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dello stesso autore per elèuthera
Modi bruschi antropologia del maschio Saperci fare corpi e autenticità Non è cosa vita affettiva degli oggetti con Luca Vitone L’Ape, antropologia su tre ruote con Melo Minnella
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Franco La Cecla
Mente locale per un’antropologia dell’abitare
prefazione di Paul K. Feyerabend
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Mente locale © 1993 elèuthera nuova edizione 2011 Prefazione © 1993 elèuthera Traduzione della Prefazione di Franco La Cecla progetto grafico di Riccardo Falcinelli immagine di copertina: © Melo Minnella, Palermo 1967 In altro mare © 2011 Franco La Cecla Fotografia: Giacomo Armani - Montaggio: Fabio Bianchini, Antonio Ivagnes - Aiuto alla regia: Giacomo Armani, Giulia Majolino - Segretaria di produzione: Sofia Lorefice Musiche: Gianni Gebbia, Daniele Camarda, Eiko Ishibashi, Serena Lao il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]
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Indice
Prefazione di Paul K. Feyerabend
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CAPITOLO PRIMO
Spazio e mente locale
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CAPITOLO SECONDO
Pudore delle bussole
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CAPITOLO TERZO
Piccole storie di spazi
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CAPITOLO QUARTO
Ubiquità
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Prefazione di Paul K. Feyerabend (1993)
Nei Pensieri, Blaise Pascal fa una distinzione tra due tipi differenti di mente: Una capace di penetrare rapidamente e in profondità le conseguenze dei principi […] l’altra in grado invece di comprendere un gran numero di principi senza confonderli […]. Il primo tipo di mente ha un’incisività forte e rigorosa, l’altra un ampio spettro […]. Le menti del primo tipo, essendo abituate a giudicare con un colpo d’occhio, si ritraggono quando si trovano in presenza di proposizioni di cui non comprendono nulla, e che richiedono definizioni formulate in principi sterili per cui [le menti] non hanno una vista abituata e in dettaglio; di conseguenza se ne sentono respinte e disgustate. [Le menti del secondo tipo, dal canto loro] non possono avere la pazienza di discendere ai principi primi degli oggetti speculativi dell’immaginazione che non hanno mai potuto vedere nel mondo e che sono al di fuori dell’ordinario modo di essere delle cose1.
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Mostrando un particolare e, per il suo tempo, piuttosto insolito punto di vista sulla natura della ricerca matematica, Pascal denominava il pensiero del primo tipo «ampio» o «matematico» (esprit de finesse, qui tradotto come pensiero ampio) e il pensiero del secondo tipo «geometrico» (esprit géométrique). Pascal riteneva giustamente che quella che oggi è chiamata matematica informale (George Pólya, Imre Lakatos) potesse assumere una visione ampia e che vi fossero certe parti della matematica che tentavano di ridurre quell’ampiezza a pochi e semplici principi. La migliore illustrazione di finesse viene però da altri campi. Pierre Duhem, nel suo coraggioso e interessante libro La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, pubblicato originariamente nel 1914, parla della «abilità dei diplomatici nel notare i fatti minuti e i minimi gesti e atteggiamenti delle persone con cui ci si trova a negoziare, nel tentativo di indovinarne ogni dissimulazione […] o quella che troviamo in uno storico che rende nei suoi scritti il dettaglio dei fatti e le intenzioni degli uomini»2. È questa l’ampiezza di mente che dà colore e calore allo stile di Rabelais, riempiendolo di immagini visibili, palpabili, tangibili, concrete al punto della caricatura, immagini che sono piene di vita come una folla vociante in movimento. Così il pensiero ampio, la mente ampia, è l’opposto di quella mente classica che è innamorata delle nozioni astratte. È l’opposto dell’ordine e della semplicità che parla così naturalmente nello stile di Buffon, che sceglie sempre il termine più generale per esprimere un’idea. Troviamo mente ampia in tutti coloro che dalla loro visuale riescono a cogliere un’immagine chiara, esatta, dettagliata, in una scena dove vi è una molteplicità di oggetti in azione. Ampia è la mente dello speculatore finanziario che da una massa di messaggi che compaiono sulle telescriventi deduce le condizioni del mercato del grano o della lana nel mondo e, con un semplice sguardo, giudica se 8
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deve entrare in gioco in base agli alti e bassi del mercato (si noti che questo è stato scritto da Duhem ben prima del tempo dei computer e dell’uso estensivo della teoria economica). Ampia è la mente del capo militare di uno Stato, capace di pensare a un piano di mobilitazione grazie al quale milioni di persone arrivano nel posto del combattimento al momento opportuno senza un graffio e senza confusione (Duhem cita Napoleone come esempio). Scorrendo la storia, troviamo che pensieri ampi e pensieri geometrici, menti ampie e menti geometriche o, come preferisco dire io, menti storiche e menti astratte, si sono sviluppate ed espresse non solo rispetto ai propri talenti, ma molto frequentemente dandosi battaglia. E scopriamo che le loro diatribe sono state spesso accompagnate da sviluppi sociali favorevoli per l’una o l’altra parte. Così Empedocle, antico filosofo e guaritore, definiva la malattia come uno squilibrio degli elementi del corpo, dove con elementi (il Caldo, il Secco, il Bagnato) non intendeva sostanze identificabili, ma entità astratte presenti in ogni corpo, mai esistenti da sole. La definizione venne «ridicolizzata» dai medici «praticanti», che fecero osservare come la medicina non avesse a che fare con l’Essere o con il Caldo, il Freddo ecc., ma con concrete sostanze quali la flemma, l’urina, il latte, e come ci fosse bisogno di un’ampia esperienza, non di una geometrica chiarezza (per usare i termini di Pascal e Duhem), per capire e rimuovere la malattia. La crescente astrazione delle relazioni tra esseri umani è stata «sostenuta» dalle tendenze verso l’astrazione rintracciabili sia nella graduale erosione di taluni concetti (un importante passo in politica: la riforma di Clistene; un importante passo in economia: l’invenzione e la diffusione della moneta), sia in quelle teorie filosofiche che hanno definito la «conoscenza» in termini astratti. Il successo crescente delle scienze naturali ha dato un ulteriore sostegno a coloro che preferivano pensare il mondo in termini astratti. 9
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Tuttavia le tendenze possono essere contrastate: «successo» non è un termine assoluto, ma cambia da cultura a cultura, e le teorie della conoscenza si possono moltiplicare come i conigli e adattarsi a ogni punto di vista. La questione, dunque, non è come il mondo è costruito, ma che tipo di vita vogliamo vivere e che tipo di mente e di pensiero meglio ci aiuta a realizzare quel tipo di vita. Questo studio di Franco La Cecla sembra dare alcune risposte a coloro che desiderano un mondo meno spersonalizzato e più gestibile, a coloro che preferiscono imprese a piccola scala a grandiosi schemi e che non sono disponibili a mettere da parte le difficoltà e i tortuosi percorsi personali. È il lavoro di un pensiero ampio. Vi troviamo esempi e scenari piuttosto che secche definizioni e affermazioni procedurali che tracciano confini, e gli esempi mettono in gioco l’emozione e l’immaginazione piuttosto che il nostro solo intelletto. Il soggetto è in sé un fenomeno che non sembra approcciabile nei termini di un rigoroso trattamento analitico: il fenomeno dell’ambientarsi, del «fare mente locale», o del suo contrario, il perdersi, già trattato da La Cecla in un suo precedente studio. Accade nella vita privata e può risolversi con un pensiero, o con una conversazione con un amico (che vi fa ritrovare i vostri punti di riferimento), o semplicemente andando in giro, a caso (nella propria mente, con il proprio corpo), fin quando la sensazione scompare o si trasforma. Capita quando una generazione, o una cultura, o una professione abituata a una tradizione è all’improvviso forzata in un’altra. Accade quando un’intera nazione osserva fenomeni che sembrano ribaltare le proprie convinzioni di base in puro nonsenso. Per un verso, il disorientamento può essere desiderabile come punto di partenza per un nuovo approccio (per un dover rifare mente locale). Per un altro verso, il disorientamento, come lo sradicamento, può diventare così comune che quell’essere «spiazzati» dalla propria posizione naturale 10
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che ne consegue può alla lunga non essere più percepito. Ogni astratta definizione del fenomeno ne elimina la varietà e fa apparire la situazione più semplice di quanto non sia. Una vivida rappresentazione (in un libro, in un film, in TV) può creare un effetto di risonanza in un individuo, in un gruppo, in un’intera nazione, che può consentire al proprio disorientamento e al desiderio di «fare mente locale» di venir fuori. La Cecla ci ha dato una presentazione di questo tipo, offrendo ampio alimento per riflessioni personali, dibattiti interculturali e scaltrezze epistemologiche. Note all’Introduzione 1. B. Pascal, Pensieri [1670], trad. it. Bompiani, Milano, 2009. 2. P. Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura [1914], trad. it. il Mulino, Bologna, 1978.
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L’anima, dice, è composta dal mondo esterno Ci sono uomini dell’est, dice, che sono l’est. Ci sono uomini di una provincia che sono quella provincia. Ci sono uomini di una valle che sono quella valle. Ci sono uomini le cui parole sono come i suoni naturali dei loro luoghi come lo schiamazzare dei tucani nel luogo dei tucani. Il mandolino è lo strumento di un luogo. Ci sono mandolini dei monti occidentali? Ci sono mandolini del chiaro di luna settentrionale? Il vestito di una donna di Lhassa, nel suo luogo, è un elemento invisibile di quel luogo reso visibile.
Wallace Stevens Aneddoto di uomini a migliaia
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Mente locale
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CAPITOLO PRIMO
Spazio e mente locale
Lo «spazio» di cui si parla oggi nel senso comune del termine, quello che viene provocato e ampliato sui giornali, che la televisione conferma, che si trova nel lessico familiare e di lavoro, è un concetto ampio e piuttosto vago. Nel nostro immaginario quotidiano «spazio» ha subìto l’invasione massiccia della cosmologia divulgativa, di quella che negli anni Sessanta e Settanta ci ha coinvolto, per l’appunto, nella «conquista dello spazio». Lo spazio allora sarebbe «il cosmo», «l’universo», «le stelle e i pianeti e ciò che li contiene». È difficile dire se nella storia recente dell’idea di spazio questo aspetto abbia una fortuna calante. Fatto sta che se si consulta la biblioteca dell’Università di Berkeley sotto la parola chiave «spazio» si incontrano in gran parte volumi della NASA e di enti affini. Per rintracciare l’altro «spazio» occorre cercare altrove: attraverso parole chiave come «architettura», «forma», «paesaggio», «planning», «città», «habitat». Certo il «senso comune» prevede moltissimi casi di un parlare figurato: «fammi spazio», «non c’è spazio per», «lo spazio sociale»; anzi, si può dire che le realtà sociali, 15
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per poter entrare nel discorso, necessitano di una formalizzazione per cui diciamo «alta società», «sfere di interessi», «mentalità ristretta», «ampie applicazioni», «circoli politici», «livelli di classe» e così via1. E qualcuno ha notato: Il nostro intelletto è idoneo ad avere a che fare, in primo luogo, con lo spazio e si muove con estrema facilità in questo contesto. Da qui viene che il linguaggio stesso diventa spazializzato e poiché la realtà è rappresentata dal linguaggio, la realtà tende a essere spazializzata2.
Se è vero che lo spazio è così idoneo al nostro discorrere del mondo, è anche vero che non ci muoviamo a nostro agio ugualmente nello spazio usato come metafora e in quello fisico, «solido», che ci circonda. Il «nostro spazio» oggi è, infatti, sempre meno «nostro». Per un processo storico di specializzazione delle funzioni, non è più così facile «muovere», «mutare» e «manipolare» lo spazio intorno a noi. Dai marciapiedi alle strade, allo spazio dell’appartamento, al paesaggio urbano in generale, abbiamo a che fare con uno spazio rigido, predeterminato, con una serie di griglie, di incasellamenti e di canali dentro cui, bene o male, si svolge la nostra vita. Per capire quanto questo cambiamento sia grande, basta ancor oggi recarsi in una contrada minore che circonda la grande città o anche in uno di quegli insediamenti «provvisori» (bidonvilles, favelas, baraccopoli) alle spalle delle grandi città del Primo e del Terzo Mondo. L’impressione è che dove non si è affermato il modo urbano «moderno» di dividere e organizzare la città prevale ancora la concezione di uno spazio che viene «arrangiato» via via, con il passare del tempo. Si potrebbe dire che la nascita e la presenza della città moderna richiedono come conseguenza e postulano come principio un irrigidimento del «senso comune» dello spazio: da 16
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un’idea di spazio come ambito manipolabile del proprio abitare a un’idea più astratta e generale di spazio, e quindi anche più impersonale e statica. La città moderna è frutto della messa a punto di complesse operazioni di «regolarizzazione» e «igienizzazione», non solo del tessuto urbano, ma anche e soprattutto dei comportamenti urbani nelle città del diciannovesimo secolo. È allora che si afferma il tipo di spazio prescrittivo in cui ancora viviamo. Una città concepita come rete di istituzioni, ospedali, carceri, workhouses, scuole e griglie di strade e viali per la circolazione del traffico o il controllo in veste di polizia urbana e di sorveglianza burocratica. In questo tessuto anche l’abitare viene trasformato in un domicilio regolarizzato e disciplinato, un’altra istituzione insomma: la residenza3. Città europee piene di vita di strada e di «corti dei miracoli» subiscono un processo di demolizione, sventramento e ricostruzione per diventare tutte permeabili ai controlli e alla «erogazione» dei servizi pubblici. Viene spazzato via dal paesaggio urbano uno spazio irregolare e invadente, quello di un abitare fuori e dentro la porta e di un modellare per casupole, banconi, affacci, tende, mercati, impasses e cortili lo spazio della città, delle piazze e dei monumenti4. Di quel tempo abbiamo un documento che ci dà, già allora, il senso della differenza. Uno schiavo negro liberato (Olaudah Equiano, che proviene da una tribù Ibo della regione Benin della Nigeria e che, catturato bambino, ha conosciuto e vissuto sia nelle città della costa orientale degli Stati Uniti sia nella capitale britannica) scrive a Londra le sue memorie (1789). E così descrive il suo ambiente di origine: Nelle nostre costruzioni ci occupiamo più della convenienza che dell’ornamento. Ogni capofamiglia ha un ampio pezzo di terra, circondato da un fossato o da un recinto o da un muro di terra che quando è secca è più dura del mattone. Dentro stanno le case della 17
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famiglia e degli schiavi. Il capofamiglia ha due case, una per la famiglia e una per gli amici, e in una terza dorme insieme al figlio maschio. Ai bordi interni del recinto ci sono le case delle mogli, una per il giorno e una per la notte. Nel resto del recinto le case degli schiavi. Le case sono tutte alte un piano, di legno e stuoie intrecciate e intonacate. Il tetto è di canne. Le case per il giorno sono aperte e scoperte. Quelle per la notte coperte e intonacate all’interno con un misto di sterco di vacca contro gli insetti notturni. I letti sono una piattaforma alta tre o quattro piedi da terra, coperta da pelli e da foglie di platano. Le sedie sono pezzi di tronchi, ma le panche per gli ospiti sono in legno odoroso. Le case cosiffatte non richiedono un’abilità particolare per essere erette e ogni uomo è architetto sufficiente allo scopo [il corsivo è mio]. I vicini danno una mano consistente e non si aspettano in cambio che una festa5.
Equiano descrive un mondo in cui sembra che le mani abbiano diretto accesso alla forma dello spazio. Sappiamo che lo fa mentre dinanzi ai suoi occhi Londra subisce «grandi lavori», vengono costruiti interi nuovi quartieri, demoliti slums, «sgomberata» la città dal popolo minuto, tagliate arterie. Londra si affermerà nella sua logica di urban renewal, di riordinamento delle plebi urbane, nelle pratiche igieniche ed eugeniche di risanamento, e presto esporterà questo modello nelle colonie. Africa, Asia, Oceania verranno così invase da una mentalità che darà norma allo spazio locale, lo «uniformerà» a criteri da «dispositivo». Prendiamo a prestito questa nozione sintetica da Michel Foucault (1969) e da successive elaborazioni di Pierre Bourdieu (1972) e di Georges Teyssot (1981)6. Un «dispositivo» è un regime di pratiche, una tecnologia sociale e insieme la prescrizione di un modo di vita che per giudizi, costruzioni, eliminazioni o censure dell’esistente tende a creare un habitus. La sua affermazione è legata al divenire un orizzonte normativo interno, quindi non espressamente impo18
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sto, ma che si pone come l’unico plausibile. In questo senso, la rivoluzione dell’habitat che ha luogo nel diciannovesimo secolo è qualcosa di veramente nuovo. Per tutta l’età classica, e fino al diciannovesimo secolo, non è mai esistita una trattatistica sistematica sull’alloggio, né una normativa di distribuzione spaziale dei luoghi di residenza. Il popolo minuto abita e manipola gli spazi urbani e rurali con un «senso dello spazio» che è proporzionale alla noncuranza che questi «fatti della gente» riscuotono tra le classi dominanti. Analogamente, i viaggiatori europei in Africa, prima delle grandi conquiste coloniali, non hanno ancora uno «sguardo normativo». Documentano invece, con interesse e curiosità «esotica», i modi dell’abitare indigeno. Francis Moore, un commerciante e costruttore londinese che viaggia per le «parti interne» dell’Africa nei primi decenni del diciottesimo secolo, lascia alcune illustrazioni dettagliate di paesaggi e centri indigeni7. Un altro viaggiatore, John Barrow, fa un paragone tra l’architettura vernacolare in patria e le case dei Bushuana in Cocincina, che descrive così: Sono ben calcolate per il clima. In eleganza e solidità possono essere buone come le Casae o prime case che venivano costruite nella Roma imperiale e possono considerarsi sotto ogni aspetto superiori nella costruzione e nel comfort a gran parte delle capanne irlandesi, dove la miseria dei nostri contadini è costretta a sguazzare tra le pozzanghere8.
Piazza pulita A questa fase fa però seguito il furore innovatore. In Europa, lo Stato riformatore si comincia a occupare con il piccone dell’abitare dei cittadini, soprattutto se questi appartengono alle classi «laboriose e pericolose». 19
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I criteri sanciti per un sano abitare sono: a. stabilire la differenza tra residenza e lavoro; b. rigettare fuori dall’alloggio familiare coloro che siano estranei al nucleo familiare ristretto; c. regolamentare le relazioni di vicinato e il sistema delle circolazioni esterne e interne agli edifici; d. fornire servizi collettivi al di fuori della casa in luoghi istituzionalizzati, cioè né osterie, né androni, né vicoli, né piazze; e. assegnare a ogni persona luoghi appropriati del territorio domestico, divisi per sesso ed età; f. proporzionare la superficie dell’abitazione alla grandezza della famiglia; g. dare una configurazione funzionale allo spazio domestico, stabilizzando le specializzazioni, facendo funzionare le relazioni domestiche in uno spazio «reso utile»9. Lo stesso furore invade le colonie. Militari, missionari e governatori cominciano a fare «piazza pulita» dello spazio indigeno. Non diversamente da come nel Nuovo Mondo gli Stati Confederati trattano gli Indiani delle pianure, negando loro la capanna circolare e chiudendo le tribù in riserve e dormitori quadrati10, così i colonizzatori iniziano ad applicare un po’ dappertutto un criterio combinato di piazza pulita e di trasferimenti forzati. Nell’Algeria francese gli stessi poteri militari si incaricano di disciplinare gli spazi. Tutto verrà piazzato all’insegna dell’uniformità e dell’allineamento11. E in Amazzonia: I missionari salesiani della regione del Rio das Graças si rendono subito conto che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo consiste nel far loro abbandonare il villaggio per un altro dove le case 20
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sono disposte in file parallele, […] la distribuzione circolare delle capanne intorno alla casa degli uomini era di estrema importanza per quel che riguarda la vita sociale e le pratiche di culto12.
I Bororo restano disorientati, non si «raccapezzano» più con i punti cardinali, si sentono privati di un «piano» che sostenga il loro sapere e perdono rapidamente la memoria delle reciproche relazioni e delle tradizioni, come se «il loro sistema sociale e religioso fosse troppo complicato per rinunciare a uno schema reso evidente dal piano del villaggio e di cui i propri gesti quotidiani rinfrescano continuamente i contorni»13. Claude Lévi-Strauss chiarisce che non si tratta del villaggio in quanto entità fisica, dato che l’insediamento in quanto tale non dura più di trent’anni, ma della struttura spaziale condivisa che il villaggio riproduce. Dai Bororo a oggi la differenza è che alla «piazza pulita» dell’abitare indigeno si sostituisce un costruire di massa pianificato. Ad esempio, gli Immeubles d’habitation, condomini alveare progettati e pianificati alla periferia di Casablanca, ospitano famiglie trasferite qui da una bidonville. Un’assistente sociale marocchina afferma che le famiglie qui si sentono «confuse», perché private della zriba, di uno spazio semiprivato che nella tradizione islamica locale fa da filtro tra esterno e interno. Costantemente costrette a incontrarsi sui pianerottoli e sulle scale, anche nello spazio domestico hanno ben poche possibilità di appartarsi. Una presunta «trasparenza funzionalista» fa sì che la cucina sia la prima stanza che si incontra aprendo la porta e che dia sul ballatoio comune. Non essendovi un filtro intermedio e avvenendo tutti i passaggi in facciata, la conseguenza è che le donne godono qui di minore libertà rispetto alla bidonville e la loro reclusione qui è maggiore14. Anche in Italia, e in tempi non lontanissimi, il giudizio sull’abitare rurale e contadino era molto severo. 21
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Un caso classico di «piazza pulita» fu, ad esempio, negli anni Cinquanta, l’evacuazione forzata dei Sassi di Matera, giudicati da una commissione di sociologi e studiosi americani e nostrani come un pericoloso caso di affollamento e promiscuità, una vergogna nazionale da cancellare. Il tutto avvolto nella descrizione di una società che «ancora viveva nelle grotte», come se i Sassi di Matera non avessero rappresentato per secoli un caso di insediamento all’interno di una tradizione rupestre che sapeva fare molto bene i conti con il clima, l’esposizione, l’organizzazione delle acque potabili e di scarico, e una sapiente gerarchia di spazi pubblici e di vicinato. Fatto sta che, pur in un periodo di relativa attenzione dell’etnografia nostrana, l’evacuazione di Matera fu salutata come un segno di civiltà e come tale fu accettato il trasferimento in dormitori lontani, pianificati in uno stile «popolare» che tradiva a tal punto un’ignoranza di quel mondo lucano e contadino da rappresentare, a distanza di pochi anni, un paesaggio desolato e anomico. Eppure, negli anni Venti, altri viaggiatori avevano riscoperto il fascino dell’«architettura vernacolare». André Gide, nel suo diario dal Congo, così parla delle case bombate dei Massa: Una bellezza così perfetta, così completa, da sembrare naturale. Nessun ornamento, niente di superfluo. La pura curva di una linea continua dalla base alla sommità, che sembra condotta da una matematica, ineluttabile necessità15.
Lo spazio funzionale All’inizio del ventesimo secolo, il Movimento Moderno per l’architettura si rivolge anch’esso al «vernacolare». 22
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Adolf Loos, antesignano della lotta contro l’ornamento, propugnatore di un’architettura funzionale asciutta e «vera», si domanda come mai tra la casa fatta da un contadino su di un lago e la casa fatta da un architetto, la casa del contadino non deturpi il lago, anzi sia «già lì», faccia parte del paesaggio, senza strappi, mentre la seconda appare spesso un’intrusa. La prima segue una necessità interna, è soltanto una casa, o meglio è la casa, e il tetto è il tetto, non il tetto in uno stile o in un altro16. Il Movimento Moderno, anche nelle pagine di Viaggio in Oriente di Le Corbusier17, prenderà la strada del riconoscere nell’architettura «vernacolare» l’archeologia del funzionalismo. Naturalmente, per fare questo dovrà evitare di impelagarsi in ogni architettura vernacolare che appaia «ingiustificata», in tutte le costruzioni cariche di ornamenti e simboliche in sé. Solo il Le Corbusier della tarda maturità si staccherà da questa visione per un’architettura «non funzionale» come la chiesa di Ronchamp, e non a caso la modellerà sul ricordo di una cappella-tomba islamica vista molti anni prima nel Maghreb. Eppure, nella sua fortuna e nelle sue conseguenze massicce, il movimento per l’architettura funzionale continuerà il ruolo riformatore assunto dalle amministrazioni nel diciannovesimo secolo. Si farà propugnatore di una «rieducazione» degli abitanti a nuovi valori tramite nuovi spazi, a una concezione della «essenzialità» per pareti lisce e grandi vetrate, convinto che l’essenzialità sia un valore igienico e salutista. All’operare in questo senso sfuggirà per moltissimi anni il valore dell’abitare come base della forma dello spazio e la stessa relazione forma-funzione come una relazione culturale e dinamica. D’altronde, anche le discipline etnografiche e antropologiche si sveglieranno molto tardi rispetto a un’attenzione allo spazio in questo senso. Solo le osservazioni di Marcel Mauss 23
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ed Émile Durkheim, in un saggio del 1901 sulle forme primitive di classificazione18 a proposito del legame indissolubile tra habitat e istanze della vita sociale (riprese poi da un saggio di Mauss e Henri Beuchat sulle variazioni stagionali nelle società eschimesi19), offrono un attacco frontale al determinismo geografico e tecnologico nell’interpretare l’organizzazione dell’abitare. Ma sembra vengano dimenticate fino agli anni Cinquanta e all’opera di Marcel Griaule sui Dogon20. Questa «distrazione» è forse da attribuire, come suggerisce Paul Oliver in un’ormai classica raccolta sull’abitare indigeno in Africa21, all’interesse prevalente dell’antropologia «funzionale» e «sociale» di matrice anglosassone per i problemi di lignaggio, di parentela, di clan, di investitura del potere e di eredità. Non è un caso che anche opere degli anni Cinquanta che si presentano dichiaratamente come monografie di villaggio, ad esempio quella di Margaret Green sul villaggio ibo di Umueke Abgaja22, non facciano alcun accenno alla forma del villaggio stesso e delle abitazioni.
Lo spazio relativo Quando però Lévi-Strauss, nel 1958, scrive che «lo spazio e il tempo sono due sistemi di riferimento che permettono di pensare le relazioni sociali insieme o isolatamente […]. Queste dimensioni non hanno altre proprietà che quelle dei fenomeni sociali che vi si fondano»23, i tempi sono invece già maturi per uno spostamento di ottica. Spazio e tempo non sono più le stesse entità degli inizi del secolo. Il loro statuto è scivolato altrove. In un racconto autobiografico, Albert Einstein parla di due incidenti che lo avevano riempito di stupore rispetto alla natura del mondo fisico. Quando aveva cinque anni suo padre gli aveva mostrato una bussola; il modo con cui l’ago conti24
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nuava a indicare una stessa direzione gli aveva fatto pensare che ci fosse «qualcosa di profondamente nascosto» in natura. A dodici anni aveva invece scoperto, su un libro di geometria euclidea, proposizioni che sembravano dare dello spazio un’immagine universale e omogenea. Questi due fatti gli apparivano in contrasto. A dispetto della visione euclidea e poi newtoniana di uno spazio assoluto ritenuto fermo, «sempre simile e immutabile», l’ago del compasso magnetico indicava la presenza di uno spazio mutevole con un orientamento che variava in dipendenza del suo contenuto. L’idea che lo spazio non fosse poi tanto omogeneo non era nuova24. Altri prima di Einstein avevano parlato di spazi differenti. Il filosofo Henri Poincaré aveva, ad esempio, identificato uno spazio visivo, uno tattile, uno motorio, ognuno dei quali definito da differenti parti dell’apparato sensoriale: Mentre lo spazio geometrico è tridimensionale, omogeneo e infinito, lo spazio visivo è bidimensionale, eterogeneo e limitato al campo visivo. Gli oggetti nello spazio geometrico possono essere mossi senza deformazioni; ma gli oggetti nello spazio visivo sembrano espandersi o contrarsi se avvicinati o allontanati dall’osservatore. Lo spazio motorio varia a seconda del muscolo impegnato, per cui ci sono tante dimensioni quanti sono i muscoli25.
Allo stesso modo, Ernst Mach aveva definito spazi visivi, uditivi e tattili che variavano a seconda della sensibilità e dei tempi di reazione delle differenti parti del sistema dei sensi26. E il filosofo e matematico russo Aleksandr Bogdanov, in un’opera sull’empiriomonismo, aveva scritto che il tempo, come lo spazio, è una «forma di coordinamento sociale delle esperienze di differenti individui»27. Nel 1916 Einstein raccomandava: «Dobbiamo evitare di usare del tutto un’espressione vaga come ‘spazio’: di esso, onestamente, dobbiamo ammettere di non avere la benché minima idea, e dobbiamo 25
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sostituirla con quella di moto relativo a un corpo rigido di riferimento». E in uno scritto successivo, del 1920, aggiungeva: «C’è un infinito numero di spazi che sono in movimento gli uni rispetto agli altri». Venti anni prima, il filosofo Élie de Cyon aveva già pubblicato un articolo sulle basi «naturali» della geometria euclidea28. La sua ipotesi era che il senso dello spazio fosse radicato nei canali semicircolari dell’orecchio umano: «L’esperienza umana ha tre dimensioni perché l’orecchio umano ha tre canali posti su piani tra di loro perpendicolari, e lo spazio tridimensionale euclideo corrisponde allo spazio fisiologico determinato dall’orientamento di quei canali»29. Questo spazio, che ha perduto la sua compattezza, è dunque percorso da tensioni, anzi è solo un interagire di diversi campi di forze. Non è più un vuoto o un etere omogeneo. Benjamin Lee Whorf pubblica nel 1940 un articolo sui Fattori linguistici nella terminologia dell’architettura hopi30 e apre, in un certo senso, la lettura relativistica dello spazio indigeno. Whorf, e prima di lui Edward Sapir in un articolo del 191231, fa notare come la visione della realtà possa essere influenzata in larga misura dalle abitudini di linguaggio di un gruppo umano. Non è possibile «vedere» lo spazio allo stesso modo degli indigeni se non si entra nelle loro categorie concettuali. A proposito degli Hopi, Whorf dice che questi hanno un gran numero di termini specifici per alcuni dettagli architettonici, ma una totale assenza di parole per indicare uno spazio interno tridimensionale, quello che noi chiameremmo stanza, vano. Hanno molti tipi di stanza e ne distinguono le funzioni, ma questi spazi non vengono nominati, bensì localizzati, ad esempio in base alla posizione in essi di certi oggetti. Allo stesso modo, non ci sono termini per indicare luoghi in cui struttura fisica e funzione siano fuse, come scuola, tempio, ospedale, ma c’è un termine (ki.hi) per indicare l’oc26
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cupazione di un luogo. La lingua hopi, al pari di altre lingue uro-azteche, considera i luoghi costruiti come concetti relazionali. Ne consegue che per capire l’architettura e gli insediamenti di culture non occidentali occorre prendere in considerazione i valori connessi alla terminologia usata per descrivere gli spazi e il loro uso. Questo lavoro può riservare altre sorprese. Ad esempio, uno studente hausa può dire a un suo collega universitario a Londra, parlando in inglese e indicando il cielo: «La città oggi è piuttosto nuvolosa»32. In hausa il termine che indica cielo e città è lo stesso (garii), ma qui non si tratta di una confusione di significati, quanto piuttosto di un concetto ambientale in cui una città e il cielo della stessa città non sono distinguibili. Questa visione dello spazio toglie anch’essa compattezza a un criterio «oggettivo» di misurazione e definizione dei fatti spaziali. E anche non volendo sposare le tesi di Sapir e Whorf sul relativismo linguistico, non c’è dubbio che per una cultura insediata lo spazio «sentito» non è quello rilevabile con una foto o un rilievo. Anzi, nessun osservatore esterno può esperire uno spazio indigeno se non tiene conto delle categorie spaziali indigene; se, per così dire, non acquista la percezione e la cognizione che della realtà ha quel particolare gruppo insediato.
Lo spazio fluttuante Michel Cartry nota che tra i Gourmantché di Gobnangou, nel Burkina Faso, vi sono due termini per indicare la savana: uno è Muagu e l’altro Fuali. Ma mentre Muagu indica tutti i luoghi incolti o abbandonati in cui ci sono erba e paglia, con Fuali si intende invece uno spazio mai sfruttato dall’uomo, che si tratti di foresta fitta o di una zona arida. Ma 27
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non è tutto qui. Fuali è anche uno spazio i cui confini si muovono, scivolano in funzione del momento: Di notte Fuali avanza nel villaggio fino al punto segnato dai recinti delle abitazioni, a volte penetra negli interstizi tra le case. Quando il sole è allo zenith, il territorio del villaggio sembra costellato da piccole isole di spazio «selvaggio», in cui è pericoloso entrare. Fuali implica qualcosa di indistinto, l’assenza di contorni differenziati, l’eliminazione dei confini. Così, di notte, ogni spazio al di fuori delle case tende a trasformarsi in terreno «selvaggio» e il modo in cui il paesaggio appare nella viva luce lunare, quando le cose sembrano tornare a uno stato indistinto, è ugualmente terreno «selvaggio»33.
E i Gourmantché non sono gli unici ad avere categorie spaziali «fluttuanti». Tra i Tin Dama delle province orientali Sepik di Papua (Nuova Guinea) vige la concezione secondo cui, andando da un villaggio all’altro, lo spazio si va rarefacendo, fin quando non si arriva a un «buco» invisibile in cui è possibile perdersi se non si praticano alcuni gesti rituali. Nella stessa tribù chiunque si sposta all’interno del villaggio deve usare i cammini già segnati ed evitare di lasciare impronte sul percorso per raggiungerli. È importante evitare che rimangano segnati altri cammini o incroci di cammini: lo spirito della foresta potrebbe infilarvisi e distruggere il villaggio. Per questo, la sera, tutto il villaggio cancella le orme per far tornare il terreno a uno stato di spazio neutro. E durante il giorno, chi si sposta porta sempre appresso una propria scopa che utilizza prima di fermarsi e sedersi34. O ancora si ascolti questa descrizione dello spazio quotidiano di una casa rurale nell’Ulster: Il focolare è il centro, le direzioni all’interno della casa sono definite rispetto a come ci si muove intorno al focolare. Si va «giù» 28
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quando il focolare è una bocca aperta dietro le nostre spalle, «su» quando le si va incontro. Ci si muove «in su» se ci si dirige verso il retro della casa e «in giù» se ci si muove verso la porta che dà all’esterno sul davanti della casa. Fuori si va «giù» a nord e a est e «su» a sud e a ovest. Con un movimento elicoidale, una girandola, lo spazio gira, le sue quattro direzioni si estendono fino a curvarsi, a fare una spirale in alto e in basso e a contenere il mondo, poi ritornano a casa, convergendo precisamente nel focolare35.
Si potrebbe supporre che quello che distingue noi e le nostre categorie spaziali da quelle degli Hopi o dei Tin Dama è l’accentuata presenza per noi di categorie apparentemente «oggettive», che ci fanno rimuovere l’orientamento relativistico in cui poi quotidianamente ci muoviamo. Michel Serres ci ricorda che: Il mio corpo – e io non ci posso fare niente – non è calato in una varietà unica e specificata. Nello spazio euclideo lavora, ma vi lavora e basta. Vede in uno spazio proiettivo. Tocca, carezza e maneggia in una varietà topologica. Soffre in un’altra, sente e comunica in una terza. E si può andare avanti finché si vuole. Lo spazio euclideo fu scelto nelle nostre culture del lavoro: lo spazio del muratore, dell’agrimensore, dell’architetto. Di qui l’idea di un’origine della geometria nella prassi – il che equivale a una tautologia, perché il solo spazio riconosciuto è propriamente quello del lavoro, quello del trasporto. Il mio corpo, dunque, non è calato in uno spazio unico, bensì nella difficile intersezione di questa numerosa famiglia di spazi; nell’insieme delle connessioni e dei collegamenti da praticare tra queste varietà di spazi. Non si tratta di un dato, di un qualcosa che, come si dice, è sempre là. Questa intersezione, questi collegamenti, sono sempre da costruire. E chi manca di questa costruzione viene generalmente detto malato. Il suo corpo esplode a motivo di una deconnessione di spazi36. 29
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Questo conflitto di varietà topologiche ci impedisce spesso di leggere la qualità dello spazio di popoli diversi da noi. L’illusione fotografica e restitutiva fa sì che ancor oggi si producano «atlanti» dell’architettura indigena e primitiva, credendo che questa sia proponibile negli stessi modi in cui siamo abituati a vedere il progetto di un architetto o l’idea di un grafico. Alla radice di questo errore c’è una famosa esposizione, quella curata da Bernard Rudofsky al Museum of Modern Art di New York nel 1954, la prima che desse dignità di architettura all’architettura indigena. La mostra (seguita da due volumi, uno sulla «architettura senza architetti» e l’altro sui prodigious builders, sulle meraviglie dell’architettura spontanea37) si appellava al buon gusto del pubblico e alla stranezza ed esoticità del tema. Pur con tutti i meriti per avere divulgato la bontà di qualcosa prima considerato rozzo, non restituiva però tutta la parte invisibile dell’architettura indigena. La «forma» di un insediamento è una costruzione culturale, una mappa mentale che solo gli abitanti sono in grado di tenere in vita. Vi sono soglie invisibili, ma solide quanto porte o mura. Si pensi agli spazi per gli iniziandi nei rituali ndembu di circoncisione38. Nulla li delimita tranne il loro essere off limits. Un limite netto, ma non segnato, separava la parte femminile da quella maschile nella jibaria, la capanna shuar39. E questo limite c’è stato bisogno di segnarlo con uno steccato solo dopo l’arrivo dei bianchi. Anche tra gli Yagua del Perú l’influenza bianca ha significato il passaggio da una serie di soglie invisibili a spazi e separazioni segnati40. Ugualmente, vi possono essere percorsi non tracciati, ma «forti» nella mappa mentale degli insediati. Tra i Nias dell’Indonesia, ad esempio, chi esce di casa per andare a trovare il vicino non può fare la via più breve, ma deve prima passare per il grande sentiero centrale che divide in due il villaggio41. 30
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Queste direzioni privilegiate, queste soglie e gli stessi confini di un insediamento costituiscono le notazioni su cui si articola il discorso «parlato» dello spazio. Ci si intende consentendo e ribadendo ambiti, orientamenti, tracce. La struttura sociale stessa si appoggia a questi riferimenti. Lo spazio serve a distinguere e a distinguersi. Può avvenire che vi si attestino le identità fondamentali di un insediamento. Così, ad esempio, un paese di pescatori in Sicilia, pur investito da una rapida modernizzazione, mantiene nei suoi abitanti una mappa mentale divisa in ambiti maschili e ambiti femminili. Altrettanto avviene in un paese della Provenza, dove alcuni luoghi come le chambrettes, le osterie-club degli uomini, sono off limits per le donne, così come l’ambito domestico e di stretto vicinato lo è per gli uomini42. Mary Douglas ha un aneddoto molto efficace a proposito di ciò che uno spazio nasconde: La natura dello spazio abitato è tale da non essere deducibile solo dai suoi aspetti fisici. Nel caso di resti archeologici, ad esempio, sono noti i casi di storiche cantonate a partire dalla sola evidenza architettonica. Morgan costruì una teoria su una cultura pueblo degli alti versanti dell’Ohio, i cui cortili spaziosi e le case strategicamente ben disegnate si sono rivelati in seguito a più ampie ricerche tumuli funerari43.
La forma dello spazio indigeno è «agìta» da chi la abita. René Thom parla di uno «spazio eccitato»44, intendendo uno spazio globale flessibile. In altri termini, i raccordi tra le mappe locali che definiscono lo spazio d’uso non sarebbero fissi, ma potrebbero essere modificati a volontà da certi individui (maghi e stregoni) e ciò in virtù di procedure specifiche (rituali magici, sacrifici). Altrove Thom afferma che la «topologia dello spazio cesserà di essere la stessa per tutti, perché le esperienze percettive di un osservatore possono essere a loro 31
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volta affette da un’azione magica»45. Qui Thom chiama magico ciò che dal punto di vista dell’antropologia psicologica può essere anche l’immaginario quotidiano, un immaginario che sostiene e costituisce la mappa mentale condivisa. È il gioco del «punto di vista» spaziale, il cui organo è tutto il corpo in movimento, il corpo individuale e sociale. La mappa mentale di un insediamento è un’esperienza intersoggettiva. Nello spazio vengono «lasciati» indizi che richiamano per analogie e passaggi la mappa più ampia: non solo il «io dove sono?», ma anche «chi sono rispetto a chi». Ad esempio, quando un Nias entra nella casa del capo del villaggio, deve passare a livello delle fondamenta da una porta bassa; l’ingresso si trova lì, a differenza di quanto avviene per le abitazioni comuni. L’azione di entrare dalle fondamenta, luogo in genere di «scarto», e di abbassarsi, fa rivivere a colui che entra l’impressione di dover passare per un luogo destinato usualmente ai maiali.
Direzioni e confini Françoise Lévy e Marion Segaud hanno cercato di raggruppare, da un grande numero di esempi di culture antiche, tradizionali e indigene, le categorie spaziali che concorrono a formare la mappa mentale di un insediamento. Le hanno raggruppate in due campi principali: quelle che rientrano nella nozione di limite e quelle che hanno a che fare con l’orientamento46. Insediarsi vuol dire ritagliare un posto tra la genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo gesto è un gesto di fondazione, e ogni fondazione implica un orientamento. Questo luogo, adesso abitato, è in relazione con ciò che gli sta intorno secondo alcune direttrici orientate. Ogni insediamento viene così incardinato non solo da 32
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un circoscrivere, ma anche da un legare al cosmo intero. La casa o il villaggio, i particolari degli oggetti d’uso o l’intera città diventano il rovescio del cosmo, un cosmo riflesso, o un cosmo parallelo. Che sia la casa-cesto dei Dogon, o l’ordine dei campi, o il recinto dell’uomo e delle sue donne fra i Fali del Camerun, tutto riflette e racconta come il mondo si è creato e continua a essere47. L’insediamento è una cosmografia, una cosmologia, ma non come può esserlo un modello statico. Il sistema villaggio, pur essendo il riassunto del cosmo, è esso stesso il cosmo48, cioè un sistema compiuto che si autoregola e autoproduce. Infatti, è anzitutto un «centro» del mondo49. Solo da un centro si possono lanciare le direzioni dell’orientamento. Presso i Berti del Sudan50, come presso gli abitanti dell’isola di Bali51, tra le prime parole che i bambini imparano a pronunciare vi sono i punti cardinali. L’orientamento viene tenuto presente costantemente, dai gesti di lavoro al muoversi, all’entrare e uscire, alla stessa posizione nel sonno. Nella tradizione cinese non ci si addormenta mai con la testa a sud52; in quella lao53 è importante che il corpo a riposo mantenga una direzione perpendicolare alla linea di colmo del tetto; tra i Dogon il capo deve essere rivolto verso il prospetto della casa, ma l’uomo dorme piegato sulla destra e la donna sulla sinistra54. Molte città, anche se lontane dalla propria data di fondazione, hanno per secoli conservato i due parametri, orientamento e delimitazione. La forma urbis era contenuta in queste due categorie. La forma urbis è poi, come si sa, scoppiata. La città moderna è un sistema in espansione indefinita per griglie e attrezzature. Questa espansione ne vanifica non solo i confini, ma anche il centro. Le periferie si ingrossano e mangiano i villaggi e le borgate vicine, e di queste spazzano via anche orientamenti e confini. Il nuovo paesaggio di suburbi diventa un elenco senza inizio né fine e lo spazio restante tra 33
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gli agglomerati perde il carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno. Questo nuovo spazio «smarginato», evaporato, è un paesaggio che alterna luoghi e fuor di luogo, o place and placeness, secondo la definizione di Edward Relph55, il cui effetto di insieme è la caduta di ogni senso del luogo, il no sense of place56. Anche qui Mary Douglas si interrogherebbe su che cosa abbia realmente provocato la scomparsa della forma urbis. Sono state le demolizioni e le costruzioni prescrittive del diciannovesimo secolo o è stata piuttosto la svalutazione delle mappe mentali degli abitanti? Non si potrebbe identificare in questo senso forma urbis e «mappa mentale condivisa»? Questa identificazione, che è automatica per gli insediamenti «primitivi», nella storia sociale d’Europa può avere subìto aggiustamenti. Le intenzioni del principe nei confronti della città e la risposta delle plebi potevano far convivere una monumentalità da teatro urbano con la capacità interpretativa e di assorbimento delle mappe mentali degli abitanti. D’altro canto, la storia sociale delle strade e delle piazze delle città europee57 ci parla di un tessuto di attività e di movimenti che riempiva e rimodellava i trionfi urbani dei re. Quando il controllo dei comportamenti domestici e urbani è diventato via via più rigido, non sono più stati i gesti della gente a dettare la mappa, ma le mura e le «strade corridoio». La perdita di contatto tra abitare e costruito ha reso difficile quel processo culturale che consisteva nel rapporto reciproco tra identità e luoghi. I luoghi sono diventati «alienati» proprio come gli abitanti. Ed è nato il senso desolato delle periferie, l’omologazione delle prospettive, il somigliarsi di tutti i quartieri suburbani del mondo e con essi il senso di anonimia.
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Lo spazio sradicato È in questa situazione, che invade anche il paesaggio dei paesi «non occidentali» e «non sviluppati», che l’immagine dello spazio indigeno prende un rilievo diverso. L’architettura indigena, l’habitat tradizionale europeo ed extraeuropeo, cominciano a essere oggetto di uno sguardo «invidioso». Architetti e pianificatori degli anni Settanta, costruttori di new towns e cités nouvelles, invano si affannano a dare un’identità a grosse opere di urbanizzazione. La risposta degli abitanti è spesso quella di un’anomia che rifiuta il progetto e risponde con la chiusura nel privato, l’abbandono o il vandalismo58. Nei casi migliori gli abitanti danno una propria identità all’insediamento solo a patto di stravolgere le intenzioni dell’architetto, come avviene per un quartiere progettato negli anni Trenta da Le Corbusier e realizzato alla periferia di Parigi, a Pessac. Si scopre che né standard né servizi sociali creano un abitato. E negli anni Settanta, alle Conferenze delle Nazioni Unite sull’habitat, John Turner documenta che le enormi urbanizzazioni provvisorie alla periferia di Lima, Caracas, Rio, sorte in una notte di occupazione, sono tenute dagli abitanti con una creatività e un senso di appartenenza che nessun quartiere progettato riesce lontanamente a provocare59. Colette Petonnet testimonia in quegli stessi anni un atteggiamento analogo nelle bidonvilles europee60. E Janice Perlman racconta le lotte dei favelados di Rio per resistere ai tentativi di demolizione forzata e di trasferimento degli abitanti61. L’architettura moderna, «funzionalista», è in crisi e sono in crisi i modelli abitativi. Mentre le città si diffondono a macchia d’olio, una sempre più diffusa mobilità impone sistemi di vita di costante sradicamento. Gli ultimi decenni sono caratterizzati da migrazioni volontarie e involontarie di proporzioni gigantesche: dall’americano che cambia residenza in 35
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media ogni tre anni a chi, in tutto il mondo, è forzato ad abbandonare le aree interne e rurali del paese. In alcuni casi, come in Indonesia, il governo persegue una politica di sradicamento e deindigenizzazione di milioni di persone appartenenti a differenti tribù ed etnie; ne proibisce la lingua, ne disbosca le foreste, con il proposito pianificato di «eliminare» le differenze culturali e creare «cittadini». Popolazioni che fino a pochi anni fa erano vissute in rapporto diretto con le risorse dell’habitat circostante (nomadi, cacciatori-raccoglitori, semisedentari, gruppi tribali con un’economia di sussistenza e secoli di adattamento ambientale) vengono travolte da cause esterne, guerre, disastri ecologici e provvedimenti autoritari62. Questa condizione mondiale ha fatto sì che lo spazio appartenga sempre meno a chi lo abita. La mobilità volontaria o forzata degli ultimi decenni porta un’impronta che non è quella del muoversi dei nomadi, ma del vagare di chi si è perduto. Come felicemente aveva intuito Italo Calvino, le città sono divenute invisibili agli stessi abitanti: Un giorno camminavo tra gli angoli di case tutte uguali e mi ero perso. Chiesi ad un passante: «Che gli immortali ti proteggano, sai dirmi dove ci troviamo?» «A Cecilia, così non fosse!» mi rispose. «Da tanto camminiamo per le sue vie io e le mie capre e non s’arriva mai ad uscirne […].» «Non può essere!» gridai. «Anch’io non so da quando sono entrato in città e da allora ho continuato ad addentrarmi per le sue vie. Ma come ho fatto ad arrivare dove tu dici, se mi trovavo in un’altra città, lontanissima da Cecilia, e non ne sono ancora uscito?» «I luoghi si sono mescolati» disse il capraio, «Cecilia è dappertutto; qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe dello spartitraffico»63.
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Oggi l’antropologia dello spazio può essere interrogata sia per dirci in cosa consiste il senso dello spazio di una cultura indigena, sia per parlarci sempre più spesso del «male del ritorno», la nostalgia, la Heimveh, l’homesickness, la saudade o la galiziana murinna, cioè le varie sfumature di un’assenza di luogo che Ernesto De Martino chiamava «angoscia territoriale»64: non solo lo sradicamento vero e proprio, ma la perdita dell’abilità di ambientamento, di radicamento. In un bellissimo studio Delia Frigessi e Michele Risso hanno ricostruito la storia di questo male che, riservato «etnicamente» nel diciassettesimo secolo alle armate svizzere mercenarie, si è via via allargato65. La scienza medica del tempo aveva cercato di localizzarlo fisiologicamente, in una malattia degli «umori» i cui sintomi erano «anoressia, palpitazioni e un incontenibile desiderio di tornare a casa», al punto da poter causare la morte se il malato non cominciava il viaggio di ritorno. Ma quando l’emigrazione si è allargata e ha varcato l’oceano, la scienza medica ha cambiato parere, scorgendo nella nostalgia una tara psichica di cui sono affetti certi gruppi sociali ed etnici. La predisposizione ad ammalarsi viene così descritta da un medico alla fine del diciannovesimo secolo: L’abitudine a una vita di relazione ristretta, l’uso del patois o del dialetto, la scarsità di conoscenze che impedisce all’uomo di vedere obiettivamente la sua esatta condizione, il bisogno di relazioni intime delle quali l’individuo non è mai stato privato […]. Si tratta di uomini timidi, abituati a una vita pacifica ma onesta e diritta, indecisi, carenti di determinazione quando si tratta di uscire dai binari di una vita regolare, senza tendenza all’ambizione egoista, che sanno poco arrangiarsi e mal sopportano l’ingiustizia66.
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Ambientamento e mente locale Solo oggi, dopo molti anni di mito sul «villaggio globale» e sui «nuovi cittadini del mondo», si comincia a capire che il processo di adattamento tra un individuo, un gruppo e un luogo è una costruzione di una complessità affascinante e fragile insieme. Noi di questo processo sappiamo ancora ben poco, perché fa parte di quelle facoltà quotidiane che corriamo il rischio di non vedere. Ma, al pari della parola o dei gesti, il «fare proprio un posto», o come si dice in castigliano hacerce con un sitio, è un tipico «lavoro umano». A differenza della semplice territorialità, nella facoltà umana di ambientarsi ci sono alcune componenti di identificazione con il luogo che non si possono spiegare nei semplici termini del proprio ambito di caccia e di difesa. La «territorialità umana» ha a che fare con la sopravvivenza, né più né meno della parola. Si tratta di una sopravvivenza sociale e culturale, oltre che fisica. E ha a che fare con l’apprendimento e la cognizione. Il processo di ambientamento e di presa di possesso dello spazio circostante si ripete nella vita di ogni individuo, con una «scoperta» che ha inizio dai primi giorni di vita e determina la capacità di costruire uno spazio interno che faccia da mappa di riferimento di ulteriori acquisizioni67. Se tale processo non si completa, sorgono problemi nella capacità di lateralizzazione, di ubicazione degli oggetti e del proprio corpo e in genere nell’ordinamento del reale (per cui, ad esempio, ci sono problemi nella scrittura). In più, la territorialità umana sembra funzionare con un processo continuo di allargamento e ritorno. Ci si «perde» oltre il confine dell’ambito conosciuto e si riporta la nuova fetta di reale in relazione al punto di partenza. Questa alternanza tra il perdersi e il «fare mente locale» è messa, come abbiamo già visto in alcuni esempi precedentemente citati, molto in rilievo dalle culture indigene. Come se tutto ciò che 38
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è enigma, che è sconosciuto, venisse posto oltre il confine dell’abitato, per esorcizzarlo, ma anche per poterlo conoscere in relazione a un pattern già ordinato. In questo senso nelle culture indigene l’insediamento è nel suo insieme un «soggetto che apprende», quello che vorrei chiamare, con una leggera forzatura di significato rispetto all’italiano, «una mente locale»68. Accade invece che, nella condizione moderna di abitanti, il perdersi abbia solo un valore di atto mancato, al pari di una gaffe. Viene vissuto come un atto di distrazione, un errore. O ancora è una condizione di alienazione. In un mondo costruito, in cui gran parte delle relazioni sono mediate da dispositivi elettronici, il reale perde la sua fisicità. Telefonate, immagini, relazioni a distanza rendono il «qui» estremamente indifferente. Per un terminale non è molto importante il luogo geografico; lo sono invece i problemi di rete e di velocità di trasmissione. E la comunicazione è legata costantemente a un «altrove» che si sposta. Probabilmente, l’effetto che tutto ciò ha sulle nostre capacità di apprendimento è che la sensorialità spaziale ha sempre meno importanza. Tuttavia, visto che essa continua a esistere perché abbiamo un corpo, ci troviamo de-fisicizzati e de-spazializzati senza fisiologicamente e biologicamente esserlo. Tutto ciò ci fa «trascurare» una facoltà che prima doveva esserci più familiare: ci pare di non comprendere e di non esprimere e comunicare più attraverso un’esperienza fisica dello spazio. Eppure, questi processi tornano vitali ogniqualvolta ci dobbiamo ambientare o ri-ambientare; con una costruzione che è molto simile a quella dell’apprendimento di una lingua straniera, dobbiamo esorcizzare l’estraneo e per fare questo, almeno in parte, perderci in esso. La «conoscenza locale» che si attua in questo procedere individuale spesso si avvale di un’eredità. Ci sono ambientamenti che non si possono improvvisare. Non si diventa indios 39
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amazzonici in una generazione, semplicemente perché la quantità e la complessità delle conoscenze ambientali richiede il deposito e la sperimentazione di molte generazioni. Questo è probabilmente vero per gran parte delle culture dell’abitare. Non ci si improvvisava montanari o gente di mare, come non ci si improvvisava calabresi o bretoni. L’ambientamento è una costruzione culturale che non si inventa in una generazione, come del resto accade per una lingua o un idioma. Quello che distingue il processo di apprendimento individuale rispetto a un luogo, dalla mente locale di un luogo, è una frequentazione collettiva e assidua nel tempo. La mente locale che vi si forma è spazializzata rispetto a un’orografia, a un clima, a un habitat che è quello specifico. I popoli «differenti da noi» e tra di loro, le tribù confinanti che hanno però una visione e una costruzione del sapere diversissime, sono l’esempio del fatto che la conoscenza è legata a un «qui». Certo, per noi moderni e occidentali la conoscenza è tanto più valida quanto meno è «provinciale». Ma per l’etnoscienza avviene il contrario. Non si riesce a capire l’«epistemologia locale» di un popolo se non si colgono le sue categorie mentali, e per fare questo occorre «calarsi» nel suo mondo, averne colto il sistema delle percezioni, che è possibile solo a quelle condizioni di luce, di calore, di odori e di sapori. Lungi dal farci cadere in una trappola deterministica, l’attenzione all’adattamento umano69 e alla mente locale, che ne è il frutto, ci permette di capire che per popoli diversi da noi l’ambiente è ancora un materiale preziosissimo su cui appoggiare le proprie classificazioni e i propri sistemi di riferimento. A noi pare di poterne quasi fare a meno, ma sappiamo che si tratta più di una rimozione che di una rinuncia reale. Uno studio sullo «spazio in francese»70 ci ricorda, ad esempio, quanto spazializzato sia il nostro linguaggio di tutti i giorni. Diamo per scontata una lettura «qualitativa» dello spazio che da un punto di vista «oggettivo» non avrebbe senso. 40
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Ad esempio, perché diciamo «c’è un sasso davanti al palazzo» e non diciamo «c’è un palazzo dietro a un sasso»? Insomma, anche se non ce ne accorgiamo, ugualmente il nostro parlare è «orientato». Bisogna riprendere l’intuizione originale di Kevin Lynch, uno dei padri della «psicologia ambientale»: L’orientamento è il motivo originario dell’immagine che si ha di un ambiente e la base su cui vi si possono costruire associazioni emotive, ma l’immagine non vale solo nel senso immediato per cui agisce da mappa per i movimenti nello spazio; in modo più ampio, serve da struttura generale di riferimento all’interno della quale un individuo può agire e alla quale può agganciare la propria conoscenza. In tal modo si può paragonare l’immagine di un ambiente a una mentalità, a un insieme di pratiche sociali, cioè a un tessuto organizzativo di fatti e possibilità71.
La differenza tra il nostro orientamento, più o meno rimosso, e quello dei «popoli indigeni» è ancora da cercare nel suo inverso. Per i popoli indigeni «perdersi» è una fase di un percorso cognitivo, dove quello che si conosce viene continuamente ricondotto a un «qui». Noi ci troviamo confusi tra due piani: ci perdiamo nei reticoli di una maglia di coordinate oggettive, perché non ci hanno dato la mappa del territorio; e però ci perdiamo anche nella nostra mappa mentale, che è fatta di criteri simbolici e metaforici ed emotivi. Cadiamo ogni tanto in una zona neutra tra questi due orientamenti, tra questi due perdersi, e non sappiamo esprimere il valore del «qui» se non con un linguaggio inappropriato, come magistralmente fa l’autore dell’Ulisse nell’ubicare Molly e Bloom72: In quale direzione giacevano l’ascoltatrice e il narratore? Ascoltatrice: Est-Sud-Est: narratore Ovest-Sud-Ovest: al 53° pa41
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rallelo di latitudine Nord e 6° meridiano di longitudine Ovest: a un angolo di 45° rispetto all’Equatore terrestre. In quale stato di riposo o di movimento? In riposo relativamente a se stessi e l’uno rispetto all’altro. In movimento essendo ciascuno e ambedue portati verso Ovest rispettivamente in avanti e all’indietro per il movimento proprio e perpetuo della Terra attraverso i sentieri sempre mutevoli dell’immutabile spazio.
Note al capitolo 1. S. Ardener (a cura di), Women and Space. Ground Rules and Social Maps, Berg, Oxford, 1993. 2. G. Miller, Language and Perception, Belknap Press, Cambridge (MA), 1987. 3. F. Beguin, Les Machineries anglaises du confort, in M. Foucault (a cura di), Politiques de l’Habitat (1800-1850), Comité de la recherche et du développement en architecture, Paris, 1977; G. Stedman Jones, Londra nell’età vittoriana, trad. it. De Donato, Bari, 1980; Ph. Ariès, L’Enfant et la rue, de la ville à l’antiville, «Urbi», n. 2, 1979; P. Meyer, L’Enfant et la Raison d’État, Seuil, Paris, 1977. 4. G. Teyssot, Introduzione a R.H. Guerrand, Le origini della questione delle abitazioni in Francia (1850-1894), trad. it. Officina, Roma, 1981. 5. O. Equiano, L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano [1789], trad. it. Epoché, Milano, 2008. 6. M. Foucault, Nascita della clinica, trad. it. Fabbri, Milano, 2009; P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, trad. it. Cortina, Milano, 2003; P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, trad. it. il Mulino, Bologna, 2007; G. Teyssot, op. cit. 7. F. Moore, Travels into the Inland Parts of Africa [1738], Gale ECCO, Print Editions, Farmington Hills (MI), 2010. 8. J. Barrow, Voyage to Cochinchina [1806], Kessinger Publishing, Whitefish (MT), 2010.
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9. G. Teyssot, op. cit. 10. A. Hansen, A. Oliver Smith (a cura di), Involuntary Migration and Resettlement, the Problem and Responses of Dislocated People, Westview, Boulder (CO), 1982. 11. P. Bourdieu, A. Sayad, Le Déracinement [1964], Minuit, Paris, 1977. 12. C. Crocker, Le immagini riflesse del sé, trad. it. in C. Lévi-Strauss (a cura di), L’identità, Sellerio, Palermo, 2003. 13. C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, trad. it. il Saggiatore, Milano, 2008. 14. C. Petonnet, Espace, distance et dimensions dans une société musulmane, «l’Homme», vol. XII, n. 2, 1984. 15. A. Gide, Viaggio al Congo [1929], trad. it. Einaudi, Torino, 1988. 16. A. Loos, Parole nel vuoto, trad. it. Adelphi, Milano, 2009. 17. Le Corbusier, Viaggio in Oriente [1911], trad. it. Marsilio, Venezia, 1995. 18. E. Durkheim, M. Mauss, Contributo allo studio delle rappresentazioni collettive [1901-2], in E. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1999. 19. M. Griaule, Dio d’acqua: incontri con Ogotemmeli, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2002. 20. M. Mauss, M. Beuchat, Saggio sulle variazioni stagionali delle società eskimo [1904-5], in E. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, op. cit. 21. P. Oliver, Shelter in Africa, Barrie & Jenkins, London, 1976. 22. M.M. Green, Igbo Village Affairs, Routledge, London, 1964. 23. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale [1958], trad. it. il Saggiatore, Milano, 2009. 24. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, trad. it. il Mulino, Bologna, 2007. 25. H. Poincaré, Scienza e metodo [1901], trad. it. Fabbri, Milano, 2009. 26. E. Mach, Space and Geometry in the Light of Physiological, Psychological and Physical Inquiry [1906], Dover Publications, Mineola (NY), 2004. 27. A. Bogdanov, Empiriomonismo, Mosca 1903-1907. 28. E. de Cyon, La base naturelle de la géométrie d’Euclide, «Revue philosophique de la France et l’Etranger», LII, 1901. 29. Per un generale up-to-date di tutta la materia, si veda Z.W. Pylyshyn,
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Things and Places, How the mind connects with the world, MIT Press, Cambridge (MA), 2007, e in particolare il capitolo «How we represent space: Internal versus external constraints». 30. B.L. Whorf, Fattori linguistici nella terminologia dell’architettura hopi, in B.L. Whorf, Linguaggio pensiero, realtà, trad. it. Boringhieri, Torino, 1977. 31. E. Sapir, Linguaggio e ambiente [1912], in E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità, trad. it. Einaudi, Torino, 1988. 32. D. Dalby, The Concept of Settlement in the West African Savannah, in P. Oliver, Shelter, Sign and Symbol, The Overlook Press, New York, 1977. 33. M. Cartry, Dal villaggio alla boscaglia o il ritorno della questione, in M. Izard, P. Smith (a cura di), La funzione simbolica, trad. it. Sellerio, Palermo, 1988. 34. F. Lupu, Toponymie Tin Dama, in AA.VV., Cartes et figures de la Terre, Centre Georges Pompidou, Paris, 1980. 35. H. Glassie, Passing the Time in Balleymenone. Culture and history of an Ulster community, Indiana University Press, Bloomington (IN), 1995. 36. M. Serres, Discorso e percorso, trad. it. in C. Lévi-Strauss (a cura di), L’identità, Sellerio, Palermo, 2003. 37. B. Rudofsky, Le meraviglie dell’architettura spontanea, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 1979. 38. V. Turner, La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, trad. it. Morcelliana, Brescia, 2001. 39. P. Israel, Dalla «jibaría» al «centro shuar». Modernizzazione dello spazio domestico nell’Amazzonia ecuadoriana, «La Ricerca Folklorica», n. 11, 1985. 40. J.P. Chaumeil, Entre el zoo y la Esclavitad. Los Yagua del Oriente Peruano en su situación actual, «IWGIA Doc.», n. 3, 1984. 41. P. Scarduelli, L’isola degli antenati di pietra, Laterza, Roma-Bari, 1986. 42. L. Roubin, Espace masculin, espace féminin en communauté provençale, «Annales ESC», n. 25/2, 1970. 43. M. Douglas, Symbolic Orders in the Use of Domestic Space, in F. Ucko, F. Tringham, A. Dimbledy (a cura di), Man Settlement and Urbanism, Duckworth Publishers, London, 1972. 44. R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli, Einaudi, Torino, 1984.
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45. R. Thom, Morphogénèse et imaginaire, «Circe – Cahiers de recherche sur l’imaginaire», n. 89-90, 1978. 46. F. Lévy, M. Segaud, Anthropologie de l’espace, Centre Georges Pompidou, Paris, 1983. 47. J.P. Lebeuf, L’habitation des Fali. Montagnards du Cameroun septentrionale, Librairie Hachette, Paris, 1961. 48. M. Griaule, op. cit. 49. M. Eliade, Immagini e simboli, trad. it. Jaca Book, Milano, 2007. 50. L. Holy, Symbolic and Non Symbolic Aspects of Berti Space, «Man», vol. XVIII, n. 2, 1983. 51. G. Bateson, M. Mead, Balinese Character. A Photographic Analysis [1942], New York Academy of Sciences, New York, 1985. 52. M. Granet, Il pensiero cinese [1934], trad. it. Adelphi, Milano, 2004. 53. S. Charpentier, P. Clément, L’habitation lao dans la région de Vientiane et de Louang Prabang, Peeters, Paris, 1990. 54. M. Griaule, op. cit. 55. E. Relph, Place and Placeness, Pion, London, 1976. 56. J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo: come i media elettronici influenzano il comportamento sociale [1986], trad. it. Baskerville, Bologna, 2002. 57. A. Farge, Vivre dans la rue à Paris au XVIIIe siècle, Gallimard, Paris, 1992. 58. C. Ward (a cura di), Vandalism, Architectural Press, London, 1973. 59. J. Turner, L’abitare autogestito, trad. it. Jaca Book, Milano, 1978. 60. C. Petonnet, Espace habités, ethnologie des banlieus, Galilée, Paris, 1982. 61. J. Perlman, Favela Removal. The Eradication of a Lifestyle, in A. Hansen, A. Oliver Smith, op. cit. 62. A. Hansen, A. Oliver Smith, op. cit. 63. I. Calvino, Le città invisibili [1972], Oscar Mondadori, Milano, 2009. 64. E. De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini, «Studi e materiali di Storia delle Religioni», vol. XXIII, n. 1952, ripreso in E. De Martino, Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
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65. D. Frigessi Castelnuovo, M. Risso, A mezza parete, Einaudi, Torino, 1982. 66. F. Begin citato in M. Bachet, Études sur les états de nostalgie, «Annales médico-psychologique», n. 108, 1950. Per un aggiornamento sulle idee di Bachet, si veda M. Roth, Dying of the Past, Medical Studies of Nostalgia in XIX century France, «History and Memory», vol. 3, n. 1, Spring 1991; M.L. Bourgeois, La nostalgie: psycopathologie de l’exil et du paradis perdu, «Annales Médico-psychologiques, revue psychiatrique», vol. 166, n. 6, julliet 2008. 67. J. Piaget, B. Inehlder, La rappresentazione dello spazio nel bambino, trad. it. Giunti Barbera, Firenze, 1981. 68. F. La Cecla, Segni di luoghi e mappe mentali, «Lineagrafica», n. 3, 1986. 69. E. Moran, Human Adaptability. An Introduction to Ecological Anthropology, Westview Press, Boulder (CO), 2007. 70. C. Vaudeloise, L’espace en français, Seuil, Paris, 1986. 71. K. Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Venezia, 2008. 72. Riprendo qui un’intuizione di S. Kern, op. cit.
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CAPITOLO SECONDO
Pudore delle bussole
Autoctono è nello stesso tempo un attributo di sovranità e di sottomissione. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito
«Fare mente locale»: questa espressione così italiana (difficile trovare un corrispondente in altre lingue) pare abbia cominciato a essere pronunciata in centro Italia ai tempi dei poeti romaneschi, non più di un secolo fa. Nella lingua corrente ce ne serviamo per indicare un salto dovuto dell’attenzione, un déclic che, accostandoci alle circostanze, ce le faccia capire (più che una lente di ingrandimento, un cambiamento di lente). E non si potrebbe utilizzare al suo posto «focalizzare», «concentrarsi», abbandonando lo strano connubio tra mente e luogo? Ma no, è proprio qui l’originalità dell’espressione: «fare mente locale» è depositare la propria mente su di un luogo, è un’immagine dove non si vede solo il soggetto che si sforza di mettere a fuoco, strizzando gli occhi, ma dove il sog47
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getto si esteriorizza e si guarda mentre mette le proprie doti di comprensione sopra a un luogo e a un contesto. Quello che è ancora più singolare è che «fare mente locale» presuppone una scissione, due o più tipi di mente, di cui solo una adatta, ad hoc. Questa scissione della comprensione, il non ammettere che l’attenzione possa essere la stessa per le cose generali e per le situazioni particolari, si accompagna a un’immagine suggestiva: quella della localizzazione del pensiero e del suo poter essere una superficie (uno spazio, un luogo) che aderisce, si conforma (come le case sulle colline di San Francisco) a un’altra superficie. L’ipotesi cui mente locale dovrebbe fare da chiave è che l’attività del vivere e del conoscere uno spazio sia un tipo speciale di attività cognitiva. L’ambizione, si vedrà, è ancora maggiore: e cioè che questa speciale maniera di localizzare il pensiero non sia un’attività marginale della mente, ma ne rappresenti dal punto di vista genetico, di esercizio e di elaborazione una ben ampia superficie. L’ipotesi non è nuova; abbiamo già visto che Durkheim e Mauss, agli inizi del ventesimo secolo, occupandosi della logica dei sistemi di classificazione, sostenevano: È un fatto dell’osservazione corrente che le cose che [questi sistemi] comprendono sono generalmente immaginate come situate in una sorta di milieu ideale, uno spazio circoscritto più o meno nettamente limitato […]. Questa tendenza a rappresentarci raggruppamenti puramente logici sotto una forma che contrasta fino a questo punto con la loro natura, non verrebbe dal fatto che questi hanno cominciato a essere concepiti sotto forma di gruppi spaziali, che quindi occupano un posto determinato nello spazio1?
Per Durkheim e Mauss, quindi, i concetti sarebbero stati all’origine luoghi, raggruppamenti di luoghi (topoi, luoghi comuni?). Certo anche noi diciamo che una cosa, ma anche 48
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un pensiero, «ha o ha avuto luogo». Ma qui la logica è ancora più radicale: è dai luoghi che nascono i pensieri. È Georges Perec a ricordarcelo. Basta ripensare allo spazio di una certa camera in cui si è dormito alcuni anni prima: Lo spazio resuscitato della camera da letto basta a rianimare, a riportare, a ravvivare i ricordi più fugaci, i più anodini come i più essenziali. La sola certezza sinestesica del mio corpo nel letto, la sola certezza topografica del letto nella camera, riattiva la mia memoria, le dà un’acutezza, una precisione, che altrimenti essa non ha quasi mai. Come una parola, sentita in un sogno, appena trascritta da svegli restituisce tutto un ricordo di quel sogno, qui, il solo fatto di sapere (senza avere quasi il bisogno di andarlo a cercare, semplicemente stando disteso qualche istante e avendo chiuso gli occhi) che il muro era alla mia destra, la porta accanto a me a sinistra (alzando il braccio potevo toccarne la maniglia), la finestra di fronte, fa venir fuori, istantaneamente e alla rinfusa, un fiotto di dettagli la cui vivacità mi lascia sbalordito2.
Che cos’è accaduto qui? La mente si è immaginata posta in uno spazio del passato, e basta questo perché tutta la complessa concretezza di quel passato venga ricostruita. Dice Perec che per lui «lo spazio di una camera funziona come una madeleine proustiana». Il rapporto tra memoria e mente locale è veramente singolare. La mente rintraccia i ricordi, planando sul territorio di qualcosa che non è un passato, ma uno spazio passato. Nel vivere o nel vagare in uno spazio c’è una forma di conoscenza in cui vengono implicate le componenti di presenza (ci sono, c’ero, ero lì) e di postura (in piedi, disteso, supino, in movimento, in velocità, a quattro zampe). Gli studiosi di psicologia dell’età evolutiva ci raccontano che già il feto cambia posizione venti volte per ora, il suo muoversi è la prima esperienza di sé, di «propriocezione», e la base dell’equilibrio3. Questa 49
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forma complessa di esperienza è un continuo parametrare se stessi rispetto all’intorno e viceversa. Sempre Perec, a proposito della nostra familiarità con lo spazio e non con il tempo, osserva: Lo spazio sembra essere o più addomesticato o più inoffensivo che il tempo: si incontra dappertutto gente che ha l’orologio, e molto raramente gente che ha una bussola. Si ha sempre bisogno di sapere l’ora (e chi è più capace di dedurla dalla posizione del sole?), ma non ci si domanda mai dove ci si trovi. Si crede di saperlo: si è a casa, in ufficio, nel metrò o in strada4.
Tutto sommato, nello spazio stiamo a nostro agio o cerchiamo, appena ci è possibile, di esserlo. Il tempo sembra essere più astratto, steso su coordinate che non dipendono da noi e dal nostro adattamento. Eppure, quanto le due dimensioni siano interrelate ce lo dicono certe regole di comportamento in alcune culture. In Indonesia, ad esempio, nella zona orientale della regione di Kalimantan, presso le società Modang Wehèa che vivono in villaggi lungo i fiumi e che mantengono un’organizzazione spaziale molto precisa sia nei rapporti all’interno dello spazio abitato sia con il mondo intorno al villaggio, se due persone della stessa casa desiderano andare l’una a monte e l’altra a valle (rispetto alla direzione della corrente del fiume) nello stesso giorno, lo devono fare mettendo in mezzo l’intervallo di una notte5. Questo è un modo particolare per dire che anche il tempo è uno spazio, le cose devono pur sempre «avere luogo» da qualche parte nel tempo. La mente locale ama scambiare i tempi per spazi e viceversa, come ama la compresenza e lo scambiarsi dell’interno e dell’esterno. Il vagabondare, il passeggiare, lo scoprire luoghi sono l’occasione di questi travestimenti. 50
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Paul Auster in un suo romanzo fa vagabondare per New York un improvvisato detective (Mr. Quinn) dietro a un misterioso personaggio: Adesso restava il problema di come occupare i suoi pensieri mentre seguiva il vecchio. Quinn era abituato a vagabondare. Le sue escursioni attraverso la città gli avevano insegnato a comprendere l’interconnessione tra interno ed esterno. Usando un andare in giro senza meta come tecnica di inversione, nei giorni migliori era capace di portare ciò che c’era fuori dentro e in questo modo usurpare la sovranità di ciò che aveva dentro. Sommergendosi con fatti esterni, annegandosi fuori di sé, era riuscito a esercitare un certo grado di controllo sopra i suoi momenti di disperazione6.
Lo stesso personaggio più in là nel testo comincia ad avere dubbi sull’esatto succedersi del tempo e, svegliatosi in una stanza buia e osservando che fuori c’è il sole, conclude: Notte e giorno non sono che termini relativi; non si riferiscono a una condizione assoluta. A ogni dato momento sono possibili entrambi. L’unico motivo per cui non lo sappiamo è perché non possiamo essere in due posti nello stesso momento7.
La mente locale ha le vertigini? O gioca sapendo che è a partire da un qui, adesso, che ci si può librare verso altri «qui»? Questo relativismo quotidiano è ancorato alle categorie di sopra, sotto, destra, sinistra, a monte, a valle, davanti, dietro. L’aspetto cognitivo dello stare in un luogo parte dall’impressione di una centratura, la propria, rispetto alla quale tutto lo spazio è a tal punto in tensione da poter far smarrire (una vertigine!) il qui. Una forma di ermeneutica che viene dal rapporto dentro/fuori continuamente ribaltato e continuamente riquotato: l’orientamento come forma di comprensione oltre che di spiegazione, nel senso che orientarsi 51
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significa sempre conoscere un contesto relativamente a se stessi posti in quel contesto (ma è dalla certezza della propria centratura che nasce la vertigine del poter essere altrove, contemporaneamente). Lo spazio del qui conversa: conversa con gli altri qui, con i qui del proprio passato, con i possibili qui del futuro e del presente e, come ricorda sempre Perec, con i qui degli altri, soprattutto di quelli che ci sono «vicini» (vicini al cuore?): Di tanto in tanto, comunque, occorrerà domandarsi «dove» ci si trovi, fare il punto: non solo sugli stati d’animo, sulla salute, le ambizioni, le convinzioni e le motivazioni, ma sulla sola posizione topografica e non solo in rapporto agli assi (latitudine, longitudine) citati prima, ma piuttosto in rapporto a un luogo o a un essere cui si pensa, o cui ci si metterà a pensare. Ad esempio, quando si sale a Les Invalides sull’autobus che vi conduce all’aeroporto di Orly, rappresentarsi la persona che si va a prendere mentre sta passando sulla verticale di Grenoble, cercare, mentre la vettura si fa strada a fatica in un imbottigliamento del traffico in avenue Maine, di figurarsi la lenta avanzata sulla mappa della Francia, la traversata dell’Ain, della Saône-et-Loire, della Nièvre e del Loiret… O meglio, in maniera più sistematica, interrogarsi, in un momento preciso della giornata, sulla posizione che occupano, gli uni in rapporto agli altri e rispetto a voi, alcuni dei vostri amici: notare le differenze di livello (quelli che come voi vivono al primo piano, quelli che stanno al quinto, all’undicesimo ecc.), gli orientamenti, immaginarsi i loro spostamenti nello spazio8.
Questa forma di conoscenza che parte dal qui è possibile solo a chi abita, all’abitare; una strana attività, come abbiamo già osservato, una facoltà umana che non è né data, né immediata. Come ci ricorda Perec, per rendersene conto occorre darsi attenzione, come degli esercizi, dei compiti da svolgere, un’attenzione orientata, magari da un tavolo da 52
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caffè (Rien nous ne frappe, nous ne savons pas voir, nulla ci stupisce, non sappiamo più vedere), osservando il mondo circostante. L’apparente banalità del mondo ci nasconde la sua irriducibile concretezza. L’abitare è sia l’abitudine al mondo, sia il mondo circostante sedimentato a tal punto in noi da consentire alla superficie della mente di scambiarsi con la superficie del mondo «frequentato». Ecco qui entrambe le operazioni, lo scambio interno/esterno e la trasformazione dei tempi in spazi. Abitare significa rendersi conto. Ma di che? Dell’evidenza: come dire che per rendersi conto del mondo non ne è sufficiente la percezione. La concretezza spaziale del mondo è peraltro il luogo in cui le due categorie del significante e del significato rimangono costituite simultaneamente e solidarmente come due blocchi interrelati. Qual è il significato di un lago, di una nuvola, di una pietra? Questa intuizione, che riprende un’affermazione di Lévi-Strauss sulla nascita del linguaggio9, vuole semplicemente dire che la concretezza del mondo è un livello simbolico il cui primo significato è l’evidenza: «L’universo nella sua totalità ha rivelato una ricchezza di significati concepiti già in forma simbolica». Ascoltiamo ancora che cosa ha da dire a questo proposito Perec: Percorrere il mondo, solcarlo in tutti i sensi, altro non sarà che conoscerne delle are, degli arpenti: minuscole incursioni tra vestigia disincarnate, fremiti di avventura, ricerche improbabili intrappolate in una nebbia dolciastra di cui qualche dettaglio ci resterà nella memoria: al di là di queste stazioni e di queste strade, e delle piste scintillanti degli aeroporti, e di queste strisce esigue di terreno che un treno di notte lanciato a gran velocità illumina per un breve istante, al di là dei panorami troppo attesi e troppo tardi scoperti, dell’ammucchiarsi di pietre e dell’ammucchiarsi di opere 53
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d’arte, ci saranno probabilmente tre bambini che corrono su di una strada tutta bianca, o piuttosto una piccola casa alla periferia di Avignone, con una porta in legno a claire-voie già dipinta in verde, lo stagliarsi in silhouette degli alberi in cima a una collina dalle parti di Saarbrücken, quattro obesi ilari sulla terrazza di un caffè nei sobborghi di Napoli, la strada principale di Brionne, nell’Eure, due giorni prima di Natale, verso le sei di sera, la freschezza di una galleria coperta nel suk di Sfax, una minuscola diga di traverso su di un lago scozzese, una strada piena di tornanti dalle parti di Corvoll’Orgueilleux… E con essi, irriducibile, immediata e tangibile, la sensazione della concretezza del mondo, qualcosa di chiaro, di più vicino a noi: il mondo non più come percorso da rifare senza sosta, non come una corsa senza fine, una sfida da raccogliere senza sosta, non come il solo pretesto di un’accumulazione disperante, né come illusione di una conquista, ma come ritrovamento di un senso, percezione di una scrittura terrestre, di una «geografia» di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori10.
Qual è il significato di questa «nostra» geografia: che cos’è per noi il lago del ricordo, la stanza della persona amata o la strada che ci allontana da casa? È l’evidenza, un’evidenza resa familiare, il cui significato aderisce talmente a quello della nostra presenza da essergli incollato. E qual è il significato della nostra presenza? Mille e nessuno, si potrebbe rispondere, ma la risonanza di questa attesa e pretesa di significato è quella ricchezza con cui il mondo si manifesta già come forma simbolica, come un tappeto su cui possiamo stendere molte, tante interpretazioni e nessuna esauriente. Eppure, c’è già nella familiarità dell’operazione, nella geografia che comunque, anche se non sappiamo come, ci appartiene, quella profonda soddisfazione dell’abitare di cui parla Emmanuel Lévinas in Totalità e infinito11. L’abitare è un godimento del mondo, un soddisfarsi di esso avendone bisogno. 54
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Di cosa è fatta l’evidenza dello spazio? E tuttavia si può tentare di scandire questa geografia familiare. Torniamo alle intuizioni di Durkheim e Mauss e a quelle di Lévi-Strauss. La caratteristica delle classificazioni, delle operazioni mentali, dei sistemi di classificazione spaziale, è di essere, in qualche modo, particolarmente vicini all’evidenza del mondo. Questo farebbe sì, a livello semantico, che i sistemi di orientamento, di posizione, le cosiddette deissi spaziali (qui, là, laggiù, parole impronunciabili senza l’indicazione, con il dito, la mano, il mento, la fronte, un sopracciglio), coincidano con il quadro linguistico, ma anche con quello dell’organizzazione sociale di un dato gruppo umano. C’è insomma un intrico tra lingua, percezione-definizione dello spazio e posizione degli attori sociali in esso. Ora, su cosa venga prima e cosa dopo, il dibattito è (e sarà) sempre aperto. Lévi-Strauss ha sottolineato un’altra corrispondenza tra classificazioni spaziali e categorie semantiche: il fatto di nominare taluni gruppi sociali o individui in rapporto a «iscrizioni spaziali» (una casa, una casata), o di sostituire a queste dei nomi propri, suggerirebbe un’influenza (universale?) reciproca tra categorie spaziali e categorie linguistiche12. E lo stesso si potrebbe dire per le opposizioni logiche come alto/basso, destra/sinistra, centro/periferia13. Antonio Guerrero, nel suo lavoro sull’organizzazione dello spazio presso le società indonesiane dei Modang Wehèa, premette all’analisi dello spazio del villaggio queste osservazioni: Un aspetto specifico delle classificazioni spaziali deve essere comunque sottolineato: contrariamente alle classificazioni di oggetti o di specie (animali, piante, minerali, oggetti ecc.) che raccolgono in gruppi di parentela elementi della stessa natura, le prime fanno parte di una concettualizzazione più spinta e insieme più elementare. La relazione con lo spazio, inglobata in una rappresentazione 55
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del mondo, interseca più dimensioni: la percezione sensoriale dell’ambiente circostante, l’apprensione deittica di distanze e movimenti, i raggruppamenti sociali e le relazioni interpersonali. La classificazione opera dunque a due livelli opposti, a un livello superiore – l’individuazione geografica – essa si dilata fino ad abbracciare il mondo nella sua totalità e, nello stesso tempo, al livello inferiore – l’individuazione biologica o individuale – essa arriva a designare le persone14.
Il villaggio Modang Wehèa è un’ottima illustrazione di questa premessa. Strutturato secondo tre assi paralleli al fiume (la testa, la più vicina al fiume, il centro e il retro del villaggio), orientato secondo la direzione della corrente (a monte e a valle), arricchito da due ulteriori punti di riferimento (l’altra riva del fiume e l’interno, il fuori villaggio), esso costituisce un’impalcatura spaziale a vari livelli: dal livello cosmologico (i racconti sull’origine del mondo e sul ruolo degli antenati), tripartito come il villaggio (cielo, terra e mondo degli inferi), alla gerarchizzazione sociale, che gioca sul binomio sacro/profano corrispondente al binomio perpendicolare/parallelo al fiume. Così, i nobili stanno sull’asse perpendicolare e le case dei sudditi su quello parallelo, la casa centrale dove si fanno i riti e la casa di riunione degli uomini stanno sull’asse perpendicolare e le case ordinarie su quello parallelo. Lo spazio è diviso in luoghi comuni a uomini e donne, perpendicolari al fiume, e in soli spazi femminili, sull’altro asse. Gli stessi spazi sono pensati a loro volta come caldi, i primi, e freddi, i secondi. Una dettagliata deissi colonizza tutti i punti interni al villaggio e anche quelli circostanti. L’opposizione parallelo/perpendicolare si complica con l’idea di alto (a monte) e basso (a valle), con l’aggiunta delle posizioni destra/sinistra e dei movimenti. Si può indicare in alto (direzione), essere in alto (posizione), andare verso l’alto (movimento). A queste tre deissi corrispondono linguistica56
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mente tre avverbi di luogo (ma anche tre posizioni sociali, tre situazioni rituali, di relazione, di rapporto con i miti). E questo vale per il basso, la destra, la sinistra, il qui, il là e le loro combinazioni. L’orientamento prescrive ruoli, evitazioni, comportamenti. Ad esempio, è proibito prestare giuramento su certi oggetti caricati di potenza (la terra, il riso, le pietre e i denti di tigre) all’interno del villaggio o nella zona coltivata. Una trasgressione provocherebbe uno stato di squilibrio in tutto il villaggio. Perché non provochi una rottura nell’ordine del mondo, occorre che il giuramento venga prestato in piena foresta, lontano dal villaggio. L’impalcatura spaziale consente i salti tra un livello e l’altro e annuncia la logica delle corrispondenze. Ma il mondo «chiuso» e ordinato dallo spazio dell’insediamento non è un’impalcatura rigida, bensì un ordine che bisogna continuamente preservare e ricaricare. Parlando dei villaggi della regione di Karnataka, nel sud dell’India, Jackie Assayag usa il termine di «geometria molle», uno spazio dinamico i cui bordi sono determinati, ma in movimento15. La liquidità di questo spazio viene continuamente ricontrattata nelle relazioni sociali tra caste e tra spazi delle divinità protettrici (miti e vegetariane) e delle divinità di confine (feroci e carnivore). Durante lo stato di purificazione corrispondente a certe feste del villaggio, gli abitanti non possono abbandonare lo spazio del villaggio circoscritto da porte rituali, a rischio di disperdere il potenziale di fertilità accumulato. I limiti del villaggio devono essi stessi essere ritracciati con rituali che tengano lontane le potenze demoniache. In questi casi, alcune divinità minori vengono solennemente portate ai confini dell’insediamento e «poste» dentro pietre, alberi, acque, che servono loro da ricettacolo temporaneo. Un altro rito consiste nel porre sulla testa di una persona ritualmente pura una lampada (che si chiama «lampada dei limiti»), fatta di farina e riempita di un burro (ghi) che ali57
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menta la fiamma, e nel portarla verso la periferia del villaggio, accompagnata da una processione. Il luogo in cui la lampada si spegne indica il limite rituale del villaggio. Queste pratiche di ricaricamento dello spazio e di riconferma dei suoi confini si ritrovano peraltro in culture più vicine a noi. Le processioni che ripercorrono le strade di un paese hanno una funzione analoga. Uno dei paragrafi del libro Cu àbbita àbbita e cu nun àbbita mori racconta il caso di un villaggio di pescatori in Sicilia. Lo spazio è uno strano supporto in movimento, fatto di densità interne che si spostano. È per questo che Assayag, come premessa al suo articolo, cita un brano di Martin Heidegger su cosa sia un limite: Uno spazio è qualcosa che è «sgomberato», reso libero, all’interno di un limite, in greco peras. Il limite non è dove qualcosa cessa ma, come ben avevano osservato i Greci, dove qualcosa comincia ad essere. È per questo che il concetto è chiamato orusmos, cioè limite. Lo spazio è essenzialmente ciò che è stato sgomberato, ciò che si è fatto entrare nel suo limite. Ciò che è stato sgomberato è ogni volta dotato di un posto e in questa maniera inserito, cioè raccolto da un luogo […]. Ne consegue che gli spazi ricevono il loro essere dai luoghi e non dallo «spazio»16.
Sono i luoghi a creare lo spazio. Questi luoghi sono in tensione. E sono assediati da una tensione esterna che preme contro i limiti. Da un vero vagabondo facciamoci dire, dall’esterno, di che natura è la tensione che anima la geometria molle di un insediamento, qual è la carica che tiene insieme, e fino a che punto, i luoghi. È la voce di Henry David Thoreau che cammina tra un villaggio e l’altro: Il villaggio è il luogo verso cui tendono le strade, una sorta di espansione della strada maestra, come il lago rispetto al fiume. È il corpo cui le strade fanno da braccia e da gambe, trivio o quadrivio, 58
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crocevia obbligato dei viaggiatori. La parola deriva dal latino villa, che insieme a via, una via, o ancora più anticamente ved e vella, Varrone fa discendere da veho, trasportare, poiché la villa è il luogo verso cui, e da cui, le cose vengono trasportate. Vellaturam facere fu detto di coloro che vivevano raggruppati. Da qui deriva anche la parola latina vilis e il nostro vile, nonché villain. Questo testimonia il grado di degenerazione cui sono esposti gli abitanti di un villaggio: spossati dal movimento che gli turbina intorno e li schiaccia, senza che loro stessi mai intraprendano un viaggio17.
Abbiamo parlato di categorie spaziali, orientamenti, limiti, tensioni. In qualche modo, allora, è possibile scandire lo spazio. È possibile leggerlo come se fosse un libro aperto?
Racconta, città Le strade di Buenos Aires ormai sono le mie viscere. Jorge Luís Borges
È possibile trasformare la città in un testo, in una narrazione? Molti ci hanno tentato, compreso Perec. Ma il caso più singolare è quello di Borges e di Buenos Aires. Borges nasce a Buenos Aires, nel quartiere Palermo; a tredici anni lascia l’Argentina e vive per sette anni in Europa. Torna nel 1921 e riscopre la città. È una Buenos Aires cambiata dall’immigrazione massiccia e dall’urbanizzazione sfrenata. Da tranquilla città circondata da sobborghi di case basse si è trasformata in una metropoli cosmopolita, affascinata dal progresso tecnologico e macchinista. Borges sente il bisogno di fissare la Buenos Aires della sua infanzia, di ricostruire punto per punto, patio per patio, strada per strada, casa per casa, la città di allora. Lo fa scri59
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vendo la biografia di un poeta, Evaristo Carriego, che è vissuto nel suo stesso quartiere, Palermo. Questo lavoro gli sembra compiuto solo in parte. Vorrebbe completarlo con un libro di foto fatte in collaborazione con l’amico Néstor Ibarra. Ma il progetto rimane solo un’intenzione. Dopo la biografia Evaristo Carriego, è la Buenos Aires del presente che, per Borges, ha bisogno di essere descritta, poetizzata. In Fervore di Buenos Aires scrive: Felice chi abita una città che è stata cantata da un grande verso! Buenos Aires è uno spettacolo eterno (almeno ai miei occhi) con il suo centro fatto di indecisione, pieno di edifici che annegano e soffocano i piccoli patii vicini, i loro alberi teneri e i loro muri… Ma Buenos Aires, malgrado i milioni di destini individuali di cui la città deborda, resterà deserta e muta fintantoché qualche simbolo l’avrà scelta come domicilio. La provincia è popolata: vi si trovano Santos Vega, il gaucho Cruz e Martín Fierro, tanti possibili dèi. La città, invece, è ancora in cerca di una poetica18.
Borges cerca di fondare miticamente la sua città, e in questo lavoro ogni sua poesia scopre un aspetto che prima gli sembra di avere trascurato. Gli appare come un lavoro pieno di insuccessi. Nella poesia Vaniloquio lo confessa: La città in me è come un poema di cui non ho ancora trovato le parole.
Questo testo che Borges cerca di costruire per tutta la vita è una traduzione di Buenos Aires. La città continua a essere declinata in versi o in racconti, ma la traduzione è sempre parziale e l’originale continua a sfuggire, sia perché la città del passato è ormai perduta, sia perché quella del presente è fatta solo dei luoghi «vissuti» da Borges. Sempre in Fervore di Buenos Aires scrive: 60
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Ci tengo a dichiarare che le mie poesie, a dispetto dell’equivoco facile dovuto al loro titolo, non hanno cercato di rendere giustizia alla grande diversità di ambienti e di luoghi che si trovano nella mia patria. La mia patria – Buenos Aires – non è il grande mito geografico che queste due parole suggeriscono; è la mia casa, i quartieri gentili, è legata a queste strade e a questi rifugi di pace, a ciò che vi ho potuto apprendere dell’amore, del dolore e del dubbio.
Buenos Aires narrata, cantata, è presente in cento altri testi, anche quando Borges descrive altre città di Oriente e di Occidente; le case a patio di cui parla, certi angoli e certe strade, sono la sovrapposizione dell’immagine di Buenos Aires su altre città19. E anche quando la descrive, sa che non ne sta dando una mappa o una foto, ma la sua mente locale, il suo «dimorare» a Buenos Aires: «Non è Buenos Aires che Borges comunica al lettore, ma come si percepisce la città quando la si percorre»20. Questa passione di descrivere la città che conosce bene, di trasformarla in narrazione, passa per un continuo affinamento di stile e per un’essenzializzazione del testo. Gli esperimenti sono tanti. In Elogio dell’ombra Borges cerca di descrivere Buenos Aires per liste: Che sarà Buenos Aires? È la Piazza di Maggio alla quale tornarono, dopo aver guerreggiato sul continente, uomini stanchi e felici. È il crescente labirinto di luci che scorgiamo dall’aereoplano e sotto il quale sono la terrazza, il marciapiede, l’ultimo cortile, le cose quiete. È il muro della Recoleta contro il quale morì fucilato uno dei miei antenati. È un grande albero in via Junin che, senza saperlo, ci dà ombra e fresco. È […] È […] 21 61
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Dopo una ventina di versi su questo modello, Borges si dichiara scontento e dice: «Non voglio proseguire, queste cose sono troppo individuali, sono troppo quello che sono, per essere anche Buenos Aires». E comincia un altro esperimento: enumera tutte le cose di Buenos Aires che non conosce, le strade dove non ha mai camminato, quello che le facciate nascondono. Arriva così a un’immagine più completa della città. Una città non è solo quello che conosciamo, ma la riserva di sconosciuto che sappiamo esserci e che ci tranquillizza (o ci turba) per il fatto che potremmo conoscerla. Con il procedere degli anni e con l’avanzare della cecità, per Borges la città si fa sempre più interna, la narrazione si avvicina sempre più alla mente locale del narratore e si confonde con le sue emozioni. Ti cercavo una volta, mia città, nei confini che mescolano la sera alla pianura, nel cancello che serba una frescura antica di verbene e di gelsomini. Eri nella memoria di Palermo nella mitologia del suo passato […] Oggi sei in me sei la mia vaga sorte sei le cose che estinguerà la morte22.
E nel 1965 ancora una volta riprende l’esercizio su Buenos Aires, che si rintana sempre di più: E la città, oggi, è quasi una pianta Delle mie umiliazioni e di sconfitte, Da questa porta ne ho visto tramonti E su questo marmo quanto ho atteso invano…23
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La città diventa sempre di più la mappa della propria vita. Il processo di distanza e di avvicinamento, di moltiplicazione delle narrazioni e di coscienza del loro limite e della loro natura di traduzioni, di irresistibile attrazione verso l’identità tra immagine della città e immaginante, era stato già prefigurato nel 1960 in L’artefice. Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrono gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli, di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto24.
La mappa della città si trasforma in raffigurazione di chi l’ha abitata. Descrivere il proprio abitare significa descrivere se stessi, visto che non si esiste in astratto, ma sempre da qualche parte.
Abitare come separazione Borges, Perec, Auster e Wallace, il poeta che apre questo libro, sono tutti ostinati abitanti. Il loro compito è di ripescare qualcosa che non è così immediato e dato come parrebbe. Dimorare significa rendersi conto di una separazione, raccogliersi in sé per constatare che da questa separazione emerge la compagnia, una compagnia, sempre da riconfermare, con un luogo. Lo spazio di una città, della propria città o della città in cui ci si trova a vivere, volenti o nolenti, è l’evidenza che c’è qualcosa fuori di noi. L’agio o il disagio di vivere in un luogo ce lo ricordano continuamente. Siamo separati dal nostro qui, anche se cerchiamo di continuo di goderne, di esserne soddisfatti. I poeti e gli scrittori recuperano 63
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questa strana conversazione. La scoperta della mente locale è per loro una storia individuale, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dagli indigeni, si trovano a vivere in città e in luoghi in cui non è più ritualizzata la relazione tra corpi e spazi. La città secolare fa finta che non esista una continua osmosi tra l’identità delle persone e quella dei luoghi, finge un’indifferenza dei luoghi. I poeti si accorgono dell’impostura e rivelano di quali intime fibre si nutre il dimorare. E rivelano anche che questa loro scoperta è la scoperta della compagnia che i luoghi fanno non solo a loro, poeti, ma anche agli altri abitanti. L’imbarazzo di Borges, il candore di Perec, la vertigine di Auster ci ricordano che un luogo è fatto della nostra stessa stoffa (e se la nostra stoffa è la stessa dei sogni, la cosa cui più da presso assomiglia una città è proprio il sogno25), ma solo fino a un certo punto. L’identità parte da una separazione e la distanza a volte si allarga, a volte si restringe. In questa separazione, osserva Lévinas, sta però la dimora. Il ruolo privilegiato della casa non consiste nell’essere il fine dell’attività umana, ma nell’esserne la condizione e, in questo senso, l’inizio. Il raccoglimento necessario perché la natura possa essere rappresentata e lavorata, perché essa si delinei come mondo, si attua nella casa. L’uomo si situa nel mondo come se fosse venuto verso di esso partendo da una sua proprietà, da una casa sua nella quale può, in ogni istante, ritirarsi. Non viene da uno spazio intersiderale nel quale sarebbe già padrone di sé e a partire dal quale dovrebbe, in ogni istante, ricominciare un pericoloso atterraggio. Ma non è brutalmente gettato e abbandonato nel mondo. Contemporaneamente fuori e dentro, si pone all’esterno partendo da un’intimità26.
La dimora è il raccoglimento che consente all’uomo che «vive di…», che cioè ha bisogno dell’esterno per vivere, di 64
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godere del mondo. Questo raccogliersi (il ritirarsi «a casa» della mente locale) nel mito del villaggio o nella scrittura del poeta è già dimora. Sembrerebbe strano che possa esserci un soddisfacimento in assenza, ma non è proprio quello che avviene in chi si rende conto di essere «ormai» abitante di un luogo, l’agio di una possibile compagnia? Lévinas sostiene che non siamo «gettati» in questo mondo, ma che siamo noi la dimora dalla quale si parte e alla quale si torna. Il dimorare è una posizione di partenza, quella dell’interiorità. Ma essa si produce proprio perché anche il nostro vivere interno è «vivere di…», ha bisogno delle cose esterne (la città, il mondo) e si soddisfa di esse o ne sente la mancanza. Essere separato significa dimorare da qualche parte. La separazione si produce positivamente nella localizzazione27.
Non è questo l’andirivieni del paziente Borges con Buenos Aires? Il confondere la propria città con se stessi non è poi così strano. E non è questa la familiarità, per tentativi, con cui Perec ci accompagna? Ancora Lévinas: La familiarità del mondo non è fatta soltanto di abitudini prese in questo mondo, che ne smussano le asperità e che misurano l’adattamento del vivente a un mondo di cui gode e di cui si nutre. La familiarità e l’intimità si producono come una dolcezza che si diffonde sulla faccia delle cose. Non soltanto una risposta della natura proporzionata ai bisogni dell’essere separato che sin dal primo momento ne gode e si costituisce come separato – cioè come io – in questo godimento; ma la dolcezza che deriva da un’amicizia nei riguardi di questo io. L’intimità che è già presupposta dalla familiarità è un’intimità con qualcuno. L’interiorità del raccoglimento è una solitudine in un mondo che è già umano. Il raccoglimento si riferisce a un’accoglienza28.
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Lévinas spiega qui non il processo dell’abitare, le pratiche della mente locale, ma il senso del suo esserci così congeniale. Il dimorare è la manifestazione del nostro essere separati, ma è anche la felicità di questa condizione (la felicità del limite, della «fatica» dell’adattamento, della sovranità e sottomissione dell’essere autoctono, dell’essere «di qualche parte»).
E impudicizia degli orologi Sono però i poeti che possono spiegarci meglio dei filosofi come funziona la mente locale e farci notare come essa non solo abiti il mondo, ma lo trasformi in insediamento (il contrario della mappa di Borges: adesso è Buenos Aires che finisce per assomigliare al poeta). Ricordiamo l’intuizione di Stevens: Ci sono uomini dell’est, dice che sono l’est.
E l’ultimo verso: Il vestito di una donna di Lhassa, nel suo luogo, è un elemento invisibile di quel luogo reso visibile.
C’è un passaggio iniziale tra geografia e persone. Le persone, gli abitanti, poeti o indigeni che siano, interiorizzano i luoghi, diventano i luoghi («io sono di…»). La natura, la geografia, viene resa invisibile. Negli abitanti avviene la trasformazione dei luoghi. La geografia torna a essere visibile nella cultura (nelle culture dell’abitare) di un luogo: quel tipo di case, di coltivi, di cibi, di vestiti. La natura, resa invisibile, di66
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viene poi visibile cultura; o meglio, l’abitare trasforma la visibilità naturale di un luogo in un invisibile (la mente locale) e su questa invisibilità costruisce l’insediamento. È questo il processo dell’indigenità, dell’autoctonia, spiegato da un poeta: lo spazio si trasforma in tempo per ritrasformarsi in spazio. C’è però anche il caso della perdita di indigenità. La terra natale svanisce con l’avvento della modernità. Non più case di un luogo, cibi e lingua di un luogo, ma un processo di omogeneizzazione che nega la geografia e le diverse storie dei luoghi. Rainer Maria Rilke ce lo racconta per Praga, indicandoci qual è in questo caso il ruolo dei poeti: Ancora nei padri, nei padri dei nostri padri una casa, una fontana, una torre significavano infinitamente più, perfino la loro propria veste, il loro mantello, quasi ogni cosa era infinitamente più familiare, un vaso in cui essi accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall’America vuote cose indifferenti […]. Le cose animate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiano ancora conosciuto tali cose29.
Rilke propone ai contemporanei di assumere la responsabilità di conservare tutto ciò in un modo particolare: La Terra non ha altro scampo che diventare invisibile. In noi che con una parte del nostro essere partecipiamo dell’invisibile, abbiamo (almeno) cedole di partecipazione a esso, e possiamo aumentare il nostro possesso di invisibilità durante la nostra dimora qui – in noi soltanto si può compiere questa intima e durevole metamorfosi dal visibile all’invisibile, indipendentemente ormai dalla visibilità e tangibilità30.
Rilke parla di un passaggio dal visibile all’invisibile per sal67
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vare in futuro il visibile. Ma è la stessa interiorizzazione del mondo (la mappa mentale conservata di luoghi che non ci sono più) che consente a una cultura di riproporsi a distanza di anni e agli abitanti di un posto di saper ricostruire il proprio insediamento dopo una calamità, una guerra o una rilocazione forzata, o semplicemente di saper ricordare un paese di origine. L’interiorizzazione può restare visibilità in potenza o può attuarsi: è quello che gli antropologi chiamano «dinamica di una cultura», ovvero la capacità di preservare, nascondendoli, taluni caratteri che verranno fuori in circostanze favorevoli. Torniamo a Perec e alle sue intuizioni sull’abitare: Abitare una camera, che cos’è? Abitare un luogo, è appropriarsene? Che cos’è appropriarsi di un luogo? A partire da quando un luogo diventa veramente vostro? È quando si sono messe a mollo le proprie tre paia di calzini in una bacinella di plastica rosa? È quando ci si è riscaldati degli spaghetti sopra un fornellino a gas? È quando si sono utilizzate tutte le grucce scompagnate dell’armadio? È quando si è attaccata con le puntine al muro una vecchia cartolina che rappresenta il Sogno di Sant’Orsola del Carpaccio? È quando si sono provate le angosce dell’attesa, o l’esaltazione della passione, o i tormenti del mal di denti? È quando si sono messe delle tende alle finestre a loro misura, e si è attaccata la carta da parati, e levigato il parquet31?
Con grande abilità Perec ci conduce dal livello del fare al livello del sentire e di nuovo al livello del fare. Come per dire che non c’è distinzione tra l’abitare come fare qualcosa di esteriore e l’abitare come sentirsi abitare. In questo passaggio, però, ci fa scivolare sulla dimensione di non istantaneità dell’abitare. L’abitare non è una percezione istantanea (come non c’è un’estetica istantanea dello spazio, tremendo tormento dei turisti!). Ci vuole tempo. La mente locale è una 68
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competenza e al pari di una competenza linguistica si acquista. Questo è vero per la propria città o per la propria lingua, ed è vero per un’altra lingua e per un’altra città. Ancora Perec: Due giorni sono sufficienti perché uno cominci ad acclimatarsi. Il giorno in cui si scopre che la statua di Ludwig Spankerfel il Nominatore (il celebre birraio) non è che a tre minuti dal proprio hotel (alla fine della strada Prince-Adalbert), quando prima ci si metteva una buona mezz’ora per arrivarvi, si comincia a prendere possesso della città. Questo non vuol dire che la si cominci ad abitare32.
L’abitare è la dimensione diacronica della presenza, questa presenza allungata nel tempo che si guarda all’indietro (come se l’abitare fosse una luce che proietta l’ombra della nostra presenza dietro di noi) per trovare i propri punti di riferimento non solo nello spazio circostante, ma nello spazio vissuto. Per questo descrivere una città è difficile, perché dimensione sincronica e diacronica si intersecano e si confondono e ogni narrazione di città è una narrazione di presenza in essa. Che rapporto c’è tra narrazione e mente locale? La mente locale è una competenza e l’uso di questa competenza. Una narrazione è una competenza che fa un discorso. Come abbiamo visto per Perec e Borges, il discorso sullo spazio è una conversazione tra presenza propria e presenza dei luoghi. Sono i luoghi, al pari di chi li occupa, a parlare e a esigere risposte. Per questo, liberi da una visione che vorrebbe ridurre poeti e abitanti a utenti di una città, possiamo renderci conto che sono i poeti e gli abitanti che fanno le città, così come vengono fatti da esse (è stato Elio Vittorini nelle Città del mondo a dirlo: «Sono le città belle a rendere belli i cittadini o viceversa?»). Questo processo, colto in un suo istante di raccoglimento dai poeti, può anche essere seguito dall’origine, come ci raccontano gli studiosi delle «urbanizzazioni sponta69
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nee». Paul Oliver, uno dei maggiori esperti in questo campo, ha rimarcato che il farsi delle periferie delle città del Terzo (e del Primo) mondo ci fornisce un quadro straordinario dell’interazione tra abitanti e abitato33. In qualche modo, c’è qui un parallelismo con quanto i linguisti hanno osservato riguardo a quelle lingue in formazione che sono il créole e il pidgin. Una nuova sensibilità all’origine del linguaggio, come all’origine degli insediamenti, ci riconduce all’evidenza di chi fa. Così come non sono i grammatici o i linguisti a creare le lingue, ma il processo con cui i parlanti in un certo luogo formano le proprie competenze «conversazionali» (c’è una lingua di mercato, una di casa, una di vicinato, una dei riti, una del corteggiamento, una tra uomini, una tra donne, una tra uomini e donne ecc.), è nella conversazione con i luoghi che si formano gli insediamenti in quanto culture dell’abitare, con la parte invisibile delle «menti locali» condivise e la parte visibile del costruito. Anche in questo caso, però, ci sono per lo stesso luogo più competenze spaziali, più menti locali: le mappe mentali degli uomini, quelle delle donne, quella delle soglie tra di loro, le preesistenze, le memorie, le mappe del futuro (l’insediamento che si vorrebbe migliorare) e via dicendo. Una simile attenzione è rivolta da alcuni studiosi al modo in cui gli immigrati costruiscono i propri punti di riferimento nelle città di arrivo. Se non è possibile che sia lo spazio visibile a essere trasformato, almeno lo sarà quello invisibile e quello delle reti di relazione nello spazio (orientamento, angoli in cui ci si incontra, scelta di certi percorsi privilegiati)34. Si può anche leggere questo apporto di nuove mappe mentali come uno dei modi in cui le città si rinnovano. Abituati come siamo a concepirle come insiemi di architetture, non ci accorgiamo che le città cambiano con gli abitanti, anche se le mura restano apparentemente le stesse. Una visione capace di cogliere questa ricchezza potrebbe difenderci dalla paura 70
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del futuro. Uno spazio meticcio è uno spazio che comunica agli occupanti due cose contemporaneamente: primo, quanto sia potente e persistente la facoltà umana di abitare e, secondo, quanta attenzione, pazienza e tempo ci vogliano perché la nostra sensibilità possa accogliere tutte le sfumature di cui le città del Duemila si stanno riempiendo. Note al capitolo 1. E. Durkheim, M. Mauss, op. cit. 2. G. Perec, Specie di spazi, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1989. 3. C. Perrin, L’homme et ses espaces: plasticité et limites de l’équilibration, Presses Universitaires, Nancy, 1991. A livello di scienze cognitive l’attenzione degli studiosi è rivolta attualmente a determinare la connessione, cioè l’interfaccia, tra il mondo visuale e quello motorio. Questa connessione tra la rappresentazione corticale dello spazio in tre dimensioni e la percezione del movimento nello spazio e del proprio equilibrio è ancora mal compresa ed è anche molto difficile da riprodurre in maniera artificiale. Per il punto sulle scienze cognitive riguardo a questi problemi, si veda il dossier scientifico del CNRS, Sciences cognitives, «Le Courrier du CNRS», octobre 1992. 4. G. Perec, op. cit. 5. A. Guerrero, La Structure villageoise Modang Wehèa, in C. Robin (a cura di), Architectures et cultures, numero monografico di «Les Cahiers de la recherche architecturale», n. 27-28, 1992. 6. P. Auster, Trilogia di New York, trad. it. Einaudi, Torino, 2010. 7. P. Auster, op. cit. 8. G. Perec, op. cit. 9. C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss [1950], in Teoria generale della magia e altri saggi, trad. it. Einaudi, Torino, 2000. 10. G. Perec, op. cit. 11. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità [1961], trad. it. Jaca Book, Milano, 2000.
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12. Per il dibattito sul concetto e sulle implicazioni della categoria di maison il testo di partenza è C. Lévi-Strauss, La via delle maschere, trad. it. Einaudi, Torino 1985, ampliato in C. Lévi-Strauss, Parole date. Le lezioni al Collège de France e all’Ecole Pratique des Hautes Etudes (1951-1982), trad. it. Einaudi, Torino, 1992. Lévi-Strauss ha rilasciato poi un’intervista sullo stesso argomento a Pierre Lamaison per la rivista «Terrain-carnets du patrimoine ethnologique», n. 9, octobre 1987 (numero monografico Habiter la maison). Un dibattito articolato sulla questione si trova in C. Macdonald (a cura di), De la hutte au palais, sociétés «à maison» en Asie du Sud-Est insulaire, Presses du CNRS, Paris, 1987. 13. Per queste intuizioni e per altre che seguono sono debitore dell’ottima trattazione di Antonio Guerrero, op. cit. 14. A. Guerrero, op. cit. 15. J. Assayag, Espaces, Lieux, Limites. La stratification spatiale du village en Inde du Sud (Karnataka), «Res», n. 5, 1983. 16. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 2007. 17. H.D. Thoreau, Camminare [1862], trad. it. Mondadori, Milano, 2009. 18. J.L. Borges, Fervore di Buenos Aires, in La misura della mia speranza, trad. it. Adelphi, Milano, 2007. Mi sono servito del lavoro attentissimo di Cristina Grau, Borges et l’Architecture, Editions du Centre Pompidou, Paris, 1992. 19. È il caso, ad esempio, dei racconti La morte e la bussola, trad. it. in Finzioni, Adelphi, Milano, 2008, e L’uomo sulla soglia, trad. it. in L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2007. 20. C. Grau, op. cit. 21. J.L. Borges, Elogio dell’ombra, trad. it. Einaudi, Torino, 1998. 22. J.L. Borges, L’altro, lo stesso, trad. it. Adelphi, Milano, 2002. 23. J.L. Borges, L’altro, lo stesso, cit. 24. J.L. Borges, L’artefice (epilogo), trad. it. in Tutte le opere, Mondadori, Milano, 2005. 25. È Joseph Rykwert ad averlo affermato per primo nel suo splendido L’idea di città, trad. it. Adelphi, Milano, 2002.
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26. E. Lévinas, op. cit. 27. E. Lévinas, op. cit. 28. E. Lévinas, op. cit. 29. R.M. Rilke, Lettere da Muzot (1921-1926), a cura di M. Doriguzzi e L. Traverso, Cederna, Milano, 1947, lettera 323. 30. R.M. Rilke, op. cit. 31. G. Perec, op. cit. 32. G. Perec, op. cit. 33. A. Hublin, Traditional Dwellings and Settlements in a Comparative Perspective, relazione all’International Symposium, 7-10 aprile 1988, University of California, Berkeley, Center for Environmental Design Research; A. Hublin., Duality and Coincidence in Traditional Environment, relazione al secondo International Symposium, 4-10 ottobre 1990, in Architectures et cultures, cit. 34. C. Choron-Baix, Espace social et exil: les reseaux de sociabilité des Lao réfugiés en France; Ang Choulean, Tan Yinh Phong, Le monastère Khemararam, espace identitaire de la communauté Khmère; entrambi in J. Matras-Guin, C. Taillard (a cura di), Habitation et habitat d’Asie du Sud-Est continentale. Pratiques et représentations de l’espace, L’Harmattan, Paris, 1992.
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CAPITOLO TERZO
Piccole storie di spazi
La fine dei cortili di Palermo La storia qui raccontata è un episodio della guerra furiosa ingaggiata nelle grandi città europee, dalla metà del diciannovesimo secolo in poi, contro la vita di strada. Gli attori sono da una parte le municipalità, ora investite di un ruolo del tutto nuovo di gestione, controllo e amministrazione della vita quotidiana dei cittadini, e dall’altra gli abitanti, la cui vita è naturalmente «indisciplinata» essendo orientata alle ragioni del bastare a se stessi dentro un tessuto urbano che ancora gli appartiene e a cui appartengono. L’esemplarità del caso Palermo è sbozzata dentro a una situazione di grande cambiamento generale. È approdato nell’isola (siamo negli anni successivi al 1860) il Generale Garibaldi, che ha cacciato via i Borbone e, dopo aver tentato di dare all’isola un regime autonomo, l’ha consegnata obbediente nelle mani di un nuovo sovrano, Vittorio Emanuele di Savoia. Da quel momento Palermo è italiana. E da 75
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quel momento le plebi dell’isola saranno oggetto di pratiche disciplinari per essere condotte a più decorose e morali condizioni di vita. Chi, del popolo minuto o delle settanta corporazioni di mestiere che allignano a Palermo, ha appoggiato l’ingresso del Generale Garibaldi in città difficilmente (per quanto inventivo o abituato alle cose dell’isola sia) può immaginare le proporzioni del cambiamento cui ha dato una mano. Che la libertà possa assumere i caratteri di un governo talmente attento alla vita della gente comune da pretendere netti cambiamenti di costume, che tutto il sistema di vita precedente, nei minimi dettagli, possa essere oggetto di drastiche condanne e ferrei regolamenti, è qualcosa di impensabile. Tra tante dominazioni, mai ce n’è stata una che abbia preteso di entrare nella vita del vicolo, nel cortile, a decidere tra moglie e marito come ci si debba comportare, a che santo sia giusto o meno votarsi, quali mosse siano consentite ai cocchieri per strada. Un simile cambiamento il Generale certo non lo voleva, ma tradito forse anche dai suoi è dovuto andar via e al suo posto ufficiali di un sovrano italiano impartiscono ordini che paiono fatti apposta per avvilire la povera gente. E dire che Palermo è la terza città d’Italia per popolazione e la quarta in Europa per incremento di nati (dopo Londra, Vienna, Berlino). Eppure, qualcosa fa sì che il nuovo governo abbia in odio, in smisurato sospetto, i modi e le industrie del popolo siciliano. Per prima cosa ha abolito le corporazioni (questa volta effettivamente e non in modo formale come quarant’anni prima i Borbone) che da secoli si spartiscono le attività e i nomi stessi delle contrade della capitale. Non contento di ciò, ha aggravato i dazi e le tasse impopolari e moltiplicato i servizi della guarnigione di polizia. Una cosa così non può essere a lungo sopportata e, appena sei anni dopo l’ingresso del Generale, la città insorge, per sette giorni, furiosamente1. 76
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Ci vuole l’aiuto delle guarnigioni napoletane per riportare la calma, e con essa il «cholera». Il morbo percuote l’isola e si ferma lungamente a Palermo. Fa dimenticare tra le crudeltà altre crudeltà e rende un buon servigio ai nuovi amministratori, i quali proseguono nell’impresa certo ardua, ma senza dubbio modernizzatrice, di educare le plebi a nuovi costumi. Come già prima della rivolta, anche dopo, con ancora più forza e arroganza, carabinieri, ufficiali e bandi intimano di stare in casa, di non sedersi per strada, di non pullulare per i cortili, di non svolgere alcuna attività industriosa al di fuori delle persiane della propria dimora. Come se quelle stanze fossero servite da sempre a questo, e non invece semplicemente a dormirvi e solo nella stagione fredda, come se non si sapesse che tutto il resto avveniva (come era stato per padri e nonni) all’aria aperta, dirimpetto ai vicini, sul selciato e sui ballatoi, tra le pergole e i santi. E gli stessi santi e madonne vengono proibiti nella guerra baggiana condotta ai frati e alla religione da un popolo lontano che adesso governa e nutre interesse per le proprietà dei preti. Come è possibile che un cortile non abbia la sua vergine Rosalia o Lucia o Rita a spartire il «di qua» dal «di là», muro da muro, questi parenti e questi compari? E invece bisogna strappare gli altarini, e nemmeno il festino grande per santa Rosalia e le processioni solenni è possibile fare. Proibiti anche i giochi di fuoco e con essi il ritrovarsi alla marina a prendere il fresco in luglio. Ma quali strane intenzioni può avere chi si dà tanto da fare per mutare l’animo della gente? I lunghi elenchi di ciò che è ora proibito e consentito vanno ben oltre la rivolta, il colera, la sua fine e il suo ritorno. Diventano la costante di un governo che sembra avere più a cuore questo della stessa riscossione di nuove tasse, che peraltro non mancano puntualmente di esacerbare gli animi. Eppure, il «progetto» della nuova municipalità è molto 77
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chiaro e ambizioso: trattare la città come uno stato di emergenza patologico. Disciplinare le sue moltitudini è il primo compito da svolgere, ricorrendo alle tecniche igieniche e di polizia che in quel momento, in tutta Europa, si vanno affinando. Dal piano dei limiti di Parigi (una mappa della città tracciata nel 1724 allo scopo di dare un’arma in più a guardie, ufficiali giudiziari, ispettori sanitari, che fino ad allora si perdevano, letteralmente, per i meandri e le corti dei miracoli) è passato più di un secolo2; eppure, quelle moltitudini sono ancora ben restie a disciplinarsi. Le impasses, i cul-de-sac, i cortili, le strade sono il loro dominio, la diretta appendice delle stanze affollate. Arlette Farge, in un minuzioso libro sulle strade di Parigi nel diciannovesimo secolo3, rammenta che innumerevoli sono stati i casi di guardie linciate perché intenzionate ad apporre agli angoli di quelle strade una targa con il nome «municipale» di riconoscimento. Passeranno anni prima che la disciplina a domicilio si faccia vincente e divenga da emergenza efficace (come il confinamento e controllo a domicilio durante la peste) norma quotidiana. Nel caso di Palermo i tempi sono già più maturi e le tecniche più elaborate, e per questo l’impatto sulla «plebe» è ancora più drammatico e per essa assurdo, inaudito. Chi si affolla intorno al banditore deve avere l’impressione che si tratti di ordini provenienti da un altro mondo. Nel 1888, un regolamento di igiene che corona vari tentativi precedenti si apre con la proibizione di «andare in giro nudi o seminudi» (in una città di mare dove le abitudini e le attività danno occasione di mostrarsi ben oltre il polpaccio)4. Ma viene anche vietato di «pettinarsi e pettinare» o di «tosare pecore» «per la pubblica via»; o ancora di «asciugare panni per le strade, stendere o sciorinare biade, salami o sostanze di qualunque specie che per fermentazione, putrefazione o altra causa tramandino fetide e nocive esalazioni». 78
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Non si può più tagliar legna dinanzi alla porta, né ferrare o curare un cavallo «in vista del pubblico». È proibito lasciar vagare polli, oche e anatre. Viene colpito, insomma, tutto il regime di sussistenza, reso illegale ogni atto «produttivo» esercitato nel proprio ambito di vita. Ora, «salare i pesci entro la città e altresì prosciugarli innanzi le porte di entrata, nonché le finestre e nei balconi» è vietato per misura igienica e per prevenire miasmi contagiosi. Per lo stesso motivo non si può più «asciugare o battere il lino o la canapa di recente macerata, né asciugare paste sulle cosiddette telaiate fuori della porta». Più avanti, con altri regolamenti, si colpirà il lavoro di singole corporazioni, troncando il legame tra esso e la sua «residenzialità»: «Viene fatto divieto ai bottai di stare in via dei bottai». Sarà d’ora in avanti il sindaco che provvederà a destinare «un luogo apposito, a tempo debito, fuori città». L’intera economia sociale, strada per strada, insieme ai legami che essa sosteneva e da cui era sostenuta, vengono così scardinati. È lo stesso effetto ottenuto con l’abolizione dei diritti comuni e degli abusi civici nelle campagne dell’isola. Si capisce perché gli anni della fine del secolo siano gli anni della miseria nera, della mafia che comincia, della spaventosa emigrazione. Il colpo di grazia sarà il «diradamento» della Conceria, il «risanamento» voluto per far «circolare liberamente i fluidi vitali», eliminando l’affollamento e le folle stesse, causa di contagio igienico e morale. Viene inoltre fatto ordine ai conduttori di vetture di tenere un contegno decoroso e decente. Le grida, gli scoppi di frusta, le parole sconce, gli alterchi, i modi inurbani, saranno considerati e puniti come contravvenzioni.
Per inciso, sono stati proprio i gnuri, i conducenti di carrozze, a bruciare la casa del sindaco Rudini durante i sette 79
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giorni e mezzo del 1866: l’unico vandalismo di quei giorni. I legislatori del 1888 ribadiscono, infine, che è «proibito introdursi e fermarsi sotto gli androni, i vestiboli, i portici e le scale degli edifici pubblici e privati per ivi mangiare, bere, giocare, dormire o fare qualsiasi atto contrario alla nettezza e alla decenza». La vita all’aperto è condannata, l’intenzione è di rendere «pubbliche», cioè oggetto di controllo, strade che appaiono sotto un dominio tutto interno, di questa o quella contrada. Si tratta di spingere la gente entro limiti più stretti e si proscrive ogni superfetazione, tutti quei bubboni di balconi e carretti e bancarelle e scale e sporti e pertiche e passaggi in eccesso, per vedere se è possibile contenere la vita dentro le porte, senza che invada e confonda ogni cosa. In genere quello che è proscritto è anche ciò che è ben radicato. E dai regolamenti di igiene della città di Palermo abbiamo una fotografia fedele e una conferma di quanto dovesse essere forte e viva la sua natura mediterranea. I cortili e i vicoli oggetto di accusa da parte dei nuovi arrivati sono quelli di una lunghissima tradizione dell’abitare5 che ha probabilmente accomunato molte città europee, anche non di matrice direttamente islamica come Palermo. La struttura di questi spazi – non più privati ma non ancora pubblici (se fosse lecito, e non lo è, applicare queste due categorie a una città preindustriale) – è imperniata sulla convivenza, a volte interfamiliare, a volte di più nuclei che hanno un mestiere o un lavoro in comune. I cortili, i chiassi, le vanedde della tradizione isolana sono spazi più difesi, un attimo al di qua della vita cittadina nei suoi aspetti militareschi o mercantili. La vita nei cortili si contrappone più volte, nella storia della città, alla violenza esterna (di bande o di istituzioni). Nei tempi del passaggio della città dagli arabi ai normanni, e poi ancora più avanti, i cortili sono dominio prevalente delle donne, che in essi celebrano i machadarii, le feste tra sole donne prima di un fidanzamento, di un 80
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matrimonio o di un parto. La trama di cortili e vanedde si interrela con quella delle fonti o dei ruscelli determinando percorsi e parti della città tutti femminili. Le dominazioni che si succedono nel tempo si innestano in questa struttura, usandola, interpretandola. Dopo l’arrivo di Garibaldi, per la prima volta questa struttura viene condannata. Nel 1867 un medico scrive un opuscolo sulle condizioni dei pianterreni di Palermo e attribuisce a essi e ai cortili la responsabilità per i tanti bambini storpiati o uccisi dal transito delle carrozze. E la commissione sanitaria municipale, riunita d’urgenza nel 1885 perché «il morbo è riapparso», osserva: Tutte le abitazioni della nostra povera gente sono in pessime condizioni; vero è che molte di esse possono essere risanate, aprendovi finestre di riscontro, rifacendovi i pavimenti e le latrine; ma una buona parte di quelle case deve scomparire, massime quelle situate nelle piccole viuzze e negli oramai famosi cortili […]. La vita si fa in comune; tutto un cortile, dove abitano venti, trenta famiglie, diventa sala d’aspetto [sic], di conversazione e di toletta generale; spesso nella stagione estiva quella strada angusta si tramuta in sala da pranzo e la notte in dormitorio comune. Il bucato si fa nella strada; nella strada si buttano le immondizie e le acque residuali domestiche [nel 1885 la rete fognaria è per tutti una novità e così lo sono le latrine6]; […] quando una persona si ammala, non importa di quale malattia, sia anche contagiosa, tutto il vicinato si fa un dovere di moltiplicare le visite, accrescendo così la confusione che fa attorno a quel misero letticciolo la numerosa famiglia, e se avviene un decesso, tutti vogliono vedere, piangere e vegliare il morto. Quindi le malattie infettive, specie quelle di indole diffusiva, come il cholera, una volta appresesi in una casa, divampano per la contrada come divampano e si estendono le cattive abitudini e i pregiudizi. 81
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Negli stessi anni, un po’ prima o un po’ dopo, discorsi analoghi vengono fatti per zone molto popolari di Londra o di Parigi. La questione del «cholera» è affrontata dappertutto come una questione sociale. Anche se non esiste alcuna prova di quello che causa o tiene lontano il colera, i medici, insieme agli ingegneri e alle municipalità (a parte qualche coraggiosa voce isolata), identificano la causa del morbo e della sua insorgenza nella povertà, nella promiscuità morale e fisica in cui vivono i poveri, le classi popolari7. Le loro condizioni di vita diventano all’improvviso «strane», innaturali, scandalose, malate, criminali, pericolose. Coloro che non hanno un domicilio fisso né un lavoro salariato sono considerati spesso vagabondi. Di essi le municipalità non esitano a fare strage. Tutto ciò che si muove, che è nomade, che non è fissabile, è pericoloso. Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino descrivono, in un’Inchiesta del 1876, le condizioni delle classi popolari siciliane. Ecco con che accenti: A che valgono le prediche, a che ragionamenti, esempi e precetti, quando il giovane lavoratore dovrà vivere e dormire in una stessa stanza con cinque o sei persone di diverso sesso e di ogni età, quando nello stesso letto con lui dormono sorelle grandi e piccole, quando in quella stanza ha luogo ogni operazione della natura? Si aggiunga lo stato di abbrutimento cui sono degradati a far sì che essi non sentano nemmeno il bisogno di abitazioni migliori e sacrifichino questo a qualunque altro comodo.
Lo si confronti con il tono di un passo del First Sanitary Report di Lord Chadwick a sua Maestà la Regina d’Inghilterra (1844): Io stesso ho avuto occasione di vedere un uomo di vent’anni che divideva il letto con sua sorella, una ragazza di sedici o dicias82
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sette anni. Che rapporti incestuosi possano esistere in queste circostanze ci sono troppe ragioni per non crederlo; e se, allorché celibi, uomini e donne dividono la stessa camera per dormire, è assai evidente che le donne si danno agli uomini8.
Un’insaziabile curiosità pervade, attraverso apposite commissioni, tutta la società: non si capisce se è l’osservazione a creare le patologie o il suo contrario. Fatto sta che è la città reale, nella sua vita all’aperto e nei suoi spazi che l’hanno contraddistinta per secoli, a sembrare improvvisamente mostruosa, a dover essere oggetto di curiosità anatomica e di feroci chirurgie. La vita che era già sotto gli occhi di tutti, all’aperto, nei cortili e sulle scale, ha bisogno di una lente di ingrandimento, di un laboratorio di analisi. Si badi che le patologie vere, quelle dell’inumano affollamento, il più delle volte sono conseguenze di quella drastica chirurgia che ha condannato la città reale. Avviene a Palermo quando la via Roma sventra una quantità incredibile di cortili e dimore. Avviene a Londra quando per eliminare le corti dei miracoli si operano diradamenti senza curarsi minimamente di fornire nuove abitazioni. Dirà Charles Dickens in quegli anni: «Noi costruiamo le nostre Oxford Street e le altre strade nuove senza mai preoccuparci e senza mai chiederci dove andrà a vivere quella folla di miserabili che cacciamo via»9. La questione delle abitazioni nasce come conseguenza di un’utopia riformatrice e dalla sorpresa di vedere i luoghi e gli attori cui essa viene applicata. Quando la città reale viene condannata come mostruosa, non ce n’è un’altra pronta a sostituirla; c’è piuttosto una nuova concezione dello spazio. Questo non è più lo spazio in cui si svolgono le vite delle persone e dentro cui esse si muovono: è lo spazio «tra» le persone l’unico a essere ammesso. L’ambito che conteneva, la dimora che copriva, vanno sostituiti da diaframmi che separino le 83
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funzioni e i corpi. Le porte servono a distinguere questa coppia e i loro figli da quest’altra, le pareti a separare i figli maschi dalle figlie femmine e dai genitori10. Ciò che viene deprecato del vecchio spazio è la sua estensibilità, un’elasticità (come la definisce Philippe Ariès in uno splendido articolo sulla morte della città e la nascita dell’anticittà11) che significa casualità di contatti. Le passioni possono scatenarsi da un momento all’altro, le occasioni sono sempre a un passo dall’innesco. Viene fuori nelle «inchieste» l’idea di un’umanità sempre pronta a cadere, mai direttamente responsabile delle sue cadute e perennemente esposta ai pericoli (malanni o insane pratiche). Quel processo lento di conquista e di controllo della strada, che dal diciassettesimo secolo in poi si era già espresso in regolamenti di allineamento e di altezze massime delle costruzioni, qui subisce una svolta improvvisa: ciò che la strada si era sempre ripreso a dispetto di qualunque governo viene ora espropriato introducendo lo «sguardo pubblico» nelle dimore, al loro interno. La casa diventa il principale oggetto di indagine e controllo. Questo mutila l’abitare di ciò che l’aveva reso forte e capace di continue rigenerazioni. Avulso dal suo intorno, privato del suo «aperto», qualunque spazio diventa «inadeguato».
Cu àbbita àbbita e cu nun àbbita mori All’angolo di una schiera di case color indaco e rosa chiaro, ognuna con la sua porta ad ante o a persiane che dà sul marciapiede rialzato e il suo piede di vite che sale fino al terrazzo, c’è una casa nuova: ha la facciata metà a ducotone e metà a piastrelle, un balcone al primo piano e tutto il pianterreno occupato da un garage. In esso, a saracinesca alzata, un uomo e due donne, nello spazio che rimane libero intorno a un’auto, 84
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si danno da fare tra bottiglie di salsa e fiaschi di vino. Subito oltre la soglia del garage c’è una griglia su cui due pesci vengono fatti arrostire. Siamo a Terrasini, un paese sulla costa siciliana a trenta chilometri da Palermo12. Quello che i tre personaggi fanno non è insolito. Ma in certo qual modo è fuor di luogo. Essi usano il garage come fosse un terrazzo o lo spazio del marciapiede antistante la casa. Intorno a essi tutto il paese sta mutando: alla tipologia marinara fatta di monovani dai contorni netti e passati a calce, con le volte a botte e il terrazzo «vivibile» stanno subentrando le «palazzine» dall’aria cittadina. Se permangono gli usi, questi però non trovano più lo spazio appropriato. O accade il contrario: nuovi spazi, come quello dei balconi, non hanno uso. La gente non vi si affaccia, perché in paese l’«affaccio» è ancora il puro e semplice stare dinanzi alla porta. Quello che accade a Terrasini è un fenomeno comune, una modernizzazione degli spazi e delle sue funzioni che fa piazza pulita di tipologie, significati e forme. Alla varietà dell’aspetto spaziale di ogni paese e villaggio si sostituisce una monocultura edilizia. Le ragioni di superficie sono chiare: subentrano nuovi valori, si affermano nuove immagini di prestigio; la gente si identifica con un’idea dell’abitare che è sempre più urbana: l’appartamento in un condominio con ascensore. Quello che è un po’ meno chiaro è come la gente si rapporti al preesistente e come accetti l’idea che questo sia obsoleto e che occorra un estraneamento da quel modo di abitare per essere nel «moderno». La tesi che qui sostengo è che ciò accade non perché la gente scimmiotti i modelli ricchi, ma perché lo spazio e le sue forme nella vita quotidiana non hanno più tanta importanza: sono il segno, cioè, di scelte marginali, al pari dell’acquisto di un modello o di un altro di automobile, o della forma di un servizio di piatti comperati al supermercato. 85
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Il corollario di questa tesi è che, al contrario, nella struttura formale dei paesi prima del «moderno» erano contenute ragioni essenziali alla sopravvivenza dell’identità degli abitanti. Mi riferisco a una sopravvivenza economica e culturale insieme, in altri termini alla sussistenza, al modo di vivere (livelihood). A quel modo era essenziale un’elaborazione dello spazio nelle minime sfumature; anzi, tra quel modo e lo spazio non vi era differenza. L’abitare era il modo di una cultura. Per sviluppare questa tesi ho bisogno di andare avanti e indietro tra il racconto di quegli spazi e usi negli abitanti di oggi e la latenza nei loro gesti di un’immagine del paese che per frammenti continua a dare una ragione del tutto. Infatti, lo spazio di un paese può essere ancora presente nella mente dei suoi abitanti anche se non c’è più (o non c’è mai stato) nei suoi aspetti fisici. Gli abitanti di Terrasini continuano a chiamare, ad esempio, un luogo del paese sutta u tùocco, riferendosi a una scarpata che si affaccia sulla spiaggia. Una volta, fino a trent’anni fa, lì batteva direttamente il mare con le sue onde, fragorosamente («sotto il tocco», cioè al di qua del tocco). E la mappa mentale del paese è in effetti oggi costituita da un mosaico scomposto cui mancano parecchi pezzi. Il contributo nuovo non combacia con questa mappa, ma vi si sovrappone, rendendola indifferente e designificandola, come se operasse con un efficace cancellino. Parlando con la gente di Terrasini e graffiando un po’ la superficie vengono fuori però molti più punti di riferimento tradizionali di quanto ci si potrebbe immaginare osservando l’aspetto esterno del paese. Nella mente degli abitanti il paese è diviso in due: Favarotta e Terrasini, la parte alla marina e quella del contado. In effetti così era. Favarotta è nata all’inizio del diciassettesimo secolo quando alcune colonie di pescatori provenienti da zone finitime vi si insediarono13. Più a monte di questo insediamento se ne aggiunse un altro, di contadini provenienti da 86
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un paese dell’interno. I due villaggi restarono divisi da un vallone dove scorreva il torrente Gìfina. Nel 1836 un editto borbonico li unificò in un solo paese. Oggi il torrente è scomparso e così il vallone. Agli occhi di un estraneo nulla segnala una differenza, la tipologia edilizia è la stessa, lo stesso tessuto continuo di case a schiera a un piano. Eppure, non solo nella mente degli abitanti, ma anche nella loro lingua, continua a esserci una cesura. Le due parlate sono diverse. I «marinai» per dire pomodoro dicono pumaruòru, mentre nella parte alta del paese dicono pumaramuri, paaramuri e persino puparamuri14. Per quanto queste differenze vadano scemando una linea netta di atteggiamenti reciproci mantiene la soglia. «Chiddi parran-i natra manièra» (quelli parlano in un altro modo) significa che sono diversi non solo per intonazione, lessico, sintassi, morfologia e fonetica, ma anche per modo di fare e ragionare. I marinai chiamano quelli del contado Somalia, come a dire più arretrati, più legati a un passato di chiusura (il che corrisponde alla loro parlata, molto più carica di arcaismi), fondamentalmente più preoccupati del denaro e della roba e quindi più tirchi. Oltre il vallone invisibile c’è uno straniero familiare con cui i marinai hanno per secoli intrattenuto rapporti di competizione e di rivalsa, strategie matrimoniali difficili, antagonismo dei santi, delle feste e delle processioni, che si prolungano fino a oggi. Tuttavia, la mappa mentale del paese non corrisponde più al suo aspetto fisico. Essa ne è l’archeologia, ma lo spostamento subìto è tale da rendere impossibile una loro semplice sovrapposizione. E il presente non è «spazializzato», non ha tuttora una mappa mentale. Si può dire che il presente è, dal punto di vista spaziale, un orientamento di poco conto; è più che altro una questione edilizia e come tale legata a un altrove, la città. Un’autostrada sfiora a monte il paese, lo taglia fuori dal resto della campagna. Tra gli svincoli e le uscite dell’auto87
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strada è rimasta intrappolata una cappella della madonna. Una cappella importantissima per il paese, perché è un punto di confine e quindi anche di processioni. Il posto, nella «mente» del paese, è il migghiu, il miglio, come unità di distanza. È su una collinetta che separa idealmente il versante montano che difende Terrasini da un altro versante che volge verso Castellammare del Golfo. Occorre dire, tra l’altro, che qui la modernizzazione è arrivata con una velocità maggiore che altrove e che è arrivata a coprire un contesto dai caratteri naturali spiccatissimi. Si dice che è proprio dei paesi di mare custodire un senso dell’appartenenza tutto particolare15. Qui torna vero. Terrasini sta in un azzurro golfo naturale (snaturato oggi da una litoranea a mare e da un aeroporto) dai colori violenti di tufo e sabbia rossa. Ed è altresì vero che depositari di questa appartenenza si sentono oggi più i marinai che quelli del paese a monte. Come se il mare e i rapporti con esso fossero rimasti più difficilmente delebili, al contrario dei rapporti con le terre e i giardini presto caduti sotto logiche di altre speculazioni e ombre di mafia. I marinai non fanno mistero delle loro nostalgie per come era il paese. Questo non è contrapposto al «moderno», alla «civiltà» portata dai villeggianti (anzi, i marinai si dicono più civili e meno arretrati proprio perché aperti a questi contatti). È semplicemente qualcos’altro, un altro livello. Ma torniamo alla tesi e al suo corollario. Dunque, per gli abitanti di Terrasini-Favarotta, e in special modo per quelli della marina, lo spazio era prima importante (e ne rimane l’evidenza sotto la superficie graffiata) ai fini dell’identità del gruppo e della propria sussistenza. Ma che cos’è la sussistenza? Per un gruppo umano insediato significa sopravvivere di un luogo, vivere di un luogo come risorsa primaria. Abitare, per una comunità insediata, significa adattarsi al luogo scelto, usarne le risorse, organizzarne lo spazio al fine di costruire 88
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un’economia dei beni e simbolica. Organizzarsi in un luogo significa adoperarne attentamente le minime sfumature, ogni caratteristica e presenza, elementi marini e terrestri, sedimenti materiali e culturali. Questo conduce a una conoscenza che è possibile solo agli abitanti e a un’attribuzione di significato ai luoghi di cui essi solo sono i depositari e a cui gli estranei non possono accedere immediatamente, perché la percezione ne è consentita solo per appartenenza o assimilazione lenta. Questa conoscenza dovuta all’abitare si organizza ed esplica in modi spiccatamente spaziali. Se il luogo è la prima risorsa, essa va distribuita tra i membri del gruppo, e ognuno di questi se ne appropria come se fosse il proprio ambito. Questa ripartizione consente l’equilibrio della gestione, una concorrenza e complementarità nell’usare quel luogo ai fini della sussistenza di tutto il gruppo. Questo accordo non detto non è neppure coscientemente ratificato. La sua ratificazione è il senso di appartenenza a una comunità insediata: l’essere di Favarotta e non di Carini e non di Castellammare. Le stesse espressioni economiche usate prima, come distribuzione, ripartizione, concorrenza, sono metafore un po’ fuorvianti. Si tratta sì di un contesto economico, ma di «economia locale» secondo la definizione data da Karl Polanyi nel suo lavoro sulle economie arcaiche e primitive. Il legame che tiene uniti gli appartenenti è l’abitare inteso come peculiare relazione tra diverse identità ed età da un lato e luoghi precisi dall’altro. All’interno di questo legame (e questo è un ulteriore corollario della tesi sull’importanza dello spazio), la spartizione principale ai fini della sussistenza è stata quella tra spazi maschili e spazi femminili16. Lo spazio ha importanza perché in esso si stabiliscono i confini e le soglie tra le identità costituenti la comunità. Anzi, si può dire che queste identità corrispondono a quegli spazi e non sono conoscibili le une per le altre se non principalmente come quelle che occupano quel89
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l’ambito (e non questo). Non si può separare un’economia di sussistenza dalla divisione di essa in ambiti maschili e femminili17. I marinai e le marinare di Favarotta con cui si parla oggi sono chiari al proposito, nella mente e memoria che hanno del paese. La marina era divisa diversamente tra uomini e donne da come era diviso il contado. Là le donne erano padrone e chiuse nello stesso tempo nelle case, mentre degli uomini era lo spazio dei campi e della piazza. La strada apparteneva a entrambi se si trattava di stare dinanzi la porta con la sedia; però apparteneva agli uomini in momenti diversi del giorno rispetto alle donne. Queste ricamavano dentro (più dentro che fuori), anche se ciuciuliavano, parlavano tra loro, dinanzi alla porta. Per i giovani era più difficile vedersi. Il corteggiamento era più limitato e controllato, il matrimonio combinato per motivi di cautela sulla dote e sui beni. Alla marina bambini e bambine invece crescevano insieme, per strada, dinanzi alle case. Poi venivano separati improvvisamente: i bambini continuavano ad andare in giro in un ambito tutto fatto già di mare e barche e porto, le bambine rimanevano in un ambito di lavoro tra le case e le strade, di ricamo e di conservazione degli alimenti. Lo spazio che si sarebbero spartiti poi era più ampio. Con gli uomini in mare per settimane e settimane di seguito (fino a quaranta giorni, navigando a vela e toccando le coste dell’Africa), il paese diventava delle donne, ampio con i cubi accostati delle case e le strade che conducevano al mare. Alla marina uomini e donne si spartivano uno spazio di vita all’aperto cui facevano da continuazione le case per le une e le barche per gli altri. Erano diverse anche le strategie matrimoniali. Se i genitori stabilivano che il matrimonio era conveniente, questo accadeva quando i giovani si conoscevano già perché si erano visti (anche se non frequentati) in un ambito di vita all’aperto 90
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dove la relegazione femminile mediterranea era lo spazio del marciapiedi e il lavoro al tombolo alla luce del sole. Nei racconti di oggi, ed è memoria fresca di soli quindici, vent’anni fa, il fitto interrelarsi degli ambiti degli uomini e delle donne è il perno delle descrizioni e anche dei distinguo dalla cultura del contado. Si dice chiaramente che tra uomini e donne c’erano rapporti migliori perché la «roba» alla marina o non c’era o aveva meno peso. Se uno non aveva dote o proprietà, quello che importava era la buona volontà, l’intraprendenza, e per le giovani era importante che fossero avvisate, che sapessero prendere le cose per il verso giusto, che ci sapessero fare con le economie e gli elementi della vita di paese. Ma più in specifico, come era vissuto lo spazio e la sua importanza? E quali erano i confini e le soglie su cui se ne cuciva la spartizione? Primo il mare, ancor oggi forte e presente in uomini e donne: il porto, la spiaggia, la pesca, il cantiere delle barche, la vendita del pesce, la riparazione delle reti. Quando i bambini cominciavano a muoversi da soli, andavano a giocare in spiaggia o al porto con barche di latta, pezzi di rete. La pubertà era segnata dal passaggio dalla casa alla barca. Venivano separati allora dalle bambine e mandati a dormire in barca, al porto, «sotto l’antenna», sotto l’albero coricato della barca cui era appoggiata una tenda di copertura. Là, raccontano le vecchie della marina, i ragazzi si organizzavano tra amici, passavano la notte tra il raccontarsi cunti, storie del passato e del presente, e il dormire. I ragazzi alla marina non portavano scarpe, come d’altro canto gli uomini, che le calzavano con estremo disagio solo per la festa di li schietti, la festa che univa le due parti del paese, quando gli schietti, i giovani non maritati, si esibivano in varie prove di abilità (come l’alborata, cioè alzare un alberello in verticale con una sola mano). Alle ragazze le scarpe venivano messe con l’ingresso nella pubertà, cioè allo stesso tempo dell’allontanamento dei maschi. 91
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I maschi del contado invece portavano le scarpe. Alla marina raccontano la storia di un giovane marinaro che voleva fidanzarsi con una ragazza del contado. Ma il padre di lei era contrario e per farglielo capire aveva costellato la strada dove si affacciava la propria casa di vetri e cocci, come per dirgli: «Non è cosa tua». Per i ragazzi di Favarotta, dunque, l’ingresso nel mondo degli adulti consisteva nel passaggio dai giochi di mare all’essere aiutante, a far parte di un equipaggio; era il loro entrare lentamente «nella casa degli uomini», la barca. Questa diventava a tutti gli effetti una casa in quelle settimane trascorse in mare. Si accedeva in essa a una conoscenza che richiedeva anni, di venti e movimenti di mare e onde, di stelle e posizioni di queste, notte dopo notte. Conoscere Triale, Orione, la Scala di San Iapicu di Galizia (la Via Lattea), quella stessa scala fatta di coltelli, pugnali, chiodi, spine, per la quale doveva salire l’anima del defunto in una sola notte se moriva di notte e in un solo giorno se moriva di giorno. L’uomo era legato alla barca conosciuta come a un tramite con un elemento pieno di pericoli e imprevisti. Le era legato per simpatia e identità; la barca aveva gli occhi, disegnati ai due lati di prua, come fosse una persona. L’uomo, anche se sposato, spesso andava a dormire da solo in barca, perché così era più comodo partire nel cuore della notte, quando ancor oggi, se il tempo è buono, tutti i pescherecci e le lance lasciano il porto, quando spunta la stella: «Stidda chi nesci cu dui uri di matinu» (stella che esce alle due del mattino), «Ca già cumpari la stidda di jornu, chidda chi nni guverna tuttu l’annu» (che già compare la stella del giorno, quella che ci governa tutto l’anno)18. I marinai si affacciano ancora per ore dal muretto che sovrasta il porto e guardano il mare. Si raccontano storie, dei giornali, di pesca, di America e Germania, ma soprattutto si sta zitti a osservare. Se si chiede loro che fanno, rispondono 92
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che il mare bisogna guardarlo oggi per capire come sarà domani e che il mare non lo si finisce mai di conoscere. Le donne fanno solo rapide comparse al muretto, per chiamare un figlio o un uomo dal porto. Il movimento degli uomini è parallelo al mare, si spostano tra gli affacci a esso e il porto e la spiaggia. Le donne «toccano» la linea che dà sul mare, perpendicolarmente, in un punto, in un andirivieni veloce tra le case e l’affaccio o il chiamare; percorrono il paese nella direzione delle sue strade, anch’esse perpendicolari al mare. In barca non salgono che raramente e in genere solo per momenti di festa o di rito, come il giorno dell’Ascensione. In quel giorno si riteneva che l’acqua del mare fosse benedetta dall’«Ascensione del Signore». Così, se le donne mettevano il piede in acqua, cacciavano via il «male agli occhi», il malocchio. Si partiva dal porto con le barche addobbate e si andava alla spiaggia di San Cataldo, lontana tre chilometri via mare. Sulla spiaggia c’era una chiesa, oggi in rovina, e ci si bagnava i piedi nello scendere dalla barca. Le donne avevano una particolare relazione con l’acqua quel giorno. Si diceva che tutta l’acqua, l’acqua del mare, diventasse dolce intorno alla mezzanotte dell’Ascensione, ma era difficile sapere il momento preciso; allora, meglio, si metteva in terrazza un bacile (lo facevano le donne) con dei fiori spampinati intorno. L’indomani mattina ci si lavava con quell’acqua benedetta. E si restava belle, pulite dall’impurità e da ogni guaio: Ti salutu unna di mari, li me guai ti vegnu a lassari. Acqua, bell’acqua unni vivi lo voi cu la vacca, unni vivi lu re cu la regina, la mè facci divintassi una stidda mattutina19.
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Le donne avevano a che fare con il mare anche in un’altra occasione, quando per la foschia le barche non riuscivano a tornare. A loro era affidato il compito di segnalare la terra dalla costa suonando le brogne, le conchiglie grandi, come un corno. Ogni brogna aveva un suono particolare ed era riconoscibile da un solo equipaggio. C’erano anche attività comuni, come la salatura del pesce o quando le donne aiutavano a preparare le cose per la barca o a vendere il pesce. Ma le reti grandi restavano sempre, e lo sono ancora, dominio maschile. Gli uomini, in lunghe file, le dipanavano e allargavano sulla spiaggia e le rammendavano: grandi reti di cotone rosso bruno. Oggi fanno lo stesso, ma stendendole sulla «superstrada» litoranea, altro esempio di uso cui non è più concesso un luogo apposito (la spiaggia è quasi sparita con la costruzione di un molo «sbagliato» che ha fatto impazzire le correnti). Questa attività era così importante che un uso civico concesso dai baroni proprietari del paese attribuiva un vasto spiazzo accanto al palazzo della Tonnara come bene d’uso perenne per i pescatori e le loro reti. Reti che nessuno deve mai pestare; se qualcuno ci cammina sopra, anche inavvertitamente, rischia di essere picchiato; se qualcuno ci cammina sopra mentre le si trasporta, bisogna cominciare il lavoro daccapo, da zero. Gli uomini percorrono l’altrove: «Cu navica lu mari / vidi lu munnu girari» (chi naviga per mare vede il mondo girare), oppure «Cu navica pri lu mari / pò li piriculi cuntari» (chi naviga per mare, può i pericoli raccontare). Le loro storie sono storie di distanze. Parecchi vanno a pescare a Viareggio. Una colonia di pescatori di Terrasini ha costruito un paese di mare negli Stati Uniti, vicino a Boston. Il posto si chiama Gloucester ed è un’isola collegata con un ponte alla terraferma, non lontana dalla mitica Nantucket di Moby Dick. Vi vivono oltre ventimila terrasinesi che hanno mantenuto dialetto, usi, feste e perfino la tradizionale separazione tra ambiti maschili 94
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e ambiti femminili (come ho raccontato nel documentario In altro mare). Ma in un’occasione il paese, cioè lo spazio più femminile, diventava anch’esso mare. Per la festa di San Pietro e Paolo una barca, vecchia, percorreva tutto il paese alla stregua di un simulacro dei santi. Al suo passaggio gli abitanti la riempivano dei legni che in casa erano in più. I legni servivano in parte per il cantiere delle barche e in parte per il falò della barca vecchia che aveva luogo allo scaro, la piazza sovrastante il porto. Anche in altre occasioni le barche non appartenevano solo al mare (e al mondo degli uomini quindi), ma a tutto il paese. In particolare, quando una barca veniva o ancor oggi viene battezzata, ci vuole la presenza di una donna, di una «padrina»: la barca riceve un nome, come se fosse «un cristiano», e le si buttano dentro dolci e taralli al momento del varo. Diventa così uno spazio sacro, ratificando l’alleanza tra le componenti del paese, uomini e donne, e gli elementi naturali. Come la barca, è oggetto di rispetto anche chi la fa, il mastro d’ascia. Il suo cantiere o la spiaggia a esso antistante sono il luogo dei battesimi delle barche e dei vari. Per evitare di offendere il mastro d’ascia, il paese si mette al sicuro con un accorgimento. Alla marina raccontano (anche se l’attuale mastro nega di farlo) che il mastro fa sempre battere il primo chiodo di una barca nuova a un passante, perché se per caso la barca riesce male, il proprietario, maledicendo chi ha messo il primo chiodo di quella barca, non maledica il mastro d’ascia e il suo lavoro. Poi c’è la casa. «Lu masculu carría e la fimmina conza» (l’uomo trasporta e la donna prepara)20. La casa, come il paese, appartiene più alla donna che all’uomo, ma è anche, al pari della barca, in momenti e luoghi particolari, una soglia tra i loro due domini. Questa soglia ha il suo centro di unione e separazione nel 95
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letto grande, anche se tutta la casa è una soglia, dallo spazio subito fuori dalla porta, che è il luogo del parlare, la sera, e delle visite, al monovano d’ingresso di cui la casa è costituita, con un tavolo al centro per desinare. Sul muro dirimpetto la porta si aprono due alcove. In una di queste c’è il letto matrimoniale. Abbiamo già detto della separazione dei luoghi del sonno tra la barca e la casa. Durante le notti estive, fino a qualche decennio fa si vedevano gli uomini dormire con la testa sulla soglia di casa e il resto del corpo dentro. Le donne invece dormivano all’interno. In assenza del marito, il luogo del loro sonno si poteva spostare altrove «per stare più tranquille», in terrazzo o nei camerini su di esso costruiti. Il letto grande era sì il letto matrimoniale, ma era più un simbolo che un letto. Vi si dormiva per i primi otto giorni di nozze, il periodo in cui era d’uso che gli sposi «si chiudessero dentro» e non avessero rapporti con il mondo esterno. La madre di lui, soltanto, alla mattina passava attraverso le persiane i pasti da lei preparati per gli sposi. Dopo gli otto giorni si teneva un ballo, all’uso del rito di lu macadaru, i machadarii, usi nuziali arabi. Ma dopo quegli otto giorni il letto del sonno diventava un altro, nell’altra alcova, un letto «arrangiato», e il letto grande, cunzato, addobbato con le cose migliori del corredo e i cuscini ricamati, incorniciato da un «portale» di tende, era la cammara a riciviri, la stanza di gala, e come tale non veniva usata per dormire. Si badi che l’alcova era poco più grande del letto matrimoniale e che su quest’ultimo non era d’uso ricevere gente. Stava lì in bella mostra, magari con una bambola con le vesti di tulle seduta nello spazio tra i due cuscini. Il letto era una soglia «intoccabile», se non in altri momenti importanti, come quando si accattava, cioè quando la donna aspettava un bambino, o quando uno dei due coniugi si ammalava. Questa regola era rispettata fin quando la coppia non si trasformava in famiglia numerosa. Allora, per ragioni di econo96
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mia, tutti i letti della casa venivano usati. Ma proprio l’affollamento di cui queste piccole case erano in passato oggetto rende ancora più singolare l’uso dell’«intoccabilità» del letto matrimoniale. È chiaro che, data la mobilità dei luoghi del sonno e la loro variabilità, quella che prevaleva, fin quando l’affollamento lo consentiva, era una funzione simbolica. Abbiamo dunque visto come domini e identità differenti si attestassero in territori propri, difendendone i confini o varcandone le soglie in momenti rituali. Il letto matrimoniale, il varo della barca, la stessa linea di confine del vallone sottolineavano le diverse identità del paese quando esse si trovavano in contatto. Peraltro, anche all’interno di una singola identità, quella delle donne, lo spazio delle strade era strenuamente difeso. Le sciarre, le zuffe tra donne, da cui gli uomini si tenevano fuori, erano «attriti di soglia» e discussioni per la determinazione di ambiti di appartenenza. Gli uomini avevano sì sciarre anche loro, ma in mare, e però erano «comu li fimmini ri Capaci, ca dopo la guerra fannu à paci» (come le donne di Capaci che dopo la guerra fanno la pace). Dimenticavano cioè qualunque motivo di sciarra appena giunti a terra, non dissimilmente da quel che si diceva facessero, nel mito, le donne del paese vicino di Capaci che, stufe di essere maltrattate dai loro uomini, se ne andarono tutte sull’isola di fronte al paese (l’Isola delle Femmine), ma poi una volta tornate a riva si riaccordarono felicemente con gli uomini. All’interno del paese, alla marina, nella sua vita all’aperto, ogni spazio doveva sempre essere difeso: «Diu ti scanzi di malu vicinu e di principianti di violinu» (Dio ti salvi dal cattivo vicino e dal principiante di violino) e «vicini mei, spicchiali mei» (vicini miei, miei specchi). Si combini tutto ciò con quanto detto sulle forme del paese nella mente degli abitanti e ne verrà fuori una spazialità sentita e significata metro per metro e la sua importanza per la buona continuazione del tutto. 97
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Oggi il paese è distratto, «perde terreno», gli sfumano appartenenze e distinzioni. Queste contano sempre meno. Si allargano invece i fuor di luogo, le smagliature tra il vecchio e il nuovo, le confusioni dove la stessa linea della memoria è invasa da nostalgie non più di luoghi mediati dal mare, ma di luoghi standard, dal bar americano al balcone in cemento armato catapultati qui senza alcuna mediazione e rilettura contestuale. Il paese si sta trasformando in un elenco di fuor di luogo21.
Un certo garbo Per chi è cresciuto in una comunità integrata da sempre al suo contesto naturale, i cambiamenti degli ultimi decenni devono essere sembrati giganteschi. E in effetti questi decenni che ci separano dagli anni Cinquanta hanno in comune una straordinaria inversione di due termini che le culture «tradizionali» consideravano stabili nel loro rapporto reciproco. La stabilità del paesaggio da una parte e del contesto ecologico dall’altra, con i suoi cicli, le variazioni climatiche e di abbondanza o scarsità delle risorse, costituivano il contrappunto al tempo degli uomini e delle donne, al tempo della vita e dell’invecchiare. Negli ultimi decenni la «natura» è invecchiata a ritmi da vita umana e infine li ha spesso superati. Così, chi era abituato a certe costanze ambientali si è trovato di fronte a un paesaggio sconvolto, all’esaurimento di risorse che prima non sembrava potessero essere messe in dubbio, alla scomparsa di punti di riferimento familiari. Siamo ancora in un momento caldo di questo processo, anche se mutamenti irreparabili sono intervenuti. Ma quello che è successo ha provocato a volte una sostituzione e un rafforzamento. A un paesaggio reale se ne è sostituito uno fatto di punti di memoria e di concentrazione intorno ai luoghi rimasti. Qui parlerò di un 98
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luogo, il cantiere del mastro d’ascia di Terrasini, e di ciò che esso rappresenta per chi oggi vive e ricorda il paese. La mia ipotesi è che le categorie del fare presenti nel cantiere delle barche superino l’ambito dell’attività a loro propria per illuminare zone più ampie del giudizio e del senso comune e il loro legame con il «paesaggio» del passato. La concezione e i parametri del «ben fare», del dare la forma giusta agli scafi, si inseriscono e rammentano un sistema più generale abituato a cercare e a giudicare il verso giusto delle cose. Al contrario di quanto una visione banale della cultura materiale potrebbe far pensare, è in un luogo dell’attività pratica che troviamo i livelli di distinzione più astratti, i parametri di un’estetica cui la comunità può fare riferimento. Per giungere al cantiere di Terrasini, basta abbandonare l’autostrada, prendere una strada che costeggia il mare e poi chiedere della «spiaggia». È uno dei luoghi più martoriati dal cambiamento del paesaggio. La strada che la percorre praticamente ci passa sopra ed è costellata dalla tipica follia cementizia degli anni Sessanta e Settanta. Ben poco è stato risparmiato e a stento si crede che quello che rimane della spiaggia abbia potuto rappresentare l’attrattiva di tanta attività edilizia. Sulla spiaggia, anzi adiacente a essa, appoggiato a uno sperone roccioso dal quale non molti decenni fa il paese si affacciava sull’acqua, c’è il capannone del mastro d’ascia. È una costruzione alta che funge da cantiere e da rimessaggio delle barche in costruzione e, cosa importante, è aperta su un lato verso la spiaggia. Sulla soglia di questa apertura, e secondo il grado di intimità con il mastro, si trovano spesso persone che non hanno a che fare direttamente con il lavoro: sono pescatori, o ex pescatori, passanti, habitué e perditempo. Al cantiere mi ha portato un altro dei termini di riferimento di questa storia. Una persona che rappresenta quella ricostruzione del paesaggio scomparso in cui il paese, più o 99
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meno coscientemente, è coinvolto, una ricostruzione mentale visto che quella reale non sembra agibile. Questa persona ha vissuto i cambiamenti drastici del luogo con una tenace resistenza, decidendo di raccogliere più tracce possibili di quello che stava cambiando, sparendo o trasformandosi. Il suo lavoro come memoria del paese è cominciato con il fare foto e disegni di luoghi, di barche, di situazioni, e poi ha preso la direzione di uno strano apprendistato esterno rispetto al cantiere. Ha deciso di ricostruire, con modelli in scala e con gli stessi legni degli originali, le barche di cui ormai si trovavano solo i relitti sulle spiagge della costa; e di ricostruire tutto ciò che intorno a ogni modello verteva: manovre, vele, tipo di andatura, pesca, persone e sperimentazione che dietro quella barca si nascondeva. Il paese che negli ultimi vent’anni ha ricostruito, attraverso il modello del cantiere, viene fuori molto vivace, con nomi di barche, errori di mastri, interazione tra mastro e pescatori e soprattutto giudizi sulla bellezza e appropriatezza delle barche che via via il paese, attraverso il cantiere, elaborava e costruiva. Al centro di questa attività di ricostruzione c’è uno strumento chiave: il cosiddetto «mezzo garbo», o nel dialetto di Terrasini u miènzu aibbu. Filippo Castro (tale è il nome del ricercatore «in loco») considera l’apprendimento dell’uso di questo strumento e il passaggio da questo strumento al «disegno» delle barche come essenziale nella storia del suo interesse per il cantiere. È stato un mastro a insegnargli come passare dall’uno all’altro, anche se in genere, e tuttora, i mastri d’ascia di Terrasini e di altri paesi di mare adiacenti non usano il disegno come strumento. Servendosi dei due procedimenti, Filippo è riuscito, partendo da pezzi abbandonati di barche, a ricostruirne la forma interna. Questo rifacimento è stato accompagnato dal continuo riscontro con il mastro o con i mastri d’ascia; d’altro canto, lo stesso Filippo è stato da ragazzo apprendista presso uno di essi. 100
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Il mezzo garbo, essendo la chiave della forma degli scafi, è anche il segreto del mestiere. Gli apprendisti difficilmente vengono iniziati a usarlo, a meno che il mastro non voglia passare loro il mestiere. Filippo si è appropriato del segreto dall’esterno ed è forse questa sua posizione anomala a dargli la possibilità di servirsene come chiave di memoria. Ma che cos’è più propriamente il mezzo garbo? Come dice Filippo: Il mezzo garbo è un attrezzo di legno che nella forma riproduce la mezza sezione maestra della barca da costruire; su di esso sono segnati dei punti numerati che, opportunamente utilizzati, permettono la corretta sagomatura delle ordinate (madieri e staminali) del corpo centrale dello scafo. Il mezzo garbo ha differenti dimensioni, secondo quelle delle barche da costruire, perciò il mastro d’ascia ne possiede un certo numero.
Chi imparava i garbi era «mastro completo». Questa possibilità tra i picciotti di bottega era spesso riservata solo al figlio del mastro. Agli altri restava il compito di riparare, di rattoppare tavole rotte. Il saper «garbare» richiede invece la capacità di «adattare una cosa a una superficie curva», come spiega Filippo, «di modellare, però in senso lineare», si tratti di fasciame, di ossatura o di ghirlande (i braccioli centrali nelle fiancate dello scafo). Ma il mastro stesso può «non avere occhio» e la barca venire «sgarbata». Filippo ha assistito a un diverbio tra un mastro d’acqua catanese e un vecchio pescatore secondo il quale la barca che il mastro gli aveva fatto era senza cianchi (fianchi) e appena si caricava un po’ di più andava a fondo, tanto che gli altri pescatori ci avevano già misu u pecchio, cioè l’avevano già «bollata». Il mastro si rende conto e fa esperienza delle cose andate male. Il fatto è che il mezzo garbo funzionava a specchio per le sette ordinate di poppa e per le sette di prua solo nel caso 101
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delle barche piccole, fino a dieci metri, e questo carattere era comune nelle zone di Palermo, Trapani e Messina. Ma quando le barche erano più grandi, e soprattutto quando erano a vela, le ordinate di poppa e quelle di prua non erano più uguali: quelle di poppa, ad esempio, erano più rastremate, «chiù sucate, affinate, stiddate». Insomma, la non precisa specularità di poppa e di prua rendeva il garbare la barca più complicato. Fare la Marticana (sedici metri) o la Schifazzo (dodici metri) richiedeva una maggiore tecnica, un mezzo garbo con punti differenti per poppa o per prua, per dare una forma differente alla parte immersa, alla carena, così da darle una funzione di deriva per controbilanciare le spinte della vela. In ogni caso, il mezzo garbo restava comunque lo strumento essenziale, in scala reale, uno a uno, rispettando la quale si potevano apportare poi le piccole variazioni a seconda delle richieste del cliente o della voglia di sperimentare del mastro. E anche qui il «garbo» della barca era un continuo bilanciarsi tra una forma conosciuta e una da cercare, e spesso la ricerca portava a errori. Filippo racconta il caso di una barca, una Sardara fatta a Terrasini, il cui proprietario aveva richiesto una variazione della prua, che doveva essere piuttosto alta, «cavallina», con la copertura di prora più «bolzonata», più bombata. La barca, una volta varata, era uscita a vela e poi si era rovesciata improvvisamente. Il proprietario aveva dato la colpa alla variazione, anche se si trattava più che altro di un forte vento di scirocco. Il mastro, una volta che la barca era stata recuperata, si era visto richiedere un abbassamento eccessivo della prua, al punto tale che la barca era comunque rimasta famosa come un modello da non imitare, come una barca con lo «specchio» a prua, cioè talmente bassa a prua che poteva consentire di usare lì invece che a poppa lo specchio per pescare polipi e raccogliere ricci. La difficoltà nell’uso del mezzo garbo restava e resta tutta 102
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nell’equilibrio tra i punti nella parte alta dello strumento, lo staminale, e quelli della parte bassa, il madiere. I due sistemi di punti si combinano per indicare il rastremarsi dell’opera morta e di quella viva, della parte fuori dall’acqua e di quella in acqua. Filippo mi dice che lo schema di questa combinazione, lo schema da cui viene ricavato e che si ricava dal mezzo garbo, viene chiamato tazza nella zona di Trapani e murriuni in quella di Catania. Ma insiste sul fatto che è veramente complicato capirlo sino in fondo (anche perché il sistema cambia a seconda dell’area d’uso), e per questo ai picciotti non si spiega niente. Se sono in grado di capire direttamente, osservando, bene, altrimenti è il mastro che rimane l’unico che capisce e sperimenta. C’era e c’è tutta una serie di termini per indicare il non esatto «garbo» in questa sperimentazione. La barca poteva risultare troppo alta o stretta o larga, gilusa, cioè gelosa, soggetta a dare rollio, a sbandare a prua sottovela, a inclinarsi e a imbarcare acqua, essendo troppo fina ri cianchi, ai fianchi. La barca gilusa era gelosa perché suscettibile, troppo delicata, soggetta a fattori negativi. Oppure si poteva trattare di una barca ballarina perché ballava troppo sull’acqua. Ma potevano esserci invece barche apprezzate perché veloci, a freccia, acieddu, a palumma, queste ultime due perché ben formate, agili e piene allo stesso tempo. In una barca ben fatta il «cavallino», cioè la forma in senso longitudinale dei fianchi, non doveva essere né troppo piena né troppo mancante. Mentre parlavo con Filippo Castro di queste cose non avevo ancora cercato su vecchi vocabolari la parola «garbo». Filippo mi aveva preavvertito che si trattava comunque di un termine navale. E infatti nello Zingarelli del 1953 esiste sotto la voce «garbo-garbare» (attagliarsi, starci bene, dare il garbo, la forma, il contorno al pezzo che si lavora, la linea giusta, la sagoma…) l’esempio della Sala dei garbi, ovvero la galleria dei grandi arsenali sulle cui pareti sono esposti i modelli delle 103
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navi precedenti e sul cui pavimento di tavole si disegnano i modelli delle nuove e delle loro parti principali. Nel Gherardini, Supplimento a’ Vocabolarj Italiani, pubblicato a Milano nel 1854, sotto la voce «garbo» si trova: Foggia, Maniera, Forma […] termine di Marina (anche si dice Sesto). Propriamente è un modello di tavole sottili unite insieme, le quali si tagliano esattamente sul contorno e su le dimensioni dei membri della nave e di altri pezzi principali della costruzione, onde servire ai carpentieri per formare quei pezzi con esattezza.
Mi sembrava di saperne un po’ di più e però mi incuriosiva la gamma d’uso che lo stesso Filippo faceva della parola. Perché la parola indicava lo strumento, e allo stesso tempo il risultato del suo uso «adeguato», perché infine indicava anche a Terrasini quello che significa in generale nell’uso comune in italiano, e cioè l’«adeguatezza» di una cosa, di una persona, di un gesto. Filippo dice che a Terrasini a un uomo grosso ci si rivolge dicendo: «Hai un aibbu d’una varca di quaranta parmi» (hai il garbo di una barca sproporzionata). Insomma, mi sembrava ci fossero tre livelli: il primo riguardante lo strumento; il secondo la forma di un prodotto; il terzo la sua forma ideale. Ho fatto un passo avanti quando ho scoperto che il garbo come arte marinara è precedente agli altri significati. Nel Cortellazzo-Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana (1980), si legge: Derivazione della parola (garbo) dall’arabo qàlib, modello, che spiegherebbe tutte le accezioni più antiche (forme dei pezzi di una costruzione di una nave), attestata tardivamente (1602 B. Crescenzio) nei testi italiani, ma molto prima in quelli dialettali come il genovese ga(r)ibu nel sec. XIII.
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Nel Vocabolario Arabo-Italiano dell’Istituto per l’Oriente (1973), qàlab/qàlib è forma, stampo, modello, matrice; nel Persian English Dictionary di Steingass (1892), qàlab/qàlib è «una forma, un modello, uno stampo, qualunque cosa in cui o da cui un’altra è fatta; il corpo, la forma, la figura». E il verbo qàlib sta per «cominciare, approntare; chi o qualcosa che gira, cambia». Ma è Corominas nel suo Diccionário Crítico Etimológico de la Lengua Castellana (1954) che ne delinea la storia più completa. Nel castigliano è una forma molto tarda. Nel Quijote non appare nessun garbo. Viene introdotto come italianismo alla fine del diciassettesimo secolo. È inseparabile per Corominas dal calabrese gàlapu, gàlipu, garbo, destrezza, maestria, dal genovese medievale galibo e garibo e dal napoletano antico gallipo, tutte forme – provenienti sia dall’arabo qàlib, sia dal latino calapus navis, sia dal greco kalipos (da cui proviene la forma araba), che è però più propriamente «l’orma di una scarpa» – che significano anche il «modello cui deve aggiustarsi una costruzione di una nave o delle sue parti o di un arco ecc., come figura nelle più antiche tecniche di costruzione navale e in architettura (Vasari, Soderini)». E Corominas aggiunge: Una volta di più, nel mondo mediterraneo il buon gusto viene visto come l’adattamento a una forma, opponendolo all’informe e al deforme; si ricordi la storia del latino forma, bellezza, e del greco morphos, bello, e amorphos, brutto.
G.M. Calvaruso, in Fonti arabiche del dialetto siciliano (1910), e Giacomo De Gregorio, in Contributi al lessico etimologico romanzo (1920), con particolare considerazione al dialetto e ai subdialetti siciliani, notano che la voce siciliana non è popolare, bensì deriva dall’italiano. A mio parere si tratta piuttosto di un linguaggio comune a una koiné marinara. «Garbo» fa parte di una lingua contestuale, quali quelle 105
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che secondo Giorgio Raimondo Cardona bisogna cominciare a studiare come testi a parte: la lingua del mercato, del campo, di certi rituali. Ed è interessante come nella pratica del mastro d’ascia i vari livelli siano conservati e interrelati, e soprattutto come lascino vedere una struttura di pensiero estetico sulla realtà e sul rapporto quotidiano d’uso e apprezzamento degli oggetti e delle forme. Qui forme, come fa osservare Corominas, sta proprio nel suo senso originario, di qualcosa modellata su qualcos’altro di originario, lo stampo di un modello. Visto che si tratta di scafi, la forma è determinata dalle forze di spinta dell’acqua e della propulsione, il garbo è quello risultante da un «essere orma», essere avvolto dalla matrice marina. Il guscio che ne deriva è il continuo aggiustamento alle volute e spinte dell’elemento naturale circostante. E questo «cambiare foggia» è negoziato, continuamente, tra le due esperienze del mare: chi per mare va e chi sulla costa o sulla spiaggia ratifica l’esperienza e la codifica nella sperimentazione dei legni. Per questo la barraca, il cantiere, è un luogo eminentemente aperto dove i commenti degli estranei fanno parte della produzione. Filippo racconta che la barca è sempre stata «impostata» tra questi dialoghi sotto la tettoia, anche quando il cantiere si trovava altrove, in un luogo della costa vicino ai faraglioni, dietro al porto (la Praiola). Qui, per tutto il tempo, fino al varo e soprattutto dopo, viene mantenuto il carattere interattivo del «garbo» e del «garbare», come se al rapporto tra l’elemento legno e l’elemento mare si aggiungesse il rapporto tra mastro e comunità. È interessante, a questo proposito, quello che avviene con il passaggio dalla vela al motore. È un’occasione difficile, in cui le barche, tra tentativi ed errori, si «aggiustano» e trovano un assetto di forma che possa assorbire e inglobare le novità dell’elica, della spinta e della presenza del diesel. Filippo ha documentato tutto questo farsi del «garbo» con 106
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i suoi modelli fedelissimi in scala, colori e attrezzi. Il loro valore di documentazione viene esaltato dal fatto che non si tratta di un museo dell’estinzione, ma delle radici di un’opera viva, che poco distante dal luogo dell’esposizione (la biblioteca del paese) continua a riprodursi. Sulla spiaggia Mastro Gino, detto U Varcaru, tira avanti le fila di quanto ha appreso da Mastro Alessandro Grillo, detto Lisciannero, a sua volta picciotto di Mastro Vincenzo Lo Grasso, detto Ginuzzu Pane Pane, in qualche modo collegato con altri mastri mitici, come Mastro Ancilu Cancilleri di Palermo e i non meglio conosciuti Buttuna di Palermo. La «maestria» stabilisce legami verticali, ma anche orizzontali, nello spazio di uno stesso linguaggio dei legni che va da Terrasini a Castellammare, ad altri cantieri a Torre Faro, Ganzirri, Acitrezza, Riposto ecc. Un’esperienza del mondo fuori dei limiti dell’entroterra e della linea della costa, un’apertura e adattabilità totalmente diverse da chi con il mare non ci ha a che fare.
Sacralità del guard-rail Esistono parole più cariche di risonanze, trasformazioni, ritorni a concetti di base, di «luogo» e «sacralità»? E la loro ampiezza non ci consente di spaziare fin troppo tra i campi di varie discipline e il loro variegato sviluppo nel tempo? Spazio e Sacro sono diventati la zona di incerto confine tra discipline che fino a poco tempo fa cercavano di tenersi attentamente separate. Storia e fenomenologia delle religioni, antropologia, architettura, etnologia, storia sociale e geografia sembrano convergere su questo margine. E su di esso sembra che le stesse discipline condividano i dubbi di fondo sulla legittimità dei metodi del proprio operare. Il Sacro e lo Spazio vivono comunque un momento di grande fortuna, come potessero servire da chiave di interpre107
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tazione degli stessi limiti tra le discipline e da chiave rivelatrice di precedenti disattenzioni. L’interesse per i luoghi del rituale e per il rituale è in effetti sintomatico non solo di una specie di ritorno alla «fisicità», alla puntualità contestuale che solo il «qui» dei fenomeni sembra offrire, ma anche della sempre minore sicurezza della nostra società rispetto alla propria natura secolarizzata. In questo senso, l’ampiezza carica con cui abbiamo a che fare serve ancora a qualcosa, a mettere in crisi e a ridefinire molte delle nostre categorie di analisi e di interpretazione. I più recenti studi di sintesi sembrano voler riprendere dall’inizio la complessità della questione. Questo è, ad esempio, il lavoro cui si è dedicato Jonathan Z. Smith nel suo tentativo di riesaminare l’immaginazione religiosa e le teorie sul rituale dal punto di vista delle connotazioni spaziali. Il titolo della sua opera più significativa, To Take Place22, è già di per sé rivelatore: un rito ha luogo (takes place) sempre da qualche parte ed è proprio questo suo «aver luogo» a essere ciò che avviene nel rito. Si tratta di «piazzare» (to place) oggetti, persone o avvenimenti in un luogo preciso, al di fuori del quale perderebbero di significato. Smith offre tre casi di studio: i luoghi e i cammini dei sogni (dreamroads) degli antenati tra gli aborigeni dei Northern Territories del continente australiano, l’immagine del Tempio di Gerusalemme nel Libro di Ezechiele e nella tradizione ebraica, e i luoghi sacri, in particolare il Santo Sepolcro, in Terrasanta e nella tradizione cristiana. La sua tesi è che, sia pure in casi così differenti, vi è una relazione particolare tra i luoghi sacri e la memoria, le categorie di ordinamento del mondo e i meccanismi di attenzione. La sacralizzazione consisterebbe nell’estrazione e liberazione di alcuni luoghi dalla contiguità spaziale (un luogo diventa differente da tutti gli altri) e dalla sequenza temporale (l’«ora» in cui avviene il rito è diversa dall’«ora» della vita quotidiana). 108
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La natura del sacro consisterebbe proprio nell’invenzione «spaziale» dell’eccezionalità, in un’evidenziazione di fatti e oggetti possibile solo ancorandosi alla forza evocativa dei luoghi. È un processo che Smith definisce scandendone le fasi – «in cerca di un posto», «mettere a posto», «rimpiazzare», «prendere posto» – e che fa sì che il luogo sacro finisca per svolgere una funzione di catalizzatore dove tempo e spazio diventano omogenei e reciprocamente sostituibili. I luoghi offrono una via d’uscita all’imbarazzo del rapporto tra passato e memoria: se ricordo qualcosa, significa che essa è presente, ma dov’è che essa è presente? A questo costituirsi degli spazi come «dove» della memoria si aggiungono due costanti che Smith trae da Sigmund Freud e Claude Lévi-Strauss: si ha un rito quando si ha una situazione ripetitiva (Freud direbbe ossessiva) e quando vi è un’enorme attenzione ai particolari, quello che Smith chiama parcelling out traducendo, dal francese di Lévi-Strauss, morcellement. Vorrei partire da questa ridefinizione di massima (Smith è molto più articolato e ricco) per fare alcune considerazioni. Mi sembra che questa particolare identità dei luoghi sacri ci consenta di rileggere alcuni fenomeni contemporanei normalmente considerati di poca importanza. In genere, consideriamo i luoghi sacri come un residuo appartenente a un passato religioso, sia esso costituito da santuari, montagne sacre, basiliche o moschee. Da una parte ci siamo noi e il nostro mondo secolarizzato, in mezzo il filtro del «credere», e dall’altra parte i luoghi sacri. L’idea è che siamo capaci di notare e di sentire un luogo sacro solo se condividiamo una visione, un credere, non importa se si tratta dell’apparato mitologico degli aborigeni australiani o della pietà delle beghine olandesi. Rodney Needham ci ha insegnato che è difficile esportare il nostro termine «credere» e che nulla ci garantisce che altre culture intendano per «credere», se per caso hanno 109
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nella loro lingua un concetto simile, la stessa cosa che intendiamo noi23. Needham ha ragione, e però non dobbiamo farci ingannare da una visione eccessivamente a priori della «fede». Si tratta di scegliere tra la convinzione che sia la fede a «provocare» i luoghi sacri e una visione che, a partire dalla presenza in diverse e svariate culture di luoghi sacri, si chiede se il loro ricorrere non risponda a problemi di funzionamento comuni a tutte le culture. Se tentiamo questo secondo approccio, comparativo e interculturale, allora, con tutte le prudenze del caso, possiamo rivolgere lo sguardo sui luoghi sacri al nostro presente. Esistono nel nostro presente luoghi sacri? O meglio, esistono luoghi sacri che non siano già «dati» come tali? È possibile rintracciare processi di formazione di luoghi sacri intorno a noi, nel nostro paesaggio contemporaneo? Credo che la risposta possa essere affermativa se solo guardiamo con un’ottica diversa cose che ci sembrano fin troppo familiari e ovvie. Vorrei prendere un caso particolare: in Sicilia, nel sud d’Italia in genere e in vari paesi dell’area mediterranea, vige un uso che può essere rilevato anche in alcune aree dell’America latina: l’uso di «segnare» il luogo in cui è avvenuto un incidente d’auto. Un fenomeno che si manifesta con un mazzo di fiori legato a un guard-rail, una croce sui bordi dell’asfalto, una scritta, a volte una lapide, una fotografia. Sono testimonianze di pietà familiare che invadono lo spazio pubblico e in qualche modo invitano i passanti e i guidatori a un attimo di solidale cordoglio. Il paesaggio in cui questi segni si inseriscono è quello piuttosto anonimo e squallido della terra di nessuno dei paracarri, dei bordi della strada, dei salvagenti spartitraffico, degli alberi lungo le strade asfaltate. La loro tipologia somiglia da presso a quella delle sepolture, e infatti c’è una specie di progressione: spesso dal mazzo di fiori si passa al lume o alla la110
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pide, con l’acquisizione dei parafernalia della sepoltura. Si può pensare che questi segni assolvano a una funzione provvisoria, quella di accompagnare il passaggio dall’impatto mortale alla sepoltura vera e propria. Questo, tra l’altro, spiegherebbe la loro natura di «ombra» della sepoltura. Poggiata a un albero, lungo i bordi di una strada di Palermo, ho trovato una volta una lapide con su scritto «Qui giace l’anima di…», e poi il nome di un ragazzo morto in un incidente di moto. La durata di queste sepolture è variabile, ma in genere scompaiono con il mutamento del paesaggio, il rifacimento della strada, anche se è difficile che vengano rimosse, più che altro vengono lentamente abbandonate. C’è, inoltre, un elemento essenziale nel loro modo di apparire. Sono i segni del luogo dove «esattamente» è avvenuto l’impatto, lo scontro, l’incidente. Sono cioè il segno del momento in cui la vita si è separata, in cui l’«anima» si è staccata dal corpo; la traccia di un violento e repentino cambiamento. Sono luoghi sacri? Io credo proprio di sì. Non manca nulla, volendo essere fedeli ai suggerimenti di Smith, per individuarvi il processo rituale e la natura tipica di un luogo sacro. Smith sostiene che un rito è anzitutto un modo di «prestare attenzione» (to pay attention) e che è proprio questa caratteristica a spiegare il ruolo dei luoghi come componente fondamentale del rituale: i luoghi orientano (direct) l’attenzione. Da questo punto di vista, non c’è niente che sia, in sé, sacro o profano. Queste non sono categorie sostantive, ma piuttosto situazionali. La sacralità è prima di tutto una categoria posizionale, of emplacement 24. Essendo fedeli a questa descrizione, che altro sono i segni di incidenti se non un richiamo all’attenzione? Ed essi rivestono perfettamente quel carattere capace di legare una situazione avvenuta nel tempo a un posizionamento in uno spazio particolare che consente il perdurare della memoria. Inoltre, 111
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la loro tipologia sta a sottolineare che proprio nell’anonimia del paesaggio autostradale occorre fermarsi un attimo perché qualcosa di estremamente importante è avvenuto. Insomma, la sacralità di questi minuscoli tabernacoli è amplificata proprio dal contrasto con la totale indifferenza dei luoghi. Non si può ravvisare qui un modo di sacralizzare la banalità del paesaggio contemporaneo? Non si tratta di una proposta cosciente da parte di una singola famiglia o di chi costruisce i luoghi della propria pietà, ma certamente abbiamo a che fare con una tendenza generale, con un rito eseguito nella coscienza di un contesto geografico e simbolico. Anche gli altri due elementi sono presenti, la ripetitività e l’attenzione ai particolari: la prima nella tipologia dei parafernalia del culto, la seconda nel dettaglio delle biografie personali, quel dare un nome a un pezzo di guard-rail, quel personalizzare la strada e un evento, tragico sì, ma che si potrebbe perdere «tra tanti altri». Siamo di fronte a una consacrazione, non legittima o secondo regole canoniche, ma attribuita da una società nel suo complesso, una società che cerca di far rilevare la non anonimia della morte, pur nella sua tragica ripetitività (o, si potrebbe anche dire, proprio nella sua tragica ripetitività). E questo forse potrebbe spiegare come mai l’oggetto da sacralizzare siano gli incidenti, e raramente altro, dato il carattere di massa dell’automobilismo. Il caso è interessante per un ulteriore motivo: va contro una teoria che vorrebbe sacri solo i luoghi dotati di alcune caratteristiche proprie, di quella qualità che Martin Nilsson ha definito «cospicuità»: Noi rendiamo sacro un luogo impiantandovi un santuario, [mentre] nell’antichità la sacralità apparteneva ai luoghi stessi e un santuario vi veniva eretto perché era il luogo a essere sacro25.
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Questa teoria riesce a dare ragione di alcuni fenomeni e, tramite l’esposizione che studiosi come Mircea Eliade ne hanno fatto, ha ricondotto l’attenzione allo spazio sacro, a una «primitività» del rapporto tra gruppo insediato e paesaggio. Presenta però lo stesso pericolo dell’idea del «credere» come un a priori senza il quale non si può leggere uno spazio sacro. Mi sembra che l’ipotesi di Smith sulla arbitrarietà del sacro spieghi molto meglio come mai nella stessa categoria possiamo trovare un monte Tabor e un paracarro. Successivamente, uno studioso della colonizzazione greca, Irad Malkin, ha aggiunto un tassello alla polemica «anti-cospicuità», sostenendo che nel caso di molte colonie di fondazione (dall’ottavo al quinto secolo avanti Cristo) l’area destinata al tempio veniva scelta in base a criteri di pura funzione. In particolare, nel caso di Megara Iblea, recenti indagini archeologiche hanno rivelato che il fondatore (oikistes) aveva scelto come recinto del tempio un’area precedentemente destinata ad abitazione26. Malkin va molto più in là nella polemica, ma in maniera che a me non sembra utile. Sostiene che i fondatori erano guidati nella scelta dei siti per le aree sacre solo da ragioni «puramente immanenti», come per dire che l’arbitrarietà del sito implicava un aver fatto scendere gli dèi dal loro piedistallo. Non credo sia il caso di seguire Malkin in questo entusiasmo; per quanto arbitraria, la scelta doveva pur sempre fare i conti con le corrispondenze e categorie culturali e geografiche della cultura dei fondatori. Se la sacralità è situazionale, questo significa che deve fare i conti con un contesto e che in questo contesto non ci sono più distinzioni tra «sacro» e «profano», ma piuttosto tra un «dentro» e un «fuor di luogo»; il resto sembra più una nostra proiezione che qualcosa di inerente alla cultura analizzata. Ci possiamo ancora domandare a che servono i luoghi sacri? All’interno di una particolare cultura servono a co113
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struire i propri punti di riferimento, a far emergere nello spazio indifferenziato delle differenze. Il sacralizzare è un modo di contestualizzare, un altro modo di «fare mente locale». È per questo motivo che a noi, oggi, viene forse più difficile accorgerci dei luoghi sacri che attiviamo, abituati come siamo a produrre tutte le operazioni mentali e culturali di organizzazione e di riferimento seguendo direttrici e segni astratti. Come se l’attività di costruzione di luoghi sacri ci fosse poco familiare, non per crisi di fede, ma «per crisi di ragione», per un gap mentale e culturale per cui non ci serviamo più dello spazio circostante e della fisicità del mondo come paradigma e supporto di categorie, analogie, operazioni di presenza. Smith introduce nel suo lavoro l’ipotesi che i luoghi sacri siano un cultural device, uno strumento di condensazione che consente alle categorie spazio-temporali di sostituirsi e scambiarsi le parti. Adduce come esempio due casi opposti. Il primo è l’origine della liturgia cristiana come liturgia legata al ciclo dell’anno; un’origine che risale solo al quarto secolo dopo Cristo, al momento cioè in cui cominciarono i pellegrinaggi in Terrasanta, resi possibili grazie alla conquista cristiana della Palestina. Il culto che si praticava nei «luoghi santi», soprattutto il culto circolare ed eminentemente spaziale che si muoveva tra le stazioni diverse della passione e della morte di Cristo, riplasmò completamente il primitivo culto cristiano atemporale e paradigmatico. Il nuovo culto, storico e sintagmatico, che dovette, una volta abbandonata la Palestina, passare dall’aspetto topografico a quello temporale, sostituì alle tappe nello spazio quelle del ciclo dell’anno. Il secondo caso riguarda invece gli aborigeni australiani. Smith sostiene che qui è avvenuto l’inverso. Un racconto, anzi un insieme di racconti mitici, che narra le storie del tempo mitico degli antenati e del loro «passeggiare» sulla Terra si trasforma in un passeggiare vero e proprio, nel camminare degli 114
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aborigeni che fa riemergere la sacralità dei luoghi del paesaggio vero. Il tempo viene ripercorso e riattualizzato solo «camminandolo», seguendo le tracce, nel racconto, ma individuandole in questa pianura o in quella collina, e a volte inventando pezzi nuovi di racconto (capovolgendo il processo) a partire da nuove tracce o da nuovi segni sul territorio. Mi sembra che nei due esempi giochi tutto il fascino di una riscoperta del sacro come strumento che consente di viaggiare con disinvoltura tra spazio e tempo. Questo significa che i luoghi sacri, come «trasformatori» delle categorie spaziotemporali, consentono di liberare lo spazio dalle costrizioni della contiguità e il tempo dai lacci della sequenzialità. Una tentazione, questa, cui potremmo abbandonarci anche noi, almeno «disciplinarmente», accettando che i luoghi sacri ci servano per avere un’idea meno rigida dei rapporti tra astrattezza e concretezza; e accettando altresì che lo spazio possa giocare in futuro come elemento rivelatore di parti apparentemente indifferenti della nostra memoria e del nostro presente. Note al capitolo 1. Anonimo, Borghesia e proletariato a Palermo, «Il Tempo», 1869, Archivio Storia Patria, Palermo; V. Maggiorani, Il sollevamento delle plebi di Palermo e del Circondario nel Settembre 1866, Palermo, 1866; A. Lipari, La settimana di Palermo, Palermo, 1866; Anonimo, Le sette giornate di Palermo, Napoli, 1866; G.F. Buo, Palermo, governanti e governati prima e dopo il tumulto di Settembre, Palermo, 1867; A. Maurici, Genesi della rivolta del 1866, Palermo, 1916; Inchiesta parlamentare sui fatti del 1866, Roma, 1867. 2. B. Fortier, Storia e pianificazione urbana: gli anni 1800, in P. Morachiello, G. Teyssot, Le macchine imperfette, Officina, Roma, 1980. 3. A. Farge, op. cit.
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4. Municipio di Palermo, Disposizioni relative al decoro, alla decenza, alla quiete e all’ordine pubblico, Archivio Storia Patria, Palermo, 1888. 5. H. Bresc, In ruga que arabice dicitur zucac…, les rues de Palerme (10701460), in Le Paysage urbain au Moyen Age, PUL, Lyon, 1981. 6. A questo proposito si veda un’analoga situazione a Parigi: quando scoppia il problema igienico, le fogne non le hanno neppure i quartieri alti e l’acqua corrente e la latrina in casa sono novità spesso guardate con sospetto e osteggiate da chi le sente come un segno di inferiorità sociale e comunque ha per sé altre soluzioni; R.H. Guerrand, op. cit. Un inquadramento generale si trova in J. Tarr, Decisions about wasterwater technology, 1850-1932, «Journal of the Water Resources Planning and Management Division», vol. 103, n. WRI, May 1977. Per la situazione tedesca, P.R. Gleichmann, Des villes propres et sans odeur; la vidange du corps humain, ses équipments et sa domestication, «Urbi», n. 5, 1982. 7. B. Barret-Kriegel, Les Demeures de la misère: le cholera morbus et l’emergence de l’habitat, in M. Foucault (a cura di), Politiques de l’Habitat, cit. 8. Citato in F. Beguin, op. cit. 9. Citato in G. Stedman Jones, Classi sociali, emarginazione e sviluppo, uno studio di storia urbana, De Donato, Bari, 1980. 10. R. Evans, Hygiène et intimité; figures, portes et passages, «Urbi», n. 5, 1982; R. Evans, Il contagio dell’immoralità, casa e famiglia nella Londra dell’800, trad. it. in P. Morachiello, G. Teyssot, Le macchine imperfette, cit. 11. Ph. Ariès, op. cit.; P. Meyer, op. cit. 12. Su Terrasini ragguagli e notizie storiche in V. Mangiapani, Cinisi, Palermo, 1910; G. Buffa Armetta, Carini, Palermo, 1925; F.P. Evola, La Parrocchia di Maria SS. delle Grazie, Palermo, 1949; N. Lo Vasco, Il comune di Terrasini dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, «Gazzara», ottobre 1963; D. Zerilli, Terrasini Favarotta, ricostruzione storica del territorio, Terrasini, 1976. 13. L’origine del nome sembra potersi ricollegare all’arabo faw¯wara, sorgente, polla, frequente nella toponomastica siciliana: Favara ecc.; cfr. G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Paideia, Brescia, 1972.
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14. Cfr. G. Ruffino, Parlata agricola e parlata marinara a Terrasini (Palermo), «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», n. 12, 1973; inoltre A.M. Consiglio, Le due culture di Terrasini: a proposito di una ricerca sul campo, «Uomo & Cultura», n. 5, 1972. 15. Sull’«appartenenza» presso le comunità marinare e rivierasche, cfr. l’introduzione di A. Cohen nel libro da lui curato, Belonging, Identity and Social Organization in Britain Rural Culture, Manchester University Press, Manchester, 1982, che tratta delle culture marinare del nord dell’Inghilterra. Più in generale, cfr. anche R. Blithe, Akenfield, Pantheon Books, New York, 1969. 16. Devo questa impostazione alle discussioni avute nell’autunno 1982 con Ivan Illich durante un suo semestre di insegnamento presso il Department of Environmental Design dell’Università di Berkeley, in California. È Illich a leggere la «sussistenza» di Polanyi come derivante da un accordo di «complementarietà ambigua», quella tra uomini e donne nelle società preindustriali. Per «complementarietà ambigua» Illich intende un rapporto in cui i due ambiti concorrono a un fine comune solo se difendono ognuno la propria sfera. In questa sua lettura, Illich è debitore di un vasto dibattito, alimentato in parte dall’etnostoria francese, in parte dalle elaborazioni antropologiche e storiche di scuola anglosassone e dalle riflessioni sul lavoro femminile di Barbara Duden, a quei tempi ricercatrice presso l’Istituto di Storia di Berlino. Per le tesi di Illich e per indicazioni sulla letteratura, cfr. anche Il genere e il sesso, Mondadori, Milano, 1984. Tra i contributi più rilevanti dal punto di vista della sensibilità spaziale si possono citare: C. Karnoch, L’étranger ou le faux inconnu. Essai sur la definition spatiale d’autrui dans un village lorrain, «Ethnologie française», n. 1, 1972 e, in particolare sulla liminalità e la sua percezione in un paese, Y. Verdier, Façons de dire, façons de faire. La laveuse, la couturière, la cuisinière, Gallimard, Paris, 1979; M. Segalen, Mari et femme dans la société paysanne, Flammarion, Paris, 1980. Si veda inoltre l’ottima raccolta di articoli su donne e spazio curata da S. Ardener, op. cit., e in particolare, a proposito di una cultura molto simile a quella di Terrasini-Favarotta, l’articolo di R. Hirschon, Essential Objects and the Sacred: Interior and Exterior Space in an Urban Greek Locality.
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17. Per un’impostazione problematica di questa affermazione, cfr. S.C. Rogers, Woman’s place. A critical review of an anthropological theory, «Comparative Studies in Society and History», n. 20, 1978; della stessa studiosa, Espace masculin, espace feminin. Essai sur la difference, «Études Rurales», n. 74, 1979. 18. Cfr. G. Pitré, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, 1889. 19. «Ti saluto, onda di mare / i miei guai ti vengo a lasciare / acqua, bell’acqua / dove beve il bue con la vacca / dove beve il re con la regina / la mia faccia diventi / una stella mattutina»; G. Bonomo, Scongiuri del popolo siciliano, Palumbo, Palermo, 1978. 20. Tutti i proverbi citati si trovano anche nella classica raccolta di G. Pitré, Proverbi siciliani, IV, Palermo, 1880. 21. Un’ottima casistica di luoghi «fuor di luogo» nel paesaggio moderno si trova in E. Relph, op. cit. 22. J.Z. Smith, To Take Place. Toward a theory in ritual, University of Chicago Press, Chicago, 1987. 23. R.P. Needham, Credere, trad. it. Rosenberg e Sellier, Torino, 1976. 24. J.Z. Smith, op. cit. 25. M.P. Nilsson, Greek Piety, Clarendon Press, Oxford, 1948. 26. I. Malkin, Religion and Colonization in Ancient Greece, Brill, Leiden, 1987; I. Malkin, La Place des dieux dans la cité des hommes, ou le decoupage des ares sacrées dans les colonies greques, «Revue d’Histoire des Religions», CCIIV, n. 4, 1987.
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CAPITOLO QUARTO
Ubiquità
Aria di casa, di centro, di quartiere per anni e anni, ovunque io giri. Ti ho creato nella gioia e nel pianto: tanti sono i fatti, tanti gli eventi che sei diventato tutto sentimento, per me. Costantinos Kavafis, Sullo stesso luogo1
Contrariamente a quello che si pensa, la nostra epoca è stata capace di elaborare alcune mitologie persistenti che hanno avuto un’influenza enorme sui modi di vivere delle persone, sulle motivazioni profonde, sul senso del futuro e del presente condiviso dai contemporanei. Buona parte di queste mitologie ha a che fare con utopie spaziali; o meglio, con manipolazioni reali e ideali dello spazio vissuto. Queste mitologie non sono diverse dai sistemi mitologici che hanno retto intere civiltà del passato, dalle costellazioni di senso che hanno sostenuto culture e popolazioni spingendole verso 119
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mete reali o completamente illusorie, ma altrettanto reali per gli effetti e le ricadute. La mitologia che ha accompagnato il ventesimo secolo fino alle porte dell’ieri è quella legata alla velocità, a quel rapporto spazio-tempo che viene improvvisamente alterato con le scoperte della trazione a vapore, del motore a scoppio, dell’elica, del volo, del jet. La velocità è una formidabile messa in discussione dell’impero del tempo. Il tempo viene violentato dalla possibilità della trasformazione dello spazio in spazio percorso, in spazio attraversato, sorvolato. Dentro alla mitologia della velocità sta la vertigine dell’eliminazione del qui a favore di un qui che si sposta con il desiderio e con l’urgenza. Aeroporti, treni veloci, traffico automobilistico diventano l’assicurazione quotidiana della trasformazione del tempo in tempo da percorrere e da comprimere. Non importa, ai fini della permanenza della mitologia, che buona parte di questa accelerazione comporti sacche terribili di rallentamento, sistemi controproduttivi del traffico, ingolfamenti, intasamenti. A fronte di una popolazione che si sposta velocemente, ce n’è un’altra cui viene impedito di spostarsi; a fronte della grande velocità, vengono eliminate tutte le altre possibilità di spostamento a passo d’uomo, di cavallo, di bicicletta, di autobus, di treno. Rimane intatta, però, la mitologia, quella stessa che dona alla seconda metà del ventesimo secolo i caratteri di una mondializzazione condivisa dalla mentalità comune. La gente sa che essere liberi corrisponde alla libertà di potersi muovere, di poter cambiare paese, di poter attraversare frontiere, di emigrare o di ritornare, o anche solamente di viaggiare. La globalizzazione si nutre della vertigine della velocità, ne sente l’urgenza come se fosse un nuovo diritto umano da far valere. È soltanto verso la fine del secolo che una nuova mitologia si impone, una costellazione diversa del pensiero e del desiderio collettivi. Doveva arrivare la rivoluzione informatica, quella che in teoria avrebbe dovuto rendere inutile la ve120
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locità, quella che avrebbe dovuto creare un’indifferenza all’essere qui invece che là. La rivoluzione informatica parte con l’assunto di una neutralizzazione dello spazio e del suo valore nella vita quotidiana delle persone. Nell’informatizzazione del mondo non c’è una mente locale, ma tutto ciò che è mente viene despazializzato, reso disponibile a una delocalizzazione generalizzata. Dovrebbe essere la fine della velocità e degli spostamenti. E invece no: alla mitologia della velocità si sostituisce una mitologia ancora più radicale, quella dell’ubiquità. L’idea è che, neutralizzato il tempo di spostamento, sia possibile vivere nel mondo in un tempo che è indifferente alla spazialità. Se posso essere a New York in meno tempo possibile partendo da Roma, in un tempo che va comprimendosi a cinque, tre, un’ora, allora è possibile pensare a una conquista del limite dell’ubiquità. Il jet-lag che sento ancora come l’effetto dello spostamento tra due luoghi diversi e lontani dovrebbe ridursi fino ad annullarsi del tutto. La mitologia si basa sull’idea che lo spostamento in sé è tempo perso e che bisogna andare verso una società che tragga il massimo profitto dall’ubiquità, dalla possibilità di essere contemporaneamente qui e là, anzi contemporaneamente qui e qui. Il passaggio dal «qui e là» al «qui e qui» sembrerebbe quasi una vittoria della mente locale, che annulla con l’assoluto localismo ogni idea di altrove e ogni idea di un «più in là». Lo spazio viene esaurito all’interno dei suoi margini di immediatezza e ridiventa un «ora e qui» da fruire subito. Come se trionfasse un immanentismo senza «al di là» spaziale: non c’è più dove andare, non c’è bisogno di spostarsi più, perché tutto è qui contemporaneamente. Questo sogno (perché di un sogno si tratta, senza dubbio) è un vecchio sogno dell’umanità, quello di infrangere i limiti del tempo che separa gli spazi, quello di sgonfiare la Terra della sua estensione per renderla tutta concentrata nel punto 121
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in cui siamo. È un’utopia vitalista, un’utopia che mescola il carpe diem con il collasso della fatica, del lavoro di percorrenza. La velocità ci conduceva a questo, l’ubiquità ne è il compimento, un compimento impossibile perché fino a ora possiamo comprimere i tempi che ci portano da un posto a un altro, possiamo «far finta» che questi tempi non ci siano, spostandoli nell’orizzonte della non coscienza e del sonno, ma è ancora impossibile credere che l’ubiquità sia reale. Così come sappiamo che l’ubiquità offerta dall’informatica, dalla «contemporaneità» e immediatezza che ci dà la rete, è solo in parte una vera ubiquità. Per crederci dobbiamo fare un atto di fede. La donna che amo e che vorrei toccare appare effettivamente sullo schermo, come se fosse di fronte a me; posso baciare la sua immagine e lei può sapere che la sto baciando, posso parlarle, bisbigliarle parole, ma c’è ancora uno schermo, un filtro, una parete infrangibile tra me e lei. La sua presenza è una promessa, perché quella che ho di fronte a me non è la sua presenza, ma una parvenza della sua presenza che si manifesta in tutta la sua irriproducibilità solo nella presenza reale che è dove è lei in questo momento. C’è, in un tale tentativo di «attualizzare» la presenza altrui tramite il web, qualcosa di commovente, un anelito fortissimo, utopico, ideale, struggente: «I wish you were here». C’è nell’ubiquità che chiediamo alla rete tutta la nostra voglia di compagnia e di compresenza. Ma per quanto vogliamo, non ci siamo ancora, per quanto possiamo illuderci, ci separano ore di volo o ore di auto o ore di cammino, e ci separa effettivamente il fatto che l’altro voglia diventare davvero presente accanto a noi. Lo stesso vale per il mondo. Posso seguire in diretta su Al Jazeera cosa sta avvenendo al Cairo in questo momento, posso sentirmi in mezzo alle cariche della polizia e ai lacrimogeni, prendere parte alla rivolta, ma non ci sono, in effetti, non rischio la pelle come coloro che sono lì davvero. Il 122
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mondo è accessibile per promessa di presenza, ma anche se ne vedo le fattezze e ne sento i rumori, anche se quello che vedo è il presente, è un «qui e ora» che si assimila al «qui e ora» della mia stanza. Ed è la discontinuità tra questi «qui e ora» che crea in me un irresistibile desiderio di ubiquità: «I wish I could be there». La cosa impressionante è che ogni tanto viviamo questo desiderio come se fosse realtà, ci sembra che quasi lo sia. È questa mitologia qualcosa di talmente evidente che potremmo quasi crederci, una simulazione della realtà che non è ancora la realtà, ma una simulazione cui la realtà dovrebbe infine aderire. Si badi bene che non c’è in questa descrizione alcun giudizio. La nostra, anzi le nostre mitologie non hanno niente da invidiare alla mitologia dei popoli dell’Amazzonia, all’epopea di Gilgamesh, all’epopea dei Rajput, alla mitologia del Socialismo realizzato o del Regno dei Cieli in terra. Nel nostro desiderio di ubiquità c’è una visione del mondo tutt’altro che disprezzabile, c’è l’idea di un anelito non a essere liberi, ma a essere dèi. Solo un dio può davvero vedere il mondo nella sua assoluta contemporaneità, solo un dio può essere attento e desideroso di abbracciare il mondo in tutti i suoi qui come se fossero un solo qui. Chi si scandalizza di questa mitologia dovrebbe scandalizzarsi di tutte le mitologie, perché tutte presuppongono una metafisica, un andare oltre l’evidenza e oltre la «realtà» con i limiti che sembra imporci. Nessuna epoca come la nostra ha tanto sognato di rimettere le carte in un’altra composizione, di giocare la partita in modo differente. Se c’è hubrys, in questo non è molto differente dalla hubrys di qualunque altro momento nella storia delle civiltà. Certo, la differenza è l’accelerazione di questo sogno, la sua pretesa urgente di diventare realtà e, spessissimo, il prendere il sogno per la realtà. Ma le mitologie non si negano, le mitologie vanno comprese nella loro profondità, sono non le verità o i principi di verità che 123
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ogni epoca produce (alla Foucault), ma i principi di mitologia che ogni epoca produce, il bisogno di spingere la realtà fuori dai suoi limiti. Il pantheon greco, le storie di Khrishna, il cristianesimo realizzato, la trance, la poesia, la musica sono altrettante maniere di rifiutarsi di accettare i limiti spaziotemporali. Noi contemporanei stiamo agendo sullo spazio e sul tempo come se fossero un materiale malleabile a piacere. È possibile comprimere a tal punto il tempo da far diventare tutto lo spazio del mondo uno spazio continuo? Anzi, uno spazio continuo che abbia le caratteristiche del tempo, cioè che sia fruibile adesso? Questo tentativo implica una capacità nuova dell’essere umano, quella di fare esperienza allo stesso tempo di più spazi. Per alcuni versi è una capacità antica, quel pensare di essere presenti a più livelli, di essere se stessi ma anche la reincarnazione di un antenato o di un animale totemico, di essere un mortale ma allo stesso tempo un’anima destinata all’immortalità, di essere l’ennesima reincarnazione di un avatar o di un essere che ritorna attraverso la ruota del tempo, o ancora di essere allo stesso tempo nel sogno e nella veglia, nel ricordo e nel futuro. Il modo con cui viviamo il tempo ci consente, ha sempre consentito all’umanità, di muoversi nello spazio del tempo come se fosse un «ipertesto», come se fosse costituito da stratificazioni e livelli multipli che consentono di passare dall’uno all’altro a piacimento. In noi possiamo avere sette e più strati di coscienza, sette e più livelli di percezione, e nella normale vita delle persone la memoria, la speranza, il presente possono agire davvero come spazi di vite parallele. Molte culture hanno elaborato l’idea di una multipla identità, di un’individualità che ne contenga in sé altre, a volte molte altre. Solo una concezione limitata dell’individualità può considerare qualunque gemmazione come una forma di schizofrenia. Il nostro tempo ci spinge, ci induce a pensare di essere contemporaneamente più persone. Gli stessi giochi di ruolo, le 124
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personalità che possiamo prendere in «Second Life», o in qualunque altra incarnazione sul web, sono solo l’effetto secondario del nostro desiderio di ricongiungerci con un io molto più ricco di quello che pensiamo di possedere. Se tutto questo è vero, rimane però il problema che un’ubiquità realizzata richiede una capacità di esperienza che non è quella cui siamo abituati. Che cosa sarebbe vivere davvero in contemporanea a Parigi, in un villaggio dell’Amazzonia e tra gli Eschimesi? Che cosa sarebbe sentire contemporaneamente il grigio freddo parigino, l’umido della foresta pluviale e il freddo dell’Artico? E che cosa sarebbe esserci davvero in questi tre posti contemporaneamente? Ci saremmo? Che caratteri avrebbe questo esserci che dovrebbe comunque fare i conti con un’assenza necessaria: non posso essere in un posto se non escludendone un altro (un paradigma cartesiano in base al quale la stessa transustanziazione del Cristo nell’ostia consacrata è impossibile perché postula l’assurdo di essere «veramente» in due posti, fisicamente, allo stesso tempo)? Certo si può evocare la possibilità di un overlapping di esperienze, di un sovrapporsi di sensazioni, immagini, stimoli, ma «sentire» davvero, fisicamente, di essere in un posto richiede una «discrezione» dell’esperienza, una capacità di discernimento che sola può dare all’esperienza un’evidenza di essere vissuta. Quello che l’ubiquità postula è la tensione verso una vertigine, la stessa che possiamo provare in un jet-lag, in una compressione dell’esperienza tale che la sensazione di essere da qualche parte sia coperta dalla sensazione di essere ancora altrove. Questa vertigine corrisponde abbastanza alla vertigine della velocità, in cui l’esperienza di un qui è continuamente negata e riaffermata. Se questo è il limite del poter fare esperienza dell’ubiquità, il suo carattere mitologico non viene però negato. Appunto perché l’ubiquità è un limite irraggiungibile, tutto può conformarsi verso quel limite. Sarebbe interessante chiedersi perché la nostra epoca ha bisogno di oscil125
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lare tra l’impressione dell’onnipresenza e la frustrazione della sua impossibilità. In questa forbice si gioca il nostro essere contemporanei, in questa forbice spesso ci accontentiamo della tensione che ci gioca tra un posto e un altro. In questo senso il nostro è un mondo che oscilla in maniera impressionante tra la mondializzazione e il localismo. Le stesse tendenze del web ci raccontano la tentazione che torna a impostare buona parte del futuro della rete su un ritorno alla geografia, alla localizzazione geografica. C’è una rivincita della mente locale che avrebbe a che fare proprio con una controtendenza della rete. Non bisogna però dimenticare che una delle caratteristiche della mente locale è proprio il lavoro che essa compie continuamente tra un oltre in cui perdersi e una ricostruzione di un centro. Nel localismo della rete c’è invece un saltare questa assimilazione dello sconosciuto al conosciuto, c’è un’illusione di una conoscenza generale come indifferente alla profondità accessibile solo alla mente locale. Non vorrei concludere prendendo partito, giudicando la mitologia contemporanea con un pessimismo fuor di luogo. Io non credo che esistano nonluoghi perché l’attività dell’abitare può trasformare qualunque località in un luogo. Questo però non implica che l’anelito all’altrove, l’anelito a un’idea di mondo a portata di mano, sia qualcosa di negativo, di alienante di per sé. Certamente, qui c’è alienazione, ma nel senso superficiale e profondo del bisogno di non «attenersi ai fatti», di non essere realista, di non essere localista. Siamo fatti di carne e geografia, ma siamo anche fatti di viaggi su tappeti volanti e di voli pindarici. Forse siamo il secolo per eccellenza dei voli pindarici e dei tappeti volanti. A questa profonda tentazione di essere dappertutto possiamo sopravvivere solo se ci prendiamo sul serio, solo se facciamo tesoro della nostra condizione antropologica, che oggi è diversa da qualunque nostro antenato. Oggi siamo davvero più ubiqui, oggi apparteniamo davvero a più mondi e a più luoghi, e se non nell’e126
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sperienza immediata di ubiquità, nella stratificazione della nostra esperienza siamo capaci di assumere e sintetizzare una condizione umana difficile, ma anche più ricca, più libera da ossessioni territorialiste e identitarie. L’ubiquità è una forma di nomadismo ideale. Occorre servirsene come di una coscienza del limite e gioirne come di una possibilità di felicità geografica prima inedita. Ovviamente è difficile, è molto più difficile che ripiegarsi su se stessi e fare centro laddove siamo. Questo non toglie alcun valore alla mente locale, la cui ricchezza è sperimentabile proprio come un ritorno dall’ubiquità, come il grimaldello che ci rende tutti i posti un po’ familiari, pur consapevoli che non lo potranno mai essere fino in fondo. Ma oggi mente locale non significa «sentirsi a casa» quanto piuttosto sapere che siamo capaci di trasformare il nostro essere al mondo in un accampamento innamorato, in un mettere radici sapendo che mai arriveranno a installarsi al punto tale da impedirci di sentire il vento che con i pensieri ci porta verso altre nostalgie. Il mondo è sicuramente meno indigeno, meno radicato, forse più povero per certi versi, reso meno «autentico», ma si sta arricchendo di una capacità di sguardo laterale, di allusione a quello che ancora non conosciamo, di apertura a ciò che è un po’ più discosto. Oggi sono proprio i migranti a insegnarci la multiappartenenza, l’innamoramento di luoghi diversi e lontani tra loro. Cerchiamo di avere il loro stesso coraggio, quello che loro hanno nel vivere, per essere capaci di leggere nel presente. Nota al capitolo 1. Costantinos Kavafis, Settantacinque poesie, a cura di N. Risi e M. Dalmàti, Einaudi, Torino,1992.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2011 presso Monotipia cremonese, Cremona per conto di Elèuthera, via Rovetta 27, Milano