un ragazzino dopo l’altro: quelli cui darà vita lei stessa e quelli che accoglierà nella sua scuola esclusivamente maschile: "una distesa di ragazzini”. Non faceva per me. Tutte queste delusioni, però, si trovavano nel secondo volume di Piccole donne; non all’appassionante Libro primo. Meg, Jo, Beth, Amy: in quelle pagine, nel carattere e nella personalità di una ragazza della famiglia March, era possibile trovare un’altra sé stessa.

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Denise aveva la propensione a comportarsi da maschiaccio e po-

teva dimostrare di possedere una forza di volontà impetuosa. Scelse Jo non appena leggemmo il libro a scuola, e visto che era tre anni più grande lo lesse prima di me, mettendosi subito a passeggiare in casa e a declamare sia le battute di Jo sia le istruzioni di Alcott: “Na-

tale non sarà Natale senza regali”, si lamentava, per poi lanciarsi sul tappeto del salotto. “ Qui negli Stati Uniti non si bara, ma se tu vuoi farlo accomodati pure”, diceva tutta risentita a Ned, quel citrullo inglese, che toccava impersonare a me; poi usciva passandomi accanto senza neanche guardarmi. Io non avevo alcuna intenzione di prendermi Meg. Non avevo voglia di assumermi, neanche per gioco, il compito di accudire che spettava alle sorelle maggiori. È poi ero una ragazzina che riusciva a cogliere, direi in maniera semi compulsiva, la presenza di un ordine sociale. No, detto così è troppo vago. Capivo come la biologia determinasse le aspettative sociali, e quale dovesse essere il modo più corretto di reagire. Quando

ero in terza portai a casa un compito fatto in classe in

cui si chiedeva: “A quale dei tuoi genitori sei più affezionata?”. Risposi (mentendo) che era mio padre, poi — compulsivamente — spiegai a mia madre che l'avevo fatto perché i padri erano considerati i capifamiglia, per cui si doveva dire che erano i più amati. “Se hai messo che è tuo padre, penseranno che è tuo padre” rispose lei, un po’ risentita. Perciò, anche se Meg mi avesse tentato, non avrei potuto trasgre-

dire l'ordine che avevo ricevuto alla nascita: devi distinguerti. Oggi,

nella speranza di placare la vergogna che provo per il mio conformismo, dico che stavo lottando contro un alter ego che l'avrebbe addirittura inasprito. Un'idea accattivante, che però svanisce nell’istante stesso in cui confesso che: Io

Scelsi Beth. La più dolce delle quattro, la sorella più amata di tutte. “Serenella” la chiamava il padre. Quando le altre bisticciano Beth canta

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“Birds in their little nest agree” e il bisticcio termina all'istante. Chiunque la conosca le vuole bene, e per farsi benvolere non deve fare alcuno sforzo perché è semplicemente adorabile. Le piace essere brava. Il suo tratto più naturale è la generosità. Il suo unico difetto è la timidezza, talmente esagerata da apparire talvolta una

forma di egoismo. In realtà lei la combatte, perché è così brava da essere

costantemente

impegnata

a correggere

i propri difetti (io

mi sono sempre consapevolmente tenuta alla larga dalla timidezza, ma la mia vivacità mi ha causato non pochi guai). Beth ama la musica e sa suonare il pianoforte (come me), e quando suona i suoi vicini di casa più burberi si addolciscono. Non ha un talento eccezionale (il mio speravo fosse più evidente). E tuttavia la colloca sullo

stesso livello della scrittriceJo e dell'artista Amy. La musica offre a Beth la possibilità di evadere dai confini rigidissimi della bontà, di sperimentare, seppure a sprazzi, ritmi e melodie differenti.

Fino a quando, all’età di diciotto anni, non viene fatta fuori da una malattia fatale. Deve essermi sembrata una cosa affascinante, anche da ragazzina: la morte come il malvagio che ti fa a pezzi, come il salvatore che ti assicura una reputazione senza macchia. È possibile, da adulta, rileggere la morte di Beth senza cadere in un dileggio autodifensivo? Certo che sì, ma è necessario diventare lettrici attentissime. Alla fine verranno a galla alcuni comprensibilissimi difetti. Per esempio l'invidia: "Ma quando vi vedevo tutti così sani e forti, pieni di progetti per il futuro, era doloroso sapere che non sarei stata come voi”. E poi la disperazione: “Non se la sentiva di dire ‘sono contenta di andarmene’ perché amava la vita e non poteva far altro che singhiozzare: ‘Proverò ad accontentarmi’”, e proverà ad arrendersi a una dolorosa amarezza. Morire è stato il suo modo di abbandonarsi alle emozioni restando impermeabile alle critiche. Ciò detto, cosa dovremmo farcene di Amy? La soave Meg si carica sulle spalle quel gelo che in realtà sarebbe più adatto alla fanciulla di ghiaccio che abita in Amy. La vanità di Meg diventa vorace. La

caparbietà di Jo si trasforma in ostinazione, il suo orgoglio vira in

235

direzione dell’egotismo. Amy non riesce a essere sinceramente generosa neanche per un istante. Quando fa la brava lo deve dire a tutti. Quando si accorge di essere stata egoista — o avida o altezzosa — formula le sue scuse in modo da autoincensarsi e giustificarsi. Amy ha un certo talento: disegna e dipinge, ma non con la quieta applicazione di Beth né con il fervore di Jo. Quando dipinge, lo fa per attirarci a sé: siamo tutti chiamati ad ammirare

quando sia ca-

rina mentre dipinge. Le sorelle grandi hanno beneficiato dell'attenzione esclusiva dei genitori, hanno com-

battuto per prime e da sole la loro autorità, hanno conservato gelosamente il ricordo del loro potere infantile e non hanno mai dimenticato il momento in cui sono state costrette a far spazio e a prestare attenzione a un fratellino (la notte in cui sono nata io, mia sorella si è bevuta una bottiglia di paraffina). Non hanno molta pazienza con quelli che devono fare tutto quello che loro hanno già fatto per diventare quello che sono. E tuttavia ci si aspetta da loro che aiutino e consiglino il piccolo invasore, che siano dei piccoli genitori. Esigono la nostra ubbidienza. Gradiscono la nostra ammirazione. Per la loro approvazione noifaremmo di tutto. Li osserviamo. Impariamo a conoscerli. E non sopportiamo che ci deridano quando commettiamo errori clamorosamente sciocchi, benché la sorella maggiore li abbia fatti prima di te o si vanti di essere stata troppo furba per cascarci. Lottiamo per la supremazia affidandoci agli stratagemmi di chi non ha potere: spettegolando, facendo le moine, progettando atti di sabotaggio. E

abbiamo bisogno di loro tanto quanto loro non hanno bisogno di noi. È la prima volta in cui facciamo esperienza di un amore non corrisposto.

Da piccola, nessuna delle mie amiche avrebbe ammesso di identificarsi con Amy. Alcott ce la mette tutta per evitare che tu scelga Amy, a meno che a te non vada di essere derisa e rimproverata praticamente in ogni pagina del libro. Amy è sminuita di continuo dalla parola “piccola”: le sue piccole vanità e carinerie, le piccole statuine d'argilla, i suoi piccoli sbagli e i suoi piccoli dispetti da sorella minore. È grandiosa soltanto la sua presunzione: ha un inglese infarcito di paroloni, fa errori di ortografia, non conosce la “puntegiatura”, legge in francese a voce alta alle sue piccole amiche

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“sbagliando la pronuncia soltanto di due terzi delle parole”. Quando a Amy viene proibito di andare a teatro e di accodarsi a Jo, Meg e Laurie, la sua vendetta lascia senza parole. Trasformatasi

in una Hedda Gabler di dodici anni, Amy brucia gli scritti di Jo.

Ma visto che le piccole donne sono pellegrini e visto che Alcott è vittima del sentimentalismo cristiano del suo ambiente, dopo essere stato punito, il personaggio di Amy migliora. Quando ottiene l’amore e le fortune di Laurie, sa bene che all’inizio lui era inna-

morato di Jo, e sa anche di dover rinunciare all'arte perché il suo talento è di una pochezza desolante. Io avevo un dono grazie al quale ero stata osannata. La mia personalità e la mia simpatia, non il mio aspetto, spiccavano. Se commettevo una gaffe non sopportavo es-

sere derisa da mia sorella. Ero convinta di essere una brava persona. Volevo essere amata senza riserve. Volevo che tra me e quell'amore non cifosse nulla. Volevo trovarmi nella posizione di non essere mai più sgridata né corretta da mia madre, di non dover mai perdere il punto in una discussione — o rischiare di uscire sconfitta da una discussione — con mia sorella. Volevo essere adorata da mia sorella in ogni istante della giornata e non volevo essere costretta a lottare per l'approvazione dei miei compagni di

classe e dei miei amici. Sarebbe così riposante desiderare non più di quel che hai ed essere perfetti nella vita quanto nei ricordi delle persone. Se non altro Amy era smaniosa, insistente. Avrebbe potuto ispirarmi

una

maggiore

disponibilità,

una

maggiore

propensione

al

rischio — alla testardaggine —, ad avere desideri e a sbandierarli, anche se mi rendevo ridicola e non me ne accorgevo. Dal punto di vista razziale, potrei sostenere che all’interno di un immaginario di matrice anglosassone sarebbe stato meglio scegliere una ragazza bruna invece di una bionda dagli occhi azzurri. Ma mi era già toccata la castana Margaret O'Brien e la brutta e grintosa Mary Lennox. Ero colpevole ma relativamente intatta. Era il mio temperamento a minacciare di farmi fuori. Una nuova versione del personaggio dell’Attivista Le nonne erano stupefacenti nell’improvvisarsi ereditiere. Le mie

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erano cresciute entrambe in Mississippi, erano andate al Rust College ed erano diventate insegnanti in piccole scuole di campagna quando

si trasferirono al Nord (i Jefferson andarono a Denver e poi a Los Angeles, i MeClendon a St. Louis e, a causa di mia nonna, a Chicago). Sorvegliarono con attenzione l'avanzamento scolastico dei figli. E pianificarono con altrettanta cura la loro ascesa personale.

Le donne di colore nate tra il 1880 e il 1905 abbracciarono il Progresso e tennero testa al Pericolo su tutti i fronti. Incoraggiate

dall’esempio dei loro straordinari genitori, diventarono insegnanti, sarte e ristoratrici, infermiere e stenografe, addirittura medici e avvocati. Aprirono istituti di bellezza e scuole di catechismo. Impararono a tenere i conti per gli uomini che lavoravano nelle assicurazioni o nelle agenzie di pompe funebri. A volte li sposavano,

questi uomini;

spesso vivevano

più a lungo di loro e rileva-

vano l’attività di famiglia. Se i loro defunti mariti non avevano granché da lasciare, si mettevano all’opera per procurare una dote alle figlie. Si spacciarono per bianche per vendere abiti nei grandi magazzini bianchi. Presero gente a pensione. Studiarono il mercato e acquistarono immobili (Tutte le settimane gli inquilini consegnarono l’affitto nelle mani cortesi e perentorie della vedova). La mia nonna materna, Lily MeClendon Armstrong, aveva messo al mondo una figlia da appena due anni quando il marito fu falciato dall’epidemia di spagnola del 1918. Faceva l'ingegnere e aveva lavorato per Booker T. Washington, che lo aveva mandato a Purdue per il dottorato. Quando morì, Lily e la piccola Irma si trasferirono da Holy Springs, Mississippi (dove la famiglia della nonna aveva diversi terreni e gestiva un negozio), a St. Louis, dove comprarono alcuni immobili e la suocera e la zia di suo marito lavoravano come rispettabilissime impiegate. In Mississippi Lily aveva fatto l'insegnante, a St. Louis imparò a cucire vestiti. Si sposò una seconda volta con un uomo affascinante e gentile che veniva da un'ottima famiglia di colore, e si trasferirono insieme a Chicago per trovare impieghi migliori e maggiore indipendenza.

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La sarta di St. Louis si trasformò in una sarta di Chicago per le facoltose clienti bianche del lussuoso Edgewater Beach Hotel, provvisto di una spiaggia privata e di una clientela che il più delle volte arrivava in elicottero.

A Chicago Lily MeClendon Armstrong diventò Lillian MeClendon Armstrong perché la sillaba aggiunta era più consona alle orecchie del nord. Il marito di St. Louis fu messo da parte quando fu evidente che, con il passare degli anni, la sua ambizione restava scarsa. Si dice sempre che le carriere politiche iniziano tutte a livello locale, e quando Lillian puntò in quella direzione partì da quello che aveva attorno: raccogliendo voti porta a porta in favore di un capitano della polizia Negro del Partito democratico. E poiché ottenne risultati eccellenti, lui la nominò responsabile di un parco giochi,

un ruolo che però lei trovò a dir poco noioso. Con il sostegno dal partito divento così una delle prime poliziotte Negre di Chicago. E questo le piacque. “Scappiamo insieme, piccola” l’apostrofò un ubriaco mentre una

sera rientrava a casa senza uniforme. “Come no” rispose lei in tono cordiale, dopodiché lo fece salire in macchina e lo portò alla stazione di polizia. Un medico, un uomo

più grande di lei, la corteggiò a lungo, ma

lei era convinta che i figli di primo letto di lui fossero troppo gelosi e scostanti. Uscì con un bell’aviatore che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto nell'esercito di Hailé Selassié. Alla fine si sposò, per la terza volta, con un inserviente delle ferrovie, un uomo flemmatico e affabile che le lasciò lo scettro del comando mentre lei studiava il mercato e che contribuì con i suoi guadagni al loro fondo immobiliare. Quando lui morì, lei era proprietaria di due palazzi. Tutte le settimane gli inquilini consegnavano l'affitto nelle mani cortesi e perentorie di Lillian MeClendon Armstrong Thompson. Le vedove di colore indossavano completi e pellicce, guanti e cappelli perfetti: la cloche, la toque, berretti e turbanti, il ‘pillbox” il fedora.

,

239

Quando venne la moda dei bastoni da passeggio Lillian MeClendon Armstrong Thompson se ne procurò uno con il pomello d'avorio. Quando anni dopo comprò il suo primo visone, lo indossò per

fare una visita alla famiglia di St. Louis. “Mamma,” le disse la figlia adolescente "ma fa troppo caldo per la pelliccia”. “Non fa mai troppo caldo per indossare la pelliccia” rispose Lillian MeClendon Armstrong Thompson, e proseguì il suo viaggio. Ricordo che mia nonna e le sue amiche portavano l'abito di lana e la stola di volpe con tanto di testa e piedini, i pantaloni larghi e

le camicie di seta, i cappellini rigidi con la mezza veletta. A ottant'anni le loro figlie citavano ancora le loro frasi: Se scopri di essere incinta non prenderti il disturbo di passare a casa. Prosegui dritta verso est (fino al lago).

Oppure: Quando me ne sono andata di casa, ho lasciato a mio marito la sua poltrona preferita. Era l’unica cosa di cui non sarebbe riuscito a fare a meno. Le vedove di colore assicuravano

alle figlie una laurea, a volte

anche un master, e poi un buon matrimonio con avvocati, medici,

pedagoghi, giornalisti, contabili, direttori di uffici postali e uomini d'affari. Facevano in modo che alle loro ragazze fossero garantite uguali opportunità di coltivare il senso di responsabilità e la grazia di cui c'era bisogno per fare un buon matrimonio. Con il passare degli anni la protezione economica e coniugale trasformò queste figlie in donne rigide quanto le madri. Una volta diventate vedove decisero di restare tali. Una sotterrò due compagni affettuosi e affascinanti e, pur senza averli sposati, ereditò un po’ di

soldi da entrambi. Un'altra sopravvisse al giudice assai mondano che le aveva fatto da accompagnatore a feste e serate culturali di prestigio. Le vedove

in cerca

di prede

erano

tenute

sotto

stretta

osserva-

zione, i loro movimenti erano commentati al telefono o alle riunioni dei vari club.

240 La signora G.: “Un signore ha frequentato alcune delle loro case per saggiare la loro cucina e l'accoglienza. Gloria l’ha sopportato fino a quando lui non ha cominciato a lasciare le ordinazioni. A quel punto è venuto da me, però io gli ho detto: ‘Sto cercando esattamente quello che vuoi tu: un buon pasto casalingo preparato in una casa diversa dalla mia’” Non che gli scapoli venissero incoraggiati indiscriminatamente. “Ha un ottimo profumo” disse qualcuno alla signora S., mentre entravano nell’ascensore del loro palazzo. Lei chiuse la storia con un cenno

del capo e una bugia fulminante:

"La ringrazio, ma io

non uso alcun profumo”. La mia nonna paterna viveva in California, perciò non l'ho mai conosciuta altrettanto bene. Lavorò come insegnante in una scuola elementare del Mississippi e tornata a casa faceva la lavandaia e rammendava. In California diventò sarta e si iscrisse immediatamente al sindacato. All’inizio lavorò nel reparto costumi per uno

studio di Hollywood. Suo marito faceva il carpentiere. I loro quattro figli — aveva deciso — sarebbero stati medici, avvocati o, nel caso fossero femmine, insegnanti. Dei tre figli maschi, due diventarono avvocati, poi giudici, e uno medico. La figlia ottenne non uno, non due, ma ben tre master: uno per ogni titolo conseguito

dai fratelli.

Una nuova versione della donna che diventò mia madre

Mia madre non era brava nel cucito come sua madre o sua suocera. Sapeva come rammendare un orlo e sostituire un bottone. Ed era così perché così aveva pianificato la mia ambiziosa nonna. Irma non avrebbe mai lavato i pavimenti (altri lavori di casa sì, ma lavare i pavimenti no). Si sarebbe laureata alla University of Chicago (ma farcela studiare per tutti e quattro gli anni era troppo costoso, così ci arrivò da un’altra università). Quando faceva acquisti le era stato insegnato a badare soltanto alla qualità.

241 Avrebbe potuto acquistare più cose quando si sarebbe sposata con un uomo perbene, quando avrebbe potuto permettersi una sarta o una rammendatrice. Mia madre adorava fare shopping, per sé stessa e per noi. Adorava il suo guardaroba. Quando compì novantadue anni e si stava preparando per andare a pranzo con le sue amiche, le chiesi quali fossero stati i suoi capi preferiti. Mi aspettavo un tripudio di feltro e sisal (ricordo ancora un cappellino dei primi anni Sessanta, color panna e con veletta nera, che sembrava la spirale di un gelato Tastee Freez), ma scelse gli abiti da sera. "Lunghi o corti?”. “Entrambi”. “Qual era la differenza?”. "Quelli corti erano frivoli e civettuoli”. “E quelli lunghi?”. Rise, portandosi la mano sulla fronte e sistemando le dita nella classica posizione di una fanciulla sul punto di svenire.

"Beware,

my foolish heart!” canticchiò assaporando le parole. The night is like a lovely tune

Beware, my foolish heart...

Era una ballata del 1949, quando mia madre aveva trentatré anni e io due. Mi piace pensare ai miei genitori che scivolano sulla pista da ballo mentre l’orchestra di Willie Randall attacca le sontuose battute d'apertura. My Foolish Heart, Lush Life, Stardust, Misty, Sophisticated Lady... erano queste le canzoni che non smettevano di ascoltare sul giradischi. Mi piacevano anche quelle frivole e civettuole, con arguti effetti sincopati, sensualità e romanticismo: The Old Black Magic, Do Nothing Till You Hear from Me, Gee Baby, Ain #I Good for You?. E naturalmente mi

piaceva quel grintoso blues urbano che rendeva omaggio alla nostra.città:

242

Goin' to Chicago Sorry but I can't take you.

Ah, com'erano belli gli enormi,

magnifici magazzini di Chicago

dove compravamo i vestiti! Marshall Field and Chas. A. Stevens, progettato dallo studio di D.H. sull’Esposizione universale.

Burnham,

Carson,

l'architetto che regnò

Pirie e Scott, progettato da

Louis B. Sullivan, il mago del grattacielo. Erano palazzi imponenti di granito e terracotta, ecclettici e al contempo arroganti con i loro

ascensori e i lampadari Tiffany, l’essenzialità modernista e le fioriture rinascimentali. Si trovavano nel cuore commerciale della città,

il Loop, circondati da hotel, teatri e uffici. L'esclusività unita all'accessibilità. I grandi magazzini sorti tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento furono i primi a trasformare in arte sopraffina il bombardamento sensoriale. Montagne

e montagne

di rossetti,

ciprie, profumi;

espositori

pieni di guanti (lunghi, medi, foderati e non, di cotone, di camoscio, di capretto,

bianchi,

panna,

neri, marroni),

di oggetti di

pelle, dolci... e ancora non ci siamo avvicinate alle scale mobili.

Siamo ancora al piano terra, che si estende per due isolati. Per ragazze come me e mia sorella lo “shopping” consisteva in una spedizione arzigogolata da pianificare in tutti i dettagli. Il ruolo di guida spettava a mia madre. Mentre i nostri occhi vagavano ammirati di qua e di là, lei ci diceva cosa cercare e cosa trascurare. Chi dirigeva i nostri sguardi era lei. Marshall Field, dove nostra madre ci portava per farci sedere sulle ginocchia di Babbo Natale tra immense ghirlande, canne da zucchero e un turbine di decorazioni scintillanti. Marshall Field, dove nostra madre ci portava a pranzare alla Walnut Room. Marshall Filed e il suo 28 Shop, dove mamma disse a sua madre: “Qui non dovresti fumare”, e sua madre rispose: ‘Visto quello che pago per ivestiti io qui ci faccio quello che mi pare”.

243 Marshall Field, dove negli anni Venti la zia di mio padre, Nancy, si spacciò per bianca per lavorare come

commessa.

Da Saks e Bonwit Teller l'equilibrio raggiunto altrove tra esclusività e accessibilità si spezzava. Erano negozi più piccoli e discreti. Si trovavano

nell’aristocratico Near North Side, non nel Loop che

con un piglio da "ce n'è per tutti i gusti” attirava folle di consumatori. Qui il ritmo delle compravendite aveva più contegno, la conversazione era più pacata. E traversando l'ingresso capivi subito che ben poche persone si sarebbero prese la libertà — o avrebbero rivendicato il diritto — di entrare da turisti. Mamma ci portò solo dopo il 1960. Essendo Negri, prima di avventurarci a nord verso la Costa Dorata dovevamo assicurarci un posto in centro. Ogni mese, a casa nostra arrivava un “Vogue” formato tavolino da caffè. E ogni mese lo divoravo. Le modelle cominciavano proprio allora a essere note con il loro nome. La mia preferita era la rossa Suzie Parker. Era alta e aggraziata, con le linee del viso (gli zigomi,

il naso) e le curve (le labbra, le sopracciglia) che si combinavano alla perfezione. Le modelle indossavano le collezioni dei grandi sarti europei: Dior, Givechy, Balenciaga e Madame Grès. Portavano gli abiti di stilisti americani dai nomi ritmicamente perfetti oppure allitterativi: Geoffrey Beene, Bill Blass, Norman Norell. Erano delle muse,

dei feticci, erano

offerte votive sull’altare del fascino

femminile. Io le adoravo le offerte votive sull’altare del fascino femminile: nelle riviste, nei film, e nella vita. I vestiti, la biancheria intima, un assortimento di fazzoletti (alcuni con il bordo di merletto, altri con le iniziali), le agendine di pelle e di coccodrillo, con lo spec-

chietto e il portamonete, le pochette di seta per la sera e le borsette di perline con il piccolo manico da infilare al polso. I profumi e le acque di colonia sulla toletta di mamma, gli orecchini, i bracciali, le collane conservate nel portagioie di pelle fiorentina.

244

Imparai ad accettare anche tutti i divieti. Un giorno, d'estate, scesi al piano di sotto con una camicia rossa e una gonna a fiori bianchi e viola: fui immediatamente rispedita di sopra a cambiarmi. Alcuni colori non possono essere abbinati, soprattutto se si tratta di colori squillanti. Il tessuto jeans si usa solo nei fine settimana dedicati al gioco o quando si va in campeggio. Le bambine portano calzini bianchi e ballerine. Accettai i divieti perché volevo essere una ragazza perfetta e quando una ragazza non può contare su una bellezza perfetta — come me — quei divieti ti aiutano a compensare. Li accettai perché venivano da mia madre, il cui aspetto e i cui modi erano a mio pa-

rere sia dignitosi sia estremamente belli. La sbarazzina acconciatura alla Claudette Colbert, il suo fisico di un metro e sessanta, magro ma non ossuto, la pelle colore beige scuro. Era spiritosa, brillante e chic. E così le sue amiche. Adoravo guardarle quando indossavano il completo e la camicetta di seta, la pelliccia e un bel cappellino. Adoravo il loro stile alle cene e alle feste. Adoravo la prontezza dei loro commenti e giudizi. Erano autorevoli e femminili. Ed erano praticamente assenti dalle piattaforme più importanti del fascino femminile: da “Vogue”, da “Harper's Bazaar”, da “Life” e da “Look”, dalla televisione e dai film (fatta eccezione per le solite Lena, Dorothy, Eartha, Diahann). Così aveva decretato la razza. Che effetto faceva sapere che chiunque contasse qualcosa nel vasto impero della moda e della bellezza era bianca? Le modelle di colore presero ad arrivare negli anni Sessanta. 1962: Gordon Parks, anche lui Negro, che negli anni Trenta aveva fotografato mia madre e le sue amiche al South Side Community Arts Center, realizza una doppia pagina per “Life” dedicata ad abiti “esotici” dal titolo: Una girandola di colori brillanti: Gli stili più nuovi indossati dalle modelle Negre — Un gruppo di bellissime pioniere. 1966: Donyale Luna, che sostiene di essere irlandese, messicana e afro-egiziana, diventa la prima modella Negra ad apparire sulla copertina di “Vogue”. Ha dita lunghe, affusolate, palesemente bruno-rossastre. Le unghie sono laccate di

245

bianco. Il secondo e il terzo dito le incorniciano l'occhio scuro formando una V, un po’ curva e tuttavia inconfondibile; quell’occhio scuro, con il mascara in stile gatta egiziana, pretendeva rispetto.

Chi tra noi era fatta così? Donyale Luna era un'anomalia tanto quanto Suzie Parker. Ma era la nostra anomalia. Ci ingelosiva, ma ci sosteneva.

L'impero della moda e della bellezza sapeva usare qualunque mezzo per accalappiarti e farti sentire una menomata. Inventava stili e norme che ispiravano desideri impossibili. Se ti lasci incantare, le tue voglie non ti danno tregua. Vuoi qualcosa — una qualche caratteristica,

una

parte del corpo,

un aspetto specifico o un alone

— che non hai e che non potrai mai avere.

Quegli zigomi che farebbero sembrare erotico anche un teschio. Quelle labbra bocciol di rosa. Quel collo elegante, quel tronco slanciato,

quelle gambe scultoree, agili e magre. Parti con le cose impossibili dal punto di vista della biologia. Poi

passi a quelle razziali. La delicata stravaganza di Audrey Hepburn. La sensuale intensità di Elizabeth Taylor. La compostezza da country club di Grace Kelly.

Basta! Non riuscirai mai a essere bianca come questi perfetti idoli femminili. Facciamo in modo che questa impossibilità fondamentale ti accusi e ti tormenti. Comunque, con l’arrivo di “Ebony” arrivò anche un mondo separato fondato sulla bellezza e sull’eleganza Negra. Ogni mese esaminavo con attenzione le modelle color crema, beige, marrone chiaro, camoscio,

marrone

e seppia. La mia preferita era Dorothea

246

Towles. Aveva solo sei anni meno di nostra madre, che l’aveva anche conosciuta. Era andata al college, come avremmo fatto noi. Aveva sposato un dentista e noi sapevamo di dover sposare dei professionisti. Aveva deciso di trasferirsi a Parigi con la sorella, una pianista

affermata. E a quel punto aveva cambiato vita, realizzando le nostre

fantasie più sfrenate, combinando insieme Josephine Baker e Audrey Hepburn: era andata da Dior, era diventata una modella e dopo Dior era passata a Schiaparelli e Balmain. La ammiravo, la invidiavo, ma non la adoravo quanto adoravo Suzie Parker. La vedevo su “Ebony” ma non su "Vogue”. Le mie amiche bianche non sapevano chi fosse. Diana Vreeland non era obbligata a conoscerla né a preoccuparsene. Quando oggi osservo le foto di Dorothea, mi rendo conto che era semplicemente adorabile. Aveva gambe agili e scultoree, il collo e le spalle eleganti. Uso la parola “adorabile” perché aveva un viso intrigante. Gli zigomi erano alti, sì, ma avevano una forma lievemente arrotondata

(come quelli di Baker). Il labbro inferiore era carnoso, lo stesso labbro imbronciato che sarebbe diventato tanto desiderabile negli anni Sessanta e Settanta. I suoi occhi scuri avevano un'espressione scherzosa, quasi beffarda, come se la divertisse vedere il mondo che la guardava. Anche i capelli erano scuri, quando non li tingeva di biondo. Voltò le spalle alla sua gente? Ovviamente no. Ritornò al grigiore borghese che circonda la moglie di un dentista? Ovviamente no,

anche in questo caso. Tornò negli Stati Uniti nel 1954 e lasciò il maritò. Poi, facendo tesoro dei suoi tanti abiti eleganti, iniziò a girare per il paese per organizzare sfilate di moda in favore di associazioni studentesche femminili e organizzazioni benefiche esclusivamente nere. La rivista “Jet” riportava le sue imprese sfarzose con tanto di foto-

grafie. “La modella Dorothea Towles ha destato scalpore quando è entrata in un negozio bianco di Birmingham e ha chiesto di affittare

247

l'equivalente di 10,000 $ in pellicce per una sfilata alla Alpha Kappa Alpha. Per controllare le pellicce il negoziante ha inviato tre guardie private”. Accanto al pezzo c'era una fotografia balneare di una Towles allegra e spensierata, appollaiata su una roccia con indosso un due pezzi senza spalline, sandali con il tacco e cinturino alla caviglia e un ampio cappello di paglia con le frange. Dorothea Towles era tornata negli Stati Uniti lo stesso anno in cui la Corte suprema aveva stabilito che la segregazione scolastica era illegale. Il concetto di “separati ma uguali” era sotto attacco ovunque. Quattro anni dopo, la sfida di Dorothea fu raccolta da

un'amica di mia madre: Eunice Johnson. Era la moglie di John Johnson, l'editore di “Ebony”, “Jet” e “Negro Digest”. Era stata proprio Eunice a dare a “Ebony” quel nome orgoglioso in epoca pre-Black Power. Dopodiché era diventata segretario-tesoriere e consulente di moda della casa editrice. E adesso lanciava la Fiera della moda di “Ebony”, una sfilata itinerante su vasta scala. Non ebbe alcun bisogno di usare il suo guardaroba personale perché andava alle sfilate più importanti di Parigi e Milano, sedeva in prima fila accanto ai direttori delle riviste bianche e comprava. Andava alle sfilate più importanti di New York, sedeva in prima fila accanto ai direttori delle riviste bianche e comprava. Andava alla ricerca di giovani stilisti neri e comprava i loro abiti. Una città dopo l’altra, modelle dalla pelle beige, tanno, camoscio,

crema, seppia, marrone e (finalmente) ebano percorrevano ad ampie falcate le passarelle degli hotel bianchi, indossando abiti destinati a un pubblico di colore/Negro/nero e afroamericano. Era uno spettacolo. Eravamo ancora separati, ma "separati e contemporaneamente uguali” era sempre stato il motto de facto di Negroland. Naturalmente non eravamo del tutto uguali. Il mondo bianco era ricorso a leggi che ci escludevano; adesso, ritenendolo conveniente, le cambiò così da includere pochi di noi. La politica stava cambiando sia la cultura sia il mercato, e stavano cambiando anche le leggi estetiche della moda

248

e dell'eleganza. Ma i bianchi avevano resistito troppo a lungo. Prima che si accorgessero 0 lo ammettessero,

noi eravamo già arrivati.

Mi capita spesso di osservare i vestiti che mia madre mi ha regalato nel corso degli anni. Mi piace particolarmente il cappotto a imbuto di lana pettinata firmato Pauline Trigère, beige a righine leggerissime color malva pallido, lillà, azzurro e bianco. La sua elegante simmetria ne farebbe una splendida carta da parati. Quando me lo avvolgo attorno al corpo mi sento un oggetto d’arte. E ho anche l'impressione di essere protetta perché Pauline Trigère è stata la prima stilista americana a servirsi regolarmente di una modella nera. Notizie del genere le sapevamo sempre: ce le dicevano

“Ebony”, “Jet” e le nostre madri. Però, il pezzo che più mi piace indossare è l’abito da cocktail in broccato color oro con giacchina abbinata che apparteneva a mamma. L'aveva disegnato Malcolm Starr, famoso negli anni Sessanta per gli abiti da sera tempestati di gemme. È un abito senza maniche,

con le spalline ben evidenti, stretto in vita, e la gonna

che avvolge i fianchi. La gonna non è molto ampia, giusto quel tanto che può bastare a una femminista per camminare

senza affet-

tazione. La giacchina è corta in vita e bordata da un passamano d’oro, come il pannello frontale della gonna.

È un abito “frivolo e civettuolo” come piaceva a mia madre. È lineare e al contempo sfarzoso. Quando lo indosso mi pare di entrare in un’armatura fatta su misura. È l'armatura di mia madre. Un'armatura che negli anni mi ha aiutata a difendermi dal senso di esclusione. Un'armatura che negli anni mi ha aiutata a difendermi dal senso di inferiorità.

249

È troppo semplice, quando scriviamo di noi, indugiare sui brutti

ricordi. Crogiolarsi nella nostra innocenza. Ammirare il nostro dolore. Presentare il nostro risentimento dalla prospettiva più conveniente. Per soggiogare i miei ricordi non voglio questo genere di indulgenza. E allora consentitemi di fermarmi per un'ultima volta sulla varietà delle mie esperienze. Quando la razza sta semplicemente lì e i “Negri” sono i tuoi familiari, i loro volti, le loro voci e i loro corpi costituiscono l’orizzonte della tua vita quotidiana. Lo shock arriva quando appare una persona che appartiene al mondo che sta fuori, quando d’un tratto un'azione o un episodio ti fanno additare come una stranezza, come la nota sbagliata del paesaggio. Tu e la tua gente: il singolare diventa plurale senza che tu lo voglia. Ti hanno teso un'imboscata,

letteralmente, e sei stata fresa alla sprovvista, con violenza. È una cosa che suscita tristezza. Furore... Dolore. Ci sono anche altri tipi di shock razziali: le epifanie estatiche, il

terrore improvviso. Non è vero che la razza sta semplicemente lì. Meglio dire piuttosto che tu e la tua gente avete un destino di cui farvi carico. Tutti voi, quell’essere singolo che è stranamente diventato plurale, siete stati presi e collocati al centro dell’attenzione del mondo. Tu e la tua gente non condividete solo un passato, ma anche l’aspetto esteriore e la gestualità,

i modi di parlare,

250 di muoversi, di stare al mondo che gli altri oltraggiano, desiderano,

discutono. Come fai ad adattare il tuo io ostinatamente singolare a una storia così lunga, a così tanti miti? A così tanta gloria, bassezza, onorabilità e slealtà? Se non altro quando ero piccola la razza contava. Se non altro la razza infiammava la nazione. Non il genere sessuale. Nessuno che abbia presieduto i Grandi dibattiti culturali — leader politici, artisti influenti, giornalisti —, nessuno di loro ha strepitato più di tanto per il genere. Di certo non con la stessa chiarezza, non con la stessa imperiosità. La battaglia per l'uguaglianza dei diritti delle donne si intrufolò in quelle organizzazioni femminili — come la League of Women Voters, il National Council of Negro Women o la Planned Parenthood — che già operavano in ambito politico, nei servizi sociali e sanitari. Ma per trasmettere anche il loro alone di valorosa e scrupolosa prosaicità dovrei aggiungere che le loro erano “opere buone”. Se vi andasse di dare un'occhiata alla storia di queste organizzazioni, vi scoprireste un dichiarato e talvolta polemico passato femminista. Nei nostri anni Cinquanta e Sessanta, ci sembravano come quelle pie donne vittoriane che mai avremmo voluto essere. La società accolse le donne che lottavano per i loro diritti con scherno, con disprezzo e con una repressione mascherata da tolleranza. Quando un senatore della Virginia aggiunse alla legge sul

Diritto di voto del 1964 una clausola che proibiva la discriminazione sessuale, i progressisti si infuriarono.

Lo accusarono

(noi lo

accusammo) di essere un manipolatore razzista perché sapevano che molti senatori avrebbero respinto qualunque legge che contenesse un provvedimento del genere. E lo condannarono (noi lo

condannammo) pubblicamente per aver messo in ridicolo la proposta di legge, giacché i diritti delle donne non erano nulla rispetto a quelli dei Negri. Oggi le contraddizioni implicite in quel ragionamento sono ovvie, ma allora non ci facevamo caso, né ci importava.

251 Ben poche (o forse nessuna) delle ragazze della mia età e ben poche delle nostre madri e nonne si accorsero che ci eravamo fatte nuovamente intrappolare nella sporca e feroce diatriba ottocentesca sul Quindicesimo emendamento, una diatriba che sarebbe presto diventata una battaglia tardo novecentesca altrettanto sporca e feroce sull'importanza, rispettivamente, dei diritti dei neri (dominata dagli uomini) e dei diritti delle donne (dominata dalle bianche). Di qualunque razza fossero, le ragazze della mia generazione che potevano contare su una sicurezza sia economica sia culturale pen-

savano

che certi diritti fossero scontati.

erano... privilegi,

e cambiavano

Però non

erano

diritti,

in base alla tua famiglia e al tuo

ambiente. Nel mio mondo i privilegi comportavano una buona istruzione e una cultura completa che avrebbero arricchito il tuo buon gusto e il tuo fascino. Dovevi essere unica e fuori dal comune. Non dovevi essere distruttiva. Dovevi rispecchiare al meglio l'ordinamento del tuo mondo, la sua divisione di genere. L'istruzione e la raffinatezza avrebbero accentuato, e auspicabilmente garantito, la tua capacità di attrarre i ragazzi e gli uomini più idonei. E questo si sarebbe tradotto in sicurezza economica e status sociale. Ma le madri Negre non la smettevano di raccomandare alle figlie di “costruirsi una carriera su cui poter sempre contare” perché la sicurezza economica dei padri e dei mariti Negri di-

ventava sempre meno sicura. E se le tue ambizioni di carriera superavano quel qualcosa "su cui poter sempre contare”, non dovevano mai perdere di vista il più classico dei destini femminili. Tutte le professioniste che conoscevo erano mogli e la gran parte di loro anche madri. Facevano eccezione alcune insegnanti, ma se volevano evitare il dileggio degli studenti — “zitella”, “lesbica!” — avrebbero fatto bene a mantenersi giovani e carine. Anche che

più grande che stava fuori, le donne famose non smettevano di ricordarci che dovevamo

nel mondo

ammiravamo

252 amarlo, quel destino femminile. Lo facevano soprattutto quelle più artistiche e alla moda. Non solo con i film e le commedie in cui recitavano o nelle canzoni che interpretavano,

ma anche con le

continue dichiarazioni rilasciate a quotidiani, riviste e reporter te-

levisivi. Intervista dopo intervista, le donne famose ostentavano le loro famiglie o il loro sogno di farsi una famiglia. Sì, il successo

era bello, anche eccitante — dicevano, oppure ci veniva riportato che avevano detto — e tuttavia nulla era importante quanto i loro bambini o i bambini che contavano di avere. A cosa serviva il successo — si chiedevano — senza un uomo da amare e dal quale fare ritorno la sera? E quando non avevano figli ed era evidente che non ne avrebbero avuti, beh, quello diventava il rimpianto più grande di tutta la loro esistenza. Il compromesso sociale funzionava così: le poche donne che conquistavano la vetta e un certo grado di potere, erano obbligate a sbandierare la loro lealtà allo status quo. Senza dubbio molte di loro ci credevano davvero. Senza dubbio molte ritenevano di doverci credere e provavano sinceramente a crederci. E senza dubbio tutte sapevano benissimo che era necessario, anzi essenziale alla propria immagine pubblica. Era un segreto,

monotoni

ma

il matrimonio

(e adesso sappiamo

e la maternità

a me

che altre ragazze come

parevano

me o diverse

da me la pensavano allo stesso modo). Mi parevano tetri, raccapriccianti, forieri di malinconia. Perché, parliamoci chiaro, qualunque fosse la tua razza o la tua etnia, sapevi che se le tue qualità femminili non erano all’altezza, la tua intelligenza/istruzione/ta-

lento sarebbero diventati un difetto, la prova lampante che le tue proporzioni erano sballate, che eri o eccessiva o scarsa. Lavora. Distinguiti. Ma impara anche a flirtare, a punzecchiare, a uscire con i ragazzi. Puoi fare pratica con uno qualunque di loro. Non eravamo delle sciocche. Fin dalle superiori le ragazze che non gradivano il rito dell’appuntamento romantico, né quello che presupponeva, avevano pochi modi per opporvisi. Purtroppo non

253

riuscivamo a considerarli come parte di un sistema più grande, di una struttura, di una realtà politica. Capimmo tutto solo dopo che il movimento delle donne si impossessò di noi (di me), nel 1969 e negli anni Settanta, illuminando retrospettivamente tutto quello che avevamo fatto e non fatto. Quando ero piccola, ero convinta che il mio piccolo mondo popolato di madri e di figlie avesse tutto quello che si poteva desiderare. Ma ovviamente c'erano strettoie e divieti, collocati nei punti giusti e pronti a fare il loro dovere. "Odio tutti i ragazzi e odio soprattutto—” (chiunque ti avesse sconfitta in una gara qualunque), ti lamentavi con le amiche di tua madre; poi restavi lì, sentendoti una sciocca, mentre loro si scambiavano occhiate e alla fine rispondevano con un consolante: "Vedrai che passa presto”. Forse la disuguaglianza iniziava nelle competizioni sportive. Non ero un maschiaccio. Ma non mi andava che i ragazzini pensassero che non fossimo capaci di sconfiggerli negli sport così come ci riusciva negli altri settori. E quando la pubertà ci bombardò di gonadotropine, le poche ragazze che avevano sempre giocato a calcio e a baseball con i ragazzi, e che talvolta li avevano battuti, furono escluse. Escluse dai ragazzi e guardate dall'alto in basso da quelle ragazze che deridevano gli sport e con le quali avrebbero dovuto stringere amicizia.

Per me la cosa peggiore fu il tentativo di padroneggiare gli effetti speciali dei rapporti ragazzo-ragazza. suggerire, poi dichiarare,

Erano snervanti. Devi prima

confessare e prevaricare,

tenerti stretto

il potere e al contempo cedere il controllo. Tutto questo mentre provi a difendere un vago rispetto di te stessa. Era una cosa da pazzi, questo modo

di fingersi una superficiale,

di apparire più

svampita del dovuto. Ero convinta che mia sorella avesse una forza di volontà senza pari. Ma quando c'era un ragazzo nei paraggi la sua voce diventava più acuta e melodiosa, e lei diventava arrendevole. Una volta sparito il ragazzo, le bastava un attimo e ritornava

254

padrona di sé. Nonché la mia migliore amica: vispa e con la lingua affilata. “Come faccio a sapere quello che penso se non so quello che pensa lui?” scrisse sul suo diario al liceo, dopo un appuntamento romantico con un ragazzo gentile, carino e perbene. Anni dopo il fatto di non avere avuto alcun pensiero a riguardo la lasciò basita.

Poipoipoipoi... aleggia o si impone, ti scuote e ti sfibra: è l'eterno problema della Donna Negra. La sua storia di lotta, di degradazione,

di trionfo. La sua esclusione dalle gratificazioni della femminilità borghese. La sua missione difortificare la famiglia Negra. Non è il tipo di storia che una ha voglia di trascinarsi dietro nel corso della propria vita sociale. Non è certo una storia cui restare legata durante la rivoluzione sessuale. Non è certo una storia che vorresti vedere puntualmente analizzata da sociologi bianchi o da rivoluzionari del Black Power, convinti che i difetti della Donna

Nera siano prati-

camente simili a quelli della Donna Negra: bellicosa, egocentrica, sessualmente

repressa se non

castrante.

La soluzione: Cara Donna Nera, devi scendere a patti, sottometterti e migliorare il tuo carattere! Florynce Kennedy è stata la prima femminista nera che ho visto manifestare in pubblico. Un avvocato, una contestatrice, un'organizzatrice, nata nel 1916, lo stesso anno di mia madre, e quattro anni prima che le donne di qualunque colore ottenessero il voto. Aveva la lingua biforcuta e il cappello da cowboy, pantaloni di pelle e di camoscio (possibile che indossasse i cosciali o è la mia immaginazione?), orecchini pendenti e una quantità di collane (alcune con i simboli dei diritti delle donne, alcune con pietre luccicanti e piume). Era alta e incredibilmente presuntuosa. Si insinuava e faceva carriera in ogni movimento che contasse qualcosa: diritti civili, pacifista, Black Power, femminista,

diritti dei gay. Non deviò

mai dai suoi princìpi. I suoi stratagemmi restarono sempre validi. Non faceva altro che ripetere cose come:

255

Quando le donne nere mi dicono che ilfemminismo è una cosa da donne bianche io rispondo: avete passato anni, secoli, ad andare dietro a qualunque idea balorda che sia stata partorita dalle donne bianche — sui capelli, sul trucco, sui vestiti, sui doveri

nei riguardi dei loro uomini. E adesso chefinalmente si sono fatte venire in mente una buona idea — ilfemminismo — decidete che non ne volete sapere nulla! I diritti civili. La nuova sinistra. Il Black Power. Il femminismo, I diritti dei gay. Una generazione che abbia attraversato tanti sconvolgimenti è stata benedetta. Di conseguenza non cadrò nell'errore di valutare quale sia il più importante: la razza, il genere o la classe sociale. Sono gli elementi che si trovano alla base della nostra vita. Sono indispensabili come gli attrezzi e i vestiti. Li usiamo di continuo. Hanno bisogno di manutenzione

e aggiornamento

continui.

Sono indispensabili come

il corpo e il respiro, la giustizia e la ragione, la passione e l’imma-

ginazione. Pertanto la questione non è: "Qual è più importante?”, bensì: “In che modo diventano importanti?”. Genere, razza, classe. Classe, razza, genere... uno e trino, trino e uno. In America essere l'Altro ti insegna a immaginare ciò che non può essere immaginato di te. È la prima cosa che impari. Poi viene la seconda. Chiamala pure la tua trasformazione sociale e intellettuale. Il mondo

che sta fuori di te viene riconfigurato, e anche quello interno. Gli schemi si spezzano e cambiano strada. Le gerarchie si dissolvono. Adesso puoi immaginarti al centro. È splendido. Ma non devi fermarti qui. Devi fare in modo che il tuo io si spinga verso altre storie e altre verità.

Ognuna di loro cambia, anche ora mentre scrivo. Non mi far finire con questa sequenza ritmata di concetti astratti. Alla fine quello che conta è: Il mio carattere e il mio comportamento riescono o no a tenere il mondo a debita distanza? Sono

riuscita ad avere una vita adatta a quello che sono? La vita di un’adulta prende forma lentamente. Tu (io) sei una scrittrice, una giornalista, una critica. Sei una donna cresciuta da

256

Negra e che in genere si definisce nera (afroamericana lo riservo per le situazioni formali). Dal punto di vista genealogico, sei di origine africana, irlandese e indiana.

Sei una donna non sufficienti esperienze tempo. Non hai figli e romantiche non sono menzognera

sposata e intendi rimanere tale. Hai avuto sessuali per capire che appartieni al tuo non li hai mai desiderati. Le lunghe passioni roba per te. La spiegazione che ti dai (non

eppure insufficiente) è che ti sei lasciata influenzare

da così tante convenzioni, aspettative ed esigenze (delle istituzioni, della gente), da una tale paura di essere disapprovata che la disciplina della solitudine — di una severa solitudine — è stata un'esigenza che alla fine ti ha regalato la sensazione di avere un io indipendente. Sei più adatta ai rapporti d'amicizia, perché la coreografia dell'amicizia richiede partner diversi, gruppi variegati e duetti sor-

prendentemente prolungati. “La psiche umana è patetica” dico sempre — anzi dichiaro — al mio psicofarmacologo.

“Ma è tutto quello che abbiamo, signora Jefferson” risponde lui. “E tutto quello che abbiamo”. E quel che ho è anche quello che porto ogni settimana dal mio psicoterapeuta. Quello che ho è quello che abbiamo costruito insieme, contribuendo ognuno con quello che sa fare meglio.

Ci sono giorni in cui mi viene ancora voglia di demolire questo io che mi sono costruita. Ti è venuto troppo male, rifletto. Ci hai perso troppo tempo. Mai poi mi dico: E allora? E allora?

Va’ avanti.

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Ringraziamenti

Questo libro non sarebbe mai venuto alla luce senza un’affettuosa famiglia di amiche che mi ha incoraggiato a scrivere, riflettere e perseverare:

Lynn Jones Barbour, Alexandra Chasin, Susan Dickler, Ann Douglas, Wendy Gimbel, Sophia Hall, Anthony Heilbut, Laura Karp, Adrienne Kennedy, Jo Lang, Betty Shamieh, Betty Ann Solinger, Laurie Stone

e Wendy Walters. Ringrazio soprattutto Elizabeth Kendall, prima lettrice impeccabile,

e Charlotte Carter, prima redattrice impeccabile.

Alcune sezioni di questo volume sono già apparse, seppure in una forma diversa, su “Bookforum”, “more”, “The Believer”, “Guernica” e incluse in The Inevitable: Contemporary Writers Confront Death (Norton) e What My Mother

Gave Me: Thirty-one Women on the Gifts That Mattered Most (Algonquin). Ne approfitto per ringraziare tutti i direttori e curatori.

Sono stata generosamente sostenuta da una borsa elargita dalla John Simon Guggenheim Memorial Foundation, e stimolata dalla vicinanza di amici

e colleghi della Columbia University, in particolare da Philip Lopate, protettore del saggio letterario in ogni sua forma. Molti amici della mia famiglia a Chicago non ci sono più. Brindo ai loro amabili fantasmi e onoro i viventi, in particolare Sue Barnett

Ish, Wyonella Smith, i Northeasterners e i membri del Birthday Club. Ringrazio la St. Edmund's Episcopal Church e il suo rettore, Richard L. Tolliver, i baluardi dei miei genitori. Esprimo i miei più sentiti ringraziamenti anche a padre David Stanford e a Cheryl A. Harris per la generosità mostrata nei riguardi di mia madre durante i suoi ultimi

anni di vita. Mary Willis e Jacqueline Blakely sono state essenziali per aver garantito il suo benessere e il mio. Il ricordo della vostra generosità

resterà sempre con me. È stato un piacere e un onore tornare a lavorare con Erroll McDonald, il mio editor presso Pantheon Books, e con la mia agente, Sarah Chalfant. Ringrazio Ellen Feldman, la mia scrupolosissima segretaria di redazione,

Nicholas Latimer, il mio esuberante fotografo, Josie Kals, la cui attenzione non è mai venuta meno, e tutto il resto di Pantheon. Il progetto grafico della copertina, firmato da Oliver Munday, è perfetto. Esprimo infine tutta la mia più affettuosa gratitudine a mia nipote,

Francesca Harper, che ha accettato di condividere con me i suoi ricordi, il suo senso dell'umorismo, le sue fotografie e la compagnia di suo marito, Eric Cohen, e della loro bambina:

Harper Io Denise Cohen.

Note

p. 18 “di vedere la mia razza che esce dal pantano dell'ignoranza”, Frances Jackson Coppin citata in We Are Your Sisters: Black Women in the Nineteenth Century, a c. di Dorothy Sterling (New York, W. W. Norton, 1984), p. 205. p. 19 “talenti più frivoli”, Joseph Willson, The Elite of Our People: Joseph Willson's Sketches

ofBlack Upper- Class Life in Antebellum Philadelphia, a c. di Julie Winch (State College, Pennsylvania State University Press, 2000), p. 89. p. 20 “Avete letto come un uomo”, Frederick Douglass, The Narrative and Selected Writings, a c. di Michael Meyer (Modern Library College Edmons, New York,

1983), p. 75. Edizione italiana: Memorie di uno schiavo fuggiasco (184.5), trad. di Bruno Maffi, Manifestolibri, Roma, 1992, p. 96. . 20 “per il riguardo e la cura dimostrate”, Willson, The Elite of Our People, cit..,

ucof . . . .

20 22 22 22

“adeguate suppellettili e mobilio per la cucina”, ibid., p. 54. “susciterà senza dubbio l’ilarità”, ibid., p. 79. “Un mondo vittima di pregiudizi” ibid., p. 97. “quella porzione della società di colore”, ibid., p. 87.

. 23 "Il meccanismo

dell'orologio”, ibid., p. 88.

. 24 “così come fanno i corteggiatori”, ibid., p. 103. ic . 24 lac) noft Aaei nc o] l'o [so

"Però, dopo aver ricevuto un numero”, ibid., pp 48-49.

p. 25 ‘Fred. Douglass e i suoi validi compatrioti”, Cyprian Clamorgan, The Colored Aristocracy of St. Louis, a c. di Julie Winch (University of Missouri Press,

Columbia,1999), pp 45-46. p. 25 “barbitonsore”, ibid., p. 52. p. 26 "è separato dai bianchi”, ibid., p. 45. p. 26 “Qualora il lettore volesse seguirmi”, ibid., p. 48.

26 "La signora Rutgers è analfabeta”, ibid., P. 49. 26 “e quando è in vena è capace di fare anche centomila dollari”, ibid., p. SI.

26 "Una speculazione niente male”, ibid., p. 55. 27 "è un brav'uomo”, ibid., p. 60. 27 “È indubbio che siano entrambi dispiaciuti”, ibid., pp 60-61. 27 “La malridotta”, ibid., p. 60. 27 “può disporre liberamente della somma di centomila dollari”, ibid., p- 59. 27 "sorprenderebbero molti dei nostri amici bianchi”, ibid., p. 63. 27 “il risultato dell’azione solidale e combinata”, ibid., p. 47.

31 “Sul pontile c'era un gruppo assai eterogeneo”, Charlotte Forten Grimké, DPF TheJournals of Charlotte Forten Grimké, a c. di Brenda Stevenson, Schomburg Library of Nineteenth-Century Black Women Writers (Oxford University Press,

New York, 1988), pp 388-89.

p- 31 "Mi stupisce che le persone di colore”, ibid., p. I40. p- 32 “Pregherò affinché Dio”, ibid., p. 376. p- 32 "colmo di uno spirito urlante”, ibid., p. 402. p- 32 "Queste persone sono dotate di un grande talento musicale”, Charlotte Forten citata in We Are Your Sisters, cit., pp 281, 510. p- 33 “alla più nobile delle ricompense”, ibid., p. 284. p- 35 promuovere i rapporti sociali”, Willson, The Elite ofOur People, cit., p. 68. p- 37 “per qualunque crimine”, Ida B. Wells-Barnett, The Red Record:

Tabulated Statistics and Alleged Causes of Lynching in the United States (Guttenberg eBook, 2005), cap. I.

p- 37 "L'uomo bianco sudista ritiene”, loc.cit. p. 38 "legata a quella di qualunque sofferenza”, Anna Julia Cooper, A Voice from the South, Schomburg Library of Nineteenth-Century Black Women Writers (New York, Oxford University Press, 1988), p. 122. p- 39 "Davanti a noi si spalancano”, ibid., pp 143-44. p- 39 "le donne semplici, tra le analfabete”, Mary Church Terrell citata nell’introduzione di Mary Helen Washington, introduzione a Cooper,

A Voice from the South, p. 00x.

p.- 40 "Quanti uomini e quante donne”, W.E.B. Du Bois citato in David Levering Lewis, W.E.B. Du Bois: Biography ofaRace, 1868-1919 (Henry Holt,

New York, 1993), p. 288.

p. 40 "l’unico libro sudista”,

Henry James

citato in D.L. Lewis, W.E.B. Du Bois:

Biography ofaRace, 1868-1919, cit., p. 277. p. 41 "la disponibilità a fare sacrifici”, W.E.B. Du Bois, “The Talented Tenth

Memorial Address”, Boulé Journal (1948), in W. E.B. Du Bois: A Reader,

a c. di David Levering Lewis (New York, Henry Holt, 1995), p. 350. p- 41 “un gruppo di individui ricchi”, ibid., p. 349. p. 42 “lotta patologica per raggiungere uno status”, E. Franklin Frazier,

Black Bourgeoisie (Free Press, New York, 1997), p. 212. p- 42 “si direbbe che i Negri della classe media”, ibid., p. I. p- 43 "Ci ho vissuto per più di ottant'anni”, Gerri Major con Doris Saunders, Black Society (Johnson Publishing, Chicago,1976), p. vii. p- 43 “scuole e quartieri ‘esclusivi’ e ‘prestigiosi’, Lawrence Otis Graham,

Our Kind of People: Inside America's Black Upper Class (Harper Perennial,

New York, 2000). p- 45 “Tutti gli ufficiali Negri dell'artiglieria da campo” Major Welton I. Taylor with KarynJ. Taylor, Two Steps from Glory: A World War II Liaison Pilot Confronts

Jim Crow and the Enemy in the South Pacific (Winning Strategy Press, 2012), p. 45. p- 51 “L'umorismo è ridere di ciò di cui non hai riso”: Langston Hughes, "A Note on Humor”, da The Book ofNegro Humor, in The Collected Works ofLangston Hughes: Essays on Art, Race, Politics, and World Affairs, a c. di Christopher C. De Santis

(University of Missouri Press, Columbia, 2002), p. 525p- 70 “You've got to be taught to be afraid”, Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II, “You've Got to Be Carefully Taught”, South Pacific (1949). p- 73 “Blow out the candle”, Phil Moore, Blow Out the Candle. p- 74 "While tearing off a game of golf", Cole Porter, My Heart Belongs to Daddy. p- 75 "I'm here to tell you”, Clyde Lovern Otis e Murray Stein, Smooth Operator (Mercy Mister Percy). p. 81 “Sherman Billingsley cooks for me”, June Carroll e Arthur Siegel, “Monotonous”, New Faces of1952.

p. 86 "Al centro dell’attenzione dell’insegnante”, John Dewey, The School and Society, citato in William Harms e Ida DePencier, 100 Years of Learning at The University of Chicago Laboratory Schools (1996), www.ucls.uchicago.edu/aboutlab/current-publications/history/index/aspx. p. 90 "La questione del futuro dei bambini”, James Weldon Johnson, Along This Way (Penguin, New York, 1990), p. 56.

p. 92 "Le mille offese dei Caucasici”, Edgar Allan Poe, “The Cask of Amontillado”; con modifiche al testo di Margo Jefferson. Edizione italiana: “La botte di Ammontillado”, in I racconti di Edgar Allan Poe, trad. di Giorgio Manganelli, Einaudi, Torino, 1983, p. 937. p. 98 “Non si ripara un torto”, loc. cit.

p. 108 “E cuci! e cuci! e cuci!”, Thomas Hood, “Song of the Shirt”, in Adventures in English Literature, a c. R. B. Inglis et al. (W.J. Gage, Toronto, 1952), pp 436-37. Edizione italiana: L. Mascetta-Caracci, Il Canto del lavoro femminile e il "Canto della Camicia”, Luigi Pierro e Figlo, Napoli, 1909, p. 48. p. 108 "Si ferma a singhiozzar da maledetti”, Edward Lear, “How Pleasant

to Know Mr. Lear”, citato in John Lehmann, Edward Lear and His World (New York, Scribner's, 1977), p. 116. Edizione italiana, “Autoritratto del laureato del nonsense”, in Senza senso, trad. e cura di Carla Muschio, Stampa Alternativa, 2005, pp 21-24. p. 109 "Well, son, I'll tell you”, Langston Hughes, "Mother to Son”, in The Collected Poems of Langston Hughes, a c. di Arnold Rampersad (Alfred A. Knopf, New York, 1994), p. 30. Edizione italiana citata in nota: Langston Hughes, “La madre al figlio”, in Poesie, a c. di Stefania Piccinato, Lerici, 1968.

p- 128 "Il segnale segreto”, Virginia Woolf, Mrs. Dalloway (New York, Harcourt,

1981), p. 88. Edizione italiana: Virginia Woolf, La signora Dalloway, trad. di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano,1993, p. 79. p- 131 "Grassi esemplari neri”, Vachel Lindsay, “The Congo”, in American Poetry:

Twentieth Century, vol. 1 (New York, Library of America, 2000), pp 215-77. Edizione italiana: Nicholas Vachel Lindsay, Congo e altri poemi, trad. di Paola

Roberta Berizzi, Thauma Edizioni, 2014, p. 7. p- 132 “Mumbo-Jumbo””,

ibid., p. 280. Ed. it, ibid., p. II.

p- 133 “sum, uccidi i bianchi”, ibid., p. 276. Ed. it., ibid., p. 8.

p- 133 “tutti si pentirono”, ibid., p. 278. Ed. it.., ibid., p. 10. p- 149 “Gr-r-r—eccolo”, Robert Browning, "Soliloquy of the Spanish Cloister”, in Victorian Verse, a c. di George MacBeth (Penguin, New York, 1969), pp102-4. p- 159 "La storia dei Negri in America”, James Baldwin, Notes ofa Native Son, in Baldwin: Collected Essays, a c. di Toni Morrison (New York, Library of America, 1998), p. 19. Edizione italiana: James Baldwin, “A migliaia sono scomparsi”, in Appunti americani (1955), trad. di Anna Hilbe, Le Lettere, Firenze, 2007, p. 31. Qui e in altri punti modificata per esigenze del testo [NdT].

p- 159 "Uno potrebbe dire che in America”, loc. cit. Ed. it., ibid., pp 31-32. p. 160 “I modi in cui il Negro ha inciso”, loc. cit. Ed. it., ibid., p. 3I. p. 160 “Non possiamo chiederci”, loc. cit.

p- 161 "Questo mondo non è più bianco”, ibid., p. 129. Edizione italiana: James Baldwin, "Un estraneo nel villaggio”, in Appunti americani, cit., p. 160.

p- 161 “La capanna dello zio Tom è un romanzo molto brutto [-.&] in comune con Piccole donne”, ibid., pp 11-12. Edizione italiana:

“Il romanzo di protesta a uso di tutti”, in Appunti americani, cit., p. 22. p- 163 “Dategli oro quanto basta”, William Shakespeare, La bisbetica domata, I,ii, vv. 76-80, in Teatro Completo di William Shakespeare, vol. I, Le commedie

eufuistiche (trad. di Masolino D'Amico), Mondadori, Milano, 1990, p. 7I. p. 188 “Oltre a quelli che tutti noi dobbiamo affrontare in giovane età”,

Johnson, Along This Way, cit., p. 56. p. 190 “Sono una donna nera”, Mari Evans, IAm a Black Woman

(Morrow, New York, 1970). p- 192 “carina ma banale”, Adrienne Kennedy, Funnyhouse ofaNegro, in The Adrienne

Kennedy Reader (University of Minnesota Press, Minneapolis, 2001), pp 14-15. p.-192 “Quella povera puttanella”, ibid., p. 25. p. 194 “'Ladra!’ ha scritto Sexton”, Anne Sexton, “Sylvia's Death”

in The Complete Poems (Mariner, New York, 1999), p. 126. p. 196 “You don't know what love is”, Don Raye e Gene de Paul, You Don't Know What Love Is. p.-196 “Io grido a te pietà”, John Keats, in The Poems ofJohn Keats,

a c. di H.W. Garrod (Oxford University Press, Oxford, 1958), p. 371. Edizione italiana: John Keats, Sonetto XVI, in Poesie, trad. di Mario Roffà,

Einaudi, Torino, 1983, p. 34, p. 196 “Every Day a Little Death”, Stephen Sondheim, “Every Day a Little Death”, da A Little Night Music, 1997. p.- 197 “Una sensazione di incalcolabili perdite”, Frances Anne Kemble, Journal ofa Residence on a Georgian Plantation in 1838-1839 (1863; Cambridge University Press, Cambridge, 2009), p. 122. p. 197 ‘Credo che questo diario sarà sconveniente”, Mary Boykin Chestnut, A Diary from Dixie, a c. di Ben Ames Williams (Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1980), puo p. 197 “Avrei voluto trovare un compromesso con il Fato”, Charlotte Brontè,

Villette (New York, Harper Colophon, 1972), 222. Edizione italiana: Villette, trad. di Simone Caltabellota, Fazi, Roma, 2013, pp XXX, 304. p. 198 “A volte vorrei cadere in un sonno”, Harriet A. Jacobs, Incidents in the Life ofa Slave Girl, a c. di Jean Fagan Yellin (Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1987), p. 238.

p. 198 “Tu sei tu”, Elizabeth Bishop, “The Country Mouse”, in The Collected Prose (Noonday Press, New York, 1993), p. 33.

p- 198 “La mia mano trasuda of the Poor”, in Selected Poems p-198 "[...] bùttati”, Jamaica New York, 2014), pp 91-92.

metodo”, Gwendolyn Brooks, “The Children (Harper & Row, New York, 1963), p- 53. Kincaid, See Now Then (Farrar, Straus and Giroux, Edizione italiana: Jamaica Kincaid, Vedi adesso ora, trad. di Silvia Pareschi, Adelphi, Milano, 2014, pp 87-88. p- 198 "Ho qualche storia da raccontare?”, Wendy Walters, “A Letter from the Hunted in Retrospect”, in Longer IWait, More You Love Me: Poems (Palm Press, Berkeley, Calif., 2009), p- 30. p.- 202 “Rachel Carson, ‘The Edge of the Sea’, in Lost Woods”, The Discovered

Wiiting of Rachel Carson, a c. di Linda Lear (Beacon Press, Boston,1998), p. 139. p. 204 "Se ma ci sarà una gentildonna di colore”, Charlotte Hawkins Brown citata in Charles W. Wadlington e Richard F. Knapp, Charlotte Hawkins Brown and Palmer Memorial Institute (University of North Carolina Press,

Chapel Hill, 1999), p. 16. p. 204 "Quali immagini scegliamo”, citata in Deborah Gray White,

Too Heavy a Load: Black Women in Defense of Themselves, 1894-1994 (W. W. Norton, New York, 1999), p. 74. p. 204 “Quando ricevete la paghetta”, Charlotte Hawkins Brown,

“Mammy”:

An Appeal to the Heart ofthe South; The Correct Thing To Do—To Say—To Wear (G. K.. Hall,

Boston, 1995), pp 5, IO, 33, 46, 77.

p.- 205 p. 205 . 206 .206

“Caro Amico”, ibid., p. 33. “da fare e da dire”, ibid., pp 37, IIO, 43, II4. "Quando vi capita di andare”, ibid., p. II9. “Ma evitate di farlo”, ibid., pp 95, 33-

206 “un animo calmo e tranquillo”, ibid., p. 106. 207 "'‘troppo disinvolti’ su un autobus o in treno”, ibid., p. 84. 207 “a modo suo”, ibid., p. VII. 208 "La nostra acconciatura”, ibid., p. 43. 209 "E io non e,

sono forse una donna?”,

Sojourner Truth, discorso

alla Women's Rights Convention, Akron, Ohio, 28-29 maggio 1851. p- 227 "Brutto guaio essere poveri’”, Louisa May Alcott, Little Women,

in Alcott: Little Women, Little Men, JosBoys, a c. di Elaine Showalter (Library New York, 2005), p- 7. Edizione italiana, Louisa May Alcott, I Quattro libri delle piccolo donne, trad. di Luca Lamberti, Einaudi, Torino, 2006, of America,

p- 3. (Qui e in altri punti modificata per esigenze del testo). p-. 228 "Tu, Josephine”, ibid., p. 9. Ed. it.., ibid., p. 5p. 228 "In quanto a te, Amy”, loc. cit. Ed. it., ibid., p. 6.

. 230 “Sto diventando una vecchia zitella”, ibid., p. 466. Ed. it., ibid., p. 491. . 230 “possiamo essere altrettanto felici”, loc. cit. . 230 “Mai ridere di una zitella”, ibid., pp 466-67. Ed. it., ibid., pp 490-1.

. 231 "segno particolare in viso”, ibid., p. 355. Ed. it., ibid., p. 381. . 232 “senza neanche pensare che quella fiammata”, ibid., p. 378. d. it., ibid., p.404. 232 “ma come fai a non provare compassione”, loc. cit. Ed. it., ibid., p. 405. . 232 “una distesa di ragazzini”, ibid., p. 509. Ed. it., ibid., p. 634. . 233 “Natale non sarà Natale”, ibid., p. 7. Ed. it., ibid., p. 3.

- 233 "Qui negli Stati Uniti”, ibid., p. 135. Ed. it.., ibid., p. 6. . 234 olo dr 9 DR eo

"Birds in their little nests”, ibid., p. 9.

p. 234 “Ma quando vi vedevo tutti così sani e forti”, ibid., p. 397. Ed..it., ibid., po422: p. 234 “Non se la sentiva di dire”, ibid., p. 398. Ed. it., ibid., p. 423 p. 236 “sbagliando la pronuncia”, ibid., p. 48. Ed. it., ibid., p. 48.

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oI1. Katia Metelizza, Il nuovo abbecedario russo 02. Raffaella R. Ferrè, Inutili fuochi 03. Caroline Lunoir, La mancanza di gusto

04. Sarah Braunstein, Il dolce sollievo della scomparsa 05. Riccardo Romani, Le cose brutte non esistono 06. Gabriele Romagnoli, L'Artista 07. Tupelo Hassman, Bambina mia

08. 09. 10. 11. 12. 13. 14.

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Io, Charlotte Rampling

19. Paul Lynch, Cielo rosso al mattino

20. Rose Tremain, Gustav Sonata 21. Benjamin Markovits, Esperimento americano

22. Margo Jefferson __ Negroland

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via Marcello Malpighi, 124, 00161 Roma www.66thand2nd.com FAcEBOOK 66thand2nd Editore — rwrrrer 66thand2nd IinstacraM 66thand2nd — [email protected] revisione di Michele Martino

DIRETTORE EDITORIALE Îsabella Ferretti

[email protected] cAPOREDATTORE Maria Eleonora Cucurnia repaTTORI Michele Martino, Paolo Valoppi

[email protected] urFicro stamPA Marco Scognamiglio

[email protected] COMMERCIALE Antonia Conti

[email protected] AMMINISTRAZIONE

Gabriella Riso

[email protected] ART DIRECTOR Silvana Amato

[email protected]

finito di stampare a Roma nell’ottobre 2017

dalla tipografia Futura Grafica srl su carta Fedrigoni Old Mill in copertina

e Fabriano Bioprima nell'interno entrambe queste carte hanno la certificazione esc

MARGO JEFFERSON è nata a Chicago nel 1947. Docente alla Columbia University, ha scritto

per anni di letteratura e teatro per “Newsweek”

e “The New York Times”, vincendo nel 1995 il Pulitzer per la critica. Nel 2006 ha pubblicato

On Michael Jackson, brillante saggio di analisi culturale incentrato sulla vita e la carriera del celebre cantante.

Con Negroland (2015) ha ricevuto il National Book Critics Circle Award e il premio The Bridge 2016.

progetto grafico Silvana Amato

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DONNE

traduzione di Sara Antonelli

Negroland “E troppo semplice, quando scriviamo di noi, indugiare sui brutti ricordi. Crogiolarsi nella nostra innocenza. Ammirare il nostro dolore”.

IssN 978-88-98970-91-9

16,00 euro