Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica 9788889446133

Questo volume offre al pubblico italiano la storia dell'incontro tra la filosofia di Deleuze e Guattari e la musica

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Italian Pages 179 [176] Year 2006

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Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica
 9788889446133

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Cox, Franck, Hinant, Miller, Murphy, Paci Dalò, Quinz, Szepanski

Millesuoni Deleuze, Guattari e la musica elettronica

a cura di

Roberto Paci Dalò Emanuele Quinz

© 2006 Edizioni Cronopio © 2008 I Ristampa Calata Trinità Maggiore, 4 - 80134 Napoli Tel./fax 0815518778 Progetto grafico di Andrea Branzi www.cronopio.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-89446-13-3

Indice

Introduzione

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Emanuele Quinz, Strategie della vibrazione. Sull’e­ stetica musicale di Deleuze e Guattari

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Timothy S. Murphy, Anche quello che sento è pensa­ re: i tributi discografici a Deleuze

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Christoph Cox, Come fare della musica un corpo senza organi? Gilles Deleuze e l'elettronica speri­ mentale

67

Philippe Franck, Deleuze Rhyzomix 95-05

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Achim Szepanski, Musica elettronica, media e De­ leuze

125

Guy-Marc Hinant, Dieci articolazioni come potenza perforante

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Carlo Simula, Intervista a Dj Spooky

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Roberto Paci Dalò, La macchina da guerra

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Bibliografia

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Discografia

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Biografie

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Nota editoriale

I testi di Deleuze e Guattari citati negli interventi sono abbreviati come segue: DR: G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Raffaello Cortina Editore, Milano 1997. LS: G. Deleuze, Logica del senso (1969), Feltrinelli, Milano 1979. A-E: G. Dcleuze/F. Guattari, L’anti-Edipo (1972), Einaudi, Torino 2002. K: G. Deleuze/F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975), Quodlibet, Macerata 1996. C: G. Deleuze/C. Parnct, Conversazioni (1977/1996), ombre corte, Verona 1998. MP: G. Deleuzc/F. Guattari, Millepiani (1980), Cooper & Castclvccchi, Roma 2003. FB: G. Deleuze, Francis Bacon, Logica della sensazione (1981), Quodlibet, Macerata 1995. P: G. Deleuze, Pourparlers (1990), Quodlibet, Macerata 2000. CF: G. Deleuze/F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), Einaudi, Torino 1991. ID: G. Deleuze, L’ile déserte et autres textes. Textes et entretiens, 1953-74, a cura di D. Lapoujade, Minuit, Paris 2002. DRF: G. Deleuze, Deux régimes de fous. Textes et entretiens 19751995, a cura di D. Lapoujade, Minuit, Paris 2003. AC: G. Deleuze, Che cos’è Patto di creazione?, Cronopio, Napoli 2003.

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Introduzione “Faitcs rhizome et pas racinc, nc plantez jamais! Ne semcz pas, piqucz! Ne soyez pas ni un ni multiples, soyez des multiplicités! Faites la lignc et ja­ mais le point! La vitcsse transforme le point en lignei” (MP 36).

"... chaquc fois qu’un musicien écrit In Memoriamy il s’agit non pas d’un motif d’inspiration, non pas d’un souvenir, mais au contrairc d’un de­ venir...” (MP 368).

1 Gilles Deleuze muore il 4 novembre 1995. Esattamente dieci anni fa. L’anno seguente esce il doppio cd In Memoriam Gilles Deleuze della label tedesca Mille Plateaux, fondata da Achim Szepanski (che include tra gli altri, Jim O’Rourke, Dj Spooky, Ovai, Mouse on Mars, Scanner, Beequeen, Alee Em­ pire, C. Vogel, Atom Heart, Chris & Cosey). Lo stesso anno, la label belga Sub Rosa, fondata da GuyMarc Hinant, pubblica il cd Folds & Rhizomes for Gilles De­ leuze (che include pezzi originali di Mouse on Mars, Scanner, Ovai, Main, David Shea + Tobias Hazan). L’anno dopo, sem­ pre Sub Rosa produce un secondo cd: Doublé Articulation: Folds And Rhizomes Remix Projects., in cui il materiale del cd precedente è remixato (Ovai remixa se stesso, David Shea remixa Scanner, Scanner remixa Mouse on Mars, Tobias Hazan

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remixa Main, Main remixa Ovai e Mouse on Mars remixa l’intero cd). Secondo le parole di Hinant, si trattava di ag­ giungere un altro piano (plateau.) ai mille piani (mille pla­ teau*)... L’uscita di questi cd segna l’inizio di una storia. La storia dell’influenza della filosofia di Deleuze e di Guattari su una certa generazione di musicisti elettronici. In realtà, come spiegano Szepanski e Hinant, la storia è cominciata prima... (Forse quando, nel lontano 1972, Deleuze partecipa alla regi­ strazione del disco Electronique Guerrilla del gruppo rock sperimentale Heldon, capitanato dall’allievo e amico Richard Pinhas, prestando la sua voce al frammento 638: il Viaggiato­ re di Nietzsche...). In ogni caso, si tratta di una storia non lineare, frammen­ taria, complessa e ricca. L’obiettivo di questo volume è pre­ cisamente ripercorrere, in un modo non lineare, frammenta­ rio, questa storia.

Evidentemente, questo percorso è già stato tentato. Per esempio, dal 20 aprile al 3 maggio 2002 Radio France orga­ nizza una serie di trasmissioni su Deleuze, di cui tre sono consacrate all’influenza del filosofo sulla musica elettronica. Nell’ottobre 2003, lo ZKM di Karlsruhe dedica un festi­ val a “Deleuze e le Arti”, includendo nella programmazione un concerto con Achim Szepanski e Richard Pinhas. Sono solo due esempi, fra i più istituzionali. Ma le iniziative si moltiplicano: concerti, riflessioni, articoli, fanzines, siti web. Negli ultimi anni, diverse pubblicazioni hanno cercato di esplorare non tanto l’influenza della musica sulla filosofia di Deleuze e Guattari, quanto l’influenza della filosofia di De­ leuze e Guattari (in particolare i concetti sviluppati in Mille Plateau*) sulla musica. Apparso nel 2001, Les Larmes de Nietzsche di Richard Pinhas (“passeur” fondamentale del pensiero del filosofo nell’ambito della musica sperimentale, e iniziatore, tra l’altro, insieme allo scrittore Maurice Dantec, del progetto Schizo-

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trope - una serie di concerti/letture di testi di Deleuze, alla fine riuniti in un album), nonostante il sottotitolo (Deleuze et la musique), non contiene una vera e propria analisi della relazione tra il filosofo e la musica ma consiste in una serie di testi filosofico-letterari di grande slancio lirico. In lingua inglese appaiono Deleuze on Music, Painting and thè Arts, (Routledge, London-New York 2003) di Ro­ nald Bogue e il volume collettivo Deleuze and Music, diret­ to da lan Buchanan e Marcel Swiboda (per Edinburgh Uni­ versity Press 2004). Più sul registro del manifesto, il brillante Rhythm Scien­ ce (MIT Press, Cambridge Mass. 2004) di Paul D. Miller (aka Dj Spooky that Subliminal Kid) si rivela come un collage di “statements” che compongono un’estetica (e una politica) del sampling, e nasconde, nella miriade di riferimenti, molti richiami alle teorie di Deleuze... In tedesco, Soundcultures (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003), diretto da Marcus S. Kleiner e Achim Szepanski, prende spunto dalle influenze deleuziane per aprire un di­ battito esteso sulle specificità della composizione elettronica e digitale.

Facendo tesoro di tutte queste testimonianze e riflessio­ ni, questo volume porta per la prima volta al pubblico italia­ no la storia dell’incontro tra la filosofia di Deleuze e Guatta­ ri e la musica elettronica.

2 L’associazione tra l’universo concettuale di Deleuze e Guattari, così complesso e di difficile approccio, e la speri­ mentazione elettronica non è scontata. Viene da chiedersi perché tale filosofia ha avuto un im­ patto così forte su questa generazione di dj e musicisti elet-

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tronici. Questa domanda ne nasconde un’altra, più insidiosa: perché la filosofia di Deleuze e Guattari ha avuto così poco impatto sulla musica detta “contemporanea”? Eppure gli esempi citati dai due filosofi nei loro libri sono in gran parte derivati dalla tradizione classica occidentale (da Mozart a Schumann, a Varèse, Cage, Boulez, Glass, Berio, etc.)... Allo stesso modo, la musicologia “classica” non fa riferi­ mento, a parte qualche rara eccezione, ai concetti di Deleuze e Guattari, mentre essi sono divenuti dei fondamenti nel­ l’ambito dei Cultural Studies anglosassoni, in particolare per le ricerche sui fenomeni della cultura e della musica “Pop”1. Forse, invece di avanzare delle facili accuse di ignoranza o di oscurantismo, bisognerebbe rivedere certe categorie che si sono incancrenite, che sono divenute luoghi comuni: per esempio la distinzione tra musica “colta” e musica “commer­ ciale”. Si è spesso obiettato che, nelle generazioni attuali, molti studenti dei conservatori non hanno mai sentito nominare Frank Zappa o Brian Eno, mentre altri giovani, che manipo­ lano i sampler e i computer, divoratori onnivori di suoni,

’ A proposito della fortuna della filosofia contemporanea francese nel mondo anglosassone e americano in particolare, cfr. F. Cusset, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux Etats-Unis, La Découverte, Paris 2003. Sull’in­ fluenza nell’ambito musicale, cfr. pp. 268-273. Sulla relazione tra Deleuze e la cultura “pop”: I. Buchanan, Deleuzism: a Metacommentary, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000; J. Corbett, Extended Play: Sounding offfrom John Cage to Dr. Funkestein, Duke Univer­ sity Press, London 1994; On Records: Rock, Pop, and thè Written Word, a cura di S. Frith, A. Goodwin, Pantheon Books, New York 1990; G. Hainge, Is Pop Music?, in Deleuze and Music, a cura di I. Buchanan, M. Swiboda, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004; T.S. Murphy, D.W. Smith, What I Hear Is Thinking too: Deleuze and Guattari Go Pop, «Echo: a Music-Centered Journal», disponibile su http://www.ccho.ucla.edu/Volume3-Issuel/smithmurphy/index.html, gennaio 2002 (in parte riprodotto in questo volume).

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esplorano con estrema esigenza ogni orizzonte musicale, dal­ la tecno alla world, dalla pop al jazz, fino alla tradizione con­ temporanea, da Miles Davis ad Autechrne, da Kraftwerk a Stockhausen e Xenakis. Oggi la musica elettronica di ricerca, come quella prodotta dalle label Force Ine., Mille Plateaux, Sub Rosa o ancora Warp o Ninja Tune, è estremamente “col­ ta”. Non solo per la complessità dei progetti di produzione, ricchi di riferimenti ricercati, ma anche per la profonda con­ nivenza con l’universo culturale e artistico (e filosofico). An­ che il rapporto con il mercato e i circuiti della distribuzione è vissuto in modo complesso. Queste label, vere e proprie “zone temporaneamente autonome”, non rifiutano ma con­ testano il commerciale, cercando di infrangere le frontiere tra “sub-cultura” e “super-cultura”, promuovendo strategie di nomadismo, di guerriglia e di resistenza (“macchine da guer­ ra”) contro i monopoli, la massificazione consumistica, la globalizzazione mediatica.

Ma le cause dell’affinità tra il pensiero di Deleuze e Guat­ tari e l’elettronica sperimentale non vanno limitate a conside­ razioni di sociologia culturale. Delle affinità estetiche sono evidenti. Le tecnologie elet­ troniche e digitali hanno contribuito ad una mutazione pro­ fonda delle modalità produttive della musica e della sua dif­ fusione. All’interno della “Meccanosfera”, per utilizzare il termine di Deleuze e Guattari, emergono nuovi processi compositivi, nuovi modi di organizzare i suoni. Il campiona­ mento, il sequencing, l’editing, il cut, il loop, il copy & paste o ancora il mix e il remix, non sono solo delle tecniche, ma fondano una vera e propria estetica della molteplicità, ai limi­ ti del concreto e dell’astratto2. Come scrive Christoph Cox,

2 K. Cascone, The Aesthetic of Fatture: Post-digital Tendenàes in 13

le pratiche sperimentali elettroniche “deterritorializzano la forma musicale e la sostanza”3. La materia sonora non si coagula più in strutture, frasi, ma vibra in un flusso molecolare di singolarità, di intensità. Le traiettorie multiple delle cellule sonore producono una molteplicità di piani4. E se i processi diventano modulari gra­ zie ai nuovi sistemi di diffusione (media audio-visivi, Walk­ man, mp3), permettono un accesso sempre più esteso alla musica, ad ogni tipo di musica. L’ascolto diviene una pratica di migrazione, di nomadismo...

A differenza della musica elettronica di matrice “classi­ ca”, orientata alla produzione prima analogica poi elettroni­ ca e infine digitale di nuove sonorità, la cultura del djing e del sampling tendono a trasformare dei materiali sonori già esi­ stenti: estetica della manipolazione, dell’appropriazione; estetica della de/territorializzazione. In questo senso, come sottolinea Dietrich Diederichsen5, l’ascendenza è più quella delle avanguardie storiche - dall’Arte dei Rumori di Russoio a Cage, alla musica concreta di Pierre Schaeffer - che quella della musica pop, basata su una canonica strutturazione ar­ monica. La composizione non è più una questione di tecni-

Contemporary Computer Music, in «Computer Music Journal» 24, 4, 2000, p. 12 e ss. 3 C. Cox, UZie wird Musik zu einem organlosen Korper? Gilles De­ leuze und die experimentelle Elektronika, in Soundcultures. Uber elektronische und digitale Musik, a cura di M.S. Kleiner, A. Szcpanski, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, p. 162, tradotto in questo volume. 4 Cfr. R. Grossmann, Spiegeìbild, Spiegel, leerer Spiegel. Zur Mediensituation der Clicks & Cuts, in Soundcultures, cit., pp. 52-67. Cfr. in particolare l’analisi dei due album Cliks & Cuts (Mille Plateaux 2001) in questa prospettiva di convergenza tra i concetti deleuziani e le nuove tecniche di produzione musicale digitali. 5 D. Diederichsen, La musique électronique numérique entre pop et pure médialité. Strategie paradoxales du refus de la sémantique, in Sonic Process, Editions du Centre Pompidou, Paris 2002, p. 53.

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ca, di padronanza di una sintassi e di una serie di codici, ma di ascolto. Il musicista elettronico ascolta musiche eterogenee, ma­ nipola dei suoni derivati da universi lontani, mischia dei frammenti di testi musicali, crea sovrapposizioni inedite, crea stratificazioni “cinematiche”6 inaudite: la composizione di­ viene una sorta di ascolto attivo, pratico.

3 Il volume comincia con l’esplorazione di alcuni concettichiave a partire dai quali Deleuze e Guattari, insieme e sepa­ ratamente, hanno elaborato la loro riflessione sulla musica (Quinz). Seguono una serie di analisi, derivate da ambiti geografi­ ci e teorici diversi e che disegnano, partendo ogni volta da una prospettiva differente, la storia dell’impatto della filoso­ fia di Deleuze e Guattari sulla musica elettronica sperimen­ tale (Murphy, Cox, Franck). I testi di Hinant, Szepanski e l’intervista a Dj Spooky in­ troducono un ulteriore registro, quello della testimonianza diretta di chi, nella pratica della produzione musicale, ha in­ tegrato il pensiero di Deleuze e Guattari. Chiude il volume un contributo costituito di sole imma­ gini, di Roberto Paci Datò.

6 D. Shca, Un frammento, in «Panta-Musica», a cura di E. Ghezzi, Bompiani, Milano 1996, p. 329.

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4 “il suono ci invade, ci spinge, ci trascina, ci attraversa. Ab­ bandona la terra, tanto per farci cadere in un buco nero quanto per aprirci ad un cosmo. Ci dà la voglia di morire. Avendo la più grande forza di derritorializzazione, opera an­ che le riterritorializzazioni più pesanti, più inebetite, più ri­ dondanti. Estasi-e ipnosi. Non si smuove un popolo con dei colori” (MP 484).

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Emanuele Quinz

Strategie della Vibrazione. Sull’estetica musicale di Deleuze e Guattari “I concetti sono dei centri di vibra­ zione, ciascuno in sé, e gli uni in rap­ porto agli altri” (CF 13). “L’arte non è mai un fine, è soltanto uno strumento per tracciare le linee di vita” (MP 273).

All’inizio, appaiono dei riferimenti sparsi. Alcuni esem­ pi musicali sono utilizzati per illustrare dei concetti filosofi­ ci. Ma, a partire dal 1977, diversi corsi di Deleuze all’Università di Vincennes si concentrano sulla musica, spesso su isti­ gazione di uno dei partecipanti, Richard Pinhas. Nel 1978, invitato da Pierre Boulez, Deleuze interviene all’Ircam sulla nozione di tempo musicale. Le discussioni con Guattari sul tema si moltiplicano. Tutte queste piste convergono nel volume Mille PlateauXy che Deleuze e Guattari pubblicano nel 1980 e che con­ tiene un intero capitolo dedicato alla musica (11. 1837 De la Ritoumelle). Alcuni punti sono ripresi più tardi nella quarta ed ultima opera comune, Qn’est-ce que la philosophie? Non si tratta di punti isolati, ma di una linea che si dise­ gna, una trama concettuale che si sviluppa, un’estetica musi­ cale che si profila.

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Un’estetica che è stata spesso considerata non-sistematica. Ma deve essere chiaro: si tratta di un carattere intenziona­ le, una posizione cosciente, che non deriva da un’assenza di coerenza. Perché l’estetica di Deleuze e Guattari (e quindi anche l’estetica musicale) è un’estetica sperimentale, che pro­ cede per avvicinamenti, per aperture, per propagazione e non per delimitazioni progressive. Un’estetica essenzialmente plurale, polifonica, a più voci (non solo quelle di Deleuze e Guattari, ma anche di altri, che intervengono a viva voce, o attraverso gli scritti); un’estetica della molteplicità, in “stato di perpetua digressione” (CF 14). Appare attraverso le tessiture, in particolare di Mille Plateaux, una visione per certi versi problematica della musica, in quanto eminentemente filosofica e quindi radicalmente sperimentale (“la filosofia è invenzione di concetti”), ma sempre estremamente profonda, acuta, originale. Prima di tutto, perché la musica non è considerata come un sistema isolato, ma vive all’interno di un universo com­ plesso, in perenne relazione con i processi esistenziali, con le situazioni contingenti. All’opposto di certe metodologie mu­ sicologiche auto-referenziali che tendono ad isolare in vitro i fenomeni musicali come pure crisalidi formali anestetizzate, Deleuze e Guattari riconducono la musica nel mondo, la rinseriscono nel ciclo vitale che unisce l’uomo al suo ambiente, naturale e sociale, ai processi non solamente di produzione di senso, ma anche dell’identità, della soggettività. In secondo luogo, c’è il metodo. La strategia di dirotta­ mento “caosmotico” di Guattari e la schematizzazione rigo­ rosa di Deleuze convergono nella definizione del metodo de­ finito “schizo-analisi” (cfr. A-E). Un metodo non lineare, certo, ma soprattutto non dialettico. Una visione né analitica né sintetica, ma piuttosto “panoramica”, o meglio “cartogra­ fica”. Una visione dall’alto, che costruisce un teatro concet­ tuale accumulando stratificazioni, opponendo delle polarità che non si annullano nella sintesi dialettica ma che funziona18

no in quanto differenze. Una visione che vibra di continui spostamenti di campo, di scala, di focale, di prospettiva che procede a cerchi concentrici, che traccia le linee di una vera e propria teoria della complessità. All’interno di questo universo, alcuni concetti si riferi­ scono esplicitamente alla musica. Un’analisi approfondita ri­ chiederebbe molto tempo, ci limiteremo qui a prenderne in considerazione alcuni (Ritornello, territorializzazione/deterritorializzazione, rizoma, tempo pulsato/non-pulsato), cercando di esibire la trama complessa che li unisce.

1 Partiamo dalla celebre teoria del Ritornello, a cui Deleu­ ze e Guattari dedicano un intero capitolo di Mille Plateaux. Deleuze e Guattari definiscono il Ritornello come “un’articolazione territoriale”, una strategia di appropriazio­ ne di uno spazio(-tempo), o più precisamente come la di­ mensione sonora di un’articolazione territoriale (MP 454)1. Il Ritornello è il risultato di un atto, di una strategia di territorializzazione, ovvero di una strategia che, attraverso “una riorganizzazione delle funzioni, un raggruppamento delle forze” (MP 451), costituisce un nucleo di soggettività all’interno del flusso indeterminato del caos. Gli esempi sono diversi: il bambino che canticchia per esorcizzare la paura del buio, l’uccello che, cantando, segna il suo territorio di caccia o di seduzione... l’emissione sono­ ra definisce uno spazio identitario, ritaglia un cerchio protet­ to (ma non necessariamente chiuso).

1 “In senso lato, chiamiamo ritornello ogni insieme di materie d’e­ spressione che traccia un territorio e che si sviluppa in motivi territoria­ li, in paesaggi territoriali [...]. In senso stretto, parliamo di ritornello quando il concatenamento è sonoro o ‘dominato’ dal suono” (MP 454).

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J

In quanto appropriazione, il Ritornello corrisponde ad un atto di marcatura, una sorta di “firma” ed è quindi essen­ zialmente segnato da indizi che ritagliano delle frontiere in­ terne all’ambiente: “Precisamente, c’è territorio quando le componenti di un ambiente cessano di essere direzionali per divenire dimensionali, quando cessano di essere funzionali per divenire espressive” (MP 444)2. La dimensione dell’espressività è centrale, in quanto se­ gna la differenza tra l’umano e l’animale: l’appropriazione animale di uno spazio risponde a dei rituali istintivi o funzio­ nali; per l’uomo, al contrario, è questione di espressione. Se Deleuze e Guattari esplorano le dimensioni aurorali dell’emissione sonora come articolazione territoriale, Roland Barthes3 si pone nella stessa prospettiva e, in un celebre arti­ colo analizza l’ascolto come vettore di soggettivazione. I due testi sono in qualche modo speculari, complementari. Come spiega Barthes, ben prima dell’invenzione della scrittura, ben prima della pratica della figurazione rupestre, ciò che distin­ gue fondamentalmente l’uomo dall’animale è “la riproduzio­ ne intenzionale di un ritmo”4, la ripetizione intensiva di un motivo sonoro che diventa in questo modo istanza territorializzante. L’emissione sonora cambia statuto, smette di essere semplice segnale posizionale o funzionale, per divenire se­ gno, per divenire sistema semiotico, linguaggio (MP 702). Ed è attraverso il ritmo, la discretizzazione e la segmentazione del continuum sonoro che questo passaggio si compie: “sen­ za il ritmo, il linguaggio è impossibile: il segno si basa su di un duplice movimento, quello del marcato e del non-marcato...” (MP 629).

Sulla differenza tra espressività umana e animale, cfr. anche M. Bernard, L’expressivité du corps, Chiron, Paris 1986, p. 49 e ss. 3 R. Barthes, Ecoute, in L’obvie et l’obtus, Seuil, Paris 1982, p. 217; trad. it. L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985, p. 237 e ss 4 Jbid, p. 220.

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Anche per Barthes, è grazie al ritmo che l’ascolto cambia statuto, smette di avere una funzione di sorveglianza, di repe­ rimento, per divenire decifrazione. Si passa dall’ascolto degli indizi all’ascolto dei segni, dall’allerta ad un’ermeneutica.

II Ritornello instaura un territorio. E, in quanto strategia definitoria, il territorio implica anche una distanza, un’alterità. Territorializzare uno spazio significa allo stesso tempo marcare delle frontiere, delle distanze. Tracciare un cerchio significa includere, ma allo stesso tempo escludere. Non si tratta solo di esorcizzare, di mantenere a distanza le forze del caos, ma anche di smarcarsi da altri territori, di costruire al­ l’interno di un universo nebuloso e plurale un nucleo d’iden­ tità, di determinazione. Tracciare una cartografia delle distanze, una cartografia delle alterità: percezione ritmica (“la distanza critica non è una misura, è un ritmo”, MP 450).

Deleuze e Guattari si domandano se questa emergenza non corrisponda alla nascita dell’erre: “il territorio sarebbe l’effetto dell’arte. L’artista, il primo uomo che fissa un confi­ ne, o effettua una delimitazione”. Il che vorrebbe dire che “la proprietà è prima di tutto artistica”: “l’espressivo precede il possessivo, le qualità espressive, o materie d’espressione so­ no necessariamente appropriatrici, e costituiscono un avere più profondo dell’essere”(MP 445-446; cfr. anche CF 187188). Alla definizione di emissione sonora come strategia del­ la territorializzazione corrisponde una definizione dell’a­ scolto come strategia dell’individuazione5: l’ambiente sono-

5 Sulla nozione di individuazione, cfr. Deleuze, Conférence à l'IRCAMy 1978, disponibile sul sito http://www.wcbdclcuzc.com. 21

J ro è percorso alla ricerca di indizi dell’azione di un nucleo

soggettivo, territorializzante. In questa prospettiva, la dimensione indiziale, da sempre esiliata (perché ritenuta non pertinente rispetto ai parametri del sistema musicale tradizionale), ritrova un ruolo di primo piano. Al di là delle dimensioni linguistiche ed affettive, i fe­ nomeni sonori sono percepiti come indizi: designano diret­ tamente la fonte che li ha prodotti e permettono da una par­ te di situarla nello spazio, dall’altra di caratterizzarla, di iden­ tificarla. A questo livello, i rumori, i suoni non indicano so­ lo i movimenti dei corpi nello spazio ma incarnano la traccia di una presenza, di un’attività, di un nucleo soggettivo, di un reticolo relazionale. In questa prospettiva i suoni non sono considerati come oggetti astratti o come cellule di un testo, ma come degli eventi che costituiscono un orizzonte, un mondo, un ambiente sonoro. E l’ascolto, nella sua comples­ sa stratificazione, diventa una sismografia della presenza. A questo proposito, per evitare i rischi di un una deriva naturalistica, Deleuze e Guattari sottolineano che il territo­ rio non definisce un soggetto, ma piuttosto una soggettività, un nucleo d’identificazione (che può essere singolare o plu­ rale, umano o non umano...)6.

6 Guattari (Chaosmose, Galilée, Paris 1992, p. 40) precisa la diffe­ renza tra soggetto e soggettività: “il soggetto, tradizionalmente, è con­ cepito come l’essenza ultima dell’individuazione, come pura appren­ sione pre-riflessiva, vuota, del mondo, come nucleo della sensibilità, dell’espressività, come nucleo unificatore degli stati di coscienza. Con la soggettività, si metterà l’accento piuttosto sull’istanza fondatrice del­ l’intenzionalità. Si tratta [...] di fare passare in primo piano l’istanza che è alla base dell’espressione”. Più precisamente, la soggettività si de­ finisce come “l’insieme delle condizioni che rendono possibile che le istanze individuali e/o collettive siano in posizione d’emergere come territori esistenziali auto-referenziali, in adiacenza o in rapporto di de­ limitazione con un’alterità, essa stessa soggettiva” (Ibid., p. 21). Come ricorda N. Bourriaud, L’esthétique relationnelle, Les Présses du Réel,

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2 “[...] un bambino muore, un bambino gioca, un donna nasce, una donna muore, arriva un uccello, un uccello se ne va. Vogliamo dire che temi come questi non sono accidenta­ li nella musica, benché se ne possano moltiplicare gli esempi, e ancor meno sono esercizi imitativi, ma qualcosa d’essenzia­ le. [...] Perché l’espressione musicale è inseparabile da un di­ venire-donna, divenire-bambino, divenire-animale che costi­ tuiscono il suo contenuto” (MP 414). Come spiega Guattari, i territori non sono solo identifi­ cabili “rispetto a dei sistemi di riferimento estrinsechi come delle coordinate energetico-spazio-temporali, o a delle coor­ dinate semantiche ben catalogate [...]. La conoscenza non procede più dalla rappresentazione ma dalla contaminazione affettiva”. Guattari propone di parlare di affetto7\ blocco ne­ buloso di sensazione. Fenomeno difficile da cogliere e da de­ finire, l’affetto non è legato ai sistemi di segni, né ai modi del-

Dijon 1999, la filosofia di Deleuze e Guattari consiste in una complescomples­ sa impresa di “dcnaturalizzazionc della soggettività”: si tratta di scolla­ re la soggettività dal soggetto, di aprirla a forze plurali. 7 Guattari, Ritoumelles et affeets existentiels, in «Chimères», n. 7 del 15/9/87, “l’affetto c essenzialmente una categoria prcpcrsonalc, che si instaura ‘prima’ della circoscrizione delle identità e si manifesta per transfert non-localizzabili, sia dal punto di vista della loro origine che della loro destinazione”. Per Guattari l’affetto non corrisponde all’e­ spressione qualitativa della quantità di energia pulsionale (libido) c del­ le sue variazioni secondo il modello freudiano, ma è “un processo di appropriazione esistenziale attraverso la creazione continua di durate d’essere eterogenee”, per questo deve essere considerato non tanto dal­ la prospettiva scientifica, quanto etica-estetica. Allo stesso modo, la soggettività non va vista, come fanno gli strutturalisti, come la risultan­ te di operazioni significanti, quanto piuttosto come “una cartografia delle diverse componenti di soggettivazione nella loro estrema eteroge­ neità”.

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la rappresentazione, ma all’immediatezza esperienziale del­ l’esistenza. L’emissione sonora come strategia della territorializzazione, l’ascolto come strategia dell’individuazione, sono un avanzamento nel cerchio di una soggettività altra, si­ gnifica varcare “una soglia di consistenza”8: l’affetto è l’espe­ rienza di un divenire. Nell’universo teorico di Deleuze e Guattari, il divenire non si configura come un semplice processo di imitazione, né di identificazione; non è un’evoluzione, né una regressio­ ne, è piuttosto un’involuzione (creativa) (cfr. MP 342). E l’af­ fetto, di conseguenza, non è inteso come sentimento indivi­ duale, ma come “la potenza di una muta, che solleva e fa va­ cillare l’io” (MP 344): divenire non come processo di filiazio­ ne, ma come contagio, propagazione epidemica, travaso sim­ biotico. Divenire non come riproduzione del simile, ma co­ me estensione sull’eterogeneo; affetto non come passaggio da uno stato vissuto all’altro, ma come “divenire non-umano dell’uomo”(CF 172 e ss.). Di conseguenza, l’arte si definisce come cantiere di affet­ ti, di blocchi di sensazioni, come vettore di soggettivazione, come macchina di divenire.

3 In questo contesto teorico diventa importante compren­ dere i rapporti tra il Ritornello e la musica. La musica si definisce proprio in rapporto al Ritornello, “la musica è precisamente l’avventura di un Ritornello”: essa si fonda a partire da un dirottamento, da una deviazione (détoxmement) del Ritornello, “lo sottrae alla sua territorialità”. “La musica è l’operazione attiva, creatrice, che consiste nel

8 Guattari, Chaosmose, cit., pp. 129-130.

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deterritorializzare il Ritornello” (MP 416)9, a trasformarlo in materia astratta. Emerge una definizione della musica come strategia del­ la deterritorializzazione, come strategia dell’astrazione: l’e­ missione e l’ascolto tendono a ridurre le loro componenti soggettive (strategia dell’oggettivazione), in parallelo la di­ mensione territoriale si stempera, l’ancoraggio profondo alla contingenza spazio-temporale si scioglie in una tensione ver­ so il puro gioco differenziale tra valori. La pulsazione diven­ ta sintassi, il suono diventa testo. La strategia dell’astrazione si configura come un’opera­ zione di “macchinazione” del Ritornello e degli elementi territorializzati (come gli indizi, le marche identitarie) e della loro trasformazione in articolazioni di qualità pure.

In realtà, se questa macchinazione implica un movimen­ to di deterritorializzazione, non instaura mai un regime d’autonomia assoluta, perché ad ogni spinta deterritorializzante si associa un processo contrario di riterritorializzazione. Il Ritornello riaffiora come “un mezzo per impedire, per scongiurare la musica o farne a meno”, una forza che ricrea delle articolazioni territoriali, che riconnette il flusso sonoro al vissuto, alla trama complessa delle intensità. Le qualità pu­ re sono innervate di reminescenze, contaminate da “ricordi incerti o trascendenti”, da “germi di fantasma” (MP 422423). Come i fenomeni sonori sono un prisma complesso in cui convergono diversi strati (indiziale, linguistico, affettivo), così la musica è costituita dall’imbricazione di queste linee

9 “Mentre il ritornello è essenzialmente territoriale, territorializzante o riterritorializzante, la musica ne fa il contenuto deterritorializzato per una forma d’espressione dctcrritorializzantc”.

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divergenti, di territorializzazione e di deterritorializzazione: così funziona la “macchina” musicale. Deleuze propone come esempio il caso del leitmotiv wa­ gneriano. Da un lato, esso ha la funzione di segnare i confini di un territorio, di evocare un personaggio o una situazione (come un “cartello indicatore”, secondo la formula di De­ bussy), dall’altro, più l’opera si sviluppa, più i motivi entra­ no in congiunzione, più si rendono autonomi rispetto all’a­ zione drammatica, ai personaggi e ai paesaggi per divenire es­ si stessi “paesaggi melodici” e “personaggi ritmici” (MP 448)10. Questa “vita” del leitmotiv, sospesa tra forze territo­ riali e linee di fuga, tra evocazione ed interiorizzazione, è de­ scritta con estrema precisione da Proust (Swann e la Sonati­ ne di Vinteuil): musica come vibrazione inesauribilmente so­ spesa tra riconoscimento e perdita, tra reminescenza e oblio.

4 “Qual è il problema della musica, quale è il suo contenu­ to indissociabile dall’espressione sonora? È difficile dirlo, ma

è qualcosa come: un bambino muore, un bambino gioca, una donna nasce, una donna muore, un uccello arriva, un uccello se ne va” (MP 414). 10 Per Deleuze e Guattari i nuclei di individuazione, i blocchi di di­ venire sono mobili e fragili, in quanto le qualità espressive possono en­ trare in rapporti complessi, creando dei “motivi e dei contrappunti ter­ ritoriali”: “i motivi territoriali formano dei volti o personaggi ritmici e i contrappunti territoriali dei paesaggi melodici”. “Il personaggio ritmico appare quando un ritmo non c più semplicemente associato ad un personaggio, a un soggetto o a un impulso, ma diviene esso stesso un personaggio. Ugualmente un paesaggio melodi­ co non è più una melodia associata ad un paesaggio, ma è essa stessa paesaggio sonoro”. Questi motivi e contrappunti, che esprimono il rapporto del territorio con gli impulsi interni e le circostanze esterne definiscono, per Deleuze e Guattari, lo stile.

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Il Ritornello è il contenuto proprio della musica: “Un bambino si rassicura nel buio, o batte le mani, oppure inven­ ta un’andatura [...] o ancora salmodia ‘Fort-Da’ [...]. Tra la la. Una donna canticchia... Un uccello lancia il suo Ritornel­ lo” (MP 415): la musica è attraversata da blocchi di infanzia, di femminilità, di animalità. Ascolto, produzione sonora: di­ venire-bambino, divenire-donna, divenire-animale. Il dive­ nire si configura come l’emergenza di nuclei di individuazio­ ne, emergenza fragile e provvisoria, intervallo precario nel flusso ininterrotto, sedimentazione effimera, sempre sotto la minaccia della trasformazione e dell’estinzione. Trasformazione: soggettivazione. Prigioniere del tempo, le forze di territorializzazione ribadiscono la fugacità dell’at­ timo, la gioia che si consuma, che tende verso la propria abo­ lizione. E quindi, la musica “ha sete di distruzione” (MP 415), non perché è abitata dalla pulsione di morte, ma al con­ trario proprio perché è forza di trasformazione, divenire.

Deleuze e Guattari procedono ad una classificazione dei ritornelli: “1) i ritornelli territoriali, che cercano, delimitano, concatenano un territorio; 2) i ritornelli di funzioni territorializzate, che assumono una funzione particolare nel conca­ tenamento (la ninna-nanna che territorializza il sonno e il bambino [...]); 3) gli stessi ritornelli, in quanto caratterizza­ no ora nuovi concatenamenti, in quanto passano in nuovi concatenamenti, per deterritorializzazione-riterritorializzazione [...]; 4) i ritornelli che riuniscono o raccolgono le for­ ze, sia in seno al territorio, sia per andare al di fuori [...]”, e che “non sono più terrestri, sono divenuti cosmici” (MP 459)11. 11 Nel capitolo Les Ritoumelles du Temps perda, de L'inconscient machiniqae, Recherchcs, Paris 1979, Guattari propone una prima defi­ nizione di ritornello (“con il termine generico di ritornello, raggruppe­ rei delle sequenze discorsive re-iterative chiuse su loro stesse, che han27

Perché, come c’è una linea di divenire-cosmo della musi­ ca, ugualmente esiste un divenire-musica del mondo. (Messiaen che unisce le pulsazioni infinitesimali degli insetti e de­ gli atomi alle vibrazioni infinitamente lunghe delle stelle: “potere elementare, cosmico... che anticipa sempre il rit­ mo...”12). “L’universo, il cosmo è fatto di ritornelli; la questione della musica è quella di una potenza di deterritorializzazione che attraversa la Natura, gli animali, gli elementi e i deserti, quanto l’uomo”. Non c’è un reale privilegio dell’uomo, se non nel sopra-codificare, nel fare dei sistemi puntuali, “è piuttosto il contrario di un privilegio; attraverso i diveniredonna, bambino, animale o molecola, la natura oppone la sua potenza, e la potenza della musica a quella delle macchine dell’uomo, fracasso di fabbriche e bombardieri. E occorre andare fin là dove il suono non musicale dell’uomo fa bloc­ co con il divenire-musica del suono, dove questi si scontrano o si avvinghiano, come due lottatori che non possono più sciogliersi su di una linea di pendenza...” (MP 426-427).

5 La storia della musica può essere allora letta a partire dall’affrontarsi di strategie di territorializzazione e di deterritorializzazione. L’artista contempla il mondo che lo circonda, e cerca di “captarne le forze in un’‘opera’” (MP 472), ogni vol­ ta in modo diverso: costringendo come un demiurgo le for­ ze del caos in un sistema formale, codificato (classicismo), ri­

no come funzione una catalisi estrinseca di affetti esistenziali”), nella prospettiva di una teoria generale dell’enunciazione, e non ancora spe­ cificamente musicale, e di un’embrionale classificazione. 12 G. Brelet, in Histoire de la Musique, Gallimard Pleiade, Paris, voi. II, p. 1166, cit. in MP 380.

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trovando le vibrazioni della terra, ma nella sfida tormentosa e nella solitaria nostalgia (romanticismo). In questo passag­ gio, la nozione di forma si modifica: diviene “una grande for­ ma in continuo sviluppo”; “la materia non è più un caos da sottomettere ed organizzare, ma la materia in movimento di una variazione continua”, essa “smette di essere la materia di un contenuto, per divenire materia di espressione” (cfr. MP 475). L’epoca moderna ritrova la dimensione cosmica: “le ma­ terie di espressione lasciano il posto alle materie di cattura”, a dei dispositivi capaci di captare le “forze di un cosmo ener­ getico, informale e immateriale”. Svolta post-romantica: l’at­ tenzione si sposta dalle forme e dai temi alle densità: la mu­ sica atomizza, “molecolarizza la materia sonora e così divie­ ne capace di captare le forze non-sonore come la Durata, l’intensità” (MP 479)13. Lo stesso doppio movimento è riscontrabile nel caso del­ la musica vocale. Per Deleuze e Guattari la “macchinazione” (deterritorializzazione) della voce costituisce la prima operazione musi­ cale (cfr. MP 420)14. Ma se all’inizio la musica vocale, ancora fortemente impregnata di ritornelli territoriali domina, pro­ gressivamente perde la sua posizione centrale e, trascinata in un movimento di “macchinazione generalizzata” (“divenire­ sinfonico”), diventa uno strumento al pari degli altri. Più tardi, nell’epoca moderna, appaiono dei procedimen13 Cfr. anche un altro “panorama” della storia della musica, questa volta dal punto di vista del concetto di “composizione”, in CF 179-181. 14 Nel corso a Vincennes dell’8 marzo 1977 Deleuze si concentra proprio sulle mutazioni della voce “all’interno del piano di consisten­ za musicale”, prendendo spunto dal volume di D. Fernandez, La Rose des Tudor, Julliard, Paris 1976. Il corso è disponibile sul sito http:// www.wcbdcleuze.com

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ti di variazione, una ricerca timbrica che riconduce l’emissio­ ne vocale a nuove onde di territorializzazione, a delle “aper­ ture su altri divenire”, piegandola verso un continuum sono­ ro di canto-rumore-suono: dallo Sprechgesang di Schònberg a Visage di Berio e Glossolalie di Schnebel. Ma anche Gherasim Luca, i sussulti di Godard, i sussurri di Bob Wilson, le impennate di Carmelo Bene...: “un immenso coefficiente di variazione si applica e trascina tutte le parti fatiche, afatiche, linguistiche, poetiche, strumentali, musicali di uno stesso concatenamento sonoro”; cromatismo generalizzato, che colpisce voce, parola, lingua, musica... (cfr. MP 153-154). E, secondo Deleuze e Guattari, questo procedimento di varia­ zione continua corrisponde ad un’ulteriore definizione dello “stile”: lo stile non è una creazione psicologica individuale, ma è il divenire intensivo del linguaggio, puro continuum di valori e di intensità (cfr. MP 154-155). La storia della musica può essere riletta questa volta in funzione dell’installarsi progressivo di un regime di astrazio­ ne, ma anche dell’emergenza di forze, di strategie di pluralizzazione, di decentramento. Ad un modello di sistema centra­ to, codificato, lineare, si oppone un modello decentrato, plu­ rale, molecolare, agitato da forze non-sonore, da linee di fu­ ga, dai movimenti continui della variazione. Il sistema tonale, codice basato sulle leggi di consonanza e di attrazione, incarna il modello centrato, di tipo arbore­ scente. Ma già all’interno di questo sistema le forze di pluralizzazione congiurano: se da un lato “il modo minore, in vir­ tù della natura dei suoi intervalli e della stabilità minima dei suoi accordi, conferisce alla musica tonale un carattere fuggi­ tivo, sfuggente, decentrato”, dall’altro, il cromatismo tempe­ rato estende l’azione del centro ai toni più lontani e prepara la disgregazione del principio centrale, sostituisce progressi­ vamente alle forme centrate lo sviluppo continuo di una for­ ma che non cessa di dissolversi o di trasformarsi. Quando lo

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sviluppo subordina la forma e si estende sull’insieme, come in Beethoven, la variazione comincia a liberarsi ed ad identi­ ficarsi alla creazione (cfr. MP 151). Quando poi, alla fine del XIX secolo, il cromatismo si generalizza e trascina non solo le altezze, ma tutte le componenti del suono (durate, intensi­ tà, timbri, attacchi), “non si può più parlare di una forma so­ nora che verrebbe a organizzare una materia; non si può più parlare nemmeno di uno sviluppo continuo della forma. Si tratta piuttosto di un materiale estremamente complesso ed elaborato, che potrà rendere udibili forze non sonore. Alla coppia materia-forma si sostituisce l’accoppiamento materia­ le-forze” (cfr. MP 151). La variazione diviene il motore di una serie di strategie di pluralizzazione, di decentramento, e allo stesso tempo di atomizzazione, di ionizzazione (Varese). Queste strategie se­ gnano l’ingresso nell’era della macchina, dei processi-mecca­ nismi. L’era dell’elettronica, del sintetizzatore, che, “assem­ blando i moduli, gli elementi originali e manipolati, oscilla­ tori, generatori e trasformatori, disponendo i micro-interval­ li, rende udibile il processo sonoro in sé, la produzione di questo processo, e ci mette in relazione con altri elementi an­ cora che vanno al di là della materia sonora”. Il sintetizzato­ re prende il posto del vecchio “giudizio sintetico a priori” e, di conseguenza, tutte le funzioni cambiano: la sintesi non av­ viene più tra la forma e la materia, ma tra il molecolare e il cosmico, tra il materiale e la forza... (cfr. MP 479). Se da un lato il materiale si caratterizza per il fatto di es­ sere trasformato in molecole e di essere in relazione con del­ le forze, dall’altro si definisce attraverso delle operazioni di condensazione15: l’organizzazione di questa materia cellula-

15 Cfr. N. Schlàblitz, Wie sich alles erhellt und erhàlt. Von der Musik der tausend Plateaus oder ihrem Bau, in Soundcultures, eie, pp. 120121.

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re e eterogenea procede attraverso dei dispositivi semplici di assemblaggio, di montaggio. Macchina di coalescenza, di condensazione, di consistenza16.

Come la tecnica attuale del sampling dimostra, le cellule sonore sono eterogenee perché prelevate da contesti testuali diversi, sono frammenti connotati. Comporre diviene un processo di consolidazione, di produzione di un’architettura complessa, in termini di coesistenza (piano verticale) e di successione (piano orizzontale): “non si tratta più di impor­ re una forma ad una materia, ma di elaborare un materiale sempre più ricco, sempre più consistente, atto perciò a cap­ tare forze sempre più intense. Ciò che rende un materiale sempre più ricco è ciò che lega insieme elementi eterogenei, senza che smettano di essere eterogenei” (MP 462). In que­ sto senso, l’equilibrio è delicato: il materiale può essere “troppo ricco”, troppo “territorializzato”, troppo ancorato alla sua fonte sonora, alla natura dell’oggetto che l’ha pro­ dotto; allo stesso modo, un insieme può divenire troppo/7o«, troppo confuso, nebuloso. I materiali disparati che compon­ gono un insieme devono essere discernibili, “sufficientemen­ te deterritorializzati per essere molecolarizzati e aprirsi al co­ smico, invece di ricadere in un ammasso statistico”. Per otte­ nere questo equilibrio tra materiali non uniformi, è fonda­ mentale una grande semplicità: “è la sobrietà dei concatena­ menti a rendere possibile la ricchezza degli effetti della Mac­ china” (MP 480). In questa prospettiva, la musica non è più un sistema centralizzato, un sistema arborescente, ma diven­ ta un rizoma (MP 13-20)17.

16 Sul computer come Macchina di condensazione di molecole so­ nore, cfr. S. Heyer, Zwischen Eins und Nuli. Versuch iiber John Cage, in Soundcultures, cit., pp. 160-161. 17 Deleuze e Guattari definiscono il rizoma partendo da sei princi-

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t

“Ciò che è in questione nel rizoma, è un rapporto con la sessualità, ma anche con l’animale, con il vegetale, con il mondo, la politica, con il libro, con le cose della natura e del­ l’artificio, completamente diverso dal rapporto arborescente: tutte le specie di ‘divenire’” (MP 57). Al contrario del modello dell’albero e della radice, il ri­ zoma è composto da elementi anomali e nomadi e non più pi: "1,2. principi di connessione e di eterogeneità: qualunque punto del rizoma può essere connesso con qualunque altro punto e deve esserlo. È molto diverso dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un or­ dine. [...]; 3. principio di molteplicità: solo quando il molteplice è ef­ fettivamente trattato come sostantivo, molteplicità, che non ha più al­ cun rapporto con l’Uno come soggetto o come oggetto, come realtà na­ turale o spirituale, come immagine e come mondo [...]; 4. principio di rottura asignificante: contro i tagli troppo significanti che separano le strutture o ne attraversano una. Un rizoma può essere rotto, spezzato in un punto qualunque, e riprende seguendo una delle sue linee o se­ guendo altre linee [...]; 5, 6. principio di cartografia e di decalcomania: un rizoma non è soggetto alla giurisdizione di nessun modello struttu­ rale o generativo. È estraneo a ogni idea di asse genetico, così come di struttura profonda” (Cfr. MP 39-45). Queste caratteristiche mostrano il legame diretto tra la nozione di rizoma c quella successiva di iperte­ sto. Le ascendenze sono, del resto, chiaramente riconosciute dai pio­ nieri dell’ipertesto: G. Landow, Hypertext. The Convergence Of Contemporary Criticai Theory And Technology, The John Hopkins Uni­ versity Press, Baltimore 1992; P. Levy, La Machine Univers: création, cognition et culture informatique, La Découverte, Paris 1987. Cfr. in particolare la lista delle proprietà dell’ipertesto in P. Levy, Les technologies de Tintelligence, La Découverte, Paris 1990, pp. 30-31: 1) proprietà di metamorfosi; 2) proprietà di eterogeneità; 3) proprietà di molteplicità di incastro delle scale (“l’ipertesto si organizza su di un mondo frattale”); 4) proprietà di esteriorità; 5) proprietà di topologia (“la rete è lo spazio”); 6) proprietà di mobilità dei centri. Ma è chiaro che il programma informatico, in quanto ‘intelligenza’ del sistema, ge­ stisce ogni azione (anche se è inter-azione), costituisce quindi in una vera propria unità centrale, e quindi impone un orientamento centripe­ to, rc-instaura un regime gerarchico, di arborcsccnza.

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normali e legali, “connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e ciascuno dei suoi tratti non rinvia neces­ sariamente a dei tratti della stessa natura, mette in gioco dei regimi di segni molto differenti e persino degli stati di non­ segni [...]. Non è composto di unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni in movimento. Non ha inizio né fine, ma sempre un centro, attraverso il quale spinge e sconfina”. “All’opposto di una struttura che si definisce per un insieme di punti e di posizioni, di rapporti binari tra questi punti e di relazioni biunivoche tra queste posizioni, il rizoma è costi­ tuito soltanto da linee: linee di segmentarietà, di stratificazio­ ne, come dimensioni, ma anche linea di fuga o di deterritorializzazione come dimensione massimale a partire dalla qua­ le, nel seguirla, la molteplicità fa metamorfosi cambiando na­ tura” (MP 56-57). All’opposto dei sistemi centrici (anche policentrici), a co­ municazione gerarchica e a connessioni prestabilite, il rizoa è un sistema a-centrico, non gerarchico e non significan, senza memoria organizzatrice o motore centrale, definito blamente da una circolazione di stati, di flussi. All’opposto dell’albero, il rizoma non è l’oggetto di un processo di riproduzione, ma vive in un tempo fluttuante, sospeso, procede per variazione, espansione, conquista, cat­ tura, puntura. In questo senso, è un’antigenealogia. È una memoria corta, o meglio, un’antimemoria. Gioco sospeso tra anamnesi e amnesia, la musica come rizoma è un’antimemoria (C 41): non è più basata sulla no­ zione di sviluppo o sulla trascendenza della composizione strutturale, ma è puro flusso. Musica come processo (Steve Reich), in cui l’apparente staticità rivela una pulsazione mo­ lecolare di differenze: immanenza. Trasposta nell’ambito musicale, l’opposizione tra i due modelli (centrico ed a-centrico) non illustra solo l’opposi­ zione tra due paradigmi compositivi alternativi, ma esibisce 34

in modo efficace la divergenza tra due “ideologie”. Per esem­ pio, se si analizzano alcune delle tendenze attuali della speri­ mentazione elettronica, da una parte si delinea una metodo­ logia post-strutturale che utilizza dei sistemi informatici ge­ nerativi in cui, grazie all’interattività e al tempo reale, dei modelli-matrice sono attivati per generare pattern sempre di­ versi. Ma per quanto le diramazioni restino aperte e richieda­ no l’intervento di forze esterne, il motore algoritmico persi­ ste al centro del sistema/ambiente interattivo: software come unità centripeta di gestione e smistamento dei comportamen­ ti musicali. Dall’altro lato, la strategia del montaggio e del sampling, che associa ad un’estrema semplicità strutturale la pulsazio­ ne viva di una pluralità molecolare di materiali eterogenei, supera il livello della forma a profitto del flusso di irradiazio­ ni connotative, del gioco delle referenze, delle intensità. Due diversi procedimenti di produzione della forma (al sistema gerarchico, arborescente, si oppone il rizoma, ecosi­ stema dell’eterogeneo), che fondano diversi equilibri e di­ sequilibri tra l’astratto e il concreto (l’indiziale, l’affettivo), tra memoria e anti-memoria.

7 Sempre in Mille Plateaux, Deleuze e Guattari riprendo­ no un modello (musicale) proposto da Pierre Boulez (la dif­ ferenza tra spazio liscio e spazio striato) e ne estendono la portata: “lo striato è quel che intreccia dei fissi e delle varia­ bili, quel che ordina e fa succedere delle forme distinte, quel che organizza le linee melodiche orizzontali e i piani armo­ nici verticali. Il liscio è la variazione continua, è lo sviluppo continuo della forma, è la fusione dell’armonia e della melo­ dia a profitto di una liberazione di valori propriamente ritmi-

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ci, il puro tracciato di una diagonale attraverso la verticale e l’orizzontale” (MP 667)18. Per Boulez, il riferimento spaziale è metaforico, e ha in realtà la funzione di rappresentare un’articolazione tempora­ le, la dinamica delle altezze: spazio striato e liscio corrispon­ dono a tempo pulsato e non-pulsato19. Come spiega Boulez, “nel tempo liscio, si occupa il tempo senza contarlo; nel tem­ po striato si conta il tempo per occuparlo”20.

Deleuze lega la differenza tra tempo pulsato e tempo non-pulsato alla distinzione, di matrice stoica, tra Cronos e Aion. La pulsazione (che definisce il dominio di Cronos), dato che può essere anche irregolare, non è determinata dalla re­ golarità o la periodicità, quanto piuttosto dalla coesistenza di tre coordinate, che Deleuze precisa: 1. “un tempo pulsato è sempre un tempo territorializza-

18 Cfr. P. Boulez, Penser la musique aujourd’hui, Denoèl-Gonthier/Gallimard, Paris 1963, p. 95 e ss; trad. it. Pensare la musica oggi, Einaudi, Torino p. 83 e ss. “Il continuum si manifesta con la possibili­ tà di tagliare lo spazio secondo certe leggi; la dialettica fra continuo e discontinuo passa dunque attraverso la nozione di taglio: arriverei per­ fino a dire che il continuum è questa possibilità stessa perché contiene insieme il continuo e il discontinuo: il taglio, se si vuole, cambia il con­ tinuum di segno. [...] Lo spazio delle frequenze può subire due specie di tagli: l’uno, definito da un campione, si rinnoverà regolarmente; l’al­ tro, non precisato, anzi non determinato, interverrà liberamente e irre­ golarmente. Per valutare un intervallo, il temperamento - scelta dei campione - sarà un aiuto prezioso, ‘strierà’ la superficie, lo spazio so­ noro, e darà alla percezione [...] i mezzi per orientarsi utilmente; nel caso contrario, quando il taglio sarà libero di compiersi dove si vuole, l’orecchio perderà ogni punto di riferimento e qualsiasi conoscenza as­ soluta degli intervalli, paragonabile all’occhio che deve valutare delle differenze su una superficie idealmente liscia". Boulez declina gli spazi lisci e striati in spazi diritti, curvi, regolari, irregolari. 19 Cfr. M. Buydens, Sahara. L’esthétique de Gilles Deleuze, Vrin, Paris 1990, p. 148 e ss. 20 Bòulez, Pensare la musica oggi, cit., p. 94.

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to; regolare o no, è il numero del movimento del passo che marca un territorio: io percorro il mio territorio. Ogni volta che percorro un territorio, ogni volta che indico un territo­ rio come mio, mi approprio un tempo pulsato o ‘pulso* un tempo. La forma musicale più semplice del tempo pulsato non è il metronomo, né una qualsiasi cronometria, ma il Ri­ tornello - ogni volta che c’è marcatura di un territorio, ci sa­ rà una pulsazione del tempo”. Di conseguenza, “il movimen­ to di deterritorializzazione corrisponde allo stesso tempo al­ l’emergenza di un tempo non-pulsato”21; 2. vi è pulsazione non solamente ogni volta che il tempo scandisce la territorialità, “ma ogni volta che si impone un processo di sviluppo di una forma, ogni volta che il tempo serve, non tanto a scandire un territorio, ma a ritmare lo svi­ luppo di una forma”. Non cronicità o cronometria, ma svi­ luppo, come nel tempo biologico, crescita22;

21 Deleuze (corso a Vincennes del 3 maggio 1977, disponibile sul sito http://www.webdeleuze.com spiega: “il piccolo ritornello del bambino, può divenire un ritmo relativamente complesso, può avere una metronomia irregolare, ma è un tempo pulsato, perché è fonda­ mentalmente il modo in cui una forma sonora, per quanto semplice, marca un territorio. Ogni volta che c’è una marcatura di territorialità, ci sarà una pulsazione del tempo. [...] quando i grandi musicisti si ap­ propriano il piccolo ritornello del bambino, ci sono due maniere in cui ciò può avvenire: o ne fanno un collage, a tal momento della loro ope­ ra, vi piazzano un piccolo ritornello. Esempio: Berg, Woyzzeck. In questo caso, ciò che è stupefacente è che l’opera termina là. Succede an­ che che un tema folklorico sia piazzato in un’opera, o un divenire-ani­ male. Messiaen che registra i canti degli uccelli. Gli uccelli di Mozart, non è la stessa cosa, non è un collage. Accade che allo stesso tempo la musica diventa uccello e l’uccello diventa un’altra cosa che un uccello, vi è un blocco di divenire, due divenire asimmetrici: l’uccello diviene un’altra cosa nella musica, mentre la musica diventa uccello. Vi sono certi momenti di Bartok in cui i temi folklorici sono affiancati, e poi c’è qualcosa di completamente altro, il tema folklorico è preso in un bloc­ co di divenire. In questo caso, è veramente deterritorializzato dalia mu­ sica: Bcrio [...]”. 22 Ivi: “Allo stesso modo in musica, appena potete assegnare una

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3. “c’è Cronos quando il tempo marca, misura o scandi­ sce la formazione di un soggetto”23. In breve, il tempo pulsato è legato ad un processo di territorializzazione, di sviluppo di una forma, di instaurazione di un nucleo soggettivo. Nel testo della sua conferenza all’Ircam, Deleuze appro­ fondisce invece la nozione di tempo non-pulsato, partendo ancora una volta da tre punti. Da una parte, esso è “una durata, ovvero un tempo libe- r ; rato dalla misura” o, più precisamente, un tempo composto da una molteplicità di durate vitali, eterogenee, qualitative. In assenza di metrica unificante, al di là delle note e della sin­ tassi delie altezze, queste durate si articolano attraverso un principio di popolazione, di oscillazione molecolare: “musi­ ca di molecole sonore”... Ma è possibile anche considerare il tempo non-pulsato a partire dalla nozione di individuazione: “generalmente un’individuazione si fa in funzione di due coordinate, quella di una forma e quella di un soggetto. L’individuazione clas­ sica è quella di qualcuno o di qualcosa in quanto provvisti di forma”. L’individuazione legata a questa nozione fluttuante di tempo, non passa per la forma né per il soggetto: è piutto­ sto l’individuazione d’un paesaggio, di una giornata, di un’o­ ra, di un evento. L’ascolto può provocare delle associazioni

forma sonora, determinabile per le sue coordinate interne, per esempio melodia-armonia, appena potete assegnare una forma sonora dotata di proprietà intrinseche, questa forma è soggetta a degli sviluppi, attraver­ so i quali essa si trasforma in altre forme o entra in rapporto o ancora si connette con altre forme, e là, seguendo queste trasformazioni e que­ ste connessioni, potete assegnare delle pulsazioni del tempo”. 23 Ivi: “In tedesco, sarebbe la Bildung: la formazione di un sogget­ to. L’educazione. L’educazione è un tempo pulsato. L’educazione sen­ timentale. [...] Il ricordo è agente di pulsazione. La psicoanalisi è una formidabile impresa di pulsazione del tempo”.

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con ambienti e momenti (come Swann che associa la piccola frase di Vinteuil al Bois de Boulogne) o a colori (sinestesia) o ancora a persone o personaggi. Deleuze non rifiuta questo li­ vello di ascolto, ma sottolinea che “ad un livello più profon­ do, non è tanto il suono che rinvia ad un paesaggio, quanto la musica che sviluppa un paesaggio sonoro interno”24. Pae­ saggio virtuale, interiorizzato (Liszt). Il tempo non-pulsato non è solo un tempo liberato dalla misura, né un nuovo processo di individuazione, liberato dal tema e dal soggetto, ma segna Temergenza di un materiale li­ berato dalla forma. Non si tratta di un materiale indifferen­ ziato o semplice, ma al contrario di un materiale estremamente elaborato e complesso. Un materiale la cui funzione è di rendere udibili delle forze, che per natura non sono sono­ re, di fare emergere le vibrazioni di un universo plurale.

24 Deleuze, Conférence à 1‘IRCAM, 1978, disponibile sul sito http://www.webdeleuzc.com

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Timothy S. Murphy

Anche quello che sento è pensare: i tributi discografici a Deleuze1

In seguito al suicidio di Gilles Deleuze, nel novembre 2005, due etichette discografiche pubblicarono dei cd com­ memorativi in suo onore. Il primo, Folds & Rhizomes for Gilles Deleuze (qui di seguito FR), era già stato approntato dall’etichetta belga Sub Rosa prima della sua morte, ma è ar­ rivato nei negozi solo più tardi2. Nelle note introduttive al disco, il fondatore dell’etichetta Guy-Marc Hinant scrive: “‘Abbiamo scritto l’Anti-Edipo in due. Poiché ciascuno di noi era parecchi, si trattava già di molta gente’: è sulla ba-

1 Questo testo è un estratto di un saggio molto più lungo, scritto in collaborazione (in distinte sezioni) con Daniel W. Smith, intitolato What I Hear is Thmking Too: Deleuze and Guattari Go Pop pubblica­ to sulla rivista onlinc «Echo: a music-entcrcd journal», voi. 3, 1 (2001), (http://www.echo.ucla.edu/Volume3-Issuel/smithmurphy/index.html ). Insieme agli editori di questo volume vorrei ringraziare Dan e gli edi­ tori di «Echo» per l’autorizzazione a ripubblicare questa sezione del saggio. Questo estratto è pubblicato originariamente in Deleuze And Music, a cura di lan Buchanan, Marcel Swiboda, University Press, Edinburgh 2004. 2 Un anno dopo Sub Rosa ha pubblicato un secondo cd di tributi a Deleuze. Doublé Articulation consiste in una rielaborazione delle tracce di Folds & Rhizomes-. gli artisti coinvolti nell’operazione si sono scambiati le registrazioni e remixati a vicenda i rispettivi lavori. Abbia­ mo scelto di analizzare soltanto le registrazioni originali per mantene­ re un elevato grado di specificità nell’analisi dei singoli musicisti.

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se di questa frase, la prima di Mille Plateaux, che abbiamo concepito Sub Rosa. Fin dall’inizio volevamo essere più di un’etichetta discografica; una macchina forse, fatta di rizomi, di picchi e avvallamenti, di tranquillità e di dubbio... È evi­ dente che questo non è affatto un omaggio ufficiale a uno dei grandi pensatori del nostro tempo, ma semplicemente un sa­ luto fraterno da parte di alcuni giovani che lo ammirano pro­ fondamente e che in passato sono stati aiutati dai suoi scritti nella loro creazione e nella loro vita”.

Il disco contiene le tracce di cinque bands o singoli arti­ sti, quattro dei quali hanno contribuito anche al secondo progetto commemorativo, un set di 27 tracce su due cd, inti­ tolato In Memoriam Gilles Deleuze (qui di seguito IM), del­ l’etichetta Mille Plateaux di Francoforte. Il suo fondatore Achim Szepanski descrive così il lavoro degli artisti dell’eti­ chetta: “Divenire, in modo che la musica vada al di là di se stessa; è la ricerca delle forze minori, di cui Mille Plateaux fa parte. In una lettera Gilles Deleuze ha ben accolto l’esisten­ za di una simile etichetta” (IM: 5). Entrambe le etichette sono indipendenti, svincolate dalle grandi multinazionali musicali che dominano il mercato dis­ cografico internazionale. Sono label “alternative”, nel senso che la musica che diffondono non è progettata per compete­ re direttamente con la musica “mainstream” delle multina­ zionali. Oltre al tributo a Deleuze, Sub Rosa ha pubblicato le sperimentazioni sonore di William S. Burroughs, Antonin Artaud, Bill Laswel e Richard Pinhas, tra gli altri, mentre Mille Plateaux è specializzata in densi mix di techno trance/dance e di elettronica3. Ciò che queste etichette han-

3 Per un’analisi sociologica deleuze/guattariana della scena musi­ cale tedino alla quale queste etichette sono collegate, cfr. J. Fitzgerald,

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no in comune è l’attenzione per quei musicisti che sono sta­ ti profondamente influenzati dalla più recente rivoluzione informatica nel campo musicale - quella stessa rivoluzione che ha incrinato il monopolio, detenuto precedentemente dalle grandi e per lo più inaccessibili macchine “mainframe” (e dai loro apparati burocratici), sulla sintesi sonora4. La pro­ liferazione dei personal computer negli anni ’80 e ’90 ha pro­ dotto un’intera generazione di musicisti (e ascoltatori) per i quali il suono è quasi una sostanza tattile, riproducibile digi­ talmente, manipolabile e archiviabile, e per i quali, di conse­ guenza, le forme musicali tradizionali e la notazione sono di­ venute sempre più irrilevanti5. La loro musica è pop, ma non nel senso adorniano di musica di consumo prodotta da pro­ fessionisti dell’industria e concepita per imporre una falsa universalità ai consumatori, ma in un senso molto più vicino al vecchio significato di “popolare”: una musica bricolage^ amatoriale, che emerge dalle attività quotidiane della gente. In questa prospettiva, la situazione culturale contemporanea è simile a quella che diede origine al blues, o alle controcul­ ture americana e italiana degli anni ’60 e ’70. Oggi le attività quotidiane di molte persone dipendono dall’uso di avanzate tecnologie digitali, e la musica che emerge da queste attività,

An Assemblage of Desire, Drugs and Techno in «Angelaki Journal of thè Theoretical Humanities», 3, 2, 1998, The Love of Music, pp. 41-57. 4 Per questa significativa transizione, cfr. G. Born, Rationalizing Culture: IRCAM, Boulez and thè Institutionalization of thè Musical Avant-Garde, University of California Press, Berkeley 1995, pp. 183193 e pp. 207-210. 5 Per esempio Dj Spooky, del quale parleremo più avanti, scrive: “Basandosi sul fatto che tutto il materiale sonoro può essere manipola­ to con la stessa facilità con la quale i computer attualmente generano le immagini, il Dj combina le espressioni musicali di altri musicisti con le proprie creando, in questo processo, un flusso musicale senza giunzio­ ni”. Dj Spooky, Flow My Blood thè Dj Said, incluso, come nota intro­ duttiva, al suo primo album Songs of a Dead Dreamer, Asphodel, New York 1996, p. 8.

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o che si mescola con esse, costituisce un indice delle poten­ zialità politiche che ancora si devono coalizzare6.

Di che utilità sono stati i concetti di Deleuze e Guattari per musicisti alla ricerca di nuove categorie e di nuove forme per la creazione musicale e l’invenzione sociale? Per determi­ narlo dobbiamo cercare di discernere le modalità con le qua­ li certi musicisti hanno innestato elementi o prelevato alcuni concetti dal rizoma filosofico di Deleuze e Guattari, per poi usarli nelle loro attività di creazione. Per far questo, dobbia­ mo costruirci un piccolo assemblaggio macchinico, un ritor­ nello o un territorio musicale temporaneo: dobbiamo sele­ zionare alcune tracce, passare in silenzio altre, e ri-sequenziarle in modo da far diminuire le discontinuità, non tra i due dischi di commemorazione, ma tra la nostra specifica linea d’indagine e altre linee virtuali. La linea da noi scelta non do­ rrebbe essere interpretata né come un resoconto particola?ggiato di questi dischi né come lo sminuimento di altri aprocci, ma semplicemente come il filamento di un rizoma. Facciamo con essi ciò che possiamo, e lasciamo agli altri ascoltatori la possibilità di fare altrimenti. La linea più utile per la nostra investigazione risale ai concetti basilari di Deleuze e Guattari, visti però dalla pro­ spettiva, più pragmatica che sistematica, dei musicisti di cui intendiamo parlare. La musica è fatta di percetti, complessi sensoriali intensivi che “non sono percezioni; sono indipen/6 denti dallo stato di chi li prova [...]. Sensazioni, percetti e af­ fetti sono esseri che esistono di per sé ed eccedono ogni vis­ suto” (CF 162). Ma prima che gli elementi musicali possano

6 Sulla tecnologicizzazione delle attività quotidiane, cfr. M. Hardt e A. Negri, Labor of Dionysus: A Critique of thè State-Form, Univer­ sity of Minnesota Press, Minneapolis 1994, p. 7-11; trad. it. // lavoro di Dioniso. Per la critica dello Stato postmoderno. Manifestolibri, Roma 2001.

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essere dei percetti, essi devono divenire percettibili. Questo divenire-percettibile completa o complica il divenire-imper­ cettibile del movimento che Bergson ha descritto: Se il movimento è impercettibile per natura lo è sempre rispet­ to a una soglia qualunque di percezione, la cui proprietà è di es­ sere relativa, di svolgere così un ruolo di mediazione, su un pia­ no che opera la distribuzione delle soglie e del percepito, che dà forme da percepire a soggetti che percepiscono: ora, questo pia­ no di organizzazione e di sviluppo, questo piano di trascenden­ za, offre alla percezione delie forme senza essere esso stesso percepito, senza poter essere percepito (MP 393).

Questa soglia di percezione deve essere attraversata per far sorgere la musica, e il lavoro del musicista è teso verso il rendere percettibile ciò che è ancora impercettibile. L’attraversamento della soglia è l’oggetto di due tracce di IM, As In di Jim O’Rourke (disco 2, traccia 1) e Invisual Ocean di Dj Spooky (disco 2, traccia 8). La traccia di O’Rourke ci mette circa tre minuti per approdare lentamen­ te alla percettibilità, e nel far ciò assembla gradualmente un continuum regolare di suoni modulati (ai quali torneremo tra poco). Eppure questa traccia compone il suo continuum per­ cettibile solo attraverso l’accumulazione e la sovrapposizio­ ne di miriadi di “piccole percezioni” istantanee. È come il mormorio dell’oceano di Leibniz7: diciamo che le piccole percezioni sono in sé distinte e oscure:

7 Cfr. Leibniz: “Per intendere questo rumore bisogna che se ne percepiscano le parti che lo costituiscono, cioè il rumore di ogni singo­ la onda, benché ciascuno di questi brusii non si faccia conoscere che nell’insieme confuso di tutte le altre onde, cioè dentro questo muggito stesso, e non potrebbe essere notato, se questa onda che lo produce fos­ se sola”. G.W. Leibniz, Nuovi saggi suirintelletto umano (1966), in Scritti filosofici, voi. II, UTET , Torino 1968, p. 174.

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distinte in quanto colgono rapporti differenziali e singolarità, oscure in quanto non ancora “distinte”, non ancora differenzia­ te - e queste singolarità condensandosi determinano una soglia di coscienza in rapporto col nostro corpo, come una soglia di differenziazione, a partire dalla quale le piccole percezioni si at­ tualizzano, ma si attualizzano in un’appercezione che non è a sua volta se non chiara e confusa, chiara in quanto distinta o dif­ ferenziata, e confusa in quanto chiara (DR 276). Quando queste piccole percezioni si accumulano, le loro differenze divengono percettivamente distinte dalle altre (per il soggetto percipiente), e in questo modo determinano una percezione globale dell’oceano. La percezione dell’oceano è chiara perché le piccole percezioni a partire dalle quali è as­ semblato sono distinte uditivamente; ma dal momento che esse non sono pienamente individuate, questa chiara perce­ zione rimane in una confusione dinamica. La traccia di Dj Spooky compone esattamente in questa maniera un simile oceano sonoro, che rimane “Invisual” (invisibile o infra-visuale, impercettibile alla visione?), a partire da audio-elemen­ ti non-marini. Questo oceano è parte del più ampio territo­ rio sonoro e sociale che definisce tutto il suo lavoro: “Vole­ vo creare una musica che riflettesse le estreme densità del paesaggio urbano e il modo in cui la sua regolarità geometri­ ca perimetra e configura la percezione [...]. I suoni dello spi­ rito ultrafuturistico della giungla urbana, scintillanti ai bordi della percezione”8.

8 (Dj Spooky, cit., pp. 7-8). Dj Spooky That Subliminal Kid (il nome fa riferimento ad un personaggio di William S. Burroughs, in No­ va Express, Grove Press, New York 1964; trad. it. Nova Express, SugarCo, Carnago 1994, pp. 129 e ss.) è, dopo Richard Pinhas, il musicista il cui lavoro è maggiormente attraversato dalla filosofia di Deleuze c Guattari. A differenza di Pinhas, che proviene dalla scena rock progressive/ambient degli anni ’70, Dj Spooky è associato alla scena hiphop e “illbicnt” degli anni '90. Cfr. ibid., pp. 7 c 14.

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Una volta che la soglia di percettibilità è stata attraversa­ ta, il montaggio sonoro inizia ad attualizzare il suo spazio­ tempo, il suo impercettibile piano di organizzazione. Tale piano si attualizza in termini di aperture e tagli, o piuttosto nella sua resistenza ad essi. Uno spazio-tempo liscio, percet­ tivamente continuo, si dispiega, come ad esempio in As In di Jim O’Rourke: glissandi, gradienti o linee continue di suono modulato da tono a tono, senza salti irregolari attraverso lo spettro sonoro. Anche le tracce del gruppo tedesco Ovai, you are* Here 0.9 B (disco 2, traccia 2, IM) e SD II Audio Tem­ piale (traccia 3, FR), incarnano questo tipo di costruzione re­ golare. Le tracce degli Ovai inoltre drammatizzano intenzio­ nalmente il processo attraverso il quale lo spazio-tempo li­ scio diviene striato e viceversa. “Ovai è un approccio molto preciso e limitato”, dichiara il principale componente del gruppo Markus Popp, “teso a rendere chiare alcune nuove distinzioni - e, in un certo senso, andare al di là del concetto di musica, delle metafore musicali che sottendono i concetti utilizzati negli strumenti digitali coinvolti”9. In SD II Audio Tempiale le continue modulazioni di toni sono brutalmente interrotte da puntuali eventi percussivi che suonano come i graffi sulla superficie di un LP. Queste interruzioni alludono ovviamente alla dialettica tra tono e rumore, consonanza e dissonanza che ha attraversato la musica moderna da Schònberg a Cage, ma svolgono anche una funzione più innovati­ va. Malgrado la loro irregolarità metrica, questi eventi intro­ ducono qualcosa come un ritmo o una striatura sul piano li­ scio. Come indicano Deleuze e Guattari “una misura, rego­ lare o no, suppone una forma codificata la cui unità di misu-

9 Marc Wcidcnbaum, Popp Music: Ovai, Microstoria, and thè man behind their curtains, sull’archivio on line Disquiet: ambient/electronica: (http://www.dnai.com/~marc/popp.htnil). Originariamente pub­ blicato in «Tower Rccords Pulso!», dicembre 1996.

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ra può variare [...] mentre il ritmo è l’ineguale o l’incom­ mensurabile è questo elemento ineguale a costituire la differenza impercettibile: ad essere “ritmica è la differenza e non la ripetizione” di un metro percettibile (MP 442-443). Queste striature irregolari sono messe in loop digitalmente per formare un fraseggio metrico ripetitivo che va a costitui­ re lo spazio-tempo striato della traccia degli Ovai. Quella che su brevi intervalli è una irregolarità metrica diviene una regolarità ritmica su intervalli più lunghi o su una scala di li­ vello superiore. Viceversa, le striature possono anche ricostruire uno spa­ zio-tempo liscio attraverso accelerazione e accumulazione; in SD II Audio Tempiale ciò accade quando le striature me­ triche ricorrono ad intervalli sempre più brevi, finché non iniziano a sovrapporsi nella realtà effettiva o semplicemente nella percezione dell’ascoltatore. Non appena ciò accade, le loro componenti di striatura o differenziazione iniziano a fondersi, per ritornare ad una continuità liscia o ad una inditinguibilità su una frequenza più alta. La traccia passa, attraerso una progressione circolare, da una continuità sonora li­ scia alla striatura e poi di nuovo al liscio attraverso una striatura incrementale. Come risultato di queste trasformazioni esemplari, la traccia degli Ovai può considerarsi, come il ti­ tolo stesso implica, un “audio-modello”, o una mappa astrat­ ta, poiché dimostra che tutti gli assemblaggi sonori sono ciò che Deleuze e Guattari chiamano molteplicità: “Una molte­ plicità non ha né soggetto né oggetto, solo determinazioni, grandezze, e dimensioni che non possono crescere senza che essa cambi natura”. Perciò quando il tempo10 della striatura — una delle dimensioni sonore della traccia - aumenta, non è soltanto la velocità del pezzo a cambiare, ma la sua qualità

10 In italiano nel testo [N.d.T.] 48

sonora. “Quando Glenn Gould accelera l’esecuzione di un pezzo, non agisce semplicemente da virtuoso, trasforma i punti musicali in linee, fa proliferare l’insieme” (MP 41). Se l’accelerazione modifica la natura del pezzo, la stessa cosa succede con la decelerazione. Ovviamente, la decelerazione di un suono abbassa il suo pitch e di conseguenza altera la sua qualità tonale, ma altera anche tutte le altre sue relazioni e ne rivela nuove configura­ zioni qualitative; se si rallenta un passaggio di un pizzicato d’archi, per esempio, si scoprirà il ronzio continuo di un mo­ tore. Per un certo verso, anche le tracce Can’t he stili di Blue Byte (disco 2, traccia 15, IM) e Patent dei Breed (disco 2, traccia 5, IM) incarnano questo principio di molteplicità so­ nora attraverso dei processi di accelerazione e decelerazio­ ne11. Un altro modo attraverso il quale il liscio emerge dallo striato - in realtà il metodo più comunemente utilizzato nei dischi di commemorazione di Deleuze - è la sovrapposizio­ ne di un certo numero di distinti pattern metrici di striatura. Questi pattern sovrapposti si intersecano in una varietà di punti di inflessione, creando armonie indirette e melodie vir­ tuali. Deleuze e Guattari descrivono così questa modalità: Certi musicisti moderni oppongono al piano trascendente di organizzazione, che si ritiene abbia dominato tutta la musica occidentale, un piano sonoro immanente, sempre dato con ciò che dà, che fa percepire rimperccttibile e non trasporta più che

11 Qualcosa di simile accade in quella forma ipercinetica di punkrock conosciuta come “grindcorc”: semplici accordi e pattern ritmici sono suonati così velocemente da iniziare a formare gradienti sonori su di un livello supcriore, nel quale i pattern precedenti divengono imper­ cettibili. I primi lavori dei Napalm Dcath, per esempio il disco From Enslavement to Obliteration, sono forse la manifestazione più signifi­ cativa di questa modalità di emersione di un piano liscio a partire da una striatura estremamente densa.

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velocità e lentezze differenziali in una specie di sciabordio mo­ lecolare (MP 376).



In questa sovrapposizione molecolare il soggetto percipiente “ascolta” suoni virtuali che non sono stati realmente suonati e “conta” beats virtuali che non sono stati realmente scanditi. La musica per ensemble amplificata di Philip Glass è il caso più noto di questo metodo di sovrapposizione; la traccia thè Grid della sua colonna sonora del film Koyaanisqatsi è esemplare. Sui dischi commemorativi di Deleuze, le tracce proposte dai Mouse on Mars, Subnubus (traccia 1, FR) e 1001 (disco 2, traccia 3, IM), forniscono esempi di sovrap­ posizione generativa nella musica techno12.

All’interno del mutante spazio-tempo liscio/striato delle molteplicità musicali, anche altri concetti estratti dal lavoro di Deleuze e Guattari sono divenuti produttivi. Nel suo pez­ zo Undirections/Continuum (disco 1, traccia 6, IM), Cristophe Charles utilizza le tecniche della musique concrète esplo­ rate da Pierre Schaeffer per costruire un rizoma sonoro pri­ vo di centro, in sintonia con i principi di connessione e di eterogeneità. La musique concrète non assembla soltanto i suoni puri prodotti dai generatori d’onda, ma anche quei suoni quotidiani che normalmente non vengono considerati come musicali: il cigolare di un cardine, un sospiro. Questa eterogeneità deriva dalla scoperta del musicista che tutti i materiali sonori sono utilizzabili su questo piano di svilup­ po. Il musicista fa musica assemblando “catene semiotiche”: Anelli semiotici di ogni natura sono connessi a modi di codifi­ cazione molto diversi, anelli biologici, politici, economici, ecc.,

12 Su questa tecnica di sovrapposizione in generale, c sulla musica di Glass in particolare, cfr. la conversazione di Richard Pinhas con De­ leuze in Deleuze, corso a Vincennes del 3 maggio 1977, disponibile sul sito http://www.wcbdeleuze.com

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mettendo in gioco non soltanto regimi di segni differenti, ma anche statuti di stati di cose [...]. Un rizoma non cesserebbe di collegare anelli semiotici, organizzazioni di potere, occorren­ ze rinviami alle arti, alle scienze, alle lotte sociali. Un anello semiotico c come un tubero che agglomera atti molto diversi, linguistici, ma anche percettivi, mimici, gestuali, cognitivi (MP 39-40). Le catene semiotiche di Charles vanno dalla ultraterrena purezza meccanica dei toni dell’oscillatore e del generatore d’onda fino al crepitio entropico dei disturbi di trasmissione e al rumore delle superfici di registrazione. Tra gli estremi, udiamo percussioni contratte e dilatate, sirene, il delicato movimento dell’acqua e suoni di volo ottenuti attraverso field recordings; l’eterogeneità degli elementi connessi guida l’ascoltatore attraverso lunghi tragitti di intensità sonore13.

L’ultimo elemento al quale dobbiamo rivolgerci nell’ana­ lisi di questi dischi commemorativi può sembrare a prima vi­ sta più familiare, ma in realtà si tratta di un elemento tanto straniarne quanto primario: la voce. Fino a questo punto ci siamo concentrati su elementi della filosofia della musica di Deleuze e Guattari che non hanno chiari equivalenti nella critica che si occupa della popular music; con la voce ci muo­ viamo invece su di un territorio d’analisi che è correntemen­ te dominato da metodi e categorie estratti dalla psicanalisi, quella strategia interpretativa alla quale Deleuze e Guattari dichiararono guerra nc\VAnti-Edipo. Il nostro proposito qui non è di ripercorrere quel tenace assalto, né di intervenire concretamente negli attuali dibattiti musicologici sulla voce, ma semplicemente di individuare i limiti generali di un ap-

13 Charles ha collaborato con Ovai in un disco intitolato Dock., nel quale il musicista tedesco usa i field recordings di Charles come materialc per la manipolazione elettronica.

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proccio psicanalitico rappresentazionale alla pop music, cer­ cando così di sottolineare l’originalità della prospettiva produzionista di Deleuze e Guattari. In psicanalisi e nelle teorie critiche da essa derivate, la vo­ ce funziona come lo sguardo fisso che si rivolge, assoggettan­ doli, agli individui per interpellarli come i soggetti di un or­ dine simbolico, la cui struttura è riflessa imperfettamente dalla loro psiche14. Di conseguenza la voce registrata forma uno “specchio acustico” nel quale il soggetto (mis)conosce se stesso o se stessa, facendo dell’ascolto di quella voce un’im­ presa inevitabilmente narcisistica15. Deleuze e Guattari ac­ cettano la validità di questo modello fin dove è utile, ma pro­ pongono un’alternativa con basi più ampie e che inoltre apre alla musica nuovi territori e nuove strutture (LS 170-172). Il modello narcisistico dell’ascolto, affermano, è un modello fondamentalmente conservatore e rappresentazionale, che non può render conto della produzione di novità o di inno­ vazione nella musica. Qualsiasi novità viene ridotta fino a ri­ entrare nel letto di Procuste della triangolazione edipica uni­ versale (padre-madre-io) e nell’infinito differimento del desi­ derio concepito come mancanza; ogni azione è separata dal­ la sua efficacia pratica per divenire un puro significante drammatico dell’infinito desiderio del desiderio. L’inconscio psicoanalitico è un teatro vittoriano di narcisismo familiare, un modello di negatività dialettica che è incapace di svinco-

14 La classica descrizione di questo modello è Ideologia e apparati di stato di Louis Althusser, in L. Althusser, Freud e Lacan, Editori Ri­ uniti, Roma 1981, pp. 65 e ss. La formulazione di Althusser è esplicita­ mente ispirata alla lettura che Lacan fa di Freud. 15 Questo è un elemento chiave dell’argomentazione di Adorno in Adorno, The Curves ofNeedle (1928) in «October», voi. 55 (1990); cfr. in particolare p. 54. Per la più influente formulazione di questo model­ lo della voce, cfr. K. Silverman, The Acoustic Mirrar: The Female Voi­ ce in Psychoanalysts and Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1988.

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tarsi dalle sue impasse costitutive; dal canto loro, Deleuze e Guattari propongono un inconscio produttivo che eccede il modello rappresentazionale da tutti i lati (A-E cap. 2)16. Questo modello affermativo ammette tanto le temporalità prospettiche dell’improvvisazione soggettiva quanto l’abisso negativo della coazione a ripetere di cui parla la psicanalisi. La voce fornisce un buon esempio delle conseguenze in­ terpretative che questo modello più ampio implica. In molta pop music la voce è il punto centrale di una riterritorializzazione tematica, attorno al quale i suoni temporaneamente si deterritorializzano (attraverso distorsioni, feedback, overdubbing, e così via). “Finche la voce rimane canto, il suo ruolo principale è quello di ‘tenere’ il suono. Essa svolge una funzione di co­ stante, circoscritta a una nota, nello stesso tempo in cui è ac­ compagnata dallo strumento” (MP 152). Dal momento che l’attenzione dell’ascoltatore alla voce come portatrice di contenuti discorsivi o di significato usual­ mente oblitera il suo impatto come suono o intensità, la vo­ ce funziona per lo più per delimitare e preservare i territori prestabiliti del pezzo, sia armonicamente che concettualmen­ te. La voce ci dice di che cosa parla la canzone, e fa questo mentre si raddoppia o si armonizza con il suo accompagna­ mento melodico strumentale, riproducendone l’andamento più o meno regolare. La voce, in particolar modo la voce “buona” o “allenata” della musica pop, indirizza l’ascoltato­ re, esige (mis)conoscimento e lo/la interpella come un sog­ getto docile, esattamente grazie al potere che essa guadagna da questo processo di raddoppiamento o riterritorializzazionc armonico/tematica. Questo può essere vero anche (e spe16 Sebbene non individuino esplicitamente Adorno come uno dei bersagli di questa loro critica, il suo modello della musica pop vi è chiaramente incluso; cfr. il testo di Adorno citato sopra.

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cialmente) quando la voce canta o parla di evasione, di linee di fuga dai suoi confini territoriali; si pensi ad esempio all’ironia dispettosa di Fm Free di Tommy degli Who (“l’m free/I’m free/And l’m waiting for you to follow me...”), che riterritorializza la libertà dell’“Io”, appena dichiarata, me­ diante il controllo sulla seconda persona, il “Tu”. Fin qui, Deleuze e Guattari concorderebbero con Adorno, Althusser e la tradizione psicanalitica. La questione è differente se invece ci riferiamo alla trac­ cia Without End di Scanner (disco 2, traccia 7, IM). Qui una voce fioca sussurra di eventi o di ecceità, dicendo “It is dawn eternally, rime of prophecy” mentre il processo di composi­ zione sonora crea un inaspettato spazio-tempo uditivo che non raddoppia o riflette il profilo acustico di quella voce. La lenta e diffusa pulsazione ritmica del respiro umano fornisce un motivo al pezzo, un motivo sul quale sono disposti strati di suoni vocali indistinti, frammenti inafferrabili di parlato e spigolose cellule melodiche che vanno a costituire un insta­ bile paesaggio sonoro. L’ascoltatore qui non (mis)conosce se stesso o se stessa nel pattern vocale e armonico, ma piuttosto deve aspettare che qualche pattern emerga, solo per vederlo sprofondare nuovamente in un mix in costante mutazione. Un’analoga procedura di assemblaggio discontinuo, sebbene spesso priva dell’intelligibile voce guida che qui fornisce con­ tinuità tematica e territorializzazione, sottende tutto il lavo­ ro di Scanner, incluso il suo pezzo su FR, Control: Phantom Signals with Active Bandwidth (traccia 4). Robin Rimbaud ha preso il nome “Scanner” dalla sua macchina musicale principale, lo scanner a banda larga che intercetta le trasmis­ sioni di radio, telefoni cellulari, e altri congegni di trasmissio­ ne. È il suo metodo stesso ad essere formalmente sovversivo e deterritorializzante, per il fatto di trasformare una tecnolo­ gia di sorveglianza - originariamente progettata per permet­ tere alla polizia di monitorare le radiocomunicazioni e di in-

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tervenire su quel medium - in un generatore di affetti e percetti estetici. Ma è anche una nuova territorializzazione, co­ me egli stesso ha detto: Un buon modo per mettere insieme il materiale dello scanner è quello di mappare la città [...] è come fare la mappa dei movi­ menti della gente durante i diversi momenti della giornata. È abbastanza prevedibile [durante il giorno] [...]. Verso la sera, ha luogo il tumulto. È in questo momento che si fa veramente emozionante. Succede un casino. Le tariffe telefoniche si abbas­ sano e le persone intrattengono le conversazioni più surreali [...]. Mi sono stupito dei telefoni cellulari, molto più costosi dei telefoni comuni, dai quali si percepisce il verificarsi di questi enormi spazi vuoti. Questi sono i momenti che davvero mi in­ teressano. Sapere cosa accade lì dentro17.

Nel deterritorializzare la tecnologia, Scanner genera un nuovo ritornello e da qui un nuovo territorio spazio-tempo­ rale: una mappa percettiva della città e dei giorni. Dalle regi­ strazioni di voci umane estratte dalle frequenze a banda lar­ ga, Scanner spesso seleziona le frasi meno intelligibili, quelle che sono talmente non-convenzionali e decontestualizzatc che non portano alcun significato preciso anche quando pos­ sono essere comprese pienamente; altre volte seleziona voci talmente distorte dalla trasmissione da essere divenute com­ pletamente incomprensibili. Queste voci, e anche le interru­ zioni piene di interferenze delle conversazioni, sono usate come suoni concreti, come nella musique concrète. In altre parole, usa lo scanner come sorgente di materiale sonoro grezzo e non come fonte di informazione soggettiva referen­ ziale, come invece fa la polizia; la richiesta di referenza stabi­ le e di controllo che informa Fuso delle tecnologie di sorve-

17 Scanner citato in David Toop, Ocean of Sound: Aether Talk, Ambient Sound and Imaginary Worlds, Serpente Tail, New York 1995; trad. it. Oceno di suono, Costa & Nolan, Ancona-Milano 1999.

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glianza da parte della polizia è più vicino alla territorialità della forma canzone tradizionale e pop (e all’approccio psi­ canalitico ad essa) che alle mappe sonore di Scanner. Scanner deterritorializza la voce assegnandole un posto centrale nel missaggio, ma deprivandola delle sue dirette ca­ pacità di significazione e attraverso la sua continua intensifi­ cazione armonica. Nel pezzo Control, udiamo voci che par­ lano, ma spesso non possiamo capire cosa stanno dicendo. Le voci divengono elementi del suono, valori timbrici, senza il privilegio (e la limitazione) della significazione discorsiva. “Soltanto quando viene ricondotta al timbro, la voce scopre in sé una tessitura che la rende eterogenea a se stessa e le dà una potenza di variazione continua: allora non è più accom­ pagnata ma realmente ‘macchinata’” (MP 152). La voce ha sempre un timbro, ovviamente, ma non tutto il timbro è ugualmente percettibile; infatti, il marchio della voce “pura” o “allenata” è precisamente il suo timbro scarsa­ mente evidente, soprattutto se lo si compara con la rauca, ’racchiante o stridente qualità vocale di un cantante blues o ock. Con “macchinato” Deleuze e Guattari indicano che la /oce definita timbricamente cessa di congiungersi ad una struttura armonica stabile o alle connesse forme soggettive come territori limitanti, per aprirsi su processi di produzio­ ne sonora che eccedono l’espressione di una psiche indivi­ duale. La voce diviene un suono inumano, un rumore, e non è più soggettiva o, più importante ancora, assoggettante (in­ terpellante). Come Adorno, la critica psicoanalitica conside­ ra questa vocalità inumana come una fonte d’ansia che deve essere necessariamente repressa, che torna solo come la regi­ strazione dell’inquietante doppio di un sé fratturato18. De-

18 Cfr. Barbara Engh in L.C. Dunn e N.A. Jones, Embodied Voices: Representing Female Vocality in Western Culture, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 1994, pp. 130-131.

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lenze e Guattari, dall’altro lato, trovano in questa inumanità, così inaspettatamente vicina, un elemento affermativo e ne­ cessario per uscire dai confini obbligati della soggettività normativa. L’inquietante punto di indiscernibilità tra la voce umana e il suono non umano può essere raggiunto in diversi modi. Per esempio, è ciò che hanno fatto alcuni compositori post­ seriali come Milton Babbitt e Luciano Beri© nei loro lavori vocali o elettronici, attraverso la trasformazione di voci alle­ nate tradizionalmente. 11 Philomel per soprano di Babbitt, re­ gistrazione di un soprano c di suoni sintetizzati (1963), insce­ na il mito greco della metamorfosi di Filomela in usignolo at­ traverso la continua manipolazione della voce del soprano, spingendola lungo una linea di fuga dopo l’altra, e poi verso i punti finali del suo continuo divenire: donna che canta o uc­ cello sintetizzato. La realizzazione acustica della fuga da una soggetività opprimente controbilancia la tragedia mitica del­ la punizione di Filomela. Thema: Omaggio a Joyce (1958) e Visage (1961)19 di Luciano Bcrio, entrambe manipolazioni elettroniche su nastro della voce del soprano Cathy Berberian, occupano lo stesso punto di transizione dalla voce come discorsività significante alla voce come suono non umano. Di Thema' che realizza la virtuale fuga per canonem del capito­ lo Sirens deìVUlisse di James Joyce, Berio ha scritto: Mi interessava sviluppare nuovi criteri di continuità tra il lin­ guaggio parlato e la musica e istituire continue metamorfosi dall’uno all’altra. [...] [In Thema] non è più possibile fare di­ stinzione tra parola c suono, c tra suono c rumore; o tra poesia c prosa, c tra poesia c musica. In questo modo siamo spinti a ri-

19 Cfr. il commento di Deleuze c Guattari in MP 145. Su Themat cfr. T.S. Murphy, Music After Joyce: The Post-Serial Composers in Hypermedia Joyce Studies^ 1999, su http://www.2strect.com/hjs/murphy/indcx.html.

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conoscere la natura relativa di queste distinzioni ed i caratteri espressivi delle loro mutevoli funzioni20.

Il lavoro di Scanner utilizza differenti tecniche e differen­ ti timbri vocali, ma spinge comunque ad una riflessione ana­ loga, che fa da complemento alla sowersività politica del me­ dium da lui scelto: c’è un divenire-suono della voce che può coinvolgere il soggetto in un parallelo divenire-altro del sé, un sé non segnato dall’angoscia della castrazione originaria ma da un’affermazione prospettica. Allo stesso tempo, l’indiscernibilità della voce e del suo­ no nei brani di Scanner spesso sottolineano, paradossalmen­ te, il potere soggettivo di espressione della voce anche in as­ senza di significato intelligibile. Le linee di fuga e di deterritorializzazione esterne alle strutture soggettive normative possono riterritorializzarsi in qualcosa di simile al paradigma psicanalitico. Anche quando in tracce come Control o Without End non riusciamo a comprendere le parole o a loca­ lizzare una melodia, in alcuni momenti sembra ancora possi­ bile, cogliendo un umore o una particolare intonazione dei suoni, estrarre qualche valore significante. Questo aspetto riterritorializzante è stato esplorato anche dai compositori post-seriali, in particolar modo da Gyòrgy Ligeti in Aventures (1962) e Nouvelles Aventures (1962-65), per tre voci e sette strumentisti. In questi brani, Ligeti usa un linguaggio inventato per dimostrare che “Tutte le emozioni umane ritualizzate che sono espresse nella lingua parlata, co­ me la comprensione o il dissenso, [e così via...] possono esse­ re espresse esattamente nel linguaggio artificiale emozionale e a-semantico. Nel cantare questo linguaggio, gli interpreti producono l’opposto di ciò a cui siamo abituati durante l’ese-

20 Luciano Berio, Thema: Omaggio a Joyce and Visage on Many More Voices, BMG, New York 1998, p. 1.

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cuzione di un’opera: la scena ed i protagonisti sono evocati attraverso la musica — la musica non è eseguita per accompa­ gnare un’opera, ma è un’opera ad essere eseguita nella musi­ ca”21. Qui è l’accompagnamento stesso ad interpellare il sog­ getto che ascolta, anche senza il diretto richiamo della voce. La reductio ad absurdum di questa situazione è certa­ mente l’album dei Residents The Third Reich and Roll, che consiste in due “interpretazioni semi-fonetiche di successi delle Top Forty degli anni ’60” (Residents), ciascuna delle quali occupa un intero lato dell’LP. In questo disco i Resi­ dents, forse la più importante art band concettuale della mu­ sica pop, esegue alcuni singoli di successo come Good Lovin dei Rascals, It’s my Party e ? (question mark) di Lesley Go­ re e 96 tears dei Mysterians come se fossero stati ascoltati so­ lo attraverso un radio AM di scarsa qualità; le melodie e gli arrangiamenti sono per lo più intatti, ma le parole sono ri­ dotte, nel migliore dei casi, ad approssimazioni “semi-fone­ tiche”, quasi un riproduzione dell’esperienza storica e feno­ menologica di quei tanti reali ascoltatori che hanno cono­ sciuto gran parte della più influente musica pop del ventesi­ mo secolo attraverso le radio AM a bassa fedeltà22. Il meto­ do dei Residents inoltre riconosce ironicamente la fonda­ mentale irrilevanza di una stabile significazione discorsiva nelle parole della pop music, dove in realtà dominerebbero la pura intensità sonora e la proiezione affettiva.

21 Gyòrgy Ligcti, Requiem/Aventiires/Nouvelles Aventures, Wergo Schallplatten, Mainz 1985, pp. 8-9. 12 Chris Cudcr, che aveva stretti rapporti con i Residents e che ha studiato il loro lavoro, descrive la produzione di The Third Reich and Roll in questo modo: era fatto “riproducendo le canzoni e registran­ dole su di una traccia, poi suonandoci sopra, aggiungendo pezzo su pezzo, finche l’originale non veniva cancellato - infine tagliando c montando tutto in un unico lungo pezzo. Un tributo/sberleffo alla musica pop, C. Cutler, File Under Poptdar: Theoretical and Criticai Writings on Music, Autonomcdia, Brooklyn 1993, p. 84.

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L’imperativo a deterritorializzare la voce, a usarla timbri­ camente piuttosto che armonicamente o referenzialmente, deve includere anche la voce del filosofo che articola questo imperativo. Esiste una differenza, per quanto impercettibile possa essere, tra le voci campionate casualmente da Scanner, o le voci rigorosamente disciplinate richieste per l’esecuzio­ ne dei pezzi di Babbitt, Berio o Ligeti, e la voce singolare di Deleuze. È la differenza tra la voce deterritorializzata e la vo­ ce deterritorializzante, tra l’ascoltare una voce che diviene un suono non umano e divenire realmente un suono non uma­ no attraverso quella voce. Deleuze una volta ha detto: Alcuni di noi possono essere mossi da certe voci del cinema. La voce di Bogart. Quello che ci interessa non è Bogart in quanto soggetto, ma come funziona la sua voce. Qual è la funzione del­ la voce nel parlarlo? [...] Non si può dire che sia una voce indi­ vidualizzante, sebbene sia anche questo [...]. Io mi deterritorializzo su Bogart [...]. È una voce metallica [...] una voce oriz­ zontale, una voce noiosa - è una specie di filo che emana una sorta di particelle sonore molto molto speciali. È un filo metal­ lico che si srotola, con un minimo di intonazione; non è per niente la voce soggettiva23.

Anche la voce di Deleuze era una “voce metallica” non­ soggettiva, attraverso la quale gli altri si deterritorializzavano. Alla sua morte, i suoi amici e i suoi colleghi evocarono unanimamente la sua voce rauca e familiare, che Richard Pinhas definiva “difficile ma bella”24, mentre due degli artisti presen­ ti sui dischi commemorativi ne hanno fatto uso. Hazan + Shea, in Rhizome: No Beginning No End (traccia 5, FR), campionano la voce di Deleuze dalla trasmissione televisiva Abécédaire de Gilles Deleuze. Nella prima sezione, “End”, usano

23 G. Deleuze, corso a Vincennes del 3 maggio 1977, cit., p. 215. 24 Heldon, Electronique Guerilla, Silver Spring, MD: CuneiForm Records 1973.

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la voce di Deleuze come puro timbro, montandone i fonemi isolati su di un arrangiamento sintetizzato di tastiere, archi e percussioni; nella seconda sezione, “Beginning”, la voce ri­ emerge come uno strumento significante nel momento in cui le frasi, frammentate in elementi timbrici nella prima sezione, sono citate nella loro interezza. Di qui l’inversione della se­ quenza: (no) end before (no) beginning. Happy Deterritorializations (disco 1, traccia 2, IM) di Wehowsky/Wollscheid “riformula un suono auratico, registrato una volta da una rock band francese accompagnata da una lettura di Gilles De­ leuze [campionata da ‘Le voyageur’ degli Heldon]. Fram­ menti di questo suono archetipico sono proiettati all’interno di differenti matrici sonore contemporanee e si fondono con i loro corpora acustici” (Wollscheid in IM: 9). Wehowsky/ Wollscheid piegano e dispiegano la voce di Deleuze campionando, sovrapponendo e risequenziando la sua performance con gli Heldon fino a creare una voce deleuziana molteplice, polifonica, deterritorializzata/riterritorializzata, allo stesso tempo straniera e in conversazione con se stessa. Gli ultimi dischi di Richard Pinhas pubblicati da Sub Ro­ sa e Cuneiform, anch’essi costruiti intorno alle parole e alla voce di Deleuze, costituiscono un terzo memoriale, sebbene non siano etichettati in questo modo. Per questo progetto Pinhas ha reclutato i musicisti (e scrittori di fantascienza) Norman Spinrad e Maurice Dantec per dar vita a un’unità denominata Schizotrope, col sottotitolo “The Richard Pin­ has & Maurice Dantec Schizospheric Experience - French Readings of Gilles Deleuze’s Philosophy with Metatronic Music and Vocal Processore” (Schizotrope 1999 & 2000). Molto di questi dischi riprende le prime collaborazioni di Pinhas con Deleuze: sia le parole di Deleuze, lette da Dantec, sia la sua voce sono messe in musica. Sono diversi invece per la forma che prende la struttura musicale. Nelle registrazio­ ni iniziali di Le voyageur degli Heldon, la musica è un pro­ gressive rock, come quello che bands come gli Heldon e i

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King Crimson stavano inventando nei primi anni settanta, musica che abbiamo descritto come “bolero-like” nella struttura e nel suono. La musica degli Schizotrope è molto diversa. Al posto della ripetizione di forme armoniche e me­ triche in uno spazio-tempo striato in maniera regolare, tro­ viamo delle sonorità lisce e ambientali. Proseguendo le spe­ rimentazioni del suo precedente album solista De l’une et du Multiple (1996), Pinhas ha creato uno stile influenzato in egual misura dall’esplosione della techno music degli anni ’90 e dal lavoro pioneristico, negli anni ’70 e ’80, della “Frippertronics” di Robert Fripp, fondatore dei King Crimson25. Eric Tamm definisce la Frippertronics così: il congegno tecnologico nel quale due registratori a doppia bo­ bina sono connessi tra loro e [...] ad una chitarra elettrica; [ed è anche] lo stile musicale, il potenziale per modellare creativa­ mente masse di suono fluttuante in tempo reale, normalmente su di una base tonale, pandiatonica, modale o multi-modale; e i vari usi della Frippertronics - come elemento solista, o come elemento timbrico/strutturale in una canzone più convenziona­ le, o come “suono tematico” usato per unificare un grande col­ lage musicale [...]26.

Negli anni ’90 il congegno è cambiato fino a includere i registratori DAT e il controllo digitale del segnale ma, no­ nostante ciò, la descrizione rimane accurata (sebbene, signi­ ficativamente, Fripp ha cambiato il nome della sua attività nel più territorializzato “soundscapes”). I registratori inter­ connessi producono dei loop ciclici di durate variabili che forniscono una periodicità persino ai ritmi più irregolari. Contemporaneamente, i gradienti “tematici” dei toni e dei

25 Come esempi del lavoro di Fripp, cfr. i suoi dischi Let thè Pow­ er Fall (1981) c la trilogia 1995 Soundscapes Live. 26 Eric Tamm, Robert Fripp: From King Crimson to Guitar Craft, Fabcr & Fabcr, Boston 1990, p. 115.

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timbri in modulazione costituiscono linee di sonorità lisce sulle quali sono montate le parole e la voce di Deleuze. Qui, il lavoro di Pinhas è allo stesso tempo il più territorializzato dei pezzi che abbiamo esaminato, in esso i concetti di Deleu­ ze e la grana della sua voce funzionano chiaramente come elementi di continuo centramento dell’assemblaggio sonoro (cfr. MP 145), e forse il più radicale dal punto di vista concet­ tuale, nell’intensivo spiegamento del pensiero di Deleuze in armonia col suo ritmo e la sua logica interna. Invece di con­ tinui richiami alle sovrapposizioni armoniche, troviamo pu­ ri differenziali di intensità sonore.

Coda: ad libitum

L’analisi dell’attuale potenziale produttivo della filosofia della musica di Deleuze e Guattari non può essere tanto completa quanto lo è stato il resoconto dei suoi prestiti - e delle partecipazioni — alle forme storiche della pop music27, in parte perché quel potenziale è ancora nel processo della sua realizzazione in diverse forme concrete, ma anche, in mi­ sura maggiore, perché la sua soglia politica di massa deve an­ cora essere attraversata. Al momento attuale non ci sono am­ pi movimenti socio-politici, comparabili alla controcultura degli anni ’60 e ’70, nei quali quel potenziale può trovare un terreno pronto ad una grande sperimentazione e composi­ zione. Finora ha trovato solo piccoli e temporanei territori autonomi, accerchiati dal mercato o dallo stato e sostenuti precariamente dai ritornelli locali di Dj Spooky, Richard Pin-

27 Nella versione completa di questo saggio, esaminiamo la teoria musicale di Deleuze e Guattari (sezione I) così come i loro riferimenti testuali alla popular music e il loro coinvolgimcnto in performance o in produzioni effettive (sezione 11).

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has e altri musicisti. Ma il mercato e lo stato sono essi stessi niente più che territori temporanei, legittimati da jingle pub­ blicitari e inni nazionali, e tuttavia minacciosamente inclini alla mutazione nel momento stesso in cui un numero suffi­ ciente di persone intona una differente melodia. Platone ri­ conobbe questa instabilità nella Repubblica quando avverti­ va che: “si deve guardarsi da modifiche che comportino l’a­ dozione di una nuova specie di musica, perché si rischia di compromettere tutto l’insieme. Non si introducono mai cambiamenti nei modi della musica senza che se ne introdu­ cano nelle più importanti leggi dello stato”28. Se per il momento una simile rivoluzione è effettivamen­ te limitata al livello locale, e i suoi effetti deterritorializzanti sono sommariamente riterritorializzati in alcune nicchie dei mercati musicali, il potenziale per la sua intensificazione e diffusione permane, in attesa degli assemblaggi più grandi e potenti che ancora dobbiamo costruire per poterlo realizza­ re pienamente. Per adesso, tuttavia, abbiamo i brevi audio-assemblaggi dedicati a Deleuze. Non sono modelli da imitare, ma piutto­ sto dei casi singolari di realizzazione della congiunzione dei potenziali del suono e della società. Guattari le avrebbe chia­ mate rivoluzioni molecolari. Abbiamo a malapena iniziato ad esplorare la ricchezza inventiva contenuta in questi dischi commemorativi ed i lavori correlati dei musicisti in questio­ ne, ma speriamo che la nostra analisi abbia almeno abbozza­ to una risposta provvisoria alla domanda: di che utilità sono stati per i musicisti i concetti di Deleuze e Guattari? In bre­ ve, i musicisti hanno estratto concetti come se fossero degli strumenti dalla scatola degli attrezzi di Deleuze-Guattari e li hanno usati per intensificare o amplificare il loro pensiero e le loro performance sonore. Questo non è un caso di sempli-

28 Platone, Resp, IV, 424 c.

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ce applicazione o di illustrazione di idee filosofiche in un al­ tro medium, ma l’esempio di un pensiero interno alle cose che suoniamo, cantiamo e ascoltiamo. Atom Heart coglie da vicino quest’idea in Abstract Miniature! in memoriam Gilles Deleuze (disco 1, traccia 7, IM): all’inizio della traccia, una voce sintetizzata dice: “What I see is thinking. What I hear is thinking too”. Traduzione di Stefano Pema

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Christoph Cox

Come fare della musica un corpo senza organi? Gilles Deleuze e l’elettronica sperimentale

Gilles Deleuze ha scritto di musica solo saltuariamente1. In tutto il suo corpus filosofico troviamo diversi riferimenti musicali e riferimenti ai modernisti classici (Berg, Messiaen, Varèse, Stockhausen, ecc.) che erano chiaramente tra i suoi eroi culturali. Tuttavia Deleuze non ha mai scritto di musica con la stessa intensità e dedizione con cui ha scritto di lette­ ratura, di cinema, di pittura. E può sembrare strano che, nei nove anni successivi al suo suicidio, la filosofia di Deleuze sia stata progressivamente legata alla musica e, per di più, a una sfera musicale molto diversa da quella che Deleuze conside­ rava la propria. Deleuze è diventato l’eroe intellettuale dell’“elettronica” sperimentale — musica che ha le sue radici nell’hip-hop, nell’house e nella techno, più che nella tradi­ zione del modernismo classico. Questa relazione è stata ini­ zialmente sancita dalla realizzazione, un anno dopo la morte di Deleuze, di due compilations di musica elettronica speri­ mentale prodotte in suo onore: In Memoriam Gilles Deleu­ ze di Mille Plateaux e Folds & Rhizomes for Gilles Deleuze

1 Questo articolo è apparso in traduzione tedesca, col titolo Wie wird Musik zu einem organlosen Korper? Gilles Deleuze und experimentale Elektronika, in Soundcultures: Uber digitale und elektronische Musik, a cura di Marcus S. Kleiner e Achim Szepanski, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, pp. 162-193. Nell’autunno del 2004 è apparso in inglese come note di copertina a Clicks_+_Cuts 4, Mille Plateaux.

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di Sub Rosa. Da quel momento, il discorso sulla musica elet­ tronica ha continuamente fatto riferimento a Deleuze. Come considerare la curiosa connessione tra questo filo­ sofo ontologista e una scena musicale che conosceva poco e sulla quale non ha mai scritto nulla? Il fatto è che Deleuze ci aiuta a comprendere come la musica sia potuta divenire un corpo senza organi. Questo, in effetti, rappresenta l’impresa stessa della musica elettronica contemporanea nelle sue varie forme (l’house minimalista e la techno, l’ambient e la noise composition, ecc.). Questa impresa, comunque, è resa possi­ bile da una serie genealogica che connette momenti eteroge­ nei nella storia della sperimentazione sonora del XX secolo, momenti contraddistinti da un unico efficace tratto: l’impul­ so a deterritori ali zzare la forma e la sostanza musicale.

11 piano di consistenza e il corpo senza organi. Che cos’è un corpo senza organi*

Rewind. Tutta la filosofia di Deleuze è uno sforzo teso alla ricostruzione di un’ontologia naturalista e post-teologi­ ca che riconcepisce l’essere in termini di divenire e di evento, gli enti attuali in termini di potenzialità virtuali, le forme fis­ se in termini di particelle mobili e flussi, le strutture omoge­ nee in termini di aggregati eterogenei e connessioni, le orga­ nizzazioni gerarchiche in termini di superfici lisce popolate unicamente da singolarità dinamiche, affetti, intensità, velo­ cità e ecceità2. Gli esseri, le forme, le strutture e le organizza-

2 Questi termini correlati sono pienamente discussi sotto. Defini­ zioni rigorose potrebbero portarci ad allontanarci troppo dalla que­ stione. Per il momento, è sufficiente dire che tutti questi termini sono modi di descrivere e individuare entità dal punto di vista di una natura concepita come collezione di flussi eterogenei piuttosto che dalla posi-

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zioni, come spiega Deleuze, sono semplicemente modi in cui una natura, essenzialmente fluida ed eterogenea, è tempora­ neamente contratta, catturata, contenuta o rallentata sino al punto in cui il suo movimento risulta impercettibile.

Il teologo o il filosofo dell’essere (il Platonico, il Cristia­ no, il Kantiano) affermerà sempre l’esistenza e la supremazia di un piano trascendente (“piano di trascendenza” o “piano di organizzazione” come li definisce Deleuze) che governa, organizza e plasma la natura e il divenire dall’esterno. (Il fi­ losofo dell’essere dice: gli esseri sono ciò che diventano, il soggetto organizza l’esperienza, la provvidenza o il progresso dirigono il movimento della storia, la partitura governa le performances musicali, ecc.). Ancora, fedele al naturalismo dei suoi eroi filosofici - Spinoza, Nietzsche e Bergson - De­ leuze asserisce che c’è un solo piano, il “piano di immanen­ za” o “piano di consistenza” e che l’esistenza di tutti gli es­ seri e di tutte le organizzazioni può e deve essere considera­

zione degli stabili, limitati soggetti ed oggetti che dipingono la nostra ordinaria ontologia. Per Deleuze, ciò che è dato è una univoca, fluida natura; e entità ordinarie sono viste come temporanee accumulazioni o contrazioni dei flussi e delle micro-particelle di cui la Natura consiste. Invece, le entità (o “corpi”) sono individuate in funzione delle loro re­ lative velocità e rallentamenti (le interne e cinetiche relazioni tra gli ele­ menti che le compongono), dei loro “affetti” (le loro dinamiche rela­ zioni con le altre entità) e dei gradi di intensità (accumulazioni di ener­ gia, forza o potere) di questi affetti. Deleuze spesso chiama tali fluidi, risultati come individuali o entità “ccceità” o “singolarità”, che oppo­ ne allo stabile essere, oggetti o cose. Possiamo pensare la musica anche in questo modo: invece di concepirla come una serie di date entità (to­ ni e altezze di tono) che sono articolate in scale, melodie, forme e nar­ rative, possiamo pensare alla musica più fisicamente o materialmente come a una fluida sostanza eterogenea (il filone sonoro) che è momen­ taneamente articolata in varie velocità, intensità ed influenze (affetti). Questa definizione è applicabile a ogni tipo di musica, ma, come intui­ sce Deleuze - e come affermo io qui alcune forme di musica rendono ciò più evidente e palpabile di altre.

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ta solo in riferimento ai materiali e ai processi operanti su questo piano3.

“Piano di Consistenza” è uno dei nomi per la concezio­ ne di fondo della natura e del mondo di Deleuze. Un altro nome è corpo senza organi (CsO): “il corpo informe, disor­ ganizzato, non-stratificato o destratificato e tutti i suoi flus­ si”, “quella realtà glaciale dove le alluvioni, le sedimentazio­ ni, le coaugulazioni, le pieghe e i contraccolpi che compon­ gono un organismo — e anche una significanza e un soggetto - avvengono”. In breve, il CsO è il campo virtuale del corpo, il dominio delle particelle e delle forze basilari (“singolarità, affetti, intensità, idee, percezioni ecc.”) da cui un reale orga­ nismo è composto. “Allo scopo di estrarre lavoro utile dal CsO”, scrivono Deleuze e Guattari, l’organismo vi “impone forme, funzioni, legami, organizzazioni gerarchizzate e do­ minanti, trascendenze organizzate”. E ancora, Deleuze e Guattari insistono sul fatto che il CsO sussiste sempre e riaf­ ferma se stesso: “il corpo soffre ad essere organizzato in que­ sto modo, a non avere nessuna altra forma di organizzazione o addirittura nessuna organizzazione”; perciò “un corpo sen­ za organi [...] smantella continuamente l’organismo, provo­ cando il passaggio o la circolazione di particelle asignificanti di pura intensità” (A-E 8,4). Attraverso le pratiche sperimen­ tali, come ci dicono Deleuze e Guattari, possiamo farci un CsO (MP 227 e ss.).

Fino a quando penseremo al corpo come una forma fun-

3 Sul “piano di immanenza" e “piano di trascendenza" cfr. MP 374-382 e C 95 e ss.; Manuel De Landa sviluppa il concetto dell’autoorganizzazione del “piano di immanenza” in A Thousand Years of Nonlinear History, Zone Books, New York 1997; trad. it. Mille anni di storia nonlineare, Instar Libri, Torino 2003, e Intensive Science and Virtual Philosophy, Continuum Books, London 2002.

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zionale fissa, dice Deleuze riferendosi a Spinoza, non sapre­ mo cosa un corpo può fare, di cosa è capace4. Per divenire un CsO bisogna destratificare il corpo, riconnetterlo con l’in­ tensiva, impersonale, transumana sostanza che lo compone e lo circonda, aprirlo a nuove connessioni e nuovi assemblag­ gi, esplorare le innumerevoli cose che può fare al di là della ristretta serie di azioni abituali che caratterizzano il corpo organizzato (MP 227)5. Nel far ciò, si trasforma il corpo da un’entità data, con una specifica funzionalità e una direzione di attività, a un sito di costruzione, di esplorazione e di con­ nessione. Non si attualizza più soltanto lo specifico set di af­ fetti che costituiscono, per esempio, l’Uomo come un nor­ male, razionale, eterosessuale, produttivo essere umano, ma l’intera (o almeno una più ampia) gamma di influenze di cui questo corpo è capace6. Fast Forward. Un’ontologia dell’essere - che è un’onto­ logia "arborescente” e tassonomica di cose, di forme e di spe­ cie - insisterà nel fare distinzioni tra natura, corpo umano e musica. (La musica, dice, è uno specifico prodotto degli esse­ ri umani che sono specifiche parti della natura). Ma l’ontolo­ gia di Deleuze, un’ontologia dell’evento, del divenire e delle ecceità, non fa distinzioni in questo senso. Per Deleuze, un corpo è semplicemente una contrazione di forze e flussi. “Un

4 II testo di Spinoza recita “Nessuno, infatti, ha sinora determina­ to che cosa possa il Corpo, cioè l’esperienza sinora non ha insegnato a nessuno che cosa [...] il Corpo possa e che cosa non possa”. Spinoza, Ethica, III, 2, se. Deleuze spesso si riferisce a questo testo parafrasan- ■(': dolo “non sappiamo ancora cosa possa un corpo”. 5 Certamente, “il Corpo senza Organi non lo si raggiunge, non si può raggiungere, non si finisce mai di accedervi, è un limite” un ideale 12.6 regolativo per pratiche sperimentali. 6 Briam Massumi offre una buona descrizione di questo processo nella sua A User’s Guide to Capitalism and Schizophrenia: Deviation from Deleuze and Guattari, Mit Press, Cambridge 1992, p. 93 e ss.

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corpo può essere qualunque cosa”, scrive, “può essere un animale, può essere un corpo sonoro, può essere un’anima o un’idea, può essere un corpus linguistico, può essere un cor­ po sociale, una collettività”7. Se la musica può essere un cor­ po o un organismo, allo stesso modo può divenire un corpo senza organi, un piano di consistenza o un piano di imma­ nenza. In riferimento a John Cage e ai minimalisti classici Steve Reich e Philip Glass, Deleuze e Guattari suggeriscono questa possibilità:

Certi musicisti moderni oppongono al piano trascendente di organizzazione, che si ritiene abbia dominato tutta la musica classica occidentale, un piano sonoro immanente, sempre dato con ciò che dà, che fa percepire l’impercettibile, e non traspor­ ta più che velocità e lentezze differenziali in una specie di scia­ bordio molecolare: bisogna che l’opera d’arte marchi i secondi, i decimi, i centesimi di secondo. O piuttosto si tratta di una libe­ razione del tempo, Aiòn, tempo non pulsato per una musica in movimento, come dice Boulez, musica elettronica in cui le for­ me cedono il posto a pure modificazioni di velocità. Probabil­ mente John Cage per primo ha esposto nel migliore modo que­ sto piano fisso sonoro che afferma un processo contro ogni struttura e genesi, un tempo instabile contro il tempo pulsato o il “tempo”, una sperimentazione contro ogni interpretazione, e in cui il silenzio come riposo sonoro indica anche lo stato asso­ luto del movimento (MP 376)8.

7 Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 157. 8 Deleuze e Guattari si riferiscono a Reich e a Glass in una nota di chiusura a questo passaggio. Un paragrafo piuttosto simile in Conver­ sazioni recita: “Certi musicisti contemporanei hanno portato fino in fondo l’idea pratica di un piano immanente che non ha più un princi­ pio di organizzazione nascosta, ma in cui il processo deve risultare in­ telligibile tanto quanto ciò che deriva da esso, e in cui le forme vengono conservate soltanto per liberare delle variazioni di velocità fra particelle o molecole sonore, in cui i temi, motivi e soggetti sono conservati solo per liberare degli affetti fluttuanti” (C 98-99). In verità, nel descrivere

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Guidato da questo passo di Deleuze e Guattari, è questa l’idea di musica che ho intenzione di sviluppare in questa se­ de. Nello svolgimento vedremo che Cage e i minimalisti clas­ sici, ai quali Deleuze e Guattari riconducono questa pratica, rappresentano solo alcuni dei diversi tentativi per rendere la musica un corpo senza organi. In realtà, nel corso del XX se­ colo, attraverso una specie di sviluppo irregolare, e mediante connessioni clandestine, ognuno dei principali domini della musica occidentale (classica, jazz e rock) è stato sottomesso a questo processo - un processo che l’elettronica sperimen­ tale porta al suo massimo grado.

L'opera classica e la sua deterritorializzazione

Il XVIII e il XIX secolo hanno visto in Europa lo svilup­ po e il perfezionamento dell’opera musicale classica. Emer­ gendo da una pratica musicale fluida e non-scritta, la tradi­ zione classica ha gradualmente istituito opere stabili incarna­ te in partiture musicali trascendenti (cfr. C 96, 98). La musi­ ca, precedentemente dispiegata integralmente nel tempo e imprevedibile, presente solo come performance evanescente e ripetizione non-identica, divenne allora una cosa, un esse­ re, una sorta di modello platonico che governava la perfor­ mance dall’esterno e rispetto al quale veniva giudicata. Que­ st’opera musicale (la partitura o l’ideale platonico di opera) era (ed è) non solo atemporale, ma silente. Anche se attualiz­ zata in performance musicali, resta comunque al di fuori dei loro flussi fisici e temporali.

il “piano di immanenza” Deleuze spesso ricorre all’esempio della mu­ sica. In aggiunta al passaggio appena citato, cfr. Spinoza. Filosofia prat­ ica, cit., pp. 154-161 e cfr. Conversazioni su Millepiani in P. 7Ò

!

L’opera classica è governata da un certo tipo di organiz­ zazione trascendentale: la tonalità. Il sistema tonale assicura che lo svolgimento musicale sia sempre legato allo svolgi­ mento tonale, da cui emerge, a cui ritorna, e che determina la selezione di toni lungo il percorso. Così il divenire musicale è legato all’essere nelle forme dell’origine e del fine; ed è co­ sì che, da arte una volta completamente dispiegata nel tempo, la musica è trasformata in un mero passaggio tra questi due punti fissi. Le forme della Sonata, della Cantata e del Rondò, che si sono sviluppate contemporaneamente al sistema tona­ le, fornirono concezioni ancor più ristrette dello sviluppo, legando il divenire musicale ad aspettative narrative e forma­ li - assenza-presenza, conflitto-risoluzione, ecc. - (cfr. CF 192, 197). Alla fine, l’opera classica trovò la sua apoteosi nel­ la Sinfonia, suonata da un’orchestra composta come una va­ sta gerarchia di parti, livelli e strutture, paragonabile a una organizzazione militare, governata da un conduttore autori­ tario, a sua volta assoggettato ad un genio assente (trascen­ dentale), il compositore9.

Tale era l’elaborata organizzazione della musica all’inizio del XX secolo. Ed è questo che l’avanguardia musicale del XX secolo ha lentamente smantellato. Arnold Schònberg realizza in assoluto la prima deterritorializzazione dell’opera classica. Tra il 1907 e il 1909, abbandona completamente la tonalità, permettendo alla sua musica di fluire attraverso l’in­ tera gamma di suoni della scala cromatica. In questo modo, i

9 Per una breve caratterizzazione del lavoro classico cfr. Robert P. Morgan, Twentieth-Century Music, Norton, New York 1991, p. 1 e ss. Per un’analisi critica simile cfr. Christopher Small, Music, Society, Education, N.H. University Press of New England, Hanover 1996, e Chris Cutler, Necessita and Choice in Musical Forms in File Under Popular: Theoretical and Criticai Writings on Music, Autonomedia, New York 1993.

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suoi pezzi atonali risultano fluidi e senza alcuna inclinazione alla risoluzione. Senza più svilupparsi in accordo ad un prin­ cipio esterno, forzano l’ascoltatore a seguire dall’interno la loro traiettoria errante. Ma Schònberg riterritorializzerà pre­ sto la sua musica tramite il sistema dodecafonico, che nuova­ mente limitava e costringeva la variazione tonale e controlla­ va lo sviluppo musicale in funzione di uno schema predefini­ to. In realtà, nelle decadi seguenti, questa riterritorializzazione è diventata ancora più rigida, quando il Serialismo Inte­ grale sottomise ogni elemento musicale (ritmo, dinamiche, tessitura ecc.) a una organizzazione seriale.

Molti altri musicisti hanno contribuito alla deterritorializzazione dell’opera classica. In particolare Edgard Varese, che ha deliberatamente abbandonato il termine “musica” in favore di “suono organizzato”, definendo se stesso “non un musicista, ma ‘un lavoratore del ritmo, delle frequenze e del­ le intensità’”10. Varese ha ugualmente abbandonato ogni in­ teresse verso la forma, il tono e la melodia. Si è rivolto inve­ ce alla sostanza stessa del suono, all’esplorazione del timbro, del colore, della sonorità11. In luogo di precise terminologie musicali, egli ha descritto le sue composizioni con termini fi­ sici, estraendo risorse concettuali dalla chimica, dalla geome­ tria e dalla geografia. “Pensare alla forma come a un punto di partenza, come a un modello da seguire, come a uno stampo da riempire” è un errore, dice Varese. “La forma è un risul­ tato - il risultato di un processo”, un processo impersonale che, egli crede, rispecchia la formazione dei cristalli:

10 Edgard Varese, The Liberation ofSound in Contemporary Composers on Contemporary Music, a cura di Elliott Schwarz e Barney Childs, Da Capo, New York 1998, p. 207. 11 Cfr. ibid., p. 197.

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C’è un’idea, la base di una struttura interna, che si espande e si spacca in differenti forme o gruppi di suoni, le cui forme, dire­ zioni e velocità cambiano costantemente, attratte e respinte da varie forze. La forma dell’opera è la conseguenza di questa in­ terazione. Le forme musicali possibili sono non meno limitate di quanto non lo sia la forma esteriore di un cristallo12. Anticipando profeticamente l’avvento della musica elet­

tronica e della noise composition, Varèse scrive nel 1936: Quando nuovi strumenti mi permetteranno di scrivere musica così come la concepisco, il movimento delle masse-sonore, dei piani mutanti, sarà chiaramente percepito nel mio lavoro, pren­ dendo il posto del contrappunto lineare. Quando queste masse­ sonore collideranno, il fenomeno della penetrazione e della re­ pulsione sembrerà essere posto in essere. Alcune trasmutazioni, avendo luogo in determinati piani, sembrano essere proiettate su altri livelli, muovendosi a differenti velocità e su diverse an­ golazioni. Non ci sarà più la vecchia concezione della melodia o l’azione reciproca delle melodie. L’intero lavoro sarà una to­ talità melodica. L’intero lavoro scorrerà come il flusso di un fiu­ me13. I successori americani di Varèse, John Cage e Morton

Feldman, hanno entrambi ulteriormente deterritorializzato l’opera musicale. Il maggior contributo di Cage è stato libe­

rare la musica dalla soggettività umana, in modo da aprire il campo “trascendentale” o “virtuale” della musica14. Cage ha

12 Ibidem, p. 203. Questo è precisamente il modo in cui Bernhard Gùnter descrive il proprio processo di composizione. Cfr. Interview for «The Wire», http://www.bernhardguenter.net/frame_int.html. 13 Varèse, Liberation of Sound, cit., p. 197. Questa è una descrizio­ ne incredibilmente precisa del modo in cui funziona gran parte della musica noise (ad es. Merzbow, PanSonic, Fennesz, Fenn O’Berg). 14 Un compositore, faceva notare Cage, “abbandona il desiderio di controllare il suono, sgombra la sua mente dalla musica, e appresta mo­ dalità di ricerca in modo da lasciare che i suoni siano se stessi piuttosto

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insistito sul fatto che la musica precede e supera gli esseri umani. “La musica in sé è permanente” scrive, “solo all’a­ scolto risulta intermittente”15. “Il caso” e “il silenzio” sono i suoi mezzi per accedere a questo dominio trascendentale. Le procedure “a caso” permettono al compositore di andare al di là delle proprie preferenze e abitudini soggettive al fine di aprire la strada ad assemblaggi e congiunzioni sonore che non siano le sue, o, piuttosto, quelle di nessuno (una musica “impersonale” e “pre-individuale” come la chiamerebbe De­ leuze). E “il silenzio”, per Cage, dà il nome a una sorta di piano musicale di immanenza: non l’assenza di suono (che sarebbe impossibile, puntualizza), ma l’assenza di suono in­ tenzionale che apre le nostre orecchie a molecole sonore li­ bere16.

che veicoli per teorie fabbricate dall’uomo o per l’espressione di senti­ menti umani”, Cage, Experimental Music, in Silence: Lectures and Writings by John Cage, Wesleyan University Press, Hanover and London 1973, p. 10. Nota che, seguendo Kant, Deleuze distingue il “trascen­ dentale” dal “trascendente”. Il primo indica le condizioni di possibili­ tà di un’esperienza sensibile attuale, mentre il secondo nomina ciò che trascende completamente l’esperienza sensibile. La descrizione di un campo “trascendentale” o “virtuale” che precede il soggetto ha impe­ gnato Deleuze lungo tutta la sua carriera, da LS, pp. 109-115, a L’im­ manenza: una vita in M. Guareschi, Gilles Deleuze Popfilosofo, Shake, Milano 2001, pp. 138-142. Nel secondo testo Deleuze prosegue nell’e­ laborazione della distinzione tra “il trascendentale” e il “trascendente”. 15 Cage, Themes & Variations (1982), in Postmodem American Poetry: A Norton Anthology, a cura di Paul Hoover, W.W. Norton, New York 1994, p. 623. Da confrontare con Deleuze e Guattari: “la musica non è un privilegio dell’uomo: l’universo, il cosmo è fatto di ri­ tornelli”, MP 426. 16 “Non c’è una cosa come uno spazio vuoto o un tempo vuoto. C’è sempre qualcosa da vedere, qualcosa da sentire. Infatti, proviamo a fare silenzio, non possiamo”, Silence, cit., p. 8. “Per me, il senso essen­ ziale del silenzio è l’abbandono di un’intenzione” John Cage, in Conversing with Cage, a cura di Richard Kostelanetz, Limelight Editions, New York 1988, p. 189.

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Anche Feldman si è dedicato all’esplorazione del campo sonoro “trascendentale”. Rivendicando la mancanza di inte­ resse per le forme, le strutture e i sistemi musicali, Feldman ha semplicemente provato ad apprestare uno spazio per l’e­ sperienza del suono in sé: la sua nascita, la sua vita, la sua morte. “Non ho nessun segreto”, Feldman ha detto una vol­ ta, “ma se avessi un punto di vista sarebbe che i suoni sono molto simili alle persone. E se tu li spingi, loro ti spingeran­ no alle spalle. Quindi, se avessi un segreto: non spingete i suoni qua e là”17. Come conseguenza le composizioni di Feldman (o “assemblaggi” come egli preferisce chiamarle)18 vanno alla deriva, prive di sintassi e di tessuto connettivo, concernenti solo la crescita e la decadenza dei suoni, che sci­ volano grazie a differenti andamenti e velocità19.

Musique concrète ed elektronische Musile schize/flussi e l’univocità del suono Uno shock persino più grande per l’opera musicale clas­ sica arriva con l’avvento della musica elettronica nelle sue due forme basilari: la musique concrète (la composizione su nastro che emerge dallo studio di Pierre Shaeffer verso la fi­ ne degli anni ’40 a Parigi) e elektronische Musik (la musica classica elettronica degli studi europei ed americani situati a Colonia, Milano e Princeton durante gli anni ’50).

Entrambe le pratiche oltrepassano la notazione musicale

17 Morton Feldman, The Future of Locai Music in Give My Regards to Eighth Street: Collected Writings of Morton Feldman, a cura di B.H. Friedman, MA Exact Change Press, Cambridge 2000, p. 157-158. 18 Feldman, Give My Regards to Eighth Street, cit., p. 196. 19 Devo questa bella descrizione a Kyle Gann, nel suo scritto su Feldman in «The New York Times», 17 febbraio 2002.

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e la catena-di-comando standard che parte dal compositore e, attraverso il conduttore, arriva al performer e quindi all’a­ scoltatore. Invece concrète ed elettronica sono costruite spe­ rimentalmente in studio da un compositore che ne è anche il solo performer. Allo stesso tempo, musique concrète ed elek­ tronische Musik hanno messo in primo piano l’univocità del piano auricolare. La registrazione su nastro, in effetti, dissol­ ve la distinzione tra “musica”, “suono” e “rumore” offrendo una superficie neutrale che può registrare qualsiasi suono e trasformarlo in materiale grezzo per la composizione. Perciò la musique concrète potrebbe fare a meno dell’intero sistema tonale e dell’apparato strumentale, ignorando le sonorità musicali tradizionali e i vari strumenti specifici e le famiglie di strumenti che le producono. Il segnale elettronico stesso afferma l’univocità del suono, ripiegando l’intero apparato musicale in un flusso di elettroni generato da un oscillatore. Emergendo da questo univoco phylum sonoro, i suoni elet­ tronici sono distinti solamente da velocità e lentezze, dalla contrazione o dilatazione dei flussi attraverso filtri e modu­ latori - come magnificamente illustrato da Kontakte di Stockhausen, dove, a metà del pezzo, un veloce gorgoglio è rallen­ tato fino al punto in cui suona come una pulsazione legnosa. Sebbene distinte dalla provenienza dei loro materiali (la musique concrète lavora con suoni trovati, la elektronische Musik con suoni costruiti, o “sintetizzati”, dall’improvvisa­ zione), entrambe le pratiche di composizione operano essen­ zialmente mediante collage o montaggio: il taglio e la giun­ zione di frammenti sonori per creare assemblaggi musicali. Queste procedure effettivamente modellano le “schize” e i “flussi” che caratterizzano le macchine desideranti di Deleu­ ze e Guattari, quelle connessioni di fondo tra singolarità e in­ tensità che provengono e si dissolvono nel corpo senza orga­ ni. In effetti, in rapporto al corpo pesantemente regolato e controllato della musica classica, la musique concrète e la elektronische Musik, celebrando la possiblità di connettere

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qualsiasi parte (del suono) con ogni altra, sono pratiche per­ verse. Ciò è particolarmente evidente nella musique concrète, che (come il suo erede, il turntablism) si compiace nel con­ nettere, per esempio, i toni del pianoforte e i colpi delle per­ cussioni con i suoni del fischio di un treno, dei filatoi, di pen­ tole e padelle, e di imbarcazioni20. In questo modo, una com­ posizione di musiqxe concrète è ciò che Deleuze chiama un divenire, o un rizoma, “una pura e dispersa molteplicità anarchica, senza alcuna unità o totalità, i cui elementi sono saldati e tenuti insieme dalla distinzione o dalla completa as3* 3 senza di un legame” (A-E 324). Come Cage e Feldman, la musique concrète e la elektronische Musik svelano anche la dimensione trascendentale della musica. Sebbene partano da materiale documentario, i compositori di musique concrète come Pierre Schaeffer han­ no rivelato il fatto che la musica su nastro permette di far ac­ cedere al suono stesso, liberato dalla fonte o dalla referen­ za21. Attraverso varie tecniche (come l’eliminazione dell’“attack”o del “decay”, il rallentamento o la velocizzazione, la iproduzione all’indietro, ecc.) Schaeffer e altri hanno otteluto dalle loro fonti suoni così astratti da eliminare tutte le referenzialità, cortocircuitando le abitudini uditive degli ascoltatori. La loro efficacia era aiutata dal fatto che la musi­ ca su nastro era “suonata” senza alcun elemento “vivo”: non un musicista, non degli strumenti, solo puro materiale sono­ ro emesso dalle casse. Per questo motivo la musica elettronica è spesso critica-

20 Tali sono i suoni che propone Pierre Schaeffer in Études de bruits (studi sul rumore). Pierre Schaeffer, L’Oeuvre musicale (EMF). 21 Cfr. Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Éditions de Seuil, Paris 1966, cap. IV.

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ta e definita "fredda”, “impersonale”, “disumana”, “astrat­ ta”. In effetti, queste descrizioni sono appropriate. La musi­ ca elettronica è musica anti-umana e dovrebbe essere affer­ mata come tale. Apre la musica a qualcosa che va oltre l’uma­ no, il soggetto e la persona: la vita non-organica del suono che precede ogni effettiva composizione o compositore, il re­ gno virtuale degli affetti sonori e delle singolarità preindivi­ duali e prepersonali. Piuttosto che una musica del desiderio umano (il cantante, il musicista) è una musica del desiderio macchinico: macchina desiderante musicale e corpo senza organi della musica.

Minimalismo: tempo non-pulsato e piano di immanenza Elektronische Musik e musique concrète hanno liberato le singolarità e gli affetti sonori. Ma è stato il minimalismo clas­ sico a renderli completamente udibili. Il minimalismo ha ul­ teriormente sfidato l’opera classica aprendola all’esterno e costruendo un piano musicale immanente. Formatisi nella tradizione seriale, La Monte Young, Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich, Pauline Oliveros, Tony Conrad e altri arrivano a stabilire legami con le musiche non­ classiche, prevalentemente rock, jazz e tradizioni non occi­ dentali come le percussioni del Ghana, gamelan indonesiane e raga indiano. Invece di scrivere per gli ensemble classici, es­ si sono stati ispirati dalle rock bands a formare un proprio gruppo, per cui comporre e con cui suonare.

Fatto ancora più importante, i minimalisti sono guidati da una concezione immanente del processo musicale e da una nuova concezione del tempo musicale. Essi rifiutano l’idea che la musica debba essere governata da un “piano di tra81

scendenza”, un principio celato che guidi e costringa la mu­ sica dall’esterno. Sono piuttosto interessati ai processi musi­ cali “immanenti” che il compositore e l’ascoltatore possono condividere e sui quali possono essere trasportati. “La musi­ ca non ha più una funzione di mediazione, riferendosi a qualcosa che è al di fuori di se stessa”, scrive Philip Glass, “ma piuttosto incarna se stessa senza nessuna mediazione. L’ascoltatore avrà quindi bisogno di un differente approccio all’ascolto, privo dei tradizionali concetti di ricordo e antici­ pazione. La musica deve essere ascoltata come un puro even­ to sonoro, un atto senza alcuna struttura drammatica”22. Su questa stessa linea, Reich scrive in un saggio metodologico: “L’utilizzo dello stratagemma strutturale celato nella musica non mi ha mai interessato. Sono interessato ai processi per­ cettibili. Voglio essere capace di ascoltare il processo che ac­ cade attraverso la musica”. “Mentre si suona e si ascolta un processo musicale graduale”, continua, “si può prendere par­ te ad una particolare liberazione e ad una specie di rituale im­ personale. Il concentrarsi sul processo musicale rende possi­ bile lo spostamento dell’attenzione da lui e lei, e da te e me, fuori, verso ‘esso’”23. Questo è precisamente ciò che Deleuze chiama “il tempo non-pulsato”, in opposizione al “tempo pulsato” della com­ posizione classica. “Il tempo pulsato” non ha nulla a che ve­ dere con le pulsazioni regolari e ripetitive (un aspetto chiave del minimalismo musicale su cui si tornerà tra un momento). Piuttosto è il tempo di uno sviluppo narrativo. Organizza il

22 Citato in Wim Mertens, American Minimal Music, Kahn and Averill, London 1983, p. 90. 23 Steve Reich, Music as a Graduai Process in Writings About Mu­ sic, New York University Press, New York 1974. Nei suoi commenti sul minimalismo musicale e sul piano di immanenza (vedi sopra, nota 8) Deleuze ha chiaramente questo testo in mente.

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pezzo musicale in sezioni e punti di riferimento identificabi­ li, permettendo all’ascoltatore di sapere dove egliXella si tro­ va e dove egliXella sta andando; e apre conflitti da risolvere, che attivamente sollecitano il senso narrativo del tempo del­ l’ascoltatore. Di qui, Deleuze ci dice che il tempo pulsato è il tempo del Bildungsroman, il romanzo di formazione, che “misura, o scandisce, la formazione di un soggetto”24. Il “tempo non-pulsato” dei minimalisti è completamente altro. Come nota Reich, è totalmente impersonale e proces­ suale, non prova niente per “lui e lei e per tu ed io” o per i “dispositivi strutturali nascosti”. Le composizioni minimali­ ste non sono organizzate dal compositore (“La mia musica non ha una struttura globale, ma si genera in ogni momento” afferma Glass; “una volta che il processo è impostato e cari­ cato, corre da solo”, nota Reich)25; tanto meno essi tracciano i progressi di un eroe, sia esso il compositore, lo strumento solista, o il soggetto che ascolta. Piuttosto, come nota il mi nimalista belga Wim Mertens, “la musica esiste per se stess e non ha niente a che fare con la soggettività dell’ascoltatore [...]; il soggetto non determina più la musica come faceva in passato, ma ora è la musica che determina il soggetto”26. Il tempo non-pulsato delle composizioni minimaliste situa il compositore, il musicista e l’ascoltatore sopra un’onda di di­ venire che fluisce, muta e cambia, ma in maniera così gradua­ le da far perdere qualsiasi senso del tempo cronologico (che Deleuze chiama “Chronos”) e, invece, immergerli in un tem­ po fluttuante e indefinito, un puro processo permanente

24 Queste caratteristiche del “tempo pulsato” sono presentate da Deleuze nel corso a Vincennes del 3 maggio 1977, disponibile sul sito http://www.wcbdclcuzc.com 25 Glass, citato in Mertens, American Minimal Music, cit., p. 89; Reich, Music as a Graduai Process, cit.. 26 Mertens, American Minimal Music, cit., p. 90.

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(l’“Aiòn” di Deleuze)27. Ecco spiegata la straordinaria lun­ ghezza di molte composizioni minimaliste (es.: Music in Twelwe Parts di Glass dura più di quattro ore, Poppy Nogood’s All Night di Terry Riley dura il doppio e Theater of Eter­ nai Music di La Monte Young ha una durata indefinita). Im­ mersi in pezzi tanto lunghi, si perde traccia delle forme e del tempo, diventando invece consci di qualcos’altro: la durata intensiva (“il tempo nella sua esistenza non-strutturata” co­ me lo definisce Morton Feldman)28. Si diventa anche consa­ pevoli di ciò che Deleuze descrive come “velocità e lentezze tra elementi non formati e affetti tra potenze non soggettiva­ te, in funzione di un piano che necessariamente si determina nello stesso tempo di ciò che da esso viene determinato (pia­ no di consistenza o composizione)” (MP 377)29. Reich pone ciò in termini più specificamente musicali: questi processi musicali estesi e graduali aprono all’ascolto “quella zona dei processi musicali graduali [...] nella quale è possibile udire i dettagli del suono che fugge dalle intenzioni, e avviene solo per ragioni interne al suono [...] gli impersonali, gli aspetti

27 Su Chronos e Aión e le loro relazioni con la musica, cfr. corso a v^incennes del 3 maggio 1977, cit., e MP 369-370. Deleuze introduce la distinzione stoica tra Chronos e Aión in LS 145-150. Deleuze c Guat­ tari discutono la differenza tra Bildungsroman di Goethe e “il puro ‘processo stazionario’” di Kleist in MP 378. 28 Feldman, Give My Regard lo Eighth Street, cit., p. 87. Com­ mentando i suoi ultimi lavori, alcuni dei quali lunghi più di cinque ore, Morton Feldman dice: “Fino a un’ora si pensa alla forma, ma dopo un’ora e mezza è scala. La forma è semplice - solo la divisione delie co­ se in parti. Ma la scala è un’altra cosa [...] richiede un livello intensifi­ cato di concentrazione. Prima i miei pezzi erano come oggetti; ora so­ no cose che si evolvono”. Citato da John Rockwell nelle sue note a una registrazione di Feldman Grippied Symmetry, Bridge Records, 9092A/B. 29 “Elementi informi” corrisponde a “i corpi più semplici” di Spi­ noza, le entità atomiche di cui ogni entità composita (assemblaggio o molteplicità) è formata. Cfr. Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 157, no­ ta 4.

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psicoacustici non progettati di un processo progettato [...] sub-melodie percepite all’interno di pattern melodici ripeti­ tivi, effetti stereofonici dovuti al luogo dell’ascoltatore, lievi irregolarità nella performance, suoni armonici, toni differen­ ziali ecc.”30. Il pioniere minimalista Tony Conrad offre una descrizione simile: “Le pulsazioni intonate, palpitando al di là del ritmo e inondando la coclea con una galassia di particelle sincronizzate, riaprono alla consapevolezza del tono si­ nusoidale - l’elemento dell’ascolto combinatorio. Connesse e accoppiate in tutte le combinazioni, le particelle si concen­ trano. L’orecchio risponde in maniera eccezionale”31. In bre­ ve, la pratica minimalista non solo precede la forma musica­ le, ma anche le note e i toni fissi e determinati, liberando in­ vece ciò che Deleuze chiama “molecole sonore”.

Per generare e attirare l’attenzione su queste particelle e intensità sonore, i minimalisti hanno sviluppato un certo nu­ mero di strategie musicali. La lunga durata della performan­ ce è una di queste (e questa, forse, la devono a Feldman). Ma ce n’è anche un’altra, ancora più radicale: la costruzione di un piano di consistenza su cui è stato possibile far apparire e distribuire queste particelle e (queste) intensità. All’inizio degli anni ’70, il critico e compositore Tom Johnson (respon­ sabile dell’etichetta “minimalismo”) lo ha descritto in questo modo: La forma dei loro pezzi è sempre piatta. Non sono interessati a costruire dei climax, o a manipolare tensioni e relazioni, o a la­ vorare su grandi contrasti di ogni sorta. Mantengono piatta la loro musica, non permettendole mai di sorgere al di sopra o precipitare al di sotto di un certo piano. In un certo senso, que-

30 Reich, Musicai a Graduai Process, cit. 31 Conrad, “Lyssophobia: On Four Violins”, note a Tony Conrad, Early Minimalism, Volume /, Tablc of thè Elemcnts 1997.

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sta piattezza è in relazione all’idea della pittura ‘all-over’. In en­ trambi i casi c’c il tentativo di rendere uguali in importanza tut­ te le aree della forma. Il termine “statica” è spesso usato in rife­ rimento alla loro musica, dal momento che non abbandona mai questo livello e non sembra tendere mai verso nulla. Questo termine tradizionalmente è considerato in senso spregiativo, in particolare se applicato alla musica. Ma ascoltando questi com­ positori si scopre presto che statico non vuol dire necessaria­ mente noioso, nell’accezione in cui lo abbiamo sempre inteso. Molte cose interessanti possono succedere, tutte sullo stesso piano. Un tono cambia leggermente, il ritmo è alterato, qualco­ sa diminuisce di intensità. Non ci sono grandi cambiamenti, ma ci sono dei cambiamenti, e ce ne sono più che abbastanza per sostenere l’interesse dell’ascoltatore, a patto che riesca a sinto­ nizzarsi su questo livello minimale32. La musica minimalista ha costruito questo piano in due differenti modi: il drone, o ronzio (La Monte Young, Tony Conrad, Pauline Oliveros, Charlemagne Palestine), e la pul­ sazione (Terry Reily, Philip Glass, Steve Reich, Arnold Dreyblatt). Entrambi approntano una sorta di superficie uni­ forme su cui le micro-particelle sonore sono distribuite. Continue o ripetitive, entrambi evidenziano la durata, il pro­ cesso e la differenza. Istruiscono l’ascoltatore: “Non ascolta­ te andando in cerca di movimenti armonici, di sviluppi for­ mali o di progressioni narrative. Non troverete niente. Inve­ ce, ascoltate il processo, il movimento momento dopo mo­ mento, piccoli slittamenti e variazioni del timbro, della tessi­ tura, della lentezza, della velocità”. Invece dell’arco misurato della musica narrativa spostano l’attenzione sul piano liscio e sugli elementi nomadi distribuiti su di esso.

32 Tom Johnson, La Monte Young, Steve Reich, Terry Riley, Philip Glass, originariamente pubblicato in «The Village Voice» (7 settembre 1972), ristampato in The Voice of New Music: New York City 1972-1982, Apollo An About, Eindhoven 1989, pp. 44—45.

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Free jazz come anti-preduzione

La storia del jazz rivela un movimento di deterritorializzazione simile a quello a cui è stata soggetta la musica classi­ ca. Fondato sulla tensione produttiva tra la composizione e l’improvvisazione, l’accordo e il suo smembramento, territo­ rio e deterritorializzazione, il jazz ha sempre celebrato il flusso errante di un materiale musicale mai completamente bardato nella struttura e nella forma. Dallo swing fino al bebop, il jazz ha mantenuto lo standard di organizzazione fun­ zionale della musica attraverso le contrapposizioni sfondo/primo piano e melodia/armonia/ritmo, assegnando di conseguenza i ruoli agli strumenti. Perciò, nonostante perio­ dici assolo, il ruolo del batterista era di tenere il tempo insie­ me al bassista e al pianista, che si supponeva dovessero man­ tenere la struttura armonica di base, al di sotto della melodia o dell’improvvisazione del trombettista.

L’emergere del Free Jazz negli anni ’60 ha contestate proprio questi aspetti. In relazione al corpo organizzato c gerarchizzato del jazz, è servito come forza di anti-produzione, disarticolando le connessioni standard e smantellando le gerarchie stabilite33. Il Free Jazz ha detto: “Dimenticate l’accordo, dimenticate lo sfondo e il primo piano, ignorate i ruoli strumentali stabiliti. Invece trattate ogni strumento co­ me un dispositivo di suono, al pari di ogni altro. Suonate co­ me un insieme collettivo e realizzate un’energia collettiva”. Perciò, pezzi come Ascension di John Coltrane sguinzaglia­ no torrenti di suono, distribuzioni selvagge e intensamente vibranti di particelle e blocchi sonori34.

33 Sull’“anti-produzione” cfr. A-E 10 e ss. 34 John Coltrane, Ascensione Polygram. 87

L’affine tradizione della musica improvvisata ha spinto queste tendenze ancora più lontano35. L’improvvisazione è diventata l’occasione per un mutuo divenire: un musicista in­ contra un altro, forse per la prima volta, e la musica sorge tra i due, attirando ogni musicista verso una zona di indetermi­ nazione con l’altro36. Lo scopo è suonare con l’altro e contro le tendenze stabilite: la musica è come una linea di fuga, una disarticolazione di abitudini manuali e mentali. La musica improvvisata ha ugualmente deterritorializzato lo strumento musicale e la pratica della performance standard. Invece di trattare gli strumenti come entità fisse da dominare median­ te tecniche virtuosistiche, i musicisti improvvisativi vanno ad esplorare l’immensa varietà di modi in cui i loro strumenti possono generare suono: sfregando il corpo del violino o del contrabasso, suonando solo l’imboccatura o la campana di una tromba, cantando in una cassa di batteria, ecc.37. Parafra­ sando Spinoza, l’improwisatore dice “non conosciamo an­ cora cosa può fare uno strumento”. Dislocati in questo mo­ do, gli strumenti, i musicisti e la musica stessa sono liberati e aperti a nuove connessioni e assemblaggi.

35 II Free Jazz generalmente si riconduce ad una grande tradizione afro-americana che emerge dal bebop ed è associato ai nomi di Ornet­ te Coleman, Cecil Taylor, (tardo) John Coltrane, Sun Ra e Art Ensem­ ble of Chicago. “Musica Improvvisata” generalmente descrive una tra­ dizione inglese ed europea associata ai nomi di Derek Bailey, Evan Par­ ker, Han Bennink, Misha Mengelberg, ed altri. Mentre il Free Jazz spesso dimostra una connessione con il blues, la “musica improvvisa­ ta” combina gli impulsi liberatori del Free Jazz con i mondi sonici del­ la musica classica d’avanguardia (Webern, Cage, etc.). 36 Sul “divenire” come deterritorializzazione cfr. MP 335-437. 37 Per un catalogo ragionato e ulteriori discussioni su queste “tec­ niche estese” cfr. Derek Bailey, Improvisation: Its Nature and Practice in Music, Da Capo, New York 1992, pp. 98-102, e John Corbctt, VZriting Around Free Improvisation in Jazz Among thè Discourses, a cura di Krin Gabbard, Duke University Press, Durham N.C. 1995, pp. 229-236.

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Rock desedimentato

Nonostante la sua reputazione di liberazione sonora ed erotica, pochi generi musicali sono più rigidamente stratifi­ cati del rock. Come il jazz classico, il rock è costituito da una strumentazione standard organizzata in funzione di una ge­ rarchia spaziale e uditiva di fondo: (a partire dall’alto) la vo­ ce, chitarra solista, chitarra ritmica, basso e batteria. Il rock è una musica profondamente umana che organizza il desiderio in vie convenzionali. Potrebbe riferirsi al corpo e alla sessua­ lità ma, essenzialmente, la sessualità del rock è genitale e or­ gasmica. La struttura strofa/ritornello/strofa della canzone rock organizza il desiderio in brevi cicli di tensione e rilassa­ mento. Ossessionato dalla presenza e dall’autenticità, il rock catalizza il desiderio sulla voce e sulla storia d’amore, sulla perdita, e urla la ribellione. Il rock è ugualmente legato alla gestualità visibile della mano umana. Perciò, feticizza l’even­ to dal vivo e svaluta le registrazioni, gli effetti in studio, i sin­ tetizzatori, le drum machines - qualunque cosa non sia im­ mediatamente visibile, sensibile o presente. Ovviamente il rock ha sempre avuto una contro-tradi­ zione: i drones minimalisti dei Velvet Underground, le pul­ sazioni macchiniche dei Kraftwerk, Can e Neu, l’ambient di Brian Eno ecc. Ma soltanto negli anni ’90 queste forze si so­ no unite alle altre per sfidare pienamente il centro dell’ideo­ logia rock. Come sempre, la provocazione arriva dall’esterno - in primo luogo, dalla disco. Emergendo da un under­ ground in larga misura latino, nero e gay, la discoteca desta­ bilizza la sessualità mascolina del rock. Macchinica e ripetiti­ va, minaccia in egual misura l’investimento rock sulla pre­ senza, sull’autenticità umanista e la sessualità genitale. Con­ centrandosi sul dancefloor (un assemblaggio mobile dei cor­ pi) e sull’ambigua figura del Dj (allo stesso tempo creatore e

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mero medium), la disco sfida l’individualismo del rock e il suo culto della personalità. Per reazione, il rock sferra calci, attraverso una manifesta campagna razzista e omofobica, gridando “disco sucks” e or­ ganizzando occasioni per la distruzione di massa dei dischi dance (la più spettacolare e violenta è avvenuta la notte del 12 luglio 1979, quando il Dj rock Steve Dahl ha presieduto un falò di dischi in vinile tra le partite di baseball al Comiskey Park di Chicago). Ma queste esibizioni confermano solo quanto la disco abbia prodotto un brivido profondamente distruttivo nel corpo del rock. Il rock mainstream ha prose­ guito per la sua strada. Ma la frangia più sperimentale ha len­ tamente forgiato alleanze con l’emergente cultura Dj, orga­ nizzata intorno ad un ampio spettro di forme musicali: hou­ se e techno (eredi della disco), hip-hop e dub reggae. Lenta­ mente, ma inesorabilmente, queste alleanze hanno iniziato a desedimentare gli strati del rock al punto che, dalla metà de­ gli anni ’90, i critici più ricettivi hanno potuto dichiarare la nascita del “post-rock”, un movimento internazionale che rappresenta l’“autosuperamento” del rock38.

Il rock e il pop operano essenzialmente in accordo alla logica del ritornello, producendo accordi, canzoncine, ag­ ganci e cori che si piantano nelle nostre teste e che cantiamo, mormoriamo o fischiettiamo attraversando il mondo. “Il ri­ tornello” ci dicono Deleuze e Guattari, “è essenzialmente territoriale, territorializzante o riterritorializzante”. Non so­ lo marca il territorio musicale, ma anche quello psichico e

38 Cfr. Simon Reynolds, Shaking thè Rock Narcotic, «The Wirc», n. 123, Maggio 1994, e To Go Where No Band Has Gone Before: Rock Travels Past Its Own Borders «Village Voice», 19 Agosto 1995, pp. 26-32. 90

geografico, sollecitando la memoria e definendo le zone di comfort e di controllo. Come tale, “il ritornello è [...] un mezzo per trattenere la musica”, per catturare e restringere il flusso di materiale sonoro. Al contrario, “la musica”, in que­ sto particolare senso, “è un’operazione attiva e creativa che consiste nel deterritorializzare il ritornello”. E, visto che la voce è il veicolo privilegiato del ritornello, “la musica è anzi­ tutto una deterritorializzazione della voce” (MP 418).

Il post-rock ha in gran parte tolto di mezzo il cantante, cioè l’eroe e il punto focale della canzone rock. La struttura narrativa del rock è invece presto collassata, liquefacendosi in un ambiente piatto o dilatandosi in infiniti ronzìi e ripeti­ zioni. Sebbene abbia spesso conservato la strumentazione rock, il post-rock ha sottomesso questi strumenti ad un pro­ fondo détoumement. Gruppi come i Main e i Flying Saucer Attak hanno definitivamente tolto di mezzo accordi e pro­ gressioni, trattando invece la chitarra come un dispositivo elettronico per la generazione di timbri e tessiture. Prenden­ do lezioni dall’hip-hop e dalla techno, i gruppi post-rock Techno Animai, Stereolab ed altri, hanno implementato la strumentazione rock con campionatori, drum machines, sin­ tetizzatori analogici e computer portatili. Gastr de Sol e Tortoise utilizzano effetti in studio e manipolazioni riconducibi­ li alla musique concrète e al dub reggae, contrastando energi­ camente l’ossessione umanista ed essenzialista del rock. Elettronica: il divenire-suono della musica

L’elettronica sperimentale è attraversata da questa stirpe eterogenea in una miriade di modi. Tra tutti i differenti gene­ ri e tradizioni della musica classica, jazz, rock, dance ecc., la musica elettronica isola ed intensifica un unico tratto: l’im­ pulso a fare della musica un corpo senza organi. Nell’house minimalista, nella techno, nell’ambient e nella noise troviamo

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tutti i modi per farlo. Elenchiamo queste procedure, tentan­ do di chiarificare le modalità in cui l’elettronica le impiega: 1. Disarticolazione e destratificazione. Abbiamo visto che la composizione classica, l’accordo jazz e la canzone rock sono corpi composti da strati fissi o da organi (es.: stru­ menti a corda/a fiato/ottoni/percussioni) che catturano il suono e lo imbrigliano in funzioni particolari (es.: melodia/armonia/ritmo, il ritornello, lo sviluppo narrativo ecc.). Organizzati dall’esterno da uno schema pre-determinato e trascendente (la partitura, il diagramma, la canzone), si muo­ vono in funzione di un tempo-pulsato (il tempo del progres­ so, della forma, della narrazione e del ritornello). L’elettroni­ ca sperimentale disarticola il suono da questi strati e lo libe­ ra dal tempo-pulsato. 11 suono appare nella sua forma virtua­ le: un flusso libero di vagare, potenza pura, non più o non ancora attaccato alle forme o alle funzioni musicali. In luogo di narrazioni, di melodie e temi, udiamo i suoni stessi. Udia­ mo le forze sonore, gli affetti, le singolarità e le intensità, la grana del suono, le tessiture, i timbri ecc. Come afferma De­ leuze “l’inudibile si fa sentire, e l’impercettibile appare in quanto tale: non più l’uccello cantore, ma la molecola sono­ ra” (MP 354). Dietro lo pseudonimo Gas, per esempio, il produttore tedesco Wolfgang Voigt lascia libero nelle sue composizioni uno sciame di particelle sonore, frammenti di ritmi e di melodie che dissolvono in ronzii vaporosi. La Sel­ va di Francisco Lopez ci immerge nel brulicante paesaggio sonoro di una foresta tropicale. Sprovvisti degli indizi visivi che permetterebbero di farci strada nello spazio e ricondurre i suoni alle loro fonti, siamo messi a confronto con dense e vibranti masse di suono differenziate soltanto dalle loro ve­ locità, tessiture e timbri, e che si muovono solo in funzione delle loro logiche e ritmi interni. Questa esperienza del suono in sé è allo stesso tempo l’e­ sperienza di un tempo non-pulsato. Non seguiamo più le 92

tracce del soggetto di una narrazione; siamo invece trascina­ ti nella vita impersonale e a-soggettiva dei suoni. Il tempo non è più spazializzato, graficizzato e territorializzato da se­ gni formali; esso appare invece come un flusso qualitativo e immersivo. In luogo della struttura e della genesi, ascoltiamo il processo e la durata. Questa connessione tra l’attenzione posta alla vita dei suoni e la liberazione dal tempo cronome­ trico è acutamente rilevata dal compositore noise Bernhard Giinter, che sottolinea il fatto che i suoni crescono, vivono e muoiono a differenti velocità, producendo un variegato “continuum” in cui il tempo è “teso e dilatato come un ela­ stico”, fino al punto in cui l’ascoltatore perde traccia del tem­ po cronologico39.

2. Tracciare le linee di un piano. Ma l’elettronica speri­ mentale non sdogana il caos sonoro. Al piano di organizza­ zione sostituisce un piano di consistenza: una superficie li­ scia su cui sono distribuite le particelle di suono, legate dal­ l’assenza di legame, e predisposte all’esperienza. La noise, la techno minimale e la micro house sono organizzate dall’in­ terno, in funzione di una logica di presentazione immanente che pone l’ascoltatore in un flusso immersivo ed indefinita­ mente esteso che mette in luce il divenire, la durata e le regio­ ni di intensità continue.

39 “Ho cercato di creare un continuum temporale che desse all’a­ scoltatore la possibilità di ascoltare il suono nel suo apparire, nel suo lento presentare se stesso, cambiando, interagendo con altri, essendo ripetuto in diverse configurazioni, e finalmente sparendo [...]. La mi­ sura base del tempo nella mia musica è lenta, un respiro rilassato, che manipolo rallentando e velocizzando in piccole, omeopatiche dosi, allungando e ritraendo il tempo come una gomma. Molte persone han­ no completamente perso il senso (cronologico) del tempo dopo pochi minuti e non sanno dire quanto duri il pezzo”, Bernhard Giinter intervistato in «Halana Magazine» n. 3, (Winter 1998), on-line su: http:/ /www.bernhardguenter.nct/int_halana.html

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Il piano di organizzazione può essere assimilato allo spa­ zio sedentario, striato e gerarchico della città o dello stato. Dall’altro lato, il piano di consistenza è come lo spazio liscio e aperto del deserto in cui i nomadi vagano. Le tracce dell’e­ lettronica sono proprio così: deserti di suono, i cui unici punti di riferimento sono le singolarità, le ecceità e gli affetti che li popolano40. Senza dubbio questo è il motivo per cui l’elettronica è affascinata da alcuni archetipi di spazio liscio: aria, cielo, mare, ghiaccio, spazi aperti in cui gli elementi pos­ sono liberamente essere distribuiti e connessi. Effettivamen­ te, la descrizione del deserto di Deleuze e Guattari (“deserto di ghiaccio”, così come “deserto di sabbia”) descrive appro­ priatamente i paesaggi sonori di Thomas Kòner, di Steve Ro­ den e di Richard Chartier, e i beats minimalisti di Jan Jelinken, snd, e Plastikman41: C’è una topologia straordinariamente sottile, che non poggia su punti od oggetti, ma su ecceità, su insiemi di relazioni (venti, ondulazioni della neve o della sabbia, canto della sabbia o scric­ chiolio del ghiaccio, qualità tattili di entrambi); è uno spazio tattile o, piuttosto, “prensivo”, è uno spazio, molto più che vi­ sivo... (MP 531).

Riattivando le scoperte del minimalismo classico, l’elet­ tronica costruisce questo piano in due differenti modalità: il drone e il beat. La noise è erede dei drones minimalisti di La

40 Edgar Varese intitola la sua prima composizione elettronica De­ serti (1950-54). Rianimando l’impulso di Varese, la Global Electronic Network ha intitolato un primo Mille Plateaux 12 (e un conseguente intero cd) “Electronic Deserti” una frase che da allora è divenuta co­ mune nella cultura elettronica. 41 Per esempio, Kòner, Teimo/Permafrost (Mille Plateaux), Roden, Four Possible Landscapes (Trente Oiseaux), Chartier, Of Surfaces (L-NE), Jan Jelinek, Loop-Finding-Jazz-Records (-scape), snd, makeSNDcassette (Mille Plateaux), e Plastikman, Consumed (Mute).

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Monte Young, Tony Conrad e Pauline Oliveros. Spesso pre­ senta blocchi di suono che gradualmente si rivelano essere composti da miriadi di micro-particelle42. Piuttosto che toni discreti organizzati in funzione dell’opposizione sfondo/primo piano e segnati da marcatori formali, rilascia sciami di granuli vibranti che immergono l’ascoltatore/ascoltatrice trascinandolo o trascinandola in un mondo popolato soltan­ to da un flusso sonoro che permea il corpo e lo rende un campo di forze sonore. In alcune composizioni noise non è tanto il denso brusio, ma il silenzio stesso a formare il piano di consistenza su cui sono distribuite le particelle sonore43. Nel lavoro di Bernhard Gunter e Richard Chartier, per esempio, il silenzio forma una superficie da cui si sprigiona­ no microscopici eventi sonori e nella quale si ritirano. La techno, l’house e le loro diramazioni riattivano inve­ ce la strategia musicale di quel minimalismo basato sulla pul­ sazione, usando la ripetizione per generare differenze. A di­ spetto di una somiglianza superficiale, la pulsazione ripetuta non ha nulla a che fare con il ticchettio di un orologio e con il tempo cronometrico che scandisce. Al contrario, come hanno spesso affermato i minimalisti classici, ogni ripetizio­ ne genera una peculiare sensazione di tempo che non è esten­ siva (direzionale, progressiva, orientata ad uno scopo) ma in­ tensiva (statica, sospesa, profonda, fluida), non quantitativa ma qualitativa: il tempo della durata44. La pulsazione regola-

42 Per esempio, moki dei lavori di Merzbow e Francisco Lopez. As In di Jim O’ Rourkc e In visual Ocean di Dj Spooky, entrambi nella compilation di Mille Plateaux In Memoriam Gilles Deleuze, rappre­ sentano altri ottimi esempi. 43 Sul silenzio come piano sonoro cfr. C 99. 44 Cfr., per esempio, i commenti di Philip Glass e Tcrry Riley in K. Robert Schwarz, Minimalists, Phaidon, London 1996, pp. 9, 35. Sulla durata come molteplicità qualitativa e intensiva cfr. Henri Bergson, Time and Free Will, Harper and Row, New York 1960, capp. 1 e2; cfr.

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re devia il desiderio dell’ascoltatore dall’ascoltare forme, progressioni o strutture e focalizza invece l’attenzione sull’apparire e lo scomparire dei suoni, degli eventi e delle in­ tensità. In questo modo, la ripetizione mette in luce la diffe­ renza. Sottili cambiamenti di timbro, trame, intervalli ed in­ tensità prendono il centro della scena, e i suoni ripetuti ini­ ziano ad apparire sotto differenti forme. “Ho notato che le cose non hanno lo stesso suono quando le ascolti più di una volta” ha detto Terry Riley in un’intervista. “E più le senti, più appaiono differenti. Sebbene qualcosa rimanga uguale, vi è comunque del cambiamento”45. Riley sottolinea il punto di vista bergsoniano secondo il quale non c’è pura ripetizione fino a quando ogni istanza ripetuta non sia modulata con le istanze già accumulate nella memoria46. Le tracce house e techno minimaliste germinano da questa congiunzione di differenza e ripetizione. Per esempio, m6 di Maurizio, ripete la stessa figura a “due note” centinaia di volte, piegandola, contraendola o estraendone differenti tessiture, timbri, pro­ fondità e velocità47. Qui l’elettronica impara dalla elektronische Musik e dal minimalismo: carica di selvaggia materia so­ nora, la musica elettronica classica era spesso troppo satura e strutturalmente complessa per rendere questa materia piena­ mente ascoltabile; in ogni caso, attraverso i drones e i beats minimalisti, l’elettronica esibisce completamente la materia sonora48.

anche Creative Evolution, Random House, New York 1944, cap. 1; trad. it. L’evoluzione creatrice (1907), Raffaello Cortina, Milano 2002. Cfr. anche Deleuze, Le bergsonism, Puf, Paris 1966; trad. it. // bergsonismo, Feltrinelli, Milano 1983. 45 Terry Riley citato in Schwarz, Minimalisti, cit., p. 35. 46 Cfr. la pagina introduttiva de L’evoluzione creatrice, cit. 47 Maurizio, m6 [edit], M CD (M/Basic Channel). 48 Su questo aspetto del minimalismo, cfr. la sezione introduttiva di Kyle Gann’s, Minimal Music, Maximal Impact, «New Music Box»,

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Pause. La recente diffusione del minimalismo glitch in­ tensifica questi due aspetti della ripetizione (movimento ate­ leologico ed esibizione della materia sonora)49. In una acuta analisi della ripetizione nella Black Culture, James Snead ci offre un modo per comprendere questo fenomeno. Oppo­ nendo l’ossessione europea per il progresso storico-cultura­ le e l’affermazione della ripetizione nella Black Culture, Snead scrive: Nella Black Culture, la ripetizione vuol dire che la cosa circola (esattamente alla maniera di ogni flusso [...]) lì in un equilibrio. Nella cultura europea, la ripetizione deve essere vista non solo come circolazione e flusso, ma come accumulazione e sviluppo. Nella Black Culture la cosa (il rituale, la danza, il ritmo) è “lì pronta per essere raccolta”. Se c’è una meta (Zwec^), è conti­ nuamente rimandata; “taglia” continuamente e torna da capo, nel senso musicale di “taglio” inteso come cosa brusca, una ap­ parentemente immotivata interruzione (un accidentale da capo) di una serie già in progressione e un risoluto ritorno ad una se­ rie precedente. Una coltura basata sull’idea del “cut” (taglio) soffrirà sempre i una società in cui l’idea dominante è il progresso materiale - rr. i “cut” posseggono il loro fascino! Nella cultura europea la “meta” è sempre chiara: il punto verso il quale si è in continua tensione. La meta è ciò che è raggiunto solo quando una cultu­ ra “sorpassa” la propria storia. Una tale cultura non è mai “im­ mediata”, ma “mediata” e distaccata dal tempo presente dai suoi stessi orientamenti futuri. Inoltre la cultura europea non per­ mette “una successione di accidenti e sorprese” [come Hegel ha descritto la cultura africana] mantenendo invece l’illusione del progresso e del controllo ad ogni costo. La Black Culture, at­ traverso il “cut”, costruisce “accidenti” nel proprio campo d’azioney quasi a poter controllare la loro incontrollabilità. Essa

n. 7, Issuc 31, voi. 3, Novembre 2001: http://www.newmusicbox.org /page.nmbx?id=31tp00; cfr. anche C 38-39. 49 Es.: i pezzi e gli artisti sulle compilations Mille Plateaux Cliks & Cuti.

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stessa una sona di campo d’azione culturale, la magia del “cut" tenta di affrontare l’accidente e la rottura non rimuovendoli, ma creandogli degli spazi all’interno del sistema stesso50.

In contrasto con le nostre aspettative di uno sviluppo formale e di un progresso narrativo, lo scratch o il taglio del turntablist e il glitch di un artista elettronico accentuano il valore della ripetizione. Lo scratch e il glitch interrompono o sospendono il movimento in avanti della traccia, riportan­ dolo a un momento precedente. Snead continua: Il “taglio” insiste chiaramente sulla natura ripetitiva della musi­ ca, attraverso un improvviso balzo all’indietro verso un inizio che abbiamo già ascoltato. Inoltre, più grande è l’insistenza sul­ la pura bellezza e sul valore della ripetizione, più grande deve essere la consapevolezza che la ripetizione si posiziona non su un livello di sviluppo o progressione musicale, ma sul più puro livello timbrico e tonale51. Affermando il valore della ripetizione, poi, il taglio o il glitch distaccano il suono dal tempo progressivo e dal movi­ mento armonico, e spostano l’attenzione sulla tessitura e sul­ la materia sonora. In termini deleuziani, lo scratch ed il glitch “balbettano” musica, ritirandola dal significato, esibendo in­ vece “una pura materia sonora intensa [...], suono musicale deterritorializzato, grido che sfugge alla significazione, alla composizione, al canto, alla parola - sonorità in rottura per liberarsi da una catena che è ancora troppo significante” (K

12)52.

50 James A. Snead, Repetition asa Figure of Black Culture, in Black Literature and Literary Theory, a cura di Henry Louis Gates Jr., Methuen, New York 1984, p. 67. 51 Snead, Repetition as a Figure of Black Culture, cit., p. 69. 52 Cfr. anche K 29 e ss. Sul “balbettio” cfr. Deleuze, Critica e clini­ ca (1993), Raffaello Cortina, Milano 1996, cap. 13

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Play. La ripetizione o la pulsazione regolare può essere pensata come produttrice di un “piano fisso” per la presen­ tazione delle particelle di suono. Ma “fisso”, denota Deleu­ ze, “non vuol dire immobile, indica lo stato assoluto del mo­ vimento non meno che della stasi, in rapporto al quale tutte le variazioni di velocità relativa diventano esse stesse percet­ tibili” (C 98). Ciò significa, in primo luogo, che il piano e gli elementi che lo popolano non sono ontologicamente distin­ ti. I poderosi e granulari beats dei Pan Sonic, le pulsazioni sa­ turate dei Porter Ricks, e il ticchettio tattile di alva noto, per esempio, ci rammentano che la pulsazione ripetuta è essa stessa materia, sonora, composta dallo stesso materiale che è distribuito su di essa: il piano unico dei segnali elettronici e dei bits digitali. In secondo luogo, l’house e la techno sono costruite da loop fatti in modo tale che l’unica distinzione tra il pulsare regolare e le figure sonore che vi si muovono attra verso, è relativa alla velocità e alla lentezza, alla regolarità alla singolarità. Ogni cosa è allo stesso tempo ritmo e tono timbro; e qualsiasi distinzione vi introduciamo è relativa e non assoluta.

Ciononostante, il drone e il beat delimitano il piano o CsO che compone le tracce dell’elettronica e connette i suoi elementi in un assemblaggio provvisorio. In questo modo, modellano il piano di immanenza della Natura, del quale mostrano una porzione o piano53. Visti sulla scala dei millen­ ni, dei corpi, delle specie, degli stati, delle città e dei linguag­ gi, sono come onde in un oceano, forme evanescenti che si dissolvono nella massa fluida della Natura. Così, nell’elettro-

53 “Il piano di consistenza [della Natura] sarebbe la totalità di tut­ to il CsO, una pura molteplicità di immanenza [...] Un piano è un pez­ zo di immanenza. Ogni CsO è fatto di ‘piani’. Ogni CsO è esso stesso un ‘piano’, che comunica con gli altri piani sul piano di consistenza” MP 237.

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nica, i toni e i timbri vanno e vengono con la pulsazione, o si ritraggono nel blocco di suono o di silenzio da cui proven­ gono.

3. Distribuzione di singolarità ed ecceità, affetti e intensi­ tà. La sinfonia era segnata da un’esposizione tematica, dallo sviluppo e dalla ricapitolazione, la canzone pop dall’alter­ nanza di strofa e ritornello. Ma non si canticchia sui pezzi di elettronica. Non ci sono accordi o ritornelli da fissare in mente. Piuttosto, i pezzi di elettronica sono segnati da indi­ viduazioni musicali di diverso genere. Sui loro spazi lisci, i pezzi di elettronica distribuiscono singolarità ed ecceità, af­ fetti e intensità: pure qualità uditive, quantità ed aggregati disarticolati dalle melodie, dalle forme e dalle strutture. Singolarità ed ecceità sono eventi, momenti in cui parti­ celle e forze formano un assemblaggio che raggiunge un cer­ to grado di individuazione. Sulla superficie di un oceano un’onda si alza, un mulinello o un vortice fanno ruotare la superficie verso il basso, una corrente calda l’attraversa mo­ mentaneamente - ognuna di questa è una singolarità o una ecceità, una individuazione non di un soggetto - o di un og­ getto, ma di un evento. Queste stesse modalità di individua­ zione caratterizzano i pezzi di elettronica. Textuell di Ovai54 ad esempio, inizia con un flusso balbettante composto da tic­ chetti! agitati e un confuso accordo che vibra nell’intervallo tra due toni confinanti. In se stessi, questi elementi (ticchet­ ti!, toni, altezze ed intervalli) non sono ancora singolarità o ecceità. Piuttosto, collaborano per formare una superficie di base o un piano. In pochi secondi, un grave tonfo risucchia questa superficie rapidamente verso il basso e poi la manda, facendola saltare, su un nuovo piano segnato da lenti schioc-

54 Su Systemisch (Mille Plateaux).

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chi, una più ricca e più risonante tavolozza sonora, una figu­ ra a tre toni. Questa è una ecceità, un evento sonoro nel flus­ so del pezzo, un evento che tiene gli elementi insieme in una configurazione provvisoria e che segna una differenza di in­ tensità e qualità sonora da ciò che lo precede e ciò che lo se­ gue. Il nuovo piano è presto attraversato da ecceità più sotti­ li e ridotte: scoppietti! legnosi, serie di leggeri toni di campa­ ne, morbide note gravi che rallentano il flusso. In pochi mi­ nuti un altro evento di maggiore intensità: lo slittamento ver­ so un nuovo piano, questa volta segnato da una pulsazione bassa e regolare e un lento spostamento tonale tra i poli di un intervallo più ampio. Per il resto del pezzo, queste varie ec­ ceità (piani, movimenti rapidi, serie di campane, pulsazioni gravi, ecc.) si lasciano trasportare attraverso lo spazio uditi­ vo, ripetendosi a diverse velocità e frequenze. Ecceità e singolarità forniscono la topografia di un pez­ zo di elettronica, la dimensione estensiva, in cui avvengono i tagli, gli spostamenti, le zone, i livelli, ecc. Ma i pezzi di elet­ tronica sono caratterizzati e scanditi anche da un’altra di­ mensione: dagli affetti o intensità che corrispondono a que­ ste ecceità e singolarità. “Intensità”55 dà il nome ai modi in cui queste singolarità sono sensualmente vissute, la loro pe­ culiare qualità e forza. Quando descriviamo un pezzo o una sua parte (ecceità, piani, intervalli) come “fredda”, “calda”, “dura”, “morbida”, “stonata”, “luminosa”, “melmosa” ecc., stiamo descrivendo, anche se sommariamente, le sue “inten­ sità”, i modi in cui ci tocca, ci colpisce, la qualità e la quanti­ tà delle forze che trasmette.

55 Deleuze generalmente utilizza il termine “affetto” per la descri­ zione di entità organiche (piante, animali, esseri umani). Il termine “in­ tensità” è più ampiamente usato per descrivere un mondo non organi­ co (metalli, linguaggi, colori, suoni, ecc.). Perciò, la mia analisi musica­ le si basa in larga parte sul secondo termine.

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In un passaggio a cui Deleuze allude spesso56, Varèse ave­ va già immaginato una musica delineata soltanto dalle sue “zone di intensità”: Queste zone sarebbero differenziate da vari timbri o colori e da differenti lentezze. Attraverso tale processo fisico queste zone potrebbero apparire di diversi colori e di diversa grandezza, in diverse prospettive per la nostra percezione. Il ruolo del colore o del timbro cesserebbe completamente di essere incidentale, aneddotico, sensuale o pittoresco; diventerebbe un agente di delineazione, come i diversi colori di una mappa che separano aree differenti, e una parte integrale della forma57.

Più di mezzo secolo dopo, l’elettronica contemporanea realizza la visione di Varèse. Tutta la noise - il lavoro di Merzbow, per esempio — fa a meno della forma musicale, a favore dei massicci, glaciali o liquefatti flussi che collidono, si intersecano e inter-penetrano per produrre una superficie punteggiata da cime, valli, fessure e piani. L’elettronica “di pulsazione” è ugualmente segnata da tali “zone di intensità”. Le tracce di techno minimale e micro house scorrono come un’onda che sorge e che si abbatte, tracciando zone e livelli di intensità a seconda delle modalità in cui fluiscono (Cfr. FB cap. 6). Formate da loop (onde) che si muovono a differenti velocità e con diverse ampiezze, creano pattern di interferen­ ze segnati da punti di snodo di confluenze intensive. Il lavo­ ro di Carsten Nicolai (aka noto e alva noto) è esemplare in questo senso. Dispiegando loop di diverso spessore, profon­ dità e velocità, i suoi pezzi producono l’equivalente uditivo delle increspature dei liquidi che caratterizzano gran pane della sua arte visuale58.

56 La frase usata spesso da Deleuze “zone di intensità" (ad es., MP 235) è chiaramente estrapolata da questo passaggio. 57 Varèse, Liberation of Music, cit., p. 197. 58 Ad esempio, alva noto, Prototypes (Mille Plateaux) c Transform

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Come distribuzioni di ecceità e intensità, i pezzi di elet­ tronica organizzano il desiderio in modi radicalmente diffe­ renti dal rock, dal jazz classico o dalla musica classica. In luo­ go della tensione e del rilascio che caratterizzano il rock e il pop, in luogo del conflitto e della risoluzione che contraddi­ stinguono la musica classica, l’elettronica costruisce innume­ revoli “piani”: “regioni continue di intensità si sono costitui­ te in modo tale da non permettere a nessuna terminazione esterna di interromperle, non più di quanto le sia permesso di procedere in direzione di un climax” (MP 237)59. Non ver­ si e ritornelli, ma soglie e continuum di intensità, confluenza di flussi, onde o agganci su di un livello che è esso stesso un piano, un indefinito, esteso continuum di intensità.

4. Costruzione e cartografia di un corpo o di un assem­ blaggio. Una traccia, poi, rappresenta una particolare parte sezione o piano del phylum sonoro. Si tratta di un piano d. consistenza o una composizione che seleziona, articola, dis­ tribuisce e tiene insieme una serie di toni, timbri e ritmi. Co­ me tale, una traccia forma un corpo, non un organismo: un corpo senza organi. Presenta il minimo della composizione o della consistenza necessaria ad individuare un corpo senza permettergli di irrigidirsi in un organismo (cfr. MP 237 e FB cap. 7).

(Mille Platcaux/Rastcr-Noton) c le sue installazioni di arte visiva Milch, Fluid Intcrferenz, Hertz + Wave, e Telefunken. 59 Cfr. anche MP 57-58; cfr. anche Tony Conrad: “la musica occi­ dentale, con la sua perpetua fede nella progressione, anima un senso di assenza - di sospensione e di aspettativa. Questa non-soluzione corri­ sponde al conflitto che procura un impulso ad andare avanti in una nar­ razione. Anche la musica indiana trasmette sentimenti di sospensione c risoluzione, ma in maniera differente - sempre in presenza dei suoi og­ getti. La sua figura operativa è il bilanciamento o la ripetizione, non l’assenza c il conflitto. “Lyssophobia”, cit.

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Un corpo, ci spiega Deleuze, non è definito dalla forma, dalla funzione, dalla sostanza ecc. Piuttosto, la sua definizio­ ne prende la forma di una mappa [piano] che segna un pezzo di territorio in funzione di una longitudine e di un latitudi­ ne60. Per “longitudine” Deleuze intende le relazioni con le altre particelle che compongono un corpo (che è sempre una molteplicità). Seguendo Spinoza, che sostiene che i corpi so­ no distinti gli uni dagli altri non per ragioni di sostanza ma solamente per ragioni di relazioni di moto e di riposo, di ve­ locità e lentezze che si stabiliscono tra le loro parti compo­ nenti, Deleuze descrive le relazioni “longitudinali” delle par­ ti di un corpo con quelle di un altro come “rapporti di velo­ cità e lentezza, di moto e di quiete fra le particelle”61. Per “la­ titudine” Deleuze intende le capacità affettive ed intensive che un corpo ha in relazione agli altri corpi, la concentrazio­ ne dei poteri e delle abilità che lo distinguono. “Carta della velocità e delle intensità” (C 97). Questa de­ finizione deleuziana (e varèsiana) è assolutamente adatta al­ l’analisi dei pezzi di elettronica. Non ammettono facilmente una descrizione in termini di forma e di sviluppo ma posso­ no essere perfettamente descritte in termini di longitudine e latitudine, “variazioni di velocità fra particelle o molecole so­ nore”, “liberare affetti fluttuanti” e le intensità generate dal­ le loro connessioni (C 98-99). Esse si prestano alla descrizio­ ne geometrica, geologica e geografica: descrizione in termini di vettori, soglie, inclinazioni, cime, vallate e piani. Astratti, molecolari, macchinici e desoggettivati, i pezzi

60 La trattazione più chiara e stringente di questa idea appare in Spinoza e noi, capitolo finale di Spinoza. Filosofia pratica, cit.; cfr. MP 368 e ss. ; ZV'j 61 Spinoza, Ethics II, PI3, LI. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 157.

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di musica elettronica sono semplici selezioni di serie di par­ ticelle sonore messe in relazione alle altre e a loro volta in rapporto con quelle di altri pezzi. A livello longitudinale, un pezzo è un corpo, una macchina, o un assemblaggio, una col­ lezione di particelle sonore che occupano lo stesso territorio e che si muovono a velocità misurate in rapporto a quelle di altre particelle. Formano delle congiunzioni temporanee (loop, blocchi, ecceità, ecc.) con altre particelle e si muovono insieme ad esse. A livello della latitudine, un pezzo è defini­ to dalle sue intensità, dalle sue accumulazioni di forza e dai loro effetti qualitativi su di noi. Longitudine e latitudine, ve­ locità ed intensità definiscono anche le relazioni che un pez­ zo ha con un altro pezzo, essendo la traccia un elemento di una macchina più grande, il m/x, esso stesso a sua volta una specie di macro-pezzo. Le velocità e le intensità di un pezzo determineranno poi con quali altri pezzi si può collegare e quale sorta di relazioni (flussi, rotture, modulazioni affettive ecc.) può avere con questi altri pezzi. Il termine “mix” qui è significante, poiché fa luce sul fatto che, dai micro- ai macro livelli - dal livello delle componenti di ecceità di una tracci al livello del mix inteso come intero - i pezzi di elettronica non sono “composizioni” chiuse o “canzoni” ma sono senza chiusura, assemblaggi provvisori che, ad ogni livello, posso­ no essere connessi o innestati con altri assemblaggi.

Tale, quindi, è l’anatomia del corpo senza organi della musica. Abbiamo anche tracciato la sua genealogia. È segna­ to non solo dalle ecceità e dalle intensità percettibili che so­ no distribuite su di esso ma anche da una serie di singolarità storiche che si distribuiscono lungo la musica del XX secolo e che forniscono il suo codice genetico, le sue condizioni di possibilità trascendentali e virtuali. Ascoltando i minimalisti classici verso la fine degli anni ’70, Deleuze inizia a percepi­ re il modo in cui la musica può diventare un corpo senza or­ gani. Con l’avvento dell’elettronica sperimentale - che, per

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merito della Sub Rosa di Guy-Marc Hinant e della Mille Plateaux di Achim Szepanski, Deleuze riuscì ad ascoltare negli ultimi due sofferti anni di vita62 - tutte le forze della deterritorializzazione musicale sono portate a congiungersi e la mu­ sica a diventare definitivamente un CsO. Non soggetti, for­ me, temi o narrazioni; soltanto flussi, tagli, aggregati, forze, intensità ed ecceità tracciati sulla superficie liscia dei drones e dei beats. Traduzione di Stefano Pema

62 Sulla corrispondenza di Hinant e Szepanski con Deleuze, cfr. le note di Hinant su Doublé Articulation: Another Plateau.

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Philippe Franck Deleuze Rhyzomix 95-05

Riabbordare certi sviluppi delle musiche elettroniche, concentrandosi più particolarmente su questi ultimi dieci an­ ni più francamente e coscientemente rizomatici, incrociando­ li con certe linee di fuga deleuziane, secondo il procedimento (o la licenza) del "pick-up*1. Fermarsi, il tempo di un'istanta­ nea istantaneamente distrutta, su queste molteplicità che sot­ traggono la macchina da guerra musicale ribelle al controllo globale delle industrie dell'entertainment formattato. Au­ scultare queste pratiche sonore che scompongono l'organismo musicale-sociale per aprirlo a delle "connessioni che suppon­ gono tutto un concatenamento, circuiti, congiunzioni, suddi­ visioni e soglie, passaggi e distribuzioni di intensità, territori e deterritorializzazioni misurate alla maniera d'un agrimenso­ re” (MP 239). Pretesto per immergersi di nuovo nell'opera del Grande Gilles (senza dimenticare l'amico Félix) che confessa­ va di apprezzare sia Piaf che Stockhausen, così come si può ri­ prendere a caso un libro di Nietzsche e trovarvi materia per ri-pensare, per avanzare e per fuggire attivamente.

1 “Il pick-up è un balbettio. Vale soltanto in opposizione al cut-up di Burroughs: niente tagli, piegature e ribaltamenti, ma moltiplicazioni secondo dimensioni crescenti. Il pick-up o il doppio furto, l’evoluzio­ ne a-parallela non avvengono tra persone ma tra idee, ciascuna delle quali si deterritorializza nell’altra, secondo una linea o delle linee che non si trovano in nessuna di esse e che superano un ‘blocco’” (C 24).

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Da dove cominciare? Dalla fine - che poi non è altro che l'inizio di un'altra cosa? 1995 quindi, qualche mese dopo l'ultimo viaggio del pensatore dei Mille Piani, la casa discografica di Bruxelles Sub Rosa fa uscire Folds & Rhizomes, composto di pezzi di gio­ vani avventurieri elettronici selezionati da Deleuze: Scanner, Ovai, Main, Mouse on Mars, David Shea e Tobias Hazan. Ricordo di aver avuto una certa difficoltà ad aderire comple­ tamente a questa successione, tra l'altro molto omogenea, di pieghe e rizomi elettronici, ma alla fine sono stato vinto da questo fortunato incontro, al buio, certo, eppure motivato, che può anche essere visto come una sorta di passaggio, anco­ rato nel futuro immediato e allo stesso tempo imbevuto del passato attraverso la morte del suo visionario ispiratore. Que­ sti musicisti erano considerati “emergenti” e avrebbero poi compiuto un percorso notevole che, ben lontano dall'essere terminato, entra oggi in una seconda fase che, in questo con­ testo, potrebbe essere definita adopo-Deleuze ”. Ma il dopo è anche il prima di un altrove che c'è già! Tenteremo quindi di fare il punto e collegare, alla luce delle nostre derive e della nostra esperienza di musiche in eterno divenire, alcuni avventurieri, alcune singolarità che percorrono in tutte le direzioni la steppa elettronica.

Audio immanent process

Pieghe sonore, audio-piani: “Ogni piano opera una sele­ zione [...] che varia dall’uno all’altro. Ogni piano d’imma­ nenza è Uno-Tutto: non è parziale, come un insieme scienti­ fico, né frammentario come i concetti, ma distributivo, è un ‘ciascuno’. Il piano d’immanenza è stratificato” (CF 40). Il piano di audio-immanenza non è un concetto né udito né potenzialmente udibile, ma è l’immagine del suono, l’imma­ gine che il suono si dà di cosa significhi produrre suono, usa108

re il suono, orientarsi nel suono... Azzardiamo questa para­ frasi di una delle definizioni del piano di immanenza dateci da Deleuze e Guattari (CF 27)2, che ci riporta alle prime “unità deleuziane”3: Scanner con le sue voci telefoniche, car­ tografie istantanee e invisibili di città in cui va in tournée; David Shea con le sue Sampling Compositions che materializ­ zano diverse memorie cinematografiche e musicali; Main e i suoi monocromi marziani; l’ufo Ovai che con il suo “ovai process”4 macina nella sua macchina da guerra autistica qua­ lunque tipo di dato, qualunque incidente digitale per farne scaturire una successione di movimenti, di eventi e di flussi che si fondono fugacemente in un piano immanente eminen­ temente variabile. Pratiche musicali relazionali (sia nei processi creativi so­ litari che in collaborazione) nelle quali il fuori è potenzial­ mente integrabile in un dentro che non smette di “mutare” e di “esteriorizzarsi”. La musica dei quattro elementi compo­ sti o a volte “comprowisati”5 da Christian Fennesz, nutrita a base di Beach Boys e di melodie pop che Fennesz riconvo­ ca volentieri nelle sue rielaborazioni laptop, realizza una ri­ cerca archeo-geologica e costruisce a strati paesaggi organici.

2 “Il piano d’immanenza non è un concetto, né pensato né pensa­ bile, ma l’immagine del pensiero, l’immagine che esso si da di cosa si­ gnifichi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero...”. 3 Le cosiddette “Deleuze Unit” erano una serie di concerti orga­ nizzati da Sub Rosa in diverse metropoli occidentali, a cui parteciparo­ no, nello spirito di Folds & Rhyzomes, David Shea, Scanner e Main. Tre cd usciti in edizione limitata testimoniano di questi incontri live a Pa­ rigi, Londra e New York (Sub Rosa, 1996). 4 Software musicale realizzato da Markus Popp. 5 Neologismo che si deve al compositore e violoncellista belga Jean-Paul Dessy, direttore di Musiques Nouvelles che, in stretta colla­ borazione con diversi musicisti elettronici (Scanner, Dj Olive, David Shea e Christian Fennesz), ha prodotto performance “elettro-contem­ poranee” e “comprowisazioni”, in cui coabitano alcuni elementi fissi e lunghi passaggi improvvisati.

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I grammofoni desueti dell’artista plastico Dj Philip Jeck suo­ nano i graffi e le incrinature di dischi, in cui il contenuto e la provenienza non hanno più importanza, perché il mix e gli effetti li allontanano subito in un’atemporale malinconia. A partire da opere di Schumann e Stockhausen, Dj Olive riesce a proporre un set dove le citazioni sono solo gli elementi di un quadro gestuale e di una coreografia di manipolazione dei turntable esperta e allo stesso tempo delicata e sensuale. Un’altra “muta” di sperimentatori elettronici, forse più ascetici e meno iconici, prolunga in parallelo questo “immanent process”: Taylor Deupree, Kim Cascone, Richard Chartier, Kenneth Kirschner6... Quest’ultimo ha prodotto con Taylor Deupree Post_piano (Sub Rosa, 2002) un proget­ to “open source”, concepito a partire da brani di pianoforte realizzati da Kirschner e poi rielaborati elettronicamente da Deupree, per arrivare a una serie di pezzi che giocano sugli aspetti armonici, percossivi, impressionisti delle sonorità iso­ late del pianoforte. Il cd propone sia il risultato di questa col­ laborazione che le componenti iniziali e permette all’ascokatore/utilizzatore di riappropriarsene per continuare una col­ laborazione nella forma di una post modulazione ad libitum. Nel primo cd di Zyklop (Mille Plateaux, 2003), Thomas Kòner fa ascoltare una Topographie sonore del Col de Vence, Dezzo ideato per l’atelier di creazione radiofonica di France Culture come “una sorta di mappa sonora di un territorio”. Nelle note del bootleg del cd, il compositore precisa inoltre che non “si tratta di un semplice collage di registrazioni fat­ te all’esterno”. “Così come le linee che segnano le altitudini nelle carte geografiche diventano linee colorate se ci si pone da un punto di vista astratto, esse diventano qui dei colori so­ nori e degli elementi di composizione”. Alcuni frammenti,

6 Le produzioni della label canadese 12K ne sono un buon esem­ pio. In particolare la compilation Two Point Two (che riunisce degli ar­ tisti di 12K e di Line) del 2003 offre una sintesi interessante.

no

definizioni semplificate probabilmente lette da Koner stesso, disseminano questa steppa sonora: “Una linea è una lun­ ghezza senza larghezza [...] le estremità di una linea sono dei punti le estremità di una superficie sono delle linee...”. Immanenza delle linee che diventano qui superficie aperta e insieme opaca, immagine di uno spazio liscio. Spazi vuoti - spazi pieni: CM Von Hausswolff, ex mem­ bro del combo industriale Halfler Trio, esplora ostinatamen­ te l’immensità dell’in/udibile da una ventina d’anni7. Artista sonoro, si è fatto conoscere nell’ambiente dell’arte contem­ poranea grazie alle sue installazioni che, come quelle dello spagnolo Francisco Lopez (che rifiuta qualunque elemento visivo perché secondo lui disturberebbe l’attenzione uditiva), militano per un ritorno all’ascolto puro. I pezzi “untitled” di Lopez (anche i titoli farebbero parte delle distrazioni spiace­ voli per l’ascoltatore che deve ritrovare un’attitudine tanto aperta quanto attiva) tendono a creare “porte che permetto­ no di accedere a una fenomenologia vergine”8. Dopo un flus­ so intenso e insistente cala bruscamente un sipario di silenzio che dura diversi minuti, poi un soffio appena percettibile9 si installa nella “camera obscura” che Lopez crea per ottimiz­ zare l’ascolto dell’ascoltatore che, al momento delle perfor­ mance-installazioni, viene privato della vista potenzialmente perturbatrice, grazie a una benda sugli occhi. Questa ecolo­ gia sonora radicale che si serve dell’arte del silenzio e del ru­ more ci permette di riscoprire i diversi oggetti, affetti, strati, articolazioni, piani... sonori.

7 Riascoltare Rays of Beauty, album di pezzi inizialmente usciti su diversi vinili a metà degli anni ’80, resuscitato su cd da Sub Rosa nel­ l’anno della morte di Gilles Deleuze e dell’uscita di Folds & Rhyzomes. 8 M. Delplanque, Francisco Lopez, gardien de l’écoute, «Mouvcment», n. 32, gennaio-febbraio 2005, p. 80. 9 La compilation Untitled uscita nel 2001 da Subsound Records che riprende diversi pezzi numerati ne c un esempio.

Ili

“Il piano d’immanenza prende in prestito dal caos le de­ terminazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da so­ lo abbracciare tutto il caos senza ricadérvi; oltretutto ciascu­ no ritiene solo i movimenti che si lasciano piegare insieme” J? - (CF 40). Gli elettroni liberi del piano non hanno paura del caos. Al contrario, ci giocano, a volte in maniera molto diret­ ta, a volte in maniera più insidiosa, con metodo e ostinazio­ ne. Tra i principali nomadi noise citiamo Masami Akita (alias Merzbow) specialista della tradizione del bondage giappone­ se e dei viluppi di rumori che da una ventina d’anni impone agli ascoltatori sottomessi (passando dalla chitarra al laptop, per strati successivi, in un modo prolisso e spartano allo stes­ so tempo), Zbigniew Karkowski che distilla ulteriormente il rumore su delle sequenze a rilievi variabili ma sempre abra­ sivi e altri spacca-timpani realizzati da una generazione dai rumori precoci10, nutritasi della scena industriale dell’inizio degli anni ’80 (Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Psychic TV, SPK... e altre meteore che hanno investito il pop rock roboante e contribuito a fare del caos sonoro una macchina da guerra) ed esplosa poi negli anni ’90, come Peter Rheberg, all’avamposto della scuderia elettronica viennese Mego. I successori diretti di questi elettro-nomadi, figli del "se­ colo deleuziano” (secondo la celebre frase di Foucault, che forse anche in questo caso aveva ragione, come sembrano in­ dicare queste linee di fuga sonore) hanno integrato queste oscillazioni, queste “macchinazioni” (nel senso letterale) e mutazioni forse per meglio liberarsene quando vogliono (dopo la saturazione immanente, c’è forse il “ritorno” di una

10 Da scoprire una registrazione che ha realizzato a sedici anni nel 1984 e che annuncia molti dei tentativi elettro radicali presenti nel ter­ zo volume di An Anthology of Noise & Electronic Music (Sub Rosa, 2004).

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I

trascendenza temperata?): Matt Elliot (Third Eye Founda­ tion), Monolake, AGF, Boards of Canada... e ancora più re­ centemente, Mitchell Akyama, Ghislain Poirier, Sébastien Roux, Segar... Alla fine degli anni ’70, sull’onda dei suoi esperimenti pre-ambient con Brian Eno, Robert Fripp inventava i “frippertronics”, sorta di procedimento che, grazie al delay di un registratore a nastro, permetteva al chitarrista di costruire, con un gioco di sovrapposizioni una tappezzeria elettrica vi­ brante e celeste a partire da una nota. Oggi, il giovane cana­ dese Mitchell Akyama appare in concerto con il suo laptop e alcuni strumenti acustici di cui registra in diretta dei suoni (come pure i rumori della sala o di tutto ciò che gli capita sot­ to mano) e delle sequenze corte che rielabora immediata­ mente con il suo software, costruendo a poco a poco una prestazione autonoma sempre diversa. Entrambi inseriscono i loro eventi musicali in un altro tempo, che è più dell’ordine di Aión che di Chronos: “Invece di un presente che riassor­ be il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all’infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente” (LS 147). Musiche dell’intra-tempo (CF 158-159)11, del tempo 155 sospeso, del tempo immanente. Le diverse de-ri/creazioni elettro-mutanti hanno una rinnovata influenza su certi artisti del post-pop che vi vedo­ no delle possibili nuove aperture e si espongono al rischio che le loro opere ne siano polverizzate, devitalizzate, snatu­ rate... Il percorso del cantante/compositore David Sylvian

11 “Non è più il tempo a essere tra due istanti, è l’evento a essere un ‘intra-tempo’: l’intra-tempo non è né dell’ordine dell’eternità, né dell’ordine del tempo, è un divenire”.

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!

(che ha anche collaborato con Robert Fripp) è un buon esempio. Con l’album Blemish (uscito sulla sua label Samadhisound nel 2003), ha scelto di disarticolare e “deterritorializzare” queste canzoni caratterizzate da una grande abilità vocale, in collaborazione con il chitarrista free Derek Bailley e con Christian Fennesz, che danno fuoco sapientemente a una sontuosa foresta melodica12. L’album di remix successi­ vo (The Good Son versus The Only Daughter, Samadhisound 2004) va ancora oltre e invita dei musicisti usciti per la maggior parte dalla sfera elettronica (Ryoji Ikeda, Burnt Friedman, Yoshihiri Hanno, Akira Rabelais...) a impadronir­ si delle versioni iniziali. Questa “riterritorializzazione” sem­ bra stranamente rivelare, come in un sogno, ciò che erano o avrebbero potuto essere queste canzoni in un arrangiamento più ricco, se l’artista non avesse deciso, in Blemish, di andare all’osso per conservarne solo il midollo sostanzioso. Eppure sappiamo e capiamo perfettamente che questi nuovi arran­ giamenti appartengono ad altri che, sebbene scelti da David Sylvian, non tentano in alcun modo di avvicinarsi all’“origiiale”, al contrario. La macchina desiderante del remix, linea li fuga infinita s’impadronisce dei ritornelli del ri/divenire dandogli una moltitudine di identità e di territori.

L'eterno ritorno del ritornello

Dopo l’esplosione-implosione delle musiche-divenire e la pazza corsa dei flussi rizomatici, assistiamo forse al ritor­ no del ritornello? In effetti il ritornello non è mai scompar­ so. O meglio si è mostrato capace di integrare tutto ciò che poteva destrutturarlo e deterritorializzarlo. Bjòrk, con l’aiu-

12 Fennesz ha firmato l’arrangiamento della prima versione di A Fire in a Foresi che chiude luminosamente Blemish. 114

to tra gli altri di Mark Bell e Matmos, ha incorporato, in ma­ niera sempre più fine, i contributi destrutturanti/ristrutturanti di questi elettro-segugi, arrangiandoli intorno allo sche­ letro tenace di canzonette cosmo-folk polari ma ardenti. Ad­ dirittura prima dell’uscita dell’album, Bjork dà le sue canzo­ ni in pasto a una moltitudine di remixers scelti con cura. I ri­ tornelli definiscono il nostro territorio - ci ricorda Deleuze - ed essi continuano ad accompagnarci quando lo lasciamo per andare verso una destinazione sconosciuta. E quando ci sentiamo perduti canticchiamo quell’arietta... Il genio dei Kraftwerk è sicuramente un suono-impronta, ma anche un florilegio di ritornelli classicamente modernisti: Computer love il ritornello dell’amore digitale, Trans Europe Express, il viaggio moderno attraverso l’antico continente, The Model, l’ideale plastico che si fa il maschio del femminile ghiacciato, Radioactivity, il biberon nucleare, The Robots, inno all’uomo-macchina, ecc. Ritornello continuo! Aphex Twin ha can­ cellato le parole ingenue ma ha conservato le melodie che si suonano con due dita su un organetto Bontempi evidente­ mente per maltrattarle meglio nel suo antro digitale. Ma, alla fine del tunnel, i ritornelli escono vincitori di una giostra di beats e di suoni parassiti sapientemente orchestrati. I nipoti­ ni dei Kraftwerk non hanno mai dimenticato la forza del ri­ tornello che, nonostante le diverse aggressioni subite, non ha perduto niente del suo fascino. Smarrito nei paesaggi astrat­ ti, l’ascoltatore si aggrappa a queste poche note che sembra­ no fargli un cenno. Perduto negli ambienti senza centro e nelle destrutturazioni disincantanti e spesso disincantate, il ritornello resiste come per indicare e salvare le articolazioni territoriali sonore. Stephan Mathieu13, che ha pubblicato di­ versi cd con... Ritornell, la sotto-label di ricerca minimalista

13 Stephan Mathieu, FrequencyLib, CD Mille Plateaux/Ritornell 2001.

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di Mille Plateaux, isola elettronicamente e ri-organizza i se­ gni acustici per proporre una serie di mini-ritornelli che, ap­ pena introdotti, svaniscono. I pezzi di To Rococo Rot gira­ no incessantemente intorno a un agglomerato di bassi o di sintetizzatore sostenuti da tappeti ambient, e ci trascinano nella loro ricerca determinata, intrisa qua e là di malinconia che sarebbe il “difetto” ricorrente, il virus integrato ma for­ se anche il vero motore di queste cellule creative urbane e de­ sideranti (A-E 44)14. Autechre ha messo a punto una macchina da guerra (P 49) elettronica che integra il ritornello senza affetto, riven­ dicando una meccanizzazione15 sotto la quale si nasconde l’umano. I pezzi del duo britannico sono a immagine delle architetture liquide che appaiono spesso sulle copertine dei loro dischi, grafiche e concise. Ci fanno sentire la costruzio­ ne di territori, atti segnati da “indizi” che agiscono sugli am­ bienti e sui ritmi, territorializzandoli (MP 444). Dopo il cor­ po sonoro senza organi, si ricompone un altro meta-organi­ smo fluido, liquido, baconiano, fatto di onde, di livelli, di so­ glie, di tagli e di flussi sonori (FB 103)16.

14 “Nelle macchine desideranti tutto funziona contemporanea­ mente, ma negli iati e rotture, nei guasti e colpi a vuoto, nelle intermit­ tenze e corti circuiti, nelle distanze e frammentazioni, in una somma che non riunisce mai le sue parti in un tutto”. 15 Come indica chiaramente e allo stesso tempo ironicamente il ti­ tolo di una delle loro suite cd: Cichlisuite, mechanically reclaimed by Autechre, Warp 1997. 16 “Il corpo senza organi non si contrappone tanto ai singoli orga­ ni quanto a quell’organizzazione degli organi che va sotto il nome di organismo. È un corpo intenso, intensivo. È percorso da un’onda che traccia nel corpo livelli o soglie in base alle variazioni della propria am­ piezza. Il corpo non ha dunque organi, ma soglie o livelli”.

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Situ-sampling e guerriglia elettronica A proposito di Bach, Deleuze dice: “È la sua musica che è l’atto di resistenza, lotta attiva contro la ripartizione del sa­ cro e del profano. Quest’atto di resistenza nella musica cul­ mina in un grido” (AC 23). 266 Che cos’è questo grido oggi? Sembra perduto nel battito delle macchine asettiche, nello spazio troppo liscio delle articolazioni digitali. È forse l’incidente di cui Ovai ci dice che attraverso di lui l’umano si fa sentire nel e malgrado il pro­ gramma della macchina? È forse il click, uno ying nello yang, il cut? “Il click è onomatopeico e quindi trasportabile attra­ verso i linguaggi; è una metafora e allo stesso tempo una me­ tonimia, un’approssimazione presa da un suono che abita in qualcosa di più grande. Collegate i punti e che cosa ottenete? Un nuovo pointillisme^ una rete internazionale, un legame che si estende tra gli artisti tutti alla ricerca di diversi obbiet­ tivi, diverse intenzioni e diverse finalità. Il click è l’hub al centro di questi vari nodi (anche se è artificiale, il click come affetto). Il click stesso - come questo click di click - è un ac­ cidente, una collisione accidentale di stili e di intenzioni, il rumore attirato dal rumore e lo statico che cerca lo statico”17. Click come incidente-segmento, click come sintomo della macchina, click clinico plastico (Carsten Nicolaì/alva noto), click ritmico (Pan Sonic), click meta-dub (Frank Bretschneider/Komet), click reporter (Random Ine)... Il click è un "balbettio” che impedisce alla macchina di girare a vuoto e fare delle sue patologie una sintassi. Il “noise” sarebbe un altro tipo di grido, vicino alla fon­ dazione (il caos) e alla fine (il nulla, che è a sua volta una ma­ trice dalla quale può emergere un altro grido). Dopo il rumo-

17 Cfr. il testo di Philip Sherburne che appare nel libretto di Click'n cut 2, doppio cd Mille Plateaux 2001. 117

re bianco è definitivamente annientato il punto di non-ritorno per l’ascolto (e quindi anche la libertà di selezione). Il peak di un concerto di Merzbow non è più la sovrapposizio­ ne di strati abrasivi, di frequenze penetranti e di decibel sem­ pre più elevati, ma il silenzio salvifico. Bisognerebbe dunque lasciarsi spaccare l’udito per avere il diritto di sentire il vuo­ to! Il percorso di Merzbow e delle avanguardie rumoriste giocano su questo paradosso in tutta onestà, poiché l’ascol­ tatore sa cosa l’aspetta e lo richiede in maniera masochistica.

“Naturalmente” integrato nel processo di composizione musicale, oggi il “sampling” ha perso il suo effetto di sorpre­ sa iniziale; si dissolve in un tessuto sonoro in cui non è più possibile distinguere il contributo potenzialmente metamorfosabile di un originale che attinge dalla storia dei suoni (co­ me queste nuove tastiere che riproducono il suono dei vecchi sintetizzatori analogici, rendendoli però modificabili attra­ verso dei software). Resta comunque una meta-articolazione in cui c’è posto sia per un approccio cinematico che per una visione più scultorea, architettonica o materica. Può anche essere una forma di deviazione post-situazionista che, anche se la sua utilizzazione si è banalizzata in questi ultimi anni, si rivela, in alcune articolazioni volontariamente più esplicite (e paradossalmente ancora più “sfrontatamente ” irrispettose nei confronti dei diritti della fonte) uno strumento di lotta ancora efficace contro la società di controllo. Il sampling gio­ ca con il tempo, quello della “nascita” della fonte originale che reintroduce in un altro tempo, quello della composizio­ ne. Il sampling è un “ri-piego” della memoria, un’arte della memoria isolata e poi deterritorializzata, riterritorializzata e reinventata. “La tecnologia è insieme il luogo e la metafora della composizione. Il lavoro esiste sia all’interno dei dati che all’esterno, attraverso i riferimenti, intenzionali o accidentali, alle intenzioni e alle registrazioni originali. L’interazione del118

le tessiture, del carattere del suono, del timbro, come pure la loro storia, la loro vita interna, la loro modalità di creazione e il modo in cui sono legati al nostro condizionamento, crea­ no l’opera come una relazione, in continuo cambiamento, tra il creatore e l’ascoltatore”18. Il “sampling composer” è colui che organizza questi parametri in modo cinematico (si parla di “cinema per le orecchie”) e li trasforma, partendo dalla sua posizione di ascoltatore selettivo e dalla sua coscienza audio. “Per me” dice Thomas Kòner, “il sampling non è tanto lega­ to alla raccolta di elementi e all’elaborazione di un collage. Ha piuttosto a che vedere con il passare al setaccio [...] È un processo di presa di coscienza - come se il sampler ideale fos­ se uno stato d’animo, al di là dei bottoni ‘salva’ e ‘modifi­ ca’”19. E se, invece, per altri pirati elettronici, fosse la coscien­ za a utilizzare icone musicali-storiche per meglio denunciare il sistema che le ha diffuse? Difendendo il “fair use copy­ right”20, gli attivisti californiani di Negativeland nel 1991 hanno prodotto un cd singolo intitolato U2, in cui ci sono 3; secondi di I stili haven’t found what Pm looking for, e si so no trovati citati in tribunale dalla casa discografica del grup­ po Island (ID 291 )21. Il compositore-bricoleur canadese Bob Ostertag fa coabitare nei “Plunderphonics” dei corti fram­ menti della storia del pop rock (da Chuck, divenuto “Buck”, Berry a Jim Morrison, ribattezzato “Jim Moron”, passando per Dolly Parton o “Daily Proton”).

18 D. Shea, Passages, in Sons en mutations, a cura di P. Franck, J.P. Dessy, La Lettre Voice, Bruxelles 2003, p. 108. 19 T. Kòncr in Monter Sampler, l'échantillonnage géncralisé, Scratch/Centre Pompidou, Paris 2000, p. 57. 20 Diversi testi su questo tema sono consultabili sul sito http://www.negativcland.org 21 “In verità questo sistema in cui viviamo non può sopportare niente: da qui derivano la sua fragilità radicale in ogni punto e, allo stes­ sa tempo, la sua forza di repressione globale”.

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Tra queste due pratiche di ri-appropriazione sfrontata esiste, al di là delle differenze di finalità e ideologia, una cer­ ta messa in scena che privilegia la distanza nei confronti del pirataggio-collage per meglio denunciare l’industrializzazio­ ne della musica e dei suoi modi di produzione, di diffusione e di ricezione. Rivelando apertamente la sua vittima digitaliz­ zata, in questo caso il gruppo Van Halen (le cui interviste e prestazioni live sono le fonti principali del cd My love is rot­ teti to thè core), Tim Hecker confonde finemente le piste la­ sciando emergere le fonti originali appena riconoscibili attra­ verso le maglie delle estese campiture ambient. A partire da reportage impegnati a favore degli oppressi e delle minoranze alle quali dà la parola, il combo radio-perfo-politico Ultra-Rcd sonda lo spazio acustico urbano e ri­ vela le fratture socio-economiche dell’era della globalizza­ zione, prodotte dai suoi “aggiustamenti strutturali”22; le “immagini” pure poi rimaneggiate, si perdono in un alone elettronico come per raggiungere definitivamente l’oblio. Al­ tra singolarità della moltitudine di musico-nomadi che si è fatta notare per il discorso sulle loro performance e sulle lo­ ro registrazioni, Terre Thaemlitz ha lanciato la serie Queer_Media da Mille Plateaux. In uno di questi volumi, I NT ERSEI CES, Terre Thaemlitz si insinua tra le melodie dei generi popolari della cultura di massa. Questi “frames” □no altrettanti passaggi (MP 170)23 tra i “files” del ri-orgaizzatore, passaggi nei quali l’ascoltatore può fare contem-

22 Dal nome del cd realizzato da Ultra-Red, Strutturai Adjustments. Mille Plateaux 2000. 23 “Sotto le parole d’ordine vi sono parole lasciapassare. Parole che sarebbero come di passaggio, come componenti di passaggio, mentre le parole d’ordine segnano arresti, composizioni stratificate, organizzate. La stessa cosa, la stessa parola, ha probabilmente questa doppia natura: bisogna estrarre l’una dall’altra - trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio”.

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poraneamente esperienza dell’attesa e dello spostamento (di­ versi pezzi sono intitolati “tra l’azione e il lutto”). Si è spes­ so vicini a una forma di Muzak (Thaemlitz parla di “post musica”) frammentata, de- e ri-territorializzata - un territo­ rio urbano, funzionale che potrebbe essere fisicamente ovun­ que e in nessun luogo, ma che ciò nonostante si segna in un punto della nostra memoria in movimento. Nelle sue anno­ tazioni l’artista precisa: “La mia attrazione per il processo in­ terstiziale va di pari passo con la mia insoddisfazione e la mia diffidenza nei confronti di conclusioni che sarebbero più che dei semplici momenti di demarcazione; il miglior modo di trattare l’identità è considerarla come una strategia di trasfor­ mazione, più che come un punto di arrivo per delle verità es­ senziali”24. Allo stesso modo, per l’autore di Couture_Cosmétique (Caipirinha 1997) e di Second Nature (Mille Plateaux 1999), il trans-genere è una forma di “riappropriazione e di ricontestualizzazione culturale”25: il sampling come pra­ tica sonora trans-genere. E qui, nelle estensioni, negli inter­ stizi e nella libertà di riorganizzazione, si rivela la forza di re­ sistenza di questi pirati nomadi contro la “forma-Stato” del­ le musiche del controllo.

La voce dell'onda

Gilles Deleuze è sicuramente un pensiero e dei concet. ma è anche una parola e una voce singolare, una voce ricono­ scibile, una voce assediata dalla malattia e dal fumo, una vo­ ce dolce, tenera, toccante, ferita e pudica; un tono empatico, preciso che assume il dubbio al suo interno, in tutta sempli24 Cfr. le note del libretto del cd I NT ERST I CES, Mille Plateaux/Queer_Media_Series 2000. 25 Cfr. un’intervista pubblicata su: http://www.feedbackmonitor.com/indcx2.html?/othprint/thaemlitz.html

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cita; una parola che ha la forma di una domanda e che, appe­ na ricevuta una risposta, la trasforma in un’altra domanda; un “balbettio” produttivo di pensieri e di concetti. Questa voce del celebre Viandante alla ricerca della “fi­ losofia del mattino” scandisce la sua profezia, nel 1974, soli­ dale con l’Electronique Guerìlla (che io sappia la prima e ra­ ra volta in cui Deleuze, nel corso della sua vita - poiché la sua voce continua a parlarci dopo la sua ultima “fuga” in diversi dvd e cd -, si sia dato a questo tipo di esercizio musicale in collaborazione), condotta dal gruppo rock Post progressive Heldon, sopra un arabesco d’arpeggi implacabili. “Il vian­ dante” non ha perso la sua strana chiarezza né il suo psichedelismo temperato che non toglie nulla all’imperiale presen­ za di una voce perfettamente integrata nel canovaccio rock proto-new wave di questo pezzo da antologia26. Vent’anni dopo, Richard Pinhas, il musicista e chitarrista più deleuziano, pubblica Schizotrope (Sub Rosa) e col suo compagno scrittore e performer Maurice Dantec (che legge dei lunghi passi del maestro) produce La schizophère, le Ma­ chines de troisième espèce e il Meilleur des mondes possibles, nel quale l’autore delle Racines du mal (di cui un brano è sta­ to ripreso anche in questo album abitato da Deleuze e che re­ sta finora la collaborazione più riuscita del tandem francese) si cancella alla fine per lasciare il posto alla voce del profes­ sore che viene a consegnarci, accompagnato dalla chitarra frippertronic di Pinhas, un ultimo presentimento ispirato dalla sua lettura di Leibniz: “Che cos’è un rapporto e di che tipo sono i rapporti tra singolarità? [...] Se prendete un insie­ me di possibili, essi non sono necessariamente ‘compossibi­ li’: le relazione di compossibilità e d’incompossibilità sareb­ bero questo tipo di relazione tra singolarità”. Per Pinhas, “i

26 Risuscitato su cd dalla rivista «Actuel» in occasione della com­ pilation Underground, Nova Records 2001. 122

frippertronics sono immediatamente una produzione di tem­ pi, la co-presenza incompossibile di blocchi contratti di du­ rate eterogenee: fusione di metallo e della ripetizione e ordi­ ne strutturale fondato sul ritardo”27. Questa musica è un pu­ ro divenire sonoro, una “materia-movimento, continuità in movimento (Bergson), fusione modulare”28. La voce di Deleuze, fantasma vivente29, riappare all’ini­ zio degli album-omaggio di Sub Rosa e di Mille Plateaux (la­ bel oggi estinta). In Folds & Rhyzomes e Doublé articulation si fa fatica a percepirla distintamente, come se una radio rot­ ta avesse dei problemi a localizzare una lunghezza d’onda ve­ nuta da un altro mondo, in cui egli “abita la cavità dell’onda” per l’eternità. In Memoriam Gilles Deleuze si apre con queste parole: “Cominciare con il principio primo è in qualche modo un metodo che si ispira al modello dell’albero: si cerca prima di tutto la radice. Ma c’è un altro metodo o un altro modello, quello dell’erba. L’erba cresce nel mezzo”. Nel mezzo ci ri­ torniamo appena l’abbiamo passato, per potercene allontana­ re di nuovo, sembra dirci il nostro malizioso viandante del tempo, citato, nello stesso cd, da Wehowky e Wollscheid, prima che la sua parola riparta per incantare la stratosfera. Recentemente il rocker-filosofo francese Rodolphe Burger e la sua comparsa scrittore-performer Olivier Cadiot hanno “invitato” il “pensatore surfista” su un’amena spiag­ gia del loro Hotel Robinson (CD Dernière Bande, 2002). Nel pezzo Je nage ci parla di questa “strana felicità” del subac-

27 R. Pinhas, Les larmes de Nietzsche (Deleuze et la musique), Flammarion, Paris 2001, p. 158. 28 Ivi. 29 Si tratta di brani ripresi da L'abécédaire de Gilles Deleuze* a cu­ ra di Pierre-Andrc Boutang e Claire Parnet, documentario girato quan­ do il filosofo era ancora in vita, ma diffuso, per sua volontà, dopo la sua morte (Arte Video, 1997; trad. it. DerivcApprodi, Roma 2005).

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queo innamorato che fa corpo con l’onda prima che essa lo trascini. Questa onda è anche una voce necessariamente moltepliceche continua a trascinarci, come gli esploratori (re)mixer degli ambienti senza fine. Bruxelles, estate 2005 Traduzione di Emanuele Quinz

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Achim Szepanski

Musica elettronica, mass-media e Deleuze

Quando leggiamo Deleuze, ci imbattiamo in frasi del ti­ po: “Rendere udibile il non-udibile... Il suono appare nella sua forma pura... Nel suono conta solo l’intensità, che in ge­ nere è monotona e sempre a-significante... Udiamo ecceità, singolarità, intensità, forze e affetti”. E Deleuze non parla solo del tempo, giacché tutta la musica è arte del tempo, ma anche di spazi sonori. Quando il veloce si combina con il len­ to non solo il tempo si sfalda - subordinando quindi a sé il movimento - ma anche gli spazi diventano porosi e attraver­ sati da vortici. Ma che tipo di spazi sono e qual è il loro status nella fi­ losofia di Deleuze? Ci sono lo spazio liscio e lo spazio stria­ to. Entrambi gli spazi rimandano a una sfera trascendentah intesa come piano d’immanenza infinito, ma anche a ur mondo empirico finito. Nello spazio liscio gli eventi, gli eventi sonori e i sounds sono sparsi secondo una distribuzio­ ne nomadica. Tutti gli eventi possibili si distribuiscono sul piano di immanenza, che è condizione di ogni arte. Un po’ come in un deserto, dove non si organizzano centri o niente è organizzato intorno a un centro, quando pensiamo il nomos, pensiamo una distribuzione nomadica. In tal caso si tratta di uno spazio non omogeneo che si sposta variando di continuo. Anche i tracks elettronici si organizzano come deserti so­ nori, sui quali si distribuiscono virtualità e molteplicità.

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“C’è una topologia straordinariamente sottile, che non poggia su punti od oggetti, ma su ecceità, su insiemi di rela­ zioni (venti, ondulazioni della neve o della sabbia, canto del­ la sabbia o scricchiolio del ghiaccio, qualità tattili di entram­ bi); è uno spazio tattile o, piuttosto, ‘prensivo’, è uno spazio, molto più che visivo...” (MP 531), scrivono Deleuze e Guat­ tari. Allo spazio liscio corrisponde un tempo liscio, dove le distribuzioni variano o sono collegate ad avvenimenti casua­ li e la numerabilità passa in secondo piano. Basta pensare ai “Soundscapes” di Thomas Kòner, che sembrano trovar riscontro nell’effetto di rallentamento e as­ senza di movimento delle sue immagini e installazioni. Ma le immagini non sono illustrate dalla musica, né la musica dalle immagini. L’archivio audio-visivo di Kòner è disgiuntivo: ciò che si vede non coincide con ciò che si ascolta ed è inutile ri­ cercare nelle immagini quello che si ascolta. L’intreccio di suono e immagine è piuttosto insolito. I mondi sonori e i soundscapes (paesaggi sonori) di Kòrner ci diventano più ac­ cessibili attraverso le descrizioni di spazi lisci non omogenei, lo spazio serve come metafora del musicale. Di nuovo pen­ siamo a deserti di ghiaccio o di neve, che Kòner ci mostra an­ che nelle sue immagini, ma in genere si tratta di immagini fis­ se, o che si trasformano così lentamente, che i passaggi sfu­ mano, ma la musica percorre ugualmente una velocità mole­ colare. Un ronzio continuo di particelle sonore. Al posto di melodie o narrazioni udiamo il farsi dei suoni (inventari di sequenze di gong: gong in acqua, distesi, sospesi, ecc.). Le composizioni distribuiscono componenti di colore sonoro, formando un flusso denso e i drones di Kòner sono costitui­ ti da masse vibranti di suono, che si muovono variando la ve­ locità. Tutto tende alla durata e alla ridondanza. Viceversa il tempo sembra essere utilizzato come metafo­ ra del visibile. Nelle immagini di Kòner il movimento è sub­ ordinato al tempo: le immagini sono immagini del tempo. Partiamo ancora da una sfera trascendentale intesa come 126

piano d’immanenza, quindi da un mondo empirico, sebbene entrambi siano simultaneamente intrecciati. Ma come si può intendere la concettualizzazione della musica come un’unio­ ne inestricabile di entrambi? Deleuze mette continuamente in gioco delle concettua­ lizzazioni, bisogna produrre facendo opposizione. I concet­ ti non cadono dal cielo. Devono essere strappati al mondo. Presuppongono determinate facoltà, le sensazioni è il pen­ siero. Nel sensibile avvertiamo qualcosa, grazie al quale ciò che è dato ci è dato. L’essere del sensibile implica già in un certo senso anche il non-sensibile. Nell’estetica di Deleuze e Guattari le sensazioni devono essere trasformate in affetti e percetti in quanto sono percepite e attraversano le tecnolo­ gie dell’arte, finché non si esprimono in qualcosa che nessu­ no, nemmeno l’artista, sa prefigurare. Si è in sospeso tra il sensibile e il pensiero, che come il sensibile è sempre messo a confronto con il proprio esterno, ciò che è impensabile e indicibile. Con il proprio extraterritorio interno. È il corpo che ci costringe a pensare e i suoi impulsi sono ignoti al pen­ siero. Uno non sa mai quando è costretto a pensare. Uno non sa mai quando è costretto ad esprimere le proprie sensa­ zioni. Quando Deleuze parla dell’idea del virtuale, lo fa prc supponendo innanzitutto una realtà, che è il reale del diven re produttivo e si attualizza in un determinato tempo, in un determinato spazio e in un determinato ambiente. Nondime­ no il virtuale non include tutto il possibile, ma ciò che è pos­ sibile, è stato possibile o semplicemente sarà possibile in un determinato tempo e in un determinato luogo. Il virtuale, in quanto evento incorporeo deve attualizzarsi, come una data possibilità, che però, quando si attualizza, non esclude altre possibilità. Ma nel virtuale permangono latenti fattori incor­ porei, ai quali non spetta alcuna attualità. Il virtuale è anche una riserva che non può mai essere esaurita. Possiede persi­ no il potere di pensare gli eventi in modo sempre diverso, di

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interpretarli in modo sempre nuovo, cambiando così il corso delle cose. Il trascendentale stabilisce le condizioni, nelle quali qual­ cosa è possibile. Non è nient’altro che la sfera infinita del vir­ tuale, che moltiplica le potenze? È da qui che scaturisce l’e­ vento? Ma Deleuze parla anche di un evento sterile, che non coincide con la sfera generativa virtuale del divenire, come di una “quasi causa”. Questo è subordinato a fatti empirici e sembra scaturire invece dalle attualizzazioni. Presupponia­ mo una simultaneità di condizioni: piano di immanenza e at­ tualizzazioni. Tradotto nel linguaggio della musica: il suono è forse qualcosa che può essere desunto soltanto da tante idee diver­ genti? Da queste idee, come macchinisti musicali strappiamo qualcosa che si attualizza in un determinato tempo e in un determinato luogo. I tracks elettronici funzionano quando una struttura aperta si sviluppa da un caos di suoni e ritmi, un caos che non è indifferenziato. Il virtuale contiene una ri­ serva di elementi e fattori musicali attualizzabili e promette un potenziale di forze non udibili. Viceversa il virtuale può emergere dall’attuale. E bisogna catturare le sensazioni se si vuole esprimere qualcosa. Toni e sounds, che io programmo, rimandano sempre già id altri elementi e fattori, a beats e clicks ad esempio, e offro­ no possibilità di inventare forze dell’udibile che valicano il proprio dissolversi nel tempo e sono in rapporto con le for­ ze di un non-udibile. È il virtuale quindi a scaturire dalle at­ tualizzazioni musicali più che il contrario. In quanto elettro­ nici siamo costretti a programmare il ritornello sonoro in modo che in esso si liberino delle possibilità che potenziano l’attuale, rendendolo capace di connettersi con dell’altro at­ tuale che non deve necessariamente realizzarsi, ma che, in quanto virtuale, possiede una propria realtà. Il track contiene componenti attuali e virtuali insieme.

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Nell’evento musicale virtuale e attuale si scagliano l’uno sul­ l’altro. È la sua capacità di connettersi che può realizzarsi al­ l’interno del track e in rapporto ad altri tracks, producendo il transistorio dei clicks e dei cuts. Sviluppandosi nel tempo, ruota intorno alle due componenti, saldando nel diapason dell’esecuzione lo strappo tra attuale e virtuale. E diventan­ do corpo sonoro. Quando udiamo un track, udiamo nello stesso spazio e nello stesso tempo anche altro. Le forze indi­ cate da Deleuze: durata, sensazione, leggerezza, pesantezza, a seconda di come variano tempi, ritmi beati e sounds. Dob­ biamo saper reggere tali forze, percepirle o piegarle. Tutti i passaggi sono fluidi e tutto è presente per intero. Ogni track contiene un potenziale di modulazione e trasformazione di sounds, beati, pulses e clicks. Ciò rimanda alla sua temporali­ tà virtuale. Non udiamo il virtuale in quanto tale, ma lo in­ tuiamo nelle variazioni, nel tempo e negli spazi. Sono addi­ rittura temporalità e spazialità diverse che nel track si so­ vrappongono e coesistono. Il tempo del beat non deve esse­ re quello della bassiine, gli stringi possono contrapporsi alla spinta del beat, il beat stesso può incepparsi. I mezzi, il materiale musicale, con il quale nel track elet­ tronico vengono costruite le singolarità, sono: i drones, par­ ticelle piatte, i pulses, i glitchs, i clicks, i timbres e molto altro ancora... Più in generale lo si può forse definire condensazio­ ne di materiale audio. I drones non sono toni discreti ma piuttosto sciami molecolari di chicchi vibranti. I pulses pos­ sono battere in modo uniforme ma possono anche essere ac­ centuati e sovrapposti in modo differenziato, scindendosi in poliritmi complessi, mentre i sounds si caratterizzano per una politica del colore sonoro più che per la combinazione di altezza del suono e tempo. Perché da tutti i possibili eventi musicali, che si distribui­ scono su un piano, possa concretizzarsi un determinato evento musicale, l’impiego dei mezzi e del materiale non può essere casuale. Gli elementi musicali, le basslines devono en-

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trare in rapporto con i drums, i sounds che diversificano con i loro colori sonori. Da questa molteplicità di rapporti co­ minciano a emergere delle particolarità specifiche che posso­ no comporre un track. Si ascolta l’alternarsi di queste parti­ colarità, ma niente di definito, piuttosto un evento, che per­ cepiamo chiaramente quando ci sorprende. Quando udiamo una sinergia riuscita di elementi musicali, con le loro relazio­ ni e le forze che sprigionano, possiamo dire: non udiamo un generico evento musicale, ma questo qui, questo track. Le forze che ci vuole trasmettere, quasi ci travolgono. Questa è la parte dell’evento che si è attualizzata. L’ecceità è un evento che si individualizza e al quale corrisponde un sentire intensivo che, come l’evento, si trasforma continuamente nel tempo. La musica getta di continuo l’evento fuori da sé. Quan­ do, come, in quali circostanze? in una giungla di domande, andiamo alla ricerca di un evento che non ha niente a che fa­ re con un oggetto e non rimanda a nessuna referenza. Al massimo si potrebbe dire: genera performatività. Cambia il mondo e pone la questione: Come procedere? A sua volta poi l’attualizzazione solleva la questione del virtuale. Nella musica elettronica produciamo capacità di collega­ mento mediante il sampling. “A differenza della citazione, che deve trasporre il pro­ prio ambito significativo, il sampling è una tecnica di inter­ vento e rielaborazione del materiale mediatico. Contesti ma­ teriali, contesti di senso e significati, appunto, non devono essere riprodotti, bensì trasformati o ignorati. Il suo princi­ pio tecnico-metodologico non è altro che l’intervento diret­ to sul segnale dei mezzi di trasmissione, una terza via di tra­ sformazione accanto a emittente e ricevente, che libera il se­ gnale contenuto nel canale tecnico, oppure lo clona, renden­ dolo accessibile a un ulteriore arrangiamento. Il sampling co­ me procedimento artistico-produttivo si insinua nella tra­ smissione finalizzata dalla fonte al destinatario, com’è esem-

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plificata nel modello di Shannon. Invece di un processo illu­ strativo il più preciso possibile dell’mpwt suWoutput esso av­ via un processo produttivo con l’aiuto di un segnale sottrat­ to al proprio ambito funzionale e contestuale”. Così scrive il teorico dei media Rolf Grossmann. Il materiale musicale dal quale traiamo i samples è già sempre costituito da parts o artefatti di un pool mediatico, non importa se registrati su supporti analogici o digitali. Il sampling implica la trasformazione meccanica programmata del materiale musicale mediante features specifici, come il transposing, il timestretching o anche il cut-copy-paste, per l’appunto tecniche dei supporti analogici, simulati digital­ mente. Esso comporta un’estetica generativa, in cui è decisivo l’aspetto trasformazionale del processing meccanico, vale a dire la progettazione di nuovi eventi sonori mediante il sam­ pling, che va ben oltre le tecniche di collage, cut-up o recy cling. Nel processing digitale è possibile il sampling non sol dei takes musicali ma anche dello stesso software, dal mo mento che il supporto non distingue tra dati programmatici e dati che rappresentano oggetti. La programmazione, la co­ struzione di un flusso di materiale musicale, entra struttural­ mente nel sound design digitale. A sua volta il codice digitale è privo di qualsiasi materia­ lità, ma non è solo calcolo e indicizzazione. I bits sono dati due volte. Sono divisori non-materiali. Il codice digitale è un codice binario che rende intercambiabili tutti i segni, i toni, i testi, le immagini, i valori e persino il software. Anche il de­ naro è ormai codificato in modo binario. I bits assumono la funzione del denaro per tutti i sistemi di segni. Il codice bina­ rio si basa su una pura differenza, producendo con gli algorit­ mi contesti immateriali e rendendo possibile l’interscambiabilità di tutti i segni e dei loro significati. Nella musica non esiste un suono digitale in sé. Un file mp3 o un file wav sono dati, non suoni. La configurazione fisica che assume il proces-

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sing digitale è il risultato della codificazione e decodificazio­ ne dei dati digitali. Ciò che percepiamo sono suoni, ritmi, co­ lori sonori che incarnano i dati e le informazioni digitali. Già l’analisi interna del computer, l’importanza che riveste il suo incarnare il codice binario, rimanda alla discrepanza tra il processore e la programmazione simbolica. Il computer come supporto scompare fino a perdersi nelle sue interfacce, nelle sue configurazioni e superfici programmabili. Oltre a ciò ci interessa capire in che modo gli automati­ smi del computer liberano la percezione e il pensiero. Non liberano tanto il pensiero, come si ritiene generalmente, ma l’esterno del pensiero, il non-pensato. Questo esterno è, se­ condo Nietzsche, il corpo come campo di forze, il corpo nel­ la sua dimensione di evento. Un campo che permette di spe­ rimentare, e ogni accelerazione del tempo mediante le mac­ chine digitali è un varco per il tempo dell’esperimento. E di fronte al computer favoriamo con Deleuze il cervello, un’in­ terfaccia mobile che continuamente traduce una velocità in jn’altra. Viceversa il sistema Pile di Elul mostra dove da parre della scienza del computer porta il viaggio: dalla macchina di Turing al rizoma. Che lo vogliamo o no: noi tutti siamo pieni di protesi ar­ tificiali e in quanto cibernetici siamo collegati come corpi musicali viventi alla rete audio e ipertestuale. La percezione e le macchine digitali hanno una cosa in comune: sono forme dell’accelerazione e quanto più le macchine lavorano veloce­ mente, tanto meglio possiamo intervenire sul tempo e inven­ tare di più. Nella musica è impossibile separare i collegamenti nuovi e ininterrotti da scissioni e fratture imprevedibili. Ciò che tiene insieme i tracks nella musica elettronica sono le connes­ sioni e una specie di magnetismo, con il quale essi si attrag­ gono, ma anche il sampling, la decontestualizzazione, cut e loop insieme. Nel campo di tensione permanente che produ-

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ce la musica i cuts sono continuamente rinsaldati, il loop non deve ripetere sempre la stessa cosa, ma ripete, quando è ri­ uscito come track, la variazione. Mettiamo insieme il sound design digitale e Nietzsche. Non è l’uguale a ripetersi, ma il ritorno è l’uguale, il ri­ torno è l’identico, ma l’identico non ritorna come tutto, per­ ché nel ritorno è sottoposto ad un processo di trasformazio­ ne, selezione e differenziazione insieme, e soltanto il diffe­ rente e l’affermativo si ripetono. Così i clicks non incollano sempre solo gli stessi cuts l’uno all’altro, essi rendono possi­ bile proprio la diversità dei cuts, agendo in modo performa­ tivo. Inoltre persino un click breve e preciso è già abbastan­ za lungo da funzionare nell’intreccio ritmico con altro mate­ riale, non solo con i cuts, che possono essere formati da toni, sounds e drones, ma anche in ulteriori clicks, che possono tra­ sformarsi in pulses o colpi. Un click non è ritmico, certamen­ te ha bisogno di qualche clicks e del collegamento con altri elementi, perché tra loro possa nascere un rapporto ritmico. Una musica del reale che Deleuze ha collegato allo scarto vir­ tuale/attuale. Il virtuale è sempre reale, senza essere attuale. Ma torna sempre ad attualizzarsi. Tutto si ripete come in una musica circolare. Sempre nuova. Traduzione di Anna Pensa

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TU

Guy-Marc Hinant

Dieci concatenamenti come potenza perforante Lampadina nera

Nell’anno di disgrazia 1984, stavo andando a una lettura di William Burroughs al Melkweg di Amsterdam, nella mac­ china scassata di un amico dell’epoca, tutt’attorno un tra­ monto rosso sangue. Le mie mani, le mie braccia portavano diverse striature, i graffi di un gatto. Avevo l’impressione confusa che stessimo andando verso l’inferno. Ci furono de­ gli incidenti all’ingresso e, davanti a noi, i corpi spintonati mandarono un vetro in frantumi. L’indomani, all’alba, ci ag­ giravamo ancora nei quartieri malfamati, red-lights districts a quanto pareva, facendoci abbordare decine di volte da tipi che proponevano soprattutto a noi una qualche sostanza bianca. Io rigiravo nelle mie tasche il libretto Rhizome. Do­ po qualche bicchiere, sul Dam, mi ricordo chiaramente di aver notato davanti a me un hippy di una certa età. Perché proprio lui, non lo so, ma mi fece capire immediatamente che cos’era una DT (deterritorializzazione). Capii che quell’uo­ mo era stato un giovane bello e ribelle, sfuggito, negli anni di foga, a una casa borghese, alla legge dei genitori e alle speran­ ze che avevano riposto in lui. Aveva fatto una terribile deter­ ritorializzazione, aveva deciso di andarsene davvero e si era ritrovato in una nuova città, davanti ad una serie di possibi­ lità sconosciute, di progetti straordinari di squat e di droga. Ma la sua nuova territorializzazione si era esaurita presto e, 135

J

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ormai incapace di compiere un’altra riconversione, mentre passavano gli anni, la droga, il vuoto, si era ritrovato in un delirante desiderio di tornare indietro in un tempo perduto per sempre, mendicando, con una sibilla davanti a sé in cui anneriva qualche raro fiorino. Impietrito per sempre nella sua ripetizione. Un passaggio tortuoso, il nostro avanzare tormentato e nessuno per uscirne vivi.

Una lampadina nera? Per che tipo di luce? È un rimedio? Una metafora? Acqua stagnante? Non ce n’è traccia da nes­ suna parte nel nostro dizionario. Le cose sono un sogno, poi non funziona più, proprio non funziona più - ed è la morte.

Un dominio di segni

Un sacco di gente influenza il pensiero, il desiderio e l’a­ zione... si dà semplicemente il caso che il pensiero di Gilles Deleuze abbia funzionato su di me, si dà il caso che io abbia utilizzato nel mio lavoro di produzione di segni, alcuni con­ cetti sviluppati soprattutto in Mille Plateaux. Ecco lo stru­ mento.

Deleuze non insegna come fare un rizoma (questi non sono che dei cliché), ma ci fa scoprire le strutture profonde della resistenza. Il suo pensiero ci spinge con ogni mezzo al­ l’azione - all’azione minoritaria e ai divenire di resistenza. Tutto questo è molto concreto e il fatto che ci ritroviamo do­ po tanti anni in una struttura non-arborescente, è solo la conseguenza di questa presa di coscienza... Abbiamo dovu­ to metterci all’avanguardia del suo sapere, (quindi della sua ignoranza) e parlare da lì, produrre, costruire, fabbricare, in­ 136

stallarci al suo interno in questa sorta di equilibrio, per poter dire qualcosa, per fare emergere una voce. Niente commemorazioni, non c’interessano. Comme­ morare è voler riprodurre l’identico. È necessario lasciarsi al­ le spalle tutto questo. Ora dobbiamo parlare con la nostra voce e non con la sua. Va bene tutto, ma non il calco - mi sembra chiaro che ora sta a noi costruire le impalcature, le li­ nee, i ritornelli siamo noi. Stabilire nuove codificazioni è una necessità. Altrimenti, attenzione ai fac-simile, agli stereotipi, alle parole che a poco a poco si svuotano del loro senso. I concetti devono essere afferrati e utilizzati. Ripeterli rende più pesante la posta in gioco, e già da qualche anno si assiste a una sorta di deriva. Reperire i termini ricorrenti e sostituir­ li. Questo è il nostro compito di architetti-articolatori. Se no, se no...

Una piccola grammatica

E così siamo gettati nella realtà del mondo - legati alla grande solitudine popolosa del lavoro e delle alleanze. Come si incontrano una frase, uno stile, una lingua? un concetto? un uomo? Ogni volta deve pur essere differente. Deleuze è venuto spesso a ossessionarmi. Ogni volta era la promessa di una fertilità che non osavo sperare. La sua scrittura-pensiero è stata un’ancora, è per mezzo suo che ci mettemmo, mode­ stamente o no, a costruire. È troppo dire probabilmente. È quindi e prima di tutto un incontro, un’intensità. Detto en passanty ci è vietato dire deleuziano, sarebbe un pesante controsenso. Abbiamo attinto quanto era possibile ed effettivamente quest’altra comprensione parve ridare in­ canto alla realtà, questo fu il risultato zigzagante di un process filosofico fino ad allora inedito. Si può dire che quando

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ci fu offerta una tale decifrazione, fummo penetrati da una materia da decodificare all’infinito. Ci furono delle rotture, dei flussi tesi o interrotti, ma anche dei salti, delle cavità e de­ gli spazi vuoti. In altre parole, traemmo profitto da ciò che eravamo riusciti a decriptare, cioè rendere questa realtà più intensa - essere al mondo più profondamente. Non dire più che la vera vita è altrove, che la vita non è vita. E nemmeno quei calchi spessi che generano solo delle ripetizioni; o quei sistemi chiusi, preclusi, che oggi ci invadono, anche qui, at­ traverso mille divagazioni minoritarie. Il piombo è bollente. Cerchiamo di resistere a oltranza. A volte, il mondo si vede in una luce nera. Ricordi persistenti del passato, decifrazioni terribilmente pungenti, ricche e molteplici: Sephiroth della cabala, alte sfere del pensiero buddista Mahayàna e Vajrayàna. Concetti filosofici, decifrazioni della realtà fenomenica. Siamo all’apice del piacere dell’istante in cui parliamo/scriviamo o nella prospettiva di un’azione (più precisamente nel­ l’energia che genera questa azione). Ed ecco che incontriamo la potenza.

Legami: tessiture, apprendistato e costruzione All’inizio degli anni ’80, quando ero all’università, ho passato un anno a studiare La filosofia del diritto di Hegel. Leggere Gilles Deleuze era come una bomba. Rispetto all’ac­ cademismo filosofico dominante, leggere Mille Plateaux ave­ va qualcosa di inaudito, di non serio. Qualche anno più tar­ di, nello stesso posto o quasi, Isabelle Stengers si dichiarò apertamente deleuziana. Si stabilirono connessioni con la scienza e la politica. Ma io me ne ero andato già da un bel po’. Dirsi deleuziano mi è sempre sembrato problematico, è sicu­ ramente una facilitazione, una scorciatoia, forse un omaggio, non saprei. Io, che non sono né filosofo né pensatore, cosa posso dire? Non sono dell’ambiente. Per quanto mi riguar-

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da, non lo direi. Che candore, che spaventoso disprezzo! Ognuno pensi quello che vuole. Michel Foucault ha detto: “Il secolo sarà deleuziano”. Ma è un’altra cosa: si torna alla decifrazione strutturale. Una cosa può essere deleuziana, non una persona. Il nuovo archivista era arrivato in città ed era anche un cartografo e camminarono l’uno a fianco del­ l’altro fino alla morte. Sfinimento molteplice, senza mai far­ si accaparrare dalla rinuncia.

Poco dopo i miei anni di vagabondaggio, incontrai Gilles Deleuze a casa sua, rue de Bizerte. Probabilmente per un crudele controsenso, mi aprì la porta ed io gli proposi di scat­ tare qualche polaroid per una mostra collettiva (avevo fatto lo stesso con Lyotard che non abitava lontano). Poca cosa, certo, ma era l’unica scusa che mi era venuta in mente. Del resto, tutti mi accolsero con tale gentilezza, che ancora non riesco a crederci. Forse aveva a che fare con la mia innocen­ za di allora. Poco dopo ebbi l’idea di creare con Frédéric Walheer una casa di produzione capace di proporre un nuo vo tipo di circolazione, aperta a qualunque genere minorita­ rio. Nome: Sub Rosa - espressione latina caduta in disuso, che significava “tra noi, tra amici, in confidenza”... Ed ecco che avevamo la nostra macchina, eravamo al nostro posto di combattimento. Nei primi mesi del fatidico 1995 pensai che, dopo diver­ si anni di lavoro e di riflessione, fosse giunto il momento di ritornare da lui con un pretesto un po’ più serio. La sua ri­ sposta alla mia prima, timida lettera, era stata molto incorag­ giante e insistetti. Gli inviai diversi pacchi di dischi, sui qua­ li mi dava il suo giudizio. La tacita idea era quella di realiz­ zare una o più registrazioni che portassero il suo marchio. Non sapevo ancora come. Mi misi allora alla ricerca soprat­ tutto di giovani musicisti, usciti dalla nuova tendenza elet­ tronica del momento - Markus Popp/Oval, Mouse on Mars,

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in Germania, Robin Rimbaud/Scanner, Robert Hampton /Main, a Londra, David Shea, a New York, Tobias Hazan tra Bruxelles e Tel Aviv... la maggior parte di loro conoscevano, più o meno, il lavoro di Deleuze-Guattari e decisi di lancia­ re un primo progetto, un insieme aperto di pure connessio­ ni, che prenderà forma e senso attraverso quella piccola scul­ tura quantica che si chiama cd.

Qualche anno prima, Achim Szepanski aveva fondato Mille Plateaux a Francoforte e produceva musica elettronica e alcuni testi teorici che avevano a che fare con la filosofia di Deleuze-Guattari (fino a quel momento in Germania se ne conoscevano piuttosto gli aspetti più strettamente politici). Era chiaro che una nuova attività stava emergendo intorno a Deleuze, una vera e propria messa in pratica dei suoi concetti.

È giusto, però, ripetere che il primo ad avvicinare Gilles Deleuze a un’avventura musicale era stato Richard Pinhas (e questo già nel 1974, in un album degli Heldon, in cui Deleu­ ze recita splendidamente II viandante di Nietzsche). La nostra prima produzione, quindi, numero di riferinento sr99, fu registrata tra agosto e ottobre. Alla fine del mese di ottobre avevamo terminato il master ed eravamo in fabbricazione. Il 5 novembre appresi la morte di Deleuze. Il cd uscì qualche settimana dopo. (ref. link musicale: http://www.subrosa.net/deleuze ). Strumento #7: pieghe e rizomi per Gilles Deleuze “Non Tare il punto’: piuttosto tracciare delle linee. Le li­ nee non hanno origine, crescono dal mezzo. Non si fa mai tabula rasa, si è sempre nel mezzo di qualcosa, come l’erba. Più si prende il mondo là dov’è, più si ha la possibilità di cambiarlo...”. GD/FG

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Mille Piani: strumenti, segni e ritornelli... “Abbiamo scritto l’Anti-Edipo in due. Poiché ciascuno di noi era parecchi, si trattava già di molta gente”: è sulla ba­ se di questa frase, la prima di Mille Plateaxx, che abbiamo concepito Sub Rosa. Fin dall’inizio volevamo essere più di un’etichetta discografica; una macchina forse, fatta di rizomi, di picchi e avvallamenti, di tranquillità e di dubbio, di illumi­ nazione (perché no?), e forse di esasperazione e di dubbio. Così vanno le cose. Il miracolo di un’epifania. Sotto la rosa, la parola intima dell’amicizia. Una cosa bella che cresce, cam­ bia, se ne va altrove e poi ritorna in un’altra forma. La muta che si separa e che si riforma nell’oscurità di una foresta, l’a­ ridità di un deserto.

Con questo abbiamo fatto altro. Con il testo abbiamo fatto dei suoni. Il suono è andato non si sa dove (forse un giorno le cose torneranno da noi in altre forme). Respirare a fondo. Ripartire. Bisogna inserirsi nella vita, perché siamo vivi e il mondo continua. È evidente che questo non è affatto un omaggio ufficiale a uno dei grandi pensatori del nostro tempo, ma semplicemente un saluto fraterno da parte di alcuni giovani che l’am­ mirano profondamente e che in passato sono stati aiutati dai suoi scritti nella loro creazione e nella loro vita.

Gilles Deleuze, lei ci ha dato tali incoraggiamenti e tali prove di amicizia che questo è davvero il minimo segno che possiamo offrirle. Bruxelles, settembre 1995.

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Strumenti #2: doppia articolazione: un altro piano

“I surfisti dicono... ma noi siamo completamente d’ac­ cordo! Perché: noi che cosa facciamo? Non facciamo che in­ sinuarci tra le pieghe dell’onda. Per noi la natura è un insie­ me di pieghe mobili, e noi ci insinuiamo nella piega dell’on­ da... abitare la piega dell’onda... è questo il nostro compito”. (L’Abécédaire de Gilles Deleuze) Dopo aver concepito Plis et rhizomes, al momento del primo ascolto, ci è venuta l’idea di ri-creare un altro piano un’altra piccola scultura quantica ricoperta di testi — tracciare delle linee di fuga per rimodellare altrove e altrimenti il ma­ teriale che avevamo davanti. Abbiamo chiesto ai partecipanti di remixarsi a vicenda. Ciò che ne emerse era ancora più ap­ passionante di quanto avessimo immaginato. Ovai che si auto-remixa, Mouse on Mars che remixa l’insieme dei pezzi... il remix è appassionante in sé nel perché offre una nuova visio­ ne — mai definitiva — di ciò che è, uno spazio nuovo in cui due stili si incrociano, e invece di annullarsi l’un l’altro, si rinfor­ zano per creare, nel migliore dei casi, un’altra cosa. A un certo momento dovevamo pur ricostruire qualcosa. Noi diciamo: leggete Deleuze, i suoi libri, Mille Plateaux... sono fra gli strumenti più straordinari che conosciamo. Non era un omaggio, ma un’altra cosa: rischiare di divenire-inten ­ si. E adesso, se dei gruppi ritornano dicendo: attenzione sia­ mo deleuziani... bisognerà veramente dirgli di andare a deterritorializzarsi altrove! Ancora pensiamo che vivere nella sua memoria, facendone una scuola, sia una catastrofe da evi­ tare a ogni costo. E chi agirà - in questo o in quell’ambito utilizzando i suoi concetti come strumenti, gli sarà sempre più vicino di un accademico che si auto-proclami deleuziano. Il resto segue. Bruxelles, novembre 1996

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Strumenti #3; suoni, film - portate questo nel mondo... Dal tono spesso polemico di questi testi mi rendo conto che all’epoca volevo soprattutto premunirmi contro qualsia­ si desiderio di pensare. Eravamo nell’azione. Parlo sempre solo di strumenti, di leve. Questi due dischi usciti a un anno di intervallo (rispettivamente sr99 e srl 10) furono accompa­ gnati da una serie di concerti che ci portarono a Londra, Pa­ rigi, New York, Bologna, Bruxelles. Robin Rimbaud chia­ mava il gruppo la Deleuze Unit. Molte connessioni tra i mu­ sicisti si stabilirono proprio allora. Durante i concerti, veni­ vano proiettati dei frammenti di film (alcuni dei miei, soprat­ tutto 27 plantes e Derek Jarman’s Garden, altri anonimi). Tutto questo accadde nello spazio di qualche mese. I tre pri­ mi avvenimenti furono registrati e uscirono praticamente su­ bito, con il codice q-051‘. Shea - Rimbaud - Hampson > London Live Sessions (custodia blu), q-102 Scanner - Shea Main > Paris Live Sessions (custodia rossa) e q-153 Hazan Shea - Nùs - Scanner > New York Soundscape (custodia arancione). In occasione del concerto parigino, nell’aprile 1996, Ste­ phen Jouannon di Purple Fiction mi fece una serie di do­ mande:

- “Fin da principio abbiamo voluto essere qualcosa di più di una semplice label, una macchina forse... ”. Oggi come de­ finisci Sub Rosa? Che cosa vuoi dire evocando Deleuze? - Una label generalmente trova la sua specificità musica­ le e tenta d’imporre alcuni gruppi che ne costituiscono il nu­ cleo. Il nostro modo di funzionare è diverso. Noi cerchiamo piuttosto di determinare uno stato d’animo, qualcosa che le­ ghi le persone.

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- C'è una considerevole diversità di stili e di culture nei dischi che distribuisci Quali sono i tuoi criteri di selezione? - È un dispositivo molto aperto. Facciamo esattamente quello che ci sembra giusto fare. Qualche volta facciamo il contrario di quello che ci si aspetta da noi, lo so, ma penso che sia facile etichettarsi come label di avanguardia. Tutto quello che diventa statico, diventa, prima o poi, un nuovo ac­ cademismo, un che di facile. Ecco perché l’idea del rizoma ci piace - deterritorializzate, resterà sempre qualcosa...

- In Folds & Rhizomes for Gilles Deleuze le formazioni hanno voluto soprattutto esprimere i loro sentimenti nei con­ fronti dell'opera e dell'amicizia che provavano per Gilles De­ leuze. Sembra più un album testimonianza che un album "in omaggio a”. Come siete riusciti a evitare l'album ufficiale? — Sono contento di parlarne perché è una lunga storia e le cose si sono stranamente incastrate. A un certo momento mi sono detto che bisognava fare un gesto nei confronti di De­ leuze, perché le idee che si trovano nei suoi testi sono state per noi, e fin dal principio, di un’importanza fondamentale. Con Deleuze ci siamo scritti delle lettere in cui ci scambiava­ mo delle idee sulla musica. Gli inviavo regolarmente dei di­ schi, non solamente le nostre produzioni e lui me ne parlava. Poco a poco mi è venuta l’idea di fargli la sorpresa di un di­ sco con i suoi musicisti preferiti. Perciò ho organizzato la produzione senza dirgli niènte. Tutto questo avveniva nel 1995. Contemporaneamente mi sono accorto che c’erano va­ ri giovani compositori che s’ispiravano a lui o che comunque conoscevano il suo pensiero e se ne servivano (il modo mi­ gliore per essere in Deleuze - è servirsi della sua filosofia e deviarla verso altre cose). Ovai e Scanner hanno finito il loro pezzo in estate, Main, David Shea e Mouse on Mars in au­ tunno. Ho scritto il testo introduttivo in settembre. Aveva144

mo previsto l’uscita dell’album per l’inizio di dicembre. Il 5 novembre ho sentito alla radio la notizia della sua morte. Dentro di me qualcosa ha detto: troppo tardi. Ma la testimo­ nianza resta. Effettivamente non è un omaggio. Tutto era sta­ to concepito nella vita.

- Un omaggio a Gilles Deleuze è uscito poco dopo quello di Sub Rosa da parte della label tedesca Mille Plateaux. Que­ sto disco ci sembra meno coerente, meno innovatore. Tu come l’hai percepito? - L’indomani della morte di Deleuze Achim Szepanski ci ha mandato via fax un messaggio in cui ci diceva il suo stu­ pore. Aveva l’intenzione di fare un disco in memoriam e ci ha chiesto se volevamo partecipare. Tobias Hazan, che è molto vicino a noi, gli ha inviato un pezzo composto in una setti­ mana. È vero però che sono due oggetti e due intenzioni di­ verse.

Così proseguiva quell’anno di produzioni e spostamenti vari. Da allora, abbiamo proseguito per le nostre strade. Qualcosa è successo. Che altro dire? Non abbiamo più vo­ luto continuare per questa strada. Abbiamo paura della ripe­ tizione. Il seguito si fa in altre forme, ma sotto gli stessi au­ spici.

Serie di anelli spezzati. Sul cliché

Nella sua cronaca il musicista e scrittore Michel Chion in un numero recente di «R&C» («Revue et corrigée», n. 58) esprime la sua esasperazione di fronte al diffondersi dei cli­ ché. E cita un dossier pubblicato dalla rivista francese «Télérama»: “Un’arte mediatica, ludica, ‘meticcia’, rizomatica, deleuziana e informale”. Ci si può rendere conto di come certi

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termini creati da Deleuze siano diventati sterili, a forza di ri­ ciclarli. Basta utilizzare una delle sue espressioni per essere deleuziani - cioè, in altre parole, surfisti, cool. Questa bana­ lizzazione terribile, di fatto catastrofica, tende a diventare una moda, che quindi passerà anch’essa e rapidamente, per­ ché passare è nella sua natura. Una parola scaccia l’altra, è co­ sì. Probabilmente attaccheranno il suo pensiero per via delle scorie che ha prodotto. Ma sono solo le conseguenze di un’infatuazione (che anch’io ho contribuito, mio malgrado e per fortuna in modo molto limitato - a produrre).

Il mio libraio preferito mi dice: in questo periodo tutti vogliono dei libri di Deleuze - di Deleuze e di Guy Debord. Vanno di moda. Habermas, la scuola di Francoforte... guar­ da lo scaffale, nessuno li vuole. E nemmeno i libri difficili. Stanno a prendere polvere... Se trovo un Deleuze, il giorno dopo Tho venduto. I giovani ne vanno pazzi...

Questo gioco d’esclusioni è in sé orribile e lascia presagi­ re un terribile “purgatorio”. C’è odore di rizoma da queste parti. Francois Zourabichvili: Non conosciamo ancora il pensie­ ro di Deleuze. Troppo spesso, ostili o adoratori, crediamo che sia sufficiente che i suoi concetti ci tocchino per comprenderli al volo, come se avessimo già esaurito tutte le loro promesse.

Sperimentare e guardare altrove. Altrimenti ecco che tor­ na la cattiva preclusione delle famiglie. Pensare camminando. È quel che mi viene in testa.

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: Aperture Fare filosofia con mezzi non filosofici. Con la pittura, l’arte, certo - Rothko, Newman, Judd... gli esempi sono fin troppo numerosi, col cinema — non c’è dubbio (lui parla del Tempo attraverso il cinema), con il romanzo o il frammento: Proust e Kafka sono stati dei modelli filosoficamente utiliz­ zabili per Deleuze; con la creazione di un catalogo di musi­ che e di documenti, un piccolo qualcosa può cambiare natu­ ra... tutta l’opera di Deleuze spinge a queste aperture. “L’idea di una continuità” - scriveva in una delle sue ul­ time lettere inviate nell’estate 1995: una forma di continuum si stabilisce attraverso spazi di natura diversa.

Una nuova forma di meraviglia. Dopo alcune cattive ricadute abbastanza recenti, ricadu­ te e riduzioni, ora siamo piuttosto nel comunitarismo forza­ to delle voci. Pensiamo, per esempio, alla comunità degli ar­ tisti plastici che fanno dei lavori sonori e dei video, per lo più astratti, in gallerie inizialmente consacrate all’arte minimali­ sta. Esistono moltissime categorie di questo tipo, e ciascuna ha il suo imperatore, i suoi cortigiani, i suoi traditori.

L’idea perforante proposta è piuttosto quella di perforare le categorie e i generi che si sono strutturati nella storia. Ri­ cordiamo ancora una volta le dichiarazioni di Markus Popp all’epoca della Deleuze Unit, quando non si sentiva né musi­ cista né video maker, ma semplicemente “creatore di un process che produce indistintamente suoni e immagini”. Questo esempio vale anche per altre nozioni. Bisogna ad ogni costo trascendere le categorie, talvolta di pochissimo.

Piano, regione continua di intensità.

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Ritornello (del ritorno infinito sempre altro) “Forze del caos, forze terrestri, forze cosmiche: tutto questo si affronta e confluisce nel ritornello” (MP 441).

L’idea di ritornello nel suo senso largo non è solo musi­ cale o sonora, ma indica qualsiasi articolazione che tenda a una territorializzazione. Comincia con l’esempio del bambi­ no che al buio, lontano da casa, canticchia per crearsi un ter­ ritorio.

“1. Cercare di raggiungere il territorio per scongiurare il caos (cfr. primo esempio) 2. Tracciare e abitare il territorio che filtra il caos. 3. Lanciarsi fuori del territorio o deterritorializzarsi verso un cosmo che si distingue dal caos” (MP 439-441).

Questa triade, che si può immaginare simultanea o diffeita, segna infine una sorta di andirivieni, ma in continua mo­ dificazione. Non si torna mai come si era all’inizio.

“Il grande ritornello si leva a mano a mano che ci si al­ lontana dalla casa, anche se lo scopo è quello di farvi ritorno, poiché nessuno ci riconoscerà quando saremo tornati” (CF

Una nozione che si oppone allo spirito della finitezza.

Presa in senso stretto, la forma-ritornello rilancia con una forza propriamente illimitata la funzione della musica. La rilancia persino oltre il possibile. “L’orecchio assoluto non esiste, il problema è avere un orecchio impossibile - rendere udibili forze che in sé non so­ no udibili” (Deleuze, Conferenza all*IRCAM, febbraio 1978).;.:-/;,r

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Attraverso l’azione di una musica da inventare, si dà vo­ ce a un popolo a venire. Si tende verso qualcosa di inaudito.

“Produrre un ritornello deterritorializzato, come meta finale della musica, lasciarlo andare libero nel Cosmo, è più importante che costruire un nuovo sistema” (MP 487).4^4 Sostituire “musica” con qualunque altra cosa (scrittura, film, arte, musica, politica, desiderio). Non c’è nessuna for­ mula possibile, non si dice niente a proposito di un percorso da seguire generalizzato, qui siamo nell’energia di una pro­ spettiva inedita. Questo evita l’attaccamento a una forma pri­ mordiale, a qualunque soffocamento. Anche se non ci si sen­ te all’altezza del compito. Ci diciamo: è il momento di crea­ re le nostre proprie topologie.

Con queste annotazioni ho voluto mettere in epigrafe soprattutto una pratica, una pratica nata da un insieme di concetti come riserva di possibili. Accidentalmente faccio parte dell’esperienza che ne risulta. Esperienza che continua. Probabilmente altrove. Nel fuori. E così restano mille cose da dire su Gilles Deleuze. E mil­ le cose restano da fare attraverso di lui. Un incontro, ricordatevi di un incontro.

Una potenza che perfora.

Bruxelles, febbraio 2005 suoni: www.subrosa.net/deleuze Traduzione di Emanuele Quinz

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Carlo Simula

Intervista a Dj Spooky Spesso hai fatto cenno nelle tue interviste a quanto la filo­ sofia contemporanea abbia influenzato il tuo lavoro. Foucault ha detto: “Un jour, peut-etre, le siècle sera deleuzien”'... In che modo e in che misura Deleuze e Guattari ti hanno in­ fluenzato? E cosa trovi interessante nel loro lavoro?

L’idea di commistione, di remix è piuttosto di moda og­ gi - di norma la gente tende a “scrivere” di link multicultu­ rali: l’economia del “ri-ciclo”, l’“outsourcing” e, soprattutto, il vivere in una “economia esperienziale” - sono queste cose che alimentano la cultura Afroamericana, e vi è in tutti un’at­ tiva disseminazione della diaspora della Afro-modernità. Quel che ho tratto da Deleuze e Guattari è l’applicazione di una “logica del particolare” al concetto di arte contempora­ nea. Prima di tutto va detto che il software ha minato tutte le categorie dei precedenti modelli produttivi e, allo stesso tem­ po, polverizzato i “modelli computazionali” attraverso i quali il “capitale culturale”, per dirla con Pierre Bourdieu, ri­ specchiava i diversi tipi di modelli di produzione in un mon­ do nel quale il “campionamento” (matematico e musicale) è divenuto il linguaggio globale della cultura della gioventù ur­ bana. Eduoard Glissant, il filosofo/linguista afro-caraibico, amava definire questo processo “creolizzazione” - io lo chia­ mo “thè remix”.

1 “Un giorno, probabilmente, il secolo sarà delcuziano”.

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La filosofia è essenzialmente un’attività riflessiva. Richie­ de sempre una superficie su cui rimbalzare. In un vuoto cul­ turale noi non esisteremmo. Fondamentalmente io guardo a Deleuze e Guattari come a due figure che hanno agito da tra­ duttori della filosofia e dell’estetica europea in una sorta di via di fuga per persone implicate nell’umanesimo. Pensa: Frantz Fanon ha scritto a questo riguardo come di una sorta di aggiornamento dell’Esistenzialismo - oggi il punto focale che determina il mondo è “marrone”. Ma ha in sé una strana cadenza. È un ritmo visivo che estende l’idea di filosofia in spettri che devono ancora essere delimitati (cartografati). La filosofia europea è stata negli ultimi secoli totalmente eurocentrica, e Deleuze e Guattari sono i due filosofi che hanno portato l’idea di filosofia ai confini dei limiti dei pen­ satori precedenti. Aristotele ha creato l’idea di tassonomia occidentale più di duemila anni fa. Deleuze e Guattari ci han­ no insegnato ad andare oltre le categorie aristoteliche, e ci hanno aiutato a creare strumenti per analizzare quanto siano divenute complesse le vite mediatiche. Penso a concetti qua­ li la “macchina astratta”, il “corpo senza organi” e il “piano immanente” di azione/realizzazione come assolutamente ol­ tre le categorie della filosofia europea. Sono degli umanisti che cercano significati al di là delle norme. È qui che la mia musica e il loro pensiero si incontrano. Per me la musica è es­ senzialmente una metafora, uno strumento per riflettere. Ab­ biamo bisogno di pensare la musica come un’informazione, non semplicemente come dei ritmi, ma come una serie di co­ dici per compiere una traduzione estetica tra categorie offu­ scate che sono divenute a mano a mano sempre più obsolete. Per me, la metafora del dj permette di riflettere sul concetto di collage e sul suo ruolo nel mondo quotidiano dell’infor­ mazione, dei modelli computazionali e dell’arte concettuale. Ognuno di questi modelli offre vie di fuga dagli stanchi do­ mimi della filosofia eurocentrica verso una sorta di pan-uma­ nesimo. È per questo che amo il lavoro di Deleuze e Guatta­ ri. Sono anche stato influenzato da altre figure dell’ambito

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dell’estetica europea, come Ludwig Feuerbach (che ha soste­ nuto l’idea di “umanesimo” nelle sue opere di metà Ottocen­ to), Spinoza e le esplorazioni semiotiche di Giordano Bruno, ma il significato alla base del pensiero “rizomatico” - pensa­ re in reticoli, in reti che si estendono ad altre reti - è la forza motrice della mia musica e della mia arte. Credo che sia un ottimo luogo da cui cominciare a pensare una filosofia del “remix”. Il “remix” ha a che fare con un certo tipo di polifo­ nia, è il mettere assieme ritmi diversi, sincronizzarli, tagliar­ li, incollarli e farne un collage. È questa la vera “macchina astratta” - i riferimenti incrociati che da James Brown ti fan­ no pensare a Garrett A. Morgan (l’inventore afroamericano della “Street tight” - la coreografia che si vede in ogni ango­ lo della megalopoli globale), ti fanno pensare a Duke Ellington con la modernità jazz della sua Afro-Eurasian Eclipse, o al saggio di Albert Murray Spyglass Tree, ai precursori un­ derground di Detroit, roba come i Drexciya... e l’elenco con­ tinua. Vedo molte analogie tra il tuo lavoro e quello di Deleuzi e Guattari, in particolare quando parlano del "concetto” co­ me un modo di definire il mondo, chiamandolo "evento”. La produzione di un concetto è perciò la maniera in cui la filoso­ fia costruisce la comprensione del mondo reale. Mi sembra che in Rhythm Science tu parli molto del campionamento e della figura del dj come di un manipolatore di immagini, suo­ ni e tecnologie usate per creare, esattamente, aconcetti”. Che ne pensi?

Uno dei miei libri preferiti di questi ultimi anni, African Philosophy: An Anthology, curato da Emmanuel Chukwudi Eze, esplora questo tipo di cose, come noi riconfiguriamo territori già scritti del pensiero eurocentrico, per creare nuo­ vi strumenti, nuovi modi di pensare allo scenario multi-piano (multi-plex) che ogni idealista troverà alla fine di ogni in­ vestigazione filosofica alla fine del XXI secolo. Per Deleuze

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e Guattari, e io sottoscrivo, l’idea è sempre un “evento” presuppone una sorta di quadro di riferimento che chiude un’azione e dà inizio ad un’altra - esse si sovrappongono e si confondono. Il campionamento è la stessa cosa: evento pen­ sato, evento sonoro. I computer generano algoritmi che crea­ no quadri di continua incertezza - lo schermo non è uno spa­ zio chiuso. Il mio lavoro si interroga su come le reti della creatività che abbiamo ereditato dal mondo di “mattoni e mortai” (“bricks and mortar”2) del XX secolo, sia imploso, si sia evo­ luto e abbia accelerato le reti “immateriali” delle frequenze, di fibre ottiche e portato in maniera matematica il mondo nel XXI secolo. Questa è la vera “smaterializzazione dell’ogget­ to d’arte”, che diviene miscuglio di modelli, che lavora tra gli spazi di un comportamento già scritto. Il mio libro Rhythm Science guarda ai fondamenti del pensiero contemporaneo dal punto di vista del “come fare uscire l’arte dagli schemi della cultura?”. È stato scritto per porsi altre domande e non per offrire risposte a dei contesti che sono in continuo cam­ biamento. Il panorama dei media digitali contemporanei è indefinito. Qualsiasi cosa ti faccia pensare ad esso come “de­ finito”, ti sta probabilmente dando un’immagine falsata. L’indefinito definito? Eraclito disse qualcosa del genere tempo fa... La cultura del dj ci dice che è divenuta il modo in cui noi organizziamo le informazioni in una ecologia mediatica di una soggettività instabile. Su questo il mio approccio è fondamentalmente “pro-attivo” - per me, la musica è so­ prattutto creare strumenti per pensare - per dare alla gente sistemi, per organizzare l’informazione al di fuori delle cate­ gorie europee di “razionalità” e “soggettività universale” che guidarono l’illuminismo.

2 Bricks and mortar. è un modo di dire per descrivere una società, un’impresa o una sua porzione, che ha una sede fisica e che esiste con­ cretamente, in contrapposizione a una virtuale che opera, ed esiste, so­ lo su internet.

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Questo è quel che ho imparato da loro. L’astrazione è l’arma definitiva. Il multiculturalismo è la categoria definiti­ vamente destabilizzante perché, come il campionamento, può assorbire ogni cosa. Essa sfida i limiti, e pone “il soggetto” quale categoria implosa - qualcosa che è, ed è sempre stato, fondamentalmente in costruzione. Quali altre costruzioni lo stato-nazione, l’idea di “sé”, ecc... sono correlati a questa categoria che sta lentamente, finalmente per essere emargina­ ta dalle forze centrifughe dei media digitali? Deleuze e Guat­ tari ci danno strumenti per pensare questo tipo di cose - essi le postulavano quali finzioni che tengono assieme altre fin­ zioni. Lo specchio è posto di fronte a un altro specchio, e pos­ siamo vedere un infinito corridoio in entrambe le direzioni. In questo senso voglio rompere lo specchio. From A to B and Back Again di Andy Warhol fluttua come polvere di parole attraverso le fibre di cavi ottici e le trasmissioni via satellite di un mondo di strutture reticolari invisibili. Roba del genere. Tra l'altro, il cd all'interno del libro Rhythm Science è un'Kimprovvisazione" condensata dell'archivio della Sub Rosa, un'etichetta che più di altre promuove un certo genere di musica correlata all'arte. Mi ricorda, con le dovute diffe­ renze, Greyfolded di John Oswald, dove lui finisce per rico­ struire una versione di Dark star dei Grateful Dead a partire da centinaia di versioni dal vivo. Cosa ne pensi? La “piega” riguarda l’involuzione - è il prendere molte­ plici prospettive di un evento - come il “break”, la frattura. Nell’hip-hop è il break beat, è il ritmo spezzato, i frammen­ ti spezzati del tempo registrati su di un campione che dà il “flusso” del discorso, il significato in questo contesto. Nella cultura dj, tu crei strutture da sequenze. Il mio stile è la co­ lonna sonora del brulicante sviluppo urbano. È il mio modo di guardare alle strategie compositive nell’era dei media digi­ tali. La “stop motion photography” creata dal mio fotografo preferito, Etienne Jules Marey, allude a qualcosa del genere.

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Il frammento è più grande dell’intero. È su questo che si ba­ sava l’interpretazione di Deleuze e Guattari del Pii selon pii di Boulez, e se guardi all’idea di “indeterminatezza” di John Cage e alla sua relazione con i piatti dei giradischi - il con­ cetto vi si adatta perfettamente. I compositori hanno usato la “piega” per molti secoli - il problema era che non avevano avuto gli strumenti per descrivere il processo. Deleuze e Guattari ci hanno dato gli strumenti... Io credo di guardare più a roba tipo le Adventures on thè Wheels of Steel di Grand Master Flash, o a Hip-hop Lessons di Steinski and Doublé D, che a John Oswald, ma siamo entrambi guidati dal medesimo concetto. L’idea di collage guida i miei missaggi - è questo il punto. L’arte contemporanea - arte che esplora le economie di scala che il software ci permette di esplorare - guarda al­ l’idea dello schema “input-output” di cui parlano Deleuze e Guattari con il loro concetto di corpo senza organi. Credo sia una buona analogia. Io davvero voglio allestire la musica come una piattaforma - voglio esser sicuro di ricordare alla gente che sì, sono un artista... È davvero curioso vedere quanta gente si opponga all’idea di esistere in contesti multi­ pli. Monorealtà... qualcosa del genere. È noioso. Di nuovo, la correlazione in Deleuze e Guattari di situazioni multiple che accadono simultaneamente, riflette lo scenario “post post moderno”, non riguarda la “decostruzione”, ma la ricostru­ zione, il costruire una nuova visione di come noi possiamo vivere e pensare nella ecologia informativa che abbiamo co­ struito per noi stessi. E così via, così via, così via... In Cinema I. L’immagine-movimento, Deleuze parla del cinema di D.W. Gnffith, riferendosi all’immagine-azione (l’esempio che riporta in particolare è Intolerance) e all’arti­ colazione narrativa di Griffith, che offre due esempi di “civi­ lizzazione”: (gente di colore/gente bianca). A me sembra che in buona misura il tuo remix di Birth of a Natton, soprattut­ to suonato dal vivo, origini, con le ovvie differenze, dal me­ desimo territorio critico di Deleuze...

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La civilizzazione, come Freud ha già chiarito parecchio tempo fa, riguarda regole e limiti, ma ispira anche una sorta di continuo rinnovamento. Al cuore, le civilizzazioni sono meccanismi di controllo, sono più psicologiche che fisiche. Sono meta-strumenti. Per me, al momento, sembrano mo­ strare come l’Occidente sia in una seria crisi di senso. L’Illuminismo si oscurò nei conflitto tecnologico di mas­ sa delle due guerre mondiali, e i frammenti rimasti si brucia­ rono nel fuoco del Vietnam. Praticamente non ne rimase nul­ la. La mia musica chiede: come possiamo creare nuove forme di senso da questi ideali svuotati? Ci siamo mossi dal lonta­ no passato della repubblica platonica verso regni dove gli aspetti “civici” della cultura, come il software, sono i nuovi quadri di riferimento. Il software (carte di credito, nomi pro­ pri assegnati in rete, nomi dei domini, router DNS, testi criptati, la progettazione computerizzata di aeroplani, di impian­ ti elettrici o che guida l’analisi del DNA, ecc. ecc... ci sono molti altri esempi, ma hai capito il punto) regola il compor­ tamento individuale - sia on che off line - nel mondo post in­ dustriale. Software per pensare: è un concetto invisibilmente coercitivo. Mi piace il modo in cui Deleuze usa Intolerance^ ma devi ricordare che il film agisce come un cruciale disposi­ tivo mitico per un mondo basato sulla consunzione delle im­ magini. Credo che sia necessario analizzare il film non solo dal punto di vista di ciò che i situazionisti chiamavano “psi­ co-geografia” - un luogo che presuppone un movimento tra ambienti radicalmente differenti quale principio causale del modo in cui organizziamo le informazioni. Ciò che Deleuze e Guattari intendevano per “deterritorializzazione” è essen­ zialmente una sorta di risposta nomade al sovraccarico mediatico - cercare strade attraverso le nubi di dati dell’infor­ mazione (Information data-cloud). Griffith era essenzial­ mente un propagandista della repressione di stato - egli creò il “montaggio” nel cinema come strumento per ritrarre situa­ zioni multiple - ma esattamente nel senso opposto a quel che pensavano Deleuze e Guattari. Lui l’usava per bloccare la

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percezione. Loro, per aprire le cose. Giustapponi le due co­ se, e potrai vedere perché due pensatori radicalmente diffe­ renti come Sergei Eisenstein e Guy Debord amavano pensa­ re a Griffith come all’essenza del cinema americano. È questa la situazione del dj - un’indistinta origine e de­ stinazione — divengono loop, cicli, modelli. Il modo di esplo­ rarli passa attraverso il filtro di un senso intrecciato (wowen meaning). La cultura nera è stata il “subconscio” del mondo per buona parte degli ultimi secoli - è stato il sistema opera­ tivo di una cultura che rifiuta di comprendere che i propri ideali sono morti da lungo tempo. Il filo del tessuto della cul­ tura contemporanea del XXI secolo, il paesaggio mediatico di filamenti, sistemi, cavi in fibra ottica, trasmissioni satelli­ tari e così via, sono tutti rizomatici. Sono architetture rela­ zionali - il muoversi in sincronia. La struttura reticolare ha bisogno di essere polifonica. I dispositivi muovono secondo cadenze differenti, ma creano movimento. Devono essere spinti separatamente cosicché possiamo rompere la spirale tenendo il passato e il presente assieme affinché il futuro pos­ sa farsi strada. Forse è qui che rompiamo con la vecchia que­ stione del “nero” e “bianco” - e in ogni caso questa è roba davvero insulsa. È tutto molto più complesso del dualismo. È questo il nuovo “sistema operativo” che vedo quando remixo Birth of a Nation — il collasso di Wagner, il collasso del copione occidentale del progresso lineare, il rinnovamento di un mondo dove la ripetizione è una sorta di omaggio al futu­ ro nel rispetto del passato.

Paul D. Miller alias Dj Spooky that Subliminal Kid i

Tunisi, 20 novembre 2005 Traduzione di Giuseppe Fonseca

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Roberto Paci Dalò

La macchina da guerra

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Roberto Paci Dalò Berlino, dicembre 2005

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Bibliografia

Testi di Deleuze e Guattari Deleuze G., Le bergsonism, Puf, Paris 1966; trad. it. Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano 1983. Deleuze G., Logique du sens, Minuit, Paris 1969; trad. it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1979. Deleuze G., Différence et Répétition, Puf, Paris 1968; trad.it. Diffe­ renza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997. Deleuze G., Spinoza. Philosophiepratique, Minuit, Paris 1981; trad. it. Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991. Deleuze G., Cinéma I — L'image-Mouvement, Minuit, Paris 1983; trad. it. L'immagine-movimento: cinema 1, Ubulibri, Milano 1984. Deleuze G., Cinéma II - L’image-Temps, Minuit, Paris 1985; trad. it. L’immagine-tempo: cinema 2, Ubulibri, Milano 1989. Deleuze G., Francis Bacon, Logique de la sensation, Édition de la différence, Paris 1981; trad. it. Francis Bacon. Logica della sen­ sazione, Quodlibet, Macerata 1995. Deleuze G., Le Pii. Leibniz et le Baroque, Minuit, Paris 1988; trad.it La piega: Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990. Deleuze G., Pourparlers, Minuit, Paris 1990; trad. it. Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000. Deleuze G., L’ìle déserte et autres textes. Textes et entretiens 19531974, a cura di D. Lapoujade, Minuit, Paris 2002. Deleuze G., Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995, a cura di D. Lapoujade, Minuit, Paris 2003. Deleuze G., Critique et clinique, Minuit, Paris 1993; trad.it. Criti­ ca e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996. L’abécédaire de Gilles Deleuze, registrazione video diffusa postu-

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I corsi di Deleuze e alcune sue conferenze, sono disponi­ bili sul sito http://www.webdeleuze.com

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Discografia Absolute Value of Noise, Light Bulb, Absolutc Value of Noise 2004 Alva Noto aka Carsten Nicolai, Transform, Mille Plateaux 2001 Aphex Twin, Selected Ambient Works, Pias America 2002 An Anthology of Noise & Electronic Music, First a-chronology 1921-2001 ! Voi. 1, Sub Rosa 2002 An Anthology of Noise & Electronic Music, second a-chronology 1936- 2003 / Voi. 2, Sub Rosa 2003 An Anthology of Noise & Electronic Music, third a-chronology 1952-2004 / Voi. 3, Sub Rosa 2004 An Anthology of Noise & Electronic Music, fourth a-chronology 1937- 2005 I Voi. 4, Sub Rosa 2006 Autreche, Untilted, Warp Records 2005 William S. Burroughs, Break Through In Grey Room, Sub Rosa 2001 John Cage, Imaginary Landscape No.l, Hungaroton 2000 Clicks and Cuts 2, Mille Plateaux 2000 Alvin Curran, Maritime Rites, New World Records 2004 Doublé Articulation: Folds and Rhizomes Remixes, Sub Rosa 1997 Paul DeMarinis, Music As A Second Language, Lovely Music 1991 DJ Spooky, Optometry, Thirsty Ear 2002 Tod Dockstader, Aerial #7, Sub Rosa 2005 Marcel Duchamp, Erratum Musical, Sub Rosa 2000 Kim Casconc, The Crystalline Address, Sub Rosa 2002 Morton Feldman, Rothko Chapel / Why Pattems?, New Albion 1991 Fcnnesz, Venice, Touch 2004 Lue Ferrari, Les Anecdotiques, Sub Rosa 2004 Folds & Rhizomes for Gilles Deleuze, Sub Rosa 1996

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Gas, Pop, Mille Plateaux 2000 Cari Michael von Hauswolff, A Letture on Disturbarne in Archi­ tetture, Firework Edition 2002 Tobias Hazan, Vowel Architetture, Sub Rosa 1996 Ryoji Ikeda, Matrix, Touch 2000 In Memoriam Gilles Deleuze, Mille Plateaux 1996 Philip Jeck, Stoke, Touch 2002 Jacob Kirkegaard, Eldfjall, Touch 2005 Thomas Kóner, Nuuk, Mille Plateaux 2004 Kraftwerk, Trans Europe Express, Capito! Records 1977 Alvin Lucier, I am Sitting in a Room, Lovely Music 1980 Matmos, The Civil War, Matador 2003 Mouse on Mars, Rost Pocks, Too Pure 2003 Negativland, Dispepsi, Seeland 1997 Ovai, Systemisch, Mille Plateaux 1994 Roberto Paci Dalò, In Two Worlds, L’Arte dell'Ascolto 2004 Pan Sonic, Kesto, Mute 2004 Richard Pinhas, L’Ethique, CuneiForm Records 1992 Terry Riley, A Rainbow in Curved Air, CBS 1971 Scanner aka Robin Rimbaud, 52 Spaces, Bette 2002 Sensorband, Area/Puls, Sonoris 1999 SND, MakeSND Cassette, Mille Plateaux 1999 David Sylvian, The Good Son versus The Only Daughte, Samadhisound 2004 Karlheinz Stockhausen, Kontakte, Ecstatic Peace! 1997 James Tenney, Selected Works 1961 - 1969, New World Records 2003 Terre Thaemlitz, Interstices, Mille Plateaux 2000

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Biografie CHRISTOPH COX insegna filosofia allo Hampshire College a Amherst (Massachussets). Scrive sull’arte e la musica contemporanea per giornali come «The Wire», «Cabinet», «Artforum», «Pulsel». Tra le sue ultime pubblicazioni: Nietzsche: Naturalismi and Interpretation. Insieme a Danier Warner prepara un’antologia sulle Teorie e Pratiche nella musica da Russoio alla Cultura Dj.

PHILIPPE FRANCK dirige l’associazione interdisciplinare “Transcultures” che ha fon­ dato a Bruxelles nel 1996 e ha curato diverse esposizioni, incontri e festival (tra cui City Sonics, percorsi d’arte sonora nella città di Mons, Belgique). È anche coordinatore artistico del Centro di crea­ zione e produzione musicale Musiques Nouvelles. Parallelamente, scrive e insegna sulle problematiche attuali della creazione trasver­ sale, digitale e musicale. http://www.transcultures.net

GUY-MARC HINANT scrive racconti-frammenti e note di estetica (alcuni dei suoi testi so­ no pubblicati da Editions de l’Heure), è autore dei documentari: The Garden is full of Metal (1996), Eléments d'un Merzbau oublié (1999), The Pleasure of Regrets — a portrait of Léo Kupper (2003) con Dominique Lohlé, col quale ha inoltre fondato POME (observatoire des musiques électroniques), ha prodotto dei testi in colla­ borazione con l’artista Dominique Goblet. Curatore della serie An Anthology of Noise and Electronic Music series, dirige la Sub Rosa con Frédéric Walheer. È inoltre corrispondente di «Lunarpark» per i Paesi Bassi. È nato nel 1960 a Charleroi (Wallonia). Vive e lavora a Bruxelles (Belgio). http://www.sub-rosa.net

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PAUL D. MILLER (AKA DJ SPOOKY THAT SUBLIMINAL KID) è un artista concettuale, scrittore e musicista che lavora a New York. Ha registrato un’enorme quantità di musica e ha collaborato con una grande varietà di musicisti e compositori come I. Xenakis, R. Sakamoto, Butch Morris, Kool Keith aka Doctor Octagon, P. Boulez, S. Reich, Yoko Ono c Thurston Moore dei Sonic Youth. I suoi lavori recenti includono Optometry (2002), Riddim Clash (2004). Le sue opere sono apparse alla Whitney Biennial, alla Bien­ nale di Architettura di Venezia, all’Andy Warhol Museum, ed in molti altri luoghi. I suoi testi sono apparsi su thè «Village Voice» e «Arrforum». La sua prima raccolta di saggi, Rhythm Science, è sta­ ta pubblicata nel 2004 da MIT Press. http://www.djspooky.com TIMOTHY S. MURPHY è professore associato di Letteratura Americana all’University of Oklahoma. È l’autore di Wising Up thè Marks: The Amodem William Burroughs (1997), traduttore per l’edizione inglese Spinoza avvenivo (2004) e I libri del rogo (2005) di Antonio Negri, curaore di The Philosophy of Antonio Negri- Resistance in Practice (2005), e generai editor della rivista accademica «Genre: Forms of Discourse and Culture».

ROBERTO PACI DALÒ regista, artista, musicista. Direttore del gruppo Giardini Pensili creato nel 1985. Ha vissuto a lungo a Berlino e nel 1993-94 ha rice­ vuto il premio del Berliner Kiinstlerprogramm des DAAD. Ha in­ segnato all’Università di Siena e collabora con diverse università e accademie in Europa e Americhe. Curatore, con Giorgio Baratta e lain Chambers, del progetto “Umanesimo della convivenza, Said in dialogo con Gramsci” (Napoli 2005). Tra le opere recenti: Italia an­ no zero, creato con Olga Neuwirth (Vienna, Berlino, Budapest, Huddersfield, Strasburgo); Kol Beck Living Stringi (WDR Colo­ nia); Petroleo Mexico (Festival di Locamo). Ha creato nel 2004 l’e­ tichetta L’Arte dell'Ascolto e sta attualmente lavorando con la In­ ternationale Heiner Mùller Gesellschaft di Berlino. www.giardini.sm

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EMANUELE QUINZ Critico e curatore di Arte Contemporanea, insegna Estetica dei Nuovi Media all’Università Parigi 8 e all’Accademia delle Belle Ar­ ti di Brera a Milano. Fondatore e presidente di Anomos, c ugual­ mente direttore responsabile della rivista internazionale «Anomalie Digital_Arts». Ha curato diversi volumi tra cui La Scena Digitale (con A. Menicacci, Marsilio, Venezia 2001), Du corps a Vavatar (2000), Digital Performance (2002), Interfaces (2003) e diretto di­ versi progetti di ricerca ed esposizioni (tra cui INVISIBLE, Siena Palazzo delle Papesse 2004, con L. Marchetti, Firs Fashion Italian Roots, Bruxelles 2004; En:trance, Bolzano 2005). http://www.anomos.org

CARLO SIMULA Laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Siena, si occupa prevalentemente di promozione della cultura. Ha partecipato a progetti interdisciplinari internazionali di comunica­ zione strategica e marketing in ambito aziendale ed istituzionale ri­ guardanti moda, musica, arte, design, letteratura. Dal 2002 è re­ sponsabile stampa e comunicazione di Palazzo delle Papesse Centro Arte Contemporanea, Siena.

ACHIM SZEPANSKI è nato a Karlsruhe in Germania. Ha studiato sociologia, filosofia ed economia a Francoforte. Ha fondato l’etichetta Force ine music works nel 1991. Ha fondato la Mille Plateux nel 1994. Ha fondato la Dsco ine nel 2004. Ha scritto numerosi saggi su Adorno, Lacan, De­ leuze e sulla musica. Editor del libro Soundcultures nel 2003. Ades­ so sta scrivendo un libro su Deleuze e la musica ed un romanzo.

Ringraziamenti: Sub Rosa, Marcus S. Kleiner, Transcultures, Suhrkamp, Edinburgh Press, Bernhard Lang, IOD Institutc of Dubbology Reggio Emilia.

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