Merleau-Ponty 8843060201, 9788843060207

"'Da un momento all'altro, un uomo raddrizza la testa, fiuta, ascolta, considera, riconosce la sua posizi

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Italian Pages 268/269 [269] Year 2017

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Merleau-Ponty
 8843060201, 9788843060207

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PENSATORI

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A mia madre

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Luca Vanzago

Merleau-Ponty

Carocci editore

r• Ia

ristampa, aprile 2017

edizione, gennaio 2012

©copyright 2012 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Progedit, Bari ISBN

978-88-43o-6020·7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ) Senza regolare autorizzazione, vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. è

Indice

l.

2.

Elenco delle abbreviazioni

9

Strutture e processi: dalla natura all' uomo

11

La percezione come problema filosofico La struttura del comportamento come fenomeno La forma come processo Lo sviluppo delle forme organiche Il mondo della percezione Il ritorno ai fenomeni e la questione della natura della fenomenologia Dialettica dei concetti filosofici di percezione

11 12 20 23 31 33 40

Soggetto percipiente, mondo percepito e movimento temporale della percezione

51

Il soggetto come corpo vissuto e l' esperienza corp o rea Il mondo percepito Le cose e il mondo naturale L' alterità L'essere p e r sé e l'essere al mondo: cogito, temporalità, libertà



51 66 81 86 92

L' espressione individuale e collettiva

109

Mutamenti Modi del pensiero

109 111 7





L' espressività incarnata Storia e società: un nuovo pensiero del molteplice

129 138

La natura come problema antologico

149

Verso un'antologia della natura Movimento, istituzione, passività La Natura come processo di auto-manifestazione Le implicazioni metodologiche dell'antologia della natura

149 150 157 170

La verità dell'essere

179

Vedere la visione L'invisibile: essere, divenire, verità Interrogazione e riflessione Interrogazione e dialettica Interrogazione e intuizione L'intreccio-il chiasma

179 190 195 206 224 237

Cronologia della vita e delle opere

251

Bibliografia

255

Indice dei nomi

267

8

Elenco delle abbreviaziont

AD BA

FP LS LSN

OS

P1 PM PP S

se UT

VI

Les aventures de la dialectique, Gallimard, Parigi 1955 (trad. it. Le av­ venture della dialettica, Sugar, Milano 1965 ) . Il bambino e gli altri, Armando, Roma 1968 (traduzione parziale di una selezione di corsi poi pubblicati integralmente nell'ed. or. Merleau­ Ponty à la Sorbonne. Résumé de cours 1949-1952 , Cynara, Parigi 1988) . Phénoménologie de la perception, Gallimard, Parigi 1945 (trad. it. Fe­ nomenologia della percezione, Bompiani, Milano 1965) . Merleau-Ponty à la Sorbonne. Résumé de cours 1949-1952 , Cynara, Pari­ gi 1988. Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, Gallimard, Parigi 1968 (trad. it. Linguaggio, ston·a, natura. Corsi al Collège de France 1952-1961 , Bompiani, Milano 1995) . I.:reil et l'esprit, Gallimard, Parigi 1964 (trad. it. I.:occhio e lo spirito, Edizioni SE, Milano 1989 ) . Parcours 1935-1951 , Verdier, Lagrasse 1997. La prose du monde, Gallimard, Parigi 1969 (trad. it. La prosa del mon­ do, Editori Riuniti, Roma 1984) . Le prima! de la perception, Verdier, Lagrasse 1996 (trad. it. Il primato della percezione, Medusa, Milano 2004) . Signes, Gallimard , Parigi 1960 (trad. it. Segni, il Saggiatore, Milano 1967) . La structure du comportement, Presses universitaires de France, Parigi 1942 (trad. it. La struttura del comportamento, Bompiani, Milano 1963 ) . Umanisme et terreur, Gallimard, Parigi 1947 (trad. it. Umanismo e ter­ rore, Sugar, Milano 1965) . Le visible et l'invisible, Gallimard, Parigi 1964 (trad. i t. Il visibile e l'in­ visibile, Bompiani, Milano 1969 ) .

* Nel testo, le abbreviazioni inserite a l termine di una citazione sono seguite dal numero di pagina.

9

l

Strutture e processi: dalla natura all'uomo

La percezione come problema filosofico Fin dai primi scritti, essenzialmente programmatici, Merleau-Ponty si fa carico di delineare una concezione della percezione vista come re­ lazione concreta tra un soggetto incarnato e un mondo altrettanto cor­ poreo . Ma né il soggetto né il mondo sono intesi da Merleau-Ponty in senso puramente materialistico . Piuttosto, si tratta di reperire un ac­ cesso alla relazione percettiva tra corpo e mondo che si configuri co­ me fondamentale, e in questo senso anche caratterizzata da una pecu­ liarità antologica che ne giustifichi il "primato " . Proprio di ritorno al­ lo studio della percezione, infatti, si parla in uno scritto del 193 4 , La na­ tura della percezione, in cui Merleau-Ponty presenta il proprio proget­ to di ricerca . In questo scritto, egli delinea, seppure in modo ancora inevitabilmente sintetico e schematico, non semplicemente un pro­ gramma di ricerca su di un tema specifico, quanto già un vero e pro­ prio manifesto filosofico. La percezione, infatti, per Merleau-Ponty, non è semplicemente una delle modalità che caratterizzano la vita del­ la coscienza, e non è neppure soltanto, come già in Husserl, lo sfondo di base su cui si costituisce l'intero edificio del significato . In questo breve ma denso scritto si capisce già come per Merleau-Ponty la per­ cezione sia in definitiva la modalità stessa con cui si dà manifestazio­ ne, e quindi esistenza, della realtà. In questo senso, la nozione merleau-pontyana eccede i limiti usua­ li che caratterizzano il concetto filosofico di percezione, per diventare la cifra del reale e insieme la chiave di accesso a esso. Merleau-Ponty ravvisa negli sviluppi (allora) recenti sia delle scienze bio-psico-fisiche, sia della filosofia tedesca, le ragioni fondamentali per un ritorno allo studio della percezione che sappia superare i limiti della filosofia francese dell'epoca. In particolare, egli sottolinea come siano essen­ zialmente quattro i filoni che motivano e giustificano il ritorno allo 11

MERLEAU -PONTY

studio della percezione: la comp arsa, sop rattutto in Germania, di nuove filosofie che mettono in discussione le idee guida del criticismo neo-kantiano, a quel tempo dominanti nella psicologia come nella fi­ losofia della percezione; lo sviluppo della fisiologia del sistema nervo­ so; lo sviluppo della patologia mentale e della psicologia del bambino; e soprattutto il progresso di una nuova psicologia della percezione in Germania (la Gestaltpsychologie) (PP, n). Come si vede, sin dall'inizio Merleau-Ponty presenta i capisaldi teorici che orienteranno le indagi­ ni culminanti nella Fenomenologia della percezione, pubblicata undici anni dopo questa presentazione programmatica. Oltre a Husserl e alla scuola fenomenologica (le "nuove filosofie" che mettono in discus­ sione il criticismo, imperante in Francia) , Merleau-Ponty evoca anche i lavori di studiosi, come Gelb , Goldstein, Koffka e Kohler, che han­ no fatto la storia della psicologia della forma, e che orientano anche la stessa lettura merleau-pontyana della fenomenologia di Husserl . Sul­ lo sfondo, non citati, ma già imminenti , si situano nomi come quello di Freud e, in seguito, Lacan, che diverranno sempre più rilevanti nel­ l' evoluzione della fenomenologia della corporeità in antologia della carne.

La struttura del comportamento come fenomeno L'esecuzione del programma delineato nel breve scritto del 1934 non si attua tuttavia immediatamente attraverso un'indagine fenomenologi­ ca della percezione, quale appare nella vasta monografia pubblicata solo nel 1945. Sebbene tra le due opere ci sia sicuramente un nesso teo­ rico e una coordinazione effettiva, la prima delle due tesi dottorali a essere non soltanto pubblicata, ma anche stesa, è La struttura del com­ portamento, che vede la luce nel 1942 ma di cui si sa che venne com­ pletata già entro i1 1938 . Questo primo lavoro merleau-pontyano rap­ presenta in effetti un testo meno noto e studiato rispetto alla Fenome­ nologia della percezione, molto probabilmente in ragione del fatto che la presenza del pensiero fenomenologico di Husserl è in esso ancora aurorale e in gran parte implicita. Nondimeno è in questo libro che Merleau-Ponty delinea una problematica che si rivelerà cruciale per lo sviluppo del proprio pensiero. Se infatti, sin dalle prime righe di aper­ tura, il filosofo francese dichiara che lo scopo perseguito è di «com­ prendere i rapporti di cos cienza e natura-organica, psicologica o an­ che sociale» (se, 23), e cioè in fondo proprio quello che già nel pro­ getto sulla natura della percezione egli aveva indicato come il proprio 12

1. STRU TTURE E PROCESSI: DALLA 1\:ATURA ALL'U OMO

programma filosofico, in realtà l'elemento fondamentale che regge tut­ to l'impianto analitico dell'opera è l'idea che la coscienza emerga dal­ la e all'interno della natura, attraverso un processo dialettico non te­ leologicamente preordinato, che conduce dalle forme più semplici di vita sino alla complessità del comportamento umano. In altre parole, il tema sostanziale dell'indagine condotta in se è la delineazione del­ l' emersione di una forma di vita peculiare, quale quella umana, che a un tempo è ancora in gran parte una forma di vita naturale, ma per al­ tro verso sembra uscirne. Il problema decisivo che Merleau-Ponty af­ fronta dunque in questa opera, e che sarà costantemente riproposto e rielaborato negli scritti successivi, è quello di comprendere come l'e­ sistenza umana possa costituire una forma di discontinuità all'interno della continuità della processualità naturale delle forme viventi. Si vede così come, sin dall'inizio della propria riflessione, Merleau­ Ponty ponga in relazione due questioni che non coincidono immedia­ tamente, ma anzi per certi versi rendono più complesso il quadro teo­ rico delineato : da una p arte si tratta infatti di studiare l' esperienza umana in quanto esempio peculiare, e certamente particolarmente complesso, ma non essenzialmente eterogeneo, di comportamento vi­ tale; d'altra parte si tratta di indagare come l'esperienza, e in partico­ lare l'esperienza percettiva, portino in luce la presenza di una proces­ sualità intrinseca della natura, che l'esperienza umana però non sol­ tanto attua, ma anche disvela. L'esperienza percettiva umana, cioè, non costituisce soltanto una variante all 'interno di una linea di continuità (sia pure dotata di differenze e caratterizzata da una tendenza evoluti­ va il cui senso andrà indagato) che p ermea l'intero mondo vivente; es­ sa inoltre ne produce la verità. L'uomo è quel particolare essere viven­ te che non soltanto esperisce, ma sa di esperire. Il problema è di chia­ rire come tale sapere, tale dimensione di svelamento della verità del reale, possa propriamente accadere, cioè essere a un tempo preparata ma non condizionata da ciò che la precede. Senza che Merleau-Ponty lo dica esplicitamente, nondimeno è chiaro che il problema indagato in se è quello di una "teleologia senza scopo " , che si attua attraverso la successione delle forme di vita naturali in modo tale da produrre, a un certo punto, l'evento di una forma vitale che non soltanto " è " , ma sa che cosa è. Nei termini che Merleau-Ponty usa in questo libro, si tratta di cogliere l'evento che permette che un determinato organismo, l'essere umano, non sia solo, ma anche abbia un corpo, cioè possa in­ tendere il proprio corpo come un'unità; e correlativamente possa ave­ re un " mondo " come insieme globale degli elementi esterni al proprio corpo, sempre mutevoli ma al contempo organizzati in modo stabile. 13

MERLEAU -PONTY

Si tratta quindi dell 'istituzione di una separazione stabile tra un "in­ terno " e un " esterno " . Tale distinzione "viene al mondo " , in quanto le diverse forme di vita mostrano una progressivamente sempre maggio­ re attuazione di questa separazione, che comunque non esclude ma an­ zi implica scambi e interrelazioni . Il problema è allora di comprende­ re in cosa propriamente consista questo sviluppo. L'analisi condotta da Merleau-Ponty in questa opera si concentra innanzi tutto sulla nozione di comportamento . Come si vedrà, questa prospettiva implica scelte teoriche impegnative che vanno ben al di là di una semplice adesione all'approccio comportamentistico, comune all'epoca della stesura di questo scritto. Attraverso questa nozione egli intende in effetti sgombrare il campo da due opzioni teoriche appa­ rentemente opposte, ma in realtà alleate: l' oggettivismo realistico e il soggettivismo idealistico . In entrambi i casi, ad avviso di Merleau­ Ponty, si perde il contatto con il tema dell'indagine, il comportamen­ to appunto, che viene risolto in un concetto inadeguato a esprimerne le specificità. Questa tesi non viene semplicemente enunciata, né dife­ sa attraverso una pur legittima riflessione filosofica, ma viene dimo­ strata attraverso una dettagliatissima discussione delle ricerche scien­ tifiche in ambito biologico, fisiologico, neurologico e psichiatrico più rilevanti dell'epoca. Anche a uno sguardo retrospettivo, perciò, que­ sto libro mostra di possedere ancora un notevole interesse anche per gli studiosi di psicologia e neuroscienze. Il problema comune al realismo e all'idealismo, e alle loro varian­ ti scientifiche, è rappresentato dal dualismo che li sorregge. Un duali­ smo che tuttavia non è apertamente compreso né tanto meno assunto come tale, ma rimane piuttosto latente al di sotto di un discorso scien­ tifico che si vuole oggettivo e impregiudicato. Si tratta perciò, agli oc­ chi di Merleau-Ponty, di mostrare come la scienza non sia concettual­ mente neutra, ma al contrario già da sempre condizionata da opzioni filosofiche che però, rimanendo inindagate, finis cono per pregiudica­ re anche i risultati positivi effettivamente conseguiti . Il discorso di Merleau-Ponty, in altri termini, non intende negare valore alla ricerca scientifica, ma all'opposto mira semmai a delineare le basi di una di­ versa concezione della scienza. Da questo punto di vista, Merleau­ Ponty non compie un gesto stravagante né inedito: ripropone piutto­ sto una problematica che già Husserl aveva delineato sin dalle Ricer­ che logiche e poi riaffermato sino alla fine, nella Crisi delle scienze eu­

ropee e la fenomenologia trascendentale. L'originalità dell'approccio di Merleau-Ponty risiede semmai nel­ la congiunzione di questa esigenza teorica, già ampiamente emersa nel14

1. STRU TTURE E PROCESSI: DALLA 1\:ATURA ALL'U OMO

la filosofia husserliana, con gli strumenti concettuali e metodologici della scuola della psicologia della forma, la Gestaltpsychologie, che in effetti possiede delle parentele sia con Husserl stesso che con altri esponenti della cosiddetta " S cuola di Brentano " , il filosofo austriaco di cui anche Husserl fu discepolo. In particolare, la nozione di Gestalt (che si può tradurre sia letteralmente con "forma" sia anche, più cor­ rettamente dal punto di vista concettuale, con " struttura " ) era stata delineata da filosofi come Carl Stumpf, Alexius Meinong, Christian von Ehrenfels, Ernst Mally, tutti allievi di Franz Brentano, e tutti con­ vinti della necessità di trattare le qualità sensoriali e percettive diver­ samente che come unioni estrinseche di dati irrelati e atomici . La Ge­ stalt è in effetti una nozione complessa e articolata, ma fondamental­ mente atta a chiarire che le connessioni tra dati d'esperienza sono par­ te integrante del fenomeno, e non aggiunte posteriori , dovute a cause esterne ( come vuole il realismo) o all'operazione di un soggetto auto­ nomo ( come sostiene l'idealismo) . Ma se la strutturazione di un feno­ meno è una sua virtù intrinseca, e se gli elementi fondanti di esso so­ no ciò che sono in ragione della totalità in cui si situano (come già Hus­ serl aveva mostrato nella terza Ricerca logica) , allora è possibile, e in effetti necessario, fare un passo in più, e interrogarsi sulla peculiarità di questo nesso strutturante e sulla sua natura. Questo è il passo essenziale che Merleau-Ponty compie nella Strut­ tura del comportamento, che fin dal titolo mostra così le proprie inten­ zioni programmatiche. Le modalità di comportamento che i vari or­ ganismi viventi, dall'ameba all'uomo, mostrano di possedere non so­ no proprietà estrinseche, ma non sono neppure essenze disincarnate e puramente concettuali, perché la peculiarità della struttura di un com­ portamento è precisamente quella di essere una forma che appare in quanto è radicata in un corpo che agisce, si muove, percepisce, vive: in una parola, si " comporta " , e, così facendo, mostra, ossia esterioriz­ za, delle proprietà interne. Proprietà che sono fenomeni e non qualità ineffabili. Determinazioni che si danno all'interno di un mondo co­ mune, in cui l'interazione col mondo stesso e con gli altri corpi viven­ ti è un elemento fondante della stessa possibilità che si dia qualcosa co­ me un comportamento. Uno sguardo impregiudicato (e quindi, alme­ no implicitamente, fenomenologico) , che sappia cogliere e descrivere questa realtà, potrà allora mostrare che è possibile comprendere la na­ tura, almeno quella vivente, in modo razionale, ma diversamente ri­ spetto sia all'approccio atomistico, deterministico e oggettivistico del­ la psicologia (sia essa di marca comportamentistica nel senso di Wat­ son, o invece meccanicistica in linea con la riflessologia di Pavlov) , sia 15

MERLEAU -PONTY

rispetto al suo speculare e soltanto apparente avversario, la psicologia dell'interiorità della coscienza, comune alle varie scuole spiritualisti­ che sviluppatesi a cavallo tra Ottocento e Novecento. La particolarità, e la forza, dell' argomentazione di Merleau-Ponty sta nel suo saper portare in luce dall'interno, lavorando sugli stessi concetti di base che ne fondano la dottrina, i limiti ma anche le possi­ bilità alternative delle posizioni scientifiche criticate. In altre parole, è il comportamentismo classico stesso a poter andare al di là dei propri presupposti teorici in ragione delle proprie concrete scoperte. Non è necessario racchiudere la nozione di comportamento entro uno sche­ ma fisiologico angusto per poter adeguatamente cogliere l'importanza e la fecondità di tale nozione. Il comportamento è una struttura che appare e mostra esteriormente una legge di organizzazione interna. È possibile, secondo Merleau- Ponty, comprendere diversamente tale legge senza dover fare appello a qualche ineffabile potenza interiore. Si tratta però di sapere descrivere, e quindi anche di reperire uno stru­ mentario concettuale appropriato. Ma tale strumentario non può essere ricavato da un approccio de­ terministico. Non si può cioè continuare a sostenere una filosofia im­ plicita, che è in realtà motivata da ragioni e determinazioni storiche su­ perate, nel momento in cui si stanno portando in luce fenomeni che ri­ chiedono in effetti un pensiero diverso. Parlare di natura vivente in ter­ mini di concatenazione tra stimoli esterni e risposte dell'organismo è sbagliato, perché la struttura del comportamento che anche i più sem­ plici esseri viventi possiedono è una struttura di correlazione, in cui è impossibile isolare eventi singoli che siano pure cause o puri effetti . Pertanto il modello meccanicistico di nesso causale lineare, che già la fisica dell'epoca aveva abbandonato in favore della nozione di corre­ lazione funzionale, si mostra nella sua valenza di residuo metafisica in­ giustificato, quando viene riproposto in biologia e in psicologia senza che esso sia preventivamente indagato e criticamente discusso. Il com­ portamento è una struttura unitaria, che non va scissa in un interno inaccessibile e un esterno misurabile (se, 197) . Il comportamento è pertanto una nozione che abbisogna di nuove categorie, perché è un sistema senza essere una totalità risolta o risolubile in un concetto es­ senziale. È cioè una regione intermedia tra la mera materia e il puro spirito. Si potrebbe anche dire che è materia animata o spirito incar­ nato, secondo un'immagine di ascendenza schellinghiana. Il nome di Schelling non viene apertamente citato in quest'opera, ma sarà in se­ guito indagato con attenzione da Merleau-Ponty quando il tema della natura sarà ripreso nei suoi corsi al Collège de France. 16

1. STRU TTURE E PROCESSI: DALLA 1\:ATURA ALL'U OMO

L'individuazione di questo ambiguo terreno intermedio tra natura materiale e spirito disincarnato, luogo terzo che in realtà potrebbe ri­ velarsi come primo in quanto antecedente la stessa divisione dualisti­ ca canonica, e genealogicamente più originario rispetto ad essa, ri­ chiede un accurato studio delle due concezioni fondamentali, concor­ demente discordi, al fine di mostrare che è proprio grazie alla loro stes­ sa radicalizzazione che diventa, non solo possibile, ma in effetti neces­ sario superarle entrambe. Tuttavia, per ottenere questo risultato è im­ portante operare seguendo l'impostazione metodologica impostata da Husserl, cioè sospendendo i pregiudizi teorici che ingombrano l' effet­ tività della ricerca. Le scienze si vogliono (e interpretano sé stesse in tal senso) libere da ipoteche filosofiche, ma in realtà, a uno sguardo in­ dipendente da condizionamenti di qualsiasi sorta, esse appaiono spes­ so cariche di teoria; una teoria che diventa un ostacolo alla compren­ sione effettiva dei dati. Merleau-Ponty, dunque, pratica già sin da que­ st' opera il metodo della riduzione fenomenologica, sebbene rimandi alla successiva una riflessione critica su di essa, metodo che costituisce il fulcro dell' approccio husserliano. Tornare alle cose stesse e las ciar parlare da sé i fenomeni conduce all'abbandono del dualismo che ac­ comuna l' empirismo realistico e lo spiritualismo idealistico praticati malgré soi dalla scienza. Innanzi tutto è necessario indagare allora il versante empiristico­ oggettivistico, rappresentato in particolare, per un verso, dalla fisiolo­ gia della scuola di Pavlov e per l ' altro, dal comportamentismo im­ prontato alle tesi di Watson. Il comportamentismo è la dottrina psico­ logica forse più influente all'epoca in cui Merleau-Ponty redige il pro­ prio lavoro . È quindi cruciale mostrare come sia proprio grazie a una critica interna di esso che il comportamento può essere compreso in modo radicalmente diverso da come viene presentato in tale scuola. Nel ricostruirne minuziosamente i capisaldi teorici, Merleau -Ponty porta in luce il problema intrinseco dell'approccio comportamentisti­ co: intendendo infatti il comportamento come risposta meccanica a uno stimolo inteso in termini di impulso fisico, risulta incomprensibi­ le il modo con cui l' organismo effettivamente reagisce. Se invece si comprende che tra stimolo e risposta non vi è una causalità di tipo li­ neare ed estrinseca, ma un rapporto più complesso, " circolare" (se, 39), per cui in qualche modo l'organismo predetermina, non certo il singolo stimolo, ma il " campo" di possibilità entro cui può poi real­ mente aver luogo un qualche determinato stimolo, allora si vede come la struttura del comportamento non sia una macchina che processa in­ put secondo schemi prefissati e rigidi, ma una comp agine di senso. 17

MERLEAU -PONTY

Questo senso però non è concettuale, ma naturale. Le relazioni tra or­ ganismo e ambiente non sono cioè idee, ma attività concrete. Attività che disegnano un campo di interrelazioni e di rimandi, di interazioni e di feedback. Emerge in tal modo la consapevolezza che, proprio nel­ l' avere adottato una filosofia ingenua di stampo meccanicistico, il com­ portamentismo non ha potuto evitare di ricorrere a ipotesi " ausiliarie" , che sono in contrasto con essa (se, 41 ) . Portato alle sue conseguenze, il comportamentismo deve negare le sue stesse premesse teoriche, op­ pure perdere la propria capacità descrittiva. L'osservazione impregiudicata dei fenomeni legati al comporta­ mento conduce al rifiuto del paradigma meccanicistico e atomistico su cui si fonda il comportamentismo. Se effettivamente il comportamen­ to fosse una somma di reazioni singole a stimoli estranei, ciò che si avrebbe sarebbe qualcosa di simile a ciò che può essere osservato in certe forme di patologia. Paradossalmente, quindi, quello che per la psichiatria è patologico dovrebbe essere la norma secondo la conce­ zione comportamentistica. Evidentemente però allora il comporta­ mento "normale" , cioè quello usuale, è più e altro rispetto a ciò che l' angusto quadro teorico comportamentistico suggerisce. L'errore sta, ad avviso di Merleau-Ponty, nel ritenere inevitabilmente non scientifi­ co qualsiasi approccio che non sia atomistico. Il problema consiste nel­ la separazione tra fenomeni osservati e teoria esplicativa. Restare vici­ ni e fedeli ai fenomeni suggerisce di cercare una teoria diversa, non per abbandonare la scienza in nome di una verità necessariamente extra­ scientifica (atteggiamento comune negli ambienti spiritualistici dell'e­ poca), ma al contrario proprio per realizzare una scienza effettiva­ mente capace di " s alvare i fenomeni " . S i tratta dunque di vedere s e sia possibile comprendere il com­ portamento come organizzato da un sistema (quello nervoso centrale) che sia pensabile come campo globale, in cui ogni parte trova la pro­ pria espressione (se, 51-2) . Al fine di mostrare la plausibilità di que­ sta ipotesi, Merleau-Ponty sottolinea come la relazione organismo­ ambiente non sia puramente statica e frammentaria, ma si attui conti­ nuamente, e soprattutto sia un processo. Un processo complesso di re­ ciproche interazioni e regolazioni, in cui si creano squilibri che indu­ cono forme di riequilibramento sempre parziale e dinamico, sempre prospettico e insieme sempre retroflesso verso le condizioni di prove­ nienza. Lo studio del comportamento organico pone perciò al ricer­ catore il problema della temporalità intrinseca delle strutture viventi. Come si vedrà, tale problema si rip ropone a ogni tappa del pensiero e praticamente in ogni scritto di Merleau-Ponty. 18

1. STRU TTURE E PROCESSI: DALLA 1\:ATURA ALL'U OMO

Questa critica può essere ribadita anche nel caso della riflessolo­ gia della scuola russa. Certamente Pavlov ha avuto un merito, che è mostrare che vi sono reazioni organiche riflesse che si strutturano in base a condizionamenti. Tuttavia, è la nozione di condizionamento a essere problematica. Soltanto nella situazione artificiale di un labora­ torio è possibile separare e isolare singole reazioni riflesse. Animali sot­ toposti a questo genere di condizionamento in effetti mostrano anche, dopo un certo periodo di tempo, di sviluppare reazioni patologiche. n motivo risiede nel fatto che essi vengono tolti dal proprio ambiente e artificialmente posti in condizioni sperimentali che sono finalizzate a portare in luce un determinato fenomeno separandolo analiticamente dal contesto complessivo . Il metodo s cientifi co isola cioè un solo aspetto all 'interno della complessità del comportamento animale, e trascura di seguire il prosieguo degli effetti che tale operazione pro­ duce, perché arbitrariamente non ritenuto rilevante. Tutto ciò che non rientra nello schema stimolo-risposta è considerato insignificante e quindi espunto dalla ricerca. Ciò però in realtà conduce a un'impasse metodologica e alla genesi di patologie organiche. Va notato che cri­ tiche simili erano già state mosse da William J ames ai teorici tardo­ ottocenteschi della nozione di arco riflesso. James aveva in particolare fatto notare come l'isolamento di un singolo processo di relazione sti­ molo-reazione riflessa consista in un' arbitraria e drastica semplifica­ zione della struttura dello stesso sistema nervoso, che normalmente si trova a dover decidere tra stimoli diversi, e quindi già a questo livello opera non come macchina ma come struttura di articolazione di un senso, anche se organico e non spirituale. Merleau-Ponty non cita James , ma perviene sostanzialmente agli stessi risultati quando fa notare come la riflessologia non impieghi ca­ tegorie modellate sui fatti, ma al contrario ne imponga di proprie ai fatti (se, 108), in nome di postulati invecchiati e discutibili. Merleau­ Ponty si ritrova così a ripetere, autonomamente, le critiche di chi (da James a Peirce, da Bergson a Dilthey, e poi alle scuole neo-kantiane, per non citare che i casi più noti) aveva preso posizione non già con­ tro l' aspirazione a una comprensione scientifica della coscienza, ma contro una cattiva concezione della scienza. Il punto probabilmente fondamentale su cui Merleau-Ponty insi­ ste, e che usa come metafora generatrice di un approccio che poi ri­ torna nella Fenomenologia della percezione, è quello per cui i modelli di comportamento e le loro spiegazioni, così come emergono sia dal comportamentismo che dalla riflessologia, non sono quelli normali di tutti i giorni, però assomigliano molto a certi comportamenti patolo19

MERLEAU -PONTY

gici derivanti da disfunzioni organiche ereditarie o da traumi . In altre parole, è come se la scienza "ufficiale " fosse costretta a ritrarre un mo­ dello di comportamento che non è semplicemente astratto e inade­ guato, quanto piuttosto terribilmente concreto, ma aberrante. Aber­ rante è cioè l'idea che ciò che normalmente è vissuto come proble­ matico sia invece considerato dalla scienza come " adeguato " , cioè conforme a uno schema concettuale precostituito. La patologia è per­ ciò usata da Merleau-Ponty, qui come in altri casi, come strumento fi­ nalizzato a mostrare l'insufficienza di una determinata concezione. Si tratta di una strategia che mira a smas cherare i presupposti teorici, ri­ tenuti normali e persino ovvi, e invece del tutto arbitrari e lontani dal­ l' esperienza concreta, con cui però ci si trova spesso a fare i conti. In questo senso si tratta di una strategia che opera effettivamente secon­ do la procedura della riduzione fenomenologica, cioè porta in luce, da una parte, come quella che si mostra nei termini di un' apparente evi­ denza sia in realtà il portato di una concettualizzazione effettivamen­ te condizionata e, d'altra parte, che queste dottrine operano con un determinato ideale di scientificità, apparentemente universale e puro, ma in realtà concretamente e storicamente situato, e che pertanto può anche essere abbandonato senza con ciò abbandonare l'idea di scien­ za e di verità. E anzi, in tal modo, si può sperare nella possibilità di porre su basi diverse e adeguate lo stesso problema di una scienza ef­ fettiva e concreta. La fenomenologia non sostiene in questo senso l'ab­ bandono, ma semmai la forte e intransigente riproposizione del pro­ blema della verità.

La forma come processo Questa diversa concezione della verità e della scienza emerge dalle concrete ricerche e dai risultati effettivamente conseguiti dalla scuola della psicologia della forma, che Merleau-Ponty cita spesso sia in se sia in FP, e di cui farà realizzare la traduzione francese di alcune opere. È Kurt Goldstein l' autore cui Merleau-Ponty si sente particolarmente af­ fine. Ma questa adesione non è senza riserve, e anzi in se si trovano pungenti e particolarmente acute critiche ai presupposti filosofici inin­ dagati della stessa Gestaltpsychologie. La nozione di Gestalt infatti si presta a due possibili, anche se opposti, travisamenti: da una parte se ne può fare un concetto astratto, e così diventa poi necessario spiega­ re come esso prenda parte nella concreta vita dell'organismo; d' altra parte, all'opposto, la si può vedere come una realtà fisica, in tal modo 20

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riconducendola a un'idea oggettivistica e causalistica di realtà che la psicologia della Gestalt in effetti sta invece scardinando. La nozione di Gestalt è innanzi tutto lo strumento teorico che con­ sente nel modo migliore di uscire dall' atomismo meccanicistico senza ricadere nello spiritualismo o nel vitalismo. I teorici che elaborano questo concetto lo estraggono, attraverso ricerche empiriche su sog­ getti sia sani che malati, dall'esperienza comune, cioè indagando le concrete modalità effettive con cui tali soggetti percepiscono, senza imporre a queste osservazioni degli schemi teorici preformati . Attra­ verso tali indagini emergono alcune caratteristiche fondamentali: in­ nanzi tutto una forma percettiva è una struttura globale, in cui ogni elemento è tale perché riconducibile a una totalità, e non esisterebbe "in sé" senza tale totalità. Questa totalità funge da sfondo globale ri­ spetto al quale una determinata figura si staglia come dato percettivo posto in evidenza. Ad esempio, se si percepisce un albero, lo si coglie sempre sullo sfondo di un campo, con altri alberi intorno, in una pro­ spettiva spaziale. Tale sfondo è fondamentale per cogliere la figura che spicca, in questo caso l ' albero, anche se lo sfondo stesso non è pro­ priamente oggetto della percezione, se non come cornice. Ma tale sfondo può anche, in parte, essere a sua volta portato in luce lascian­ do sfumare l'elemento percettivo p rima illuminato, come se si trattas ­ se davvero di una scena. Questa complessa struttura percettiva non può essere compresa adeguatamente attraverso una spiegazione causale. Essa va colta se­ condo una modalità diversa, una modalità basata sul comprendere (verstehen) invece che sul semplice osservare empirico (se, 117) . Ciò ha un' implicazione metodologica ma anche filosofica cruciale: non sol­ tanto la Gestalt è un concetto operativo irriducibile al paradigma em­ piristico dei dati atomici di senso, ma inoltre l' aver portato in luce que­ sta modalità come fondante la percezione impone al ricercatore anche una revisione epistemologica e categoriale dei propri presupposti teo­ rici . Ma è qui che per Merleau-Ponty i teorici della Gestalt non si so­ no rivelati all'altezza del compito. Essi infatti hanno teso, perlopiù, a ricondurre la genesi delle forme percettive a eventi fisici misurabili, cioè rinvenibili a loro volta in uno spazio omogeneo e indifferente, comprensibile in termini di spazialità fisica. Tuttavia questo non è a sua volta un dato ottenuto dalla ricerca concreta, ma un salto epistemolo­ gico che si rivela arbitrario e nocivo. La comprensione della percezio­ ne in termini di Gestalt deve invece consentire di delineare anche una scienza nuova della percezione, una scienza in cui l'osservatore non sia estromesso dal campo osservativo, ma colto come parte di esso. Tut21

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tavia tale scienza non può allora evidentemente operare con i canoni della fisica meccanicistica. Essa deve essere costruita in modo omoge­ neo alla propria problematica. Tale s cienza deve cioè divenire feno­ menologia. A sua volta questo implica che il comprendere di cui parla Merleau­ Ponty non corrisponde alla nozione proposta da Wilhelm Dilthey, in opposizione allo " spiegare " (erklà"ren) in modo causale . La compren­ sione di cui parla Merleau-Ponty cioè è una modalità che, rispetto al­ la spiegazione fisica, non varia né soltanto in relazione al contenuto, né soltanto in relazione alla forma concettuale. Per Dilthey la compren­ sione dei fatti psicologici, sociali e storici differisce dalla spiegazione causale dei fatti fisici perché i primi sono per natura diversi dai secon­ di. Questo implica che ci sia un dualismo latente di ambiti. Merleau­ Ponty non pensa che la forma percettiva sia per natura diversa dall'e­ vento fisico, come l'oggetto spirituale studiato dalle Geisteswissen­ scha/ten sarebbe diverso dall'oggetto fisico studiato dalle Naturwis­ senscha/ten. Più arditamente e più radicalmente, Merleau-Ponty ritie­ ne che la nozione di Gestalt sia tale da portare a una revisione della stessa nozione di natura, e pertanto anche a una critica della distinzio­ ne stessa tra natura e spirito, che regge la distinzione proposta da Dilthey tra scienze della natura e s cienze dello spirito . Ma questo a sua volta non significa che Merleau-Ponty stia ade­ rendo alla prospettiva neo-kantiana, ad esempio quella delineata da Windelband e pensata come critica della posizione di Dilthey. Per Windelband è necessario distinguere, non già tra scienze della natura e dello spirito in quanto scienze distinte in ragione del proprio conte­ nuto, ma tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche, cioè scienze che pongono leggi (universali o almeno generali) e scienze che descri­ vono dati singolari irriducibili a qualsiasi sussunzione generalizzante. Per Windelband non è quindi il contenuto, ma la forma strutturale della disciplina, a consentire la distinzione. Windelband aveva critica­ to la proposta teorica di Dilthey alla luce di tale distinzione, negando che la psi cologia possa essere, come sostiene il suo avversario, una scienza dello spirito, perché in realtà essa deve essere scienza nomote­ tica, e quindi epistemologicamente affine alle scienze naturali. Mer­ leau-Ponty invece ritiene che anche questa ipotesi teorica non sia sod­ disfacente. La " comprensione " di cui parla in se è di altra natura: è la comprensione possibile attraverso il metodo fenomenologico che, in­ nanzi tutto, mette tra parentesi qualsiasi approccio preordinato teori­ camente ai fenomeni, in modo da farli piuttosto parlare con la loro vo­ ce propria; e che, in secondo luogo, si fa carico del fatto che, nello stu22

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dio della percezione, chi studia è anche oggetto di studio (esigenza sot­ tolineata da Dilthey) , ma al contempo deve portare in luce le struttu­ re generali operanti che costituiscono condizioni di possibilità dell'e­ sperienza stessa (problematica di ascendenza kantiana ma rivista alla luce della fenomenologia trascendentale) . A tutto questo si aggiunge inoltre il fatto che la Gestalt, come forma incarnata, fa segno verso un' ontologia implicita del senso corporeo che Husserl ha intravisto, ma che si tratta di esplicitare. Questa tesi sarà oggetto di ampia di­ scussione proprio nella FP, ma già in se Merleau-Ponty dà alcune pre­ ziose indicazioni che puntano verso questa direzione. La Gestalt dunque è, ad avviso di Merleau-Ponty, la nozione deci­ siva per delineare una nuova concezione del senso . La percezione, in­ tesa alla luce della psicologia gestaltica, mostra di possedere specificità irriducibili sia a una prospettiva naturalistico-oggettiva che a una con­ cezione idealistico-soggettiva. Ma Merleau-Ponty insiste anche sulla necessità di evitare accenti organi cistici da filosofia romantica della na­ tura. Se infatti il senso percettivo non è puro meccanismo, e non è tra­ sparente concetto, non è peraltro neanche fusione in un tutto. La sin­ gola Gestalt è una strutturazione transeunte, che può trovare una "buona forma" ma anche, all'opposto, deviare. Il senso che in essa ap­ pare è sempre incerto, indeterminato, esposto a variazioni imprevedi­ bili . Inoltre il nesso organismo- ambiente è esso stesso a sua volta mu­ tevole a seconda del tipo di organismo. Il che significa che anche l'am­ biente non è lo stesso per tutti gli organismi. Implicita qui si può tro­ vare una critica a una certa versione dogmatica dell'evoluzionismo di ascendenza darwiniana, critica che poi sarà anch'essa ulteriormente articolata nei corsi sulla natura.

Lo sviluppo delle forme organiche La questione dei nessi tra organismi e loro ambiente porta in luce il te­ ma effettivamente centrale della ricerca condotta da Merleau-Ponty: quello, cui si accennava in apertura, del problema tra coscienza e na­ tura. Lo studio delle forme del comportamento, come si è visto, viene in effetti condotto da Merleau-Ponty in modo da sgombrare, innanzi tutto, il campo d'indagine da concezioni inadeguate. Una volta guada­ gnato il terreno proprio delle scoperte fatte dall a psicologia della Ge­ sta/t, si è poi provveduto a emendarlo da cattive auto-interpretazioni, regressive rispetto ai risultati conseguiti, al fine di mostrare che la no­ zione di Gestalt conduce a una nuova concezione della percezione e 23

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anche della realtà vivente. Questa realtà vivente a sua volta non è im­ mobile nel tempo e non è omogenea nelle forme. Vi sono forme ani­ mali più o meno complesse. Merleau-Ponty non fa intervenire un cri­ terio di tipo evoluzionistico classico, ma distingue nondimeno gradi di articolazione dei comportamenti animali in una scala ascendente, che in linea di principio si compone di passaggi infiniti, ma che può con­ cretamente essere articolata in tre livelli fondamentali : le forme sin­ eretiche, le forme amovibili, le forme "simboliche" . Si tratta di capire in base a quali criteri sia possibile a Merleau-Ponty distinguere queste tre forme fondamentali , e quali implicazioni filosofiche possegga que­ sta operazione di articolazione del regno delle forme viventi in pro­ spettiva ascendente. Il primo punto da sottolineare è relativo al modo con cui egli ca­ ratterizza le tre modalità di comportamento. Le forme sincretiche so­ no le più semplici, e caratterizzano animali " inferiori " come ad esem­ pio gli invertebrati . Il loro comportamento è legato «sia a determina­ ti aspetti astratti delle situazioni, sia a determinati complessi di stimoli del tutto particolari . In ogni modo, il comportamento si trova qui vin­ colato nel quadro delle sue condizioni naturali e non considera le si­ tuazioni nuove se non come allusioni alle situazioni vitali che gli ven­ gono pres critte» (se, q8 ) . Questo modo di qualificare il comporta­ mento di tipo sincretico è importante perché mette in luce due fatto­ ri, non necessariamente né sovente messi in relazione negli studi di settore: per questo tipo di animali, gli " stimoli " vengono da un am­ biente a un tempo molto vago e insieme molto rigido. Determinati sti­ moli appaiono come tali soltanto entro limiti molto stretti di varia­ zione, ma al contempo possono es sere molto generici e non prendo­ no mai l' aspetto di condizioni uniformi al variare del momento o del­ la situazione. In altre parole, per una formica non esiste qualcosa co­ me il " cibo " , la " tana" e così via. Se compaiono determinati stimoli, l' animale si muove, sia che tali stimoli siano dati in condizioni normali oppure solo entro contesti sperimentalmente modificati: ad esempio, un rospo cerca sempre di catturare un lombrico anche se questo è po­ sto dietro uno schermo di vetro che impedisce al rospo, per quanti sforzi faccia, di raggiungerlo ( cfr. se, 179) . Pertanto quello che a uno sguardo " oggettivo " (e cioè umano) appare come un ambiente diver­ so, modificato, in realtà non è neppure percepibile come tale per que­ sto tipo di animali . Qui Merleau-Ponty non cita, come invece farà nel secondo corso sulla natura tenuto al Collège de France, le celeberri­ me analisi di Jakob von Uexkiill, ma non è lontano da tale modo di intendere la relazione stimolo-mondo-organismo. In particolare, per 24

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questo tipo di comportamenti non esiste, propriamente parlando, " un " ambiente che possa essere modificato, ma soltanto un insieme di condizioni costantemente variabili e insieme molto semplificate e astratte rispetto all a complessità del " mon d o " quale appare allo sguardo umano. È molto importante fissare questa prospettiva perché essa funge da base per un confronto con le forme successive di comportamento, che possa portare in luce il senso particolare dell'analisi di Merleau­ Ponty. Se infatti si considera ora il secondo livello di comportamento, cioè il tipo di forma detto " amovibile " , si può vedere come sia qui che compaiono dei " segnali " , cioè stimoli che non sono semplicemente condizionati dalle strutture chimico-fisiche delle sostanze con cui gli animali "sincretici " vengono in contatto, ma cominciano a manifesta­ re un certo grado di indipendenza dal substrato materiale che li rende possibili . Questo è quindi il punto che consente a Merleau-Ponty di delineare la propria concezione: una forma di comportamento amovi­ bile (il nome si spiega alla luce della tesi) è in grado di " astrarre " , sia pure p arzialmente, dal contesto materiale; quindi il proprio " ambien­ te" è a un tempo più stabile (segnali omogenei possono derivare da so­ stanze diverse) e più libero (la variabilità dei supporti materiali che possono dare origine a stimoli omogenei permette all' animale di di­ staccarsi dai singoli contesti, almeno entro certi limiti ) . Pertanto la dzf /erenza tra forme di comportamento sincretiche e forme di comporta­ mento amovibili consiste in un aumento dell'uniformità al variare del­ le condizioni concrete, e dell'indipendenza dai contesti . Sono due de­ terminazioni che possono sembrare antitetiche, e quindi il problema che Merleau-Ponty si trova in effetti ad affrontare è quello di mostra­ re come invece esse si uniscano a configurare una peculiare "logica vi­ vent e " , di cui l 'uomo rappresenta una variante notevole, ma non un'eccezione completa. A questo proposito è necessario sottolineare che la particolare scelta del tipo di indagine compiuta da Merleau-Ponty, cioè quella sulle forme di comportamento, implica che per lui la " differenza" (se ve n'è una) tra l'uomo e gli altri animali non è data né da considera­ zioni materiali (cioè da considerazioni sul volume del cervello, sul nu­ mero di neuroni e così via), né da considerazioni per così dire meta­ fisiche (cioè basate sulle proprietà filosoficamente asserite dell' essere umano rispetto agli altri esseri viventi , sia che si voglia sottolinearne la condizione eccezionale o all'opposto la comunanza con il regno animale) . Per Merleau-Ponty la differenza può essere rilevata osser­ vando le modalità con cui l'essere vivente umano si comporta, cioè 25

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mostra di istituire una relazione con il proprio ambiente, con i propri simili, con sé stesso. Per cogliere questa differenza egli si dilunga su di un celebre espe­ rimento, condotto da Wolfgang Kohler sugli scimpanzé. Sintetizzan­ do molto il resoconto di questo esperimento, si può dire che la scim­ mia, posta di fronte al compito di raggiungere un frutto sospeso, giun­ ge al proprio scopo, in seguito a un ciclo di prove ed errori, utilizzan­ do una cassa, posta nelle vicinanze e fino a quel momento usata solo come sedile. Da un punto di vista "oggettivo" l' animale ha individua­ to un " uso" diverso per un oggetto che, prima di entrare nel " campo" esperienziale in cui è presente il compito, esisteva comunque come ta­ le. Ma per l' animale nella sua esperienza concreta non si può in realtà affermare che la " cassa- strumento " e la " cassa-sedia" , cioè utilizzata in altri momenti come sedile, siano "lo stesso " oggetto . Il " senso" della cassa dipende, per la scimmia, dal contesto pragmatico. Pertanto si può anche dire che non si tratti dello stesso oggetto in due situazioni diverse, ma di due oggetti diversi. Quello che per la scimmia non si dà è la permanenza dell'oggetto al continuo variare delle condizioni prag­ matiche del campo d'esperienza. Invece questa permanenza è esatta­ mente ciò che caratterizza il modo umano di esperire il mondo e quin­ di di comportarsi nei suoi confronti. Che cosa è cambiato? Questa domanda orienta non soltanto l' esito dell'indagine con­ dotta in se, ma in generale la riflessione successiva di Merleau-Ponty. Si tratta cioè di cogliere come sia accaduto che, dall'interno della na­ tura (o dell'Essere) sia potuta emergere, in modo imp revisto e non preordinato, una forma vivente in grado di avere cos cienza di sé. Que­ sta forma vivente non è estranea alla natura, ma neppure ne fa più com­ pletamente parte. E questo perché essa non soltanto " è " , cioè esiste, ma anche " si sa", cioè è posta di fronte alla propria stessa esistenza, co­ me tema e come problema. Dunque la questione che Merleau-Ponty pone in se è di dar conto di come la natura possa produrre una sua parte che, a sua volta, coglie la natura stessa come un tutto. Questo particolare essere vivente è in grado di avere coscienza di sé in quan­ to, al contempo, è in grado di individuare gli oggetti del proprio am­ biente come invarianti rispetto a trasformazioni spaziali e temporali. Pertanto, auto-identificazione e strutturazione di un mondo " stabile" sono, in questa prospettiva, le due facce della stessa medaglia. È come se l'uomo fosse quell'essere che dice "io" perché può concretamente anche riconoscere ciò che è "non-io " : cioè può constatare la perma­ nenza al di sotto della variazione; ciò che invece neppure la scimmia, come si è visto, può fare. Si tratta indubbiamente di un salto, ma un

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salto che non accade dal nulla. Un s alto che viene preparato dalle con­ dizioni vitali che precedono l'ordine umano. La forma " simbolica" ar­ ticola diversamente la forma " amovibile", ma non la cancella. Come pensare questa discontinuità particolare, che non è né pura continuità né pura differenza? In se Merleau-Ponty sottolinea come «la natura fisica nell'uomo non è subordinata ad un principio vitale, l'organismo non aspira a realizzare un'idea, lo psichico non è "nel" corpo un principio moto­ re», perché fisico, vitale e umano non sono tre "potenze d'essere" ma tre " dialettiche" (se, 296) . Questo a sua volta implica che i tre ordini non sono sostanze separate, ma livelli dinamici, per cui l'uomo è sem­ pre anche oggetto fisico e organismo vivente, e in generale ciascuno dei tre ordini può presentare regressioni e al contempo linee di ten­ denza verso un ordine superiore. L' analisi condotta alla luce della nozione di forma o struttura del comportamento permette così a Merleau-Ponty di concepire un livello (in particolare quello umano) come nello stesso tempo "liberato " rispetto all'inferiore e "fondato " su di esso ( cfr. se, 297 ) . È questa «duplice relazione che rimane oscura» (ibid. ) , perché la dialettica delle forme di comportamento apre due questioni : innanzi tutto quella di comprendere che cosa produca i dislivelli o la disconti­ nuità; in secondo luogo come pens are il livello superiore in relazione all'immagine di natura e di realtà ad esso connessa. Infatti è chiaro che se un livello superiore realizza un grado maggiore di indipendenza del­ l' organismo dall'ambiente, diventa necessario pensare adeguatamente il senso di questa maggiore indipendenza. Essa è, in fondo, una mag­ giore libertà di azione. Se vi è un"' ascensione" nella successione delle forme di comportamento, essa è indubbiamente basata sul fatto che gli organismi inferiori sono esposti a una serie imprevedibile e incontrol­ labile di condizioni che agiscono direttamente, mentre quelli superio­ ri possono in qualche modo aggregare e quindi prevedere gli eventi. Ma prevedere significa avere il senso del virtuale. Pertanto, in defini­ tiva, l'ascensione delle forme di comportamento significa che il possi­ bile entra nel reale, che il mondo naturale si dota, grazie all' evoluzio­ ne dialettica delle forme, di una struttura sempre maggiore e articola­ ta di virtualità, e quindi, in definitiva, che il visibile è sempre più per­ meato di invisibile, di imminenza e di latenza. Tutto questo però non in virtù di un principio estraneo ed ester­ no alla natura, ma al contrario proprio in quanto, dall'interno, la na­ tura mostra di possedere una virtualità propria, che però si sottrae al­ la concettualizzazione teorica ordinaria. Se ne sottrae perché sia il rea27

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lismo sia l'idealismo pensano il divenire in vista del divenuto e alla lu­ ce di esso, cioè in base a un principio (implicito o esplicito) di com­ pimento, che tuttavia inevitabilmente tradisce il fenomeno che deve essere compreso . Soltanto un pensiero dell'in determinazione può quanto meno provare a far fronte a questa sfida, che è tale in quanto il pensiero concettuale umano sembra costituzionalmente costretto a pens are il flusso, la trasformazione e la metamorfosi con con cetti che (anche in senso etimologico) operano in direzione della stabilità, del compimento, della realizzazione. Merleau-Ponty sta così ponendo, in effetti, un problema filosofico di p rimaria importanza: quello di deli­ neare una comprensione della realtà vivente che sia sottratta alla con­ cezione prevalente, sia filosofica che scientifica, di verità come acqui­ sizione e stabilità ( " concetto" ed " episteme" sono due parole che esprimono prop rio questa prospettiva) . Si tratta allora in realtà di una nuova nozione di verità, anche se in se questo problema non è anco­ ra posto come tale. Questa diversa nozione di verità è intimamente connessa alla per­ cezione come modalità di relazione tra la cos cienza come corporeità senziente e il mondo come ambiente altrettanto corporeo : la perce­ zione non può essere compresa né, empiristicamente, come successio­ ne di stati di coscienza, né, idealisticamente, come pensiero. La perce­ zione è in grado di delineare un senso autonomo, di contro alla pro­ spettiva empiristica, ma, di contro all'idealismo, non è in grado di im­ porre tale senso alla realtà, la quale invece si presenta così come si pre­ senta e in tal senso si dà alla percezione senza esserne creata (se, 302) . La percezione pertanto è una modalità intermedia, corrispondente al­ la natura come regione mediana, e da questo punto di vista può rap­ presentare la modalità di accesso effettivo a tale regione, in quanto non è estranea ad essa ( come una pietra sulla spiaggia) ma al contempo non la risolve in un concetto a sua volta estraniato dalla concretezza del vi­ vente. La percezione dà gli oggetti sempre in determinate prospettive, ma questo non è un difetto rispetto a un accesso migliore e più esatto alle cose, quanto l'unico modo di accedere alle cose nella loro effetti­ va corporeità. Seguendo lo Husserl delle Idee, Merleau-Ponty insiste sul fatto che la coscienza percettiva è questo o non è. Ma ciò implica anche che la successione di profili percettivi, e le loro reciproche con­ nessioni, fanno della coscienza un processo, indeterminato e però do­ tato di una sua propria coesione peculiare. La prospetticità intrinseca della coscienza come relazione per profili e adombramenti (come si esprime Husserl) non è un difetto, ma la modalità propria della per­ cezione.

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Tuttavia configurare così l'esperienza percettiva significa sostene­ re che la coscienza non è innanzi tutto possesso di sé, auto- consape­ volezza, trasparenza. Il corpo percepisce perlopiù in modo inconsa­ pevole. Comprendere la percezione come "forma simbolica" significa allora che questo tipo di simbolismo è incarnato, opaco, ambiguo . In ciò si mostra come le permanenze degli stadi " inferiori " o precedenti di comportamento non vengano mai del tutto superate: la percezione umana è ancora in parte percezione animale. Siamo al di qua della di­ stinzione cartesiana tra corpo-macchina e anima-luce (se, 304) . Anima e corpo sono intrecciati in modo inestricabile, in effetti formano un campo unico, in cui " accade" l'esperienza. Il ruolo del corpo passa perlopiù inosservato, ma emerge in modo inequivocabile quando af­ fiorano delle patologie (se, 305 ) . M a il corpo di cui qui si tratta non è quello oggettivato delle scienze biologiche: « " è l'anima che vede, non l'occhio " , diceva Cartesio per liberarsi dalle "piccole immagini vol­ teggianti nell'aria" . L'evoluzione della fisiologia moderna mostra che questa frase deve essere presa alla lettera e rivolta contro lo stesso Car­ tesio. È l'anima che vede, e non il cervello; è a partire dal mondo per­ cepito e dalle sue strutture peculiari che è possibile spiegare il valore spaziale conferito in ogni caso particolare ad un punto del campo vi­ sivo» (se, 310) . La corporeità vissuta di cui Merleau-Ponty parla (qui e poi più ampiamente nella FP) è l'anima stessa, la quale a sua volta non è altro che corpo vissuto/vivente. Con questa tesi Merleau-Ponty supera anche la filosofia criticisti­ ca di ispirazione kantiana, cui dedica un' analisi articolata nell'ultimo capitolo di se e su cui ritorna sovente anche in FP. Anche il criticismo risolve la corporeità percipiente in una struttura separata, intellettua­ listica, autonoma. E così anch'esso perde la presa sull'effettualità con­ creta dell'esperienza, che è sempre in /ieri e mai /acta. Per la filosofia criticistica, l' esperienza percettiva non può che essere un' esperienza inadeguata, mancante, privativa, cui è necessario por mano attraverso l' operatività del pensiero. Si evita con ciò di chiedersi se l'esperienza percettiva non abbia già in sé quei caratteri che vengono attribuiti sol­ tanto all'intelletto. È quanto già Husserl aveva rimproverato a Kant e ai neo-kantiani come Paul Natorp . La corporeità, infatti, pur diven­ tando a livello di comportamento umano anche un oggetto di cono­ scenza, permane pur sempre come fonte della conoscenza stessa. E allora il problema si sposta: non si tratta di risolvere l'aporia sce­ gliendo la prospettiva del corpo oggettivato (realismo empirico ) , op­ pure quella della cos cienza disincarnata (idealismo trascendentale) : si tratta di cogliere il nesso tra esperienza, esperiente ed esperito, e di 29

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pensare questo nesso come più fondamentale della distinzione stessa. Si tratta quindi implicitamente, già in questa prima opera, di elabora­ re un pensiero della dualità non dualistica. Un pensiero, in altre paro­ le, che sappia mantenere la presa sulle due facce della questione sen­ za ridurre una all' altra né ipotizzare una sintesi superiore. Un pensie­ ro per cui il locale non è l' atomico ma è snodo di relazioni, e il globa­ le non è l' olistico ma campo di senso. Per cui il simbolo non è cosa, e neppure idea (se, 331-2), quanto piuttosto una struttura (una Gestalt) , che è congiunzione di idea ed esistenza, indis cernibili, ossia «l'assetto contingente per il quale i materiali, davanti a noi, cominciano ad assu­ mere un senso; l'intelligibilità allo stato nascente» (se, 332) . Al di là quindi di ogni concezione " artificialistica" del senso, ossia per la quale il senso è configurato in qualche modo sempre prima del suo evento e separatamente da esso, e l'evento non fa che portare in luce ciò che già esiste nel pensiero ( che sia pensiero causale o finalisti­ co non fa qui differenza), per Merleau-Ponty si tratta di approfondire una filosofia dello " stato nascente" , in cui la mente «viene al mondo» (se, 335), cioè emerge, e in questo suo emergere continua un processo che la precede, e contribuisce a estenderlo, ma non a completarlo (se, 337) . Il sogno della completezza è un sogno pericoloso, un incubo: rea­ lizzare la totale coincidenza di corpo e anima, cosa e idea, non porta al trionfo della verità, ma alla scomparsa del senso, che si nutre di ulte­ riorità e di indeterminatezza, e per il quale la finitudine non è il con­ trario della tensione vitale ma la sua cifra interiore. Vita e morte quin­ di non sono opposte, ma intrecciate e inestricabili. Analogamente, la Gestalt non è né mera esteriorità amorfa né pu­ ra interiorità i deale, ma un'esteriorità (e quindi un' opacità) che in qualche modo emana il suo proprio senso: è «unità dell'interno e del­ l'esterno, della natura e dell'idea» (se, 338 ) . E correlativamente la co­ scienza per la quale la Gestalt esiste non è coscienza intellettuale, ma esperienza percettiva, cioè nesso di passività e attività, come già Hus­ serl aveva sostenuto, ad esempio in Logica/armale e trascendentale, che qui Merleau-Ponty opportunamente cita. Il fatto che la percezione ab­ bia dei limiti e non acceda mai agli enti nella loro totalità non è un di­ fetto, ma l'essenza stessa della percezione. Proprio il non poter acce­ dere completamente, ad esempio, al mio corpo (per non parlare di quelli altrui) fa sì che esso sia percepito (se, 342). Vi sono cioè aspetti di latenza ins critti in ogni manifestazione, che non sono il contrario della manifestazione stessa, ma la sua effettiva condizione di possibi­ lità. Invece di voler emendare questa presenza dell'invisibile all'inter­ no del visibile risolvendola nella pura presenza del concetto visibile 30

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con gli occhi della mente, si tratta di elaborare un pensiero all' altezza di questa particolare struttura dei fenomeni . Si tratta quindi di porta­ re all'interno stesso della coscienza trascendentale il suo rovescio e il suo fondo oscuro, la sua passività (se, 347) . Questo è ciò che distingue il trascendentale husserliano, cui Merleau-Ponty aderisce, da quello kantiano. La prima opera importante di Merleau-Ponty si conclude così con l' enunciazione di un programma ambizioso: un'indagine della co­ scienza trascendentale che, sulla base delle fondamentali indicazioni husserliane, sappia integrare, più compiutamente di quanto Husserl stesso abbia fatto, tutti gli aspetti di latenza, opacità e resistenza che pure sono parte integrante della coscienza, e non suoi difetti da cor­ reggere. La psicoanalisi è già sullo sfondo, e con essa il dibattito con Sartre (se, 352- 3 ) . La filosofia fenomenologica che Merleau-Ponty sta delineando è un approccio secondo il quale vi è senso, ma non al mo­ do della compiutezza razionale che la filosofia, fino a S artre incluso, ha continuato a considerare come il marchio del vero . «La " cosa" na­ turale, l'organismo, il comportamento altrui e il mio esistono soltanto in base al loro senso, ma il senso che scaturis ce in essi non è ancora un oggetto kantiano, la vita intenzion ale che li costituisce non è ancora una rappresentazione, la " comprensione" che vi dà accesso non è an­ cora una intellezione» (se, 358 ) . È, si potrebbe già dire, una struttura dinamica, processuale ed evenemenziale, esposta alla dissipazione, ma anche in grado di auto-organizzarsi. Sondarne le profondità è il com­ pito che Merleau-Ponty affida alla vasta sintesi della Fenomenologia

della percezione.

Il mondo della percezione La Fenomenologia della percezione viene pubblicata, come si è detto, nel 1945, e segna l' effettivo ingresso di Merleau-Ponty nel panorama fi­ losofico francese, imponendolo come esponente di punta della feno­ menologia sia in Francia che all'estero . L'opera viene letta subito an­ che in ambienti diversi dall'accademia, e si lascia interpretare come se­ conda grande tappa, dopo I: essere e il nulla di Sartre, della fenome­ nologia " esistenzialistica" di lingua francese. In effetti tale interpreta­ zione segnerà a lungo la ricezione dell'opera di Merleau-Ponty, il cui nome viene frequentemente associato a quello di Sartre, con cui aveva intanto cominciato a dirigere la rivista " Les Temps Modernes " , e di Si­ mone de Beauvoir, la compagna di Sartre, come esponente di punta 31

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dell'esistenzialismo francese. In realtà, l'opera di Merleau-Ponty non è riducibile, come si vedrà, a tale etichetta. D ' altra parte, anche la particolare interpretazione della fenome­ nologia di Husserl che egli espone non è immediatamente identifi­ cabile con la posizione del maestro , e anzi sin da subito la prospetti­ va di Merleau-Ponty viene criticata dagli husserliani più "ortodossi" . Merleau-Ponty pertanto si viene a trovare in una situazione peculiare, non dissimile in questo dal suo personale modo di argomentare le pro­ prie tesi: né (soltanto) opera fenomenologica, né (soltanto) scritto esi­ stenzialistico, la FP rappresenta un libro a più dimensioni e strati, di complessa lettura anche a causa delle strategie espositive messe in at­ to dall'autore, sui cui si dovrà tornare. Lo stesso titolo appare alquan­ to ingannevole, poiché lascia immaginare che si tratti di un argomen­ to settoriale all'interno della complessiva struttura dell'edificio feno­ menologico, laddove in effetti il libro non rappresenta nulla di meno che una presa di posizione generale sulla realtà, sull'esperienza, sulla soggettività e sulla verità, che vengono viste come altrettante questio­ ni da rinnovare radicalmente alla luce di una nozione, quella di perce­ zione appunto, che mostra così la propria valenza fondativa. La FP rappresenta un lavoro estremamente ambizioso dissimulato da un approccio apparentemente settoriale. Oggi si sa che le due tesi dottorali scritte da Merleau-Ponty tra la fine degli anni trenta e la metà degli anni quaranta avevano una titolazione provvisoria che le acco­ munava più di quanto i titoli poi effettivamente dati dall' autore alle due opere non facciano presagire: il lavoro più vecchio aveva per tito­ lo " coscienza e comportamento " ; quello più recente, e principale, si intitolava " coscienza percettiva " . L'indicazione è importante, perché chiarisce un punto delicato per la corretta interpretazione della filoso­ fia di Merleau-Ponty: tutti i concetti fondamentali del suo pensiero, in p arte già evocati e che saranno esposti nelle pagine seguenti, vanno in­ tesi alla luce di un progetto generale, squisitamente fenomenologico, consistente nel delucidare il senso quale si dà concretamente nell'e­ sperienza. La nozione di coscienza è pertanto quella più problemati­ ca, ma anche quella che costituisce il problema su cui costantemente, e fino agli ultimi scritti pubblicati postumi, Merleau-Ponty ritorna. Anche le questioni relative al linguaggio, alla storia e alla politica ven­ gono ricondotte a un rinnovamento della concezione della cos cienza alla luce di una personale prospettiva fenomenologica, fondata sul­ l'incorporazione o incarnazione della coscienza stessa. Sicché nella FP Merleau-Ponty recupera e generalizza i risultati acquisiti con l'indagi­ ne sulla nozione di comportamento, e colloca al centro della propria 32

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indagine la nozione di soggetto corporeo, o corpo vissuto, come luo­ go primordiale dell'evento del senso . Tale posizione non verrà mai ab­ bandonata, ma piuttosto generalizzata e radicalizzata in direzione di un approfondimento del significato antologico di questa prospettiva. La fenomenologia del corpo vissuto diventa allora l'antologia della carne. Ma senza una dettagliata discussione di questa fenomenologia, anche l'antologia rimane oscura e incomprensibile.

Il ritorno ai fenomeni e la questione della natura della fenomenologia Merleau-Ponty esordisce ponendo il problema di come definire la fe­ nomenologia, problema che, egli nota, può apparire strano dopo mez­ zo secolo (alla data di pubblicazione del suo libro) di ricerche e lavori di Husserl (FP, 1 5 ) . Tuttavia, la fenomenologia è allo stesso tempo stu­ dio delle essenze ma anche sforzo di ricollocare le essenze nell'esi­ stenza in quanto non si può prescindere dalla "fatticità" dell'uomo e del mondo. È un approccio trascendentale che pone tra parentesi le tesi dell' atteggiamento naturale, ma anche una filosofia per la quale il mondo è sempre " già là" prima di ogni riflessione: una presenza ina­ lienabile; quindi è insieme scienza esatta e resoconto concreto dello spazio , del tempo e del mondo vissuti. Descrizione diretta dell' espe­ rienza così come essa si presenta, prescindendo da implicazioni e pre­ supposti teorici, ma insieme (soprattutto nell 'ultimo periodo del lavo­ ro di Husserl) fenomenologia genetica e costruttiva. Né vale distin­ guere la fenomenologia di Husserl da quella di Heidegger, in quanto entrambe in fin dei conti hanno a che fare col problema del " mondo " (in Husserl il mondo della vita, in Heidegger l' essere-nel-mondo ) . Si può allora voler rinunciare a circoscrivere una dottrina che sembra vo­ ler dire tutto e il suo contrario, ma non si spiegherebbe il suo presti­ gio . Che deriva secondo Merleau-Ponty dal fatto che la fenomenolo­ gia «si lascia praticare e riconoscere come maniera o come stile ed esiste

come movimento ancor prima di essere giunta a un 'intera coscienza/ilo­ so/t'ca. Essa è in cammino da molto tempo, i suoi dis cepoli la ritrova­ no ovunque, certamente in Hegel e in Kierkegaard, ma anche in Marx, Nietzs che e Freud» (FP, 16) . Non si può capire la fenomenologia se non praticandola. Bisogna dunque innanzi tutto p artire dal fatto che non si tratta di dare spiegazioni o analisi, ma produrre descrizioni. Si deve quindi ab33

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bandonare la fiducia ingenua e acritica nella scienza e tornare a guar­ dare in faccia "le cose stesse " . Il che significa anche e immediatamen­ te che io che des crivo non sono il risultato delle molteplici causalità che determinano il mio corpo o il mio " psichismo " , non sono una par­ te del mondo, semplice oggetto delle scienze come la biologia, la psi­ cologia o la sociologia. Quello che so del mondo, anche tramite la scienza, lo so a partire da una veduta mia o da un' esperienza prelimi­ nare del mondo, senza di cui i simboli della scienza non significhereb­ bero nulla. La scienza sottintende la cos cienza senza assumerla, e così la falsifica (cfr. FP, 17) . Ma fare questa affermazione significa contrapporsi anche al ritor­ no idealistico alla coscienza. Cartesio e soprattutto Kant hanno svin­ colato la coscienza o il soggetto da ciò che appare, facendone la con­ dizione dell 'apparire, e l' atto del collegamento diventa il fondamento del collegato. Sia pure mostrando una chiara consapevolezza della questione, in Cartesio e Kant non c'è però una vera riflessione sulla bi­ lateralità del nesso collegante-collegato . La sintesi universale è ciò sen­ za di cui non ci sarebbe mondo. In tal modo essi sostituiscono alla de­ scrizione dell' esperienza una sua ricostruzione razionale. È in questo senso che Husserl, nelle Ricerche logiche, ha rimproverato a Kant uno "psicologismo delle facoltà dell'anima " , e ha opposto a un' analisi sol­ tanto noetica, che fa riposare il mondo sull' attività sintetica del sog­ getto, la sua riflessione noematica che rimane nell' oggetto e ne espli­ cita l'unità primordiale anziché generarla. Quindi per Merleau-Ponty il mondo è là prima di ogni analisi, e non si può né si deve sognare un ritorno all'uomo interiore di Agosti­ no, il quale, per trincerarsi in una soggettività invulnerabile al di qua dell'essere e del tempo, cade in un'ingenuità che perde la consapevo­ lezza del proprio cominciamento. La riflessione accade sempre a par­ tire da un irriflesso che non sarà mai totalmente superato, perché il soggetto stesso è dato a sé stesso, cioè non può ignorare la propria fat­ ticità iniziale e finale, il suo non poter uscire da sé per accedere a una sfera autonoma della verità. Qui sta il senso del permanere in un ap­ proccio descrittivo e non tentare l a via della spiegazione o della co­ struzione. La descrizione fenomenologica del mondo deve essere per­ seguita con la consapevolezza che essa si distingue da una ricostruzio­ ne tramite il giudizio o l'immaginazione. «Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni più sorprenden­ ti e per respingere le nostre immaginazioni più verosimili. La perce­ zione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una pre­ sa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli 34

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atti ed è da questi presupposta» (FP, 19 ) . In tal mondo Merleau-Ponty introduce la percezione come modalità di " essere al mondo " , non di conoscerlo. E, correlativamente, il mondo è il suolo e l'orizzonte vita­ le della percezione e non un oggetto o un concetto. «Il mondo non è un oggetto di cui io posseggo nel mio intimo la legge di costituzione, ma è l' ambiente naturale, il campo di tutti i miei pensieri e di tutte le mie percezioni esplicite. La verità non " abita" soltanto "l' uomo inte­ riore" , o meglio non v'è uomo interiore: l'uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmati­ smo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo» (ibid. ) . S i delinea così l a problematica dell'intera opera: il superamento degli opposti e speculari assolutismi dell' empirismo oggettivo e dell'ideali­ smo soggettivo. Ciò pone il problema del senso della riduzione fenomenologica. Merleau-Ponty ricorda come Husserl sia tornato sovente sul tema, e abbia dedicato ad esso molti scritti inediti (e soltanto molto recente­ mente pubblicati nel volume XXXIX della Husserliana), mostrando un' acuta cons apevolezza della problematicità del concetto e della funzione, cruciale, della riduzion e . Merleau-Ponty rifiuta l ' auto­ comprensione husserliana della riduzione, in nome delle effettive ri­ cerche concrete di Husserl . Il modello, che per tanto tempo Husserl ha tenuto fermo, della riduzione come riconduzione dell' esperienza al­ la correlazione noesi/noema e allo schema apprensione/contenuto ap­ prensionale in realtà non è l'ultima parola husserliana. La trasparenza ideale, a cui tale analisi deve mettere capo, si scontra infatti con l'e­ sperienza reale dell'alterità così come con quella del mondo . L'espe­ rienza dell'alter ego rimane infine per Husserl un paradosso che non si supera in una cos cienza universale. L'esteriorità dell'altro e quella dell'io stesso non sono tolte, ma anzi si mostrano nella loro irriducibi­ lità come elementi essenziali perché esperienza vi sia. Ciò a sua volta impone di rimanere ancorati alla situazione del soggetto e alla sua ine­ renza al mondo, senza sognare di superarli innalzandosi al livello di uno spettatore estraneo che non sarebbe più un Io. Vi è in me una «specie di debolezza interna che mi impedisce di essere assolutamen­ te individuo e mi espone allo sguardo degli altri come un uomo fra gli uomini, o almeno una coscienza fra le cos cienze» (FP, 21 ) . Il che implica la fine del primato del cogito come accesso privile­ giato dell'Io alle proprie determinazioni. Lo scoprirsi situato storica­ mente e pragmaticamente non è un ostacolo o un limite, ma l'unico modo perché ci sia effettivamente un'intersoggettività. Merleau-Ponty 35

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evoca la Crisi delle scienze europee a suffragio di questa tesi. E questo perché alla fine dell'indagine la fenomenologia scopre che il mondo non è "fuori " e il soggetto " dentro " , in quanto " dentro " al soggetto sta il mondo stesso, e il soggetto si auto- comprende a partire da un'este­ riorità che non è oggettiva, ma dal lato del soggetto stesso. Il pensiero è " un fatto" ( cfr. FP, 22) , sicché l'idealismo è superato dalla scoperta del soggetto come " essere al mondo " , espressione con cui Merleau­ Ponty traduce, ma anche trasforma, lo heideggeriano "in der Welt sein " di Essere e tempo. Non si tratta però di celebrare questo legame, quanto piuttosto di portarlo in luce, cioè innanzi tutto sospenderlo nella sua cogenza. Questo è appunto l'insegnamento della riduzione fenomenologica. Es­ sendo ovvio, il legame passa inosservato, e su di esso si costruiscono tutte le teorie del senso comune e della scienza, senza indagarlo pre­ ventivamente. Pertanto si tratta di tornare a riflettere su di esso, adot­ tando l' atteggiamento di " stupore" filosofico di cui parla Eugen Fink quando definisce la riduzione fenomenologica. " Sospendere" il lega­ me e la sua forza nascosta significa non già trincerarsi in una coscien­ za impermeabile, ma studiare i fili intenzionali, che esso istituisce per farli apparire come tali. «Il tras cendentale di Husserl non è quello di Kant, e Husserl rimprovera alla filosofia kantiana di essere una filoso­ fia " mondana" perché utilizza il nostro rapporto al mondo, che è il mo­ tore della deduzione tras cendentale, e fa il mondo immanente al sog­ getto, anziché stupirsene e concepire il soggetto come tras cendenza verso il mondo. Tutto il malinteso di Husserl con i suoi interpreti, con i " dissidenti" esistenziali e infine con se stesso discende dal fatto che, appunto per vedere il mondo e coglierlo come p aradosso, occorre rompere la nostra familiarità con esso, e questa rottura non può inse­ gnarci altro che lo scaturire immotivato del mondo. Il più grande in­ segnamento della riduzione è l'impossibilità di una riduzione comple­ ta» (FP, 22- 3 ) . Uno spirito assoluto non avrebbe bisogno della riduzione, e l e filosofie idealistiche non danno conto d i questo bisogno d i auto­ esplicitazione e di mediazione di sé con sé proprio perché presuppon­ gono di poter giungere a tale chiarezza, e quindi in fin dei conti alla de­ finizione della contingenza come contingenza superata. La percezione rappresenta quindi il nesso che si tratta di disoccultare, non per arri­ vare a una verità superiore o diversa, ma a quella della percezione stes­ sa. Il che significa, aggiunge Merleau-Ponty, fare sp azio alla tempora­ lità, da cui non si può uscire, come anche Husserl afferma. Per Hus­ serl la filosofia fenomenologica è «un'esperienza rinnovata del proprio

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cominciamento, che consiste interamente nel descrivere questo co­ minciamento», e quindi «la riflessione radicale è coscienza della pro­ pria dipendenza nei confronti di una vita irriflessa la quale è la sua si­ tuazione iniziale, costante e finale. Lungi dall'essere, come si è credu­ to, la formula di una filosofia idealistica, la riduzione fenomenologica è quella di una filosofia esistenziale: l'In-der-Welt-sein di Heidegger non appare che sullo sfondo della riduzione fenomenologica» (ibid. ) . Analoghe considerazioni si possono fare, aggiunge Merleau-Ponty, per la questione delle essenze. Husserl afferma che ogni riduzione fe­ nomenologica è anche una riduzione eidetica. Questo significa che non si dà accesso diretto alla percezione, cioè che per descriverla bisogna prenderne le distanze. Si tratta di retrocedere dal fatto dell'esistenza al­ la sua natura e ai suoi modi. Questo però non implica che la filosofia possa assumere l'esistenza come oggetto puro: essa è troppo stretta­ mente presa nel mondo per potersi conoscere come tale nel mentre è gettata in esso: l'idealità serve per conquistare la fatticità dell' esisten­ za, non per negarla. Questa tesi si oppone a quelle posizioni, come quella della scuola di Vienna, che ritengono che si possa e debba aver a che fare sempre solo con significati. La tematizzazione dell'esistenza vissuta non deve mettere capo a un "significato " , per farne l'analisi lo­ gica. Questo positivismo è agli antipodi della posizione di Husserl. La riduzione prende le distanze dall' esistenza per vederla meglio e per comprenderla, non per trasformarla in altro . Le essenze non sono se­ parate dall'esistenza. Non si tratta in altri termini di analizzare delle pa­ role, ma delle " cose " . Naturalmente è necessario esprimersi, e questo non può essere fatto che con il linguaggio. Questo però non vuol dire che ciò di cui si parla sia riducibile a significati logici o linguistici . «La riduzione eidetica è viceversa la risoluzione di far apparire il mondo co­ sì come è prima di ogni ritorno su noi stessi, è l' ambizione di eguaglia­ re la riflessione alla vita irriflessa della cos cienza» (FP, 25). Il che non significa peraltro che si debba allora passare all'indagi­ ne degli stati di coscienza. La distinzione è già fatta nelle cose e nel mondo: io posso distinguere i segni e i sogni dalla realtà delle cose non perché posso ritrovare tale distinzione in me, ma perché essa si dà da sé. L'evidenza per Husserl è "l'esperienza della verità " . Ma questa evi­ denza non costituisce una metabasis rispetto all'esistenza. Non è una mutazione in senso idealistico. È lo stesso Husserl a fare queste affer­ mazioni nelle sue ultime opere (Merleau-Ponty cita in particolare la Logica /armale e trascendentale, del 1929 ) . La fenomenologia e la sua riduzione eidetica cercano di mostrare il senso per cui " c'è il mondo " , la s u a " mondità" . Per questo essa fonda i l possibile sul reale. 37

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Tutto questo porta Merleau-Ponty a dis cutere il tema dell'inten­ zionalità. A suo avviso non è questa la scoperta fondamentale della fe­ nomenologia, in quanto già Kant ne aveva sostanzialmente delineato il concetto nella Confutazione dell'idealismo. E nella Critica del giudizio aveva mostrato il ruolo dell'immaginazione e dell'intelletto prima del­ la conoscenza d'oggetto, arrivando inoltre anche a parlare di nozioni senza concetto . Si tratta quindi di mostrare che il soggetto ha una na­ tura. Ma se questa esigenza viene recepita, allora si tratta di trovare il modo di descrivere adeguatamente tale natura. Kant si è avvicinato al­ la questione parlando di una teleologia della coscienza. È il tema che in fenomenologia viene espresso nei termini della relazione coscienza­ mondo. Per questo si può dire, secondo Merleau-Ponty, che tale ap­ profondimento della natura della coscienza, che già Kant aveva tenta­ to quando aveva provato ad andare al di là delle acquisizioni della Cri­ tica della ragion pura, equivalga a ciò che in Husserl prende il nome di intenzionalità fungente. Che è unità antepredicativa, naturale, del mondo e della nostra vita, che appare nelle modalità non " razionali " della cos cienza le quali però non sono più considerate come modalità difettive. Qui sta il senso dell'interpretazione merleau-pontyana della fenomenologia. È grazie a questa nozione allargata di intenzionalità che la feno­ menologia si distacca dall'intellezione classica. Comprendere diventa, così, non più reperire dei concetti, ma riafferrare l'intenzione totale che fa essere ogni ente ciò che è. Tema assimilabile per certi versi all'idea in senso hegeliano, intesa non come una legge di tipo fisico-matematico, accessibile al pensiero oggettivo, ma come formula di un unico com­ portamento nei confronti dell'altro, della Natura, del tempo e della morte, che è una certa maniera di plasmare il mondo. Questo consen­ te di superare il caso e di arrivare a comprendere realmente l' avveni­ mento (sia esso percettivo o storico) , !asciandolo però alla sua condi­ zione di evento, il che significa porre la questione della genesi del sen­ so, come Husserl dice nella Logica formale e trascendentale e negli ine­ diti ( cfr. FP, 29 ) . Il senso si dà, ma non per un atto libero di una co­ scienza senza mondo, quanto piuttosto perché la cos cienza, che è cor­ porea, è situata e "gettata" nel mondo e quindi " condannata" al senso. La fenomenologia ha sì, quindi, unito estremo soggettivismo ed estremo oggettivismo, ma forse sarebbe meglio dire che li ha supera­ ti entrambi come posizioni opposte e discordemente concordi . «Per la prima volta la meditazione del filosofo è abbastanza cosciente per non realizzare nel mondo, ancor prima di espletarsi, i propri risulta­ ti . Il filosofo tenta di pensare il mondo, l'altro e se stesso e di conce-

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pire i loro rapporti. Tuttavia, l'ego meditante, lo " spettatore disinte­ ressato " (uninteressierter Zuschauer) non raggiungono una razionalità già data, ma "si stabiliscono " e la stabiliscono con una iniziativa che non ha garanzia nell' essere e il cui diritto riposa interamente sul po­ tere effettivo che essa ci dà di assumere la nostra storia. Il mondo fe­ nomenologico non è l' esplicitazione di un essere preliminare, ma la fondazione dell' essere, la filosofia non è il rispecchiamento di una ve­ rità preliminare, ma, come l' arte, la realizzazione di una verità» (FP, 29-30 ) . La critica alla nozione di verità come rispecchiamento, e l'idea fondamentale della produzione del vero, hanno qui il loro luogo inau­ gurale nelle opere di Merleau- Ponty, il quale successivamente non cesserà di rimeditare questo problema portandolo infine al suo livel­ lo propriamente antologico . Ci si può chiedere come tutto ciò sia possibile. Si deve risponde­ re, secondo Merleau-Ponty, dicendo che il solo logos che effettiva­ mente preesista è il mondo stesso, e la filosofia non deve farlo passare dalla sua esistenza manifesta a un'esistenza possibile che poi è in realtà un' esistenza necessaria concepita astrattamente e ipostatizzata. Il pro­ blema non è se il mondo possa o debba avere una ragione e una ra­ zionalità, ma quale sia la sua razionalità effettiva, che noi vediamo ma­ nifestarsi costantemente, ma perdiamo di vista sussumendola sotto concetti inadeguati . «La vera filosofia consiste nel reimparare a vede­ re il mondo» (FP, 30) . È la comunicazione col mondo e dentro il mon­ do a costituire il terreno su cui poggia questa nuova concezione della razionalità. Quindi essa non potrà programmaticamente escludere nessun fenomeno, nemmeno quelli più lontani dal pensiero " classico " , come l e patologie o l'esperienza infantile. Per poter fare questo i n mo­ do adeguato sarà però necessario che la fenomenologia interroghi sé stessa allo stesso modo con cui interroga tutti i generi di conos cenza. È necessaria una fenomenologia della fenomenologia, cosa che spiega il suo stile peculiare: «L'incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma erano inevitabili perché la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione» (ibid. ) . Essa è un movi­ mento che non si trova soltanto presso i filosofi di professione, ma an­ che tra gli artisti e scrittori, perché essa attua lo stesso genere di stu­ pore, ha la stessa esigenza di coscienza, la stessa volontà di cogliere il senso del mondo o della storia allo stato nascente. In questo senso «es­ sa si confonde con lo sforzo del pensiero moderno» (FP, 31) . 39

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Dialettica dei concetti filosofici di percezione Impostato in tal modo il tema generale della fenomenologia della per­ cezione, come descrizione del contatto primordiale tra un mondo espe­ rito e un soggetto incarnato, è innanzi tutto necessario operare una cri­ tica delle concezioni più importanti, sia scientifiche che filosofiche, del­ la percezione. La strategia argomentativa di Merleau-Ponty, che con­ trassegna tutta l'opera e anche molti degli scritti successivi, si fonda su due modalità, efficaci ma tali che la loro interconnessione rende com­ plessa la lettura del testo. Innanzi tutto, e in linea generale, egli punta costantemente a far giocare il realismo empiristico e l'idealismo intel­ lettualistico l'uno contro l'altro, al fine di farne emergere il presuppo­ sto comune, che consiste nel considerare la verità come già presente da qualche parte, e da guadagnare attraverso un metodo adeguato. Empi­ rismo e idealismo mostrano allora di possedere una radice comune: l'i­ dea che la verità sia rispecchiamento nel pensiero di una realtà autono­ ma e compiuta, come tale totalizzabile nel pensiero stesso in quanto to­ talizzata a priori . Che l'empirismo proceda dal basso, passo per passo, in vista di un compimento che potrebbe anche non essere mai definiti­ vamente raggiunto, e che l'idealismo, al contrario, cerchi di superare questa procedura attraverso un approccio diverso, in grado di accede­ re innanzi tutto alla totalità senza dovervisi avvicinare per gradi, tutto questo non cambia il fatto che la verità è concepita come definitiva e già determinata. A questa nozione di verità, quindi, Merleau-Ponty op­ pone un'idea di espressione come configurazione originaria, e di inde­ terminazione positiva come virtualità intrinseca. L'altro aspetto da sottolineare qui è di natura stilisti ca. Merleau­ Ponty molto spesso segue ravvicinatamente l'argomentazione di colo­ ro che vuole criticare, al punto da dare l'impressione di volerne spo­ sare le tesi, solo per farla esplodere dall'interno arrivando al punto in cui mostra la propria intima contraddittorietà o insufficienza di fron­ te all'esperienza concreta. Il criterio seguito da Merleau-Ponty è per­ tanto quello di far collassare dall'interno le tesi filosofiche criticate, utilizzandone gli elementi positivi ma mostrandone i limiti , in direzio­ ne di una "terza posizione " che non è una sintesi né tanto meno un compromesso, quanto in effetti un sovvertimento dei presupposti co­ muni (ma sovente "non detti " ) alle opposte dottrine classiche. Si trat­ ta di una strategia già utilizzata varie volte anche da Husserl, e che Merleau-Ponty generalizza. La grande eleganza della prosa di FP a vol­ te offusca questa strategia argomentativa che però, al di sotto di una prosa brillante, punta costantemente al rigore concettuale. 40

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Il tema da cui si deve inevitabilmente partire è lo statuto concet­ tuale delle qualità sensibili. Si crede comunemente che la qualità sia colta immediatamente, quando in realtà essa si dà solo come relazio­ ne. A questo proposito sono possibili due errori: uno consiste nel fare della qualità un elemento della coscienza quando invece è un dato per la coscienza, cioè ha un senso. L' altro nel pensarla come un senso e un oggetto pienamente determinati. Non si ammette cioè la presenza di un elemento di indeterminazione ( cfr. FP, 38) intrinseco alla percezio­ ne. E questo perché si pensa la percezione (fin d al livello sensoriale) in termini di mondo oggettivo, con proprietà che devono essere misura­ bili, laddove il campo percettivo non si sottomette a tale configurazio­ ne. L' ambiguità viene attribuita a insufficienze soggettive, ma non è ammessa nel mondo come tale. Si invoca a questo proposito l'atten­ zione (ciò che sfugge all'attenzione è indeterminato, ma ciò che entra nel campo dell'attenzione non può esserlo) che invece Merleau-Ponty intende dis cutere criticamente. «Dobbiamo riconoscere l'indeterminato come un fenomeno po­ sitivo . È in questa atmosfera che si presenta la qualità. Il senso che es­ sa racchiude è un senso equivoco, si tratta di un valore espressivo piuttosto che di un significato logico. La qualità determinata, con la quale l'empirismo voleva definire la sensazione, è un oggetto, non un elemento della coscienza, ed è l' oggetto tardivo di una cos cienza scientifica. Per questi due motivi, più che rivelare essa maschera la soggettività» (FP, 3 9 ) . Ricorrere alla fisiologia della sens azione per su­ perare questo problema non produce in realtà un reale avanzamento. La teoria del comportamento come reazione lineare agli stimoli con­ tinua a permanere nei pregiudizi oggettivistici che sono comuni alla psicologia empiristica appena dis cussa. La discussione condotta qui da Merleau- Ponty riproduce le analisi di se, e mostra come l'ipotesi di costanza dallo stimolo, attraverso il trasmettitore sino al recettore, sia soltanto un'ipotesi teorica che si basa su di una semplificazione, ammessa come tale dagli stessi fisiologi . Non esistono esperienze cru­ ciali che possano dimostrare la validità della legge di costanza, che in realtà è già sempre presupposta ogni volta che la si vuole provare. Ciò che non è sostenibile è che il mondo percepito sia una " copia" del mondo oggettivo, che verrebbe prodotta nel cervello attraverso scan­ sioni lineari stimolo-risposta. Il mondo della cos cienza in realtà non è mai una copia ma sempre una configurazione. Ciò non significa che sia una creazione ideale, ma che già a livello sensoriale si ha a che fa­ re con strutture di senso e non con eventi fisici. Tra le sensazioni sem­ plici e le percezioni complesse non vi è differenza di natura, ma di gra41

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do. Il che significa sia che le sensazioni hanno già una natura simbo­ lica, sia che le percezioni sono ancora configurazioni corporee e non disincarnate. Il che implica anche che né il complesso è una somma di dati sem­ plici, né il semplice sia un'occasione di manifestazione di un tutto già previamente configurato. Anche questa tematica relativa all'opposi­ zione semplice/ complesso sconta in realtà un pensiero della realtà de­ terminata, che non prende in considerazione l'indeterminazione, cioè il /arsi dell'esperienza. L'introduzione di una dottrina causale (effi­ ciente, occasionalistica o comunque concepita) risponde a questa esi­ genza pregiudiziale che si spiega soltanto con l'incapacità o il rifiuto di ammettere l'indeterminato come componente positiva ed effettiva (dell'esperienza e anche della realtà) . «Anche lo scienziato deve imparare a criticare l'idea di un mondo esterno in sé, giacché i fatti stessi lo invitano ad abbandonare quella del corpo come trasmettitore di messaggi. Il sensibile è ciò che si co­ glie con i sensi, ma ora sappiamo che questo " con" non è semplice­ mente strumentale, che l' apparato sensoriale non è un conduttore e che anche alla periferia l'impressione fisiologica si trova legata a rela­ zioni un tempo considerate centrali» (FP, 40 ) . La nozione classica di sensazione si dimostra essere così non il dato reale di un' esperienza im­ pregiudicata, ma il frutto tardivo di una concezione intellettualistica non ricavata dai fenomeni (cfr. FP, 4 3 ) . Il corpo viene pensato in ter­ mini di sistema fisico, o fisico-chimico . Si cerca perciò di costruire una scienza oggettiva della soggettività, ma è un tentativo votato al falli­ mento . E per ragioni intrinseche al modo stesso con cui vengono con­ dotte le ricerche, non per un pregiudizio filosofico. Già a livello di or­ ganismo, ad esempio, il contesto è biologico e non più puramente fisi­ co : vi è un senso biologico della situazione. Il senso percettivo possiede leggi proprie incomprensibili a uno sguardo oggettivante. Del resto la percezione non è un che di statico e immutabile, ma dipende anche dal contesto storico-sociale, e soprattutto è qualcosa che " si fa" , una dire­ zione e non una funzione primitiva. Possiede una natura propria, "p re­ oggettiva " , che se non è riducibile all' oggettivismo empiristico non de­ ve però neppure essere pensata in termini soggettivi idealistici. Si tratta quindi di delineare la nozione di un senso percettivo, che a un tempo sia senso e sia radicato nella "materi a " , senza che que­ st'ultima venga intesa materialisticamente. «Il nostro campo percetti­ vo è fatto di " cose" e di "vuoti fra le cose"» (FP, 50) . Un vuoto non è materia in senso materialistico. Però non è neppure un dato eteroge­ neo, un "supplemento d'anima" per così dire. Ciò si comprende bene 42

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se si prova a immaginare di percepire i vuoti come cose e le cose come vuoti . Non si avrebbero solo le stesse sensazioni diversamente asso­ ciate, perché non vi sono dati bruti, indifferenti alle loro connessioni, ma un'esperienza del tutto diversa. Del resto senza una percezione glo­ bale non si darebbero neppure somiglianze e contiguità, che sono i nessi associativi usualmente ammessi. Pertanto tali nessi associativi, contrariamente a ciò che crede larga parte della psicologia, non sono condizioni oggettive. Ciò che si perde, in questi modi di concepire la percezione a partire dal percepito, è il suo ruolo di apertura in senso attivo, di dischiudimento. Diventa pertanto rilevante la nozione di im­ minenza: un'impressione pura non può essere dotata di imminenza; per questo non si può parlare di associazione di impressioni intese in tal modo. Deve sempre entrare in gioco un elemento di " comprensio­ ne" , anche se non intellettuale. La paradossalità delle tesi empiristiche e intellettualistiche emerge dallo studio di alcune forme p atologiche di esperienza: in esse lo spa­ zio si frammenta e diventa più contingente senza con ciò annullarsi. Questo indica che l' esperienza deve innanzi tutto costituirsi come con­ figurazione di un campo percettivo in grado di fornire localizzazioni, senza che esse costituiscano determinazioni univoche sul modello del­ la geometria. È una spazialità vissuta e in quanto tale vaga, ma non me­ ramente illusoria. Il campo percettivo, che generalmente appare uni­ voco, in realtà può perdere la sua struttura invariante, il che significa che è la genesi di tale invarianza a rappresentare il tema da indagare. Vi è uno spazio pre-oggettivo che è compito dell'attenzione configu­ rare in modo stabile. Vi è pertanto una sorta di storicità delle struttu­ re a priori, viste come soglie e non più come forme innate. Rispetto a questo modello, la nozione usuale di attenzione riguar­ da quindi soltanto il già acquisito, il già costituito, e non può dar con­ to della costituzione. La nozione di attenzione deve poter spiegare an­ che la configurazione nuova, la realizzazione di soglie, cioè una capa­ cità figurale. Queste figure non sono preformate, non sono date se non come orizzonti, cioè come indeterminate (si potrebbe parlare qui di at­ mosfere) . Questo implica che l' acquisizione di una soglia, di una strut­ tura, di una configurazione, retroagisce sui dati anteriori, facendoli ora apparire come loro preparazioni . Ma è un effetto che cancella la si­ tuazione anteriore con le sue peculiarità, e con ciò cancella anche la contingenza dell' accesso al nuovo livello, intendendolo come evento necessario quando in realtà è soltanto possibile. L'unità della coscien­ za si costituisce pertanto secondo tappe contingenti che le danno una natura di sintesi di transizione, e quindi non una sintesi che debba 43

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giungere al proprio fine preordinato . Si tratta di un miracolo perché la rottura di un equilibrio è a un tempo l'istituzione di un equilibrio nuo­ vo . «Così, l' attenzione non è un'associazione di immagini, né il ritor­ no in sé di un pensiero già padrone dei suoi oggetti, ma la costituzio­ ne attiva di un oggetto nuovo che esplicita e tematizza ciò che prima era offerto solo a titolo di orizzonte indeterminato» (FP, 69 ) . L'oggetto è in questo senso "motivo " , e non causa, dell' attività dell'attenzione. Questo mostra anche come la coscienza non sia libera di transitare in­ differentemente sugli oggetti del mondo come su di uno spettacolo inerte, perché sono prop rio tali oggetti ad attivarla, ad " attrarla" in modo più o meno pressante, mostrando la sua peculiare "p assività" . Ogni atto di attenzione è perciò un passaggio dall'indeterminato al de­ terminato, che tuttavia non costituisce la "verità" dell'oggetto, ma sol­ tanto una sua temporanea cristallizzazione. Il "vero " , sia esso empiri­ sticamente o intellettualisticamente compreso, non si adatta a questo cangiante mondo percettivo e alla sua logica peculiare. L'intellettualismo non è in grado di motivare il giudizio errato, che però è un aspetto comune del percepire. Perché ci si dovrebbe mai in­ gannare, se ogni percezione non è che un giudizio? E come si potreb­ be poi riconoscere l'errore? In effetti il vedere, e in generale il perce­ pire, è al di là della sensazione e al di qua del giudizio, e soprattutto mostra come le nozioni di impressione e di giudizio siano speculari ed entrambe subordinate alla concezione di un mondo dato a prescinde­ re da come appare. «Non avremo altro che un'essenza astratta della coscienza, finché non avremo seguito il movimento effettivo con il quale in ogni momento essa riafferma i suoi atti, li contrae e li fissa in un oggetto identificabile, passa a poco a poco dal "vedere" al " s ape­ re" e ottiene l'unità della propria vita. Non raggiungeremo questa di­ mensione costitutiva, se sostituiremo con un soggetto assolutamente trasparente l' unità piena della coscienza e con un pensiero eterno l"' ar­ te recondita" che fa sorgere un senso nelle " profondità della natura"» (FP, y6) . L'intellettualismo è, rispetto a questo stato nascente, inade­ guato per difetto o per eccesso. Naturalmente, come Merleau-Ponty ricorda, l'intellettualismo si presenta come dottrina della scienza, non della percezione, ma il suo limite consiste nel separare la scienza dalla percezione e nel vedere la seconda solo come forma diminuita e difettiva, quindi da emendare, in vista del raggiungimento della prima. Il che implica che le radici del­ la scienza vengano occultate e che essa divenga pertanto un' auto-ne­ gazione della propria scaturigine. L'empirismo sbagliava nel trattare la coscienza come un " angolo" di un mondo oggettivo esistente in sé. L'a44

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nalisi riflessiva rompe con questa ingenuità, mostrando che il mondo in sé in effetti è costituito dalla coscienza. Ma tale coscienza costituente a sua volta non è colta in ciò che è, ma costruita in modo tale da ren­ dere possibile l'idea di un essere assolutamente determinato : «il fatto è che si suppone effettuato in qualche luogo ciò che per noi non è se non intenzione: un sistema di pensieri assolutamente vero, capace di coordinare tutti i fenomeni, un geometrale che renda ragione di tutte le prospettive, un oggetto puro nel quale sbocchino tutte le soggetti­ vità. Bastano questo oggetto assoluto e questo soggetto divino per al­ lontanare la minaccia del genio maligno e per garantirci il possesso del­ l'idea vera» (FP, 78 ) . Tuttavia con ciò si sopprime l'ineliminabile ne­ cessità di far riferimento sempre a un qualche determinato oggetto e a una qualche determinata percezione. Il problema dell'intellettualismo cioè non sta nel far ricorso a una " doxa originaria" (secondo l' espres­ sione dello Husserl di Esperienza e giudizio) , ma di farlo tacitamente e negando in linea di principio ciò che fa comunque effettivamente. La nuova psicologia della forma dovrebbe poter superare questo presupposto . Non si tratta però, ingenuamente, di spiegare la perce­ zione, ma di comprenderla. Se la si guarda per ciò che è, si vede come essa sia irriducibile alla logica intellettiva. Per l'intelletto, l'orienta­ mento percettivo del corpo (ad esempio, a testa in giù) o fenomeni pa­ radossali come gli oggetti simmetrici (le mani, di cui già parla Kant) sono contingenze insignificanti . Ma per l' esperienza sono differenze fondamentali e insuperabili. Si tratta allora di generalizzare questa dif­ ferenza: la percezione mostra significati che non hanno equivalenti nell'universo dell'intelletto, un contesto percettivo che non è ancora il mondo oggettivo, un essere percettivo che non è ancora l'essere de­ terminato. La psicologia classica comprende la percezione come una sorta di ragionamento corporeo. La psicologia della Gestalt mostra in­ vece che si ha esperienza diretta, senza intermediazione inferenziale di alcun tipo. Il percepire è una struttura complessa che dipende dallo schema corporeo, per cui ogni mutamento ha un suo senso che fa sì che il campo esperienziale percettivo complessivo non muti quando sono io a muovermi, ma tale ancoraggio può venire a mancare e porta allora in luce la contingenza corporea di questa invariante. Tutto que­ sto però non può essere spiegato ricorrendo a una struttura di tipo causale, come la psicologia della Gestalt è costretta a fare non avendo a disposizione una filosofia adeguata alle proprie scoperte. Decisivo a questo proposito è il concetto fenomenologico di mo­ tivazione, il cui senso emerge proprio nelle forme patologiche, che il causalismo ricopre e occulta. La psicologia della Gestalt ha mostrato 45

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come il campo percettivo sia una struttura percorsa da linee di forza (percettive), tali per cui il senso percettivo si forma in esso e non a par­ tire da dati esterni oggettivi. È il sistema corpo-mondo-schema corpo­ reo che consente di apprendere adeguatamente la specificità di questo ambito. A questo livello non si danno né cause oggettive né ragioni di­ mostrative: il senso ha una sua natura propria e intermedia. Per com­ prendere però tutto questo, alla psicologia della Gestalt è necessario un rinnovamento delle proprie categorie, che essa non ha mai prodot­ to esplicitamente anche se lo ha praticato in alcuni casi particolari. Per potervi accedere è necessario procedere alla sospensione del suo na­ turalismo e attuare un' effettiva riduzione fenomenologica, che rag­ giunga la specificità del mondo dei fenomeni in quanto distinto sia da quello dell'estensione che da quello del pensiero. A partire da questa riduzione fenomenologica si può allora giun­ gere a comprendere la coscienza " non t etica" , cioè quella che non possiede la piena determinazione dei suoi oggetti, retta da una logica vissuta che non rende conto di sé stessa, un significato immanente che non è chiaro di per sé e non si conosce se non attraverso l' esperienza dei segni naturali . Il pensiero oggettivo non è in grado di compren­ dere tutto questo, ed è questo il motivo per cui la psicologia della Ge­ stalt non ha saputo far di meglio, nella sua critica dell'intellettualismo, che retrocedere al realismo causale. Essa avrebbe dovuto utilizzare il concetto di motivazione, che è uno di quei concetti fluenti ( di cui Husserl parla in Esperienza e giudizio) , cui è necessario far ricorso se si vuole andare alle cose stesse, ai fenomeni così come essi appaiono. Tuttavia, per dar conto adeguatamente di questi fenomeni bisogna mostrare che «in nessun caso la cos cienza può cess are del tutto di es­ sere ciò che essa è nella percezione, cioè un fatto, né prendere intera­ mente possesso delle sue operazioni . Pertanto il riconoscimento dei fenomeni implica infine una teoria della riflessione e un nuovo cogi­ to» (FP, 8 8 ) . A questo punto Merleau-Ponty può tirare l e fila del discorso cri­ tico svolto fin qui , e dire che il "sentire " (e non l' astratta "sensazio­ ne" ) è divenuto di nuovo un problema. Ciò implica riconoscere che il sentire ha caratteri affettivi e non soltanto cognitivi. «> (ibid. ) . Si tratta di capire però in maniera non ef­ fimera il significato filosofico di questa tesi. A questo fine Merleau­ Ponty passa per una discussione della filosofia di Cartesio come op­ posta e canonica.



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Cartesio è studiato da Merleau-Ponty come colui che ha cercato di " esorcizzare" la visione (os, 29 ) . Il suo tentativo consiste nel voler spie­ gare la visione come se fosse un fenomeno fisico, e a questo fine egli utilizza il modello di azione a contatto propria di ogni fenomeno fisi­ co secondo la sua concezione meccanicistica. L'azione causale per con­ tatto è la proprietà delle trasformazioni del regno della res extensa. Il modello cartesiano di visione, dice Merleau-Ponty, è quello del tatto, e la visione di cui parla Cartesio è quella propria di un cieco . L' azione a distanza è pertanto evacuata, e con essa tutto l' enigma della visione. La realtà è fatta di corpi che come tali non agiscono se non in modo causalmente efficiente secondo leggi geometriche. Tutto ciò che esiste nel mondo è cosa, pertanto anche i riflessi, le ombre, i colori e la luce sono da spiegare come effetti soggettivi di co­ se sulla res cogitans. Ciò che non è assimilabile alla determinazione di cosa è da mettere sul conto del pensiero. Un cartesiano coerente non potrebbe perciò mai vedersi allo specchio, in quanto vedrebbe soltan­ to un manichino, una pura esteriorità da ricostruire poi col pensiero. La somiglianza è pura proiezione mentale. L'immagine non ha dunque alcun potere proprio. È ridotta a segno. Essa produce sul pensiero un' azione esterna che occasiona un' apprensione concettuale. La visio­ ne non è più altro che decifrazione dei segni del mondo da p arte del­ la mente. Non è un caso che per Cartesio l'esempio eminente di pittura sia il disegno, che de-limita le cose, istituisce frontiere, sopprime ogni am ­ biguità. Il colore allora non è nient' altro che ornamento, abbellimen­ to di qualcosa già dato di per sé e come tale indipendente. L'analisi di Pascal sulla frivolezza della pittura è in puro stile cartesiano. La pittu­ ra può allora soltanto riprodurre, e riprodurre ciò che esiste, l'esisten­ za essendo definita in termini fisici . Ne consegue anche che la pittura non può esprimere la soggettività nelle sue espressioni, non può costi­ tuire un disvelamento del suo essere. Il segno più eloquente di questa situazione è nella comprensione cartesiana della profondità come artificio, come tecnica di riproduzio­ ne prospettica dell'apparenza di una terza dimensione, la ddove non ne esistono che due. La profon dità non esiste, si dà soltanto per uno sguardo limitato come quello umano, mentre l'ideale cartesiano di vi­ sione è quello analitico di un Dio che vede tutto in una simultaneità senza sviluppo e senza ritardi o proiezioni. Il tempo non esiste. Le co­ se sono partes extra partes, coesistono senza conflitti e connivenze. La profondità è un'illusione presto svelata se solo si riflette che il quadro stesso è una superficie bidimensionale che fa credere che la terza si dia.

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Ciò che, solo, è realmente, perché è "in sé", è lo spazio, che diventa una dimensione omogenea priva di variabili qualitative. La profondità così viene riconosciuta come un'altra lunghezza o larghezza, in nessun modo differente da esse. Secondo Merleau-Ponty era necessario che lo spazio fosse libera­ to in questo modo, così da por fine all'ingenuità realistica del pensie­ ro pre-cartesiano. Ma questa liberazione si mostra ben presto come nuova servitù . L'idealizzazione dello spazio prodotta dalla geometria cartesiana supera l' asservimento a un'empiria non compresa e perciò assolutizzata (Merleau-Ponty pensa sostanzialmente all'eredità aristo­ telico-scolastica) , ma questa operazione ha il suo vero valore soltanto in quanto mostra i propri limiti: lo spazio in effetti non ha tre dimen ­ sioni, perché è innanzi tutto un' unica dimensionalità, un Essere poli­ morfo che giustifica ogni misurazione senza ridursi ad alcuna di esse (os, 36; analoghe considerazioni sono svolte in VI) . Il torto di Cartesio così non sta nell' aver liberato lo spazio, ma nel­ l' averlo di nuovo risolto in qualcosa di totalmente positivo, senza lacu­ ne, profondità e latenze, senza spessore reale. Cartesio prendeva ap­ poggio nelle proprie analisi dalle ricerche sulla prospettiva svolte nel Ri­ nascimento. E tuttavia le seguiva anche nel loro omettere l'ottavo teore­ ma di Euclide, che commisura le grandezze apparenti non alla distanza ma all'apertura angolare, cioè di nuovo all ' occhio. Già i teorici della pro­ spettiva volevano cioè razionalizzare lo spazio, come mostra Panofsky nel suo celebre saggio sulla "prospettiva come forma simbolica" , sosti­ tuendo alla prospettiva naturale o comune quella artificiale, ma con ciò anche andando contro le leggi geometriche dell'ottica. Non è un caso che Cartesio, un secolo dopo, si opponga con la propria geometria ana­ litica, fondata sulla misurazione delle distanze tra punti attraverso un si­ stema di coordinate metriche, alle ricerche di Desargues, il fondatore della geometria proiettiva, che è del tutto svincolata da concetti metrici, e basata invece sui rapporti di proiezione e quindi sulle trasformazioni qualitative delle figure, teoria che pure è perfettamente assiomatizzabi­ le. La prospettiva perciò non è "vera" , ma non è per questo neppure to­ talmente falsa: è solo un caso particolare di un rapporto con lo spazio che ne consente molti altri. Del resto è la stessa prospettiva a consentire quei veri e propri mostri che sono le anamorfosi, dove l'esecuzione esat­ ta delle leggi prospettiche non porta al possesso totale della figura, ma al contrario al suo dissolvimento in un' alterità inquietante, di cui il qua­ dro Gli ambasciatori di Holbein è un esempio eloquente. Cartesio, in effetti, non si propone tanto di eliminare la visione, quanto di spiegarla con le leggi che solo il pensiero può cogliere. Ma è



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la sua metafisica dualistica a ingannarlo, portandolo a non poter co­ gliere la scaturigine corporea della visione stessa, in quanto il corpo stesso è ormai ridotto a macchina e non più a luogo dell'anima. È pro­ prio questa corporeità, che si sottrae a ogni totalizzazione concettuale perché ne costituisce l'origine e l 'ineliminabile quanto latente pre­ messa, a consentire alla visione di farsi poi pura ispezione dello Spiri­ to. Non si tratta allora di contrapporre di nuovo, rovesciando il rap­ porto, corpo e mente, quanto di comprendere il radicamento della mente, la sua spazialità intrinseca che persiste in modo latente come ombra di ogni luce della ragione. Tale corporeità e tale visione incorporata non possono essere ve­ ramente pensate, cioè ridotte a essenza logica. Devono essere pratica­ te, vissute, senza che ciò significhi rifugiarsi nell'intuizione irraziona­ le. Sono semmai Aristotele e la Scolastica ad aver tentato di ricondur­ re il pensiero alla visione, facendo però di essa una metafisica ingenua della manifestazione che la rivoluzione scientifica non poteva non spazzar via. Si tratta quindi di trovare un modo diverso di compren­ dere il " c'è" iniziale, senza assolutizzarlo indebitamente ma senza nep­ pure relativizzarlo altrettanto assolutamente, errori simmetrici di un pensiero che non è in grado di pensare la latenza e l' assenza se non fa­ cendone una presenza rovesciata. Un tal modo diverso di comprende­ re la relazione tra anima e corpo non potrà allora intraprendere il pro­ prio compito se non riuscendo a intendere l'interrogazione non più co­ me qualcosa che alla fine si concluda e si risolva, ma come quello sta­ to di perplessità che è la vera condizione per pensare l' apertura verso il darsi del mondo. A suo modo la pittura fa questo, non già nell'ela­ borare una propria filosofia ingenua che inevitabilmente ricade negli errori intrinseci a un linguaggio segnato dalla tradizione, quanto piut­ tosto nel suo operare, nel suo gesto proprio, cioè, come dice Cézanne, quando il pittore "pensa in pittura " . Ma il filosofo deve allora saper es­ sere all'altezza di tale pensiero non convenzionale. Come si può ottenere questo risultato? Si tratta di comprendere quale sia il pensiero della pittura . Innanzi tutto si deve chiarire che qui non si tratta di una metafisica della pittura, quanto della possibilità che i diversi modi di fare pittura, nella loro stessa pluralità, mostrino come la realtà sia intrinsecamente polivalente e quindi non si presti ad alcu­ na strategia fondazionale, inevitabilmente monocratica. Ogni opera è in sé stessa un centro di irradiazioni infinite (o di oblio) : « [è] l'opera stessa che apre il campo da cui poi appare in una nuova luce, è lei che si trasforma e diviene ciò che diverrà, e le infinite reinterpretazioni di cui è legittimamente suscettibile la trasformano solo in se stessa, e se lo

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storico ritrova al di là del contenuto manifesto un'eccedenza e uno spessore di senso, la struttura che preparava all'opera un lungo avve­ nire, questo modo attivo di essere, questa possibilità che egli svela nel­ l' opera, questo monogramma che vi rintraccia, tutto ciò fornisce le ba­ si di una meditazione filosofica» (os, 45-6) . L'autentica opera, dunque, è tale non soltanto in virtù di ciò di cui è composta, di ciò che mostra, ma anche per il fatto di essere un even­ to, di aprire un campo, un modo nuovo di rappresentare e quindi di vedere, che prepara tutte le interpretazioni che saranno poi date, sen­ za predeterminarle. Vi è innegabilmente un sottofondo di estetica ro­ mantica in questa prima delineazione della natura dell'opera d' arte da parte di Merleau-Ponty: l'opera come dissoluzione di un canone e creazione di un canone nuovo; la rottura delle regole al fine di crear­ ne di nuove; la dissonanza che è tale per il vecchio mondo ma che di­ venta nuova armonia. Ciò che tuttavia Merleau-Ponty vuole soprat­ tutto segnalare è l' avvento di una «discordanza profonda» ( OS, 46) nei rapporti tra uomo ed Essere quando si confronta nel suo complesso il mondo classico con quello della pittura "moderna" (il che in questo caso vuol dire da Cézanne in poi) . È la profondità a offrire in questo senso il tema da sviluppare. Ma cosa è la profondità? Merleau-Ponty cita Giacometti e Delaunay per dire che la profondità non si cerca " una volta tanto " , ma è l'impegno di una vita di ricerca e di riflessione artistica. La profondità è un enig­ ma perché è l'insieme di due determinazioni opposte: lo stare delle co­ se ognuna al proprio posto e il loro eclissarsi reciproco . «L'enigma è l'esteriorità delle cose percepite [connues] nel loro reciproco avvol­ gersi, e la loro mutua dipendenza nella loro autonomia» (os, 47) . In questo senso allora la profondità non è più una "terza" dimensione, e neppure una dimensione a fianco di altre. «La profondità così intesa è piuttosto l'esperienza della reversibilità delle dimensioni, di una "loca­ lità" globale in cui tutto è contemporaneamente, e da cui vengono astratte altezza, larghezza e distanza, di una voluminosità che si espri­ me, in una parola, dicendo che una cosa è là. Quando Cézanne cerca la profondità, è questa deflagrazione dell'Essere che cerca [ . . . ] Cézanne sa già quello che il cubismo ripeterà: la forma esterna, l'involucro, è se­ condario, derivato, non è grazie ad esso che una cosa prende forma, occorre anzi spezzare questo gus cio di spazio [ . . . ] e dipingere, in sua vece, che cosa?» (ibid. ) . Cézanne passò per un periodo detto di mezzo in cui per rispon­ dere a tale domanda si volse alle forme come effetti di leggi di com­ posizione interna; puntò al solido ( cubi, sfere, coni) e «constatò che in 186



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questo spazio, scatola e contenitore troppo largo per loro, le cose ini­ ziavano a muoversi, colore contro colore, a modulare nell'instabilità» (os, 48 ) . Allora il problema si generalizza e non riguarda più soltanto la forma, ma anche il colore. Il colore «è il luogo dove s'incontrano il nostro cervello e l'universo», come Cézanne dice nel linguaggio da ar­ tigiano dell'Essere amato da Klee. Il colore «manda in pezzi la forma­ spettacolo», ma non si tratta dei colori come simulacri di quelli della natura, bensì della «dimensione del colore, che crea da se stessa a se stessa delle identità, delle differenze, una struttura, una materialità [ . . . ] tuttavia una chiave segreta del visibile senza dubbio non esiste: non è certo il solo colore, così come non lo è lo spazio. Il ritorno al colore ha il merito di condurre un po' più vicino al " cuore delle cose" [espres­ sione di Klee] [ . . . ] ma questo è al di là del colore-involucro così come dello spazio-involucro» (ibid. ) . D a queste analisi emerge innanzi tutto il fatto che l a pittura mo­ derna non ha più (se mai l'ha avuta) una vocazione mimetica. Non si occupa di riprodurre, ma semmai di produrre. Che cosa significa però produrre, quando in particolare la pittura si sposta verso i colori fa­ cendo progressivamente, non soltanto esplodere le forme, ma recede­ re in un sottofondo che diventa sempre più lontano, fino a volgersi, nel cosiddetto informale, in aperta assenza? La produzione che secondo Merleau-Ponty caratterizza essenzialmente la pittura moderna è quel­ la che scaturisce dalla relazione tra il pittore, cioè lo sguardo, e il mon­ do guardato. Il pittore non è più di fronte a un mondo dato, ma "emer­ ge" da esso . Il quadro esprime questo legame, questo nesso originario, questa piega che il pittore imprime al mondo dal di dentro del mon­ do, per portare a espressione, a " raffigurazione" , questa stessa co-im­ plicazione. «