Museo del romanzo della Eterna 8870181693, 9788870181692


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Museo del romanzo della Eterna
 8870181693, 9788870181692

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Macedonio Fernández

Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello)

il melangolo

Risvolti di copertina Macedonio Fernández (Buenos Aires 1874-1952) è stato riconosciuto solo di recente maestro delle avanguardie e di coloro che in America Latina si occupano di letteratura fantastica e di indagine metafisica. Autore trasgressivo per eccellenza, con i suoi scritti, con le sue conversazioni e con la sua vita propone la disintegrazione delle lettere contemporanee: generi, autori, lettori. Poeta, romanziere, metafisico, umorista, Macedonio, che mai si preoccupò di raccogliere e ordinare i suoi scritti, pubblicò in vita i libri No todo es vigilia la de los ojos abiertos (1928), Papeles de Recienvenido (1929), Una novela que comienza (1941). Protagonista dell’«Ultraísmo», compagno di viaggio di Borges, Güiraldes, Marechal e dei migliori scrittori e artisti argentini della prima metà del secolo, fu collaboratore delle più importanti riviste e giornali dell’epoca. Solo a partire dagli anni ’70 la sua opera comincia a essere pubblicata e diffusa in Argentina e all’estero.

«Io in quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio. Io lo sentivo: Macedonio è la metafisica, è la letteratura. Chi lo ha preceduto può risplendere nella storia, ma non restano che abbozzi di Macedonio, versioni imperfette e anticipatrici. Non imitare questo canone sarebbe stata un’imperdonabile negligenza». Jorge Luis Borges

In copertina: foto di Franco Vimercati Progetto grafico: Christoph Radi

LECTURAE

Macedonio Fernández

Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello)

A cura di FABIO RODRIGUEZ AMAYA Con un saggio di JORGE LUIS BORGES

il melangolo

Titolo originale Museo de La novela de la Eterna (Primera novela buena) Traduzione di Giovanna Albio, Paola Argento, Martha Canfield, Fabio Rodriguez Amaya Per il saggio di J. L. Borges Titolo originale Macedonio Fernández Traduzione di Cesco Vian

Copyright © 1975, Ediciones Corregidor Copyright © 1992, il melangolo s.r.l. 16123 Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 Per il saggio di J. L. Borges Copyright © 1989 Maria Kodam y Emecé Editores, S.A., Barcelona ISBN 88-7018-169-3

MACEDONIO FERNANDEZ di Jorge Luis Borges

Non è stata ancora scritta la biografia di Macedonio Fernández, uomo che rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero. Macedonio Fernández nacque a Buenos Aires il 1° giugno del 1874 e nella stessa città morì il 10 febbraio del 1952. Seguì studi giuridici, litigò occasionalmente nei tribunali e agli inizi del secolo corrente fu segretario del tribunale federale a Posadas. Verso il 1897, insieme a Julio Molina y Vedia e ad Arturo Muscari, fondò nel Paraguay una colonia anarchica, che durò quanto durano di solito le utopie del genere. Verso il 1900 si sposò con Elena de Obieta, che gli diede diversi figli e della cui morte è patetico monumento una celebre elegia. L’amicizia era una delle passioni di Macedonio. Ricordo, fra i suoi amici, Leopoldo Lugones, José Ingenieros, Juan B. Justo, Marcelo del Mazo, Jorge Guillermo Borges, Santiago Dabove, Julio César Dabove, Enrique Fernández Latour, Eduardo Girondo. Negli ultimi giorni del 1960, seguendo i capricciosi andirivieni della memoria, cerco di fissare ciò che il tempo mi lascia delle care e misteriose immagini che furono, per me, Macedonio Fernández. Nel corso di una esistenza ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna mi impressionò come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’afferma7

zione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità. Posso imitare, non definire, quella sua voce piana, arrochita dal tabacco. Ricordo la vasta fronte, i capelli grigi e i baffi grigi, la corporatura breve e quasi volgare. Il corpo era in lui quasi un pretesto per lo spirito. Quelli che non l’hanno conosciuto, provino a ricordare i ritratti di Mark Twain o di Paul Valéry. La prima di coteste somiglianze lo avrebbe rallegrato, non però la seconda, giacché io sospetto che Valéry fosse per lui una specie di ciarlatano della scrupolosità. La sua simpatia per la cultura francese era abbastanza limitata; di Victor Hugo, che io ammiravo e ammiro, ricordo d’averlo udito dire: Piantala con quel gallego1 insopportabile. Il lettore se n’è andato e lui continua a parlare. La sera del famoso combattimento fra Carpentier e Dempsey ci disse: “Al primo cazzotto di Dempsey, il francesino sarà già in platea a chiedere che gli restituiscano il denaro perché lo spettacolo è stato brevissimo”. Gli spagnoli preferiva giudicarli attraverso Cervantes, che era uno dei suoi idoli, e non da Graciàn e da Góngora, che gli parevano due calamità. Io ho ereditato da mio padre l’amicizia e il culto di Macedonio Fernández. Rientrammo dall’Europa nel 1921, dopo un’assenza di molti anni. Da principio sentii molto la mancanza delle librerie di Ginevra e di un certo generoso stile orale di vita che avevo scoperto a Madrid; ma quella nostalgia finì quando conobbi — o recuperai — Macedonio. La mia ultima emozione in Europa fu il dialogo con il grande scrittore ebraico-spagnolo Rafael Cansinos-Asséns, nel quale stavano tutte le lingue e tutte le letterature come se egli stesso fosse stato l’Europa e tutto il patrimonio europeo. In Macedonio trovai altra cosa. Era come se Adamo, il primo degli uomini, pensasse e risolvesse nel paradiso terrestre i problemi fondamentali. Cansinos era la somma del tempo, Macedonio la giovane eternità. L’erudizione gli 1. Gallego (galiziano) è il nomignolo piuttosto dispregiativo che gli argentini danno di solito agli spagnoli.

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sembrava una cosa vana, un modo vistoso di non pensare. In un cortile interno di via Sarandi ci disse una sera che se egli avesse potuto andare in campagna, sdraiarsi per terra a mezzogiorno, chiudere gli occhi e pensare dimenticando tutte le circostanze che ci distraggono, avrebbe potuto risolvere immediatamente l’enigma dell’universo. Non so se tale felicità gli venne concessa, ma sono sicuro che la intravvide. Qualche anno dopo la sua morte, lessi che in certi monasteri buddisti il maestro suole ravvivare il fuoco gettandovi qualche immagine sacra, o destinare a usi immondi i libri canonici, per insegnare ai discepoli che la lettera uccide e lo spirito vivifica; pensai che questa curiosa notizia poteva rientrare negli abiti mentali di Macedonio, ma che egli si sarebbe seccato, se gliel’avessi comunicata, dato il suo carattere esotico. Ai fedeli del buddismo Zen non fa piacere che gli si parli delle origini storiche della loro stessa dottrina; similmente a Macedonio sarebbe spiaciuto che gli parlassero di una pratica circostanziale e non della verità intima, che sta ora e qui, a Buenos Aires. L’essenza onirica dell’Essere era uno dei temi preferiti di Macedonio; ma quando io osai riferirgli che un cinese aveva sognato di essere una farfalla e, una volta risvegliatosi, non sapeva se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla oppure una farfalla che sognava ora di essere un uomo, Macedonio non si riconobbe in quell’antico specchio e si limitò a domandarmi la data del testo che gli citavo. Gli parlai del quinto secolo prima dell’èra cristiana, ed egli osservò rispondendomi che da quell’epoca lontana la lingua cinese era talmente cambiata che fra tutte le parole del racconto soltanto la parola farfalla conservava probabilmente un significato sicuro. L’attività mentale di Macedonio era incessante e rapida, sebbene la traduzione in parole ne fosse lenta; né le confutazioni né le approvazioni degli altri lo interessavano. Continuava imperturbabile a sviluppare la sua idea. Ricordo che una volta attribuì non so quale opinione a Cervantes; un imprudente gli replicò che nel capitolo tale del Chisciotte si legge precisamente il contrario; Macedonio non batté ciglio davanti a quell’insignificante ostacolo e 9

disse: “Sarà, ma codesto Cervantes lo scrisse per far bella figura col comissario”. Mio cugino Guillermo Juan, che studiava alla Scuola Navale di Rio Santiago, andò a far visita a Macedonio, e questi osservò che in quella scuola, frequentata da tanti provinciali, certamente dovevano suonare spesso la chitarra. Mio cugino rispose che egli si trovava da molti mesi in quell’istituto ma non aveva mai conosciuto qualcuno che la suonasse. Macedonio accettò la replica negativa come se fosse un assenso, e con il tono di chi ha appena ricevuto una conferma delle proprie opinioni, mi disse: “Lo vedi? Si tratta di un centro chitarristico importante!”. L’indolenza ci induce a presupporre che gli altri siano fatti a immagine nostra; Macedonio Fernández commetteva il generoso errore di attribuire la sua intelligenza a tutti gli uomini. E l’attribuiva in primo luogo agli argentini, che ovviamente rappresentavano la maggioranza dei suoi interlocutori. Mia madre lo accusò una volta di essere fautore, o di esserlo stato, di tutti i diversi e successivi presidenti della repubblica. Nello spazio di appena un giorno passò, in effetti, dal culto di Yrigoyen a quello di Uriburu; ma queste vicissitudini nascevano dalla sua convinzione che Buenos Aires non può sbagliare. Ammirava — ovviamente senza averli letti — Josué Quesada o Enrique Larreta,1 per l’unica e sufficiente ragione che tutti li ammiravano. Cotesta superstizione dell’argentinità lo indusse a opinare che Unamuno e gli altri spagnoli si erano dedicati a pensare, e molte volte a pensar bene, perché sapevano che li avrebbero letti a Buenos Aires. Era amico personale di Lugones, del quale aveva anche molta stima in sede letteraria, ma una volta incorse nella stravaganza di scrivere un articolo in cui manifestava il suo stupore davanti al fatto che Lugones, a dispetto delle sue molte letture e del suo indiscutibile talento, non si fosse 1. Scrittore ultrapopolare il primo, raffinato e "modernista" il secondo (1875-1961).

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mai dedicato a scrivere. “Perché non ci dà un verso?” si domandava. Macedonio possedeva in grado eminente le arti dell’inazione e della solitudine. La vita pastorale in un territorio quasi disabitato aveva insegnato a noi argentini la consuetudine dello star soli senza tedio; la televisione, il telefono e — perché non dirlo? — la lettura sono colpevoli di averci fatto perdere quella preziosa capacità. Macedonio era capace di restar solo, senza far nulla, per lo spazio di molte ore. Un libro troppo famoso parla dell’uomo che sta solo e aspetta1; Macedonio stava solo e non aspettava nulla, abbandonandosi docilmente al dolce trascorrere del tempo. Aveva allenato i suoi sensi all’impermeabilità nei riguardi delle cose sgradevoli e alla amorosa dilettazione in qualsiasi altra piacevolezza: l’aroma del tabacco inglese, di un mate curado o di un libro — Il mondo come volontà e rappresentazione, ricordo — rilegato in “pasta spagnola”. Il caso lo portava in stanze modeste, senza finestre o con finestre affacciantisi a un angusto cortiletto interno, in pensioncine dell’Once o del quartiere dei Tribunali; io aprivo la porta ed ecco, Macedonio stava lì, seduto sul letto o su una sedia dallo schienale diritto. Mi dava l’impressione di essere stato fermo immobile per ore, insensibile all’odor di chiuso, e un po’ smorto, della stanzetta. Non ho mai conosciuto un uomo più freddoloso. Soleva coprirsi con un asciugamani che gli ricadeva sul petto e dietro le spalle, un po’ come un arabo; una piccola tuba da vetturino o un cappello di paglia nero potevano incoronare quella sagoma (i gauchos infagottati di certe litografie me la rievocano). Gli piaceva parlare della “attrazione termica”: cotesta attrazione consisteva, in pratica, in tre fiammiferi che egli accendeva contemporaneamente e avvicinava in forma di ventaglio al proprio ventre. La mano sinistra governava quell’effimero e minimo riscaldamento; la destra accentuava qualche ipotesi di carattere 1. L'uomo che sta solo e aspetta (1931), saggio famoso sulla "argentinità", di Raúl Scalabrini Ortiz (1898-1959).

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estetico o metafisico. Il timore di pericolose conseguenze di un brusco raffreddamento gli aveva consigliato la convenienza di dormire vestito durante l’inverno; il calore addizionale del letto non gli importava. Sosteneva che la barba, che garantisce una temperatura costante, è una protezione naturale contro il mal di denti. La dietetica e i dolci lo interessavano: una sera discusse lungamente circa le rispettive virtù e danni della meringa e del torrone; al termine di imparziali e scrupolose considerazioni teoriche, si pronunciò a favore dei dolci creoli e tirata fuori una polverosa valigia di sotto il letto, ne pescò dal fondo, tra manoscritti, erba mate e tabacco, certe cose irriconoscibili che non avevano più niente della meringa e del torrone e ce le offerse con insistenza. Aneddoti del genere corrono il rischio di sembrare ridicoli, e tali ci parvero a quei tempi, e li ripetevamo magari esagerandoli alquanto, ma senza che venisse meno con ciò la nostra reverenza. Non voglio che di Macedonio si perda nulla. Io che m’intrattengo ora a rievocare quei particolari assurdi, continuo a credere che quell’uomo fosse uno dei più straordinari che abbia conosciuto. Sicuramente lo stesso accadeva a Boswell con Samuel Johnson. Scrivere non era un’occupazione degna di Macedonio Fernández. Viveva (più che alcun’altra persona a me nota) per pensare. Quotidianamente si abbandonava alle vicende e alle sorprese del pensiero come un nuotatore alle acque di un grande fiume, e quella maniera di pensare che si chiama scrivere non gli costava nessuna fatica. Il suo pensiero era altrettanto vivido quanto la trascrizione del suo pensiero; nella solitudine della sua stanzetta come nell’agitazione di un caffè, tracciava pagine e pagine con la grafia profilata di un’epoca che ignorava la macchina per scrivere e per la quale una calligrafia nitida faceva parte delle buone maniere. Le sue lettere più accidentali non erano meno ingegnose e prodighe delle pagine destinate alla stampa, e forse le superavano in piacevolezza. Macedonio non attribuiva il minimo valore alla sua parola scritta; quando cambiava alloggio, non si portava via i manoscritti di indole metafisica o letteraria che si erano andati accumulando sul tavolino 12

riempivano i cassetti e gli armadi. Così molto andò perduto, forse irrevocabilmente. Ricordo di avergli rinfacciato quella noncuranza; mi rispose che supporre che possiamo perdere qualcosa è un atto di superbia, poiché la mente umana è così povera da essere condannata a trovare, perdere e riscoprire sempre le stesse cose. Un’altra causa della sua facilità letteraria era l’incorreggibile dispregio delle sonorità verbali e persino dell’eufonia. Non sono lettore di melodiuzze, affermò una volta; e le preoccupazioni prosodiche di Lugones o di Dario gli parevano del tutto vane. La poesia, affermava, sta nei caratteri, nelle idee o in una giustificazione estetica dell’universo; quanto a me, dopo tanti anni, io penso che sta essenzialmente nell’intonazione, in un certo respiro della frase. Macedonio cercava la musica nella musica, non nel linguaggio. Ciò non toglie che nei suoi testi — soprattutto nella sua prosa — non si possa percepire una musica involontaria che corrisponde alla cadenza personale della sua voce. Nel romanzo, Macedonio esigeva che tutti i personaggi fossero eticamente perfetti; il contrario di quel che sembra proporsi la nostra epoca, salvo l’unica e degnissima eccezione di Shaw, che ha immaginato e modellato eroi e santi. Di là dalla sorridente cortesia e dall’aria un po’ distante di Macedonio alitavano due timori: quello del dolore e quello della morte. L’ultimo lo indusse a negare l’io, affinché non ci fosse un io che moriva; il primo, a negare che il dolore fisico potesse essere intenso. Voleva persuadersi, e persuaderci, che l’organismo umano è incapace di un forte piacere, e per conseguenza di un forte dolore. Latour ed io gli udimmo asserire questa pittoresca metafora: “In un mondo in cui i piaceri sono da negozi di giocattoli, i dolori non possono essere da officina di fabbroferraio”. Inutile fu obiettargli che non sempre il piacere è da giocattoleria e che del resto il mondo non ha alcuna ragione di essere simmetrico. Per non affrontare le tenaglie del dentista, Macedonio soleva praticare il tenace artificio di ammosciarsi i denti: questa manipolazione avveniva dietro lo schermo della mano sinistra, 13

mentre la destra insisteva. Ignoro se questo lavoro di giorni e di anni fosse coronato dal successo. L’uomo che teme di dover affrontare un dolore cerca, con buon istinto, di non pensarci; Macedonio sosteneva al contrario che dobbiamo immaginarci previamente il dolore e tutte le circostanze di esso affinché non ce ne spaventi la realtà. Così s’immaginava la sala d’attesa, la porta che si apre, il saluto, la poltrona del gabinetto dentistico, gli strumenti, l’odore dei disinfettanti, l’acqua tiepida, le pressioni, le luci, la penetrazione dell’ago della siringa, lo strattone finale. Questa preparazione immaginativa doveva essere perfetta e non lasciare la minima possibilità all’inaspettato. Macedonio non la completò mai. Forse il metodo non fu nient’altro che un modo di esorcizzare le terribili immagini che lo ossessionavano. Il meccanismo della fama lo interessava, non il conseguimento di essa. Per un anno o due si baloccò con il vasto e vago progetto di diventare presidente della Repubblica. Molte persone si propongono di avere una rivendita di tabacchi, quasi nessuno di diventare presidente; da cotesto dato statistico deduceva che è più facile diventare presidente che padrone di una tabaccheria. Qualcuno di noi osservò che altrettanto lecito è dedurre che aprire una tabaccheria è più difficile che arrivare alla presidenza; Macedonio assentì con tutta serietà. La cosa indispensabile, ci ripeteva, è rendere noto il nome. Collaborare al supplemento letterario di qualcuno dei grandi giornali era facile, ma la rinomanza ottenuta in tal modo corre il rischio di essere altrettanto triviale quanto Julio Dantas1 o le sigarette marca “43”. Bisognava introdursi nell’immaginazione della gente in modi più sottili ed enigmatici. Macedonio scelse di sfruttare il suo curioso nome di battesimo; mia sorella e alcune amiche sue scrivevano il nome di Macedonio su pezzi di carta e bigliettini che poi astutamente dimenticavano nelle pasticcerie, sui tram, sui marciapiedi, nei vestiboli delle case nei 1. Scrittore portoghese (1878-1962).

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cinematografi. Altro trucco fu di rendersi gradito alle comunità straniere; con vagheggiante serietà, Macedonio ci riferiva d’aver lasciato nella sede del Club Tedesco un volume scompagnato di Schopenhauer con la sua firma e con note a matita. Da tali manovre più o meno fantasiose, la cui messa in atto non dovevamo accelerare perché si doveva procedere con la massima cautela, nacque l’idea di comporre un grande romanzo fantastico, ambientato a Buenos Aires, che cominciammo a scrivere tutti insieme. (Se non m’inganno, Julio César Dabove conserva ancora il manoscritto dei due primi capitoli; penso che avremmo anche potuto portarlo a termine, ma Macedonio andò ritardandolo perché a lui piaceva parlare delle cose, non farle.) L’opera s’intitolava L’uomo che sarà presidente; i personaggi erano gli amici di Macedonio e nell’ultima pagina si sarebbe rivelato al lettore che il libro era stato scritto dal protagonista, Macedonio Fernández, nonché dai fratelli Dabove, da Jorge Luis Borges, che si suicidò alla fine del capitolo nono, e da Carlos Pérez Ruiz che ebbe quella singolare avventura con l’arcobaleno, e via discorrendo. Nell’opera si intersecavano due trame: una, di superficie, le singolari macchinazioni di Macedonio per diventare presidente della Repubblica, l’altra, occulta, la cospirazione ordita da una setta di milionari nevrastenici, forse anche pazzi, per conseguire lo stesso fine. Costoro decidono di scalzare e minare la resistenza della gente mediante una serie graduale di invenzioni scomode. La prima (quella che ci suggerì il romanzo) era quella degli zuccheratori automatici che in realtà impedivano di zuccherare il caffè. Altre ne seguivano: la matita bipuntuta, che tendeva a pungere gli occhi degli scriventi; le ripide scale con gli scalini di altezza l’uno diversa dall’altro; il molto pubblicizzato pettine-rasoio atto a tagliare le dita; gli arnesi fabbricati con due nuovi e antagonici materiali, in modo che le cose grandi siano leggerissime e le piccole pesantissime, per farsi beffe dell’aspettativa comune; la moltiplicazione di periodi tipograficamente impasticciati nei romanzi gialli, la poesia enigmatica e la pittura dadaista o cubista. Nel primo capitolo, quasi interamente dedicato alle esitazioni e ai timori di 15

un giovane di provincia nei riguardi della dottrina della non esistenza dell’io, e pertanto del proprio non-esistere, appare un solo marchingegno, lo zuccheratore automatico. Nel secondo ne figurano due, ma sempre in modo marginale e fugace, essendo nostro proposito farli comparire in proporzione crescente. Volevamo altresì che a mano a mano che impazzivano i fatti, lo stile impazzisse pure; per il primo capitolo scegliemmo il tono colloquiale di Pio Baroja; l’ultimo avrebbe imitato le pagine più barocche di Quevedo. Alla fine il governo crolla, Macedonio e Fernández Latour entrano nella Casa Rosada, ma ormai non importa più nulla in quel mondo anarchico. È possibile che in cotesto romanzo incompiuto si riscontri qualche involontaria reminiscenza dell’Uomo che fu Giovedì. A Macedonio la letteratura importava meno che il pensiero e la pubblicazione meno che la letteratura, vale a dire quasi nulla. Milton o Mallarmé cercavano la giustificazione della propria esistenza nella composizione di un poema, forse di una pagina; Macedonio voleva comprendere l’universo e sapere chi era lui, o sapere se era qualcuno. Scrivere e pubblicare erano per lui azioni subalterne. Di là dall’incanto del suo dialogo e dalla pudica presenza della sua amicizia, Macedonio ci proponeva l’esempio di un modo intellettuale di vivere. Coloro che oggi si chiamano intellettuali non lo sono in verità, giacché fanno dell’intelligenza un mestiere o uno strumento per l’azione. Macedonio era un contemplativo puro, che qualche volta condiscendeva a scrivere e in qualche rara occasione a pubblicare. Per far rivivere Macedonio io non ho trovato mezzo migliore degli aneddoti, ma questi, quando sono memorabili, hanno lo svantaggio di tramutare il protagonista in un ente meccanico che infinitamente ripete lo stesso epigramma, ormai classico, o ritrova la medesima uscita. Ma ben altro furono le battute di Macedonio, imprevedibilmente aggregate alla realtà, che arricchivano e trasfiguravano. Io desidererei ardentemente ricuperare in qualche modo colui che fu Macedonio, quella felicità di sapere che in una casa di Morón o dell’Once esisteva un uomo magico la cui sola esistenza gaudiosa era più importante delle nostre 16

personali venture o sventure. Cotesto ho sentito io, cotesto l’abbiamo sentito alcuni, cotesto non riesco a comunicare. Negata una materia duratura di là dalle apparenze del mondo, negato un io capace di cogliere le apparenze, Macedonio affermava tuttavia una realtà, e tale realtà era la passione, che si manifestava nelle specie dell’arte e dell’amore. Sospetto che l’amore apparisse a Macedonio assai più prodigioso dell’arte; tale preferenza si fondava forse sul suo carattere affettivo, non sulla sua dottrina che comporta (lo abbiamo già visto) la negazione dell’io, per cui non esiste oggetto né soggetto della passione, che sarebbe l’unica realtà. Macedonio ci disse che l’abbraccio dei corpi non è altro che il segnale — forse disse il saluto — che un’anima fa ad altre anime; ma non ci sono anime nella sua filosofia. Come Güiraldes, Macedonio permise che il suo nome venisse associato alla generazione chiamata del Martin Fierro,1 che propose all’attenzione, piuttosto distratta o scettica, di Buenos Aires certe versioni tarde e casalinghe del futurismo e del cubismo. A parte i rapporti personali, l’inclusione di Macedonio in quel gruppo è ancor meno giustificata di quella di Güiraldes; Don Segundo Sombra deriva da El payador di Lugones, come tutto l’Ultraismo derivò dal Lunario sentimentale;2 ma l’orbe di Macedonio è molto diverso e molto più vasto. Scarso interesse offriva a Macedonio la tecnica della letteratura. Il culto del gaucho e dell’orillero suscitava la sua mite ironia; in un’inchiesta dichiarò che i gauchos erano un divertimento per i cavalli e soggiunse: “Sempre a terra! Che razza di camminatore!”. Una sera si parlava delle turbolente elezioni che resero famoso l’atrio di Balvanera; Macedonio ci disse: “Tutti noi, abitanti di Balvanera, siamo morti in quei comizi elettorali così pericolosi”. 1. Rivista pubblicata a Buenos Aires, fra il febbraio 1924 e il novembre 1927, da Borges, E. Méndez, O. Girondo, E. Bullrich e altri giovani “arrabbiati” del momento. 2. Forse il più famoso libro poetico di Leopoldo Lugones (1909).

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Più importante della sua dottrina filosofica e delle frequenti e sottili osservazioni estetiche, Macedonio ci dava — e continua a darci — lo spettacolo incomparabile di un uomo che, indifferente alle vicende della fama, viveva nella passione e nella meditazione. Ignoro quali affinità o divergenze ci rivelerebbe uno studio comparato della filosofia di Macedonio rispetto a quella di Schopenhauer o di Hume; ci basti sapere che a Buenos Aires, negli anni Venti del nostro secolo, un uomo ripensò e scoperse alcune cose eterne.

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AVVERTENZA ALL’EDIZIONE ITALIANA

La traduzione è condotta sul testo del romanzo riprodotto nel tomo VI delle Obras Completas di Macedonio Fernández, Corregidor, Buenos Aires 1975, versione curata dal figlio dell’autore, Adolfo de Obieta. A questi va riconosciuto il merito di essersi cimentato, dal 1960, nell’ardua impresa di raccogliere, ordinare e diffondere l’opera completa del padre. Per questo egli può e deve essere considerato co-autore dell’opera di Macedonio. Il Museo de la novela de la Eterna era già apparso in una prima versione frammentaria con il titolo Una novela que comienza, Ercilla, Santiago de Chile 1941, con un prologo di L.A. Sánchez. In seguito il romanzo venne pubblicato con il titolo Museo de la Novela de la Eterna, Centro Ed. de América Latina, Buenos Aires 1967. Soltanto nelle Obras Completas il romanzo appare con il sottotitolo originale “Primera novela buena” (Primo romanzo bello). Nel 1982 viene pubblicato il Museo de la Novela de la Eterna, Biblioteca Ayacucho, Caracas, nell’antologia a cura e con prologo di C. Fernández Moreno e infine è in corso di pubblicazione l’edizione critica in lingua spagnola nella Colección Archivos, Centre de Recherches Latino-Americaines, Nanterre. È la prima volta che il Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello) viene tradotto e pubblicato in un paese straniero e come nel progetto originale, annunciato in modo definitivo da Macedonio Fernández in Papeles de Recienvenido (1944) che voleva i due romanzi pubblicati “insieme e gemelli”, è in prepara-

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zione, sempre per Il Melangolo, il romanzo Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto). Nella traduzione si sono dovute affrontare notevoli difficoltà di fronte a una prosa di grande complessità dovuta al carattere sperimentale, d’avanguardia, che accomuna gli sforzi di Macedonio Fernández a quelli di autori più conosciuti che, negli stessi anni, cercavano nuove vie all’espressione e ai contenuti del romanzo. Si è cercato di rispettare il più possibile, ma non tanto da ostacolare eccessivamente la comprensione del testo, i lunghissimi periodi, la punteggiatura alquanto inconsueta, le incongruenze sintattiche, per arricchire anche la versione italiana degli stessi apporti tanto fondamentali con cui l’autore riveste il suo linguaggio e la sua espressione nella ricerca di una nuova estetica per il romanzo. Si è trovata una traduzione italiana ai numerosi neologismi, ricorrendo spesso all’uso di un trattino che separa nella parola la radice comune alla due lingue neo-latine. Allo stesso modo sono stati tradotti i nomi dei personaggi inventati da Macedonio con il preciso scopo di “fare” un romanzo di personaggi, un romanzo nel romanzo, un’opera aperta. Là dove non è stato possibile trovare uguale e altrettanto efficace corrispondenza in italiano, si è preferito attenersi al termine spagnolo e spiegarne in nota il significato. Si è scelto il criterio di un’edizione annotata che, oltre al rispetto delle note dell’autore [M.F.], presenta note di edizione originali, inserite da Adolfo de Obieta [A.d.O.], e note del curatore [N.d.C.] allo scopo di offrire utili informazioni e considerazioni che facilitano ma soprattutto consentono un approfondimento alla lettura. Un particolare riconoscimento va a Giovanna Albio per il contributo linguistico alla resa del testo. La presente edizione è preceduta da un saggio di Jorge Luis Borges scritto in occasione della pubblicazione dell’antologia da lui stesso curata: Macedonio Fernández, Ediciones Culturales Argentinas, Biblioteca del Semicentenario, 1961. La versione italiana è tratta da J.L. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I, pp. 799-810.

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Le opere complete di Macedonio nella versione originale spagnola sono in corso di pubblicazione in quest’ordine (si segnalano le opere già pubblicate datandole tra parentesi): Vol. I Papeles Antiguos, Escritos (1892-1907). Datos para una biografía. Bibliografía completa. (1981) Vol. II Epistolario. (1976) Vol. III Teorías. (1974) Vol. IV Papeles de Recienvenido y Continuación de la Nada. (1989) Vol. V Adriana Buenos Aires (Ultima novela mala). (1974) Vol. VI Museo de la Novela de la Eterna (Primera novela buena). (1975) Vol. VII Relato. Cuentos, Poemas, y Misceláneas (1987) Vol. VIII No toda es vigilia la de los ojos abiertos. Otros escritos metafísicos. Vol. IX Sin título aún. Incluye Cuadernos de todo y nada y textos inéditos. Vol. X Ensayos sobre Macedonio Fernández. Datos para una biografía. OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

Gli amici della città, in “Il Caffè”, XII (1964), n. 1, pp. 86-93. La materia del nulla. Ricci, Parma 1974. “Chirurgia psichica di estirpazione” in Le mappe immaginarie, Garzanti, Milano 1972, pp. 314-24. “Tantalia” in Antologia della letteratura fantastica, a cura di J.L. Borges, A. Bioy Casares, S. Ocampo, Editori Riuniti, Roma 1981. INDICAZIONI ALLE NOTE

[M.F.] note inserite dall’autore nel testo originale. [A.d.O.] note inserite da Adolfo de Obieta nell’edizione Corregidor, 1975. [N.d.C.] note del curatore della presente edizione. F.R.A.

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MUSEO DEL ROMANZO DELLA ETERNA (Primo romanzo bello)

MUSEO DEL ROMANZO DELLA “ETERNA” E DELLA BIMBA DI DOLORE, LA “DOLCE PERSONA” DI-UN-AMORE CHE NON FU SAPUTO

Con un Finale di Morte Accademica: presentazione nell’arte, e nella vita, di un uso sapiente dell’Assenza, equivalenza volontaria di una morte edulcorata. E un atto previo di Manipolazione dei Personaggi: dimostrazione di rispetto e di garanzia per il Pubblico Lettore al quale per la prima volta viene tributato.

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DEDICA AL MIO PERSONAGGIO LA ETERNA

Il massimo slancio di pietà, senza alcun elemento vizioso, confuso o demenziale, nel manifestare abnegazione e disponibilità, l’ho conosciuto nella Eterna: niente che si ricordi, o si pubblichi o si commenti aiuta a comprendere lo slancio del suo Atto di Pietà, fulmineo e totale. La più gagliarda Prontezza dell’animo è la spinta altruistica volta a soccorrere, rallegrare o consolare, in un impeto totale e istantaneo, con la quale si muovono i passi della Eterna. Nell’ Impeto Supremo io trovai sublime Prestezza Era nella Eterna; e nolente si vide. Nolente e in nessuno il suo lampo si vide. La Realtà e l’Io, o in special modo l’Io, la Persona (esista o no il Mondo) si compie soltanto, si dà, attraverso il momento altruistico della pietà (e della compiacenza) senza fusione, nella pluralità. L’atto non istintivo di Pietà, mantenendo il lucido discernimento della pluralità, senza confondere l’Altro con il Noi, è la finalità dell’Avere Qualcosa, del Mondo, ed è il solo atto etico: essere altro pur facendo tutto per un altro. 27

Alla Persona Massima Capace di fermare il tempo. Di compensare la morte. Di cambiare il passato. E, se geniale nel Sì, di uccidere col suo No col suo oblio col suo comicizzare col suo svergognare Ma sempre addolorata del suo passato al quale non può rinunciare, del quale non può disfarsi.

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CIÒ CHE NASCE E CIÒ CHE MUORE

Oggi rendiamo pubblico l’ultimo romanzo brutto e il primo romanzo bello. Quale sarà il migliore? Perché il lettore non opti per quello del suo genere prediletto rifiutando l’altro, abbiamo dato ordine che la vendita sia indivisibile; dal momento che non abbiamo potuto istituire la lettura obbligatoria di entrambi ci rimane almeno la consolazione di aver ideato l’acquisto irredimibile del romanzo che non si vuole comprare ma non può essere diviso da quello che si vuole: sarà così Romanzo Obbligatorio, l’ultimo romanzo brutto o il primo bello, a discrezione del lettore. Ma per nessun motivo sarà permesso considerarli entrambi belli e congratularci di una simile “fortuna”, a nostro massimo scherno.

1. Il romanzo viene così annunciato in Papeles de Recienvenido y Continuación de la Nada (1944), oggi in Obras Completas, vol. IV, Corregidor, Buenos Aires, 1989. Come ha precisato Adolfo de Obieta nell’Avvertenza a Adriana Buenos Aires (oggi in Obras Completas, Corregidor, Buenos Aires 1974, vol. V), con la sua pubblicazione si riprende il progetto originale perché nonostante l'impossibilità di vendita obbligatoria-indivisibile, l’uscita nel 1975 dell’edizione definitiva del Museo del Romanzo de la Eterna (oggi in Obras Completas, cit., 1975, vol. VI) fa sì che i due libri vengano pubblicati quasi contemporaneamente come previsto dall'autore (cfr. postfazione del curatore). [N.d.C]

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Il Romanzo Brutto merita una lode: ecco la mia. Così non si potrà dire che non so fare cose brutte; che, scarso di talento, non ne ho avuto abbastanza per uno dei due generi del romanzo, quello brutto; nello stesso giorno dò piena dimostrazione delle mie capacità. È vero che, qualche volta, ho corso il rischio di confondere il brutto che dovevo aver pensato per Adriana Buenos Aires con il bello, che non riesce ancora a venirmi in mente, per il Romanzo della Eterna; ma spetta al lettore collaborare per distinguerli. A volte mi ritrovai smarrito quando il vento faceva volare i manoscritti, perché dovete sapere che scrivevo una pagina di ciascuno ogni giorno e non sapevo a quale dei due appartenesse; niente mi poteva aiutare perché la numerazione era la stessa, uguale la qualità delle idee, della carta e dell’inchiostro, dato che mi ero sforzato di essere ugualmente intelligente in uno e nell’altro per far sì che i miei gemelli non avessero nulla da contendersi. Quanto soffrii nel non sapere se una pagina brillante apparteneva all’ultimo romanzo brutto o al primo bello! Si faccia carico il lettore della mia inquietudine, e confidi nella mia promessa di un prossimo romanzo bruttobello, primo e ultimo del suo genere, nel quale si fonderà il massimo del brutto presente in Adriana Buenos Aires con il massimo del bello del Romanzo della Eterna, e nel quale raccoglierò l’esperienza accumulata nei miei sforzi per dimostrare a me stesso che qualcosa di bello era brutto, o viceversa, perché ne avevo bisogno per concludere un capitolo dell’uno o dell’altro…

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PROLOGO ALL’ETERNITÀ

Tutto è stato scritto, tutto è stato detto, tutto è stato fatto, si sentì dire Dio e non aveva ancora creato il mondo, non c’era ancora nulla. Anche questo me l’hanno già detto, replicò forse dal vecchio, abissale Nulla. E cominciò. La frase di una canzone popolare mi cantò una rumena e in seguito la ritrovai dieci volte in diverse opere e autori degli ultimi quattrocento anni. Non vi è dubbio che le cose non hanno inizio, o non iniziano quando le si inventa. O il mondo è stato inventato antico.

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PROSPETTIVA

Non c’è cosa peggiore del raffazzonare, se non la facile perfezione della solennità. Questo sarà un libro di eminente raffazzonatura, ovvero della massima scortesia nella quale si può incorrere con un lettore, salvo un’altra ancora più grande, così frequente: quella del libro vuoto e perfetto. Ho fatto il possibile perché nella trama dei molteplici passaggi della mia prosa romanzesca, che porta con sé infaticabili rammendi di rielaborazione, non si avvertano le cuciture; e mi vanto di confessare quello che nessuno riuscirebbe a scoprire. Perché se mai ci fu un libro che costò fatica, quel libro è proprio questo, e io credo che tutta l’arte sia lavoro e lavoro molto arduo. Tuttavia so che mi sarà riservata in compenso un’immortalità del tutto personale: si susseguiranno le generazioni di lettori di libri in vetrina e nessuno comprerà. Questo sarà il romanzo che più volte verrà scaraventato a terra con violenza e altrettante raccolto con avidità. Quale altro autore potrebbe vantarsi di tanto?

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Romanzo le cui incongruenze nell’intreccio sono tessute con tagli trasversali 1 che mostrano in ogni istante ciò che fanno tutti i personaggi del romanzo. Romanzo di lettura irritante: romanzo che come nessun altro avrà irritato il lettore con le sue promesse di inconclusioni e incompatibilità; romanzo che comunque farà naufragare la reazione di evasione alla sua lettura poiché susciterà un interessamento tale nell’animo del lettore da renderlo complice del suo destino — perché è di molti amici che ha bisogno. Infine ebbi una crisi di rabbia di tre giorni dovuta all’ultimo ordinamento e revisione del disordine di questo romanzo. Per fortuna faccio sempre brutte copie e le avevo conservate tutte, dal giorno in cui avevo iniziato a immaginarlo: circa mille contenevano tutti gli appunti e c’erano inoltre un migliaio di dozzine di quadernetti e blocchi e fogli sciolti; gettai tutto in un angolo della mia stanza e per tre giorni mi buttai a terra appena scendevo dal letto: imprecavo, piangevo e strillavo almeno cento volte: È l’ultima volta che scrivo per pubblicare. Se la Eterna mi avesse visto, avrebbe riso tanto da rischiare di star male perché è tanto brutto ridere quando non si vuole ridere ed è così che lei ride di fronte al Brontolare. Non ha mai potuto capire il Brontolio, che creatura insopportabile! E pensare che io lo apprezzo così tanto e mi è così indispensabile al punto d’avergli comprato un costoso e decorato bocchino di vinagrol,2 materiale che ho disposto si scopra e si faccia solidificare in modo da poterlo usare

1. Nelle intenzioni dell’autore di liberare il romanzo da qualsiasi evento legato alla “realtà” e al “reale”, i tagli trasversali consentono l’intervento diretto dell’autore o del lettore nella scrittura-lettura dell’opera. Si può supporre una applicazione delle concezioni estetiche cubiste. [N.d.C] 2. Vinagrol è neologismo dell'autore dai sostantivi vinagre, vinagrón (in it. aceto, vino acidulato) per creare un gioco di parole per associazione con rezongar (in it. brontolare) riferito a persona acida, scontrosa. [N.d.C]

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in bocchini per fumare brontolii. L’aspetto che più d’ogni altro suscita in lei il gorgoglio mortale del Riso è quel brontolio più frequente nel maschio: “Pestare i piedi!” esclama, e non può trattenersi dal punzecchiarlo. Ci fu qualcuno che quasi morì soffocato dal furore per l’arte e la tenacia con cui la Eterna in una lunga conversazione telefonica, da lei voluta, e che cominciò con dolci parole di conforto e compassione, lo portò all’ultimo e disperante stadio del ridicolo facendogli notare quanto fosse eccessivo quel suo pestare i piedi. Questo mistero della Eterna che io soltanto conosco è: che riconosce più bontà nel sentimento dell’uomo che nell’anima della donna e vorrebbe correggere quel difetto del carattere del maschio. Due sono quindi i Misteri della Eterna: geniale nel partecipare alla felicità altrui; geniale nel percepire il Ridicolo al punto da ammalarsi e far star male gli altri con quel suo Riso. Per questo lei è Mistero, che non ho mai conosciuto. Quindi: Tutto il dolore umano, senza la necessità che padre e figlio si innamorino della stessa donna, che fratello e sorella si desiderino, senza rapporti tra consaguinei, o aberrazione, o cecità, o pazzia, che costituiscono la Tragedia, e Tutta la felicità umana senza il matrimonio del miliardario con l’operaia, senza che per avere un matrimonio felice siano necessari una donna brutta e un marito cieco; senza potere né gloria, soltanto con la certezza della Passione.

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PROLOGO ALLA MIA PERSONA D’AUTORE

Il rischio maggiore che si corre pubblicando a questo punto della vita un romanzo è che si ignori la nostra età; la mia è di 73 anni, e spero che questo mi possa evitare un possibile giudizio quale: “Per essere il primo romanzo bello non è affatto male; ed essendo il primo romanzo dell’autore, gli auguriamo un futuro roseo se persevererà con ferma volontà e disciplina nelle sue inaugurazioni estetiche. In ogni caso, aspettiamo le sue opere future per sancire il nostro giudizio definitivo”. Di fronte a un simile rinvio, mi si nega la posterità. E questo sarebbe prematuro. Non si può dare per scontato che qualsiasi sia l’età il critico ci accordi il rinvio di giudizio che si concede agli esordienti e sprechi fiducia nel nostro futuro. Inoltre avevo progettato che questo romanzo si pubblicasse dopo quei 22 anni che, come si sa, porteranno all’esaurimento di tutto il petrolio terrestre, perché un’indovina mi aveva garantito che il fato del mondo aveva disposto che si sarebbe esaurito contemporaneamente alla riserva di sbadigli attualmente a disposizione del lettore. Ma la Corporazione Universale dei Lettori si è impegnata a vendicarsi di un certo scrittore — che annuncia una prossima opera — riservandogli tutti gli abbondanti sbadigli che aveva messo da parte per la mia non meno annunciata opera. Giudicate voi quale sia la fortuna di uno scrittore. Chi non si darebbe 35

volentieri alle stampe con una simile garanzia della quale nessuno, fino a oggi, ha mai goduto? Ah! Come mi è simpatico, da quando sono autore, quel signore che ha detto: “Io ho letto tutti i libri”. Conto su di lui, in modo opportuno, perché è triste l’epigrafe di “La Razón”1: “Riguardo l’impossibilità di leggere tutto quello che si scrive”. Che il mio libro si affretti ad uscire prima che inizi quella fastidiosa impossibilità.

1. “La Razón”: quotidiano degli anni Trenta cui era allegato un importante supplemento letterario che promuoveva soprattutto i giovani scrittori.

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ANDANDO

Celeberrimo romanzo in corso di stampa, tante volte promesso che quando uscirà l’autore non ci avrà scommesso una lira. Nessuno muore in lui — pur essendo egli mortale — poiché ha capito che i personaggi, gente della fantasia, muoiono con lui al concludersi del racconto: è facile sterminarlo. Compito non necessario che si assumono gli autori con il rischio di dimenticare e ripetere la morte di qualcuno, di far spirare qua e là ogni protagonista come fa il sacrestano che va spegnendo le candele alla fine della messa, per non lasciare il pesce vivo senz’acqua, il “personaggio” senza romanzo. E c’è di più. Ho la certezza che nessuno da vivo sia entrato nella narrativa, perché personaggi provvisti di fisiologia, oltre che estremamente infastiditi da fatiche e indisposizioni — motivo per cui non si vede alcun protagonista ammalarsi e mettersi in convalescenza, ma solo recitare la malattia come parte del suo lavoro e continuare a rappresentare attivamente il ruolo di malato e moribondo — sono di estetica realista e la nostra estetica è l’invenzione. Opera di immaginazione traboccante d’eventi — con il rischio di far saltare la rilegatura — così precipitosi che iniziano già nel titolo per avere spazio e tempo di esistere; il lettore che arriva a copertina aperta è già in ritardo. Romanzo in cui si sa tutto o perlomeno molto è stato 37

accertato, perché nessun personaggio debba far vedere al pubblico che non sa cosa gli accade, che l’autore ignora ciò che gli succede o non lo rivela per mancanza di fiducia. Non si vedono i nostri protagonisti esclamare: che cos’è, Santo Iddio? Che pensare? Che fare adesso? Quando finirà questa sofferenza? Il lettore non sa cosa rispondere, mortificato non sa cosa dire, e si qualifica soltanto come tale. È ciò che deve accadere agli autori: 1) Che non hanno promesso abbastanza l’uscita del loro romanzo. 2) Che non sanno scrivere “l’indicibile” con frasi “ineffabili”. 3) Che continuano a credere che sonate, quadri, versi, romanzi, abbiano bisogno di un titolo. Romanzo in cui l’Impossibilità di situazioni e caratteri, criterio usato nel classificare qualcosa come artistico senza complicazioni di Storia o di Fisiologia, si è presa tanta cura di sé che nessuno, alcun conoscitore quotidiano di impossibili, nessuno al quale essi siano familiari, potrà smentire l’incessante fantasia del nostro racconto sostenendo di aver già visto in faccia o incontrato dietro l’angolo fatti e personaggi. Sarebbe ancor meglio se avessimo portato a compimento “il romanzo appena uscito” che io proponevo agli amici artisti. Avremmo elargito fatti impossibili a tutta la città. Il pubblico guarderebbe i nostri “brandelli d’arte”, scene di romanzo che avvengono per le strade celandosi dietro a “brandelli di vita” su marciapiedi, in porte, case, bar, e crederebbe di vedere “vita”; il pubblico sognerebbe al pari del romanzo, ma a rovescio: per il romanzo la veglia è fantasia; il sogno l’accadere esterno delle scene. Ma ci servirebbe un’altra teoria oltre alla teoria che stiamo sostenendo, dell’Impossibilità come criterio dell’Arte. Romanzo la cui esistenza fu romanzesca perché tanto annunciata, promessa e abbandonata, e romanzesco sarà il lettore che lo capirà. Tale lettore verrà reso celebre con la qualifica di lettore fantastico. Sarà il mio lettore, molto letto, da tutto il pubblico di lettori. 38

ANCHE L’AUTORE PARLA

A volte mi chiedo preoccupato come si potrebbe mai dimenticare questo romanzo sublime e difficile — ora per il lettore, prima per me — se dovrà contenere un Generale spaventato che titubante, guidato dalla Eterna lungo le scale del sotterraneo buio della Casa del Romanzo, la metterà con il suo tremore nella condizione di dirgli: — Ma, generale, si attacchi alla mia gonna, e cammini sicuro che la condurrò lungo la giusta via. E si leggerà anche come la Eterna, in un giorno senza vento a Buenos Aires, mandò in giro per tutta la città un messaggero con un braccio steccato e una mano paralizzata con una candela accesa incastrata tra le dita contratte che portò con sé fino a bruciarsi perché nessuno si offrì di spegnerla e il messaggero non aveva fiato per farlo: era personaggio di questo romanzo e gli “sforzi” di personaggio che imperiosamente gli richiedevano la dignità e la gloria di figurare in un romanzo senza dubbio così sublime lo avevano stremato. Ridotto a ceneri eroiche il messaggero finì in un reliquiario non perché il porteño1 non sia il più benevolo

1. Il termine porteño (da puerto, in it. porto) è comunemente riferito ad ogni persona che, nata nella grande città portuale di Buenos Aires, conserva particolari codici linguistici e comportamentali. [N.d.C]

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o compassionevole degli uomini ma perché tanti cattedratici, tanti scrittori, tanti giornalisti, tanti politici, capitalisti, comunisti, nuove e vecchie religioni, penicillinisti, hanno colmato i porteños di tali promesse e di tanta mancanza di sincerità e di realtà che non si fidarono del messaggero! Che non si fidarono della Eterna! E al messaggero più commovente che sia mai esistito negarono con meschinità quel niente che è un soffio d’aiuto. E si saprà anche che ho dato vita all’inesistenza di Dunamor,1 così come la Posterità ha dato vita d’autore a inesistenze illustri innalzandole dal nulla alla gloria. Un’altra inesistenza alla quale le opere hanno dato vita, romanzi, poemi, e: l’amore non corrisposto, fatto che non è mai successo (trattandosi di vero amore). Sono state inventate innumerevoli cose che non esistono: c’è tutto un altro mondo di inesistenze (il subconscio, il dovere, la cinestesi, molti “Dio” delle “religioni”); mi si conceda di avere una sola inesistenza nel mio romanzo: Il Non-Esistente-Cavaliere; che significa dotare un’opera d’arte di un personaggio necessario affinché gli altri ostentino la propria esistenza; l’unico non-esistente-personaggio agisce per contrasto come vitalizzatore degli altri. E Dunamor accetterà di mettere a disposizione del nostro romanzo la totalità della sua non-esistenza, fintanto che l’avrà, senza timore di comprometterla, facendo il suo

1. In Indice de la nueva poesía americana (1926) compare una “Salutación de Deunamor al No-Existente-Caballero — Novela de nuestra total esperanza”, in “Miscelánea” (oggi in Obras Completas, cit., 1987, vol. VII). Dunamor ricompare in No toda es Vigilia la de los Ojos Abiertos (in Obras Completas, cit., vol. VIII, in corso di pubblicazione; già in No toda es vigilia… y otros escritos. Centro Ed. de America Latina, Buenos Aires 1967; di cui esiste una prima edizione presso M. Gleizer, Buenos Aires 1928), che porta come sottotitolo “Arreglo de papeles que dejó un personaje de novela creado por el arte, Deunamor el No-Existente-Caballero, el estudioso de su esperanza”; in “Solución” e in “Conclusión” il suddetto personaggio concretizza la sua dottrina metafisica, riconducibile alla dottrina espressa in questo romanzo. [A.d.O.]

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ingresso nell’“essere dell’arte”; fatto che lo innamora meno della sua non-esistenza a cui preferisce l’“altrui-esistenza”: l’esistere negli altri, ovvero l’amore. L’unica cosa che non vorrebbe rischiare è il vivere per vivere, o scandendo i compleanni, una lunga esistenza, la longevità. Con elementi di tale ricchezza, pretendo di scrivere il primo “romanzo”, non del giorno in cui appare, al mattino, in quanto tutti gli altri romanzi hanno potuto godere di quell’istante; mi sono attardato troppo in Letteratura; mi urge guadagnare tempo, la fretta del ritardatario ha sempre uno scopo: per arrivare dove non sia tardi e io ho visto che non c’è tardi nel genere del “romanzo”: lo inizierà un debitore moroso. Ripeto: pretendo di scrivere il primo romanzo artistico genuino. Ed anche l’ultimo dei protoromanzi: il mio renderà ultimo quello che lo precede perché il genere non avrà seguito. Per tutto ciò che ho detto credo, come autore, di essermi affermato nell’arte del Romanzo grazie alle seguenti specialità: Il Romanzo che Inizia. Il Romanzo Impedito (per vizio redibitorio). Il Romanzo Uscito, con tutti i suoi personaggi, quale esecuzione di sé stesso. Il Prologo-Romanzo, il cui racconto si svolge nei prologhi all’insaputa del lettore. Il Romanzo Scritto dai suoi Personaggi. Il Romanzo Inesperto che si dà da fare per uccidere ad uno ad uno i “personaggi”, ignorando che gli esseri scritti muoiono tutti insieme alla Fine della lettura. Il Romanzo a Stadi. L’Ultimo Romanzo Brutto — Il Primo Romanzo Bello — Il Romanzo Obbligatorio.

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AI CRITICI

Il suicidio ha dato gloria a qualche scrittore mediocre; prima di compierlo egli potrebbe arrivare a quella “seconda edizione” che tanto appaga. Che aspetti, il suicidio, finché abbia ragione di attuarsi. Ben altre precauzioni ho preso contro il vero suicidio, che è continuare a vivere dopo il fallimento. Il correggere determina quasi tutto il Successo, è ciò che rende geniali. Correggere, correggere è l’altro grande Potere; così questo romanzo iniziato a trent’anni, ripreso a cinquanta e a settantatre, ha raggiunto il massimo: una persona di Buon Gusto, tre autori in uno, risultato del correggersi dei tre. Sarò, infine, autore di una lettera ai critici, la “lettera al commissario”, pur continuando a vivere: il suicidio non si può correggere.

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LETTERA AI CRITICI

Sono quell’uno che vi ha capiti, il primo che ha colto la vostra definizione essenziale: siete gli esseri eterni in attesa della Perfezione, ridotti quotidianamente a semplici elogiatori della rilegatura, costretti dalla frustrazione, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno, del poema, del romanzo, del libro; siete i soli che amate e concepite la Perfezione; gli scrittori tutt’altro, pubblicatori di brutte copie, di libri dettati dalla fretta, dall’opportunismo, dall’euforia. La Perfezione giungerà un giorno o l’altro in un libro, proprio come l’avete giustamente attesa e concepita: fino ad ora non si è vista Perfezione alcuna se non nella grazia e nel potere morale di alcuni uomini e donne che noi tutti arriviamo a conoscere, prima o poi, e che non raggiungeranno mai una notorietà storica né quotidiana. Eppure fate bene ad aspettare e sono sicuro che il giorno in cui apparirà in Libro applaudirete tutti insieme, infinitamente grati. Noi scrittori che non abbiamo ancora capito che già da tempo avremmo dovuto attenerci all’atteggiamento di critici, sapendo quale terribile fatica sia costruire un libro a regola d’arte e quanto minima sia la probabilità di riuscirci, non solo soffriamo ma inaridiamo perché non realizziamo il Libro e in attesa di scriverlo perdiamo la piacevole speranza di poter ritrovare la Perfezione nei tentativi di altri. 43

Io non ho trovato una valida espressione della mia teoria artistica. Il mio è un romanzo mancato, però vorrei mi si riconoscesse di essere stato il primo a cercare di utilizzare quel mezzo prodigioso di commozione della coscienza che è il personaggio di un romanzo nella sua reale efficacia e virtù: riuscire a commuovere in modo assoluto la coscienza del lettore, e non occuparla trivialmente in un suo topico particolare, effimero, precario. Mi si riconosca anche che con questo mezzo e con altre idee che vengono formulate via via all’interno del libro rendo più attuabile quella Perfezione in cui sperate e, dandone anche qualche esempio, una dottrina severa dell’arte letteraria. Se sbaglio non sarò né il primo né l’ultimo. Potete sentenziarlo a tutto diritto. Sono del tutto consapevole che la mia opera vi lascerà in attesa della Perfezione, forse con maggiore intensità. Se più intensamente, il mio libro sarà servito. Sono il qualcuno che ha indovinato che voi sapete cosa non è la Perfezione. M.F.

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PRESENTAZIONE PER LA ETERNA

Esitazione. Come quei giorni invernali di tormenta e di sole, che trepidanti si spengono a tratti e fanno del mondo spettacolo del “torcitore” dell’Indecisione, così ho avuto i miei, dopo aver conosciuto la Eterna, giorni in cui vacillai fra lei e l’Arte e il Mistero, tale era il buio e l’abbattimento in cui mi ero smarrito. Ritrovatomi del tutto, da allora vivo nella scoperta. Di tutta la fede in me che riuscii a conquistare, solo la sua si rivelò immediata. Ed è solo perché lei vuole sorridere un’ultima volta al suo amore dal di fuori di questo amore, dall’Arte, compongo questo libro di cui non abbiamo bisogno. Niente di più facile che esso sia poco importante, visto che lo feci molto prima, già iniziato allo scetticismo, non nei confronti dell’Arte bensì del fatto che l’Arte ci riservasse consulto alcuno. L’uccello della tormenta non si interporrà, non incomberà sul nostro amore. Ma quell’ombra della Fine, dell’occultamento… Quando ci raggiunge ci abbracciamo, raccogliendo le nostre figure e le nostre vesti, ché non le tocchi la pallida paura che ci assedia. Tanto i suoi occhi sono tristi tanto il mio essere si esalta, 45

il mio essere d’attesa. E l’attimo fugge. Ma una volta, e lo farò, avrei dovuto ferire quell’ombra che non tornerà più. Ancora non ci credi. Neppure io ti divinavo. L’impossibile che tu sei. L’impossibile della Risposta alla morte che io posseggo. Il tutto-amore che tu sei; il tutto-conoscitore che è in me. Che tu esista o no, a te dedico quest’opera; sei, perlomeno, il reale del mio spirito, la Bellezza eterna.

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FOCOLARE DELLA NON ESISTENZA

Il desiderio che animò la costruzione del mio romanzo fu di creare un focolare, farne un focolare per la nonesistenza, non-esistenza nella quale ha bisogno di trovarsi Dunamor, il Non Esistente Cavaliere, per avere uno stato di effettività ed essere reale nella sua attesa, situando quel focolare in qualsiasi regione o dimora degna della sottigliezza del suo essere e della sua aspirazione squisita a poter essere ritrovato da qualche parte, nel mio romanzo mentre attende, e quando giunge di ritorno dalla morte la sua amata, da lui chiamata Bellamorte, perché morendo abbellì la morte con il suo sorriso ed ebbe solo morte di Beltà: morte solo di separazione, di occultamento, morte che genera tutta la bellezza della Realtà: che separa gli amanti, giacché non esiste altra morte. Non si muore per se stessi, né esiste morte per chi non ama; né esiste bellezza che non proceda dalla morte, né morte che non proceda dall’amore. È Bellamorte che, esaltato l’idillio per timore della morte e portata la tragedia al massimo dolore di idillio distrutto, crea tutta l’esaltazione dell’Idillio-Tragedia1.

Cfr. La Idilio-tragedia in “Miscelánea” (op. cit.) oltre ai riferimenti che appaiono in seguito. [A.d.O.]

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Insomma, il mio romanzo possiede il sacro, il fascino di essere il Dove al quale discenderà fresca l’Amata tornando da una morte che non le fu superiore, di cui Lei non ebbe bisogno per purificarsi ma solo per attizzare l’amore e grazie a questo discenderà fresca di morte, non resuscitata ma rinata, sorridente come quando se ne andò e con appena un ieri nella sua assenza di anni.1 Le api del battito, della Vita, si poseranno sul nuovo sorriso della ritornata, come fecero quando partì trovando entrambi i sorrisi freschi e uniti da un tempo tutto presente, un tempo incorruttibile che nessun alito farà avvizzire. Pura e unita quale fu anche l’attesa di Di-un-Amor la cui non esistenza più pura della morte può, “fra pari”, sposarsi nuovamente con lei come se avesse conosciuto la morte senza turbamento né macchia.

A “Lei”, nominata o a cui si allude in diversi passaggi e che in seguito viene caratterizzata come “personaggio con l’essere di essere attesa”, M. F. avrebbe pensato di dedicare un libro, come risulta da una lettera scritta nel 1931 e indirizzata allo scrittore spagnolo Ramón Gómez de la Serna (lettera oggi in Epistolario, Obras Completas, cit., 1976, vol. II, pp. 52-53) in cui scrive: “Concluderò presto il mio Romanzo dell’Eterna e della Bimba di Dolore, la Dolce Persona di un amore che non fu saputo e la mia metafisica Lei (teoria dell’Eternità di Figura, Sentire e Memoria)”, e come si legge all’inizio di una pagina inedita trovata fra i manoscritti dell’autore: “Spiegazione. — Avendo vissuto da giovane tra poeti, pensatori, musicisti, statisti, non mi attirò né ripudiai la tendenza a richiamare l’attenzione pubblica e a lasciare un pubblico ricordo. Per la prima volta, ormai tra le ombre e tra i rifiuti della cosiddetta vita, trovo lo stimolo a pubblicare e a perpetuare una persona e un fatto, cosa che non mi accadrà ancora. Ed è così che faccio il mio ingresso per esordire nel mondo dei professionisti dell’espressione del sentire e del pensare, senza pretese, senza possedere — e senza lamentarmi di ciò — la tenacia e la forza che questo mestiere richiede; ma piuttosto esordisco chiedendo perdono e aiuto per riuscire nella mia affannosa ricerca di un po’ di gloria per quel nome (affannosa ricerca che Lei guarderà con rimprovero e provando pietà per me) e soprattutto per la simpatia e l’intelligenza di quella persona, del suo carattere e delle sue azioni”. [A.d.O.]

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SIAMO UN SOGNARE SENZA LIMITI E SOLO UN SOGNARE. NON POSSIAMO, QUINDI, AVERE IDEA DI COSA SIA UN NON-SOGNARE

Tutto quanto è ed esiste è un sentire, quello che ognuno di noi è stato sempre e senza interruzione. Da dove può un sentire, una sensibilità, cogliere qualche nozione di cosa possa essere un non-sentire, un tempo senza eventi, poiché solo c’è, solo esiste, ciò che è avvenuto, il nostro esserci nella nostra sensibilità? La nostra eternità, un sognare infinito uguale al presente e certissimo. Mi si potrà dire che ci sono sogni che finiscono, sogni che diventano così ribelli da non essere più recuperabili: ci sono sogni che si occultano, occultamenti di sogni che forse esistono ma che non vedremo né riconosceremo più. Tali occultamenti esistono solo per un Sognare esitante: ci sono sogni che reclamano per ridare pienezza alla nostra anima, un ’anima traboccante, una certezza senza ombra nella nostra decisione di sognarli. Chi può sapere quante volte in questa debolezza del Sognare abbiamo scacciato l’illusione dei sogni che tornano, abbiamo miscreduto, negato la visita piena e totale che ci offriva qualcuno che Tornava dall’Occultamento!1

1. Cfr. Majestad, in “Miscelánea” cit. [A.d.O.] Nella concezione metafisica di Macedonio, la morte è intesa come occultamento della realtà ma continuità dell’essere. V. il prologo “Ai lettori

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AI LETTORI CHE SOFFRIREBBERO SE IGNORASSERO CIÒ CHE IL ROMANZO RACCONTA

(Nel quale si può osservare che i lettori singhiozzanti sono comunque lettori completi. Ed anche che, quando si inaugura come qui succede la letteratura a singhiozzo, devono leggere di seguito se sono accorti e desiderano continuare ad essere lettori singhiozzanti. Allo stesso modo l’autore scopre con sorpresa che, per quanto letterato singhiozzante, gli piace come agli altri essere letto di seguito, e per persuadere di questo il lettore ha trovato quel valido argomento per cui comunque essi finiscono col leggere tutto ed è ozioso leggere a singhiozzo e spaginare, perché lo mortifica che si possa dire: “L’ho letto a spizzichi e bocconi; non male il romanzetto ma alquanto sconnesso, un po’ troppo monco”.) Non ti chiedo, lettore singhiozzante — che mai confesserai di leggere dall’inizio alla fine e che non tralascerai di leggere tutto il mio romanzo, e con ciò la numerazione delle pagine, per te vana, sarà stata invano da te sovvertita, poiché nell’opera in cui il lettore verrà finalmente letto, Biografia del lettore, è risaputo che si narrerà quanto di sconcertante è successo al lettore singhiozzante con un libro così che soffrirebbero se ignorassero ciò che il romanzo racconta”. Cfr. Teorías, in Obras Completas cit., 1974, vol. III. Cfr. postfazione. [N.d.C.]

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sconnesso che non ci fu altro rimedio che leggerlo tutto di seguito per mantenere discontinua la lettura, dal momento che l’opera singhiozzava fin da prima —, scusa per presentarti un libro discontinuo che come tale è un’interruzione per te che già ti interrompi da solo, e che ti senti così a disagio frastornato dalla lettura dei miei prologhi nei quali l’autore singhiozzante ti faceva immaginare e sognare spaventato di essere lettore continuo al punto da farti dubitare della tua inveterata identità di io singhiozzante. Se dovrai leggere dall’inizio alla fine, come io prevedo, non saltare qua e là nel mio romanzo tanto per vedere: se è pronto, se manca di zucchero o cottura; e faresti meglio a comportarti come il mio padrone di casa che, “tanto per assaggiare”, come dice tranquillamente alla cuoca, si mette il tovagliolo al collo e impugna coltello e forchetta.1 Ti ho reso lettore ininterrotto grazie a un’opera di prefazioni e titoli talmente sciolti che alla fine sei stato impaginato dall’insperata continuità del tuo leggere. Adesso non potrò più accontentarti. Ti ho già anticipato tutte le possibilità di postergare che sono riuscito a combinare: non ho altro prologo fino a quando il romanzo sarà finito. Quanto mi opprime l’impegno artistico che ho promesso di portare a termine; non ho ancora né una com-

1. “Postre muy probado es mejor pero no llega al comedor.” (“Il dolce assaggiato più volte è migliore, ma non giunge ai commensali”). “Quedarse en la cocina es, en la mesa, convidado y ausencia”. (“Restare in cucina è, a tavola, essere invitato e assente.”) “Comensal invisible pero aprovechado” (“Commensale invisibile ma approfittatore.”) Proverbi di mia invenzione per infastidire il lettore singhiozzante che va dicendo di essere riuscito a leggere a metà il mio romanzo, di aver tralasciato di leggere l’altra metà, cosa che nessuno riuscirà a fare con il mio romanzo precedente e di gran lunga superato. Ho tale autorità sul mio lettore singhiozzante che sarà l’unico del suo genere ad aver letto ciò che ha tralasciato. [M.F.]

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prensione reale della teoria del romanzo, né un’estetica né un progetto per il mio. Ebbene, per quanto riguarda la sostanza del titolo di questo prologo, ossia il lettore infastidito perché non sa tutto del romanzo: Non vi è dubbio che “allora il Viaggiatore pronunciò alcune parole che da questo romanzo non si sentirono e salutando si allontanò” (sono soliti farlo i viaggiatori). Anche il mio romanzo salutò, ma rimase molto mortificato perché uno dei suoi personaggi non gli permise di leggere tutto. Il romanzo è curioso di quanto si appresta a raccontare, lettore di sé stesso, o meglio della sua narrativa, come accade con l’Arte (per l’Arte, con l’Arte) che si ama, con ciò che si scrive senza sapere quello che succederà e quello che si dovrà scrivere più avanti scoprendo con deferenza e risolvendo ogni situazione, ogni problema di contenuto o di espressione. Sono un autore che perde la fiducia nel proprio romanzo quando impiega troppo a far proseguire una scena. È un romanzo innamorato (e la Eterna non lo è) di se stesso (la Eterna non lo è nemmeno di se stessa: in un disinteresse di sé che, immenso per bellezza, mi riempie di dolore e di reverenza, lei non ascolta la richiesta di amarsi che le rivolgo ogni giorno; sarà forse che né lei né io dobbiamo amarci né amare, o che un errore supremo confonde la visione che ella ha di sé e dell’altezza alla quale si trova il suo destino? Io non ho dubbi: mi è assai chiaro, Eterna, che siamo travolti dalla passione; che tu non vuoi che esista, e che non ammetti nemmeno come possibile in questo periodo della tua vita; eppure ami l’Arte, senza amare te stessa) ed è un romanzo al quale accadono avventure e disavventure, indecisioni d’arte, a cui capita

1. Non mancano opere più difficili della mia: ovvero, esistono opere che mancano. Comunque, da stamane ascolto il canto di Manica che si pettina e ora, che è sera, mi sembra che lei stia portando a termine entrambe le cose: non sempre ciò che è difficile rimane incompiuto. [M.F.]

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di perdersi in se stesso, di tacere, di ignorare; mentre si racconta avvenimenti ecco che altri lo investono, contiene incidenti e subisce incidenti, come succede adesso ai tram in cui le locandine mostrano passanti che vengono investiti e, allo stesso tempo, con la scocca, distribuiscono all’esterno incidenti e spavento. È un romanzo curioso di se stesso, come quei bambini mascherati che gridano “Arrivano le mascherine!” e le seguono estasiati. Quello che in loro è stato mascherato è che erano come bambini davanti a un qualsiasi pubblico. L’essere mascherati è in loro un mascheramento assoluto: quello di essere maschere. Io, l’Autore, solo adesso che sono stato pubblicato, divento essenzialmente pubblico. Cerco molto e molto mi manca da conoscere e da vivere dal momento che esiste ancora un vivere che vorrei sperimentare per quanto credo di conoscerlo già: che la finalità dell’Arte è il fine della vita, di ciò che di individuale c’è in lei: la Tragedia-Idillio che è l’Amore, e questo è fatto di Beltà di Morte e crea nell’amore tanto la tragedia quanto l’idillio, dal momento che, lungo il cammino, la certezza della distruzione personale degli amanti (ce l’hanno anche quelli che non amano, che avendo la morte non hanno Beltà di vita, aspetto proprio dell’individualità), esalta, crea l’amore come la sua tragedia. La morte è solo d’amore; esiste solo la morte dell’altro, il suo occultamento perché per se stessi non esiste occultamento. Ma molto mi è ancora sconosciuto sulla pratica dell’amore, su come si alimenta emozionalmente la sua sete quotidiana, sul suo delicato e inappagabile scambio. E sul suo manifestarsi nell’Arte. Così, quindi, a mano a mano che scrivo indago e attendo gli eventi come il lettore. E quando penso al lettore singhiozzante sento che è mio dovere immaginare che cosa sia opportuno far sentire al Viaggiatore dopo quanto è appena successo, per poter dedurre cosa può aver detto e non si è sentito. Quanto può aver detto è quello che io vi dirò. Non è improbabile che egli abbia sussurrato “Sono Viaggiatore in Romanzo, in un racconto in movimento: non devo, quindi, trattenermi, e in questa scena mi sono già attardato trop53

po. Che il lettore mi veda raggiungere un treno o salpare ad ogni momento; deve vedermi partire tante volte da non poter conoscere il mio esserci e da temere addirittura che io possa uscire dal romanzo nello slancio di una partenza”. In realtà il Viaggiatore era sul punto di fermarsi quando, avendo intravisto il lettore, si allontanò. Nell’intervallo, nell’attimo che mancava alla fine, gli venne voglia di restare ma sopravvenne il mai intempestivo lettore. Credo che questi si sentirà soddisfatto della frase che propongo, come se l’avessi appena saputa, mettendola in bocca al Viaggiatore: è tutto quello che ha pensato di cui qualcosa ha detto e niente si è sentito. Lascio ultimato questo passaggio come spetta al mio romanzo che ha promesso di raccontare tutto, anche il non saputo, creandolo a volte in lui, e a volte fuori di lui, al cui fine gli ho sistemato le ampie corolle dei miei prologhi. Provo sempre maggior simpatia per questo personaggio il cui arrivo nella narrativa è sempre atteso. Le parole che gli attribuisco dimostrano che prima di tutto egli si preoccupa di rispettare gli impegni che ha preso con me, con il suo ruolo, sacrificando i suoi desideri che sono: che si ascolti tutto quello che dice e gli si dia la possibilità di restare, ed è per la sua grande esperienza nella capacità di restare che mi fu raccomandato, ma per mancanza di personale gli si diede il ruolo di viaggiare sempre. Sono state tante le urgenze nel preparare quest’opera che abbiamo dovuto affrettare perfino i ritardi nel ritornare, nell’arrivare, nel rispondere, nel prendere una decisione, ritardi che appaiono in tutto il racconto e che tanto lo affrettano. Così abbiamo dato il ruolo di andarsene sempre nel libro ad un personaggio che pur di restare resterebbe senza niente. Questa frustrazione delle vocazioni è tanto vera nella vita che, in un romanzo che non vuole contenere verità alcuna, il dire questo ci addolora. Se tuttavia il lettore trova qualche imperfezione nel passaggio emendato, nella presente spiegazione gli chiedo di apprezzare la tranquillità della lettura che fino a questa pagina gli ho assicurato con i miei sforzi culminati nel mo54

mento in cui non lasciai entrare nel romanzo il Ragazzo dal lungo bastone, che non si farebbe pregare per distruggere tutto iniziando col lasciar cadere il suo bastone sopra qualche piacevole passaggio di questo racconto e brandendo sempre questa lunga catastrofe in tutto lo spazio scenico tramutato in una “pista per dar di bastone” e abbandonato, al momento della sua apparizione, da tutti i miei personaggi. Si butterebbe infine sul divano e osservando le nostre fronti aggrottate direbbe: “Mi lascerete, di tanto in tanto, dare qualche colpo?”, indicando timidamente il bastone vi chiederà scusa per non essere arrivato prima e il permesso di andarsene, come se altrimenti si sentisse troppo la sua mancanza, come se avesse molte richieste per andare a infastidire da un’altra parte; dopo il vostro permesso rimarrà comunque, metterà a posto qualche quadro storto commosso dal suo bastone. Ve ne andrete, nel frattempo, perché in genere quando lui se ne va non c’è già più nessuno, chissà per quale strana coincidenza. Il suo esserci contunde e un suo genuino non esserci non si è ancora ottenuto sul pianeta. Tuttavia il suo non esserci è troppo vicino. Posti nei quali non ci sia, alquanto richiesti, non si trovano neppure dai rivenditori della sua assenza e si dubita perfino che possa essere assente. E se ne andrebbe anche lui con una tale velocità come se un andarsene veloce fosse un andarsene di più, come se il ridursi del suo esserci stato desse soddisfazione e quel che di lui rimane si consumasse tanto da esaurirsi molto prima. Il suo “lontano” non dura niente, e di quanto si sopporta di lui si sta approntando una statistica. Gli resta da imparare un fermarsi veloce che tutti vorrebbero inventare e insegnargli; la sua ritirata non è un andarsene subito bensì un andarsene ancora. E si conosce perfino un contuso investito dalla sua assenza. È la presenza più ingombrante. Non condanniamo l’intempestività delle sue partenze improvvise quanto il suo esserci; siamo indulgenti: è da attribuirsi al fatto che “di colpo” ha pensato che in paese c’è un muro dal quale ancora non è caduto e si precipita ad arrampicarsi per poi lasciarsi cadere. Il mondo soffre nell’a55

verlo vicino e non ha abbastanza spazio in cui buttarlo. Ma lui ha incontrato uno spazio nuovo in quel sosia del mondo che è la fantasia di un romanzo. Mi vien da pensare che se lo lasciassi entrare nel mio romanzo si potrebbe sospettare che mi avvalga di lui per infastidire la lettura di qualche pagina imperfetta. Inoltre so che non entrando, o lì dove non c’è, lui si comporta bene. Per questo la mia propaganda dice: “unico romanzo dove non si lascia entrare il ragazzo dal lungo bastone”, “è il romanzo del ragazzo tenuto lontano”. A un romanzo che abbia voglia di pubblico — il mio si annoia con me, vorrebbe che arrivassero visite, o uscire a chiacchierare, gli piacerebbe essere letto — converrebbe iniziare la sua narrativa con un tamponamento o una buona frenata. A quel punto tutti accorrerebbero in tal numero che già alcuni libri vorrebbero contare sul pubblico di una frenata comune. Io da quando sono autore racconto con invidia il pubblico ai tamponamenti. A volte sogno che il romanzo abbia in certi passaggi un tale assembramento di lettori da ostruire l’andamento della trama con il rischio che le disavventure e le catastrofi all’interno del libro appaiano all’inizio, tra gli investiti. Voi capirete che se il romanzo si fosse fermato un istante, proprio in quel punto verrebbe inserito un nuovo prologo al posto del vuoto prodottosi nella narrazione. E farei quel prologo con dignità, ossia, in modo così ornato almeno da baraonde, fretta, insulti, ordini, sbandamenti, campanelli, freni, guardie, ispettori e dal vigile che viene a leggere l’incidente davanti al finestrino della passeggera che legge il mio romanzo. Insomma, un prologo con un tale insieme di omaggi rivolti all’inverosimiglianza del fatto, che dissimulerei del tutto, come fanno le “Compagnie” che non ammettono mai la verosimiglianza degli incidenti tranviari, l’immobilità che segue la locomozione narrativa. Inoltre, tirerei fuori il braccio dal finestrino del mio romanzo per far segno ai romanzi che lo seguono di non tamponare il mio. Non si intrattenga il lettore con il vigile menzionato; non è il nostro, quello del romanzo è fermo a un altro angolo. 56

Accomiatiamoci dal ragazzo aggiungendo che se ha assenza questa è tanto corrosa che il suo primo arrivare è già frequente, come fosse una Vª edizione di presenza.

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NUOVO PROLOGO ALLA MIA PERSONA D’AUTORE

Sono l’immaginatore di una cosa: la non-morte; e la lavoro artisticamente con il mutamento dell’io, la sconfitta della stabilità di ognuno nel proprio io. Sono diverse le persone che ho lavorato, ovvero che ho tentato di mutare, in ogni mia opera: Lei, Eterna, William James, Dunamor e l’Autore. L’irrazionalità dell’autore e della sua identità l’ho messa alla prova nella mia dottrina dell’umorismo.1 “Lei” è il decentramento più grande: lì e in “La Eterna” lavoro in modo contradditorio il suo decentramento: non il minore, di essere un vivente al posto di un altro, o un sognato al posto di un altro, bensì il maggiore, quello di essere a immagine, di essere e sembrare non essere reale, e viceversa. Anche in Eterna c’è un decentramento totale, perché pur avendo il potere di cambiare il passato ad altri (Dolce-Persona arriverà supplicando che le venga cambiato il passato perché è il suo il più sfortunato), non ha quello di cambiare il proprio relativo al tempo in cui non cono-

1. La dottrina dell’umorismo è inclusa in “Para una teoria del Arte”, in Teorías (cit.) e praticata in Papeles de Recienvenido e Continuación de la Nada (in Obras Completas cit., 1989, vol. IV). [A.d.O.]

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sceva ancora il Presidente. Dunamor è la sospensione, la cesura dell’identità, e Dolce-Persona l’aspettativa di essere. È rivolta all’essere, poverina. Mi faccio merito di aver vissuto costruendo la metafisica di un tutto-amante, senza occuparmi della mia: così come sono non merito né spiegazione né eternità; non merito né Lei né una metafisica; quest’ultime le merita solo Dunamor. È molto delicato, molto paziente, il lavoro di sottrarre l’io, di scomporre l’interiorità, l’identità. In tutta la mia opera scritta sono riuscito ad ottenere solo otto o dieci momenti nei quali, credo, due o tre righe commuovono la stabilità, l’unità di qualcuno, a volte, credo, la mismidad 1 del lettore. E senza dubbio penso che la Letteratura non esiste perché non si è dedicata unicamente a questo Effetto di dis-identificazione, l’unico che giustificherebbe la sua esistenza e che solo questa bell’arte può elaborare. Forse anche la Pittura o la Danza potrebbero provarci. Non credo che la Metafisica sia il piacere diretto di una spiegazione: è un lavoro che ha in sé il piacere riflesso di una prospettiva di potere; è un potere ciò che si cerca; un potere diretto dell’amore: amore che può essere causa immediata (poiché, se mediata, ogni virtù e aspirazione verrebbero frustrate in quanto si potrebbero frustrare i passaggi intermediari) nel mondo meccanico, nel mondo dell’apparenza materiale, nel quale c’è l’apparenza materiale: il corpo dell’amata; solamente quale causa immediata, la semplice apparizione in una psiche di un anelito, di un desiderio, porterebbe la presenza totale (visiva, tattile, auditiva, termica) dell’amata a qualsiasi presente del tempo, allo stesso presente del tempo, allo stesso presente nel quale si trova quel desiderio, e con la presenza, l’informazione — notizia dello stato attuale esistente in una sensibilità. 1. mismidad: neologismo dell’autore per indicare l’essere in se stessi, il riconoscersi. Da mismo, in it. “stesso”. [N.d.C.]

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Se in ogni mio libro ho ottenuto due o tre volte, per un istante, quello che io chiamerei in linguaggio familiare un senso di “soffocamento”, un “soffoco” nella certezza di una continuità personale, di un abbandono di se stesso da parte del lettore, è tutto ciò che ho voluto come mezzo; e come fine, cerco la liberazione della nozione di morte: l’evanescenza, il mutamento, la rotazione, l’alternanza dell’io lo rendono immortale, ossia, non rendono legato il suo destino a quello di un corpo. (Del resto, questo Corpo non è altro che un insieme di immagini nella mia sensibilità, la stessa legata apparentemente a quel Corpo, o in un’altra sensibilità associata ad un altro corpo.) Mi si consenta, mi si lasci presentare qui, come chiedeva a volte James quando scriveva quarant’anni fa, un esempio di questi difficili intenti che creano confusione e immortalano l’“Io”. In una nota a “Percezione dello Spazio” nella sua Psicologia, James dice: “Mi si lasci verificare se possiamo fare avanzare di un passo il nostro punto di vista teoretico. Mi sembra che possiamo farlo”. Il corsivo è mio; e lascio in corsivo questo mi sembra con lo stesso tono che James ha usato e che esisterà e sarà letto ancora tra cent’anni. E scrivo a pié pagina. Questo “mi sembra” è un pre-stato che James avvertì quarant’anni fa ad un certo punto del suo sforzo lavorativo di pensare scrivendo: pre-sentì che avrebbe superato quel punto intricato che ora sta sviluppando. E il fatto di notarlo suscita in me, oggi — nell’aprile del 1931, a Buenos Aires —, la consapevolezza che da molto tempo, leggendo, sono infastidito da una sensazione di nonconformità, di aspettativa, nel tentativo di scorgere in quale momento di queste righe laboriose James lascerà intravedere la spiegazione dello spazio attraverso il movimento (la traslazione, la muscolarità, la loro evocazione) infondendomi la speranza che anche lui, come me, abbia colto la possibile spiegazione attraverso le evocazioni muscolari di un’“affezione” localizzata. Ma con distacco ed enfasi ora asserisco che nessuno è più forte, più severo, più serio e specializzato di me nella me60

tafisica non discorsiva, quella dimenticata da Hegel e che si dà nell’artistica che io preconizzo. Non credo che i metafisici autentici, non i bibliografi, gli storici e gli insegnanti della Metafisica, disdegnino la forza della scelta intellettiva qui raggiunta. Non credo che nessuno che abbia sentito il Mistero (il Mistero di sentire, direi io; di sentire il mistero di sentire, direbbe forse James) abbia apportato una delucidazione più chiara di quella che avrò elaborato io. La verità in quelle pagine non si risentirebbe nemmeno se apparissero in un’edizione di Kant, di Hegel, come parte dell’opera di questi. Credo di assomigliare molto a Poe, anche se ho iniziato da poco a imitarlo in qualcosa; credo di essere Poe un’altra volta; ed è straordinario che questa mia somiglianza come autore e come figura sia stata riconosciuta da un poeta peruviano, Mario Chabes. Non è una somiglianza, è… Chi lo sa!… Una riapparizione. Nel poema “Elena Bellamuerte” mi sentivo Poe nel sentimento e tuttavia credo che il testo non riveli con lui alcuna somiglianza letteraria. Non farei queste affermazioni se non fosse per stimolare il giovane lettore a mantenersi sempre pronto a difendersi contro la sensazione di naufragio dell’io nella morte corporale. Seguimi, dunque, lettore: cerco “una” eternità che non è stata ancora cercata, nonostante ci sia stato in me tanto Desiderio quanto negli altri siano mancate la speranza e la conoscenza di un cammino. C’è in molti, forse in tutti, la certezza di un eterno esistere personale, ma nessuno ha mai creduto che l’amore potesse rendere eterna la stessa figura umana personale. E senza questa permanenza corporale ognuno conoscerebbe solo l’eterno esistere di se stesso, esistere che, né eterno né passeggero, non ha alcun valore: un minuto o mille secoli non hanno alcun senso. Mi vedrai condividere con William James, ansioso e con una mente privilegiata, un esplorare infaticabile nel quale egli ebbe la morte prima della verità, come potrebbe 61

forse accadere anche a me. In realtà egli giunse alla verità del Fatto, senza la preconoscenza e l’allegria di “morire” (occultamento), consapevole. Di sicuro le tentazioni e l’intrecciarsi delle circostanze lo allontanarono dall’utilizzare sempre, in questa indagine, tutto il suo pensare. Solo se non verrò assediato da analoghe circostanze, confido di “sapere” prima di “essere”. Nobilito questa ricerca con la Passione, senza la quale né vita né ricerche sono desiderabili.1 E per la sua dignità mi sono adoperato per armarmi del maggior numero di informazioni; credo che non ci sia mai stato uno studio più rigoroso, una preparazione più serena e autocritica. È una riflessione opprimente quella che ora deve assediarmi: poiché già posseggo la certezza dell’eternità personale nell’intraprendere questa indagine indirizzata soltanto alla ricerca dell’eternità corporale, senza la quale la Compagnia cessa d’esistere: l’amore, il Ricordo restano in entrambe e, ancora più lacerante, la certezza dell’esistere occultato dell’una e dell’altra, senza speranza di Notizia e Riconoscimento. Spero che l’Uomo di Suprema Sventura si dia, da solo, alla certezza dell’eterna esistenza dell’amata, certezza che possiamo avere solo attraverso la permanenza, l’eternità tanto della figura spirituale come della figura fisica personale. Ma mi assumo anche l’impegno di continuare a cercare questa certezza per altri.

1. No toda es vigilia… (op. cit.) si presenta esattamente come allegato pro-passione contro l’intellettualismo estenuante. (“Passione, idoneità suprema dell’essere!”) Ma oltre alla metafísica della Passione, con gli assunti correlativi Essere, Non-Essere, Morte, Eternità Personale, Corpo, ecc., lì si allude incidentalmente all’essere del personaggio d’arte e alla sua operatività metafisica (cfr. “Solución”, “El Ensueño es un trámite.”). [A.d.O.]

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PROLOGO CHE CREDE DI SAPERE QUALCOSA, NON DEL ROMANZO, POICHÉ NON GLI È PERMESSO, MA DELLA DOTTRINA DELL’ARTE

Il presente tentativo estetico è una provocazione alla scuola realista, un programma totale di discredito della verità o della realtà di ciò che il romanzo racconta, e esclusiva subordinazione alla verità dell’Arte, intrinseca, incondizionata, auto-autenticata. La sfida che lancio alla Verosimiglianza, all’intruso deforme dell’Arte, l’Autenticità — si trova nell’Arte, concretizza l’assurdo di chi si rifugia nel Sogno e lo vuole Reale — culmina nell’uso delle incongruenze, al punto da dimenticare l’identità dei personaggi, la loro continuità, l’ordinamento temporale, gli effetti prima delle cause, ecc…, motivo per cui invito il lettore a non attardarsi a districare assurdi, a coonestare contraddizioni, ma a seguire l’alveo di trasporto emozionale che la lettura va suscitando a poco a poco in lui. Nel mio intento ci sono idee diverse, probabilmente originali; qui mi interessa l’idea del metodo: di tanto in tanto cerco di distrarre il lettore, in modo oppressivo, quando desidero impressionarlo ai fini della sottigliezza emozionale che ho bisogno di generare in lui, piccole impressioni che concorrono al proposito emozionale d’insieme per ottenere in lui uno stato unico finale e generale che insidi di sorpresa la sua sensibilità cogliendolo alla sprovvista, nella consapevolezza di trovarsi davanti a un progetto letterario, quando non si aspetta, né si accorge poi, di essere stato conquistato. 63

Esiste un lettore con il quale non posso conciliarmi: il lettore che vuole quanto hanno desiderato a suo discredito tutti i romanzieri, quanto questi danno a quel lettore: l’Allucinazione. Io voglio che egli sappia sempre che sta leggendo un romanzo e non guardando un vivere, non presenziando alla “vita”. Nel momento in cui il lettore cade nell’Allucinazione, ignominia dell’Arte, io ho perso il lettore, non l’ho guadagnato. Quello che io desidero è ben altra cosa, è acquisirlo come personaggio, ossia, che per un istante creda egli stesso di non vivere. Questa è l’emozione di cui deve ringraziarmi e che nessuno ha mai pensato di procurargli. Sappia il lettore che questa impressione, mai fatta provare dalla parola scritta a nessuno, questa impressione che si vorrebbe inaugurare con il mio romanzo nella psicologia dell’umanità, nella natura della coscienza dell’uomo, è una benedizione per qualsiasi coscienza, perché oblitera e libera dalla paura nozionistica o intellettiva che chiamiamo timore di non essere. Chi sperimenta per un momento lo stato di fede nel non esistere, e poi torna allo stato di credere nell’esistere, capirà per sempre che tutto il contenuto della verbalizzazione o della nozione “non essere” è il credere di non essere. Il “io non esisto” dal quale deve essere partita la metafisica di Descartes, in sostituzione al suo deplorabile “io esisto”; non si può credere di non esistere, senza esistere. Insomma: l’esistere è ugualmente frequentato dal credere del non esistere quanto dal credere di esistere. Chi crede esiste, anche se il suo credere è quello di non esistere; chi esiste può credere effettivamente di non esistere e, in alternativa, credere di esistere. “Io penso” non ha mai avuto conseguenze se non innocue, ma si può dire, anche se in modo ozioso e distratto: può essere un fatto o un giudizio sentito. Esistere è un fatto ma mai io esisto può essere un giudizio “sentito”. Non avendo in sé un momento di fede, è una pura giustapposizione di parole; le parole si uniscono a caso, può succedere. Questo ve lo assicura chi si dispiace, a differenza di tutti i grandi lettori di Kant, di averlo capito fin troppo cioè di non avere più alcuna illusione che Kant fosse un metafisico. 64

(I francesi demoliscono un pittore deificato ogni vent’anni, un versificatore deificato ogni quindici e un romanziere deificato ogni dieci; dopo centocinquant’anni Kant può essere messo in discussione. Non è una sfacciataggine, più sfacciato sarebbe definirlo metafisico. Con queste affermazioni anticipo gli argomenti per la futura demolizione della mia Artistica.) Non mi sembra che altri abbiano usato questo metodo né che esso si possa applicare ad un genere diverso dal romanzo. Oltre alla tecnica esiste la serie di artifici, di inverosimiglianze e di smentite della realtà del racconto. Questo è l’aspetto dottrinario che si attua con maggior rilievo quando spiega con enunciati, non in modo artistico, il fatto che non è mai accaduto ma che era stato deliberato appieno in una coscienza vivente, quella del padre di Dolce-Persona, e che costituisce il fatto definitorio del destino di Dolce-Persona. Se il risultato è stato un romanzo-museo, che importa se suscito interesse per il racconto, fintanto che il lettore si crede lettore perché i personaggi gli appaiono personaggi nel romanzo e nei prologhi anche se intravisti in modo lieve, sfumato, in atti, in fatti inconclusi — io credo che La Eterna, Dolce-Persona, Forsegenio, Dunamor saranno indimenticabili anche se appena presentati alla lettura — che importa generare, a favore della negligenza coscienziale suscitata da tale interesse, un “trauma di inesistenza’’ nella psiche di lui, del lettore, il trauma di stare lì non a leggere ma ad essere letto, a fare il personaggio? Se fallisse come tale quello che io chiamo romanzo, la mia Estetica salverà la situazione: ammetto la si prenda per romanzo, per fantasia di buon genere, per romanzo supplente. Se fallisce il romanzo come romanzo può darsi che sia la mia Estetica a fare da bel romanzo.

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ROMANZO DEI PERSONAGGI

Ho affidato ai seguenti personaggi, selezionandoli con cura e consapevole di come si erano comportati in altri romanzi, la composizione del mio. Li ho addottrinati in tutto ciò che la “persona d’arte” deve rispettare, ho fatto leggere loro i miei prologhi, li ho resi studiosi di Estetica. Cosa volete dirmi se il romanzo riesce male? Come autore ciò che mi competeva l’ho fatto: dimostrare la loro disciplina alla luce di un comportamento precedente e dar loro la teoria che non avevano, la teoria della persona d’arte. Ogni personaggio esiste-a-metà, perché mai ne è stato presentato uno per il quale l’autore non abbia preso una metà, o qualcosa di più, da persone della “vita”. Per questo ogni personaggio avverte un sottile disagio e un’inquietudine nell’“essere” personaggio come del resto vagano nel mondo alcuni esseri umani che un romanziere usò soltanto in parte per creare personaggi e che provano disagio nell’“essere” della vita. Qualcosa di essi esiste in romanzo, fantasticato in pagine scritte, e in verità non si può dire dove si trovino adesso. Tutti i personaggi sono ridotti al sognare di essere che appartiene a loro ed è inaccessibile agli esseri viventi, unico materiale genuino dell’Arte. Essere personaggio è sognare di essere reale. E ciò che di magico c’è in loro, ciò che ci trascina e affascina di essi, ciò che hanno soltanto loro e configura il loro essere, non è il sogno dell’autore, 66

di far loro interpretare e sentire, bensì il sogno di essere, in cui si collocano con avidità. Soltanto l’arte realista che non è bell’-arte, l’arte di Anna Karenina, Madame Bovary, Don Chisciotte, Mignon, è carente di “personaggi”, personaggi che non sognano di essere, perché credono di essere copie. Quello che non desidero e che per venti volte mi sono preoccupato di evitare nelle mie pagine, è che il personaggio sembri vivere, fatto che accade ogni volta che nell’animo del lettore si produce un’allucinazione di realtà dell’evento: la verità di vita, la copia di vita, è ciò che disprezzo e, senza dubbio, l’aspetto genuino della sconfitta dell’arte — la maggiore e probabilmente l’unica frustrazione, il vero aborto —, non è forse che un personaggio sembri vivere? Io accetto che vogliano vivere, che tentino e perseguano la vita, ma non accetto che sembrino vivere, nel senso che gli eventi sembrino reali; disprezzo qualsiasi realismo. Per le mie pagine ho voluto una fantasia costante e di fronte alla difficoltà di evitare l’allucinazione di realtà — vergogna dell’arte — ho creato l’unico personaggio finora nato la cui fantasia incorruttibile è garanzia di una ferma irrealtà in questo romanzo che non si può ridurre a reale: il personaggio che non compare, la cui esistenza nel romanzo lo fa diventare fantastico rispetto al romanzo stesso, come il mondo, come l’essere, ci può sembrare reale perché esistono i sogni. Qui è a lui che affido la salvezza della fantasia, se tutto dovesse fallire, l’affido al Viaggiatore che nella vita stessa forse non è mai esistito, poiché non credo nei viaggiatori; i due sentimenti che definiscono il Viaggiatore di qualità sono la facoltà e il desiderio di dimenticare come pure il desiderio di essere dimenticato. Il magnifico Dimenticatore1 completato da quest’ultima facoltà di indifferenza all’essere dimenticato, come anche dal coraggio e dalla caparbietà di volere che la sua immagine muoia nella mente degli altri, morte più temuta di quella personale, for1. In sp. Olvidador, neologismo dell’autore da olvidar, in it. dimenticare.

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se perché tutti sentiamo che non esiste la morte personale. La morte che esiste nell’oblio è quella che ci ha portati all’errore di credere nella morte personale. Ma questa credenza è debolissima, perciò facciamo molto di più per non essere dimenticati che per non morire. — E allora, dove è diretto il nostro Viaggiatore nel suo vagabondare? — Il mio Viaggiatore vive qui di fronte. E non esce di casa se non quando il capitolo del romanzo giunge alla fine. Agisce soltanto come estintore dell’allucinazione che arriva a minacciare di realismo il racconto.

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PROLOGO AL MAI VISTO

Il genere del mai avuto, il così spesso invocato, il senza precedenti, verrà inaugurato, poiché nulla di simile è mai esistito, mai ci fu il mai avuto, nell’anno in corso e, com’è giusto, a Buenos Aires, la prima città del mondo venendo dalla campagna vicina, l’unica città che si presta a concludere un giro del mondo iniziato in essa come pure a concludere quelli iniziati ovunque, come hanno scoperto poi diversi e inesorabili circumnavigatori del globo terracqueo, grazie al giro del mondo annunciato con partenza da Berlino o da Rio de Janeiro. Giro che venne consumato, senza ostentazione indiscreta per questo tragitto, in silenzio e silenziosamente con disprezzo di tutto ciò che non fosse l’andarsene in giro per le strade, in tram, negli uffici pubblici di Buenos Aires, con tanto di casetta, matrimonio e prole, il che ha in sé tanta pienezza ed eroismo come l’attuazione del furioso annuncio di fare tutto il giro del mondo. L’umanità porrà finalmente i suoi occhi sul mai visto, su un esemplare del mai avuto; non sarà un ponte costruito per non bagnarsi, una freddezza coniugale, una guerra religiosa fra gente senza religione, o altre cose mai viste. Si vedrà realmente il mai visto, non si tratta di fantasia, è un’altra cosa: il primo caso del genere apparirà in romanzo. Lo pubblicherò fra breve, visto che i critici di manoscritti hanno detto ammirati, “È un romanzo mai scritto prima”. Tanto meno adesso, ma manca poco. 69

Racchiuderà una tale collezione di eventi che non lascerà quasi niente che possa accadere per le strade, nelle abitazioni e nelle piazze, e i giornali rimasti privi di avvenimenti dovranno accontentarsi di citarlo: “Nel romanzo della Eterna ieri a metà pomeriggio è avvenuto il seguente colloquio”; “Questa mattina Dolce-Persona è sorridente”; “Il Presidente del Romanzo, intervistato viste le voci che circolano tra i suoi numerosi lettori, si è degnato di informarci che oggi lancerà con successo il suo piano di isterizzazione di Buenos Aires e di conquista umoristica della nostra popolazione per la sua salvezza estetica”. “Dopo il V capitolo del Romanzo possiamo assicurare che non è a causa di Nec (Non-Esistente-Cavaliere) che Dolce-Persona ha oggi sì triste esistenza”. “Il romanzo invierà questa sera la sua orchestra di solisti — sei chitarre — ad eseguire diverse polifonie in ossequio alle orchestre dei bar Ideal, Sibarita, e Real1 perché sentano musica. Il Poligrafo del Silenzio con gesti eruditi spiegherà l’intento e girerà tra gli orchestranti che ascoltano con il piattino senza fondo del gratuito facendo tintinnare le monetine della gratitudine. Anche il pubblico parteciperà in allegra armonia, come orchestra da ascoltare, parteciperà trasformando per un attimo i suoi strumenti per chiamare il cameriere in strumenti per applaudire, per battere le mani.” Questo romanzo è stato e sarà futurista fintanto che non verrà scritto, come lo è il suo autore, che fino ad oggi non ha scritto alcuna pagina futura e che ha addirittura affidato al futuro il suo essere futurista a riprova del suo entusiasmo di esserlo di fatto quanto prima — senza cadere nella trappola di essere un futurista da subito come quelli che oggigiorno hanno adottato il futurismo, senza capirlo 1. I bar Ideal, Sibarita e Real, invenzioni di Macedonio diventano popolari nell’immaginario porteño mentre a Buenos Aires la piazza, i bar e il caffè La perla del quartiere ebraico Once, dove Macedonio risiede in modo del tutto precario dopo la morte della moglie, esistevano realmente. Borges ricorda il quartiere come luogo di incontro e animate discussioni tra Macedonio e i giovani intellettuali dell’epoca. [N.d.C.]

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— ed è per questo stato dichiarato il romanziere con più futuro, ancora tutto da fare, premura geniale la sua che nasce dall’aver pensato che con il progresso di tutte le velocità la posterità non è rimasta indietro; giunge oggi più veloce soprattutto quella che dimentica, che si è fatta contemporanea e si trova già, per ogni opera, nell’ultima edizione del quotidiano del giorno in cui compare. Moriamo tutti già giudicati da lei, libro e autore, resi classici o sepolti nello stesso giorno, mentre ci stavamo ancora raccomandando alla posterità lamentandoci del presente. E tutto questo si fa oggi con sufficiente giustizia in 24 ore. L’antica posterità con tutto il tempo che si prendeva per rifletterci ha consacrato moltitudini di nullità come artisti gloriosi. C’è più equità e materia grigia in un cronista del giorno d’oggi: la solennità vacua e i moralismi sono stati i mezzi di corruzione facile ed efficace di una posterità esistita fino a ieri. Io cercherò fiducioso il giudizio della posterità universale riguardo il mio romanzo nell’ultima edizione di “Crítica”1 e de “La Razón” del 30 settembre 1929 giorno inderogabile della sua apparizione, poiché ho esaurito tutte le possibilità di proroga, reali perché l’ho promessa, letterarie perché ci sono i prologhi. Il consacrato futuro letterato che non ha stima né crede in altra posterità se non in quella della notte che segue il giorno, non avrà sperimentato l’urgenza di cui prima soffrivano gli autori di scrivere alla svelta per avere alla svelta una posterità giudicante: con la velocità raggiunta oggi dalla posterità l’artista le sopravvive e il giorno dopo sa se deve o no scrivere meglio o se l’ha già fatto così bene che deve trattenersi nella perfezione dello scrivere. O se ormai non gli resta altra carriera letteraria che la più difficile, la carriera di lettore. L’attuale facilità dello scrivere causa la

1. “Crítica”: quotidiano scandalistico di Buenos Aires con un supplemento dal titolo “Revista multicolor de los sábados” nato con l’intenzione di opporsi alla cultura elitaria del quotidiano ufficialista “La Nación”. Nel 1933 Borges ne diventò direttore. [N.d.C.]

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penuria del leggibile e ha soppresso perfino l’ingiuriosa necessità dell’esistenza dei lettori: si scrive per fruire dell’arte o al massimo per conoscere l’opinione della critica. Sinceramente, è molto bello questo cambiamento, è arte per l’arte e arte per la critica, che è ancora arte per l’arte. L’arte orribile e le accumulazioni di gloria del passato, che esisteranno sempre, si devono: al suono delle lingue e all’esistenza del pubblico; senza quel suono non resterà altra strada che pensare e creare; senza pubblico la calamità recitativa non sommergerà l’arte. La letteratura avrebbe solamente arte e molte più opere belle: tre o quattro Cervantes, solo del Chisciotte, non delle novelle, Quevedo umorista e poeta della passione, non dell’oratoria moralista, vari Gómez de la Serna. Liberi dall’orrore di un Calderón, principe del falsetto, che è il non sentire, espressione di tutto il cattivo gusto, liberi da un Góngora, a volte da alcuni “estos Fabio, ay dolor!”,1 avremmo tre Heine del sarcasmo e delle tristezze, o vari D’Annunzio della poetizzazione della passione senza limiti. Saremmo felici di avere solo un primo atto del Faust e, in compenso, vari Poe, varie Bovary col loro triste dolore di appetito senza amore, disdegnabile e cruento, e un altro assurdo lacerante: la lirica di dolore dell’Amleto che convince e incute simpatia nonostante la falsa psicologia della sua causa. Liberi dal realismo scientificante di Ibsen, vittima di Zola, e questo magnifico artista a sua volta sviscerato dalla sociologia e dalla teoria dell’eredità genetica e dalla patologia, anziché di una dozzina di opere maestre ne possederemmo cento, autentiche, d’arte vera, intrinseca, estranee alla copia della realtà. E tipicamente letterarie, di Prosa, non di didattica, non di parola musicata (metro, rima, sonorità), non di pittura scritta, non di descrizioni.

1. L’autore si riferisce a un’opera di indiscutibile importanza nella poesia spagnola del Siglo de Oro: la Epistola moral a Fabio di Andrés Fernández de Andrada, 1596 (?). [N.d.C.]

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Pubblico qui un prologo di tale romanzo, perché spero di fare un’opera così affidabile che personaggi, eventi, scherzi, comprovino tutta la sua serietà in prove particolari: e persino il pubblicarla sia una prova antecedente al lettore. Ma seguito da questo! Sperimento il seguente prologo. Come pure una parola tedesca nuova in spagnolo sulla quale mi sono consultato con Xul Solar1 nel suo laboratorio: “Lingue in composizione”. È un aggettivo composto, ma nuovo, non come un vaso ricomposto. Al “da-tutti-noi-artisti-servito-di-sogni” Lettore.

1. Xul Solar (Buenos Aires 1887-1963). Pseudonimo tratto dal cognome paterno Schulz, di origine lettone, e da quello materno Solari, di origine genovese. Nato in Argentina, nel 1913 Xul Solar intraprende un viaggio per l’Estremo Oriente ma, giunto in Europa, viene sorpreso dalla I Guerra Mondiale e costretto a soggiornarvi. Nel 1920 espone i suoi dipinti con lo scultore Martini. Nel 1924 toma a Buenos Aires dove aderisce al gruppo dei Martinfierristas. Fu pittore, illustratore, studioso di religioni, di filosofia ermetica e, soprattutto, di astrologia. Fu inoltre linguista e inventore del neo-creolo e della pan-lengua. Negli scritti di Macedonio Fernández il personaggio appare già in “Brindis insistente”, tra i Papeles de Recienvenido, (op. cit., p. 59), quando M. Fernández racconta che nel 1928, mentre si affrettava a terminare le pagine della sua “Vigilia, ecc.”, ricevette la visita di Xul Solar. Uno “squisito estrellador di cieli e di idiomi […]”, scrive, “egli veniva ad annunciarmi che il suo idioma di incomunicabilità, il suo inintelligibile neo-creolo, sarebbe stato pronto prima che io concludessi […] allora si sarebbe detto che una volta offerto al mondo l’idioma di Xul Solar, chiunque avrebbe potuto scrivere libri inintelligibili. Affrettai il mio, e credo di aver dimostrato che non ho bisogno dell’idioma di Xul Solar: un pensatore può rendere incomprensibile, come chiunque, ciò che fino a un determinato momento sembrava difficile.” Estrellador. neologismo dell’autore da estrella, in it. stella. Qui assume, nel consueto linguaggio ironico di M. F., il significato di “colui che riempie di stelle il cielo e gli idiomi”. Al lettore curioso si suggerisce la lettura di “Tlön; Uqbar, Orbis Tertius” di J.L. Borges in Ficciones (1944), Obras Completas, vol. I, Emecé ed., Buenos Aires, 1989, pp. 431-443. [N.d.C.]

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Al “tanto-sognato” Lettore; A “quello-che-l’autoresogna-che-legga-i-suoi-sogni” Lettore. A “l’-unico-reale-che-l’-arte-vuole” il lettore di sogni. Al “meno-reale, colui-che-sogna-sogni-di-un-altro, -epiù-forte-in-realtà, -poiché-non-la-perde-anche-se-non-lolasciano-sognare-ma-solo-ri-sognare“ Lettore. Credo di avere individuato a chi mi rivolgo: al lettore, e di avergli trovato, dopo tanta frammentarietà, in alcuni casi falsa, l’aggettivazione totale del suo essere. “Caro” lettore non aggettiva questi bensì l’autore, ecc. L’aggettivazione appena letta — del non letto che conterrà il libro parlo profusamente prima del romanzo; perché il di più, qui, è prima del tutto al quale concedo poco; con i prologhi ho la delicatezza di privilegiare i lettori offrendo la possibilità di conoscere tutto il libro, cosa che solo i miei lettori hanno trovato in un autore abnegato — detta aggettivazione l’affido al pubblico perché la passi subito al laboratorio linguistico del singolare artista Xul Solar che la renderà senza dubbio una parola. E, già nella quarta edizione, il mio saluto al lettore, di cui oggi mi scuso, sarà un saluto disarticolato. Salve, lettore. Che tristi siamo nei libri e fuori. Io, il più nominato e meglio identificato degli sconosciuti, per iniziare ho bisogno alla svelta di Opere Complete in modo che tutto il futuro, tutta la carriera letteraria, nel mio caso, siano posteriori a dette Opere; soltanto perché il pubblico non si è fermato ad aspettarmi per nominarmi grande sconosciuto e adesso devo meritarmelo, costruendomi dal nulla un passato d’autore e quindi poter cominciare a scrivere. Questa situazione, del tutto nuova nella vita degli scrittori, non comprometterà il successo? Se hai una pena come la mia, tu che mi hai letto prima che scrivessi, io non ce l’ho. Ho portato a termine le mie Opere Complete. Soddisfatto, momentaneamente incapace di comprendere qualsiasi pena, posso offrirti l’essenza di una lunga esperienza in arte, accumulata nell’elaborazione della mia presente Opera Completa. Libera senza limiti sia l’arte e tutto quanto le è annesso, 74

le sue lettere, i titoli e il vivere dei suoi cultori. Tragedia o Umorismo o Fantasia nulla devono soffrire di un Passato costrittore né copiare da una Realtà Presente, e tutto deve incessantemente giocare, derogare. È un errore assiomatico il definire l’arte per copie; non ho bisogno di copie per comprendere la vita. Una situazione nuova, un carattere nuovo, incontrati nel vivere sarebbero eternamente incomprensibili se fosse necessario copiare. Autenticità d’autore è solo d’invenzione. Considero definitivo solo il titolo, perché: Un prologo che inizia subito è una grande negligenza: il precedere che è la sua essenza gli vien meno, come il futurismo che si pratica genuinamente solo lasciandolo per il dopo — come ho già detto. Prima dirò così: si tratta di uno dei ventinove prologhi di un romanzo — che non può avere prologo stando all’avvertimento che mi ha appena dato un critico nato quasi di sicuro nel tranquillo paese dell’“avvertire dopo”; secondo un altro più simpatico, cioè più generoso, di un romanzo scarso di prologhi, cosa ancora rimediabile — che doveva chiamarsi “L’uomo che sarà Presidente e non lo è stato”.1 Che equivale a: “Buenos Aires isterizzata tra la fazione esilarante e quella commovente, salvata dal compadrito 2 divino che univa cioè la passione all’umorismo”. Ma il titolo rimasto “per il romanzo che si lascia cominciare”3 — che pur cominciando tardi in ogni caso comincia, e il lettore se lo leggesse

1. Questo “uomo che sarà Presidente” (nel romanzo) e che non lo fu (nella storia dove forse volle esserlo?) è vincolato a una possibile azione politico-fantastica a cui si allude nelle note a “Para una teoria del Estado”, in Teorías, op. cit. Cfr. anche AA.VV., Hablan de Macedonio Fernández, Carlos Pérez ed., Buenos Aires 1968, a cura di G.L. Garda. [N.d.C.] 2. Diminutivo dello sp. compadre in it. compare. [N.d.C.] 3. L’autore fa riferimento a Una novela que comienza (Un romanzo che inizia). Cfr. la postfazione.

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desidererebbe che fosse tutto di seguito — è: “Romanzo della Eterna, e della Bimba di dolore, la Dolce-Persona, diun-amore- che non fu saputo”. Quest’ultimo è il titolo piaciuto a un signore che cominciò a leggerlo e promise di ritornare subito per finire di sapere come si intitola il romanzo. L’unico romanzo del tutto raccontato e che, oltretutto e per altro, non contiene nulla benché il desiderio di raccontarlo tutto porti a raccontare di più e quella di leggere i racconti arabi mi abbia trascinato nell’adolescenza (non sapendo che fossero solo 1001) a continuare a leggerli dopo che erano terminati: mi si avvisò molto tardi che quello che leggevo veniva dopo la loro conclusione e così continuai a divorare racconti che trovai ricchi di Morale e di Storia; racconti del Progresso, dell’abnegazione dei politici, dei religiosi, dei sostenitori di qualsiasi cosa disinteressata, la felicità del buono, il pentimento del cattivo, la concordanza ultima tra la convenienza generale e individuale, o Utilitarismo, l’ordine dell’Universo e altri miracoli dell’abbondante “fede” degli uomini di scienza, così esigenti con i miracoli popolari! Romanzo con due inizi, a piacere. Con molto dolore ed entusiasmi, ma nessuna morte, se non la parola Fine che si scrive lontano, molto dopo che si avrà terminato di leggere il titolo, e solo una volta, per quanto possano precisarlo bene i prologhi (non tutti, ma alcuni persino finiscono) e addirittura il titolo, quando termina: ho soppresso Fine dal titolo, Fine dal prologo, per dimostrare quanto poco della sua esistenza debba il romanzo alla morte — tanto meno alla vita (verità, realismo). Con due quasi impossibili quasi risolti: come raccontare l’ultimo e cosa fare con un sorriso sbagliato; come riprendersi con disinvoltura dopo aver riso di una tragedia per non aver compreso il titolo e averla confusa con una commedia. Con un’unica interruzione nella lettura e nella narrazione affinché Dolce-Persona avesse il tempo di vestirsi e 76

nel frattempo il lettore non avesse un pretesto per leggere che è il suo modo di guardare. Con ventinove prologhi per non lasciarlo iniziare. Con tre tempi matematici nuovi, tutti suoi, del suo “tempo del romanzo” mai registrati prima in narrazioni e romanzi, come se il tempo negli avvenimenti fantastici non fluisse né fuggisse. Detti tempi sono: quello della cortesia porteña che non licenzia o dice di no a nessuno senza concedergli tempo “fino al nuovo tango” perché trovi un altro impiego o faccia ammenda; l’intervallo (di terreno) tra due cadute del Principe di Galles: è molto simpatico questo principe agrimensore che si è guadagnato questo titolo misurando tratti non lunghi con la lunghezza della sua regale persona — mi auguro che il lettore singhiozzante non si senta confortato nella sua inclinazione vagabondante di leggere dall’esempio di questo illustre cavalcare singhiozzante; infine, il tempo minimo: quello che rimane ora per essere il primo soprabito o la prima influenza di questo inverno o volendo misurare con un’altra unità questo tempo: quello di salvare un cappello nero, dimenticato sulla seduta nera di una sedia, dal visitatore appena arrivato che si avvicina o se si preferisce: i cinque minuti del film nei quali tutto il personale di Hollywood deve correre, accalcarsi per trasformare in felicità — matrimonio, bacio, smascheramento del falso virtuoso — tutte le sfortune di due ore di pellicola. Con personaggi delle tre età, segnate dall’Oblio: quella in cui dimentichiamo la sigaretta accesa nel bocchino nuovo di papà nella stanza della cameriera; quella già avanzata in cui ci si dimentica del pane sopra una scrivania pulita; e quella già disperata in cui ci si dimentica tutto, perfino l’età e addirittura un cappello nella zuppiera, fatto deplorabile. (Predominerà quella in cui si salgono saltellando le scale, si confonde l’ultimo gradino o l’ultima linea da valicare e compare il primo biliardo e la prima notte in cui ci si dimentica le chiavi per tornare a casa.) Con il dolore della bimba, il cui bellissimo amore non fu saputo. E le certezze sulla sorte di Dunamor il Non-EsistenteCavaliere. 77

Tutto ciò si rivelò da confusioni indicibili — che ora si raccontano grazie allo sforzo compiuto dal Romanzo — all’impiegato di banca che non sapeva se era un genio. Ultimati i prologhi, il romanzo inizia all’improvviso, di sorpresa, con “Un romanzo compiuto, reso pubblico”, inserendo precipitosamente a quel punto il totale dell’esteso “Romanzo impedito” e concludendo con tutto il resto che l’autore sapeva in “Di che cosa piangere”, capitolo che vi procurerà di cosa piangere, e l’impossibile morte dell’“uomo che fingeva di vivere”, a cui ha assistito solo il parrucchiere facendo credere di essere sveglio e di guardare, benché in quell’istante dormisse come sempre, parrucchiere il cui maledetto dormire non impedisce che tutto venga raccontato e si sappia, senza che venga detto, però, dall’esterno del romanzo, niente che non sia nel libro, né impedisce a questo di avere la formalità di una Fine, nello stesso punto in cui ce l’hanno tutti, nel punto in cui il volume rimane senza niente da dire cosa che fa dubitare che tutto sia stato detto. Assicuriamo che poche volte un romanzo solo promesso, come quelli che vengono osannati pur non essendo conclusi, è tanto concluso quanto il nostro, scritto completamente prima della fine senza lasciare intravedere alcun seguito. Romanzo, infine, sicuro di venir pubblicato dal momento che è stato nuovamente promesso altre tre volte a compimento della prima promessa che feci a suo riguardo. Non contiene né viaggi né dimenticanze da inseguire: sono entrambi pretesti per lasciare senza personaggi il lettore facendo credere che gli avvenimenti del racconto non possano andare avanti se alcuni protagonisti non partono per Londra o semplicemente dimenticandosi per pagine intere di scrivere il romanzo, dovendo il lettore aspettare che ritornino o che le dimenticanze, battendosi la fronte, si ricordino di riprendere la narrazione. Per questo ho già detto e dirò che non accettiamo tra i personaggi la cuoca che chiedeva il permesso di sistemare bottoni e coperchi di casseruole affinché non traboccasse nulla e i dolci di riso non si attaccassero al fondo. 78

SALUTAZIONE

Eccomi qui, stranamente attuale, il Romanzo annunciato che senza dubbio ha avuto l’istinto di assicurarsi uno stato di non-esistenza effettiva — non è uscito dal non essere perché il promesso prende forma tra l’essere e il non essere, e nella prospettiva altrui, come nell’anima di chi promette, gli si preparano luoghi di esistenza e gli si riservano energia, curiosità, attenzione; anche solo il prometterlo gli ha dato tanta esistenza che gli sono stati riservati premi in entrambe le Giurie — e l’istinto di mantenersi in questa non-esistenza una mezza dozzina d’anni per comparire come se il suo essere non avesse conosciuto il nulla, cosa che raddoppiando la sua virtù di realtà la renderebbe possibile in tale abbondanza che, in quella, in una fantasia, la non-esistenza vivrebbe nella persona del Non-Esistente-Cavaliere, la cui insinuata sostanza potrebbe solo rendersi effettiva, concretizzarsi, respirare, la cui esile ombra potrebbe solo tenersi ritta in un romanzo tanto forte nell’essere come questo, il cui inizio non è stato preceduto dal nulla. Anche qui ti dirò addio, lettore, non perché tu possa mai dimenticarmi, non lo potrai, è il romanzo che non può essere dimenticato, ma perché sono un povero romanzo, appassionato, anche se debole nel suo sogno tremulo, piccolo tessuto d’ombre che ha finito col rivelare tutto, col dire tutto, dal momento che tu inizi a fare di lui una tua lettura: 79

Dolce-Persona, il Presidente, Nec — la Eterna non percorre lo stesso cammino — i tristi esseri-personaggi vivono solo quei pochi minuti che qualcuno impiega per scriverli: non appena scritti, sono finiti, non sono nulla, ancora più tristi perché le loro figure morte sono percorse dal solletico, dalla farfalla dello sguardo umano, che legge, percorse dal tocco inquietante di petali di burla o di pietà che avete staccato, facendole rabbrividire, sopra le loro forme che non ebbero mai accesso alla Vita. Il Romanzo è stato fatto senza vita e tuttavia per non essere dimenticato. Cosa ancor peggiore, più triste, e per di più senza pietà alcuna nei suoi confronti. È lui, tutto il romanzo, ciò che potete piangere, voi che siete eterni, i viventi, perché avete toccato la Vita e non esiste morte dove ci sia stato un presente, di cui un istante sia sempre seguito dall’eternità; potete piangere, le lacrime scorrono ardenti sul vostro viso, lo inumidiscono; io, il Romanzo, sono un insieme di sogni, un sogno intero, e un giorno chi mi ha sognato mi dimenticherà; smetterò allora, per sempre, e smetto ogni volta che, in quanto felice e trionfante, lui non mi sogna; voi non vi dimenticherete mai di esistere.

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ALTRO DESIDERIO DI SALUTARE

Perché non dovrei averlo, e perché non avere anche quello di chiamare saluto ciò che risulterà non esserlo? Non ho promesso la mia continuità e congruenza mentale di uomo, ma solo quella di autore, ho promesso di dare un romanzo definito. Sono qui tra tutti i capricci che trasformano l’io all’improvviso nei mutamenti intimi di ogni giorno; vivo il mio giorno davanti al lettore. Il lettore è per definizione un simpatizzante e io posso risultargli interessante in ciò che riesco a mostrargli dei miei dubbi, dei miei cambiamenti. Il sapere è una questione di profondità, di complessità, niente di simile al triste fatto di conoscere parole, il peggio che ci possa succedere e, nel contempo, ciò che suscita maggior fascino. Io dico che viviamo con tanto poco sapere da credere che non sia poi così necessario. E se fosse vero che sappiamo così poco, si dovrebbe dubitare del fatto che ciò sia vero: se non sappiamo fino in fondo quasi nulla è probabile che in una tale e vasta ignoranza ci sia posto per il non sapere che sia vero che non sappiamo nulla. Non è questo ciò che volevo dire, bensì che ognuno conosce profondamente due o tre verità complesse ma i suoi contatti con la vita possono avere mille altri aspetti tali da far vivere quasi tutti i momenti della vita all’oscuro, fatto che non conduce a costanti sventure, tutt’altro, perché il dolore tende a generare di per sé il piacere, per mera ces81

sazione e viceversa. I successi, il sapere, pesano ben poco davanti a questa regola delle cose. Però, questo sì, viviamo in uno stato di costante sorpresa; quasi sempre nell’imprevisto. Integralmente non conosciamo alcun frammento (integralmente, frammento, denunciano la fragilità del lavoro mentale dell’uomo), nessuna frazione completa del nostro lotto di vita, a meno che non dedichiamo, cosa che di rado è possibile, buona parte di quella vita a conoscere tutte le motivazioni di ogni singola azione e di ogni singola passione. Proviamo piacere a ricostruire gli inizi degli effetti e dei fatti che tanto o poco continuano a legarci e solo di rado troviamo ampio spazio per una rievocazione metodica. Tantomeno sappiamo in ogni momento su quali substrati stiamo forgiando idee e condotte. In musica, ad esempio, se confrontiamo l’immensità delle piccole creazioni melodiche degli artisti contemporanei o anteriori a Bach, e di Bach stesso, quelle dei popoli del passato e ciò che è così popolare ai nostri tempi, possiamo dubitare del fatto che, fino a oggi e compreso Beethoven, si sia creata effettivamente musica, o se solo si sia creata musica da quella musica remota, non di certo artistica così come non lo era quella che l’ha preceduta. Forse tutto ciò che abbiamo chiamato musica da Bach in poi, sono elaborazioni di ossessioni legate ai piccoli temi e ai frammenti di canto che quei musicisti e quei popoli hanno lasciato in gran numero. Forse mai, o quasi mai, è esistita una musica genuina o individuale: è il passaggio da un sentimento provato dall’artista individuale alla sua espressione diretta e personale, è ricerca di mezzi e profondo desiderio di esprimersi. Ecco come si lavora per lungo tempo all’oscuro e si dà al nostro lavoro un nome che non merita. È così che adesso mi chiedo anche: cos’è, nell’ambito delle motivazioni, ciò che ha promosso in me la nozione e la volontà di scrivere un romanzo? Di questi ultimi due o tre anni, la mia vita non conosce quasi nessuna delle sue motivazioni, non perché nulla sia misterioso, inaccessibile, ma perché le indagini sono faticose o inquietanti, nonostante 82

l’interesse che tutti abbiamo per queste ricerche delle origini della nostra storia e degli schemi di tutta la motivazione di un atto o di un sentimento. All’inizio ci fu il desiderio di esprimermi, e di studiare la vita psicologica, e di impegnarmi in uno studio generale di estetica, e di migliorare economicamente e, con questo, crearmi l’inizio di una reputazione che in circostanze difficili mi procurasse mezzi per vivere. Tutto questo si cancellò con una motivazione grande e nuova che scaturì dall’aver conosciuto inaspettatamente una certa persona di tale levatura spirituale, di tanta incredibile grazia, che a volte non so se l’ho solamente sognata. Per esserle grato o continuare a sognarla iniziai il manoscritto. Rimase questa la motivazione suprema insieme a una minore, di maggior interesse per il pubblico: elaborare una teoria d’Arte, in modo particolare una teoria del Romanzo. Ed è così che si scrive all’oscuro anche una lettera in questo romanzo: e che all’oscuro il suo destinatario si agiti leggendola, in preda a un turbamento che nemmeno lui riesca a definire. Inoltre non si indovinano le motivazioni della Eterna, ché ella stessa non si conosce bene, e si scrive per impulsi sconosciuti quella missiva. Ed è con uguale confusione che il lettore si formerà le proprie impressioni su questo Romanzo. Non credo di aver scritto un romanzo fedele alla piena dottrina posseduta. Se entrambe le cose fossero eccellenti, concederei ancora molto tempo al lettore per affermarsi in un’impressione, molto di cui dubitare, molto da dichiarare vago o contraddittorio o non-artistico, dal momento che, per giustificare le mie imperfezioni ho appena finito di argomentare quanto sia difficile essere convinti, così, delle proprie motivazioni e impressioni. Addio, lettore!…

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COME È STATO POSSIBILE, ALLA FINE, IL ROMANZO PERFETTO

Si è potuto fare, alla fine, il romanzo modello, che presentiamo approfittando di un frastornio curioso provocato dall’aggirarsi tra i letterati del personaggio Juan Pasamontes, che come tutti sanno — compreso lo stesso Socrate che nulla sapeva e tutti quelli che sanno soltanto che lui l’ha detto — è quello che continua a figurare da due o tremila anni, dalla letteratura greca e romana, in ogni romanzo di vero impatto e modernità che non assomiglia a un altro in niente, nemmeno per il fatto di avere Pasamontes. Si è sempre riconosciuto questo protagonista, nella posizione immutabile che lo rende interessante fino ad affliggere: Juan Pasamontes avventurandosi spinto dall’amore nella scalata di una montagna con precipizi degni di montagne da romanzo, è caduto per qualche metro in uno di questi, cosa che è sempre una sfortuna e soprattutto se accade proprio quando la narrativa deve inderogabilmente iniziare; prova di ciò è che essa inizia descrivendo questo incidente che serve nel romanzo a farlo cominciare e nella vita di Pasamontes a sospenderla, nel lettore a mantenerlo sospeso per la preoccupazione e nel racconto a farlo procedere: è l’unico antidoto efficace per farla finita con il lettore singhiozzante. Pasamontes è molto in alto e rischia molto ma la storia prosegue, come le cronache poliziesche che non iniziano finché non accade qualcosa; e il girovagare di Pasamontes sulla montagna con animo allegro e contento, comincia a com84

piacere i lettori e l’autore solo quando lo vedono mettere il piede in fallo con grande rischio e pericolo. Ed è aggrappato all’ultima pianta o arbusto, la punta del piede sulla piccola sporgenza di una pietra instabile, sfinendosi fatalmente in grida e sforzi a trenta o più ignorati metri dal fondo di quello che già dobbiamo iniziare a chiamare abisso. Tutto il romanzo è raccontato mentre lui si trova in tale situazione e alla fine bisognerà spiegare al lettore come è stato salvato. Non credo che si possa concepire un intreccio romanzesco che possa mantenere il lettore più legato a sé, contando su di lui fino alla fine, e più sospeso, senza mai distoglierne l’interesse; non credo che esista un procedimento migliore che dia per certa la partecipazione del lettore a tutte le pagine; anche se tutte, fra la prima e l’ultima, fossero in bianco, come succede quasi sempre, in fondo — promessa di trama, promessa di uno scioglimento, promessa di caratteri, promessa di unità e di congruenza, non mantenuti — il lettore non ne salterebbe nemmeno una. Pertanto, per un romanzo modello e in niente simile ad un altro, non c’è nulla come questo Juan Pasamontes, personaggio di tutti i romanzi, poiché è la personificazione di ogni trama: esordio e scioglimento, senza niente nel mezzo da districare, o intreccio con una soluzione simulata. Sospeso nell’aria, da lui pende l’attenzione di tutti i lettori; io ne avevo bisogno per la cosa più difficile, fare iniziare il romanzo e far sì che il lettore iniziasse a svolgere il suo compito. Sia perché Pasamontes lo fa meglio di chiunque altro procurando questi due inizi difficili il lettore crede di essere lui stesso a rendere la cosa più difficile — sia perché egli ha fatto credere in queste due difficoltà, con lui autore e lettori intraprendono le loro rispettive fatiche in modo più scivoloso. Scivolate e sospensioni qui sono stati d’aiuto. Entrando, Recienvenido1 appendeva il suo cane all’attaccapanni 1. Neo-venuto. L’autore fa riferimento alla sua morte come avvocato e alla sua nascita come Autore. Cfr. la postfazione [N.d.C.].

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dei vestiboli; gli operai della Ford appendono il berretto, un tipo di movimento, come dice il signor Ford, tanto lieve quanto quei movimenti che, nell’officina, costituiranno poi il lavoro della giornata; io appendo un personaggio preso in prestito e lo riprendo all’uscita per restituirlo, ma nell’interim, trascino il Lettore in un coinvolgimento così intenso da farlo pentire di ogni futuro Singhiozzare. Il metodo sia gradito a ogni autore futuro.

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DUNAMOR

Dunamor si deve alla più grande scoperta a cui è approdata l’intelligenza umana: la concezione dell’automatismo di Hogdson; o meglio, si deve allo stimolo che la prima scoperta perspicua nell’ambito dell’automatismo psicologico diede al pensiero dell’autore di questo romanzo indirizzandolo a formulare la teoria dell’automatismo integrale, che può essere considerata una fra le idee più audaci e fra le intuizioni più chiare. L’autore, partendo da questa eccelsa lezione di Hogdson, non ha avuto timore di portarla alla sua sistematizzazione estrema. Diciamo che l’autore romanzesco di questo romanzo (con la cui magia prometto di far diventare anche te, lettore, un lettore romanzesco) scoprì: che non si è mai accertato che l’uomo o la donna che pianga o rida, aggrotti le sopracciglia, gridi, si agiti, attacchi, si difenda, cerchi, trovi, giochi, si fermi, scriva o sembri leggere o ascoltare, possa sentire o pensare una qualunque cosa; e che in quell’uomo o in quella donna esistano “stati” di suono, colore, odore, dolore, di tutto ciò che costituisce la sensibilità. Insomma: il fatto che non esista “stato di coscienza” non impedirà in nessun modo — né la presenza della coscienza potrà esser di qualche aiuto — che si comportino 87

esattamente come si comporterebbe nella stessa situazione una persona dotata di conoscenza e sensibilità.1 All’organismo interessa vivere: non gli interessa essere, né avere un senso. L’automatismo si fa carico senza tregua di tutto il nostro agire e tale automatismo viene totalmente acquisito grazie all’esperienza individuale (esperienza che non ha bisogno di essere sperimentata per generare modifiche di adattamento), eccetto forse nei due riflessi istintivi fondamentali che sono congeniti: la fuga da ciò che addolora (dal dolore che distrugge l’organismo, non dal dolore psichico) e la ricerca e la salvaguardia di ciò che piace. Con questo automatismo congenito di base l’esperienza registra via via le sequenze fisiologiche di ogni emergenza: un uomo aggredito da un mastino furioso che egli non vede né sente, un uomo che non ha ricordo sentito di un cane o di una ferita; o se vogliamo: un uomo che si è alzato quel giorno con perdita totale della coscienza, si difenderà o fuggirà automaticamente, soltanto se in un’epoca anteriore un cane lo abbia ferito benché lui non fosse cosciente di ciò che era successo. Si direbbe che devo ammettere la necessità che, almeno qualche volta, quella persona sia stata dotata di psichismo, intelligenza, emozione, percezioni sensoriali sentite. Ma non è così: il bambino può nascere assolutamente insensibile e si comporterà nello stesso modo del suo fratellino sensibile (aura di sensibilità psichica). I danni subiti dal corpo si saranno associati alle sensazioni dei nervi della vista e dell’udito, tramite le modificazioni nei tessuti nervosi provocate dalla figura e dai latrati dell’animale, senza bisogno che queste alterazioni neurali si siano tradotte in fatti psichici di visione e audizione. (Per la psicologia le cose sono così; per la metafisica tutto il fenomenismo materiale, il corpo umano, le onde sonore e luminose, non sono che stati psichici o sensazioni in una psiche.) 1. Il lettore e Hogdson si sussurrano qualcosa e l’autore percepisce che entrambi scrivono appunti marginali. [M. F.]

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Quello che l’autore ha cercato di scoprire ma che non è ancora riuscito a fare, è in quale circostanza possa prodursi quello che chiameremo l’annichilimento totale della coscienza in una persona fisica; ma basti avvertire che la presenza della coscienza in una persona fisica è una nozione assurda, perché lo psichico non è trattabile in termini di spazialità: una emozione, una percezione visiva sentita, non avviene nel mio cervello, benché si possa discernere una relazione causale fra il sentire e le alterazioni in un cervello… L’autore conobbe Dunamor, lo frequentò con assiduità per molti anni e notò che a partire dalla morte della moglie,1 che egli dimostrava di amare immensamente, qualche sfumatura quasi impercettibile nella sua condotta e nelle sue manifestazioni si era alterata in modo inquietante anche se indefinito. (L’autore si dichiara in questo paragrafo scritto da romanziere professionista, però ha il diritto di pregare il lettore di credere un po’ ai miracoli dei romanzi, almeno nella stessa misura in cui ho acconsentito a crederci io, per molti anni, come lettore di un numero considerevole di romanzi meno comprensibili e congruenti del mio.) E così, a poco a poco, Dunamor perdette la sua sensibilità fino a ridursi a un corpo senza coscienza. Se il lettore ignora tutto quello che io ignoro (gradisco il suo cameratismo), deve ignorare come Hogdson spiegava in modo soddisfacente ed esaustivo l’automatismo, direi incompleto, da lui scoperto. Si può comprendere soltanto quello integrale che io spiego. Per questo giurerei che Dunamor ha smesso di essere una coscienza personale da molti anni, e io stesso osservo che la sua condotta nel romanzo è quella di un uomo che nulla sente, pensa o vede in atteggiamento di attesa ma senza sentire l’attesa, di tornare a riunirsi con l’amata ed essere felice: attualmente è una insensibilità con la prospettiva di divenire una sensibilità. È

1. L’autore si riferisce a sua moglie Elena de Obieta. Cfr. la postfazione [N.d.C.].

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un fatto assai misterioso e sarebbe censurabile da parte di chi ignorasse che nel mondo esistono il cinema e il feuilleton di Conan Doyle. Il tono dell’ambiente opera sull’automatismo senza che Dunamor lo avverta e questo gli consente di partecipare ai movimenti del romanzo. Il corpo è il dominante che non necessita di collaborazione sensibile; può vivere perfettamente senza coscienza e può anche, quando c’è coscienza, obbligare questa coscienza a vivere quando non le conviene più vivere; si oppone al suicidio dell’uomo colpito dalla sventura più intollerabile e prescinde dal suo sentire per attuare tutto quello che possa mantenere la solidarietà con il proprio corpo: il Corpo non possiede altro programma che la Longevità, non l’Edonismo. Il romanzo non ha Dunamor in quanto personaggio ma in quanto corpo insensibile, tuttavia automa coordinato di un personaggio. Non ci vantiamo di una novità che a tutti gli effetti sarebbe di grande rilievo: la novità di introdurre nel romanzo un personaggio automa (che per un mese funzionerà a molla, ad esempio) perché Dunamor non è un automa di nascita; ebbe, e può riavere, la coscienza… Il romanzo spera che il tono visivo, tattile, uditivo dell’amata rediviva e ritornata, opererà il miracolo del recupero coscienziale di Dunamor. E Dunamor, da parte sua, dimostrerà il suo affetto nei confronti del romanzo arricchendolo con la presenza della sua amata. Come potrà resuscitarla? Perché è il solo uomo che non nega i suoi sogni. Dunamor fa rivivere la sua amata perché crede nei suoi sogni ed è felice perché confida nell’eternità degli amanti.

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UN PERSONAGGIO, PRIMA DI ESSERE INAUGURATO

— Desidero sapere tra quale gente mi verrò a trovare qui. — Nessuna che non meriti. La Eterna, Dunamor, Il Presidente. — Perché lei deve sapere, signor scrittore, che io ormai non sono più nella condizione di imparare o di insegnare agli altri. A volte mi chiamai Mignon nel Wilhelm Meister… — Ma se qui abbiamo l’Eterna che si chiamò Leonora in Poe, che si chiamò Rebecca in Ivanhoe, la nostra Eterna che figurò anche in Lady Rowena. — Quando incontrerò per me il grande romanziere! — Non l’avrà già trovato qui? — Faccia attenzione, però, che il suo romanzo non sia a “chiusura ermetica” ma abbia la possibilità d’uscire verso un altro, perché sono un personaggio che può trasmigrare e devo me stesso non alla posterità dei lettori ma alla posterità degli autori. — E sia: per quanto mi riguarda, basta che qui si comporti bene. Del resto non credo che gli autori del futuro si accontentino di personaggi usati, ma questo non mi riguarda. Rimaniamo così.

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PROLOGO, ANCH’ESSO

Vorrei che questo romanzo avesse qualcosa di un sogno, il più lieve che conobbi. Mi apparve (datando sogni; si possono datare in base alla loro concomitanza con la serie delle veglie, ed anche in riferimento ad altri sogni che lo precedettero o seguirono) nel 1928.1 “Mi trovavo in una stanza nella quale verso il fondo in penombra o dietro una tenda scura e socchiusa, mi sembravano alternativamente così, si muoveva una donna di cui non riuscivo a distinguere il volto ma solo i contorni vaghi delle vesti femminili; e io sapevo chi era, sentivo di conoscerla senza riuscire a vederla in realtà; avvertivo la sua cordialità, la sua compagnia, capivo che la sua anima non mi era nemica; inoltre, a momenti, non sapevo se la vedevo e riconoscevo davvero. Nel risveglio che seguì, o nello stato che come idea o concetto defi-

1. Racconta A.d.O.: “Quando non dormiva pensava e quando doveva essere al lavoro, dormiva: seguì sempre da vicino la sua attività interiore, per così dire […] quando cadeva nel sonno aveva sempre a portata di mano una matita e un foglio di carta, e per controllare il suo sonno annotava quello che credeva essere l’ultimo minuto della veglia. Segnava per esempio 18:25 ed era felice se dormiva un’ora e soprattutto se credeva che fosse proprio quell’ora a mancargli per completare il suo riposo. Era suggestionato dai numeri e dalle ore. Creava sempre in quegli istanti.” Cfr. Hablan de Macedonio, cit. p. 14. [N.d.C.]

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niamo risveglio, non riuscii ad evocare il suo volto.” Uso le virgolette per i sogni e per tutto ciò che scriverò su di loro, in modo tale che se una qualche volta io, che sono sogno per altri, apparirò alla mente del lettore, egli mi possa riconoscere come suo sogno grazie alle virgolette. Tutta l’Arte potrebbe averle, come pure tutto quello che io ho scritto, tre libri fino ad oggi. Vigilia, Recienvenido e La Eterna;1 ho voluto proporle come stato e come rappresentazione dello stato del risveglio e non di tutto ciò che è privo di sogni. È uno stato che dovremmo riservarci per affrontare il dolore e i presentimenti della passione, così come per l’idillio della passione dovremmo crearci una super-veglia, per quanto essa lo sia già. Mi sembra di possedere qualcosa di divino, ovvero di mistico, un senso dell’autoesistenza, in questo sogno raccontato che feci una volta soltanto: è la fragilità o l’imitabilità dell’identità personale, l’eterno sfuggire dalla continuità individuale e il riconoscersi, il confermarsi. Al di fuori dello stato di passione (è passione solo quella altruistica) che è stato di certezza — unico stato di realtà grazie al sogno nel quale entrambi gli amanti convergono e nel quale si deve rischiare tutto, impegnarsi nella veglia assoluta, in tutta la sua gioia, in tutto il suo dolore — dovremmo vivere a mezza-luce e a mezza-azione, a mezza-veglia, senza riconoscere del tutto gli eventi e le situazioni, poiché al di fuori della passione la probabilità è quella del prevalere della sofferenza; il sogno che rammento è la formula dello stato di mezza inammissibilità di ogni certezza ed effettività.

1. Vedi la postfazione del curatore. [N.d.C.]

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PROLOGO METAFISICO

Questo romanzo non consente un distacco dall’eternità; vuole avere la fronte esposta alla brezza dell’eterno; la sua metafisica non lo abbandona ed è come segue.1 Eccezioni: 1. Pochi — solo 1 su un milione di “civilizzati” — hanno provato l’istante dell’Infamiliarità Radicale, l’infamiliarità nei confronti di tutto: di conseguenza la spiegazione metafisica e queste righe sono poco importanti. 2. Inoltre, l’uomo è ben poca cosa, ha molto poco tempo e forze per pensare; quel raro uomo che ha potuto dedicare qualche attimo al pensare e che chiamiamo saggio e genio, è oppresso da complicazioni piccole o grandi che richiedono, anche al più favorito dall’ozio, l’uso di un 30% delle sue forze muscolari e di concentrazione, oltre a pazienze estenuanti volte alla sofferenza. Per questo “saggi” e “geni” si possono benevolmente paragonare a quelli tutti muscoli, che in parte non sono obbligati a coltivare il sapere. Oltre all’insieme di cose mentali ma automatiche (Storia, Lingue) e a parte il lavoretto irritante di stendere le pagine, di redigerle, ecc. Insomma: tutti i cosiddetti saggi hanno vissuto e sono spirati nell’ombra, e vengono ricordati solo 1. La dottrina metafisica si concentra principalmente in No toda es Vigilia (op. cit.). [A.d.O.]

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per la loro specializzazione, che sorprende se paragonati agli uomini comuni e tutti muscoli; di se stessi sanno di essere riusciti a chiarire solo il 10% di quello a cui ambivano. Siamo modesti, noi cosiddetti intellettuali: a ogni mestiere o azione muscolare concorre una buona percentuale di puri sforzi intellettuali. Dopo queste dichiarazioni così franche, anch’io mi lascio andare a un convito di opinioni. Il Materialismo è una metafisica; non è scienza; la sua ricerca è la stessa dell’Idealismo, la perplessità metafisica essenziale: lo stupore di fronte all’inspiegabilità che qualcosa “sia”. La scienza è un passatempo per descrivere l’Essere, nella speranza di praticità e senza stupore-di-essere. Il materialismo, come l’idealismo, così come ogni metafisica definita, conclude dichiarando l’intelligibilità totale dell’essere, l’assoluta conoscibilità dell’essere, a differenza del positivismo e della scienza che si attengono al come del mondo, al come dell’essere, dichiarando inaccessibile all’Intelligenza il modo in cui l’essere sia stato possibile, come si sia dato l’essere e non il nulla, come ciò sia stato possibile, come qualcosa possa accadere, essere, sentirsi. Equivale a credere e a concepire che tutto questo abbia potuto non essere, che domani il tempo, lo spazio, le cose e il sentire possano cessare, a credere e concepire che un giorno cominciarono dopo il nulla. I fisici credono di dire e capire qualcosa quando costruiscono il mondo visivo-tattile con gli atomi, con l’invisibile e l’impalpabile. Allo stesso modo, senza nessuna preoccupazione, inventano l’apparizione della coscienza dal seno delle preziose ri-combinazioni dell’insensibile, dell’incosciente: la materia. Non è che con una verbalità tanto intelligibile si calmino; è che non c’è stata ancora inquietudine, stupore: la Metafisica non è nata in loro così facilmente come la coscienza dell’Incosciente. Invece trovano insensato che l’Idealismo neghi il Tempo, lo Spazio, l’Io, la Materia; che affermi come unica concepibilità, come unico oggetto per l’intelligenza: lo stato sentito, mio 95

e attuale; così nomino, definisco l’essere: l’autoesistente in eterno, l’eterno nella mistica dell’intellezione; vale a dire che la categoria “essere” non è passeggera, non si può perdere. Non concepisco un istante del mio non-essere, del mio non-sentire; ciò che io sono, ovvero la mia sensibilità, non ebbe inizio né cesserà, non si interrompe un istante, né si interromperà l’identità individuale nella mia memoria. Un tempo senza mondo, il non essere dell’essere, è una nozione impossibile. Com’è questo Mistero e in esso Gioia e Dolore, questa esistenza dalla quale non usciremo mai, questa inesorabile eternità personale e mnemonica, quel dolore per il quale vorremmo il non-essere — che ferirà sempre —, quella Gioia che arriverà e tornerà, quell’esistere sempre che non si può allontanare, quella gioia attesa, non presente, per la quale vorremmo l’essere nel presente? Esiste un solo uomo che si è chiesto, “posso non essere?” È l’uomo che: esisteva. Quando qualcuno se ne va, quando un altro si occulta, è l’uomo che esiste colui che si chiede, “c’è la morte?”. Per quanto urtante sia questa verbalità bisogna ripeterla: è chi esiste colui che crede o si domanda “sono nato oggi, prima non ero?”. Posso dire lo stesso e non sembrerà più verbalità: quando voglio pensare al nulla “sorge nella mia mente qualche immagine sulla quale ricade il mio pensiero?”. Se c’è, penso a qualcosa e non a niente; se non c’è, non penso. Abbiamo, è vero, la parola nulla che allude a qualcosa: è una negazione condizionata, o una negazione parziale dell’esistenza condizionata: il non avere tale cosa o il sentire in tale luogo o in tale tempo, ossia insieme a tali determinazioni di altre cose: non c’è nulla su quel tavolo. O il non avere nella percezione quello che c’è in immagini: non avere in casa i cibi prelibati ai quali si pensa. Nulla manca d’altro significato. Lo Spazio è il reale, il mondo non ha grandezza dal momento che quello che abbracciamo con il più ampio degli sguardi, la pianura e il cielo, trova spazio nel ricordo, ossia 96

in un’immagine — nella sua totalità e in ogni suo particolare — esistente in un punto della mia psiche, della mia mente; quest’ultima non ha estensione né punti, e contiene immagini. È sufficiente che, grazie all’evocazione, il materiale possa divenire immagine senza posizione né estensione, nella mia mente; è sufficiente che possa rappresentarsi allo stesso modo e nella sua totalità, essere visto (dal momento che solo il concetto ci dice che non vediamo ma ricordiamo) e lo prova il fatto che nel sogno o nell’evocazione molto intensa quando siamo svegli, l’immagine è altrettanto viva e suscita le stesse emozioni, atti, parole e gesti. Per dimostrare che: 1) l’Esterno non è intrinsecamente esteso; 2) la mente, la psiche, la coscienza, l’anima, la sensibilità — sinonimi nella loro essenza del soggettivo — non hanno estensione, né posizione, né collocazione alcuna; l’immensità, il Cosmo, è quindi un punto o, meglio, l’Immagine involontaria, autonoma, il contingente o lo spontaneo di fronte alla nostra volontà. Come dire che tutto quello che esiste sono immagini, alcune volontarie, altre involontarie, sogno e realtà che si mescolano e suscitano le stesse emozioni e atti quando sono ugualmente vivi. Si può dire che il mondo è inesteso, poiché lo vediamo. Però, a volte, l’oggetto presenta dimensioni diverse a seconda della posizione in cui si trova rispetto a noi; i suoni che produce con la stessa percussione variano di intensità, e per ottenere dall’oggetto una sensazione d’altro tipo, la tattile, dobbiamo attuare un’opera di traslazione. Ne deriva quindi che l’unico aspetto effettivo dello Spazio è l’effetto: la distanza, ossia che data la percezione di un oggetto, di un suono o di un profumo, possiamo aumentarne le dimensioni, i particolari o l’intensità a seconda del caso, mediante un’opera nostra che denominiamo ravvicinarsi e che, ad un certo punto di questo nostro operare, possiamo ottenere la sensazione tattile dell’oggetto visivo. Il fatto che si richieda un’opera di traslazione affinché di un oggetto che diciamo distante si possa ottenere la sensazione di tatto, è l’effetto dello “spazio” e la sua unica realtà. 97

Allo stesso modo, riguardo il Tempo, la realtà risiede nell’effetto: un’attesa necessaria, cioè un insieme di eventi, in modo che dopo uno di questi si possa denominare presente un cambiamento o uno stato di cose desiderato o temuto. Quando un fatto è rappresentato in modo piacevole è desiderato, si tratta di un fatto futuro; se è doloroso e non è temuto, è passato, e altrettanto se è piacevole e non suscita desiderio o allegria. In entrambi i casi sempre a condizione che si scartino effetti attuali del passato o stati attuali che siano parte del fatto futuro. Uno studente dopo due o tre mesi di esami può avere alternativamente rappresentazioni di una stessa scena: immaginarsi in una certa aula vicino ad un tavolo al quale sono seduti quattro professori; questa scena può corrispondere, con le stesse figure, al momento dell’esame di anatomia che egli ha superato in marzo o di quello che dovrà sostenere il novembre successivo: quale delle due scene è futura, e quale passata? La frangia intellettuale che a volte suscita sentimento di timore e altre sensazioni di piacere, è assolutamente la stessa. Nel primo caso il fatto è futuro; nel secondo è passato: il ricordo dell’esame che ho sostenuto mi dà piacere, quello che devo sostenere mi intimorisce. Dimensione (spazio) e durata (tempo) non sono reali bensì inferenze rispetto all’effetto del lavoro muscolare di traslazione o del lavoro mentale di attesa, di inquietudine, di desiderio… La durata non è altro che l’insieme dei cambiamenti che si devono verificare, che devono rendersi attuali prima che si renda attuale un altro cambiamento; e questo prima e questo rendersi attuali non sono implicazioni di tempo che in questo caso sarebbero tautologiche, bensì correlativi psicologici: così uno stato è attuale quando il sentimento — desiderio o timore — legato ad esso, culmina nell’intensità: il timore di qualcosa in quanto timore è, naturalmente, sempre attuale ma la scena rappresentata o percepita è attuale quando il timore giunge al suo culmine. Quanto detto finora è per stabilire la nullità del Tempo e dello Spazio: queste astrazioni ci dicono unicamente 98

che in noi accadono rappresentazioni di scene o di fatti che nella percezione o nella realtà ci procurerebbero dolore o piacere e che senza dubbio si presentano alla nostra mente suscitando a volte emozioni e stimoli motori, a volte niente di tutto ciò (nel primo caso l’immagine è di fatto futuro; nel secondo di fatto passato). Questo è tutto ciò che accade nella nostra psiche riguardo il Tempo. Lontano e vicino (Spazio), si differenziano a loro volta perché l’ottenimento di una maggiore visione o di altre sensazioni di un oggetto esigono, in alcuni casi, lavori di traslazione, e in altri no: vedo un fiore e per ottenere una sensazione tattile e olfattiva devo effettuare un lavoro muscolare o un’altra persona deve effettuarlo per me. Questo è tutto quanto riguarda la Spazio. L’annichilirsi del Tempo e dello Spazio correlativo all’annichilirsi dell’Io (o identità personale) e della Sostanza materiale ci situa in un’eternità dove la discontinuità non è concepibile. Questa è la certezza metafísica del romanzo.

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L’UOMO CHE FINGEVA DI VIVERE (Unico personaggio che ha bisogno di spiegazione. E ce l’ha doppia:1 gli mancò l’esistenza ma abbondò in chiarimenti)

Può essere che non gliene trovi più d’una, per quanto ne prometta due. Altra incongruenza! Però ho già detto, o lo dirò più avanti: impiego qualsiasi mezzo, e fra questi le incongruenze, per sfidare la puerilità del verosimile con l’artistico o il verosimile, indicando e giustificando entrambi. È un procedere più franco e un impegno maggiore che mi prendo per il pubblico rispetto al tanto usato e comodo espediente di introdurre dementi nei romanzi. Chisciotte, Sancho, Amleto, sono personaggi dichiaratamente malati, come l’idiota di Dostoevskij e qualche protagonista di Hamsun (di questo scrittore hanno premiato un pazzo, al punto che se in una pagina il pazzo si comporta con logica non viene premiato e diciamo che l’autore ha fallito: il demente esime l’autore dal guardarsi dagli assurdi). Eppure questi romanzieri continuano a credersi realisti; fare romanzi o teatro con dementi è come fare scienza iniziando col negare la causalità, e scegliere il semplice lavoro di spiegare tutto con la demenza, usare la demenza come coordinatrice del romanzo, fare un realismo non comprovabile per il lettore poiché lo sconnesso e l’assurdo sono la verosimiglianza della demenza. La pazzia nell’arte è una negazione realista dell’arte realista. Gli effetti, le conseguenze, gli influssi della pazzia sui personaggi assennati possono essere arte realista, ma la condotta e il carattere 1

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del personaggio pazzo, cosa che più interessa quei romanzi adagiati nel pseudorealismo, è un’ingenuità sorprendente. Allo stesso modo il sensoriale (gioie e dolori del mangiare, del fumare, della sessualità fisiologica, ecc.) non è un assunto possibile per l’arte; gli effetti della sensualità sul non sensuale del personaggio, sì. Esempio: la Bovary, vita di disperazione sensoriale del tutto disprezzabile, che all’arte interessa soltanto come destino di disperazione, non per la sua sensualità. Io non offro personaggi pazzi, offro una lettura pazza e proprio al fine di convincere con l’arte, non con la verità. In questo romanzo l’uomo che fingeva di vivere non viene visto né viene nominato, non compare. È un personaggio “così”, peculiare; “lui è così”, in modo talmente caratteristico che non ci si accorge che non compare. Se ci fosse ancora posto per lui vorrei introdurlo nel romanzo con maggior preminenza, accrescere la sua importanza come si conviene a un non-esistente; dire, ad esempio, che egli attua l’Assenza realizzata finalmente nell’arte, espressa in simboli, anche se occupa dello spazio. O attribuirgli la colpa di tutto ciò che di brutto accade ai personaggi o allo stile e della mancanza di finezze nella concezione e nella stesura del nostro romanzo. O usarlo come se si accumulassero in lui, nella sua inconcepibile effettività di “personaggio per assenza”, tutti gli impossibili usati apertamente in tutti i romanzi e in tutti i film oltre, ovviamente, al fatto che l’autore sappia ciò che accadrà in futuro, ciò che pensano e non dicono i personaggi e altre piccolezze impossibili che ricamano la trama. Ma dirò onestamente, con semplicità, che ciò che impressiona in questo personaggio si rivela in modo soddisfacente nel piccolo particolare che il primo foglio in cui si parla di lui è il solo che presenta e ha richiesto, non in modo intenzionale ma per uno strano imperativo, un sottotitolo tra parentesi e una lunga nota a pié di pagina. I poemi e i racconti abbondano di cose molto meno spiegate rispetto a quanto qui accade con l’influente recitazione di un perso101

naggio per assenza, utilizzando una singolarità tipografica a dimostrazione dell’efficienza e della sostanzialità di un protagonista inesistente. Come ho detto, nessuno saprebbe — l’autore avrebbe voluto esserci riuscito — che questo personaggio non compare se non grazie a Sen (che fino a questo prologo non ha accettato di buon grado di chiamarsi Forsegenio), perché l’uomo che non si sapeva se fosse genio ha una predilezione a confondersi rispetto all’uomo che fingeva di vivere: fa domande, si meraviglia, reclama la sua presenza, benché gli sia già stato detto che, proprio per il suo ruolo, farlo venire significa mandarlo in rovina (non perché quella degli altri personaggi sia una cattiva compagnia, ma perché con ciò l’Assenza, uno degli assunti più adulati dei versi, non comunicherebbe il suo facile incanto al romanzo). L’ostinazione di Sen ha indotto a cercare e a trovare infine una spiegazione che gli apparisse del tutto eloquente. Ogni volta che Sen chiede di lui, gli si risponde che Hgfg è occupato a fare l’unica cosa che rimane oggi al mondo di cui vergognarsi e che induce a nascondersi: sta rompendo la figurina di una scatola di fiammiferi alla ricerca del buono di sconto promesso dalla Compagnia dei Fiammiferi Victoria. Sen si tranquillizza completamente e prende in simpatia Hgfg. Egli ritiene, di fatto, che quell’occupazione è gradita, rischiosa ed è l’unico motivo grave per il quale nascondersi. L’uomo che fingeva di vivere non appare perché ha pensato che un romanzo che per tanto tempo non è apparso e che per questo veniva celebrato, si espone a non trovare nessuno che lo lodi se non conserva nel suo essere pubblicato qualcosa del non apparire, un qualche aspetto di cosa futura; a un romanzo che ha avuto un lungo periodo nel quale non è stato raccontato, in cui non è esistito — cosa che accade di rado; il non esistere di un libro si dà fra il prometterlo e il pubblicarlo; un libro non annunciato manca di non esistenza — sta bene mantenere questo carattere in qualche aspetto parziale del suo realizzarsi. Ma inoltre conviene che la rigidità dell’assolutamente fantastico regni nel romanzo come desideriamo — perché l’in102

venzione, non la copia della realtà, è la verità nell’Arte — e che il romanzo si assicuri i servigi di un personaggio dall’inesistenza impeccabile. Tutti i fatti e i personaggi del romanzo sono piacevolmente impossibili, fantastici rispetto alla realtà; Hgfg, nella sua inesistenza gradita con la quale si guadagnerà i favori del pubblico, è fantastico rispetto al romanzo: non solo non accade nella vita; non accade nel libro. Il lettore constaterà che se io e il lettore siamo contenti dell’agire di tutti i personaggi e non sappiamo come ringraziarli per averci accompagnati fino alla Fine — così come abbiamo fatto io e il lettore — facendoli io accorrere in qualsiasi pagina si trovasse il lettore per offrirli alla lettura, di Hgfg lo sarà ancora di più: si è attenuto al suo ruolo di inesistenza senza risparmiare fatiche, così ligio alla precisione del suo non essere e così assiduo nel mancare da essere quasi commovente, fatti che devono avergli richiesto una previa e lunga esperienza. Concluso il romanzo, è stato dispensato dall’interdizione di essere e ci ha fatto visita come un neonato riconoscente, debole, inesperto e immacolato. È un peccato che questa visita prodigiosa non avvenga all’interno di un romanzo così bello ma che era già finito, perché non ha il dono di continuare sempre come vorrebbe il lettore e come fanno “La Nación” e “La Prensa” della domenica. La sua inesistenza non rivela alcun difetto, nemmeno nei particolari pur correndo ad ogni momento il rischio di esistere, di essere un fallimento del non-essere, cosa che tanto spazio avrebbe tolto alla sua apparizione.

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GUIDA AI PROLOGHI (PROLOGO INDICATORE)

Preparo le condizioni e un nuovo Capitolo atti ad accogliere scene e personaggi sopraggiunti, per i quali devo improvvisare occupazioni, pagine, fatti e stesure (perché i miei personaggi sono tutti assai leggeri: nell’istante in cui smetto di scrivere, smettono di agire; basta che io non lavori perché tutto si fermi; ecco lì Juancito che fluttua “nell’aria senza appoggio dello spazio” (è un vezzo lirico che sorge in me come un respiro liberatore nella gravità dei prologhi che ancora mi mancano) caduto a metà da un balcone perché ieri, da scrittore coscienzioso, ho smesso di scrivere per sgomberare il terreno (e prepararne la descrizione) che il suo schianto avrebbe occupato; non gli costerebbe nulla assecondare l’effetto della gravità, eppure non lo fa! Un’altra volta mi hanno cercato per tutto il Romanzo perché avevo lasciato don Luciano nell’atto di infilare un braccio nella manica del soprabito e i crampi dovuti a quella posizione gli erano diventati insopportabili. E ancor di più si lamentò il Presidente poiché smisi di redigerlo mentre stava per spegnere il fiammifero con il quale aveva appena acceso la sigaretta e così dovette trascorrere il pomeriggio senza fumare, bruciandosi. Sembra una menzogna. In ogni momento, nel mio romanzo, c’è qualcuno con un solo stivaletto calzato, un giovane con una sola fidanzata o coppie di fidanzati sul punto di restare soli quando io non ho ancora finito di fare uscire 104

la mamma o di far ciondolare la testa alla zia. Scrivendo ho abbandonato anche don Luciano nei momenti in cui indossava una nuova Morale e venni poi ritrovato lontano quando mi si cercava per restituirgli una certa Virtù. Un fatto peggiore, ma dalle conseguenze più fortunate: un intero pubblico che assisteva all’inaugurazione di una nuova via e che contava di addormentarsi non appena il Ministro si fosse alzato per annoiarli con la sua oratoria. Lo lasciai alzare e nell’attimo in cui mi accingevo a redigere il pubblico addormentato, mi chiamarono perché c’era un ricciolo fuori posto o un volto rasato a metà. Poiché il pubblico era personaggio del mio romanzo e il Ministro no, egli pronunciò tutti i suoi indispensabili concetti e il pubblico ascoltò ogni parola, cosa mai avvenuta prima in alcuna cerimonia, anniversario, giornata di premiazioni scolastiche o di inaugurazioni di statue. I pubblici del mio romanzo non torneranno ad aprir bocca per pronunciare i nomi delle vie. Infine gli editori mi avvertono che se smetto di redigere l’acquirente del mio romanzo nel delicato istante in cui non sa decidere se iniziare a comperare un esemplare d’uscita imminente, io non sarò degno dei mille pesos spesi per affiggere ai muri i manifesti rassicuranti sul “Miglior romanzo del mondo, da quando esiste il mondo e da quando inizia il romanzo”.

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ALLE PORTE DEL ROMANZO (Anticipazione del racconto) Come può, un vero artista del romanzo, liberarsi dal lettore di scioglimenti. Una ricetta contro questa gentaglia che legge.

Dei Personaggi scartati si può fare una lista; dei Lettori io scarto un genere soltanto: il lettore di scioglimenti; grazie all’espediente di offrirgli la sostanza di un racconto già compiuto e di anticiparne la fine, non lo si vedrà più da queste parti. La mia tattica di romanziere è: personaggi solo intravisti, ma così validi in ciò che il Lettore riesce a sapere di loro che si imprimono nella sua memoria per l’irritazione suscitata dalla lettura. Tra l’amarli per la loro delicatezza e il non sentirsi sazi a causa della conoscenza incompleta o dell’aver “saputo a metà”, operano due fissatori mnemonici (non esiste memoria senza affettività, sia essa irritazione o tenerezza): nella memoria del lettore i personaggi rimarranno così indimenticabili. Questa spiegazione che precede il romanzo farà sì che l’impossibilità di comprendere le imperfezioni non preoccupi il lettore; leggerà serenamente, così, e ciò che è oscuro o incompleto non gli richiederà l’impegno d’essere compreso. L’autore deve avvertire il lettore, subito e con sincerità: “Questo è un romanzo che si svilupperà così: Un signore di una certa età, il Presidente, in un angolo del nostro paese, riunisce a poco a poco tutte le persone che durante le sue escursioni fuori casa gli risultano simpatiche e vogliono vivere con lui. 106

In questo convivio dell’amicizia trascorrono un periodo felice, ma l’ospite non lo è: induce gli amici ad entrare in Azione. L’Azione si compie con successo, ma egli è ancora infelice. Conclusa l’azione si separano, e dopo diversi episodi e avvenimenti non si sa più nulla di nessuno. L’essenza di questo racconto, lettore — che inizia con grande sforzo, per mettersi alla prova nella vocazione di suscitare allegria, e prende avvio dal perenne malcontento del Presidente che non è soddisfatto della vita amichevole condotta nella Dimora —, consiste nella lotta per entrare in azione. Riuscito nell’impresa, cade nella disillusione dell’azione e nell’affanno di essere felice tramite l’amore, avendo disdegnato Amicizia, Azione e Amore prima di costituire il suo gruppo di amici nella Dimora e avendo come unica vocazione la meditazione del Mistero. Prima e dopo la narrazione del romanzo in lui dominò la meditazione metafisica che lo portò a fallire nell’Amicizia, nell’allegria dell’Azione e nella pienezza dell’Amore. Il solo che in questo romanzo ha il diavolo in corpo è quindi il Presidente; che in seguito rimarrà a corto di tutto: amore, metafisica, amicizia, azione; è profondo nel Mistero, ama molto la Eterna, poi cerca l’amicizia; insoddisfatto decide per l’Azione; di nuovo scontento, ma sempre capace di suggestionare, dopo notti di meditazione e sofferenza, invita i compagni che aveva reso felici, che aveva istruito e colmato di problemi durante gli anni di vita in comune, a separarsi per sempre. A non incontrarsi più, deliberatamente, felici nell’unione e tristi nella lontananza, per rimanere ognuno all’oscuro delle reciproche fortune, sventure e destini. Questa, che è la Morte Accademica, non è una decisione insensata per chi non ha Fede, la maggior parte di noi. Certo sarebbe stato meglio: uniti e con Fede. Con queste esitazioni il Presidente, il grande personaggio, impone a questo romanzo una stesura e una disposizione sconclusionate, ma lo scioglimento di morte accade107

mica gli conferisce grandezza e il mettere prima alla prova i personaggi dimostra un rispetto per il pubblico lettore mai attuato prima da un altro autore: non esisteranno più drammi o romanzi mai preceduti da una manipolazione di personaggi resa manifesta al lettore. Concludendo, il presidente-autore si trova infine ancora con due insoddisfazioni: la personalità della Eterna gli viene imposta in tale misura che non è capace di elaborare il suo potere evocativo nella direzione di quello che sarebbe stato l’augusto sentimento della Eterna nell’Addio e l’incognita del suo ulteriore destino. E allo stesso modo l’autore, così artista come si crede, non può immaginare né dire come esseri di tanta innocenza e affetto — Dolce Persona e Forsegenio — si siano allontanati dalla compagnia obbedendo alla decisione di separarsi. Insomma: il Finale del romanzo mezzo-scritto dal migliore dei semi-romanzieri rimane indescritto. Se lei crede che un romanzo del genere qui sintetizzato possa piacerle, lo legga. E mi permetta, mentre legge, di agire da artista poiché questo romanzo può piacerle senza avere nulla di artistico e nessun valore per me. Eppure mi sarà utile per esercitare sul suo spirito l’unico operare artistico. Lei proverà, in modo oscuro e poi chiaramente, l’emozione artistica, ciò che io ho voluto suscitare. Il lettore che non legge il mio romanzo se prima non lo conosce tutto è il mio lettore, è questo l’artista, perché chi cerca la soluzione finale leggendo, cerca quello che l’arte non deve dare, dimostra un interesse per il vitale, non uno stato di coscienza: solo chi non cerca una soluzione è il lettore artista.”

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ENTRATA IN PROLOGO DI FEDERICO

Sarà tanto sostanziale come entrare in materia eppure tratta di un’altra cosa. Non mi illudo di poter impedire per sempre che il ragazzo dal lungo bastone entri nel romanzo — conosciatelo voi fin d’ora come futuro personaggio senza spazio, delimitato dal romanzo, aspirante che non si è arreso, che vaga per apparire nel racconto — e, nelle mie apprensioni, gli preparo titoli nel caso eventuale e indesiderato che egli trovi una via per accedere al romanzo, in modo che, per quanto accolto forzatamente, non gli si neghi del tutto considerazione nell’atto di benvenuto che di fatto gli verrà concesso (da tutte le persone di mia invenzione che combinano la trama in base all’esistenza combinata che ho scelto per loro tirando a sorte, entità nate in modo tirannico — non come noi a cui è stato chiesto un parere — nell’agitazione del vivere romanzesco per i capricci indolenti della Fantasia e che nonostante una tanto casuale e magra esistenza si sentono talmente posseduti da lei da negare l’entrata a un ragazzino). Ho acconsentito a quanto mi ha chiesto con sensatezza: che gli creassi antecedenti accordandogli almeno l’accesso ai prologhi per mitigare il suo ingresso nel romanzo, quando l’avessi ottenuto grazie alla disattenzione dei poderosi personaggi esistenti e consolidati in esso fin dall’inizio; come fossero già pensionati dell’esistere irreale, con l’aria di essere così abituati ad 109

esistere come esseri pre-esistenti a sé stessi, abitudine che anche noi, i viventi, abbiamo ereditato nel nascere. Nessuno di noi ricorderà infatti di aver manifestato alcuna sorpresa nell’iniziare a vivere, cosa a cui non crederemmo se non ce la raccontassero — ed io, come chi pur ricordando la mia nascita non ricorda la sua, ho optato per non crederla necessaria e ho affermato la nostra eternità —. Benché si temano più stragi da parte sua che da parte di un critico, si deve considerare possibile il suo ingresso e predisporre quanto possa propiziare la pace di quell’istante. Accolto il ragazzo, il romanzo è già dotato di ogni possibile strage e i critici vengono così risparmiati. Ebbene, ci sono in lui titoli, opere, passato: non è un ragazzo che esordisce come l’autore di questo libro e di questa edizione soltanto (questo autore popolare appena accomodato nella Letteratura e che qui si inaugura, non è così conosciuto da esigere che la vendita del suo libro inizi dalla quarta edizione, come fanno i grandi autori). Dio, inventato perché ci facesse nascere, si preoccupò di figurare bene fin dall’inizio e creò il Mondo per far credere (atteggiamento non religioso ma alle origini della religione) di essersi occupato innanzitutto di noi; assegnò a quel giorno il numero 3 e credette che gli avremmo chiesto gli altri. “Se questo è il 3, che ci diano anche i precedenti.” Al contrario, quando vedemmo quel numero, dicemmo: “Il 3° e l’ultimo”. Se gli venisse in mente di porre a tergo l’indirizzo del mittente, glielo restituiremmo. Il ragazzo Federico non rinunciò a cimentarsi nella lotta economica. Aprì una Fabbrica di Rumori insieme a tutti i suoi amici e amiche. I rumori si ottenevano dai metalli, dallo zinco, dall’ottone o dai cristalli trattati a distanza con agenti minerali dai migliori tiratori di calcinacci scelti tra i suoi lavoranti. La facilità di trasporto e la grande richiesta della merce assicuravano la prosperità. La catastrofe finanziaria del 1921, le indecisioni di Stinnes, la concorrenza colossale della Standard Oil con la Dutchshell, l’eccessiva emissione di marchi in banconote… il fatto è che nonostante la grande richiesta, non rimaneva un solo 110

rumore nel locale allo stato di prodotto finito. L’impresa di Federico non poté resistere. Trovato il modo di riempire di fragore il paese senza che si notasse, senza far rumore, senza che si sapesse da dove provenisse, tutti i padri ritrovarono i figli e li ricondussero a casa facendoli camminare a diverse andature. Dopo due ore dall’inaugurazione dello Stabilimento così richiesto per la prosperità e la crescita della popolazione, tutti i lavoranti si ritrovarono protetti dalle coperte dei loro lettini e in questo modo si evitò l’obbligata dichiarazione di fallimento causato dalle perturbazioni Stinnes, dall’instabilità del cambio, dall’illimitata quantità di marchi, dall’ambiguità dei 14 punti di Wilson giunti in ritardo…1 o forse soltanto dalla casualità che in quella città — cosa che facilitò il compito di riprendere i ragazzi — i padri fossero più grandi dei bambini. Prima di aver definito, nelle sue riflessioni riguardo le determinanti dell’avvenuto fallimento mercantile, se le perturbazioni Stines, la guerra del petrolio, ecc., ne fossero state la causa o se fossero state tutte necessarie, Federico inizia una nuova impresa individuale come segretario o scrivano di Dio, per annotare e ricordare a Questi tutti i “se Dio vuole lo farò domani” relativi al lavaggio dei cortili formulati nelle case modeste dalle signore e dalle ragazze quando, durante il giorno, si sentono mortificate dall’accumulo eccessivo di lavaggi di pavimenti che fino a quel momento hanno rimandato: “domani, se Dio vuole, laviamo i pavimenti”, “domani, se Dio vuole, lavo la mia camera”. Si è osservato e calcolato di volta in volta che ogni giorno Dio si dimenticava di attendere a quasi trentamila lavaggi di pavimenti rimandati in tutto il mondo. Dovrà inoltre ricordarsi anche dei “domani, se Dio vuole, mettiamo a posto l’armadio grande”: altri trentamila. Certo è che Federico si trova

1. Allusione a fenomeni conflittuali del dopoguerra 1914-1918 (concorrenze commerciali e bancarotte, emissione illimitata di marchi tedeschi, proposta dal presidente americano Wilson della costituzione di una Lega delle Nazioni). [A.d.O.]

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sulla terra almeno da questa mattina, all’ingresso del mio romanzo, e non bisogna chiedergli se anche questi affari con Dio sono finiti male perché si annoiava o non riceveva lo stipendio. Gli Dei sono vecchi e astuti per cui il Diavolo o Dio, che è poi la stessa cosa, ne sa più per il fatto di essere vecchio che per il fatto di essere diavolo.1 Ma c’è ancora una cosa che non può essere taciuta un attimo di più: l’andata e il ritorno di Federico intorno al mondo. Diciamo almeno che è stata lentissima: partì nell’attimo in cui l’Eterna allontanava le labbra e avvicinava le pallide palpebre in un sorriso rassicurante rivolto all’ingenuità del Presidente e tornò quando lei nascondeva questo sorriso perché il Presidente era passato dall’impossibilità del candore all’impossibilità di arrabbiarsi e si teneva aggrappato ai vestiti della Eterna in segno di voler “andarsene all’armadietto” ossia in castigo. Con ciò Federico viene presentato e introdotto nei prologhi.

1. Traduzione letterale del proverbio spagnolo: Más sabe el diablo por viejo que por diablo.

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AL LETTORE DI LIBRI IN VETRINA

Una lunga esperienza di poligrafo principiante, preceduta da un silenzio grandemente riconosciuto, quel tacere sperimentato che tutto comprende e che a tutti piace, il totale-tacere enciclopedico, mi ha fatto sospettare della fragile consistenza del Lettore, la cui fugacità non è comunque tale da impedire che almeno i Titoli e le Copertine riescano a raggiungerlo. Da questo pensiero nacque la mia innovazione: i titoli-testo. Così voglio spiegare la lentezza del titolo del romanzo. Poiché la circolazione di copertine e di titoli è possibile grazie alle vetrine, ai chioschi e agli annunci, circolazione ideale, il Lettore di Copertine, Lettore di Porte — Lettore Minimo o Lettore Non-ottenuto, si imbatterà finalmente qui nell’autore che l’ha preso in considerazione, nell’autore della copertina-libro, dei Titoli-Opera. E ritengo che, nel nostro romanzo, “Il lettore raggiunto” debba essere il titolo del Titolo, che stiamo presentando, poiché un primo successo si registra già nella copertina dove il Lettore-minimo viene raggiunto completamente dall’unica cosa che i librai, meschinamente, hanno letto: il frontespizio, l’unica cosa che della maggior parte dei libri viene pubblicata; lo riconoscerà senza dubbio la Posterità, che tutti adulano e che nessuno ha conosciuto al presente. I numeri della domenica de “La Nación” e de “La 113

Prensa” mi hanno forse suggerito le copertine-testo, una sorta di numeri della domenica delle copertine o dei giorni di festa dei titoli poiché, a prescindere dalla loro lunghezza, sono comunque scritti. Come ho anche osservato, dopo tanto credere che tali numeri non avessero fine — avviso che rivolgo a coloro che danno sempre un’occhiata a quei quotidiani e, come me, credono che non abbiano fine —, ora io credo che finiscano; bisogna aver trascorso una domenica così disperata, come mi è accaduto alcune volte, per leggerli integralmente, per uscire dall’errore di crederli infiniti: credere all’infinito, atteggiamento che nessuna persona giudiziosa deve avere nei confronti di cosa alcuna. Rimangono quindi chiari l’origine e l’intenzione della mia inaugurazione dei titoli-lettura, per sfruttare al meglio la maggior circolazione che la vetrina offre alla copertina sopra la mole interna del libro, fatta poi circolare da colui che fa circolare i fiammiferi accesi e presta fuoco a un’altra sigaretta, colui che ritroviamo, altrettanto cordiale, nel letterario: il prestatore di un solo libro il quale, se ottiene la pensione dall’“Istituto per la Promozione del Libro” e la longevità dai ricostituenti (questa è la religione che ci rimane, oltre alle due religioni argentine: la fede che chi va in Paraguay ritornerà con un pappagallo e la fede che dal Nord si ritorni sempre con un formaggio Tafi, al punto che, altrimenti, non ci credono ritornati: da lì non si possono portare i filosofi — sono uccelli d’altro tipo — come fanno invece i cavalieri e le ricche dame argentini che vanno in giro e colgono l’occasione per approfittare dei prezzi convenienti che trovano in Europa) pubblicherà un solo esemplare, e sembra che l’esaurimento delle vendite non inizi da un compratore, talmente lontano lo lascia e talmente gli rende invisibile il lungo tragitto della circolazione data in prestito. Si calcolano cento lettori di copertine per un lettore di libri; i titoli-testi e le copertinelibro non sbagliano lettore; sono l’unica speranza per un ampio raggio d’azione della Letteratura brillante, Letteratura più spesso custodita e segreta, sono pudori che non la accontentano. 114

Avviso però coloro che si ritirano perché hanno finito di leggere il mio titolo, che a quest’ultimo segue il mio libro che non appartiene al genere dei fac-simili in legno con i quali si simulano biblioteche ricolme. Così, se il lettore non continuerà a leggere, non sarò colpevole di non averlo avvertito. Ormai è tardi per incontrarci qui, l’autore che non scrive e il lettore che non legge: ora io scrivo, decisamente.

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DUE PERSONAGGI SCARTATI

In un romanzo così ordinato il lettore deve conoscere i personaggi. E gli devono essere presentati in classifica. I nostri sono: Personaggi effettivi: Eterna, Presidente Personaggi fragili, per vocazione di vita, perché credono che saranno felici: Forsegenio, Dolce-Persona. Personaggio dell’Inesistenza (in presenza): Dunamor Personaggio perfetto, per vocazione genuina, contento di essere personaggio: Semplice. Personaggio di Fine Capitolo: il Viaggiatore. Personaggio dell’Assenza, o l’Assenza personaggio: L’Uomo che fingeva di vivere. Personaggio lampo e teorico: Metafisico. Personaggio Impedito e Candidato a Personaggio: Federico, il Ragazzo dal Lungo Bastone. Personaggio Ignorato (l’unica celebrità contenuta nel Romanzo). Personaggio con l’essere di essere atteso: Amata da Dunamor. Personaggi per assurdo: il lettore e l’autore. Personaggi scartati ab initio: Pedro Corto e Nicolasa Moreno. 116

Non si aggirano, quindi, nel mio romanzo, né Pedro Corto, che per apparirvi voleva poterlo leggere prima — è ammissibile soltanto tra i lettori che taluni non vogliano iniziare a leggere il romanzo se prima non si dice loro tutto ciò che conterrà — e che pretendeva che l’opera terminasse prima che si raffreddassero alcune torte, comperate nel momento in cui iniziava la narrazione; io credo che la sua esclusione si possa giustificare senza che mi si renda passibile di accuse di avarizia riguardo il numero dei personaggi. Non si aggira neppure Nicolasa Moreno, che avrebbe accettato di apparire con vero piacere se il suo ruolo le avesse permesso di uscire di tanto in tanto dal romanzo per assicurarsi che il latte lasciato a bollire non traboccasse e per accorrere, a intervalli di pochi minuti, a sollevare il coperchio di un dolce di zucca che aveva lasciato al terzo bollore; entrambe le alternative avrebbero interrotto spesso la sua recitazione nell’opera e io non ho potuto acconsentire poiché è risaputo che Dio ha fatto male il mondo proibendo l’ubiquità. Spero che la mancanza del personaggio Cuoca non faccia temere che io abbia lasciato tutti i personaggi senza mangiare, dall’inizio alla fine, cosa che converrebbe solo all’elegante figura di Forsegenio. Ho risolto la difficoltà, ma ora non ricordo in che modo. Me ne sono dimenticato perché anch’io avevo qualcosa in giro che si poteva raffreddare: alimento o cosa dello spirito, non so bene; o che poteva traboccare: un entusiasmo, forse, o un chiarimento nel Mistero, una mezza frase che poteva darmi la trasparenza delle cose, la percezione mistica: forse qualcosa di più elevato: un ultimo gesto di ieri da parte della Eterna, una sublimità nuova della sua tenerezza, un sorridere della sua tristezza o di gratitudine rivolta al presente e di brividi rivolti al futuro, a ciò che lo conclude. E io, richiudendomi nella solitudine, non volevo cessare di ammirare nel ricordo, facendola riapparire alla memoria, quell’immagine dell’incresparsi del suo viso, come chi getta più volte in uno specchio d’acqua quieta il sassolino e in essa fa giocare cerchi in rilievo e riflessi di luce. 117

Infine, Juan Pasamontes aveva trovato un lavoro con noi. Voleva essere impiegato nel romanzo, non suo personaggio; l’essere letto lo innervosiva, solleticato dagli sguardi dell’eterno curioso: i tuoi, lettore. Ovvero, nei pensieri intricati di questo Pasamontes l’esistenza di chi legge era di ostacolo alla pubblicazione. Pasamontes è talmente rovinato da tutto il suo accondiscendere che forse ha pensato lo pagassi solo cinque soldi e pretendessi anche il resto. È quel tipo di persona che vuole gli si presti un abito quando ne ha bisogno, cioè quando piove a catinelle; e si è imbattuto in una persona che offre solo il suo ombrello quando c’è una bella giornata a chi abbia influenza e fiducia nel Metereologo di Stato oppure quando vuole che qualcuno lo perda per averne in cambio uno più bello. L’autore ha raccontato tutto senza creare disagio in alcun personaggio; non mi sono inimicato nessuno, prova ne sia che nessuno di loro scriverà contro di me. Pasamontes, tu occupa subito le pagine, non ti lasceremo parlare prima di noi, avviseremo il pubblico che conosciamo la tua lingua. Alcuni dei personaggi allusi vollero intervenire e non lo fecero: Nicolasa e il Ragazzo dal Lungo Bastone; altri come la Sentinelluccia, il Viaggiatore, non sapevano nulla di questo romanzo. I nostri personaggi sono una “popolazione eterogenea” di pretendenti, di ignorati, di allusi e di personaggi effettivi del romanzo; ci sono anche i personaggi dall’apparizione mutabile e altri che recitano con nomi differenti. E c’è anche il personaggio della non-esistenza. E al di fuori c’è il personaggio che sogna il romanzo e il personaggio che il romanzo sogna. Cosa mi dici dell’Identità? Qui le capita ogni genere di avventura e nei tomi dei metafisici non si riesce a dire che cosa sia. Ciò che si pensa coricandosi per dormire, ciò che si sogna meravigliosamente dormendo e ciò che si pensa al risveglio, quale io hanno in comune? E non sappiamo di aver dormito (nel momento del risveglio crediamo sempre di essere svegli già da molti minuti) e non lo sapremmo mai se altre persone (che possono essere solo sognate) non 118

ce lo dicessero, come non ci viene riferita direttamente la nostra nascita se non da altri che non seppero di nascere. E se non lo sanno di se stessi, come possiamo credere in loro? Cosicché questo romanzo assomiglia di più alla vita del “romanzo brutto” o realista, ovvero del romanzo corretto. La congruenza (identità) dei caratteri rende affascinanti i romanzieri di romanzi brutti o corretti: tale congruenza non si è mai rivelata in un romanzo e non esiste nella vita; in questo gli scrittori realisti mancano di realismo; non sanno dire neppure che cosa sia la congruenza. Si vorrebbe parlare di ogni genere di personaggio ma ne spiegherò uno soltanto, quel personaggio mancante, perché prende sul serio il suo ruolo di Viaggiatore, che consiste sempre in questo viaggio interminabile: cerca un paese o una regione dove il clima e il sistema politico (suppongo che non sia quello elettorale) favoriscano l’esistenza di tre richieste estremamente vantaggiose: che la barba appena fatta possa durare cinque settimane e che i suoi bottoni, così effimeri, durino tanto quanto gli occhielli. Diamo questo prologo mentre si placa una certa agitazione che un prologo mutevole sta originando tra tutti gli altri e, mi si dice, sta cambiando di pagina; non ci sia inimicizia tra i prologhi di uno stesso romanzo; questo prologo inquieto è un prologo che va alla ricerca del luogo in cui manca, in un Romanzo che scoprì dove mancava nell’arte e nelle anime.

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PRIMO PROLOGO DEL ROMANZO PER IL LETTORE OTTUSO

Desidero pubblicare due cose: un disegno che Sirio o Audivert mi faranno ritraendo, con una certa efficacia, tutti i signori e le signorine che affollano la porta della mia casa per chiedere di apparire come personaggi del mio romanzo al fine di propiziarmi l’animo di tante persone che se ne vanno arrabbiate per la mia difficoltà a compiacerle. Riconosceranno così che solo l’impossibilità materiale e non il mancato riconoscimento delle loro qualità mi obbligò a non accettarle. Tutte loro leggeranno il mio romanzo (non perché il mio proposito fosse di tenerle di riserva come lettori per mancanza di talento come personaggi) e saranno gli unici lettori la cui disapprovazione prevista (dal momento che non vi appaiono) per il mio romanzo sarà loro eternamente permessa. Io ho un’esperienza del tutto uguale: non sono apparso in nessun romanzo e nessun romanzo mi è sembrato perfetto e pensare che sono molti gli autori che hanno ottenuto quello che io otterrò (in futuro, nel prossimo che scriverò): che il Ragazzo non entri nel romanzo. E un altro disegno, che potrebbe essere il medesimo, ma centuplicando il numero di silhouettes di persone, che riesca a dare un’idea pur remota delle moltitudini di lettori che esistono per il mio romanzo. Tutti hanno notato, e in ogni caso conviene che si sappia, il diffuso successo che ho avuto come scrittore. Però 120

qualcuno afferma la certezza che vicino al mio romanzo c’è sempre una moltitudine di lettori che si rinnova continuamente, cosa che forse non accade tanto per l’enorme desiderio di leggerlo quanto perché deve esserci, accanto o davanti al mio romanzo, qualche annuncio de “La Prensa” che dirà (pure congetture): “Governante piacente desidera signore milionario, sentimentale e celibe, per prendersi cura esclusiva della sua casa ed essergli l’unica persona vicina”. Aggiungono che quanto dicono i critici di scuola severa preoccupati soltanto di meriti fondamentali, di estetica essenziale, i critici che sintetizzano il loro elogio nella conclusione comparativa per cui “il mio romanzo ha più pubblico dell’annuncio di maggior richiamo di un grande giornale”, è un dato di fatto e non un paragone; hanno pronunciato l’ozioso encomio dell’efficacia di un annuncio da grande quotidiano per attrarre la moltitudine che era lì. Spiegano anche una difficoltà di sintassi della quale soffre detto annuncio: non si specifica se un milionario cerca una governante o se una governante cerca un milionario, difficoltà che ha fatto sì che la metà della folla sia femminile per il milionario che si offre e che l’altra metà sia un’orda di milionari per una governante. Ciò che, sì, devo riconoscere qui è che ho usato l’incentivo di promettere che nel romanzo avrebbero figurato alcune persone di cui desideravo la simpatia o la condiscendenza; che qualche volta ho ritirato dal romanzo alcune persone per essermi adirato con loro a torto o a ragione, o perché la loro fedeltà di personaggi si rivelò inconsistente.

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AI NON ESPERTI IN METAFISICA

Non potrò dare all’ansioso, al giovane che brami una certa conoscenza e un certo potere, da cui derivi una qualche ambizione o un cammino stabile e sicuro nelle tenebre dell’Essere, nulla di concreto, un segno nel cielo, un albero in Africa, un accordo strano, una pietra trovata, un profilo di ombre che portati o trattenuti nella mente gli rivelino che l’atto o l’intuizione presenti nella sua mente nel momento in cui li ha incontrati devono essere seguiti ed è questo che lo porterà all’esaudimento di quell’anelito — ma posso guidare il suo cammino verso pensieri tanto possibilitanti, tanto insinuanti l’onnipossibilità, l’eternità, tanto ubriacatori di mistero, da formargli un’interiorità tanto forte che nessuna Realtà possa esercitare su di lui il potere del dolore e dell’impossibile, della limitazione, potere che esercita su chi non è riuscito a costruirsi seduzioni di pensiero che possa sempre portare con sé. Tutti possiamo coltivare un sogno costante e forte che attenui molte asprezze di una realtà avversa. Le religioni, il patriottismo, l’umanesimo, sono qualcosa di questo tipo; soprattutto le religioni. La nozione di onore è forse anch’essa una combinazione volontaria di analgesia anti-Realtà. Ma per chi non ottiene il Tuttoamore, che è il Sogno Supremo, doppiamente edonistico, in se stessi e esteticamente (ossia nel pensarlo, nel come ci appare osservandolo 122

in noi stessi e negli altri), esiste una base di costruzione del Sogno più solida: l’attitudine dell’essere mistico — l’opposto del religioso — che si raggiunge soltanto toccando in ogni suo limite la limitazione dell’Intellezione, l’impensabilità dell’Essere, non l’impensabilità meschina delle antinomie, prolissa vacuità, ma l’impensabilità che appartiene anche ad esse. Fintanto che non giunge il Tuttoamore, emancipiamoci dalla nozione assurda dell’Inconoscibile, che è un residuo della venerazione infantile per la Realtà, del timore vago dell’Uomo di fronte al Mondo (fisico e psichico) derivato da una concezione volgare dell’Intelligenza quale strumento tra gli altri, capace soltanto di percepire causa ed effetto e formulare leggi causali per il benessere, per eludere, prevedere o prevenire il male o il bene. Ed emancipiamoci dall’Impossibile, da tutto quello che cerchiamo e, a volte, crediamo non esista o, ancor peggio, non possa esistere. Niente deve quindi trattenerci dal ricercare una soluzione completa, senza restrizioni, senza residui irriducibili. Quindi la Realtà psichica o spaziale1 è completa come lo è la certezza correlativa. Entro un certo limite, Certezza e Realtà, nonostante l’Errore di associazione, sono sinonimi. Non solo la realtà è completa, familiare, certa, ma la nostra Certezza e Familiarità, la gravità con cui la maneggiamo e giudichiamo e tutto il gergo metafisico, non possono mutare la nostra condotta, illudere o disilludere la nostra sicurezza. Un esempio: un operaio che trascorre otto ore al giorno sminuzzando pezzi di vetro infligge a quest’ultimo, in quel lasso di tempo, mille martellate sempre con la stessa certezza che la martellata romperà il vetro: 1000 istanti di

1. Non dico esterna perché tutto, sia esso psichico o spaziale, è esteriore all’attenzione o all’interesse con cui lo percepiamo. Nemmeno questa attenzione si accompagna a ogni percezione o attenzione, non tutto è doppio — soggetto e oggetto — e ciò che è stato nella mente o nella sensibilità senza attenzione di alcuno può ricevere in seguito attenzione nell’immagine che ha lasciato. [M.F.]

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Certezza in un’ora. E se un metafisico espertissimo di metafisica lo sostituisce, gli succederà la stessa cosa (per quanto nessun metafisico possa sapere chiaramente qual è il Fondamento dell’Induzione). Certezza, Completezza, Familiarità della Realtà. La teoria dell’Eternità esige esercizi idonei di Emancipazione da limitazioni assurde. E per un prologo soltanto, questa metafisica può bastare. A ogni prologo il suo affanno.

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DESCRIZIONE DELLA ETERNA (Che non conosce Eterna, questo dice Dolce-Persona; eccola qui, così com’è, affinché non le rimanga sconosciuta, poiché mi allieta soddisfare la curiosità dei miei personaggi.)

Con trecce avviluppanti, così come deve essere anche il mio romanzo che catturerà l’anima del lettore, alta, di belle forme, occhi e capelli neri, la Eterna non si può descrivere che così: Chi le passa davanti perde il dono dell’oblio. E se riesce a dimenticarla è un menomato. Chi non può dimenticarla si sofferma e la capisce, l’ama senza una possibile rassegnazione. E chi riceve in dono il suo amore, riceve ciò che nessuno, fino ad oggi, ha mai avuto: un Passato, il passato che egli più desidera e che cambia la sua storia. È tale la delicatezza, e tanto schietta, semplice, senza infatuazione la sua allegria, che a nessuno si potrebbe logorare un’allegria con maggior malvagità. È colei che se ne sta più lontana dalle sensazioni. Chi la vede, il giorno seguente deve chiarire il mistero dell’Eternità: proprio e dell’Eterna. Molti hanno potuto offrire un futuro, ma soltanto lei vi crea un passato che amerete. E vi offre anche un futuro, perché non chiederete e non conoscerete nient’altro.

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IL FANATISMO ESSENZIALE DEL MONDO

Sentiamo, o amata, il vuoto del mondo, della presentazione geometrica e fisica delle Cose, dell’Universo, e la pienezza, la certezza unica della Passione, l’Essere essenziale, senza pluralità. Sorriderai come legata al vuoto, da una finestra che sembrava affacciarsi su una Realtà Esterna, immobile e immensa, che bruscamente si riduce a un punto, se per un attimo pensi che l’immagine di una scena che sogni o immagini a occhi aperti può avere tutta l’estensione del mondo e tuttavia trova posto nel tuo spirito o nella tua mente o, se preferisci, nella vibrazione di una molecola impercettibile della tua ‘‘corteccia cerebrale”, come dicono i fisiologi. Se dopo aver abbracciato con lo sguardo un panorama con sole, terra, cielo, boschi, fiumi o mari, spiagge, palazzi, lo pensi o lo sogni, hai esattamente la stessa immagine, vastissima, racchiusa in un punto della tua mente, della tua anima o, se preferisci, in una microscopica cellula nervosa della tua corteccia cerebrale. E inoltre, quella stessa corteccia cerebrale e tutto il cervello sono un’immagine della tua mente visto che non ne conosceresti l’esistenza se non grazie alle immagini che hai della loro forma, colore, dimensione — disegnate o viste — e alle tue immagini tattili, di temperatura, se hai studiato anatomia. Se la corteccia cerebrale esistesse di per sé, come potrebbe pensare a se stessa? Poiché quello di cui stiamo disquisendo è esattamente il pensare della corteccia cerebrale a se stessa, il 126

suo immaginare se stessa. Noi siamo, con la precisione di un cerchio, un pensare a se stessa della corteccia cerebrale. Come può l’organo delle immagini avere un’immagine di sé? Come può la corteccia cerebrale, che si dice sia la sede del pensiero, pensare a se stessa, quando l’occhio non può vedere direttamente se stesso, quando vediamo tutto attraverso l’occhio ma l’occhio stesso non lo vediamo? Se all’interno della mia mente non c’è estensione e in qualsiasi mia immagine posso rappresentarmi tutto quello che ho visto, è semplicemente perché non esiste l’Estensione, tutto l’Universo non è che un punto e, ancor meno, non è che un’idea, un’immagine nella mia anima. È questa estensione ciò che crea l’illusione di pluralità che non è applicabile all’unica realtà dell’essere: la Sensibilità. Qui mi fermo: credo che queste parole possano indurre la tua sensibilità a guardare l’abisso dell’essere e a riconoscere che tutto è psiche, e pertanto immortale. Perché già più volte, nei miei tentativi di scuotere la tua dolorosa credenza nella morte, ho cercato di insinuare in te ciò che provo: l’ostacolo insormontabile che impedisce al mio amore per te di essere il tutto-amore che meriti e che è tutto il valore della realtà, è questa discrepanza che ci divide in quanto tu credi che ci attenda la morte e la fine della nostra persona e del nostro amore e io non credo che il tutto-amore possa fiorire in esseri che si credono passeggeri.

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PROLOGO DELL’INDECISIONE

Il passato, l’arte, il presente reale, sono causa di quattro tormenti: la freddezza, fatalismo, negazione dell’Umano come possibile felicità e intellezione, affermazione indiretta del fallimento edonistico e intellettuale dell’Umano, atteggiamento di Cervantes con Chisciotte e Sancho, unico grande atteggiamento di genuina ironia, unico pessimismo autentico presentato nell’arte letteraria dove tanti pessimisti fasulli vorrebbero essere creduti; la negazione, altrettanto globale, più allegra e non così sentita perché a volte è diretta e quasi deliberata, dottrinale, perciò meno sicura, di Rabelais; l’Allegria e il Tormento di Beethoven, allegria più rara e più prodigiosa, ma mai in sé bensì nella simpatia sprigionata dalla tempesta che sempre sopraggiunge nella sua musica; e un Gesto della Eterna che non si è ancora visto e io so, conosco già e vedrò nel suo viso il giorno in cui avanzerò una certa richiesta, se mai la farò. Si può ben vivere di un solo Racconto e, in verità, i tuttiamanti vivono di un’unica notizia che riferisce la totalità dell’Essere, il Mistero che uno è per l’altro in un unico esistere. E perfino quando nella fantasia ho incontrato la Eterna, ho scoperto, e oggi so, che potrei vivere di un solo suo gesto, e in lei ce ne saranno altri, molti, per poter vivere di uno soltanto. Così immenso, pieno di totale significazione personale, che pur avendolo solo intuito come possibile in lei e sapendo che avrebbe dovuto mostrarsi in risposta a una domanda che non ho ancora posto, mi trovai nel pieno cammino dell’essere. 128

UN ALTRO PROLOGO

È tutto un altro prologo, l’ho iniziato solo adesso, e solo chi non sa ancora quello che dirò può ritenere che non conterrà nulla di appropriato a un prologo necessario; non è sempre una buona difesa del lettore quella di ottenere o fare in modo che le pagine dell’Arte Letteraria siano in minor numero: che non ci sia un prologo. Mi accingo a enumerare i libri che avevo deciso di scrivere a venticinque anni. Userò un prologo, qualche pagina per dimostrare quante se ne è risparmiate il pubblico perché le circostanze della vita mi hanno negato, per trent’anni, la carta e l’inchiostro, la possibilità. Una pagina che offre al pubblico una conoscenza concreta, è una pagina ben impiegata; perciò mi sembra che questa pagina possa quasi eguagliare in genialità le 300 di Maeterlinck scritte in elogio al silenzio; è un piacere leggere un numero qualunque di pagine purché siano dedicate ad un encomio degno del prezioso Silenzio. Poche altre virtù possono meritare più di questo: che la Prosa, bell’-arte della Parola, si impegni a ricordarle e spiegarle al pubblico. Questi libri furono: La salute di un avvocato. La chitarra di un avvocato. Teoria dell’Essere, Dottrina della Scienza, Teoria della Bellezza o Estetica, Il Compasso, Il Ritmo e la Rima, Sozzure dell’Arte, Teoria dello Sforzo nella sua influenza edonistica personale. Teoria della Tragedia-Idillio, 129

Poema di Tragedia, Individualismo: teoria dello Stato, Critica del Dolore, La musica come mero caso di piacere respiratorio. Chi è in grado di apprezzare la sofferenza evitata tanto quanto un piacere raggiunto, il lettore che è parte del pubblico e ha la capacità psicologica di riconoscere tale verità edonistica, non si affretterà, considerata la mole di letture che avrei potuto procurargli in questi 35 anni, a mascherare con discrezione un qualche fastidio causatogli dalla necessità di leggere questo mio libro, che offro modestamente al posto di tutti quelli non scritti? Quindi, caro lettore, uno sconosciuto così noto da poter contenere in sé tutti gli sconosciuti del mondo in quanto tali, vi ha parlato in pagine che negli autori impaginati in modo usuale restano in bianco e che io, per primo, utilizzo per intrattenere il lettore. Vi ha parlato già: Delle persone che non hanno scritto nulla.

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QUESTO È IL ROMANZO INIZIATO CON LA PERDITA DEL SUO “PERSONAGGIO CUOCO” NICOLASA, DIMISSIONARIO PER MOTIVI NOBILISSIMI

Nicolasa se ne va, e in questo prologo il romanzo la saluta. Più triste che di malumore, Nicolasa si allontana da “Il Romanzo” con la sua sagoma corpulenta, dimissionaria, come già si sa, e passa davanti alla sentinelluccia che, da buon amico, le chiede sorpresa: — Come crede che andrà il romanzo? — Non so niente. Ma lei, che è un uomo di buon appetito, immaginerà bene che cosa potrà essere un romanzo senza cuoca: un romanzo di gente che digiuna. Il romanzo è costernato e da parte sua deve aggiungere che tutti i mobilifici di Buenos Aires quando seppero che Nicolasa era rimasta senza impiego, fecero a gara per assumerla, a causa dei suoi 140 chili, per farle provare la resistenza delle seggiole e dei letti. L’applicazione di quella parte del corpo di Nicolasa avrebbe lasciato nella sedia o nel letto che avessero resistito una sorta di impronta, segno di una garanzia di dieci anni. Di questa occupazione, che le procurò molto denaro, si stancò presto, forse per nostalgia del suo posto nel romanzo; e venne ad aprire una Empanadería1 vicino alla sta-

1. Empanadería è il luogo in cui si producono e si vendono empanadas,

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zione ferroviaria che confinava con “Il Romanzo”. Il fatto è che l’aroma delle deliziose empanadas era così inebriante che non solo il romanzo rischiò di restare senza lettori, poiché tutti quelli che si presentavano venivano deviati nel loro cammino verso la Empanadería, ma accadeva anche che le locomotrici si fermavano alla stazione, come ammaliate. Questo le valse un encomio da parte del Municipio, ottenuto perché non c’erano più treni che passassero senza fermarsi, cosa che era estremamente conveniente per il pubblico viaggiatore del paese. Per quanto voluminosa, Nicolasa, nella sua notevole sensibilità, vedendo che rischiava di privare il romanzo di lettori, abbandonò mortificata questa situazione invidiabile e lavorò solo d’inverno, nelle grandi strade di Buenos Aires, per proteggere dal vento e dal freddo i passanti che si rifugiavano al riparo della sua persona fino ad esaurimento dei posti. Tuttavia si può aggiungere che le immagini (gustativo-olfattivo-visive) dell’ultima empanada che avevamo mangiato, ci rendevano incapaci di prestare attenzione a ciò di cui si conversava e nel mondo-villaggio di Verónica il rimprovero “stai pensando alle empanadas” rivolto all’ascoltatore distratto o il detto “chi pensa alle empanadas non pensa a nulla di male” erano diffusi ovunque. Per questo gli appuntamenti d’affari o gli incontri di lavoro più importanti, venivano fissati a “qualsiasi ora prima delle empanadas” e l’accordo raggiunto, come pure le scommesse a empanadas, si celebravano nella empanadería. La “empanada e mezza”, un’unità gastronomica inventata da donna Nicolasa, era un premio consueto per chi vinceva le scommesse: dispute e pronostici si concludevano spesso con una piacevole scommessa di una dozzina di “empanadas e mezza”. Un vecchio abitante di Verónica si riconosceva per la destrezza con cui faceva scorrere in cibo che consiste in un impasto di farina di mais o di grano ripieno di carne, pesce o altri ingredienti, cotto al forno o fritto nell’olio. [N.d.C.]

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bocca una “empanada e mezza” lasciandola intera; la faceva “scorrere”; le parole rompere, tagliare, non si usavano con le empanadas. La empanada e mezza fu un’unità1 che arrivò ad essere moneta locale; non era raro leggere o sentire in stipulazioni scritte o verbali, questa clausola: “Contro rimborso in denaro o empanadas e mezza”. Altre volte si sentiva: — Sta arrivando un temporale, amico! — Sì, e non lo fermeranno neanche le empanadas. Ma riassumendo, abbiamo già detto che Nicolasa, che amava tanto questo romanzo, si trasferì altrove per non rubargli i lettori che passavano da “Il Romanzo”. È un esempio mai citato di adesione a qualcosa. Desideriamo che ella sappia che il romanzo le dedica questo ricordo. Ma da una persona così simpatica non ci si accomiata così presto: diciamo ancora qualcosa. La teoria metafisica di Nicolasa, ad esempio. La sua dottrina si fondava sul principio che due sono le massime potenze della realtà: la Fuliggine e l’Elettricità. Ma la Varietà nel mondo è tale che queste potenze massime vengono trattenute da: un semplice foglio di carta nel caso della Fuliggine, e una lamina di vetro, di legno, di gomma, nel caso della Luce e del Fulmine. Così che dobbiamo indirizzare la nostra condotta fra il timore di quelle potenze e il costante ricordo che il mondo ha illimitati modi di frustrarle. Ma oltre la sua dottrina metafisica, Nicolasa provava anche un astio di vecchia data nei confronti dei geometri, legato a un qualche episodio della sua vita. È certo che si vendicò invitandoli con mille moine a un banchetto da lei

1. Tale ardita innovazione è stata paragonata (da un “personaggio di romanzo”) alle audaci imprese di Gauss, Riemann, e dell’astronomo babilonese dell’unità sessagesimale (ovvero 60) e celebrata almeno nel suo paese e in alcuni altri vicini. Presto diventerà universale. [M.F.]

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preparato. Cucinò le pietanze, la prima in particolare, presentandole in modo perfettamente sferico così che i geometri, non sapendo per scrupolo da dove iniziare (trovandosi davanti ad un infinito senza inizio che dovevano rispettare), non le assaggiarono neppure; e non avendo cominciato il banchetto dal principio, si astennero dal cominciarlo dopo, cosa che raddoppiò la loro mortificazione, visto che le pietanze successive non presentavano impedimenti geometrici alla loro desiderabile degustazione. E adesso sì, è ora di lasciare Nicolasa in pace.

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ROMANZO DELLE COSE COMPIUTE, DEI MUTISMI, DEI SEGRETI, DELLE FRAGRANZE CONSERVATE, DELLE PAROLE CHE RIMANGONO SENZA SUONO PERCHÉ SI AFFIDANO A UNA SMORFIA O A UN SORRISO DELLE LABBRA CHE PARLANO E NEMMENO QUEL SORRISO VIENE DATO

Davanti al piccolo edificio della Dimora, celata dalla luce abbagliante del meriggio, c’è l’unica cosa che la luce può occultare: un’altra luce; c’è una fiammella che nessun abitante di quel luogo ha mai visto, che vuole esistere e non essere vista. Quella fiammella — forse lo sguardo della Eterna quando pensa al suo sogno di tutto-amore tanto abbagliante da svanire nel traboccare e riverberare di quel sogno — non sa che il Giorno e la Fiammella, eternamente intorno alla casa, sono il tutto-amore a cui pensa l’Eterna e lo sguardo che lei gli rivolge. Ma quando salutò per andarsene, Dunamor disse alla Eterna: io conosco la fiammella dello sguardo che fissi nel tuo sogno d’amore in pieno giorno, in ogni giorno della Dimora e del romanzo. Eterna, io non ho il potere di esaudire il tuo desiderio: è già molto l’averti parlato e da questo preciso momento non sarai più parte dei miei pensieri. In questo istante il dolore che provo per te mi ha colmato l’anima per un minuto; solo tu potresti riuscirci: niente al di fuori di Lei, nemmeno tu stessa, rientrerà più nel mio spirito.

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ETERNA E DOLCE-PERSONA (Tempo della scena: lo schiudersi di un fiore)

In tutto il tempo di questo romanzo, unico tempo di esistenza artistica e unica esistenza, questa, di Eterna, di DolcePersona, Eterna poté conoscere di Dolce-Persona soltanto le guance rosa, e Dolce-Persona — da finestra a finestra, alla luce del pomeriggio — gli occhi e i capelli neri e la fronte pallida di Eterna; e di sera, nel silenzio della campagna, conobbero le loro voci, entrambe bellissime e assai diverse, la voce di Eterna mentre parlava al Presidente, che non si vedeva, e la voce di Dolce-Persona mentre parlava a Forsegenio, entrambi affacciati alla finestra. Dopo questo, e fu tutto ciò che conobbero l’una dell’altra, un certo giorno e in una sola e breve occasione la Eterna si fermò a contemplare due rose che aveva in mano, di differente misura, una bianca l’altra rossa, che aveva tolto da un grande cesto di fiori, e rivolgeva lo sguardo ora all’una, ora all’altra, confrontandole; poi le intrecciò e le mise in un vaso per il Presidente; più tardi le separò e lasciò per lui solo la rosa bianca. Gelosia? Che amasse entrambe? E infine che amasse solo Eterna? Allo stesso modo un mattino Dolce-Persona provò a intrecciarsi i capelli come faceva l’Eterna, ma alla fine disfece le trecce, che non portava mai, per pettinarsi come sempre dicendosi con generosa ammirazione: “stanno bene solo a lei, 136

benché abbia 39 anni e io 19. Che la ami, e a me accarezzi soltanto la testa, ma lo faccia sempre.” Non si videro mai una seconda volta né seppero mai ciò che si è appena finito di ricordare.

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PROLOGO DEL PERSONAGGIO PRESO A PRESTITO

I romanzieri che hanno compreso con chiarezza che non c’è alcun demerito nell’adottare la pratica letteraria da me proposta dell’uso dei personaggi presi a prestito, sfuggiranno al ridicolo dell’infatuazione di auto-genializzarsi, impegnandosi a sviluppare in modo brillante e completo un personaggio-genio, impegno che, come ho dimostrato, implica il dichiararsi genio dell’autore e limitandosi con modestia a sottrarmi il personaggio. Forsegenio? Povero Forsegenio! Quali romanzi ti toccherà vivere! I Forsegeni mi hanno procurato (genialità dubbia, che è la migliore) un riposo d’autore nelle mie notti di grande programma iniziale, ridotto a programma minore, quando non potendone più ridussi a forsegenio il mio personaggio genio dell’iniziale ardire romanzesco.

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ALL’AUTORE (DEL ROMANZO) NON ACCADE NULLA?

Ti racconterò, Dolce-Persona, l’“incidente di lettore”. Chiunque giunga con impeto e incoscienza a un limite estremo, si schianta nel vuoto. Un autore deve fare attenzione a non eccitare oltremodo l’interesse del lettore quando si trova in prossimità del punto che ha già scelto come fine del suo racconto. In un romanzo come questo, di così intenso e trainante interesse narrativo, l’autore ha fatto grande attenzione affinché il lettore non si frantumasse in una caduta e ha preferito addirittura rallentare sempre di più la narrazione all’avvicinarsi della fine alla quale, come vedrai, il lettore giungerà in modo soave, dolcemente. Non tutti gli autori si prendono questa premura. Non accadrà che il lettore sorpreso dal limite-fine del romanzo quando il suo appassionato interesse era maggiormente avvinto dall’indiavolato intreccio dell’opera cada sfrenatamente dal pieno di un romanzo a un vuoto di attenzione. Poiché all’autore del romanzo non accade nulla, mi sembra giusto, Dolce-Persona, che non accada nulla nemmeno al lettore, a parte il violento adattamento mentale a cui deve ricorrere per addentrarsi in un così grande romanzo, unico nella sua intensità, staccandosi dalla cornice di un tale fardello di prologhi incruenti. (Io faccio sì che nei prologhi i personaggi vengano amati per risparmiare loro il gesto amaro con cui il lettore incredulo e incontentabile accoglierà la loro prima apparizione nel racconto.) 139

PROLOGO DELLA DISPERANZA D’AUTORE

Il disordine del mio libro è quello di tutte le vite e di tutte le opere apparentemente ordinate. La congruenza, un progetto che si realizza in un romanzo, in un’opera di psicologia o di biologia, in una metafisica, è un inganno del mondo letterario e forse di tutto il mondo artistico e scientifico. È mistificazione di Kant, di Schopenhauer, di Wagner quasi sempre, di Cervantes, di Goethe, simulare una congruenza, un progetto nelle loro opere. È così fantastico che esista al di fuori di ciascun testo o trattato una continuità, una congruenza, un’esecuzione effettiva del progetto, così come una continuità nel lettore o nello studioso di dette opere. Devo proclamare in questo istante che non esiste nulla di più delizioso, sconvolgente, di un’opera completamente congrua. Unità, continuità, non per ripetizioni ma per sviluppo, per incessante variare nella permanenza (di un pensiero, di un sentimento). Un esempio supremo, a mio giudizio, di sviluppo in unità è la Quinta Sinfonia di Beethoven. In una mistificazione di unità totalizzante, Schopenhauer ci presenta in tre tomi Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, con capitoli numerosi, numerati, in apparente simmetria. Questo pensatore, forse il più grande metafisico, pubblica un abbozzo di ricerca come un gran140

de libro coerente e definitivo. L’ordinamento di Kant nella complessa Critica alla Ragion Pura è come un miscuglio di numeri in una borsa. Forse Spencer realizzò libri veri senza un raziocinio ininterrotto, senza una parola inutile. Husserl è oggi più metodico? Per quanto ho detto nell’introduzione a questo prologo, non ho niente di cui scusarmi.

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FORSEGENIO SI LAMENTA DEL SUO NOME

— Forsegenio: Come sarà venuto in mente all’autore di dare al mio nome la stravagante caratteristica di essere interrogativo: Forsegenio? Io avrei dovuto apparire così nei dialoghi: “— Dolce-Persona: Cosa c’è di nuovo? Forsegenio? oggi, nel Romanzo? “— Forsegenio?: Oggi è il compleanno… “— Dolce-Persona: la storia dei compleanni all’interno di un romanzo così innovativo è un’abitudine che lo sminuisce; celebrarli è vivere contando, è consumare la vita, indirizzarla verso la Fine. “— Forsegenio?: Mediterò su quello che mi dici e continuerò con ciò che non mi hai lasciato dire. Oggi è il compleanno dell’Inesistenza. Ma torno alla questione del mio nome. Dopo l’autore pensò che essendo io destinato a parlare molto e solo con te, Dolce-Persona, ti avrebbe potuto infastidire doverti sforzare a pronunciare il mio nome in modo interrogativo. Mi adeguo, però avrei dovuto essere chiamato Piena-Persona… — Dolce-Persona: Questo va bene così e non si può più correggere. — Forsegenio: sarà l’unico difetto del romanzo, di certo l’autore ha pensato a una sua comodità, dandomi un nome corto che non significa nulla. Per la prima volta il non significare sarà conciso; fino ad ora ha sempre avuto bisogno di diversi volumi. 142

AI PERSONAGGI DEL MIO ROMANZO

Sanno che sono molto contento di come hanno svolto il loro ruolo, ma mi pregano di affermarlo prima del romanzo senza attenderne la conclusione. Questo perché, sebbene non lo manifestino, mi ritengono competente nel concludere prologhi e credono che lo sia meno nel finire romanzi. Avendo visto che ero giunto all’ultimo prologo senza aver mantenuto la promessa, mi hanno accerchiato senza possibilità di fuga, tutti insieme. Il romanzo sarebbe già iniziato se non fosse per questa esigenza che dà origine a un nuovo prologo. Ma se riconosco che si sono comportati in modo ammirevole — per esempio il Viaggiatore, che ho sempre tenuto al mio fianco e, nel romanzo, non ha mai smesso di viaggiare, spargendo il suo odore di cuoio di valigia in tutti i capitoli — devo riconoscere che da parte mia ho corrisposto con lealtà al loro carattere docile; così benché mi trovassi in terribili ristrettezze mentre scrivevo il mio grande romanzo, non ho venduto né impegnato nessun personaggio. Quanto mi avrebbero dato per il Presidente? O per colui che recita la parte del milionario in Rolls-Royce? Per la vita e la felicità di Dolce-Persona tutti si offrivano in pegno ma, tra tutti, abbiamo trovato come evitare entrambi i mali, e sebbene abbia sopportato disagi per non allontanarmi qualche settimana da loro, questo non è stato d’impedimento al romanzo. Personaggi e autore sono reciprocamente contenti ed è previsto un banchetto per tutti. 143

PROLOGO DI DOVEROSA LETTURA PER RICOMPENSARE UN AUTORE CHE NON LASCIA ENTRARE IL RAGAZZO NEL ROMANZO

Tutti i personaggi — e i lettori che si sono annunciati — mi hanno avvertito che l’irruzione del Ragazzo dal lungo bastone sarebbe stata da loro giudicata come un “bernoccolo di lettura” sulla fronte del leggere, metafora singolare che reputo di intenzione irritante; è come se una canna o un palo potessero provocare “bernoccoli” all’operazione di leggere o come se una lettura sulle banane facesse scivolare. Capisco l’avvertimento se proviene da padri di famiglia incapaci di ottenere a casa propria quello che io ho ottenuto nel romanzo: non lasciarlo invadere dai bambini, liberarsi dai fanciulli, tenerli fuori e, riposati, accudire a chi ha offerto loro una lettura non invasa da piccoli rapaci. Mi fanno capire che quando prendono in mano un libro deve essere un romanzo che i bambini non usino come scala, muretto, grondaia o ramo di fico sui quali arrampicarsi per buttarsi di sotto, per conservare i lividi e rinnovare i gonfiori e i bernoccoli; per prendere quota e poi cadere confermando le differenze di livello deliziosamente previste dalla natura che consentono ai giovinetti di essere sempre in basso quando li si guarda e in alto o nell’atto di cadere in tutt’altra circostanza, e di non decadere, a suon di botte, perché il trascurare di rinnovarle è l’inizio della vecchiaia.

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COSA VOLETE: DEVO CONTINUARE I PROLOGHI

Cosa volete: devo continuare i prologhi fino a non abusarne tanto da pretendere di fare loro un prologo; fino ad adempiere il compito di fare i prologhi di qualcosa, di farli seguire (da un romanzo); e fino a non permettere al mio romanzo la velleità di prolungare se stesso (che equivale al fare allusioni biografiche a storie e affermazioni dottrinarie contenute nel testo di un romanzo in fase di stesura); fino ad assicurarvi, come faccio ora, di trovarmi sulle tracce dell’autoprologo, che appagherebbe in modo definitivo l’aspirazione ai prologhi (si sono lamentati qualche volta) auto-esistenti (l’auto-esistenza è la risposta totale al mistero del mondo che comprende l’eternità) senza subordinare il loro essere a qualcosa che li segua; l’auto-prologo sarà per la letteratura vacillante che si anticipa nel prologare quello che le due forme più usuali del reportage — l’auto-reportage (senza reporter) e il reportage senza interlocutore — sono per l’antiquato reportage effettivo (che richiede due persone e un appuntamento preciso) che la velocità e la fretta della nostra epoca hanno estirpato perché troppo complicato, poco redditizio e persino informale per il nostro affaccendato vivere; — cosa volete, fino ad allora dovrete continuare ad accordare il vostro interesse a ciò che dico prima del romanzo…

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CIÒ CHE MI ACCADE

Io, che una volta credevo di essere l’uomo della completa fortuna, che facendosi strada a gomitate tra la folla gridava: vi prego, lasciate passare un uomo felice!, devo invece andarmene in giro a far colletta di compassione per tutto quello che mi accade, perché mi accade di tutto. Giudicatelo voi: Anelo alla distruzione delle città e mi ritrovo un cugino che con talento straordinario ed impegno veemente si dà da fare per le città, per la loro prosperità e crescita, risolvendo all’urbanistica tutti i problemi del traffico. Scopro i titoli migliori per romanzi e saggi, e subito dopo il mio meditare mi dimostra che la cosa più ridicola e ingiustificata dell’opera d’arte è darle un titolo. Scopro il soggetto più doloroso e intenso per il romanzo, la poesia o il teatro e dopo qualche tempo le mie meditazioni sull’estetica mi impongono la verità che il soggetto in arte manca di dolore artistico, è extra-artistico, e inoltre l’invenzione di soggetti d’arte è una delle massime oziosità poiché la vita straripa di soggetti. Concepisco e realizzo alcune poesie intense, eloquenti e, più tardi, sempre nel perseguire la verità, scopro quella della nullità artistica delle poesie in prosa e ancor di più in versi in quanto racconti e personificazioni. Nego la morte e passo il tempo studiando il modo di prolungare la vita e, finora, ho trovato soltanto quello di non usare terapia alcuna. 146

Curo l’eleganza e il talento nella redazione letteraria e ottengo un personaggio, il Presidente, che mi oscura con la magniloquenza e le lacrimose disperazioni delle sue lettere. E un altro: Forsegenio, che cerca di corteggiare una protagonista usando il sistema meno indicato e più noioso: il genere narrativo. Attendo il ritorno di un racconto nell’angolo in cui tornano solo le barzellette. Divento amico del Lettore che fa scrivere meglio e mi confessa di aver trovato l’autore che accresce la reputazione ai suoi lettori. Infine quando avevo preparato l’elenco completo dei consulenti estetici, scientifici e filosofici di questo romanzo (tre grammatici, un chimico, uno storiografo, due inventori, due biologi, un uomo di genio, un pittore di talento, tre poeti, un astronomo, due musicisti, un matematico, uno psichiatra); quando maturava già il progetto delle invenzioni, di teorie embriologiche, di palinsesti decifrati e dialoghi brillanti di arte e filosofia a carico dei personaggi, ecco qui che mi rapisce la semplice conversazione, amabile e generosa, dell’amicizia; e tutta la mia scoperta di presentare un romanzo con un laboratorio e alcuni tecnici ascritti si sgretola tristemente. Non mi resta che ridurre a un proverbio la mia disavventura, dicendo:

Il male è aver pensato Dopo aver commesso il male.

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PROLOGO CHE SI SENTE ROMANZO

Non lo inizio, lettore, perché studiandolo sommariamente ho capito che avevo già un portale d’ingresso al mio Romanzo. Mi sento intimidito: per la prima volta da quando scrivo piacevolmente questi prologhi mi accorgo che sono impegnato nella scrittura di un romanzo, che dovrebbe giungere il momento di concepirlo per intero e dargli forma. L’idea di diventare autore di un romanzo — per me significa tentare la Tragedia, senza la quale, almeno come aspirazione, non riesco a spiegarmi il soggetto, il Romanzo e tutta l’arte — non ricordo come ebbe inizio né come si trasferì in me; la stesura dei prologhi ha continuato a nascondermi l’arduo impegno a cui preludevano. Mi proponevo di dedicare un prologo all’elencazione dei risultati di qualcosa che avrei realizzato in precedenza come prova generale della psicologia dei personaggi, non della trama; una manipolazione di prova dei caratteri, o meglio del “buon carattere”, la resistenza allegra e abnegata di ognuno all’avversità; un “esercizio” di tempra altruistica, di cameratismo che deve regnare tra loro; sarà forse necessario che alcuni litighino e diventino perfino nemici, il cameratismo di vivere nello stesso romanzo deve essere notato: eterni o momentanei rivali per destino, devono comportarsi sempre come persone che hanno un luogo e un istante di morte collettiva: la fine dell’opera. 148

Io ho il portale d’ingresso al mio Romanzo, è il primo punto da varcare; da qui si entra per diventare primo capitolo di romanzo. Mi sembrava che ci trovassimo già nei dintorni affascinanti del Romanzo (sono affascinato dalla Tragedia — che devo concepire — e non ho parole così come in un mio sogno recente c’era una persona. Sapevo chi era ma non riuscivo a vederla né a darle un nome; regnava su tutti gli eventi del sogno, e sebbene possa sembrare una leggerezza, provavo l’emozione di quella persona ma non ne conoscevo la figura né il nome), mi sembrava che saremmo caduti nel suo fervido contenuto e che ogni volta sarebbe risultato più difficile a ogni topico o soggetto diventare un prologo del Romanzo. Il romanzo di questo prologo, di ciò che accadde quando, innamorato del Romanzo, aspirava a essere un prologo è che l’ho catturato e messo nel romanzo destituendolo come prologo per promuoverlo a capitolo. (Devo confessare che tutti i prologhi e tutti i personaggi sono innamorati di lui e che non solo tutti loro ma anche tutti i temi possibili lo hanno corteggiato con insistenza per prolungarlo; in lui non ci sarà che il tutto-amore e fuori di lui non ci sarà penna, parola o soggetto che non lo cercherà, innamorato; le Voci, gli Sguardi, il Ridere, i Sospiri, i Singhiozzi, lo Smarrimento, vorrebbero vedere la realizzazione della Tragedia e stare con lei.) È la vicinanza della Tragedia, fascino che io stesso ora sperimento e mi trasporta verso di lei, è la Vita stessa che diventa pre o post-tragedia, poiché non è più la Vita ma la sua Mistica che mi ha portato questo “Prologo” umile, ansioso di essere là dove accade il tragico. Non vorrai credere, lettore, che i prologhi arrivino e amino, ma io so che è così (senza infatuazione), e visto che questo è arrivato, devo mettermi a sua disposizione; devo fornirlo di un topico. Per far sì che in qualche modo un prologo non iniziato abbia un soggetto e possa mantenere la sua collocazione all’interno del Romanzo come desidera, in esso dirò ciò che nel Romanzo potrebbe diventare una falsa minuzia e deve essere detto da qualche parte ma non 149

nel Romanzo. C’è qualcosa che corrisponde al suo Capitolo I e deve essere dichiarato ma sarebbe una confessione grossolana, gratuita e antiartistica quella di proclamare nel romanzo stesso che si tratta di un romanzo. Lo dico quindi in questo prologo ed è quanto segue: 1) che quanto specificato nel Capitolo I, “I tredici difficili ritorni a casa, del personale del Romanzo”, è una manipolazione per mettere a prova ed esaminare i miei personaggi, cosa che non è mai accaduta; 2) che tutti si sono comportati egregiamente come se avessero saputo che l’arte stessa li guardava arrivare e agire; ma posso assicurare, grazie a tutte le informazioni che un autore possiede, che nessuno di loro ha pensato a ciò, soltanto non volevano diventare tra loro nemici, né volevano contrariare il romanzo con una mancanza, un’assenza, o un’inadempienza. Non pensavano di tornare a casa ma di tornare al romanzo e sapevano che questi aveva espresso con affanno la promessa di realizzare la Tragedia, che è quanto tutti i personaggi d’Arte di tutti i tempi hanno desiderato fare, presenziare, subire. Quale fu, come nacque l’ispirazione del Chisciotte, della Quinta Sinfonia, del Tristano e Isotta? (Ah, perdonami lettore, sto studiando, esamino con ansia il problema della Tragedia, cerco esempi, mi spaventa l’impegno e mi dimentico, negli ultimi ripassi febbrili, che non è più tempo di studiare ma di lavorare). Ebbene, mi restano da aggiungere ancora due utili eccezioni che aumenteranno i pretesti che cercavamo per l’esistenza di questo prologo. 1) Rimanga chiaro che il mettere alla prova i miei personaggi non implica dubitare della serietà con cui ognuno di loro è stato raccomandato con tanto di lettera ed è stato assunto da me. È un mio irreprimibile nervosismo, niente di più. 2) Rimanga chiaro che il buon comportamento desiderato e attuato da tutti i personaggi, non era il ritornare puntuali a casa ma il ritornare quel giorno ad ogni costo perché Dolce-Persona non si trovasse sola nella dimora, poiché, vista la brevità del suo incarico, tutti sapevano che sarebbe 150

stata la prima a tornare. Con ciò non inizio a raccontare nulla del romanzo; desidero stabilire che non ci sono nel mio romanzo né orari, né valutazioni di condotta. E inoltre rimanga chiaro che esistendo tra i personaggi un Viaggiatore continuo, è impossibile che si siano radunati tutti in una stessa casa, se il romanzo deve essere del tutto veritiero.

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PROLOGO DEL BOLLITORE E DELL’ARMADIETTO

Ogni volta che l’autore di questo romanzo prende in mano la penna, la sua freschezza si rinnova; la Eterna gli ha insegnato così. Procede come i bollitori per l’acqua che, messi sul fuoco, imparano ogni volta a fischiare di nuovo; note sfumate scandite a grandi intervalli dopo un lungo silenzio, un timido, lungo fischio, e alla fine il tema si ripete. Così ora mi ricordo di parlare dell’“armadietto” del Presidente e delle sue corse a nascondersi lì ogni volta che qualcosa non gli va, ma soltanto durante le sue conversazioni e i suoi incontri con la Eterna, quando umile e triste ma privo di collera, con maggior amore, si dirige verso il suo angolo. È proprio un bambino che deve seguire sempre la Eterna aggrappato alla sua sottana, o che deve allontanarsi da lei e chiudersi nell’armadietto.

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LETTERA GENIALE1 CHE IO VORREI UNO DEI MIEI PERSONAGGI, IL PRESIDENTE, SCRIVESSE A RICARDO NARVAL

Ho già detto che l’incidente più ridicolo per un romanziere è finire col farsi carico di un personaggio di genio la cui condotta e facoltà intellettuali l’autore deve saper padroneggiare. Quali idee, pensieri profondi, dottrine audaci e scoperte potrà attribuirgli e descrivere come esempi concreti di “idee geniali” se l’autore non lo è? E se lo è, e si crede tale, nel farsi carico di un personaggio che, presentandolo, l’autore ha detto essere un genio (e via via si dice che è biondo, alto, volubile, figlio di ricchi, scrupoloso nell’uso della cravatta, della pettinatura e delle scarpe che lucida soltanto a metà trascurando il tallone, come fanno i soldati chiamati all’improvviso in ispezione; si aggiunga qui una postilla geniale, di questo tipo: “Ci sovviene che esiste una ‘Morale della Tomaia Lucidata’, rigore etico solo per l’ostensibile ma che non si rivelò tale per il Presidente, cosa che possiamo assicurare nonostante manifesti puerilità di presuntuoso, si annulli completamente quando lo coglie l’impeto della corrispondenza e nello stato assurdo di ‘attesa di una lettera di risposta’ assuma un aspetto che non sembra di un genio. Perché mai la corrispondenza, tale piacevole opportunità di sfoggiare ingegno o giurare

1. Affollarsi di lettori in attesa. [M.F.]

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passioni, è destinata a quell’‘attesa della risposta’ che tende alla sterilità mentale? Il ‘Messo Divino’ del nostro romanzo deve aver saputo che le 30 000 lettere che incenerì per poter riposare, erano corrispondenza in partenza la cui distruzione avrebbe dispensato un prossimo di 30 000 amati dalla perplessità del (cosa le rispondo?). Ma ora a che punto siamo? Beh, non abbiamo finito di dire che per farsi carico di configurare un genio l’autore deve dichiararsi tale, non lo si è mai; conviene occuparsi soltanto dei quasi-geni. Ebbene, io vorrei che il Presidente fosse in grado di scrivere una “lettera geniale” perché un autore non geniale deve pur chiedere a qualcuno di salvare la situazione quando essa richieda inevitabilmente una cucchiaiata di genialità perché il romanzo possa continuare; e che una volta scritta la lettera decidesse destinarla a Ricardo Nardal. Se poi scopro che non è così, e che il Presidente in tutto il romanzo non ha mai manifestato nulla di geniale, alla fine ricorrerò a una nota che dirà: “Si avverte il lettore che il mio protagonista di genio, il Presidente, è stato inserito nel romanzo in un breve momento della sua vita che, per sfortuna, ha coinciso esattamente con un’eclissi della sua intelligenza, un periodo in cui ha prevalso un certo indebolimento psichico; ma la sua vita è stata molto più lunga e non si dubiti che prima e poi si sia dimostrato, come dico, geniale”. Per questo, data l’assenza di qualsiasi tratto geniale nel Presidente, non viene provato che l’autore sia incapace, poiché egli stesso non è un genio, di riuscire a realizzare nel romanzo il ruolo di un personaggio di quella categoria, e con questo passo alla lettera che vorrei il Presidente fosse capace di scrivere per dimostrarsi un genio.

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“Caro Ricardo Nardal:1 Prima di essere protagonista di questo romanzo, lei si ricorderà che partecipai al suo banchetto e che le dedicai la mia scoperta quintupla dei modi di applaudire: per chiamare il “cameriere”, per spaventare le galline del cortile, per prendere al volo una falena, per farsi aprire la porta e per far fare i primi passi al figlio di pochi mesi; ma si dà il caso che nei dieci anni successivi abbia scoperto altri due modi di applaudire che non si possono trascurare e per un non so che — mi accorgo ora del tono misterioso di questo fraseggio — mi sembra di doverli associare al vostro nome prima di offrirli a un pubblico probabilmente avido di conoscerli, a causa di una certa prelazione o slancio di prelazione che non riesco a definire, per me indefinibile! I modi di applaudire devono avere un grande valore perché sono pochi: se ne scoprono due in dieci anni. Eccoli qui: il primo è quello dell’autore o dell’oratore che si autoapplaude usando alla fine di un paragrafo frasi come queste: «Molto bene, allora, signori come vedete…»; «Perfettamente, allora …»; «Convinti voi di quanto detto prima»; «E questo, certo è…»; il secondo è costituito dai lunghi finali musicali delle opere che hanno essi stessi un inizio, uno sviluppo e una fine, che non possono essere interpretati se non come l’applauso che l’opera tributa a se stessa. Sono gli applausi che esistono. Si dice che esista l’applauso di approvazione, di ammirazione. Ma implica due equivoci: lo eseguono alla fine e può darsi che significhi, finalmente!, è finita; e inoltre se si è il presunto applaudito, si dubiterà sempre se si sta applaudendo dove ci si trova o se ci si trova dove si sta applaudendo.

1. In origine: Leopoldo Marechal. [F.M.] Leopoldo Marechal, Buenos Aires, 1900-1970. Insieme a Borges e altri è animatore del movimento di avanguardia chiamato “Ultraísmo” e del gruppo “Martinfierrista”. La sua opera più conosciuta è il romanzo Adán Buenosayres (1948), di manifesta affinità all’estetica di Macedonio. [N.d.C.]

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Le offro così la lista completa dei sette modi di applaudire, dei quali quattro per gli altri e tre per se stessi; non è un cattivo segno per l’umanità che in qualcosa ci siano più generi di altruismo che di egoismo. Buon lavoro, caro Nardal.

Il Presidente.”

Di questi sette applausi che esistono al mondo, quale mi sarà rivolto? Poiché si tratta di un “autore arriva-in-ritardo” che significa autore “arriva-presto” lì dove nessuno lo aspetta — che, con le ingenuità di un grande romanziere psicologico, si prostra in scuse rivolte a un pubblico che in realtà si rallegrebbe di un “non-arriva-del-tutto”.

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È SUFFICIENTE “PRECEDERE” PER ESSERE UN PROLOGO?

Vogliamo offrire un romanzo che sia bello sebbene l’autore prometta di non scrivere mai più e a dimostrazione di un patto così altruista — sacrificio di pensatore che pur di poter pubblicare si priverebbe, o si è già privato persino di pensare, cosa che i suoi libri non rivelano — infila le quattro (penne)1 in fondo al mare; (avrà una profondità altrettanto degna di quei profondi strumenti con i quali alcuni arano e altri graffiano le profondità?); o salutando, come si è visto, le consegna all’adorazione di una tra le più belle città dello spirito, universali, Buenos Aires, capace di capire quale struggimento si prova per lei con una simile promessa. Se non vi è stata un’originalità assoluta in quello che hanno prodotto, vi è stata almeno nel consegnarle; e tale gesto porta i segni della serietà di carattere dell’espositore e della diffidenza che anticipa la sfiducia più giusta e allo stesso tempo la perspicacia di sapere dove si trovano altre penne: sul tavolino di qualsiasi impiegato di commercio (c’è sempre in lui un letterato-minimo), dove 1. Qui si rammenta, come si farà in seguito (per trafiggerla di inesistenza: Capitolo IX) l’esposizione in una pubblica vetrina delle penne con cui è stata scritta una certa opera di successo letterario convenzionale. [M.F.]

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possono trovarsi ancora manoscritti di intere sue opere. E così lo dimostra presentando un nuovo libro poco dopo la capitolazione spontanea delle matite e penne pensatrici da compilatore. Il nuovo libro sembra scritto con le “stesse” quattro penne. Che non si sia mantenuta una promessa con Buenos Aires è l’aspetto più delicato della questione. Non so quello che si prova quando non manteniamo le promesse; io consegno il romanzo che promisi; non era ancora stata inventata la promessa di non scrivere, mancai d’ingegno. Che dramma nell’intimo di una persona per la quale scrivere significa tradire una promessa! Credo di essere arrivato appena in tempo, un giorno prima che il genere del Romanzo iniziasse ad essere impossibile — l’Arte è possibile ma qualsiasi soggetto, per essere d’Arte, deve essere impossibile —; e il mio romanzo è stato possibile e contiene solo impossibili. Non posso vantarmi di avere scoperto per questo romanzo la landa dove non accade nulla, chiamata altrimenti “Terra di Leoni”. Ma nel mio accade tutto l’impossibile; per il possibile c’è la vita e per il romanzo, ad essa uguale, che senso ha il realismo? E posso solo capire che il lettore si lamenti se non vi trova qualcosa di Impossibile, e sa che da qualche parte, nell’Arte alla quale si rivolge, deve trovare e deve succedere normalmente ciò che, rotolandosi sul letto o affacciandosi alla finestra, non trova: l’Impossibile, che non è ciò che manca perché nel mondo c’è tutto ma è ciò che ci manca quando lo desideriamo, anche se giunge o esiste prima o dopo averlo desiderato. In questo senso la Eterna è stata per molti anni un impossibile per me, eppure esisteva, ed era la perfezione. L’unico impossibile è morire. Quanto illimitata è la Possibilità: mi è stato possibile, cosa che oggi non posso concepire, vivere lunghi anni senza l’amore dell’Eterna e senza conoscerla. Così cavilla e così decide nel suo spirito tormentato il Presidente, al quale l’Eterna dice “che egli ama ciò che ha creato e non quello che lei è”. 158

PROLOGO MODELLO

È il migliore e lo abbandono solo per l’affanno di impedire che si trovi somiglianza alla mia originalità, fatto molto comune. Persino Cervantes, Dante e Manzoni supplicarono l’indulgenza affinché si considerassero perfette le loro opere, e lo sarebbero state se non: “per le miserie e l’abbandono della prigione” o perché con “lungo studio e grande amore” erano state fatte male, o perché i contemporanei non sanno giudicare: “ai posteri l’ardua sentenza”. Quindi, sotto tutti i travestimenti e con tutte le reticenze, è necessario aggiungere a un prologo perfetto, cioè prototipo del brutto: 1) Mancanza di stimoli, di tempo tranquillo e di comodità per scrivere bene. 2) Raccomandarsi all’indulgenza del lettore di un’opera brutta come il falegname che porta una sedia che non si regge e confida venga usata solo dagli equilibristi della famiglia. 3) Che nella mia infanzia nessuno ha saputo dirmi che avevo talento e nonostante questo, dopo aver provato di tutto, con il presente sistema letterario, ecco qui il mio libro. Come sentenziano le pubblicità di farmaci e di sistemi per la longevità: “io ero fragile, inappetente, irascibile, pallido, 159

nessuno credeva io vivessi, ma ho usato il sistema Kuhne (o vegetariano) e oggi sostengo compiti notevoli: leggo il Paradiso di Dante, le ‘sabidurías’ di Baltazar Gracián,1 senza pensare a nulla, senza alcuna fatica”. Ciò che mi addolora è vedere Cervantes che adduce scuse con la profonda sfacciataggine di chi sa di avere scritto un’opera immortale. Pertanto stava raccomandando a tutti quelli che volevano scrivere un’opera perfetta di uccidere o rubare per ritrovarsi in un carcere buio, con topi, umidità, fame e freddo pochi momenti prima di iniziarla. Ora, a chi volesse scrivere un’opera perfettamente brutta io, da parte mia, gli raccomando una lunga cura, se riesce a sopportarla: la lettura di Gracián e il frequente richiamo alla memoria, mentre scrive, di tutto il poema che inizia (è l’unica cosa che conosco): “Estos, Fabio, ay dolor, que veis ahora!”. Ma sarebbe ancora meglio, seguendo il controesempio di Cervantes, trascorrere una lunga vita di mollezze, lussi, libertà, viaggi, ozi, per poi sedersi un bel giorno a scrivere. Se Cervantes ha scritto il meglio nella scomodità più assoluta, chi lo fa in tutta comodità scriverà un libro terribile.

1. Baltazar Gracián (1601-1658), gesuita, esponente delle correnti moraliste e satiriche del XVII secolo spagnolo, tra le sue opere più importanti: El héroe (1637), Agudeza y arte de ingenio (1648) e El criticón (1651). [N.d.C]

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PROLOGO QUADRUPLO?

Spero che i miei prologhi numerosi, sorta di “Opere Complete del Prologare” e il mio romanzo vengano considerati così belli come se la Posterità che sancisce il bello mi avesse incaricato di scriverli. E credo seriamente che la Letteratura sia precisamente la bell’-arte di: ricreare artisticamente un soggetto scoperto da altri. È la legge che governa ogni bell’-arte e significa che il “soggetto” d’arte manca di valore artistico o che tutto il valore dell’arte risiede nella sua esecuzione. Classificare i soggetti come migliori o più interessanti di altri, è fare dell’etica: fare estetica è ricreare artisticamente qualsiasi soggetto. I soggetti li trova chiunque, con facilità, sovrabbondano: le pagine d’arte sono molto scarse e si eseguono con disperazione, con lacrime e rabbia di Lavoro. Forse questa sofferenza e questo continuo fallimento che accompagnano l’anelito artistico, sono il castigo di chi preferisce il sognare al vivere, l’arte alla vita, quando quest’ultima ci riserva una Eterna in cui ogni bellezza ha preso corpo, palpito, respiro; guardare l’arte è come percorrere il giorno guidati da piccole luci domestiche. E se avendo la Eterna inseguiamo l’arte della pura invenzione, diventiamo più ciechi e camminiamo come guidati contro noi stessi, spinti dalla bassezza: sostenere l’invenzione di fronte alla Eterna già trovata, che respira, è una scelta terribile contro di noi. 161

Accanto all’Eterna l’invenzione è priva di senso. Si noti che il mio romanzo è di notevole consistenza; è molto ardito; ha in sé tre piccole falle di dispersione (l’uscita per la manipolazione dei personaggi, la conquista di Buenos Aires e la separazione finale), due riprese del diletto quotidiano: il vivere ne “Il Romanzo” (dopo la Manipolazione, dopo la Conquista); una presenza del Viaggiatore alla fine di ogni capitolo; un inizio sempre a carico di Forsegenio e Dolce-Persona per ogni capitolo, e per il romanzo un’anteriore e completa pre-esistenza al suo essere in due forme molto diverse: in dieci anni di reiterate promesse di futura pubblicazione e in sessanta prologhi pensati tutti per lui; inoltre contiene pagine sciolte di romanzo del tutto innovative per il genere, oltre a una pagina modello e a una giornata-tipo ne “Il Romanzo”; un elenco di personaggi rifiutati, una persona che merita di diventare personaggio e un personaggio in assenza; a tutto ciò si può aggiungere il merito di non essere mai stato usato prima. E tutta questa consistenza nel corpo, nella sostanza, di cui va fiero il mio romanzo, non diventa soffocante per eccesso di ambiente, per l’essere fragile di Dunamor che non vuole esistere, grazie a certa leggerezza quasi confinante con l’inesistenza che caratterizza il tono del romanzo. Avendo pensato che nell’avvenire esisterà una Letteratura bella e una Letteratura, un’arte del romanzo fino ad oggi brutta — con tutta la pubblicità che mi son fatto grazie ai miei amici giornalisti, insistendo affinché annunciassero ripetutamente il mio genuino grande romanzo: — “La Eterna e la Bimba di Dolore, la Dolce-Persona di-un-amore che non fu saputo”, inizio della Letteratura Bella —, mi sono proposto di intrattenere l’animo del pubblico lettore e di far sì che continuasse con indulgenza a leggere la brutta, sollevato dalla consapevolezza che quella bella sarebbe giunta, perché so che l’attesa nel leggere è una virtù dei lettori più veri; ma senza lettura 162

possono abdicare al loro ruolo per sempre, quindi anche per il mio romanzo. Così giunse il momento di promettere il mio romanzo e notavo tranquillo che la gente continuava a leggere il brutto — cosa per cui devo ringraziare i suoi pessimi autori — nell’attesa del bello — cosa per cui si deve ringraziare me —: abbiamo collaborato, si può dire, ma ci separeremo tragicamente quando io inizierò. L’unica evidenza è che il lettore, nonostante la nuova arte del romanzo sia molto bella, non sa ancora quando potrà disporne. È questa la giustificazione alle mie promesse del Romanzo Bello come pure alla stesura del Romanzo Brutto, l’ultimo però: mantenere il lettore in attesa e in esercizio. Costruiamo una spirale così contorta da stancare il vento nel percorrerne l’interno, in modo che ne esca tanto stordito da smarrire il suo cammino; costruiamo così un romanzo che una volta per tutte non sia una chiara, fedele copia realista. O l’Arte è di troppo o nulla ha a che vedere con la realtà; solo così è il reale, così come gli elementi della Realtà non sono copie uno dell’altro. Tutto il realismo nell’arte sembra nato dalla casualità che nel mondo ci siano materie speculari; allora ai commessi dei negozi venne in mente la Letteratura, ovvero la creazione di copie. Ciò che viene chiamato Arte sembra l’opera di un venditore di specchi, giunto all’ossessione, che si introduce nelle case facendo pressione su tutti affinché ripongano i loro scopi negli specchi, non nelle cose. In quanti momenti della nostra vita ci sono scene, trame, caratteri; l’opera di arte-specchio si dice realista e attira il nostro sguardo verso la realtà interponendone una copia. L’Arte inizia solo oltre la veridicità, giusta laboriosità della scienza e intrusa sgarbata nell’arte. Che i nostri personaggi non sappiano se sono stati portati ne “Il Romanzo” o nel romanzo. Vorrei sapere cosa fingono gli attori di scena. Fingono di essere persone e non personaggi, fingono di imitare l’uomo e non lo vivono? In loro si realizza un vivere personale; qualunque sia il “ruolo”, non sono personaggi di 163

carta, scritti. Che i miei personaggi non assomiglino né alle persone né agli “attori”, che basti loro l’incanto di essere “personaggi”.

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IL PRESIDENTE E LA MORTE

Il Presidente cercò i suoi accompagnatori per trovare la felicità, ma dopo una breve apparizione di questa nell’Amicizia profondamente posseduta e nell’Azione riuscita e gioiosa, a cui si aggiunge l’allegro ritorno al focolare del romanzo con evidente e recuperata felicità, nel suo impeto di uomo malato impose loro di accomiatarsi derubandoli della gioia, esimendoli soltanto dall’inevitabile lacerazione di vedersi tutti morire (in senso terreno, perché il Presidente può dire a suo favore di aver loro infuso, rasserenandoli per sempre, la sua “Metafisica senza Morte”). L’autore è felice solo perché qui non c’è Morte anche se, con sua grande sorpresa, questo mio romanzo è risultato tanto triste. (Non tanto quanto il Chisciotte, l’opera dal pessimismo più spontaneo e imprevedibile, anche per il suo autore, di tutta la Letteratura; il Chisciotte è molto più triste di questo mio stato passeggero; nel Chisciotte, credo involontariamente, si sanciscono il fallimento del Vivente: la sua Effimerità, e il fallimento dell’Innocenza: la Giustizia; nel mio romanzo fallisce soltanto la Felicità, non la Personalità o l’Eternità.) Il Presidente sopporta l’addio dinanzi al Nulla, dinanzi all’occultamento eterno delle esistenze. (Benché sappia che la Presenza dei corpi è ancora più dura quando manca l’amore che c’è stato: l’Oblio.) Il Presidente pensa inoltre, 165

con la mente rivolta forse a Dunamor, che se dopo essere stati a contemplare l’amata non accade un nuovo, grande evento, la vedremo sempre e con la stessa sensibilità di quando la vedevamo prima di “morire” perché senza nuovi eventi non c’è oblio: non è il Tempo — che nulla è — bensì i nuovi eventi che indeboliscono le immagini del passato. Potrebbe essere una formula per “de-dimenticare”: sottrarsi a nuovi eventi importanti quando siamo costretti a smettere di vedere l’amata. Infine, il Presidente crede all’eternità con memoria Personale, con memoria di Individualità di tutto ciò che, una volta, fu persona. Si sa che, oltre ai doveri generali in questo romanzo, l’autore — che a volte è e a volte non è il Presidente — ha due doveri differenti di metafisico: l’uno con la Eterna: di mostrarle e convincerla del nichilismo del Nulla, ossia della Morte, poiché il problema di chi già possiede l’Amore è rivolto all’avvenire e alla sua possibilità di cessazione; l’altro con Dolce-Persona: di mostrarle e convincerla del nichilismo del Passato, in cui soffrì la maggior umiliazione e dolore, liberandola dall’aura di essere stata reale che accompagna una certa scena di tortura da annichilire come immagine avvenuta per farla divenire un’immagine priva di quell’aura, ossia un’immagine di fantasia, di mera irrealtà. Ma qual è l’angoscia metafisica personale del Presidente? Non crede alla Morte, eppure non può amare ciò che si crede mortale, ciò che non sa di essere immortale; si definisce sentimentalmente come il disastro del destino “che non può amare chi aspetta di Morire”. Cosicché la desolazione della Eterna (credersi mortale), è la desolazione del Presidente “immortalista” (non poter amare ciò che è mortale). Tale è la metafisica del Presidente che troviamo fra le sue carte, conclusa, con un punto finale voluto.

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AL LETTORE SINGHIOZZANTE

Confido nel non avere un lettore ininterrotto. Potrebbe essere lui a causare il mio fallimento e a spogliarmi della celebrità che, più o meno astutamente, intendo sottrarre per qualcuno dei miei personaggi. E questo di fallire è un vezzo che non si accorda con l’età. Mi rifugio nel lettore singhiozzante. Ecco che hai letto tutto il mio romanzo senza saperlo, sei diventato lettore ininterrotto e insaputo poiché ti ho raccontato tutto in modo dispersivo e prima del romanzo. Il lettore singhiozzante è il più incline a diventare lettore ininterrotto. Ho voluto distrarti, non correggerti, perché in realtà sei il lettore saggio, perché pratichi l’infra-lettura, cosa che più impressiona, in conformità con la mia teoria che i personaggi e i fatti solo accennati, abilmente troncati, sono quelli che più rimangono nella memoria. Ti dedico il mio romanzo, Lettore Singhiozzante, mi ringrazierai di una sensazione nuova: il leggere senza interruzione. Al contrario, il lettore ininterrotto avrà la sensazione di un nuovo modo di singhiozzare: seguire l’autore che singhiozza.

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IMPRECAZIONE CONTRO IL LETTORE ININTERROTTO

Io che non ho mai creduto all’esistenza del Lettore Ininterrotto, esistenza che ho constatato di più quando non credevo che quando credevo, dovevo imbattermi, per il mio romanzo, nell’unico lettore ininterrotto che esiste, quello che potrebbe rovinare e denunciare tutti i miei sotterfugi di autore debole che fa uso di espedienti confidando così di porre in salvo tutte le sue mancanze, tutte le sue sviste. Se ti aggiri davvero nel mio libro, so che non ho più nulla da sperare. Cosa ti costerebbe stare zitto! Non ti vergogni di infrangere l’immagine serena e dolorosa della Eterna? Non ti seduce il destino crudele e la mansuetudine della tenera Dolce-Persona? Non ti incute timore e non ti rattrista l’atteggiamento artistico che assumi nel ricucire banalmente, uno dopo l’altro, i giorni della solida quotidianità che ti fa cenare placidamente ogni sera pensando al pranzo del giorno dopo, senza dubbio alcuno di accertare l’inestricabile intreccio di Dunamor nella misteriosità, non me lo puoi negare, di avere il corpo nel romanzo, lì dove riposerà la tua amata tornando dalla morte, e l’anima altrove? Tradirai Forsegenio, che ti ha insegnato tanti trucchi mai conosciuti per conquistare le dame grazie ai quali potrai forse conoscere 168

per la prima volta il successo di approdare all’anima di una donna, che rovinerà tutte le tue colazioni e i tuoi pranzi e, come mi auguro, addolcirà la tua bile di pubblicatore di difetti? No, non ho speranza. Mai un libro ti avrà reso più felice.1

1. 68 lettori si congedano. [M.F.]

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PROLOGO CHE FRA I PROLOGHI SI ALZA IN PUNTA DI PIEDI PER VEDERE DOVE, IN LONTANANZA, INIZIA IL ROMANZO

Sorge il sole nella quiete della dimora “Il Romanzo”. Una prima finestra si apre. Un brivido mattutino.1 È freddo anche per l’autore dinanzi a ciò che ha intrapreso, a ciò che di più irreparabile e incerto ci sia mai stato per lui. Ho al mio fianco l’amico che per incoraggiarmi vuole dirmi: — Andrà tutto bene, il successo è inevitabile. Non si faccia più attendere dai personaggi! Li renderà felici? Lo meriterebbero davvero. — Sta di fatto che li renderò disgraziati. — No, i “personaggi” non sono mai disgraziati. Io li ho invidiati tutti, anche nei momenti in cui invocavano la morte. — Sta di fatto che i miei invocheranno la vita. — Non posso credere che personaggi da lei inventati diano prova di un così cattivo gusto. — Mi sembra che siano ancora felici nel romanzo. Inizieranno dopo a chiedere la vita, ma la chiederanno. Questo romanzo è molto triste. Non investigherò più. E ciò che vor1. A volte mi confondo lavorando simultaneamente a entrambi i romanzi e in questo, il romanzo bello, redigo qualcosa che appartiene al genere del romanzo brutto. [M.F.]

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rei scorgere alzandomi in punta di piedi è se Dolce-Persona con gesti e toni adeguati ha già visto così vicina la felicità da iniziare a pregare che gli si dia vita o che venga chiamato un altro per continuare il suo ruolo. Ma questo prologo-personaggio non vorrà sapere più nulla in anticipo. Intuisce già che sarà forse così triste come il libro dal Pessimismo più vigoroso: il Chisciotte. Al punto che l’autore non ebbe più la forza di dirci come si separarono i protagonisti tristi e addolorati del suo romanzo: il Presidente e molto, ma molto di più, l’iniquamente frustrata Eterna.

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1o - NOTA DI POSTPROLOGO; E 2° - OSSERVAZIONI DI ANTE-LIBRO

Strumenti postprenotati occuperanno qui quattro o cinque pagine in sostituzione di altrettante che, in bianco, non dicono niente nel tomo comune della “sperimentatastruttura-tradizionale-della-rilegatura-del-letterario” che hanno imposto gli Editori. Spero che il mio, il mio Editore, non mi esponga allo scherno di tutti inserendo le cinque pagine in bianco — che qui considero rimpiazzate — e, in seguito, critichi detta pratica. Se esiste Critica per lo scritto, io faccio quella dell’in bianco; che così riceve pubblicità dagli editori e critica da me, cioè tutti gli omaggi dello scritto. Quelle pagine bianche, testi di disdegno per il letterario, sono le pagine d’autore con le quali si mascherano da poligrafi in qualunque libro i mai autori, i sempre inediti editori. Ripudio in quanto compiute tutte le pagine bianche che si pubblicano qui come originali da me firmati; le disconosco categoricamente come autentiche benché possano contenere parzialmente qualche genialità o pensiero, e benché qualcuna di esse possa essere figlia della mia penna in relazione a certi momenti di “in bianco” nella mia mente, come vorrebbe far credere qualche editore. Si consideri che sono: quattro o cinque all’inizio del libro — l’editore inizia con qualcosa di suo —; quattro o cinque in più dopo la parola Fine, come fosse necessario che, perlomeno, il Romanzo continuasse in bianco; diverse 172

fra i capitoli; un’altra con il titolo dell’opera; un’altra che ripete la copertina; e il tutto con un abuso di margini — una ventina di pagine, quindi, in cui l’autore non ha pubblicato nulla e per le quali il lettore ininterrotto ha speso invano i soldi in libreria. Osservazione dell’Editore: Mi si permetta di asserire in modo rispettoso che, in effetti, il grande romanziere che qui sto pubblicando e le cui doti di ingegno e di facile estensione dei paragrafi tutto il pubblico conosce da lontano (con la nostra propaganda le avvicinerà di più) a volte ha sentito il bisogno (non parliamo di denaro), quando ormai non ne poteva più della sua letteratura, di spedirci tra i manoscritti di qualche suo racconto mutilato alcune pagine bianche che seguono la numerazione, e abbiamo così capito che era nostro dovere fare qualcosa per lui fuori contratto.

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QUESTI SONO STATI PROLOGHI? E QUESTO SARÀ ROMANZO?

Che il lettore possa aggirarsi in questa pagina prima di leggere nella sua assai degna indecisione e gravità.

SVEGLIA. INIZIA IL TEMPO DEL ROMANZO. SI MUOVE.

Primo minuto: Evocazione del Volto della Eterna I baci che mi neghi mordono le tue labbra Perciò con labbra l’una contro l’altra accanite Mordendosi Scrivi il manoscritto di questo tuo romanzo in cui ti dò il mio spirito, così come il tuo mi desti. E per ciò che non poté essere possiedo il gesto del divino dolore del tuo Non Posso; il tuo negare per cui si fece intero il mio essere in piena persona, e mi educasti nel non “Vivere”, e nel tanto più Amare.

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CAPITOLO I (Scorre il tempo, che fa piangere.)

I “personaggi” manipolati e così ottenuti: si metta a prova la fermezza della loro affezione al non-essere artistico. Dieci ritorni di buon umore in balia di tempeste e fatiche. Poco prima del presente istante, di questo presente in cui lei sta leggendo, lettore, il Presidente lasciò la sua sedia appoggiata al muro posteriore dell’edificio della dimora “Il Romanzo”, che è solito occupare lontano da tutti, per meditare tristezza o azione, ed in esso entrò. Sembra quieta la casa bianca, antica, e modesta, della dimora. Si direbbe che la sua facciata, e porte e finestre, balbettino qualcosa di ciò che mormora allo spirito la polvere dell’ampia strada, ora senza passanti, su cui oscilla il rumore d’un passo opaco, o l’allegria del campanello di un veicolo che si allontana. Cosa dice la casa, la strada? — Da qui passano gli uomini, passano gli uomini immortali: immortali però. Quattro sono le finestre della casa de “Il Romanzo”: il Tempo nelle crepe dei suoi intonaci; il bisbigliare del vento nel camino della cucina; il palpitare incessante delle acque costiere del mar del Plata; il serpentello d’acqua che tormenta le sue reni e la vastità di zendado acquatico e d’orizzonte del Plata; e la fiammella triangolare di una vela immobile in lontananza: l’eterna barchetta del debole, minuscolo 179

affaccendarsi umano, sempre in cerca di qualcosa, che ogni sguardo trova in ogni mare, vicino all’orizzonte, dove ogni vela leggera tocca il cielo. Ultimi quieti minuti di questo meriggio; i raggi di luce lungo la piccola vallata de “Il Romanzo” vengono raccolti uno ad uno dall’ora estrema del giorno, al cui albore una nebbia vagava sul suo acceso verdore. Tuttavia si distinguono ancora le scritte sui due cippi all’ingresso della dimora: “Lasciate qui il vostro passato”; “Varcate la soglia, e il vostro passato non vi seguirà”. Sta al suo posto e guarda e sembra esistere, la Sentinella sottile della nostra storia; il suo profilo snello, delicato (una sentinelluccia, in verità!) che si potrebbe confondere con la traversa del reticolato, coronato da un nido immobile; sempre lì (eccetto quando meditò e scrisse il suo “rapporto” sul romanzo concluso, cosa che gli risultò faticosa, preoccupata com’era della verità storica e artistica), un poco discosta dall’entrata del giardino della casa. La sua perpetua immobilità farebbe pensare — e qualcuno lo farà — a un piolo inanimato; ma chi voglia credere che sia vigile la guardi quando si ferma sulla sua fronte il colore postremo del giorno, e l’ulteriore luminosità del canto della calandra, o si posa il barbagianni oscuro, muto ma significativo; o quando Fantasia unisce qui — nel romanzo e nella dimora, come viaggiatori che il caso fa incontrare su un treno in corsa — tutti i personaggi portati in questa narrazione: eccezion fatta per l’Eterna, che poco fa giunse nella notte, a tutti loro occulta, compagna da loro ignorata nel romanzo. Eterna gli risponde “Ancora No” e il Presidente impara ad amare. — Poiché lei mi annunciò che domani affronterà con forza d’animo tutti i personaggi, sono venuta, non solo per vederla e assicurarmi della lucidità e della forza che dovranno accompagnarla nel tumulto in cui si sta gettando, ma 180

per convincerla che devo associarmi a tutte le fortune delle sue imprese, e restarle vicina per prendermi cura del suo spirito. — Così dovevo pensare e così doveva essere; lo compresi vedendola giungere. Lei fa e pensa sempre ciò che ogni istante richiede. Ma al contempo, vedendola e ascoltandola vicino a me, subito ho perduto la fiducia nei miei propositi che, addirittura, non ricordo e che mi hanno indotto a ideare l’azione in cui devo profondarmi, giacché mi manca il dono di profondarmi del tutto in una passione che solo da lei potrebbe venirmi. Subito ho dimenticato perché non ottenni né il suo amore, né quello di me stesso. Come mai non ho potuto ottenere da me la passione assoluta per lei, che sarebbe stata la felicità assoluta, mentre tutto ciò che penso e intraprendo non è che una misera “cura” all’incapacità di passione, con il ricorso a imprese e a pensieri contraffatti? — Non mi commuova e non si dia pena. Lasci che quanto possa suscitare in lei la mia presenza non vacilli, ci penseremo dopo. Forse, dopo l’azione, vorrà parlarmi ancora una volta; e possibilmente con mutato sentire. — Sì, risolviamoci al peggio: all’azione senza proposito, senza amore; in essa intuisco la salvezza, cioè il saperla amare. — Non indugiamo a pensare a noi. Mi dica cosa devo fare. — Domani, all’alba, usciremo tutti, con diversi destini, per ritornare in giornata e Eterna porterà colui che trasforma il Pensiero in Amore ed io porterò la pausa o l’attesa durante la quale il tempo non muta le cose. — A domani. — A domani. Vado ad assegnare a ciascuno il suo compito. Ciò che il Presidente ordinò ad ognuno, chiamandoli separatamente, mentre un vento improvviso agitava l’albereta intorno alla dimora, riempiendo la casa d’un frusciare di fronde, e la pioggia iniziava a cadere con forza, fu: 181

A Dolce-Persona, chiamata per prima e che giungendo lo guardò con tristezza e interesse: che trovasse e portasse con sé ciò che è “così buono” che dopo di esso può dirsi ottimista e felice solo chi pone termine alla sua vita, essendo già determinato a farlo per il fatto — appunto — d’essere ottimista: sia questo “così buono” qualcosa della vita o dell’arte, seguito in questo caso dal silenzio come suicidio. A Padre: cercare e portare l’ingiuria che ucciderebbe l’offensore ingiusto e la cui mancanza, nel parossismo di una giusta ira, ci fa morire di disperazione, o ci rende infelici per sempre. (Padre si avvicina alla scrivania del Presidente proprio nel momento in cui Dolce-Persona si ritira, ricevuto l’incarico. Allora si dicono: — Come, Padre: anche lei qui? — E tu? È qui che ti nascondevi? Sono amico del Presidente. — Non avrebbe dovuto venire. Da quando seppi ciò che pensava di fare con me, avremmo dovuto vivere l’uno per l’altro nella morte, pur sembrando vivi agli altri. — Come l’hai saputo? — Non ha senso parlarne. — Parlare è ciò che volevo. — No. Dolce-Persona si allontanò e Padre andò a ricevere il suo incarico.) A Forsegenio: raccogliere il segreto che si dice, ma “in segreto”. A Dunamor: portare l’attesa imperturbabile nella memoria incorruttibile. A Semplice: trovare il lettore di romanzi che ancora rimane e che si stizzisce quando il romanziere fa dubitare della sua veridicità o ammette che qualcosa di ciò che è narrato possa non essere possibile. Così, ottenuti da una manipolazione, gli abitanti della dimora vengono a sapere che il Presidente li concerta, o spinge a diventare, in vita, “personaggi” di un romanzo; 182

come dicesse loro: “Siete vivi e ancora felici: vi invito a una manipolazione di ‘personaggi’, poiché possiate esserlo in un romanzo.” Il mattino dopo, un mattino buio, mentre il vento e la pioggia sferzavano la casa, partirono quasi tutti quasi senza vedersi; e, prima di tutti, l’Eterna. Coloro che si fossero sentiti così protetti e felici nella casa avvolta dagli eucalipti che le davano pace e la cui musica di tempesta, in quella pace, fosse così piacevole da ascoltare, avrebbero dovuto tutti allontanarsi, camminare separati, anche la coppia che andava per la medesima strada; né avrebbero potuto restare al riparo, dove avessero trovato ricetto. L’ordine, preciso, era: separarsi alla partenza, anche se per le cose spirituali che erano state loro ordinate, non sarebbe stato necessario né partire, né seguire alcuna direzione. Dolce-Persona e Forsegenio si cercarono, nel debole chiarore; camminarono insieme fino al portone, e lì ognuno prese la sua strada. Anche il Presidente partì, senza guardare né cercare nessuno, assorto. Dunamor camminava in estasi, con passo tranquillo. Padre, con andatura stanca. Semplice fu il solo a lamentarsi della pioggia; ma lo fece con parole sprezzanti: “acqua, non hai mai valso un soldo!”. La piccola valle si riempì di fiume. La Sentinella vide tutti partire e rimase a stropicciarsi gli occhi, ma con ciò non riuscì né riuscirà mai a sapere se era sogno o realtà. Tornarono tutti la sera, affannati e di fretta (perché dovevano riuscire a tornare prima della Dolce-Persona affinché non si trovasse sola), zuppi di pioggia e di fango. La Eterna giunse per prima, non vista da alcuno, e disse: — È fatta. Servirà a qualcosa? E il Presidente, arrivato dopo: — È fatta. Servirà? Non so, ma sia per il buon umore! Dolce-Persona e Forsegenio si ritrovarono al portone, 183

dove si erano separati al mattino; e arrivando insieme esclamarono: — È andata bene! Ci siamo visti soltanto negli istanti dei due crepuscoli del giorno. — Oggi ci guarderemo in ogni istante, aggiunse Forsegenio. — Quando avrò parlato col Presidente. Ma le dirò che, lontano davanti a me, intravidi giungere una persona che adesso dovrebbe trovarsi nella dimora: una donna. — Non so. Dunamor arrivò e disse: — Come è bella la fattoria inzaccherata! Come l’amo per starmene qui a ricordare! Padre arrivò e disse: — Il giorno è finito. Fosse sempre così, per me, pur di dimenticare… Semplice arrivò e disse: — Se il Presidente mi ordina di portare del fango, vado e torno in cinque minuti; ma alla fine mi ritrovo ancora qui, ne “Il Romanzo”, dove si sta al calduccio! — Addio, allora. Attendo le sue lettere. Mi sembra che stia meglio, adesso. — Sì, comprendo meglio della scorsa notte. Se non può trattenersi, l’allegria di oggi sarà finita. Le scriverò molto: ora ho più speranze. Addio, Eterna. Padre e Dolce-Persona s’incontrano di nuovo: — Me ne vado. Dunque, come hai saputo? — Quando il Presidente viveva con noi, scrisse qualcosa che io poi trovai, inaspettatamente, dal titolo “Diario di Dolce-Persona che scrive al Presidente durante la sua permanenza in casa di lei”, nel quale lessi ciò che accadde alla nostra tavola il giorno in cui ti adirasti tanto con me per l’ennesimo, terribile frastorno che ti procurai, quel mattino, con la mia negligenza. A tavola, per placarti e per discolparmi, disse che ero inetta a ciò che 184

richiede memoria e attenzione. E io dissi: “Sì, non sono adatta a incarichi che richiedono memoria ma allo studio o al lavoro assidui.” E tu mi trafiggesti con lo sguardo, con un’espressione di minaccia che non compresi; e mi dicesti, furente, alcune parole, squadrandomi dall’alto in basso. (Padre ricorda bene di averle detto: “Sì, so io a cosa servi!”) “Giorni dopo, in quel terribile istante che abbiamo vissuto, capii che, oppresso dall’estrema miseria e dalle eterne angosce che le mie incredibili negligenze causavano a te e a tutta la nostra famiglia, e convinta che tutti i tuoi castighi, le ingiurie e le percosse di cui poi ti pentivi così tanto, con me non servissero a nulla, visto che neppure li ricordavo; e oltretutto con il triste sospetto — che non mi sono mai meritata — che io fossi dominata da certe passioni, per tutto questo ti eri proposto d’infliggermi una punizione esemplare. (Padre ricorda con orrore l’istante in cui, è vero, aveva deciso di lasciare nella figlia una macchia incancellabile. E pensa: “Grazie al cielo non potei mettere in atto ciò che solo il desiderio, e mai l’odio, può compiere”.) E di ciò ero già stata avvisata dal Presidente, che mi crede nevrotica, e che, intuendo quella sera il tuo proposito, mi avvertì che, se non ci fossimo separati, io ti avrei ucciso o tu mi avresti fatto impazzire, reso folle dall’ira per i disastri che provocavo in casa; e in più mi disse: “Suo padre è un uomo buonissimo, che ama tutta la famiglia con abnegazione; nessuno è più compassionevole e generoso di lui. Ma, al peso crescente della sua bancarotta, si aggiunge quella vena di isterismo che va accentuandosi in lei. Evitatelo fino al mio ritorno.” — È così, l’ho pensato: povero Presidente! E, a dire il vero, la povera Dolce-Persona era, “per disgrazia, forse” di aspetto attraente e, ad un tempo, ingenua di fronte alla sensualità: viso piacente, benché insignificante; voce bellissima, sprovvista di sensibilità musicale; talvolta sgraziata nel portamento; bionda di capelli, docile se trattata con dolcezza ma intrepida nello scontro perso185

nale; al punto che Padre, quando la rimproverava, doveva guardarsi dalle sue reazioni violente, benché senz’odio. Nelle forme così sensuali e innocenti di Dolce-Persona si vedeva lo splendore di Buenos Aires, città suprema, in cui si aggirano furtive le ombre di campagne infinite; città che vive all’oscuro del suo destino, come un transatlantico illuminato nella vasta oscurità del mare in cui avanza; in entrambi si vive senza conoscere la rotta, e per questo con pieno sentimento del presente; invece, quando si vive storicamente, non c’è più luogo che la Passione possa raggiungere: c’è questa marcia dell’umanità, che è l’enfasi della Storia; un presente di passione, una volta vissuto, fa sembrare futili sia la marcia che l’avvenire: l’idea viziosa che vi sia una “marcia” esiste solo nello scrivere storico, non nel cuore di qualcuno. La Passione non si cura di situazione, di tempo, di paragoni: per tutti vi è un presente uguale, una continuità di presente; il sempre-vuoto e sempre-nulla è la nozione incolmabile di Progresso; per tutti c’è l’opportunità del “lancio” e delle due uscite di Don Chisciotte alla Passione. Buenos Aires, La Passione, Dolce-Persona… Padre si congedò dicendo: — Chissà se, e quando, ci rivedremo. Sono felice che tu resti col Presidente. Addio, Dolce-Persona: temo che non mi ricorderai più. Non credevo che tu fossi malata; anzi, il Presidente mi disgustò quando mi comunicò il suo parere, affinché non ti punissi. Ora ne sono convinto. Addio. — Non so come ho avuto la forza di ricordare e spiegare, né come hai potuto ascoltarmi. Addio. Quanto a Nicolasa, Federico e Pasamontes, su cui il lettore non può contare — non figurano ma chiesero di sottoporsi alla manipolazione di personaggi per meritarsi un posto in un altro romanzo —, fu loro concesso di portare ciò che avrebbero ritenuto buono; e tutti e tre trovarono una cosa soltanto, che consegnarono trionfanti: — Ecco ciò che vale in questo giorno (ma nessuno ci credette). 186

Era: il motivo per cui c’è sempre tanta gente ai funerali degli sgherri. Scoprirono, dedicando quel giorno di pioggia a bazzicarne uno, che anche col brutto tempo vi assistevano, immancabili, tutti coloro che erano stati minacciati di morte dal masnadiere, grati della longevità che tale minaccia ha il potere singolare di conferire. Ma Federico, che si annoiava perché pioveva troppo poco e il fango gli sembrava scarso, si addormentò e sognò che il Presidente gli diceva: “tu che hai il piede leggero, va’ per tutto il mondo e torna oggi stesso; l’umanità perdonerà il tuo lungo bastone, se in questo pomeriggio avrai cura di deporre, lungo tutti i sentieri dell’uomo, sulla terra davanti a ogni dislivello, pozza o monticello, la buccia di banana che ogni uomo che inciampa per sbadataggine avrebbe voluto lì e gira il capo fingendo di cercarla e trovarla, e vorrebbe la vedessero tutti quelli che l’hanno visto barcollare: la buccia colpevole della caduta”. E sognò di eccedere nel suo zelo, portando anche la buccia di spirito che vorremmo fosse riconosciuta come causa del nostro capitombolo morale, quando azzardiamo — in uno stato di eccitazione polemica, per amor proprio — un’affermazione non ben ponderata, e cerchiamo intorno a noi gli argomenti che ci sono mancati nell’esprimerla. Imbaldanzito dal suo sogno di un doppio successo nella missione assegnatagli, sognò che gli si concedeva di entrare nel romanzo, di essere reale in esso. Ma lo sognò solamente; perciò si avvicinò alcune volte all’Eterna per chiederle, dato il suo magico potere di cambiare a tutti il passato, di cancellargli il ricordo d’essersi affacciato al romanzo perché in esso non gli era mai stata concessa vita.

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“Diario della sventurata bambina Dolce-Persona, scritto di nascosto dal suo amico, altrettanto infelice, il Presidente, mentre vive due anni in casa di lei.” Dolce-Persona legge inaspettatamente il “suo” diario, che trova sulla scrivania del Presidente; e crede che egli l’abbia lasciato lì, bene in vista, per spingerla a riflettere sulla sua passione per lui e a rinunciare ad amarlo. Ma si trattava soltanto di una negligenza del Presidente. Il capitolo più interessante di questo Diario è l’interruzione che si verifica proprio nel momento in cui DolcePersona è colpita da quella terribile disgrazia; e che presto verrà ripreso, senza che l’autore sappia che è stato letto, finché un giorno si imbatte nelle righe di Dolce-Persona, in cui ella gli si dichiara grata per l’interesse dimostrato nei suoi confronti in quel manoscritto. Tre sono i riflessi del Presidente nella mente della DolcePersona: Innamorata di lui fin dal primo istante — quando, a un dato momento della sua vita incerta, il Presidente fissa per qualche tempo dimora nella sua casa —, Dolce-Persona crede che il suo amore sia rimasto segreto. Un giorno, leggendo il Diario scritto dal Presidente, che egli fingeva scritto da lei, viene a sapere che egli si era accorto di essere amato dalla dolce-bambina-di-dolore-diun-amore: amore impossibile, certo, ma almeno non più segreto. E viene a sapere anche che il Presidente è suo “amico”. Dopo qualche tempo, Presidente e Dolce-Persona si incontrano nell’amicizia de “Il Romanzo”: terzo riflesso di una vita in un’altra. Appare il Viaggiatore e dice: — Io sono il solo a credere che tutto ciò accada. Perché nessuno crede che io viaggio? E perché proprio io devo avere l’incarico di infrangere il momento di allucinazione in cui il lettore crede che ciò che è narrato accade? 188

CAPITOLO II (Si muove il tempo del romanzo, e meno ne rimane)

— Dolce-Persona: Che cosa c’è, oggi, ne “Il Romanzo”? — Forsegenio: Il tempo puro. Per tutta la settimana ci si dilettò a commentare, nell’allegria d’animo del riposo, i fatti di quel giorno. S’incontravano ogni sera con il Presidente, dopo essersi separati di buon’ora per badare ognuno ai diversi compiti e preoccupazioni, con la mente rivolta ai piaceri che li attendevano alla fine del giorno. Poi raccontavano al Presidente — il cui piacere più gradito era ascoltarli ogni notte — ciò che era loro accaduto, o avevano pensato, durante la loro assenza. (Ed era proprio allora, quando tutti erano riuniti in amicizia, in animata conversazione, senza malumori, che amava aggirarsi tra i personaggi un essere che non sente nulla: la bambolina che pensa, a cui l’Eterna vuole dar vita, perché una volta le sorrida; e la pianticella così fragile e quieta che il visitatore che la guardasse senza accarezzarla si rivelerebbe perverso.) Il Presidente li aveva conosciuti aggirandosi in diversi luoghi e situazioni e, scegliendoli fra tutti coloro che incontrava casualmente, se li era fatti amici; infine tutti decidevano di andare a vivere con lui nella dimora. Uscivano insieme ogni mattina, tranne Padre che abitava lì saltuariamente, in una vecchia auto, verso Buenos Aires, per assolvere ognu189

no studi o commissioni. La dimora si trovava a venti isolati dalla stazione lungo la riva del Plata; poi rimanevano quei minuti di treno che li separavano da Constitución. La “dimora” aveva un’estensione di circa cento ettari sulla quale il Presidente accampava un diritto preminente, e da sempre oggetto di controversie con altri legittimi interessati, da lui riconosciuti, dai quali aveva ottenuto, due anni prima, la concessione di stabilirsi nel suddetto podere, offrendosi di sorvegliare la proprietà e di affrontarne le spese. Riuniti così, a caso, come personaggi fatti incontrare da un arbitrio d’artista su pagine di fantasie, facevano compagnia al Presidente da quasi due anni, in quel piccolo e vecchio podere, terra sempre in attesa dei frequenti provvedimenti giudiziari. Tutti gli abitanti vivevano il sogno di ritrovarsi lì, riuniti, e al loro incerto insediamento, dovuto a un incontro casuale con il Presidente in quella terra provvisoria come loro che poteva essergli tolta in un istante, associavano il sentimento di grandi sognatori, quali essi erano, che si vedevano in quel vivere libero e gradito, raffinato, cordiale, mutevole, generoso di nuove simpatie, vivendo ciò che avevano sognato; non riuscendo a convincersi, per quanto aprissero gli occhi, di essere davvero lì dove per tanto tempo avevano sognato di vivere; e finendo per accettare tutto ciò con rassegnazione, come un sogno prima anelato, poi divenuto realtà, per soffrire meno di una realizzazione mancata, accettandolo come un sogno permanente, irriducibile a realtà, privo di virtualità, scelto soltanto per essere sogno. Perciò, quando camminano lungo le strade di Buenos Aires, si sentono reali e anelano di tornare a palpitare nel romanzo; vanno in città come chi va alla Realtà, tornano alla dimora come chi torna al sogno; ogni partenza è un’uscita di personaggi verso la Realtà. Da due anni il Presidente aveva scelto di fare dell’amicizia il soggetto della sua vita futura. E ogni nuovo amico era accolto da tutti con viva curiosità e simpatia. (E ognuno, appena giunto alla dimora, si era sentito doppiamente 190

commosso, e si era detto: “Entro ne ‘Il Romanzo’ e nel romanzo”.) Gli ultimi amici conquistati e coinvolti in quella convivenza furono Dunamor e Dolce-Persona. Dunamor, al suo arrivo, fece maggior impressione degli altri. Ma tutti dimenticavano la sua presenza — anche il Presidente tardò a sentirlo abitante reale — finché non lo vedevano nuovamente. Soltanto dopo qualche tempo furono certi che, tra loro, viveva il Non- Esistente-Cavaliere, anche se lo vedevano a tutte le ore. Ognuno ricordava il giorno del proprio arrivo: appena giunti, scorgendo i volti dei nuovi compagni e guardando la casa, lasciando cadere le valige o i fagotti davanti al portone, avevano sentito l’attrazione oscura che li aveva trasposti lì. Cosa sarebbe accaduto? Quale era stato il passo verso il romanzo? Quali le parole del Presidente quando li conobbe e, in seguito, quando li invitò nella sua dimora? E a quelle parole, quale l’immagine che si erano fatta in quell’istante della dimora dove sarebbero andati a vivere? E quell’abbandonare ciascuno la famiglia, il passato, il dolore o la solitudine? Di quanti oggi abitano ne “Il Romanzo”, tutti erano già lì quando assistettero al piacevole e inaspettato arrivo della Dolce-Persona — così venne poi battezzata da tutti, unico abitante femminile esistito in quel luogo — e al fatto gradito che fosse giunta dalla città portando in mano dei fiori per il Presidente e attraversando così il giardino. (Quanto fu soave vederla, così compresa in se stessa da non avvertire il fascino di percorrere un giardino recando fiori! Ma nessuno la vide. Come si seppe? Come per incanto.) Padre non risiedeva stabilmente nella dimora: veniva di quando in quando, e quel giorno non c’era. Dolce-Persona seppe soltanto che quelli della casa lo conoscevano e lo vide per la prima volta la notte che precedette la manipolazione. 1 Spettò a Forsegenio la sorpresa di aprirle la porta. Il giorno era un po’ freddo e nebbioso; si scorgevano le acque 1. Forsegenio.

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del Plata palpitare lungo la linea disegnata dalla sponda e il fremito dell’albereta che lo costeggia davanti alla dimora. Dolce-Persona fu accompagnata alla grande cucina da campo, tiepida, con uno di quei grandi focolari così amati d’inverno, imbiancata, dalle mura spesse, e con quel suono sibilante del vento, continuo, nelle abitazioni contadine, voce che Dolce-Persona non aveva mai udito e che noi sentimmo durante la nostra prima vacanza nella dimora; suono che, mezzo secolo dopo, tornati in modo inaspettato — o desiderato — alla campagna, udimmo ancora una volta, con il medesimo timbro: parola uguale che il vento pronuncia eternamente nelle fessure, parola che si ripete all’ascolto mai uguale nel trascorrere della vita individuale. Forsegenio, che cucinava sempre per tutti, le offrì una pietanza calda, preparata con cura. Prima di avvisare gli abitanti della casa silenziosa, o che qualcuno si accorgesse della loro presenza, Dolce-Persona e Forsegenio conversarono per due ore, in un dialogo felice in cui l’uno parlava più dell’altro. Queste due ore furono le sole di vera felicità nell’amore di Forsegenio per Dolce-Persona, e nell’amicizia di Dolce-Persona per Forsegenio; amicizia e amore che nacquero durante quell’animata conversazione, senza che i due ne fossero consapevoli. Questo scambio e dialogo, quest’amicizia e amore, non erano forse già iniziati, da sempre, in quelle anime? Perché dire che iniziarono, se essi stessi non avvertirono questa nascita né, in seguito, la sentirono come se avesse avuto un principio? In quell’ora entrambe le anime si sentirono assurde, nella commistione dolorosa di una visione comune, l’assurdo incontro di dolore e amicizia. Il vento era rimasto sempre nella fessura, ripetendo una sola parola: in queste povere anime ci fu sempre amicizia e amore; ma queste due parole, nel mutare del dialogo, facevano nascere il dolore.

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Una giornata degli abitanti de “Il Romanzo” Prendo a caso un giovedì d’agosto del 1927, il secondo inverno che si trascorreva nel romanzo. Tutti, eccetto il Presidente che ormai non usciva più, partirono insieme, la mattina presto, con la vecchia auto; passarono tra la Sentinella, che li guardava con curiosità e simpatia, e il valloncello umido e verde; videro il serpentello che si disegna sopra la costa o sopra la linea tracciata dalla sponda inferiore, in modo tale che dalla dimora, ad ogni momento del giorno, si vede l’ondeggiare delle acque lungo il profilo della riva… E nel mattino un po’ freddo e ventoso chiacchierarono scambiandosi di tanto in tanto delle osservazioni, finché non vennero attratti dallo spettacolo delle grandi pagine di un quotidiano di Buenos Aires che una folata di vento aveva strappato di mano a qualcuno e che si mise a volteggiare e volare per terra, davanti a loro che seguivano la stessa direzione del vento imperante delle pampe. Ormai non potevano pensare ad altro, né distogliere lo sguardo da quel volteggiare e turbinare di larghi fogli stampati che si posavano, si levavano, si agitavano irrequieti o venivano spinti in alto dall’impeto del vento, precedendo così il gruppetto di viaggiatori sonoro di voci e grida nell’abitacolo della vettura; e infine, spinti dalle raffiche frequenti, lo accompagnarono per circa quindici isolati e mezzo, fino ai pressi della stazione, dove l’auto doveva fermarsi. Di tutti, nessuno più di Dolce-Persona si agitò e si sorprese, fra scherzo e superstizione, davanti al capriccioso moto del giornale che li precedeva. A Dunamor piacque moltissimo. A Forsegenio bastò contemplare l’interesse con cui Dolce-Persona assisteva a quel fatto; e l’Andaluso non se ne curò, finché non gli si presentò l’occasione di impossessarsene e fu comunque enigmatico nell’esclamare: “Roba da quotidiani! Forse qualcuno crede che ciò che accade a questo esemplare di giornale sia un fatto di cronaca?” Non ci fu risposta, e salirono sul treno. Arrivati a Constitución alcuni si separarono; parte del gruppo proseguì unita. Raggiunto il Centro Forsegenio ac193

compagnò Dolce-Persona al suo ufficio e, dopo averla baciata (è vero anche se inspiegabile), si diresse al Palazzo di Giustizia — era infatti procuratore! (inspiegabile e vero). La verità è che attraversava gli uffici e gli archivi in modo così assorto e dolce come faceva tra le pentole e le padelle della sua cucina da campo; e raramente un giudice aveva cuore di ferirlo con la brutta notizia di una sentenza avversa, così come le pentole non osavano traboccare, né le padelle bruciarsi. L’Andaluso si perdeva nei bar, andava a caccia di notizie per il Presidente, giocava una schedina, diventava chiromante di chi gli offriva da bere e, se questi era particolarmente generoso, gli prediceva un avvenire felice e nel suo destino separava i venerdì dal giorno tredici, cosa che non si sa bene come si arrangiasse a fare. Tutti, infine, si ritrovavano per il treno delle nove, quasi sempre stanchi, finalmente sollevati dalle fatiche, nel bar di Constitución, a bere quella tazza di tè che tutto il giorno avevano desiderato e rimandato, poiché era convenuto che il tè di fine lavoro l’avrebbero sempre bevuto insieme. Guardateli vivere in questo momento di simpatia e di piacere, al termine di ogni giornata: perché oltre ai loro compiti, alle delusioni e offese e ordini umilianti, all’indifferenza di tutti per la loro vita anonima tra la folla, sopportano il quotidiano dolore di allontanarsi dalla dimora, costretti a privarsi di essa per lunghe ore. Guardate dunque quest’allegria, quest’innocenza… e pensare che non sentono niente, non hanno vita! Attesi dal Presidente, seduto nel suo dondolo sotto il canniccio del pergolato a cui si intreccia il glicine rampicante, gli si avvicinavano chiassosi, poi si disperdevano nella casa; intanto Forsegenio e Dolce-Persona — che lo aiutava in cucina — ravvivavano il fuoco sotto le pentole che già contenevano i cibi preparati al mattino.

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Il Presidente all’Eterna “Profondamente, decisamente: la formula per la realizzazione della mia anima, con la quale il destino si presenta in quest’ora inattesa, febbrile di sgomento e di dolore, d’intima, spregevole, meschina umiliazione, per la mia inferiorità, è questa: Se deve incontrare fortuna il glorioso amore — che solo e in questo istante procurerebbe un senso, spiegherebbe l’apparizione di un’ulteriore individualità, la mia, tra le innumerevoli che si sono disegnate nell’Essere; che in verità mi darebbe l’individualità che finora non ho avuto, amore che rende eterno il presente, che occupa totalmente la memoria, che fa dell’eternità che ci attende soltanto un istante, o solo la memoria di un istante del sentire reso eterno, ed è l’evento supremo dell’Essere: per tutti vi è eternità, ma solo la Passione pienamente compiuta può eternizzare un istante; ovvero la memoria trionfa sull’Eternità, le sostituisce l’istante di Passione, del tutto-amore, inverato in qualsiasi tappa nella totalità del tempo, totalità che è nostra, giacché nessuna vita ha inizio; l’eternizzazione, non della vita, bensì di un istante, il più alto di essa nel sentire — ciò avverrà dopo che mi sarò allontanato per studiare la mia anima, e farla diventare così bella come la sua; e quando, tornato, il mio sentimento si sarà fatto geniale. Ieri notte, contemplando il suo sembiante d’allegria d’amore — che conobbi quando ci fu un istante d’amore per me, il primo e ignoto a lei stessa — rivolto ad altra persona (quella stessa allegria d’amore, di pura ed esaltata simpatia gioiosa, e i suoi occhi in quel viso, per lunghe ore, diméntica d’ogni altro essere umano, io vissi due ore del vostro oblio; ebbi: ‘l’Oblio dell’Eterna’, l’indimenticabile, e che inoltre cura il passato, e sostituisce — per l’illimitato operare del suo incanto — il passato di chi conobbe solo sventura con un altro pieno di dignità e grazia, tanto sovrabbonda di pienezza un suo istante. Tu, Eterna, sovente dici che non c’è rimedio all’incespicare o cadere del distratto o del goffo, che non c’è rimedio 195

alla loro ridicolaggine e a ciò oppongo che l’incespicare è, ancor più del ‘gioco’ o della ‘tavola’, l’opportunità probatoria di un carattere bello o brutto; e, per un’anima piena di grazia (ed è tale solo quella che non conosce altro movente che la simpatia), non c’è né il prosaico né il ridicolo…” Appare l’Eterna, e legge questo inizio di lettera. Giunta al punto in cui si dice che si rivolgeva a un altro visitatore con uguale e simpatica allegria, ferita da tanta incomprensione da parte dell’ottenebrato Presidente, pallida, umidi gli occhi, gli lascia scritto: — “Addio, Presidente; per oggi può bastare. Nulla, nella mia vita, mi è stato più crudele che leggere queste sue righe. Me ne vado; e, ormai credo, senza speranza. Non mi trattenga. Non posso credere che riuscirà mai a comprendermi.” Tornata alle sue stanze con intollerabile mortificazione, nascondendo il volto acceso e febbricitante fra le mani, ripeteva una preghiera e con tutta l’anima si appellava, disperata, a un Dio di cui mai si è fatta ragione (giacché è indifferente a qualsiasi pratica religiosa), e al quale si rivolge solo inondata di lacrime e disperazione… Poi, calmatasi un po’, esclamò: “E lui, senza preghiere, ora soffre più di me. Che preghi; voglio che preghi. Infelici in questa vita funesta!” Prese quindi il telefono e disse soltanto: “Preghi; preghi subito, e poi cerchi di dormire. Glielo ordino: preghi”. Allora, con grande dolore per lui, il responsabile, tornò e, seduta sul bordo del letto, singhiozzò: “Poveretto, e povera me, noi che molto tempo fa e pochi mesi or sono leggevamo insieme la Bovary, con l’anima infranta ad ogni passo della sua esistenza, e ci guardavamo, mentre si faceva per noi intollerabile la lettura di quel triste destino: ma sempre con quell’invidia, o emulazione infantile, per l’essere del personaggio d’un romanzo. E adesso siamo aggrediti dalla vita, che è furia enigmatica, e adesso, forse, la vita induce lui, e me, sventurati, ad anelare di essere solo personaggi atti a non sentire nulla, a quell’essere di personaggio che ogni ingenuo lettore trova invidiabile, sia nella felicità che nelle disperazioni che il romanzo gli destina. Sopportando ciò perderemo il senno, e vorremo fuggire 196

dalla Vita per essere parte di un capitolo di Narrazione. Chi mi dimostrerà che egli non è mai esistito, che l’ho letto soltanto, che io stessa non sono che un’ombra, un profilo nelle sue pagine!” Il Presidente e l’Eterna non raggiunsero il tutto-amore, perché egli non vuole adagiare il capo in grembo all’Eterna, per trovarvi riparo, ed ella non riesce (è la sua unica imperfezione) a liberarsi di questo impulso materno, che in amore è un errore, e non può vivere senza questa sensazione in seno. Da parte sua il Presidente non è stato capace di amare l’Eterna senza pensarla, senza rappresentarsela misticamente, ovvero come un impossibile nell’essere, poiché l’essere non è intellettualizzabile. — Eterna: non sei perfetta — così deve dire, a questo punto, il suo narratore, che è anche suo amico. — Fammi dunque perfetta, se puoi, come Dio gli uomini. — È che non posso: l’immagine è sorta in me nell’esperienza interiore; di tanto in tanto compie quel movimento alla ricerca del capo di un amato cui Offrire Riparo, in grembo; e quando, nell’immagine, evito questo movimento, vedo un volto triste, scontento; lotto contro questa espressione, e riappare il movimento di chinarsi e “offrire riparo presso di sé”. Infine la mia mente trionfa, e si rinnova il triste gesto del suo volto così soave. Accade anche che Eterna compri dei “vestitini” al Presidente; e questi si ribella contro la materializzazione della relazione amorosa, rifiuta per se medesimo l’atteggiamento di protezione perché rende inferiori: concepisce soltanto l’identificazione fra uguali. L’Uomo che Fingeva di Vivere, nel frattempo, compie divinamente l’Assenza.

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CAPITOLO III

— Dolce-Persona: Che cosa accadrà ora nel romanzo, Forsegenio? — Forsegenio: Te lo dirò quando sarò io l’autore. — Dolce-Persona: E poi, che cosa avverrà? Il Presidente si avvicina a Forsegenio e gli dice: — Ascolta, Forsegenio: ho un incarico per te. — Se è molto difficile, Presidente, perché non lo affida a Dunamor che ha il pregio di non perdersi mai d’animo? Devo dire che, da alcune settimane, non mi sento molto brillante. — Eppure c’è un certo brillare, nei tuoi occhi. — Non capisco, Presidente. — Te lo spiegherò un’altra volta. — Dunamor mi sembra molto sagace e sereno. Sembra che sappia tutto ciò che faccio o penso; e sorride. Non mi piace che mi guardi, benché mi abbia salvato dai cani, qui alla dimora: sappia, Presidente, che il giorno in cui arrivai me la sarei vista brutta se non fosse accorso subito Dunamor. Ad essere franco, Presidente, a volte credo di star sognando, quando lo guardo. — Perché non hai ancora fede nella sua eternità; che è come dire non avere fede nell’essere: un mortale è un nonessere. A me, talvolta — voglio che tu lo sappia —, sembra 199

reale, talvolta no, come tutti, quando le mie certezze si assopiscono. — Ad ogni modo, benché egli lo faccia raramente, io preferisco che non mi guardi, se ho qualcosa da fare o da dire o da spiegare, perché in tal caso mi confondo; se non fosse per questo, starei sempre con lui. — O con qualcun altro, no? Forsegenio lo guarda; crede che il Presidente non abbia detto questo, che lo abbia solo pensato; non risponde. — Bene: farai in modo di assicurarci la complicità, ovvero la discrezione, di Petrona. Devi conquistarne la simpatia in modo che, per amor tuo, ella eviti di raccontare o divulgare gli accadimenti de “Il Romanzo”. — Va bene, Presidente. Ci penserò. — Poco fa, Dolce-Persona ha chiesto di te. È a letto. — Vado a trovarla. Chissà, potrebbe darmi qualche idea per fare amicizia con Petrona. Quanto tempo abbiamo per iniziare l’opera che vi proponete di compiere con tutti noi? — Due mesi. — Arrivederci. — Arrivederci. Chiudile la finestra, se sta dormendo ed entra luce. Le parlerai più tardi. Forsegenio, talvolta, pensava a Dolce-Persona guardandola; talvolta la guardava sognandola; altre volte pensava a lei senza rivolgerle lo sguardo (cosa che l’Eterna non perdonerà al Presidente). Ma sempre Dolce-Persona. (Non si è ancora detto che Forsegenio, in verità, aveva certi tratti somatici, gli occhi… il naso… ma, perdio, ciò comporterebbe un bel po’ di lavoro; e adesso ricordo di avere in tasca una sua fotografia, proveniente per caso dal grande laboratorio del polacco Generosius, intitolata: “La Fotografia del Venire Bene”. Eccola qui, con la tremenda dedica della quale mi ha onorato Forsegenio: “Geniale Autore: nonostante io non abbia potuto finora scoprire alcuno dei tratti di talento, sentimento, causticità, giovialità, che a parere di molti la vostra personalità dimostrerebbe, vi ammiro e vi amo con tutto il cuore, e vi ritengo il più coerente e chiaro fra tutti i romanzieri, perché mi avete aiutato a 200

conquistare e a mantenere l’attenzione di Dolce-Persona, e state dalla mia parte nel renderla felice. Il vostro amico, e umile collega, Forsegenio”.) Istante delle figure di Eterna e Presidente che danzano in scene Due perdoni dell’Eterna. La Furbizia nelle dita dell’Eterna: non è forse lo stesso perdono di capitolazione d’amore? Oggi il Presidente è nelle mani della furbizia dell’Eterna. Oggi è nelle mani del suo perdono. Nonostante l’Eterna abbia un corpo terreno, il suo volto non rivela alcun tremore di desiderio. È così squisita nel dominio della Materia, il cui ricamo nessuno può dire quando si vede o si pensa soltanto. Il Presidente non lo sa; sa che, ad ogni sua visita, l’Eterna gli mette davanti agli occhi il fazzolettino a cerchi e a rombi, oppure soltanto le mani fingendo di reggere il fazzolettino: il Presidente non riesce a sapere quando lo vede o quando lo immagina. Se dice di vederlo, l’Eterna gli chiede quanti sono i cerchi e i rombi; ma non l’azzecca quasi mai. Eterna si rattrista, perché quando il Presidente lo vede davvero è perché la sua anima ha più forza. Oggi il Presidente è più presente in un momento che appartiene a entrambi: una poderosa realizzazione intellettuale, ottenuta negli ultimi giorni, lo rende direttivo e intellettivo, chiarificatore nell’amore di entrambi. A volte il Presidente spreca i due perdoni, quello attuale e quello passato. Allora la tristezza dell’Eterna diventa assoluta: i giorni funesti del Presidente giungono al termine, seguono nuove notti di sconforto, e poi una tenera e nuova dolcezza. Oggi il Presidente e l’Eterna si incontrano nella chiarezza.

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Spazio occupato da un dialogo senza autore, o prosa non d’autore, in cui si concede a Forsegenio e a Dolce-Persona di tentare uno slancio vitale. — Forsegenio: Non chiedermi, Dolce-Persona, che cosa c’è oggi ne “Il Romanzo”. Questa volta non siamo in un personaggio, parleremo noi, per noi stessi. Questa volta siamo, non siamo personaggi; per capirlo guarda in alto, nella pagina in cui siamo, Dolce-Persona, guarda il titolo di questa scena. “Ma stai dormendo, Dolce-Persona? — Dormivo, ma ti ho sentito entrare. — Allora non serve camminare in punta di piedi? — Avrai fatto rumore per svegliarmi e non dover rinunciare alla nostra conversazione. — È vero, ora sostengo una grande conversazione; ma so camminare in punta di piedi e così vado sempre per il mondo, perché chi possiede l’amore non cerca l’ascolto del mondo. — Possiedi l’amore? — Vedi, anche tu non te ne sei accorta: vado in punta di piedi con il mio amore. — Mi stai facendo venire una gran voglia di parlare con te. Ora mi alzo. — Devo allontanarmi? — Resta, ma non guardare: riservami così la tua conversazione, e non donarla a Dunamor. E nemmeno il lettore guardi, né ora né ogni volta che mi spoglierò: legga, ma di sottecchi. — È vero, ci stanno spiando. — Non ti sento nemmeno respirare. Stai pensando? — È strano: non penso. Sto aspettando di vederti, di potermi girare. — Puoi farlo; ti stavo preparando il mate 1 e avevo di1. Il mate è una bevanda tipica del Cono Sud, un infuso dalla pianta che porta lo stesso nome, yerba mate. [N.d.C.]

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menticato che mi davi le spalle per non guardarmi. Credevo che ti stessi intrattenendo a guardare il capo. — Che pace emana la pianura, ma nemmeno in cambio di questa pace rinuncerei a guardarti: è che non potevo farlo, ricordi? Ma prima di raccontarti dell’incarico del Presidente, devo congratularmi per il tuo insuperabile mate. — Allora, il Presidente si dà molto da fare? — Tanto che proprio ora, dopo quest’ultimo mate, vado a darmi una sistemata prima del mio incontro con la signorina Petrona. — Comunque il Presidente sa anche starsene quieto: a volte lascia bruciare una sigaretta, e la guarda finché non si è ridotta in cenere. — È vero. Che vita intensa, quella del Presidente, sotto la sua calma apparente! Ma ora me ne vado. — Come, te ne vai già? — Per me, no di certo. E nemmeno per te; perché se il Presidente trova le tue stanze in disordine sarà contento, pensando che te ne stai placidamente addormentata: ci raccomanda sempre di non svegliarti. — Oggi non è venuto al suo studio, e nemmeno ieri, soltanto molto tardi, dopo l’arrivo della viaggiatrice con l’abito nero. — È già da un po’ che qui, dalla finestra, vedo che le hanno dato quella stanza. — Perché? — Perché ci vada. — Come? — Ci vada ad abitare; è passata alcune volte davanti alla finestra e ha guardato fuori, scostando la tenda. — Com’è lei? — Non l’hai vista? Vado in cortile. Finisci di vestirti, e tornerò a raccontarti una storia; se vuoi, intanto, puoi vederla da dove sto io adesso: è alta e di belle forme. È meglio che la guardi tu, non dico altro. Ricordami di raccontarti la storia dal titolo: 203

Signora tutta casa tutta casa senza casa. Si noti che Forsegenio, astuto e sensitivo, ha trovato il modo di mutare il corso della conversazione, che si sarebbe rivelata dolorosa per Dolce-Persona ricadendo sull’ignota visitatrice del Presidente, proponendo un racconto. — Prepara la tua storia. Ho già dato un’occhiata, ma non l’ho vista bene. Vado a dare il buongiorno al Presidente, dò un’occhiata alla sua casa e torno. Forsegenio, tra sé: “pretesti, curiosità; è mortificata per la presenza inattesa della sconosciuta”; poi, a voce alta: — Se è per la storia, resta: ce l’ho già; l’ho pensata proprio ora; te la racconterò come l’hanno raccontata a me poco fa. — Aspetta cinque minuti, amico mio. — È per farti vedere che mi sbrigo quando mi chiedi qualcosa. — Il Presidente non c’è. — E allora? Ti disturba che non ci sia? Tante volte non c’è. Ci sono qua io. Ma adesso me ne vado davvero. Dolce-Persona, fra sé: “So bene che ci sei, mio buon Forsegenio; ma, per qualche motivo, certe allusioni da nulla al Presidente ti fanno soffrire”. E proseguendo la conversazione: — Che fai qui, Forsegenio, in questo capitolo dove ti ho trovato mentre ti cercavo? — Cercavo il punto del romanzo in cui posso avere vita; credevo fosse qui, alla finestra de “Il Romanzo”, che tu e io potessimo ricevere vita e respiro. — Perché, Forsegenio? Vedi bene che il Presidente non cerca la vita. — È mai possibile che tu lo chieda, ora che mi hai detto che possiedo il tuo amore? Non sappiamo se il Presidente ama: sembra infelice. Ma perché vivere nell’infelicità? Ora chiederemo la vita, per me, per noi, che ci siamo trovati in questo sentimento. Io vorrei vivere solo con te. Per il Presidente, avere solo l’“essere di personaggio”, ora che è nella 204

sventura, è un vero dono del cielo; a noi, invece, felici del tuo amore, ora è la vita che dovrebbe esserci data. — Ti dirò… non so come dirti, Forsegenio: è che tu indugi troppo in un amore che palpitò in me solo per un istante: adesso ciò che sento è amicizia; quell’istante è stato reale, ma passeggero. È vero: nell’unità d’azione di un giorno, ovvero la prima volta in cui si videro, Dolce-Persona, per un giorno, si innamorò di Forsegenio; il quale ben sapeva che, il giorno dopo, questo amore sarebbe svanito. Dunamor lo consolerà con parole che Forsegenio accetterà per sempre: “Prendi questo giorno d’amore di Dolce-Persona per la tua eternità”. — Non mi piace questa conversazione; quasi quasi ti chiederei di iniziare da capo il dialogo. Ad esempio, potrei venire alla tua porta e, aprendola appena, dirti con voce e passo quieti, come mi ha raccomandato il Presidente: — “Dolce-Persona, sei sveglia? Se non lo sei chiuderò quella finestra che fa entrare la luce. — Sì, Forsegenio, sono sveglia. — Quanto hai dormito? — Dalle sette. — Sono le due. — Bene, mi alzo. Che farà Forsegenio? (questo è ciò che dovresti aver detto).” — Dolce-Persona: Non capisco cosa vai dicendo. Povero lettore! — Dico che dici: “Mi alzo”. Hai ragione: senza avvertire la mia presenza? Vedi, è difficile pensare per un altro. E poi, stai attenta: io sto facendo tutto il dialogo, ma quando accade, come adesso, che devi uscire dal letto, sta a te dirmi che cosa devo fare. — Devi restare e guardare altrove. — Bene, me ne vado. Dammi un consiglio: devo conquistare Petrona. Come posso fare, Dolce-Persona? — Presentati bene e raccontale storie di film; non mi viene in mente altro. È forse necessario il suo aiuto? — Proprio così: perché non divulghi i segreti de “Il 205

Romanzo”. Ma io mi presenterò male, contrariamente a ciò che mi consigli. — Sì, lo penso anch’io: mi sono sbagliata. Come farai, però? Hai un bell’aspetto. — A questo punto del dialogo dovresti dirmi ancora: ‘‘oggi ti amo, Forsegenio, personaggio del Romanzo dell’Eterna e Dulce-Persona”. Ma vedo che resti zitta. — Sto zitta per non dirti: un gran personaggio, un personaggio degno dell’Arte, non dice mai come quel tuo personaggio: ‘‘Ti amo”; nessuno che ami veramente ha bisogno di dire “Ti amo”. — Oh, eppure io volevo che tu mi dicessi parole diverse. Ma non le hai… Continuerò con i miei preparativi per assolvere l’incarico del Presidente. Stanotte proverò qualcosa, e se vedrò che funziona ti dirò cos’è. Il guaio è che mi ero entusiasmato a leggere Lombroso; sembra che l’uomo di genio debba essere malato di mente. Il Presidente assicura che non è così; e che Lombroso aveva molto del genio, e proprio nulla del matto. — Ma che stupidaggine, parlare di geni! Fatto sta che qui, con noi, non ce ne sono. — Eppure, io sono molto sano. — Questo è l’importante: che fortuna! Ma a che serve dirlo, adesso? — È che io penso molto. — E non ti confondi, così? — No, non è questo. Quando mi confondo, è per altre cose. — Io non penserei. — E come posso risolvere tutte le nostre faccende col Presidente, che non se ne sta mai in pace, se non penso? Se non fosse così preoccupato, basterebbe facesse visita soltanto una volta a Petrona per lusingarla a tal punto che non sarebbe più necessario metterla a tacere e farla diventare nostra complice. — È meglio che tu vada; non parlargli più di questo affare. Ti divertirai, in questa missione; ogni sera avrai qualcosa da raccontarci. 206

— Se andrà male, non avrò voglia di raccontare. In compenso penserò molto. — Sembra che tu stia sempre a pensare. — Proprio così, mi è facile. — Ed è davvero così instancabile, il Presidente? Se tu mi preparassi un mate dolce (non ho ancora fatto colazione), ti chiederei alcune cose. — Bene, dov’è la roba? — È là, non vedi? — Ah, bene; te lo preparerò. A dire la verità, anch’io ho il tempo di prendere un mate. So già cosa mi vuoi chiedere. — La lettera che ricevette, e la signora che poi arrivò. — Ah! Ci fu una lettera? — A questo punto cambierei il dialogo e ti pregherei di ripetere con me quel dialogo che abbiamo sostenuto durante quelle due ore, in cucina, il giorno del tuo arrivo. — Allora non ti venne in mente di chiedermi come mi chiamavo, né cosa ero venuta a fare. Credevo che le prime parole che avrei pronunciato qui sarebbero state: “mi chiamo Maria Luisa”. Perché mi hai impedito di pronunciare queste parole che mi sarebbe piaciuto dire e alle quali avevo pensato durante tutto il viaggio? È vero, non era il mio nome, e mi ero scordata di inventarmi un cognome. — Il tuo nome era chiarissimo; lo seppi appena ti vidi; ti chiamavi Benvenuta. — Prendesti la mia valigia e dicesti: “venga con me”. Ma adesso hai da fare. Vado a vestirmi, Forsegenio, ho appena il tempo di mettergli in ordine lo studio. — Hai un bel da fare con quei cristalli che lui vuole vedere brillare, pieni d’acqua. — E i quadri? — Che quadri? — Quei mucchietti e mazzetti di carta colorata che vedi sparsi nel suo appartamento, lui li chiama quadri. Prima aveva oli e acquarelli, poi li ha sostituiti con oleografie di gran pregio e ora tiene soltanto quelle carte colorate: è la sua galleria privata. È un grande ammiratore della pittura. 207

— È stravagante e poi dice che, se Lombroso era un genio, bisogna credere in tutto, tranne alla teoria che i genî sono pazzi. — Un’altra volta parleremo del genio. — È che io sono molto assennato (prova ne sia che, quando ti venni ad aprire, presi i tuoi bagagli ma ti lasciai in mano il mazzo di fiori; e, benché mi dispiacesse vederti con quei fiori in mano per tutto il tempo della nostra conversazione, non ti chiesi di darmeli, né ti domandai, né mai seppi, per chi erano). — Ah! A voi ti preoccupa davvero questo problema dei genî! — Quel che è certo è che io sono molto sano di mente. È un bel po’ che non suoni il piano e canti; il Presidente dice che dovresti studiare e che quando arriverà un suo amico musicista ti farà provare la voce. — Te ne vai? — dice adesso Dolce-Persona, come a trattenere Forsegenio che fa per andarsene. — Vorrei stare sempre a parlare con te. — E allora resta in questo “dialogo”: è il motivo per cui sei qui. Altrimenti, va’ con Dunamor. — Adesso non ci sarà. — Come gli vuoi bene! È molto gentile; se dovesse pensare quanto il Presidente, sarebbe dolce come lui? — Credo di sì. — Bene; se ti piace che io ti comandi, come sei solito dirmi, inizia le tue visite a Petrona. Ti va a genio questo mio ordine? Che stai a guardare? — Guardo te, Dolce-Persona… e vado dove mi dici. — La conquisterai, Forsegenio; voi lo sapete, io non so conquistare; tu sei buono, intelligente, libero. — Libero? Lo ero; non sarò mai più libero, perché non potrò dimenticare. — Sei innamorato, è certo, lo vedo. Che dolore dev’essere! Ma lei, non può amarti? — Non può. — Dunque lei ama. 208

— Sì, e forse non lo sa; e anche il suo amato lo ignora. Io solo so di questo amore; e anch’io la amo, e non lo saprà mai. — Com’è la vita! Quanta sofferenza! — Meglio non affliggersi. Me ne vado. — Sei buono, Forsegenio; sei bello ed elegante; ti accoglierà bene. Ma la cravatta… — Non è a posto, lo so. — Vieni, te la sistemo. — Bene, fallo: toccami con le tue mani per sistemarla. Poi la disferò. — Che dici! — Tu me la sistemi, poi io la metto un po’ in disordine.1 — Non capisco nulla. — Lasciami fare: io andrò e ti dico che se troverò qualche altra cosa da fare a rovescio, tanto più avrò speranza di farmela amica. — Capisco sempre meno. — È una gran bella trovata: te lo dico io, Petrona mi amerà se vedrà ogni giorno nella mia persona morale qualcosa da sistemare, da mettere in ordine. — Persona morale? — Sì: la mia persona morale è la mia pettinatura, la mia cravatta, la catena dell’orologio, il fiocco del cappello, tutto ciò che ha un dritto e un rovescio, un ordine e un disordine, un uso corretto e un uso errato. Ne sono certo: questa, per Petrona, è la mia persona morale. Non sforzarti di com-

1. (Autore: mi infastidisce una sensazione sconosciuta: non sarà forse che qualche critico amaro mi sta leggendo beffandosi del fatto che a volte uso il “tú’” e altre il “vos” nella mia debole grammatica?) [M.F.] Vos: nell’uso detto voseo, diffuso in alcune zone dell’America Ispanica, sostituisce il tú e si usa nel presente e nel passato remoto dell’indicativo, ricorrendo alla forma arcaica della seconda persona del plurale. M.F. si accorge qui di essere caduto in un errore grammaticale utilizzando il vos del linguaggio colloquiale e alternandolo al tú (v. supra p. 208). [N.d.C.]

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prendere; non credere, per questo, di essere stupida, perché nemmeno io lo capirei, se me lo dicesse un altro. — Se vuoi, lo capisco, ma se dici che non devo preoccuparmi, che è come un indovinello… — Stanotte, quando ascolterai la mia relazione all’assemblea, in cui comunicherò il risultato della mia prima visita, lo capirai meglio. Addio, Dolce-Persona. — Prima devi ascoltarmi: sono ansiosa di dirtelo, e te lo dico: perché fosti così buono, quando arrivai qui? — Chissà… Sembravi così dolce e così impaurita. — Non avevo paura; io lo conoscevo bene. Comunque sia, però, se vivrò vorrei non dover più incontrare persone buone sul mio cammino. — Che strano! È ancora più difficile da capire della mia opinione sulle cravatte in disordine. — Spiegami una buona volta questa tua incomprensibile tattica di seduzione. Capisco che tutto accada naturalmente. Forse Petrona non è bella? — Lo sarà anche, ma con quella faccia! — E una volta mi spiegherai anche come non provi rimorso nel far sì che Petrona creda al tuo falso amore. — Ebbene: il procedimento — le mosche del rimorso le scaccio adesso — mi incanta a tal punto da dissolvere in me ogni morale; a parte il fatto che Petrona è civettuola. Credo che nessuna donna del suo tipo — e molte, anche, superiori a lei — possa resistere al tormento di vedere il fiocco di un cappello messo a rovescio, sulla destra, oppure una cravatta storta o una macchia di intonaco sulla giacca, dei calzini calati o un bottone slacciato. È un’apprensione che, prolungandosi nel corso delle visite ripetute di un uomo, la spinge all’ansia disperata di farsi carico della sua intera persona mediante il rimedio totale di un’unione coniugale, per farla finita una buona volta con tutte le imperfezioni d’abbigliamento del soggetto che, in modo così irritante, ha attraversato il suo cammino… — Benissimo; ma non ti sembra mancanza di dignità immaginare te stesso a strofinarti le spalle e la schiena 210

contro i muri, per sporcarti, mentre vai a trovare la tua innamorata? Che cosa penserà il lettore del tuo piano? Che scortesi, non lo consultiamo mai. — Lettore: sono molto interessato alla vostra vita, ma non voglio peccare di indiscrezione. Siate certi che mi allontano appena sospetto l’approssimarsi fatale di un bacio, e torno quando penso che uno spettatore amichevole non sia importuno. Adesso vi stavo ascoltando, come no, e approvavo il vostro piano. — Molte grazie, questo è un bel vivere. Forsegenio si allontanò e Dolce-Persona si mise a cantare la sua canzone preferita: Come sarebbe bello essere buoni E Vivere soltanto fra buoni. Dolersi d’ogni dolore, Sorridere ad ogni fortuna. — Semplice: Oh, perché non addolcire il mio tempo conversando con Dolce-Persona, ora che la vedo libera e allegra! — Dolce-Persona: È vero, sono molto felice. Che fortuna appartenere alla compagnia de “Il Romanzo”! Quando il Presidente mi invitò, io dubitavo perché la mia vita era così insignificante che qualsiasi cambiamento mi spaventava persino. Anch’io ricordo con emozione quando ci disse: “Vi invito ad una ‘manipolazione di personaggi’ perché siate felici nel romanzo.” — Per me questo cambiamento ha significato tutto. Ho dimenticato il mio passato, sento di avere una speranza. — Io, nella vita, ero già un po’ felice. Avevo cominciato a capire la felicità. In effetti, Semplice è l’uomo che ha meno problemi ad essere felice: in qualità di maschera del teatro Colón, sapeva starsene nel suo bugigattolo mentre risonava l’orchestra, il canto del grande tenore e della gran dama, le esclamazio211

ni di meraviglia della folla immensa, imponente, il divino direttore d’orchestra che ondeggiante e fiammeggiante di falde e capigliatura, placava e ravvivava furori operistici con i suoi gesti e tutto quel virtuosismo schiacciante, perfino il virtuosismo di meravigliarsi per la gran folla; mentre il cantante si esibiva in un “do” di petto, Semplice sapeva starsene quieto e contento, pizzicando la sua chitarrina, e soddisfatto del vivere, anche se in quei momenti avrebbe voluto poter sentire il suono del suo piccolo strumento. — Dolce-Persona: Io, invece, ho dovuto imparare tutto qui, fra noi. Credo sia stato così anche per gli altri. — Semplice: Ma a qualcuno costa molto. A Forsegenio, per esempio, che è un tipo così difficile da non riuscire nemmeno a tossire se non gli mettono accanto un direttore d’orchestra. In risposta a quale scherzo di Forsegenio, mentre insieme imbiancavano le pareti dell’ingresso, Semplice azzardava quella battuta sulle difficoltà ad essere felice dell’amico comune? Dolce-Persona sorrise a lungo, e i due continuarono a prendere il sole fra i pioppi, mentre Semplice seguitava a spiegarle che aveva, lui, un’animuccia che gli offriva “il mondo in un cartoccio”. (Non si può ignorare che, oltre al tempo del romanzo, c’era il tempo bello o brutto causato dagli sbalzi d’umore di Semplice.) Forsegenio s’incammina, fischiettando, alla conquista di Petrona. Non c’è forse, in lui, una certa vanità? È probabile: un pizzico di smania da seduttore, e due pizzichi d’invidia, forsegenializzano il suo carattere. Vi sorprenderà la mia affermazione — forse temeraria — che vi è in Forsegenio, accanto al suo incrollabile senso morale, cioè di simpatia generale per l’altro “io”, per la pluralità di sensibilità o di individui, che si compendia in questa sua norma: “In questa vita, un uomo deve almeno lasciare calda la sua sedia, lasciare, nel partire, il suo posto, ovvero il tempo e il luogo in cui visse, un po’ più comodo per l’uomo che verrà dopo di lui (il che forse significa: un lavoro e un “calore di lavoro” disinteressato deve essere 212

lasciato per gli altri, senza ricorrere al grande egoismo del proprio destino); alla fine, bisogna essere un uomo che ha fatto più del bene che del male; ebbene, nonostante questa morale e, cosa più dissonante, malgrado la sua suprema eleganza d’ispirazione egocentrica e severa, Forsegenio ha due invidie — e l’invidia è la peggiore ineleganza della personalità, una mancanza di egocentrismo (finché non si ottiene la Passione, bisogna essere assolutamente egocentrici; e, nell’amore, del tutto senza-io) —: invidia ai garzoni dei bar l’invidiabile piacere tattile-muscolare di far scorrere il cencio sopra il marmo bagnato del tavolino dove si è rovesciato qualcosa, e il compiersi dell’effetto asciugante, cui nessuno crede, vedendo scorrere il cencio così mollemente; più di tutto, però, invidia ai garzoni di bottega la delizia di far scivolare bicchieri, teiere e brocche sulla grata del banco. Petrona, dunque, risponde a Forsegenio: — Mi sembra un po’ insolente il modo in cui si presenta a me, per cortese e amabile che lei sia. — Veramente, signorina Petrona, mi piacerebbe poterle dire, qui, in questo momento, ciò che dissi in una simile circostanza, in un altro romanzo, ad una giovane le cui grazie erano simili, ma non certo pari, alle sue. Ricordo che le dissi: “Signorina Luciana, è molto dura, da parte sua, questa accusa di insolenza. In verità, sto provando un irresistibile impulso a interrompere questa visita”. Queste ultime parole non posso rivolgerle a lei, signorina Petrona. Dunque, poiché oggi non ho in animo di interrompere una visita, le dirò semplicemente: Il fascino e l’imponenza della sua presenza alterano il mio linguaggio e il mio comportamento; perciò ho potuto sembrarle insolente. Ma non mi sarà facile interrompere la mia visita, come feci nell’altro romanzo con la signorina Luciana. Non potrei fare a meno di continuare questa nostra conversazione, creata dalle circostanze. Altre dolcezze, e alcuni versi improvvisati, hanno reso felice questa giornata di Forsegenio (desideroso di raccontare tutto a Dolce-Persona) e il segreto de “Il Romanzo” è per ora al sicuro. 213

CAPITOLO IV

Lettera all’ombra dell’amatore dell’Eterna, il giovane signore Porcio de Larrenave, che si allontana lungo il cammino dell’oblio di Lei. Evanescente cavaliere, signore dell’Oblio. Quando, più che il rumore dei tuoi passi — il silenzio che passa sulla tua figura camminante — l’indifferenza di quei passi precederà nel vuoto la tua solitudine e ti fermerai a riposare, forse questa lettera ti raggiungerà; e allora ti sembrerà di sentire lontano l’incedere di altri passi sconsolati che si avviano lungo lo stesso cammino che tu hai intrapreso, che iniziano ad apprendere la stessa lezione di tristezza che tu hai subito. Ah, dirai, deve essere colui che prese il mio posto di favorito al fianco dell’Eterna, colui che iniziò nell’istante in cui io finivo, che giunse innocente e, quel giorno stesso, mi costrinse a partire; e non saprà che accanto alla saggiatrice d’anime si può stare una volta soltanto. Avrai allora compassione di me. Abbila. Nel momento in cui la conobbi mi dissi: quando si guarda così, gli occhi serrati, rivolti obliquamente al suolo, davanti a sé o verso il tavolo su cui eravamo chini, e dove le nostre spalle curve gettavano un’ombra insignificante, come vidi Porcio de Larrenave quattro anni fa, la notte in cui conobbi l’Eterna, quando si guarda così, cosa si vede? 215

Ora, quest’oggi, so già cos’è. So cosa si guarda in quel modo: la strada dopo di Lei, tracciata dal suo oblio, la strada che da quella notte avrebbe racchiuso i passi di Larrenave, e che adesso, da questa notte, è anche la mia. Quanto dolore ti ha riservato, signor Larrenave, questa strada? Dimmi come si può togliere anche un po’ di dolore a questo cammino. La tua esperienza mi serva a soffrire meno di te. A cosa si pensa, percorrendola? Lungo tutto il cammino è meglio pensare solo a Lei, non è vero? Pensare alla sua bellezza, pensare sempre all’Eterna, dare in pasto al Dolore la nostra vita e il nostro corpo. Larrenave, quella notte lei mi guardava, con pietà e malizia, e tra tutti restava sempre in silenzio. Aveva già capito, riconoscendo la preferenza che lei mi accordava e che tanto la ferì, che sarebbe venuto il giorno in cui avrei intrapreso il suo stesso cammino? Abbi pietà di me: l’unica compassione che vorrei, in questo terribile inizio, è la sua. Addolorata anche per lei, suo Il Presidente Con ciò rendo chiaro al Lettore che il primo incontro del Presidente con l’Eterna fu una folgorazione che si manifestò, smisurata, come deve essere fra un inesperto pensatore come lui e un’Eterna così maestosa e profonda di sentimenti e al contempo maliziosa e maestra di trucchi d’auto-illusione, i facili giochi del preteso amore maschile. Cosicché trascorse molto tempo prima che il Presidente cercasse un nuovo incontro con lei, dopo aver dato peso e misura alla sua passione e compreso l’atteggiamento per nulla illusionista dell’Eterna; e dopo aver detto a se stesso che gli sarebbe stato possibile provare passione soltanto per lei. Così si può percorrere a ritroso il cammino di Larrenave o ci mancherebbe sempre un’Eterna, dolore irresistibile, pensò, per tutto il resto della vita. 216

CAPITOLO V

— Dolce-Persona: Che cosa c’è, oggi, ne “Il Romanzo”? — Forsegenio: Tutto ciò che vuoi. — Oggi ci siamo noi. — Allora c’è l’allegria di Dolce-Persona. — E quella del Presidente. Che possa essere felice almeno un giorno! — Guarda un po’, Dolce-Persona: ecco la signora che è venuta in visita. — Occhi neri; è bella e triste; è seria ed attraente. Quanti siamo a essere tristi, Forsegenio! Dovevano essere proprio neri, i suoi occhi. Si china soavemente. — Come fai a sapere che dovevano essere neri? Nessun medico può prevedere che il nascituro avrà gli occhi neri. Io, invece, predico che i tuoi occhi azzurri sono i più belli e i più neri che ci siano. — Se si è fatta annunciare da una lettera, è segno che si conoscevano già. — Si conosceranno, ma come è vero che ci sono storie belle e pronte ad essere raccontate, se chiedi al Presidente di che colore sono quegli occhi, di certo non lo sa. — Ti sbagli, pensatore; lei gli interessa molto. — Quanto ti preoccupi, Dolce-Persona! Soffri per nul217

la: non si interessa affatto alla sua persona: deve avere a che fare coi suoi piani… — E ti sbagli anche in questo: la prima cosa che lui osserva negli altri è il colore degli occhi, e… — Dunque, esistono prima altre cose? — … E la voce. — Beh, in queste due prime cose non puoi che vincerla su di lei! — Non criticare la mia grammatica, Forsegenio. — Hai due occhi perfetti per un bel racconto. — Come sei spiritoso, Forsegenio! — Ti sbagli, sono triste Dolce-Persona: sento la malinconia di essere solo scritto quando, qui, potrei essere non scritto, ma reale; l’abisso in cui il proiettore cinematografico sprofonda i personaggi proiettati poco prima, nel momento in cui cedono a un bacio e bisogna sottrarli agli sguardi. Dì al signor autore, Dolce-Persona, di lasciarci solo scritti, quando ci deve far soffrire. — Tutti tristi!… ma ti dirò che è la prima volta che mi fai dei complimenti. — Sento l’amore e perciò, adesso, vorrei la vita, che è quando nei film si cancellano meccanicamente i personaggi, e quando nei romanzi si dovrebbe farli vivere: così, in modo sublime, sarebbero superiori ai film. Sento l’amore, e vorrei una vita, ora che l’amore la renderebbe felice; e allora penso con timore che forse, nello stesso istante, il romanziere alza la penna dal foglio e io smetto di esistere… Dunque, vuoi che continui a farti complimenti? La tua bocca… — La tua bocca avrebbe già dovuto dire che il primo complimento fu il mio: poco fa ti ho detto che hai un aspetto piacevole, e sei anche buono. — Ora me ne vado davvero: ecco che passa l’auto della signorina Petrona, con il legittimo contenuto della sua persona. Si accomiatano.

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Il cessare del tic-tac di un orologio — Dolce-Persona: Lettore, ho bisogno di un tuo alito su questa pagina senza vita. Chinati di più; è così triste, ogni vita. La Dolce-Persona oggi è triste. — Lettore: Come darei la mia pesantezza terrena in cambio della tua leggerezza! Perché sei pensierosa, DolcePersona? — Perché ogni sentimento è triste, forse. — Ah, se la mia vita avesse un valore per prestartela, personaggio tormentato e infelice! — È già molto che ci pensiamo l’un l’altro. Il saluto di un cipresso Al calare del sole, mentre le fronde e la polvere del suolo preludono alla musica di uno scroscio estivo, il Presidente, solo nella dimora, sente il richiamo disperato di Passato, che irrompe nella sua coscienza: la sua anima geme, per ritrovare quelle notti in casa che il Presidente trascorreva contemplando e vegliando il respiro delle cinque creature, il focolare dei figli riunito sotto quel tetto. Verso le undici dormivano tutti e, lasciata la sua scrivania, il Presidente andava a guardare tutte quelle figure amate, i corpi rivelati da lenzuola e coperte, da teste e mani. Non poteva più avere quel passato? Una delle cinque “pagine sciolte del romanzo” La signora evocata nella conversazione fra Dolce-Persona e Forsegenio era l’augusta donna a cui il Presidente, sei anni prima, aveva scritto la seguente lettera, tanto trascurata nello stile, a causa dei suoi turbamenti di allora, quanto ardente nel tono:

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Buenos Aires, luglio 1923 A Eterna. Non c’è istante in cui non pensi a lei. Non posso cogliere ancora la totalità degli impulsi che provocarono la sua condotta nei miei confronti da quando ci parlammo al telefono, venerdì alle due, cioè la mattina del sabato, lo ricorda?, fino ad oggi. Sono stato punito, con forza e tenerezza, dal valore e dal buonsenso di una grande donna, senza pari in ciò che di lei ho conosciuto, discreta, pia, attiva, pura; e il mio orgoglio non ne ha sofferto. Al contrario, il timore di perdere tutto, insicuro della mia attrazione e, in questi giorni, quieto, smarrito a causa della sua costante benignità, non per infatuazione bensì per un’insidia della fiducia, della fede nella felicità che ci possiede e d’un tratto ci addormenta, ogni piacere della sua compagnia mi rese umile; solo il timore guidò la mia condotta, prima che io udissi dalle sue labbra quella prima ammonizione; l’orgoglio non reagì. Da quando vi conobbi, il paragone di virtù e grazie fra lei e me si definì in modo assoluto; e io vissi timoroso, sottomesso, sempre intravvedendo l’ora in cui, per la mia inferiorità, non avrei potuto trattenerla e l’avrei perduta. In quel momento non considerai nulla, se non ciò che avrei potuto perdere di lei: forse persino il vederla; lode o ingiuria alla mia persona ormai non significavano nulla al mio amor proprio. La notte di sabato una ritrosia, un atteggiamento tormentato, nella costante chiarezza dei suoi toni e dei suoi gesti, la fecero apparire trattenuta in una sua spontaneità immancabile e indecifrabile. Ma ormai io tenevo protetta la mia speranza, protetto il mio cuore, come dice lo Spagnolo, fin da quella telefonata di sabato all’alba. Com’era mutato l’aspetto delle cose, che mi parlavano tutte così cordialmente nei giorni che vivevamo, nella pace profonda della nostra unione che avevo assaporato per così tante settimane e i cui giorni stavano per finire! Forse non ne avrei avuto un altro. 220

Tornai a casa sua domenica notte, con un ultimo giorno nel mio intimo miraggio. La paura dell’impercettibile fastidio che forse avrei visto in lei nel varcare la soglia, era l’unica certezza che mi accompagnava. E lei, aspettandomi, mi liberò di quella paura e mi concedette ancora una volta la preziosa accoglienza che sempre rese simile a un sogno il momento di incontrarla. Seppi dunque che mi aveva appena telefonato, che era sempre stata in ansia, che mi aveva atteso a lungo accanto alla porta per ricevermi, che aveva preparato fiori da offrirmi, più per passione che per pietà: immeritata abnegazione, poiché nascosta dietro ad essa, l’aveva detto, non ci sarebbe stato un futuro. Che ora oscura abbiamo vissuto, e ciò che meno riuscii a capire fu che anche lei soffriva. Fui ingiusto, io che sono e sono stato in questa unione nobilitante che lei mi concesse, il più libero e felice dei due. Da questo ricordo non nascerà mai una ribellione, del mio orgolio non resta nulla, né mai lo vorrei, là dove lei è, dove si trova il suo ricordo. Anelo a una santità che regni sempre nel mio pensiero e nella mia unione con Eterna. Un giorno pretenderò che il mio spirito entri in possesso di poteri tali che mi sia concesso di sostituire con una frase senza limite la frase che oggi, e per tanto tempo, denomina il senso di ciò che ora è solo un dialogo della simpatia. Ma aspetterò, e con tanta tranquillità, che forse sia lei ad addolorarsi inquieta del mio muto soffrire e che, generosa come sempre o forse, come io vi prego e desidero, appassionata, umile di tenerezza, non compassionevole bensì gioiosa, lieta di darsi alla pienezza dell’immenso sentimento di identificazione, di amore, tu, donna ardente, parla per prima. Tu che più soffri, più ti tormenti, più sei e concedi, che ammaestri e nulla hai da apprendere, cui nulla dell’anima è ignoto, la Eterna.

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E in verità, Eterna, c’è un mondo di cose da scoprire nella sua anima, in questi giorni. Una sua frase, durante l’ultima telefonata di sabato, all’alba, fu il primo annuncio — per il tono e per il momento in cui la dicevate, non per la sua fredda accezione — di una fuga dal nostro bene. Quante altre delusioni le avranno provocato i miei errori e i miei difetti! Io credo di vederne altri; e sorge in me l’incubo di cercarli tutti. Doveva essere così. Non si può essere grandi dinanzi a lei; e neppure volli esserlo quando la conobbi, quando la raggiunsi: dovevo apprenderlo insieme a lei. Di più: volevo imparare, non inventare, la santità della mia passione. Aspettandomi tutto dalla passione, vissi finora mancando di essa, senza volermi ad essa preparare, desiderando apprenderla nel tormento, nella disperazione dei confronti, insieme alla bellezza dello spirito che un giorno avrei incontrato. E anche adesso, che l’ho conosciuta, vivevo più dei vostri perdoni che dei martiri di purificazione e di fede in me; vivevo della gioia di trovare vivente e definita la Bellezza che sarebbe diventata modello della mia virtù. Quale pietosa e augusta inquietudine, la sua, in quei giorni! Che ricchezza mostrava il suo essere in quella generosa premura di limitare in me il dolore, che era inevitabile infliggermi! Fidavo nel suo perdono, prima, e nulla più. E adesso: credevo di essere colui che pativa di più. Che folgorazione è stata, lei! Mi perdoni. I doni di tenerezza, di energia, di assennatezza, di tatto, che rilucevano nel suo agire, in questi giorni in cui, perfino nella complessità di un tale turbamento, non fu abbandonata né dalla sua fantasia né dalla sottile sagacia del suo affetto, superano tutto ciò che io presentivo quando, nel poemetto “Fosti la Notte, triste e ornata”, le dissi che non la divinavo, che non l’avrei mai raggiunta. 222

Non credevo di ignorarla tanto; né che alcuno mi avrebbe insegnato e superato in tale misura. Mentre lei, forse, crede che io sia mortificato nell’amor proprio, e disperi nella reciprocità degli affetti; io mi stupisco soltanto e mi sento umiliato misurando il delicato affetto per me nato così presto nel rigoglio della sua sensibilità. Mi vergogno di non avere intravisto la crescita del suo affetto: ciò mi rivela il desolato squallore della mia sentimentalità; ed è prova che io non credevo di meritarlo. Comprenderà dunque il motivo per cui non ebbi alcuna speranza quando suonò il primo allarme, quando, lottando con se stessa, si determinò, penosamente, a risvegliarmi dall’illusione. Se agli albori della nostra conoscenza non avevo che poche speranze, nel concepire la possibilità di tutto il nostro destino mi comportai da persona volgare e arrogante. Eppure non era arroganza ma incantamento, e fede nelle fortune della Passione. Deve essere intervenuto qualcosa di concreto non perché lei cambiasse, poiché da sempre ha cercato di abituarmi alla mutevolezza dei suoi sentimenti nei miei riguardi. Ma ormai mi vergogno di queste analisi degli accadimenti che nascono, o si intrecciano, ai nostri rari incontri e conversazioni. Non devi più soffrire, sensibile creatura, che con così viva felicità per il mio riapparire, per essermi lasciato alle spalle quella vicissitudine e per il ricongiungersi del cammino perduto delle nostre esistenze, ti mostravi l’ultimo giorno così giuliva e trepida di riconciliazione con la vita. Torno a te per sempre e accetto con impegno, intimidito dal tremendo pericolo che scampai, i limiti che, se sei tu ad imporre, è perché sono ineluttabili. Eterna! L’autore: Ecco qui una lettera che nessun grande scrittore di un grande romanzo come questo avrebbe scritto in 223

uno stile, dobbiamo dirlo, così approssimativo, così ridondante e traboccante di sentimentalismi. Il Presidente, a quanto pare senza alcuna occupazione, non si vide mai così mal redatto e qui si può obiettare se è opportuno, o meno, che i personaggi di un romanzo provino a scrivere lettere personali (è noto che si tratta di corrispondenza privata destinata non al pubblico, in quanto mancano tutti i dati necessari ad intenderla e a intuirne lo svolgimento, bensì a chi già sa tutto quanto gli sarà detto, e quindi potrebbe anche fare a meno di leggerla: astensione più che sensata, quando il fidanzato — non si può nascondere che, chi scrive, è il Presidente benché si esprima a riguardo in modo estremamente confuso — fa in modo che le sue lettere giungano a casa della fidanzata, come se non si fosse divertito abbastanza scrivendole, potendolo fare per poi bruciarle, dicendo in visita alla fidanzata: “ti ho scritto una splendida lettera, di cui vado fiero; naturalmente, però, non te l’ho spedita, perché serviva solo a tenere in esercizio la mia abilità letteraria”. E così l’Eterna, ad ogni incontro con il Presidente, chiedeva: “Mi hai scritto qualche lettera?”) Nella lettera precedente il Presidente allude per la prima volta (senza dubbio lo fa spesso, nelle sue conversazioni di nascosto al romanzo), ai suoi colloqui telefonici con l’Eterna. (Il telefono è ignaro, perfezione del parlare soltanto, senza spettacolo e senza gestualità.) È vero. Ogni notte si parlano a lungo e l’Eterna finisce sempre col simulare una cantilena piagnucolosa e capricciosa di bimba a cui si nega qualcosa, e poi torna alla Parola per dire: “Voglio fare tutto ciò che mi va. Mi basta questo; e mi si coccoli quando non mi addormento, e che poi possa sognare a volontà, e chi mi ama pensi a me e mi sogni”. — Non l’ho ancora imparato; domani ci proverò un’altra volta. — Ma oggi è ormai passato, un altro giorno senza amo224

re perfetto: un giorno in più che è irreparabile. No, il passato non è irreversibile; me lo dici sempre. — Sì, c’è tutta la Speranza: quando i giorni di amore perfetto superano quelli di stupidità, di oblio, di languore e apprendistato, il passato cade nel nulla. — E poi cambi di nuovo? — No, l’amore perfetto è l’opzione definitiva per un’eternità. — Nessuna pietà, nessuna pietà, Presidente. Nessuna pietà. È falso amore quello che chiede pietà o rifugio. L’amore è uguaglianza. Istante in cui tutti, andando a letto dopo un’interessante conversazione, sono turbati da problemi che forse il sonno risolverà. Presidente: l’Allucinazione del passato che culmina in Romanzo; potere di una situazione e di una scena uguale su sentimenti ormai mutati, come tirannia o confusione. Eterna: Oblio assoluto; oblio per eccesso di presente; oblio della persona che si guarda o a cui si parla. Dolce-Persona: Amiamo distintamente, a volte accendiamo, a volte spegniamo luci; vedere e non vedere; che ci vedano, che non ci vedano. Forsegenio: Prova d’arte per il romanziere: trascrivere gli stati emozionali di un pugile al quale stanno contando i secondi. Dunamor: Lotta fra passione attuale, amata attuale (la sua immagine) e ricordo di una persona morta. Ma Semplice non è preoccupato, come i suoi amici, di problemi personali o immaginari, ma sempre più o meno lontani o ideali; deve fare onore alla fiducia riposta in lui lasciandolo libero di risolvere a suo genio questo problema: con il fumo profumato che avanza da quello fumato a forza dagli attori del cinema per nascondere i loro gesti sgraziati, creare l’illusione dell’Eterna; così come Dunamor deve tessere la sua speranza. 225

— Autore: Tu, lettore, che potresti adesso entrare nelle mie pagine, perdere il tuo essere e liberarti della realtà e di ogni problema, giacché sei tanto forte da rimanere reale, o crederti tale; tu, se sei come me e come la metà dell’umanità (tutta l’altra metà è altruista, perché essere buoni è facile quanto essere cattivi, perciò avrai notato che i buoni, e anche i santi, non si accorgono né si preoccupano di ciò che sono. (Se Leopardi lo avesse saputo, quante lacrime sulla cattiveria umana ci avrebbe risparmiato! (Parlerò fra parentesi sopra le parentesi: ho ordinato parentesi di prima e seconda grandezza (non so perché la noiosa letteratura enfatica, opera quasi tutta di grammatici, senza contegno o artisti, ripudia le parentesi enfatiche di seconda grandezza e usa due o tre centinaia di aggettivi; vale a dire organizzazione dello StrumentoParola in lessico e sintassi, come certi bottegai fabbricano tavolozze ma non per questo si ritengono pittori) tu, lettore, desideri per tutti gli uomini le migliori fortune, e paventi i loro possibili dolori. Perciò vuoi che ciascuno risolva questa notte i suoi problemi, e domani si svegli libero nella mente e nel cuore. — Lettore: È vero. Oh, se potessi insinuarmi, di notte, nelle vostre conversazioni e avere almeno per un’ora l’essere di personaggio! Chi non anela alla vita de “Il Romanzo”? — Dolce-Persona, che sembra ascoltare questa eco della Vita: Respirare; quel sollevarsi del petto; i nostri non si sollevano; e quell’impallidire e arrossire delle guance degli innamorati. Forse, Presidente, potrebbe accadere al pensiero del nulla che tu ed io siamo. Alcuni vogliono la vita, altri l’arte. Solo Dunamor è contento del suo essere. (Tira e molla tra autore e lettore per trascinare quest’ultimo allo svanire del sé nel personaggio. Il lettore lo desidera, ma non osa rinunciare per sempre alla vita: teme di restare incantato dal romanzo. Non sa che chi entra nel romanzo non torna più.) — Autore: Non devo dire al lettore: “Entra nel mio romanzo”, ma salvarlo indirettamente dalla vita. Voglio che ogni lettore entri e perda se stesso nel mio romanzo; questi 226

darà asilo ai lettori e li incanterà, vuotandoli. Il primo lettore che si esiliò da se stesso e cadde nell’aria tenue del mio romanzo (avvenne mentre leggeva la pagina 14) era uno studente di ventitré anni che sfogliava soavemente le pagine, arrovellandosi per seguirmi ed identificarsi. Leggeva fumando, e talvolta cadeva sulle mie pagine la cenere calda che mi inquietava: finché non cadde lui, anch’egli tiepido, beato, in un languido oblio. Amava molto una signorina fastidiosamente civetta e volubile, ma affettuosa. Era stanco. — Lettore: Non sono io? — Autore: Forse. Sento passi leggeri, e un’ombra furtiva su questa pagina. Allora ci sei anche tu, Benvenuto. — Semplice: Allestiremo ne “Il Romanzo” un padiglione per i lettori conquistati dal suo incantesimo. — Nuovo lettore: Aspetto con ansia il mio turno di approdare alle pagine del romanzo… Ma non ci sono già? — Forsegenio: In verità, lettore, sei tu che leggi, o sei letto adesso dall’autore, visto che ti rivolge la parola, parla alla rappresentazione che egli si è fatta di te, e ti conosce come si conosce un personaggio? — Lettore: Non mi importa chi sia; mi basta questa deliziosa vertigine che mi addentra negli anditi tenui del romanzo.

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CAPITOLO VI (per colmare l’assenza di sei anni e i loro dubbi.)

Chiamano?… È il mio amore. Vi è bellezza: per accarezzare L’ansia di un mondo, Per assopire nel languore della riuscita La peregrinazione di questa ricerca sviata e preveggente Che è il senso della realtà. Ricerca in cui non si conosce il cammino, né la parvenza di ciò che si desidera, Ciò che le terrà in serbo la quiete E muterà in delizia il dolore della sete. In tutto il sogno del reale Vi è Bellezza: per trattenere tutto il Dolore. Uomini, voi che respirate, voi che, innumerevoli, bruciate senza posa l’aria del mondo, chiamata senza tregua ai vostri petti, e levata dalle vostre bocche eternamente aperte a un cielo eterno, esseri del palpito, la cui voce si rallegra o soffoca, e chiede, forse ogni giorno, la fine e l’alternanza dell’eternizzare: vi è bellezza per darci tutta la comprensione del Mistero, e per fermare tutto il dolore. Ma dov’è? Nell’Arte, nel Comportamento, nell’Intelletto, nella Passione? In Cervantes, in Beethoven, in Wagner, o in qualcosa del massimo delirio: nell’intonazione adorante, abbagliata, dell’Uomo di Walt Whitman? 229

Dov’è Bellezza, chiarificatrice dell’“essere” e incantatrice di Dolore? Dov’è Bellezza? Dove chiama? Chiamano? È vero che chiamano? È l’Eterna, la sola in cui il Segreto, nostro amico, trovò ricetto, che viene per farci scrivere questa pagina, detta soltanto a noi e in cui nulla svanirà del nostro segreto, poiché tutte le parole non possono raccontarlo, segreto che anche quando verrà detto non sarà stato compromesso, nessuno lo scoprirà, né saprà com’è, né se è segreto in un sogno o nella realtà.

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CAPITOLO VII (La vita vuole introdursi nei romanzo.)

— Dolce-Persona: Che c’è oggi nel romanzo? — Forsegenio: Oggi c’è Suicidia.1 — Dolce-Persona: Oh, parlami subito di lei! — Forsegenio: È una storia di “personaggi di romanzo”, non di persone che hanno vissuto; e l’ho ideata così perché in essa ho trovato un metodo magico per far sì che tu ed io avessimo vita, fossimo persone: poiché mi sembra che nel momento in cui un personaggio appare in una pagina di romanzo raccontando un altro romanzo, lui e tutti i personaggi

1. “Suicidia” apparve nella rivista “Columna” (1938) e ricomparve in Una novela que comienza (Santiago del Cile, 1941), come anticipazione di: “La nuova opera letteraria di imminente pubblicazione sulla cui copertina si leggerà: Romanzo della Eterna e della Bimba di dolore Dolce-Persona di un amore che non fu saputo Dedicata al Lettore Singhiozzante da Macedonio Fernández (Dei tre applausi che esistono: l’applauso per chiamare il cameriere, l’applauso per allontanare le galline da un giardino, e l’applauso per catturare una farfallina in volo. Quale spetterà a questo romanzo?)

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che lo ascoltano diventano reali: ma solo se considerano come personaggi quelli del romanzo narrato: che piaccia o no al lettore. C’è un altro sistema per dare “vita” ai “personaggi”; e chiederò al romanziere che ci sta scrivendo di usarlo con noi se questo, che mi accingo a mettere in pratica, mia cara Dolce-Persona, non ci dà, non ci procura la vita, vita che, amandoci tanto oggi, sarebbe felice per entrambi. Quest’ultimo metodo (auguriamoci che il nostro autore ora ci ascolti, lo impari e, caritatevole, lo usi contro di noi!) prevede che gli autori di romanzi (i quali non devono restare indifferenti alle ansie dei loro personaggi) presentino qualcuno che prorompe in questa veemente esclamazione (ma solo nell’ultimo rigo del romanzo, perché vi sono “personaggi” ingrati, pronti ad arraffare subito la vita che si offre loro e ad andarsene, senza restare una riga di più nel romanzo)… — Dolce-Persona: Non so se mi comporterei anch’io così, benché il nostro povero autore mi ispiri simpatia… — L’autore: Che frulla in mente a questi miei personaggi, che cerco da un bel po’ e me li ritrovo in un dialogo che li sottrae al loro ruolo? — Forsegenio: Povero autore!… — Dolce-Persona: Non so nulla di lui, ma sento vagamente che è un’anima smarrita, forse un infelice.

Conterrà il “racconto” che segue in cui l’autore si compiace di spedircelo per inserirlo in “Columna”. Una burla del racconto in una burla di romanzo: due burle in un’opera di puntigliosa revisione d’Arte e nel contempo di grave, disperato sentimento, e di un’ansiosa e onesta ricerca estrema dell’estetico e speranza disinteressata di un’Arte rigorosissima, esente da convenzionalità e sensorialità. Macedonio Fernández, ci dice, aspira a questo e ci spiega come ora si ritrova appena, ma senza dubbio, uscito dalla negazione grazie all’“artistico”. Non è così per quanto riguarda l’“estetico naturale”. Auguriamoci che la sua opera comporti lo stimolo più incisivo alla ricerca e alla discussione sull’Arte che si sia mai verificato nel nostro vivace ambito letterario, dove l’esame e l’iniziativa sono apprezzati”. [M.F. - A.d.O.]

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— Io non ho sentito dire di lui né male né bene; l’unica cosa che mi preoccupa è che potrebbe essere un po’ invidioso, e provare gelosia per queste due splendide idee che ti sto comunicando. Ho notato che non lo rende felice vedere il Presidente disposto a scrivere un libro, e che critica le sue lettere appassionate ed eloquenti. Chissà se vedrebbe di buon occhio la felicità che può darmi il tuo amore nella Vita. Per quanto mi riguarda, sul punto di prorompere nell’esclamazione che ho escogitato, ti prenderei per mano e fuggirei da qui, verso la Vita — perché ti assicuro che questa frase darà Vita. — Sì, fuggiremo, portami con te; sarò aggrappata a te quando dirai quella frase. — Se, come dico, noi due dicessimo insieme: “Oh, me sventurato (tu diresti ‘sventurata’), per questo Orrore che dobbiamo sopportare, un dolore e poi un altro dolore, e così per sempre; oh quanto vorremmo non avere vita, essere solo ‘personaggi’ di qualche avvincente romanzo che abbiamo letto, convinti che solo nei romanzi vi sia infelicità e disperazione!”

Una novela che comienza (Un romanzo che inizia) con prologo di Luis Alberto Sánchez, Ercilla, Santiago del Cile, 1941. È la copia di un manoscritto allora in possesso di Alberto Hidalgo, manoscritto di cui si ignora il destino. Come spiega Adolfo de Obieta, esiste forse un originale verosimilmente datato 1921. Il romanzo viene ripreso da M.F. nel 1938. In questa occasione l’autore aggiunge il finale di alcune note. Un novela que comienza conteneva in origine: Una novela que comienza (oggi in Obras Completas, cit., 1987, vol. VIII); la prima stesura del Romanzo dell’Eterna e della Bimba di dolore dolce-persona di un amor che non fu saputo (oggi in Obras Completas, cit., 1975, vol. VI), il racconto Suicidio, il Romanzo dell’“Eterna” e della Bimba di dolore, la “dolce- persona” di un amore che non fu saputo, il Prologo al mai visto. Salutazione, Altro desiderio di salutare (oggi in Obras Completas, cit., 1987, vol. VI,); il racconto Tantalio e il poema Trabajos de estudio de las estéticas de la siesta (Lavori di studio delle estetiche della siesta). Oggi in Obras Completas, cit., 1987, vol. VII. [N.d.C.]

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— Oh, è vero, è magia, ogni parola mi solleva, mi allontana da qui, dal nulla; sento… sono… Oh Forsegenio, sarà vero, potessimo… trattenere ciò che arriva. Ripeti, parla sempre, Forsegenio! — Mi confondo, non so… che dolore lancinante… ahi! Dolce-Persona, potessimo!… Devo piangere; per favore, Dolce-Persona, dimmi un’altra volta cosa senti: come hai detto, Dolce-Persona? — Parla, per Dio! Dillo, dillo subito, un’altra volta! — Oh no, un’altra volta! — L’autore:1 Che brivido! Vorrei dar loro tutte le parole che chiedono e chiederanno. Che pena! Ma le parole sono riuscite a dar loro, almeno una volta, ciò che si aspettavano? Mi auguro che almeno non sia l’Eterna a implorarmi di avere vita! Con la sua maestosità di figura e di accento, se questa richiesta fosse così incalzante in lei, come in questi poveri giovani, se ella chiedesse una vita che finora non ha mai fatto mostra di desiderare, che anzi disdegna, nella frustrazione d’amore del suo destino… che potrei rispondere? Se questo amore si compisse e, nella privilegiata felicità che solo il lungo dolore delle anime nobili può dare, mi supplicasse di farla vivere, per magia di parole d’artista, quanto sarebbe superiore alle mie doti il compiacerla! — Forsegenio: Cosa ci è successo, Dolce-Persona? Che cosa hai sentito, quale vertigine? — Dolce-Persona: Nulla… nulla. — Oh, è stato il dolore di una nascita; ed è fallito. Lasciami riposare, e poi ti racconterò la storia. 1. L’autore, caduto in trappola e vinto dalla propria invenzione, sembra spaventarsi e credere di possedere l’essere di personaggio. Si riprenderà mai? Se rimanesse in trappola per sempre! È la decima volta che gli accade: per due anni consecutivi, tutti i giorni, ha dedicato poco o molto “pensiero” a questi personaggi, e a volte ha conosciuto il sudore e la sospensione dell’essere egli stesso nulla più che un personaggio. Sarà forse più reale di loro? Cosa significa avere realtà? [M.F.]

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— È meglio non provare più. È orribile, quest’angoscia. Meglio non sapere mai cos’è la vita! — Fidati di Forsegenio, non disperare così presto! — L’autore, frettoloso e scostante nel suo discorso: Com’è difficile scrivere da soli ciò a cui si è troppo pensato! — Forsegenio: Io sono buono, Dolce-Persona — e forse anche un genio —; ma, anzitutto perché sono buono, devi sopportare la debolezza che conosci in me di voler apparire non come personaggio, bensì in veste d’autore. Perciò ti chiedo che tu mi consenta di presentarti il racconto che ti ho promesso, e che adesso arriva, come se mi rivolgessi al lettore, e con questa parentesi come esordio, anche se l’unica cosa che mi importa nell’anima è starmene qui, a parlare con te, anche quando mi ascolti distratta. — Dolce-Persona: Forsegenio, è la prima volta che noto in te un pizzico d’acrimonia. — Perdonami, io stesso non me n’ero accorto. Considera che ho accettato di vivere senza speranza; e a volte questo mi altera. (Se perdonate un verseggiatore che desidera trasformarsi in narratore e finisce poi, come tutti i letterati, con qualche fiasco clamoroso in teatro — una fine disastrosa come quella dei musicisti che fanno di un’“opera” una congerie di musica, castigando se stessi con queste clamorose dichiarazioni della loro poca fede, di non essere sempre stati artisti consapevoli di arti così potenti nella loro purezza strumentale come la Prosa e la Sonata, con i loro modesti e scoloriti caratteri di stampa o con le loro parche ottave di cui ogni ugola è capace — e che vi avverte che tutti i suoi racconti si smarriscono non appena sfiorano qualche verità o mistero scientifico, attratto dal candore per lui irresistibile della scienza e, cosa dirò!, quando, come qui, vedrete sfiorarsi due problemi: il problema dell’Automatismo Integrale, dell’annullamento della Coscienza ad opera dell’Automatismo Longevistico, unico imperativo della vita, la cui finalità è sostituire il faticoso e anarchico pluralismo vitale con un unico Cosmo-Persona, il mono-essere liberato final235

mente dalla soggezione nei confronti della perfida relazione di “Estemalità”;1 e, infine, il problema dell’eterna contrapposizione al Longevismo da parte dell’antieternizzante Riflesso di Evasione (di auto-distruzione) che vigila su ogni eventuale falla del piano longevistico che è la Monocoscienza Affettiva Negativa, ovvero l’istante di coscienza unica, cioè occupata da un solo stato mentale affettivo di dolore: sul quale istante di monocoscienza il Riflesso di Evasione regna illimitato e istantaneo… — Se si tratta di una cosa così tremenda, — dirà il lettore — vada per il racconto che si smarrisce! — Benissimo: eccolo qui. — Benché la Scienza mi sembri sempre più pedante e sterile, come dimostra il terribile stato dell’umanità, neppure il Racconto mi sembra da prendere sul serio, come genere letterario: ha molto della regola e della monelleria. Ma sì, infine, ben venga il racconto; e sia quel che sia. — Mi offendete, con quest’aria rassegnata! — Allora non aspetto più, me ne vado. — No, no, eccolo tutto d’un fiato. Un lettore è un lettore. Anche se si è rivelato solo un maleducato, che sicuramente non conosceva nemmeno un modo di applaudire.) Suicidio Ogni stato di piacere o di dolore che in un dato momento occupa tutta la coscienza (per dirla volgarmente), ha a sua disposizione il totale automatismo dell’azione (per dirla anche in modo approssimativo, perché la psiche non dispone casualmente dell’automatismo, bensì sta alle dipendenze di questo, così come del periferismo o centripetismo sensoriale).

1. “Esternalità”, nell’originale Externalidad, neologismo dell’autore per indicare l’atto comunicativo di esternazione. [N.d.C]

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Questo automatismo è istantaneo ed immutabile: fugge il dolore, trattiene il piacere, conservatore di piacere, distruttore di dolore. Se poi in un fanciullo che abbia vissuto fino ad avere l’esperienza1 che un organismo è distruttibile, e con quali mezzi, si manifestasse un dolore tale da occupare con forza la psiche, l’automatismo dovrebbe procedere istantaneamente alla distruzione corporale. O si nega che possano verificarsi nella psiche momenti dominati da un unico stato — ciò che non credo sia confutabile —, o, alla prima violenta emicrania, un essere procederebbe alla sua autodistruzione con la stessa coazione interiore che lo spingerebbe a fuggire un incendio. Si meraviglia forse qualcuno dell’ansioso ed istantaneo impulso di sfuggire alle fiamme? Dunque non ci si deve stupire che, al primo mal di testa, un essere umano che abbia l’esperienza della distruttibilità, e mezzi corporali ad essa adeguati, si elimini dall’esistenza. È inutile dire che chi afferma tutto ciò non crede che la vita abbia una legge di edonismo, ovvero che la vita abbia un valore edonistico per il solo fatto di esistere, che sia più edonistica del non-essere. Queste non sono pagine per convenzionalismi: tutti abbiamo conosciuto molti momenti, e lunghi anni, di miseria assoluta, e li abbiamo vissuti in virtù della nostra schiavitù all’Automatismo longevista, senza che la Coscienza avesse alcun potere di assoggettare questo automatismo e ordinare l’atto di annichilimento. In queste pagine si deve parlare con asprezza, quando dovrò raccontare la morte di Suicidia. Vediamo un po’. La vita non ha plusvalore rispetto al non-sentire. Nella vita c’è dolore oltre il piacere. La Coscienza o sensibilità non ha alcun potere sul suo corpo vivente; ma sente, inevitabilmente, in ragione di certi mutamenti del corpo, benché non di tutti. E la Coscienza ha

1. Corporale; l’esperienza sentita o psichica non possiede figurazione causale e pertanto nessuna figurazione nell’abilità e negli obiettivi dell’attuare di un Corpo Vivente. [M.F.]

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stati simultanei agli inizi e alle prosecuzioni di molti atti. Il corpo fisiologico ha un potere ineludibile sulla coscienza. Il corpo si propone di persistere ad essere un’organizzazione; non gli concerne se la coscienza a lui annessa soffre. Nella serie complessa degli atti, il corpo non si avvierebbe mai verso la propria distruzione. Procederebbe alla sua autodistruzione nel primo momento di un’eventuale serie di atti correlati a un dolore della coscienza; ovvero, il riflesso fondamentale congenito di fuga dal dolore sarebbe forse l’unico movimento autodistruttivo possibile, sottomesso all’automatismo longevistico? Che cosa si può rispondere a tutto ciò? — Che, se la Coscienza è suscettibile per un istante di essere totalmente e unicamente occupata dal dolore, ciò accade perché c’è un momento, nei processi fisiologici dell’automatismo, in cui viene a mancare la finalità longevistica di tale automatismo. C’è dunque una via d’uscita: morire con opportunismo edonistico, quando la vita non ha valore, nonostante la tirannia di far vivere esercitata dall’Automatismo. Penso a tutto ciò quando evoco nei dettagli la morte di Suicidia. Si può supporre io sappia che, negli indici di mortalità, figura un 10% di morte per suicidio; senza contare un 50% di tentativi falliti di suicidio, che sono — se considerati con intelligenza — autentiche espressioni del desiderio di non essere. Ma la mia opinione, largamente condivisa, è che l’uomo non riesce a eseguire il suicidio se non in stato di demenza; sia pur questa la demenza di un solo istante, ma sempre demenza totale, assoluta. I suicidi che si eseguono non procedono da un dolore attuale, e forse neppure da un bilancio edonistico negativo della vita passata: senza alcun dubbio, rappresentano una falla nell’impero longevistico chiamato “vita”. Come può, l’Automatismo, consentire che esista l’infermità mentale della mania suicida? L’Automatismo non può volere alcuna morte, né per mutuo sterminio fra i viventi, né per infermità, né per caos mentale suicida. L’indirizzo longevistico della vita opera in base ad appettiti congeniti inequivocabili, e mediante l’azione, che è sempre automatica — la ac238

compagni o meno la coscienza. Se l’individuo muore non è mai per errore dei suoi appetiti, ma perché il Cosmo, l’“Esternalità”, dà o non dà ciò che soddisfa l’appetito. E dunque l’Automatismo deve rassegnarsi all’esistenza della demenza che anela alla morte. Queste demenze, e gli istanti fulminanti della monocoscienza affettiva negativa, sono, in certo qual modo, altrettanti trionfi dell’edonismo sull’automatismo, del desiderio di felicità (benché essa sia, del non-soffrire, solo la negazione) sul mero longevismo irrazionale, che è dominio dell’automatismo, senza alcun beneficio per la coscienza. Ma qual è lo scopo misterioso che si propone l’automatismo obbligandoci a vivere anche se non ci conviene? Chiedo ancora: Forse che l’automatismo non intende sprecare una sola vita su miliardi di esemplari; non vuole che alcuno vada distrutto, perché in ciascuno di essi intravede una speranza di raggiungere l’Organismo Immortale? È per questo, forse, che ogni vita ha per esso un valore. Torno a Suicidia, e ricordo che non c’era in lei la più lieve traccia di squilibrio mentale. Per cui viene davvero da chiedersi se ella fu “persona psichica” nella quale l’occupazione totale della coscienza da parte di un solo stato doloroso, per quanto breve, fu possibile. Questa falla dell’Automatismo segnò il suo destino: fu vittima di un’attitudine della sua coscienza ad essere totalmente occupata, per un istante almeno, da uno stato mentale. E, quando questo stato mentale fu di dolore, il grilletto di evasione dal dolore si sollevò con prontezza, e le carpì la vita. Ciò che si deve deplorare è che, a parte le sue molte attrattive, Suicidia sembrava essere una persona predestinata alla possibile felicità dell’essere umano. Un trabocchetto nell’Automatismo universale della vita, costituito dalla combinazione del riflesso evasivo al Dolore e della rarissima attitudine di una Coscienza ad essere occupata da un solo stato per un brevissimo istante, soffiò il suo essere lontano dalla vita. Fidanzata, sposa, madre, nonna: in lei non vissero i quattro capitoli di una vita antica e prescritta: aveva solo diciotto 239

anni quando il menzionato riflesso congenito e la monocoscienza di alcuni secondi… È vero, si chiamava Suicidia; ma si dà il caso che fosse felice, che fosse una persona contenta. Di certo non mi sono fatto intendere e non vi ho persuasi. Ma il fatto è che il lettore non si cala nel caso psicologico, non concepisce, non si rappresenta il momento in cui in una coscienza non c’è che dolore. Se questa coscienza tutta dolore è intelligente, se è vero che siamo esseri razionali, essa deve optare all’istante per l’atto di distruzione. È assiomatico. Addurre che esistano piaceri futuri è vano, non solo perché molte volte la loro esistenza non è sicura, né tanto meno vicina, ma anche perché il dominio del riflesso di evasione interverrebbe senza consentire la possibilità di ragionare. Inoltre, se si pretende che nel dolore attuale debba operare la nozione del piacere futuro, nei piaceri futuri deve operare la nozione del dolore passato: è così che il suicidio si verificherebbe nel momento del piacere. Questo sì può essere un errore, il mio unico errore: l’errore nell’affermare che, quando il mondo personale psicofisico, quando la “persona” è solo due cose: un Dolore e l’automatismo basale di evasione dal dolore, la nozione del possibile Piacere futuro non ha la forza né la prontezza di interporsi fra l’istante di questa monocoscienza penosa e il deflagrare del Riflesso di Evasione. Se essa riuscisse ad interporsi, non sarebbe più un’ipotesi; ma, poiché l’esperienza non è condizionata dalle ipotesi, e la mia onestà e passione per la chiarezza mi impediscono di ricorrere all’insidia di chiedere petizioni di principio, che non ingannano nessuno ma rendono celebri e alimentano le cattedre, mi sottometto all’onnipossibilità dell’Esperienza e ammetto tale interposizione. In questo caso il suicidio si verificherebbe nel momento del Piacere, ma ciò non fa differenza, perché sostengo che ciò che trionfa, inflessibile, è il riflesso basale soltanto su una coscienza che si trova in un istante di monocoscienza affettiva. Sembra che io non esca da questo garbuglio, ma io sono sicuro di trovarmi sulla giusta strada; non voglio più dilun240

garmi perché l’altra mia teoria, invece, la teoria dell’Automatismo integrale, incluso l’automatismo dell’intelligenza, rende del tutto privi di interesse i chiarimenti riguardo l’ultimo stato psichico terreno di Suicidia. Conformemente a questa mia sistematizzazione dell’Automatismo, è assai poco probabile che mai Suicidia, né prima né nel momento della sua autodistruzione, che ha compromesso la mia narrativa, abbia sentito nulla. Credo che l’intuizione di Hogdson, la sua indagine sull’automatismo, sia stata uno dei momenti di massima lucidità dell’intelletto umano. Ma, stimolato da questa grande lezione, io credo di essere riuscito ad integrare la verità in esso originata affrontando pienamente la difficoltà capitale di un automatismo e dominando, da solo, l’attuazione della vita; il problema era questo: come l’Attività potesse avere una direzione longevistica, senza la percezione, l’accumulazione mentale e la selezione delle sequenze causali, depurandole dall’Accidentalità, cioè dalle sequenze immediate non causali che rivestono in un’accidentalità apparente la stabilità epurata delle sequenze causali. È vero che gli appettiti congeniti sono inequivocabili, ma dove e quando trovare ciò che li soddisfa è il sapere, totalmente empirico, fenotipico. Senza aver visto il gatto che ci ha graffiato, come faremo a sfuggire al graffio di un altro gatto, che nemmeno questa volta vediamo? Ebbene: non ci è necessario né vederlo né udirlo (stati psichici), né prima né adesso: bisogna soltanto che il collegamento nervoso visivo e auditivo sia in condizioni normali, al fine di trasmettere la vibrazione luminosa o sonora; e che, prima di tutto, sia stato associato il dolore (cioè il danno fisiologico, non il dolore di questo, poiché supponiamo abolita, o non ancora iniziata, la Coscienza, il Sensorium psichico) alla presenza, all’assalto e al miagolare del gatto (presenza, assalto e miagolare fisici, non psichici). L’alterazione nel campo ottico e fonico causata dalla presenza del nuovo, ma identico, gatto provocherà l’attitudine fisica di evasione, entrando in contatto con l’impronta celebrale associata al danno precedente. La difficoltà, dunque, era inestistente, il rigore e la 241

completezza dell’Automatismo Longevistico si raggiungono, e non si può sfuggire all’alternativa di definire tutto il fenomenismo interiore, tutta la Coscienza, un mero spettatore che è inoltre condizionabile da ciò che accade nella vita e allo stesso tempo incapace di condizionare tali eventi. Se ora vi ho finalmente convinti, vale la pena di aggiungere che ognuno dei miliardi di germi che nascono ha la missione di assorbire in sé tutto il Cosmo, tutta la Materia, nello stampo di individuazione che esso stesso e ogni altro germe rappresenta, fino a realizzare l’unico Cosmo-Persona. Suicidia avrebbe potuto essere, come me, come un seme d’uva o di grano, il germe che si sarebbe pienamente realizzato, che avrebbe fatto del cosmo una persona e soppresso l’odiosa pluralità, esternalità — e con ciò le morti —. L’Automatismo — che vuole che Suicidia, io e il seme non moriamo — si serve di noi per concedersi talvolta un po’ di Riposo. Ma, dato che l’Automatismo è la Verità Totale, non potremo mai sapere se la persona, che vediamo vivere, sente. Io vedevo Suicidia che viveva felice, ma non so se sentiva. Non sappiamo se sentiva. E, poiché al lettore non piacerà affatto che lo forziamo a “partecipare”, a sprecare la ben nota “compassione di lettore” per un personaggio insensibile, non proseguiremo con la storia finché non ci saremo documentati e non potremo garantire che Suicidia soffriva tanto che noi, lettore e autore, vivremo per sempre nella vergogna di aver concepito l’ipotesi della sua insensibilità. Hogdson, consapevole del fatto che tutto il sapere è fenotipico, si turbò sia per una residua sopravvivenza dell’impressione di spiritualità dell’Intelligenza, che “rimase” nella sua mente resistendo alla radicale “critica della coscienza” che egli aveva elaborato, sia per un momento di confusa sinonimia, nella sua mente, delle parole-accezioni “automatico” e “incosciente”; insomma, il buon Hogdson si accorse che sarebbe stato troppo azzardato affermare il totale automatismo della Conoscenza o Sapere, il quale, senza dubbio, è soltanto l’automatica depurazione delle sequenze invariate da ogni accidentalità, depurazione che 242

si compie da sé, in ragione di ciò che si ripete sempre e che si imprime più delle mere coincidenze di contiguità o successione. Questa depurazione era sufficiente, senza invocare il miracoloso “raziocinio”… Accorgendosi che Dolce-Persona si è addormentata, Forsegenio, per nulla offeso, la sveglia dolcemente. — Dolce-Persona: Sembra che tu abbia un cattivo amico in quel buon Hodgson che hai nominato. Non lo frequentare, se è stato così cattivo da ingannare Suicidia! — Forsegenio: Oh, se avessi saputo che mi stavi a sentire avrei parlato dell’“ablazione coscienziale” e avrei sottolineato che, pur essendo ormai chiaro l’automatismo integrale che professo, nulla rimane ancora chiaro del Mistero essenziale del Tutto; nessuna spiegazione di Meccanica o Psicologia potrà mai essere idonea a essere ridotta in qualche modo a Mistero. Ma, visto che non si sa mai quando il lettore dorme… E sia ben chiaro che Dolce-Persona non è di quelle che fingono di dormire mentre ascoltano un racconto. È così incantevole, nella sua innocenza, che ha fatto di me un autore non irritabile, pronto a simpatizzare con il lettore che si addormenta mentre legge; e questi, pertanto, non si dà la pena di correggersi. Adesso che Dolce-Persona si è commossa e prende le parti di Suicidia, quest’ultima non rimarrà senza nessuno che la cerchi, la consoli e concluda il suo racconto perché Dolce-Persona si identifica con ogni dolore, e un “personaggio non raccontato” è la massima disgrazia che teme per sé e per gli altri. Mi sento in dovere di precisare (come autore o come Forsegenio) che non ammetto il suicidio compiuto in uno stato di monocoscienza del dolore in un istante demenziale, e che quest’ultimo stato e la demenza suicida sono due cose diverse: la demenza suicida è uno stato cronico di appetenza del suicidio, ed è accompagnata da una costante preraffigurazione del piacere dell’atto distruttivo. Demenziale significa antivitale, non antiedonistico. 243

CAPITOLO VIII (Ma no.)

Ma ci fu un giorno diverso da tutti gli altri. Di ritorno da Buenos Aires, trovarono il Presidente immerso nei pensieri. A tarda notte, mentre si trovavano tutti riuniti, disse loro: “Vi parlo per darvi una brutta notizia. Da due anni ormai persisto in questa prova d’amicizia, dalla quale ho ottenuto, grazie a voi, una vita che vale più del non vivere, ma che non ha dato al mio destino alcuna coscienza di finalità, di dignità. Solo la passione può darla. E, come ultima e nuova speranza per curare la mia anima e ottenere quella passione che non ho trovato nell’amicizia, mi auguro di poter ricorrere all’Azione. Ditemi se mi sarete compagni in questa impresa, che avrà come obiettivo ciò di cui a volte abbiamo parlato: la conquista di Buenos Aires alla Bellezza.” È vero: era una vecchia idea del Presidente di poter un giorno redimere la grande città, il cui destino egli sentiva poderosamente, e salvarla. Come nessun altro egli aveva penetrato il significato della sua storia, la verità della sua grandezza. Ma era necessario epurarla da certe frenesie di comportamento, da certe sciocchezze. Così il Presidente li aveva esortati, altre volte, con quelle che Forsegenio chiamava le sue lucide meditazioni: 245

“Se la solennità, il dotto atteggiarsi, le statue e le strade con tanto di cognome fossero proporzionali alla virtù e alla profondità di pensiero, quanta poca gente di questa stoffa ci sarebbe; il vivere non richiederebbe tanta pazienza, né sarebbe così diffusa la tentazione di compiere una villania in cambio di celebrità. Per adesso la profusione di statue, anniversari, volumi di storia, cognomi di vie e scritti che assicurano la virtù rendono molto sospettosa questa società della povera gente perdonabile come noi tutti; è stupefacente notare tanto sforzo negli uomini per apparire buoni, in una civiltà così innamorata delle serrature Yale e delle belle maniere, trappole per addormentare vittime. Città di miglior gusto avrebbero strade chiamate: della Pioggia, del Risveglio, la Madre, il Fratello, il Richiamo, Vive senza Mai, Tornerai, Addio, Aspettami sempre, il Ritorno, la Famiglia Amorosa, Bacio, Amico, Saluto, Sogno, Ancora, Veglia, Forse, Ricomincia, Oblio, Intraprende, Torna da Me, Ritrovo d’Amici, Vivi di fantasia, Dolore Fantasia, Siepe Fiorita, il Cammino Rugiada, la Risata, Desco Familiare, Sorride, Chiama Me; e il gran viale l’Avvenire Sogna con l’Oggi Attraversato dal viale dell’Uomo Non Identico. Dare alla vita luce, non cenere”. Come fu stupefatto lo sguardo, gli occhi spalancati che cercavano una direzione e vedevano il fantasma del futuro e il cammino incerto dinanzi a un futuro dubbioso e a un presente felice ormai mutato. “Un giorno — aveva concluso il Presidente — neanche a voi basterà più l’amicizia”; — e così rimasero, in quelle ore che precedevano l’alba, gli sguardi smarriti nell’aria, guardando il futuro senza volerlo vedere; faceva troppo male guardare il pavimento, la casa, il presente che tanto amavano accarezzare con lo sguardo. Come fu lungo lo sguardo che, in quell’alba, il Presidente serbò alla figura di Dolce-Persona, addormentata nel suo letto, che si agitava nel sonno turbato dall’angoscia causata dalle parole che poche ore prima aveva udito insieme agli altri, parole che prendevano commiato dall’amicizia, 246

parole di dolorosa sconfitta del Presidente che il suo affetto aveva intuito in quella decisione. E sognava e soffriva del presente interrotto, delle mattine che non li avrebbero più visti allegri in cucina o in giardino, delle serate in cui non sarebbero più stati insieme a tenersi compagnia, spensierati, allegri o addolorati dalla pena di qualcuno, serate lievi nell’armonia del vivere comune, un breve istante nello scorrere piacevole dei giorni. Triste per il futuro di Dolce-Persona, per il presente suo e dell’Eterna, con il pensiero rivolto a tutto ciò a cui avrebbero condotto i passi dell’Eterna, così fu il suo sguardo, mentre poggiava il gomito sulla spalliera del modesto letto di Dolce-Persona e si reggeva la fronte con la mano per proteggere lo sguardo, il viso che faceva angolo con il letto e lo sguardo rivolto a lei, che faceva angolo con il suo viso. L’amicizia apriva loro gli occhi e vedevano fantasmi; gli occhi degli amici si colmarono di fantasmi; gli sguardi si fecero vuoti alla proposta del Presidente. “È mai possibile, Presidente, che l’amicizia non basti?” Ma, dinanzi alla convinzione del Presidente di sopprimere la bruttezza di Buenos Aires, tutti erano ansiosi di essere i conquistatori della bellezza e del mistero. “Erano felici; potevano essere stati felici” — Si è spezzata! — Non piangere, ce n’è un’altra uguale! — Ma la Vita non è così: l’amicizia che abbiamo avuto, limpida e felice, non sarà più la stessa. — Presidente: E un amore che un tempo non potè essere non potrà essere… — Forsegenio: In me nacque subito e lo custodirò in eterno, pur senza l’amore di lei. Cos’è l’“io amato”? Una parola. Considererò come mio l’amore che ella prova per lui. 247

— Dunamor: Nella vita. Ma nell’eternità personale? Il tempo individuale eterno è Possibile per tutto; l’impossibile esiste solo per lo spazio e il tempo: trovarsi, e al contempo non trovarsi, in un dato luogo; accadere e non accadere nello stesso momento: queste sono le sole impossibilità. A dire il vero, non esiste l’impossibile bensì il contraddittorio, vale a dire ciò che è senso privo di significato. Amare e non amare è contraddittorio, ma non amare oggi e amare domani non lo è. — Presidente: Mi offrite l’eternità e, in quella, la possibilità totale; e in quest’ultima la mia identità invariabile. Ma non può dirsi “identità” quella di chi, oggi, non può amare un’amante perfetta e, il giorno dopo, può farlo. Forse non sono io, un’altra persona, quando sento ciò che prima non sentivo? Ma Dunamor tacque, e qualcuno può pensare: ciò che più mi piace ne “Il Romanzo” è la discrezione di inesistenza, la relazione invisibile e impossibile con il Non-EsistenteCavaliere.

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CAPITOLO IX (Nel tempo tra due espulsioni di Federico che ogni giorno si avvicina venti volte a “Il Romanzo” deserto.)

La Conquista di Buenos Aires Già da tempo il Presidente seguiva con attenzione le notizie della feroce rivalità in fermento tra le due fazioni antagoniste in cui era divisa la popolazione di Buenos Aires: i Commoventi e gli Esilaranti. Ognuna di queste fazioni mirava al dominio assoluto: la prima per mezzo della poematica ultracommovente e l’invenzione di storie appassionanti, la seconda grazie ad una letteratura e ad una molteplicità di ingegnosi dispositivi collocati in vari punti della città al fine di provocare effetti grotteschi. Tra gli espedienti della Fazione Esilarante, ricordiamo quello di aver imposto, manu militari, di gonfiare e torcere gli specchi della città: bizzarria ordinata ed eseguita in ventiquattro ore e che scatenò una vera crisi di isterismo esilarante per cui il traffico, il commercio e l’industria di Buenos Aires furono paralizzati per un’intera settimana. (Espediente che il Presidente fu sospettato, a torto, di avere ordito cosa che avrebbe spiegato i suoi frequenti viaggi e permanenze nella capitale.) La settimana successiva fu dominata dai Commoventi. Impadronitisi di tutti gli altoparlanti della città, fecero ripetere tutto il giorno, in coro, il poema lacerante di una donna in età avanzata, dai modi sgarbati, che con voce suadente 249

e giovanile aveva fatto innamorare un giovane cieco la cui donna, la sera in cui doveva attendere l’arrivo del fidanzato, al quale un geniale chirurgo era riuscito a restituire la vista, si suicida bruciandosi su una pira così potente da ridurle a cenere il volto e il corpo in pochi istanti; intanto il giovane fidanzato, convinto che la sua amata, preparandosi ansiosa a riceverlo con i suoi abiti più belli, fosse morta in un incendio accidentale, impazzito si butta dal balcone. Questo racconto in versi fu ripetuto da tutta la popolazione a colazione, pranzo, merenda e cena; in modo che, al termine della settimana commovente, anche un bambino sarebbe stato capace di impadronirsi del governo di Buenos Aires. In verità, la donna del racconto fu doppiamente sfortunata: non resistè all’idea di vedersi contemplata con orrore dall’amato che credeva in lei e la immaginava bellissima, mentre questi non avrebbe provato alcun orrore perché una persona nata cieca non è capace di immaginazione visiva; e quando recupera la vista forse non sarà mai capace di distinguere il bello dal brutto, potrà solo abituarsi a farlo. (Neppure tra i metafisici mancava la guerra civile: fra gli Animisti, desiderosi che la Coscienza Umana giungesse al Terzo Rispecchiamento, e gli Automatisti, che consideravano il ritorno alla Psichicità Zoologica come il ritorno alla somma sapienza.) Il Presidente meditava su questa discordia cittadina e, conoscendo la disposizione alla tolleranza, alla convivenza pacifica che caratterizza le società argentine, per nulla inclini al fanatismo, aveva riflettuto a lungo e infine creduto che questa esasperazione inusitata dei porteños doveva avere il suo germe psicologico, ma irriflessivo, in diversi errori compiuti dalla città nel corso degli ultimi trent’anni e in qualcuno, forse, di tempi più remoti: in modo particolare, la trascuratezza nel vigilare i gusti e le pratiche estetiche della convivenza civile. Allo stesso modo il Presidente attribuiva parte del disincanto della vita porteña alla mancata realizzazione di qualche fatto storico che avrebbe dato lustro al passato della città ma che non si compì. 250

Estirpata la Bruttezza dalla sua storia o dalle sue strade, posto riparo ad alcune ingiustizie storiche o alle intemperanze dell’entusiasmo cittadino, la lotta fra le due fazioni sarebbe cessata e Buenos Aires sarebbe rimasta eternamente conquistata dalla Bellezza e dal Mistero. Fu così che il Presidente giunse a Buenos Aires con il suo seguito piccolo ma agguerrito, e con il piano di convocare i rappresentanti delle due fazioni per convincerli che le loro imprese, così dissonanti con lo spirito di Buenos Aires, altro non potevano essere che il frutto di un impulso, o suggestione, o causa che essi stessi ignoravano. E i Commoventi e gli Esilaranti si persuasero della sterilità della loro disputa e della fecondità di belle opere che si prometteva al loro sforzo comune. Come accadde? Per miracolo di romanzo! (Miracoli più astrusi, come quello delle immacolate concezioni, per secoli hanno fatto vivere l’umanità sotto il giogo dell’incomprensibile. Così come, più tardi, il paradigma del non essere compresi da nessuno ha reso celebri, grazie alle lodi di chi non li capiva, alcuni filosofi. Simili glorie sono più miracolose dei modesti, utili miracoli di cui si serve il romanzo.) E grazie ad alcuni espedienti ingegnosi e ameni, esasperanti o incantevoli per la popolazione di Buenos Aires, tanto da sottometterla tutta alla truppa del Presidente. Ad esempio: far passare fra i tavolini dei caffè, tra odori d’alcool e tabacco, una pentola bollente di un magnifico e saporito minestrone che spande il profumo casalingo e commovente dei suoi vapori dissipando così quegli umori d’orgia; l’irrigazione imperfetta degli alberi nelle piazze o lungo le strade, trascurando di annaffiarne alcuni, cosa che fa disperare chi guarda; la donna che chiede a tutti se ha il viso più largo o più lungo; gli specchi fissi e sottili che servono soltanto a riflettere la metà del viso; macchine fotografiche automatiche, distribuite di nascosto; grassoni e sordi pagati per andare in giro a infastidire tutti; tutta la gente che grida ai sordi e 251

che guarda i grassoni mentre discutono con il bigliettaio dell’autobus: “Sissignore, Io supero i novanta chili: porti la bilancia!”, e si agita a causa di un decreto municipale che concede viaggi gratuiti a chi supera i novanta chili, previa pesatura; lo stridio dei turaccioli sfregati sulle bottiglie (esercizio prediletto di Forsegenio); il cappello messo a rovescio, la cravatta storta… Fra tanti espedienti, messi in opera indistintamente da tutta la compagnia del Presidente, uno assai singolare fu ideato ed eseguito dall’Eterna: far correre per le strade di Buenos Aires, da un capo all’altro della città, un messaggero con una lampada accesa, per portarla ad un artista che in quel momento era rimasto al buio e stava seduto al suo scrittoio, pieno di ispirazione. E forse quel messaggero ne incrociò un altro, che quel burlone di Forsegenio aveva mandato in giro per tutta la città: un trombonista che da una parte aveva il respiro paralizzato e, dall’altra, anch’essa paralitica, portava una candela accesa che non poteva né spegnere con un soffio né gettare via; e gesticolando supplichevole chiedeva che qualcuno la spegnesse, per non bruciarsi, percorrendo così vari isolati e finendo per bruciarsi, come gli aveva predetto Forsegenio, che voleva convincerlo dell’incredibile egoismo di tutta la popolazione — nessuno, infatti, si offrì di spegnere la candela — e che si proponeva così di giocare un brutto scherzo alla fama di fraternità e benevolenza di cui godevano gli abitanti di Buenos Aires quando, in realtà, questo atteggiamento negativo si doveva al sospetto dei passanti di essere vittime di qualche scherzo, al timore porteño della burla. Infine, gareggiando con Forsegenio nel dispiegamento degli scherzi conquistatori, la Dolce-Persona avviò un’indagine per scoprire chi fosse l’uomo di Buenos Aires più inetto a manovrare macchine e, al contempo, più miope: a lui inviò in dono una radio che strillava a tutto volume, dotata di un interruttore molto piccolo e complicato; ciò rese quello che inizialmente era un omaggio, una calamità finale, dato che il poveretto non sapeva come liberarsi dell’apparecchio 252

per riuscire a dormire o riposare perché, per quanto miope e maldestro, era d’animo riconoscente e gentile e non aveva cuore di metterlo a tacere con una martellata; e come se non bastasse, tutti gli ospiti della pensione in cui viveva gli si rivoltarono contro. Ricordo ancora i racconti paralizzanti fatti circolare ogni giorno a mezzanotte; le chiamate telefoniche elettrizzanti; le potenti calamite, distribuite di nascosto, che attraevano irresistibilmente tutto ciò che di metallico portavano addosso uomini e donne; e le buste-lettere, vale a dire lettere scritte su buste, e disseminate su tutti i sedili di tram e autobus, con la promessa di un premio a chi avesse scoperto se si trattava di buste con lettere o di lettere senza busta. (La busta-lettera era una vecchia trovata propagandistica dell’autore, messa in atto una decina d’anni prima con lo stesso proposito dell’attuale tentativo di conquista di Buenos Aires: dotare Buenos Aires del mistero che non aveva mai avuto.) Come poteva la popolazione trattenersi dall’uscire in piazza invocando a gran voce un Presidente Strappa-il-dolore di tali esasperazioni? Si potrà facilmente immaginare l’idealismo della conquista pensando alle poche imprese che sembra d’obbligo ricordare; e così Buenos Aires fu resa accessibile ad ogni bellezza, una volta cancellati qualsiasi aspetto e traccia di bruttezza dalla vita porteña. Vari fatti del passato furono tacciati di inesistenza ricorrendo alla magia dell’Eterna capace di disfare passati e di metterne insieme di nuovi da sostituire a quelli. (Per questo, a volte, vedete l’Eterna così pallida e notate che non riesce a pronunciare le “enne” della sillaba finale “ne”: quando dice “passiome”, “salome”, ecc., si verificano le uniche manifestazioni di turbamento che si conoscano in lei, turbamento che accade solo quando ha compiuto nottetempo l’immane fatica mentale di annullare un passato e, più ancora, di inventarne un altro che consoli chi ha una storia dolorosa alle spalle.) Tra questi fatti ci sono: la fucilazione di Dorrego; il 253

martirio di Camila O’Gorman; il destino di Irma Avegno;1 l’esposizione delle penne di un certo scrittore all’adorazione del pubblico porteño, l’intelligente e modesto pubblico di Buenos Aires; la pubblicazione delle lettere di una certa Imperatrice, che rivelavano sentimenti tanto belli quanto turpe fu violare il loro intimo segreto. Un fatto che non accadde divenne reale per magia di romanzo: la presidenza dell’Argentina affidata a Carlos Pellegrini, il tipo più interessante di presidente, visto che senza un presidente sembra non sappiamo respirare: interessante perché era un uomo che non recitava commedie, così avremmo sperimentato se sarebbe stato possibile governare senza commedie. Si compì la bellezza della non-Storia; furono soppresse le cerimonie dedicate a capitani, generali, avvocati, governatori, tutte quelle in cui non si celebra il nome di alcuna magnifica opera di madre, alcuna fantastica grazia di bimbo, alcun suicidio inspiegabile di giovane sconvolto dalla vita; la morte fu lasciata ai morti e si parlò soltanto di ciò che vive: la minestrina, la tovaglia, il sofà, il lume, la medicina amara, le scarpette, la scaletta, il nido, il fico, il pino, l’oro, la nuvola, il cane, Presto!, le rose, il cappello, il sorriso, le violette, la cicogna (nulla è più bello di usare paroline dei bimbi per parlare di Allegria); piazze e parchi con il nome delle massime esperienze umane, senza cognomi; vie chiamate la Fidanzata, il Ricordo, il Fanciullo, il Ritiro, la Speranza, il Silenzio, la Pace, la Vita e la Morte, i Miracoli, le Ore, la Notte, il Pensiero, Giovinezza, Rumore, Seni, Allegria, Ombra, Occhi, Pazienza, Amore, Mistero, Maternità, Anima. Furono deportate tutte le statue che aduggiavano le piazze e al loro posto furono piantate le rose più belle; sol-

1. Cancellata ogni traccia dei passi di questa donna — irrevocabilmente disillusa dalla pietà umana — alla ricerca della morte volontaria per le strade di Buenos Aires e le viuzze dei sobborghi. [M.F.]

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tanto la piazza di José de San Martin1 fu sostituita da un’allegoria del “Dare e Andarsene”. Infine, nella città del presente, qualcuno sostituì il tempo immobile, come la storia, con un Presente fluido, in cui vi era memoria solo di ciò che quotidianamente torna ad essere, non di ciò che non si ripete, come gli anniversari. Perciò il calendario della città ha 365 giorni con un solo nome: “Oggi”, e il corso principale si chiama anch’esso “Oggi”. Ed ebbero termine molte altre cose di minore importanza, la cui minuscola tristezza può diventare l’orrore della vita, le cose avare e meschine, ad esempio: il bicchiere riempito a metà o la lampadina dalla luce fioca o la cravatta rigirata o i fiori artificiali sulle tombe. Quando la cittadinanza di Buenos Aires vide compiuto questo piano di epurazione della cultura, del suo passato recente, il benessere civile si ristabilì automaticamente. Tutti gli affiliati alla lotta commovente-esilarante si svegliarono un bel mattino chiedendosi come avessero mai potuto vivere una vita fatta di idee irremovibili e di una battaglia tanto banale quanto avventata. E al Mistero fu resa giustizia quando il Presidente, compiuta la conquista, rivelò il fatto più singolare mai accaduto in alcuna città e di cui egli era stato l’unico testimone consapevole: perché un giorno del 1938, nel pieno di una vita insignificante e frivola, quando il corpo di Alfonsina Storni2 toccò le acque della morte, la città si era spostata sul

1. José de San Martin (Argentina 1778 - Francia 1850), eroe dell’indipendenza del Cono Sud, come Simón Bolívar lo è stato per i paesi andini. [N.d.C.] 2. Alfonsina Storni (Ginevra 1892 - Buenos Aires 1938). Una delle figure più originali nel panorama delle poesia latino-american di tutti i tempi, la sua poesia come la sua personalità trasgressive e anti-maschiliste, la portarono all’isolamento e infine al suicidio accompagnato dalla pubblicazione del suo sonetto “Voy a dormir” (“Vado a dormire”) che recitò addentrandosi nel Mar del Plata dove annegò. [N.d.C.]

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suo asse, girando su se stessa di alcuni centimetri. Il Presidente, ancora perplesso nell’ignorare se questo slittamento urbano fosse stato un clamoroso grido di: “non morire!”, o un segno di approvazione, sia pur dolente, a un temuto e triste rifiuto di vivere, sa che, grazie a questo fatto e alla sensibilità di una città nell’istante in cui muore un’anima sognatrice, Buenos Aires era entrata nel Mistero. Il mattino dopo, alla stessa ora, il Presidente e il suo seguito, tornati alla dimora “Il Romanzo”, si scambiavano il buongiorno. Ma quella notte il Presidente tornò a Buenos Aires e io so perché: per assegnare alle due Piazze Centrali i nomi di “Città senza Morte” e “Degli Uomini Non-Identici”; questi appellativi si completavano a vicenda, nel punto di unione tra le due piazze. (Il non-identico è esente da morte.)1 Grazie a questi rimedi e speranze, alla Morte Beffarda inventata dall’Eterna e alla Barzelletta-Sorriso Resuscitante creata dall’Umorista, Buenos Aires fu benedetta.

1. Forse qualcuno trova di scarsa lucidità la tanto promessa Conquista di Buenos Aires alla Bellezza e al Mistero. Era inevitabile: ciò che è imperfetto, tronco, e forse insipiente in un’opera che fu solo pensata come cura, per l’Azione senza Oggetto, di uno stato depressivo e di smarrimento dell’uomo che la ideò. Se questo capitolo della Conquista fosse stato realizzato dall’autore in modo fresco e grazioso, ciò avrebbe falsato la psicologia di quell’Azione. Riguardo al resto, soddisferò il mio incredulo e arguto lettore confessando che il capitolo è semplicemente l’opera di un autore in fase di esaurimento, che non ce la fa più. Nonostante la precedente confessione, non posso evitare di verificare la presenza di 63 lettori congedati che esigono uno stile impeccabile. [M.F.]

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CAPITOLO X

Un colloquio, di ritorno a “Il Romanzo” — Dolce-Persona: Ascolta, Forsegenio: ciò che forse dovrei dire, in un romanzo così ordinato, in un capitolo successivo, che non è ancora iniziato, te lo dirò adesso. Non posso trattenermi: oggi si agitano nel mio animo tristezze, desideri, e un affanno, un disagio di tutto il mio essere, un’insoddisfazione, un lamento. Hai visto il Respirare di coloro che vivono? Che mistero! Che ansia sarà questa, che mai proveremo: respirare? Che dignità, che comunione con il cosmo! — Forsegenio: Questo sì che mi fa soffrire. — Ti voglio bene Forsegenio, mio triste amico; in questo momento ti amo. Soffriamo, dunque, di tutto ciò che abbiamo da dire e non tacermi nulla, grida o dimmi quello che vuoi. — Il dolore che proviamo è di personaggi: sono lacrime che non scorrono, che non rendono tiepide le guance. Respirare! — Sì, respirare. Come disse una volta l’autore di questo romanzo: Né grato né lamentevole Respiro l’aria della Vita.

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(L’autore corregge: anche “Aria” vuole la maiuscola! Ebbene sì, signori, i miei personaggi — e doveva essere proprio Dolce-Persona! — mi citano, mi rendono famoso. E mi addolora vedere come Dolce-Persona desidera vivere, mentre non c’è nulla in mio potere che possa darle una vita. Posso soltanto, e di buon grado, perdonarla e lasciare che si sfoghi dicendo qui quello che avrebbe dovuto dire nel capitolo dodicesimo. Lo confesso, sento che, a poco a poco, un amore mi pervade; e se cresce in me, se mi innamoro (e potrebbe ben accadere), allora sì che saprò cos’è il dolore, l’umiliazione dell’impotenza, il vano desiderio di una cosa impossibile, da me stesso originata: un sogno così intenso, capace magari di mutarsi nella più tenue realtà. Benché come artista non mi convenga — la continuità della menzogna è la dignità dell’Arte del romanzo —, dirò che Dolce-Persona esiste; non lo direi se non fosse che, mentre scrivevo questa nota, mi esaltai accorgendomi che iniziavo ad amarla: restai per un attimo così, triste per l’impossibilità di tutto ciò, dimenticando che lei esisteva e potevo udire la sua voce mirabile con una semplice telefonata; soltanto quando mi fu chiara l’impossibilità dei miei poteri di darle vita, compresi subito il tormento di desiderare per un’altra persona la vita di ciò che non è reale, lo stesso desiderio che ha per sé Dolce-Persona, come ho appena insinuato. L’essere da me creato desiderava la sua realtà, così come il suo autore, scontrandosi con la stessa impossibilità; come è facile che la mente si scordi, si confonda, si impigli, e il sentimento si smarrisca rispetto al suo oggetto, e al luogo, reale o fantastico, in cui esso si trova. E ancora non so se il mio romanzo è nato grazie all’impulso di una così elevata femminilità, se l’Eterna già viveva o se, come personaggio, è nata qui o altrove. Tutto ciò non implica una scuola realista, perché non ho copiato nulla dell’Eterna; nessuna mente di artista si arrischierebbe a farlo, né tanto meno vi riuscirebbe; né ho voluto dare, a questo, il titolo di “Romanzo dell’Eterna”, benché sia stata lei ad ispirarmi, ad affinare in me molte percezioni grossolane, ad arricchirmi ogni giorno di misticismo e passione.) 258

— Forsegenio: Oggi ci siamo guardati più che mai e lo stesso avviene in questi mesi, molte volte, quando mi fai compagnia e mi aiuti a sbrigare le faccende. Sento la tristezza della breve esistenza che avremo nel romanzo; voglio sfogarmi, parlare sinceramente. — Dolce-Persona: Mi stupisci, e mi inquieta il pensiero di ciò che mi dirai. Ti credi così privo di vita? — No, Dolce-Persona: io esisto, e voglio esistere, perché ti ho conosciuta. Vivremo la disperazione di scoprire che non c’è nulla che possa darci vita? Dopo averti conosciuta, così graziosa, dopo averti trovata qui in modo così dolce, arrivata da me in modo così inaspettato; e così direttamente, proprio da me, quando arrivasti e ci incontrammo sul portone; e dopo essere stati così vicini, qui… — Sei tanto caro, tanto gentile… — E tu? — Se avessimo qualcosa dalla vita! — Non siamo irreali, Dolce-Persona. Se lo fossimo, come lo sono i personaggi dei film, staremmo fumando. Avremmo la vita, e continueremmo a chiederla; e abbiamo lo stesso essere di tutti coloro che avendo avuto la vita si trovano a morire, il debole essere del moribondo che a gesti e a parole chiede vita, ma in realtà non prova alcun dolore nel perderla, né ci crede, né cessa di essere. — L’autore: Mi stanno proprio scocciando! Cos’è mai questa impazienza di essere che li fa soffrire? Chi avrebbe immaginato che i miei personaggi — non è capitato a nessun autore; molti sono riusciti a creare personaggi felici come Amleto e Sigismondo, personaggi inclini al non essere — mi avrebbero addolorato a tal punto con questi loro capricci? — Il lettore: Che confusione! Dove li andrò a leggere, se cominciano a vivere? Che lascino il loro indirizzo. E poi: cosa vogliono di più, oltre ad essere graditi alla vita? E infine, il titolo del capitolo non diceva forse: “Qui si tratterà della più spaventosa disperazione che si possa immaginare”? L’autore: Lei mi lusinga! Se non fosse per i personaggi capricciosi, sarei davvero felice di avere lettori come lei. 259

Come è bella e assoluta la disperazione che ho ideato, non crede? — Il lettore: I personaggi mi fanno pena. Ma io esisto, C’è forse un altro capitolo con questo desiderio di vivere? Se è così, non leggo più: non ho mai visto uno spettacolo così sconvolgente. (Passa l’uomo felice che cerca, nonostante tutto, il paese dove è bello essere felici. Somiglia al Presidente: ha tutta la felicità tranne la teoria della gioia.) — L’autore: Oh, come comprende il mio grande pensiero. Comunque, non posso prevedere quello che salta in testa ai personaggi; di quanto essi stanno per dire o per fare, io conosco soltanto ciò che è leggibile. Tu stesso, lettore, qui sei opera mia e comunque… — Il lettore: Qui, certo: ma in me stesso? — L’autore: Vedo che ti piace vivere; dunque è necessario che qui io non ti menzioni, né ti faccia più parlare, se non per farti innamorare di Dolce-Persona. (A parte.) Ho il potere di creare apparenza e morte, di sostenere tutto ciò, ma c’è qualcuno sulla terra nella cui anima vorrei essere sognato, e non ci riesco! — Il metafisico: È una fantasmagoria ingarbugliata di personaggi, lettore, autore. E non è che fingano di ingarbugliarsi: non sanno chi sono. Eppure questo non risolve ogni cosa: sono tutti reali; ogni immagine in una mente è realtà, vive; il mondo, la realtà, non sono che immagini in una mente. Ciò che non è immagine è Affezione: piacere, dolore. L’esistere non è pre-desiderabile; nel pre-desiderio di essere vi è già essere; ciò che non esiste è il principio, il non essere stati, cui attribuiamo il desiderio di essere. — L’autore: Non lo dubito. Considerati congedato! Ora smetterai di esser nella mia mente, nel romanzo, e che questo possa continuare! Muori, professore dell’essere! Non esisti più! — Il metafisico: Aspetta, non mi cancellare. Ascolta: altro non possiamo essere che immagini in una mente, con 260

una forma e un corpo; la nostra apparizione in una mente è una nascita. — L’autore: Fuggi, Metafisico, fuggi spinto dalla frustrazione, come avviene sempre, qui. Il metafisico: Chiamami a darti illusioni nei tuoi ultimi istanti. — L’autore: Intanto vediamo come sono i tuoi; non ti scrivo più. Smetti di esistere! (E davvero l’autore smise di scriverlo; ma è così incredibile avere il coraggio di fare a meno di un ontologo che il lettore si convincerà da solo che qui non si parla più di lui soltanto quando avrà letto tutte le altre pagine del romanzo.) — L’autore (Al lettore): Affinché non si creda che, esiliato il Metafisico, il romanzo sprofondi nelle tenebre, le dico che il mio privilegio non è quello dell’immortalità, perché questa caratteristica è sua, mia e di tutti; il mio privilegio è che, mentre lei oggi non sa nulla, non ricorda la sua ricca esistenza meramente coscienziale di prima, io, sforzandomi e mortificandomi per molti anni, sono riuscito a recuperare tutta la memoria della mia pre-esistenza coscienziale. Ciò mi aiuta a concepire la post-esistenza coscienziale, l’eternità personale. E di ciò che mi è più gradito ricordare, posso offrire una copia…

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CAPITOLO XI (Parentesi nel romanzo per un frammento del saggio sulla teoria de: il romanzo letto dai personaggi di un altro romanzo.)

— Forsegenio: Stanotte, poiché non riuscivo a dormire, mi misi a leggere un romanzo. Abbondava di amori ed eventi inattesi, vi accadevano le cose più straordinarie. Ti dirò che, quanto a fantasia, io non mi sento da meno. Che ne diresti se, almeno una volta, provassimo a realizzare l’idea di Dunamor impegnandoci tutti a scrivere un romanzo? — Dolce-Persona: Sono d’accordo. Qui, alla dimora, accadono tante cose interessanti: basterebbe raccontare il riposo pomeridiano del sabato, mentre noi tutti passeggiamo nei boschi, lungo il fiume, e avremmo già un argomento. Facciamo questa sorpresa al Presidente? — Ma sono certo che a Dunamor è venuta in mente una trama sottile. — E semplice come lui. — Adesso, però, voglio leggerti un capitolo del romanzo che ho letto stanotte. Si intitola Adriana Buenos Aires.1 Ti va? — Comincia, sto già morendo dalla curiosità di sapere come saranno quelle persone! 1. Romanzo allora inedito, oggi Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto), in Obras Completas, cit., 1974, vol. V. [N.d.C.]

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— Ti leggerò alcune scene. “Passionale giovane addormentata: quale palpito dell’anima tragica delle cose ti fa, innocente, maestra di tentazione, perché tutta la miseria che ho raccolto in me bruciando i miei dolori nella vita, perché tutta la cenere amara e stolta dei miei dolori mi sommerga, perché, tremante di crimine e miseria, mi levi sudato e singhiozzante, pallido nella pallida luce di quest’alba…! Qualsiasi cosa possa fare con te, Adriana, qui e ora, sarà l’unico non-Impossibile, l’ordine della tragedia. Non so perché mi alzo dal mio luogo oscuro e mi vedo, tremante nella luce tremula dell’alba, fermo davanti alla mia porta, chino sul tuo letto, che è il mio. La solitudine mi spinge alle spalle verso quest’angolo della casa addormentata; e il passato e il futuro io li calpesto con rabbia. Tutto è soltanto una macchia nel mondo.” — Com’è triste tutto questo. — Ti sembra o hai forse la sensazione di trovarti in una situazione simile a quella di questo personaggio o, anche se non c’è somiglianza, provi una sofferenza così intensa? — Vorrei essere quel personaggio. Adesso non si tratta di leggere allegramente un romanzo. Io non vedo fine alle disperazioni. — Fa’ uno sforzo per non tornare ai tuoi pensieri disperati. Credo che per te e per me, finché restiamo uniti, sia desiderabile vivere. Non è vero che la nostra attuale esistenza è appetibile. — Continua a leggere. — Ma la cosa più patetica è che la povera ragazza, addormentata, crede sia Adolfo, il suo amante, a parlarle; mentre si tratta di un amico comune, innamorato di lei. E questi non sa decidere se baciarla o meno. — Leggimi questa pagina; e che il nostro dolore accompagni il dolore di questi personaggi. — “Creatura benedetta, seno d’amore, giovane già resa madre, mi dico, chino sul suo sonno. Se ti baciassi e mai tu lo venissi a sapere, tu che non mi nomini nei tuoi sogni e credi che io sia colui il cui nome pronunci, e mi chiami col 264

nome di chi ti amò e ti rese madre e mi accoglieresti nel tuo letto con un abbraccio dolcissimo… non ti bacio perché dormi, e ti risveglierei a una realtà di dolore; non ti bacio perché non so che cosa nasconda questo mio desiderio di baciarti: affetto? desiderio? vendetta nei confronti di lui? vanità di saperti baciata da me, per sempre?” — Passioni dei viventi, chi riesce a provarle? — Non è meglio essere come noi, soave Dolce-Passione… scusa… Dolce-Persona? Che cosa pensi delle cose che accadono a questi esseri? — Sono come noi? Più felici di noi? Sono come il lettore e l’autore? — Vorrei spiegarti la loro natura, a quale regno appartengono, ciò in cui credono e qual è il loro destino. — Preferisco che tu mi racconti la storia di quel bacio. — Ecco che esita ancora una volta, poi la bacia. “No; ti bacerò sulla bocca, Adriana, perché cerco il bacio d’amore e tu dovrai ricambiarlo. Ora è tutto chiaro: ciò che mi spinge è solo l’amore. Dopo questa notte disperata, non ho la forza né la lucidità di negarmi questo sollievo alla sete, questo appagamento.” — È terribile, la “vita”. Tremo al suo cospetto, mi spaventa. Ma lo sai che a momenti, quando leggi con questa veemenza, mi sento come sollevata dalla Vita? — È possibile. Stanotte, mentre assistevo in veste di lettore a una delle scene più drammatiche, sentii levarsi il mio respiro ma fu soltanto per un attimo tanto che, forse, sognai soltanto di effettuare quell’atto che i viventi chiamano “respirare”. Fu una sensazione… non so come dirti, non abbiamo parole adatte ad esprimerla. — E come si conclude la scena che mi stai leggendo? — Dunque, mentre si china a baciarla sussurrandole: “Cerco la tua bocca, Adriana, baciamoci”, un’ombra si mosse nello spiraglio di luce della porta socchiusa. — Voglio la vita! Voglio queste apprensioni, queste tenebre; voglio la vita! — Il lettore: Adesso sono io che la perdo. In questo 265

istante sento di non esistere. Chi si è preso la mia vita? — L’autore: Datti un pizzicotto; devi tirar fuori da te stesso il suono che ti annunci la realtà, l’essere. Nessuno può darsi un pizzicotto in sogno! — Forsegenio: Non ti sembra che il lettore ci stia ascoltando? — Il lettore: Io dico che non capisco. — L’autore: Ma, lettore, lei dunque non ha letto come si deve, a singhiozzo. È caduto nel vizio di leggere tutto d’un fiato. Il mio non è un romanzone. Non è il suo genere essere perfetto, impeccabile; non c’è ricetta per la sua naturalezza di opera d’arte. Non si colpevolizzi il romanzo per avere come autore un principiante! — Il lettore: Ah! — L’autore: Quanto a me, io non sono il Presidente; ora sto per sapere chi sono. Se mi sbaglio sarò soltanto un finalista, ma avrò avuto per errore un’allucinazione esaltata che posso ben considerare una fortuna. Il Presidente mi fa pena; per lui vorrei la vita e tutto un amore. Ma non lo vedo sulla buona strada: l’intelligenza lo consuma, vacilla fra la passione e il mistero dell’essere. Gli manca una parola, una soltanto, una sola percezione che lo salverebbe. Così dice a se stesso: Ci sono quattro opzioni: il Mistero dell’Essere, la Passione, la Scienza e l’Azione. Ma non è così. La Scienza e l’Azione sono passatempi, sono il vivere per vivere, la longevità. Non ci sono scuse per i passatempi, sono tutti abbiezioni (di potere, di erudizione, di gloria, di richezza), infimi godimenti; le abbiezioni della seconda e terza parte del “Faust”, il baloccarsi con i piccoli desideri, giustificabili solo come esercizi dell’infanzia. La risposta è: nel mistero vi è una chiarezza assoluta, la Certezza, e una soltanto: la Passione. La certezza è essenziale allo stato mistico; ma il vero stato mistico non è la religiosità, è la Passione. Non sono le religioni — tutte malate di negazione del nostro essere, di una subordinazione che fa di noi mere apparenze prive di realtà —, ma la Passione, coscienza di pienezza e di eternità, a nulla subordinata. Ho scritto il romanzo per rallegrare l’Eterna, che vuole 266

vederlo finito ed è convinta che lo troverà appassionante. Sarò dunque l’autore di una metafisica immaginaria e di un romanzo metafisico. Voglia il cielo che l’Eterna non ne rimanga delusa, e non tenterò più nulla in Arte per non correre nuovamente il rischio che adesso, con grande timore e sconforto, affronto scrivendo queste pagine. E ancora, poco fa, mentre scrivevo ebbi paura; perciò dovetti dire con forza: “Io non sono il Presidente”. Attossicamento, vertigine spaventosa: per un istante tremai, volli, credetti di essere personaggio senza vita del mio romanzo, creando il Presidente, creandolo così simile a me. E tutti i miei personaggi, ormai, hanno voluto vivere. Sarà così triste quando mi diranno addio, prima di scomparire: “Coloro che hanno voluto vivere ti salutano”. Il ramo cede al posarsi di un uccello — Presidente: Conosce i due piccoli detriti: quello dell’aria che “entrò negli occhi” (i dispeptici spirituali girano il mondo con un piccolo detrito negli occhi), e il detrito del tempo, i minuti di un arrivo affannoso, una fretta vana, perché in essi non potrà mai anticiparsi ciò che deve accadere? — Eterna: No, io conosco le due piccole tristezze: quella del sorriso che non rispose allo sguardo che non si ripeterà, e quella romanza di Schumann che non potemmo ascoltare insieme. Tale è il potere dell’Eterna, che lei sola al mondo può creare certe differenze ritenute impossibili: perciò il Presidente, dopo essersi versato una tazza di tè, le chiede sempre di mescolare lo zucchero con il suo cucchiaino dato che nessuno potrebbe farlo con la sua stessa autorità e precisione. E c’è qualcosa di ancora più impossibile: l’Eterna può mescolare il tè in modo tale da renderlo meno dolce nonostante la quantità eccessiva di zucchero versato.

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— Dolce-Persona: Avanti, avanti; è la Vita che sta nascendo in noi. — Forsegenio: Neanch’io, oggi, voglio che si dubiti che vivo. — Dolce-Persona e Forsegenio: Allontanati da noi, Vita, che siamo tanto felici! O no? — Il lettore: La vertigine è passata. La vita mi recupera. Dov’era la mia coscienza in quell’istante? — Dolce-Persona e Forsegenio: L’avevamo noi, e ci ha insegnato cosa vuol dire essere uomini. Grazie! — Adriana Buenos Aires: Per favore, volete lasciare in pace la nostra vita privata? — Dolce-Persona: Un momento, cara Adriana: il vostro bacio ci ha dato la vita. Autore, dacci la parola di cui abbiamo bisogno. — Forsegenio: Adriana e Eduardo de Alto, custodiremo il vostro segreto. Ora vi offriamo il nostro: io e Dolce-Persona siamo due personaggi del “Romanzo dell’Eterna”, due ottimi amici. — Eduardo de Alto: Il nostro amore non ha motivo di essere taciuto. E voi imparate, nel caso che la vita vi renda un giorno persone come noi, e possiate amarvi.

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CAPITOLO XII

Modello della pagina sciolta di un romanzo Definizione di dolore del passato, gioiello sentimentale che l’Eterna seminò nel suo petto; chiamiamolo meglio dolore di un sottilissimo Impossibile, purificato soltanto nell’anima dell’Eterna, perché nell’Essere o Mondo non si dà alcun impossibile, né in alcuna anima può sussistere questa emozione di un vero impossibile, creato nella mente dell’Eterna. Questo impossibile si trova nell’irreversibilità, nella nonannullabilità di una qualsiasi porzione del passato di un qualsiasi oggetto sensibile, cosa che non si manifesta come sentimento finché tale soggetto non si imbatte — in modo sempre accidentale, che può verificarsi o meno — nell’amata, ovvero in una persona che egli può amare più di se stesso. L’Eterna, che è l’unica persona umana (individuale, non ideale) dotata del potere di cambiare il passato altrui, anche quello del suo amato, non ha alcun potere di cambiare il proprio. E inoltre non può accettare con animo rassegnato che il suo amato non l’amò sempre, ma soltanto dopo il fatto secondario e insignificante di “vederla” e avrebbe anche potuto non vederla mai passargli accanto, indifferente, ignorarla o addirittura irritarsi nel trovare in lei un lieve ostacolo al suo cammino, ostacolo che non guardò neppure, assorbito com’era dalla sua ricerca. 269

Quando si conobbero lei trasformò il passato del Presidente, in modo che egli non poté più ricordare un solo istante in cui si fosse trattenuto dal conoscerla o dall’amarla; l’Eterna vede se stessa senza di lui e quasi tutta la sua storia senza il suo amore. E anche quando il Presidente le ha fatto concepire — e, anche se non del tutto, credere nell’eternità e nella memoria personale eterna — e anche quando lei stessa crede nella loro eternità dopo la morte (ma non dopo l’oblio), tuttavia l’Eterna, a causa di quel passato, teme il futuro. Forse crede che, un giorno, per un volta, il tutto-amore si realizzerà, nonostante ella conservi sempre un senso di sconforto per il non-amore e per il mutuo disconoscimento, in quel passato privo di visione e passione tra loro: ma anche così Eterna è turbata dal futuro d’amore. Risposta del Presidente Quelle lacrime, Eterna…! Quelle lacrime che poterono scorrere soltanto dai tuoi occhi, sono la cresta dell’onda più alta che mai si levò nell’Essere o Realtà, sono l’opera suprema del Mondo, belle come una compiuta ragion d’essere, dopo la quale anche l’estinguersi della Realtà è possibile e giustificabile. Le tue lacrime del mistico impossibile di un amore senza passato di non-amore, occulto dolore del tutto-amore, che in molte donne traspare appena e in te è costante in ogni momento, le tue lacrime sono una domanda supplichevole che mi riduce a pensare che non riesco a eguagliare il tuo Sentire, poiché le mie certezze di pensiero, di futuro, nulla possono rispondere al tuo interrogativo sul non-essere del passato, al tuo desiderio di non essere prima di amare. Le tue lacrime del timore e dell’affanno di un’esistenza senza fine, di un’estinzione impossibile. Il problema è per me arduo e grave, per il tuo bene, Eterna; devo consultarmi con uomini di magnifica intelligenza e nobiltà: pagine di William James, Schopenhauer, 270

Hegel, Fechner, mi aiutano facilitando il mio sforzo di onnicomprensione. Ho letto, ho meditato, mi chiedo e mi rispondo: In un qualsiasi presente mentale può decretarsi ed effettuarsi la distruzione di un passato, perché in tale presente un passato personale ha le due caratteristiche del “personale” e del “passato”; e l’operatività della psiche in quel momento può, con lavoro e costanza, dissociare quella data scena di un fatto passato nell’immagine attuale, dalle sue due caratteristiche o frange: da ciò che è proprio e da ciò che è accaduto, e trasformarla in immagine di occorrenza altrui e di mera fantasia, non di occorrenza propria effettiva e già avvenuta. Ciò che non si può distruggere, ed è indifferente, sono gli effetti dell’avvenimento passato. Tali effetti si avvertirebbero tuttavia come indifferenti al fenomeno della memoria e alla discriminazione tra “effettivo” e “immaginario”, e alla designazione di “altrui” e “proprio”; questi effetti si sentirebbero ma non come propri, aventi causa nel nostro passato. E ciò che davvero importa, l’effetto unico, temibile, di un passato senza amore rispetto a un amore attuale, non si dà: se un giorno, come crediamo già sia, si realizzerà fra noi la pienezza dell’Amore, ciò dimostrerà che nessun passato ha su di Lui alcun potere. E dunque mi sembra, Eterna, che sia specioso definire l’ardore che provate come il sentimento amaro di avere avuto un passato privo del nostro amore. È vero, in te c’è amarezza, ma non procede dalla nozione di un passato senza mutua visione bensì, credo, dall’insicurezza che il nostro amore di oggi sia amore pienamente riuscito. E così passo dall’una all’altra pena, e mi duole sospettare che sei certa soltanto del tuo pieno amore, e non del mio, e di questo ti rattristi, non del passato. La mantide elegante e indecisa che vuole entrare nel romanzo e si è fermata davanti al mio manoscritto.

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CAPITOLO XIII

Romanzi ne “Il Romanzo” Come ben sanno Dolce-Persona e Forsegenio, grazie alle conversazioni svoltesi nella dimora (le lunghe chiacchierate del sabato su argomenti d’arte e di scienza, avviate amichevolmente dal Presidente), quest’ultimo sta preparando un romanzo. Perciò vorrebbero suggerirgli come soggetto la vita ne “Il Romanzo”, in quanto un giorno qualsiasi di quella vita renderebbe incantevole ogni racconto. Il romanzo che il Presidente vuole scrivere — ma che, a suo parere, non scriverà mai — comporterebbe una concezione originale del “romanzismo della coscienza” o “romanzo senza mondo”. (Così in lui si alternano la passione di pensare e quella di creare.) Nel suo quaderno di appunti, Dolce-Persona e Forsegenio scoprono queste note: I personaggi, che non sono persone fisiche bensì coscienze, furono gente della vita, vissero nel Dualismo o Mondo; vivono adesso nell’universo dell’accadere coscienziale, assolutamente indeterministico (con determinismo

1. “Romanzismo”, in sp. “Novelismo”, neologismo dell’autore che con ironia si propone di inventare una nuova “bell’-arte”. [N.d.C.]

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intercoscienziale: ogni volta che si verifica uno stato intenso in qualcuno, esso si trasmette agli altri; ma perché si verifica uno stato intenso? Perché opera sugli altri? Questi “perché” non esistono: così si presentano i fatti, e questo è tutto.) Vivono come coscienze, operando casualmente fra loro; ogni coscienza ha il suo fenomenismo coscienziale; conservano la memoria del tempo corporeo; ma non sono soltanto memoria, sono attualità. (Eccetto Mnemonia, che è solo Memoria.) Qualcuno arriva con risentimento, oblio, paura o perplessità; il sentimento più potente dà il tono al gruppo coscienziale. Il dispiegamento coscienziale è del tutto libero; è l’accadere, né più né meno come accade la marea, indipendentemente dalla nostra volontà; in ogni coscienza gli stati avvengono senza causa alcuna; è ridicolo affermare che un turbinio di materia genera la paura o l’ira perché, qual è la causa del turbinio? È la spontaneità continua, ovvero: che ci troviamo nel pieno del vero Mistero. I personaggi di questo romanzo, quindi, sono privi di corpo fisico, di organi di senso, di cosmo. Le comunicazioni sono dirette, senza parole (che l’autore inventa e attribuisce); mero psichismo diretto che opera da coscienza a coscienza; la vicinanza fra una coscienza e l’altra non è distanziale ma coscienziale; causalità fra coscienze tra loro connesse ma sconnesse ognuna da qualsiasi cosmo; pluralità coscienziale con intercausalità immediata. I personaggi devono vivere di idee e stati psichici; sono individui psichici. L’effetto ricercato da questo “romanzo senza mondo” tende a dissolvere la supposta causalità del cosmo sulla coscienza; se in assenza di tigri ci sentiamo feriti e sgozzati da una tigre, in assenza di un cosmo possiamo sentire ciò che usualmente sentiamo: colori, suoni, odori. Nel fenomenismo coscienziale c’è una serie di fenomeni che hanno un’originale, che appaiono la prima volta in modo contingente e poi si riproducono a volontà, che sono copie; ma un’infinità, — e si tratta di quelli più importanti: gli appetiti, i desideri, il fenomenismo affettivo — non lo sono; i primi sono importanti estrinsecamente per la loro supposta 274

causalità: la tigre appare come causa di stragi e distruzioni; ma colori, suoni, linee, rumori sono in sé inaffettivi, benché causino susseguenti effetti, di qualsiasi intensità, di dolore o piacere. In altri termini: l’effetto coscienziale ricercato da quest’arte romanzesca consiste nel delineare nell’intellezione del lettore il mero essere coscienziale privo di mondo, come una possibilità intelligibile. È tempo di screditare tutto il ciarpame di romanzi ormai antiquati, della narrativa di pettegolumi, di uomini che agiscono sul mondo, e sui quali il mondo agisce; la coscienza senza causa, la cui operatività viene presentata. Nel secolo in cui ora vive l’umanità non è più tempo di narrare le vicende della relazione Cosmo-Persona, ma il sogno della coscienza, l’Individuo meramente psichico, liberato dal cosmo. Il romanzo deve svolgersi in un clima privo di turbolenze, liti, gelosie, anche se esistono le tristezze della vita, come raggruppamento intercausale diretto e non-spaziale (le altre coscienze sono il “mondo” esteriore di ogni coscienza). Persone che non si disegnano né si scrivono, case inesistenti; gioco con la morte che arriva e non uccide mai: Dove Tutto Torna dalla Morte. I personaggi mille volte tornati dalla morte, dall’automorte per mero desiderio, senza veleno né pugnale; che considerano la morte come un sonno senza orario, non notturno. (La morte non è l’istituzione poliziesca che conosciamo, bensì una mensa imbandita ed eternamente affollata, da cui uno si alza e dice: io vado a dormire; questo è la morte.) I personaggi che il Presidente ha finora prefigurato per il suo romanzo sono: — Postumia: colei che desidera essere amata morta; solo da morta essere amata. — Suicidia: muore ad ogni istante “di sua propria mano”: a causa di una forte spinta o di un richiamo coscienziale al non-essere istantaneo, che si verifica per carenza di simultaneismo coscienziale: quando penetra in lei un 275

dolore, nel suo essere non c’è che dolore, e l’automatismo di evasione dal dolore compie il gesto del suicidio. — Oblioso: l’uomo che conosce il segreto della donna, l’intolleranza all’idea che un uomo la dimentichi: egli fa dunque mostra di dimenticare sempre, perché sa che in questo modo vince la natura femminile. E nel suo girovagare, sempre trionfante, l’Oblioso incontra Lei-la-non-donna (bisogna non essere donna per sopportare di essere dimenticata!) e si dilegua all’istante; lei lo dimentica, presente o assente che sia. Oblioso cade nella disperazione, perché leila-non-donna lo vede sempre come fosse la prima volta e si innamora. Si innamora di chi non può ricordare, né ricordarlo per più di un quarto d’ora. Ed è questo il suo castigo. — Bellamorta: colei che se ne andò1 per eccesso di amore, per esaltazione di amore. — Non-dimenticabile: non permette la si dimentichi, nemmeno nella morte coscienziale. (Questa morte coscienziale, l’unica che si trova nel romanzo, causata dal proprio desiderio o da certi riflessi difensivi della coscienza, significa solo una sospensione coscienziale. Così come, con uno sforzo della mente, in terra, chiamiamo ad esistere nel presente mentale un ricordo che ci sfugge, allo stesso modo le mere coscienze possiedono la forte spinta di un impeto di autoparalisi. Ma queste soluzioni di continuità, ottenute dalla coscienza grazie al proprio stesso impeto, in non-dimenticabile non potevano cancellare un

1. Trattandosi di un “romanzo di personaggi” l’autore, per confermare le sue innovative tesi estetiche, anti-realiste, ecc., manipola la lingua spagnola per battezzare i suoi personaggi sempre con nomi attinenti alle speculazioni metafisiche che essi rappresentano. Perdita, da “perdida” in it. perduta, scomparsa; Volupta, da “voluptuosa” in it. voluttuosa, mutevole; Amneses, da “amnesia” in it. amnesia; Mimosa, da “mimar” in it. coccolare, lusingare; Retroante, da “retroceder” e “anterior” in it. retrocedere e anteriore; Mnemonia, in it. memoria; Inmima o Inmimia, da “in mimo” in it. senza coccole, amore. [N.d.C.]

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sentimento, il sentimento di non poter essere dimenticata. In tutte le persone psichiche del romanzo, quella soluzione di continuità coscienziale che è la morte, lascia latente una pulsazione coscienziale, un filo di realtà coscienziale che non manca mai: nel caso di Non-dimenticabile, il non potersi sentire dimenticata; in Postumia il desiderio di essere amata da morta; e così per tutti.) — Perdita: non sa dove si trova, chi è, da dove viene, cos’era prima, cosa sarà nel futuro, se è lei o un’altra persona a provare i suoi sentimenti. Quando la tristezza la opprime, esclama: Com’è triste Non-dimenticabile, o, com’è triste Retroante, i suoi amici. — Volupta: anela a un bacio lungo un anno, e a morire. — Indifferente: per lei non c’è alcuna differenza tra la coscienza o la morte eterne. La santità di questa sua indifferenza fa tremare tutti. — Senza-adesso: sente tutto come frangia del Passato, come manifestazione del già accaduto; “avevo fame” è “ho fame”. La sua memoria fa slittare il presente: “lo amai” è “lo amo”. Vive esclusivamente nel passato, ma con sensibilità attuale e, a dire il vero, è priva di un presente e di un passato puri. — Pretendente alla Vita: vuole tornare al mondo corporeo, nel quale doveva essere stato molto felice, cosa di rara eccezione. — Amneses: senza passato. I fatti del giorno precedente non sono accaduti. — Mimosa: odia ciò che è privo di blandizie: la Materia. Cerca l’emozione della tenerezza, delle carezze. — Retroante: cambia ogni Passato. Qualcuno gli chiede di farlo tornare ad un passato felice, altri di mutare il passato fino a convincersi di aver vissuto una vita diversa da quella che realmente hanno vissuto. — Mnemonia: ha solo memoria, è priva di essere attuale e di vita. Ma possiede la memoria perfetta: non vi è fatto, se pure istantaneo e insignificante, che non possa richiamare al presente, che le impedisca di riviverlo. 277

— Inmima o Inmimia: vi ama solo se siete morti. Non vuole essere amata. Teme o ripudia qualsiasi carezza o interesse nei suoi confronti. Dice a tutti, nel corso di una conversazione: “Ho trovato Miomorto. Come sono felice! Ma a volte non lo sono. Poveretto, chissà che ne sarebbe di lui se io morissi”. (Cercava l’uomo la cui espressione le rivelasse che sarebbe stato così fortunato da morire presto, per poter essere felice quanto prima; non desiderava la morte di nessuno, cercava solo la persona che la esprimesse.) — Eterna: non conosce la morte; la sua coscienza non conosce attimi di sospensione. Massima intensità della coscienza. — Dunamor: attende Bellamorta. Deve ottenere la resurrezione coscienziale di Lei, per provarle definitivamente che non vi è felicità più grande della pienezza di coscienza nella passione attuale, cioè eterna. — Non-torna: priva di eternità personale; non torna. Tutti sanno che ella ha soltanto una vita e una morte, attirandosi in tal modo la preoccupazione, l’ossessione di chi sa che un bel giorno potrà sfuggirgli. Muore solo per una causa; senza causa, non muore. E poiché nessuno sa quale sia questa causa, la ricoprono di amorose attenzioni e di previsioni. E se fosse invece una felicità ad ucciderla? Non si pensi che in alcuno dei suoi piani di coscienza il Presidente non trovi il tempo di lavorare al suo romanzo, più di quanto non sembri distrarsi con le annotazioni precedenti. Se qualcuno riuscisse a spiare meglio di DolcePersona o Forsegenio nella sua coscienza, o forse solo nei suoi scritti, si imbatterebbe in più di una frase caduta non si sa da dove, in idee da forgiare, nomi, situazioni, parole pregne di significato. Ad esempio: — Sebbene l’autore sia provvisto di un corpo e scriva per lettori anch’essi dotati di corporeità, per scrivere il romanzo del gruppo coscienziale farà uso delle parole che questo gruppo non usa affatto, ma di cui i lettori hanno bisogno. — Sfruttare le parole nei loro elementi d’accezione rarefatti, nelle loro associazioni irregolari. Porre in effetto, o 278

utilizzare, cose o nuclei di associazioni come: Il tic-tac di una sveglia — Il sibilo del vento — Le soglie — Il guanto — Un pettinino — Un tuono lontanissimo — La folata fresca — Lo zampino morbido di un gatto — Il primo tentativo di fischiare del bollitore sul fuoco — Il girarsi della testa sul cuscino — L’ira della rosa — Un pianoforte che si chiude — Il bottone slacciato — Sfida del garofano — Il soppressore di profili — Lo sguardo che torna agli occhi — Ci sarà un’altra volta? — Sfruttare i grandi tormenti e le dolcezze della vita familiare. — Il contesto mnemonico del presente: la posizione di un presente qualsiasi: oggi mi alzo e ieri penso. — Nell’assunto generico coscienziale, dire ad esempio: “Dolce fu il suo dire sì”; “Parlò e dormiva”; “Egli sentiva che qualcuno lo faceva morire”; “Attraverso la porta inesistente entrò il cavaliere senza corpo, dimenticato”. — Scene: Con le risa della rosa — Col rumore del tictac dell’orologio sotto il cuscino — Col respiro del dormiente — Dello sguardo che s’incrocia. — (Per la metafisica del romanzismo inter- o intra- coscienziale.) La coscienza senza “vivente”, non costretta in un “corpo”. Pluralità di tutte quelle che non furono “esistenze” bensì “vite”, cioè le coscienze legate a strumenti materiali. Ciò che vi è di individuale è il ricordo: ognuno nel suo diversissimo paesaggio mnemonico; rimanendo in famiglia, il sentimento di chi sente con più forza si trasmette agli altri, in modo che vi sia solo un sentire; lo stato più forte crea l’atmosfera e invade le altre coscienze finché, affievolitosi questo primo stato, un altro non prova un sentimento più forte e unifica il campo coscienziale intorno a lui. Ciò che è individuale si sostiene in queste multiple memorie dell’esistenza corporale che ognuno ha avuto; pluralità nell’esistere solo coscienziale in cui esse si trovano. L’apparizione spontanea in me di stati coscienti, io la attribuisco ad apparizioni in altri. Ora non so perché si sta279

biliscano queste intercomunicazioni coscienziali, a partire da qualcuno, nel quale ebbero inizio: giacché posso ben concepire di essere, io, l’unica coscienza; e in questo caso i miei stati non sarebbero causati né dalla materia né dagli stati altrui. Non so perché esista questo mondo plurale delle coscienze, né in quale persona iniziò la serie di stati che doveva trasmettersi senza comunicazione manifesta, direttamente, a tutte le altre coscienze incorporee. Sono convinto che il solo significato di questa vita è che la coscienza opera sui corpi e mai direttamente, mai senza la loro mediazione, opera tanto sulle cose quanto sui corpi per costituire un Mondo temporale e spaziale e da questa costituzione spazio-temporale procede l’illusione che chiamiamo Memoria, e l’illusione di Identità individuale, a causa di questa memoria aggrappata all’esterno. La pura coscienza non ha né tempo né spazio né memoria. Tutto l’essere di questi esseri è un essere di sogno? Il sogno coincide con lo stato? E non resta nulla al sogno? Penso di sì: quando sognano la vicinanza di un’altra coscienza. — Un’insinuazione commovente: una collina di latte bollente (realtà terrena) che sconvolgerebbe gli esseri privi di terra. — Francisco cominciò a non poterne più del suo lavoro di cameriere. E neppure il delirio dello sdoppiamento lo salvava. “No, — si diceva, cavillando — io non sono fatto per servire in questa casa così caotica e abitata da gente che ha un corpo; vado a offrire i miei servigi ad un gruppo coscienziale”. Si mise allora a cercare il Mistico, perché lo assistesse nella sua morte autovolontaria. Dopo un periodo di adattamento, eccolo qui. “Francisco, viene qualcuno: apri” — pensa, ad esempio, adesso. O: “Devi capire, Francisco, non è proprio come prima”. E va verso la porta. Apre il Nulla con la chiave del nulla; poi, in un istante di tempo immobile, l’Oblioso si mette a chiacchierare con lui. Il Presidente gioca in questo clima di sogni. L’Arte riuscirà a salvarlo? (Il Presidente si allontana, discutendo con l’Autore 280

del cattivo gusto di parlare dei suoi progetti e troppo poco dell’Eterna. Convengono che il nome di lei debba apparire in ogni pagina.) E Dolce-Persona, che si è allontanata nella notte pei sentieri, accompagnata solo dal suo cane e da un bastone di salice che oggi Forsegenio le ha tagliato, pensa soavemente alla luce della casetta nella notte di luna così come, altre volte, preferisce contemplare la luce della casetta nella campagna buia. Ricorda che di sera, passeggiando in giardino, il Presidente le aveva inventato il racconto della follia del giardiniere dinanzi allo spettacolo dei fiori, che mostravano la meraviglia di un’illimitata sostituzione della bellezza con una bellezza superiore. Tutto è possibile nella creazione, non c’è nulla che non possa essere sognato, che non possa accadere. L’essere non conosce il “no”. Il Presidente le aveva annunciato la sua formula prediletta: l’onnipossibilità dell’accadere, la libertà della Realtà. Che cosa fanno, in questo istante, gli abitanti de “Il Romanzo” Forsegenio e Semplice si concedono una pausa nel loro lavoro di falciare l’erba del prato intorno all’abitazione di Dolce-Persona, un edificio isolato, di forma circolare, con finestre ai quattro punti cardinali. Si intrattengono scambiandosi arguzie; Forsegenio dice: “I segni uccidono le cose: l’abito da lutto, il dolore; andar a messa, la fede; la teologia fa diventare atei”. O: “Dio fece il mondo, e io ve lo offro pensato”. (Si noti l’influenza del Presidentesminuente, cui Forsegenio ribatte: così come il Progresso è un’ombra che lesina il Presente, Dio è l’ombra che lesina l’Essere e la Passione; non si tolga nulla al Presente della Passione.) Oppure si profonda nella meditazione sulla condotta umana: “Uomini che mille volte chiudono gli occhi senza pensare alla morte”. Semplice ribatte con pensieri come: “Due sono le verità che le persone brutte 281

non accettano, le due fedeltà che non si accettano: quella dello specchio e quella del fotografo”. Oppure: “Si può avere abnegazione, però non tanto da buttarsi in acqua per salvare un pesce che affoga”. Dunamor sogna, perché mentre sogna esiste; e la sua amata gli sorride perché entrambi sono certi del loro felice incontro, dopo che la morte avrà abbellito l’amore. Ovvero rivolge all’aria queste parole enigmatiche: “Le Profondità della Vita. (Che vi è piacere in ogni dolore.) L’orologio che è sempre avanti e la maestà della Vita: le unghie bianche e l’ora esatta accettata, e le unghie dipinte per illudere la Vita”. Eterna raccoglie le violette tra le foglie, per metterle nel vasetto sopra la scrivania del Presidente, quelle violette che metterà di nascosto, con un bigliettino in cui avrà scritto: Violette… Violette… E una Eterna e sul cui retro il Presidente scriverà: Amore sigillato con violette. Liberasti la tua mano dalla mia E più ancora imprigionasti il mio cuore! O gli manderà, tra foglie di felce, un fiore di carta, su ciascuno dei sei petali scriverà una lettera del suo nome, e il Presidente risponderà, sullo stelo del fiore:

Conosce quanto sia tardi Chi visse senza vederla E ora vede l’Eterna.

(Benché una notte le abbia confessato che tutte le cose perdute durante una lunga vita, nella scoperta dell’Eterna si sarebbero potute ritrovare.) Il Presidente e Dolce-Persona tornano dalla passeggiata 282

fino alla palude, dove la grotta, formata da sei salici, incuriosisce per il suo mistero di trampolieri, anatre e alcune piccole bisce, e nelle cui profondità un giorno penetreranno. DolcePersona guida l’automobile, la stessa in cui il Presidente li accompagna tutti i giorni alla stazione, e si lascia convincere da alcune idee o osservazioni. — Le due Paroline che ho scoperto — dice il Presidente — sono: la Morte e la Vecchiaia, o Procedere negli Anni. La fatalità del morire e dell’avanzare in età, come decadenza e mutamento per sola virtù del tempo, sono due inganni: già spiegai che la morte non è nulla, e che la più intensa vecchiaia, nella maggior parte dei casi, è la vecchiaia giovane, che si manifesta dai venti ai venticinque anni, quando l’uomo deve accollarsi le responsabilità e le necessità della vita, abbandonando la vita a cui provvedevano padre e madre, di cui godeva. La vecchiaia non è negli anni, ma semplicemente nella relazione di un eccessivo peso di vivere con la reattività psicologica personale. — E inoltre il Presidente le mostrerà com’è ridicola la sua vita: sono ormai trent’anni che studia contemporaneamente biologia, cioè come non morire, e metafisica, cioè come nessuno muore. Allora Dolce-Persona dirà al Presidente, come in un sussurro: — Perché non continuiamo così, in questa automobile, tutta la vita, senza che il tempo passi, senza per questo apprezzarci di meno, tutti insieme ne “Il Romanzo”? — Perché no? E in questo stesso istante il Viaggiatore (ma il nostro non è Viaggiatore di musei; egli guarda le cose viventi, non il Passato) si avvicina alle rive del Plata, davanti ai portali della dimora. — E potrai essere felice, Viaggiatore, ora che hai esaurito la tua ricerca? — Forse; perché è una ricerca inventata, non imposta.1 1. Da qui in avanti l’autore prosegue da solo. Gli ultimi lettori si congedano dall’autore. E, naturalmente, si ritirano a scrivere. [M.F.]

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CAPITOLO XIV (Ancora.)

E il Presidente? e l’Eterna? Il Presidente, che è impulsivo solo quando è giunto all’estrinsecazione di ogni tema della sua condotta (e che trascorre la vita risolvendo in problema ogni fatto della sua coscienza), medita da tempo sul senso dell’impresa compiuta. Ed è così come quando, tornato a “Il Romanzo” dopo la Conquista di Buenos Aires alla bellezza, si era svegliato un giorno con la tristezza di aver scoperto che la città era una bruttezza irrimediabile per il fatto stesso che rinunciava al più accessibile, illimitato e costante dei piaceri e degli stimoli: la Natura. Era necessario che egli portasse a termine la Conquista per avvertire il vuoto creato da questa enigmaticità della sua opera: Deve esistere la città? Non è forse un segno di scarsa comprensione, un pensiero sterile, credere possibile una città dotata di bellezza, sostenere come Bello ciò che vive omettendo la Natura? Credere che si possa concepire qualcosa, che si possa essere in armonia con qualcosa, senza dimorare notte e giorno nella Natura? Nulla si conosce se non quando la ascoltiamo, la vediamo. I libri lo dimostrano: concepiti e scritti nelle grandi città, ne esiste forse uno che comprende qualcosa nella sua interezza, nella sua totalità? La contemplazione della natura, della selvaggia vita 285

animale nella sua spontaneità, e quella delle abitazioni ed opere dell’umanità più antica, con la sua suggestione del tempo; non tanto piramidi o dolmen, quanto le abitazioni del vivere umano; le piramidi vogliono vivere nel futuro, mentre le case vogliono vivere nel presente, vivere per morire, per l’attualità di ciascun istante; ecco i tre eccitamenti, le tre suggestioni mentali senza le quali non si può intravedere nulla, assolutamente nulla, del mistero. (Allo stesso tempo il Presidente scoprì che il modo più facile per sopprimere le guerre consiste nell’eliminare le città: non si può combattere contro una nazione dispersa in piccoli poderi, che formano una città compatta di quindici milioni di abitanti su centocinquanta milioni di ettari.) Si aggiunse poi, nell’animo del Presidente, alla tristezza di ogni Azione senza motivo intrinseco, che in sé non interessa chi la compie (sentimento sopravvenuto dopo l’impresa), la tristezza del tema stesso dell’azione: la Città di fronte alla Natura. Presidente e Eterna. L’Eterna vede tutto ciò che esiste sulla terra, ma non il Mistero; il Presidente vede il Mistero in tutto. L’Eterna pensa per tutti quelli che sono sulla terra, e al nulla di tutti nell’eternità. Eterna crede alla morte. Nega l’Eternità, crede ed accetta quell’addio d’amore che è la morte. Il Presidente crede che la morte non sia nulla: che non vi sia altra morte eccetto l’Oblio (senza annichilimento corporale) di coloro che si amarono. Il Presidente offre all’Eterna piccole luci, e l’Eterna offre al Presidente il guanciale tiepido e soffice delle sue spalle che invitano al sonno. L’Eterna era tutta per l’amore; il Presidente tutto per il pensiero. L’Eterna dice: che tutto il suo presente d’amore è derubato dalla nozione che vi fu un passato in cui il Presidente ignorò la sua esistenza, non l’amò né la divinò; che il Presidente poté passarle accanto senza guardarla. Ciò la atterri286

sce. Come potresti rispondere, lettore? Si può ben scrivere un romanzo per rispondere a ciò per cui l’Eterna soffre e pensa. Finora il Presidente non è mai riuscito a dissipare questo abisso delle notti dell’Eterna, abisso che in ogni loro colloquio, quando tutto sembra così compiuto, appare fatalmente, il sentimento dell’Eterna di non poter contemplare con piena felicità il possesso, l’amore che adesso era fra loro, ma che un tempo non era, e avrebbe potuto non essere. Vi è mai speranza che il Presidente, un giorno, abbia la lucidità necessaria a convincerla? L’Eterna ha un Dio, il Presidente no; Eterna vuole — e il Presidente no — che vi sia qualcosa di materno nel suo amore, che egli le posi il capo in grembo. Fra il Presidente e l’Eterna vi sono due inesistenze: una di esse è nota solo all’Eterna, l’altra solo al Presidente. (Nel frattempo c’è l’inesistente perché egli non conosce ancora l’Eterna e si trova sulla via della conoscenza, e c’è il NonEsistente-Cavaliere che così riflette: “L’autore cerca inesistenze e io sono così avvezzo all’inesistenza, come la donna all’esistenza, perché l’uomo mai si abituerà all’esistenza”.) Già ve l’ha detto Dunamor: il Presidente sarà sempre triste, a meno che non gli diate un altro passato. E questo passato lo cambiò l’Eterna, e inoltre gli portò colui che muta il Pensiero in Amore. Ma lei non potè cambiare il proprio passato, né quello degli altri nei suoi confronti. Da qui il suo impossibile, quello di essere compresa. E cosa offrì il Presidente all’Eterna? Perché, per il fatto stesso di non aver conquistato la pienezza del suo amore, di non aver saputo elevarsi alla grazia e alla tenerezza dell’Appassionata (che non voleva che egli l’avesse dimenticata quando non la conosceva ancora), cosa poté offrirle? Eterna ha il potere che mai nessuno ebbe: quello di cambiare il nostro passato; e il suo maggiore impossibile è: tollerare il passato senza amore, senza che il suo amante la conosca: nulla può contro questo impossibile, che esiste solo per lei. (Altro impossibile: essere compresa?) 287

Eterna è più eccelsa del più eccelso sogno, e perché perfetta, reale, poiché ciò che è sognato totalmente, in ogni suo dettaglio, e che come idea comprende tutto ciò che è desiderato, è reale, poiché se confrontata con il reale, non vi troveremmo alcun nuovo stato. Il Presidente trovò tutto ciò che aveva sognato, ovvero il suo massimo sogno; e tutto ciò che aveva sognato, e tutto ciò che trovò, furono inferiori alla semplice perfezione originaria dell’Eterna. È la perfezione reale. Se volete un nuovo passato, l’Eterna può darvelo. Il Presidente, da parte sua, potrebbe farsi Storico al solo scopo di cambiare il Passato dell’Umanità, non per darle il passato che le dà la storia. Darebbe all’Uomo un Presente che la Storia gli nega. Il Presentismo: vivere solo nel Presente, senza Storia né Progressismo futuro, questo potrebbe essere il suo motto. Poiché iniziare, non iniziare-in-altro, non provenire, non somigliare a nessuno, è ciò che noi tutti siamo. La Storia e l’Evoluzionismo, che sono due enfasi, non spiegano nulla, poiché non è per l’avvenire, ma per l’essere, che noi siamo mistero. Manipolazione, Amicizia, Azione… Ma cos’è che fa smarrire il Presidente? Il Pensiero? Il dramma del Presidente è: il pensiero come passione, poiché l’Amore è essere, il sommo dell’Essere, e il Pensiero è assetato della nozione (o problema) dell’Essere. La passione è il sommo dell’essere, e l’essere lo è del pensiero. Perciò il Pensiero può essere Passione. Ma nel Pensiero-Passione il Presidente è infelice: gli manca il Reale dell’Eterna pensata, la personificazione del Reale pensato. Ha valore l’Arte per chi si mortifica in quell’assenza? Il Presidente, forse, lavora al suo romanzo privo di mondo per la propria liberazione; lavora, ma senza allegria. C’è ancora una speranza per il Presidente, e forse per tutti: la trasfusione pro-realtà dell’Eterna; una colletta di “vita” per l’Eterna. Perché la cosa più triste è che, dopo aver tutti avvertito i rischi e l’antipatia della proposta del Presidente di abbandonare l’Amicizia per l’Azione, di que288

sta si entusiasmarono, sperando di trovarvi la felicità; ed è proprio il Presidente a contagiarli con la sua disillusione dell’azione, che essi credevano aver compiuta così a fondo e così bene. Perciò li convoca tutti, adesso, per proporre loro di dar vita all’Eterna, affinché qualcuno si salvi, nel romanzo, dall’irrealtà di personaggio.

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CAPITOLO XV

Poema senza fine, e immutabile, della mutevole Eterna A Eterna: Prima che, prostrato ai tuoi piedi, divini da te e da me la prima parola del dire che oggi per te inizio, china il tuo volto amabile e limpido spirito che in esso, con fronte serena o corrucciata, mostra i suoi travagli e i suoi riposi, verso di me e verso i grevi pensieri che sempre imposi alla mia arte; e oggi, più di sempre, in questi giorni che per me, a causa tua, si fanno Oggi, lo desidero, severo e ferace nel divinare il mistero che palpita nel tuo essere e nella linea graziosa che segue i tuoi passi, piccoli e eterni, poiché adesso sei tu l’Assunto, se sono io il tuo Artista; e sei tu che più speri in me, e ancor più nella mia persona. Poiché faccio delle tue speranze in me, la mia speranza. Non era in me, quando giunsi, e oggi ho speranza e, più della mia, ho la tua in me, e non pretendo sia mia né la possiedo senza di te. Così ora sai che se lascerai spegnere la tua fede, nulla più sarò, nulla sarà in me che potrà perire, nemmeno la speranza, poiché nel tuo essere esisteva quella che poteva sembrare mia.

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Mutevole, in te. Agitazione, nell’immortale, è la tua fantasia nel tuo amore. Come vi fosse morte, come se i palpiti fossero contati, ti offri ardente a impeti di vita; tutto vuole saggiare il tuo essere ispirato e ovunque chiami, perché nulla dell’amore rimanga intentato e nulla dorma in esso, e mai dal sonno sia sorpreso; come se potesse esistere morte! Come se dovessero conoscere e contare ad uno ad uno i granelli di sabbia. Né il mio amore, né il mio pensiero, seppero mai com’eri ieri. Nuova al mio conoscerti, e chiedendomi un altro amarti, per ciò che già di te conosco e amo, ti facesti nuovamente bella, ieri volesti essere: l’essere della Notte ti desti. Ancora non so aspettarti prima che tu giunga: nei tuoi mutamenti geniali mi sopravanzi e, benché io ti segua entusiasta, il mio amore ancora non ti indovina. Un giorno presentirò ciò che sarai, e vorrai essere, ogni indomani. Ma, nelle tue ardenti finzioni, non si aprirà in alcun momento un abisso nel tuo anticipare le mie divinazioni tanto che io, vedendoti trasformata, di bellezza mutata ma sempre così bella, ti ami per la prima volta con amore tutto nuovo, infedele all’averti amata? E mi costringa tu ad esserti infedele, con le tue mutazioni, e sempre innamorato di ciò che in te non muta? Non è questa una morte, l’unica possibile all’amore assoluto, amarti dimenticando che già ti amavo? Sono solo ancora apprendista del mistero d’amore che traspare nella luce dei tuoi occhi, e nel tuo mutevole accento; e posso ben vacillare, perduto, riconoscendoti nelle magie e nei mutamenti in cui ti trasfigura la sete di rinnovare la tua eterna beltà. Tutto è nell’eterno, e posso così provare l’amarezza di aver smesso d’amarti, essendo tu, sempre, colei che amo; in te posso amare un’“altra”, se tanto muti che la mia memoria non ti possa raggiungere né riconoscere. Lasciami imparare. E poi indovinare. 292

Notte è la bellezza che ieri ti piacque vestire Come se tu pensassi che i tuoi occhi avessero chiesto di essere una volta parte dell’ornamento della notte: luci stellari in essa — ma non fu così, fu solo volontà della tua anima, anima premurosa di decoro e trasfigurazione, di finzioni ardenti con le quali il tuo spirito si investe di fantasia, e la forza perché Bellezza protegga il tuo essere dal mondo, il cosmo involontario e assediante — fingesti carezzevole domanda dei tuoi occhi — occhi che, è vero, immagini e nomini inquieti —, ciò che, nell’esaltazione in cui tu vivi per mantenerti inespugnabile alle forze del non spirituale, fu desiderio della tua vigile inquietudine: la Notte, la BeltàTristezza: volesti essere, ed apparisti, bella fino a dolere, volesti eguagliarti all’essere impossibile, così come, nell’arte, volesti trovarti spiegazione. Tu che affermi le luci del tuo spirito, senza timore di perderle, — il giorno non ha luce, né signoria la notte, se tu non lo consenti —, quietamente chinasti lo sguardo ed il respiro, senza timore di perderli, per essere la Notte, e dinanzi a me perderti in essa, immensa, senza strade… E oggi, che sei tornata dalla notte, dalla notte regnante ed enigmatica, e alla Partenza e al Sogno confinante — nel suo seno la partenza, nel sogno, invisibili, ci urtiamo — mi ascolti con un respiro che turbò il cammino compiuto con cuore fedele e fantasia ingegnosa. Eri la notte fonda, dai fondali d’ebano, alture luminose nell’ornata cupola della Via Lattea, cavità di fulgore che, disseminate, rendono lontano, immenso, l’ampio tendersi della conca celeste. Il tuo pensiero compì nella tua persona, nelle tue vesti e movenze, l’arte scultorea della notte, il suo moto ampio e impalpabile, il suo respiro trattenuto vicino a noi e la voce potente delle sue rivoluzioni, e il respiro armonioso esteso ovunque, il suo passo vicino che desta l’aria sul nostro volto, il suo viaggiare lontano, congiunto a ogni orizzonte e a ogni vetta, le sue trasformazioni lungo il pellegrinag293

gio verso l’alba. In te si fece “parola” la “voce” della notte, continua e sempre uguale; per la prima volta conobbi la sua parola, e nella tua mano un prodigio maggiore: il tocco lieve della notte. La notte che sceglie le sue vesti preziose, parche, delicate, immutabili, non il giorno dal bagliore opprimente, senza scelta; il pallore lunare del tuo volto che si inazzurra nel nero degli occhi e dei capelli. La notte, con la sua voce vicina che ci fa sprofondare, con l’ampio rumore sempre uguale negli ebani immensi che screziano profondità e vette. La notte che ci sfiora, e noi tremiamo, come le sue luci lontane. La notte che è la vita in beltà di tristezza, ma con palpiti di speranza, di pensieri volontari ornati con sobrietà e grandezza; così ti facesti pallida e buia, disdegnando ciò che ti avrebbe distratta dall’immortalità, nelle supreme e costanti predilezioni del tuo essere, nelle gioie risorgenti di spiritualità, con le quali ti adorni di ogni bellezza a difesa della tua eternità, e dell’eletto Desiderio con cui vuoi viverla. Ed eri la Notte, tanto severa nel suo sembiante, quanto leggiadro era il tuo cuore grazie all’inventata ed entusiasta finzione. Giorno socchiuso Già so chi sarà il “pallido” che nel tuo cuore potrà sconfiggermi. Colui che precedendomi nel cammino a volte scopro, a volte no, avanzare frettoloso fiancheggiando le mura e le siepi. Colui che intreccia rose alle staccionate; e nel biancore di migliaia di scintille, dell’alto meriggio che si innalza nella luce, stringe un nastro d’ombra nerissima ai piedi di ogni tronco, e tende una fascia sottile d’ombra nerissima ai piedi delle anguste pareti contadine, e ai piedi delle mura un’asse sagomata, nera, nell’“a piombo”, nella verticalità e oscillazione dell’intero giorno, del lago fiammeggiante del Meriggio. Brevi macule di negrore, storni del 294

fulgore, segreti del Giorno calati ai piedi dei roseti, come se da questo segreto crescessero i roseti, e la fragranza delle rose fosse il pianto di tale segreto. Un altro con il pallore dell’arte e dell’amore, un altro “pallido”, più amoroso e artista: questo egli è, e non ha più vita di quella che tu o io gli diamo. È colui che credi, che sogni trovare in me, e che io ambirei essere: l’Artista, colui che cura anche l’ombra delle cose, ché non le estingua il giorno, il Reale nella trasparenza del loro essere, lui che tutto ama e tutto dice. Invisibile, se trafitto di luce nel seno del Meriggio; oscuro, nella Notte, ma chiaro il volto pallido, pallore suo, di luna e di stelle. Come lo pensi tu, come lo penso io. Tu che hai negli occhi e nei capelli quelle tinte nerissime, odi di luce con cui le cose eludono il sorso del Meriggio; le tenere cose che amano le loro ombre, i loro umili amori, di cui l’Artista ha cura, e non vogliono estinguersi nell’immensa trasparenza di quello, e aspettano, trattenendo le ombre; vanno verso la Notte, con in mano le vesti, i segni del loro esistere: le loro ombre. Nel presente intrecci i tuoi passi alla Notte, e ti fai segreta al richiamo del Giorno, del Presidente; rendi notturno il tuo presente e ami folgorante di luce il passato. Tu che ami la notte, e sei la notte, talvolta, nel pallore, nell’essere stella, negli occhi, nei sospiri, nel silenzio, nel nonpresente, nel Ricordo. Tu. In questo tuo pallore di ricordo, d’amore, in questo io credo, non nel pallore con cui, un giorno, la morte si fingerà in te.

Eri la notte, in cui vidi il mio cammino. Mi porti, sei la notte che guida! Notte che illumina, ti chiamo, perché la luce della notte ti dà animo, quella del giorno ti ferisce e ti vieta il mondo.

Eri la notte. Il cammino mi si rivelò solo nella notte che tu sei. 295



Ed ero il solo che potesse scoprirti nelle ombre della notte.

Come spero trattenerti Sarò sconfitto, ma vi è solo un pensiero, ed è il mio, che può darti l’intera risposta al Mistero del tuo essere e di ogni essere; per sua virtù, un giorno mi cercherai sui sentieri dell’eternità. Ti dirò la parola che solo io possiedo, e resterai al mio fianco per sempre. Ho il pensiero che spiega ogni essere, dunque anche il tuo. E cerco adesso nel tuo ritratto la traccia non del tuo essere, ma di come sei; perché sei come ti vediamo e conosciamo. Caro essere: Nulla vale quanto te, quanto noi; opera d’uomo o del mondo, nessuna ha quel sospiro che sospira in te, che s’allevia o riposa, o si diparte, per un istante, dal ricordare mormorante con cui in te, per un istante, si assopirono le memorie. Né questa breve risata, così nobile, trepida e umida di pianto, che è la mia, che è la parola che hai per me, la sola che tra tutte le tue parole trova in me il solo che la capisca; né prima del mio arrivo, né dopo l’arrivo di tutto l’Avvenire, Mai un altro la sorbirà dalla tua gola, dal tuo essere, come il tuo artista che qui ti parla, che ti ha trovata e ti seguirà. E che vuole solo te, la Sorgente, l’eterna Bambina, che ancora ha le sue prime lacrime in questa tenera risata di un istante, che talvolta nel colloquio ottengo da te, e che sembra l’ultimo singhiozzo di un pianto in corolle che sbocciano allo sbocciare del giorno: lacrime, lacrime del Mattino, della speranza, del “non piangere più”…

296

Non poté essere

Tu mi darai il segno dolorosa Eterna. Impietositi l’uno dell’altro, feriamoci col bacio dell’oblio che resti ardente nella memoria ma senza amore ci lasci in questa terra. Senza questo amore che non poté essere. Sia dunque, quando il bacio di lacrime serrerà i nostri volti nella vicinanza suprema che i nostri corpi conobbero. Quando proveremo l’ultimo dolore della passione, il più intenso.



Il segno forgiamolo letale tutto di dolore ma con la morte. La morte che è richiesta da un inizio d’amore, non quella che è orrore degli amanti. Il giorno dopo la notte, non la notte del giorno.

Sottomissione

Se non posso restare al tuo fianco tu stessa devi darmi un talismano che mi preservi dall’amarti.



Pietosa e forte con me forgia tu stessa il bacio dell’oblio, il bacio della fatalità, dell’impossibile, che sottomette i nostri destini. E strappandoci ad esso 297

sia la nostra partenza, separandoci da quando più fummo vicini. Dall’unica carezza che ci demmo da ciò che più prossimi ci fece ci strappi il primo passo senza ritorno ai nostri sottomessi destini.

E noi ci aspetteremo, tormentati, dove amore è sconfitto.



Potevo, ma il tuo amore addormentato non sciolsi fino a quando ti svegliasti. Già so come sarà. L’ha già saputo impaziente il mio amore, nell’ardente studio dell’avvenire: le nostre mani attraendoci, illuse, diranno: vieni a me, poi …

Oh Eterna, che la tua bocca non dica più: sono di passaggio Sei rimasta sospesa, placido il respiro che mormora il quieto esistere, placido un guardare lontano, un pensare mentre riposi che interessandosi a volte, quietamente, senza turbarsi né chiedere alla vita, guida la bianca mano dell’affetto che sulla mia posasti, come brezza, e così vedo i nuovi passi del tuo pensare.

Conoscendo nella tiepida pressione del tuo palmo i cammini della tua anima, con te bevendo l’aria che respiri, che or ora palpitò nella tua voce quando dicesti: sono di passaggio. 298

Tra i confini del mio sguardo, sotto il biancore della mano, in alto l’ardere uguale della negra pupilla, che non guardo, nel divinarla compiaciuto. Ciò che dicesti, e il tuo tacere adesso, senza guardarmi, così prezioso di un’attesa gioiosa e sicura della risposta che sai… La mia mente rimase cercando, innamorata, con tutte le sue forze per darla a te immensa, eterna. Questo tacere, Eterna, della bocca, che fidente d’amore sottilmente sorride, questo tacere gentile come è chiara la luce del tuo sorriso, che io solo scopro, vorrei serbarlo. E nella mia eterna memoria lo terrò in eterno come il tesoro di parole che ebbe il nostro amore. Questo tacere… Questo tacere che serraste volontaria fra le labbra così vicino alla mia felice contemplazione, provocandomi. Agli sdegni d’amante, che ho in me, contro l’effimero e, in tutto il mio pensare, contro le morti. Abbandona questo tacere col quale, sicura dell’amore, tu giochi e fingi la non speranza, mentre speri sicura la risposta che sai in me inoccultabile a tutte le finzioni della fine, del partire che chiamiamo morire. Così vicino, e lieto, guardo la tua gola e il tuo petto che vive del respiro mormorante che lo visita. 299

Va e torna, commuove e si perde nel significato immenso delle bocche socchiuse. L’aria che beviamo, il suono del battito e l’oscillare del petto unisono al mare. Eterna, che amai benché non sperai essere il tuo amato, e oggi, così umilmente, come se nulla offrissi, come se non vi fosse luce alle prodigiose parole la magnificenza d’una creazione di Vita! mi desti il vero principio della mia, più antico, più inaugurale di un nascere nelle tue parole: “Sì, anch’io ti amo.” Sì, come chi trema, come chi trema felice di un sogno fortunato, e, addolorato, del risveglio che lo annienta benché sia la realtà ad attenderlo e il destarsi, che serba la sua gioia, così sto, trepido, senza ricevere l’offerta, senza credere, senza riceverla nell’intima, veridica allegria del mio essere, senza prestarle fede, il dono del tuo amore, che con tante preghiere già chiamai, di questo amore che tante volte i sogni mi offrirono e il risveglio mi rapì. Benché sia mio potere che oggi la realtà mi è fortunata, più di ogni sogno, sii tu a dirlo ancora una volta, a chiamarmi, a ridestarmi; ancora non ho l’ardire 300

di far scorrere la cortina del domani, del risveglio, e in cambio di realtà, cacciare il sogno. Ci si tenga compagnia “Non è che non sapessi ma che tardai” ti dissi, estranea la mia voce turbata, vinta dalla gioia, la prima volta che ti conobbi. Già divinata, ora il mio piede sulla tua soglia mi permise di conoscerti. Che eri lo sapevo, ma non il luogo e l’istante, dell’incontrarti. Né come guardavi, parlavi, né quale il tuo aspetto Solo la tua anima sapeva che era d’amore. E nulla più in lei poteva essere, e nulla più in me poteva essere. Ma che tardai, perché le siepi dicevano al mio passo, a questo e ad altri ancora, una volta, un’altra volta: “Amore mai fu, né sarà”. E, in verità, i fiori nelle siepi appassivano nel pieno del meriggio, tutto luce. Dissi alle siepi e ai muri dei campi, “Già tutto abbandonai; amore mi si offrirà”. Già so di non essere che amore, né possiedo deità, sapere, mondo, umanità ma solo lei. Compagnia.

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È l’ombra nel giorno d’amore Ciò che nel mio amore per te è più amore, è il pensarti non creata, eterna, e vederti fragilmente, docilmente vestita di tutto quello che è mortale; e pensare che anche per te verrà un giorno in cui la morte si fingerà nel tuo volto, nelle tue mani. Sono certo che ti innalzerai da questo sogno. Quel pensiero — del tuo Cuore che ammutolisce senza più dire ciò che il mio amore ascoltava, senza quel ripetersi in te, sempre e soltanto, di un palpito: “mio amato” — è dolore ma non pallore, tormenta il mio essere terreno ma non infrange la mia certezza. Il silenzio nel tuo petto, la mano che non stringe e sempre seguì la mia che chiedeva il tuo palmo, è dolore, è tutto il vissuto sommato nel tutto-dolore di un istante. È, fatto dolore, tutto ciò che fummo da quando il tuo cuore dimenticò le parole che dava alla vita, per ripetere sempre e solamente: “mio amato”, fino a questo spaventoso tacere! Se uno di noi due dovrà essere chi ascolta l’ultimo palpito, chi conosce per la prima volta il silenzio di un cuore, il mio, il tuo; chi proverà così il più acerbo dolore, se ne vada, non gridi implorando di udire ancora un palpito; ma, una volta pagato il dolore della Terra, pagata la Vita, corra al nuovo incontro, a un ridestarci insieme, che è sempre vicino, come ogni ridestarsi dal sogno. Diciamolo così, sempre. A volte, al tuo fianco, i tuoi occhi si socchiudono e mi dimenticano. Dimenticato, e a te vicino, sono come colui che tutta la notte rimase al capezzale di un amore che si è addormentato. Ma tu non dormi, parti; sempre ami, ma non me. Veglio dunque il nodo che si stringe tra le nostre ore 302

e ardentemente cerco di fare, a tua insaputa, un nuovo nodo, invisibile, il più forte. Ma non lo posso stringere perché tu sei già tornata. E sempre avrò timore di questo tuo passato che torna, di questo tuo presente che mi neghi. Vivi, Persona! Ai tuoi occhi così dubbiosi il compito di proteggere un sentimento ardente. Guardare, e volgere lo sguardo verso tutto ciò che ora temi pensando a ciò che vuoi, amare di più, che in te può essere ferito. Sii tu a scoprire, scopri! Guarderò lì, dove tu guardi. Se tu non trovi, chi mai troverà? Oggi sì, io scoprirò dove tu scoprirai. Tu Tuttoamore e io Chiarezza.

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CAPITOLO XVI (Oggi c’è più passato di ieri.)

Allora l’Eterna porse al Presidente un lembo della sua veste, che teneva tra le dita, e disse: “si aggrappi qui e mi segua, in penitenza”. Questo voleva il Presidente — essere trattato come un bambino che la madre ammonisce — ogni volta che non sopportava più il proprio malumore e la depressione, durante le frequenti conversazioni in cui Eterna appariva così sicura, anche se così amorosa; certa più di lui del potere delle moine, certa più di lui di ciò che poteva sempre sviare, degradare o far splendere il suo amore. Imbronciato, sopraffatto, ebbro nel vederla sempre più bella, dolce, energica, chiaroveggente di quanto lui non fosse, si rassegnava con un fine e acutissimo pensiero che lo rendeva felice: “Mi basta che tutta la bellezza sia in lei; che importa ciò che sono io?” Così la seguì. E l’Eterna… D’un tratto, con atteggiamento più soave e ricca voce cortese, Eterna si rivolge a te, lettore, e ti dice: — Ti parlo, lettore; sono l’Eterna; donna nobile, forse, forse bella, e forte nel pensare, di sentire generoso e di destino grave, forse altezzosa, e di modi maestosi, forse di sontuoso casato e di nobile lignaggio; con un passato limpido e severo, forse infelice, e degna d’una ventura la cui risata squisita, commossa, traboccante, risonando come trattenu305

ta da una profondità, senza clamore, forse cancellerebbe dal mondo l’idea della Morte. “Hai letto ciò che qui rappresento, in atti e parole; e penserai che le ore trascorrano lievi col Presidente. Lascia che da queste righe giunga a te il mio accento, che da questo scritto si innalzi la mia immagine; e io ti dica, guardandoti da vicino: “Dimmi, impietosito, dimmi, senti il mio alito? Ho una voce che puoi udire? “Ogni giorno si accresce il mio passato: vivere è creare passato; poiché questo per me cresce ogni giorno, cosa che accade solo a chi vive, devo avere vita, e tu stesso sarai nella stessa corrente del mio Tempo, mormorante, tenue, trascorrente; e ti accorgi che oggi, più di prima, in ogni pagina, conosci il mio passato. “Ma non saprò mai che cosa sono io; se una volta, forse, mi è accaduto di essere stata reale, e un artista dai propositi stravaganti, con avidità, con tormentata perseveranza, fece di me un sogno, in pagine che la sua mano copriva di parole. “E, se è così, ho ciò che anche tu hai: i miei accadimenti futuri predeterminati dal casualismo romanzesco. E ciò che non hai, il mio spaventoso dolore: quello di sapere che l’appagamento, o il fallimento, dei miei desideri è già deciso, oltre ad essere prestabilito in queste pagine; tutto ciò che ignoro e che dovrà accadermi; oltre i confini di questa pagina nulla so di me o della sorte riservata alla mia grande aspirazione; e in me cresce maggior smarrimento e ribellione, se penso alla tua indifferenza nel leggere ciò che qui è detto, senza vedere, senza pensare che quanto leggi, e a mano a mano che leggi, è la storia che in questo stesso momento mi lacera, forse, e mi carpisce quello che era, o sarebbe diventato, il mio bene più grande.” È vero, Eterna, sei perfetta, nel senso dell’unica perfezione: nel mantenere in uno stato esistenziale la tua esistenza sensibile ovvero in ogni suo minimo accadimento, in ogni minimo atto, o conseguenza di atto, giudica emozionalmente se stessa, ride di sé, si rimprovera e si intenerisce. 306

Perciò il Presidente, quando seppe che era così — e non avendo, lui, alcuna emozione nei propri confronti — divenne subito, e per sempre, bambino. Lei, che applaude ogni carezza di innamorati, e darebbe e accetterebbe ogni carezza, fino ad oggi ha negato ogni carezza che lui le chiedeva o voleva carpirle; sarebbe instancabile e prodiga di carezze, ma solo se amando o essendo amata, senza alcuna perplessità. La sua tortura, di essere così munifica ma di non poter accettare carezze, né di condiscendere al consiglio di darne, è la maggiore sventura, anche se la meno evidente, e la più solitaria e incompresa, che possa toccare agli umani. Dunamor comprende l’amore dell’Eterna. Egli, che è Di-un-amore, e fu il primo a intuire l’affetto di Forsegenio per Dolce-Persona, e più d’una volta pensò a questo amore e a quello dell’Eterna, crede che benché Forsegenio sia colui che più ama Dolce-Persona, e lei sia ciò che più egli ama, non per questo Dolce-Persona sarebbe la più amata fra le donne, se non potessimo accertare che Forsegenio è l’uomo più ricco di sentimento che ci sia al mondo, poiché potrebbe esistere un’altra donna cui sia possibile ottenere tutto il sentimento dell’uomo con il maggior impeto d’amore che esista nel presente; del pari potrebbe, questa donna, essere sì amata dall’uomo più amorevole, ma forse non essere l’unica, oppure non quella che tale uomo amerà di più. Invece Eterna volle soltanto essere l’unicamente amata dall’uomo più amoroso, e non lo ebbe né lo incontrò e non possiede né uno splendido né il massimo amore umano. Ella è ciò che la Realtà ama: la Perfezione. La realtà ha appagato la sua ansia di realizzare l’essere della Perfezione, o identificazione della pluralità fra uguali, o annichilimento della Pluralità. Eterna lo sa, sa di essere lei l’amata dell’Essere, del Mondo, ed è questa la felicità che la sua fronte rivela; non ha l’amore totale dell’Individuo amante realizzato, ed ecco l’immenso dolore nella smorfia delle sue labbra: è la più sventurata e la più felice. Ecco perché non è possibile comprenderla; ecco che la Realtà è ancora infelice, turbata, smarrita. Il più grande amante non ha ancora raggiunto la più grande amante; ebbe l’amore, e 307

anche l’unico amore, di vari individui realizzati, ma non il tutto-amore del più grande amante. La Realtà non può ancora trattenersi: l’assurdo, la brutalità della Pluralità continua, non si è estinta. — Autore: Perché diavolo scrivo? Ciò che tu fai, lettore, e ciò che io faccio, vale più d’una buona dormita? Si può definire il lettore come un uomo che non riesce a dormire senza un libro in mano; ma è una mania innocua, assai scusabile. Invece l’autore scrive del suo sonno, o del sonno altrui. — Io cerco e spero. — Autore: Di essere un autore? — Lettore: Perché mi rifiuto di credere che il “letterato” sia: colui che nel mondo lascia tutto detto e nulla conosciuto. — Autore: Lettore, che a volte sei un ricordo di presenza dinanzi alle mie pagine, e non hai presenza: il tuo volto si accosta e si specchia su queste carte, sognando di essere; e non hai presenza. Ciò che mi interessa è il lettore: sei tu il mio argomento, il tuo essere che di tanto in tanto scompare; il resto è una scusa per trattenerti qui, alla portata delle mie operazioni. — Lettore: Grazie.

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CAPITOLO XVII (Un momento di più o di meno, ne “Il Romanzo”.)

— Dolce-Persona: Non ti sembra che il Presidente sia un po’ triste? — Forsegenio: Ha intrapreso con entusiasmo la Conquista di Buenos Aires, si è prodigato in azioni esemplari, ma ora mi sembra che il suo spirito stia languendo. — Forse sono ricordi. — Come pesa il passato. — Molti, però, vivono di un istante in cui furono felici. — È il passato o il futuro che rattrista il Presidente? — E se lo chiedessimo a lui? È così buono! — Non sarà geloso del suo segreto? — Credo di no. Se arriverà e lo vedrò ben disposto, farò in modo di scoprire cos’è che lo preoccupa. — Ma parliamo anche del nostro oggi. — Forsegenio: Oggi ho due nuovi argomenti, dolcissima Dolce-Persona; vedi come mantengo la promessa di inventare un racconto o un dramma ogni giorno? Pensando alle esistenze umane, quasi tutte tristi, o vuote di grande ispirazione, mi compiaccio di creare destini ricchi di sfumature, o intrighi, che rendono il vivere preferibile al non aver vissuto. — Dolce-Persona: Il grigiore di aver vissuto rattrista anche me. Vivere deve essere qualcosa di più che spegnere 309

la luce per dormire. Ma non voglio deprimermi, voglio ridere insieme a te. — Dovrò inventare un nuovo argomento; ero così felice con te, che volevo piangere. — Non importa; raccontami le tue storie intricate di oggi, anche se non sono felici. — Se lo desideri. Ecco, la mia prima invenzione è semplicemente uno schema romanzesco. Si chiama: “Il perfetto intermediario, o l’amico dell’amore, o l’intermediario d’amicizia in un amore”. A mio parere, due delle attività umane che richiedono maggior delicatezza sono: quella collettiva di saper essere, nobilmente, pubblico della Passione, e quella di intermediario di amicizia riguardo l’amore degli altri, o la passione di un amico morto. Il mio romanzo dovrebbe intitolarsi “Trasparenza di Intermediario nell’amicizia di un amore”, o “Intermediario Trasparenziale”, o “Romanzo dell’Intermediario-trasparenza d’amore”. Che te ne sembra? — Non gli mancherà certo il successo per mancanza di titoli! — È che, quando ti guardo, le improvvisazioni si confondono. — Ma le tue invenzioni, le tue burle, i tuoi grandi pensieri mi fanno sempre passare con te i miei momenti più belli; ed io, in cambio, non so nemmeno dimostrarti quanto animo e compagnia mi offri. Ricordo però il tuo romanzo: è malinconico vivere all’ombra di altre vite. E l’altro racconto? — È molto tragico, e forse ti impressionerà; si chiama “Tutta la Paura”. Benché sia anch’esso un abbozzo, la storia sarà un po’ più lunga. Non è meglio lasciarlo per un’altra volta? — No, raccontamelo subito. Lo ascolterò con grande piacere: dovesse durare fino a notte. — Il personaggio dice: “Sebbene io sia moribondo, ho bisogno di parlare…” — Autore (a Dolce-Persona e Forsegenio): Quello che sta raccontando Forsegenio è capitato anche a me. (Al lettore): Nel vedere l’atteggiamento di Dolce-Persona mentre 310

ascolta Forsegenio, si intuisce che ella, nella sua mente, lo proclama il più raffinato ed inventivo narratore di esperienze di vita. Dolce-Persona non ricorda che io esisto come narratore. Mentre la giovane dispone un vassoio con gli ingredienti per il mate, che offrirà a Forsegenio perché non tralasci di raccontare alcun dettaglio di ciò che è accaduto al suo protagonista, io ti narrerò una mia storia, lettore. L’Eterna è deità, quando ascolta: se il Presidente la contempla mentre ascolta, egli fallisce nel suo racconto. Io resterei altrettanto paralizzato ma le offrirei, allora, dei racconti scritti; e forse, con questo stimolo, riuscirei a scrivere ingegnosi romanzi. — Forsegenio: Non hai sentito un mormorio? Sarà la Vita che vuole entrare? È sempre in agguato. — Dolce-Persona: Continua, continua, voglio sapere che cosa accade al tuo agonizzante. — Il moribondo si agita e dice: “Fatemi rimanere, perché non vi ho rivelato il mio grande segreto personale.” Gli si risponde: “Sì, sì, restate. Restate, Sostituito: noi tutti ve lo chiediamo”. — Perché devi sapere che a quei tempi, e fra quella razza psichiatrica degli anormiti,1 si trattenevano le persone nella vita, come oggi si trattengono gli ospiti graditi, o affabili, quando stanno per andarsene. Ebbene, il malato di morte parlò, con garbo: “Adesso saprete perché mi sono sempre fatto chiamare Sostituito. Nacqui, e mi fecero vivere un’esistenza supplente, per sostituire Dioniso, quell’uomo bello e intelligente che il Mutilatore anormita, della nostra razza, teneva in serbo per torturarlo con magistrali mutilazioni, come modelli chirurgici tracciati con il Super-bisturi. Voi tutti sapete che la mutilazione-tipo che noi amiamo è la Mutilazione Pura, cioè senz’odio, senza l’orrore, la volgarità degli impulsi dell’Odio.

1. Anormita è neologismo dell’autore da anormale, in it. anormale. [N.d.C.]

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— Continua, per favore! Il narratore di questo racconto non ha il diritto di prendere fiato! — Ebbene: io vissi nell’attesa di trovare il mio Sventratore, nuovo di zecca, non ancora inaugurato; il quale sarebbe stato, dunque, tutto per me; perché io volevo, come noi tutti aneliamo, conoscere il suo primo Atto (degno di tale nome: vale a dire di distruzione): su di me, naturalmente. E conobbi tutti gli orrori di un martirio morale, quando… Ma no, mi pento di avere chiesto una proroga di vita: devo essere me stesso fino alle estreme conseguenze, devo morire con il mio grande segreto personale…” Allora Sostituito chiese a tutti gli anormiti di procurargli una morte con effetto retroattivo, nell’istante in cui gli venne concessa la proroga per la sua mancata confessione. L’agonia ha i suoi doveri ma anche i suoi diritti; e gli anormiti, malgrado l’ansiosa curiosità che Sostituito suscitava in loro, non vollero costringerlo a rivelare gli orrori del suo martirio morale. — Forsegenio o Sostituito: devi abituarti a non promettere racconti di cui non hai verificato il legittimo finale. Altrimenti rischi di lasciare una piccola ferita di curiosità nella mente di chi si abbandona, con lealtà, al tuo racconto. Non posso rassegnarmi a che Sostituito si sia portato nella tomba quello che forse era il più grande segreto degli anormiti. — Ammetto una certa mancanza di Sostituito; ma penso che, se avesse saputo che ti avrebbe interessato tanto, non avrebbe certo mancato di rivelarti il segreto del Super-bisturi. E ora propongo di leggerti il primo capitolo dell’“Uomo con una sola narice” (romanzo incredibile). Ma Dolce-Persona non vuole dimenticare così presto Sostituito, e Forsegenio deve ingegnarsi per stupirla in qualcuno dei piccoli problemi che a lui piace trattare: l’esistenza o l’essere dell’uomo di cui si aggira nel mondo un sosia perfetto (l’uomo-bis); o l’esistenza, o l’essere, dell’uomo cui si allude in una corrispondenza, o in un dialogo, fra chi lo conosce e chi sente parlare di lui senza conoscerlo. Ma poiché Dolce-Persona rimane pensierosa Forsegenio decide di curare quella ferita mentale con un 312

solletichio mentale. Le racconta, dunque, che, sebbene nel tragitto da Buenos Aires a Rio de Janeiro a bordo del battello non ci fosse un naufrago ufficiale, l’orchestra faceva più chiasso di un trasloco, tanto da sovrastare le urla di cento naufraghi. E il capitano ottenne un eccellente risultato con questo metodo: quando era bonaccia, faceva servire solo piatti bollenti; e i mille passeggeri della nave si mettevano allora a soffiare, nella medesima direzione, per raffreddare i cibi, cosicché c’era sempre un vento costante, e la nave giunse in porto un giorno prima che fosse troppo tardi. — Le tue trovate e i tuoi argomenti sono potenti, amico; ma sono per gente di vita, o per gente di romanzo? — Lettore: Meno argomenti di personaggi, e più argomenti per il romanzo! È da un bel po’ di capitoli che non si muove di un passo. Comodo, scrivere un romanzo in cui il lettore deve pensare a tutto! Qui non c’è nulla di sottinteso, tutto deve essere raccontato. — Autore: Per favore, non chiedermi di nasconderti lo scioglimento dell’intreccio, di assecondare il tuo gusto per il pistolero tutto-coraggio, per l’investigatore tutto-sagacia, per la sartina che sposa il miliardario, per l’autista di cui si innamora la principessa, per la vendetta che si compie pienamente contro un’ingiustizia. Ti chiedo, lettore, di non sminuirmi; perché gli autori corrono sempre questo rischio, e bisogna sostenerli nei loro sforzi verso l’Arte vera. Non hai letto i miei prologhi? — Sì, è facile risparmiarsi una trama quando si manca di fantasia! Come va a finire il tuo romanzo? — È questo che volevi! — Altri lettori: Fuori di qui, lettore di scioglimenti! Ti daremo un romanzo rosa; se non ti basta, uno di noi ti racconterà la trama. Oppure chiameremo i personaggi, e potremo così liberarli dalla tua curiosità. Eccone arrivare uno. — Personaggio: Adesso racconterò che cosa accade nel romanzo; me la rido, io, degli scioglimenti nascosti, imprevedibili, simili a coloro che si spacciano per musicisti, ma riescono solo a suonare un accordo stonato e a tenere 313

il pubblico in sospeso, in attesa di una risoluzione. La mia vita… — Lettore: Perdonatemi, farò in modo di emendarmi. Proverò a disinteressarmi del fatto che il romanzo abbia, o meno, una fine. — Altri lettori: Tutti lo desideriamo. — Autore: Mi sento molto debole, lettore. L’ho lasciato dormire a suo agio, ora lasci dormire me. — Altri lettori: Non molestiamo l’autore. Un’opera d’arte in cui ci aspetta una fine non è arte, e non ha emozioni. Sii nuovo, lettore. Non assecondare le nostre passioni. Che questo romanzo non finisca. L’arte non ha momento maggiore della piena lettura del presente. — Il Presidente (interpellando l’autore): Che cosa sono questi mormorii? Un’altra pagina senza l’Eterna? Autore, perché l’Eterna non appare e non agisce?

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CAPITOLO XVIII

Gruppetto brillante di decisione presa dai personaggi che deliberano, in brezzoline di mormorii, di dare vita all’Eterna. Ogni personaggio prova a fare qualcosa per dare vita all’Eterna. Uno propone di cercare un raggio di luna in una rosa, un altro di trovare un’ala di rondine che si disegna sul volto della grande luna. Finché uno non li interrompe: — Come facciamo a darle una vita che non abbiamo? Dunamor spezza lo sconcerto di questo momento. — Ciò di cui avete bisogno non è di avere una vita; ciò che manca è sapere se l’Eterna la vuole. Finora non ci abbiamo pensato. Solo il Presidente potrebbe dirlo: che lo dica! L’Eterna vuole la vita? — Presidente: Non c’è domanda, per me, più tormentosa di questa. Vorrebbe la vita, se qualcuno che si aggira per il mondo valesse quanto il suo amore. Ma questo non accade; e bisogna considerare che la sua unica gioia è sapersi personaggio.

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CAPITOLO XIX

Cosa c’è qui? Il Dolore Capitolo delle schiene È finita Conquistata Buenos Aires alla bellezza e al mistero, tutti vollero tornare alla dimora, cioè all’amicizia. Si è ricomposta e rinnovata l’antica vita ne “Il Romanzo”. Uno voleva ripulire il giardino o restaurare i quadri, altri avevano iniziato a imbiancare tutta la casa della dimora, per continuare la vita di sempre. L’Azione è stata compiuta, ma gli animi non sono appagati; l’Azione senza la Passione ancora non ha senso per il Presidente. Per questo la concluse, consapevole di averla eseguita in ogni suo particolare con il risultato che da essa si aspettava ma, allo stesso tempo, sentì che la sua anima non aveva ottenuto nulla. Non c’è alcuna gioia in lui; il suo atteggiamento e la sua condotta fanno presagire che la vita ne “Il Romanzo” non avrà più il sapore di prima. In tutti i personaggi c’è il dolore rovente di ciò che deve durare poco o essere abbandonato o troncato. Persino l’ultimo tentativo, dare vita all’Eterna, è stato frustrato dall’incertezza del Presidente. L’allegria rischia di spegnersi. Il Presidente non è in questo spirito, e si teme ancora una volta un mutamento improvviso delle sue decisioni. Infine, intraprende il cammino 317

della meditazione metafisica. Solo a Dunamor, il Non-Esistente-Cavaliere, l’azione parve così valida come il non averla compiuta e si sentì così felice nel portarla a termine, come prima di compierla e di sapere che si sarebbe compiuta. L’autore al lettore: Questo è ciò che avvenne: il Presidente li convocò tutti, riunendoli in una delle solite sedute, e con indicibile sofferenza disse loro che avrebbe abbandonato “Il Romanzo”. E poiché immaginava che nessuno avrebbe voluto rimanervi, li invitava a scambiarsi un eterno addio e a provare di scegliere ognuno il cammino che più lo avrebbe allontanato dagli altri, in modo da assicurarsi almeno che nessuno mai avrebbe saputo dai compagni che quello era un saluto di morte. E provarono così in anticipo, e fino in fondo, tutte le amarezze della separazione dovuta alla morte, in questo saluto collettivo dovuto alla separazione, che sentirono di essersi tributati le lacrime del saluto mortale. Solo Semplice volle parlare, solo lui accennò a ribellarsi, a trattenere per tutti la situazione di possibile felicità. Naturalmente nessuno gli diede ascolto; ma disse, mormorò (ad ogni fine di Presidente doveva verificarsi questo immancabile tentativo di ribellione, che convalida le Presidenze): — Perché scegliere il dolore? Perché? Abbandoniamo la Felicità, ci allontaniamo dal Bene. Ma Dunamor, l’uomo al quale la morte prometteva di più, si apre il passo fra tutti e, anche se con espressione grave, si allontana dicendo: — Vi prego, abbiate compassione di un uomo felice: lasciatemi passare. La morte era la sua verità. Mai nessuno fu più infelice di loro. Eccetto Dunamor, tutti coloro che il Presidente aveva riunito molto tempo prima nella sua dimora “Il Romanzo” erano stati sventurati, 318

poiché avevano conosciuto la felicità. Ma chi prova il dolore più grande non è l’Eterna? Adesso non si vedono che le schiene curve di tutti i personaggi, che si allontanano. Ultima notizia Dolce-Persona non rinuncerà mai — ha detto — a due cose: continuare la sua vita ne “Il Romanzo” e ottenere che questa vita trascorra con il Presidente. Partirà alla sua ricerca. Forsegenio è incantato: la asseconderà in tutto. In coloro che rimangono a “Il Romanzo” rimane la speranza. Felicità, Felicità: chi vi rinuncia? un cittadino qualsiasi può rinunciare ad una qualsiasi presidenza, ma un Presidente di Romanzo non rinuncia. Dato alle stampe questo romanzo, si è compiuto il disperdersi delle schiene, l’addio senza sguardi, la morte accademica.

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CAPITOLO XX

Epilogo La folata di vento che si abbatte sugli ansiti del fumo impazzito dei camini, e la sua ansiosa e rapida fuga verso l’alto, che dura alcuni istanti, è immagine di ogni destino. Tuttavia c’è la perfezione dell’intelletto e dell’amore, l’anima chiara e ardente, la mobilità di ciò che è limpido; la limpidezza palpitante, la linea delle acque del mare, le anime chiare, sempre palpitanti di Sentimento, delle grandi matrone, e anche di Dunamor. Anche la perfezione nelle avversità, per un destino d’anima piena e chiara. Troppo grande è il dolore dell’Eterna, che era riservata al tutto-amore e nella disperazione si fece schiava della pietà, frustrazione dell’amore. Non avrebbe dovuto farlo. Ma non si ami, si odi il Presidente, non vi è peggiore incontro di quello dell’Intelligenza che si avvicina all’Ardore. Ciò che è solo intelligenza non deve spiare il Palpito. È vile. Tutto è stato fatto e nessuna felicità. FINE

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TENTATIVO DI SEDARE UNA FERITA DI CUI SI TIENE CONTO

Questo è lo spazio in cui i lettori si agitano per la resurrezione di persone e la continuità di eventi, quando il romanzo li ha fatti innamorare. (Perché il mio libro è stato avviluppante come le trecce dell’Eterna, avviluppante l’affetto dei lettori che non sapranno dove, in quale pagina, li ho conquistati). Nel momento finale di un romanzo lacerante, ogni lettore che apprezzi desidera ardentemente chiedere all’autore la resurrezione di uno o più personaggi, la resurrezione romanzesca, ossia quella di continuare a essere personaggi, non la nascita romanzesca che è il farsi persona del personaggio; e, poiché non si può continuare ad essere personaggio senza la continuità degli eventi in narrativa, l’autore dovrebbe qui soddisfare il lettore facendo proseguire i passi e le disavventure di quel personaggio. La continuazione di personaggio che indovino essere fra tutte la più desiderata dal lettore, è senza dubbio quella di Dolce-Persona, e la continuazione di eventi che più intimamente il lettore vorrebbe veder succedere, è la continuazione della vita in “Il Romanzo”. Il dolore dell’Eterna ha tale alone di grandezza che il lettore non ha animo per continuare ad essere suo lettore e per nessun motivo desidererebbe andare avanti conoscendo questo destino sublime e straziante. Invece il lettore, non meno furbo dell’autore, in323

tuisce che se io aumento gli eventi di questo romanzo, attraverso la persona di La Eterna e nell’ambiente invidiabile de “Il Romanzo”, Forsegenio non tarderà a fiutarlo e a ricomparire sulle tracce di Dolce-Persona. E se anche egli non mi spingesse, nemmeno io riuscirei a mantenerlo separato da lei. Lo stato d’animo del lettore è questo: scommetterebbe tutto quello che ha che, con Dolce-Persona e Forsegenio insieme nel “Romanzo”, non ci saranno soltanto racconti e dialoghi insuperabili come quelli già riconosciuti a Forsegenio, ma anche la felicità di entrambi, imperturbabile e immensa, e il lettore potrà godere contemporaneamente del piacere malizioso di vedere un autore che si è impegnato e specializzato in sventure totali, obbligato a dipingere la felicità invulnerabile. Porrebbe nelle mie mani, con astuzia, una “felicità infrangibile” e si assicurerebbe risate per molto tempo vedendomi fallire nell’infrangerla, schiavo del mio istinto di pessimista. Se lui lo fa, io sottoscrivo; ma scoprire io una felicità, sapendo che nell’arte nessuna felicità è stata mai immortale e che ci sono lacrime, sospiri e ahimè! sventurati che si leggono per secoli, mai mi cimenterei in una simile impresa quando mi rimane ancora da inventare almeno una dozzina di situazioni per dare vita di persone ai personaggi. Non è triste, lettore, che gli abitanti fortunati della dimora “Il Romanzo” vaghino lontano, dispersi, privi della possibilità di ritornare a quell’esistenza innocente? Nonostante i pochi dettagli che vi diedi di come lì si viveva, sono certo che il solo intravederla abbia suscitato in voi profonda invidia; e una volta conosciuta niente e nessuno vi allontanerebbe da lei se non l’imperativo repentino di salvare la Eterna dall’umiliazione, o Dolce-Persona da un’asprezza di tono involontaria del Presidente nei suoi confronti. A me, l’autore, duole più che a chiunque altro interrompere quella vita; nessuno è stato più predisposto di me verso una società fervida di affetti. Nessun autore ha avuto la visione della tortura subita dal lettore dopo la parola FINE. Nessuno si è mai preso cura di quel momento. Per la prima volta lo faccio io, con324

sapevole che in opere che fanno innamorare, il lettore ha sempre voluto due pagine in più che si ribellino alla parola FINE e che, finito il libro, le rimangano vicine. Infine riconoscimi questo merito (soffoco all’idea di non avere alcun merito), riconoscimi che questo romanzo per l’infinità delle sue non-conclusioni è quello che ha creduto nella tua fantasia, nella tua capacità e nella tua necessità di completare e di sostituire i finali. A parte me, non è esistito romanziere che abbia creduto nella tua fantasia. Il romanzo completo, che è il più facile, l’unico usato in passato, quello tutto dell’autore, ci ha considerati tutti bambini da imboccare. Di questa omissione irritante e di pessimo gusto, prendetevi libero risarcimento nel mio.

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IL ROMANZO A STADI

La scuola artistica che dominerà presto, quando regnerà la massima severità dell’arte, coltiverà unicamente il romanzo a stadi, una sorta di melodia senza musica del succedersi dei vari stadi che traspongono i capitoli, una sorta di metafora di quello che si è sentito in ogni tempo del romanzo. La prosa sarà come la musica: successione di stadi senza prolissità di motivazioni, come si può capire se si riflette sul fatto che in una sonata di Beethoven ascoltiamo in un quarto d’ora la totalità di ciò che sentiamo leggendo un romanzo di quattrocento pagine, in molte ore. In quanto segue dò un esempio sommario provandoci con il mio stesso romanzo. Questo è, a stadi, lo stesso romanzo che avete appena finito di leggere. — Erano una pluralità umana in simpatia (Dimora ‘‘Il Romanzo”). — Appaiono senza passato: davanti a una felicità mai sognata per attenderla ma sognata come impossibile, e per sentirla più reale, tagliarono i loro passati, li fecero diventare sogni; dimenticarono vincoli, famiglie, ricordi. — Dietro il dolore provocato dal forzare l’oblio, erano felici quanto si può esserlo senza la passione. Il Presidente, che li convocò, li anima. 326

— L’immutare di un’allegria goduta nella convivenza, primo insinuarsi dell’insicurezza. — Per sfuggire a questo primo vacillare di una felicità fragile, tutti, pazzamente, per ordine del Presidente — Presidente, Eterna, Dolce-Persona, Forsegenio, Dunamor, Padre, Semplice, Andaluso — si dedicano all’opera di rallegramento, atto raro di esercitazione nella sopportazione attiva. — Hanno concluso tutto; provati i personaggi, ritornano al vivere illusorio nella dimora. — Ma non ritorna interamente l’allegria. Si inquietano per l’inquietudine del Presidente che ordina di passare all’Azione. Il piano è di soffocare il conflitto ostinato e interminabile nel quale Buenos Aires si sta distruggendo tra la Fazione Ilare e la Fazione Commovente, cieca discordia che Il Presidente ritiene originata dall’aver acconsentito per molti anni che a Buenos Aires regnasse la Bruttezza. Il Presidente e i suoi domineranno la contesa ed estirperanno la bruttezza civile. — Così si fa e si riesce, tutto grazie al miracolo del romanzo. — Sazietà triste di un’opera trionfante che per errore si credette avrebbe riportato la felicità agli abitanti di “Il Romanzo”. Fu reale la felicità nell’Amicizia che diede loro Il Presidente senza farsi sentire, delicatamente, ma ombra infelice qual era, egli dovette ricorrere all’Azione; più tardi, scontento ancora una volta, li inviterà alla dispersione, alla morte simulata. Egli fu infelice per non essere quello che avrebbe dovuto essere, soltanto Pensatore, e rese infelice La Eterna che fu quello che avrebbe dovuto essere. E questo obbliga ad essere scrittore e lettore di ciò che è triste. — La schiena, curva di dolore senza Morte, svanisce in lontananza.

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A CHI VOGLIA SCRIVERE QUESTO ROMANZO (Prologo finale.)

Lo lascio libro aperto: sarà magari il primo “libro aperto” nella storia letteraria, questo perché l’autore, desiderando che fosse migliore o perlomeno buono ed essendo convinto che, data la sua struttura disarticolata, si tratti di una grossolanità temeraria nei confronti del lettore, comunque ricca di suggestioni, autorizza qualunque scrittore futuro che abbia lo slancio e trovi circostanze favorevoli a un intenso lavoro, a correggerlo e pubblicarlo liberamente, menzionando o meno la mia opera e il mio nome. Non sarà un lavoro da poco. Sopprima, corregga, cambi, ma, se è il caso, che qualcosa rimanga. Con l’occasione ribadisco che la vera messa in opera della mia teoria del romanzo potrà compiersi solo scrivendo il romanzo di diverse persone che si aggregano per leggerne un altro, in modo che loro, lettori-personaggi, lettori dell’altro romanzo e personaggi di questo, si profilino incessantemente come persone esistenti, non “personaggi”, per contrappunto alle figure e alle immagini del romanzo da loro stessi letto. Una trama come questa, di personaggi letti e che leggono, con personaggi solo letti, sviluppata in modo sistematico risponderebbe a un’esigenza uniforme e costante della dottrina. Trama di romanzo doppio. Lo dico per confessare che il mio libro è molto distante dalla formula della bell’-arte di creare personaggi con la 328

parola. Rimane anche questa, quindi, un’“impresa aperta”. Lascio così consegnati la teoria perfetta del romanzo, un esempio imperfetto della sua messa in opera e un piano perfetto per la sua esecuzione. Si noti che nella sovrapposizione della doppia trama si dà la possibilità concreta di poter ottenere, tramite un’alchimia coscienziale, l’assunzione di vita per il personaggiolettore, con il conseguente rinvigorimento del nulla esistenziale del personaggio-letto (proprio per questo ancora più personaggio) che accentua il suo dichiarato non essere con un’enfasi di inesistenza che lo purifica e nobilita al di là di ogni promiscuità con il reale. E allo stesso tempo l’assunzione di esistenza del personaggio che legge incide sul lettore reale la cui stessa esistenza, come controfigura del personaggio, svanisce a poco a poco. Questo confusionismo deliberato è forse di una fecondità coscienziale liberatrice; conseguenza di artisticità genuina; artificiosità feconda per la coscienza nella sua capacità di indebolire la nozione e la certezza di essere, dalla quale procede l’intimidazione universale dell’altrettanto assurda e vacua nozione verbale del non-essere. Esiste solo un non-essere: quello del personaggio, quello della fantasia, quello dell’immaginato. L’immaginatore non conoscerà mai il non essere.

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POSTFAZIONE

Di ogni uomo è la miseria e la sconfitta, Pochi ma alcuni muoiono non vinti. M.F.

Per fortuna Macedonio odia da sempre l’erudizione. Ciò permette di affrontare la sua opera fuori dalla dimensione colta e, usando la Passione, elemento cardine della poetica dell’autore, lasciare che questa Eterna compagna dell’essere apra la via ai labirinti di una letteratura sempre proiettata e mai scritta, o meglio, riscritta dopo le morti di Macedonio dallo stesso autore e da suo figlio Adolfo de Obieta. Davanti ai testi di Macedonio è meglio proporsi come un analfabeta in geroglifici, come chi non conosce i misterici glifi della metafora, come un neofita dell’incomprensibile metafisica europea. Di fronte alla scrittura di Macedonio è meglio farsi trascinare dalla musica che si incontra nella musica e non dalla musica che si fa con le parole: la poesia. Pessoa, Pirandello, Vallejo, Borges, Camus, Sartre, Paz, Malraux, Pavese, García Márquez, Calvino, Lezama Lima, Pasolini, Rulfo, Mutis, sono alcuni tra i “latini” di questo secolo, assieme a molti altri di diverse latitudini, maestri nella Bellarte della letteratura e della vita. Tra loro si erge la figura di Macedonio, che assai giovane lancia segnali da una città tanto periferica quanto sconosciuta chiamata Buenos Aires d’Argentina, là sulle rive del Rio de la Plata, così vicina e così distante da Santa Fé di Bogotá come lo sono Parigi, Milano o Praga da quest’ultima. 333

Macedonio nacque in diverse condizioni, nacque più di sette volte per il mondo, nacque, così come scrisse, per l’Eternità: “L’Universo o Realtà e io nascemmo il primo giorno di giugno del 1874 ed è semplice aggiungere che ambedue le nascite avvennero qui vicino in una città di Buenos Aires e il non nascere non ha nulla di personale, è semplicemente non avere mondo”.1 “Nacqui presto, su una sola sponda (ancora non mi sono asciugato del tutto) del Plata. Mi trovavo a Buenos Aires in quel tempo, era il 1875: fu l’anno della rivoluzione del ’74, come poi ci fu un anno per la rivoluzione del ’90. Poche persone hanno iniziato la vita così giovani […]. Per un minuto fui l’americano più giovane […] Macedonio è analfabeta: per trascuratezza della famiglia gli insegnarono solo a scrivere le sue Opere Complete — primo libro che pubblicherà — ma non [gli insegnarono] a leggere”.2 “Nacqui porteño e in un anno molto 1874. Non subito dopo, però sì, poco dopo già cominciai a essere citato da Jorge Luis Borges, con così poca riservatezza di encomi che, per il tremendo rischio a cui si espose con questa veemenza, cominciai a essere io l’autore del meglio che lui aveva prodotto. Fui un talento de facto, per travolgimento, per usurpazione della sua poesia. Che ingiustizia, caro Jorge Luis!…”3 “Ho 54 anni, nacqui a Buenos Aires il primo di giugno del 1874, di ascendenza, materia e potenza ispanica, americano di molte generazioni, figlio di Macedonio Fernández e

1. Autobiografia, Pose n. 1, in “Gaceta del Sur” (1928); oggi in Papeles de Recienvenido y Continuación de la Nada, in Obras Completas, Corregidor, Bs. Aires 1989, vol. IV, p. 84. 2. Carta abierta argentino-uruguaya, in “Martin Fierro”; oggi in Papeles cit., p. 38-43. 3. Autobiografia, Pose n. 5, para “Sur”, precedette la pubblicazione in “Gaceta del Sur” (1941) del racconto “Cirugía psíquica de extirpación” in Papeles cit., p. 90.

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Rosa del Mazo, oggi di 80 anni, probabile discendente del pittore J.M. Mazo (da cui posso aver ereditato grande vigore visuale, non uso occhiali, anche se non ho attitudine né discernimento in pittura) e [discendente di] una matrona dalle più numerose e profonde amicizie in Argentina. Per il sentimento e l’intelligenza, per l’abnegazione e le certezze di attitudine pratica, etica e mistica lei è il mio Dio visto e la mia compagna, è perfetta, è perfetta perché non posso inventarle nulla che aggiunga virtù o bellezza, ed è mia opinione che ogni idea senza rappresentazione (un Dio non rappresentato, una super-perfettizzazione di cui non sappiamo dare dettagli) è un falsetto di credenza […]. Predilezione per la metafisica, dottrina generale della scienza, psicologia, problema dell’Arte, musica (chitarra); in letteratura quasi sempre molto ritardato in criterio e letture, però molto interessato all’estetica del Romanzo. Senza concetto o gusti in pittura e scultura; un po’ in architettura. Ho studiato costantemente i misteri della salute, e da tempo considero la terapeutica come un’impossibile speranza antibiologica”.1 “Nacqui a Buenos Aires, 1874, figlio di Rosa del Mazo e Macedonio Fernández; avvocato nel 1885. Fino ai ventanni mi entusiasmai di Spencer e fino a oggi sono suo discepolo in Critica dello Stato e Critica della Medicina […]. Ammiro Kafka, Gómez de la Serna, Supervielle e ammiro di più chi resiste alla lettura di Omero, Virgilio, Dante, Milton…”2 Tuttavia per Macedonio il problema non è nascere e neppure morire. Sopravviene una seconda nascita: conduce i suoi studi secondari (liceali) al Colegio Nacional Central e quelli universitari alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Buenos Aires fino alla professione che esercita bonariamente nel nord dell’Argentina, dove co-

1. Trascrizione della lettera a Ramón Gómez de la Serna pubblicata originalmente in Retratos Contemporáneos; oggi in Epistolario, in Obras Completas, Corregidor, Bs. Aires 1976, vol. II, pp. 49-50. 2. A Juan Pinto, risposta a una richiesta di “dati” personali al fine di utilizzarli nel dizionario argentino che sta compilando; Ibid., p. 189.

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nosce per caso il narratore uruguayano Horacio Quiroga, e lavora nella capitale fino al 1917. Macedonio nasce per la letteratura quando inizia a scrivere nel 1889 sul giornale socialista “La Montaña”. Le morti sono solo un occultamento. Macedonio nasce anche per la poesia quando pubblica nel 1904 nella rivista “Martin Fierro” i poemi “Breve encantamiento” e “La tarde”. Il poeta torna a nascere nel 1901 quando si sposa con Elena de Obieta e torna a occultarsi con lei alla sua morte, lasciando nel 1921 un testamento nel suo poema più compiuto e perfetto che Borges ha definito arbitrariamente “patetico”: Elena Bellamuerte. La sua preoccupazione è lasciar sgorgare tutto ciò che sente e conosce per “uccidere la morte di Lei”. Nasce ancora quando inizia il suo proficuo epistolario (con Bioy Casares, Arciniegas, Girondo, Güiraldes, Borges, Ingenieros, l’editore Losada, Petit de Murat, Silvina Ocampo, Alfonso Reyes, Elena Duncan, tra gli altri) e si occulta ogni volta che sia necessario per la vita e per l’arte, suo obiettivo ultimo. Senza presunzioni o ritegno, così nasce, così muore Macedonio. Mai muore completamente, perché si cela, si “occulta” tra le maschere dei suoi scritti frammentari, della sua indolenza di fronte alla letteratura e all’imperiosa e arrogante necessità di pensare, nulla di più. La sua umiltà è arrogante: non a caso ama Cervantes, Shakespeare, Poe, Quevedo e disprezza Calderón de la Barca, Graciàn e Valéry. Considera poeta Gómez de la Serna e si lascia visitare da Juan Ramón Jiménez, il più arrogante tra gli arroganti, mentre con umiltà corrisponde con Arreat, Payot, Guyau o William James e con umorismo è Scrittore della rivista “Oral”. La sua nascita più autentica avviene quando si dichiara un recienvenido (neo-venuto) alla letteratura. In Autobiografia, Pose n. 1 scrive: “Non trovando nulla di significativo che conti nella mia vita, non mi resta altro che questa cosa delle nascite, perché ora ne avviene un’altra: comincio a essere autore. Dall’Avvocatura mi sono mutato; sono appena entrato nella Letteratura [in nota: Molte grazie!, disse l’Avvocatura; Nessuno si spaventi! disse la Letteratura; Commovente! dis336

se l’Impassibilità di tutto è lo stesso] e non essendo venuto con me nessuno della mia clientela giudiziaria, non ho ancora il primo lettore”.1 Questo raggiungimento segna una nuova nascita, quella dell’“Ultraísmo”, il più famoso movimento di avanguardia in America Latina2 assieme all’“Estridentismo” messicano e al “Simplicismo” peruviano, gruppi che si formano dopo l’esaurimento del “Modernismo” di Rubén Darío e del “Creacionismo” di Vicente Huidobro: Macedonio già superava i quarantacinque anni tra i giovani ventenni dell’avanguardia argentina. Si trattava né più né meno che di Borges, Eduardo Gonzáles, Guillermo de Torre, Evar Méndez, Leopoldo Marechal, autore del romanzo Adán Buenosayres e Oliverio Girondo, autore di Veinte poemas para ser leídos en el tranvía. Nella sequenza di sostantivi evidenziati finora — passione, bell’-arte, eternità, universo, realtà, porteño, americano, analfabeta, sentimento, intelligenza, abnegazione, attitudine, etica, mistica, nulla, virtù, bellezza, idea, metafisica, psicologia, arte, musica, letteratura, estetica, romanzo, mistero, speranza, occultamento, recienvenido (neo-venuto) —, il lettore può incontrare gli elementi che si trovano alla base della poetica di Macedonio. Implicito è solo l’umorismo, evidente nella manipolazione di parole per costruire dati autobiografici. Tra i molti elementi, elaborati, esposti in forme complesse e offerti in modo tortuoso e sconnesso — come i suoi scritti —, appare la rottura con le regole canoniche della metodologia tradizionale. Da questa trasgressione emergono tre chiavi di lettura classificate da C. Fernández Moreno come la Poemática del pensare, l’Umoristica concettuale o illogica

1. Pubblicato in “Gaceta del Sur” (1928); oggi in Papeles cit., p. 84. 2. Si ricordi che l’avanguardia in Brasile avviene in ritardo nei confronti dell’America ispanica e a differenza di questa, si chiamerà “Modernista” il movimento sorto nel 1922 nella Settimana d’Arte Moderna, spinto da Mario de Andrade e Manuel Bandeira.

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dell’arte e la Narrativa, letteratura seria, o di Passione.1 Tre chiavi escono dall’attenta lettura dell’opera nel suo insieme e in particolare di No todo es vigilia la de los ojos abiertos del 1928, così come tre sono i periodi o momenti, individuati da Obieta, che comprendono l’attività poliedrica del poeta, umorista, metafisico, romanziere, pensatore, musicista, giornalista, melomane, narratore argentino: già nel titolo si osservano i termini estremi del sintagma che spiegano il nucleo di tutta la sua concezione artistica, veglia e sonno, la soglia impercettibile che separa la ragione dalla non-ragione, la realtà dalla finzione, l’essere dal nulla, il personaggio dalla persona.2 In Macedonio si trova la summa dell’assioma fondamentale riconoscibile in tutta la storia del pensiero occidentale, sempre nella considerazione del contesto di uno scrittore protagonista dei movimenti d’avanguardia.3 1. Cfr. “El Existidor”, prologo a Museo de la novela de la Eterna (antologia) Ayacucho, Caracas 1982 e con lo stesso titolo in “Casa de las Americas” (1976), n. 9, La Habana; e in “Ser o no ser escritor in América Latina: el caso de Macedonio Fernández”, in El Repertorio Americano, II (1979), vol. I, Londra. In ogni caso proviene dalla visione che dà lo scrittore argentino Leopoldo Marechal: “Nella figura di Macedonio bisogna considerare tre aspetti, per me nel seguente ordine gerarchico: Macedonio metafisico, Macedonio narratore, Macedonio umorista”, in Hablan de Macedonio Fernández, a cura di L. García, Carlos Pérez, Bs. Aires 1968, p. 68. 2. Dice Adolfo de Obieta: “La sua tesi non è distinguere la veglia dal sonno. Non credeva che il sonno fosse interruzione del reale, ma una forma più profonda. Gli sembrava che l’essere in quei momenti di sonno vivesse con intensità, facesse tante o più esperienze che durante la veglia”, Ibid., p. 21. 3. Nel romanzo fino al termine del XIX secolo, con Realismo e Naturalismo, come scuole di riferimento solide e indiscutibili dell’evoluzione della narrativa moderna, sono evidenti la linearità temporale, la caratterizzazione dei personaggi, l’analogia tra realtà e realtà fittizia, la narrazione impersonale e l’intenzionalità didattica ed etica. La poetica romanzesca si configura tramite il dialogo di questi elementi di palinsesto senza mai mettere in discussione il complesso apparato scritturale del romanzo. La sua filosofia infatti, in auge dal romanticismo, si consolida con il trionfo di quest’ultimo sulla concezione razionale illuminista. Saranno le avanguardie agli inizi del ’900 a ribellarsi di fronte alle rigide e obsolete norme di composizione.

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Dinanzi alla grandezza dell’opera o alla complessità della sua teoretica è opportuno fare qualche considerazione sul Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello), con il proposito di fornire elementi per la lettura di Macedonio nel suo insieme. Riguardo alla Poemática del pensare è importante chiarire che per Macedonio scrivere è secondario, prioritario

L’ansia di rottura apre, come dice Bachtin, l’accesso alla “polifonia”, ossia la permeabilità del testo a più scritture, all’intertestualità che conduce alle più svariate sperimentazioni. Dalla monumentale opera di Joyce di Ulisse e Finnegans Wake, attraverso la visualizzazione dei Canti di Pound, la sarcastica consapevolezza dei Detti e contraddetti di Kraus, la forza d’urto della stagione futurista italiana in Zang Tumb Tumb di Marinetti [a questo proposito si veda “Brindisi a Marinetti” in Papeles cit., pp. 60-63], l’esasperazione Dada nella scrittura automatica di Tristan Tzara, la forza espressionista di Döblin in Berlin Alexanderplatz, le ironiche Greguerías di Gómez de la Serna, fino a giungere all’arbitrario e funambolico Majakovskij, tutti i movimenti d’avanguardia irradiano a partire dall’Europa, in tutto l’occidente, uno spirito anticonformista, antistorico e rivoluzionario. In America Latina Rubén Dario, Huidobro, Lugones, Borges, Vallejo, il primo Neruda, il primo Paz inseriscono nella poesia ciò che accade in Europa. Questa trasformazione era già cominciata con l’arrivo nel nuovo continente dell’opera di Baudelaire. In narrativa Macedonio precede tutti. Nel 1922 con la definizione del progetto di romanzi “gemelli e indivisibili” Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto) e Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello) anticipano per “coscienza d’arte” e non per conoscenza diretta le opere avanguardiste europee. Verso i suoi contemporanei Macedonio è implacabile. In “Delirando con los que deliran” oggi in Papeles cit., p. 306 dice: “Giuro: per le rughe e fessure del mare e per non mancare a fianco di quelli che imprecano, che mi appresto a entrare nell’interminabile discussione o confusione Universale sul Surrealismo, Incoscientismo, Dadaismo, Post-impressionismo, Neorealismo, affinché la polemica su Picasso-Le Corbusier, Alban Berg-Eliot non si estingua per mancanza di Confusione. Sul Macedonio avanguardista, indipendentemente dalla sua posizione di animatore del gruppo “Martinfierrista” e dell’“Ultraísmo” si veda C. Fernández Moreno Introducción a la poesía. Fondo de Cultura Económica, México, 1962, pp. 60-61.

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è pensare come risultato della contemplazione e massima concezione della poesia: “È tutto dentro di me, tutto è pensato, scriverlo non ha importanza”.1 Come accadde con Pessoa, Macedonio mai si preoccupò di scrivere e collezionare i suoi scritti, risultato della lucida certezza che la soluzione alla vita è l’idealismo assoluto, come sintesi tra realtà e sogno, che a volte si risolve in azione.2 Questo è il caso di Museo: diversamente dagli autori tradizionali, Macedonio concentra nell’azione immobile romanzisticometafisica, vitale e appassionata contro la morte, la ricerca dell’Infinito e dell’Eterno. L’operazione letteraria in Museo consiste nella distruzione dei canoni narrativi storici e nel tentativo realizzato, di annullare l’autore e definire il lettore come individuo autonomo costretto a trasformarsi in coautore dell’opera. Macedonio giunge da molto lontano per dare corpo a un progetto allucinato 3 che con il passare degli anni è andato maturando come frutto delle sue letture parallele di metafisica, narrativa e musica. Questo proto-Macedonio4 è 1. Cfr. Hablan de Macedonio cit., p. 16. 2. A. de Obieta racconta che il poema Elena Bellamuerte, scritto nel 1921, venne pubblicato solo nel 1941 in “Sur”, X, n. 76, perché alla morte di sua moglie Macedonio scrisse il testo su dei fogli sparsi, come scrisse quasi tutta la sua opera, e lo “occultò” in una scatola di biscotti ritrovata vent’anni dopo in casa di un amico. 3. Macedonio si propone una nuova estetica a partire da un critica fondata al Realismo in ciò che egli chiama “Allucinazione di vita” cioè, il tentativo di fuggire al mondo dell’illusione, della rappresentazione. Il meccanismo che spinge il lettore a identificare un essere della realtà reale con uno della realtà fittizia, cfr. pp. 47, 60, 63, 64, 66, 143, 144 di questa edizione. Rifiuta invece un elemento definitorio nella poetica di Borges: la visione speculare. Per la teoria del romanzo si veda, inoltre, Teorías, Obras Completas, vol. III, Corregidor, Bs. Aires 1974. 4. Quello di Disgregaciones filológicas in “El Progreso” (1892), n. 12; La “Ciencia” de la vida in “El tiempo” (12 gennaio 1897); o di Ensayo para una nueva teoría de la psiquis. Metafísica preliminar in “La Universidad popular” II (1906), n. 11-12, oggi in Papeles Antiguos, in Obras Completas, Corregidor, Bs. Aires 1981, vol. I.

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consapevole della necessità di una nuova estetica e, diversamente dai suoi contemporanei, è il primo a considerare una simile mancanza nel romanzo: “Insisto che la vera esecuzione della mia teoria romanzesca verrà compiuta solo scrivendo il romanzo di veri personaggi che si uniscono per leggerne un altro, in modo che essi, lettori/personaggi, lettori dell’altro e personaggi di questo si moltiplicheranno incessantemente come persone inesistenti”.1 È d’obbligo segnalare che il progetto originale contemplava la perfetta simmetria di due opere: Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto) e Museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello). Dovevano essere scritte, pubblicate e vendute simultaneamente, e ciò significava per il potenziale lettore l’acquisizione di almeno una delle due, trasformandola così in “Romanzo Obbligatorio”.2 Ciò nonostante nel “Brindis a Scalabrini Ortiz”3 lo scrittore afferma: “Non credo molto che la letteratura del passato sia bell’-arte; opere di prosa artistica, di genere serio, non abbondano. Affinché smetta di mancare all’umanità una genuina bell’-arte 4 della paro-

1. Cfr. Papeles cit., p. 34. 2. Cfr. p. 29 di questa edizione. 3. A Macedonio è stata attribuita l’invenzione del genere “letteratura orale” che consisteva nel comporre brindisi e omaggi a personaggi importanti durante cene o banchetti dei gruppi dell’avanguardia. A. de Obieta aggiunge in nota: “In una delle versioni di questo brindisi appare qui un’aggiunta a quanto sembra non confermata in seguito”. Si riferisce alla Teoria del Romanzo che l’autore sosterrà nel Museo e dice: “L’uso fino a oggi infantile dei personaggi e della trama nella Prosa d’Arte, la prosa ‘per servire’ il lettore vezzeggiandolo nel fantasticare su tutto ciò che vorrebbe essere, possedere o fare, che è l’essenza di tutto il romanzismo e del teatro fino a oggi, cesserà, e inizierà l’uso artistico del personaggio, il primo romanzo d’arte, con commozione senza corteggiamento. Questo o niente; non più di quello” in Papeles cit., p. 68. 4. È importante l’interpretazione della metafora che fa Leopoldo García: “Oltre ad essere una condensazione di Belle Arti, una sorta di metafora fallita, non cessa di realizzarsi letteralmente un’altra metafora: (V) bellarte.

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la, affinché appaia per esempio il primo romanzo bello è necessario che si scriva l’ultimo brutto. Scriviamolo noi, qualcuno di noi”. Così li scrive entrambi, e a proposito dell’Umoristica concettuale afferma: “A volte mi confondo per il lavoro simultaneo dei due, e in questo, che è il romanzo bello redigo un po’ del genere di quello brutto”, o, “Quanto soffrii nel non sapere se una pagina brillante apparteneva all’ultimo romanzo brutto o al primo bello”.1 Da qui nasce la necessità di scrivere l’“ultimo brutto” e il “primo bello” in forma parallela e contemporaneamente. Nelle due opere l’autore fa ricorso al modulo tradizionale: l’“ultimo brutto” segue la struttura dei modelli in voga, realismo e naturalismo, mentre il progetto del “primo bello”, anche quando appare lo schema I/prologo - II/testo - III/epilogo, assume un carattere decisamente eversivo e Avanguardista, che introduce alla Romanzistica, letteratura seria o della Passione.2

Nella scrittura Elena viene sempre velata (la si copre e la si vela). Il cambio della V per B, oltre che dovuta a un’esigenza di velare, rimanda anche — è la traccia — al cognome di Elena Obieta”. Leopoldo García, Macedonio Fernández — la escritura en objeto —, Siglo XXI, Bs. Aires, 1975, p. 151. 1. Cfr. p. 29 di questa edizione. 2. Si rimanda il lettore al primo prologo “Ciò che nasce e ciò che muore”, p. 29 di questa edizione. A questo proposito Leopoldo García afferma: “L’ultimo romanzo brutto (vita) che Macedonio scrive insieme al primo romanzo bello (morte) mostra che il brutto e il bello non si possono discriminare: ciò che muore (brutto) è la vita, ciò che nasce (bello) è la morte”, in Macedonio cit., p. 151.

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Il libro appare così strutturato: I. 1. MUSEO DEL ROMANZO DELLA “ETERNA”. (Presentazione del testo). DEDICA AL MIO PERSONAGGIO LA ETERNA 2. Cinquantasette prologhi senza numerazione e titolati. II. 1. QUESTI SONO STATI PROLOGHI? E QUESTO SARÀ ROMANZO? (Appello al lettore). SVEGLIA, INIZIA IL TEMPO DEL ROMANZO. SI MUOVE. Primo minuto: evocazione del volto della Eterna. 2. Venti capitoli numerati da I a XX, di cui dieci con un sottotitolo tra parentesi e in neretto e i restanti con un’epigrafe in corsivo. Nel n. XX come epigrafe si trova Epilogo e come conclusione FINE. III. Tre prologhi titolati, di cui l’ultimo: A CHI VOGLIA SCRIVERE QUESTO ROMANZO (Prologo finale).

I.1 e II.1. si equivalgono nella brevissima estensione e si complementano, poiché in I.1. si materializzano la Presentazione e un’anticipazione dell’argomento del romanzo, con le dovute avvertenze sulle tecniche e i mezzi della scrittura; in II.1 invece l’autore interpella direttamente il lettore. In I.1. Macedonio parla di Scrittura (dedica), in II.1. di Lettura (evocazione). Si tratta di due fasi del medesimo evento: la creazione del testo avviene perché: “Eterna è la scrittura e Eterna è la lettura”. L’Eterna si riferisce all’eternità come essere assoluto, senza passato, senza presente, senza futuro nella metafisica di Macedonio. Eterna si trasforma nell’elemento che risolve la dicotomia bene/male, vita/morte, essere/nulla. Eterna quindi è la metafora che in forma di personaggi annulla le scissioni e agisce come sintesi di scritto-letto, per risolvere dialetticamente e dinamicamente il testo. Ciò viene giustificato dallo stesso autore: “Ho la fortuna di essere il primo scrittore che può dirigersi al doppio lettore”. Anche I.2. e II.2., Prologhi e Capitoli si equivalgono 343

nell’estensione e si completano. In II.2. si propongono l’intero progetto e la teoria sull’arte del romanzo e della sua scrittura. In II.2. si attua, si concretizza la riflessione teorica per mezzo della realizzazione del testo, I.1. e II.1. spiegano una sola attività: la Scrittura/Lettura. I.2. e II.2 attuano un unico evento: la Teoria/Pratica della Letteratura. III. si propone in apparenza come entità autonoma ma in correlazione con I. (prologo-epilogo) e con un Prologo finale: A CHI VOGLIA SCRIVERE QUESTO ROMANZO. È oppurtuno evidenziare come in I./ Prologo il paradossale Macedonio scrive: “Con un finale di Morte Accademica: presentazione nell’arte e nella vita, di un uso sapiente dell’Assenza, equivalenza volontaria di una morte edulcorata. E un atto previo di Manipolazione dei Personaggi: dimostrazione di rispetto e di garanzia per il Pubblico Lettore a cui per la prima volta viene tributato”. In II./ Testo si trova l’imperioso richiamo: “Che il lettore possa aggirarsi in queste pagine prima di leggere nella sua assai degna indecisione e gravità”. In III./ Epilogo invece: “Questi è lo spazio in cui i lettori si agitano per la risurrezione di persone…”, e come incipit del (Prologo finale): “Lo lascio libro aperto: sarà magari il primo ‘libro aperto’ nella storia letteraria…”. Nel 1922, quando Macedonio ha già il progetto definitivo e conclude l’“ultimo romanzo brutto”, Joyce sta pubblicando Ulysses e comincia a comporre Finnegans Wake che darà alle stampe nel 1938. Tre anni dopo esce la citata Novela que comienza. È una coincidenza? Certamente. Non esistono tracce di una possibile lettura dell’universale scrittore-artista irlandese da parte del metafisico umorista-poeta argentino, ma è merito di ambedue la nascita delle prime opere aperte. Questo “strambo” porteño, che mai esce dalla sua regione nativa se non con attenta circospezione, leggendo e scrivendo correntemente inglese e francese riesce a uscire dal romanzo con un’operazione letteraria simile a quella di Joyce negli intenti ma differente nei meccanismi e risultati. Joyce infatti rimane in qualche modo presenza onnisciente, invisibile burattinaio della sua opera, mentre 344

Macedonio si annulla nella dissoluzione dell’autore. Il risultato si differenzia totalmente anche dalla scrittura automatica e dagli esperimenti Dada. L’opera di Macedonio mai è casuale, mai fine a se stessa, anzi si sublima in un lungo percorso sentimentale e consapevole che culmina nel pensiero puro. Forse è il caso di suggerire la lettura di due grandi scrittori: Cortázar e Calvino. È una coincidenza? No. Sovente affiorano le tracce di una lezione assimilata con umiltà che ha prodotto eccellenti risultati.1 L’operazione letteraria che riflette come tema principale la scrittura del romanzo,2 prosegue con una serie di elementi caratterizzati dall’infinità, come se fossero una costellazione di segni. Tra i più significativi emergono l’atto ludico, presente nel gioco tra prologhi e romanzo e nel concetto “la letteratura è solo inventare”.3 Altri segni comuni appaiono come personaggio del romanzo, manipolazione di personaggi, romanzo di personaggi, irrealtà del personaggio, inesistenza del lettore, lettore-letto, finzione nella finzione, meta-finzione, rivoluzione della sintassi, invenzione della “letteratura insipida”, elemento onirico anti-surrealista e superrealista, misconoscenza del mito, negazione della rappresentazione, mondo come significato… ancora una volta nulla è casuale, come appare nella sua mordace ironia, nello humor spietato, nell’affanno di dimostrare l’assurdo.

1. Rimando il lettore al Cortázar di Rayuela (1963) ed. it. Il gioco del mondo, Torino, Einaudi, 1969; di 62/modelo para armar (1968), ed. it. Componibile 62, Torino, Einaudi, 1974; e delle Historias de cronopios y de famas (1970), ed. it. Storie di cronopios e di fama, Torino, Einaudi, 1981. Così come a: Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino, 1979. 2. Le tentazioni evocative sono molte. È sufficiente ricordare il Pirandello dei Sei personaggi in cerca d’autore. 3. “Macedonio prende posizione: la sua opera è un’impossibilità dominata dall’assenza, il suono del linguaggio e il pubblico disturbano l’unico atto memorabile: l’atto di scrivere. Si beffa della letteratura: è una negazione della letteratura come atto comunicabile e un’affermazione della scrittura come fatto personale”. Cfr. Hablan cit., p. 113.

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Macedonio sostiene dialoghi immaginari con Eterna perché non crede nel tempo, nello spazio e nella morte, dimostrando una profonda e loquace umanità, “occultato” nell’apparente freddezza di una prosa che più si erge fantastica più diviene umana.1 In Museo… si attua la doppia simbolizzazione dell’amore impossibile tramite lo sdoppiamento dei personaggi Eterna e Dolce-persona. Il riferimento è a un unico amore che si risolve solo con l’intervento della Passione, espresso da Dunamor, il Non-Esistente-Cavaliere ossia Nec, il personaggio di presente inesistenza, che esprime a sua volta la sintesi tra Presidente e Forsegenio. Macedonio nel romanzo è Presidente, Forsegenio, autore-lettore, personaggio che cerca di trasmigrare in Dunamor. Eterna che si proietta in Bellamorte è Elena de Obieta e Dolcepersona è Bellaviva. Intorno a questo incredibile labirinto circolare girano la non-morte, l’eternità, l’immortalità, a loro volta allacciate nel vuoto del sogno, nella fantasia del romanzo, nell’assenza/presenza immaginata dalla realtà.2 Rintracciare un unico filo tra personaggi, autore, lettori, condizioni ed eventi è impossibile. Ma paradossalmente questo caotico universo non è casuale. Con ironia Macedonio lascia che il lettore si perda e si confonda nel suo mondo composto da relazioni e non da un creatore.3 Così si muove il pensiero di Macedonio; il

1. Basti ricordare i racconti Tantalio (1930); Chirurgía psíquica de extirpación (1941); El Zapallo que se hizo Cosmos (1941) e Cuento de literatura no literaria (1945), oggi in Relato, in Obras Completas, Corregidor, Bs. Aires 1987, vol. VII. 2. Cfr. nella presente edizione “I personaggi ‘manipolati’ e così ottenuti…”, cap. I; “La vita vuole introdursi nel romanzo” e “Racconto di Suicidia”, cap. VII; “La conquista di Buenos Aires”, cap. IX. 3. “Il disordine del mio libro è lo stesso di tutte le vite e opere apparentemente ordinate. La congruenza, un progetto che si esegue in un romanzo, in un’opera di psicologia o di biologia, in una metafisica, è un inganno dei mondo letterario e forse di tutto il mondo artistico e scientifico” p. 140 di questa edizione.

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romanzo è la riflessione di un romanzo che ha una ragion d’essere in quanto riflessione sulla propria assenza/presenza. Esiste un’operazione anche metafisica,1 di metafisica di tenerezza, di “metafisica d’amore” per usare le parole di Marechal, che porta il lettore ad altri elementi d’infinità, tra cui emergono eternità, immortalità, assenza di coordinate spaziotemporali, inesistenza del tempo, compensazione o scompenso nella vita tra piacere e dolore, come nell’idillio/tragedia di Museo… Un ulteriore segno è l’“almismo ayoico” ossia il primordiale interesse verso la conoscenza dell’anima, trasmutazione dell’io: “Sono l’immaginatore di una cosa: la nonmorte; e la lavoro artisticamente per la trasmutazione dell’io, la sconfitta della stabilità di ciascuno nel suo io”. Macedonio parla dell’inesistenza dell’essere, dell’incontro del nulla: “Il nulla è l’assenza di quello che già fu, mai c’è stato un non aver nulla”, e nel Museo… aggiunge: “Tutto è stato scritto, tutto è stato detto, tutto è stato fatto, si sentì dire Dio e non aveva creato il mondo, non c’era nulla. Anche questo me l’hanno detto, replicò forse dal vecchio abissale Nulla, e cominciò”.2 Anarchico puro, socialista utopico per affetto verso i suoi amici, socratico nella metodologia, Macedonio è un lettore antipositivista di Comte, Kant, Spencer, James, Schopenhauer. La sua densità arriva al punto da sembrare un’invenzione degli scrittori argentini: non è mai esistito, come affermano Borges e tanti altri, perché nega l’io e fugge correndo se affronta la morte, si svincola dal suo corpo,

1. Metafisica non filosofica: di annullamento per sintesi assoluta di un pensiero forte e consolidato. Antipositivista, antikantiano, metafisico dell’idealismo puro: “Io non sono filosofo né trovo un senso alla parola filosofia” dice Macedonio in contrasto con ciò che afferma Borges nell’Orazione funebre dedicata al suo maestro e che inizia così: “Un filosofo, un poeta, un romanziere muoiono in Macedonio Fernández e questi termini riferiti a lui rivestono un senso che non hanno solitamente in questa Repubblica” in “Sur” (1952), Bs. Aires, pp. 145-47. 2. Cfr. Prologo all’Eternità, p. 31 di questa edizione.

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dalla realtà e dal linguaggio per giungere a ciò che chiamerà “suicidio analgesico”, l’ensueño, ossia l’entrata nella sfera del sogno, del Cosmo, non del corpo. D’altra parte l’essere prevale sul fare: “Non vi è dubbio che le cose non hanno inizio, o non iniziano quando le si inventa. O il mondo è stato inventato antico”.1 Come è stato possibile, alla fine, il romanzo perfetto? Anche l’autore parla al lettore di libri in vetrina, ai critici, ai non esperti in metafisica, al lettore singhiozzante, ai personaggi, all’autore del romanzo, ai lettori che soffrirebbero se ignorassero ciò che il romanzo racconta, alle porte del romanzo. Andando dal prologo metafisico all’altro prologo, dal prologo al mai visto al prologo del personaggio preso a prestito, dal prologo che si sente romanzo al prologo del bollitore e dell’armadietto, dal prologo modello al prologo quadruplo, emerge un’imprecazione per il lettore ininterrotto: l’uomo che fingeva di vivere comprende ciò che nasce e ciò che muore nel fanatismo essenziale del mondo. Eterna e Dolce-Persona, Forsegenio, il Presidente e la Morte come Dunamor sono un sognare senza limiti nel focolare della non esistenza. Il vero lettore potrà scrivere questo romanzo nel labirinto del suo indice. Fabio Rodríguez Amaya Milano, febbraio 1992 Dedico questo lavoro a mia sorella Martha e alla memoria di Italo Calvino

1. Ibid.

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INDICE

Macedonio Fernández di J.L. Borges . Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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MUSEO DEL ROMANZO DELLA ETERNA

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7 19 25

DEDICA AL MIO PERSONAGGIO LA ETERNA . . . . . . . .   27 PROLOGHI Ciò che nasce e ciò che muore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Prologo all’eternità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Prospettiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Prologo alla mia persona d’autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Andando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Anche l’autore parla. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Ai critici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Lettera ai critici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Presentazione per la eterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Focolare della non esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Siamo un sognare senza limite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Ai lettori che soffrirebbero se ignorassero ciò che il romanzo racconta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Nuovo prologo alla persona del mio autore . . . . . . . . . . . . . .   Prologo che crede di sapere qualcosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Romanzo dei personaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Prologo mai visto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Salutazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Altro desiderio di salutare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .  

29 31 32 35 37 39 42 43 45 47 49 50 58 63 66 69 79 81

Come è stato possibile, alla fine, il romanzo perfetto . . . . . . .   84 Dunamor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   87 Un personaggio, prima di essere inaugurato. . . . . . . . . . . . . . .   91 Prologo, anch’esso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   92 Prologo metafisico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   94 L’uomo che fingeva di vivere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   100 Guida ai Prologhi (prologo indicatore) . . . . . . . . . . . . . . . . .   104 Alle porte del romanzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   106 Entrata in prologo di Federico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   109 Al lettore di libri in vetrina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   113 Due personaggi scartati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   116 Primo prologo del romanzo per il lettore ottuso . . . . . . . . . .   120 Ai non esperti in metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   122 Descrizione della Eterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   125 Il fanatismo essenziale del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   126 Prologo dell’indecisione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   128 Un altro prologo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   129 Questo è il romanzo iniziato con la perdita . . . . . . . . . . . . . .   131 Romanzo delle cose compiute, dei mutismi . . . . . . . . . . . . . .   135 Eterna e Dolce-Persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   136 Prologo del personaggio preso a prestito . . . . . . . . . . . . . . . .   138 All’autore (del romanzo) non accade nulla? . . . . . . . . . . . . .   139 Prologo alla disperanza d’autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   140 Forsegenio si lamenta del suo nome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   142 Ai personaggi del mio romanzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   143 Prologo di doverosa lettura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   144 Cosa volete: devo continuare i prologhi . . . . . . . . . . . . . . . . .   145 Ciò che mi accade . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   146 Prologo che si sente romanzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   148 Prologo del bollitore e dell’armadietto . . . . . . . . . . . . . . . . .   152 Lettera geniale che io vorrei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   153 È sufficiente “precedere” per essere un prologo? . . . . . . . . .   157 Prologo modello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   159 Prologo quadruplo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   161 Il presidente e la morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   165 Al lettore singhiozzante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   167 Imprecazione contro il lettore ininterrotto . . . . . . . . . . . . . .   168 Prologo che fra i prologhi si alza in punta di piedi . . . . . . . .   170 1° Nota di postprologo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   172

QUESTI SONO STATI I PROLOGHI? E QUESTO SARÀ IL ROMANZO?. . . . .

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175

SVEGLIA. INIZIA IL TEMPO DEL ROMANZO. SI MUOVE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo IV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo VII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo IX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XIV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XVIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   Capitolo XX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .  

177 179 189 199 215 217 229 231 245 249 257 263 269 273 285 291 305 309 315 317 321

TENTATIVO DI SEDARE UNA FERITA DI CUI SI TIENE CONTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   323 IL ROMANZO A STADI

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A CHI VOGLIA SCRIVERE QUESTO ROMANZO (Prologo finale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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326 328

Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   331

Finito di stampare nel mese di aprile 1992 per i tipi de “il melangolo” presso la Nuova Oflito, Mappano (Torino)