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Italian Pages 220
Steven Hassan MENTALMENTE LIBERI Come uscire da una setta
Dedico questo libro a tutti coloro che hanno vissuto la perdita della libertà personale, nella speranza che possa essere d’aiuto nel lenire la loro sofferenza e quella dei loro cari.
INDICE I nuovi culti in Italia
9
di Cecilia Gatto Trocchi PREFAZIONE
14
di Margaret T Singer INTRODUZIONE
17
1.
EXIT COUNSELING: PROLOGO
20
2.
LA MIA VITA NELLA CHIESA DELL’UNIFICAZIONE
34
3.
IL CONTROLLO MENTALE NEI CULTI: UNA MINACCIA INCOMBENTE
63
4.
CAPIRE COS’È IL CONTROLLO MENTALE
86
5.
PSICOLOGIA DEL CULTO
116
6.
VALUTARE IL CULTO: COME PROTEGGERSI
140
7.
EXIT COUNSELING: LIBERTÀ SENZA COERCIZIONE 161
8.
COME AIUTARE
186
9.
COME SBLOCCARE IL CONTROLLO MENTALE
205
10.
STRATEGIE DI RECUPERO
230
11.
IL PASSO SUCCESSIVO
253
APPENDICE
268
Ringraziamenti Ringrazio di cuore i miei genitori, Milton ed Estelle Hassan, per il loro sostegno e amore. Ogni volta che ho avuto bisogno di loro erano lì, sempre pronti ad aiutarmi. Due splendide persone che, senza esitazione alcuna, hanno messo a repentaglio tutto quello che avevano pur di salvarmi dai moonisti. La mia riconoscenza nei loro confronti è infinita. Vorrei ringraziare le mie sorelle, Thea e Stephanie, e i loro rispettivi mariti Doug e Ken, per quanto hanno fatto in tutti questi anni. Ringrazio anche gli zii Phyllis e Mort Slotnick, che mi sono stati di grande aiuto. Desidero inoltre ringraziare Gary Rosemberg, Michael Strom, Nestor Garcia e Gladys Rodriguez per aver dato la loro piena disponibilità a trascorrere con me, nel 1976, i cinque difficili giorni che mi sono stati necessari per rientrare in contatto con la realtà. Senza il loro aiuto, forse avrei trascorso ancora molti anni tra i moonisti. Un riconoscimento particolare va alla memoria di mia moglie, Aureet Bar Yam, che per oltre sette anni ha dovuto far fronte agli incredibili impegni che il mio lavoro richiedeva. E’ morta in un tragico incidente, mentre cercava di portare in salvo il nostro cane. Una perdita incolmabile. La ricorderò sempre per il suo amore e il suo talento, per l’intelligenza e l’altruismo di cui era dotata, sempre pronta ad accorrere in soccorso del prossimo. I suoi genitori, i dottori Zvi e Miriam BarYam, sono stati fonte di amore, ispirazione e aiuto in così tante occasioni che mi è impossibile poterle qui ricordare. Vorrei anche ringraziare alcuni miei amici veramente speciali: Gary Birns, Marc ed Elyse Hirschorn, Monica Weiss, Lenny Harris, Karen Magarian, Joan Lebach, Michael Lisman, Russel Backer e Susan Mayer, Michael Stone, Chris e Lee Benton, Steve e Nell Morse e tanti altri ancora, così numerosi da non poterli menzionare tutti. Il mio riconoscimento va anche a coloro che non ho nominato, sapendo che sapranno riconoscersi tra queste righe. Vorrei inoltre ricordare coloro che mi hanno fatto da maestri e che sono stati per me fonte d’ispirazione. Ringrazio i dottori Robert Jay Lifton e Milton H. Erickson; la professoressa Margaret Singer, Ph.D.; Ho Conway e Jim Siegelman; John Grinder, Ph.D.; e poi ancora: Richard E3andler, Bill e Lorna Goldberg, David Gordon e Stephen Lankton. Amici, colleghi, ex pazienti hanno accolto con gioia la possibilità di condividere le loro esperienze, raccontando il coinvolgimento personale in culti e sette. Così facendo hanno apportato un impagabile contributo, arricchendo notevolmente questo mio lavoro. Li ringrazio molto per l’aiuto e l’incoraggiamento. Nei molti anni in cui ho lavorato nel settore del cultismo, ho avuto modo di incontrare e conoscere un gran numero di persone che considero e stimo essere tra le più capaci, le più altruiste e le più belle esistenti al mondo. 9
I NUOVI CULTI IN ITALIA di Cecilia Gatto Trocchi Il libro di Hassan schiude nuove prospettive sia interpretative che operative di grande interesse nei riguardi del problema dei culti distruttivi, fenomeno che è oggi presente in larga misura anche in Italia. A una prima analisi antropologica potrebbe sembrare che il nostro Paese, di tradizione cattolica per quanto riguarda la cultura “popolare” e Laico - razionalista per quanto riguarda la cultura d’élite, sia la terra più inospitale per la diffusione di culti e sette. Ma in realtà non è così: tra non molto l’Italia non avrà più nulla da invidiare alla California, patria conclamata dei nuovi culti. Dopo il crollo delle ideologie politiche e dell’impegno “rivoluzionario”, nuove forme religiose si sono diffuse in modo rilevante, spesso come alternativa alla dispersione urbana, l’isolamento, la neutralità affettiva, la confusione dei valori fondanti, la crisi della famiglia e talvolta del le istituzioni. I nuovi culti mostrano un’estrema varietà di forme e un forte sincretismo, che mescola elementi presi dalle tradizioni più disparate. Un interesse vagamente spiritualista si impone nelle città ricche e annoiate, trovando vasta eco nella piccola e media borghesia e tra i giovani, portatori di un maggiore disagio sociale. Nella cultura diffusa aleggia da tempo un’aria misticheggiante, una nebbia sottile che si autodefinisce “spiritualità alternativa” e che confonde le acque in maniera opprimente. Culti di varia provenienza si diffondono in Italia, appoggiandosi al pluralismo e al relativismo dei valori, mentre non di rado si fa ricorso a legittimazioni spurie in cui campeggia la psicologia del profondo, spesso poco conosciuta e mal digerita. I nuovi movimenti religiosi si possono classificare in base a tre elementi: le origini storiche, il contenuto dottrinale, le modalità di organizzazione. Orientarsi in questo mondo caleidoscopico e bizzarro è estremamente difficile, come è difficile identificare la natura dei nuovi culti e la loro eventuale potenzialità distruttiva, cosicché muoversi con accortezza nelle proprie scelte si configura come un imperativo di vitale importanza a cui il libro di Hassan può dare notevole contributo. L’opinionismo imperante — per cui chiunque parla ha ragione — e il “politicamente corretto” pongono sullo stesso piano oscuri culti orgiasti ci e grandi tradizioni religiose, gruppi seguaci della dea Kali e teologi impegnati. Nelle università si invitano sedicenti sciamani siberiani che realizzano i loro riti con tanto di “tende dei sudori” e cadute in trance. Tutto appare migliore della tradizione cristiana: i sacrifici umani dei Maya, la filosofia indiana del non-essere, la magia africana, i riti sessuali dei seguaci del tantrismo, le profezie dei druidi. Le catastrofi culturali del Novecento e l’abbandono graduale ma costante nei riguardi delle religioni tradizionali, spingono capi carismatici e santoni improvvisati a organizzare culti dal vivace proselitismo, celebrati in luoghi che si configurano spesso come centri psicologici o del potenziale umano. L’elemento iniziatico della segretezza rende i nuovi culti delle comunità ideali, ove leggi particolari regolano la vita degli adepti e dove la volontà del capo e dei dirigenti è sovrana. In tale contesto, entrare nella setta è considerato un dono prezioso, una sovrumana possibilità. 10
All’interno delle sette si promette all’adepto che il suo potenziale sarà fruito in tutta la sua pienezza e in tale ambito il controllo della mente è accettato come passo obbligato per raggiungere i “poteri”, vuoi di autoguarigione, di purificazione, di immortalità. Hassan definisce molto chiaramente le tre fasi che costituiscono il procedimento necessario per raggiungere il controllo della mente, che chi scrive ha sperimentato sottoponendosi alle tecniche proposte dai culti e dalle psico-sette. Il procedimento che Hassan chiama destrutturazione consiste nel privare l’adepto dei punti di riferimento culturali ereditati dall’educazione. Il cambiamento è nella proposta di una nuova visione dell’uomo e del mondo e la ristrutturazione è la riforma del pensiero, volta a sottomettere la persona alle leggi del gruppo settario. Mentre i gruppi che si autodefiniscono “cristiani” (di matrice neo-protestante) fanno riferimento in modo più o meno distorto alla Bibbia, i gruppi “orientaleggianti” e quelli magici ed esoterici rimandano a una dottrina millenaria in cui si dovrebbero poter riscoprire i poteri super-naturali dell’uomo, doti che sarebbero state occultate dalla cultura occidentale, la cui matrice viene identificata nella filosofia greca razionalista e nella teologia ebraico-cristiana. Il monoteismo è visto come una grande sciagura, mentre il politeismo, rimodernato e mescolato a supposte tesi psicoanalitiche, sarebbe la base per ottenere poteri sublimi. Avendo io stessa subito più di sessanta iniziazioni, posso garantire che la procedura di riconquista del potenziale umano viene rivelata dopo mesi e mesi di lezioni melense e noiose, che al di sotto di un’apparente diversità sono penosamente simili. Per prima c’è la grande rivelazione della nostra natura “divina”, ricavata da un sincretismo a dir poco bizzarro che va dalla cabala ebraica a uno gnosticismo di seconda mano, dalle religioni orientali a una pseudoscienza chiamata “scienza di confine”. L’altro fronte di azione è quello delle pratiche e dei rituali da compiere alla perfezione, senza sbagliare mai, pena la non divinizzazione dell’adepto. Anche qui la prassi è dettata dalla fantasia dei capi carismatici, che propongono un vasto campionario di riti in cui può comparire la confessione del proprio passato in termini spesso drammatici, la ripetizione di parole “potenti”, la purificazione a base di saune, la meditazione, l’autoipnosi e altre tecniche capaci di indurre uno stato alterato di coscienza. L’ultimo traguardo per acquistare i poteri è la trasgressione di tutte le leggi morali e degli imperativi categorici. Alcuni governi europei stanno osservando il fenomeno con apprensione. In Francia, già nel gennaio 1996 l’Assemblea Nazionale aveva fatto eseguire un’indagine, nota come Rapporto Guyard, in cui si identificavano alcuni movimenti magico-occultisti o estremistifondamentalisti da tenere sotto controllo. Nel 1997 il governo tedesco ha messo sotto sorveglianza alcuni culti, mentre in Austria i partiti hanno ratificato una delibera per escludere nel loro ambito gli appartenenti ai culti controversi. In Italia, il rapporto del Ministero dell’Interno del febbraio 1998 (“Sette religiose e nuovi movimenti magici in Italia”) ha sortito non già allarmismo ma indignazione da parte di molti intellettuali. Le iniziative a “difesa” dei nuovi culti si sono moltiplicate, mentre la semplice analisi neutrale, che non fosse altamente elogiativa oppure in grado di scoprire le attività finanziarie dei culti stessi (spesso assai prospere), è stata tacciata di “intolleranza”. 12
Con intraprendente aggressività, i nuovi culti hanno iniziato una controffensiva in nome della libertà di religione. Si moltiplicano gli opuscoli difensivi, in cui si stigmatizzano i governi dalla linea “dura”. Oltre alla strategia di difesa palese, alcuni culti hanno messo in atto tattiche specifiche per rendere più rigorosi i segreti nei vari circuiti di iniziazione, e mentre sulla stampa e in TV si svolgono campagne pubbliche a favore della libertà religiosa, nei circoli interni “privati” i giuramenti di segretezza e gli obblighi al silenzio si fanno più pressanti. Le presunte “persecuzioni” rendono gli adepti degli eroi in miniatura, ancora più esposti al plagio dei dirigenti. Molti gruppi si sono nuovamente immersi nella clandestinità, rendendo meno agevole il controllo ma anche la stessa conoscenza “critica” di rituali e cerimonie. La Chiesa dell’Eutanasia, un gruppo estremo che propaganda come strumenti di santificazione il suicidio, l’aborto, il cannibalismo e la sodomia, ha cessato le sue pubblicazioni. Il capo Scott La Mort e il suo vescovo, reverendo Korda, fino a pochi mesi fa sostenevano che la Terra non è in grado di ospitare l’umanità. La setta prometteva di raggiungere il suo obiettivo, la cancellazione dell’uomo dalla faccia del pianeta, proponendosi di diffondere virus letali attraverso l’azione di un circolo più interno, il cosiddetto “Fronte di liberazione Gaia”. E’ assai importante diffondere oggi la lettura del testo di Hassan, che evidenzia i meccanismi della riforma del pensiero, del controllo delle emozioni e del comportamento da parte di molti culti. Il meccanismo di destrutturazione, cambiamento e ristrutturazione è alla base della prassi dei nuovi culti, che procedono annullando le conoscenze dell’adepto per ricostruirne altre, conformi all’ideologia del leader. Il testo di Hassan si propone come una guida per chi è venuto a contatto dei culti distruttivi e vuole rendersi conto delle proprie scelte. Cecilia Gatto Trocchi Docente di Antropologia Culturale Università di Perugia 13
Breve bibliografia AA.VV., Religioni e sette nel mondo, rivista del Gruppo di Ricerca e Informazione sulle Sette (GRIS Bologna, 1992-1999. AA.VV, Le sette religiose, Ancora, Milano, 1997. Barker E., I nuovi movimenti religiosi, Mondadori, Milano, 1991-1999. Del Re M., Nuovi idoli, nuovi dei, Gremese Editore, Roma, 1988. Di Fiorino M., L’illusione comunitaria. La costruzione delle “comunità” artificiali, Moretti & Vitali, Bergamo, 1998. La persuasione socialmente accettata, il plagio e il lavaggio deI cervello, Psichiatria e territorio, Forte dei Marmi, 1990, VoI. I. Galanter M., Culti, Sugarco Edizioni, Varese, 1993. Gascard i, Le nuove religioni giovanili, Edizioni Paoline, Milano, 1986. Gatto Trocchi C., Le sette in Italia, Newton Compton, Roma, 1996. Nomadi spirituali. Mappe dei culti del nuovo millennio, Mondadori, Milano,1998. Introvigne M., Le sette cristiane, Mondadori, Milano, 1989. Lacroix M., L della New Age, I Saggiatore, Milano, 1998. Merlini M., Pescatori di anime. Nuovi culti e Internet, Avverbi, Roma, 1998. Pace E., Le sette, Il Mulino, Bologna, 1998. Villa G., Delirio e fine del mondo, Liguori Editore, Napoli, 1987. Le Associazioni Allarme Scientology: http ://xenu.com-it.net Associazione Ricerca e informazione sulle Sette (ARIS): Via Brunelleschi 2, 20100 Milano; e-mail: [email protected] Gruppo Ricerca e Informazione sulle Sette (GRIS tel. 06/69881891, 0338/91- 79193; e-mail: gris.lazio http://members.xoom.com/grisromal Telefono Antiplagio: C.P. 389, 09124 Cagliari tel. 0338/8385999; http://iso da. com/antiplagio .htm Telefono Arcobaleno: Via E. Filiberto 50, 96012 Avola (SR) tel. 0931/56098-823497, fax 823816; e-mail: [email protected]; http://www.viesse .it/arcobaleno Nota del Curatore: le organizzazioni che nel libro compaiono in traduzione italiana sono riportate in lingua originale nell’indice analitico. Nel libro sono citati una serie di procedimenti giudiziari, avvenuti o ancora in corso negli Stati Uniti, sulla cui conclusione o sugli eventuali sviluppi non siamo al corrente e quindi non è stato possibile aggiornare la versione dell’autore, datata 1990. Nel corso del libro l’autore fa riferimento alla realtà statunitense dell’exit counseling ed ai terapeuti che hanno conseguito questa particolare specializzazione. Da quanto ci risulta, tale specializzazione è ad oggi ancora poco conosciuta in Italia
Il libro di Hassan può proporsi quindi come strumento per psicologi e terapeuti che vogliano intraprendere questo poco frequentato e non facile percorso. 14 PREFAZIONE di Margaret T. Singer Le quattro e mezzo del mattino: il telefono squilla all’impazzata. Non è facile capire quanto il giornalista della Berkeley Gazette mi dice all’apparecchio: “Margaret, mi spiace doverti disturbare a quest’ora, ma è stata appena data la notizia che Jim Jones ha dato fuoco alla miccia, giù in Guyana. Ho passato tutta la notte in una casa di Berkeley a parlare con ex membri del Tempio del Popolo e con i familiari di alcune persone che si trovano a Jonestown. C’è una signora che laggiù ha il marito e il figlio dodicenne: è disperata. Non si sa ancora se sono morti tutti o se ci sono dei superstiti. So di averti consigliato a suo tempo di non lavorare con gli ex membri del Tempio del Popolo. So di essere stato io stesso a metterti in guardia dal rischio delle ritorsioni dei cosiddetti ‘Angeli’ di Jones nei confronti degli ex membri. Ma queste persone con tutto quello che è successo, hanno un disperato bisogno di parlarti ed essere aiutate”. Stava albeggiando quando salii le scale su cui erano di guardia alcuni poliziotti di Berkeley. Si temeva, infatti, che Jones avesse potuto lasciare “ordini d’attacco” ad alcuni membri ancora presenti nella zona. Il loro compito sarebbe stato quello di eliminare coloro che fossero scappati, abbandonando il gruppo, all’annuncio di Jones che era arrivato il momento di celebrare la più volte paventata “White Night”, l’estremo gesto che avrebbe portato i suoi seguaci a suicidarsi in massa bevendo veleno. Il giornalista che mi aveva chiamato, mio figlio (anch’egli giornalista) e alcuni agenti della polizia mi avevano a suo tempo consigliato di non fornire la mia solita consulenza gratuita ai fuoriusciti dal Tempio del Popolo, anche se ero una veterana nel campo dell’assistenza agli ex cultisti: si era sparsa la voce che Jones avesse impartito ai suoi “Angeli” l’ordine di vendicarsi non solo dei disertori, ma anche di coloro che prestavano loro aiuto. La donna, il cui marito e il giovane figlio furono poi identificati tra i morti di Jonestown, era solo una dei tantissimi familiari angosciati. Ho passato intere giornate a parlare con i numerosi sopravvissuti che, tornati dalla Guyana all’indomani dell’olocausto e approdati alla Bay Area, tentavano disperatamente di tornare a una parvenza di vita normale. Tra essi c’erano l’avvocato Tim Stoen e sua moglie Grace, il cui giovane figlio era andato a Jonestown e lì era morto. C’erano i giocatori di una squadra di basket che erano scampati al suicidio-omicidio di massa. Tra i sopravvissuti c’era anche una bambina di nove anni, trovata ancora in vita nonostante il colpo infertole alla gola da una donna che si era poi suicidata a Georgetown: un’altra di quelle persone che avevano messo in pratica quanto impartito da Jones. E c’era anche Larry Layton, sotto processo in due diversi Paesi con l’accusa di aver eseguito gli ordini di Jim Jones all’aeroporto della Guyana, dove persero la vita il parlamentare del Congresso Leo J. Ryan e altre persone. La mia attività di aiuto ad ex cultisti prese il via circa sei anni prima dei fatti di Jonestown ed è una consulenza che svolgo tutt’oggi. Ho fornito assistenza psicologica a oltre tremila persone che avevano aderito a una qualche setta e i risultati di questi anni di lavoro sono stati in parte pubblicati in alcuni miei scritti. 16
Iniziai a interessarmi di riforma del pensiero nel periodo in cui lavoravo al Walter Reed Army Institute of Research, negli anni immediatamente successivi alla guerra in Corea. Fu allora che iniziai a lavorare con Edgar H. Schein, Ph.D, e con i dottori Robert J. Lifton e Louis J. West, veri e propri pionieri nello studio degli effetti dei programmi di indottrinamento intensivo. Presi parte alle ricerche sulle conseguenze a lungo termine di tali programmi sulla psiche degli ex prigionieri di guerra. Ebbi così modo di intervistare soldati catturati dai cinesi e costretti a lunghi periodi di detenzione. Partecipai inoltre, nel corso degli anni, a gran parte del lavoro svolto per individuare i principi basilari del programma di riforma del pensiero. Come fa Hassan in questo libro, ho ripetutamente scritto dei soggetti che hanno subito tale indottrinamento e dei loro bisogni specifici. Non ho mancato di sottolineare come cause ed effetti del controllo del pensiero siano sconosciuti non solo alla maggior parte dei cittadini ma anche ai professionisti che lavorano nel campo del disagio mentale. Steve Hassan ha descritto in maniera chiara e convincente come viene esercitato il controllo mentale. Egli ha saputo mettere insieme la sua personale esperienza nell’ambito di un gruppo di culto, le sue capacità professionali — che gli derivano da dodici anni di attività di consulenza a persone che si sono trovate in situazioni di controllo mentale — e le teorie e i concetti della letteratura scientifica. Quello di Hassan è un libro che ci trascina nella drammaticità di fatti realmente avvenuti. E’ la prima volta che un exit counselor di grande esperienza descrive nei minimi dettagli metodologie, procedimenti e contesto in cui opera, spiegando minuziosamente l’approccio usato con coloro che sono stati vittime del controllo mentale e le loro famiglie. Hassan illustra i vari studi scientifici sulla riforma del pensiero, sulla persuasione, sulla psicologia sociale e sull’ipnosi, per offrire schemi teorici delle modalità adottate per raggiungere il controllo mentale. L’exit counseling è una nuova professione e Steve Hassan descrive in questo libro una forma di counseling a carattere etico ed educativo, così come è stata da lui sviluppata insieme ad altri. il lettore è in grado di seguire Steve Hassan dai primi contatti telefonici con le famiglie in preda alla disperazione fino al momento conclusivo dei suoi interventi. Queste tecniche di counseling sono state ben studiate sia dal punto di vista sociale che da quello psicologico: esse stimolano lo sviluppo della personalità del soggetto nel pieno rispetto dell’etica. A fronte di una grande richiesta di aiuto, i professionisti dell’exit counseling esperti e adeguatamente preparati sono in realtà pochi. L’exit counseling si occupa di un settore ben specifico, che richiede un’adeguata conoscenza e necessita di tecniche e metodologie proprie, oltre che di elevata capacità professionale. Questo libro dovrebbe andare incontro alle esigenze di molti. Costituirà sicuramente un valido aiuto per chiunque abbia un parente o un amico coinvolto in un gruppo che usa tecniche di controllo mentale. Ma non solo. Tutti potranno trarne beneficio, innanzitutto capendo quanto ognuno di noi possa essere vulnerabile e influenzabile e scoprendo come, di fatto, il controllo mentale sia una realtà e non una leggenda. Dobbiamo tener conto sia del potenziale di distruttività che del temibile impatto che l’uso del controllo mentale, messo in atto da gruppi egoisticamente motivati, può avere nel tessuto sociale di una collettività. Questo libro colma una lacuna e merita un ampio pubblico di lettori. Margaret T. Singer, Ph.D. 17
Professore Aggiunto, Facoltà di Psicologia
University of California, Berkeley, California Insignita del Leo i. Ryan Memorial Award INTRODUZIONE Subito dopo l’uscita della prima edizione di Combatting Cult Mind Control, sono stato contattato da centinaia di persone desiderose di comunicarmi l’influenza positiva esercitata dal libro stilla loro vita. Avvocati, educatori, professionisti della salute mentale e sacerdoti hanno voluto raccontarmi di come quest’opera li abbia aiutati nel loro lavoro. Molte famiglie mi hanno riportato storie incredibili, narrandomi di come, dopo averlo letto, abbiano messo in moto una serie di telefonate e incontri, riuscendo a intervenire con successo nei confronti di un loro caro in difficoltà. Ma non vi è nulla che mi gratifichi di più quanto l’apprendere, dalle persone stesse che per anni sono state coinvolte in un culto distruttivo, che la lettura di questo libro le ha aiutate a tornare libere. A tutti coloro che si considerano seguaci o ex seguaci di una qualche “controversa” organizzazione o che abbiano un familiare o un amico che abbia aderito a un’organizzazione del genere, vorrei dare qualche breve suggerimento.
• Se sei un seguace (o un ex seguace) di un gruppo o un’organizzazione che si spaccia come culto. Potrai scoprire che cercare di andare a fondo per apprendere la verità su questo fenomeno è cosa che può richiedere una grande dose di coraggio, forza e integrità. Ma per quanto difficile ciò possa essere, tieni bene a mente i benefici che trarrai dalla lettura di questo libro. La conoscenza è potere. Potresti anche scoprire che, sebbene l’opinione pubblica consideri il tuo gruppo alla stregua di un culto, in realtà al suo interno non viene esercitata alcuna forma di controllo mentale. Sono stato ringraziato innumerevoli volte da affiliati di organizzazioni non ortodosse perché il mio libro, con i criteri e le procedure in esso illustrati, ha finalmente consentito loro di dimostrare a familiari e amici che l’adesione all’associazione non aveva compromesso il loro libero arbitrio. Se stai mettendo in discussione l’etica, la politica o le attività del tuo gruppo, avvicinati a questo libro senza preconcetti. Usa però molta cautela nel far sapere ad altri seguaci del gruppo che lo stai leggendo, perché ciò potrebbe creare sospetti e far prendere alla dirigenza del gruppo provvedimenti disciplinari nei tuoi confronti. Se ciò fosse possibile, concediti una pausa e allontanati per un po’ dagli altri discepoli. Fallo senza alcun indugio. Scegliti un luogo dove non ci siano né pressioni né distrazioni. Ti raccomando fortemente di leggere questo libro almeno due volte. Nel corso della prima lettura immagina che si stia parlando di altri gruppi (preferibilmente quelli che a tuo parere sono distruttivi) e concediti l’opportunità di capire a fondo il processo del controllo mentale e le caratteristiche dei culti distruttivi. Mentre leggi, prendi appunti. Annota ciò su cui sei d’accordo, ciò che non condividi e anche gli argomenti che vorresti approfondire. Dopo di che metti in opera tutte le necessarie ricerche, in modo da poter rispondere esaurientemente a ogni domanda. Quando hai finito di leggere il libro, concediti una pausa di alcuni giorni prima di riprenderlo. La seconda volta, leggilo in maniera distaccata, considerando oggettivamente la possibilità di applicarne i principi alla tua situazione personale. 18
Prepara un’altra lista di appunti; annota nuovamente ciò che condividi e ciò che non approvi; annota l’eventuale necessità di condurre ulteriori approfondimenti. Quando hai completato la seconda lettura, cerca le risposte ai problemi che riguardano il tuo gruppo. Prenditi del tempo libero (se possibile, almeno qualche settimana) e vai in un posto tranquillo, lontano dai membri del gruppo, per raccogliere ulteriori informazioni da altre fonti.. Ricorda .che se il tuo gruppo è un ‘organizzazione pienamente legittima e del tutto valida, allora sarà in grado di sostenere qualsiasi esame. E’ molto meglio sapere subito la verità piuttosto che spendere tempo denaro, energia e risorse personali per scoprire, dopo anni, che il gruppo è ben diverso dall’immagine che se ne aveva. La verità è più forte della menzogna e l’amore lo è più della paura. Se sei coinvolto in un’organizzazione di tipo religioso, ricordati che siamo stati creati dotati di libero arbitrio e nessun gruppo realmente rispettoso dei principi spirituali potrebbe mai usare l’inganno o il controllo mentale per privarti di questa libertà.
• Se sei un familiare o un amico di una persona che ha aderito ad un culto che tu sospetti essere distruttivo. È meglio affrontare il problema in modo sistematico e metodico. Evita l’isterismo e le reazioni eccessive! È inutile mettere il carro davanti ai buoi, andando a raccontare alla persona interessata che hai comprato questo libro o che lo stai leggendo. Aspetta finché tu e altri familiari abbiate avuto la possibilità di leggerlo fino in fondo e di sentirvi preparati in materia. Solo dopo averlo fatto, pianificate una strategia d’intervento. Sfortunatamente, si sono verificati casi in cui il libro è stato acquistato e impulsivamente spedito all’affiliato, con l’unico risultato di aumentare la sua sfiducia verso il mondo esterno. La maggior parte dei gruppi cultisti teme l’exit counseling e sapere che stai leggendo questo libro potrebbe spingerli a sospettare che tu stia per intraprendere una qualche azione contro di loro. Anziché’ suonare l’allarme, assumi un atteggiamento di vigile curiosità. Cerca di evitare sfide o ultimatum. Leggi e rileggi il libro fino a quando non sarai in grado di spiegare chiaramente agli altri le caratteristiche del controllo mentale, i criteri che contraddistinguono un culto distruttivo e i concetti base della psicologia cultista. Cerca di coinvolgere nel dibattito il maggior numero possibile di persone che siano alle prese con il recupero di un loro amico o familiare. Sarebbe un buon inizio se anche loro leggessero questo libro: se tutti saranno adeguatamente informati, nessuno potrà essere colto di sorpresa! Sebbene questo libro possa essere considerato una guida, è opportuno ricordare che nulla può sostituire un consulto professionale che prenda in esame la tua situazione specifica, che è sempre e comunque unica. Non esitare a cercare un simile aiuto tra coloro che sono qualificati e ben informati in materia. 20
Capitolo 1 1. EXIT COUNSELING: PROLOGO Finalmente un ‘occasione per rilassarmi, dimenticare il lavoro e godermi qualche momento assieme ai miei amici E perché no, fare nuove amicizie a una festa. Spero solo che nessuno mi domandi che lavoro faccio. “Ciao. Mi chiamo Steve Hassan. Piacere di conoscerti”. “Ciao! . ..E così: cosa fai per vivere?”. Oh no, di nuovo! Cercherò di svicolare. “Sono un libero professionista”. “In che settore?”. Non ho scampo “Faccio l’exit counselor”. Ed eccoci alla solita raffica di domande. “Davvero? Interessante! Com’è che sei entrato in questo campo? A proposito, puoi spiegarmi perché..’. È dal febbraio del 1974 che mi occupo dei problemi causati dai culti distruttivi. Tutto ebbe inizio quando venni reclutato nella Crociata per l’unità del mondo,’ un’associazione di facciata della Chiesa dell’Unificazione, nota anche come “i moonisti”. Dopo essere stato membro del culto per due anni e mezzo, e dopo aver subito un incidente d’auto nel quale ero rimasto gravemente ferito, fui deprogrammato. Da allora, sono attivamente impegnato a contrastare l’attività dei culti distruttivi. Sono diventato un terapeuta professionista e vado ovunque si richieda il mio operato. Il mio telefono squilla a tutte le ore. I miei pazienti sono persone che hanno subito danni sia emotivi che relazionali, talvolta anche fisici, a causa del loro coinvolgimento in un culto distruttivo. Aiuto queste persone a recuperare se stesse e a iniziare una nuova vita, seguendo un metodo terapeutico che li sostiene nel fuoriuscire dalla setta in maniera meno traumatica di quanto non avvenga con la deprogrammazione forzata. Preferisco chiamare il mio lavoro exit counseling, per distinguerlo dalla deprogrammazione e da altre forme di consulenza. Il lavoro mi assorbe completamente e il mio coinvolgimento con l’interessato e la sua famiglia è totale, arrivando talvolta a richiedere interi giorni: io chiamo questi periodi intensivi “interventi”. Normalmente riesco ad assistere una persona nel drammatico processo di ritorno alla sua reale identità. Poiché rispetto ai membri di culti distruttivi, le persone che nel mondo svolgono un’attività del genere sono poche, questo libro svela per la prima volta gran parte degli aspetti più significativi di questa singolare professione. Inoltre, dal momento che i culti distruttivi costituiscono una deliberata minaccia alla vita democratica, sono anche un attivo sostenitore della protezione dei diritti umani. Il mio principale interesse è informare dell’esistenza di tecniche altamente raffinate per adescare, porre sotto controllo e sfruttare persone dotate di capacità e ingegno. E su questi problemi che durante gli ultimi dodici anni ho concentrato tutte le mie energie di attivista e di terapeuta. Nella mia vita di exit counselor ho spesso la sensazione di trovarmi al centro di un campo di battaglia. Nei sette anni di vita in comune, mia moglie Aureet dovette affrontare le situazioni più incredibili, che gettavano lo scompiglio nella nostra vita familiare. Anche se cerco di non appesantire troppo il mio carico di lavoro, vedendo solo un ragionevole numero di persone alla
settimana e pianificando non più di due interventi al mese, gli imprevisti finiscono sempre per mandare all’aria i miei progetti. 21
Un venerdì sera Aureet e io tornammo a casa tardi, dopo una serata trascorsa con gli amici. La segreteria telefonica aveva registrato quattro chiamate provenienti da una famiglia del Minnesota. “Per favore, ci telefoni a qualsiasi ora, anche di notte”, implorava una voce femminile. “Nostro figlio è stato incastrato dai moonisti. Lunedì dovrebbe partire per un seminario di tre settimane che si tiene in Pennsylvania. Ha un dottorato di ricerca in fisica al MIT. La prego, ci richiami”. Chiamai immediatamente e parlai per un’ora con i genitori, i quali avevano saputo che il figlio aveva aderito a un’organizzazione chiamata CARP (Collegiate Association for the Research of Principles). Dopo qualche indagine, avevano scoperto che il CARP altro non era che l’associazione internazionale della Chiesa dell’Unificazione per il reclutamento degli studenti. Fummo d’accordo che non c’era tempo da perdere; discutemmo la situazione e preparammo un piano d’azione. Il giorno dopo i genitori avrebbero preso il volo delle 6.45 per Boston e sarebbero andati dal figlio, lo avrebbero portato a pranzo fuori ed infine avrebbero tratto le loro conclusioni. L’esito dell’incontro dipendeva dal tipo di rapporto che Bruce aveva con suo padre e sua madre e dal grado di indottrinamento che i moonisti erano già riusciti ad ottenere. Avevano già raggiunto l’intento di fargli considerare la sua famiglia “satanica”? I genitori mi assicurarono che sarebbero riusciti a parlargli. Io non ne ero così sicuro, ma fui d’accordo che valeva la pena tentare. La mia esperienza con i moonisti mi faceva pensare che se Bruce avesse partecipato a quel seminario di tre settimane, da lì in poi sarebbe rimasto incastrato nelle maglie del culto. Il passo successivo che i genitori dovevano fare era quello di convincerlo a parlare con me. Mi domandavo se ci sarebbero riusciti. I moonisti svolgono un lavoro molto accurato per convincere gli adepti che gli ex membri sono satanici e che perfino trovarsi in loro presenza può essere pericoloso. In ogni caso, non potevo che rimanere in attesa. Il mattino seguente registrai un programma televisivo su culti e sette, cosa che faccio frequentemente, in diversi angoli del Paese. Quindi cancellai tutti gli appuntamenti del giorno. I genitori di Bruce chiamarono dall’aeroporto di Boston: erano arrivati e stavano per recarsi a casa del figlio. Passammo nuovamente in rassegna il nostro piano. Tenni le dita incrociate. Due ore dopo, il telefono squillò di nuovo. Erano riusciti a portare Bruce a un ristorante cinese non lontano da casa mia e il ragazzo aveva acconsentito a incontrarmi. Raccolsi tutto quello che pensavo potesse essere utile — dossier, fotocopie di articoli, libri — caricai tutto in macchina e mi diressi al ristorante. Non appena arrivato, mi accorsi subito che dai volti dei genitori trapelava ansia e sconcerto. Bruce sulle prime cercò di sorridermi e mi strinse la mano, ma a me apparve chiaro che stava pensando: “Posso fidarmi di questo tizio? Chi è?”. Sedetti assieme a Loro nel separé del locale. Rivolsi a Bruce qualche domanda di carattere personale e gli chiesi perché, a suo avviso, i genitori fossero preoccupati al punto da prendere un aereo per recarsi lì da Minneapolis. In capo a un’ora, dopo avergli fatto abbastanza domande per rendermi conto delle sue condizioni da un punto di vista psicologico, mi arrischiai a porgli una domanda delicata. 22
“Ti hanno già parlato della cerimonia di impegno?” gli chiesi. Scosse la testa sorpreso: “No, cos’è?”. “E’ una cerimonia molto importante, che i seguaci celebrano ogni domenica, ogni primo del mese e nei quattro giorni sacri che il gruppo osserva”, iniziai a spiegargli. “I membri si inchinano per tre volte, toccando il pavimento con la fronte, davanti a un altare su cui vi è un’immagine di Sun Myung Moon e recitano l’impegno, riassunto in sei punti, con cui promettono di essere fedeli a Dio, a Moon e alla patria. Cioè la Corea. “Sta scherzando! “. A quel punto capii che Bruce ce l’avrebbe fatta. Dal momento che non si trovava ancora sotto il controllo mentale del gruppo, sapevo che sarebbe stato recettivo e pronto a ricevere ulteriori informazioni sul leader dell’organizzazione, il multimiliardario magnate dell’industria coreana, Sun Myung Moon. Iniziai a parlargli di fatti non correlati al controllo mentale, accennai all’imprigionamento di Moon per evasione fiscale, al rapporto del Congresso sui collegamenti di Moon con i servizi segreti coreani e ai sospetti circa le sue attività illegali. “Deve sapere che sono mesi che cerco una persona come lei”, mi disse Bruce alla fine. “Sono stato da un sacerdote, al MIT, per chiedere informazioni, ma lui non ne sapeva niente”. Bruce era ancora in grado di pensare con la sua testa, ma secondo me non lo sarebbe stato ancora per molto. I due seminari di tre e sette giorni ciascuno a cui aveva partecipato lo avevano ben preparato a quello di tre settimane. Al tempo in cui io stesso ero stato un seguace erano soliti, al termine di quest’ultimo programma, chiedere ai partecipanti di intestare i loro conti bancari al gruppo, trasferirsi a vivere dai moonisti e diventare membri dell’organizzazione a tutti gli effetti. Bruce e io trascorremmo i due giorni seguenti a passare in rassegna altre informazioni, a guardare videocassette e a parlare di culti distruttivi e di tecniche di controllo mentale. Con grande sollievo dei suoi genitori, il ragazzo decise finalmente di non partecipare al seminario. Passò molto tempo a fotocopiare montagne di documenti e disse che avrebbe cercato di parlare con altri studenti del MIT, a loro volta reclutati. Si recò anche dal sacerdote cui si era inizialmente rivolto e gli raccontò dello scampato pericolo. Una settimana più tardi, lo stesso religioso mi telefonò per chiedere se potevo tenere una conferenza sul tema per gli amministratori del college universitario. Quello fu un caso decisamente semplice e a lieto fine. I genitori si erano subito resi conto del cambiamento avvenuto nel figlio, avevano scoperto che il CARP era un’organizzazione di facciata dei moonisti e si erano messi in contatto con qualcuno che aveva fatto loro il mio nome. La loro rapidità di azione li aveva messi in grado di aiutare il ragazzo in maniera facile e diretta. In genere, le telefonate che ricevo sono variazioni sul tema. Un Figlio o una figlia, un fratello o una sorella, un marito o una moglie, una o un padre, un fidanzato o una fidanzata, sono nei guai. Qualche volta il soggetto è stato da poco reclutato; altre volte la chiamata è per soccorrere qualcuno che è nel culto già da diversi anni. E’ abbastanza facile aiutare qualcuno che non è stato ancora completamente indottrinato, come nel caso di Bruce. Ma per la maggior parte delle persone che mi chiamano sono già passati anni. Alcuni casi sono vere e proprie emergenze; altri richiedono un approccio più lento e metodico. 24
Le emergenze come quella di Bruce presentano un margine di rischio, in quanto si dispone di pochissimo tempo per prepararsi. Tuttavia, ho imparato che un intervento rapido è spesso inevitabile. Per qualcuno rimasto invischiato in un ambiente dove viene esercitato il controllo mentale, talvolta anche un periodo di tempo di appena qualche ora può fare la differenza. Per qualche strano motivo, le chiamate di aiuto sembrano arrivare a ondate, tutte insieme. Per un po’ di tempo sono poche al giorno, poi a un tratto si moltiplicano e ne arrivano dieci o quindici contemporaneamente. Sebbene mi capiti di offrire la mia consulenza anche in altri Paesi, buona parte della mia attività si svolge tra gli Stati Uniti e il Canada. Mi è capitato più volte, in treno o in aereo, di trovarmi seduto accanto l’insoddisfatto adepto di un qualche culto distruttivo. Tali incontri mi hanno portato a scoprire che questi occasionali compagni di viaggio avevano bisogno di informazioni che li aiutassero a cambiar vita. Informazioni che io offro liberamente e gratuitamente. Considero queste occasioni dei “mini interventi”, poiché metto in atto le stesse metodologie di ascolto e aiuto che utilizzo negli interventi normali, ma in un lasso di tempo minore. Il mio lavoro prevede due fasi: aiutare il recupero delle persone e informare la collettività dell’esistenza del fenomeno, mettendola in guardia. Sono convinto che la sensibilizzazione dell’opinione pubblica al problema del controllo mentale sia l’unico valido sistema in grado di mettere un freno al diffondersi di questi culti. Far sapere alle persone da cosa debbono guardarsi è relativamente facile, anche se ciò avviene per radio e l’ascoltatore magari è impegnato a far altro. È molto più difficile e complicato far uscire qualcuno da un culto quando vi è dentro fino al collo. Sembra quasi che per ogni persona che ho aiutato a uscire ve ne siano un migliaio pronte a entrare. Credo che l’unica alternativa possibile alla distruttività di questi culti sia quella di “immunizzare” le persone contro il controllo mentale, e il mezzo più efficace per farlo è informare l’opinione pubblica circa il modo in cui tali gruppi operano. Il sistema di difesa di una persona si rafforza nel momento stesso in cui le viene detto come difendersi se mai dovesse incontrare sulla sua strada un reclutatore. È a questo scopo che organizzo conferenze, tengo seminari e intervengo in programmi televisivi e radiofonici tutte le volte che posso. Ed è questa la ragione che mi ha spinto a scrivere questo libro. 25
I culti distruttivi: una realtà da incubo Se mentre ero al liceo qualcuno mi avesse detto che all’età di trentasei anni sarei stato un esperto di culti, avrei trovato la cosa alquanto bizzarra. Il mio sogno era diventare un poeta, uno scrittore, e ritenevo probabile che un giorno mi sarei guadagnato da vivere insegnando letteratura. Se poi la stessa persona mi avesse detto che i miei pazienti sarebbero stati individui a cui si era sistematicamente mentito, che erano stati fisicamente violati, spinti a troncare i rapporti con la propria famiglia e con gli amici e costretti a lavori che offrivano loro poco o nulla in termini di crescita personale e professionale, le avrei riso in faccia e mi sarei forse ritrovato a pensare che stesse evocando un brano sul totalitarismo, citando un passaggio di 1984, il capolavoro di George Orwell. Il mondo, in generale, non è diventato la realtà da incubo descritta da Orwell: un luogo in cui la “polizia del pensiero” assicura allo Stato il totale controllo delle menti e delle emozioni e dove il pensare in maniera autonoma e persino innamorarsi vengono considerati dei crimini. Eppure, in un sempre maggior numero di organizzazioni del nostro pianeta, 1984 è divenuto reale: in tali contesti non esiste rispetto alcuno per gli in individui e mediante un processo di controllo mentale le persone vengono gradualmente condotte a pensare e a comportarsi tutte allo stesso modo. Il risultato finale è una totale e assoluta sudditanza al gruppo, la perdita della capacità di agire autonomamente cui si aggiunge, spesso, lo sfruttamento a scopo di lucro o a fini politici. La mia definizione di culto distruttivo si applica a qualsivoglia gruppo che metta in atto tecniche fraudolente per il conseguimento dei propri obiettivi, siano essi religiosi o laici nell’orientamento di facciata. Il mondo descritto in 1984 era molto lontano da quello tipico della piccola borghesia americana della mia infanzia. Sono cresciuto in una famiglia conservatrice ebrea a Flushing, Queens, New York. Ero il più piccolo di tre figli e l’unico maschio. Ricordo ancora quando aiutavo mio padre nel suo negozio di ferramenta, in Ozone Park. Mia madre, insegnante d’arte in una scuola media, mi ha fatto crescere in un’atmosfera piena d’amore e calore, con una disponibilità totale nei miei confronti. Se ritorno col pensiero alla mia infanzia, ricordo di essere stato un bambino piuttosto solitario e assai poco socievole; avevo pochissimi veri amici e mi sentivo a disagio nelle cricche scolastiche. Il solo gruppo cui ho aderito è stato quello della squadra di basket della sinagoga. Terminato il liceo, decisi di iscrivermi alla facoltà di lettere del Queens College; fu là che feci il mio primo incontro con i reclutatori dei moonisti. Prima ancora che mi rendessi conto di quanto stava accadendo, il mio mondo era cambiato drammaticamente. 26
Chi sono i moonisti? La Chiesa dell ‘Unificazione, ufficialmente denominata Associazione dello Spirito Santo per l’unificazione del cristianesimo mondiale, è uno dei più grandi e certamente più plateali esempi di culto distruttivo esistente negli Stati Uniti. L’organizzazione ricade nel dominio assoluto del suo leader, Sun Myung Moon, un uomo d’affari coreano che nel 1982 venne condannato per evasione fiscale e scontò tredici mesi di galera nel penitenziario federale di Danbury, nel Connecticut. Durante gli anni Settanta, i seguaci di questo gruppo cominciarono ad apparire sistematicamente in molte città americane; se ne stavano negli angoli delle strade a vendere fiori, dolciumi, pupazzetti e altre piccoli oggetti, distinguendosi per la loro capacità nel reclutare i giovani in scuole e università. Dall’aspetto generalmente per bene, cortesi e tenacemente insistenti, i moonisti proliferarono per anni, meritando un po’ dappertutto le critiche dei media. La stampa, comunque, a un certo punto smise di occuparsi di loro e la Chiesa dell’Unificazione non ebbe più gli onori della cronaca per tutti gli anni Ottanta. Ma in realtà l’organizzazione di Moon era andata sviluppandosi e raffinandosi sempre più e aveva moltiplicato i suoi gruppi di facciata religiosi, politici, culturali ed economici. Poiché la Chiesa dell’Unificazione mantiene un riserbo pressoché assoluto sui dati relativi al movimento, è impossibile ipotizzare una stima attendibile circa il numero totale degli affiliati sul territorio degli Stati Uniti. I dirigenti della Chiesa rivendicano un numero di trentamila associati solo negli Stati Uniti (e circa tre milioni nel mondo) ma io ritengo che la cifra reale sia molto inferiore a quella dichiarata: tutt’al più potranno essere quattromila gli americani, cui vanno aggiunti altri quattromila stranieri (molti dei quali sposati ad adepti di nazionalità statunitense), che operano ad oggi negli Stati Uniti. Un altro aspetto della Chiesa dell’Unificazione, fenomeno ancora troppo ignorato, è la giustificazione dell’inganno che i suoi membri operano al fine di reclutare i nuovi affiliati. Quando ero reclutatore per conto dei moonisti, ricordo che esercitavamo una certa pressione psicologica per convincere i neofiti a donare tutti i loro averi all’organizzazione. I membri partecipano a seminari che li indottrinano al sistema di credenze in uso nel culto. Essi vengono sottoposti a una tipica esperienza di conversione, durante la quale si abbandonano al gruppo e ne diventano totalmente dipendenti, sia dal punto di vista economico che da quello emozionale, perdendo ogni autonomia decisionale al di fuori del gruppo stesso. Una volta raggiunto questo stato, vengono obbligati — talvolta per settimane e settimane — a lavorare per molte ore, a dormire poco, a mangiare poco e male e a sopportare innumerevoli dure prove per amore della loro “crescita spirituale”. Vengono anche scoraggiati a stringere amicizie troppo intime con l’altro sesso e possono sposarsi solo in base alle decisioni prese dallo stesso Sun Myung Moon, o da qualcuno che ne fa le veci. Talvolta viene loro richiesto di partecipare a dimostrazioni politiche e altre attività a sostegno di cause, candidati e amministratori pubblici appoggiati da Moon e dalla sua organizzazione. Se mostrano cedimenti a causa della pressione esercitata su di loro e iniziano a sfidare l’autorità dei capi o a uscire dai ranghi, vengono accusati di essere sotto l’influsso di Satana e sottoposti a un programma di reindottrinamento con una pressione ancora maggiore. So che queste cose sono vere perché io stesso sono stato un capo dei moonisti. 27
Cos’è il controllo mentale? Esistono svariate forme di controllo mentale e molte persone ‘lo associano al lavaggio del cervello. Ai fini di questa pubblicazione — il cui intento è fornire gli strumenti per riconoscerlo e difendere se stessi e gli altri dai gruppi che ne fanno uso — il “controllo mentale” può essere definito come un sistema di influenze capaci di distruggere, sostituendola con una nuova, l’identità di un individuo, complessivamente intesa come l’insieme delle sue credenze, il comportamento, il pensiero e le emozioni. Una diversa fisionomia mentale che, nella maggioranza dei casi, non sarebbe mai stata accettata dalla precedente identità, se solo avesse potuto prevedere cosa le riservava il futuro. In questo libro parlerò dell’uso negativo del controllo della mente. Non tutte le tecniche di controllo mentale sono intrinsecamente malvagie o immorali: dipende dall’uso che se ne fa. L’individuo dovrebbe sempre poter avere il controllo della situazione. Tanto per fare un esempio: va bene usare l’ipnosi per smettere di fumare, sempre che non sia l’ipnotizzatore a indurre tale desiderio nel cliente e che la decisione di smettere rimanga sempre a quest’ultimo. Oggi esistono diverse tecniche di controllo mentale che sono molto più sofisticate del lavaggio del cervello impiegato durante la seconda guerra mondiale e in quella di Corea. Alcune di esse comprendono forme occulte di ipnosi, mentre altre vengono attuate attraverso il contesto sociale altamente rigido e controllato dei culti distruttivi. E’ di primaria importanza comprendere che il controllo mentale avviene in maniera assolutamente impercettibile. Rimando il lettore al quarto capitolo, dove tratto in maniera più estesa il fenomeno e fornisco indicazioni pratiche per individuare i segnali di riconoscimento che rivelano l’esercizio del controllo mentale da parte di un gruppo. Tutti i gruppi che in questo libro sono indicati come culti distruttivi, e che impiegano le tecniche di controllo mentale, sono stati classificati in tal modo solo dopo accurate ricerche. Sarebbe profondamente ingiusto muovere a un gruppo qualsiasi, solo perché è fuori da schemi più consueti, l’accusa di esercitare tale controllo della psiche, senza avere alcuna prova. In proposito, non ho alcun dubbio nel classificare la Chiesa dell’Unificazione nel novero dei culti distruttivi. La documentazione su questa organizzazione parla da sola, poiché si tratta di un gruppo altamente politicizzato e assai controverso, al centro di un’importante indagine del Congresso americano.’ 28
I mille volti della Chiesa dell’Unificazione Come è nato questo gruppo? Uno dei migliori riassunti della storia dei suoi primi anni è contenuto nel Rapporto Fraser, pubblicato il 31 ottobre 1978 dalla Sottocommisione del Congresso degli Stati Uniti per le Organizzazioni Internazionali, del Comitato per le Relazioni Internazionali presieduto dall’onorevole Donald Fraser, un democratico del Minnesota. Le indagini svolte portarono alla luce molti elementi fino ad allora taciuti sull’organizzazione di Moon, tra cui i legami della Chiesa dell’Unificazione con i servizi segreti coreani (KCIA). L’indagine rivelò all’opinione pubblica che la Chiesa dell’Unificazione non era soltanto un gruppo di credenti, ma anche un’organizzazione politica fortemente impegnata. Ecco come il Rapporto Fraser descrive la nascita dell’organizzazione di Sun Myung Moon. Alla fine degli anni Cinquanta il messaggio di Moon fu favorevolmente accolto da quattro giovani ufficiali dell’esercito coreano, anglofoni, i quali giocarono ruoli decisivi nei contatti con il governo coreano. Uno di loro, Bo Hi Pak, aveva aderito all’esercito della Repubblica di Corea (R0K) nel 1950. Han Sang Keuk divenne assistente personale di Kim Jong PiI, artefice del colpo di stato del 1961 e fondatore della KCIA. Il terzo del gruppo, Kim Sang In, si dimise dall’esercito della ROK nel 1961, entrò nella KCIA e ricoprì il ruolo di interprete al servizio di Kim Jong Pil fino al 1966. A quel punto [Kim Sang In] ritornò alla sua carica di ufficiale della KCIA, per divenire più tardi il capo della base KCIA di Città del Messico. Era un intimo amico di Bo Hi Pak e sostenitore della Chiesa dell’Unificazione. Il quarto, Hang Sang Kil, nei tardi anni Sessanta era addetto militare all’ambasciata della Repubblica di Corea a Washington. Dai rapporti governativi risulta anche lui collegato alla KCIA . Dopo aver lasciato il servizio presso il governo coreano, Han divenne il segretario personale di Moon e il tutore dei suoi figli. Immediatamente dopo il colpo di stato, Kim Jong PiI fondò la KCIA e supervisionò la nascita di una base politica per il nuovo regime. Un rapporto del febbraio 1963 della CIA dichiara che Kim Jong Pil aveva “organizzato” la Chiesa dell’Unificazione mentre era direttore della KCIA e l’aveva usata come “strumento politico”.
Fred Clarkson cita questo rapporto nel numero della primavera del 1987 di Covert Action Information Bulletin, un periodico che si occupa di organizzazioni che fanno attività spionistica e di gruppi di estremisti politici. L’autore così prosegue: Sebbene il Rapporto Fraser sottolineasse che “organizzato” non deve essere confuso con “fondato”, poiché la Chiesa dell’Unificazione venne “fondata” nel 1954, [ Rapporto Fraser prosegue dicendo che] esistevano moltissime prove, indipendenti l’una dall’altra ma tutte concordanti, a sostegno dell’affermazione, contenuta in questo e in altri rapporti dei servizi segreti, che tra Kim Jong Pil e l’organizzazione di Moon vi fosse un rapporto di mutuo sostegno, come pure vi è prova dell’evidenza che Kim usasse la Chiesa dell’Unificazione per scopi politici. È stupefacente che così tante persone siano state coinvolte nella Chiesa dell’Unificazione senza che fossero al corrente di tutto ciò. Io stesso, se avessi saputo che era collegata alla KCIA o se solo avessi sospettato che nel 1967 Moon aveva intessuto stretti rapporti con Yoshi Kodama, uno dei capi della Yakuza, la criminalità organizzata giapponese, non mi sarei mai avvicinato. 30
Se la storia della teologia della Chiesa dell’Unificazione è troppo complessa per parlarne in maniera dettagliata in questa sede, ci basti qui sottolineare che il principio cardine del culto è che Sun Myung Moon è il nuovo Messia e che la sua missione consiste nel fondare un nuovo “regno” sulla Terra. Malgrado ciò, molti ex adepti, me compreso, non hanno potuto fare a meno di notare che la visione del regno di Moon ha un carattere spiccatamente coreano. Nei due anni e mezzo che ho passato al servizio di questo culto, ho potuto capire chiaramente che le posizioni di rilievo (e più vicine a Moon) erano riservate esclusivamente a coreani; i giapponesi erano al secondo posto in ordine di preferenza e gli affiliati americani come me, nella scala gerarchica arrivavano terzi. I discepoli credono che il tempo, i soldi e gli sforzi da loro compiuti contribuiscano alla salvezza del mondo, ma non si rendono conto di essere vittime di un controllo mentale. È impossibile dare un’immagine completa di Moon e della sua influenza negli Stati Uniti guardando esclusivamente alla Chiesa dell’Unificazione, sebbene questa da sola dica già molto. Di fatto, Moon ha sviluppato una complessa organizzazione che include affari commerciali e organizzazioni no profit sia nella nativa Corea che negli Stati Uniti e in molti altri Paesi, con uno speciale riguardo per l’America Latina. Moon ha creato imprese che vanno dall’esportazione del ginseng alla fabbrica di fucili mitragliatori M- 16, oltre ad aver fondato, negli Stati Uniti, svariate associazioni e organizzazioni per promuovere conferenze e programmi di scambi interculturali (scientifici, accademici, religiosi e anche giuridici). Forse negli Stati Uniti la creatura più vistosa di Moon è il Washington Times, un quotidiano con una tiratura di tutto rispetto, che sfiora le centomila copie e che vanta una considerevole influenza nella Washington che conta. L’ex presidente Ronald Reagan lo ha più volte citato come il suo giornale preferito. Han Sang Keuk e Bo Hi Pak sono entrambi alti dirigenti del giornale. Il filo ideale che unisce tutte le attività dell’organizzazione, sia nell’ambito della Chiesa dell’Unificazione che al di fuori di essa, è la posizione fortemente anticomunista di Moon. Per dirla in due parole, i moonisti credono che i cristiani e i cittadini del mondo anticomunista siano impegnati in una lotta mortale contro le forze sataniche del materialismo comunista. Se l’America e gli altri Paesi non combatteranno il comunismo, finiranno con l’indebolirsi e soccomberanno. Moon è l’unica speranza di salvezza per il mondo, unitamente al raggiungimento di una forma teocratica di governo che rimpiazzi le obsolete democrazie attuali. Se non fosse stato per la Sottocommissione di Indagine del Congresso e per il lavoro dell’onorevole Donald Fraser, Moon sarebbe stato verosimilmente in grado di reclutare ancor più americani e avrebbe fatto crescere a dismisura il suo potere. Ho dato molto volentieri ai membri della Sottocommissione Fraser una copia del Master Speaks, una serie di discorsi privati di Moon riservati esclusivamente ai capi e ai membri della Chiesa dell’Unificazione, successivamente esibito come elemento probatorio nell’indagine della Sottocommissione stessa. Uno dei discorsi di Moon, acquisito in quella sede, riporta un passaggio del leader che nel 1973 asseriva: “Per quanto riguarda l’epoca in cui viviamo, è necessario che vi sia una forma di teocrazia automatica che governi il mondo, in modo che non si possa separare il campo politico da quello religioso . La separazione tra politica e religione è ciò che Satana ama maggiormente”. 31
Il credo dichiarato di Moon sulla necessità di fondere politica e religione evidenzia come, nel corso degli anni, la sua organizzazione si sia avvicinata a svariati gruppi di estrema destra. Attualmente la sua principale appendice politica è un’organizzazione conosciuta come CAUSA, fondata nel 1980 dal braccio destro di Moon, Bo Hi Pak, al suo ritorno da un viaggio in America Latina. Nel 1983 nacque anche il ramo nordamericano e da allora CAUSA si è estesa in tutti i continenti, organizzando seminari destinati a uomini che occupano posizioni chiave nei posti di comando. Secondo Fred Clarkson, “l’obiettivo generale di CAUSA è un’educazione anticomunista vista da una prospettiva storica. L’antidoto di CAUSA al comunismo è il ‘teismo’, che altro non è che la filosofia della Chiesa dell’Unificazione senza la mitologia di Moon”. Alla fine degli anni Ottanta i moonisti continuavano a espandere la loro sfera di influenza e potere. Moon era evidentemente impegnato nell’opera di legittimazione della sua organizzazione, prestando e regalando milioni di dollari ai conservatori ed alle loro cause. La sua strategia, “servire e aiutare la gente finché non dipende da te, per poi controllarla”, sembra funzionare ancora. Comunque sia, per il gruppo non sono certo tutte rose e fiori. Secondo il rapporto di Frank Greve, pubblicato dal Knight-Ridder, “usando tattiche di forte pressione e riuscendo a ingannare persone che hanno acquistato da loro modesti oggetti religiosi, amuleti magici e talismani (in Giappone), i venditori porta a porta di Moon hanno realizzato tra il 1980 e il 1987 una somma di almeno 165 milioni di dollari. Tale ammontare sembra rappresenti solo l’importo complessivo di quanto risulta pagato dai 14.579 reclami giunti ai centri di difesa dei consumatori e agli avvocati privati. Il rapporto (proveniente dall’associazione degli avvocati giapponesi) stima che solo l’uno per cento delle vittime di frode abbia sporto querela e conclude affermando che i 165 milioni di dollari rappresentano solo ‘la punta dell’iceberg”. Secondo Greve le vittime sono soprattutto “donne che hanno avuto lutti in famiglia per morti accidentali o malattie incurabili, che sono vedove o divorziate, o che hanno subìto aborti”. Queste persone hanno talvolta pagato più di centomila dollari per urne, pagode e amuleti, persuase dai venditori di Moon che questi oggetti le “avrebbero protette dagli spiriti malvagi che le perseguitavano”. È verosimile che parte di questi introiti illegali sia stata inviata negli Stati Uniti per finanziare il Washington Times, il cui target editoriale è costituito da lettori di area conservatrice e dai politici di quel partito. Sembrerebbe che qualcosa come duecento milioni di dollari siano stati già versati nelle casse del quotidiano, ma l’investimento non parrebbe aver dato profitti, almeno per ora. Il giornale è comunque servito al suo vero scopo: rendere possibile a Moon l’inserimento nelle alte sfere del potere ed avere così accesso al gotha politico americano. La Chiesa dell’Unificazione è un culto distruttivo par excellence. In America ci sono anche altri gruppi che sposano inconsuete dottrine teologiche e i cui membri hanno adottato pratiche che a molte persone potrebbero apparire decisamente bizzarre. Possiamo considerarli tutti “culti distruttivi”? Assolutamente no. Negli Stati Uniti d’America la libertà di pensiero e la tolleranza nei confronti dei diversi credo religiosi hanno sempre trovato spazio all’ombra del primo emendamento della Costituzione, che li difende e tutela. La nostra vita religiosa e politica è variegata quanto quella di qualsiasi altro paese del mondo, e la base di questa diversità trova le sue radici nel principio costituzionale che sancisce il rispetto dei diritti di ciascun individuo. 32
Anche se è difficile crederlo, durante gli ultimi venticinque anni abbiamo assistito alla nascita di organizzazioni che hanno sistematicamente violato i diritti dei loro affiliati rendendoli incapaci di agire e pensare come adulti responsabili. Le persone coinvolte in queste organizzazioni vengono danneggiate non solo intaccando la loro autostima ma minando anche il loro senso di identità. La loro vita di relazione viene seriamente compromessa e, in alcuni casi, questi soggetti perdono completamente il contatto con la famiglia e gli amici per lunghi periodi di tempo. All’inizio, il danno provocato dall’appartenenza a un culto può sfuggire ai familiari e passare inosservato anche a chi occasionalmente incontra queste persone per la prima volta. Ma molte forme di violenza, dalla più macroscopica alla più sottile, ne sono l’inevitabile risultato. Nel corso della loro iniziazione, alcuni seguaci di culti distruttivi subiscono abusi fisici che vanno dalle percosse alle violenze sessuali, mentre per altri la sofferenza consiste nell’essere sottoposti, anno dopo anno, a lunghe ore di severe punizioni e a lavori ripetitivi, anche per quindici o sedici ore al giorno. In sostanza, vengono tutti ridotti in schiavitù, e hanno ben poche se non alcuna risorsa personale o finanziaria che li renda capaci di lasciare il gruppo, dove si tenta di trattenerli fino a che sono produttivi. Quando non lo sono più, o si ammalano, vengono buttati fuori. I gruppi che esercitano tali sistemi spesso si presentano al mondo esterno come associazioni più che rispettabili. I culti che esercitano forme dì controllo mentale fanno presa su svariati sentimenti umani. Quelli religiosi, i più conosciuti, si appoggiano ai dogmi religiosi, mentre i politici, spesso oggetto di articoli sui giornali, si organizzano attorno a una teoria politica circoscritta. I culti psicoterapeutici o educativi, che godono di una certa notorietà, sostengono di poter dare ai propri adepti “conoscenza” e “illuminazione”. I culti di tipo commerciale giocano sulla speranza di persone che sognano eccitanti e remunerative carriere. Nessuno di questi culti distruttivi dà ciò che promette: tutti, alla lunga, intrappolano i loro seguaci e ne disintegrano l’autostima. I culti distruttivi provocano molti danni ai loro affiliati, e ve lo dimostrerò parlando di diversi casi, incluso il mio. Riaversi dai danni prodotti dall’essere stato seguace di un culto distruttivo non è facile, ma è possibile. La mia esperienza personale è la prova che si possono seguire percorsi ben precisi per ritrovare se stessi o aiutare un amico, rendendo possibile il ritorno a una vita normale e produttiva. Il controllo mentale esercitato da un culto non è irreversibile. 34
Capitolo 2. LA MIA VITA NELLA CHIESA DELL’UNIFICAZIONE Da piccolo ero un bambino molto indipendente. Volevo diventare uno scrittore e un poeta, ma durante gli anni dell’università ho faticato non poco per trovare un’occupazione in grado di offrirmi la tranquillità economica necessaria per realizzare tali sogni. Il senso di perenne conflittualità con la vita aumentò nel 1974, a causa di una depressione cui andai incontro quando ruppi con la mia ragazza. Mi chiedevo se sarei mai riuscito a trovare il vero amore. Sono sempre stato un avido lettore e in quel periodo iniziai a studiare molti libri di psicologia e filosofia. Leggendo le opere di G.I. Gurdjieff e di PD. Ouspensky, prese a interessarmi tutto ciò che veniva presentato come l’antica conoscenza esoterica. Gran parte di ciò che leggevo parlava della condizione naturale dell’uomo e lo descriveva come “addormentato” rispetto alla verità, bisognoso di qualcuno spiritualmente più evoluto che gli indicasse la strada per il raggiungimento di livelli superiori di consapevolezza. In ogni pagina di quei libri era nascosto l’implicito suggerimento di aderire a una qualche scuola spirituale. A diciannove anni ero convinto che non sarei mai stato felice se fossi diventato un uomo d’affari il cui unico interesse fosse stato il denaro. Cercavo risposta a quesiti più profondi. Esiste un Dio? E se esiste, perché permette tanta sofferenza? Quale sarà il mio ruolo nel mondo? Posso fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi? All’epoca mi sentivo fortemente spinto ad operare per il bene dell’umanità. Mi era stato sempre detto che ero una persona intelligente e dotata di grandi possibilità. Mi mancava un anno per laurearmi e il tempo correva veloce. Con un’adozione a distanza ero diventato padre di una bambina cilena, alla quale mandavo ogni mese un po’ di denaro. Avevo deciso che scrivere era il mio scopo nella vita e così mi dedicai a questa attività. Ma non mi bastava. Vedevo il mondo pieno di ingiustizie, corruzione politica e problemi ecologici, e mi sembrava di fare ben poco al riguardo. Volevo cambiare le cose, ma non sapevo da che parte cominciare. Un giorno, mentre stavo leggendo un libro nella sala di ricreazione dell’Associazione studentesca, alcuni coetanei mi si avvicinarono. All’apparenza, le tre attraenti ragazze erano di origine giapponese, mentre il ragazzo sembrava un italoamericano. Erano vestiti come gli altri studenti e sottobraccio avevano alcuni libri. Quando mi chiesero se potevano sedersi al mio tavolo, acconsentii; subito fui coinvolto in un’amichevole conversazione e dal momento che avevo un intervallo di tre ore tra una lezione e l’altra, rimasi a parlare con loro Mi dissero che anche loro erano studenti e che avevano messo su una piccola comunità di giovani provenienti da tutto il mondo. Mi invitarono ad andarli a trovare. Il semestre era appena iniziato e io ero nello stato d’animo giusto per fare nuove amicizie. Fu così che quella sera stessa, terminate le lezioni, mi recai a casa loro, dove trovai un animato gruppo di circa trenta ragazzi provenienti da una mezza dozzina di Paesi diversi. Quando chiesi se per caso fossero un gruppo religioso, mi risposero ridendo: “Oh no! Niente affatto!”. Mi dissero che facevano parte della Crociata per l’unità del mondo, un’associazione il cui scopo era il superamento delle barriere culturali tra i diversi popoli e che si occupava proprio di quelle tematiche sociali che mi stavano a cuore. “Un mondo unito dove tutti si trattano con amore e rispetto. Che idealisti!” pensai tra me e me. 35
Partecipai con piacere alla stimolante conversazione e mi piacque l’atmosfera vivace di quella riunione. I ragazzi si comportavano tra loro come fossero fratelli e sorelle e sembravano davvero far parte di un’unica famiglia. Apparivano felici della loro vita. Dopo il periodo di depressione in cui ero caduto il mese prima, mi sentii rinvigorito da tutta quella carica di energia positiva. Quella sera, tornando a casa, pensai che ero stato fortunato a incontrare delle persone così simpatiche. Il giorno seguente mi imbattei in Tony, il ragazzo che mi aveva avvicinato all’università. “Ti è piaciuta la serata?” mi domandò. E alla mia risposta affermativa, propose: “Bene, ascolta: oggi pomeriggio Adri, che è olandese, terrà una breve conferenza su interessanti temi esistenziali. Perché non vieni?”. Alcune ore più tardi mi recai ad ascoltare l’intervento di Adri. Era un pò vago e peccava di eccessivo semplicismo, ma tutto sommato era piacevole e mi ritrovai a condividere quasi tutto quello che diceva. Nel suo discorso, però, non trovai nulla che potesse spiegare il motivo della felicità dipinta sul volto dei tanti ragazzi lì riuniti. Pensai che ci fosse qualcosa di sbagliato in me o qualcosa di eccezionale in loro. La mia curiosità era al massimo. Finii col ritrovarmi con loro anche il giorno seguente e questa volta l’oratore di turno tenne un discorso sull’origine dei problemi umani. Il suo intervento aveva un taglio decisamente religioso: parlava di Adamo ed Eva e di come erano andati incontro alla perdizione per aver fatto un cattivo uso dell’amore. In quel momento non fui in grado di rendermi conto che tutte le mie domande rimanevano comunque senza risposta e non sospettai minimamente che mi si teneva deliberatamente sulla corda. Malgrado ciò, la confusione in me cresceva e perciò annunciai che quella sarebbe stata per me l’ultima sera trascorsa con loro. Non appena ebbi pronunciato queste parole, nella sala scese un silenzio di tomba. Uscii fuori ed ero appena salito in auto, quando venni raggiunto da una dozzina di ragazzi che, nonostante fossimo in febbraio e facesse un freddo cane, si erano precipitati fuori con le sole calze ai piedi (era loro abitudine togliersi le scarpe in casa): mi circondarono, dicendo che non mi avrebbero lasciato andar via se non dietro la promessa che sarei tornato la sera successiva. “Questi sono matti”, pensai. “Stanno fuori al gelo senza scarpe e senza giacca, tenendomi praticamente in ostaggio solo perché mi trovano simpatico”. Dopo un po’ fui costretto ad arrendermi, soprattutto perché non mi volevo sentire in colpa se uno di loro si fosse ammalato. Una volta data la mia parola sapevo che avrei dovuto mantenerla, anche se non avevo alcuna voglia di tornare in quel posto. Il giovedì successivo vi feci ritorno, e mi ritrovai a essere letteralmente sommerso dalle attenzioni di tutti. Avrei imparato più tardi che questa era la tecnica denominata love bombing, bombardamento affettivo. Mi furono fatti moltissimi complimenti: trovavano che ero simpatico, buono, intelligente e dinamico, e con insistenza mi invitarono a trascorrere con loro “un fine settimana di ritiro in un bellissimo posto in campagna”. Li informai del fatto che durante i fine settimana lavoravo come cameriere e che perciò non avrei potuto partecipare alla gita. Prima di andare via fui costretto a promettere che, se fossi riuscito a liberarmi, avrei accettato l’invito. Non avevo avuto un fine settimana libero da oltre un anno e mezzo, quindi ero matematicamente certo che non sarei stato in grado di tener fede alla promessa fatta. Il giorno seguente telefonai al mio datore di lavoro, all’Holiday Inn, per sapere quali fossero gli impegni per quel weekend. “Steve, non ci crederai, ma il banchetto per il matrimonio è stato cancellato proprio oggi pomeriggio. Hai il fine settimana libero!”. Ero sconvolto. Che fosse un segno che io dovessi andare con loro? Mi chiesi cosa avrebbero fatto al mio posto Ouspensky o Gurdjieff. Loro che avevano speso anni e anni della loro vita ad approfondire la conoscenza spirituale. Partii quel venerdì sera stesso. 36
L’indottrinamento: come divenni moonista Mentre attraversavamo l’imponente cancello in ferro battuto di una tenuta miliardaria di Tarrytown, nello stato di New York, qualcuno alle mie spalle mi disse: “Questo fine settimana terremo un seminario insieme alla Chiesa dell’Unificazione”. La testa mi si riempì di domande, che in quel momento evitai di esternare. “Seminario? Chiesa? Che sta succedendo? Perché non me ne hanno parlato prima? Come posso tornarmene a casa?”. Una volta scesi dal furgone, fummo condotti in una piccola casa di legno nascosta tra alberi secolari. Provai un senso di paura. “Sentite, vorrei andarmene da qui, tornare a casa” dissi a uno di loro, un ragazzo biondo con un sorriso stampato sul viso. “Oh, avanti! Vedrai che ti divertirai!” rispose, dandomi una pacca sul la spalla. “E comunque, stasera non c’è nessuno che possa darti un passaggio e riportarti giù in città”. Decisi di affrontare come meglio potevo la situazione, evitando di fare scenate. Salimmo le scale ed entrammo in una stanza che un tempo, venni a sapere in seguito, era stata lo studio di un pittore. Una grande lavagna era appesa alla parete sul lato opposto all’entrata e alcune sedie pieghevoli di metallo erano ordinatamente riposte in un angolo. Nel giro di pochi minuti fummo divisi in piccoli gruppi. I responsabili ci diedero fogli di carta e pennarelli e ci chiesero di disegnare una casa, un albero, una montagna, un fiume, il sole e un serpente (come appresi in seguito, si trattava di un test di personalità di tipo proiettivo). Nessuno chiese perché: tutti fecero quanto era stato loro chiesto. A turno ci presentammo gli uni agli altri, seduti a gambe incrociate sul pavimento. Finite le presentazioni, sempre seduti in terra, cominciammo ad intonare canzoni folk. In quell’atmosfera da asilo infantile mi sentivo a disagio, ma nessun altro sembrava farci caso. Il clima della serata e l’entusiasmo dei tanti ragazzi lì riuniti mi riportarono alla memoria le piacevoli serate dei campeggi estivi con gli amici. Quella notte dormimmo in letti a castello, dentro un garage trasformato in dormitorio. Donne e uomini erano in camerate separate. Scoprii presto che era impossibile dormire, perché non solo il posto era sovraffollato, ma c’erano anche due che russavano, proprio come in un campeggio estivo. I nuovi arrivati e il sottoscritto passarono una notte insonne. Al mattino fui avvicinato da un giovane dall’aspetto ascetico che avevo conosciuto nella casa di Queens. Si sedette accanto a me e mi disse che anche lui era rimasto perplesso da alcune stranezze viste e sentite al suo primo seminario e mi consigliò di non chiudermi a riccio e di dar “loro” la possibilità di presentare ciò che chiamavano il Principio Divino. “Ti prego, non giudicarli finché non avrai un quadro completo delta situazione”, mi implorò. Aggiungendo che, al punto in cui ero giunto, se avessi lasciato il gruppo lo avrei rimpianto per tutta la vita. Il suo tono di voce così intrigante e carico di mistero suscitò in me un’enorme curiosità, che mi fece presto accantonare tutti i miei sospetti. “Era ora” pensai, “finalmente avrò una risposta alle mie domande”. O al meno così pensavo. Al mattino, prima di colazione fummo condotti a far ginnastica ritmica e poi ci furono altri canti. Eravamo di nuovo seduti nella sala quando fece la sua comparsa un uomo dall’aspetto carismatico, voce suadente e occhi blu freddi come il ghiaccio. Si presentò come il direttore del seminario e ci illustrò le regole che avremmo dovuto seguire quel fine settimana. Ci venne detto che dovevamo sempre rimanere nel gruppo assegnatoci e che ci era vietato passeggiare nella proprietà da soli; avremmo potuto fare domande solo al termine di ciascuna lezione, e solo dopo esserci nuovamente ricongiunti al nostro gruppo. Ci presentò poi Wayne Miller, l’oratore che quella mattina avrebbe tenuto il suo intervento. 37
In completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, il signor Miller, età approssimativa trent’anni, aveva l’aspetto rassicurante di un medico di famiglia. Ascoltando il suo discorso, il mio disagio andò crescendo di minuto in minuto. Quel seminario aveva veramente qualcosa di strano. Quasi tutte le persone che erano là mi piacevano: erano studenti brillanti e di buon cuore, proprio come me. Ciò che non mi andava a genio era quel l’ambiente troppo costrittivo, quell’infantile atmosfera religiosa e il fatto che non mi fosse stato detto in anticipo che cosa sarebbe avvenuto durante quel fine settimana. Ogni volta che sollevavo obiezioni venivo invitato a rimandarle alla fine della lezione, e il gruppo al quale appartenevo mi ripeteva: “Questa è una buona domanda, ma aspetta, perché troverai la risposta giusta nella prossima lezione”. Mi si diceva ripetutamente di non giudicare quanto ascoltavo, almeno non prima di aver sentito tutto. Nel frattempo, però, dovevo sorbirmi una gran quantità di lezioni sull’umanità, la storia, lo scopo della creazione, il mondo spirituale opposto a quello materiale e via dicendo, teorie costruite su assunti la cui validità veniva data per scontata. L’intero fine settimana era stato minuziosamente programmato per ciascun momento della giornata. Non c’era possibilità alcuna di poter rimanere da soli. Tra i partecipanti, i nuovi arrivati erano in maggior numero, nella proporzione di tre a uno: non venivano mai lasciati soli e non potevano parlare tra loro se non in presenza di un “responsabile”. Al termine del primo giorno, il mio senso della realtà era rimasto più o meno intatto. Prima di andare a letto ci fu chiesto di scrivere le nostre “riflessioni”, per rivelare pensieri e sensazioni e io, assai ingenuamente, lo feci. Passai un’altra nottata inquieta, ma ero così emozionalmente e fisicamente stanco che riuscii a dormire per qualche ora. Il secondo giorno, la domenica, iniziò esattamente allo stesso modo del primo. A questo punto avevamo già trascorso trentasei ore in un’atmosfera tanto eccentrica ed emotivamente intensa che ci sembrava di essere lì da una settimana. Iniziai a chiedermi: “C’è qualcosa che non va in me? Perché sembra che sia io l’unico a porsi degli interrogativi? Si tratta di argomenti troppo profondi perché ne possa cogliere il senso? Forse non ho ancora raggiunto una spiritualità tale da essere in grado di capire i loro insegnamenti?”. Iniziai ad ascoltare Miller con maggiore attenzione e a prendere appunti. Domenica sera, armi e bagagli, ero pronto a tornarmene a casa; ma le ore passavano e nessuno sembrava intenzionato a partire. Finalmente mi feci coraggio e dissi che dovevo andar via. “Per favore, non te ne andare” mi scongiurarono a quel punto diverse persone. “Domani è la giornata più importante di tutte”. “Domani? Ma io ho lezione il lunedì!”. Spiegai che per me era impossibile rimanere un altro giorno. Il direttore del seminario mi prese in disparte e mi disse che si sarebbero tutti trattenuti fino al giorno dopo. “Nessuno ti aveva detto che questo seminario sarebbe durato tre giorni?” mi chiese. “No”, risposi seccamente. “Non sarei mai venuto se avessi saputo di dover perdere un giorno di lezione”. “Beh, visto che sei giunto quasi alla fine, non vuoi conoscere le conclusioni?”, mi chiese con fare intrigante. L’indomani, mi promise, sarebbe stato tutto più chiaro. Una parte di me era veramente incuriosita e voleva andare fino in fondo. C’era anche un altro particolare: dipendevo dagli altri per la macchina. Non volevo arrecare fastidio ad amici o familiari chiedendo loro di farsi chilometri e chilometri per venirmi a prendere con urgenza, né volevo fare l’autostop in una località che non conoscevo, per di più di notte e in pieno inverno. 39
Il terzo giorno ci venne fatto raggiungere un livello emozionale mai toccato prima. La coinvolgente lezione che Miller impartì quel giorno si intitolava “Storia della Restaurazione”. Miller sosteneva si trattasse della precisa e accurata ricostruzione di quel Disegno Divino che avrebbe riportato gli uomini al Suo intento originario. “E scientificamente provato che esistono corsi e ricorsi storici”, asseriva Miller. Dopo ore e ore di lezione sembrò infine che questi cicli storici convergessero tutti intorno a un’unica, incredibile conclusione: tra il 1917 e il 1930 Dio aveva mandato sulla Terra il suo secondo Messia. Chi era questo Messia? In quel seminario non vi era nessuno che volesse dirlo. Quando finalmente giunse l’ora del ritorno in città, non solo ero esausto ma anche molto confuso. A tratti mi sentivo inebriato al solo pensiero che ci fosse una remota possibilità che Dio avesse guidato tutta la mia vita per prepararmi a questo momento storico; ma in altri momenti mi ritrovavo a pensare che fosse tutto uno scherzo di pessimo gusto. Ma nessuno rideva e un’atmosfera di intensa serietà pervadeva quella sala affollata. Ricordavo i momenti finali del discorso di Miller. “E se... se davvero fosse così? Tradireste il figlio di Dio?”. Miller aveva posto la domanda alla platea con voce appassionata, rivolgendo lentamente lo sguardo al cielo. Alla fine, era scattato in piedi e si era messo a recitare una commovente preghiera nella quale noi eravamo le pecorelle smarrite di Dio e dovevamo liberarci da ogni preconcetto per capire cosa Dio ci stesse chiedendo di fare. Miller recitò a lungo, pregando affinché gli esseri umani smettessero di condurre un’esistenza tanto materialista ed egoista e ritornassero a Lui. Chiese perdono a nome dell’umanità intera per le innumerevoli volte in cui Dio aveva chiamato il Suo popolo a Sé, all’adempimento della Sua volontà, rimanendo inascoltato, e invocò infine su di sé una maggiore capacità di dedizione e impegno. La sua sincerità fece grande presa. Non si poteva non esserne commossi. Quando, a notte fonda, il pullman ritornò finalmente alla sede dell’organizzazione, ero completamente esausto; il mio unico desiderio era di tornarmene a casa e dormire. Ma non mi fu permesso di andarmene: Jaap Van Rossum, il direttore della casa, insistette perché rimanessi a parlare un po’ con lui. Volevo disperatamente andarmene ma lui si faceva sempre più insistente. Mi fece sedere davanti al caminetto e mi lesse la biografia di un umile coreano, Sun Myung Moon, di cui non avevo mai sentito parlare prima d’allora. In essa si diceva che Moon aveva dovuto superare mille difficoltà e sofferenze per diffondere la verità di Dio e combattere Satana e il comunismo. Quando finì, Jaap mi invitò a pregare per quanto avevo appena ascoltato e mi disse che ora ero responsabile della grande verità che mi era stata insegnata e che, se le avessi girato le spalle, non me lo sarei mai potuto perdonare. Dopo di che cercò di convincermi a fermarmi e trascorrere la notte lì. Dentro di me una voce urlava: “Vattene! Vattene via da qui! Corri lontano, via da questa gente. Hai bisogno di tempo per riflettere”. Per potermi divincolare, dovetti urlare “No! Lasciami stare!”; poi fuggii nella notte, a gambe levate. Nonostante ciò, provai un senso di colpa per essere stato tanto sgarbato con quelle persone che trovavo così sincere e meravigliose. Guidai verso casa con le lacrime agli occhi. Quando arrivai, i miei genitori (che come mi raccontarono in seguito pensarono fossi stato drogato) mi dissero che avevo un aspetto orribile: i miei occhi erano velati ed ero, ovviamente, molto confuso. Cercai di spiegare loro quanto era appena successo, ma ero esausto e incoerente, e quando dissi che il seminario aveva a che fare con la Chiesa dell’Unificazione, mio padre e mia madre si preoccuparono, pensando che volessi diventare cristiano. “Domani andiamo a parlare con il rabbino”, fu la loro immediata reazione. 41
Sfortunatamente per me, il rabbino cui ci rivolgemmo non aveva mai sentito parlare della Chiesa dell’Unificazione, né aveva mai avuto a che fare con qualcuno che fosse stato coinvolto in un qualche culto, perciò pensò che volessi convertirmi al cristianesimo. Non sapeva cosa dire o come aiutarmi. Venni via dicendo a me stesso: “L’unico modo per andare in fondo a questa faccenda è indagare da solo”. Ma nello stesso tempo avevo paura e avrei tanto desiderato parlare con qualcuno che conoscesse bene questo gruppo senza esserne, però, un convinto sostenitore. Nel febbraio del 1974, nessuna persona di mia conoscenza aveva mai sentito parlare dei moonisti. Domande incessanti mi martellavano. Che Dio mi avesse preparato per tutta la vita alla missione di realizzare il Regno dei Cieli in Terra? Che Sun Myung Moon fosse veramente il Messia? Pregai intensamente Dio perché mi mandasse un segno. Il Principio Divino era davvero la nuova verità? Che cosa dovevo fare? In quello stato di grande confusione mentale non mi sfiorò neppure l’i dea di essere stato sottoposto a tecniche di controllo mentale e non realizzai che, se solo una settimana prima non credevo affatto in Satana, ora avevo addirittura paura che stesse influenzando i miei pensieri. I miei genitori mi consigliarono di stare alla larga dal gruppo. Non volevano che abbandonassi la religione ebraica. Ma nemmeno io: volevo solo fare la cosa giusta. Se Moon è il Messia, pensavo, nel seguirlo non farò altro che rispettare la mia eredità ebraica. E mi ritenevo in grado, all’età di diciannove anni, di prendere da solo le mie decisioni. Volevo fare la cosa giusta; così facendo, come mi avevano detto i membri del gruppo, sarei stato in grado in un secondo momento di condurre anche i miei genitori sulla via della salvezza spirituale. Dopo parecchi giorni di intensa preghiera, ricevetti ciò che credetti essere il tanto atteso “segno”. Ero seduto sul bordo del letto; ormai incapace di concentrarmi sullo studio, a un certo punto allungai una mano, raccolsi un libro di filosofia e lo aprii a caso. Lo sguardo mi cadde su un capitolo in cui si diceva che la storia attraversa determinati cicli per aiutare gli esseri umani a evolvere e raggiungere una più alta spiritualità. In quel momento pensai di aver avuto il segno. Non poteva essere un caso che avessi aperto proprio quel libro e fossi capitato proprio su quel paragrafo. Pensai che Dio mi stesse dicendo di continuare a seguire le lezioni di Miller. Sentii che dovevo tornare da loro per saperne di più. 42
Il nodo si stringe: divento un discepolo Non appena mi misi in contatto con il Centro, fui trascinato a un altro seminario di tre giorni. Quando chiesi a un affiliato perché mi fosse stata tenuta nascosta la reale natura religiosa del movimento, così mi rispose: “Se te ne avessimo parlato, saresti venuto?”. Fui costretto ad ammettere che, con molta probabilità, non lo avrei fatto. Mi spiegò che da quando Satana aveva indotto con l’inganno Adamo ed Eva a disubbidire a Dio, il mondo era caduto sotto il suo controllo. Ma era giunto il momento che fossero i figli di Dio a indurre con l’inganno i figli di Satana a seguire la volontà divina. Mi disse: “Smettila di pensare con l’ottica dell’uomo caduto dall’Eden. Considera la cosa vedendola dal punto di vista del Signore. Egli vuole vedere la Sua creazione ritornare al Suo progetto originario: il Paradiso Terrestre. E questo che conta!” Divenne evidente, in seguito, che questo “inganno celeste” veniva ampiamente utilizzato in tutti i vari stadi dell’organizzazione: reclutamento, raccolta fondi e pubbliche relazioni. Dal momento che i membri del gruppo erano così determinati a raggiungere il loro scopo, se necessario anche a prezzo dell’inganno, non vi era più spazio per i principi della “vecchia morale”. In sostegno di questa tesi il movimento adduceva la Bibbia, sostenendo che più volte nella storia Dio aveva perdonato il tradimento, quando questo era stato finalizzato al compimento del Suo Piano Divino. Accettare il modo in cui ero stato ingannato, significava implicitamente giustificare l’ipotesi che io stesso potessi ingannare altre persone, sempre nel perseguimento del medesimo scopo. Sebbene nei contenuti il seminario fosse quasi identico a quello cui avevo partecipato la settimana precedente, sentii che quello era il momento in cui avrei dovuto liberarmi delle mie riserve mentali e prendere appunti. “Lo scorso weekend ero eccessivamente cinico”, pensai. Questa volta Miller tenne una lezione sul comunismo, descrivendolo come la versione di Satana del Piano Divino, in cui si rinnegava l’esistenza stessa di Dio. La religione che regnava sulla Terra, quindi, era quella di Satana e pertanto bisognava combatterla. Disse inoltre che l’ultima guerra mondiale sarebbe stata quella tra il comunismo e la democrazia e che sarebbe stata combattuta di lì a tre anni (quindi nel 1977); ci avverti che se i membri del movimento non si fossero impegnati con tutte le loro energie, il mondo sarebbe andato incontro a incredibili sofferenze. Alla fine di quei tre giorni, io Steve Hassan che aveva partecipato al primo seminario non esisteva più: era stato ormai rimpiazzato da un nuovo “Steve Hassan”. Ero esaltato all’idea che fossi stato “prescelto” da Dio e che mi fossi finalmente incamminato sulla “retta via”. Provavo anche molti sentimenti discordanti: ero onorato dell’opportunità ricevuta, ma spaventato all’idea della pesante responsabilità che mi ricadeva sulle spalle e molto emozionato al pensiero che Dio stesse lavorando per ricostituire il Paradiso Terrestre. Niente più guerra, povertà, inquinamento: solo amore, verità, bellezza e bontà. Eppure, una flebile voce dentro di me andava ripetendomi di stare in guardia e di mettere in dubbio ogni cosa. 44
Tornato a casa dopo il seminario, decisi di trasferirmi per qualche mese nella sede locale dei moonisti, per farmi un’idea del loro stile di vita e studiare il Principio Divino, prima di prendere un impegno a vita. Nelle prime settimane che trascorsi lì, feci la conoscenza di un capo molto potente, Takeru Kamiyama, un giapponese responsabile della Chiesa dell’Unificazione per la città di New York. Ne fui immediatamente affascinato. Mi colpirono la sua grande spiritualità e la sua umiltà, e desiderai ardentemente imparare da lui tutto ciò che potesse insegnarmi. Guardando la cosa col senno di poi, mi accorgo che Kamiyama aveva esercitato su di me un tale fascino perché era diverso dalle persone che avevo conosciuto nei miei anni d’infanzia. Era un idealista, aveva status sociale e potere. Mio padre, semplice commerciante, affermava che nessuno avrebbe mai potuto cambiare il mondo. Kamiyama, al contrario, era fermamente convinto che bastasse una persona per cambiare il corso degli eventi. Era molto religioso ed estroverso, contrariamente a mio padre che, pur essendo a suo modo una persona schietta e sincera, non lo era affatto. Analizzando a distanza di anni la vicenda, ho capito che avevo sostituito la figura di mio padre con quella di Kamiyama. L’approvazione e l’affetto che cercavo in mio padre mi venivano dati da quest’uomo, che usava questa leva emozionale per motivarmi ed esercitare il suo controllo. Appresi solo più tardi di essere stato il primo abitante di Queens ad aderire al Centro. Solo un mese prima la sede di Manhattan era stata sud divisa in otto centri satellite periferici. Kamiyama disse che si trattava di un segno che indicava che sarei diventato un grande capo. Mi inserì nel gruppo dei suoi dodici discepoli americani, supervisionando ogni mia attività. Sebbene prima d’allora non avessi mai amato far parte di un gruppo, l’essere entrato a far parte di una ristretta cerchia elitaria mi fece sentire “speciale”. Grazie al mio rapporto con Kamiyama, potevo avvicinarmi allo stesso Messia, Sun Myung Moon, figura paterna per eccellenza. 45
Vita con il “padre”: come mi avvicino a Moon Nato nel 1920 in quella che adesso si chiama Corea del Nord, Sun Myung Moon è un uomo basso e tarchiato, dotato di notevole carisma. Portamento da lottatore di Sumo sotto un vestito da mille dollari, Moon è un consumato manipolatore e un eccellente oratore, soprattutto agli occhi dei suoi ferventi discepoli, indottrinati a considerarlo il miglior uomo che abbia mai calpestato il suolo della Terra. Per una precisa scelta legata, come mi è stato spiegato, a motivazioni di ordine “spirituale”, i suoi interventi sono di norma in lingua coreana o giapponese, la qual cosa richiede l’intervento di un interprete. Nel periodo in cui ero un suo seguace, seguii oltre un centinaio dei suoi discorsi e partecipai a circa venticinque riunioni al vertice da lui presiedute. Moon e Kamiyama erano maestri nell’educare i loro discepoli alla lealtà e alla disciplina. I membri che rientravano nei ranghi alti della gerarchia erano abituati a eseguire gli ordini senza far domande e senza indugi. Quando l’indottrinamento fu completo, il mio unico desiderio divenne quello di eseguire le istruzioni del mio leader. Ero ormai talmente integrato da aver sostituito il mio vero Io con un’altra identità. Ogni volta che ci ripenso, stento a credere di essere stato manipolato a tal punto, e di aver potuto manipolare a mia volta altre persone, “in nome di Dio”. Solo ora mi è chiaro che più salivo nella scala gerarchica, più diventavo corrotto: Moon ci aveva plasmati a sua immagine e somiglianza. Ricordo che una volta ci promise che se gli fossimo rimasti fedeli e avessimo portato a compimento la nostra missione, saremmo un giorno diventati tutti presidenti dei nostri rispettivi Paesi. Anche noi avremmo viaggiato in Mercedes, avremmo avuto una segretaria personale e le guardie del corpo. Nei primi tre mesi della mia affiliazione, venni istruito su come andasse tenuta la lezione introduttiva sul Principio Divino. Nel frattempo avevo già reclutato altre due persone, i miei “figli spirituali”, avevo abbandonato gli studi e il lavoro e mi ero trasferito al Centro. Mi feci tagliare i capelli molto corti e indossai giacca e cravatta. Su richiesta di un membro anziano, venni sottoposto a un esercizio di penitenza che consisteva nel non comunicare in alcun modo con amici e parenti per quaranta giorni. Girai all’organizzazione il mio conto in banca e sarei stato pronto a dar loro anche la macchina, se non fosse stata intestata ai miei genitori. Fui costretto ad abbandonare la bambina cilena che avevo adottato a distanza, dal momento che non avevo più un reddito e non disponevo più di soldi da poter inviare. Mi fu anche chiesto di sacrificare il mio “Isacco”, espressione con la quale i moonisti indicano la cosa cui ciascun membro tiene di più. Nel mio caso era la poesia: gettai via tutto ciò che avevo scritto, qualcosa come quattrocento componimenti. Non appena ebbi ufficialmente abbandonato l’università, i moonisti mi spedirono nuovamente al campus, questa volta a reclutare nuovi membri. I capi mi dissero che avrei potuto completare gli studi l’anno seguente, e quando rivelai il mio desiderio di insegnare, mi informarono che la “famiglia” (il termine con cui i membri chiamano il movimento) stava progettando di aprire di lì a poco una propria università, nella quale avrei potuto realizzare il mio sogno. Sebbene non fossi più iscritto come studente, mi fu ordinato di costituire un’associazione studentesca al Queens College: il CARP. Il club nacque nel giro di due settimane e io ne divenni il direttore. Sebbene dicessi agli studenti che il CARP non era affiliato a nessun altro gruppo, era in realtà la Chiesa dell’Unificazione di Queens a istruirmi sul da fare e a sovvenzionare tutte le mie attività. Organizzammo seminari a ingresso libero, letture di poesie, riunioni politiche anticomuniste, proiezioni gratuite di film: il tutto allo scopo di reclutare nuovi adepti. 46
In quel periodo, la nostra era la migliore sezione del CARP nel Paese. Ero completamente esausto ed emozionalmente sovraccarico. Dormivo in media tre, quattro ore per notte e passavo quasi tutto il mio tempo a reclutare persone e a tenere interventi. Di quando in quando, mi univo ad altri incaricati della “raccolta fondi” e vendevo fiori per strada. Era in quel modo che si finanziava l’organizzazione e l’operato della Chiesa di New York. Imparai a digiunare per tre giorni di seguito, bevendo solo acqua; più tardi avrei imparato a praticare tre digiuni separati di sette giorni ciascuno: facevano parte del processo di purificazione. Al tempo del mio attivismo nel gruppo, fui personalmente coinvolto in numerose manifestazioni politiche, generalmente organizzate sotto il nome di altri gruppi di facciata (negli anni, l’organizzazione di Moon ha usato centinaia di tali gruppi. Per esempio, nel luglio del 1974 fui mandato, assieme a diverse centinaia di moonisti, sui gradini del Capitol Hill a dimostrare in favore di Nixon. In quell’occasione ci chiamavamo “Preghiera e digiuno nazionali per la crisi del Watergate”. Prima di diventare moonista, avevo avuto lunghe discussioni con mio padre proprio su Nixon. Lui era un suo accanito sostenitore mentre io, al contrario, ero convinto che fosse un personaggio di cui non bisognava fidarsi e l’avevo spesso definito imbroglione. Ora, nel fervore della mia preghiera in favore di Nixon voluta da Moon, avevo chiamato i miei genitori da Washington per informarli del digiuno. Visto che mio padre era sempre stato un suo convinto ammiratore, pensavo che la cosa gli avrebbe fatto piacere. Invece mi disse: “Steve, avevi ragione: Nixon è un imbroglione!”. “Ma papà, non capisci: Dio vuole che Nixon sia Presidente!” esclamai. “Ora so per certo che ti hanno fatto il lavaggio del cervello”, replicò mio padre esasperato. “Quel tipo è un imbroglione. Fu solo dopo essere uscito dal gruppo che risi di questa paradossale inversione di opinioni tra mio padre e me. Più tardi, quello stesso anno, durante la settimana in cui le Nazioni Unite decidevano se ritirare o meno le truppe dalla Corea del Sud, a causa delle ripetute violazioni dei diritti umani, mi ritrovai a partecipare a uno sciopero della fame di sette giorni, davanti alla sede dell’ONU . Moon in persona ci aveva raccomandato di non rivelare a nessuno che facevamo parte della Chiesa dell’Unificazione o che avevamo motivazioni politiche. Demmo così vita a un gruppo di facciata chiamato “Comitato americano per i diritti umani delle mogli giapponesi dei rimpatriati della Corea del Nord”, e riuscimmo con successo a dirottare l’attenzione dei delegati dagli abusi contro i diritti umani perpetrati nella Corea del Sud a quelli commessi nella Corea del Nord. La mozione sul ritiro non passò. I moonisti rivendicarono la vittoria e ci venne riferito che il governo della Corea del Sud ci era grato. Essere così vicino al “Messia” era esaltante. Mi sentivo molto fortunato a far parte del movimento. Mi prendevo molto sul serio perché sentivo che ogni singola azione aveva una grande valenza spirituale ed ero convinto che ogni mio intervento fosse destinato ad avere una grande ripercussione sulla Storia. Questa certezza mi spronava a impegnarmi a fondo per diventare il figlio perfetto dei “Veri Genitori” , assolutamente obbediente e fedele (le due virtù che erano considerate al di sopra di tutte le altre). Facevo sempre tutto ciò che mi veniva detto, cercavo di dimostrare la mia profonda lealtà e venivo spesso messo alla prova da Kamiyama e dagli altri leader. 48
Come dirigente ero in grado di vedere e sentire cose alle quali i semplici affiliati non avevano accesso. Una volta, verso la fine del 1974, Moon invitò alcuni di noi a ispezionare alcune proprietà terriere che aveva acquistato a Tarrytown e, come sempre faceva in queste occasioni, tenne un discorso non preparato. Quell’intervento mi è rimasto impresso più di altri. “Quando prenderemo il potere in America, dovremo cambiare la Costituzione e far diventare reato capitale i rapporti sessuali con persone che non siano quelle assegnate a ogni singolo individuo”. Proseguì dicendo che il rapporto sessuale non consacrato a Dio era il peccato più grave che una persona potesse commettere. Pertanto, se un individuo non era capace di resistere alla tentazione, sarebbe stato meglio eliminare il suo corpo fisico: in quel modo gli avremmo fatto un piacere, rendendogli più facile il ritorno alla retta via, nel mondo dello spirito. Pensai a tutte le coppie sposate al di fuori del movimento che distruggevano i loro corpi spirituali con i rapporti sessuali, ma non mi soffermai neanche un minuto a considerare il genocidio di massa che ne sarebbe risultato, se mai fossimo andati al potere in America. Essere un dirigente aveva anche altri vantaggi. Una volta Moon mi regalò una statuina di Murano e trecento dollari in contanti. Mi veniva spesso permesso di giocare a softball con Hyo Jim Moon, suo figlio e probabile erede (ora capo del CARP), ed ebbi modo di mangiare una paio di volte con lo stesso Moon, invitato a una delle sue pantagrueliche cene. Prese a piacermi l’avere davanti centinaia di persone e officiare il servizio domenicale, o tenere una conferenza sul Principio Divino e avere puntati addosso gli occhi di tutti i discepoli, che mi guardavano estasiati come si guarda a una persona dalla grande spiritualità e bellezza interiore. Nella mia vita c’era spazio anche per i “miracoli”. Un giorno venni a sapere che, per ordine di Moon, tutti i membri americani dovevano sottoporsi a un training di centoventi giorni, riservato ai dirigenti. Con mia grande sorpresa, Kamiyama intercedette presso Moon affinché tale training mi fosse evitato. Venni portato in presenza di Moon e prima che mi rendessi conto di quanto stava accadendo, colui che da tutti noi era considerato “il Padre” mi mise le mani sulla testa e annunciò che avevo appena superato il corso! Quando chiesi a Kamiyama perché avesse chiesto la mia esenzione dal programma, mi rispose che la mia presenza era fondamentale a New York e che non poteva rischiare di perdermi. Fu così che ricevetti il beneplacito da un uomo che ritenevo essere Dio in Terra. Moon aveva uno stile tutto suo per motivare i dirigenti: all’inizio era gentile e ci faceva regali, ci portava al cinema e a cena fuori. Dopo di che ci riconduceva alla sua tenuta e ci faceva una scenata, urlandoci in faccia che eravamo degli incompetenti, incapaci di sostenere il ruolo che ci era stato assegnato. Moon amava anche spingere al massimo la competitività tra i dirigenti per ottimizzare la produttività. Era solito scegliere (come fece con me) uno di noi che fosse bravo nel reclutare nuovi seguaci e a reperire fondi, indicandolo come modello di efficacia e facendo sentire tutti gli altri inferiori. E’ paradossale che mentre il fine che Moon si era preposto fosse di riunificare il mondo intero, i metodi da lui applicati provocavano gelosie e rancori tra i dirigenti, ottenendo così una totale mancanza di coesione all’interno dell’organizzazione. 49
Quando lo conobbi, Moon era un appassionato di cinema. Uno dei suoi film preferiti era Rocky, che vedeva e rivedeva continuamente. In una memorabile occasione, ci disse che dovevamo avere la stessa determinazione di Rocky Balboa nello sconfiggere i nostri nemici. Un pò di tempo dopo, investì 48 milioni di dollari per produrre un suo film, Inchon , che narrava dello sbarco del generale Douglas Mac Arthur in Corea per fermare l’invasione dei comunisti. Malgrado fossero stati ingaggiati grandi attori, del calibro di Laurence Olivier e Jacqueline Bisset, il film fu un fiasco. Fu in assoluto la pellicola più costosa che venne prodotta in quegli anni e venne accolto da un coro unanime di recensioni e critiche negative. Riconsiderando l’intera vicenda col senno di poi, credo che uno dei maggiori problemi di Moon fosse la sua mancanza di lungimiranza. Sembrava molto più preoccupato dei risultati a breve termine che non di pianificare strategie a lungo periodo. Tanto per fare un esempio, fu l’aver sistematicamente ignorato i suggerimenti dei suoi consiglieri legali e fiscali a farlo finire in carcere. Il costante uso dell’inganno e della frode nell’acquisto di proprietà terriere e nella gestione dei suoi affari gli ha meritato un gran numero di inimicizie in diverse comunità. La sua abitudine di servirsi di scorciatoie politiche (per esempio l’appoggio a Nixon) lo ha portato sotto i riflettori a livello nazionale, ma ha anche contribuito a mettere in guardia la collettività, informandola sul suo passato e sulle azioni eticamente scorrette. Una mancanza di lungimiranza che nel corso degli anni ha causato enormi problemi alla sua organizzazione. Col tempo divenni il maggiore conferenziere di Manhattan e la mia strada venne a incrociarsi in maniera singolare con quella di un altro americano, anch’egli membro dell’organizzazione. Venni nominato assistente del direttore della Chiesa dell’Unificazione presso la sede del quartier generale e mi fu detto di lavorare con Neil Salonen, allora presidente della Chiesa dell’Unificazione d’America. Kamiyama mi disse che Salonen doveva imparare a ubbidire ai dirigenti coreani e giapponesi della Chiesa e mi spiegò che la mia missione era insegnargli a lavorare secondo il “modello giapponese”. Proprio quel mese gli uffici direzionali erano stati trasferiti da Washington D.C. a New York, perché lo staff americano potesse essere controllato più da vicino da parte degli orientali. Nella mia nuova posizione, avevo il compito di reclutare proseliti per i vari seminari. Le attività del gruppo ci avevano attirato addosso l’attenzione non favorevole del pubblico, e ci sentivamo dei “perseguitati”. Ci identificavamo in pieno con i primi cristiani: più ci osteggiavano, più andavamo avanti. In quel periodo, sia sui giornali che attraverso la televisione i mass media andavano diffondendo articoli scandalistici e programmi sui moonisti, cosa che rafforzava la nostra convinzione che i comunisti stessero prendendo il potere in America. Ulteriormente motivati dal crescente livello di paura, intensificammo l’attività di reclutamento. Avvertivamo l’enorme pressione che avevamo addosso, costretti a reclutare un nuovo adepto al mese per ogni membro effettivo dell’organizzazione. Ogni sera, inoltre, tutti i discepoli dovevano presentare una relazione sulla loro attività al coordinatore centrale. Ci sentivamo come guerrieri del Signore scesi in campo ad affrontare la battaglia: gli unici quotidianamente schierati in prima linea per contrastare il Demonio. Quando nel 1976 Moon decise di organizzare un meeting allo Yankee Stadium, si rese necessario raccogliere parecchi milioni di dollari per finanziare la campagna pubblicitaria. Con altri dirigenti americani, formammo una squadra pilota e fummo mandati a raccogliere fondi a Manhattan. Eravamo in giro ventuno ore al giorno nei peggiori posti che si possa immaginare. Mentre ero ad Harlem, una notte fui assalito alle spalle da un tizio che mi aveva visto vendere candele e che mi immobilizzò con una presa a garrotta. Un’altra volta venni minacciato da un tale che mi puntò un coltello allo stomaco e mi chiese i soldi che avevo raccolto. Quale leale e devoto moonista non avrei mai potuto permettere che qualcuno portasse via i soldi del Signore e perciò opposi resistenza. Entrambe le volte me la cavai per un soffio. 50
Sorpreso da un colpo di sonno mentre sono alla guida della mia macchina Uno dei tanti lati ironici nella mia vita con i moonisti è dato dal fatto che più salivo nella scala gerarchica dell’organizzazione, più mi avvicinavo a quell’esaurimento e annichilimento che avrebbero poi provocato la mia fuoriuscita. Dato che avevo successo nella raccolta fondi, spingevo le mie capacità al massimo, ponendomi traguardi sempre nuovi. Era un periodo in cui curavo assai poco la salute fisica; per me la cosa più importante era lavorare il più possibile per il “Padre”. Fortunatamente, i miei non mi avevano dimenticato ed erano molto preoccupati per me. Era da poco terminata la mia attività nella squadra pilota per la raccolta fondi a Manhattan, quando mi venne detto che la mia famiglia stava cercando di rapirmi per sottopormi alla deprogrammazione; fui perciò mandato a “nascondermi” in Pennsylvania. Venni istruito affinché non informassi dei miei spostamenti i familiari e mi facessi mandare la posta in un’altra città. Solo anni dopo aver lasciato il gruppo ebbi il sospetto di essere stato spedito fuori città al fine di distrarmi da altro. I moonisti volevano evitare che continuassi a nutrire dubbi circa la validità della teoria dei “paralleli del tempo” usata nelle lezioni di “Storia della Restaurazione”. Avevo infatti scoperto l’esistenza di vistose incoerenze ed era pericoloso che una persona nella mia posizione all’interno dell’organizzazione ponesse domande cui nessuno poteva rispondere. Gli altri dirigenti riuscirono a infondermi così tanta paura della de-programmazione che le mie domande svanirono del tutto. Infine, fui convinto che la mia stessa sopravvivenza spirituale fosse in grave pericolo. Mi erano state ripetutamente raccontate storie orribili sulla de-programmazione. Ero ormai convinto che i membri del gruppo venissero rapiti, picchiati e torturati dai de-programmatori, che altro non erano che le milizie di Satana, impegnate a distruggere le persone e la loro fede in Dio Un paio di adepti venivano mandati in giro per i Centri a raccontare le loro esperienze di de-programmazione. Ci venne istillata nella mente la paura del mondo esterno, in particolare dei nostri genitori. Anche se all’epoca non me ne rendevo conto, ciascuna testimonianza assumeva un tono più esasperato, che andava aumentando a ogni racconto. Dopo un paio di mesi passati a raccogliere soldi assieme alla mia squadra in Pennsylvania, diventai responsabile della raccolta fondi di Baltimora. Il mio superiore regionale mi aveva ordinato per ciascun affiliato l’obiettivo di un introito minimo di cento dollari al giorno, anche se ciò avesse significato stare in strada tutta la notte. Avevo una “giovane” squadra di otto venditori senza esperienza e quindi, da buon dirigente, dovevo dare l’esempio e stare sveglio assieme a loro. Spinsi il mio team al massimo e riuscimmo a realizzare circa mille dollari al giorno, esentasse, in contanti. Era mia responsabilità dar loro vestiario, vitto e alloggio, acquistare e ritirare la merce — quella che offrivamo alle persone per avere in cambio le offerte — incassare il denaro ogni sera e spedirlo a New York due volte alla settimana. Vendevamo cioccolatini alla menta, caramelle, rose, garofani e candele. Il prezzo di vendita era molto elevato: una scatola di cioccolatini alla menta, che a noi costava trenta centesimi, veniva venduta a due dollari; un fiore da dieci centesimi costava un dollaro, e in genere ce ne venivano offerti due. 51
La gente comprava questi oggetti perché pensava che stessimo raccogliendo offerte a scopo benefico. Le nostre coscienze erano state totalmente riprogrammate secondo il sistema di valori di Moon e così dicevamo che stavamo sovvenzionando un programma per giovani cristiani; oppure, altra bugia, che operavamo per le case di riabilitazione dei drogati; o che stavamo aiutando gli orfani, mentendo ancora una volta. Nell’eccitazione del momento raccontavamo qualsiasi cosa che pensavamo avrebbe funzionato.” Credevamo davvero che salvare il mondo dal male e ristabilire il regno di Dio fosse la missione più importante sulla faccia della Terra e perciò eravamo convinti che non stessimo “veramente” mentendo. In fin dei conti ogni individuo, a parte noi, era sotto il controllo di Satana e quindi spettava a noi, “Bambini Celesti”, riprendere i soldi del diavolo e consegnarli al Messia di Dio, Sun Myung Moon. Eravamo profondamente convinti del fatto che vendendo quei prodotti stavamo salvando il mondo da Satana e dal comunismo, offrendo al contempo alla gente l’opportunità di aiutare il Messia a creare il Paradiso in Terra. Verso le 5.30 del mattino del 23 aprile 1976 stavo guidando il mio pulmino per andare a recuperare l’ultimo ragazzo della squadra: era stato alzato tutta la notte a vendere i nostri oggetti, appostato davanti a un supermercato aperto 24 ore su 24. Non avevo chiuso occhio negli ultimi due giorni ed ero da solo. Con me in genere veniva sempre qualcuno “di guardia”, per proteggermi dai subdoli attacchi delle forze malefiche, gli “spiriti del sonno”. Per quanto ridicolo tutto ciò possa sembrare oggi, allora credevo fermamente di essere assediato dalle forze del maligno, che aspettavano il momento opportuno per penetrare in me e possedermi; tutto era parte integrante dell’indottrinamento realizzato con il controllo mentale. L’unico modo per tenere a bada gli spiriti del male consisteva nel rimanere costantemente concentrati sui “Veri Genitori”; se la mia attenzione si fosse allentata, potevo essere sopraffatto. Fobie di questo tipo rendevano me e gli altri seguaci completamente dipendenti e remissivi. Quella volta peccai di eccessiva fiducia in me stesso e mi addormentai. Il risveglio fu alquanto brusco. Tutto ciò che riuscii a vedere fu il rimorchio rosso di un autoarticolato contro il quale stavo andando a sbattere a folle velocità. Puntai i piedi sui freni, ma era ormai troppo tardi. L’impatto fu terribile: il pulmino si schiantò violentemente contro il camion e io rimasi bloccato. Il dolore era intollerabile, ma non potevo far nulla: ero intrappolato. La portiera dovette essere segata via. La squadra del pronto soccorso impiegò trenta minuti per inserire il gancio di una gru e allontanare il bloccasterzo dal mio corpo, in modo da potermi liberare. Le uniche cose a cui pensavo erano: “Padre, perdonami” e “Sconfiggi Satana”. Andavo ripetendo senza posa queste parole per concentrare la mia mente su Dio e chiedere il suo perdono. Pensavo che quanto mi era accaduto avesse un significato “spirituale”, che ero stato messo alla prova da Satana e ne ero uscito sconfitto. Ero convinto che fosse questa la vera causa dell’incidente, e non il fatto di non aver dormito per svariati giorni. Come ogni devoto, incolpavo me stesso per non essere abbastanza “puro” e non mi sfiorò minimamente il pensiero che invece avrei dovuto dormire almeno tre, quattro ore per notte. Sentivo che ero stato prescelto da Dio per la Sua grande missione e che avevo fallito. 52
Deprogrammazione: come ho ritrovato me stesso Dopo due settimane in ospedale e un intervento alla gamba fratturata, ebbi il permesso dai miei superiori moonisti di fare visita a mia sorella Thea. Ciò fu possibile per due ragioni: innanzitutto perché Thea non aveva mai criticato apertamente la mia appartenenza al culto di Moon e poi perché si fidavano di me come leader di provata e assoluta fiducia in Dio e nel gruppo. L’incidente, però, iniziò lentamente e in tanti modi diversi a produrre l’effetto di far allentare la morsa dei moonisti su di me. Tanto per cominciare potevo dormire, mangiare e riposare. In secondo luogo incontrai finalmente la mia famiglia. I miei genitori e l’altra mia sorella, Stephanie, erano stati giudicati “satanici” dai moonisti, ma io li amavo ancora e volevo convertirli. Terzo, potevo rilassarmi e pensare, ora che ero distante dalla costante azione di “consolidamento” mentale del gruppo. Quarto, i miei genitori decisero di farmi deprogrammare. Quinto, avevo una gamba ingessata dall’alluce all’inguine, quindi non mi potevo muovere senza stampelle e non avrei potuto lottare o scappare. Ero seduto sul divano a casa di mia sorella quando, inaspettatamente, comparve mio padre. Si sedette vicino a me e mi chiese come stavo. Quando risposi “bene” egli si alzò, prese le stampelle e se le portò dall’altra parte della stanza esclamando: “Splendido!”. Poi entrarono sette persone e mi annunciarono che erano venute a “parlare con me della mia affiliazione alla Chiesa dell’Unificazione”. Ero sconvolto: capii immediatamente di essere in trappola. Al momento dei fatti, mi trovavo in uno stato di completa e accurata programmazione e la mia reazione immediata fu la “consapevolezza” che la squadra di de-programmazione era un’emissaria di Satana. Nel mio stato di agitazione, le loro facce mi apparvero demoniache. Fu quindi una sorpresa scoprire che erano invece persone affettuose e amichevoli. Stettero ore a raccontarmi ciò che di negativo sapevano sull’attività dei moonisti e io, quale membro devoto, feci del mio meglio per non ascoltarli. Dopo tutto i dirigenti del gruppo mi avevano esaurientemente informato in fatto di deprogrammazione: non avrei permesso che la mia fede in Dio fosse messa a repentaglio da Satana. La mattina seguente mio padre disse che saremmo andati a trovare mia madre. Quello che in realtà era accaduto era che i moonisti avevano telefonato per sapere come mai non mi fossi più fatto vivo, decidendo di venire a prendermi. Pensando che mia madre sarebbe stata comprensiva e avrebbe messo termine alla de-programmazione, afferrai le stampelle e mi infilai nel sedile posteriore dell’auto, la gamba ingessata allungata in avanti. Mio padre era alla guida e due de-programmatori gli sedevano accanto. Iniziai ad arrabbiarmi quando vidi l’auto superare l’uscita dell’autostrada che conduceva a casa, a Long Island. Per quanto possa sembrare difficile crederlo, il mio primo impulso fu quello di spezzare il collo a mio padre, perché pensai che fosse meglio ucciderlo piuttosto che tradire il Messia! Quando ero un loro affiliato, mi era stato ripetuto più volte che era meglio morire o uccidere che lasciare la Chiesa.’ 54
Allo stesso tempo, però, confidavo nel fatto che con me i de-programmatori non avrebbero avuto successo. Sapevo che avrei avuto altre possibilità di fuga. Decisi così di risparmiare mio padre. Quando arrivammo all’appartamento dove doveva continuare la de-programmazione, mi rifiutai di uscire dalla macchina, opponendo resistenza. Minacciai mio padre con estrema violenza e gli dissi che mi sarei di nuovo spezzato la gamba e l’avrei lasciata sanguinare fino a morire. Mio padre si girò verso di me dal suo posto di guida e si mise a piangere. Avevo visto mio padre piangere soltanto una volta prima d’allora, quando avevo quindici anni ed era morta mia nonna. Proprio come allora, sentii un nodo alla gola e una fitta al cuore. “Questa è follia” disse mio padre. “Cosa faresti al posto mio se tuo figlio, il tuo unico figlio, fosse andato via un fine settimana per un seminario e all’improvviso fosse scomparso, avesse lasciato l’università e il lavoro e fosse rimasto coinvolto in una organizzazione tanto controversa?”. Quella fu la prima volta da quando mi ero unito all’organizzazione che, per un attimo, considerai l’intera vicenda da un’ottica diversa, quella di mio padre. Mi resi conto della sua sofferenza e della sua rabbia, come pure del suo amore di padre, ma pensavo ancora che avesse subito il lavaggio del cervello da parte dei mezzi di comunicazione comunisti. “Probabilmente la stessa cosa che stai facendo tu ora” fu la mia risposta, e credevo veramente in quello che dicevo. “Che cosa vuoi che faccia?” gli chiesi. “Semplicemente parlare con queste persone” mi rispose. “Ascolta ciò che hanno da dirti. Sono tuo padre e non riesco a dormire la notte sapendo che non hai avuto l’opportunità di sentire entrambe le campane”. “Per quanto tempo?” chiesi. “Per cinque giorni”. “E dopo? Potrò andarmene, se voglio?”. “Sì, e se invece ne vorrai uscire, allora sarà per tua scelta”. Pensai a questa proposta. Sapevo che ciò che avevo fatto era giusto. Sapevo che Dio voleva che io rimanessi nel gruppo. Conoscevo il Messia personalmente, in carne e ossa. Conoscevo il Principio Divino a memoria. Che cosa potevo temere? Ero sicuro di poter dimostrare ai miei genitori che nessuno aveva praticato su di me alcun lavaggio del cervello e poi sapevo che, se fossi riuscito a fuggire dopo essere stato trattenuto contro la mia volontà, l’organizzazione mi avrebbe potuto costringere a querelarli per rapimento. E io non volevo giungere a tanto. Conclusi l’accordo. Non avrei contattato i moonisti per altri cinque giorni e non avrei tentato di fuggire. Avrei parlato con gli ex seguaci che erano in attesa nell’appartamento e avrei ascoltato ciò che avevano da dirmi, prendendomi tutte le pause di cui avessi avuto bisogno. Gli ex membri che incontrai non avevano per niente l’aspetto e il comportamento che mi attendevo da loro. A causa del training cui ero stato sottoposto, davo per scontato che fossero freddi calcolatori, materialisti, affamati di soldi e aggressivi. Erano invece affettuosi, gentili e preoccupati per me, idealisti e spirituali e mi trattavano con rispetto. Quali ex devoti, avrebbero dovuto essere depressi e pieni di sensi di colpa. Non lo erano affatto. Erano felici di essere usciti dall’organizzazione e di poter gestire la loro vita come meglio pareva loro, in assoluta libertà. Tutto ciò mi lasciava perplesso. 55
Ero una persona indubbiamente difficile da deprogrammare. Ostacolai il processo con la preghiera e i canti e costruii barricate di rifiuto, razionalizzazioni, giustificazioni e atti di fede. Gli ex membri tirarono fuori il libro dello psichiatra Robert Jay Lifton Thought Reform and the Psychology of Totalism e discussero le tecniche e i processi usati durante gli anni Cinquanta dai comunisti cinesi (il nemico!) per il lavaggio del cervello dei prigionieri. Divenne evidente che le tecniche usate dai moonisti erano pressoché identiche. A quel punto, cominciai a chiedermi: “Può essere che Dio usi le stesse tecniche di Satana per costruire un mondo ideale?”. In quel momento, pensare e riflettere era per me come scalare una montagna di fango. Il quarto giorno discussero di Hitler e del nazismo, raffrontando la filosofia di Moon, basata su una teocrazia mondiale, con gli obiettivi che Hitler pensava di raggiungere con il nazionalsocialismo. Ricordo che a un certo punto dissi: “Non m’importa se Moon è come Hitler! Ho scelto di seguirlo e lo seguirò fino in fondo!”. Quando sentii la mia voce pronunciare quelle parole, un brivido freddo mi percorse la schiena. Lo rimossi immediatamente. La mattina dell’ultimo giorno di de-programmazione sperimentai l’indescrivibile esperienza della mente che improvvisamente si apre, come se a un tratto qualcuno avesse creato un varco di luce. Gli ex membri mi stavano leggendo uno dei discorsi di Moon ai membri del Congresso. “Che serpe!” pensai mentre ascoltavo le ipocrite affermazioni di Moon su come gli americani fossero troppo intelligenti per farsi fare il lavaggio del cervello da un coreano e su quanto egli li stimasse e rispettasse. Lo avevo sentito ripetere dozzine di volte che gli americani, i politici in particolare, erano stupidi, pigri e corrotti. Vi erano tre ex seguaci americani seduti di fronte a me e mi parlarono a turno di come a loro volta avessero subito il lavaggio del cervello da parte di Moon. A un certo punto chiesi a tutti di lasciarmi solo. Il dolore che provavo era di gran lunga superiore a quello provato in seguito all’incidente. Piansi a lungo. Qualcuno entrò e mi mise un panno freddo sulla fronte. Avevo la testa che mi scoppiava e mi sentivo come se fossi un’enorme ferita aperta. Quella fu la notte più dolorosa della mia vita. 56
Il recupero e il ritorno alla vita normale
Non appena ebbi ritrovato me stesso, migliaia di domande mi affollarono la mente. Come avevo potuto credere che un industriale multimiliardario coreano potesse essere il Messia? Come avevo potuto rinnegare ogni mio principio etico e morale? Come ero riuscito a tenere un comportamento tanto crudele con così tante persone? Lo stato di allucinazione che mi aveva alimentato giorno per giorno, mese per mese, era sparito. Ciò che restava era una persona spaventata e confusa, ma piena d’orgoglio. In alcuni momenti mi sentivo come se mi fossi appena svegliato da un sogno e non sapessi distinguere lo stato onirico da quello reale; in altri mi sembrava di essere precipitato da un grattacielo e stessi cadendo nel vuoto, senza mai toccare il fondo. Ero sopraffatto dalle emozioni. Mi sentivo triste e avvertivo la mancanza degli amici del gruppo, specialmente dei miei “figli spirituali”, quelli da me reclutati. Mi mancava quella sensazione di eccitamento che mi aveva spronato nella convinzione di fare cose che avevano un’importanza universale. Mi sentivo svuotato e privato di quel senso di grande potere che il perseguire un “unico” scopo nella vita è capace di dare. In quel momento, l’unica mia certezza era di avere una gamba rotta. Mi sentivo enormemente imbarazzato per il fatto di essere caduto nelle maglie di una setta. I miei genitori mi avevano avvisato sulla natura di quel culto: perché non lì avevo ascoltati? Perché non mi ero fidato di loro? Ci vollero settimane prima che li potessi ringraziare del loro aiuto. Passarono mesi prima che riuscissi a parlare dei moonisti come di una setta. Passai mesi e mesi sui libri. Quello che mi bruciava dentro era come i moonisti fossero riusciti a convertirmi e indottrinarmi in maniera tanto accurata da rendermi incapace di pensare con la mia testa. Lessi tutto ciò che mi capitava a tiro. Sulle prime, il solo leggere fu per me una grande fatica. Per oltre due anni le mie uniche letture erano stati i testi dei moonisti. Avevo difficoltà a concentrarmi e la mia mente divagava, senza che riuscissi a comprendere il senso di ciò che stavo leggendo. Starmene a casa era difficile. Mi sentivo terribilmente depresso. Dato che avevo ancora la gamba ingessata, avevo bisogno di essere assistito per muovermi, mangiare e perfino per andare in bagno. Non ero abituato a essere tanto dipendente dagli altri. Nel gruppo ero abituato a gestire una comunità e la vita di otto persone. Ora ero un capitano senza ciurma. Mi pesava molto aver fatto soffrire tanto la mia famiglia. I miei si comportavano in modo meraviglioso con me, ma io provavo ancora un tremendo senso di colpa nei loro confronti. Ancora di più mi pesava quello che avevo fatto come moonista. Avevo mentito, manipolato e ingannato, avevo indotto le persone ad abbandonare gli studi, le loro amicizie e persino le famiglie per seguire un futuro dittatore. Man mano che approfondivo lo studio delle tecniche usate per il controllo mentale, il senso di colpa si trasformò in rabbia. 57
Rintracciai Robert Jay Lifton e ottenni di incontrarlo, nel suo appartamento di Manhattan. Era curioso di sapere come mai fossi così interessato al libro in cui parlava del sistema cinese di lavaggio del cervello, da lui scritto quindici anni prima, nel 1961. Rimase senza parole quando gli descrissi dettagliatamente le tecniche usate dai seguaci di Moon per reclutare nuovi adepti e gli spiegai come erano organizzati i loro seminari, che duravano prima 3 e 7 giorni, e poi 21, 40 e 120 giorni. Mi disse: “Ciò che mi stai descrivendo è una tecnica molto più raffinata di quella usata dai cinesi negli anni Cinquanta. E’ come la mutazione ibrida di un pericoloso ceppo virale! “. Lìfton cambiò totalmente l’opinione che avevo di me, quando disse: “Steve, tu ne sai molto di più su questo argomento di quanto ne sappia io stesso, perché tu lo hai vissuto sulla tua pelle. Io ne conosco soltanto la parte teorica e in maniera indiretta. Devi metterti a studiare la psicologia e sfruttare la tua esperienza per informare gli altri”. Più tardi mi chiese di scrivere con lui un libro sul controllo mentale, cosa che non si è però realizzata. Ero lusingato dalla sua offerta e il progetto mi piaceva, ma non era ancora il momento giusto per me. 58
Decido di parlare in pubblico.
L’incontro con Lifton mi aveva cambiato la vita. Anziché guardare a me stesso come a un fallimento scolastico, un poeta senza poesia (ora rimpiangevo amaramente l’aver buttato via le mie quattrocento poesie) e un ex adepto, mi resi conto che forse il destino aveva in serbo per me qualcosa di meglio. Pur non essendo più un moonista, all’epoca pensavo ancora in termini di contrapposizione dualistica: il bianco e il nero, il buono e il cattivo, noi contro loro. Il più famoso esperto in lavaggio del cervello esistente al mondo pensava che avessi un grande contributo da offrire alla società e che la mia esperienza personale potesse tornare utile alla collettività intera. Nel frattempo, avevo iniziato a frequentare seminari di autocoscienza per persone che avevano avuto il mio stesso problema ed ero entrato in contatto con molti genitori di ragazzi che erano diventati moonisti. Mi chiesero di parlare ai loro figli e io accettai. Fu allora (era il 1976) che iniziai a pensare seriamente di diventare un consulente di professione: quel lavoro sembrava essere fatto apposta per me. A quel tempo non esistevano metodologie alternative alla deprogrammazione forzata. Prima di aderire al culto di Moon, all’università avevo seguito un piccolo training come consulente per studenti. Inoltre, io stesso ero stato deprogrammato. Nel parlare agli adepti, la cosa che mi tornò maggiormente utile fu l’essere stato un moonista in posizione dirigenziale, cosa che mi permetteva di conoscere bene i meccanismi che regolavano la loro psicologia. Per circa un anno mi occupai di deprogrammazione. Un paio di casi che mi trovai ad affrontare sembravano implicare il sequestro di persona da parte dei genitori o delle persone da loro ingaggiate; la maggior parte dei casi riguardava seguaci che erano tornati a casa per fare visita ai loro genitori, finendo con l’esservi trattenuti a forza. A volte si trattava di episodi di custodia legale, in cui la famiglia otteneva l’affidamento del figlio, anche se maggiorenne. Oggi queste leggi sull’affidamento sono cadute in disuso. Credo che siano state abrogate grazie alle pressioni esercitate dagli avvocati dei culti. Fortunatamente, comunque, non ricevetti denunce e la maggior parte dei miei interventi ebbero un esito favorevole. Quello che non amavo era la tensione che scaturiva dalla deprogrammazione forzata e volevo trovare un altro sistema per aiutare gli adepti a uscire dai culti distruttivi. Dopo un anno di conferenze pubbliche e di interviste televisive e radiofoniche, decisi che avevo bisogno di riscoprire me stesso. Smisi di lottare contro i gruppi e tornai a frequentare l’università. Scrivevo poesie, giocavo a basket, uscivo con le ragazze e mi misi a lavorare come volontario per due agenzie di consulenza studentesca alla Boston University: avevo ritrovato la mia identità. Nel frattempo Moon stava facendo parlare di sé. Al Congresso, la Sottocommissione per le Relazioni Internazionali condusse una lunga indagine sulle attività dei servizi segreti coreani negli USA, e su altre manovre degli agenti coreani volte a influenzare le decisioni del governo america no. Accettai di dare il mio contributo personale all’indagine, dietro garanzia che non avrei dovuto testimoniare ufficialmente. Di fatto, non seguii più di tanto l’indagine del “Koreagate”, tranne che per qualche articolo letto all’epoca. Ero certo che il governo sarebbe riuscito a smascherare Moon e a distruggere la sua organizzazione. 59
Il rapporto finale dell’indagine comprendeva una sezione di ottanta pagine sui moonisti in cui si diceva che l’organizzazione di Moon “violava sistematicamente la legge sul fisco, sull’immigrazione, sulle norme bancarie e valutarie e sulla registrazione di agenti stranieri, nonché le leggi nazionali e statali sulle frodi mascherate da attività caritatevoli”. Ciò rendeva necessario creare una speciale task force, incaricata di continuare a raccogliere prove per perseguire legalmente Moon e gli altri capi della Chiesa dell’Unificazione. Nella sua relazione, la minoranza repubblicana della Sottocommissione aveva inserito la seguente affermazione: “E’ difficile capire perché le apposite Agenzie dell’Esecutivo non abbiano già adottato misure contro le attività illegali svolte dall’organizzazione di Moon”. Non sapevo ancora che di lì a poco il corso degli eventi mi avrebbe costretto a scendere in campo con una posizione più netta. Il rapporto fu reso noto il 31 ottobre del 1978. Tre settimane dopo, il parlamentare californiano Leo J. Ryan, membro della commissione d’indagine sul Koreagate, venne ucciso con un’arma da fuoco vicino a Jonestown, in Guyana, mentre cercava di aiutare i membri di un altro culto, il Tempio del Popolo, a fuggire dagli orrori del campo di Jim Jones. Seguii in televisione i telegiornali che davano notizia di come circa novecento persone fossero morte perché il loro leader era impazzito. Sentii un brivido freddo percorrermi la schiena. Non avevo mai sentito parlare prima di allora del Tempio del Popolo, ma mi ritrovai immediatamente nella mentalità di quei seguaci. Ricordai le volte in cui avevo ascoltato Moon che arringava i fedeli, chiedendo loro se erano disposti a seguirlo a costo delle loro stesse vite. Mi ritornò in mente di quando aveva affermato che se mai la Corea del Nord avesse invaso quella del Sud, avrebbe inviato gli affiliati americani della Chiesa dell’Unificazione a morire sulla prima linea del fronte, affinché gli americani ne traessero ispirazione per combattere un’altra guerra in Asia. Passai giornate intere a riflettere sul problema delle sette. Fu il massacro di Jonestown a convincermi più di ogni altra cosa a uscire nuovamente allo scoperto. Accettai diversi inviti e partecipai a trasmissioni televisive. Nel 1979 mi fu chiesto di fornire un contributo e di parlare davanti al Congresso americano nel corso delle audizioni pubbliche organizzate dal senatore Robert Dole sui culti. All’ultimo minuto, però, tutti gli ex adepti che erano stati invitati a parlare furono depennati dalla lista. L’audizione fu un disastro. Dopo questo episodio, l’influenza di Moon prese ad aumentare. Quando Ronald Reagan divenne presidente, i gruppi controllati da Moon a Washington iniziarono a finanziare il movimento politico della “nuova destra”. Quando fu chiaro che il Governo federale non avrebbe fatto nulla per contrastare il dilagare dei moonisti, decisi di impegnarmi attivamente e fondai un gruppo chiamato “Ex Seguaci Contro Moon”, che più tardi divenne la “Ex Moon Inc. Organizzai conferenze stampa, iniziai a pubblicare un notiziario mensile e rilasciai numerose interviste. Avevo anche pensato di fondare un gruppo di ex affiliati provenienti da culti diversi ma decisi che, dopo l’uscita ufficiale del rapporto investigativo, sarebbe stato molto meglio concentrarsi esclusivamente sui moonisti. Presentai un’interrogazione al Ministero della Difesa in cui, sulla base della legge sulla libertà di informazione, chiedevo come mai una ditta di proprietà di Moon, la Tong II Industries, avesse il permesso di produrre fucili mitragliatori americani M- 16 in Corea, quando solamente lo Stato della Corea del Sud era legalmente autorizzato a fabbricare tali armi. Chiesi provocatoriamente se l’organizzazione di Moon facesse parte del governo sudcoreano. Non era, per caso, che il Ministero della Difesa stesse facendo loro un trattamento di favore? La mia richiesta venne archiviata con la motivazione che rispondere alle mie domande avrebbe significato mettere a repentaglio la sicurezza del Paese. 60
Sapevo che non volevo più fare deprogrammazioni forzate. Per aiutare i seguaci dei culti dovevo trovare un modo che fosse meno traumatico, meno costoso e che non violasse la legge. Avevo letto migliaia di pagine— tutto ciò che mi era capitato sottomano — a proposito di controllo e riforma del pensiero, lavaggio del cervello, modifiche del comportamento, tecniche di persuasione e indottrinamento e reclutamento della CIA. Il campo più importante da investigare adesso era quello dell’ipnosi. Nel 1980 partecipai a un seminario di Richard Bandler sull’ipnosi, che si basava sulla Programmazione Neuro-Linguistica (PNL), un metodo da lui elaborato insieme a John Grinder. Fui impressionato da ciò che appresi, perché mi fornì la chiave d’accesso alle tecniche del controllo mentale e al modo in cui andavano contrastate. Passai quasi due anni a studiare la PNL con chiunque fosse impegnato nella messa a punto e nel varo di questa metodologia. Mi trasferii anche a Santa Cruz, in California, per seguire un training con John Grinder. Nel frattempo, mi ero anche innamorato e sposato. Mi trasferii in Massachusetts quando mia moglie Aureet vinse una borsa di studio per un master ad Harvard. Di fatto, nutrivo delle perplessità sui risvolti etici di quella che mi sembrava una massiccia campagna pubblicitaria, finalizzata alla promozione della PNL come strumento volto ad aumentare il proprio potere personale. Abbandonai Grinder e iniziai a studiare i lavori di Milton Erickson, Virginia Satir e Gregory Bateson, su cui la PNL è basata. Imparai molto sia sul funzionamento della mente che sul modo per comunicare più efficacemente con gli altri. Riuscii a sfruttare questo bagaglio di conoscenze per aiutare le persone rimaste coinvolte nei culti, scoprendo che era possibile creare un modello in grado di inquadrare il processo di trasformazione cui una persona va incontro quando entra in una setta o riesce ad uscirne. Quali sono i fattori individuali che permettono a un individuo di sottrarsi al controllo mentale? Perché alcuni interventi hanno successo e altri no? Che cosa accade ai processi mentali nel caso di quelle persone che lasciano un culto senza alcuna difficoltà? Iniziai a elaborare alcuni schemi. Scoprii che i “fuoriusciti” erano tutte persone che avevano mantenuto contatti con il mondo esterno. Evidentemente, doveva esserci un modo per far sì che le informazioni in grado di cambiare la vita del soggetto penetrassero nei circuiti mentali sottoposti al controllo della setta. Sapevo quanto erano state importanti per me le lacrime di mio padre. Ancora più importante era stato il fatto che egli fosse riuscito a convincermi a osservare me stesso dal suo punto di vista e a rielaborare le mie informazioni secondo la sua prospettiva. Analizzando la mia esperienza mi resi conto che i fattori che mi avevano aiutato erano stati principalmente due: dare ascolto alla mia voce interiore e l’esperienza diretta. Fattori che erano stati rimossi e sepolti dalla repressione forzata delle emozioni e da tutti i rituali — canti e preghiere — volti a bloccare il pensiero. Ma sotto sotto, il mio vero Io era tutt’altro che morto. L’incidente e la de-programmazione mi avevano aiutato a raggiungere fisicamente e psicologicamente un posto dove ero riuscito, finalmente, a rientrare in contatto con me stesso. Erano sicuramente stati i miei stessi ideali e le fantasticherie su un mondo perfetto che mi avevano spinto tra le braccia dei moonisti. Ma furono quegli stessi ideali che mi permisero di uscirne fuori e condannare pubblicamente il controllo mentale. 61
Da quando ho terminato il master in counseling al Cambridge College, nel 1985, la mia vita è entrata in una nuova fase. Nel periodo in cui lavoravo come psicoterapeuta e portavo avanti l’attività di informazione, ho anche collaborato, in veste di coordinatore nazionale, con FOCUS, un gruppo di auto aiuto formato da ex adepti. Ma soprattutto, mi sono prodigato al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che i problemi dei culti distruttivi non sono scomparsi quando i giovani idealisti che manifestavano negli anni Settanta sono diventati i giovani manager degli anni Ottanta. Di fatto, i culti distruttivi coinvolgono oggi, come coinvolgevano allora, un numero sempre maggiore di persone. Tuttavia, di pari passo con il proliferare di queste formazioni va aumentando anche la nostra comprensione del fenomeno. Il campo dell’exit counseling si sta espandendo grazie al numero crescente di operatori sociali, medici, avvocati e individui comuni impegnati sul campo: Molti di loro sono persone che hanno perduto i propri cari a causa dei culti distruttivi e hanno reagito al trauma prendendo coscienza delle dinamiche che sono alla base del controllo mentale. Esistono sistemi in grado di aiutarci a identificare i culti distruttivi, proteggere noi stessi dal controllo mentale e aiutare gli altri a liberarsi dalla loro influenza . Questo libro vuole offrire la chiave di questa conoscenza. 62
Capitolo 3 IL CONTROLLO MENTALE NEI CULTI: UNA MINACCIA INCOMBENTE Provate a immaginare quanto segue: uomini vestiti di arancione che agli angoli delle strade cantano e danzano al suono di cembali e tamburi. Adolescenti bagnati fradici che sotto una pioggia battente corrono da una macchina all’altra vendendo fiori. E ancora: individui in giacca e cravatta e dall’aspetto nervoso, che nella sala d’attesa degli aeroporti chiedono soldi per mettere in quarantena le vittime dell’Aids e finanziare la produzione di armi sofisticate. E infine, immaginate più di novecento persone — uomini, donne e bambini, bianchi e neri — che giacciono riversi nel fango a Jonestown, in Guyana. Sono scene note a molti di noi, per esperienza diretta o per averle viste in televisione o sui giornali. Eppure, non sono sufficienti a rappresentare il fenomeno dei culti distruttivi nelle sue attuali dimensioni. Ne mostrano solo l’aspetto più evidente. Cercate ora di visualizzare queste altre immagini. Uomini d’affari e capitani d’industria stretti nei loro completi — giacca, pantaloni e gilet — riuniti nella sala da ballo di un hotel a seguire un training di “autocoscienza” organizzato dalla ditta per la quale lavorano, ai quali non è concesso di allontanarsi neanche un minuto per andare in bagno. Casalinghe che partecipano a seminari in cui si insegna a reclutare amici e vicini in organizzazioni piramidali di vendita. Centinaia di studenti radunati nell’aula di una università accreditata, dove qualcuno sta dicendo loro che potranno levitare e “volare” se soltanto impareranno a concentrarsi nel modo giusto. Liceali che praticano rituali satanici a base di sangue e urina, discepoli di un leader più anziano che sostiene di essere in grado di sviluppare il loro potere personale. Centinaia di persone di ogni ceto e rango che pagano esorbitanti somme di denaro per imparare le verità cosmiche da uno spirito che parla loro tramite channeling dall’inglese channel, canale, tecnica occultistica che tramite trance o meditazione permetterebbe di dialogare con entità immateriali. Queste sono solo alcune tra le diverse forme assunte dai culti distruttivi nella nostra epoca. Forse anche voi conoscete qualcuno che sia radicalmente cambiato a causa della sua esperienza in uno di questi gruppi. E’ infatti molto probabile che tra i vostri conoscenti vi sia almeno un parente, un amico, un collega o un compagno di scuola che sia rimasto coinvolto in un culto distruttivo. Se non è ancora successo, accadrà prima o poi. Negli ultimi vent’ anni il fenomeno si è ampiamente diffuso, diventando un problema politico e sociale estremamente rilevante. E’ stato stimato che solo negli USA operino almeno tremila culti distruttivi, per un totale di circa tre milioni di seguaci. Questi gruppi sono enormemente differenziati in termini di contenuti e dimensioni. Alcune organizzazioni dispongono di centinaia di milioni di dollari, mentre altre sono ben più modeste. Alcuni culti sono più pericolosi di altri: non contenti di limitarsi a controllare la vita dei loro adepti, mirano alla conquista del potere politico e alla ristrutturazione della società americana, se non del mondo intero. 63
Data l’abilità con cui negli ultimi anni i culti distruttivi sono stati capaci di mettersi al riparo dalle indagini pubbliche, può sembrare allarmistico considerarli una minaccia alla libertà individuale. Eppure sono in grado di influenzare l’assetto politico, esercitando forti pressioni a sostegno di questo o quel candidato. Alcune di queste formazioni, ad esempio, hanno tentato di condizionare la politica estera degli Stati Uniti, appoggiando segretamente alcune potenze straniere. Si è scoperto che i moonisti sono stati tra i principali finanziatori e fornitori di armi ai Contras del Nicaragua. Sono sempre stati loro a investire in Uruguay un capitale la cui stima oscilla tra i settanta e i cento milioni di dollari, nel probabile intento di trasformare il Paese nel loro primo stato teocratico: una specie di trampolino di lancio verso lo scopo dichiarato di “conquistare e soggiogare il mondo”. Negli USA, l’impatto dei culti sull’economia nazionale è notevole, un influsso esercitato acquistando numerose proprietà immobiliari e controllando centinaia di compagnie. Alcuni di essi si infiltrano nelle società con il pretesto di offrire particolari training ai dirigenti, mentre in realtà studiano il modo di acquisire il controllo della società stessa. Altri cercano di influenzare il sistema giudiziario, spendendo ogni anno milioni di dollari per procurarsi i migliori avvocati e cercare di piegare l’interpretazione della legge a proprio uso e consumo. Convinti per principio che il fine giustifichi i mezzi, i culti distruttivi ritengono di essere al di sopra di ogni legge. Certi della “giustizia” e della “correttezza” delle loro azioni, non danno alcun peso a menzogna, furto e imbroglio, o all’uso immorale del controllo mentale finalizzato al raggiungimento dei loro scopi. Essi violano in modo radicale e profondo la libertà e i diritti civili delle persone che reclutano, riducendo in schiavitù ignari individui. In ogni caso, a che titolo definisco un gruppo come culto distruttivo? Mi avvalgo innanzitutto di quel diritto alla libertà di pensiero e opinione garantito dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, laddove questa libertà non degeneri in calunnia. Ma quando etichetto un culto come “distruttivo” lo faccio soprattutto perché risponde ai criteri che espongo dettagliatamente nel sesto capitolo di questo libro. In sintesi: risponde alla definizione di culto distruttivo ogni gruppo che violi i diritti dei suoi membri e li danneggi attraverso l’uso di tecniche ingannevoli e immorali di controllo mentale. Non tutti i gruppi, denominati “culti” e che prevedano credenze e rituali insoliti, debbono necessariamente essere considerati distruttivi. Un culto di questo genere si distingue da un normale gruppo sociale o religioso principalmente perché fa ricorso all’inganno, o a qualche altro mezzo immorale, per trattenere gli adepti al suo interno. Se per due anni e mezzo non avessi subito sulla mia pelle le tecniche di controllo mentale, oggi sarei probabilmente uno strenuo difensore del diritto di tali gruppi a svolgere liberamente la loro attività, senza impedimento alcuno da parte delle istituzioni. Di fatto, sono un accanito sostenitore delle libertà civili, un convinto assertore della necessità di garantire le prerogative di ogni singolo individuo e di difendere i diritti previsti dalla Costituzione in tema di pluralismo religioso. Sostengo il diritto dei popoli a credere in ciò che vogliono, non importa quanto originali e poco ortodossi siano i loro credo religiosi. Se la gente vuole credere che il signor Moon è il Messia, è un suo diritto. Però — ed è questo il punto cruciale — la gente dovrebbe essere protetta da influssi esterni che la inducano a credere che il signor Moon sia il Messia. 65
Lo scopo di questo capitolo è dimostrare la larga diffusione delle tecniche di controllo mentale di natura immorale e costrittiva, descrivendo i diversi contesti sociali in cui i culti attecchiscono e i mezzi che vengono usati per il reclutamento. Sono i metodi operativi che rendono un culto distruttivo. Il modo in cui un gruppo recluta le persone, e cosa succede loro una volta aderito, è determinante per stabilire se tale gruppo rispetta o meno il diritto di ciascuno di scegliere da solo ciò in cui vuole credere. Se per reclutare e controllare gli adepti vengono usati l’inganno, l’ipnosi e le tecniche di controllo mentale, allora si calpestano i diritti civili di queste persone. “I culti” non sono una novità. Nel corso dei secoli, innumerevoli volte si è assistito all’aggregarsi di persone entusiaste intorno alle più disparate tipologie di leader carismatici. Ma in questi ultimi anni si è aggiunto un nuovo elemento: l’uso sistematico di moderne tecniche psicologiche, al fine di ridurre la volontà di una persona così da acquisirne il controllo nei sentimenti, i pensieri e le azioni. Malgrado normalmente si pensi ai “culti” come a qualcosa di religioso (la prima definizione di “culto” che si legge sul Webster ‘s Third New International Dictionary parla di “pratica religiosa, venerazione”), di fatto tali gruppi sono spesso laici. Il Webster definisce “culto” anche ogni “circolo, normalmente di dimensioni ridotte, composto da persone unite dalla devozione o dall’osservanza di un qualche programma, tendenza o manifestazione artistica o intellettuale (di scarsa attrattiva popolare)”. La seconda definizione è quella che più si avvicina al significato di culto moderno, ma non è del tutto aderente, dal momento che l’attrattiva popolare esercitata dai culti moderni è potenzialmente illimitata. Per amore di sintesi, d’ora in poi mi riferirò a molte organizzazioni identificandole semplicemente come “culti”, termine che andrà ad indicare tutti quei gruppi che rispondono alla mia definizione di culti distruttivi. In passato, i leader di culti e sette potevano esercitare un grande potere di coercizione, arrivando spesso ad eccedere. L’accusa di impiegare il controllo mentale si perde nella notte dei tempi. Questi leader raggiungevano il dominio sugli adepti grazie a interventi molto mirati, affinati nel corso del tempo secondo un’arte praticata da un ristretto numero di persone. In alcuni casi, si è verificato che gruppi che all’inizio erano considerati culti siano poi cresciuti, tanto da diventare vere e proprie religioni di tutto rispetto, come nel caso dello Scientismo, diffusosi all’inizio del secolo. Tuttavia, anche religioni di questo tipo possono presentare aspetti distruttivi e avere elementi in comune con i nuovi culti distruttivi. Oggi il controllo mentale sta diventando più “scientifico”. A partire dalla seconda guerra mondiale, i servizi segreti di vari paesi sono stati massicciamente impiegati nella ricerca e lo sviluppo delle tecniche di controllo mentale. La CIA ammette di aver condotto sin dagli inizi degli anni Cinquanta esperimenti con droghe, elettroshock e ipnosi, all’interno di programmi dal nome in codice MK-ULTRA. Da allora, le ricerche si sono sviluppate anche in altre aree. Una generazione fa, il movimento psicologico per il potenziale umano iniziò a sperimentare la possibilità di influenzare e controllare le dinamiche individuali e di gruppo. Le tecniche utilizzate a tal fine furono sviluppate con la migliore delle intenzioni: aiutare le persone ad abbandonare costrutti mentali deboli e abitudini debilitanti e mostrare loro come, di fatto, potevano cambiare. 66
Alla fine degli anni Sessanta divenne popolare una particolare forma di terapia di gruppo, conosciuta come “gruppo di autocoscienza”. In essa le persone venivano invitate a parlare con gli altri dei loro problemi più intimi: Una tecnica molto in uso era quella della “sedia bollente”: un componente del gruppo occupava la sedia posta al centro della stanza, mentre gli altri gli sedevano intorno, formando un cerchio. La terapia consisteva nel far sì che la persona si confrontasse con quelle che i componenti del gruppo ritenevano essere le sue difficoltà. Inutile dire che senza la supervisione di un terapeuta esperto questa tecnica apriva la strada a possibili abusi. Un’altra terapia che ebbe larga diffusione ed esercitò una notevole influenza su molti individui fu l’ipnosi, con particolare applicazione in quella tecnica conosciuta come Programmazione NeuroLinguistica (PNL) cui abbiamo già accennato nel secondo capitolo. Un sempre maggior numero di persone venne in contatto con le tecniche capaci di indurre la trance ipnotica, ma spesso senza le dovute considerazioni etiche che debbono essere sempre tenute presenti quando si interagisce col subconscio di un soggetto. Stando alle numerose testimonianze dirette, queste terapie di gruppo venivano inizialmente usate solo con soggetti consenzienti, che ne trae vano giovamento. Ben presto però, alcune di queste tecniche confluirono in una sorta di psicologia “di massa”, finendo con l’essere alla portata di chiunque ne volesse fare un cattivo uso. Persone prive di scrupoli iniziarono a impiegarle sistematicamente per fare soldi e acquisire potere, manipolando gruppi di seguaci. Secondo quanto emerge dai resoconti degli ex membri, la “sedia bollente”, in particolare, sembra essere utilizzata da numerosi culti distruttivi. Molti partecipanti presero a saltare da un’organizzazione all’altra, portandosi dietro le dinamiche di gruppo acquisite nel frattempo. Leader di sette di ogni genere e tipo iniziarono a capire le illimitate risorse offerte da queste tecniche: il fenomeno del culto moderno stava per nascere ufficialmente. I nuovi culti, di cui i mezzi di comunicazione di massa andavano occupandosi ogni giorno di più, si diffusero rapidamente in America in un arco di tempo che va dalla metà alla fine degli anni Settanta. Chi potrà mai dimenticare il caso di Patty Hearst, la figlia di uno dei maggiori magnati dell’editoria nazionale, William Randolph Hearst 3° , diventata “Tania”, una militante del gruppo terroristico dell’estrema sinistra denominato Armata di Liberazione Simbionese? Col crescere della presa di coscienza di quella che era la potenzialità distruttiva dei culti, nacque la de-programmazione. De -programmatori professionisti come Ted Patrick venivano ingaggiati dalle famiglie che avevano un parente inserito in un qualche culto. L’interessato veniva preso con la forza e sottoposto, spesso nella camera di un albergo isolato, a una sorta di “lavaggio del cervello” al contrario. Così come è accaduto a me, migliaia di adepti vennero di fatto “deprogrammati”, acconsentendo poi a raccontare in pubblico la loro drammatica esperienza e spiegando il funzionamento del controllo mentale. Numerose altre de- programmazioni però fallirono, e sia gli affiliati che gli stessi gruppi cultisti promossero azioni legali nei confronti di famiglie e de -programmatori. Oltre che costose, molte famiglie trovavano queste forme di rapimento ripugnanti, per non parlare del fatto che erano intimidite dall’eventualità di finire in tribunale. Se non volevano servirsi della de-programmazione forzata, non potevano far altro che aspettare pazientemente che accadesse qualcosa. Di fatto, molte persone rimasero nei culti fino a tutta la metà de gli anni Settanta. Poi accadde l’evénto che cambiò la percezione che l’intero Paese aveva dei culti distruttivi: il massacro di Jonestown. Al di sopra del trono di Jones era affisso un cartello che recitava: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo”. Nessuno può spiegare perché Jones avesse fatto suo quel motto di George Santayana, ma paradossalmente, la verità in esso contenuta ci riguarda molto da vicino, soprattutto alla luce della storia recente dei culti e delle loro implicazioni. 67
I quattro principali tipi di culti Sebbene la notizia del massacro di Jonestown sconvolse l’opinione pubblica del mondo intero, resta il fatto che alla fine degli anni Settanta la gente sapeva ben poco delle tecniche di controllo mentale e di quanto fossero diffuse e largamente impiegate. Nel decennio successivo al massacro, i gruppi cultisti continuarono a crescere a dismisura. Ne nacquero di nuovi e quelli vecchi andarono affinandosi. Attualmente esistono gruppi che usano il controllo mentale in contesti sociali diversi. Queste organizzazioni comprendono culti religiosi, politici, psicoterapeutici/educazionali e culti commerciali.
• I culti religiosi sono i meglio conosciuti e i più numerosi. Questi gruppi si focalizzano su dogmi religiosi. Alcuni citano la Bibbia, altri si basano su religioni orientali e altri ancora sull’occultismo, mentre alcuni sono semplicemente frutto dell’inventiva del loro leader Anche se la maggior parte dichiara di appartenere al regno dello spirito, per capirne la vera natura non bisogna far altro che esaminare quanta rilevanza diano a questioni più materiali: lo stile di vita che conducono i leader e i milioni di dollari investiti in proprietà, compagnie commerciali e via dicendo. Uno degli esempi cui abbiamo già accennato è quello della Chiesa dell’Unificazione. Vanno anche ricordati, fra gli altri, la Chiesa di Scientology,’° la Church UniversaI and Triumphant,” The Way International,’ e Rajneesh.’
• I culti politici fanno spesso notizia e sono normalmente indicati dai mass media con il termine “estremisti” o di “frangia”. Ma gran parte del l’opinione pubblica è all’oscuro del loro ricorrere all’inganno per il reclutamento degli affiliati e di come pratichino il controllo mentale, elementi che li distinguono dai soliti gruppi di fanatici, Questi gruppi sono organizzati attorno a un particolare dogma politico. Il leader di uno di questi gruppi, Lyndon La Rouche, si è candidato alla presidenza in tre campagne elettorali e si vanta di essere il consigliere di capitani d’industria e dirigenti politici ai massimi livelli. Un altro gruppo, conosciuto come Move, fu bombardato dalla polizia di Filadelfia dopo che i suoi affiliati si erano barricati in casa con un arsenale di armi. Un altro, la Aryan Nation, gestisce “campi di sopravvivenza” al fine di garantire la supremazia dei bianchi, programmando piani che prevedono di prendere il potere negli USA, a costo della vita.’ Si potrebbe anche citare lo scomparso Democratic Workers’ Party of California, come esempio di culto di estrema sinistra. 68
• I culti psicoterapeutici/educazionali gestiscono seminari e laboratori per centinaia di dollari, incontri che sono volti ad accrescere la “consapevolezza” e a favorire “l’illuminazione” e che si tengono di norma nei centri congressi degli alberghi. Questi culti usano svariate tecniche di controllo mentale per far provare ai partecipanti esperienze sensoriali al di fuori della norma. Gran parte dei partecipanti generalmente si accontenta di questa prima esperienza, ma altri saranno indotti a iscriversi ai successivi e più costosi corsi avanzati. I diplomati dei corsi superiori finiscono con l’essere coinvolti nel gruppo. Una volta entrati, ai nuovi arrivati viene detto di portare amici, parenti e colleghi di lavoro, oppure di allontanarsi da loro. Occorre ricordare che ai reclutatori non è consentito rivelare molto sul programma. Molti di questi gruppi hanno provocato esaurimenti nervosi, divorzi e fallimenti commerciali, per non parlare dei ben documentati casi di suicidio e delle morti per cause accidentali. Le persone che gestiscono questi gruppi hanno spesso alle spalle un passato assai discutibile e poche o nessuna credenziale.
• I culti commerciali credono nel dogma dell’avidità. Ingannano e manipolano le persone affinché lavorino per un misero stipendio o addirittura senza alcun compenso, coltivando la speranza di diventare ricchi, Ci sono molte organizzazioni, a struttura piramidale o multilevel marketing, che promettono grandi guadagni ma che in realtà spennano i malcapitati. Dopo di che distruggono negli affiliati la loro fiducia in se stessi, in modo che non siano in grado di inoltrare reclami. Il successo dipende dal reclutamento di nuove persone, che a loro volta ne recluteranno altre. Alcuni culti commerciali sono rappresentati dalle organizzazioni che tiranneggiano le persone inducendole a girare di porta in porta per vendere riviste o altri articoli Questi culti mettono annunci sui quotidiani locali promettendo viaggi eccitanti e ricche carriere. Mirando soprattutto a studenti liceali e universitari, i reclutatori fissano i “colloqui” nelle stanze di un albergo. Le persone che “superano” il test devono normalmente pagare per seguire un “training” e poi, alla guida di un pulmino, vengono spedite a vendere prodotti in regioni lontane. Questi venditori vengono manipolati facendo leva su paure e sensi di colpa e a volte subiscono abusi psichici e sessuali. Diventano “schiavi” della ditta, a cui girano i loro guadagni per pagare le “spese vive”. 69
Come avviene il reclutamento Come si può vedere, sono molti i modi in cui le persone possono essere raggirate e spinte ad entrare nei gruppi che usano il controllo mentale. Poiché i culti distruttivi mirano a cooptare persone intelligenti, con talento e di successo, i membri incaricati del reclutamento saranno a loro volta degli abili persuasori nei confronti dei nuovi arrivati. Di certo, quel limitato numero di adepti sinceri e devoti che il nuovo arrivato incontra è probabilmente molto più attraente di quanto lo possa essere qualsiasi dottrina o struttura. I culti maggiori dimostrano di sapere molto bene come “allenare” i propri “venditori”. Essi indottrinano i membri insegnando loro a mostrare solo i lati migliori dell’organizzazione. I seguaci vengono addestrati a sopprimere qualsiasi sentimento negativo che possano avere nei confronti del gruppo e a mostrare sempre un volto “felice” e sorridente. Allo stesso modo viene loro insegnato come valutare il nuovo arrivato e a confezionare il prodotto da vendere in modo tale che la vendita ne risulti facilitata. Quando ero con i moonisti, mi venne fatto studiare un approccio di avvicinamento che prevedeva quattro tipologie di personalità. Le persone erano divise in pensatori, emotivi, attivi e credenti. I pensatori sono coloro che affrontano la vita in modo cerebrale, come gli intellettuali. Gli emotivi vengono guidati dalle emozioni. Gli attivi sono portati all’azione e sono molto concreti. I credenti sono orientati verso la spiritualità. Se una persona veniva catalogata come pensatore, noi avremmo dovuto usare un approccio intellettuale. Gli avremmo mostrato fotografie che ritraevano premi Nobel intervenuti a una conferenza scientifica sponsorizzata da noi o simposi di filosofi che discutevano di svariati argomenti. Veniva deliberatamente data l’impressione che questi luminari del mondo scientifico e accademico appoggiassero il movimento. Di fatto, che io sappia, nessuno di loro ha mai sostenuto la causa di Moon: erano solo interessati a incontrarsi con colleghi e amici. Certamente il viaggio pagato e le migliaia di dollari come rimborso erano validi incentivi. Gli emotivi generalmente rispondevano bene a un approccio affettuoso e di partecipazione. Con queste persone, le direttive del gruppo erano di porre l’accento sulla serenità e il benessere emozionale come pure sul fatto che l’organizzazione fosse per tutti noi una grande famiglia. L’argomento ideale era l’amore e il fatto che nel mondo non ve ne fosse abbastanza. In situazioni di gruppo gli emotivi tendono sempre a cercare l’accettazione degli altri e quindi noi avremmo mostrato loro calore insieme a una rassicurante e incondizionata approvazione. Gli attivi amano le sfide e aspirano ad avere molto dalla vita. Sono persone che prediligono l’azione. Forse desiderano porre fine alla povertà e alle sofferenze del mondo. Ed eccoci pronti a illustrare loro il nostro operato in tal senso. Sono preoccupati dalle guerre o dal comunismo? Era nostro dovere far intendere come la nostra fosse l’unica organizzazione al mondo dotata di un concreto programma d’azione. (Anche se non era affatto così, noi lo credevamo davvero). Avremmo raccontato a queste persone delle centinaia di programmi che stavamo organizzando per salvare e guarire un mondo in sfacelo. 71
Nel nostro modello i credenti erano le persone alla ricerca di Dio, o che cercavano di dare un senso spirituale alla loro vita. In genere ci raccontavano spontaneamente di esperienze ascetiche, sogni, visioni e rivelazioni. Per la maggior parte, si trattava di persone molto “aperte e ricettive” che si reclutavano praticamente da sole. Per me è sempre stato motivo di stupore rendermi conto di quante persone appartenenti a questa categoria ci raccontavano di aver appena pregato Dio perché mostrasse loro cosa dovessero fare della propria vita. Molti credevano di essere stati “spiritualmente” guidati a incontrarsi con noi. Con loro era semplicemente questione di condividere le nostre “esperienze”, per convincerli a credere che era stato Dio a condurli noi. Contrariamente a quanto si possa ritenere, buona parte delle persone da noi reclutate non apparteneva alla categoria dei credenti. Il primato spettava invece agli emotivi e agli attivi. Molti soggetti che rientravano nella categoria dei pensatori divennero in seguito leader dell’organizzazione. Con questo modello di tipologia umana come guida nel reclutamento, e con centinaia di gruppi di facciata alle spalle, l’organizzazione di Moon vanta al suo attivo una percentuale di reclutamento molto alta, con persone reclutate appartenenti a ogni ordine e grado sociale Non a caso i proseliti considerano se stessi “pescatori di uomini”, termine mutuato da una parabola usata da Gesù con i suoi discepoli, narrata nel Nuovo Testamento. Il lavoro dei pescatori viene però facilitato dal fatto che la maggior parte della gente non ha la più pallida idea dell’entità delle risorse in dotazione ai maggiori culti distruttivi. Molte delle principali organizzazioni si sono arricchite grazie alle strategie di raccolta fondi, come pure grazie alle donazioni in denaro e delle proprietà dei loro seguaci. Gran parte di tali capitali vengono poi reinvestiti nel reclutamento di un sempre maggior numero di adepti. Oggi è molto diffusa l’abitudine da parte di alcuni gruppi di spendere enormi quantità di denaro nelle pubbliche relazioni. Essi pagano esperti di rango affinché li aiutino a costruirsi una “immagine” positiva che li faciliti nel raggiungimento degli obiettivi segreti. Assoldano specialisti nelle ricerche di mercato perché indichino loro la migliore delle campagne di reclutamento: useranno qualsiasi cosa si mostri efficace a questo scopo. L’individuo medio non ha molte vie di scampo. Non è in grado di riconoscere il controllo mentale e non è al corrente dei metodi utilizzati dai vari gruppi. Non sa quali domande porre e quali sono i comportamenti da cui deve guardarsi. L’individuo medio è convinto di non essere tipo da cadere in trappola. 72
Perché hanno tanto successo? Per quale motivo vi è una sorta di passiva accettazione della minaccia rappresentata dai culti che praticano il controllo mentale? Prima di tutto, asserire che l’uso illecito del controllo mentale possa colpire chiunque, mette automaticamente in discussione l’antico principio filosofico (su cui si basa il nostro intero sistema) che l’uomo è un essere razionale, pienamente responsabile e in grado di controllare ogni sua azione, secondo una visione del mondo che di fatto non lascia spazio ad alcuna ipotesi di controllo mentale. In secondo luogo, tutti noi crediamo nella nostra invulnerabilità. Fa troppa paura pensare che qualcuno possa controllare la nostra mente. Terzo, l’influenza da parte del mondo esterno è un processo che inizia nel momento stesso della nostra nascita, per cui è facile assumere la posizione in base alla quale “tutto è controllo mentale”, a cui fa seguito una conclusione del tutto ovvia: “Perché mai preoccuparci tanto?”. Partiamo dall’assunto che l’uomo è un essere razionale. Se si vede la cosa da quest’ottica, la conseguenza logica è ritenere che i seguaci di un culto distruttivo abbiano semplicemente operato una “scelta” razionale, optando per uno stile di vita deviante. Se il soggetto in questione è maggiorenne, prosegue l’argomentazione, allora ha diritto di vivere come meglio ritiene. Tale ragionamento si dimostrerebbe valido nel caso in cui non fossero state usate tecniche fraudolente al fine di influenzare la “scelta” del soggetto. Anche se può sembrare ovvio, noi esseri umani non siamo creature del tutto “razionali”. La totale razionalità escluderebbe le emozioni e con esse la nostra stessa natura fisica, dal momento che non possiamo vivere senza la componente emotiva. Nel corso della vita tutti abbiamo bisogno di amore, amicizia, attenzione e approvazione. La maggior parte di noi concorda, ad esempio, su quanto sia meraviglioso innamorarsi. E nessuno metterebbe mai in discussione il fatto che la nostra corporeità incida pesantemente sulla nostra stessa esistenza. Siete mai rimasti per alcuni giorni senza chiudere occhio o dormendo pochissimo? Se vi è successo, dubito che siate riusciti ad avere lucidità mentale e a controllare in pieno le vostre azioni. Avete mai digiunato per giorni e giorni? Quando il corpo non riceve abbastanza cibo, la mente comincia ad avere allucinazioni. In tali circostanze, la nostra fisiologia mina la razionalità. In secondo luogo abbiamo il problema che scaturisce dalla convinzione di essere invulnerabili. Ciascuno di noi ha bisogno di credere di avere la propria vita sotto controllo: la sensazione che gli eventi possano sottrarsi al nostro dominio non ci piace, e così tendiamo a razionalizzare qualsiasi cosa affinché acquisti un senso. Quando ci capita di sentire che qualcosa di spiacevole è accaduto a qualcuno (tipo una rapina o uno stupro) cerchiamo generalmente di trovare una ragione che spieghi perché quella persona ne è stata vittima. Stava forse camminando a tarda ora in un quartiere a rischio? Generalmente le persone tendono ad ascrivere una diretta relazione di causa-effetto a quanto accaduto: se qualcosa di brutto è successo, chi ne ha risentito deve aver fatto qualcosa di sbagliato. Questo tipo di comportamento si chiama colpevolizzare la vittima. Anche se effettivamente vi possono essere valide ragioni nell’ipotizzare un comportamento incauto da parte del soggetto (certamente tutti noi dobbiamo imparare dalle tragedie della vita), in realtà il malcapitato potrebbe essersi semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il colpevolizzare la vittima gioca un importante ruolo psicologico nel permetterci di prendere le distanze da chi è stato danneggiato. In questo modo, possiamo dire a noi stessi: “A me questo non potrebbe mai accadere perché io sono diverso. Non sono così ingenuo”. 74
Le persone che si trovano a giudicare un adepto, spesso prendono un abbaglio quando pensano: “Che individuo debole! Sicuramente stava cercando un modo per sfuggire alle sue responsabilità e trovare qualcuno che gestisse la sua vita”. In questo modo negano a se stessi l’eventualità che la medesima cosa possa un giorno accadere anche a loro. Pensano che a loro “non accadrà mai” perché vogliono credere di essere più forti e migliori dei milioni di persone finite in un culto distruttivo. Il bisogno di credere di essere invulnerabili si trasforma in una debolezza che può tornare a vantaggio dei reclutatori. Tanto per fare un esempio, un abile reclutatore potrebbe dire: “BilI, sono veramente colpito dalla tua intelligenza e dalla tua apertura mentale. Tu non permetteresti mai che qualcuno ti facesse fare ciò che non vuoi. A te piace pensare con la tua testa, quindi non permetterai di essere confuso dai messaggi dei mass media che impauriscono le persone con strani discorsi sul controllo della mente. Sei troppo astuto per questo tipo di cose. Quindi, che ne dici di venire al seminario?”. Che dire infine della posizione filosofica secondo cui “tutto è controllo mentale”? È certamente vero che per tutto il corso della nostra vita siamo soggetti a essere influenzati. Esiste però un ampio spettro di possibilità che vede da un lato le influenze positive (un amico ci dice che dovremmo vedere un certo film) e all’estremo opposto le influenze di tipo distruttivo, quali indottrinare una persona all’autoeliminazione o all’eliminazione altrui (come accaduto a Jonestown). La maggior parte dei gruppi con cui ho a che fare si situano in prossimità dell’estremo distruttivo. Che cosa intendo veramente quando parlo di controllo mentale? Come vedremo più dettagliatamente nel quarto capitolo, il termine si riferisce a un particolare tipo di tecniche capaci di influenzare i pensieri, i sentimenti e le azioni di una persona. Analogamente a quanto accade per la maggior parte dei campi del sapere, anche quello relativo al controllo, in se stesso, non è né buono né cattivo. Se le tecniche vengono applicate per aumentare la sicurezza di un individuo affinché abbia più possibilità di scelta e maggiore capacità decisionale, e a patto che il controllo della sua vita rimanga nelle sue mani, gli effetti possono essere altamente benefici. Tanto per fare un esempio, sono molte le persone che fanno ricorso all’ipnosi per smettere di fumare. Ma se il controllo mentale viene attuato per cambiare il sistema di credenze di una persona senza che vi sia il suo consenso informato, rendendola altresì dipendente da figure autoritarie esterne, gli effetti possono essere devastanti. Di fatto, alcuni gruppi distruttivi trasformano i loro seguaci in individui totalmente dipendenti. In un momento in cui si fa un gran parlare di terapie per combattere l’alcolismo e la droga, è altrettanto vitale che i professionisti della salute mentale prendano in considerazione questo popolo di ex adepti. Persone indottrinate a eseguire ogni giorno cantilene ripetitive o sedute di meditazione dalla durata eccessiva, possono diventare psicologicamente e fisiologicamente dipendenti da queste e da altre tecniche di controllo mentale. Questa sorta di “congelamento mentale” provoca massicce secrezioni di sostanze chimiche che causano non solo uno stato di dissociazione, ma anche un’alterazione simile a quella creata dall’uso di stupefacenti. Ex membri che per anni hanno praticato queste tecniche sono stati soggetti a una grande varietà di effetti collaterali, che vanno dai forti mal di testa agli spasmi dei muscoli involontari, alla diminuzione delle facoltà cognitive quali la memoria, la concentrazione e la capacità decisionale. 75
Fobie: la forza che priva gli adepti della loro libertà Fobie? Conoscete qualcuno che ne soffra? Voi stessi, magari? Le fobie più comuni riguardano il viaggiare in aereo, parlare in pubblico, prende re ascensori, guidare sotto i tunnel o sui ponti e il contatto o la semplice visione di alcuni animali, tipo serpenti, ragni e perfino cani. Essenzialmente, la fobia consiste in un’intensa reazione di paura a qualcuno o qualcosa, reazione che può manifestarsi secondo una progressione che va da una forma lieve a una molto acuta, L’episodio acuto può causare una serie di intense risposte fisiche quali tachicardia, secchezza della bocca, sudorazione eccessiva, tensione muscolare. Le fobie possono paralizzare le persone e trattenerle dal fare ciò che veramente vogliono fare. Di fatto, le fobie possono privare le persone della loro libertà di scelta. In genere le fobie si sviluppano in seguito a eventi traumatici: un amico muore in un incidente aereo; l’ascensore si blocca e si rimane imprigionati al suo interno, al buio, per ore e ore; qualcuno viene morso da un serpente. Noi impariamo ad associare i sentimenti estremamente negativi con l’oggetto che li ha suscitati. Dopo tale esperienza, le nostre paure acquistano vita propria, diventano autonome e successivamente, in un lasso di tempo variabile, possono trasformarsi in fobie. La struttura di una fobia coinvolge diverse componenti interne, che interagiscono tra loro dando luogo a un circolo vizioso. Queste componenti includono preoccupazioni, immagini interiorizzate negative, paure di minacce e di perdita del controllo. Il solo pensare all’oggetto può talvolta mettere in azione questo meccanismo. Il soggetto interessato può dire a se stesso: “Spero che il professore non mi chiami per interrogarmi” e questo pensiero è sufficiente perché inizi a diventare teso e ansioso. Si crea mentalmente (in genere in maniera inconscia) un’ immagine di sé che si avvia verso la cattedra e che si paralizza per la paura. In questo vivido filmato vede se stesso sudare in preda all’agitazione e sente la sua mente diventare un buco nero. Tutti stanno ridendo di lui e l’insegnante comincia a urlargli in faccia. Questa immagine umiliante lo fa sentire ancora più agitato e accresce ulteriormente la sua paura di essere chiamato dall’insegnante: ecco che si avvia a vivere una vera e propria situazione fobica. Che cosa hanno a che fare le fobie con i gruppi che esercitano il controllo mentale? Alcuni culti inducono sistematicamente nei loro affiliati una vera e propria fobia associata all’eventuale abbandono del gruppo. Oggi i culti sanno come inculcare efficacemente nei seguaci vivide immagini negative, capaci di operare a livello inconscio e tali da rendere loro impossibile soltanto concepire l’idea che si possa essere felici e avere successo al di fuori del gruppo. La mente inconscia viene così condizionata in modo da contenere una vera banca dati di immagini relative a tutte le cose terribili che accadranno a colui che tradisce il gruppo. Una volta programmato ad accettare le immagini negative, l’inconscio si comporterà come se fossero vere. I seguaci sono programmati, apertamente o in maniera subdola e sottile (a seconda dell’organizzazione), a credere che se lasciano il gruppo moriranno di qualche malattia terribile, travolti da una macchina o uccisi in un incidente aereo, oppure causeranno la morte dei loro cari. Alcuni gruppi programmano gli affiliati affinché credano che, semmai dovessero lasciare il. gruppo, ne conseguirebbe un olocausto nucleare planetario. Certo, questi pensieri sono irrazionali e non hanno alcun senso, ma occorre ricordare che la maggior parte delle fobie è irrazionale. 76
La maggior parte degli aerei non precipita, la maggior parte degli ascensori non rimane bloccata e la maggior parte dei cani non ha la rabbia. In molti casi, le fobie indotte dai culti sono create e impiantate così bene che le persone non si rendono nemmeno conto della loro esistenza. I membri sono così condizionati a sopprimere il loro vero Io da non avere coscienza del desiderio di andarsene. Credono di essere così felici nel gruppo che mai arriveranno a desiderare di abbandonarlo. Queste persone non riescono più a visualizzare immagini positive di se stesse al di fuori del gruppo. Pensa come ti sentiresti se credessi che misteriosi individui sono determinati ad avvelenarti. Se questo pensiero fosse stato indotto profondamente nella tua mente inconscia, credi che saresti in grado di andare al ristorante e gustarti una cena? Quanto ci metteresti per ridurti a mangiare solo il cibo comprato e cotto da te? Se per caso qualcuno con cui stai mangiando in un ristorante improvvisamente si sentisse molto male, quanto tempo pensi che impiegheresti prima di smettere di mangiare del tutto? Tale pensiero fisso limiterebbe in maniera sostanziale le tue scelte. Certo, nasconderesti la cosa ai tuoi amici o proveresti a razionalizzare il tuo comportamento dicendo loro che non ti piace mangiare fuori perché sei a dieta o cercando di convincerli che i ristoranti sono poco igienici e quindi possono essere pericolosi. Di fatto, le tue scelte in campo culinario non includerebbero più la ricerca del ristorante giusto per il piacere di mangiare fuori. Allo stesso modo le fobie indotte dai culti limitano le scelte delle persone. I membri credono veramente che lasciando la sicura protezione del gruppo saranno distrutti. Sono convinti che non esistano altri sistemi di crescita spirituale, intellettuale o emozionale: sono stati di fatto trasformati in schiavi dalle tecniche di controllo mentale. 77
La mente inconscia: chiave di creatività e vulnerabilità Che cosa ci rende tanto vulnerabili ai processi di condizionamento? La risposta sta nella natura della mente stessa, descritta come un incredibile e sofisticato computer biologico programmato per la sopravvivenza. E’ rimarchevole la sua capacità di adattarsi e rispondere in maniera creativa sia ai bisogni della persona che a quelli dell’ambiente circostante. Ogni secondo la nostra mente filtra fiumi di informazioni, mettendoci in grado di gestire ciò che riteniamo importante. La nostra mente è un enorme serbatoio di informazioni, archiviate in forma di immagini, suoni, sensazioni, sapori e odori. Tutte queste informazioni sono collegate tra loro in modo significativo. La percezione di noi stessi si sviluppa con le esperienze cui andiamo incontro nel corso degli anni e i cambiamenti imposti dalla crescita modificano anche la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo. Le nostre convinzioni e ciò in cui crediamo costituiscono importanti strumenti di elaborazione delle informazioni e sono loro a determinare il nostro comportamento. Sebbene dotati di un certo livello di controllo cosciente, lasciamo al l’inconscio il controllo di molti aspetti della nostra vita. La mente cosciente ha un ristretto margine di attenzione e l’inconscio sovrintende a tutto il resto, curando anche la regolamentazione delle nostre funzioni corporee. Immagina di dover comandare al tuo cuore di battere settantadue volte al minuto. Non avresti più tempo per fare altro. L’inconscio è il principale gestore di ogni informazione. È il nostro inconscio creativo che ci permette di formare immagini mentali e di sentirle come “reali”. Prova a fare questo esperimento: fermati un attimo e lasciati trasportare dalla mente in un esotico paradiso tropicale. Senti sul viso il calore del sole, la brezza fresca e il profumo dell’oceano. Pur non essendo mai stato in un posto del genere, sei stato però in grado di visualizzarlo. Perché? In quel momento la tua mente era forse altrove? La nostra immaginazione può essere canalizzata anche in altri modi. I giocatori professionisti di pallacanestro, ad esempio, prima di effettuare il tiro visualizzano la palla che lascia le loro mani e va a canestro. Questa capacità di fantasticare e visualizzare esiste in ognuno di noi ed è una componente essenziale di ogni essere umano. Tutti noi abbiamo sognato tempi più felici nella nostra vita: incontrare la persona “perfetta” o magari vincere alla lotteria. Ma ricorrendo all’ipnosi, può anche essere creato nel nostro inconscio un mondo di fantasia da utilizzare per renderci schiavi. Con il processo di crescita la mente non cancella le memorie precedenti: essa stratifica le nuove esperienze su quelle vecchie in maniera sistematica. È incredibile con quanta facilità possiamo riandare a memorie passate. Per esempio, cerca di ricordare quando da piccolo ti divertivi con il giocattolo che amavi di più o mangiavi il tuo cibo preferito. Le memorie della nostra infanzia vengono catalogate in un enorme magazzino e possono essere “catturate” e alterate attraverso l’ipnosi. Non è un caso che molti culti distruttivi chiedano ai loro membri di “tornare a essere bambini”. Gli adulti possono facilmente essere fatti regredire a un’età in cui le facoltà critiche erano minime o inesistenti. Da bambini eravamo totalmente dipendenti dai nostri genitori, che rappresentavano per noi la massima autorità. 78
Nonostante tutta la sua potenza e capacità, la mente ha i suoi punti deboli. Il suo funzionamento dipende da un flusso di informazioni coerenti. Mettete una persona in una stanza priva di stimoli sensoriali ed entro poche ore comincerà ad avere allucinazioni e diventerà incredibilmente suggestionabile. Allo stesso modo, ponete una persona in una situazione dove i suoi sensi siano bombardati da informazioni incoerenti e la sua mente diventerà presto “insensibile” (si “paralizzerà”) per un fisiologico meccanismo di difesa. Diventerà confusa e sovraccarica e le sue facoltà critiche non riusciranno più a funzionare in maniera adeguata. È in questa situazione di debolezza psichica che le persone diventano altamente suggestionabili. La mente ha bisogno di schemi di riferimento per strutturare la realtà. Cambiate lo schema di riferimento e l’informazione in arrivo verrà interpretata in un altro modo. Prendete, ad esempio, il rito ebraico della circoncisione. Se la private del significato culturale e dei vantaggi medici, diventerà null’altro che un’aggressione a un bimbo indifeso. Il nostro sistema di credenze ci permette di interpretare le informazioni, prendere decisioni e agire secondo ciò in cui crediamo. Quando le persone vengono sottoposte a processi di controllo mentale, la maggior parte di esse non dispone di schemi di riferimento per tale esperienza e di conseguenza accetta quelli forniti dal gruppo. Quando prendiamo delle decisioni, generalmente non abbiamo il tempo per verificare tutto ciò che ci arriva e quindi ci basiamo sulle informazioni che riteniamo vere. Se per esempio stiamo facendo degli acquisti e ci viene detto che un oggetto è più economico in quel negozio piuttosto che altrove, tendiamo a credere a chi ce lo dice: dopo tutto, perché il negoziante dovrebbe dirci una bugia, sapendo che potremmo sempre tornare indietro e protestare? Se non ci fidassimo di nessuno, diventeremmo paranoici. Se, come estremo opposto, credessimo a tutto e a tutti, saremmo degli ingenui e verremmo sfruttati a vita: viviamo alla continua ricerca del giusto equilibrio tra scetticismo e fiducia. Una persona con una mente aperta cerca di vivere in questo sano equilibrio. I truffatori sono professionisti della menzogna. Le loro maggiori risorse sono il modo di porsi e l’attitudine alla recitazione. La maggior parte delle vittime di questi imbroglioni sottolinea il fatto di aver creduto a quella persona perché “non aveva l’aspetto di un criminale”. Quelli che hanno successo non sembrano mai degli imbroglioni. Essi ispirano un “senso di umanità” che consente loro di neutralizzare le difese del soggetto che hanno davanti. Sono abili oratori, ma non troppo invadenti, perché un modo di fare insistente li metterebbe allo scoperto. Un criminale vuole valutare il bersaglio, fare il colpo, prendere i soldi e fuggire. I reclutatori dei culti usano molte di queste tattiche, con la differenza che il loro vero scopo è quello di farti entrare nell’associazione e che la maggior parte di essi è stata vittima del medesimo meccanismo. Sono convinti che quanto vanno facendo sia per te un bene, con il trascurante dettaglio che quello che vogliono è qualcosa di ben più prezioso del tuo denaro. Vogliono la tua mente! Certo, si prenderanno anche i tuoi soldi, dopo. Ma non scapperanno via come criminali comuni. Pretenderanno che tu ti unisca a loro. E non solo: si aspetteranno che tu faccia lo stesso con altri. Tutti, che ci piaccia o meno, siamo possibili vittime del controllo mentale. Tutti vogliamo essere felici. Tutti abbiamo bisogno di affetto e attenzione. Tutti vogliamo qualcosa di meglio dalla vita: più saggezza, più conoscenza, più soldi, maggiore status, un più alto senso della vita, rapporti sinceri o una salute migliore. Il soddisfacimento di queste primarie esigenze umane è esattamente ciò che i reclutatori ti offrono. E’ importante ricordare che generalmente non sono le persone a entrare nei culti. Sono i culti che reclutano le persone. 80
Le principali tecniche di reclutamento Come riuscire a individuare le tecniche di reclutamento? Il modo migliore consiste nel riconoscere i diversi modi in cui i culti esercitano i loro richiami di associazionismo. Le persone vengono avvicinate in tre modi basilari: da un amico o parente che è già membro, da uno sconosciuto che offre amicizia (spesso un adepto del sesso opposto) o attraverso un avvenimento organizzato dal culto, tipo una conferenza, un simposio o un film. Spesso una persona non sospetta nemmeno lontanamente di essere reclutata. L’amico o il parente ha appena vissuto un’incredibile esperienza interiore e vuole dividerla con te, oppure vuole “semplicemente il tuo parere al riguardo”, facendo finta di aver bisogno del tuo aiuto ma volendo di fatto portarti a un seminario di indottrinamento. Se il reclutatore è uno sconosciuto, di solito crederai semplicemente di esserti fatto un buon amico. Ricerche condotte su seguaci ed ex membri indicano che la maggioranza delle persone integrate nei culti distruttivi sono state avvicinate in un momento di stress e vulnerabilità. Lo stress è spesso dovuto a qualche tipo di situazione di passaggio: il trasferimento in una nuova città, un nuovo lavoro, la rottura di una relazione, un momento di instabilità economica o la perdita di una persona cara. In situazioni di questo tipo i meccanismi di difesa sono generalmente sovraccarichi o indeboliti. E se le persone prese di mira non sapranno riconoscere ed evitare un culto distruttivo, ne diventeranno facile preda. E’ importante capire che il reclutamento non avviene per caso. E’ un procedimento imposto su dei soggetti da parte di altri soggetti. Alti dirigenti pressati dalla competizione e dal bisogno di successo, vengono reclutati da colleghi che raccontano loro degli incredibili benefici che si possono ottenere da un certo “corso”. Studenti universitari sotto pressione a causa degli esami e desiderosi di sentirsi accettati, diventeranno amici di un reclutatore professionista, oppure parteciperanno a una confe renza del gruppo che tratti un qualche tema di attualità sociale. Una casalinga spinta dal desiderio di “fare qualcosa della sua vita”, seguirà l’esempio di un ‘amica ed entrerà in una ditta di vendita di prodotti per la casa a struttura piramidale. Uno studente delle superiori sarà sfidato dai suoi coetanei a provare un rituale satanico. Alcune persone inizialmente entrano in contatto con il culto tramite un mezzo del tutto impersonale. Alcuni iniziano comprando un libro del culto reclamizzato alla TV come best seller, mentre altri riceveranno con la posta un invito a partecipare a un’innocua sessione di “studio della Bibbia”. Alcune persone risponderanno a un annuncio economico. Altre ancora verranno reclutate al momento dell’assunzione in una società di proprietà del culto stesso. Quale sia stato l’approccio iniziale, il contatto personale viene prima o poi stabilito e il reclutatore inizia a cercare di conoscere tutto ciò che può riguardare il potenziale adepto: speranze, sogni e paure ma anche le frequentazioni, il lavoro e gli interessi. Più informazioni un reclutatore è in grado di raccogliere, maggiore sarà per lui la possibilità di manipolazione. Il reclutatore pianifica in modo strategico tutti i passi che indurranno il soggetto a entrare nel gruppo. Il piano può contemplare l’adulazione e le lusinghe, la presentazione a un altro membro con cui si abbiano interessi ed esperienze in comune, l’inganno deliberato circa le finalità del gruppo e tutta una serie di manovre evasive per evitare di rispondere alle domande. Attualmente, chiunque può potenzialmente essere reclutato in un culto distruttivo. 82
Durante tutto il corso degli anni Settanta e inizi Ottanta il target tipico era il giovane universitario, ma già verso il finire degli anni Ottanta persone di tutte le età erano arrivate a cadere nelle maglie delle organizzazioni cultiste. Anche una persona anziana può quindi essere reclutata. Naturalmente buona parte dei gruppi si guarderà bene dall’impiegarla nelle stesse attività svolte dai giovani. L’anziano viene sollecitato a versare pesanti contributi finanziari o utilizzato per parlare in pubblico della sua esperienza. Molte persone di mezza età vengono reclutate per l’esperienza professionale che le rende adatte a mettere su un’impresa o a diventare dirigenti di una qualche società posseduta dal gruppo. Come lavoratori, tuttavia, sono comunque i giovani a rappresentare il fulcro del gruppo, capaci come sono di dormire meno, mangiare poco e lavorare di più. Anche se i bianchi di classe sociale media sono ancora il target preferito dai reclutatori, diversi gruppi si sono attivati anche con neri, ispanici e asiatici. Le persone reclutate da queste comunità sono impiegate per ideare programmi che potranno fungere da attrattiva per gli altri. I principali culti, tanto per fare un esempio pratico, hanno già messo a punto programmi di indottrinamento in lingua spagnola. Un altro target è costituito dagli europei che si trovano negli USA per turismo o per lavoro. Dopo un paio di anni di training e indottrinamento, i malcapitati (in genere con visti ormai scaduti) vengono mandati a reclutare nei loro paesi d’origine. È interessante notare che generalmente i culti evitano di reclutare persone che possano costituire un peso, tipo quelle con gravi problemi emozionali o psicologici. Vogliono persone che possano sopportare le estenuanti richieste della vita di un culto. Se viene reclutato qualcuno che usa droghe, gli si chiede di scegliere tra la droga e il gruppo. Che io sappia, persone con handicap sono praticamente assenti nei culti, perché badare a loro sarebbe una perdita di soldi, tempo ed energie. 83
La vita in un culto: illusione e abuso Una volta che il soggetto è entrato nell’organizzazione, vive le prime settimane o i primi mesi come se fosse in un sogno. Viene trattato da re. Gli viene trasmessa la sensazione di essere una persona speciale che si appresta a iniziare una nuova vita. Il nuovo adepto è ancora all’oscuro di cosa significhi veramente vivere in un culto. Anche se molti seguaci affermano di “non essere mai stati tanto felici” in vita loro, la realtà è tristemente diversa. La vita in un culto è fatta soprattutto di stenti e sacrifici. Le persone che vi lavorano a tempo pieno sanno cosa significhi trovarsi sotto il totalitarismo assoluto, ma non riescono a vedere da una prospettiva distaccata quanto sta loro accadendo. Vivono in un mondo irreale, creato dal gruppo. I membri di un culto passano tutto il loro tempo a reclutare persone, a raccogliere fondi o a lavorare in attività di pubbliche relazioni. Una volta che le persone sono ben agganciate, donano al gruppo denaro e proprietà e, a volte, tutto ciò che possiedono. In cambio ricevono la promessa che il gruppo si prenderà per sempre cura di loro. Questa transazione rende la persona dipendente dal gruppo per ogni cosa: cibo, vestiti, alloggio e assistenza medica. In molti casi, la cura che il gruppo riserva loro è in realtà del tutto o praticamente inesistente. La salute fisica non gode di considerazione alcuna. Alle persone viene fatto credere che se stanno male è a causa di qualche loro debolezza, personale o spirituale: tutto ciò che devono fare è pentirsi e lavorare di più, e i problemi spariranno come per incanto. Sono pochi i culti che stipulano un’assicurazione sanitaria per la copertura in caso di malattia. Ecco perché, quando una persona si ammala seriamente, mentalmente o fisicamente, viene quasi sempre spedita in un ospedale o una clinica gratuita per indigenti. Persone che hanno lavorato fedelmente per anni, arrivando a volte a “rendere” anche migliaia di dollari, si sono sentite dire che il gruppo non era in grado di sostenere le spese mediche e che quindi se ne dovevano andare e stare via fintanto che non si fossero rimesse. Chi ha bisogno di terapie molto costose viene sovente rimandato a casa, in modo che sia la sua famiglia a sobbarcarsi ogni spesa. Se la persona non ha una famiglia in grado di aiutarla, può anche accadere che venga condotta in ospedale e li abbandonata. Queste considerazioni si basano sulla mia esperienza personale e sui resoconti di ex seguaci. Alcuni culti sostengono che la guarigione spirituale è l’unico rimedio ai problemi di salute, un assunto che può essere causa di gravi sofferenze se non addirittura della morte di una persona. Ai seguaci viene detto che la loro malattia ha una causa “spirituale” e li si fa sentire in colpa per non essersi dedicati totalmente al gruppo. Alcuni culti fanno credere agli affiliati che andare dal medico è la prova della loro mancanza di fede e che se vi si recano rischiano l’allontanamento. Oltre alla mancanza di cure mediche, non va sottovalutato il problema dell’abuso sui bambini. Molti bambini sono morti o sono rimasti pesantemente traumatizzati a causa del coinvolgimento dei loro genitori in un culto distruttivo. Non si deve dimenticare che nel massacro di Jonestown furono uccisi quasi trecento bambini, cui non venne lasciata altra alternativa che bere la mortale mistura a base di Kool-Aid. Quello che l’opinione pubblica non sa è che molti di quei bambini, posti sotto la tutela dello Stato della California, erano stati dati in affidamento ai segua ci del Tempio del Popolo, cosa che garantiva all’organizzazione delle sicure entrate economiche, oltre alla possibilità di impiegarli come forza lavoro a costo zero. 84
Alcuni gruppi sostengono la necessità di impiegare maltrattamenti e perfino torture per imporre la disciplina. A Jonestown, i bambini a volte venivano messi di notte dentro pozzi dove si diceva loro vi fossero dei serpenti, mentre dall’alto venivano fatti penzolare dei cappi per impaurirli. Anche se Jonestown è un esempio estremo, sono diversi i gruppi che usano fruste e bastoni per picchiare i bambini, in alcuni casi per ore e su tutto il corpo. In alcuni gruppi non mancano gli abusi sessuali. Abusi che passano sotto silenzio poiché i bambini spesso non frequentano alcuna scuola e sono tenuti lontani da qualsiasi contatto con il mondo esterno. Spesso i bambini vengono cresciuti insieme, in un unico gruppo, e ai loro genitori sono consentite pochissime visite. Fin da piccoli viene loro insegnato che devono obbedienza al leader del gruppo, o al gruppo nella sua totalità, piuttosto che ai propri genitori. Il tempo dedicato ai giochi è molto limitato e talvolta non esiste affatto. I bambini ricevono una scarsissima educazione scolastica, se mai ne viene impartita alcuna. Come ai genitori, anche a loro viene insegnato che il mondo esterno è un luogo ostile e cattivo, e la loro percezione della realtà dipende in tutto e per tutto dalle regole di vita vigenti nel culto. Anche se rappresentano il futuro del gruppo, generalmente vengono considerati di peso a quella che è la domanda immediata di “lavoro”. Le vittime del controllo mentale operato dai culti non sono solo i milioni di adepti insieme ai loro figli, parenti e amici, ma la società intera, saccheggiata della sua più grande risorsa: individui intelligenti, idealisti e ambiziosi, in grado di dare un notevole contributo all’umanità. Molti degli ex membri che ho conosciuto sono diventati dottori, insegnanti, consulenti, inventori, artisti. Immaginiamo che cosa potrebbero realizzare i seguaci dei culti se fossero lasciati liberi di sviluppare i propri talenti. Ma intanto i culti continuano a crescere e a diventare sempre più potenti e numerosi, operando con un’autorizzazione virtuale che consente loro di ridurre in schiavitù le persone. Sembra un’ironia che negli USA, dove si inneggia alla libertà, si faccia molto di più per proteggere dalle pressioni esercitate dai venditori di macchine usate che non da quelle di organizzazioni il cui intento è paralizzare l’autonomia individuale. Fino a quando una precisa normativa non stabilirà le linee guida entro le quali debbono muoversi sia i singoli che le organizzazioni, e finché non verrà riconosciuta l’esistenza delle moderne tecniche di controllo mentale, gli individui saranno abbandonati a se stessi e dovranno cavarsela da soli. Forse però l’unica cosa che importi davvero è il rendersi conto che rispetto ai culti distruttivi siamo tutti vulnerabili. Ciò che dobbiamo senz’altro fare, è informarci sui sistemi operativi dei culti distruttivi ed essere “consumatori accorti” quando avviciniamo un qualsiasi gruppo a cui pensiamo di poter aderire. Amici e parenti di persone che si stanno avvicinando a un qualche movimento o che stanno passando un particolare momento di stanchezza, dovrebbero stare sempre all’erta, prestando attenzione a eventuali cambiamenti repentini nel carattere dei loro cari. Se sospetti che qualcuno di tua conoscenza sia sottoposto al controllo mentale da parte di qualche organizzazione, mettiti subito alla ricerca di un aiuto qualificato. Così come buona parte delle malattie possono essere curate meglio se prese per tempo, lo stesso vale per i problemi causati dai culti distruttivi. 85
Capitolo 4 CAPIRE COS’È IL CONTROLLO MENTALE Quando tengo una conferenza ho l’abitudine di sfidare il pubblico con questa domanda: “Se foste sotto il controllo mentale da parte di qualcuno, sareste in grado di accorgervene?”. Dopo qualche momento di riflessione, la maggior parte degli ascoltatori si rende conto che se un individuo è sotto controllo mentale, è impossibile che se ne avveda da solo, senza l’aiuto di un’altra persona. Per non parlare del fatto che dovrebbe anche sapere in cosa consiste esattamente il controllo mentale. Nel periodo in cui la mia mente è stata assoggettata a controllo, io ero completamente digiuno dell’argomento. Avevo sempre pensato che subire una qualche forma di controllo mentale volesse dire essere torturato da qualcuno, in una cantina buia e con una lampada puntata negli occhi. Ovviamente, stando con i moonisti non mi era mai accaduto nulla del genere. Ogni qualvolta mi apostrofavano urlando: “Automa plagiato”, io vivevo l’insulto come una persecuzione da mettere in conto. E ciò accresceva ancor di più il mio legame al gruppo. All’epoca non avevo alcuno schema di riferimento riguardo il controllo mentale. Solo dopo la de-programmazione capii cosa fosse esattamente e quale fosse il suo impiego effettivo. Il mio interesse in materia risale all’esperienza vissuta con i moonisti, gruppo che considera il comunismo come il peggiore dei nemici: fu allora che iniziai a interessarmi alle tecniche che i comunisti cinesi usavano durante gli anni Cinquanta per convertire i loro oppositori. Mi sentii perciò invitare a nozze quando i de-programmatori ingaggiati dai miei genitori dissero che volevano leggermi alcuni brani tratti dal libro di Robert Jay Lifton Thought Reform and the Psychology of Totalism. Poiché il libro era stato pubblicato nel 1961, non potevo accusare Lifton di essere un antimoonista. Quel libro mi aiutò a capire che cosa mi era accaduto. Leggendolo, appresi che Lifton aveva identificato otto elementi di base nel controllo mentale praticato dai comunisti cinesi. I miei deprogrammatori sottolinearono il fatto che non importava quanto meravigliosa fosse la causa o quanto attraenti fossero gli affiliati: se un gruppo usava gli otto elementi elencati da Jay Lifton, voleva dire che si avvaleva del controllo mentale. Successivamente fui in grado di comprendere che i moonisti li usavano tutti e otto: controllo dell’ambiente, manipolazione mistica o spontaneità programmata, esigenza di purezza, culto della confessione, scienza sacra, gergo interno, dottrina prima della persona e concessione dell’esistenza. (Per una descrizione più completa si rimanda all’Appendice). Prima di lasciare i moonisti però, dovetti lottare per risolvere dentro di me una serie di domande di carattere etico. Il Dio in cui credo ha forse bisogno di usare l’inganno e il controllo mentale? Davvero il fine giustifica i mezzi? Finii col chiedere a me stesso se non fosse per caso il mezzo a determinare il fine. Come poteva il mondo diventare un paradiso se la libertà personale veniva ostacolata? Come sarebbe stato il mondo se Moon avesse conquistato il potere totale? 86
Nel pormi queste domande, acquistai consapevolezza del fatto che non mi era possibile far parte di un’organizzazione che usava il controllo mentale. Me ne andai, lasciandomi alle spalle il mondo di illusioni in cui mi ero rifugiato per anni. Da quando ho lasciato il gruppo, sono arrivato alla conclusione che milioni di persone sono state di fatto sottoposte a un regime di controllo mentale, senza esserne coscienti. Non passa neppure una settimana senza che io conosca persone che soffrono ancora per gli effetti negativi derivati dal fatto di essere state vittime di tale procedimento. Per loro è spesso un grande sollievo sapere di non essere gli unici, così come scoprire che i problemi che stanno vivendo dipendono in larga parte dal loro passato nel gruppo. Forse il maggior problema che si trovano a dover affrontare è la perdita della loro vera identità, come conseguenza del fatto di aver vissuto per anni con un’identità artificiale indotta dal culto. Si può discutere a lungo su cosa sia il controllo mentale, le definizioni usate sono davvero molte, ma credo che la più adatta sia quella che lo ritiene un sistema che distrugge l’identità di un individuo. L’identità di una persona è composta da elementi quali credenze, comportamenti, processo del pensiero ed emozioni, che costituiscono un modello ben definito. Sotto l’influenza del controllo mentale, l’identità originaria di una persona, che è stata plasmata dalla famiglia, dalle amicizie, dall’educazione ricevuta e, soprattutto, dal libero arbitrio, viene rimpiazzata con un’altra identità che, nel la maggior parte dei casi, non sarebbe mai stata scelta se non dietro una tremenda pressione sociale. La forma di controllo mentale praticata dai culti distruttivi è un processo a carattere sociale, che spesso coinvolge molte altre persone a loro volta pronte a reiterare il processo. Si ottiene inserendo un individuo all’interno di un contesto sociale in cui è obbligatorio rimuovere la vecchia identità e aderire a quella imposta dal gruppo. Qualsiasi richiamo che possa ricordargli l’identità precedente, ogni cosa capace di riportare in vita il suo vecchio Io viene respinta e rimpiazzata dalla realtà del gruppo. Anche se all’inizio, per essere accettata dagli altri, la persona recita deliberatamente una parte, col tempo la finzione diventa realtà. L’individuo fa propria un’ideologia totalitaria che, interiorizzata, ha il sopravvento sul vecchio sistema di credenze. La persona, normalmente, manifesta un drastico cambiamento della propria personalità e muta radicalmente lo stile di vita. Tale processo può essere innescato nel giro di poche ore, ma richiede generalmente giorni o settimane per diventare permanente. Sappiamo bene che noi tutti siamo sottoposti quotidianamente a svariati tipi di pressioni sociali, soprattutto nel nostro ambiente di lavoro. La pressione esercitata affinché ci si conformi a determinati standard comportamentali esiste in quasi tutte le organizzazioni. Numerose tipologie condizionanti vengono imposte seguendo un flusso continuo. Alcune di loro sono evidenti e di segno positivo (del tipo: “Allacciate le cinture di sicurezza”); altre sono subdole e distruttive. Non potrò mai ripetere abbastanza che quando uso il termine “controllo mentale” mi sto riferendo in maniera specifica all’estremo distruttivo dello spettro dei valori. Perciò il termine “controllo mentale” così come è usato in quest’opera, come ho già avuto occasione di puntualizzare, non si riferisce a quelle tecniche (come il biofeedback) usate per rafforzare la volontà personale e promuovere la capacità decisionale, ma solo a quei sistemi che cercano di minare l’integrità e l’autonomia decisionale di un individuo. L’ essenza del controllo mentale consiste nell’incoraggiare la dipendenza e il conformismo e nel disincentivare l’autonomia e l’individualismo. 88
Sebbene le cose siano realmente così per la maggior parte dei casi, vale la pena sottolineare come talvolta le finalità di un gruppo che esercita il controllo mentale possono non essere necessariamente negative. Tanto per fare un esempio: molti programmi di riabilitazione usano alcune di queste tecniche per distruggere la vecchia identità, in caso di personalità delinquenziale o assuefatta all’uso di droghe. Ma tali programmi, per quanto possano rivelarsi utili, sono potenzialmente pericolosi. Di fatto, dopo che una persona è stata “piegata” a una nuova identità, essa deve tornare ad essere autonoma e riacquistare la propria individualità, secondo un processo di recupero che dipende interamente dal senso di responsabilità e dall’altruismo di chi dirige i gruppi di riabilitazione. Il programma di recupero per tossicodipendenti denominato Synanon, sarebbe arrivato a utilizzare sistemi tali da meritargli l’accusa di reiterata violazione dei più elementari diritti dei suoi partecipanti. 89
Controllo mentale e lavaggio del cervello Se è importante conoscere i principi di base del controllo mentale, è altrettanto fondamentale capire in cosa non consiste. Purtroppo, quando si affronta l’argomento in modo generico, il termine “lavaggio del cervello” viene spesso usato come sinonimo di controllo mentale. Di fatto, però, i due processi sono molto diversi e non vanno assolutamente confusi: controllo mentale non è lavaggio del cervello. “Lavaggio del cervello” è un’espressione coniata nel 1951 dal giornalista Edward Hunter. Venne usata per descrivere il procedimento che aveva indotto soldati americani che erano stati fatti prigionieri durante la guerra di Corea ad invertire i loro valori e il loro senso di fedeltà, convincendosi di aver perpetrato crimini di guerra. Hunter non fece altro che tradurre il termine cinese hsi nao, “lava cervello”. Il lavaggio del cervello è un processo tipicamente coercitivo in cui l’individuo sa fin dall’inizio che si trova nelle mani del nemico. Esso prende le mosse da una netta demarcazione dei rispettivi ruoli — da una parte il prigioniero, dall’altra il carceriere — e la vittima si trova in una situazione in cui ha una capacità di agire assai limitata. Il processo prevede normalmente maltrattamenti, abusi e perfino torture. Negli USA forse il più noto e relativamente recente caso di lavaggio del cervello e controllo mentale è quello riferito a Patty Hearst, ereditiera di uno dei maggiori colossi dell’editoria americana. Venne rapita nel 1974 dall ‘Armata di Liberazione Simbionese, una formazione terroristica minore. Fu rinchiusa al buio in uno stanzino per settimane e settimane, privata del cibo e stuprata. Più tardi diventò un membro attivo del gruppo. Non fuggì mai, anche se le occasioni non le mancarono, e partecipò alla rapina di una banca, crimine per il quale fu imprigionata e condannata. Sfortunatamente, la Hearst fu vittima di un giudice e di una giuria ignoranti. Se può essere vero che nel caso di Patty Hearst il gruppo abbia operato con successo, più in generale l’approccio coercitivo non è mai completamente vincente. Non appena le persone sfuggono al controllo dei loro carcerieri e tornano alle loro famiglie, gli effetti tendono a scomparire. Nel caso di Patty Hearst, la ALS ebbe successo perché costruì addosso alla ragazza un’identità completamente nuova: quella di “Tania”. Riuscirono anche a farle credere che l’FBI la stesse cercando con l’ordine di spararle a vista: “Tania” si convinse di essere al sicuro solamente all’interno del gruppo, cosa che la dissuase dal cercare la fuga. Il lavaggio del cervello è efficace nell’ottenere obbedienza assoluta rispetto a qualsivoglia ordine, sia che consista nel firmare una falsa confessione o nel denunciare il proprio governo. Le persone vengono forzate a compiere date azioni al fine di proteggersi e una volta che hanno agito, le convinzioni loro inculcate servono a razionalizzare quanto hanno fatto. Questi convincimenti, in genere, non vengono ben interiorizzati e quando il prigioniero riesce ad evadere dalla sfera di influenza (e di paura) in cui si trova, riesce normalmente a disfarsene. Il controllo mentale, chiamato anche “riforma del pensiero”, è più sottile e raffinato, Coloro che lo esercitano sono considerati dalla vittima alla stregua di amici o di propri pari ed è per questo motivo che i meccanismi di autodifesa non entrano in azione. La vittima collabora con i suoi controllori senza saperlo, fornendo loro informazioni personali che non immagina affatto verranno utilizzate a suo discapito. Un nuovo sistema di credenze e valori viene progressivamente interiorizzato, strutturandosi in una nuova identità. 90
Il controllo mentale non implica l’abuso fisico, o almeno non in maniera scoperta. Vengono invece usati procedimenti ipnotici uniti a dinamiche di gruppo, per creare un potente effetto di indottrinamento. L’individuo è ingannato e manipolato, ma mai direttamente minacciato, affinché faccia le scelte che sono previste. Nell’insieme, egli risponde in maniera positiva al procedimento a cui è sottoposto. E’ un peccato che l’espressione “lavaggio del cervello” venga usata in maniera così impropria dai mezzi d’informazione, evocando con tale frequenza l’idea di un cambiamento operato attraverso la tortura. Coloro che fanno parte di un culto sanno di non aver mai subìto torture, per questo ritengono che coloro che li criticano stiano mentendo ad arte. Quando ero con i moonisti, “sapevo” di non aver subito alcun lavaggio del cervello. Ricordo, però, che in un suo discorso Moon affermò che una famosa rivista lo aveva accusato di ricorrere al lavaggio del cervello. Disse, testualmente: “Le menti degli americani sono luride — piene di bieco materialismo e droghe — e avrebbero veramente bisogno di un purificatore lavaggio del cervello!”. Tutti scoppiammo a ridere. 91
Una nota sull’ipnotismo
Se il concetto di “lavaggio del cervello” viene comunemente confuso con quello di “controllo mentale”, anche il termine “ipnotismo” è spesso impiegato in maniera errata. L’uso di questa parola è molto comune nel nostro linguaggio corrente, tanto che nel gergo quotidiano è possibile incontrare espressioni del tipo: “Ha un sorriso che ipnotizza”. Di fatto, la maggioranza delle persone sa ben poco sull’ipnosi. Al solo menzionarne il nome, la prima immagine che viene in mente è quella di un medico barbuto che fa dondolare un orologio da taschino davanti agli occhi sonnolenti di una persona. Sebbene questa immagine sia uno stereotipo, essa mette in luce l’aspetto principale dell’ipnotismo: la trance. Le persone che vengono ipnotizzate entrano in uno stato di coscienza che differisce nettamente da quello normale. La differenza consiste nel fatto che mentre nello stato normale l’attenzione del soggetto è rivolta all’esterno, attraverso la percezione del mondo fisico mediata dai cinque sensi, nella trance l’attenzione è focalizzata all’interno: si sente, si vede e si percepisce interiormente. Vi sono vari livelli di trance, che vanno dal dolce sognare a occhi aperti durante il giorno fino ad arrivare a stadi ben più profondi, in cui si è molto meno coscienti del mondo esterno e si diventa estremamente vulnerabili ad eventuali suggestioni indotte. Le modalità in cui i culti distruttivi impiegano l’ipnotismo per esercitare il controllo mentale sono svariate. In culti che si spacciano per religiosi, quella che viene spesso chiamata “meditazione” altro non è che un processo attraverso il quale l’adepto cade in trance, ed è in questo stato alterato di coscienza che gli vengono lanciati i suggerimenti che lo renderanno più malleabile e disposto a seguire la dottrina del culto. I culti non religiosi usano altre forme di induzione, di gruppo o individuale. Occorre considerare che la trance è in genere un’esperienza piacevole e rilassante che le persone desiderano ripetere quanto più spesso possibile. Come è stato clinicamente accertato, quando si è in trance le facoltà critiche diminuiscono sensibilmente: si è meno capaci di valutare le informazioni che si ricevono rispetto a quando si è in uno stato di coscienza normale. Il potere dell’ipnosi nell’influenzare le persone può essere considerevole. I soggetti possono cadere in trance nel giro di pochi minuti e fare cose incredibili. L’esempio forse più noto è quello di un soggetto ipnotizzato che non avverte alcun dolore quando gli viene inserito un lungo ago all’interno di una fascia muscolare. Sotto ipnosi alcune persone sono state capaci di danzare come Fred Astaire, altre si sono comportate come se le loro mani fossero “incollate” ai fianchi, e via dicendo. Se l’ipnosi è in grado di far compiere tali imprese, allora far credere a un gruppo di persone ipnotizzate di appartenere a una ristretta cerchia di “pochi eletti” diventa uno scherzo da ragazzi. Generalmente i culti distruttivi inducono lo stato di trance nel corso di lunghe sessioni di indottrinamento, dove la ripetitività e l’attenzione forzata sono fattori determinanti. Se si osserva un gruppo in un simile frangente, è facile accorgersi del momento in cui subentra la trance: il battere delle palpebre e la deglutizione vengono rallentati, mentre i visi assumono un aspetto rilassato e atono. Una volta che i soggetti sono in questo stato, leader senza scrupoli possono inculcare nelle loro menti cose del tutto irrazionali. 92
Alcuni principi di base di psicologia sociale e dinamiche di gruppo Gli psicologi nutrono grande interesse per l’esperienza della seconda guerra mondiale, una vicenda che vide migliaia di persone apparentemente normali coinvolte in operazioni quali i campi di concentramento, in cui milioni di ebrei e altri individui vennero uccisi. Come è stato possibile che in Germania persone abituate a condurre una vita normale prima dell’avvento al potere di Hitler, abbiano successivamente partecipato al deliberato tentativo di sterminio di un’intera razza? Migliaia di esperimenti di psicologia sociale sono stati condotti dalla seconda guerra mondiale in poi, facendo luce sui modi in cui le persone possono essere influenzate, sia come gruppi che come individui. Gli studi hanno di mostrato l’incredibile potere delle tecniche di modificazione de! comportamento, del conformismo e dell’obbedienza all’autorità . Questi tre fattori sono noti in psicologia come “processi di condizionamento”. Una delle maggiori scoperte della psicologia sociale riguarda il fatto che nei nostri tentativi per trovare il modo più appropriato di affrontare una data situazione sociale, a volte rispondiamo a informazioni che riceviamo inconsciamente. Una classe di studenti di psicologia “complottò” un giorno di applicare le tecniche di modificazione del comportamento all’insegnante di turno. L’esperimento consisteva in questo: durante la lezione, gli studenti avrebbero sorriso e si sarebbero mostrati attenti ogni qualvolta il professore, che percorreva l’aula da un lato all’altro, si fosse spostato a sinistra, mentre avrebbero dato segni di insofferenza e disinteresse non appena si fosse diretto a destra. Ben presto il professore prese a prediligere il lato sinistro dell’aula e, dopo alcuni giorni, finì col tenere l’intera lezione appoggiato a quella parete. Ma ecco il punto cruciale. Quando infine gli studenti rivelarono l’intera faccenda, il professore negò che fosse accaduto nulla di simile: era davvero convinto che stessero scherzando! Non trovava per niente strano far lezione standosene tutto il tempo appoggiato al muro e si arrabbiò moltissimo, sostenendo che quello era il suo solito modo di tenere lezione, per sua deliberata scelta. Era chiaramente inconsapevole del condizionamento ricevuto. Certo, in circostanze ordinarie le persone che abbiamo intorno non stanno segretamente complottando per indurci a fare chissà cosa. ‘Si comportano semplicemente come sono state culturalmente condizionate a fare, e noi siamo a nostra volta condizionati dal loro comportamento. Dopotutto, è proprio così che una cultura viene tramandata nel tempo. In un culto distruttivo, però, i processi di modificazione del comportamento vengono scientemente applicati alle nuove reclute che, ovviamente, sono all’oscuro di tutto. Se le tecniche di modificazione del comportamento sono potenti, altrettanto si può dire per quanto riguarda il conformismo e l’obbedienza all’autorità. Un famoso esperimento sul conformismo è quello effettuato da Solomon Asch, il quale ha dimostrato che le persone sono portate a dubitare delle loro facoltà percettive allorquando sono poste in un contesto in cui i soggetti del gruppo che sembrano più sicuri di sé forniscono tutti una risposta errata a una data domanda. In un’altra ricerca, lo psicologo Stanley Milgram ha somministrato test di obbedienza all’autorità. Il risultato fu che oltre il novanta per cento dei soggetti obbediva agli ordini ricevuti, pur sapendo che ciò avrebbe causato sofferenze fisiche a un’altra persona. Milgram scrisse: “L’essenza dell’obbedienza consiste nel fatto che una persona giunge a vedere se stessa come strumento utile per portare avanti i desideri di un altro individuo e quindi non si consideri più responsabile”. 94
Le quattro componenti del controllo mentale Certamente non si può capire il controllo mentale senza comprendere quanto siano potenti le tecniche di modificazione del comportamento e quale ruolo giochi l’influenza del conformismo e dell’obbedienza all’autorità. Se prendiamo questi capisaldi della psicologia sociale come base di partenza, potremo meglio identificare gli elementi fondamentali del controllo mentale. Stando alla mia esperienza, il controllo mentale può essere compreso appieno analizzando le tre componenti descritte dallo psicologo Leon Festinger in quella che è conosciuta come la ‘teoria della dissonanza cognitiva”. Si tratta del controllo del comportamento, controllo dei pensieri e controllo delle emozioni. Ogni componente influenza profondamente le altre due: modificandone una anche le altre tenderanno a cambiare. Se si riesce a cambiarle tutte e tre, l’individuo sarà spazzato via. Il mio personale coinvolgimento nei culti distruttivi mi ha portato a formulare anche una quarta componente, che considero essenziale: il controllo dell’informazione. Controllare il flusso di informazioni di cui una persona dispone significa limitare la sua capacità di pensare autonomamente. Io definisco questi fattori le quattro componenti del controllo mentale, i veri capisaldi che aiutano a capire il modo in cui tale controllo si realizza. La teoria della dissonanza cognitiva non è così complicata come il suo nome potrebbe far pensare. Nel 1950 Festinger ne riassunse così il principio di base: “Se cambiate il comportamento di una persona, cambieranno di conseguenza anche i suoi pensieri e i suoi sentimenti, e ciò al fine di minimizzare la dissonanza che si è venuta a creare”. Che cosa intende Festinger col termine “dissonanza”? A grandi linee, possiamo dire che si riferisce alla situazione che si verifica quando uno dei tre elementi, pensiero, sentimento o comportamento, subisce un’alterazione ed entra in conflitto con gli altri due. Una persona è in grado di tollerare solo un certo livello di conflittualità tra pensieri, emozioni e azioni, gli elementi che formano le diverse componenti della sua personalità. La teoria di Festinger — corroborata da molte ricerche — sostiene che se una qualsiasi delle tre componenti viene modificata, le altre due tenderanno anch’esse a cambiare, per ridurre la dissonanza. Come si applica questo “cambiamento” al comportamento delle persone che aderiscono a un culto? Festinger cercò un contesto sociale in cui poter verificare le sue ipotesi. Nel 1956 scrisse un libro, When Prophecy Fails, su un culto del Wisconsin che credeva nei dischi volanti. Il leader del gruppo profetizzava la fine del mondo e sosteneva di essere in contatto mentale con esseri provenienti da un altro pianeta. Dopo aver venduto le loro case e donato il loro denaro, il giorno prestabilito i suoi seguaci si recarono su una montagna e lì aspettarono tutta la notte che un disco volante li venisse a prelevare, prima che un nuovo diluvio universale distruggesse il mondo, avvenimento che si sarebbe dovuto verificare il giorno seguente. La mattina successiva non c’era traccia nè di disco volante né tanto meno di diluvio (in compenso vi era una gran quantità di articoli giornalistici che ironizzavano sull’intera vicenda). Sarebbe stato logico attendersi rabbia e disappunto da parte degli adepti. Alcuni, in verità, si indispettirono; erano però persone non eccessivamente coinvolte, che non avevano investito troppo tempo o energie. La maggior parte del gruppo, invece, si fece ancor più devota. Il capo proclamò che gli alieni avevano voluto metterli alla prova e avevano deciso di risparmiare la Terra. Dopo aver assunto una posizione che si era trasformata in pubblica umiliazione, i seguaci si sentirono ancor più legati al loro capo. La teoria della dissonanza cognitiva può spiegarci il perché di tale rinnovato impegno. Secondo Festinger, una persona ha bisogno di dare un significato alla sua vita e sentire che sta agendo secondo l’immagine che ha di sé e secondo i suoi valori. Se per un motivo qualsiasi il comportamento di un individuo cambia, l’intera gamma di valori e l’immagine che ha di se stesso muteranno a loro volta, per accordarsi al cambiamento. La cosa importante da capire è che i culti distruttivi creano deliberatamente tale dissonanza nelle persone e la sfruttano per controllarle. Vediamo ora più da vicino ciascuna componente del controllo mentale. 95
Controllo del comportamento Il controllo del comportamento è ciò che regola la realtà fisica di un individuo. Include il controllo del contesto in cui la persona si trova — vale a dire dove abita, quali vestiti indossa, che cibo mangia, quanto dorme — come pure il suo lavoro, le abitudini e le altre attività. La necessità di esercitare il controllo comportamentale è alla base dei rigidi programmi di vita che molti culti impongono ai propri adepti. Una buona parte della giornata viene destinata a riti e attività di indottrinamento. E’ frequente l’abitudine di assegnare agli affiliati obiettivi e lavori specifici, in modo da limitare il loro tempo libero e il loro comportamento. Nei culti distruttivi c’è sempre qualcosa da fare. In alcuni dei gruppi più restrittivi i membri devono chiedere il permesso per qualsiasi cosa. In alcuni casi l’individuo viene reso così dipendente dal punto di vista finanziario che la sua facoltà di scelta comportamentale si restringe automaticamente. Un adepto deve chiedere i soldi per il biglietto dell’autobus o per comprarsi i vestiti, o il permesso per recarsi dal medico, scelte che tutti noi consideriamo strettamente personali. Il seguace deve essere autorizzato a telefonare a un amico o a un parente fuori dal gruppo e deve rendere conto di ogni ora della sua giornata. In questo modo il gruppo può tenere saldamente le redini del suo comportamento e controllarne anche pensieri ed emozioni. Il comportamento individuale è spesso assoggettato alla richiesta di eseguire in gruppo ciascuna azione. In molti culti le persone mangiano assieme, lavorano assieme, partecipano a riunioni di gruppo e talvolta dormono nella stessa stanza. L’individualismo è disincentivato. Ognuno vede assegnarsi degli “amici” fissi, oppure si viene inseriti in gruppi composti da una mezza dozzina di membri. La struttura del comando è normalmente autoritaria; il processo decisionale parte dal capo e, passando per i luogotenenti, arriva ai diretti inferiori. Da questi prosegue scendendo giù fino ai ranghi più bassi. In un ambiente così ben strutturato, tutti i comportamenti possono essere premiati o puniti. Ai leader fa gioco mantenere i membri del gruppo in una situazione di tensione continua. Se una persona agisce bene sarà lodata in pubblico dai suoi diretti superiori, riceverà un premio oppure una promozione. Se al contrario non è efficiente, sarà additata agli altri, criticata e costretta a lavori umili del tipo pulizia dei bagni o lucidatura delle scarpe. Altre forme di punizione possono prevedere il digiuno “volontario”, docce fredde, stare alzati tutta la notte a fare sorveglianza. Una persona che partecipa attivamente alla sua punizione si convincerà di averla meritata. Ogni singolo culto ha una propria serie di comportamenti rituali che fanno da collante per il gruppo. Vi si possono comprendere un gergo particolare insieme a una postura e un’espressione facciale impostate. È frequente inoltre l’utilizzo di cliché comportamentali e atteggiamenti che operano da segno distintivo del gruppo, indicando l’appartenenza in modo inequivocabile. I moonisti, ad esempio, si erano appropriati di molte usanze tipicamente orientali, tipo togliersi le scarpe entrando in una sede, sedere stando inginocchiati e inchinarsi in avanti in segno di saluto ai membri più anziani. Fare queste piccole cose dava l’impressione a noi membri del gruppo di essere qualcosa di speciale. 96
Se una persona non mostra “entusiasmo” nell’adempimento dei propri doveri, dovrà risponderne al proprio diretto responsabile, dietro l’accusa di essere egoista o impura, o di non impegnarsi abbastanza. Verrà sollecitata a prendere come riferimento un membro anziano di cui dovrà seguire l’esempio, arrivando perfino a imitarne la voce. L’obbedienza agli ordini di un capo è la più importante lezione da apprendere. Chi comanda sa che non potrà mai controllare i pensieri di un individuo, ma sa anche perfettamente che nel determinarne il comportamento, riuscirà ad arrivare anche al cuore e alla mente di quel soggetto. 97
Controllo del pensiero Il controllo del pensiero, la seconda importante componente del controllo mentale, prevede l’indottrinamento dei membri in maniera così pervasiva da far loro interiorizzare la dottrina del gruppo, assumere un nuovo sistema gergale e usare tecniche di blocco del pensiero che tengano le loro menti “centrate”. Per diventare un buon seguace, infatti, una persona deve prima imparare a manipolare i propri processi mentali. Nei culti totalitari, l’ideologia è interiorizzata come “la verità”, l’unica e autentica “mappa” della realtà. La dottrina serve non solo a filtrare le informazioni in entrata, ma indica anche il modo in cui elaborarle. Generalmente si tratta di dottrine assolutistiche, che dividono ogni cosa in “bianco o nero”, “noi o loro”. Tutto ciò che è buono si incarna nel leader e nel suo gruppo. Tutto ciò che è cattivo è nel mondo esterno. I gruppi più totalitari dichiarano che la loro dottrina è stata scientificamente dimostrata. La dottrina sostiene di poter esaudire tutte le domande, di rispondere a tutti i problemi e a tutte le situazioni. Un affiliato non ha bisogno di pensare con la sua testa, dal momento che la dottrina pensa per lui. Un culto distruttivo ha un suo “proprio” linguaggio, che contempla parole ed espressioni tipiche. Poiché il linguaggio fornisce i simboli che usiamo per pensare, controllare determinate parole significa anche controllare i pensieri. Molti gruppi infatti condensano situazioni complesse, danno loro un’etichetta e le trasformano in cliché di gruppo. Questa etichetta, che altro non è che l’espressione verbale del gergo interno, governa il modo di pensare di ogni singolo individuo, quale che sia il contesto in cui si trova. Nei moonisti, ad esempio, ogni qualvolta hai difficoltà a entrare in rapporto con qualcuno, che sia superiore o inferiore a te per grado, si dice che hai un “problema Caino-Abele”. Non importa chi ne sia coinvolto o quale possa essere il problema; esso è semplicemente il “problema Caino-Abele”. Il termine stesso indica la soluzione del problema: Caino deve obbedire ad Abele, e seguirlo piuttosto che ucciderlo come è scritto nel Testamento. Caso chiuso. Pensarla in modo diverso significherebbe obbedire al desiderio di Satana di vedere Caino, il cattivo, prevalere su Abele, il giusto. Nella testa di un bravo affiliato, l’eventuale giudizio critico sul comportamento sbagliato di un leader non può oltrepassare questa barriera. I cliché del culto, così come il suo gergo, costruiscono un ulteriore muro invisibile tra appartenenti ed esterni. Il linguaggio del gruppo aiuta i membri a sentirsi speciali. Serve anche a confondere i nuovi arrivati che vogliono capire che cosa si stanno dicendo i membri e sono stimolati a pensare che basterà loro studiare molto per arrivare a “capire” la verità. Di fatto, facendo proprio quel linguaggio essi impareranno invece a non pensare. Verrà loro insegnato che capire è credere. Un altro aspetto chiave del controllo del pensiero prevede l’addestramento specifico dei soggetti a bloccare e respingere qualsivoglia informazione critica nei confronti del gruppo. I basilari meccanismi di difesa di una persona vengono confusi a tal punto da farla arrivare a difendere l’identità acquisita nel culto a scapito dell’identità originaria, che soccomberà nello scontro. La prima linea di difesa include la negazione (“Non è vero che stia accadendo quanto tu dici”), razionalizzazione (“Ciò accade per un motivo molto valido”), giustificazione
(“Questo accade perché doveva accadere”)
e desiderio
(“Mi piacerebbe fosse vero, per cui forse lo è”).
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Se un’informazione trasmessa al membro di un culto viene percepita come attacco al capo, alla dottrina o al gruppo stesso, per tutta risposta viene immediatamente eretto un muro di ostilità. I seguaci sono stati addestrati a non credere ad alcuna critica. Ogni eventuale appunto nei loro confronti è stato preventivamente presentato come “menzogne contro di noi indotte da Satana nelle menti delle persone” oppure “bugie che il complotto mondiale fa stampare sui giornali per gettare discredito su di noi, perché sa che gli stiamo col fiato sul collo”. Paradossalmente, le critiche mosse al gruppo non fanno che rafforzare la convinzione che la sua visione del mondo sia più che fondata. L’informazione, perciò, non viene mai accolta correttamente. Il sistema maggiormente efficace attualmente in uso al fine di stabilire un controllo mentale sugli adepti, è quello che prevede il blocco del pensiero tramite rituali. Ai seguaci viene insegnato come bloccare da soli i propri pensieri, dicendo loro che ciò li aiuterà a crescere e a diventare più efficienti. Ogni qualvolta viene colto da un “cattivo” pensiero, il membro di un culto mette in atto la tecnica del blocco del pensiero per eliminarne la “negatività” e concentrarsi su se stesso, imparando così a chiudere fuori dalla porta qualsiasi cosa minacci la sua realtà. Ogni gruppo possiede la propria tecnica di blocco del pensiero, che può consistere nel concentrarsi in preghiera, cantilenare ad alta voce o mentalmente, meditare, cantare o canticchiare. Queste attività, molte delle quali sono per altro utili e valide in situazioni normali, vengono utilizzate nei culti distruttivi in maniera perversa. La persona è condizionata ad attivarle al primo segnale di dubbio, ansia o incertezza ed è in tal modo che esse diventano azioni meccaniche. La tecnica viene integrata nel giro di poche settimane e presto diventa così automatica che l’individuo non ha più alcuna coscienza di aver avuto un “cattivo” pensiero. Egli realizza solo di essersi messo improvvisamente a canticchiare o a pregare. I membri sono convinti che l’uso del blocco del pensiero sia motivo di crescita interiore. In realtà si stanno trasformando in persone dipendenti. Alla fuoriuscita da un culto che usa il hlocco del pensiero in modo massiccio, una persona attraversa normalmente una lunga e difficile fase di recupero, prima di potersi liberare del tutto da tale dipendenza. Il blocco del pensiero è il modo più diretto per mandare in corto la capacità di una persona di verificare la realtà. Di fatto, se una persona pensa esclusivamente in maniera positiva rispetto al suo coinvolgimento nel gruppo, è senza dubbio intrappolato. Dal momento che la dottrina viene considerata perfetta e così pure il suo leader, qualsiasi problema possa apparire all’orizzonte non può che scaturire da una propria manchevolezza. In questo modo il seguace impara a incolpare sempre se stesso ed è spinto a lavorare ancora di più. Il controllo del pensiero può effettivamente bloccare qualsiasi sensazione che non corrisponda a quelle previste dalla dottrina del gruppo e serve a fare dell’adepto uno schiavo laborioso e obbediente. In ogni caso, quando il pensiero viene controllato anche le emozioni e i comportamenti sono posti sotto controllo. 99
Controllo delle emozioni Il controllo delle emozioni, la terza componente del controllo mentale, mira a manipolare e limitare la sfera dei sentimenti. Sensi di colpa e paura sono gli strumenti impiegati per tenere le persone sotto controllo. Il senso di colpa è forse l’unica e più importante leva emozionale capace di indurre conformismo e accondiscendenza. La colpevolizzazione messa in atto può essere di vario tipo: storica (ad esempio il fatto che gli USA abbiano sganciato la bomba atomica su Hiroshima); di pensiero
(“Non sto vivendo secondo le mie potenzialità”);
legata ad azioni passate (“Ho superato un esame usando l’imbroglio”); sociale
(“C’è gente che sta morendo di fame”), e via dicendo.
Tutti sensi di colpa che possono essere sfruttati da chi è a capo di un culto distruttivo. La maggior parte degli affiliati non è affatto consapevole che i sensi di colpa e le paure vengono usati al fine di controllarli: sono stati condizionati a colpevolizzare sempre e soltanto se stessi, quindi rispondono con gratitudine ogni qualvolta un dirigente fa loro notare una “mancanza”. La paura mira a tenere unito il gruppo ed è sostanzialmente usata in due modi. Il primo è la creazione di un nemico esterno che ti perseguita: l’FBI ti metterà in prigione o ti ucciderà; Satana ti trascinerà negli Inferi; gli psichiatri ti faranno l’elettroshock; seguaci di culti rivali ti spareranno o tortureranno; e infine, ovviamente, i deprogrammatori. Il secondo sistema impiegato è terrorizzare il soggetto a fronte della possibilità di essere scoperto e punito dai capi. La paura di cosa ti potrà accadere se non fai bene il tuo lavoro può essere terribile. Alcuni gruppi sostengono che se i discepoli saranno negligenti nell’adempimento del loro lavoro, ciò causerà un olocausto nucleare o qualche altro immane disastro. Per controllare qualcuno attraverso le sue emozioni e i suoi sentimenti, è necessario procedere alla loro ridefinizione. La felicità, ad esempio, è una sensazione cui tutti aspirano. Se la felicità viene però definita essere vicini a Dio e se quest’ultimo è un Dio infelice (e tale sembra essere in molte sette religiose), allora per essere felici bisognerà essere infelici. In quest’ottica la felicità consiste pertanto nel soffrire, in modo da essere più vicini a Dio, secondo una visione che compare anche in qualche teologia non cultista, ma che in un culto diventa strumento di sfruttamento e controllo. In alcuni gruppi la felicità consiste semplicemente nell’eseguire le direttive del leader, reclutando proseliti o facendo affluire nelle casse del culto quanto più denaro possibile. La felicità è definita come il senso della comunità ed è riservata a coloro che rispettano i dettami del culto. Lealtà e devozione sono le qualità maggiormente valutate. Ai seguaci non è permesso sentire o esprimere emozioni negative, eccetto che verso gli estranei. Viene loro insegnato che non devono pensare a se stessi e ai propri bisogni ma sempre ed esclusivamente a quelli del gruppo, non devono mai lamentarsi, non devono criticare un capo ma sempre e solo se stessi. 100
Molti gruppi esercitano un controllo completo sulle relazioni interpersonali. I capi possono dire ai membri — come regolarmente fanno — chi devono frequentare e chi accuratamente evitare. Alcuni arrivano a indicare ai propri affiliati chi possono sposare e chi no, esercitando un controllo diretto sull’intero rapporto matrimoniale, vita sessuale inclusa. Alcuni gruppi pretendono che i loro devoti pratichino la totale astinenza sessuale e la soppressione dei desideri, cosa che si tramuta in senso di repressione e frustrazione, con la possibilità di canalizzare l’energia in un lavoro ancora più impegnativo. Altri gruppi richiedono invece che il sesso venga praticato, e se una persona non si conforma alla richiesta la si fa sentire egoista. In ogni caso, è il gruppo che esercita il controllo emozionale. Le persone sono sempre tenute in tensione, prima lodate e subito dopo insultate. Tale uso distorto delle tecniche di condizionamento — ricompensa e punizione — favorisce un sentimento di dipendenza e insicurezza. In alcuni gruppi può accadere che un giorno ti ritrovi a parlare in giacca e cravatta alla TV e il giorno seguente sei messo in una situazione di duro lavoro manuale come punizione per qualche immaginaria inadempienza. La confessione di peccati commessi nel passato o di comportamenti errati è anch’esso un potente mezzo per il controllo delle emozioni. E’ ovvio che una volta che lo hai pubblicamente ammesso, difficilmente il tuo peccato verrà davvero perdonato o dimenticato. Non appena ti capiterà di uscire dai ranghi ti verrà sbattuto in faccia e usato per farti obbedire. Se mai ti dovessi trovare coinvolto in una seduta di “confessione”, ricordarti quanto segue: qualsiasi cosa dirai potrà e sarà usata contro di te. Un espediente che potrà arrivare a trasformarsi in un vero e proprio ricatto, non appena uscirai dal gruppo. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, la tecnica più potente per il controllo emozionale è l’induzione di fobie. Si tratta, in sostanza, di indurre una vera e propria reazione di panico alla sola idea di abbandonare il gruppo, cui fanno seguito reazioni tipiche: sudorazione eccessiva, tachicardia, desiderio intenso di evitare il verificarsi della situazione temuta. Ai seguaci viene detto che allorquando dovessero lasciare il gruppo si ritroveranno soli e sperduti, indifesi e incapaci a fronteggiare una realtà da incubo: impazziranno, saranno uccisi, finiranno per drogarsi o si suicideranno. Resoconti di simili casi vengono ripetuti costantemente, sia a lezione che nei pettegolezzi di corridoio, storie che vengono sussurrate in tono concitato da adepto ad adepto. È praticamente impossibile per un seguace ben indottrinato immaginare di essere al sicuro fuori dal gruppo. Quando i leader di un culto dichiarano in pubblico che “i seguaci sono liberi di andarsene quando desiderano: la porta è sempre aperta”, danno l’impressione che i loro affiliati siano completamente liberi, e che se restano lo fanno per loro libera scelta. In realtà, essi non hanno alcuna reale possibilità di scegliere, dal momento che sono stati condizionati ad avere una paura fobica del mondo esterno. Le fobie indotte eliminano a livello psicologico la libertà di scelta di abbandonare il gruppo per il solo fatto di essere infelici o perché si ha il desiderio di fare qualche altra cosa. Se un gruppo riesce ad avere pieno controllo sulle emozioni di una persona, riuscirà a controllarne anche pensieri e azioni. 103
Controllo dell’informazione Il controllo dell’informazione è l’ultima componente del controllo mentale. L’informazione è il carburante che usiamo per il buon funzionamento della nostra mente: se a una persona viene negata l’informazione necessaria a formulare giudizi fondati, non sarà più in grado di formarsi opinioni proprie. Le persone rimangono intrappolate nei culti non solo perché viene loro negato l’accesso a informazioni di carattere critico, ma anche perché vengono a mancare loro quegli appropriati meccanismi interni che servono a elaborarle. Tale controllo dell’informazione ha un impatto drammatico e devastante. In molti culti totalitari le persone hanno un accesso limitato ai mezzi d’informazione che non siano di pertinenza del culto, sia che si tratti di giornali, riviste, televisione o radio. Ciò è in parte dovuto al fatto che vengono tenute impegnate a tal punto da non avere il benché minimo tempo da dedicare ad altro. E quando leggono qualcosa, si tratta sempre di propaganda del culto o di materiale che è stato accuratamente censurato al fine di “aiutare” i seguaci a non spostare la loro attenzione dal culto. Il controllo dell’informazione avviene a tutti i livelli relazionali. Alle persone non sono permesse conversazioni critiche nei confronti dei capi, della dottrina o dell’organizzazione. I seguaci devono spiarsi a vicenda e riportare immediatamente ai leader attività improprie e commenti inopportuni. Ai nuovi adepti non è consentito comunicare tra loro, se non alla presenza di un membro anziano che faccia da accompagnatore. E, cosa ancora più importante, viene proibito loro di avere contatti con ex seguaci o con chi è critico nei confronti del culto. Devono essere evitate soprattutto le persone che potrebbero fornire loro maggiori informazioni. Alcuni gruppi arrivano al punto di leggere le lettere e intercettare le telefonate dei loro affiliati. L’informazione viene in genere frammentata, di modo che i seguaci non possano avere il quadro completo della situazione. Nei gruppi più numerosi agli adepti viene detto solo ciò che “devono sapere” per fare il loro lavoro. Un affiliato può quindi non essere al corrente di un’importante azione legale, di una notizia data dai mezzi d’informazione o di una qualche disputa interna che stia portando scompiglio nel gruppo di un altra città. I seguaci di un gruppo hanno invece la sensazione di essere meglio informati su quanto avvenga nel gruppo di quanto non lo siano gli estranei, ma nella mia attività di counselor di ex membri ho scoperto che, in realtà, sono proprio quelli che ne sanno di meno. Le organizzazioni distruttive controllano l’informazione anche attraverso differenti livelli di “verità”. Le ideologie dei culti hanno dottrine “esterne” e “interne”. Il materiale esterno, relativamente innocuo, è riservato al pubblico e ai nuovi reclutati. Le dottrine interne, invece, vengono svelate solo gradualmente, mano a mano che la persona entra a far parte dell’organizzazione in maniera sempre più approfondita. Ad esempio: i moonisti hanno sempre sostenuto in pubblico di essere filoamericani, a sostegno della democrazia e per la famiglia. I moonisti erano per l’America nel senso che volevano per il Paese ciò che essi ritenevano essere la cosa migliore, vale a dire che diventasse una teocrazia governata da Moon. Essi credevano che la democrazia fosse stata istituita da Dio al solo scopo di dare alla Chiesa dell’Unificazione l’opportunità di organizzare una dittatura teocratica. Erano per la famiglia nel senso che credevano che la “vera” famiglia di ogni essere umano fosse co stituita da Moon, sua moglie e i loro figli spirituali. In realtà la loro dottrina predicava — e predica tuttora — che l’America è inferiore alla Corea e deve sottomettersi ad essa, che la democrazia è un sistema folle che “Dio sta facendo gradualmente scomparire” e che le persone devono essere allontanate dalla loro famiglia “fisica” (contrapposta a quella “spirituale”) quando questa sia critica nei confronti del culto. 104
Un affiliato può sinceramente credere che le dottrine esterne non siano bugie, ma solo un altro livello di verità. Creando una situazione in cui non esiste un’unica verità ma una verità a più livelli, i leader dei culti fanno in modo che sia pressoché impossibile per un individuo formarsi giudizi conclusivi ed obiettivi. Nel caso l’adepto dovesse sollevare obiezioni, gli verrà risposto che non è ancora abbastanza maturo per conoscere tutta la verità, ma che presto gli sarà tutto chiaro. Solo lavorando sodo, gli si dice, potrà guadagnarsi l’accesso ai livelli superiori della verità. Ma prima di allora, dovrà superare molti “livelli interni”. Spesso, un membro anziano convinto di conoscere tutto ciò che si deve sapere è invece ben lontano dal livello ultimo di conoscenza della dottrina interna. Coloro che pongono domande e vogliono sapere troppo e troppo in fretta, finiscono ovviamente con l’essere indirizzati nuovamente verso un obiettivo esterno, fino a che non finiranno col dimenticare le loro obiezioni. Controllo del comportamento, del pensiero, delle emozioni e delle informazioni: ogni forma di controllo ha grande potere e influenza sulla mente umana. Insieme formano una rete totalizzante che può manipolare anche le persone più forti. Di fatto, sono proprio gli individui più forti a trasformarsi nei membri più devoti e coinvolti. Nessun gruppo mette in atto tutto ciò che viene descritto in questo capitolo. Ho tentato di coprire solo le pratiche più comuni e diffuse nell’ambito di ciascuna componente del controllo mentale. Sicuramente, esistono anche numerose altre metodologie d’uso comune in certi culti e che non sono qui riportate. Alcune pratiche potrebbero rientrare in più d’una di queste categorie. Tanto per fare un esempio, vi sono culti che. usano cambiare il nome personale dei nuovi adepti, in modo da accelerare la formazione della “identità” indotta dal gruppo: questo è il caso tipico di una tecnica che potrebbe essere inclusa in tutte e quattro le categorie considerate. I sistemi usati variano da gruppo a gruppo. Ad esempio, in alcuni gruppi l’induzione di fobie è evidente mentre in altri è molto più subdola. Ciò che conta è l’impatto che tutto ciò ha avuto sull’individuo. Dobbiamo chiederci se è lui che detiene il controllo sulle sue scelte di vita e l’unico modo per scoprirlo è offrirgli l’opportunità di riflettere, consentirgli libero accesso a tutte le informazioni di cui ha bisogno, fargli sapere che è libero di lasciare l’ambiente in cui si trova. 105
Le tre fasi per raggiungere il controllo della mente Una cosa è saper identificare le componenti del controllo mentale, tutt’altra cosa è conoscere come di fatto vengono usate per modificare il comportamento di persone ignare. In apparenza, il sistema per raggiungere il controllo della mente sembra piuttosto semplice. E’ articolato in tre fasi: destrutturazione, cambiamento e ristrutturazione. Questo modello a tre fasi fu ricavato verso la fine del 1940 dal lavoro di Kurt Lewin e fu descritto nel libro di Edgar Schein, Coercive Persuasion. Schein, come Lifton, aveva studiato anche i programmi di lavaggio del cervello utilizzati in Cina, sotto il regime di Mao Tse Tung, alla fine degli anni Cinquanta. Il libro riporta una serie di interviste ad ex prigionieri americani e rappresenta un valido studio di tale procedura. I tre livelli concettuali possono essere applicati al controllo mentale non coercitivo come pure al lavaggio del cervello. Dalle descrizioni ricaviamo che la de- strutturazione consisteva nel far crollare una persona, il cambiamento era il processo di indottrinamento e la ristrutturazione il procedimento usato per costruire e consolidare la nuova identità. Gli odierni culti distruttivi godono dell’ulteriore vantaggio costituito dalle ricerche e dallo sviluppo delle tecniche psicologiche sviluppatesi nei trent’anni successivi all’epoca di Mao, cosa che rende i loro programmi per il controllo mentale molto più efficaci e pericolosi. I procedimenti ipnotici, ad esempio, incidono maggiormente nel controllo mentale moderno. Gli attuali culti distruttivi sono anche molto più duttili nel loro approccio. Essi modificano la metodologia di avvicinamento a seconda di ciò che pensano meglio si adatti al sistema psicologico di una persona, usano il raggiro e un linguaggio molto ricercato e pregnante oppure impiegano tecniche tipo il blocco del pensiero e l’induzione di fobie. Vediamo più da vicino il modello a tre fasi per capire meglio come questo procedimento graduale riesca a creare il perfetto seguace di un culto distruttivo.
Destrutturazione Per preparare un individuo a un cambiamento radicale è necessario dare prima uno scossone alla sua realtà. Gli indottrinatori devono disorientarlo: gli schemi di riferimento per capire se stesso e l’ambiente che lo circonda devono essere stravolti e distrutti. Sconvolgere la sua visione della realtà lo priva delle difese naturali contro quei concetti che nella realtà cui era abituato erano ritenuti pericolosi. La destrutturazione può essere condotta usando diversi approcci. Disorientare intervenendo a livello fisico può essere molto efficace. La privazione del sonno è una delle più potenti e comuni tecniche per far crollare una persona. Nuove diete e nuovi orari dei pasti possono anch’essi avere un effetto di disorientamento. Alcuni gruppi usano diete povere di proteine e ricche di zuccheri o la sottonutrizione prolungata per minare la stabilità di una persona. La de strutturazione avviene meglio in un contesto sociale totalmente controllato, tipo un isolato casolare di campagna, ma ciò non toglie che possa essere condotta anche in ambienti più accessibili, come la sala convegno di un hotel.
Le tecniche ipnotiche costituiscono un altro potente mezzo per de- strutturare e scalzare i meccanismi di difesa di una persona. Una tecnica particolarmente efficace prevede l’uso deliberato della confusione per indurre uno stato di trance, confusione che si ottiene comunicando informazioni contraddittorie in maniera congrua. Facciamo un esempio. Se un ipnotizzatore dice con un tono di voce molto autoritario: “Più cercherai di capire ciò che dico e meno sarai capace di capirlo, capito?”, il risultato è uno stato di confusione momentanea. Se rileggete questa frase più volte, alla fine essa acquisterà un qualche senso. In genere, quando una persona viene tenuta in un ambiente controllato abbastanza a lungo, il fatto di ascoltare un linguaggio così disorientante e di ricevere informazioni così confuse farà sì che quella persona sospenda il suo giudizio critico e si adatti a fare ciò che fanno tutti gli altri. In tale ambiente, molte persone finiscono col dubitare di se stesse e delegano tutto al gruppo. Un sovraccarico sensoriale, come pure la privazione, sono anch’essi mezzi efficaci per squilibrare una persona e renderla più suggestionabile. Una persona può essere bombardata da materiale molto carico da un punto di vista emozionale a una velocità superiore a quella che ne consentirebbe di norma l’assorbimento. Il risultato è quello di sentirsi schiacciati. La mente entra in uno stato soporifero e cessa di valutare il materiale che le viene inviato. Il nuovo arrivato può pensare che tutto ciò stia accadendo per caso, mentre invece il gruppo ha intenzionalmente programmato la situazione in cui si trova. Un’altra tecnica particolare, come quella del doppio legame,’ può facilitare la destrutturazione del senso di realtà di una persona. Il doppio legame costringe una persona a fare ciò che vuole colui che lo controlla, dandogli al contempo l’illusione di operare una propria libera scelta. Ad esempio, il leader di un culto può dire: “Se dubitate di quanto vado dicendo, sappiate che sono io stesso a far sorgere il dubbio nella vostra mente, a dimostrazione che io sono il vostro vero insegnante”. La persona può credere al leader o dubitare delle sue affermazioni, ma entrambi i casi sono stati considerati. Un altro esempio di doppio legame è: “Se ammettete che vi sono delle cose nella vostra vita che non funzionano, non partecipando al seminario non farete altro che permettere a queste cose di assumere il controllo della vostra vita”. In altre parole, il semplice fatto di trovarvi qui è la prova che siete incompetenti a giudicare se dovete restare o andarvene. Esercizi del tipo meditazione guidata, confessioni personali, incontri di preghiera, estenuanti sessioni di ginnastica ritmica e canti corali, possono anch’ essi essere di aiuto nella destrutturazione. E’ tipico per queste attività iniziare in maniera del tutto innocua, per diventare gradualmente sempre più intense e dirette a mano a mano che il seminario prosegue. Sono attività che vengono quasi sempre condotte in gruppo, cosa che rafforza la mancanza di privacy e frustra il bisogno di una persona di essere lasciata sola a pensare e riflettere. A questo punto della destrutturazione, mentre le resistenze si indeboliscono, gran parte dei culti bombardano le persone con l’idea che non si trovano in buone condizioni perché incompetenti nevrotiche o spiritualmente immature. Qualsiasi problema una persona abbia — non essere brava a scuola, non riuscire nel proprio lavoro, essere troppo grassa o avere problemi nel relazionarsi con gli altri — viene ingigantito, per dimostrare come quella persona sia veramente messa male. Alcuni gruppi umiliano le persone in pubblico, mostrando nei loro attacchi un vero e proprio sadismo. Una volta che la persona è distrutta, è pronta per la fase successiva. 107
Cambiamento Il cambiamento consiste nell’imporre una nuova identità, un nuovo schema di comportamenti, pensieri ed emozioni che andrà a riempire il vuoto lasciato dal crollo della vecchia identità. L’indottrinamento a questa nuova identità avviene sia formalmente, nel corso di seminari e rituali, che in via informale passando del tempo con i membri a leggere, ascoltare musica, parlare, guardare filmati, e via dicendo. Molte delle tecniche usate nella fase di destrutturazione vengono impiegate anche in questa fase. Ripetitività, monotonia, ritmo: in genere sono questi gli elementi che con cadenza regolare caratterizzano l’indottrinamento formale. Le stesse cose vengono ripetute più volte. Quando le lezioni sono abbastanza raffinate, possono variare in argomento, allo scopo di vivacizzare i seminari e catturare l’interesse generale, ma il modo in cui vengono presentate è sempre lo stesso. Durante la fase di “cambiamento”, tutta questa ripetitività si focalizza su determinati temi centrali. Ai futuri adepti viene spiegato quanto il mondo sia brutto e come coloro che non sono stati illuminati siano indegni di operare per cambiarlo. Questo perché le persone comuni non hanno quella nuova “conoscenza” che invece è stata raggiunta dal leader. Il leader è l’unica speranza di eterna felicità. Ai futuri adepti viene detto: “Il tuo vecchio Io è il vero ostacolo all’esperienza della ‘nuova verità’. I tuoi ‘vecchi schemi’ sono ciò che ti trascinano in basso. La tua mente razionale ti impedisce nuovi, fantastici progressi. Abbandonati. Lasciati andare. Abbi fiducia”. L’ approccio iniziale, mirante a modificare il comportamento, è dapprima strutturato in maniera sottile per acquistare poi, via via che si va avanti, sempre maggior vigore. Il materiale che andrà a formare la nuova identità viene elargito gradualmente, un pezzetto alla volta, al ritmo che si ritiene giusto perché quella persona possa assorbirlo. La regola è: “Rivela a chi ti ascolta solo quanto è in grado di accettare”. Quando facevo l’istruttore nei moonisti, discutevo spesso di questa tattica con gli altri istruttori. Per razionalizzare le nostre manipolazioni, usavamo questa analogia: “Voi non fareste mangiare pezzi di bistecca a un neonato, giusto? Dovete dargli qualcosa che possa digerire, come un omogeneizzato. Ebbene, queste persone (i potenziali adepti) sono spiritualmente dei neo nati. Non raccontate loro più di quanto possano digerire, altrimenti moriranno”. Se un nuovo adepto iniziava a ribellarsi perché capiva su di noi più di quanto fosse opportuno, colui che lo stava seguendo lasciava il posto a un altro membro, che fosse in grado di imboccarlo più lentamente. A causa della monotonia del loro ritmo, le sessioni di indottrinamento formale possono essere molto noiose, ma questo è un modo per indurre stati ipnotici. E’ piuttosto comune che durante queste sessioni le persone si addormentino. Quando ero istruttore, ero solito far pesare ai miei discepoli il fatto che si fossero assopiti, ma sapevo bene che in realtà stavano solo reagendo bene alle tecniche ipnotiche. Più tardi imparai che lo stile ipnotico era comune a molti culti. Anche nel dormiveglia una persona è ancora più o meno in grado di ascoltare ciò che le viene detto e poiché in quello stato le sue difese si abbassano notevolmente, è ancora suscettibile di influenzamento. Un’altra potente tecnica di cambiamento è l’induzione di “esperienze spirituali”. Tale risultato viene raggiunto nel modo più artificiale possibile. Grazie al contributo di intimi amici già membri del gruppo, informazioni strettamente personali sui futuri adepti vengono raccolte e segretamente passate ai capi. Più tardi, al momento giusto, quanto appreso sul conto dell’individuo verrà tirato fuori all’improvviso, allo scopo di creare “un’esperienza”. Può accadere ad esempio che settimane più tardi, in un’altra regione, un capo si metta improvvisamente a parlare con il nuovo adepto del suicidio di suo fratello. Sapendo di non aver confidato a nessuno dei nuovi adepti conosciuti in quella sede quell’episodio tanto riservato, il soggetto finisce col credere che il capo cultista gli abbia letto nel pensiero oppure che ne sia stato
informato direttamente dal mondo spirituale. Cosa che lo renderà esterrefatto e lo indurrà a chiedere perdono per non essere stato un fratello migliore. I culti religiosi distruttivi non sono i soli a fabbricare esperienze “mistiche”. Un maestro delle arti marziali che professava “poteri speciali” e che stava mettendo in piedi un suo culto, pagava dei teppisti per spaventare in strada alcuni tra i suoi studenti, così da accrescere in loro paura del mondo “esterno”, farli esercitare di più e, conseguentemente, renderli più dipendenti da lui. Uno psicoterapeuta, dirigente di un culto, manipolava una delle sue clienti mettendola a confronto con la sua incapacità di stare a dieta. Non le aveva però rivelato di averla osservata una mattina mentre si gustava un gelato, e lei si era convinta che fosse dotato di poteri speciali. Una tecnica comune tra i culti religiosi è quella di istruire le persone a chiedere a Dio cos’è che Egli vuole da loro. I seguaci vengono esortati a studiare e a pregare per conoscere cosa Dio ha in serbo per loro. Resta implicito il fatto che aderire al gruppo significa fare la volontà di Dio mentre lasciarlo corrisponde a tradirla. Ovviamente, se una persona dicesse al suo capo che Dio la sta consigliando di lasciare il gruppo, ciò non sarebbe preso per buono. La maggiore forza persuasiva è forse proprio quella esercitata dagli altri seguaci. Per una persona comune, parlare con un cultista indottrinato è un’esperienza unica. Molto probabilmente, non vi sarà mai capitato prima di incontrare qualcuno, amico o sconosciuto che sia, tanto sicuro di sapere quale sia il meglio per voi. Un seguace devoto non accetta un “no” come risposta, perché è stato indottrinato a credere che se qualcuno non aderisce al culto, la colpa è sua, e questo convincimento esercita su di lui una grossa pressione. Quando siete completamente circondati da persone del genere, la psicologia di gruppo gioca un ruolo fondamentale nel processo di “cambiamento”. Le persone vengono intenzionalmente organizzate in piccoli gruppi (le cellule). Coloro che fanno troppe domande vengono subito isolati dal corpo centrale in cui si trovano gli altri membri. Nei moonisti, all’inizio di un seminario venivano create delle squadre incaricate di valutare le reclute. Successivamente, i nuovi arrivati venivano divisi in “pecore” e “capre” e assegnati ai rispettivi gruppi. Le “pecore” erano coloro che erano considerati “pronti spiritualmente”. Le “capre” erano i soggetti testardi da cui non ci si aspettava diventassero buoni discepoli. Visto che non potevano essere “domati”, la loro “negatività” veniva confinata al sicuro in una squadra di capre, in modo da evitare ogni commistione con le pecore, e lì rimanevano fino a quando non fossero stati loro stessi a chiedere di andarsene. Più tardi, dopo che ebbi lasciato il culto, fui stupito nell’apprendere che culti completamente difformi dal mio utilizzavano la stessa tecnica. Pensavamo di essere stati noi ad inventarla. Il processo di cambiamento richiede ben più che la semplice obbedienza alle autorità del culto. Ci sono numerose sessioni “comuni”, nel corso delle quali si confessano le colpe del passato, si raccontano i successi ottenuti e viene instaurato un senso di comunità. Questi incontri di gruppo sono molto efficaci nell’inculcare il conformismo: il gruppo incoraggia alcuni comportamenti con lodi e riconoscimenti mentre punisce con silenzi di ghiaccio idee e atteggiamenti ritenuti non idonei. Gli esseri umani hanno un’enorme capacità di adattamento a contesti e situazioni del tutto nuovi e i culti distruttivi sanno bene come sfruttare questa capacità. Controllando ciò che circonda una persona, usando strategie di modifica comportamentale, inducendo stati ipnotici, premiando alcuni comportamenti e condannandone altri, possono riprogrammare in tutta tranquillità l’identità di una persona. Una volta che la persona è “cambiata”, è pronta per la fase successiva. 110
Ristrutturazione Dopo averne smantellato l’identità e averlo indottrinato a credere in un nuovo sistema ideologico, l’individuo va ricostruito e ricomposto in un “nuovo essere”. Deve essere fornito di una nuova finalità esistenziale e inserito in attività capaci di solidificare la sua nuova identità. Ancora una volta, molte delle tecniche usate nelle prime due fasi verranno ulteriormente utilizzate. I dirigenti del culto dovranno essere più che certi che la nuova identità rimarrà integra quando il nuovo adepto lascerà l’ambiente in cui è stato ristrutturato. Pertanto, la recluta dovrà avere ben interiorizzato i nuovi valori e le nuove credenze. Il primo e più importante compito del “nuovo” individuo sarà quello di denigrare la sua vecchia identità. La cosa peggiore che un nuovo membro possa fare è agire secondo la propria identità, a meno che questa non sia quella nuova di zecca datagli dal culto, che si andrà a completare dopo di versi mesi. La memoria del soggetto si distorce, tendendo a minimizzare le cose buone del passato e a ingigantire gli errori, i fallimenti, le ferite e i sensi di colpa. In caso di conflitto con il suo impegno rispetto alla causa, l’individuo dovrà gettarsi alle spalle ogni cosa: particolari attitudini, interessi, hobby, amici e familiari. Cosa che preferibilmente andrà fatta con drammatiche prese di posizione pubbliche: la confessione diventa così un ulteriore mezzo per purgare il passato di una persona e incastrarla nel culto. Durante la fase di ristrutturazione, le informazioni riguardo i nuovi valori vengono trasmesse essenzialmente attraverso l’esempio. Ai nuovi membri vengono affiancati seguaci più anziani, incaricati di istruirli. Il “figlio spirituale” viene spronato a imitare il “padre spirituale”. Questa tecnica ha diverse finalità: rafforza il convincimento che il membro “anziano” ha della sua fede, ne gratifica l’Ego e, al contempo, stimola il “nuovo” adepto a lavorare per diventare a sua volta una figura che possa essere presa ad esempio, e addestrare un giorno altri giovani proseliti. Ora è il gruppo a costituire la “vera” famiglia del cultista; quella di appartenenza è solo la sua famiglia “biologica” e attiene al suo passato. Alcuni culti insistono su un vero e proprio trasferimento letterale del senso di lealtà familiare. Jim Jones non era certo l’unico leader di un culto desideroso di sentirsi chiamare “padre” dai suoi seguaci. Nel mio caso avevo cessato di essere Steve Hassan, figlio di Milton ed Estelle Hassan, ed ero diventato Steve Hassan figlio di Sun Myung Moon e Hak Ja Han, proclamatisi “Veri Genitori” di tutto il creato, e mi veniva costantemente ricordato che ero un “piccolo Sun Myung Moon.” Una volta che la mia nuova identità si fu completamente consolidata, la mia grande aspirazione fu di pensare come lui, sentire come lui, agire come lui. Per aiutare a interiorizzare la nuova identità, alcuni culti cambiano nome ai seguaci. Molte sette spingono affinché gli affiliati cambino il modo di vestire e il taglio di capelli, andando a incidere su qualsiasi cosa possa loro ricordare il passato. Come abbiamo già accennato, i membri imparano presto a parlare con il gergo proprio del culto, un linguaggio zeppo di significati incomprensibili agli altri. Notevole è poi la pressione che viene esercitata sul nuovo adepto affinché intesti il conto bancario e i suoi averi al gruppo. Al di là del mero scopo di lucro, ciò va incontro a due diverse esigenze. Innanzitutto, il fatto stesso di donare i risparmi di una vita costringe una persona ad aderire anima e corpo alla nuova ideologia. Sarebbe fin troppo doloroso dover ammettere di aver commesso un errore. In secondo luogo, neutralizza ogni eventualità di fuga dal gruppo, dal momento che la sopravvivenza finanziaria nel mondo esterno sarebbe pressoché impossibile. 112
A volte la privazione del sonno, la mancanza di privacy e il cambiamento delle abitudini alimentari vanno avanti per mesi, se non di più. Allontanare un nuovo affiliato dal suo ambiente familiare e da ogni influenza esterna, e trasferirlo in una città a lui sconosciuta e che conosce in veste di nuovo individuo, rafforza ulteriormente la totale dipendenza alle autorità del culto. E’ tipico che il nuovo membro venga assegnato ad attività di proselitismo appena ciò sarà possibile. Le ricerche di psicologia sociale hanno di mostrato che nulla consolida il credo di una persona a tal punto e così velocemente quanto il cercare di vendere le proprie convinzioni ad altri. Fare nuovi proseliti contribuisce a cristallizzare in fretta l’identità che il culto ha affibbiato all’individuo. Alcuni gruppi si autofinanziano attraverso difficili e umilianti metodi di reperimento di fondi, tipo elemosinare giorno e notte. Queste esperienze diventano una forma di sublime martirio che aiuta a rafforzare la fedeltà al gruppo. Spingerti a correre da un capo all’altro del parcheggio di un supermercato, a vendere fiori a prezzi rincarati sotto una pioggia battente, è un valido sistema per indurti a credere in ciò che stai facendo! Dopo aver passato diverse settimane a fare proselitismo e a raccogliere fondi nel mondo esterno, l’adepto viene spesso rispedito alla base per essere reindottrinato. Questo ciclo può ripetersi dozzine di volte nell’arco di parecchi anni. Dopo che un novizio avrà passato abbastanza tempo con i membri più anziani, giunge anche per lui il momento in cui gli si potrà tranquillamente delegare l’istruzione dei nuovi arrivati. E così che la vittima diventa carnefice, perpetuando il sistema distruttivo. 113
Doppia identità: la chiave per capire i membri di un culto Date alla gente piena libertà di scelta e molto presumibilmente sceglierà ciò che è meglio per lei. Ad ogni modo, resta il fatto che i criteri etici per stabilire ciò che è “meglio” dovrebbero essere quelli propri di ciascuno e non quelli di qualcun altro. In un ambiente in cui viene esercitato il controllo mentale, la libertà di scelta è la prima cosa che si perde e ciò avviene per una ragione molto semplice: l’adepto non sta più agendo come fosse se stesso. Egli ha assunto e introiettato una identità artificiale, la cui struttura è stata indotta dal culto e include una nuova ideologia e un nuovo linguaggio. La dottrina del leader del culto diventa la “mappa di riférimento” della realtà del nuovo seguace. L’adepto di un culto che impiega il controllo mentale è in guerra con se stesso. Bisogna pertanto tenere sempre ben presente, quando si ha a che fare con un seguace, che questi ha una duplice identità. All’inizio, la scoperta di questa doppia identità confonde i familiari, soprattutto durante le prime settimane o mesi di adesione, quando la nuova identità si rivela in maniera più macroscopica. Un attimo prima la persona si esprime usando il gergo del culto e assumendo un atteggiamento di sprezzante superiorità, e un attimo dopo è ritornata a essere quella di sempre, con tutte le sue abitudini e i suoi consueti modi di fare. E subito dopo, altrettanto repentinamente, ridiventa un’estranea. Questo comportamento è ben noto a chi come me lavora con i cultisti. Per amore di semplicità, chiamerò questa doppia identità “John-John” (quando John, nome scelto a caso, è ancora “se stesso”) mentre utilizzerò l’espressione “John-l’adepto” (quando John è il “clone” del culto). Di solito queste due identità entreranno nella coscienza del soggetto una alla volta, senza convivere contemporaneamente, mentre la personalità che viene esibita per buona parte del tempo è l’identità data dal culto. La vecchia personalità compare solo a sprazzi. E’ fondamentale che i familiari dell’adepto riescano a individuare le differenze esistenti tra le due identità, sia in termini di contenuto (di cosa parla la persona) che in termini di modalità di comunicazione (il modo in cui parla e agisce). Ciascuna delle due presenta una mimica e una verbalizzazione caratteristiche. Quando parla John-l’adepto, il suo modo di comunicare somiglierà a quello di un automa o di un registratore che ripete il discorso del culto. Avrà un tono di voce impersonale sia per intensità che per volume. La sua postura sarà rigida e la sua muscolatura facciale tesa. Il suo sguardo colpirà i familiari perché tenderà a essere vitreo, freddo e offuscato, e guarderà agli altri come fossero trasparenti. Quando invece a parlare è John-John, si sentiranno fluire le emozioni più disparate. Sarà più espressivo e maggiormente disposto a condividere con gli altri le proprie sensazioni. Sarà spontaneo e potrà perfino mostrare uno spiccato senso dell’umorismo. La sua postura e la muscolatura appariranno più rilassate e distese. Lo sguardo sarà più naturale. 114
Una descrizione tanto netta di una personalità sdoppiata potrà sembrare fin troppo semplicistica, ma è sorprendentemente accurata. Fa uno strano effetto parlare con qualcuno e percepire che a metà di una frase una diversa personalità si è impadronita del corpo del tuo interlocutore. Come spiegheremo nei capitoli successivi, riconoscere questo cambiamento e agire in maniera appropriata è la chiave per sbloccare la vera identità di quella persona e liberarla dai suoi legami con il culto. Per quanto un culto tenti con tutti i mezzi di sopprimere e distruggere la vecchia personalità e potenziare quella nuova, non vi riesce mai fino in fondo. Le belle esperienze e i ricordi più cari non scompaiono del tutto. L’identità imposta dal culto cercherà ovviamente di seppellire i vecchi punti di riferimento e il passato stesso dell’individuo in questione. Col tempo però, il vecchio Io riemergerà e cercherà di riguadagnare la libertà perduta. Questo processo può essere accelerato dall’effetto positivo esercitato dalla vicinanza di persone estranee al culto e dall’accumularsi delle esperienze negative vissute all’interno del gruppo. E’ la “vera” identità che, dal più profondo dell’Io, è ancora in grado di vedere e annotare contraddizioni, problemi e delusioni. Non finirò mai di stupirmi — malgrado il fatto che io stesso abbia vissuto esperienze identiche nel corso della mia de-programmazione — di come, nella fase finale di un intervento, i miei pazienti riescano a verbalizzare precise esperienze negative che sono loro accadute mentre erano nel culto. Le persone sono in grado di ricordare cose orribili, tipo l’essere stati violentati dal leader del culto o essere stati costretti a mentire, ingannare o rubare. Anche se all’epoca erano ben consci di fare qualcosa di grave o di subire violenze, fintanto che erano sotto il controllo della personalità imposta dal culto non riuscivano a gestire una simile esperienza nè tantomeno erano in grado di comportarsi diversamente. Riacquistano il controllo della situazione solo quando la vecchia personalità riesce nuovamente ad esprimersi, venendo incoraggiata a farlo: solo allora gli eventi affioreranno a livello cosciente. Di fatto, la parte fondamentale del lavoro di un exit counselor è proprio quella di riportare alla luce le esperienze personali di un soggetto, in modo che questi le possa elaborare. Nel mio lavoro ho potuto ripetutamente rendermi conto di come sia proprio “il vecchio Io” a controllare i meccanismi che sbloccano il processo innescato dal controllo mentale. E questo “vero” Io il responsabile delle malattie psicosomatiche che colpiscono frequentemente gli adepti di un culto. Ho incontrato persone che avevano sviluppato allergie dermatologiche grazie alle quali erano stati esonerati da lavori massacranti e ottenuto la possibilità di dormire. Ho visto persone sviluppare forme asmatiche e reazioni allergiche piuttosto gravi per poter, inconsciamente, cercare un aiuto medico esterno. Il “vero” Io si fa sentire anche in altri modi. Può esercitare una pressione sull’Io cultista, spingendolo ad andare a trovare i suoi, magari con la scusa di raccogliere indumenti o fondi per il culto o di fare nuove reclute. E può anche far in modo che al cultista sfugga, nel parlare con parenti e amici, qualche velata allusione a una reale richiesta d’aiuto. Molte famiglie sono arrivate a me solo dopo che un loro caro li aveva pregati di non far intervenire un exit counselor per il proprio recupero: prima che fosse lui a parlarne, la famiglia ignorava del tutto l’esistenza di un tale tipo di terapeuta. Il “vero” Io è il principale responsabile dell’insorgere di sogni ricorrenti a contenuto altamente drammatico. Molti dei miei clienti mi hanno riferito di aver sofferto di incubi ricorrenti, durante tutto il periodo delta loro appartenenza al culto. 115
I motivi frequenti in questo tipo di attività onirica includono il sentirsi presi in trappola, l’essersi persi o aver riportato ferite mortali. Sono in molti a raccontare il sogno di essersi smarriti in una foresta, venire soffocati o strangolati o essere prigionieri in un campo di concentramento. Altri ancora mi hanno raccontato di una visione mistica che diceva loro che dovevano abbandonare il culto. E ciò avveniva in un momento in cui non avevano intenzione alcuna (stando alle loro identità cultiste) di lasciare il gruppo. Di fatto, quell’esperienza “spirituale” si era dimostrata talmente potente da indurli infine a cercare l’aiuto di un terapeuta. Personalmente, credo che Dio agisca sulla persone per fare arrivare loro segnali affinché abbandonino i culti distruttivi. Questa mia convinzione si basa in parte anche sulla mia esperienza. Quattro anni dopo la mia fuoriuscita dal gruppo, mi capitò per caso di sentire mia madre che, parlando con un’altra persona, diceva: “Non dirlo a Steven, ma era un anno che pregavo che si rompesse una gamba! Dicevo: mio Dio, non fargli troppo male. Solo quel tanto che ci permetta di trovarlo e salvarlo”. Rimasi sorpreso e chiesi a mia madre perché per tanti anni non me ne avesse mai accennato. Mi rispose: “Non è bello pregare perché qualcuno si faccia male. Non volevo che ti adirassi con me”. Mi guardai bene dal farlo. Mi tornarono in mente le parole che i Vigili del Fuoco avevano pronunciato nell’estrarmi da quel rottame che era diventata la mia macchina: “E’ un miracolo che tu sia ancora vivo!”. Nella mia vita di credente ho sempre pensato che Dio abbia ascoltato la preghiera di mia madre. La mia gamba si era rotta. Credo che a un qualche livello inconscio, il mio “vero” Io sia stato guidato dall’Alto in modo che mi addormentassi e mi risvegliassi al momento giusto. Certo, non posso provare quanto sostengo, ma ho saputo di altre persone coinvolte in “incidenti” che si sono poi rivelati la loro salvezza. Non ha importanza per quanto tempo una persona sia rimasta in un culto distruttivo: c’è sempre la speranza che possa essere recuperata. L’anno scorso ho parlato con una vecchietta di ottantacinque anni che è uscita da un culto del New Jersey dopo quindici anni di adesione. Con le lacrime che le sgorgavano dagli occhi e le rigavano il viso, mi raccontava quanto fosse meraviglioso sentirsi nuovamente liberi. Mentre parlava, piangevo anch’io: sapevo esattamente cosa provasse. 115
Capitolo 5 PSICOLOGIA DEL CULTO Da quando ho lasciato il culto di Moon, ho avuto contatti con oltre un migliaio di ex seguaci provenienti da culti di ogni genere, incontrando persone delle più svariate estrazioni sociali e di tutte le età, dai dodici agli ottantacinque anni. Sebbene qualcuno mostrava chiaramente di aver sofferto seri problemi di tipo emotivo prima ancora di essere coinvolto nel culto, la grande maggioranza era formata da persone sane, intelligenti e altamente idealiste, generalmente cresciute all’interno di famiglie rispettabili che avevano fornito loro una sana educazione. La cosa non mi sorprende affatto, sapendo che all’epoca in cui ero un dirigente dei moonisti eravamo soliti reclutare persone “valide”, vale a dire forti, interessate e motivate. D’altra parte, le persone con problemi emozionali avevano grande difficoltà a reggere gli orari pesanti e la pressione psicologica che veniva esercitata su di loro. Considerando che l’indottrinamento richiedeva tempo, energia e denaro, cercavamo di non sprecare le nostre risorse con coloro che già in partenza davano segni di cedimento, rischiando magari di andare incontro a un collasso nervoso nel giro di un anno. Come tutte le buone imprese commerciali, le grandi organizzazioni cultiste stanno ben attente a costi e ricavi. Temono di fallire nel giro di poco tempo e quelle che superano la soglia dei dieci anni di vita devono necessariamente avere acquisito al loro interno persone abili nel trattare gli affari, cosa che qualsiasi organizzazione con obiettivi a lungo termine deve saper gestire. Per questo genere di attività i grandi gruppi possono senz’altro permettersi di assumere collaboratori, ma una persona esterna non è mai affidabile quanto chi fa parte del gruppo, senza parlare del fatto che un adepto presenta anche l’indubbio vantaggio di non dover essere pagato. Per la gestione degli affari, i culti cercano di reclutare specialisti capaci di creare un’immagine pubblica che assicuri il successo. Di solito, gli esterni che hanno a che fare con il gruppo dirigente di un culto distruttivo restano meravigliati quando scoprono di non trovarsi di fronte degli ingenui. E in effetti un culto si preoccupa generalmente di reclutare le persone più istruite, attive e intelligenti che riesce a trovare. Mi capita spesso di sentire commenti del tipo: “Non immaginavo lontanamente che in questi gruppi vi fossero persone tanto brillanti”; oppure: “Il leader è veramente una gran bella persona, estremamente gentile e spiritualmente profonda. Come ha potuto aderire a un simile gruppo?”. Talvolta mi viene chiesto se esistano “problemi familiari” tipici che spingono le persone a entrare nei culti. La risposta è no . Chiunque, non importa da quale famiglia provenga, può essere reclutato: la variabile principale non è la famiglia di appartenenza della potenziale recluta ma il livello di abilità del reclutatore. È un dato di fatto che la partecipazione ai culti distruttivi consenta ai seguaci l’espressione di aspetti personali che spesso sono loro negati in famiglia o nella vita sociale. Molti individui hanno una naturale propensione a lavorare in gruppo, uniti nel perseguimento di finalità comuni, religiose o sociali che siano. Per contro, gruppi sociali in grado di offrire a persone altamente idealiste questo genere di attività sono relativamente pochi. L’adesione al culto risponde a queste esigenze, offrendo in più anche i benefici che derivano da una “vita in comune” legata all’intensa esperienza di una realtà di gruppo. Io appoggio pienamente la genuina ricerca di modi più pregnanti di rapportarsi agli altri, ma ho potuto verificare che le persone impegnate in una tale ricerca sono spesso più vulnerabili di altre, e perciò maggiormente soggette a essere reclutate. 116
Ho anche notato che molti dei giovani idealisti che finiscono con l’esse re reclutati nei culti, vengono avvicinati in quelle fasi della loro vita in cui stanno lottando per affermare la propria personalità, passando magari attraverso un periodo di ribellione. Per queste persone, l’adesione a un culto permette di trovare nelle autorità del gruppo i sostituti delle figure familiari da cui si sono allontanate. Occasionalmente, all’interno di una famiglia mi sono trovato di fronte a seri problemi, quali fenomeni di alcolismo o di tossicodipendenza, che suscitavano nella persona il forte e immediato desiderio di fuga da un ambiente disfunzionale. Malgrado ciò, non mi sembra che esistano tipologie particolari riguardo la famiglia d’origine: la maggior parte degli adepti sembra provenire da famiglie assolutamente normali. Che cos’è allora che rende una persona vulnerabile ai culti? Come fa un essere umano gentile e sensibile a diventare il seguace di un culto distruttivo? Se si tratta di un caso che rientra nella norma, allora è probabile che il soggetto sia stato avvicinato in un periodo particolarmente travagliato o di grande stanchezza, momento che ha coinciso con una fase di transizione. Nel mondo moderno una condizione di stress anche intenso è cosa piuttosto normale. Molte persone sono sottoposte a grandi pressioni sia sul lavoro che a scuola: subiscono tensioni dovute a questioni familiari, relazioni sociali, problemi di salute, il cambiamento dell’attività lavorativa, un trasloco, una crisi finanziaria, oppure sono stressate a causa di più d’uno di questi problemi contemporaneamente. Quando ciò accade, normalmente entrano in azione meccanismi di difesa che aiutano a superare la crisi, pur essendo comunque vero che capita a tutti di attraversare momenti di grande vulnerabilità. Ma se è vero che in un momento di debolezza possiamo cedere al controllo mentale, fortunatamente è anche vero che tale controllo è tutt’altro che permanente. E’ un dato di fatto che ogni qualvolta un reclutato lascia il gruppo per un periodo sufficientemente lungo da consentirgli di accedere a libri rivelatori, articoli o testimonianze di ex adepti, quasi sempre finisce con l’abbandonare il culto. L’adesione rimane fintanto che la persona, non avendo altro a disposizione, si appoggia al gruppo per ogni informazione di rilievo, dando così modo ai seguaci e ai dirigenti di farsi strada nelle sue convinzioni. Il fatto è che ciascun discepolo è convinto che ogni problema che si presenti dipenda esclusivamente dal comportamento del singolo, piuttosto che dal sistema considerato nel suo insieme. Un adepto da me assistito, mi raccontò di come ogni qualvolta gli capitava di sentire il suo reclutatore raccontare menzogne non ne tenesse conto, giudicando la cosa alla stregua di un suo problema personale. Tali errori di giudizio sono comuni tra coloro che non conoscono la vera natura di un culto. In questo capitolo cercherò di farvi sentire “nei panni di un adepto”, per aiutarvi a capire la sua psicologia e darvi un’idea di cosa significhi vivere in un culto. Nella prima parte sono evidenziati alcuni capisaldi della vita all’interno di una setta, i denominatori comuni che caratterizzano tutti i culti distruttivi relativamente alle azioni e ai discorsi dei loro affiliati. La seconda parte del capitolo si concentra sugli aspetti pratici della vita in un culto, attraverso le storie personali di chi ne è rimasto coinvolto. Conosco da lunga data alcune delle persone qui menzionate. Eccezion fatta per Elizabeth Rose, tutte hanno abbandonato il culto di appartenenza e hanno acconsentito affinché riportassi i loro veri nomi e le loro storie, da loro stessi accuratamente riviste. Non importa quanto strani questi racconti possano sembrare: sono tutti veri. 117
L’esperienza del culto Che significa appartenere a un culto distruttivo che usa il controllo mentale? Come ci si sente? Cosa si pensa? Poiché i culti che esercitano il controllo mentale sono i più disparati, sarebbe impossibile descrivere i diversi credo e le pratiche utilizzate da ciascuno. Il modo migliore per conoscere un gruppo è parlare con un ex discepolo del gruppo stesso, o leggere un suo resoconto scritto: queste persone sono una preziosa fonte d’informazione, perché nessuno più di loro conosce meglio la materia. Un familiare preoccupato arriva a capire anche il gergo e le parole in codice di un culto. Anche se i culti distruttivi presentano differenze peculiari, proprie e uniche di ciascun gruppo, alcuni temi di adesione sono più o meno universali. Con il termine “temi” mi riferisco a quegli aspetti dell’insegnamento del gruppo, della vita sociale e del suo credo, che diventano fattori potenti, se non addirittura determinanti, della vita quotidiana di un affiliato. Naturalmente, l’influenza di questi temi dipende dal grado di coinvolgimento del soggetto (se vive nel gruppo o a casa), dal periodo di appartenenza e dal suo status, cioè dalla posizione raggiunta all’interno dell’organizzazione. Saranno molti i cultisti che si riconosceranno in queste pagine.
La dottrina è la realtà In un contesto in cui venga impiegato il controllo mentale non vi è modo alcuno di considerare il credo del gruppo come pura teoria o come interpretazione o ricerca della realtà. La dottrina è la realtà. Alcuni gruppi arrivano al punto di affermare che il mondo materiale è un’ illusione e che i pensieri, i desideri e le azioni (con l’esclusione di quelle prescritte dal culto) non esistono affatto. Come affermato da Eric Hoffer, le più efficaci dottrine cultiste sono quelle “che non sono verificabili e non possono essere valutate”.’ Esse possono essere così involute che ci vorrebbero anni di duro lavoro per riuscire a sbrogliarle. (Ovvio che nel frattempo le persone sono state allontanate dallo studio per essere impiegate a fini più pratici, tipo reclutamento e reperimento di fondi). La dottrina deve essere accettata, non compresa, essa sarà quindi vaga e globale ma al contempo abbastanza coerente da apparire consistente. Il potere le deriva dal suo porsi inequivocabilmente come unica e sola verità: la dottrina del culto è onnicomprensiva. Poiché il controllo mentale dipende dalla creazione di una nuova identità, si richiede che una persona non si fidi del proprio Io. La dottrina diventa “la guida primaria” cui riferirsi per ogni pensiero, sentimento e azione, e poiché è la Verità, perfetta e assoluta, qualsiasi ombra deve essere vista solo come il riflesso dell’imperfezione del credente. All’adepto viene insegnato che deve seguire la regola stabilita anche se non la comprende. Allo stesso tempo gli viene detto che per arrivare a capire con maggiore chiarezza deve lavorare di più e avere più fede. 120
La realtà è la contrapposizione fra bianco e nero, buono o cattivo. Anche le dottrine più complesse arrivano, in ultima analisi, a ridurre la realtà in due poli: bianco o nero; buono o cattivo; mondo spirituale o mondo fisico; noi o loro. Non vi è mai posto per il pluralismo. La dottrina non permette ad alcun gruppo esterno di essere riconosciuto come valido (buono, spirituale, reale) perché ciò minaccerebbe il monopolio della verità detenuto dal culto. Non vi è posto neppure per interpretazioni o deduzioni. Nel caso in cui la dottrina non fornisca direttamente una risposta, il membro dovrà rivolgersi al proprio capo. E se questi non ha risposte adeguate, potrà sempre liquidare la domanda come poco importante o irrilevante. I nemici da sconfiggere variano da gruppo a gruppo. Possono essere istituzioni politiche ed economiche (comuniste, socialiste o capitaliste); professionisti della salute mentale (psichiatri e de-programmatori); entità metafisiche come Satana o spiriti; creature extraterrestri, o molto più semplicemente le leggi crudeli della Natura. È dato per certo che i demoni si siano impossessati del corpo di genitori, amici, parenti, ex membri, giornalisti e di chiunque altro sia critico nei confronti del gruppo. I “grandi complotti” attivamente impegnati per eliminarlo, sono naturalmente la prova di quanto il culto sia infinitamente importante. Alcuni culti coltivano vere e proprie forme di paranoia e raccontano ai proseliti che esseri immateriali li osservano continuamente, pronti ad impossessarsi dei loro corpi ogni qualvolta pensino in maniera difforme da quella prescritta dall’organizzazione. Un capo dei moonisti caricò interi autobus di seguaci e li portò a vedere le terrificanti scene di possessione diabolica mostrate nel film L’ Esorcista. Ai membri fu poi detto che anche loro sarebbero diventati dei posseduti se avessero lasciato il culto. Il film fu un ottimo strumento per l’induzione di questa particolare fobia. 121
Mentalità elitaria Ai discepoli viene fatto credere di appartenere a una ristretta élite di prescelti. Questa sensazione di essere speciali e di partecipare con un’avanguardia di devoti credenti agli eventi più importanti della storia dell’umanità, è un potente collante emotivo che fa in modo che le persone si sacrifichino ancora di più e lavorino sodo. I seguaci sono convinti di essere stati scelti (da Dio, dalla Storia o da qualche altra forza soprannaturale) per condurre l’umanità fuori dalle tenebre, verso una nuova era di luce. I membri di un culto hanno un forte senso non solo della loro missione, ma del posto speciale che occupano nella Storia: saranno riconosciuti per la loro grandezza da tutte le generazioni future. Ai seguaci di Moon veniva detto che un giorno sarebbero stati eretti monumenti per commemorare le loro persone e i loro sacrifici. Paradossalmente, gli affiliati guardano con disprezzo chiunque aderisca a un gruppo diverso dal loro. In fretta, annotano salacemente che “quelli là sono dei settari”, oppure che “sono loro ad aver subito il lavaggio del cervello”. Sono assolutamente incapaci di prendere la benché minima distanza dalla propria situazione e analizzare obiettivamente se stessi. Elitarismo e senso di predestinazione portano però inevitabilmente un tremendo carico di responsabilità. Ai seguaci viene fatto credere che se non faranno bene il loro dovere, dovranno risponderne davanti all’umanità intera. L’adepto ben disciplinato dimostra umiltà di fronte ai superiori e al cospetto di potenziali proseliti, ma è arrogante con gli estranei. Al momento di essere reclutati, ai potenziali discepoli viene detto che un giorno anche loro diventeranno dei capi. Tale promozione spetta però solamente a coloro che si saranno distinti per aver svolto attività eccezionali o per ragioni politiche. Alla fine, ovviamente, l’élite che detiene il potere rimane un nucleo ristretto. La maggioranza dei devoti viene confinata ai ranghi inferiori. Ciò nonostante, gli affiliati considerano se stessi i migliori, i più degni e i più potenti individui esistenti al mondo Il risultato è che spesso si sentono più responsabili di quanto si siano mai sentiti in vita loro. Vanno in giro comportandosi come se portassero i! peso del mondo sulle spalle e non riescono a comprendere quando gli estranei li accusano di fuggire la realtà e le responsabilità della vita. 122
La volontà del gruppo al di sopra della volontà dell’Io
All’interno dei culti distruttivi la componente personale deve essere sottomessa alla collettività, con il risultato che lo “scopo del gruppo” è posto al centro di ogni intervento, mentre lo “scopo individuale” è in subordine. In un culto distruttivo pensare a se stessi o per se stessi è male: il gruppo viene prima di tutto. La piena obbedienza ai superiori è uno dei temi più ricorrenti. L’ individualismo è male. Il conformismo è bene. Per un cultista l’intero senso di realtà ha come riferimento l’esterno: egli impara presto a ignorare il proprio Io più profondo e a fidarsi solo dell’autorità esterna. Impara anche a dipendere dagli altri per ricevere ordini e spiegazioni. Ho avuto modo di osservare che i seguaci di un culto, qualunque esso sia, incontrano forti difficoltà nell’assumere decisioni, probabilmente proprio per l’enfasi posta sui riferimenti esterni. In questo stato di estrema dipendenza, gli affiliati hanno bisogno di qualcuno che dica loro cosa fare, pensare e sentire. I leader di culti diversi hanno elaborato tattiche incredibilmente simili per incoraggiare la dipendenza. Allo scopo di tenere i seguaci in costante tensione, essi sono soliti trasferirli in posti nuovi e lontani, cambiare drasticamente i loro impegni di lavoro, promuoverli o declassarli a seconda dei propri capricci. Un’altra tecnica consiste nell’assegnare compiti praticamente impossibili da svolgere, dicendo loro che se si manterranno “puri” avranno successo: all’inevitabile fallimento li costringeranno ad ammettere di essere impuri.
Obbedienza stretta: imitare il capo Un nuovo affiliato viene spesso indotto ad abbandonare i suoi schemi comportamentali e a “dedicarsi” a un membro anziano, che gli viene affiancato per essere assunto come modello di riferimento. Il nuovo arrivato viene sollecitato a diventare la persona cui è stato affidato. Anche i dirigenti giunti a metà della loro carriera vengono sollecitati a conformarsi ai modelli forniti dai rispettivi superiori, fermo restando che il capo assoluto rimane il modello ultimo. Una delle ragioni per cui un gruppo di cultisti può colpire l’attenzione di un osservatore esterno, e apparire stranamente curioso ai suoi occhi, dipende dal fatto che ogni singolo componente del gruppo ha acquisito lo stesso insolito modo di fare, il medesimo stile nel vestire e un ugual modo di esprimersi. Ciò che viene visto dall’esterno altro non è che la personalità del leader assoluto, trasmessa ai suoi gregari attraverso vari interventi di modellamento. 123
La felicità consiste in un buon rendimento Una delle qualità che fa maggiore presa all’esterno è quel senso di comunità che il culto è in grado di generare. All’inizio l’amore appare incondizionato e illimitato e i nuovi proseliti vivono in una specie di luna di miele, in cui sono continuamente oggetto di lodi e attenzioni. Ma dopo alcuni mesi, col crescere del loro coinvolgimento, attenzioni e lodi vengono rivolte ai nuovi arrivati: è a questo punto che l’affiliato impara che l’amore non è incondizionato ma dipende dal suo buon rendimento. I comportamenti sono controllati attraverso ricompense e punizioni e la competitività viene usata per stimolare e umiliare i membri affinché diventino sempre più produttivi. Se le cose non vanno bene — scarso reclutamento, cattiva campagna stampa, defezioni — ciò”avviene per colpa dell’adepto e la razione di riconoscimenti sarà accantonata fintanto che il problema non verrà risolto. Per raggiungere la “felicità”, i seguaci di alcuni gruppi devono confessare i loro peccati, e nel caso non gliene venisse in mente neanche uno, lo devono inventare. Alla fine si convincono di aver commesso davvero i peccati che hanno inventato. Le amicizie sincere sono considerate un pericolo e perciò vengono scoraggiate. La fedeltà e il legame emotivo di un membro cultista dovrebbe sempre essere verticale (verso il capo) e non orizzontale (verso i suoi pari). L’amicizia è ritenuta pericolosa anche perché, se qualcuno decide di lasciare il gruppo, potrebbe anche riuscire a trascinarsi dietro altri discepoli. Ovviamente, quando qualcuno fuoriesce dal culto “l’amore” che prima gli veniva rivolto si tramuta in rabbia, odio e scherno. I rapporti nell’ambito di questi gruppi sono in genere superficiali, dal momento che viene fortemente disincentivata la condivisione di sentimenti personali e profondi. Quest’aspetto della vita di un culto ha la meglio anche quando un affiliato ha la sensazione di non aver mai avuto nella sua vita amici più sinceri. In effetti, quando i discepoli di un culto condividono l’adempimento di pesanti attività (raccolta di fondi per strada, al gelo o nell’afa più opprimente) o la persecuzione altrui (essere arrestati per violazione della legge o attaccati dall’esterno), finiscono col sentirsi eccezionalmente uniti da un profondo cameratismo e da un senso di martirio. Ma poiché la vera e unica devozione permessa è quella verso il capo, un’attenta osservazione rivelerà che questi legami sono superficiali e, a volte, pure fantasie individuali.
Manipolazione attraverso paura e colpevolezza Il cultista finisce col vivere in uno stretto tunnel fatto di paura, sensi di colpa e vergogna. Qualsiasi problema si presenti, la colpa ricade sempre su di lui, come conseguenza della sua scarsa fede, la sua mancanza di comprensione, i “cattivi antenati”, gli “spiriti malvagi” e via dicendo. Vive in un perenne senso di colpa perché non riesce mai a comportarsi secondo gli standard richiesti e finisce col convincersi che il “maligno” lo stia perseguitando. In ogni culto distruttivo che ho conosciuto, la paura rappresenta una delle maggiori leve emozionali. Ogni gruppo ha il suo diavolo tentatore in agguato dietro l’angolo, in attesa di devoti da tentare e sedurre, da uccidere o far impazzire. Più il diavolo è vivido e tangibile, più diventa elemento di coesione del gruppo. 124
Alti e bassi emozionali La vita in un culto è una vera e propria corsa sulle montagne russe. L’affiliato oscilla costantemente da uno stato in cui è al colmo della felicità, componente di quell’unica élite in possesso della “verità”, a uno stato in cui si sente precipitare in un baratro di colpa, paura e vergogna. Ogni problema è sempre dovuto alla sua inadeguatezza piuttosto che al gruppo ed egli si sente perennemente in colpa per non essere all’altezza delle aspettative riposte in lui. Se osa sollevare obiezioni, con molta probabilità finirà con l’essere condannato alla “cura del silenzio” o verrà trasferito a un altro settore. Questi alti e bassi pesano molto sulla capacità di rendimento di una persona. Quando i seguaci si sentono “su”, possono convertire lo zelo in una intensa attività produttiva ed essere molto persuasivi. Ma quando crollano, di colpo non funzionano più. La maggior parte dei gruppi non permette ai suoi affiliati di rimanere a lungo in uno stato in cui si sentano “giù”. Generalmente, coloro che vi cadono vengono mandati a seguire un corso di indottrinamento per essere nuovamente “ricaricati”. Non è insolito che qualcuno venga reindottrinato più volte l’anno. Capita anche che pur sentendosi svuotati e privi dell’entusiasmo iniziale, gli adepti di lunga data non lascino il gruppo. Queste persone non sono però più in grado di sostenere la pressione legata all’impegno richiesto e gradualmente iniziano a rilevare le incongruenze presenti nella politica del gruppo. In questi casi, non è infrequente l’assegnazione permanente a lavori manuali, da svolgere in posti non frequentati dagli altri seguaci; una sistemazione in cui i membri anziani possono rimanere per il resto della loro esistenza, a meno di non diventare un peso, nel qualcaso viene loro richiesto (o apertamente ordinato) di andarsene. Ho avuto in terapia un uomo che era stato rispedito a casa dopo dieci anni di adesione al gruppo solo perché aveva iniziato a chiedere di poter dormire un po’ di più e di essere trattato meglio. 125
Modifica del senso di orientamento temporale Un’interessante dinamica messa in atto dai culti è la tendénza a cambiare il rapporto di una persona con il suo passato, presente e futuro. Come abbiamo visto, il passato di una persona viene completamente riscritto ed essa si ritroverà a guardare indietro con una memoria distorta che colora tutto di nero, secondo una rilettura in cui perfino i ricordi più positivi tenderanno ad assumere connotazioni negative. Anche la percezione del presente viene alterata. Un affiliato si sente sempre sotto pressione per le attività che è chiamato a svolgere. Ricordo bene la costante sensazione che avevo, ai tempi della mia militanza nei moonisti, di essere seduto su una bomba a orologeria, con la convinzione che le sorti del mondo dipendessero da quanto efficacemente avessi svolto le mansioni assegnatemi. Molti gruppi inducono a credere che l’apocalisse sia dietro l’angolo: alcuni sostengono che il suo non avverarsi è il frutto del loro operato; altri credono più semplicemente di essere gli unici predestinati a sopravvivere al catastrofico evento. Quando sei tenuto perennemente occupato in compiti molto impegnativi — per giorni, settimane o mesi — qualsiasi altra cosa scompare dalla tua mente. Per un cultista, il futuro viene percepito o come il momento della ricompensa, che giungerà col grande cambiamento finale, oppure come il tempo della punizione. In molti gruppi il capo sostiene di detenere il controllo, o quanto meno la conoscenza, degli avvenimenti che dovranno verificarsi. Egli sa come dipingere il futuro, rendendolo un paradiso o un inferno a seconda della direzione che vuole far prendere ai propri seguaci. Molti gruppi hanno scadenze precise che riguardano il verificarsi dell’apocalisse, all’interno di un arco di tempo che in genere va dai due ai cinque anni: un periodo abbastanza lontano nel tempo per non essere smentiti troppo presto e abbastanza prossimo da servire come forte incentivo. Queste predizioni tendono a svanire nel nulla con l’avvicinarsi della grande data. In altri gruppi, invece, la scadenza è considerata esatta finché non si rivela errata. In quest’ultimo caso, il capo non dovrà fare altro che annunciare una nuova data, posticipando di qualche anno il grande evento. Dopo aver agito così più volte, può accadere che alcuni discepoli anziani comincino a manifestare una certa dose di scetticismo. Nel frattempo, però, ci sarà stato un ricambio generazionale e saranno arrivati nuovi affiliati, completamente all’oscuro del fatto che il leader abbia spostato l’evento nel tempo. Quando ero nei rnoonisti, nessuno sapeva che per ben due volte era andata a vuoto la profezia di Moon secondo cui il vecchio mondo sarebbe finito e il movimento dei moonisti avrebbe preso il potere, evento previsto una prima volta nel 1960 e poi nel 1967. Moon aveva anche predetto che nel 1977 sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale. Quando ciò non accadde, l’attenzione fu spostata su un’altra data: il 1981. Le persone reclutate intorno al 1977 mi raccontarono di come ricordassero chiaramente il magico eccitamento che durante le lezioni serpeggiava tra loro al solo sentir pronunciare la parola fatidica, “1981”! Quando però per la Chiesa dell’Unificazione il 1981 non produsse altro evento rilevante che non l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca (alla cerimonia di nomina del neopresidente partecipò anche lo stesso Sun Myung Moon), le previsioni si erano ormai spostate su altre date a venire. 126
Nessuna via di scampo Non vi è mai una ragione legittima per lasciare un culto distruttivo. A differenza delle organizzazioni non cultiste, che riconoscono ai propri affiliati il diritto di passare a un altro gruppo, quelle che impiegano il controllo mentale affermano molto chiaramente che non esiste un modo legittimo per andarsene. Ai seguaci viene detto che gli unici motivi che spingono le persone a lasciare il gruppo vanno ricercati nella loro debolezza o instabilità emotiva, nelle tentazioni, nel lavaggio del cervello (da parte dei de- programmatori), nell’orgoglio, in peccati vari e via discorrendo. I discepoli vengono indottrinati a credere che semmai dovessero andarsene, terribili conseguenze ricadrebbero su di loro, sulle loro famiglie e sull’intera umanità. Anche se ripetono spesso la frase “Mostrami una strada che sia migliore della mia e io la seguirò”, in realtà ai cultisti non viene concesso né il tempo né gli strumenti per dimostrare a se stessi la veridicità di tale affermazione: sono prigionieri di una gabbia mentale.
Esperienze vissute Le persone che hanno aderito ai culti distruttivi hanno vissuto esperienze troppo dolorose da raccontare. Anche dopo il recupero psicologico, un ex seguace non sempre è disposto a parlare in pubblico della sua vicenda. Per altri, invece, è importante che la gente capisca le sofferenze cui sono stati sottoposti mentre erano sotto controllo mentale, e non hanno problemi a usare i loro nomi. Comprendo appieno la reticenza di chi desidera rimanere anonimo e, allo stesso tempo, ammiro il coraggio di coloro che escono allo scoperto. Queste persone acquistano maggiore forza nel momento stesso in cui condividono con altri le loro esperienze personali, fornendo al contempo un prezioso contributo conoscitivo su cosa significhi essere reclutati da un culto distruttivo, vivere al suo interno e successivamente lasciarlo. 127
Carol Giambalvo ed est Negli ultimi dieci anni un gran numero di persone ha vissuto sulla propria pelle le tattiche di reclutamento della cosiddetta hard sell [letteralmente:vendita dura] dei programmi di training a larga scala sull’ampliamento di coscienza, programmi del tipo est, oggi conosciuto col nome di Forum. Werner Erhard stima che oltre 750 mila persone abbiano seguito il training Forum, mentre oltre cinque milioni avrebbero aderito al Progetto Hunger. Buona parte delle persone che paga centinaia di dollari per seguire i programmi di Erhard, se ne va prima di venire coinvolta nei numerosi seminari per “diplomati” che vengono massicciamente promossi. Sono ancor meno quelli che vengono cooptati nello staff lavorativo o che prestano servizio come volontari. Stando ai resoconti diretti di ex seguaci da me assistiti, appare evidente come alcuni dei programmi est più intensi presentino tematiche da me già definite come caratteristiche di un culto. Se vi sono molti diplomati dei corsi est pronti ad asserire di aver riportato dal training risultati positivi, ve ne sono altrettanti che mettono in guardia sulla loro pericolosità, citando in primo luogo il rischio di insorgenza di turbe psichiche. Robert Tucker, direttore del Council on Mind Abuse di Toronto, riferisce che ha ricevuto e continua a ricevere molte più lamentele su est che su qualsiasi altro gruppo. “Queste lamentele” afferma Tucker “si riferiscono a quelli che noi conosciamo come gli effetti prodotti dall’appartenenza ai culti. Personalmente ritengo che Werner Erhard sfrutti il desiderio delle persone di ampliare la propria coscienza, commercializzando a tal scopo una specie di ‘illuminazione fulminea’. Credo che attraverso la realizzazione di una prima esperienza di maggior consapevolezza, egli riesca a ottenere il controllo totale su coloro che rtengono tale esperienza frutto dell’intervento di Erhard e delle sue lezioni. Sono convinto che ciò strumentalizzi e alteri profondamente il significato di illuminazione”. Carol, una quarantacinquenne che sprizza energia da tutti i pori, incontrò Noel quando questi stava affrontando un divorzio che metteva fine a venticinque anni di matrimonio. Si innamorarono e si sposarono. Consulente di scuola elementare in pensione, Noel aveva partecipato al training di est e lo aveva caldamente raccomandato a Carol. In breve tempo diventarono entrambi “training dipendenti”, partecipando a un seminario dopo l’altro. Durante questo periodo, la figlia di primo letto di Noel entrò a far parte degli Hare Krishna. All’inizio i coniugi Giambalvo mostrarono apertura mentale e piena disponibilità e appoggiarono il coinvolgimento della figlia nel gruppo. Ma dopo un po’ presero a notare drastici cambiamenti nel suo comportamento e cominciarono a fare ricerche sui culti e sul controllo mentale. Cercarono di farle seguire un programma di exit counseling, ma il tentativo fallì e lei ritornò al gruppo, dove restò fino al giorno in cui ebbe un esaurimento nervoso e venne espulsa. Nel frattempo però, in seguito a quanto avevano appreso facendo le loro ricerche, i Giambalvo iniziarono a interessarsi al problema dei culti e a tenere conferenze sull’argomento. Riferendosi a quel periodo, Carol così si esprime: “E’ incredibile come fossimo intenti a informare il pubblico sulla pericolosità di altri gruppi, senza che ci rendessimo conto di quanto noi stessi fossimo profondamente coinvolti con est”. 128
Come molti altri, anche i Giambalvo ritenevano erroneamente che per essere negativamente coinvolti in un gruppo fosse necessario vivere all’interno di una comunità. E in effetti, pur partecipando attivamente alle attività di est, loro se ne restavano comodamente nella loro confortevole casa di Long Island! Solo quando iniziarono a esaminare le tecniche e i procedimenti usati nei seminari di est e negli incontri organizzativi del Progetto Hunger, furono in grado di riconoscere gli elementi fraudolenti e di controllo mentale dell’organizzazione. Uscirono dal gruppo e iniziarono il difficile processo di analisi dell’esperienza vissuta. Intervenendo a una riunione di ex adepti, Carol descrisse con accuratezza il momento in cui si era sentita crollare durante il corso di indottrinamento. Ecco il suo resoconto pubblico: “Ricordo che feci una domanda all’istruttore e la sua risposta fu qualcosa del tipo ‘Che vuoi capirne tu! Sei seduta tra i banchi delle vittime!’. Quando poi mi chiese perché mi fossi seduta là, risposi che era perché avevo un problema di diabete. Davanti a duecentocinquanta persone, con mio grande imbarazzo, nel giro di pochi secondi mi accusò di essere io stessa la causa del mio diabete, utilizzato fin da piccola per attirare l’attenzione di mio padre. Egli affermò, più o meno, che dal momento che avevo il potere di creare la mia realtà, se solo lo avessi voluto avrei potuto ‘far sparire” il diabete. Per fortuna non smisi mai di assumere l’insulina: in caso contrario, oggi sarei morta”. Nonostante ciò, Carol partecipò al seminario fino in fondo e ritornò a seguirne molti altri. Col tempo, lei e suo marito entrarono a far parte dei primi settanta relatori per il progetto fondato da Werner Erhard. La loro attività durò oltre cinque anni e tra le altre cose, essa consisteva nell’incoraggiare le persone a seguire il training est e ad aderire al Progetto Hunger. Al colmo del loro coinvolgimento, Carol e Noel erano soliti dedicare dalle sessanta alle settanta ore la settimana come volontari, che ora rimpiangono non aver destinato a un’organizzazione che aiutasse sul serio gli affamati e gli indigenti del mondo, piuttosto che a raccogliere milioni di dollari per promuovere l’idea di Erhard secondo cui bastava che un numero sufficiente di persone credesse nella “non fame” per far scomparire la fame dal mondo. In seguito Carol si impegnò attivamente in organizzazioni per il supporto e l’informazione per ex seguaci di culti distruttivi. Assieme a Noel, oggi passa gran parte del suo tempo ad aiutare e consigliare persone fuoriuscite dai culti. 129
Elizabeth Rose e l’Organizzazione di Lyndon LaRouche
Vi è mai capitato di incrociare in un aeroporto banchetti coperti di opuscoli e volantini del tipo “Jane Fonda in pasto alle balene”, “Quarantena per i malati di Aids”, “Costruiamo armamenti a energia diretta per difendere l’America”? Se vi è successo, allora vi siete imbattuti nei seguaci del movimento politico di LaRouche. Accusati di ostruzionismo alla giustizia e uso fraudolento di carte di credito (usavano gli estremi di carte di credito altrui per comprare i giornali del gruppo e addebitavano sul loro conto somme non autorizzate), molti membri dell’organizzazione di LaRouche sono andati incontro a processi penali. LaRouche, che si è candidato alla presidenza in tre campagne elettorali, asserisce che Henry Kissinger è una spia dei russi, che la regina Elisabetta favorisce il contrabbando di droga e che soltanto lui può salvare l’America. LaRouche fa leva sulla paura delle persone e sul loro patriottismo, guadagnando appoggio sia per se stesso che per la sua organizzazione. Un tempo marxista convinto, LaRouche è oggi un fanatico di destra e ha perfino messo in piedi una rete “spionistica” di cui si sono serviti, negli anni, singole persone e istituzioni. Elizabeth Rose, un’anziana signora di ottantacinque anni, venne reclutata dall’organizzazione di LaRouche subito dopo la morte del marito e della sorella, nel momento in cui, per la prima volta nella sua vita, si ritrovava a vivere completamente sola. I seguaci l’avevano contattata per telefono, e trovandola disponibile avevano iniziato a farle visita, soprattutto la sera tardi. Nell’arco di tre settimane, racconta la figlia Nancy Day, Elizabeth Rose aveva girato al l’organizzazione, sotto forma di prestito, oltre 800mila dollari in azioni della famiglia, affermando che aveva deciso di aiutarli a “salvare il mondo”. Elizabeth aveva raccontato alla figlia che con la sua associazione stava anche aiutando il gruppo a “colonizzare Marte” e che forse sarebbe diventata “la prima nonna su Marte”. Nell’ottobre del 1986, lo Stato della Virginia e l’IRS [ Ufficio delle imposte americano] fecero irruzione negli uffici direzionali di LaRouche a Leesburgh, trovandovi documenti che indicavano oltre quattromila e cinquecento transazioni relative a prestiti, per un totale di tremila persone coinvolte in cinquanta Stati e dodici diversi Paesi, attività che aveva fruttato all’organizzazione oltre trenta milioni di dollari. Fu stimato che il settanta per cento delle persone coinvolte erano anziane e che a nessuna di loro erano stati restituiti i soldi prestati, come invece stabilito dai termini delle transazioni. Anche se Nancy Day ha portato la vicenda in tribunale, riuscendo a evitare che sua madre desse altri soldi al gruppo, Elizabeth Rose è rimasta membro attivo dell’organizzazione di LaRouche. Estremamente convincente, Elizabeth ha persuaso altri anziani a donare i loro beni in cambio di ricevute che garantiscono un dieci per cento di interessi. Proprio come successo a lei, Elizabeth avvicina le persone puntando sul patriottismo e facendo leva sulla loro paura che le banche siano tutt’altro che “affidabili”. Viaggia in tutto il Paese per propagandare l’organizzazione di LaRouche, convinta si essere perseguitata dalla propaganda di sinistra. 130
Patrick Ryan e la Meditazione Trascendentale Patrick Ryan, oggi imprenditore di successo, è stato coinvolto nella Meditazione Trascendentale per dieci anni. E’ un diplomato della Maharishi International University (MIU) di Fairfield, nell’Iowa, istituzione ufficialmente riconosciuta e accreditata. La maggior parte delle persone crede che la MT sia un modo innocuo per rilassarsi attraverso la meditazione, ma per coloro che hanno una maggiore adesione essa assume le caratteristiche proprie di un culto. Dopo la sua esperienza, Pat ha fondato un gruppo di supporto per ex seguaci di MT e denuncia apertamente il lato oscuro del movimento: “Ha tutte le caratteristiche di un culto distruttivo”, afferma. “Molti dei miei amici e io personalmente siamo stati gravemente danneggiati dal nostro coinvolgimento in questo movimento”. Al pari della maggior parte dei culti, MT usa il sotterfugio.’ I suoi portavoce ufficiali affermano che “non è né una filosofia né una religione, e neppure uno stile di vita”. Eppure, come sottolinea Pat, “la gente diventa vegetariana, pratica il celibato, recita mantra composti dai nomi di divinità indiane e adora Maharishi Mahesh Yogi quale ‘Maestro Illuminato dell’Universo”. Nella sua pubblicità, MT enfatizza i benefici pratici della meditazione, con particolare riguardo alla riduzione dello stress, e mostra video in cui persone di ogni estrazione sociale e stile di vita ne testimoniano i benefici. Unitamente ad altre evidenze cliniche, gli opuscoli illustrativi sono ricchi di grafici sulla pressione sanguigna, di risultati di elettrocardiogrammi e tracciati elettroencefalografici, a riprova dei benefici effetti della Meditazione Trascendentale sull’organismo. Ciò che non viene menzionato è che test scientifici hanno provato che analoghi risultati possono essere ottenuti ascoltando musica rilassante o praticando i semplici esercizi di base del rilassamento descritti in agevoli guide del costo di un paio di dollari. Non appena lo studente di MT sarà arrivato a sborsare una somma di quattrocento dollari, riceverà il suo mantra personale, accompagnato dalla raccomandazione di non svelarlo mai a nessuno. Perché? Semplice: perché probabilmente lo stesso “unico” mantra è stato dato, sulla base dell’età, a migliaia di persone.’ Buona parte degli aderenti non va oltre ai prescritti venti minuti di meditazione due volte al giorno, mattino e sera. Queste persone possono a malapena essere chiamate seguaci. Alcuni, invece, continuano a visitare il centro MT per i “controlli” e vanno avanti pagando percorsi sempre più avanzati. Talvolta arrivano ai livelli di Pat, che è riuscito a pagare tremila dollari per imparare a levitare e volare. In realtà, si è solo ritrovato a recitare mantra più “avanzati” mentre, gambe incrociate nella posizione del loto, saltellava su e giù, per due ore al mattino e altrettante la sera. Non sorprende affatto che accusasse i forti spasmi muscolari, emicranie e tic involontari per i quali fu costretto a rivolgersi ai suoi istruttori in cerca di aiuto. “Mi risposero che i malesseri erano il segno che il mio stress stava diminuendo. Dovevo perciò continuare a meditare e cercare di impegnarmi di più nel volo”. “Fu solo quando Bob Kropinsky vinse la prima causa contro MT per frode e negligenza che venni a conoscenza di quante persone erano state danneggiate da loro”,’ continua a raccontare Patrick. “I dirigenti danno la .colpa agli affiliati per qualsiasi cosa e non fanno nulla per cambiare il loro modo d’agire”. Come in altri culti distruttivi, non è mai colpa del leader, della dottrina o del comportamento dell’organizzazione: la colpa ricade sempre sui proseliti. 132
Pat cominciò a dubitare di MT solo dopo aver assistito a una seduta di de-programmazione dalla The Way International cui era sottoposta sua sorella Michelle. Mentre gli ex membri del gruppo raccontavano a Michelle i criteri che definiscono l’ambiente in cui si pratica il controllo mentale, Pat iniziò a sentire numerosi campanelli d’allarme suonargli dentro: gli stessi metodi venivano usati da MT. Fu allora che prese coscienza del fatto che i suoi problemi erano dovuti alle pratiche che stavano mandando in corto circuito il suo sistema nervoso. Pat cominciò ad approfondire le sue ricerche, ricorrendo a qualsiasi fonte potesse aiutarlo a capire la storia e i precedenti di Maharishi e della sua organizzazione. Tramite studenti della facoltà di MIU scoprì che alcuni dei più propagandati esperimenti medici erano stati condotti senza seguire un’adeguata procedura scientifica. Oggi Patrick Ryan è una delle maggiori voci critiche dell’organizzazione in cui aveva un tempo militato, e si prodiga nel mettere in guardia gli altri dalle pratiche distruttive e fraudolente di MT. 133
Gretchen Callahan e la Truth Station
Alcuni culti distruttivi sono tanto piccoli da sembrare insignificanti se paragonati a grandi organizzazioni come la Chiesa dell’Unificazione. Ciò nonostante, i piccoli gruppi posseggono la stessa capacità distruttiva di quelli più estesi. Una realtà di cui ha avuto conferma a sue spese Gretchen Callahan, rimasta coinvolta nel piccolo culto fondamentalista biblico del sud della California chiamato Truth Station,’ i cui trenta devoti erano guidati da un uomo convinto di avere un filo diretto con Dio. Vivevano tutti assieme nella stessa casa, dedicando la maggior parte del loro tempo allo studio della dottrina. Credevano di essere gli unici a vivere da “veri cristiani” e che la loro fede avesse un potere terapeutico. Gretchen era però destinata ad avere un incontro particolarmente ravvicinato con la “guarigione di fede”, incontro che fallì miseramente, con conseguenze fatali. Gretchen ha descritto i lunghi incontri del gruppo, in una sala sovraffollata dove il leader passava ore e ore facendo sedere a turno le persone sulla “sedia bollente”, per poi umiliarle verbalmente sotto lo sguardo degli altri partecipanti. “Durante queste riunioni, a nessuno veniva permesso di alzarsi per andare in bagno. Dovevamo rimanere lì e far parte del processo”, spiega Gretchen. Era così che gli adepti venivano convinti che il “peccato” nascosto in ciascuno dovesse essere “portato alla luce” e distrutto. Nessuno sapeva quando sarebbe stato il suo turno di sedere sulla sedia bollente e ci si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo quando a essere chiamato era qualcun altro. Il gruppo aveva il suo proprio gergo per trattare i problemi. Mettere in dubbio l’autorità del leader, ad esempio, veniva definito “far posto” agli spiriti satanici. il “vero credente” si distingueva per il suo essere pienamente sottomesso all’infallibilità del leader e all’interpretazione della Bibbia, ritenuta “La Verità” (cioè la versione del leader della verità). Le persone erano pronte a tutto pur di dimostrare di essere “veri credenti”. Gretchen riferisce di un giovane, cui fa riferimento chiamandolo semplicemente David. All’epoca ventiseienne, David cominciò a sentirsi gravare addosso la pressione del gruppo, che lo spingeva a rafforzare la sua fede. Per provare il suo impegno verso il gruppo e per ottenere la piena accettazione, il giovane smise di prendere l’insulina per il diabete, convinto che Dio l’avrebbe guarito. I discepoli applaudirono la sua fede e lo incoraggiarono a buttare via il medicinale, cosa che fece scrupolosamente. Nel giro di pochi giorni, la salute di David deteriorò rapidamente e alla fine della settimana il leader ordinò che si pregasse ventiquattr’ore su ventiquattro. Quando David esalò l’ultimo respiro, la squadra di preghiera di turno era quella di Gretchen, ma il gruppo, sollecitato dalle prediche del leader, si convinse che David sarebbe risorto. Pregarono per quindici ore sul suo corpo. Il padre di David, all’epoca co-leader, percuoteva il petto del figlio cercando di allontanare Satana e l’angelo della morte, mentre la madre venne fatta uscire dalla stanza perché la pena e il dolore che mostrava erano considerati il segno della sua “debolezza spirituale”. Per buona parte del giorno Gretchen tenne fra le sue le mani quelle di David, mentre il suo corpo diventava rigido e livido. Anche quando arrivò la polizia e il corpo venne portato via, tutti i devoti continuarono a credere che il giovane sarebbe tornato. Nei tre mesi successivi, veniva ancora apparecchiato per lui un posto a tavola e i seguaci (bambini inclusi) ebbero visioni, sogni e profezie relative alla sua imminente resurrezione. 134
Avendo saputo della morte di David, i genitori di Gretchen la chiamarono dalla loro casa in Jamaica dopo alcuni giorni dalla disgrazia, Gretchen riuscì a convincerli che David non era proprio “morto”. Il leader le aveva detto che il suo risveglio sarebbe stato un grande miracolo e i non credenti sarebbero arrivati in massa. Due anni dopo la morte di David, Gretchen fu cacciata dal gruppo per “spirito di ribellione”. Non ne poteva più. Non faceva che dare, ma non era mai abbastanza. “Penso si possa dire che ormai ero esaurita”, raccontò durante una riunione agli ex membri di altri gruppi. “Qualcosa dentro di me si era spento. Sebbene avessi ancora paura di fare cose sbagliate o di essere ‘fuori dallo Spirito’, semplicemente non riuscivo più a sentirmi in colpa per i ‘peccati’ che mi avevano costruito addosso. Notavo che non vi erano più persone felici o sorridenti. Ognuno di noi aveva paura di parlare con gli altri perché temeva di non essere ‘nello Spirito’. Malgrado ciò, anche dopo essere stata cacciata via continuai a credere che loro fossero nel giusto e possedessero la chiave della salvezza. Fu solo dopo che i miei genitori mi fecero deprogrammare che iniziai a capire che avevo lottato non contro il mio rapporto con Dio bensì contro gli abusi del controllo mentale di cui ero stata vittima”. Alcuni mesi dopo che Gretchen se ne fu andata, il gruppo iniziò a far ricorso ai maltrattamenti fisici, soprattutto su donne e bambini, per sradicare “gli spiriti satanici”. “Mi ci sono voluti anni per capire in pieno quanto profondamente controllavano le mie emozioni e i miei pensieri”, mi disse Gretchen. “Se non avessi avuto un buon supporto psicologico, probabilmente avrei continuato a tentare di rientrare nel gruppo”. Stando a quanto conosco di quel gruppo, posso ipotizzare che molto probabilmente il leader le avrebbe permesso di rientrare non appena avesse verificato la sua completa sottomissione. 135
Gary Porter e il Nichiren Shoshu of America Un giorno Gary Porter, un chiropratico di Philadelphia, incontrò Ann e se ne innamorò. La donna faceva parte di NSA, il Nichiren Shoshu of America. (Sebbene l’organizzazione sia nata in Giappone e dichiari di avere radici buddiste, in più di vent’anni di attività ha reclutato numerosi proseliti anche negli Stati Uniti). I seguaci di questo culto ritengono che recitando ripetutamente parole mistiche davanti a un cartiglio di carta di riso — il gohonzon — acquisteranno un potere che permetterà loro di fare tutto ciò che vorranno. Ann era entrata nel gruppo da oltre due anni, quando iniziò a recitare “Nam myoho renge kyo” per ore e ore al giorno, allo scopo di incontrare e sposare un medico. “La gente poteva recitare i mantra anche per trovare un parcheggio, un nuovo lavoro, per ottenere buoni voti a scuola, per qualsiasi cosa”, spiegò Gary durante la riunione di un gruppo di supporto. Gary, che era cresciuto nella fede metodista, stava attraversando un gran brutto periodo quando incontrò Ann. “Ero esausto: ero reduce da quattro faticosi anni di università per diventare chiropratico, il mio migliore amico era morto in un incidente automobilistico e i miei fratelli facevano pressioni perché tornassi a casa e mi prendessi cura di mia madre malata. Ero pronto ad accettare qualsiasi cosa che promettesse una soluzione ai miei problemi”. “Pensai che quel gruppo era un po’ strano” confessò Gary. “Ma nonostante ciò, acconsentii a provare a recitare il mantra. Mi dette una carica incredibile. Comprai un gohonzon, sposai Ann e rimasi nel gruppo per oltre cinque anni”. L’organizzazione ricorreva ai nomi delle celebrità associate al gruppo, tra cui Tina Turner e Patrick Duffy, sia per fare nuove reclute che per rafforzare l’impegno degli affiliati. Altro suo slogan pubblicitario era “lavorare per la pace del mondo”. NSA faceva sì che i suoi adepti credessero che il solo recitare dei mantra potesse salvare l’umanità dalla distruzione. Ma a parte marce e riunioni (accuratamente evitate dalla maggior parte dei gruppi pacifisti), i loro adepti facevano ben poco per promuovere la pace. In realtà le marce di NSA servivano a impiegare in qualche modo il tempo e le energie degli affiliati. “Eravamo soliti avere riunioni di gruppo tre o quattro volte la settimana, per non menzionare le ore che ogni giorno passavamo a recitare i mantra”, racconta Gary. I rapporti tra i seguaci erano manipolati in modo da assicurarsi che coloro che dubitavano fossero messi a tacere e che i conformisti venissero invece ricompensati. Gary si ritrovò in rotta di collisione con i dirigenti di NSA svariate volte e fu minacciato di espulsione. Dentro di sé, era ciò che sperava accadesse. Era stanco di essere sotto pressione e manipolato e anche il suo lavoro come chiropratico ne risentiva, dal momento che tempo ed energie erano quasi interamente dedicati all’organizzazione. Insieme alla moglie fu infine cacciato, e Ann passò tutto l’anno successivo sdraiata su un divano, convinta di avere un cancro. All’epoca non poteva rendersi conto di agire secondo l’indottrinamento ricevuto. Come molti altri seguaci, temeva che se avesse lasciato NSA e smesso di recitare i mantra, sarebbe incorsa in qualcosa di terribile. La storia di Gary e Ann Porter non è drammatica quanto quella di altri adepti. La loro vita in un culto distruttivo era stata più o meno simile a tante altre e sicuramente nessuno ha mai chiesto loro di vegliare su un compagno in fin di vita. Il fatto di aver lasciato il gruppo assieme è di certo stato un bene, Quando Gary e Ann iniziarono a studiare materiale riguardante i culti distruttivi e il controllo mentale, si resero conto che NSA usava essenzialmente le stesse tecniche utilizzate dai gruppi che richiedono che i loro membri vivano in comunità. Ci vollero parecchi anni prima che potessero rimettere assieme i pezzi della loro vita. 136
Wendy Forf e The Way International Alcune persone sono finite in culti distruttivi che vedono combinate le caratteristiche di piccole sette fondamentaliste bibliche con le sofisticate tecniche di “training” di organizzazioni quali Forum e le posizioni radicali di culti politici. Wendy Ford ha avuto un’esperienza del genere nei suoi sette anni di coinvolgimento con The Way International. Wendy è una diplomata del The Way Corps, un corso intensivo di indottrinamento di quattro anni per dirigenti del gruppo. Inizialmente venne attratta da The Way a causa di un corso introduttivo dal titolo “Come vivere nel benessere” e in un primo tempo pensò che le stessero solo insegnando la Bibbia. “Si presentava come un culto dedito allo studio della Bibbia e all’insegnamento, fondato dal professor Victor Paul Weirwille” racconta oggi Wendy al suo pubblico. “Solo al termine della mia de-programmazione seppi che il suo dottorato era stato ottenuto da una società che vende titoli di studio per posta e che il cosiddetto ‘insegnamento giustamente ripartito ’ altro non era che il frutto di una sua distorta interpretazione delle Sacre Scritture”. Donna d’affari, cantante e attrice di grande talento, oggi Wendy lavora in una delle maggiori società di computer del Massachusetts ed è molto attiva nel fornire consulenza nell’ambito dei servizi di aiuto per ex cultisti. Ricorda molto chiaramente come venissero impartite le tecniche di blocco del pensiero: “Nel mio gruppo ci veniva insegnato a parlare in lingue classiche, che si diceva fossero una manifestazione dello Spirito Santo. Dovevamo farlo ogni qualvolta ci trovavamo a pensare con la nostra testa e a dubitare dell’insegnamento ricevuto”. Come molti altri gruppi di ispirazione biblica, The Way enfatizzava l’influsso del Diavolo negli affari quotidiani, instillando profonde paure nei seguaci in modo che obbedissero alla leadership senza porre domande. “Nessuno voleva essere posseduto da Satana” spiega Wendy, “e noi pensavamo che ogni qual volta si parlasse in una lingua classica eravamo centrati su Dio. La verità era che in questo modo ci tagliavamo fuori da ogni possibilità di pensare in maniera critica e autonoma”. Mentre Weirwille diventava sempre più paranoico nei confronti del comunismo, The Way diveniva un culto di sopravvivenza e metteva da parte riserve di cibo e armi. Insieme ad altri membri, a Wendy fu insegnato a usare il fucile e a vivere di ciò che offriva l’ambiente, in attesa di un’imminente invasione. “Le macchine dovevano avere sempre i serbatoi al meno per metà pieni e venivano immagazzinate riserve di cibo e armi”. La paura divenne un potente fattore di coesione. “Avevamo paura dichiunque parlasse male dell’organizzazione. Pensavamo di essere soldati di Dio: le uniche persone a capire la Bibbia e a sapere come doveva essere interpretata”. Nonostante la morte di Weirwille, avvenuta nel 1986, The Way continua ad amministrare la sua università in Emporia, nel Kansas, e il suo quartier generale a New Knoxville, in Ohio. Gli affiliati sono circa diecimila e The Way è ancora uno dei culti distruttivi più forti d’America. Ciò nonostante, le numerose dispute interne hanno fatto sì che molti dirigenti se ne siano andati e si siano poi assunti il compito di far conoscere l’inadeguatezza dell’interpretazione biblica del culto e la corruzione della sua dirigenza. Tuttavia, sono comunque pochi quelli fra loro in grado di capire le dinamiche del controllo mentale. “Posso solo sperare che un sempre maggior numero di ex dirigenti si unisca a noi per condividere informazioni ed energie” dice Wendy, “in modo che si possa studiare il metodo migliore per aiutare altre persone a lasciare questa organizzazione distruttiva”. 137
Linda Blood e il Tempio di Set Negli ultimi anni, i rituali satanici che coinvolgono gli adolescenti sono diventati l’argomento più gettonato dai giornali di tutto il Paese. Non tutti coloro che sono coinvolti in queste attività sono però ragazzi che si ribellano all’autorità costituita. Il coinvolgimento di Linda Blood in un culto satanico, il Tempio di Set, è la prova che tali gruppi esercitano una potente attrattiva anche sugli adulti. Linda, magliaia di professione e scrittrice, fu coinvolta nel Tempio di Set per parecchi mesi. Per tutto il periodo era stata sotto la diretta influenza del leader del gruppo, Michael Aquino, un ufficiale di alto grado dell’Esercito americano. Linda aveva letto su una rivista un suo articolo che parlava di fantascienza e gli aveva scritto una lettera. Dopo diversi mesi di corrispondenza, aderì al gruppo, incontrò Aquino, se ne innamorò e si ritrovò coinvolta in una relazione complessa ed emozionalmente traumatizzante. “Da allora, lui ha sempre dichiarato che in realtà non ha mai nutrito alcun interesse romantico o sessuale nei miei confronti, e quindi devo arguire che mentisse quando sosteneva il contrario e debbo pensare che mi abbia sedotta solo per acquisire il controllo su di me”, dice oggi Linda con amarezza. “In verità, il coinvolgimento sessuale era minimo. Credo che più d’ogni altra cosa lo intrigasse constatare fino a che punto fosse in grado di manipolarmi”. Prima di incontrare Aquino, Linda non nutriva alcun interesse per il soprannaturale e tantomeno per l’occulto. “Fui influenzata perché credevo che lui e gli altri ‘setiani’ riuscissero a cogliere quel lato intenso, drammatico e cupamente romantico della mia personalità che non trovava espressione nella vita quotidiana”, mi confidò mentre guardavamo insieme uno show televisivo di Oprah Winfrey in cui Aquino veniva intervistato. Rimasi colpito dall’innegabile intelligenza di Aquino e dal suo modo di presentarsi, avvolto nel costume nero di sacerdote satanico. Anche se Linda era ormai fuori dal gruppo da diversi anni, era evidente che Aquino esercitava ancora una forte presa su di lei. Era la prima volta che lo rivedeva da quando era fuoriuscita dal culto. Il tenente colonnello Aquino è un uomo astuto e ben educato, oltre ad essere un eccellente oratore. Per molti anni aveva fatto parte della divisione di guerra psicologica dell’Esercito. Nonostante la pubblicità negativa che circonda questo culto, i portavoce dell’Esercito difendono il diritto costituzionale di Aquino al suo credo religioso. “Sarei dovuta intervenire allo show per contrastarlo, ma non sono sicura che ce l’avrei fatta a vederlo nuovamente così da vicino” disse Linda. “Ora rimpiango di non averlo fatto. Quando ero psichicamente a pezzi, ho detto e fatto stupidaggini, sia mentre ero ancora nel culto che una volta che ne sono uscita, e lui avrebbe potuto usarle per umiliarmi. Ma ne sarebbe valsa la pena per la possibilità di smentirlo pubblicamente. Eppure c’è qualcosa di patetico nell’individuo che vedo sullo schermo, così pomposo, distante, freddo e sfuggente: emozionalrnente morto”. “Per via della nostra relazione, ero in grado di vedere anche l’altro lato di Michael. La mia sensazione è che abbia un disperato bisogno del ‘magico’ per fuggire da una certa disperazione interiore che ho avvertito in lui, e per ottenere controllo e potere sugli altri. Penso sia terribile ciò che ha fatto a se stesso”. 138
Come sottolinea Gini Scott nel suo studio sul gruppo The Magicians, e come Arthur Lyons ha annotato nel suo libro Satan Wants You, uno de gli scopi di Aquino è quello di controllare le persone senza che queste si rendano conto di essere controllate. “Controlla i seguaci attraverso la loro fede nei suoi presunti poteri magici e attraverso il loro bisogno di credere di poterli a loro volta conquistare” osserva Linda “Lui si aspettava che noi tutti si fosse in costante adorazione della sua persona e di tutti gli alti dirigenti del culto”. Sebbene il Tempio di Set fosse dichiaratamente satanico, Linda non prese mai parte a un rituale che includesse sacrifici animali o umani. Chiesi a Linda se temesse per la sua vita. “Non da parte del Tempio di Set, perché, che io sappia, non c’è mai stato un omicidio di qualche ex affiliato”, mi rispose. “Il Tempio di Set opera apertamente e agisce essenzialmente come qualsiasi altro culto pubblico, senza apparente violenza” fa notare Linda. “Ma i culti satanici che hanno un nucleo violento sono molto più spaventosi di quanto lo siano i gruppi distruttivi in genere”. Di fatto, non vi sono prove che leghino il Tempio di Set ad attività illegali. Ma i culti satanici più violenti operano in segreto e si compiacciono della loro immagine diabolica. Alcuni usano rituali programmati allo scopo di terrorizzare e impressionare i partecipanti, e spesso prevedono riti sessuali, salassi e uccisione di animali. Ci sono stati perfino casi di omicidi rituali. Gli ex partecipanti a tali attività non possono parlare delle loro esperienze senza suscitare intense reazioni emotive nei loro ascoltatori e, talvolta, azioni legali. Questi gruppi stanno aumentando perché i giovani vengono stimolati da libri, film e persino dalla musica heavy metal, e vengono indotti a credere che l’adorazione di Satana darà loro potere. Anche se questo non è stato il suo caso, Linda ritiene che la maggior parte delle persone vengano reclutate invitandole a feste in cui vengono somministrate droghe allucinogene che le rendono suggestionabili e disponibili ad accettare di partecipare a riti di iniziazione sessuale. Un po’ alla volta il reclutatore conquista la fiducia del nuovo adepto, guadagnandone di pari passo anche il controllo. Soltanto quando si ritiene che l’adepto sia pronto, viene direttamente introdotto al culto di Satana. A quel punto, in genere, il nuovo adepto non è più in grado di lasciare il gruppo a causa del suo coinvolgimento in azioni illegali. Qualora abbiano assistito o partecipato a un omicidio rituale, viene detto loro molto chiaramente che nel caso decidessero di andarsene verrebbero uccisi. 140
Capitolo 6 VALUTARE IL CULTO: COME PROTEGGERSI Nessuno aderisce a un culto. Posticipa solo la decisione di andarsene. (Anonimo) Mi viene frequentemente chiesto di aiutare persone coinvolte in un gruppo a me sconosciuto. Con il passare del tempo ciò mi ha portato a sviluppare un sistema di valutazione capace di determinare l’impatto negativo esercitato da un gruppo, e ho così scoperto che molte organizzazioni che possono apparire poco ortodosse, o anche decisamente bizzarre, in realtà non arrecano alcun danno ai propri affiliati. Di quando in quando ricevo chiamate da parenti e amici preoccupati per il coinvolgimento dei loro familiari in gruppi che, a mio avviso, non esercitano alcuna forma di controllo mentale. Mi è anche capitato di ricevere dozzine di telefonate da genitori cui non andava a genio l’uomo che la figlia stava per sposare, e che solo per questo veniva accusato di praticare sulla ragazza una qualche forma di controllo mentale. In effetti, ci fu un episodio in cui tale accusa risultò fondata, ma il più delle volte ho semplicemente declinato l’invito a intervenire oppure ho rifiutato di rimanere coinvolto in qualche modo. Credo fermamente che le persone, una volta maggiorenni, abbiano il sacrosanto diritto di decidere per conto loro, anche se vanno incontro a errori. Pur prodigandomi per far in modo che una persona abbia il maggior numero possibile di opportunità tra cui scegliere e possa migliorare la sua visione del mondo e il modo di relazionarsi con gli altri, non per questo sono disposto ad accettare tutti i casi che mi si presentano. Molti gruppi hanno connotazioni distruttive ma non sono di per sé distruttivi: sono i gruppi che rientrano in quella che io definisco “zona grigia”. Per alcune persone, la semplice adesione a simili gruppi ha la capacità di provocare effetti negativi, ma ciò non toglie che l’organizzazione nel suo insieme non presenti affatto le caratteristiche di un vero culto distruttivo. Come si impara a capire se un determinato gruppo lo è? Quali sono gli elementi fondamentali che distinguono le organizzazioni innocue da quelle pericolose? In questo capitolo cercherò di descrivere dettagliatamente le caratteristiche principali dei culti distruttivi, in modo che possiate proteggervi dalla loro influenza. Allo stesso tempo, cercherò di rispondere ad alcuni quesiti che mi vengono posti con maggiore frequenza. Infine, formulerò una serie di domande a uso e consumo di coloro che intendano valutare un gruppo. Procedendo all’esame e alla valutazione di un gruppo che sospetto possa rispondere alla definizione di culto distruttivo, la mia osservazione parte sempre da un ambito puramente psicologico, piuttosto che da una prospettiva teologica o ideologica. Gli schemi di riferimento di cui mi avvalgo riguardano i processi di controllo mentale, l’ipnosi e la terapia di gruppo. Osservo l’operato di un gruppo, non ciò in cui crede. A differenza di quegli analisti e quei critici che sono soliti avvicinare gli adepti di un culto con la convinzione che la loro interpretazione della Bibbia o la loro visione politica sia quella giusta — e che sembrano soprattutto intenzionati a convertire al loro sistema di credenze — io cerco di analizzare il modo in cui i culti distruttivi e i loro membri comunicano (o non comunicano affatto). Il mio orientamento è volto a incoraggiare l’individuo affinché capisca le cose in maniera autonoma, esaminandole sotto diversi punti di vista.
D’altra parte, il diritto di una persona ai propri ideali non comporta l’assoluta libertà d’azione per il raggiungimento dei valori in cui crede. Se così fosse, i gruppi che rivendicano la supremazia dei bianchi sarebbero autorizzati a deportare o uccidere qualsiasi cittadino di altra razza, o i satanisti sarebbero liberi di uccidere apertamente le persone, immolandole nei loro riti sacrificali. Se per l’attività di reclutamento un gruppo ritiene lecito mentire ai non affiliati e per convincerli viola i loro diritti costituzionali, di fatto lede la libertà personale. Allo stesso modo: se un gruppo si fa scudo appellandosi al primo emendamento della Costituzione, ma poi viola sistematicamente i diritti civili dei suoi membri calpestando i basilari principi della democrazia, allora ancora una volta la libertà è stata violata. La legge deve proteggere equamente ogni forma di libertà. Le persone hanno il diritto di essere protette dall’illecita ingerenza esercitata dai culti distruttivi, sia da un punto di vista sociale che da quello individuale. Certamente qualcuno potrebbe replicare: “Perché mai dovrei preoccuparmi di tutto ciò? Non c’è giorno che un qualche mio diritto non venga calpestato senza che io possa fare nulla! “. Sono d’accordo sul fatto che nella vita molte cose sfuggono al nostro controllo, ma quando si tratta di aderire a un gruppo, le persone dovrebbero poter esercitare una qualche forma di potere. Impedire agli altri di violare i tuoi diritti individuali, significa anche impedire loro di danneggiarti come persona. Dopotutto, ciò che viene distrutto dal controllo mentale esercitato dai culti è proprio la vita delle persone! Facciamo un esempio pratico. Supponiamo che un giorno ti capiti di incontrare qualcuno che sospetti possa essere il reclutatore di un culto distruttivo. Forse non l’avresti degnato della benché minima attenzione se non fosse stato per il fatto che è una persona particolarmente attraente. Questa persona prova a convincerti a seguire una certa riunione che si tiene in un dato posto; tu non sei particolarmente interessato alla cosa, ma ti attira l’idea di poter approfondire la sua conoscenza. In una situazione di questo tipo, la regola fondamentale da seguire è la seguente: non dare a questa persona il tuo telefono e il tuo indirizzo fintanto che non ne saprai di più sul suo conto. Anche se ciò dovesse rivelarsi difficile: trattieniti. Potresti rischiare di veder violato il tuo diritto alla privacy da qualcuno che rappresenta un gruppo molto ben organizzato e che non ti mollerà tanto facilmente. Molte persone cedono proprio per la costante pressione esercitata su di loro. Se i membri di un gruppo hanno il tuo indirizzo o il numero di telefono possono esercitare questa pressione in modo molto diretto. Una volta diventato l’adepto di un culto distruttivo, perderai completamente il tuo diritto alla privacy e con il tempo potrai incorrere in danni ben più seri. Mi sono dedicato alla denuncia dei culti distruttivi perché motivato dalla mia esperienza personale, non certo perché ritenga che il governo debba limitare il nascere di nuove religioni o porre restrizioni e vincoli legiferando sui differenti sistemi di valori adottati dai vari gruppi esistenti. Credo semplicemente che tali gruppi debbano essere ritenuti responsabili del loro operato. I gruppi che solitamente definisco culti distruttivi presentano caratteristiche molto precise che minano la capacità di scelta e la libertà degli individui. In questo capitolo descriverò il modello da me usato al fine di evidenziare e valutare il grado di distruttività di gruppi e organizzazioni. Le tre aree di base sono: la dirigenza, la dottrina, e l‘adesione. Esaminando attentamente queste tre componenti, sarete presto in grado di valutare se un particolare gruppo è potenzialmente un culto distruttivo. 143
La dirigenza Sebbene i gruppi distruttivi facciano del loro meglio per camuffare la vera natura della loro organizzazione, un buon punto di partenza per raccogliere informazioni e procedere alla loro valutazione prende le mosse dall’analisi della leadersbip. Chi è il leader del gruppo? Qual è la storia della sua vita? Che tipo di educazione od occupazione ha avuto prima di fondare il gruppo? Il leader di un gruppo (Eugene Spriggs) era un imbonitore di spettacoli, vale a dire colui che per mestiere convince la gente ad andare a vedere un certo spettacolo. Un altro (Werner Erhard di est e di Forum) vendeva macchine usate ed enciclopedie. Un altro ancora (Cari Stevens, The Bi ble Speaks) faceva il conducente di un furgone per conto di una panetteria, mentre quello forse più famoso di tutti (L. Ron Hubbard, Scientology) era un tempo uno scrittore di romanzi di fantascienza. Un altro famoso leader (Victor Paul Weirwille, The Way International) ottenne il suo dottorato in teologia da una ditta che forniva lauree per corrispondenza. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, non tutti i leader fondano un gruppo per avidità di denaro o perché anelano a conquistare potere politico. Perfino il reverendo Jim Jones, che ordinò il massacro del Tempio del Popolo di Jonestown, era un ministro di chiesa che aveva ricevuto regolari ordini, che godeva di grande rispetto e aveva alle spalle una lunga storia di aiuto ai poveri. In origine, le sue intenzioni erano ammirevoli. Sembrerebbe, però, che strada facendo abbia prima iniziato a far ripetutamente uso di anfetamine, presumibilmente per lavorare più ore e prendersi cura di un maggior numero di persone. Conobbe poi falsi guaritori e iniziò a utilizzare le loro tecniche per “infiammare” i suoi fedeli. Con l’aumentare del potere, aumentò anche la sua follia. E’ interessante notare come molti degli attuali dirigenti di culti siano stati un tempo sottoposti a loro volta al controllo mentale. Può facilmente accadere che soggetti che lasciano il gruppo senza alcun supporto terapeutico si mettano a praticare sugli altri i procedimenti di controllo mentale di cui un tempo essi stessi sono stati oggetto. Certo, non tutti gli ex adepti danno vita a un proprio culto, ma ve ne sono alcuni che hanno una naturale predisposizione a farlo. E’ assodato che alcuni leader soffrano di complessi di inferiorità e che siano in qualche modo degli asociali. Sebbene abbiano al contempo desiderio e bisogno di beni materiali, ritengo che in realtà molti di loro siano alla ricerca di attenzione e potere. Dì fatto, il potere può diventare e diventa una vera e propria droga e con il tempo questi leader sviluppano un bisogno sempre maggiore. Ciò che li rende pericolosi è la loro instabilità psichica e il fatto che credono davvero in ciò che predicano. Non sono dei semplici imbroglioni che desiderano far soldi. Per quanto mi risulta, sono veramente convinti di essere “Dio”, il “Messia” o un maestro illuminato. Il fondatore del gruppo ha avuto precedenti penali? Se sì, di cosa è stato incriminato? E mai stato in prigione? Ad esempio: stando a quanto riportato dalla stampa, sembrerebbe che Moon sia stato arrestato almeno due volte in Corea, ma non vi è univocità di pareri riguardo al motivo. Nel 1985 scontò tredici mesi in una prigione federale americana per evasione fiscale.
Sebbene la storia personale di un leader non indichi necessariamente che ci si trovi al cospetto di un affarista o un ciarlatano, dove c’è fumo spesso c’è anche l’arrosto ed è impressionante constatare quanti fondatori di culti distruttivi abbiano alle spalle un passato più che discutibile. Guardando sia al tipo di vita che ai trascorsi di un leader, si possono comunque trarre conclusioni generali, perlomeno sul loro grado di affidabilità. Tanto per fare un esempio: se una persona tiene un corso su come avere successo nei rapporti sociali, il fatto che abbia divorziato tre volte può essere significativo. Se un leader ha fatto in passato uso di droghe o si è distinto per i suoi comportamenti bizzarri, come nel caso di L. Ron Hubbard, io raccomanderei una certa cautela quando lo si ascolta affermare di essere in grado di risolvere i problemi dell’umanità intera. Quando Sun Myun Moon dice che sta lavorando per la pace nel mondo, non bisogna dimenticare che, stando a quanto gli viene attribuito, sarebbe proprietario in Corea di una fabbrica di M-16. Un altro aspetto importante della dirigenza è la struttura organizzativa per l’esercizio del potere. L’organizzazione è dotata di un apparato che rispetta l’equilibrio tra i diversi poteri? Molti gruppi distruttivi hanno un consiglio di amministrazione, ma i suoi membri sono in realtà marionette nelle mani del leader. In questi casi la vera struttura è quella piramidale: un capo onnipotente al vertice, sotto di lui un nucleo di luogotenenti ciecamente obbedienti, sotto di loro i vicedirettori. La struttura operativa non permette né controlli né tanto meno compromessi. Il capo detiene il potere assoluto. Lord Acton rese bene l’idea quando scrisse: “Il potere tende a corrompere. Il potere assoluto corrompe in maniera assoluta”. Se un leader ha un discutibile passato e ha strutturato la sua organizzazione in modo che il potere sia totalmente nelle sue mani, il gruppo ha tutte le premesse necessarie per rientrare nella categoria dei culti distruttivi. Se invece il sistema è ben strutturato in termini di controlli ed equilibri reciproci e il leader si impegna ad andare incontro ai bisogni e alle finalità dei suoi affiliati, ne risulterà sicuramente un’organizzazione più sana. Bisogna essere accorti: guardando dall’esterno, un culto distruttivo non necessariamente avrà un leader che viene portato in trionfo o che gode di notevoli risorse finanziarie personali. Poiché molti leader sono stati a loro volta membri di un culto, pur perseguendo precise finalità di lucro e sfruttamento degli altri, possono reagire tuttavia in maniera diversa al controllo mentale da loro subìto , così come potrebbe avvenire, per esempio, sotto la spinta di un senso di delusione. Ho avuto tra i miei pazienti molti ex adepti che provenivano da gruppi diversi i cui leader “non lo facevano per soldi”, ma perché, a mio avviso, erano drogati di potere. Molti culti di ispirazione biblica hanno dirigenti che non sono persone particolarmente venali e che sembrano porre l’autorità di Dio e della Bibbia sopra la loro; ciò nonostante, la loro interpretazione della Bibbia e della volontà divina viene usata per manipolare e controllare le persone. 144
La dottrina Poiché la libertà di credere in ciò che si desidera è un diritto sancito dalla Costituzione, un attento esame della dottrina professata da un gruppo finirebbe con l’essere un’operazione inutile e ingiustificata. Comunque sia, ritengo che la dottrina di un gruppo dovrebbe essere accessibile a chiunque desideri conformarvisi. Accade forse che la dottrina che il gruppo dichiara in pubblico è diversa da quella realmente praticata? Mi riferirò a questo fattore strutturale col nome di dottrina interna e dottrina esterna. Ai fini dell’integrità, è fondamentale che i seguaci credano veramente in ciò che il gruppo professa. Di fatto, i gruppi distruttivi modificano il concetto di “verità” a seconda delle situazioni, e questo perché sono convinti che il fine giustifichi i mezzi. Con il pretesto di aiutare qualcuno a “salvarsi” giustificano inganni e manipolazioni. Al contrario, le organizzazioni corrette non alterano la loro dottrina per ingannare il pubblico. 146
L’ adesione Quello relativo alle modalità di adesione è l’ultimo e più importante criterio nella valutazione dei gruppi. Uso distinguere in esso tre componenti principali: il reclutamento, la permanenza nel gruppo e la libertà di uscirne. Il grado di adesione è di fondamentale importanza in termini di identità personale, relazioni sociali e modificazione di finalità e interessi, ed è per questo motivo che è l’aspetto su cui concentro tutta la mia attenzione. Sul fronte del reclutamento, l’inganno è la nota comune che caratterizza buona parte dei culti. Come ho già detto, i gruppi distruttivi non hanno alcuna remora nell’usare questo strumento per reclutare nuovi seguaci. Partendo dal presupposto che le persone sono troppo “ignoranti” o troppo “poco spirituali” per riconoscere ciò che è bene, si prendono la libertà di decidere per loro. Quando le facoltà critiche di un individuo sono intatte e funzionano correttamente, le informazioni fornite dal culto sono scarse. Ma non appena la capacità critica si sarà logorata e sarà diventata meno funzionale, allora il culto sarà pronto a fornire un maggior numero di informazioni. L’inganno prevede la menzogna sfacciata, l’omissione di informazioni importanti e l’uso di informazioni distorte. Molti reclutatori negano l’esistenza stessa dell’attività di reclutamento. Quando si domanda loro cosa stiano facendo, di norma rispondono che vogliono solo rendere gli altri partecipi di qualcosa di significativo, offrendo loro l’opportunità di decidere in maniera completamente autonoma. Ciò che di certo non dicono alla potenziale recluta è che ogni reclutatore è tenuto a far entrare nel gruppo un numero minimo di nuovi adepti. La pratica dell’inganno da parte dei culti distruttivi comprende l’uso di svariate “organizzazioni di facciata” che servono a confondere la potenziale recluta e a nascondere i veri programmi dell’organizzazione: CAUSA, CARP, Freedom Leadership Foundation, International Cultural Foun dation e molte altre associazioni fanno in realtà parte della galassia di Moon. Dianetics e Narconon appartengono alla Chiesa di Scientology. Un cittadino comune in genere non è al corrente dei collegamenti esistenti tra le varie organizzazioni. Durante la fase di avvicinamento, il reclutatore cerca di ottenere il maggior numero possibile di informazioni dal potenziale nuovo affiliato, in modo da scoprire qual è il modo migliore per attirarlo nel gruppo. Un bravo reclutatore sa come lavorare sui punti deboli di una persona: problemi di vario genere (sentimentali, familiari, lavorativi o scolastici); la morte di un caro amico o di un parente; il trasloco in una nuova città e via dicendo. Un reclutatore esperto sa anche bene come mettere a suo agio “la vittima”, in modo da facilitare le confidenze più intime e personali. Mentre opera, il reclutatore rivela ben poco di sé e ancor meno del gruppo, a meno che non sia assolutamente necessario. La maggior parte delle informazioni provengono dal reclutato. Questo squilibrio nel flusso delle informazioni è un ulteriore segnale di allarme che ci avverte che qualcosa non va . 147
Durante questa fase, tra le potenziali reclute l’impressione più diffusa è che stiano facendo nuove amicizie. Ma nel mondo reale un’amicizia non è mai così repentina. Non si diventa amici da un giorno all’altro. La disponibilità a condividere con un amico la propria storia personale si acquista lentamente, e in condizioni di assoluta reciprocità; dare e avere sono nel giusto equilibrio e non vi è, o vi è solo in minima parte, squilibrio di rapporto. Inoltre, non vi sono finalità nascoste. Non appena il potenziale convertito accetta di partecipare a una funzione o un seminario, su di lui inizia ad essere esercitata una forte pressione, esplicita o dissimulata, per far sì che aderisca al culto il più in fretta possibile. Come tutti i bravi artisti della truffa, anche i culti distruttivi, una volta individuata la preda, vanno dritti allo scopo. Non è certo loro interesse permetterle di rifletterci sopra. Di contro, i gruppi legittimi non mentono al potenziale adepto né esercitano su di lui pressione alcuna per farlo aderire quanto prima all’organizzazione. Come abbiamo visto, un gruppo distruttivo recluterà i nuovi proseliti servendosi delle tecniche di controllo mentale. Il controllo delle esperienze personali è un elemento essenziale per riuscire a piegare la personalità di un individuo, indottrinarlo e ricostruirlo con la nuova identità fornita dal culto. Nel corso del reclutamento, lo schema di riferimento di un soggetto subisce un drammatico cambiamento. A volte, avviene che l’individuo non contatti la famiglia o gli amici per intere settimane e quando infine li vede di nuovo, il radicale cambiamento di personalità è diventato più che evidente. Spesso la persona cambia il modo di vestire e di esprimersi e si comporta in maniera fredda e distaccata. Non di rado scompare anche il senso dell’umorismo. Insieme ai suoi progetti di vita, anche gli interessi e gli hobby che coltivava vengono abbandonati, perché “non hanno più alcuna importanza”. Questo cambiamento di personalità sembra progressivamente logorarsi, fino a scomparire, non appena l’individuo smette di frequentare il gruppo e di partecipare alle sue attività. Quando invece la persona mantiene i contatti (telefonicamente o partecipando alle riunioni), la nuova identità può, e di fatto finisce, per svilupparsi e rafforzarsi sempre di più. Familiari e amici noteranno che l’individuo si è fatto non solo più distante, ma anche evasivo e poco sincero . In qualche caso si potrà persuaderlo con le lusinghe a parlare del suo nuovo credo, più spesso, però, il nuovo seguace reagisce con l’invito a rivolgersi direttamente ai membri anziani del gruppo, o ai dirigenti, perché “sono in grado di spiegarlo meglio”. Il principale segnale di riconoscimento dell’influsso negativo di un culto distruttivo è proprio questo drammatico cambiamento di personalità. Politicamente parlando, se il soggetto un tempo era progressista, ora sarà un convinto conservatore. Se prima amava la musica rock, ora la reputerà opera del diavolo. Se prima era molto unito alla famiglia, ora non si fiderà più di essa. Se era ateo, ora Dio è tutto per lui. E’ vero che nel corso della propria vita ciascuno è libero di cambiare di trecentosessanta gradi il proprio sistema di valori, ma nel caso in cui tale mutamento sia determinato dall’inganno e dal controllo mentale, il cambiamento è drammatico, improvviso e indotto artificiosamente. Quante volte ho sentito i familiari di un affiliato lamentarsi dicendo: “E’ un’altra persona! Non lo riconosciamo più!”. 148
A un individuo che rimane invischiato in un culto può accadere di cambiare nome, lasciare scuola o lavoro, donare tutti i propri averi e trasferirsi a chilometri e chilometri di distanza dalla famiglia. Ma l’assenza di questi eventi non necessariamente significa che non si è in presenza di un culto distruttivo. Sono sempre più numerosi i gruppi che, proprio per non dare nell’occhio, almeno per un congruo periodo di tempo evitano deliberatamente che ciò avvenga. In relazione all’impatto esercitato sulla vita di una persona, ciascuna situazione dovrebbe essere considerata come a sé stante. Il reclutamento avviene gradualmente: in alcuni casi occorrono mesi prima che si cominci a notare un cambiamento di personalità, anche se più frequentemente tale mutamento avviene nel giro di settimane o addirittura di giorni. La permanenza nel gruppo viene assicurata dalle attività che il culto ha appositamente studiato per minare il rapporto del nuovo adepto con familiari e amici. Un modo per raggiungere questo scopo è far sì che il nuovo affiliato recluti chiunque conosca. Fintanto che amici e familiari sono “carne cruda”, come ama definirli la Chiesa di Scientology,’ i reclutatori hanno il permesso di passare assieme a loro un po’ di tempo per “lavorarci su”, ma nel caso in cui sollevino perplessità o dichiarino apertamente che non intendono aderire al gruppo, i dirigenti del culto fanno pressione affinché il nuovo adepto smetta subito di perdere tempo con dei miscredenti. Infine, se in famiglia si fa troppo critica nei confronti del culto, al nuovo affiliato viene chiesto di tagliare ogni legame con essa. I culti distruttivi non tollerano opposizioni di sorta. Le persone o sono d’accordo (e vengono quindi viste come potenziali proseliti) oppure sono dei nemici. Una volta che un discepolo sia stato ben integrato, è probabile che i suoi ritmi di sonno e veglia vadano incontro a cambiamenti significativi. La deprivazione del sonno è molto comune nei culti. Chiunque abbia passato una notte insonne o sia rimasto alzato fino a tardi per studiare o lavorare, sa come sia difficile agire normalmente senza un riposo adeguato. Molti gruppi cultisti fanno in modo che gli adepti abbiano solo dalle tre alle cinque ore di sonno per notte. Non è che per raggiungere questo obiettivo tali gruppi dispongano sempre di un’apposita prassi operativa, tantomeno scritta: fanno semplicemente in modo che la persona venga sommersa da così tanto lavoro da rimanerle ben poco tempo per dormire. Lodano poi quei leader che dormono poco e sminuiscono coloro che dormono troppo. Col tempo, inevitabilmente, i discepoli riducono al minimo le ore di sonno. Durante il reclutamento è anche frequente il cambiamento delle abitudini alimentari. Alcuni gruppi praticano una dieta vegetariana molto rigida, usando però eccessive quantità di zuccheri per “caricare” gli adepti. Altri incoraggiano lunghi e frequenti digiuni, senza alcun riguardo per il fisico delle persone né prima né dopo tali astinenze. Un paio di gruppi hanno anche indotto i seguaci ad alimentarsi con ciò che trovavano nei bidoni della spazzatura. Tutto ciò provoca drastiche variazioni di peso. Sebbene nel corso della permanenza nel culto la maggior parte delle persone dimagrisca, ve ne sono altre che acquistano un peso eccessivo. Ciò che una persona mangia, lo stile che adotta e l’atteggiamento che ha nei confronti del cibo, tutto contribuisce a formare l’opinione che un individuo ha di se stesso. Se un membro viene indotto a credere di dover “negare se stesso” e i suoi bisogni, egli potrà trovarsi pienamente d’accordo sull’opportunità di digiunare frequentemente, privandosi così del piacere di nutrirsi. Se l’individuo è invece molto infelice e i suoi bisogni emozionali sono frustrati, ciò può tramutarsi in un eccesso di alimentazione. A meno che il leader stesso non sia grasso o ami le persone grasse, coloro che sono in sovrappeso vengono in genere ridicolizzati e spinti a sentirsi in colpa e privi di volontà. Contrariamente a quanto si crede, gran parte dei culti non sottopongono sistematicamente alla privazione del cibo, perché, se lo facessero, i crolli fisici cui i loro affiliati andrebbero incontro non permetterebbero più loro di lavorare. I culti, peraltro, non badano molto alla salute fisica dei seguaci e sono frequenti, forse proprio come desiderio inconscio di attenzione e aiuto, le malattie psicosomatiche. Le cure mediche sono ridotte al minimo e in alcuni gruppi non esistono affatto. 149
Nei culti distruttivi si dedica molto tempo ad attività di gruppo, e pochissimo alla privacy o a familiari e amici. C’è ben poco tempo a disposizione per leggere ciò che non è materiale propagandistico o per imparare qualsiasi cosa che non rientri tra le pratiche del culto. È. chiaro che i seguaci fanno di tutto per convincere gli esterni della “normalità” della loro esistenza, ma se provate a coinvolgerli in un discorso in cui vengano toccati avvenimenti d’attualità, o si parli d’arte e di storia, appare evidente che vivono fuori dal tempo. Uno dei segni più evidenti del coinvolgimento in un gruppo che esercita il controllo mentale, è l’incapacità di assumere decisioni autonomamente. Per quanto i seguaci di un culto cercheranno di convincervi che godono della più assoluta libertà di scelta, non appena si scava un po’ più in fondo ci si accorge che in realtà non possono prendere decisioni importanti senza prima chiedere il permesso ai loro superiori. Questo tipo di dipendenza appare evidente a tutti i livelli di un culto, eccetto che per i leader al vertice. Ricordo con quanta felicità la madre di un adepto accolse la notizia che il figlio avrebbe passato il Natale a casa: l’aveva ritenuta una decisione autonoma del figlio. Le si drizzarono i capelli in testa quando, a una verifica, capì cosa avesse in realtà determinato la scelta: “Vedi mamma, mi è stato detto che il mio posto per le vacanze era accanto a te”. Spiegai a quella donna che l’unica ragione per la quale al figlio era stato permesso di andare a casa era che lei si era comportata come se approvasse la sua scelta, invitando altri membri a cena e astenendosi dal criticare apertamente il gruppo. In risposta ai familiari che chiedono loro se potranno andare a casa per un avvenimento particolare come un matrimonio, un funerale o un compleanno, i membri dei culti rispondono normalmente “Vedremo”. Ciò significa che devono prima chiedere l’autorizzazione ai loro dirigenti. Allo stesso modo, i seguaci devono chiedere il permesso per fare cose che appaiono invece scontate alla gente comune. E’ pressoché impossibile immaginare una persona che debba chiedere il permesso per far visita a un parente ammalato. Eppure, l’adepto di un culto che faccia quello che vuole o vada ovunque desideri semplicemente perché lo ritiene opportuno, viene considerato “egoista”, “indipendente”, “ribelle”, incapace di una “crescita positiva”. Di fatto, maggiore è il controllo esercitato dal gruppo e più difficilmente una persona potrà svolgere una qualsivoglia “attività esterna”. Alcuni gruppi si spingono fino a controllare tutte le relazioni sociali dei loro adepti e sono loro a indicare chi possono vedere e perfino chi possono sposare. In effetti, alcuni dei gruppi più estremisti regolano anche la sfera sessuale dei propri affiliati, dicendo loro quando possono fare l’amore e quali sono le posizioni accettabili. A volte, si spingono al punto di sottrarre i figli ai genitori, per poterli indottrinare meglio. La vita in un culto distruttivo varia sensibilmente da gruppo a gruppo. In alcuni casi i seguaci possono vivere con gli altri in un “ashram”, un centro o una casa, mentre in altri possono avere una sistemazione propria. Alcuni prevedono lo svolgimento di mansioni umili, che richiedono poco o nessuno sforzo mentale (sorveglianti, cuochi, lavori di pulizia) mentre altri possono richiedere attività impegnative (reclutatori, pubbliche relazioni, amministratori del culto). Un gruppo, i Bambini di Dio, incoraggia la componente femminile a prostituirsi, a diventare ciò che loro chiamano “le felici adescatrici di Gesù”,’ utilizzando il sesso per incamerare soldi e nuovi proseliti. Queste adepte operano vicino le grandi basi militari americane all’estero, facendo leva sulla solitudine dei militari lontani da casa. 150
Alcuni adepti hanno lavori esterni che li impegnano otto ore al giorno fuori dal gruppo, cosa che li costringe a dividere in compartimenti i processi mentali cultisti. Di solito queste persone continuano a esercitare la loro attività anche dopo l’adesione al culto: tale concessione si spiega con i vantaggi rappresentati dal denaro che guadagnano, il prestigio ottenuto e l’opportunità che hanno di fare nuovi proseliti nell’ambiente di lavoro. Tali persone sono fortunate a trascorrere parte delle loro giornate fuori dal culto, conservando contatti esterni con non adepti: nei fatti ciò aiuta a ridurre gli effetti negativi dell’indottrinamento. Esiste una vasta e quanto mai variegata gamma di modalità di controllo, mentale, emozionale, comportamentale e delle informazioni, cui vengono sottoposti i seguaci di un culto distruttivo. Ad essi viene proibito coltivare “pensieri negativi”, intessere rapporti con persone che siano critiche nei confronti dell’organizzazione, tantomeno con ex membri. Nel caso in cui svolgano lavori esterni o vivano a casa propria, possono comunque essere assoggettate al controllo del gruppo, anche se tale controllo non sarà mai altrettanto forte quanto quello esercitato sull’adepto “a tempo pieno”, completamente asservito alla causa. L’ultimo criterio utile al fine di identificare la natura di un gruppo è la libertà di fuoriuscita. Per dirla in maniera semplice, i seguaci di un culto distruttivo sono psicologicamente prigionieri. Come ho già spiegato, i culti distruttivi inducono negli adepti numerose fobie, ottenendo così che pensino con paura alla possibilità di andarsene via: in tal modo viene chiuso loro ogni canale che li possa aiutare a prendere una decisione autonoma riguardo all’abbandono del gruppo. Le persone sono libere di entrare in un gruppo, non di lasciarlo. Di fatto, agli occhi di un culto distruttivo non esiste ragione “legittima” che giustifichi la fuoriuscita. I gruppi legittimi considerano invece le persone alla stregua di adulti capaci di decidere ciò che è meglio per loro. Sebbene tutte le organizzazioni desiderino non perdere i loro associati, i gruppi che operano in modo corretto non si spingono mai a esercitare pressioni attraverso paure e sensi di colpa. Alcuni dei gruppi più distruttivi sono soliti dare la caccia e tentare di ridurre al silenzio chi cerca di andarsene, utilizzando la violenza, le vessazioni legali, le intimidazioni e i ricatti. Paul Morants, un avvocato che aveva fatto causa a Synanon, un programma di riabilitazione dalla droga, fu morso da un serpente a sonagli infilatogli nella cassetta delle lettere dai membri dell’organizzazione ’ Stephen Bryant, ex adepto degli Hare Krishna, fu ucciso da un colpo di pistola sparatogli in testa da un seguace del gruppo, in esecuzione, a quanto sembra, delle istruzioni ricevute da un dirigente. Bent Corydon, per ventidue anni membro della Chiesa di Scientology, è stato lungamente e duramente perseguito per vie legali per aver scritto L.R. Hubbard: Messiah or Madman?, una biografia critica del fondatore di questo gruppo. Jeannie Milis, ex adepta del Tempio del Popolo che aveva pubblicamente criticato il reverendo Jim Jones, venne uccisa assieme al marito e ai figli da uno sconosciuto, dopo il massacro di Jonestown. E’ superfluo dire che le persone dovrebbero avere sempre la possibilità di decidere in piena autonomia se rimanere o meno in un gruppo. Qualsiasi organizzazione dovrebbe garantire tale libera scelta a ogni associato che decida, una volta entrato, di abbandonare il gruppo. 152
Ciò che generalmente si vuole sapere sui culti Sebbene sia giusto pensare che le informazioni sui culti debbano essere ampiamente disponibili nelle librerie e nelle biblioteche pubbliche, in realtà al riguardo vi è ben poco materiale, sia che si tratti di libri, video, film o altre pubblicazioni in grado di fornire descrizioni accurate su cosa siano i culti e quale attività svolgano. Mi hanno raccontato innumerevoli volte di come i seguaci di un culto vadano nelle biblioteche pubbliche e nelle librerie per rubare o comprare tutto ciò che riguardi i loro culti d’ appartenenza, con l’ovvia intenzione di sottrarre al pubblico ogni informazione negativa. Mi viene spesso chiesto se tutti i culti distruttivi siano pericolosi allo stesso modo. Così come anche il buon senso suggerisce, la risposta è un semplice “no”. Non tutti i gruppi, ad esempio, sono distruttivi quanto il Tempio del Popolo. E non ogni gruppo opera in maniera così massiccia attraverso l’inganno o è tanto esigente e pericoloso per l’individuo, per la sua famiglia e la società intera come accade con l’organizzazione di Moon. Quando si parla di culti distruttivi, bisogna sempre tenere presente che essi vanno a collocarsi nella parte estrema di quello spettro di influenze che sono presenti nella nostra vita quotidiana. Un’altra domanda che mi viene rivolta frequentemente è se i culti distruttivi cambino nel tempo in maniera significativa. In questo caso la risposta è positiva. I gruppi che usano il controllo mentale possono partire con la migliore delle intenzioni ma finire poi col manipolare e frodare i loro seguaci. Questo è certamente il caso del Tempio del Popolo, che inizialmente era una comunità cittadina per il sostegno degli indigenti. Il risvolto tragico della vicenda consiste nel fatto che le persone che il culto cercava di aiutare si trasformarono nelle sue vittime, facendo a loro volta altre vittime. Il Tempio del Popolo è un gruppo che si è autodistrutto, ma ve ne sono altri che svaniscono semplicemente nel nulla o si disperdono. Un esempio di quelli che sono “svaniti” è il Democratic Workers’ Party of California, che decise di sciogliersi dopo che i suoi membri rimasero fortemente delusi dal loro capo,’ o il Center for Feeling Therapy, che si disgregò quando un bel giorno i dirigenti decisero di andarsene, lasciandosi dietro centinaia di membri confusi e disorientati. Un’altra interessante tematica è quella che riguarda la possibilità che un culto distruttivo sia uniformemente pericoloso, e cioè se lo è allo stesso modo nelle diverse filiali che ha sparse per il mondo. Nonostante il fatto che molti gruppi si spaccino per grandi organizzazioni, potenti e monolitiche, essi di fatto variano notevolmente da sede a sede. Vi possono essere enormi differenze nel grado di distruttività di un culto e ciò dipende dalla personalità, dalla severità e dallo stile del leader locale. Durante il mio periodo di permanenza tra i moonisti ho potuto constatare grandi differenze nello stile di vita delle sedi situate sulla Costa Orientale e quelle della Costa Occidentale. In quelle orientali, ad esempio (principalmente dovuto al fatto che Moon viveva lì e sovrintendeva personalmente a molte attività), la disciplina di stampo militarista e il controllo erano molto severi. Gli uomini e le donne non si potevano abbracciare, baciare o tenere per mano, a meno che non fossero ufficialmente sposati o avessero avuto il permesso di farlo. Nelle sedi situate nella Costa Occidentale, invece, i membri erano più liberi e potevano fare tutte queste cose, mentre le tattiche di reclutamento erano più ingannevoli. Poiché molti culti distruttivi offrono tecniche meditative o terapeutiche che sarebbero in grado di produrre effetti benefici per tutti, un’altra domanda pertinente è se i culti possano avere una maggiore influenza su alcune persone piuttosto che altre. 154
Vi sono, ad esempio, individui che non rispondono bene alle tecniche di rilassamento passivo. Una persona reclutata da una organizzazione come MT può, per ipotesi, soffrire di mal di testa, insonnia, ansia crescente e così via. Poiché i membri di MT sostengono che la loro pratica va bene per tutti, una persona che lamenti effetti negativi si sentirà rispondere che ciò è dovuto alla “diminuzione dello stress” e verrà esortata a continuare la meditazione. Sfortunatamente, mettere da parte tali sintomi potrà pro durre, come risultato finale, seri problemi di salute, crolli nervosi e per fino tendenze suicide. Grandi gruppi di autocoscienza tipo est (ora Forum), Lifespring e altri sono stati fortemente criticati per il mancato ricorso a screening atti a identificare coloro che non sopportano queste tecniche e molte di queste organizzazioni sono state perseguite legalmente da partecipanti che avevano riportato dei danni. Infine, bisogna considerare le dimensioni del gruppo. Può la distruttività di un culto essere messa in qualche modo in relazione a tale elemento? Assolutamente no. Ho visto un controllo mentale in rapporti a due altrettanto distruttivo di quello praticato nell’ambito di grandi gruppi. Nel fare ricerche sulla “sindrome della moglie maltrattata” ho trovato molte analogie e parallelismi con quanto subito dai membri di un culto sottoposti a controllo mentale. Alcune di queste donne venivano mantenute in uno stato di totale dipendenza, spesso tenute lontane dalla famiglia e da quegli amici che si mostravano critici nei confronti del comportamento del marito. Ad alcune veniva impedito di avere libero accesso ai soldi, di imparare a guidare una macchina o di lavorare fuori casa. Ogni qualvolta tentavano di esprimere i loro desideri e bisogni, ricevevano violenze e percosse. Erano responsabili per qualsiasi cosa non andasse nel matrimonio; tutto si sarebbe risolto se solo si fossero maggiormente impegnate per compiacere il proprio marito. La fiducia in se stesse era caduta a livelli così bassi che erano arrivate a credere che per loro non ci sarebbe stato mai futuro se non a fianco dei loro uomini. In alcuni casi non solo il marito aveva convinto la moglie del fatto che non avrebbe mai potuto liberarsi del suo stato coniugale, ma l’aveva anche minacciata, dicendole che se mai avesse cercato di fuggire l’avrebbe inseguita e uccisa. 155
Fare domande: la chiave per proteggersi dai culti distruttivi Diventare consumatori avveduti può far risparmiare tempo, energie e denaro. Nel caso dei culti distruttivi, essere un buon consumatore può aiutare a rimanere sani di mente. Se mai vi capiterà di essere avvicinati da qualcuno che cerca di ottenere informazioni personali o vi invita a partecipare a qualche seminario, semplicemente ponendo alcune domande riuscirete a non cadere nelle mani di un buon novanta per cento di reclutatori. Queste domande saranno ancora più efficaci se le porrete in maniera amichevole ma diretta, esigendo risposte precise. Sebbene molti gruppi facciano sistematicamente uso dell’inganno, è importante tener presente che quando è impegnata a reclutare, la maggior parte dei seguaci di un culto non è affatto cosciente di mentire. Proprio per questo, sottoponendo il vostro interlocutore a una domanda dopo l’altra, sarete in condizione di verificare se quella che vi sta raccontando è la storia giusta, oppure se 1’ adepto proprio non ha pronta la storia giusta da raccontarvi. Poiché gli affiliati di un culto sono stati condizionati a non nutrire pensieri negativi sul gruppo, vi troverete spesso a ricevere risposte alquanto evasive. Tra le modalità di replica maggiormente usate dai reclutatori va ricordata la tendenza a mantenersi sempre sul vago. Risposte del tipo: “Stiamo solo cercando di aiutare le persone a risolvere i loro problemi”, “Questa sera abbiamo un incontro per riflettere su alcuni problemi del mondo” o “Noi ci riuniamo semplicemente per studiare la Parola di Dio”, dovrebbero già insospettirvi. Anche i commenti evasivi, del genere “Capisco che tu possa essere scettico; lo ero anch’io prima che arrivassi a comprendere” oppure “È proprio quanto desideravi sapere?”, dovrebbero mettervi in guardia. Un’altra tecnica molto diffusa tra i reclutatori è quella di cambiare argomento. Per esempio, ponendo la domanda se il capo del culto abbia o meno precedenti penali, potreste ricevere in risposta un monologo su come tutti i grandi capi religiosi della storia siano stati perseguitati. Vi potrebbero raccontare di come Socrate sia stato accusato di molestie ai minori e Gesù di essere stato visto in compagnia di prostitute, e via dicendo. Fa’ in modo di non farti coinvolgere in una discussione su Socrate o Gesù: tu vuoi solo una risposta diretta sul fondatore del gruppo. Se il reclutatore non risponde in maniera chiara, concisa e diretta, puoi star certo che ha dei problemi a rispondere. Comunque vada, hai sempre a tua disposizione una risposta di fronte alla quale il reclutatore non ha alcun potere: andartene via. Come accennato all’inizio di questo capitolo, non dare mai il tuo indi rizzo e numero di telefono a qualcuno che sospetti possa appartenere a un culto. Chiedi invece il suo indirizzo e numero di telefono, per essere tu a contattarlo, nel caso lo volessi. Stai attento! Non permettere che ti vengano estorte informazioni personali. Persone che hanno commesso la leggerezza di dare il loro indirizzo e numero di telefono sanno bene quanto gli sia costato caro. Soprattutto, scoprirai che il migliore vantaggio che tu possa avere sul reclutatore consiste nel porgli domande dirette e incisive. Ecco un elenco di quelle che personalmente considero le più efficaci. 156
Da quanto tempo sei impegnato in questa attività? Stai forse cercando di farmi entrare in una qualche organizzazione? Mi piace sapere in fretta con chi ho a che fare. In genere, una persona che è entrata a far parte di un culto distruttivo da meno di un anno ha pochissima esperienza. Non è così pronta a mentire e se lo fa non è convincente quanto coloro che hanno maturato maggiore esperienza. Se la persona è nel gruppo da diversi anni, mi aspetto di ricevere risposte concrete a tutte le mie domande e quindi la sfiderò con un’affermazione del tipo: “Sei stato membro di questa organizzazione per tutti questi anni e non sai darmi una risposta!”. Quando lo si interroga a proposito della sua opera di proselitismo, molto spesso il reclutatore dà questa risposta: “No, tu mi piaci e desidero solo condividere tutto questo con te. Sta a te decidere cosa farne di queste informazioni”. Bene. Ricordati delle sue parole, perché se quello cui appartiene è un culto distruttivo, diventerà evidente, a un certo punto, che ti stanno reclutando. E ricordati allora che il reclutatore ti ha mentito. Arrabbiati come si conviene e vattene. • Puoi dirmi i nomi delle organizzazioni affiliate a questo gruppo? Ciò che stai cercando di fare è scoprire le organizzazioni di facciata. Probabilmente, un reclutatore sarà colto di sorpresa da questa domanda e ti chiederà cosa intendi dire. Chiedi nuovamente se ci sono altri gruppi che il culto usa come affiliati o che abbia mai usato in passato. Se il reclutatore afferma di non saperlo, chiedigli di informarsi e di appuntarsi i nomi, perché lo chiamerai l’indomani per prendere quei nominativi. Se ti dice che non ce ne sono, potresti forse scoprire a un certo punto della conversazione che ti sta mentendo. Arrabbiati, mostrati indignato e vattene. Se non poni questa domanda, non potrai mai sapere con certezza su cosa ti hanno mentito.
• Chi è il fondatore? Da dove proviene e che passato ha? Quali sono le sue qualifiche? Ha mai avuto condanne penali? Può anche accadere che a queste domande ti vengano date risposte dirette. Il reclutatore potrà dirti o meno il nome del capo. Nello sforzo di coprirsi potrebbe darti il nome di un suo vice, rivelarti lo Stato o la città di provenienza. Può anche essere che non sappia nulla della biografia del leader o dei suoi precedenti penali perché egli stesso ne è ancora all’oscuro. Potrai allora chiedergli: “Come hai potuto unirti a un gruppo senza prima verificare questi elementi?”. Ricordati che prima di dare importanti informazioni, un culto distruttivo vuole essere certo che il membro si sia già impegnato. Un gruppo legittimo fornirà sempre queste informazioni e chiederà alla persona di impegnarsi solo quando lo riterrà opportuno. 157
• In cosa crede il tuo gruppo? Ritiene forse che il fine giustifichi i mezzi? In circostanze particolari è concesso ingannare? Molti reclutatori non avranno voglia di rispondere su due piedi a questa domanda. Sono stati istruiti a giocare sulla tua curiosità per trascinarti a una conferenza, guardare un video o iscriverti a un corso. Sanno che in questo modo, una volta che sarai inserito nel loro ambiente, avranno maggiori possibilità di influenzarti. Se una persona non è prontamente disponibile a riassumere i punti fondamentali della dottrina del gruppo, puoi star certo che ti nasconde qualcosa. Ti dirà quasi sicuramente che una sintesi talmente breve rischierebbe di darti un’idea sbagliata. Insisti. Qualsiasi gruppo legittimo sarà in grado di riassumere brevemente i punti centrali della sua filosofia. I culti distruttivi non vorranno farlo. Comunque sia, se in un secondo tempo dovessi scoprire che quella descrizione sommaria era lacunosa e piena di incongruenze, avrai tutto il diritto di arrabbiarti e andartene. Sicuramente, i discepoli del culto cercheranno di convincerti che hanno dovuto mentire perché i mass media ti hanno fatto il lavaggio del cervello e tu non li avresti mai ascoltati se ti avessero detto la verità. Respingi l’argomentazione secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Nessuna organizzazione che si rispetti racconta bugie per aiutare la gente.
• Che cosa ci si aspetta da un affiliato una volta che abbia aderito? Devo lasciare la scuola o il lavoro, donare il mio denaro e i miei averi, isolarmi dalla famiglia e dagli amici se questi dovessero opporsi alla mia decisione? Se la persona che ti avvicina fa parte di un culto distruttivo, ti dirà che una volta entrato nel gruppo non ti verrà chiesto nulla o molto poco. Comunque sia, questa domanda lo farà sentire a disagio e lo metterà sulla difensiva. Quando poni questa domanda, fai attenzione al comportamento non verbale del reclutatore. Chiedigli che cosa faceva lui prima di entrare nel gruppo e che cosa fa adesso.
• Il gruppo cui appartieni viene in qualche modo giudicato discutibile? Se sì, quali sono le maggiori obiezioni che generalmente gli vengono rivolte? Questa è una bella domanda, che lascia aperte molte possibilità di replica e serve a vedere quanto la persona sappia veramente al riguardo e se sia disposta a discuterne. Se poni questa domanda educatamente e con un sorriso, sarai sorpreso del numero delle volte che ti capiterà di sentirti dire: “Oh! Alcune persone pensano che siamo una setta e che abbiamo tutti subito il lavaggio del cervello! Non ti pare una cosa stupida? Assomiglio a uno cui hanno lavato il cervello?”. Personalmente, a questa domanda di solito rispondo: “Mah! Non saprei. Come sono fatte le persone che hanno subito un lavaggio del cervello?”. A questo punto il mio interlocutore generalmente si innervosisce e, trovata una scusa, si allontana. 158
• Cosa provi nei confronti degli ex membri del tuo gruppo? Ti sei mai seduto a parlare con uno di loro per capire come mai se ne sia andato? E se non l’hai fatto, perché? Il tuo gruppo proibisce forse la comunicazione con gli ex adepti? Questa è una delle domande più rivelatrici che tu possa fare. Qualsiasi associazione pienamente legittima non scoraggia mai il contatto con gli ex affiliati. Allo stesso modo i gruppi regolari, pur essendone dispiaciuti, non sollevano obiezioni nei confronti di chiunque se ne voglia andare. I culti distruttivi, invece, non accettano mai i motivi che un affiliato adduce per la sua dissociazione, mentre fanno di tutto per instillare nei discepoli paure e fobie, in modo da assicurarsi che si tengano lontani da persone critiche ed ex membri. Nel caso si abbia a che fare con un membro anziano esperto nel reclutamento, c’è la possibilità di ricevere una rassicurante risposta di questo tipo: “Sicuro! Alcuni dei miei migliori amici se ne sono andati”. Ma proseguendo nella conversazione e chiedendo maggiori ragguagli scoprirai che probabilmente ti ha mentito. Quando mi trovo in tale situazione cerco sempre di battere il ferro finché è caldo, ponendo altre domande: “Come hanno giustificato la loro fuoriuscita?”, “Ti hanno forse detto che sono molto più felici oggi di quanto non lo fossero prima?”. In genere, a questo punto il reclutatore non sa più che cosa dire.
• Quali sono le tre cose che meno ti piacciono del gruppo e del leader? Ho perso il conto di quante volte ho visto giornalisti e altri intrattenitori televisivi chiedere a membri di un culto se per caso avessero subito il lavaggio del cervello. Di norma l’affiliato sorride e risponde: “Certo che no. Il solo pensarlo è ridicolo”. Ma è altrettanto assurdo aspettarsi una risposta obiettiva da qualcuno che sia soggetto a controllo mentale. La domanda da me proposta rappresenta una sfida molto migliore. Se con essa ti riuscirà di cogliere di sorpresa il tuo interlocutore, ti suggerisco di osservare molto attentamente la sua mimica facciale. La pupilla dei suoi occhi si dilaterà, e per un attimo si troverà in imbarazzo. Quando finalmente risponderà, molto probabilmente ti dirà che non gli viene in mente niente. Ovviamente ci potranno essere delle varianti a questa risposta, ma rimane il fatto che a lui semplicemente non è permesso parlare in maniera critica del suo gruppo, soprattutto in televisione. Se ne avrai l’opportunità, chiedigli che cosa gli piacerebbe fare nella vita se non fosse un membro di quel gruppo. La risposta generalmente sarà: “Niente”. La domanda decisiva è quella che tende a scoprire se la persona ha potuto parlare con ex membri o leggere letteratura critica in modo da decidere in maniera autonoma. Una persona sotto controllo mentale potrebbe anche sostenere che le piacerebbe farlo. Ho visto spesso familiari prendere sul serio questa risposta, ma quasi mai il cultista mantiene la promessa. Se lo facesse, sarebbe sulla buona strada per lasciare il gruppo. Se sei riuscito a porre tutte le domande, sei abbastanza sicuro che la persona che hai davanti sia stata sincera e sei ancora interessato a saperne di più sul gruppo, ti raccomando caldamente di procedere nel modo seguente. Poni le stesse domande ad altri membri del gruppo e controlla se le risposte che ricevi sono congrue. Se noti grandi discrepanze, cerca di mettere le diverse persone a confronto per vedere cosa ti rispondono. 159
Prima di partecipare a qualsiasi corso, ti consiglio di approfondire ulteriormente le tue ricerche. Contatta un gruppo di informazione sui culti e vedi se ti sanno dire qualcosa. La cautela non è mai troppa. Se invece non riesci a sapere nulla su quel gruppo e sei sempre interessato a saperne di più, vai al corso accompagnato da una persona di cui ti fidi. In questo modo avrai accanto un amico con cui discutere ciò che hai visto e sentito. I culti distruttivi, di regola, troveranno sempre un modo per dividerti dal tuo amico. La regola è “dividere e conquistare”. Di certo verrà fatto in modo da apparire spontaneo e privo di intenzioni maligne, ma l’effetto sarà sempre lo stesso. E’ tipico che un affiliato inizi a parlare con il tuo accompagnatore mentre un altro si rivolge a te. All’inizio sarete uno vicino all’altro, ma nell’arco di pochi minuti vi ritroverete lontani e se lasciate che questo accada, alla fine della serata vi troverete uno a un’estremità della sala e l’altro dalla parte opposta. Alcuni gruppi saranno molto più espliciti e chiederanno ai partecipanti di fare coppia con persone che non conoscono. Non lasciare che ti separino e chiedi di rimanere con il tuo amico. Se ti viene fatta pressione perché anche tu faccia come gli altri o vieni contestato dai dirigenti del gruppo, la cosa più semplice che tu possa fare è andartene via. Se ti ritrovi a partecipare a un corso di indottrinamento, alzati in piedi e dì loro che non sei lì per farti manipolare o controllare. Più alzerai la voce e più rapidamente sarai accompagnato fuori dalla sala. E chissà, forse altre persone ti seguiranno. Non lasciare che la tua curiosità abbia il sopravvento. Troppe persone sono state integrate in questi gruppi perché avevano eccessiva fiducia nella loro capacità di “gestire” ogni situazione. La curiosità e la troppa sicurezza sono state la causa della rovina di molta gente, me incluso. Non vale la pena che ti vada a cacciare in una situazione pericolosa. 160
Capitolo 7 EXIT COUNSELING: LIBERTA’ SENZA COERCIZIONE
Gran parte di coloro che cercano di aiutare qualcuno ad uscire da un culto sanno poco o nulla sul controllo mentale, sulle caratteristiche dei culti distruttivi e su cosa sia necessario fare per raggiungere l’obiettivo. Può darsi che considerino la “de programmazione” come l’unica via di salvezza, ignorando però che questa tecnica comporta la sottrazione forzata dell’adepto, un costo complessivo che varia dai diciottomila ai trentamila dollari e lunghe sedute di recupero. Oggi esistono metodi d’aiuto non coercitivi. Professionisti che come me abbiano acquisito il grado di exit counselor (terapeuta specializzato nel recupero e la riabilitazione di ex adepti), uniscono tecniche ben collaudate nel settore della salute mentale alle più moderne tecniche di counseling. In aggiunta, gli exit counselor attualmente operanti sono quasi tutti, a loro volta, ex membri di qualche culto. Questo capitolo intende fornire gli strumenti per capire cos’è l’exit counseling, illustrandone il funzionamento attraverso la storia di tre interventi da me condotti. Pur essendo ricostruiti sul ricordo, i dialoghi riportati sono lo specchio fedele di avvenimenti reali accaduti a persone vere. Spero con ciò di aiutare a comprendere che esiste un’efficace alternativa alla de-programmazione. Avendola sperimentata direttamente, ne conosco bene gli aspetti negativi. Quando fui deprogrammato, nel 1976, i miei genitori non avevano molta scelta, come non ne avevano i familiari di altri adepti. Allora l’alternativa era cercare di mantenersi in stretto contatto con l’adepto, sperando che a un certo punto decidesse da solo di lasciare il culto, oppure rivolgersi a un de-programmatore. I dirigenti dei culti consideravano la de-programmazione una minaccia temibile, dal momento che stava causando loro la perdita di molti devoti e dirigenti. Non soltanto: questi ex affiliati rilasciavano anche interviste ai mass media, rivelando dettagli importanti sull’attività dell’organizzazione. Diversamente dai “fuoriusciti volontari”, perseguitati dai sensi di colpa e con la tendenza a tacere la loro esperienza, i de-programmati ricevono il sostegno da una rete di persone che sono in grado di comprendere quanto hanno passato e incoraggiati a parlarne pubblicamente. Alla fine degli anni Settanta il problema del controllo mentale operato dai culti appariva agli occhi del pubblico strettamente connesso alla de- programmazione forzata. Ciò era in parte dovuto alle campagne d’immagine promosse da alcune delle maggiori organizzazioni con l’intento di screditare i critici e deviare l’attenzione dai culti, spostandola altrove.’ La propaganda stigmatizzava la de-programmazione come “la più grande minaccia alla libertà religiosa di tutti i tempi”. I de-programmatori venivano descritti come persone che usavano maltrattamenti fisici e violenza sulle persone per costringerle, con la forza, ad abiurare la loro fede. Sotto l’influenza di questa propaganda, venne prodotto un film che dipingeva i de-programmatori come criminali bramosi di soldi, malvagi quanto i capi del culto stesso. Per dovere di cronaca, posso dire di non aver mai avuto notizia di de programmazioni (e ho conosciuto centinaia di deprogrammati) che avessero previsto maltrattamenti fisici e violenza. Nessuna delle famiglie che ho conosciuto sarebbe arrivata al punto di ricorrere alla deprogrammazione pur di salvare la persona amata, per poi permettere che qualcuno le facesse del male. 161
Ciò nonostante, la verità è che la de-programmazione è altamente rischiosa da un punto di vista legale e spesso emozionalmente traumatica. In una de-programmazione classica, l’adepto viene prima rintracciato e poi, mentre è in strada, viene bloccato, caricato di peso su una macchina o un furgone in attesa e condotto in un posto segreto, generalmente la stanza di un motel. A questo punto, sotto la sorveglianza a vista 24 ore su 24 da parte di un’apposita squadra di sicurezza, il deprogrammatore, ex membri del culto e familiari iniziano a fornirgli informazioni sul gruppo e a discutere con lui. Le finestre vengono inchiodate o sprangate, perché si sono verificati casi di discepoli che si sono buttati dalla finestra di un secondo piano per evitare la cosiddetta “abiura”. Per prevenire eventuali tentativi di suicidio, il seguace viene accompagnato anche in bagno. Viene trattenuto per giorni, forse anche settimane, fintanto che non esce dalla situazione di controllo mentale o, com’è successo qualche volta, non finga di esserne fuori. Nelle de-programmazioni alle quali ho partecipato, tra il 1976 e il 1977, in genere l’aderente al culto non veniva portato via di forza, ma affrontato quando si recava a far visita ai familiari. Anche in questo caso, non appena gli veniva detto che non gli sarebbe stato consentito di andarsene, si verificavano reazioni violente: come de-programmmatore sono stato preso a pugni e a calci, mi hanno sputato in faccia, mi è stato buttato del caffè bollente addosso, mi sono stati tirati dietro registratori. Del resto, se all’epoca in cui successe a me non avessi avuto una gamba ingessata fino all’inguine, avrei fatto lo stesso. I seguaci di un culto sono stati indottrinati a comportarsi così: rimanere “fedeli” ad ogni costo. All’inizio, l’adepto si convince ancora di più che per essere arrivata ad agire così, la sua famiglia è davvero diventata l’incarnazione del male. In tali situazioni il cultista ci metterà anni a superare la rabbia e il risentimento, anche nel caso in cui la de-programmazione abbia avuto successo. Ho conosciuto una donna che a parecchi anni di distanza dalla sua de-programmazione, in seguito ad un breve periodo passato tra i moonisti, rientrò nel gruppo per un anno per poi uscirne senza alcun aiuto esterno: quasi dovesse provare a se stessa, come mi confidò poi, che ce la poteva fare da sola. Sfortunatamente, durante quel breve periodo venne portata in giro per tutti gli Stati Uniti e indotta a denunciare la de-programmazione. Non c’è nulla di più terrificante che essere tenuto prigioniero e pensare che stai per essere torturato o violentato: esperienze che i dirigenti dei culti insinuano profondamente negli adepti, facendo credere loro che queste siano le tecniche previste dalla de-programmazione. Come è facile immaginare, in simili condizioni è ben difficile riuscire a fornire una consulenza adeguata. Al fine di tenere fuori ogni influenza esterna, l’adepto immediatamente si chiude in se stesso, recitando preghiere e cantilene o meditando. Possono passare ore o giorni prima che si renda conto che il capo del suo culto affermava il falso, quando parlava della de-programmazione: nessuno lo sta torturando e i de-programmatori sono persone sensibili che si prendono cura di lui. L’adepto arriverà poi a realizzare che vi sono effettivamente degli interrogativi più che legittimi sui quali vale la pena soffermarsi: è solo a quel punto che inizia a collaborare. Decisi che non avrei partecipato a interventi coercitivi poiché ho sempre creduto che fosse della massima importanza elaborare un metodo diverso. Bisognava trovare una tecnica di avvicinamento che rientrasse nella legalità e che venisse volontariamente accolta. Familiari e amici erano la chiave d’accesso, ma dovevano essere istruiti sui culti e sul controllo mentale e andava loro insegnato come comunicare in maniera efficace con i cultisti. 164
L’exit counseling non coercitivo: tre casi L’approccio non coercitivo che ho sviluppato mira a raggiungere con tatto ciò che la deprogrammazione ottiene con la forza. Per aver presa sull’adepto, amici e familiari devono fare un lavoro di squadra e pianificare la loro strategia. Anche se l’approccio non coercitivo non ha sempre successo, è quello che i familiari in genere preferiscono. Interventi più autoritari possono essere tenuti come ultima risorsa, allorquando tutti gli altri dovessero fallire. Perché abbia successo, l’approccio non coercitivo richiede una buona conoscenza della situazione. La raccolta delle informazioni e l’istruzione delle persone coinvolte prende il via già alla prima telefonata.
La famiglia O’Brien Nel dicembre del 1987, un certo signor O’Brien mi chiamò dicendosi preoccupato per l’adesione di suo figlio in un gruppo conosciuto come la Boston Church of Christ (conosciuto anche come Multiplying Ministries. La Boston Church non va assolutamente confusa con la United Church of Christ o con la Church of Christ, erede del congregazionalismo del New England). A parlargli di me era stato Buddy Martin, un predicatore della Cape Cod Church of Christ, da tempo impegnato a denunciare pubblicamente le tattiche di “evangelizzazione” cultiste e autoritarie usate dal gruppo di Boston. Il signor O’Brien mi raccontò che la sua preoccupazione nei confronti del figlio andava aumentando di giorno in giorno. George era dimagrito moltissimo, era sempre stanco, aveva lasciato i suoi studi universitari ed era praticamente incapace di prendere qualsiasi decisione, anche la più semplice. Doveva chiedere consiglio al suo “direttore spirituale” prima di fare qualunque cosa. O’Brien si informò sul mio passato e mi chiese se ritenessi che il culto di suo figlio rientrasse nel novero di quelli distruttivi. Lo misi al corrente della mia esperienza personale e lo informai che negli ultimi cinque anni avevo aiutato una trentina di persone ad uscire da quel gruppo. Il mio interlocutore si sentì felicemente rassicurato. La famiglia O’Brien mi sottopose a un fuoco di fila di domande per verificare i mie principi etici e capire su quale sistema di valori mi basassi. Dissi loro che per me era della massima importanza aiutare una persona a pensare con la sua testa e che stavo molto attento a non imporre agli altri il mio sistema di credenze. Il mio ruolo era quello di presentare informazioni, fare un lavoro di consulenza, individuale o familiare a seconda delle necessità, e facilitare la comunicazione tra i componenti della famiglia stessa. Parlammo per circa mezz’ora e acconsentii a spedire per posta tutte le informazioni sul mio metodo di intervento assieme a un questionario di raccolta dati, come pure la copia di alcuni articoli che riguardavano la Boston Church of Christ. Detti loro anche i numeri telefonici di altre famiglie con cui avevo lavorato e raccomandai di compilare la scheda nel modo più completo possibile: più informazioni potevo raccogliere da familiari e amici, meglio sarebbe stato. Avere informazioni scritte da una famiglia costituisce un buon punto di partenza. 165
Costringe i suoi membri a riflettere su molte questioni riguardanti l’individuo, loro stessi, il coinvolgimento nel culto e sul modo in cui hanno reagito fino a quel momento. Il questionario mi fornisce anche il materiale da cui partire per un confronto faccia a faccia. Ciò che ritengo della massima importanza è sapere fino a che punto la famiglia sarà in grado di impegnarsi nel recupero. Il questionario sollecita diversi tipi di risposta, che possono andare da un solo rigo a quarantaquattro pagine, scritte a macchina con interlinea uno. Di norma, comunque, il questionario risulterà formato dalle sei alle otto pagine. Diverse sezioni sono di interesse specifico. Come sono i rapporti tra i fratelli e tra questi e i genitori? Che tipo di persona è l’adepto? Aveva molti amici? Faceva uso di droghe? Aveva degli scopi ben precisi nella vita? Aveva vissuto qualche evento traumatico, tipo la morte di un amico o di un parente, il divorzio dei genitori oppure il trasferimento in qualche altra città? Possedeva un sistema di valori sociali o politici ben strutturato? Generalmente, il mio intervento risulta facilitato quanto più il rapporto con la famiglia e il senso di identità erano sani prima che l’individuo entrasse nel culto. Per quanto riguardava George volevo sapere in particolar modo le seguenti cose: chi era prima che aderisse al culto e come era cambiato a parte la perdita di peso e il disinteresse. Volevo anche sapere chi era il componente familiare cui si sentiva maggiormente vicino e com’era il suo stato psichico prima della sua associazione. Mi interessava anche conoscere che tipo di educazione aveva ricevuto, quali erano i suoi interessi e gli eventuali hobby, se avesse avuto qualche esperienza di lavoro e qual era la sua educazione religiosa. In tutti i casi che tratto voglio sapere quanto tempo è stato impiegato dai reclutatori per conquistare il soggetto. L’adesione è avvenuta subito dopo il primo approccio o ci sono voluti mesi o addirittura anni prima che venisse completamente coinvolto? A cosa pensava stesse aderendo? L’idea che se ne era fatto corrispondeva a quella che ne aveva adesso? Da quanto tempo è coinvolto? Dove vive: con altri affiliati, da solo o con persone non appartenenti al gruppo? In cosa è stato impegnato? Ha mai espresso dubbi o difficoltà circa la sua adesione al gruppo? Infine, voglio sapere come hanno reagito i suoi familiari e amici: che cosa hanno detto o fatto circa la sua adesione al gruppo? Che libri o arti coli hanno letto sull’argomento? Che persone (o professionisti) hanno contattato? Devo capire subito chi vuole aiutarmi nel recupero e chi no. E interessante constatare come può accadere che un fratello o una sorella che all’inizio non si dicevano disponibili, diventino poi l’elemento chiave per risolvere felicemente il caso. Una volta che il questionario mi è stato rispedito debitamente compilato, il passo successivo è quello di telefonare e mettermi nuovamente in contatto. Sono ora in grado di porre domande specifiche per completare il quadro che mi trovo davanti e valutare quale sarà la mia prossima mossa. Nella maggior parte dei casi, chiedo alla famiglia di parlare con altre persone per avere ulteriori informazioni e, a volte, consiglio loro di cercare anche pareri esterni. Durante questo periodo di preparazione, è importante che i familiari parlino con altre persone che stiano vivendo o abbiano vissuto la loro stessa esperienza, e soprattutto con coloro che abbiano realizzato il recupero con successo. E’ auspicabile anche che la famiglia avvicini ex seguaci del gruppo in questione, per capire meglio che tipo di percorso stia concretamente vivendo il loro congiunto. Successivamente, organizzo un incontro con quanti più familiari e amici sia possibile mettere assieme, normalmente a casa della famiglia dell’adepto, e osservo le dinamiche interpersonali che si realizzano tra loro. In questi incontri, dedico molto tempo alla spiegazione di cos’è un culto e cosa si intenda per controllo mentale, e istruisco le persone sui ruoli che dovranno assumere. 166
E’ di cruciale importanza che le persone capiscano esattamente quale sia il problema e il tipo di aiuto che possono concretamente fornire. Metto a punto assieme a loro le strategie comunicative: i modi per entrare in contatto con la persona e far sì che sia disponibile al colloquio. Passiamo anche in rassegna vari piani di intervento. Questa riunione viene in genere registrata, in modo che di quanto si è detto possano essere informati anche familiari e amici eventualmente impossibilitati a partecipare all’incontro. Una cosa che sottolineo sempre è che ognuno deve dare il meglio di sé, senza dimenticare che il recupero è un lavoro di squadra. Ciò solleva il peso dalle spalle del singolo e garantisce che l’affiliato venga influenzato da quante più persone possibile. Li sollecito a chiedere ad altri familiari e amici di unirsi a loro per aiutarli; li invito a leggere libri sull’argomento, articoli, guardare videocassette e farsi un proprio archivio personale. Se sono stato contattato nel periodo di tempo immediatamente successivo all’adesione del soggetto al culto, cioè a pochi mesi dall’evento, la prognosi prevede un esito senz’altro favorevole e la fuoriuscita dell’interessato dal culto entro l’anno. Se vengo invece contattato a distanza di anni dall’entrata nel gruppo, prima che si possa tentare un intervento risolutivo ci vorrà un bel pò di tempo e molto dipenderà dalla qualità del rapporto che lega l’adepto alla famiglia. Ciò non vuol dire affatto che i seguaci “storici” non possano essere tirati fuori. E’ solo che questi casi richiedono molta pazienza e grande impegno. Di fatto, la mia esperienza mi ha insegnato che sotto molti aspetti è più facile recuperare qualcuno che abbia alle spalle una lunga associazione. Contrariamente al neofita, probabilmente ancora immerso nell’iniziale periodo di luna di miele, il discepolo di lunga data conosce la dura realtà della vita nel culto, fatta di bugie, manipolazioni e promesse non mantenute. In questo particolare caso, George era entrato nel gruppo da due anni e mezzo e viveva in un appartamento con altri “fedeli”. Era ancora in contatto con sua madre e suo padre, ma un po’ meno con sua sorella Naomi. I genitori non erano convinti credenti e sollevavano obiezioni riguardo la rigorosa osservanza da parte di George dell’interpretazione della Bibbia fornita dal gruppo. In risposta, George disprezzava questo loro atteggiamento e li considerava “non cristiani”. Come avviene in tante altre famiglie, l’adesione al culto aveva fatto emergere sentimenti di rabbia e rancore da entrambe le parti. La famiglia si trovava in una situazione di totale stallo. Quando i genitori di George decisero che era necessario intervenire, avevano ormai capito da tempo che il loro opporsi alla cosa non li avrebbe portati da nessuna parte. Il padre di George decise di mettere in atto la strategia opposta. Chiese perciò al figlio se poteva prendere parte a uno dei loro studi della Bibbia, e partecipò anche a un paio di servizi domenicali. Ovviamente George e gli altri affiliati interpretarono questo atteggiamento come un segno che “Dio aveva preso a cuore” la vita del padre. Da un punto di vista strategico era un passo importante perché la famiglia potesse riprendere contatto con George. Il signor O’Brien spiegò al figlio che voleva saperne di più sulla sua chiesa perché lo amava, cosa assolutamente vera, e si astenne dallo spingersi a dirgli che voleva aderirvi. Ciò che voleva era proseguire nelle sue ricerche, e ricostruire il rapporto con il figlio; di fatto, non solo il padre di George, ma tutti i familiari stavano cercando di imparare quanto più possibile sul culto. George non aveva mai dubitato dell’amore dei genitori verso di lui né di quello che lui, dal più profondo cuore, provava nei loro confronti. Ma gli avevano inculcato che se le persone non erano figlie di Dio (nella chiesa) allora stavano dalla parte di Satana. 168
Dopo numerosi incontri e telefonate, la famiglia ed io iniziammo a elaborare un piano. George non sospettava minimamente che i suoi fossero in contatto con me. La decisione se mentire o meno era come al solito importante e lacerante. Gli O’Brien dovevano scegliere tra una gamma di opzioni. Dovevano semplicemente dire a George ciò che avevano appreso e chiedergli di parlare con noi? Da un punto di vista etico era quello che avrebbero voluto fare. Allo stesso tempo però, sapevano di avere a che fare con un culto che esercitava il controllo mentale: se gli avessero detto che volevano fargli incontrare persone che criticavano il suo gruppo, si sarebbe impaurito e avrebbe finito col rompere ogni contatto? Dissi alla famiglia di parlare con altri ex membri e chiedere loro come un adepto di quel gruppo avrebbe potuto reagire a un approccio tanto diretto. Tutti, senza eccezione alcuna, risposero che se si fossero comportati così, George si sarebbe consultato con i suoi superiori per avere un consiglio. Da quel momento in poi il gruppo avrebbe capito i loro piani e avrebbe fatto quanto era in suo potere per convincerlo ad evitare qualsiasi contatto con la famiglia che, ovviamente, era sotto il controllo di Satana. La mia tattica preferita consiste nel far sì che qualcuno chieda all’adepto se è disponibile a fare ricerche per verificare “l’altro lato della medaglia” e vedere come reagisce. Tale richiesta dovrebbe essere avanzata da un fratello o da un amico, piuttosto che dai genitori, in modo da rendere il tutto meno minaccioso ai suoi occhi. Se il membro del culto accetta di incontrarsi con ex affiliati, allora è il caso di accordarsi senza indugio sul posto e l’ora dell’incontro. La persona che ha fatto la proposta dovrebbe anche fargli presente che se altri seguaci del gruppo venissero a sapere la cosa, cercherebbero in tutti i modi di convincerlo a non farlo. Gli si dovrà quindi chiedere: “Manterrai la tua promessa nonostante tutta la pressione contraria che il gruppo potrà esercitare?”. In questo modo si stipula una sorta di contratto verbale. Questo tipo di approccio, che è completamente “scoperto”, funziona meglio nei confronti di chi non è stato ancora completamente indottrinato e magari comincia ad avere delle perplessità e a farsi delle domande. Era dunque per questo motivo che mi premeva sapere se George si fosse mai fatto sfuggire espressioni di insoddisfazione o di delusione nei confronti del gruppo. Gli O’Brien risposero di no: non vi era mai stato nulla del genere. La sua dedizione era totale e si fidava solo dei suoi compagni di culto, programmato com’era a pensare che tutti gli altri erano “morti”, vale a dire “non spirituali”. Dissi alla famiglia di George che dovevano decidere loro, ma che con un approccio di tipo scoperto la possibilità di arrivare a lui sarebbe stata minima. Decidemmo che la migliore soluzione consistesse nel far in modo che George si allontanasse momentaneamente dal gruppo, invitandolo a Cape Cod per la festa di compleanno della nonna, che compiva ottantasei anni. Dopo la festa, domenica notte, i suoi genitori avrebbero trovato una scusa per farlo dormire lì, dicendogli che sarebbero tornati a Boston la mattina seguente. L’indomani la famiglia avrebbe detto a George che erano spiacenti di non averglielo detto prima, ma che si erano impegnati a passare i tre giorni seguenti con un ministro della Church of Christ, con un consulente per il recupero, e con un ex adepto. 170
Istruii a lungo la famiglia su cosa dire e come dirlo. Volevo che fossero sicuri che George non telefonasse al gruppo e che facessero del loro meglio per evitare che scappasse. Dovevano rassicurarlo che non stavano cercando di sottrarlo a Dio, né tantomeno fargli del male. Dovevano dirgli che desideravano solo che avesse accesso a quelle informazioni riguardanti il gruppo che, altrimenti, non avrebbe mai avuto. Dovevano chiedergli di pregare e dirgli che confidavano nel fatto che la sua fede nel potere di Dio fosse più forte della sua paura di Satana. Dissi alla famiglia di chiedere a George di acconsentire a dedicare tre giorni della sua vita ad effettuare un lavoro di ricerca, tre giorni durante i quali sarebbe stato libero di entrare e uscire, di prendersi tutte le pause che voleva e decidere quali fossero gli argomenti che intendeva conoscere più a fondo. Il lunedì mattina ero al caffè di Cape Cod in compagnia di Buddy Martin ed Ellen Queeney, una ex affiliata che avevo avuto in terapia di recupero l’estate precedente e che aveva militato nel ramo di Parigi dello stesso gruppo. Ci sedemmo a un tavolo ad aspettare e continuammo a farlo per le successive quattro ore. Nel frattempo, la famiglia stava cercando di persuadere George ad acconsentire al progetto da noi pianificato. Mi chiamarono telefonicamente una mezza dozzina di volte per avere consigli, tentando di mettere in atto tutti i sistemi che avevo loro illustrato. Ma George fu inflessibile: era disposto ad incontrarci per poche ore, nulla di più. Decidemmo di agire lo stesso e fare del nostro meglio. Mentre ci apprestavamo a lasciare il caffè , gente del posto ci disse che in quel bar nessuno prima di allora era rimasto seduto così a lungo e che avevamo battuto ogni record. Ridemmo, e io pensai: “Se solo sapessero il perché!”. Quando lo incontrammo, George era paonazzo, fuori di sé e ostile. Lo vedevamo per la prima volta. Ci presentammo ed egli fu molto sorpreso di vedere Buddy, un ministro fondamentalista della Church of Christ. George chiese di parlare da solo con ciascuno di noi: prima con me, poi con Ellen e infine con Buddy. Era chiaro che aveva paura ed era confuso. Noi facemmo del nostro meglio per metterlo a suo agio e fargli sentire che aveva in mano il controllo della situazione. Era imperativo che lui si rendesse conto che questa era per lui un’occasione per imparare e per provare alla sua famiglia che era libero dal controllo mentale e consapevole di ciò che faceva. Questo è quanto gli dissi quando volle parlarmi in privato. George era indottrinato quanto qualsiasi altro membro del suo culto con cui avevo lavorato. Aveva una fortissima resistenza all’idea che potesse trarre un qualche beneficio da quell’incontro. La partecipazione di Buddy Martin fu la chiave di volta. Quando giunse il suo turno di rimanere solo con George, si mise a citare versetti della Bibbia e lo interrogò sul loro significato. Prese così a dimostrargli che, sebbene il gruppo sostenesse di seguire la Bibbia, di fatto essi ne estrapolavano i brani, isolandoli dal contesto in cui erano inseriti e ignorando deliberatamente passaggi fondamentali per la comprensione generale del testo. Dal momento che il gruppo aveva programmato George a credere in una interpretazione letterale della Bibbia, egli non fu in grado di avanzare obiezioni. Questo fu l’inizio dell’apertura che lo portò ad ammettere che forse il gruppo non era poi così perfetto. Avendo stabilito questo contatto, George si rese disponibile ad ascoltare quanto avevo da dirgli sui precedenti del leader del gruppo, Kip McKean, con particolare riguardo al suo reclutamento e indottrinamento ad opera di Chuck Lucas di Crossroads, un culto di Gainesville (Stato della Florida) nato negli anni Settanta. 171
Era lì che McKean aveva appreso le tecniche di controllo mentale che usava ora. George non aveva mai sentito parlare di Crossroads. Noi gli mostrammo una lettera scritta nel marzo del 1986 ai dirigenti della Chiesa di Crossroads, e stampata sul loro bollettino, in cui McKean diceva che “doveva la sua anima” a quel gruppo. George ne fu sconvolto. Gli mostrammo anche una lettera scritta nel 1977 dagli anziani della Memorial Church of Christ di Houston, nel Texas, in cui annunciavano che erano in procinto di espellere McKean, uno dei loro ministri, a causa dei suoi insegnamenti non conformi alla Bibbia. Prendendo le mosse da questa considerazione, fummo quindi in grado di illustrargli le caratteristiche dei culti distruttivi e del controllo mentale. Senza questo schema di riferimento sarebbe stato impossibile dimostrare a George le tecniche cui era stato sottoposto. Arrivato a questo punto, faccio sempre riferimento ad altri gruppi. Stando al la mia esperienza, gran parte dei cultisti moderni considera negativamente i moonisti (a parte i moonisti stessi, ovviamente), così in genere inizio con la mia storia personale. Questo approccio iniziale ha l’effetto di ridurre al minimo i meccanismi di difesa e di blocco del pensiero. Faccio un elenco delle componenti specifiche del controllo mentale, senza tralasciare mai lo studio di Lifton sulla riforma del pensiero messa in atto dai comunisti cinesi. Descrivo poi le somiglianze riscontrabili all’interno di gruppi analoghi. In tal modo, i paralleli tra i gruppi diventano evidenti e il tutto risulta ancora più efficace perché è il soggetto stesso a fare i dovuti collegamenti. George fu molto impressionato. Aveva bisogno di regolare il flusso delle informazioni che gli venivano date. Ogni due ore circa si alzava, dicendo che aveva bisogno di fare una passeggiata e di pregare, cosa che si ripeté parecchie volte al giorno nell’arco delle tre giornate. Pernottavo in una pensione vicina dove potevo riposarmi e fare al contempo il punto della situazione. Ogni volta che George oltrepassava la porta di casa, noi non sapevamo mai con certezza se avrebbe fatto ritorno. Gli sarebbe stato facile fare l’autostop per Boston o telefonare al gruppo perché lo andassero a prendere. Ma cercare di fermarlo avrebbe compromesso la sua fiducia nei nostri confronti. Ormai eravamo in ballo e dovevamo ballare fino in fondo. Se avesse deciso di andarsene ora, i suoi genitori avrebbero continuato a fornirgli informazioni ogni qualvolta lo avessero incontrato o gli avessero parlato. Dovevamo avere fiducia nella sua volontà di fare la cosa giusta. La famiglia, inoltre, sapeva che non avrei partecipato qualora avessero cercato di trattenerlo con la forza. Ad un certo punto George si lagnò per l’inganno messo in atto dai genitori, che con il pretesto del compleanno della nonna lo avevano indotto ad andare a casa. I genitori si profusero in scuse. Gli chiesi di mettersi nei loro panni e di suggerire un altro tipo di comportamento. Non gliene venne in mente nessuno. Sapeva bene che se avesse avuto in anticipo una qualche avvisaglia su quanto stava accadendo, avrebbe sicuramente chiesto consiglio ai suoi superiori, i quali lo avrebbero certamente dissuaso. I suoi genitori gli ricordarono che già una volta si era rifiutato di incontrare ex membri e di leggere letteratura critica. Lui rimase di stucco: lo aveva completamente dimenticato. Gli ricordarono che un mese prima aveva incontrato sua cugina Sally e che era stata proprio lei a fargli tale proposta, dietro loro suggerimento. George non l’aveva nemmeno presa in considerazione. I suoi genitori avevano allora capito che non rimaneva che optare per questo tipo di contatto. 172
Durante quei tre giorni, lavorai molto con i genitori su una modalità di comunicazione efficace, esaminando anche i problemi che andavano al di là del coinvolgimento del figlio nel culto. In questo modo George si sarebbe potuto rendere conto che tutta la sua famiglia stava cercando di capire e di crescere assieme a lui e che il suo coinvolgimento poteva essere il punto di partenza per instaurare e sviluppare un rapporto più profondo. Alla fine del terzo giorno, George non era ancora pronto a dichiarare che non avrebbe fatto ritorno al gruppo. Disse che aveva bisogno di più tempo per studiare e riflettere su quanto appreso. Decise di non tornare al suo appartamento, ma di stare con i suoi genitori. Là avrebbe letto libri e articoli, guardato video cassette sui culti e avrebbe continuato a parlare e a discutere con ex affiliati. Nel giro di un mese, George dichiarò alla sua famiglia che non sarebbe più ritornato alla Boston Church of Christ. Nel frattempo aveva partecipato a funzioni e studio della Bibbia in una delle diciottomila Church of Christ, quella di Burlington, dove aveva incontrato all’incirca sessantacinque altri fuoriusciti del gruppo di Boston. Ora dichiara di essere molto più felice di quanto non fosse mentre era nel culto e di aver acquisito una migliore conoscenza della Bibbia. Da quando ne è uscito, George ha dedicato gran parte del suo tempo a cercare di aiutare altri a capire gli aspetti distruttivi del suo ex gruppo di appartenenza. Sebbene i genitori di George avrebbero preferito che lui frequentasse la loro chiesa, essi rispettano il suo diritto di scegliere la propria strada. Il padre, in particolare, si è unito al figlio in un gruppo di studio della Bibbia, in modo da potergli stare più vicino. Di fatto, i familiari sono intervenuti nella sua vita solo per fargli conoscere le pratiche del controllo mentale dei culti distruttivi. Non accetto di compiere interventi per clienti che in realtà nascondano finalità del tutto egoistiche: il loro scopo ultimo deve essere esclusivamente quello di aiutare l’adepto a pensare con la propria testa. 172
I punti fondamentali del mio approccio Poiché i culti attirano le persone in ciò che si può definire una trappola psicologica, il mio lavoro come psicologo e terapeuta è quello di evidenziare al seguace di un culto quattro elementi. Primo: gli dimostro che è caduto in una trappola, che si trova cioè in una situazione in cui è psicologicamente inerme e da cui non può uscire. Secondo, gli faccio notare che non ha mai scelto volontariamente di entrare in quella trappola. Terzo, lo informo del fatto che altre persone in altri gruppi si trovano in trappole analoghe. Quarto, gli dico che può uscire dalla trappola. Mentre questi quattro punti possono sembrare ovvi a chi non si trova in un culto, non sono invece così evidenti per chi si trova in condizioni di controllo mentale. Solo chi sa cosa realmente significhi essere irretito da un culto distruttivo, può far arrivare questo messaggio con la forza e la determinazione necessaria. Questa è la ragione per cui ex affiliati, soprattutto ex dirigenti di un culto, diventano i migliori consulenti per il recupero e l’uscita degli adepti. Il mio approccio si basa su alcuni convincimenti basilari circa la natura delle persone, in cui credo fermamente. Uno è che le persone hanno bisogno e desiderio di crescere. La vita è in continuo movimento e altrettanto lo sono le persone, orientate verso direzioni capaci di sviluppare e incoraggiare la loro crescita. E’ importante che le persone si concentrino sul qui-e-ora. Quanto fatto in passato è andato. L’attenzione non dovrebbe essere posta “sugli errori commessi” o su ciò che “non hanno fatto”, ma su ciò che possono fare adesso. Il passato può servire solo come informazione utile al presente. In base alla mia esperienza sono andato convincendomi che le persone sceglieranno sempre, in qualsiasi momento, ciò che reputano essere per loro la cosa migliore. Stando alle mie osservazioni posso dire che questo comportamento si basa sulle informazioni che hanno e sull’esperienza da loro vissuta. Un individuo permette che lo si indottrini solo perché crede che quel gruppo sia meraviglioso e che farne parte possa costituire un vantaggio. Sono convinto altresì che ogni persona sia unica e ogni situazione diversa dall’altra. Ciascuno di noi ha un suo modo tutto particolare di capire e interagire con la realtà. Pertanto il mio approccio è totalmente centrato- sul- cliente. Faccio in modo di adeguare me stesso ai bisogni del paziente. Non mi aspetto che sia Lui ad adeguarsi ai miei. Il mio modo di lavorare prevede che il consulente capisca a fondo la persona che ha di fronte: quali sono i suoi valori, i suoi bisogni, cosa vuole e come pensa. Devo essere in grado di entrare nella sua testa, in un certo senso “essere lui”, per poterlo capire e aiutare a fare ciò che lui vuole. Il mio approccio si basa sulla convinzione che in fondo al suo cuore, anche il più coinvolto dei seguaci in realtà voglia uscire dal culto. Infine, il mio approccio è basato sulla famiglia. Quando qualcuno viene reclutato in un culto distruttivo, ciò si ripercuote su tutti i suoi cari e i conoscenti. Familiari e amici si sono rivelati vitali nella maggior parte dei casi che hanno avuto esito felice. Vanno ovviamente insegnate loro le tecniche della comunicazione, in modo che ogni qual volta comunichino con il loro familiare o con l’amico coinvolto possano farlo con la massima efficacia, sfruttando le leve emozionali e personali per indurlo a collaborare. E’ chiaro che questo modo di lavorare chiede alla famiglia molto impegno e dedizione: essa deve essere disponibile a imparare nuovi modi di comunicare e accettare di elaborare i problemi inconsci che in questa fa se possono risvegliarsi. Se tra i familiari esistono problemi particolari, è bene che questi vengano affrontati e possibilmente risolti prima ancora di tentare un intervento. 174
Quando l’attenzione viene centrata sulla famiglia, tutti subiscono un cambiamento: dal canto suo il seguace del culto si rende conto che fuori dal gruppo stanno accadendo cose positive, mentre i familiari imparano a costruire un rapporto di fiducia e a far in modo che il loro caro si interroghi sul suo operato. L’affetto di una famiglia è molto più forte di quello condizionato che gli adepti di un culto ricevono da parte dei loro dirigenti. Mentre la famiglia appoggia il diritto individuale di crescere e diventare un adulto autonomo e in grado di prendere da solo le proprie decisioni, l’affetto che un affiliato riceve dal culto ha lo scopo di mantenerlo per sempre in uno stato adolescenziale e di dipendenza, minacciandolo di far venir meno ogni forma di affetto nel caso prendesse decisioni che non collimano con quanto ordinatogli dal capo. Quando i familiari imparano a interagire in maniera efficace, l’aiuto che possono fornire è molto elevato e nel corso di un intervento questo fattore può diventare cruciale. Quando lavoro con un cultista, non cerco mai di far allontanare lui dal gruppo o il gruppo da lui. Se lo facessi si sentirebbe minacciato, e a ragione. Ciò che invece cerco di fare è presentargli altri modi per crescere, sottoponendogli diverse prospettive e possibilità. Aiuto le persone a vedere alternative che non sapevano esistessero, poi le incoraggio a fare ciò che pensano sia meglio per loro. Faccio tutto il possibile per far sentire loro che hanno in mano il controllo totale della situazione. Come ho già avuto modo di dire, il controllo mentale esercitato dai culti non riesce mai a cancellare del tutto il vero Io della persona (“John John”). E’ certamente vero che impone una identità dominante fornita dal culto (“John-l’adepto”) che cerca continuamente di reprimere il vero Io. Quale seguace della Chiesa dell’Unificazione pensavo veramente di essere “morto a me stesso”; lo Steve-moonista pensava che il vecchio Steve Hassan fosse morto . Ma il mio vero Io si è risvegliato durante la de-programmazione: era sempre stato lì. Fui in grado di ricordare tutte le contraddizioni, i conflitti e le promesse non mantenute da Moon che nel periodo in cui ero un adepto avevo sperimentato — ma non elaborato — e tale presa di coscienza mi permise di uscirne fuori. Dentro di me l’avevo sempre saputo. Riuscire a mettersi in contatto con il nucleo centrale e profondo di un individuo è ciò che mi permette di aiutare qualcuno a uscire da un culto. Se quel nucleo centrale è felice e contento del suo impegno nel gruppo, c’è assai poco da fare. Quella persona non si trova affatto sotto controllo mentale. Egli ha scelto di essere là. Ma non sono questi i casi che mi vengono normalmente sottoposti. Le famiglie mi chiamano quando si accorgono che sta succedendo qualcosa di terribile. E ho constatato che quando un individuo schiavizzato viene messo in condizione di poter sceglie re, si guarda bene dallo scegliere di fare lo schiavo: perlomeno non quando è in grado di decidere da solo della propria vita, avere normali rapporti che non subiscano limitazioni di sorta e curare i propri sogni e interessi. Oltre a questi convincimenti di base, il mio approccio presenta altri aspetti molto ben definiti. Come prima cosa mi concentro sul processo di cambiamento. Ciò significa che il come una persona arriva a cambiare è ben più importante di che cosa o perché cambia. Poiché credo che le persone siano interessate a crescere e a imparare, il mio intervento è anche di tipo educativo. Cerco di insegnare loro tutto ciò che posso sulla psicologia, la comunicazione, i problemi del controllo mentale e lo stile di altri culti distruttivi, come pure sulla storia di quel particolare gruppo, le contraddizioni dottrinali operate al suo interno e la sua dirigenza. 175
Casi difficili: l’intervento mascherato Quando il devoto di un culto si rifiuta di parlare con persone in grado di mostrargli “l’altra faccia della medaglia” oppure se ne va nel bel mezzo di un intervento facendo ritorno al culto, non bisogna credere che tutto è perduto. Se non altro è stata aperta una comunicazione intorno ai temi principali e può anche darsi il caso che l’adepto si senta in colpa per aver trattato male i suoi cari e che riprenda il dialogo più in là. In caso di insuccesso non è da escludere un errore di calcolo circa il momento in cui si è scelto di intervenire. Forse è successo subito dopo un’esperienza di reindottrinamento molto intensa, oppure il soggetto si è appena sposato con un altro/un’altra seguace, o ha ricevuto una promozione. Il momento in cui si interviene fa la differenza. Chiaramente, il periodo più opportuno è quello in cui l’affiliato si sente “giù” di morale, visto che nella vita di un cultista ci sono alti e bassi come in quella di qualunque altra persona. Dopo un intervento fallito, ci possono anche volere settimane o mesi prima che i componenti di una famiglia riescano a ristabilire un contatto con il loro congiunto. A quel punto essi hanno due opportunità. La prima consiste nel fare marcia indietro: faranno sapere all’adepto di aver fatto quanto era in loro potere e che quando lui si sentirà pronto saranno lieti di dargli tutte le informazioni di cui sono in possesso e farlo incontrare con gli ex affiliati. Oppure potranno optare per un intervento mascherato. Si tratta in assoluto dell’intervento più difficile da portare a termine con successo. Consiste nel fornire una consulenza all’adepto senza fargli sapere che la sua famiglia sta cercando di fargli riconsiderare il suo coinvolgimento nel gruppo, e aiutarlo ad uscirne. Bisogna usare l’astuzia, cercare un pretesto valido per incontrarlo e guadagnare il tempo sufficiente per fare un buon lavoro. A chi osserva dall’esterno, i preparativi necessari ad effettuare un intervento mascherato possono far venire in mente il programma televisivo “Missione impossibile”. Si mette assieme una squadra; si esamina il profilo psicologico del “bersaglio” per evidenziare i suoi punti vulnerabili, i suoi interessi e il suo schema di comportamento. Poi si organizza una specie di complotto per incontrarlo e lo si coinvolge per un tempo abbastanza lungo affinché la missione possa essere portata a termine. Si ricorre a un intervento di questo tipo quando il rapporto del cultista con la famiglia o gli amici è gravemente danneggiato. Casi di questo genere vedono generalmente coinvolti membri anziani i cui familiari hanno oltrepassato ogni limite di sopportazione umana e, spinti dal dolore e dalla frustrazione, si sono lasciati andare a dire o fare cose che hanno compromesso irrimediabilmente il rapporto. L’ intervento mascherato implica l’inganno, cioè proprio quello strumento usato dai culti che io denuncio, e questo elemento mi fa sentire a disagio. Nel mio caso, però, io non cerco di convincere qualcuno a seguirmi: una volta portato a termine il mio compito informativo, illustrate le alternative possibili e messa a disposizione la mia consulenza, sta all’individuo farne l’uso che vuole. 176
Margaret Rogers e i Bambini di Dio Da dieci anni Margaret Rogers era un’affiliata del culto di Moses David Berg, denominato Bambini di Dio (ora ribattezzato Family of Love o The Family). Durante gran parte di questo periodo aveva mantenuto contatti epistolari con le due sorelle e il fratello, limitandosi a scrivere in tutto una mezza dozzina di lettere. Margaret, che all’epoca usava un altro nome, datole dal culto, viaggiava in tutto il mondo con il suo gruppo. In genere la sua famiglia non sapeva come mettersi in contatto con lei, eccezion fatta per un’occasione in cui poterono farle visita nelle Filippine. A quel tempo era sposata con un altro discepolo e aveva tre bambini. Fu in quell’occasione che la sua famiglia la pregò di prendersi un pò di tempo libero e di acconsentire a incontrare alcuni ex membri del suo stesso gruppo. Margaret manifestò chiaramente il desiderio di aderire alla richiesta, anche perché aveva bisogno di nutrirsi e di dormire, così come di un accurato esame medico. La sua famiglia non le fece capire di essere al corrente del fatto che fosse stata costretta al flirty flshing [ liberamente: urtare, civettare], eufemismo usato dal culto per la prostituzione. Di fatto, era questo il metodo più usato dal culto per fare soldi e attirare potenziali discepoli di sesso maschile. La famiglia Rogers sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di affrontare l’argomento. In quell’incontro tutti poterono assistere a come in alcuni momenti Margaret ritornasse “se stessa”: i suoi modi di fare e l’espressione del suo viso si addolcivano e si rilassavano, e lei tornava ad essere la persona che conoscevano. Questo avveniva soprattutto quando i fratelli le rammentavano episodi dell’infanzia, o persone e avvenimenti della loro città natale. Ma fu altrettanto chiaro, in quell’occasione, che il marito era un fanatico convinto, senza alcuna eco della sua vecchia identità. Peraltro, era sempre lui a decidere per la moglie. La famiglia di Margaret tornò negli Stati Uniti felice di aver rivisto lei e i suoi bambini e determinata a cercare di tirarla fuori da quella situazione. I suoi genitori seguirono un mio seminario di comunicazione per i familiari, e mi chiesero di aiutarli. Mi dissero quanto avrebbero desiderato conoscere i miei insegnamenti prima della loro visita nelle Filippine o, ancora meglio, avermi con loro. Li invitai a continuare ad apprendere quanto più potevano sul gruppo: il suo gergo, lo stile di vita e la sua filosofia. Per raggiungere ciò, li misi in contatto con diversi ex membri. Li incoraggiai anche a seguitare a fare pratica con le tecniche di comunicazione che avevo loro insegnato. Nel giro di un anno, Margaret li contattò dal Messico, chiedendo loro se potevano andare a trovarla. Ci incontrammo per esaminare le varie possibilità. Come potevamo ottenere che si incontrasse con me, riuscendo al contempo ad allontanare il marito il più a lungo possibile e ad evitare ogni sospetto? Poiché fin dall’inizio si erano mostrati fortemente critici, i genitori erano considerati una minaccia al coinvolgimento di Margaret nel culto: decidemmo perciò che non sarebbero partiti. Sarebbero andati solo il fratello e le due sorelle, per una visita di una settimana. Sarei andato anch’io, fingendomi il fidanzato di sua sorella Lisa. 177
Inventammo una scusa da raccontare: le avremmo detto che suo padre non poteva fare questo viaggio, perché gli era stato proibito dal medico a causa delle sue condizioni cardiache. La signora Rogers, poi, non poteva lasciare il lavoro e comunque sentiva il dovere di stare a casa ad aiutare il marito, nel caso ne avesse avuto bisogno. Bob, il fratello di Margaret, chiamò la sede messicana della società per la quale lavorava e li pregò di fissare un colloquio di lavoro con il marito di Margaret, che sapevano essere alla ricerca di un’occupazione fissa per garantirsi la stabilità econo mica. Il culto aveva in Messico una colonia di famiglie, disseminate un po’ ovunque e tra loro poco collegate, cui era stato detto che dovevano provvedere da sole al loro sostentamento. Bob convinse quindi il marito di Margaret a recarsi al colloquio. Lui stesso l’avrebbe accompagnato a Città del Messico per alcuni giorni, dandoci così la possibilità di passare un po’ di tempo da soli con Margaret. Il piano prevedeva di sondare lo stato mentale di Margaret e cercare di convincerla a tornare con i figli negli Stati Uniti. Speravamo che dopo l’ultima visita fosse aumentata in lei la nostalgia di casa, e nell’ipotesi non fosse poi così innamorata del marito, come sospettavamo, c’erano per noi buone possibilità di successo. All’inizio tutto filò liscio. Quando arrivammo, Margaret e suo marito non mostrarono alcun segno d’ansia. Passammo il primo giorno tutti assieme e il nostro gruppo dava di sé un’immagine felice. In alcun modo facemmo trasparire che eravamo perplessi riguardo al loro stile di vita. Uscimmo a mangiare una gran quantità di cose buone, andammo a fare spese, comprammo vestiti nuovi per tutta la famiglia e ci divertimmo. Fu interessante notare che né Margaret né suo marito cercarono di fare alcuna propaganda del loro gruppo. Il giorno seguente Bob andò via con il marito di Margaret; noi prendemmo una stanza per lei e i bambini e la invitammo al nostro albergo. Ci offrimmo di portare fuori i bambini, mentre lei avrebbe cercato di riposare per recuperare un po’ del sonno perduto. Quando tornammo, cinque ore più tardi, dormiva ancora. Era chiaramente esausta. Quando si alzò, il suo viso aveva acquistato un po’ più di colore. Ordinammo il servizio in camera. Era chiaro che non era abituata a mangiare così bene e ad essere servita in un albergo così bello. E si stava veramente godendo tutto! Dopo cena ci mettemmo a chiacchierare, riandando ai bei ricordi dell’infanzia. Sua sorella le disse quanto mancasse a tutti e come si sentissero privati della presenza di una sorella che tanto amavano. Fu un momento di intensa commozione e tutti si scambiarono abbracci ed effusioni. Poi la conversazione si spostò sui bambini e sul loro futuro. Era quello il futuro che intendeva dar loro? Tom era davvero il suo ideale di marito? I tempi sembravano maturi. “Ascolta Margaret”, esordì una delle sorelle, “ti piacerebbe tornare con noi nel Connecticut?” “Dio mio! Sì!” rispose Margaret eccitata. Ma poi, con la stessa velocità, si accasciò sul divano: “Oh, no! Non posso farlo!”. “E perché no?” incalzò Lisa. “Perché non posso”. 178
“Pensi forse che Dio ne sarebbe dispiaciuto?” le chiesi io. “Sì”, rispose. E aggiunse: “E poi Tom non vorrebbe mai, a meno che non fosse Elias a dirglielo”. Elias era il dirigente più vicino a loro per grado. Era la prima volta che Margaret parlava di questo aspetto del gruppo alle sorelle. “Ma tu, cosa vorresti fare?” le chiesi nuovamente. “Non lo so, non credo di poterlo fare”. “Che faresti se Dio ti ordinasse di tornare nel Connecticut?”. “Non farebbe mai una cosa simile”. “Ma come ti comporteresti, se lo facesse?” insistetti. “Cosa succederebbe se ti dicesse con voce forte e chiara che è Suo desiderio che tu prenda i bambini e vada in Connecticut per alcuni mesi? Obbediresti?” le domandai alzando la voce. “Il tuo impegno è verso Dio o verso il gruppo?”. Ci pensò un po’ su, quindi rispose: “Se Dio mi dicesse di andare nel Connecticut, ci andrei”. “Anche se tuo marito e qualche altro devoto ti dicessero che non devi farlo?”, incalzai. Stavo premendo, ma volevo rendermi conto fin dove potessi spingermi. “Se Dio mi dicesse di farlo, partirei nonostante il parere negativo degli altri”, affermò. Molto bene, pensai dentro di me. Andiamo avanti. “Come puoi sapere qual è la volontà di Dio se non lo preghi e non glielo domandi? Glielo hai mai chiesto?”. “No, ma lo farò questa notte. Anche se non credo che Lui voglia che io torni in Connecticut”. “Ah! E così? Sarai dunque tu a dire a Dio cosa rispondere?” la aggredii. “Ma perché non ti abbandoni al profondo della tua anima e preghi, senza pensare a nulla tranne che a Dio e a cosa Lui desideri per te e per i tuoi bambini?”, le dissi con trasporto. “Prega con fervore e abbi fede nel fatto che la Sua decisione sarà quella giusta per te”. Margaret mi chiese se davvero credessi in Dio tanto fermamente e io le risposi di sì. Poi mi interrogò sulla mia vita spirituale e ciò mi diede il pretesto per parlarle della mia esperienza con i moonisti e di spiegarle come era accaduto che mi fossi convinto che Dio parlasse attraverso i miei capi; le raccontai anche di come non mi fosse permesso avere dubbi, porre domande, criticare e soprattutto lasciare il gruppo. Le parlai dell’induzione delle fobie e le raccontai come fossi infine riuscito a concepire la possibilità di avere un futuro al di fuori del gruppo. Ciò era stato possibile dal momento che avevo avuto modo di incontrare ex seguaci dei moonisti, constatando direttamente che erano rimaste brave persone anche dopo aver lasciato il gruppo. Lei ascoltava con attenzione. Le spiegai di come, quando ero con i moonisti, fossi arrivato a non fidarmi della mia voce interiore e a credere che fosse male, scoprendo successivamente che essa è invece il vero contatto diretto con Dio. Le raccontai di come fossi controllato tramite paure e sensi di colpa e la informai di come sia i moonisti che i Bambini di Dio avessero il controllo completo di ogni informazione che ci giungeva. In entrambi i casi, i leader si credono eletti del Signore in Terra, entrambi si dichiarano essere l’autorità assoluta ed entrambi sono molto ricchi. 180
“Pensi che Dio abbia dato all’uomo il libero arbitrio solo per poi toglierglielo con l’inganno e il controllo mentale?” le chiesi. “Rifletti: credi in un Dio che vuole che i suoi figli siano dei robot o, nel migliore dei casi, degli schiavi? Se così avesse voluto” rimarcai “non avrebbe mai concesso ad Adamo ed Eva il libero arbitrio! Non ti sembra un’evidente contraddizione?”. Margaret mi ascoltava a bocca aperta e a occhi spalancati. L’abbracciai e mi scusai. Dissi che volevo stare un po’ da solo e farmi una passeggiata. Aveva bisogno di tempo per assorbire quanto le avevo detto. Avevo fiducia che le sue sorelle l’avrebbe aiutata a riflettere e ad affrontare le emozioni che ne sarebbero scaturite. Più tardi, quella stessa sera, parlai ancora con lei per altre due ore, soprattutto per renderla più forte. Le dissi che era una persona intelligente e che era suo dovere usare la sua intelligenza. Era sempre stata una persona con un forte senso dell’etica: poteva davvero credere che il fine giustifichi i mezzi? Era forse un comportamento cristiano usare il sesso per fare proselitismo? Lei amava la sua famiglia: avrebbe permesso alle sue paure di essere più forti del suo amore? Feci anche appello al suo istinto materno e le chiesi come poteva lasciare che i suoi bambini crescessero nella povertà più estrema, senza istruzione, con scarsa se non addirittura nessuna cura medica. Prima che andasse a dormire, le ricordai di pregare, pregare molto. “Prega come non hai mai fatto prima. Implora Dio di mostrarti la strada. Chiedigli che cosa vuole che tu faccia”. Quella notte facemmo dormire i bambini con noi, in modo che lei potesse riposare indisturbata. Il giorno seguente Margaret ci raccontò di sogni straordinari, carichi di simboliche lotte e grande agitazione. In uno di questi sogni si era vista di notte, perduta in una foresta e senza sapere come uscirne. In un altro si trovava in una barca e grandi ondate di un mare in tempesta la minacciavano. In un altro, infine, si muoveva in un prato coperto di fiori, in una soleggiata e calda giornata primaverile. A colazione le chiesi se conosceva la risposta di Dio alla sua preghiera. Sorrise brevemente, ma subito dopo aggrottò le sopracciglia. Si alzò dal tavolo e andò alla finestra. Dopo aver guardato fuori per un po’, si voltò: “Il mio cuore dice che dovrei tornare a casa, ma non credo di essere in grado di farlo”. Mi sentii come se all’improvviso mi avessero tolto dalle spalle un peso di cento chili, ma cercai di non mostrare il mio eccitamento. Le sorelle iniziarono a piangere. “Che cosa ti trattiene?” le chiesi. Sospirò e rimase a lungo pensierosa. E poi: “Ho paura”. Le sue sorelle ed io le andammo vicino e l’abbracciammo: “Non ti preoccupare” la rassicurai, “ti aiuteremo in tutti i modi possibili. Abbi fiducia in Dio”. Ci comportammo come se la faccenda fosse risolta. Ora era tempo. di muoversi. Nel giro di due ore eravamo diretti all’aeroporto dove, come prima cosa, telefonammo ai suoi genitori per dar loro la buona notizia. Margaret lasciò una lunga lettera a Tom. In essa lo informava che stava partendo per gli Stati Uniti, che voleva star sola con la sua famiglia e i bambini per un paio di settimane e che l’avrebbe contattato per dirgli quando poteva andarli a trovare, se avesse voluto. Lo rassicurò sul fatto che si trattava di una decisione presa in piena autonomia; gli scrisse altresì che per lungo tempo era stata molto infelice e che sentiva che quanto stava facendo era il volere di Dio. 182
All’aeroporto non ci furono intoppi. In una situazione di questo tipo sono sempre molto ansioso, perché temo che qualcosa possa andare storto, tipo che tutti i voli siano al completo o che nella sala d’attesa vi siano membri del culto che ci aspettano al varco. Durante il volo di ritorno a casa, dissi a Margaret che alcuni miei amici erano stati Bambini di Dio ma, allo stesso tempo, decisi che non le avrei rivelato il mio vero ruolo nella vicenda. Non prima che fossero trascorse almeno due settimane, tanto per darle tempo per stabilizzarsi. Un paio di miei pazienti a tutt’oggi non sanno nulla del ruolo da me sostenuto su richiesta dei loro familiari. La casa era tutta addobbata con palloncini colorati e un grande striscione con su scritto “Bentornata a casa!”. Ovunque c’erano parenti e amici: Margaret vi rimetteva piede dopo dieci anni di assenza. Le lacrime le scendevano copiose: aveva dimenticato quanti anni felici vi avesse passato. In seguito mi disse che in quel momento si era sentita come un prigioniero tornato libero dopo dieci anni di prigionia. Quanta gente! E come erano cambiati tutti! E così pure i suoi vicini di casa! Si rese conto di non sapere nulla di quanto accaduto nel suo Paese e nel mondo nell’ultimo decennio. Aveva tantissimo da recuperare. Nei due giorni successivi mi accordai con degli ex affiliati affinché si incontrassero con lei e fui tanto fortunato da trovare tra loro qualcuno che la conosceva. Margaret progredì in maniera sbalorditiva un giorno dopo l’altro. Riprese peso, ritrovò il suo senso dell’umorismo e il suo viso riacquistò colorito ed espressività. I suoi bambini si adattarono facilmente e con grande gioia alla nuova vita. In un secondo momento organizzammo anche il recupero del marito, con l’appoggio della famiglia di lui. Nessuno può uscire da un’esperienza simile, e tanto protratta nel tempo, senza riportare problemi emozionali, e Margaret non fece eccezione. Non tutti i casi hanno però esito favorevole. Soprattutto all’inizio della mia attività mi sono trovato a gestire situazioni in cui, nonostante il mio contributo, non siamo riusciti a far uscire il soggetto dal culto. A posteriori, posso dire oggi che in alcuni di questi casi vi erano troppi fattori che giocavano contro. Ma io avevo comunque provato. Alcuni di tali fattori riguardavano aspetti patologici della persona coinvolta nel gruppo, o dei suoi stessi familiari. In altri mi erano state nascoste importanti informazioni sulla famiglia, mentre in altri ancora si era trattato di vero e proprio sabotaggio da parte di uno dei familiari. 182
Alan Brown e la Foundation for Human Understanding Il figlio dei coniugi Herber e Giulia Brown, Alan, rimase per oltre due anni nel gruppo di Roy Masters: Foundation for Human Understanding. Masters è un ipnotizzatore professionista. Conduce un programma radiofonico dal titolo “Come la tua mente può darti benessere”, con il quale conquista nuovi proseliti. Il coinvolgimento di Alan cominciò la sera in cui, dopo aver ascoltato il programma, decise di mandare dei soldi a Masters perché gli fossero inviate le cassette riguardanti la “meditazione”. Avendo ascoltato tali cassette, posso dire senza ombra di dubbio che in realtà Masters suggeriva una potente induzione ipnotica, e non della semplice meditazione, come invece sosteneva. Più tardi, studiando con maggiore attenzione il soggetto, scoprii che Roy Masters aveva iniziato la sua carriera come “esorcista”: il luogo in cui svolgeva tale attività era di norma l’affollatissimo salone di un hotel, e quando tra il pubblico scopriva qualcuno che a suo parere riteneva fosse posseduto, sosteneva di poterlo esorcizzare a pagamento. A differenza di gran parte dei miei clienti, i Brown avevano seri problemi psicologici. Sfortunatamente, non me ne resi conto fintanto che non arrivai nel Michigan, con lo scopo di tentare un intervento sul figlio prima che questi partisse alla volta dell’Oregon, per seguire un corso della durata di un mese presso la residenza di Masters. Capii che c’era qualcosa che non andava non appena ebbi varcato la soglia della loro abitazione. Il cane di famiglia era praticamente fuori da ogni controllo: correva, abbaiava e saltava da un mobile all’altro. I Brown si scusarono, ma era evidente che non sapevano come gestire la situazione. Cercavano costantemente di contrastarsi a vicenda in termini di autorità, impartendo al cane ordini contraddittori: se uno gli diceva di stare buono e sedersi, l’altra lo richiamava e se lo faceva saltare in braccio. Il cane era qualcosa di più che viziato: era un animale distrutto. Più tardi, quando incontrai Alan, mi resi conto di trovarmi di fronte un figlio unico viziato e iperprotetto. Senza rendersene conto i genitori lo stavano lentamente portando alla follia, inviandogli continuamente messaggi conflittuali. Se la madre lo lodava per aver tagliato l’erba del prato, subito il padre lo criticava per averci messo due settimane. Se il padre gli diceva che doveva trovarsi un lavoro, la madre replicava che era meglio che aspettasse ancora qualche settimana. Era ovvio che Alan cercava disperatamente di sottrarsi all’influenza dei genitori. Voleva essere indipendente, ma non sapeva da che parte cominciare. Voleva dimostrare ai genitori che ne era capace, ma la stima che aveva di sé era così bassa che era sempre sull’orlo di una crisi depressiva. Quando lo incontrai, Alan aveva difficoltà a socializzare e non aveva amici al di fuori del gruppo. In questo caso, Alan-Alan non era né un individuo felice né di successo. Era veramente a terra. Dal punto di vista del lavoro di recupero, non c’era proprio nulla nella sua vita cui potesse desiderare di far ritorno.Nonostante i tratti disturbanti del gruppo,’ fintanto che i suoi genitori avessero continuato nella loro comunicazione ambivalente e conflittuale, lo stare nel gruppo costituiva ancora per lui la scelta migliore. Almeno lì aveva la possibilità di socializzare con altre persone, come pure sperare che seguendo il maestro sarebbe migliorato. 184
Era evidente che in quel caso non mi sarebbe bastato spiegare ad Alan il funzionamento del controllo mentale e le caratteristiche di un culto distruttivo. Ciò di cui il ragazzo aveva disperatamente bisogno era un ambiente sicuro che gli facesse da supporto e un lungo periodo di terapia, sia individuale che familiare. Sfortunatamente, sebbene i suoi genitori lo amassero, non erano disponibili per un lavoro di questo tipo. Essi volevano soltanto che facessi “uscire Alan dal culto”, nulla di più. Peraltro non erano minimamente intenzionati a investire soldi in un buon programma di recupero. Alan aveva la necessità di un ambiente sano, e questo non poteva essere né casa sua né il gruppo. Nonostante tutti i miei sforzi, l’intervento era destinato a fallire fin dall’inizio. I genitori non riuscivano a capire a fondo i concetti di culto e di controllo mentale, né erano disposti a riesaminare il loro comportamento e fare i passi necessari per cambiare. Erano troppe le cose che all’epoca Alan riceveva dal gruppo (speranza, attenzione, rapporti sociali) per poter prendere minimamente in considerazione l’idea di lasciarlo. D’altra parte, all’interno di un culto raramente persone come lui “ce la fanno”. Quasi sempre succede che vengono sfruttate al massimo, finchè non se ne vanno da sole o vengono buttate fuori. Quando verrà quel giorno, forse ad Alan torneranno in mente alcune cose che gli dissi allora. Quando infine gettai la spugna, era il 1980, imparai diverse cose. Innanzitutto che è vitale incontrare la famiglia, prepararla ed effettuare uno screening. Se la famiglia non è disposta a investire il tempo, il denaro e le energie necessarie per l’intervento, mi rifiuto di occuparmi del caso. In secondo luogo, ho appreso che se la famiglia non è disposta per prima a prendere in esame i suoi problemi e a fare uno sforzo per cambiare e crescere, ciò andrà inevitabilmente a minare ogni possibile progresso io possa far compiere all’adepto. Certamente negli anni ho avuto la mia parte di casi irrisolti. Recentemente però sono arrivato a capire quali siano le costanti essenziali per determinare un successo e intervengo solo quando ho la sicurezza di ottenere qualcosa di positivo sia per l’individuo che per la sua famiglia. Occorrono tre intere giornate di exit counseling perché un intervento sia coronato dal successo. Negli ultimi tre anni, le sole persone con cui non ho avuto un esito positivo sono state quelle che sono tornate al loro gruppo prima dello scadere dei tre giorni. Quelli che ho appena illustrato sono solo tre esempi, scelti tra te centinaia di casi che mi sono trovato a seguire da quando ho abbandonato i moonisti. Dalla mia esperienza personale ho imparato fin dove possa spingersi una persona in nome di una causa ritenuta giusta e importante. Ho anche imparato che non vi è persona al mondo disposta a sacrificare tempo, energie e desideri per una causa falsa e dalla finalità distruttiva. Non appena con l’adepto mi riesce di controllare la fobia di lasciare il gruppo ed entro in contatto con il suo vero Io, mostrandogli quello che in realtà gli hanno fatto, egli decide quasi sempre di scegliere la libertà, e questo avviene perché la gente opta sempre per quello che ritiene essere il meglio per sé. Infine, è importante che gli ex adepti e le loro famiglie non giudichino negativamente tutto ciò che è accaduto nel culto. Quando le persone decidono di andarsene, le incoraggio sempre a ricordare ciò che di buono vi è stato e di portarselo dietro. Sicuramente, l’aver fatto parte di un culto distruttivo ti cambia per sempre. Si prende coscienza di quante cose si sono date per scontate: famiglia, amici, educazione, la propria capacità di decidere, la propria individualità e l’intero sistema di riferimento. L’uscire da un culto fornisce un’opportunità unica di “mettersi completamente a nudo”, rimanendo soli con se stessi, costretti ad analizzare tutto ciò che si sapeva e in cui si credeva. Tale processo può essere liberatorio e terrificante al tempo stesso. In ogni caso, un’opportunità per ricominciare da capo. 185
Capitolo 8 COME AIUTARE Se mai dovesse capitarti che una persona cara rimanga coinvolta in un culto distruttivo, allora ti troverai ad affrontare quella che probabilmente sarà una delle più dure situazioni della tua vita. Nell’aiutare qualcuno nell’ardua impresa di ritrovare se stesso è facile commettere errori capaci di rendere la situazione ancora più problematica. Ma se risponderai alla sfida in modo corretto ed emozionalmente equilibrato, le probabilità di avere successo saranno elevate e l’esperienza potrà infine rivelarsi felice e appagante, cosa che in questi anni ho frequentemente avuto modo di appurare con il mio lavoro in veste di exit counselor. In questo capitolo fornirò alcuni suggerimenti pratici, indispensabili per capire il comportamento corretto e quello da evitare nei confronti di qualcuno che stai cercando di far uscire da un culto, e cosa fare per i tuoi familiari e per te stesso nel momento in cui sei coinvolto in una simile impresa. Assumere alcune fondamentali precauzioni ti eviterà molte frustrazioni. Inizierò con l’esporre due tipologie comportamentali diametralmente opposte, messe in atto da due famiglie di fronte al rischio di perdere un figlio che ha aderito a un culto distruttivo. Quelle che seguono sono le ricostruzioni delle storie reali di persone da me aiutate. I loro nomi e quelli dei culti in cui sono rimaste coinvolte sono stati cambiati.
La Famiglia .Johnson e il World Brethren La prima volta in cui Bill e Lorna notarono nella figlia Nancy un comportamento insolito, pensarono si trattasse del disagio crescente di una diciannovenne lontana da casa per le vacanze estive. La stessa cosa era successa a suo fratello maggiore, Neil, che aveva mostrato le medesime stranezze ed era stato altrettanto lunatico quando aveva più o meno la stessa età. All’epoca dei fatti Nancy si trovava nel Midwest, impegnata a far fronte a un calo nelle vendite dei libri porta a porta, attività che svolgeva per guadagnare qualche soldo in più per l’università. Quando telefonò ai suoi genitori e raccontò loro le difficoltà incontrate, essi rimasero colpiti dal tono freddo e distaccato della sua voce, quasi la cosa non la riguardasse affatto. Conoscendo Nancy, Bill e Lorna si sarebbero invece aspettati che manifestasse frustrazione e ansia. Qualcosa non andava, ma non sapevano cosa. Alcune settimane più tardi ricevettero una telefonata in cui Leslie, una delle amiche più intime di Nancy, li informò di aver appena ricevuto da quest’ultima una lettera piuttosto allarmante. Prima di telefonare Leslie aveva esitato a lungo, poiché non voleva tradire le confidenze dell’amica, ma il contenuto della lettera era talmente diverso da quanto Nancy era solita scriverle, da indurla a rischiare. In una parte della lettera, Nancy diceva: “Leslie, ho veramente trovato il mio posto nel mondo. Dio mi ha chiamata a far parte dei Fratelli, che sono gli unici, veri cristiani esistenti sulla Terra. Ho buttato via i miei bluejeans, perché mi sono resa conto che facevano parte del mio passato satanico (...) Il ruolo di una donna è essere assoggettata a un uomo (...) La Parola di Dio ce lo insegna, e io sto imparando a distruggere il mio falso e vanaglorioso Io che aspira a far parte di questo mondo malvagio”. 188
I suoi bluejeans erano da sempre il capo d’abbigliamento che amava di più. Nancy era una persona con la quale era facile andare d’accordo per ché non giudicava mai le persone. Era anche stata moderatamente femminista: quei sentimenti di totale dipendenza non erano proprio da lei. L’insieme di queste notizie aveva preoccupato Leslie e i genitori di Nancy lo furono ancora di più, dal momento che la ragazza aveva tenuto loro nascosto il suo coinvolgimento nel gruppo. Come mai non vi aveva minimamente accennato, quando li aveva sentiti? Era sempre stata così aperta e onesta. Non era da lei mentire deliberatamente sulla sua affiliazione a un gruppo religioso. Quando le avevano chiesto se ci fossero delle novità, aveva risposto: “Non molte”. Ma a giudicare dalla lettera, invece, sembravano essercene, e parecchie. I Johnson telefonarono subito al loro consigliere spirituale per un aiuto. Quando questi si recò da loro, concordò sul fatto che Nancy si stava comportando in maniera strana e aggiunse che non si poteva escludere l’eventualità che fosse rimasta coinvolta in una setta religiosa. Nell’udire la parola “setta”, i Johnson persero ogni controllo. Il signor Johnson rischiò di commettere subito uno degli errori più tipici: voleva telefonare a Nancy per chiederle del gruppo, della sua lettera a Leslie e delle bugie che aveva raccontato loro. Fortunatamente non lo fece. La signora Johnson scoppiò in lacrime. Sentiva di aver fallito come madre: doveva evidentemente aver fatto mancare qualcosa alla figlia per spingerla ad aderire a quel gruppo e iniziò a passare in rassegna tutti gli avvenimenti della vita di Nancy che potevano averla resa vulnerabile a un’esperienza del genere. Decise di chiedere a Neil di lasciare qualsiasi cosa stesse facendo e andare subito a casa. Quando Neil entrò nella stanza, suo padre stava passeggiando nervosamente su e giù, sua madre stava ancora singhiozzando, Leslie le sedeva accanto sul divano, le mani in grembo, e il prete aveva un’aria preoccupata. “Che succede?” si informò Neil sedendosi e passando il braccio attorno alle spalle della madre. Fu il signor Johnson a parlare: “Pensiamo che Nancy sia entrata in un qualche culto di tipo religioso”. “Nancy? No, non è possibile” esclamò Neil. “Non farebbe mai una cosa simile”. Quando lo misero al corrente di quanto sapevano, rimase senza parole. Per fortuna, il sacerdote riuscì a convincerli che per il momento era meglio non fare nulla. Assicurò loro che avrebbe fatto tutto il possibile per raccogliere informazioni sul gruppo e trovare qualcuno che lo consigliasse sul da farsi. Quella fu la prima delle molte notti insonni che i Johnson avrebbero passato per alcune settimane. Grazie alle informazioni raccolte dal sacerdote, i genitori di Nancy vennero a sapere della mia esperienza e mi contattarono. Non appena fummo in grado di disporre delle necessarie informazioni per andare avanti, i Johnson chiesero a parenti e amici di andare da loro il sabato successivo, per partecipare a una giornata di consulenza e di training terapeutico. Dissi loro di contattare il maggior numero di persone disposte ad aiutarli. Da parte mia rintracciai un ex membro che risiedeva in un’altra città e lo pregai di registrare un video in cui raccontava tutto ciò che gli fosse stato possibile ricordare sul gruppo: i suoi capi, la sua dottrina e le sue attività. Partendo da questa basilare documentazione, potemmo presto programmare un intervento. Poiché Nancy e il suo gruppo ignoravano che la famiglia fosse al corrente di tutto, fu piuttosto facile pianificare un intervento a sorpresa. La famiglia fu d’accordo perché si partisse tutti in aereo la settimana seguente. Il mattino successivo al nostro arrivo, ci appostammo fuori della sede del culto e aspettammo che Nancy uscisse. Pensavamo che sarebbe stato più facile parlarle quando fosse stata lontana dagli altri membri del gruppo. 189
Dopo due ore, vedemmo Nancy e un’altra donna salire su un furgone e partire. Le seguimmo in un vicino supermercato dove, evidentemente, dovevano far spesa. Istruii a lungo i Johnson su cosa dovessero dire e fare. Il piano consisteva nell’aspettare che Nancy rimanesse da sola e, a quel punto, non dovevano far altro che andarle incontro e abbracciarla. Naturalmente contavamo sulla sorpresa e lo stupore che Nancy avrebbe avuto nel vederli. Dal momento che non aveva parlato alla sua famiglia del gruppo, sarebbe stato più difficile per lei rifiutare un invito a pranzo. I Johnson le avrebbero spiegato che dovevano discutere con lei di un’importante questione familiare e nient’altro. Si sarebbero mostrati affettuosi e amichevoli, ma decisi. Neil avrebbe fatto in modo che l’altra donna non li seguisse. Osservai la scena dalla vetrina esterna del supermercato e vidi che Nancy non opponeva resistenza alcuna Anzi, sembrò veramente felice di aver incontrato la famiglia, sebbene si vedesse che era confusa ed emozionata al contempo. Quando Nancy disse “Lasciate che vada a dirlo a Claire”, Neil si offrì di farlo in vece sua e si apprestò a raggiungere la sua amica. “Credo che sia nel settore dei prodotti per la casa” gli gridò dietro Nancy. “Non ti preoccupare”, le rispose Neil girandosi verso di lei. I suoi genitori erano già all’uscita. Neil attese dietro l’angolo un paio di minuti e poi li raggiunse di corsa. “Ha detto che va bene”, disse alla sorella mentre saliva in macchina. Io avrei preso un taxi per tornare in albergo e avrei atteso nella stanza che avevamo prenotato, adiacente a quella dei John son: lì avrei aspettato che mi chiamassero, non appena fossero stati pronti. Raccontai all’ex adepto del gruppo, che era venuto con noi, quanto era accaduto fino a quel momento. L’attesa non fu lunga. Come da istruzioni ricevute, i Johnson aspettarono che tutti si fossero accomodati nella stanza prima di dire a Nancy che l’avevano raggiunta fin li perché quel gruppo cui lei aveva aderito li preoccupava. Nancy replicò negando ogni suo coinvolgimento e allora il signor Johnson tirò fuori la lettera che aveva scritto a Leslie. Come poi mi fu raccontato, la ragazza arrossì e scoppiò a piangere. “Perché ci hai mentito?” le chiese il padre. “Non è da te, tesoro”, aggiunse la madre. Nancy si mise a singhiozzare ancora più forte. “Siamo qui perché ti vogliamo bene e siamo preoccupati per te”, disse Neil, asciugandosi le lacrime. “Perché non ci racconti tutto?” le chiese allora il padre. “Perché non inizi dal principio?” le suggerì. Mentre raccontava loro quanto successo, a un certo punto Nancy prese a comportarsi secondo il modello cubista, citando passi della Bibbia e discorsi del suo leader. La cosa spaventò i Johnson, come mi raccontarono dopo. La ragazza aveva di colpo cambiato espressione e si era trasformata in un’ altra persona. Le domandarono se, in fondo al suo cuore, lei li amasse e si fidasse di loro. Ci pensò su un istante, poi rispose di sì. “Che ne dici di rimanere con noi per i prossimi tre giorni senza vede re né sentire gli altri membri del gruppo?” chiese il signor Johnson. “Perché?” volle sapere Nancy. “Perché c’è qualcosa di importante che pensiamo tu debba ascoltare e ci siamo accordati con alcune persone che possono renderti partecipe di quanto sanno sul gruppo”, incalzò la madre. Nancy ci pensò su per un attimo che deve essere sembrato a tutti un’eternità. Poi disse che voleva sapere chi fossero quelle persone e perché si dovesse trattenere esattamente tre giorni. Il signor Johnson rispose: “Cara, puoi scoprirlo da sola. Sono qui che aspettano nella stanza accanto. Tutto ciò che ti chiediamo è che tu ti fidi di noi e consenta loro di raccontarti fatti che il tuo gruppo non vorrebbe che tu sapessi”. L’intervento durò solo due giorni. Non appena si avvide che eravamo sinceri e non piuttosto l’incarnazione del Male, Nancy ci prestò grande attenzione. Ci espresse gratitudine per tutto l’amore e la dedizione che le dimostrammo. Lei stessa aveva nutrito qualche dubbio sul gruppo ma, come spesso accade a molti neofiti, aveva pensato che non avendo ancora raggiunto un buon livello spirituale, non potesse permettersi di criticare ciò che i membri anziani le dicevano. 190
Perché i Johnson ebbero successo Sebbene la figlia fosse stata reclutata da un culto distruttivo, i Johnson furono molto fortunati. Primo, perché dal momento che telefonavano a Nancy una volta la settimana, furono in grado di percepire pressoché immediatamente i mutamenti del tono della sua voce e del suo modo di fare. Seppero d’istinto che era molto importante mantenere i contatti con lei, perché Nancy era motto giovane, era lontana da casa ed era stressata a causa del lavoro. Sarebbe stato meglio per tutti che i Johnson avessero messo la loro figlia al corrente dell’esistenza dei culti distruttivi prima ancora che questa partisse, ma non avrebbero mai immaginato che proprio lei avrebbe potuto trovarvisi coinvolta. Non appena ebbero compreso le tecniche e gli effetti del controllo mentale, essi furono in grado di incanalare le energie verso qualcosa di positivo, piuttosto che farsi prendere dai sensi di colpa per aver “fallito” come genitori, con l’unico risultato di mettere in stallo la loro capacità decisionale Leslie si rivelò una vera eroina. Nel decidere di contattare i genitori di Nancy aveva superato la sua paura di tradirla, agendo da vera amica. Grazie a ciò, i Johnson furono in grado di individuare e risolvere in breve tempo il problema. Non appena Nancy fu fuori dal gruppo, poté dimostrare a Leslie tutta la sua gratitudine. I Johnson ebbero anche la fortuna di essere ben indirizzati dal loro consigliere spirituale, accorso subito in loro aiuto: non solo li aiutò a mettere immediatamente a fuoco il problema, ma impedì che facessero quei classici errori capaci di rendere più complesso e difficile il processo di recupero. A differenza di molti uomini di chiesa, questa era una persona informata: all’inizio di quello stesso anno aveva seguito un seminario sui culti distruttivi e fu quindi in grado di agire opportunamente. Sapeva, ad esempio, che la famiglia non doveva muoversi sotto l’impulso della fretta e dell’agitazione del momento. Essendo a conoscenza del fatto che fin troppi si avventurano da soli nel processo di recupero di una persona cara, aveva imparato quanto fosse importante per prima cosa recuperare la calma per poi pianificare, assieme agli esperti del settore, il dovuto intervento. E poiché il seminario era stato organizzato da un’associazione di ricerche e informazione sui culti, sapeva già a chi rivolgersi. 191
I Marlowe e The Word Roger e Kitty Marlowe non ebbero altrettanta fortuna. The Word reclutò il loro figlio maggiore quando questi viveva nel campus universitario. Anche loro notarono cambiamenti molto drastici nella sua personalità e nel suo comportamento, ma li giudicarono in buona parte più che positivi: Henry aveva smesso di fumare e non beveva più. Quando si recarono a trovarlo nella giornata di visita dei genitori, furono felici di vedere la sua stanza in ordine. Henry presentò i suoi genitori a diversi amici. In effetti, i suoi trovarono strano che fosse diventato tanto religioso. Mai prima d’allora aveva mostrato interesse nel cristianesimo e rimasero positivamente colpiti da molti componenti del gruppo, persone che sembrarono loro ben educate, innegabilmente intelligenti e molto amichevoli. Ai Marlowe non passò neppure per l’anticamera del cervello che fosse opportuno informarsi su quel gruppo. In superficie, tutto splendeva. Cominciarono a preoccuparsi quando videro i suoi voti alla fine del semestre. La media di Henry, in genere molto buona, era precipitata a poco più della sufficienza. Quando gli contestarono i risultati, Henry si mise sulle difensive; disse che stava facendo del suo meglio, ma che quel semestre gli erano toccati degli insegnanti veramente perfidi. Stava inoltre pensando di cambiare corso, perché voleva studiare religione: il marketing non lo interessava più. Henry era sempre stato un bambino testardo e molto indipendente e i suoi genitori pensarono che sicuramente sapeva quello che faceva. Chiaro che volevano che fosse in grado di provvedere da solo a se stesso e dunque, se aveva avuto una chiamata spirituale, chi erano mai loro per ostacolarlo? In fondo, aveva quasi vent’anni. Passò un altro semestre e i Marlowe ancora non riuscivano a capacitarsi di cosa stesse succedendo al figlio. Henry riuscì a risollevare la sua media, anche se rimase comunque molto al di sotto di quella abituale. Quell’estate disse loro che voleva andare in Kansas, “alla riunione annuale dei credenti”; ma quando fu là, telefonò loro per dire che “aveva sentito la chiamata del Signore”, e che intendeva lasciare l’università. Aveva deciso di impegnarsi per un anno con il gruppo. Si sarebbe recato dove il gruppo l’avesse ritenuto opportuno, si sarebbe trovato un lavoro part time per coprire le spese e avrebbe fatto opera di evangelizzazione per un minimo di venti ore settimanali. Suo padre era furibondo: “Perché prima non concludi l’anno accademico e poi vai a evangelizzare?” gli chiese, notevolmente irritato. A sua volta, Henry si arrabbiò per il tono di voce usato dal padre. “Perché sono intimamente convinto che questa è per me la cosa giusta da fare!” gli disse, implorandolo di comprende la sua scelta. A quel punto intervenne la madre, che aveva ascoltato la conversazione da un altro apparecchio: “Perché non vieni a casa e ne parliamo?”. “Mamma, fidati di me. So quello che faccio”. A questo punto Roger e Kitty udirono un sommesso borbottio: era come se qualcuno fosse lì, accanto a lui, e gli stesse suggerendo cosa dire. “C’è forse qualcuno accanto a te che ti sta dicendo cosa fare?” gli domandò suo padre. “Cosa?” chiese Henry. “C’è forse qualcuno accanto a te che ti sta dicendo cosa fare?” ripeté il padre. “Ehm! No. . .“ farfugliò Henry. “Figliolo, ti sei mica fatto intrappolare in uno di quei culti religiosi?”.
“Noi siamo un gruppo che studia e diffonde la Bibbia”, rispose Henry sulla difensiva, pronunciando quelle parole come se le stesse leggendo da un opuscolo propagandistico. “Voglio che tu torni a casa subito, giovanotto”, ordinò suo padre, diventato ancora più furioso. “Se non lo fai non avrò più rispetto per te” lo minacciò. “Ora calmati, Roger. Henry, tuo padre è solo molto preoccupato. Non sei per caso finito in un culto, vero?” chiese candidamente la madre. “No, mamma. Certo che no”. “Vedi Roger, ti sbagliavi. Henry non è in un culto” asserì lei, come se il ripeterlo avesse il magico potere di rendere vero ciò che diceva. Henry non tornò a casa per discutere la cosa con i suoi. Andò invece a St. Louis a lavorare per il gruppo, facendo altri proseliti per The Word. Chiese ai suoi genitori di mettere alcune delle sue cose in un pacco e di spedirglielo, cosa che puntualmente fecero. Gli spedirono anche cinque cento dollari in contanti, perché avesse qualcosa con cui iniziare. Più tardi il padre di Henry vide confermati i propri sospetti. Aveva trovato in biblioteca articoli che descrivevano The Word come un culto, li aveva fotocopiati e li aveva spediti a Henry: voleva provargli che quanto sosteneva era fondato e trovava riscontro documentale. Ma ciò si rivelò un boomerang: Henry si convinse che i suoi genitori erano posseduti dal demonio e concluse che non poteva più fidarsi di loro. Sua madre era sicura che il figlio fosse troppo intelligente per rimanere in un gruppo di quel tipo ancora per molto. Era certa che avrebbe riconosciuto il suo errore e se ne sarebbe andato. Ma col passare dei mesi, lui si allontanò sempre più e lei divenne sempre più isterica, accrescendo di giorno in giorno i sensi di colpa suoi e del marito. La sorella diciassettenne di Henry, Amy, e il fratello Bernie, di quattordici anni, furono coinvolti nella situazione di forte tensione che si era venuta a creare. Dovettero sorbirsi quotidianamente tutte le preoccupazioni dei genitori, angosciati dal coinvolgimento di Henry nel culto, e finirono con l’odiare il fratello, causa di tutto quello scompiglio. I genitori continuarono a mandare a Henry tutte le informazioni che trovavano su The Word. Gli dissero che il fondatore e leader del gruppo era un manipolatore, che beveva troppo e bestemmiava, ma tutto ciò non influì minimamente su Henry. Nel corso di tutta la vicenda, i genitori di Henry non avevano raccontato a nessuno del coinvolgimento del figlio nel culto: Roger era un esponente politico ed era preoccupato per la sua carriera, mentre Kitty aveva paura che la gente pensasse che era una cattiva madre, visto che aveva tirato su un figlio tanto difficile. Ogni volta che parenti e amici chiedevano di lui, rispondevano che stava bene e che aveva lasciato per po’ l’università perché voleva lavorare. Erano terrorizzati all’idea di cosa la gente avrebbe potuto pensare di loro, se solo si fosse saputa la verità. Col passare degli anni, il divario fra Henry e i suoi crebbe sempre di più. I contatti telefonici erano andati diradandosi e gli scambi epistolari erano sempre più rari. Henry sentiva che non esisteva più un motivo valido per andarli a trovare; per quanto lo riguardava, i suoi erano posseduti da Satana. 195
Lezioni da imparare Qui abbiamo due famiglie, i Johnson e i Marlowe, che hanno risposto diversamente al medesimo problema. I Johnson erano stati in grado di scoprire in fretta che c’era qualcosa che non andava e avevano ricevuto i consigli giusti. I Marlowe non erano riusciti a cogliere i segnali e quando infine si resero conto che il figlio era finito in un culto, non cercarono aiuto. Il Signor Marlowe aveva definitivamente perso ogni possibilità di far presa sul figlio, quando gli aveva lanciato accuse tali che dovevano essergli sembrate dei veri e propri ultimatum. Ci sono persone che arrivano a disconoscere i propri figli, rimasti coinvolti in un culto. Sfortunatamente, gli errori commessi dai Marlowe sono molto comuni e si registrano nella maggior parte dei casi. In questo campo, le reazioni istintive dei familiari provocano generalmente più danni che benefici. Questi due casi ci insegnano molto. Qualsiasi cambiamento improvviso in un amico o una persona cara dovrebbe sempre essere analizzato accuratamente. Se una persona si mette improvvisamente a trascorrere fuori casa gran parte del proprio tempo, bisogna capire perché. Ti invito a fare molte domande, ma senza assumere un tono minaccioso. Evita di proiettare i tuoi desideri. Ricorda: quando le persone aderiscono a un culto, tendono spesso a essere ingannevoli o evasive se si chiede loro di spiegare il motivo del loro cambiamento. Se sei preoccupato, chiedi il parere di quanti più amici e familiari sia possibile contattare. Non fare come i Marlowe, che hanno tenuto nascosto il loro problema. Così facendo si sono tagliati fuori da qualsiasi conforto emozionale, come pure da qualsiasi possibile aiuto. Non è da escludere che qualcuno tra i loro conoscenti sapesse di qualche ex membro o di un exit counselor, in grado di consigliarli. Forse si poteva ricorrere a un amico o un parente per contattare Henry e cercare di far presa su di lui. Spesso la persona che si avvicina a un culto cerca qualcuno con cui confidarsi, se non altro al fine di farne un proselita. Quando si perde tempo prezioso preferendo attendere prima di confidarsi con altri, nella speranza che nel frattempo la persona ne esca fuori da sola, le conseguenze possono essere disastrose. Se vedi un amico che è in difficoltà, contatta subito la sua famiglia. Quasi sempre, ti saranno grati del tuo interesse. 196
Le classiche risposte inefficaci Dato che gran parte delle persone non conosce il controllo mentale e le tecniche utilizzate dai culti, è facile che vengano messi in atto comportamenti non appropriati. Il problema più comune è che i familiari in genere cadono in eccessivi sensi di colpa e di vergogna. Sono quasi sempre pronti a condannare se stessi per il coinvolgimento di un loro caro in un culto. Sentirsi in colpa per cose fatte o non fatte è uno dei peggiori ostacoli che possa frapporsi ad un intervento efficace e risolutivo. Le persone devono sapere che non sono loro ad aver sbagliato. I culti sono una realtà. Il controllo mentale anche. Come per tutti i problemi, la gente non realizza quanto possano essere dannosi i culti fintanto che a esserne coinvolto non sia qualcuno che conoscono. Un altro problema psicologico assai ricorrente è che le persone tendono ad accantonare i loro bisogni personali. Il modo migliore per aiutare qualcun altro consiste innanzitutto nell’accertarsi di aver pienamente soddisfatto le proprie necessità. Per poter essere gestito, il coinvolgimento in un culto deve essere affrontato in maniera realistica. Le persone possono fare solo ciò che rientra nei limiti delle loro capacità. La vita deve andare avanti. La gente finisce col fare del male a se stessa e agli altri quando non è più in grado di riposarsi, rilassarsi e ricaricarsi, fare quanto è necessario per essere pienamente operativa. I fallimenti avvengono quando il problema si trasforma in una ossessione, alienandoci magari anche i familiari che desidererebbero invece darci una mano. I Marlowe, ad esempio, impiegando troppa e inutile energia con Henry, punivano senza avvedersene anche gli altri figli. Finirono così con l’esaurirsi, e alla fine dell’intervento si ritrovarono privi di energia e sfiduciati. Non importa quanto a lungo una persona sia rimasta in un gruppo: non bisogna mai perdere la speranza. Ho incontrato persone che pur essendo coinvolte da oltre trent’anni, ce l’hanno fatta a uscirne e si sono ricostruite una vita felice e di successo. Imparare ad andare incontro ai tuoi bisogni e a quelli della tua famiglia ti permetterà di essere di maggiore aiuto alla persona rimasta intrappolata nel culto. Altrettanto sbagliata è l’eccessiva reazione emozionale al coinvolgimento di un proprio familiare in un culto. Risulta ancora più dannoso del non fare nulla. Il coinvolgimento di una persona in un culto può essere rafforzato dalle reazioni isteriche e dall’uso esasperato di termini come “setta” e “lavaggio del cervello”. Essere emozionalmente aggressivi è sempre controproducente. Un errore comune è quello di cercare di discutere con l’interessato la sua uscita dal culto, usando un approccio polemico e di sufficienza. A meno che non siate ben ferrato in materia, non siate anche un buon oratore e non possiate contare su una buona dose di fortuna, se vi proverete a tentare di far uscire una persona da un culto discutendo con lei in maniera diretta, sappiate di essere destinati a sicuro fallimento. Le discussioni razionali sono del tutto inefficaci con chi è stato indottrinato attraverso il controllo mentale. Non si deve far sentire in colpa chi è stato reclutato da un culto. I familiari e gli amici dovrebbero considerare l’accaduto alla stregua di un esempio pratico di controllo mentale distruttivo. Più d’una volta chi è uscito da un culto mi ha raccontato di come poi si sia sentito vittima di una violenza. Quindi arrabbiati con il culto, arrabbiati con tutti i culti che usano il controllo mentale, ma non arrabbiarti con la persona che ne è rimasta coinvolta. Non è colpa sua! Se vuoi pareggiare il conto con il gruppo, prima fa’ uscire la persona e poi fai quanto è in tuo potere per smascherare quel culto pubblicamente, fornendo l’immagine di com’è in realtà. Se possibile, portalo in tribunale. In passato i culti sembravano poter dominare il sistema giudiziario a causa del loro potere finanziario. E’ tempo di usare la legge per fare giustizia. Concentrati nell’aiutare la persona che ha aderito al culto. A questo scopo, informazione e strategia sono le armi più potenti che tu abbia a disposizione. L’obiettivo finale dovrebbe essere questo: fai qualsiasi cosa sia in tuo potere per creare le condizioni necessarie ad aiutare l’adepto a cambiare e a crescere. 197
I familiari e gli amici dovrebbero tenere bene in mente questo obiettivo ogni qual volta debbano decidere che cosa dire o fare. Hai notato che non ho detto che l’obiettivo consiste “nel far uscire la persona dal gruppo”? Ho omesso di dirlo di proposito, perché ritengo che le persone escano da un culto distruttivo come conseguenza naturale del loro cambiamento e della loro crescita. Se si concentrano sull’obiettivo di una crescita positiva, avranno una minore resistenza al cambiamento e si sentiranno più felici e con maggiori possibilità di farcela. E’ essenziale assumere un atteggiamento positivo e di fiducia, relativamente alla possibilità che quell ‘individuo riesca a lasciare il gruppo. Si tratterà solo di sapere quando e come, vale a dire se la transizione filerà liscia come l’olio o sarà lunga e travagliata. Si può fare solo quanto è in nostro potere: creare le condizioni favorevoli per aiutare una persona intrappolata in un culto a crescere e sfuggire ai tentacoli del controllo mentale. Il modo migliore che hai a disposizione per aiutare un affiliato è quello di essere sufficientemente preparato prima di metterti all’opera. Qui di seguito troverai alcuni suggerimenti che ti aiuteranno a saggiare il tuo grado di resistenza all’inevitabile stress che ti attende. 198
Come prepararsi a intervenire con successo Prenditi cura dei tuoi bisogni emozionali Impara a non aspettarti risultati immediati e preparati a una lunga attesa: ciò ti aiuterà a mantenere una prospettiva equilibrata. Soprattutto se il coinvolgimento di quella persona è stato lungo, gli sforzi impiegati per aiutarla non dovranno andare a discapito della salute e del benessere fisico di un altro. Uno dei miei clienti arrivò in aereo negli Stati Uniti dalla Germania, sua patria d’origine, per cercare di vedere il figlio che aveva aderito ai moonisti. Affrontò il viaggio contro il parere del suo medico, ebbe un attacco cardiaco e morì. Prova a immaginare i sensi di colpa di quel figlio, quando riuscirà a uscire dal gruppo. Ricordati che stai combattendo una specie di guerra. Come parte della fase preparatoria, ogni volta che ciò sia possibile identifica e prenditi cura delle preoccupazioni e delle necessità emotive di quanti sono coinvolti. Una terapia individuale e familiare può aiutare moltissimo. Genitori e familiari dovrebbero cercare di mantenere il problema del culto in una prospettiva equilibrata. La vita deve andare avanti, sia per loro che per la loro famiglia, soprattutto se la persona è nel culto da molto tempo.
Rafforza le tue risorse Seguendo l’esempio dei Johnson, cerca di coinvolgere nell’intervento quanti più familiari e amici possibile, e mettiti a disposizione per aiutare a istruirli. Portali, se puoi, a un seminario di preparazione. Mettiti in contatto con professionisti della salute mentale, ex membri di quel culto, altre famiglie che abbiano avuto la medesima esperienza e con chiunque sia in grado di offrire un qualsiasi tipo di assistenza. Se sul posto non c’è nessuno che possa esserti utile, allora cerca aiuto ovunque sia possibile. Trova anche persone del luogo che abbiano voglia di imparare. Un buon coordinamento, un lavoro di squadra e un’efficace comunicazione sono tutte garanzia di successo. Se un componente della famiglia è molto vicino alla persona che si vuole recuperare, fa’ di tutto per coinvolgerlo. Mi è capitato spesso di imbattermi in un fratello o una sorella che avevano un forte ascendente sul soggetto da recuperare, ma che non hanno voluto aiutare nel recupero perché non riconoscevano l’esistenza del controllo mentale e non volevano tradire la fiducia del loro congiunto. Se necessario, pianifica prima un mini intervento con quella persona: se riuscirai a stabilire con lei un’alleanza, il tuo lavoro di recupero ne risulterà facilitato. 198
Organizzati e prepara un piano Studia quanto più puoi. Una buona preparazione è la chiave del successo. Studia il “nemico” (il culto in questione) come pure i culti distruttivi analoghi. Analizza il loro modo di pensare e agire. Fai ricerche sul controllo mentale. Più riesci a capire in cosa consiste e più facilmente potrai spiegarlo agli altri, soprattutto alla persona che vorrai recuperare dal culto, quando sarà il momento. Tieni un archivio organizzato, fotocopia gli articoli importanti e mostrali a chiunque sia interessato al problema. Fai una copia di ogni lettera da te scritta all’adepto e di ogni lettera che hai ricevuto da lui. E’ un accorgimento che può rivelarsi molto utile durante e dopo il recupero. Ho spesso mostrato ai membri di un culto le lettere che avevano scritto, in cui facevano promesse successivamente non mantenute o avevano pesantemente mentito alla famiglia. Aggiorna sempre tutti sulla situazione. Tieni presente che un contatto significativo con il seguace del culto è senz’altro meglio di un contatto sporadico. Manda una cartolina o una piccola nota ogni settimana: è meglio che scrivere una lettera di quattordici pagine una settimana e poi più nulla per il resto del mese. Chiedi all’adepto di fare telefonate a carico del destinatario ogni qualvolta senta il bisogno di parlare con qualcuno. Scegliere l’exit counselor giusto è un passo decisivo per la corretta pianificazione di un intervento. La sua supervisione sarà fondamentale durante tutte le fasi del recupero, a seconda della situazione particolare in cui ti trovi. Gran parte di questi terapeuti sono eccellenti professionisti e lo hanno dimostrato aiutando un numero impressionante di persone a uscire dai culti. Mentre i centri di ricerca e informazione sui culti fanno del loro meglio per assistere le persone, indirizzandole al giusto exit counselor ogni qual volta sia possibile, a tutt’ oggi non esiste un albo nazionale da poter consultare. Inoltre, contrariamente a quanto asseriscono i culti, le associazioni che si occupano di questo problema non appoggiano né sponsorizzano de programmazioni forzate, quindi se cercherai un de programmatore non lo troverai tramite i loro uffici. Una de programmazione forzata è contro la legge oltre ad essere, come ho già detto, molto rischiosa. L’unico modo per trovarne uno è di rivolgersi a qualcuno che se ne sia servito. Soprattutto, sii un consumatore accorto. Dopo la tragedia di Jonestown, una dozzina o più di imbroglioni spuntarono fuori dal nulla auto definendosi de-programmatori e carpendo la fiducia e i soldi di famiglie disperate e inesperte che non sapevano a chi rivolgersi. Alcuni di essi era-no addirittura adepti di culti che cercavano di mettere in cattiva luce la de-programmazione. Stai attento: l’autoproclamarsi exit counselor da parte di un individuo non lo rende necessariamente tale. Controlla le credenziali di un professionista attraverso quante più informazioni ti sia possibile reperire sul suo conto. È mia opinione che i migliori exit counselor sono coloro che a loro volta hanno aderito a un culto, perché sanno cosa significhi essere sottoposti a controllo mentale. I migliori exit counselor, inoltre, vantano un ricco bagaglio di esperienza. Fai controlli presso quelle famiglie che si sono rivolte a tali professionisti negli ultimi anni. Consultati anche con altre figure professionali. Cerca di appurare se hanno fatto un training idoneo. Personalmente, posso affermare senza ombra di dubbio che quello da me seguito è stato di grandissimo aiuto. Comunque, resta il fatto che il training da solo non è sufficiente. Vi sono tantissimi professionisti della salute mentale che non sono assolutamente al corrente di come vadano aiutati soggetti con problemi del genere. 199
Ricordati sempre che il datore di lavoro sei tu. Hai quindi il diritto di decidere quello che deve o non deve essere fatto, a fronte del benessere della persona che ami. Oltre a controllare le credenziali dell’exit counselor, fidati del tuo istinto, quando ne scegli uno. Devi sentire che l‘adepto potrà fidarsi e comunicare con lui in quanto persona. Questa è una professione molto delicata e non c’è posto per i dilettanti. Gli exit counselor hanno tariffe che vanno dai duecentocinquanta ai mille dollari al giorno. Ex affiliati che assistono l’exit counselor ricevono, in media, dai cento ai trecento dollari al giorno. In genere, tutte le spese di viaggio e di alloggio sono considerate degli extra. Sebbene ogni caso sia diverso, la maggioranza delle situazioni viene risolta nel giro di tre giorni. Il costo medio di un intervento va dunque dai duemila ai cinque mila dollari. La maggior parte di questi professionisti normalmente va incontro alle eventuali ristrettezze economiche dei committenti. Dopo l’intervento, è necessario che la persona venga seguita per un po’ presso un centro di riabilitazione e recupero, o inserita in un gruppo di ex adepti. Una volta esauriti i preliminari, sarà importante mettere a punto piani a scadenza mensile, trimestrale, semestrale e annuale. Anche se gli interventi debbono essere fatti quanto prima possibile, essi non dovrebbero mai essere affrettati. Gran parte degli interventi richiedono almeno un anno di preparazione, diventando operativi quando tutti i preliminari sono stati completati e non appena ci si trovi di fronte a una buona opportunità di riuscita. Tieni a mente che gli accordi per prenotare una squadra di intervento devono essere presi con parecchi mesi di anticipo. 200
Come aiutare l’adepto di un culto a cambiare e a crescere come persona Può sembrare che il processo di cambiamento di un adepto sia ben poca cosa rispetto alla sua fuoriuscita dal culto. Dopotutto, non è forse più importante allontanarlo fisicamente dalle persone che praticano su di lui il controllo mentale? Se una certa dose di impazienza è senz’altro comprensibile, è invece di vitale importanza capire che l’unico sistema per far uscire definitivamente una persona da un culto distruttivo consiste nell’aiutarla a ritrovare il contatto con il suo vero Io e ad iniziare una crescita che la conduca verso un obiettivo significativo. Tenendo a mente questo obiettivo a lungo termine, chiunque voglia aiutare l’affiliato di un culto dovrebbe concentrare i suoi sforzi su tre principali obiettivi a breve scadenza: il primo consiste nell’instaurare un rapporto di fiducia. Senza fiducia, nessun intervento potrà essere efficace. In secondo luogo bisogna raccogliere informazioni, e farlo nella maniera più dettagliata possibile: conoscere i pensieri e i sentimenti dell’adepto, insieme alla visione della realtà. Il terzo obiettivo è usare tecniche e strategie idonee a far nascere dubbi sul culto e a promuovere una nuova percezione dello stesso. 201
Instaura un rapporto di fiducia Nel momento in cui dovessi capire che un tuo caro è diventato un cultista, comportati come se non ne sapessi nulla. Non dire all’affiliato che sei ben informato sui culti e che hai contatti con persone che fanno parte di associazioni d’informazione e di ricerca sui culti. Questo comporterebbe la rottura del rapporto di fiducia esistente. Un atteggiamento di preoccupata curiosità è quanto di meglio si possa fare quando ci si relaziona con un adepto. E’ relativamente facile stabilire un rapporto di fiducia limitandosi a manifestare curiosità: in fondo non stai facendo altro che porre domande in maniera acritica. Quella persona ti sta a cuore, quindi vuoi sapere tutto ciò che è importante per lei. Mostra approvazione sia nei suoi confronti che nelle sue idee e le sue capacità. Stai però attento a mostrare soltanto un’approvazione condizionata circa la sua affiliazione al gruppo. Fagli sapere che non darai alcun giudizio fintanto che non avrai conosciuto tutti i fatti. In alcuni casi è bene far sapere che si ha una vaga sensazione che nel gruppo vi sia qualcosa che non vada per il verso giusto, ma che non si è sicuri di cosa si tratti. Se l’affiliato tende ad attribuire al gruppo il merito di tutto ciò che di positivo è riuscito a fare da quando vi ha aderito, per esempio non fare più uso di alcol o droga, digli che pensi che ciò è molto importante, ma ricordagli che il merito è suo e non del gruppo. Valuta il tuo attuale rapporto con l’adepto: è un buon rapporto basato sulla fiducia? Se così non dovesse essere, inizia a pensare come fare a ricostruirne uno. Ricorda che più saranno le persone esterne al gruppo che l’adepto sentirà vicine, e meglio sarà per lui: si sentirà più vicino ad alcuni piuttosto che ad altri, ma tutti dovranno cercare di essergli amici. Coordina il flusso di comunicazione, perché non sarebbe naturale se dieci persone gli scrivessero tutte contemporaneamente: non vogliamo certo che si insospettisca. Evita di inviargli dei soldi, soprattutto contanti, perché nella maggioranza dei casi verrebbero devoluti al gruppo. E meglio spedire vestiti, fotografie, libri e altri oggetti che abbiano un significato personale e duraturo. I biscotti “fatti dalla nonna” sono un sistema migliore per stabilire un rapporto di quanto possa esserlo una cartolina o un assegno. Chiedi all’adepto che cosa puoi fare per essergli vicino. Cerca di ottenere risposte precise. Fa’ del tuo meglio per soddisfare i suoi bisogni, ma fallo con intelligenza. Se ti chiede di leggere un libro del gruppo, digli che sei disposto a fare uno scambio e chiedigli di leggerne uno che tu gli proponi. Se ti dice che desidera che tu la smetta di criticare il gruppo, chiedigli il modo in cui poter comunicare i tuoi dubbi e le tue preoccupazioni senza che si metta sulla difensiva. Molta gente si è appellata alla propria creatività al fine di instaurare un rapporto di fiducia. Alcune persone hanno scritto poesie e racconti, altre hanno messo assieme dettagliati album di foto oppure dipinto quadri e ritratti. C’è chi ha mandato scarpe, giacche a vento e biglietti per spettacoli, sapendo che quella persona li avrebbe decisamente graditi. Vi è anche chi si è spinto a invitare l’adepto a fare un viaggio all’estero, riuscendo in taluni casi a tenere il soggetto abbastanza a lungo lontano dal gruppo da recuperarlo attraverso un counseling. 202
Raccogli informazioni significative Una volta che sarai riuscito a stabilire un rapporto, raccogliere informazioni ti sarà più facile. Più informazioni sarai in grado di mettere assieme, maggiore sarà la tua capacità di sapere che cosa accade nella mente dell’affiliato. Comunica con lui a scadenze regolari . Se potete vedervi, cerca di incontrarlo a tu per tu. E’ praticamente impossibile ottenere qualcosa parlando in presenza di due o più persone del culto. Aspettati che a un certo punto ti venga fatta la richiesta di parlare con qualche membro più anziano o con un capo. Temporeggia più che puoi. Dì all’interessato che è a lui che tieni, che ti fidi di lui e non hai alcun interesse a parlare con degli estranei. Per te è importante che sia lui a spiegarti ogni cosa. Se ti dice che non conosce tutte le risposte, puoi pacatamente fargli osservare che la cosa ti preoccupa, perché se non conosce le risposte, forse si è impegnato col gruppo prima ancora di essere realmente pronto. Suggeriscigli un piccolo passo indietro e di prendersi qualche settimana di tempo per studiare il gruppo in maniera obiettiva. Se il gruppo è a posto, allora non ha nulla da perdere, giusto? Le informazioni sono utili anche per capire fino a che punto quella per sona è stata indottrinata. Parlando con Bruce, mi sono potuto rendere conto a che punto fosse arrivato il suo coinvolgimento; dunque sapevo bene che raccontargli della cerimonia del giuramento dei moonisti avrebbe costituito per lui un forte shock. Una famiglia che sia in grado di stabilire le informazioni di cui l’adepto dispone fornirà un valido contributo al lavoro dell’exit counselor, andando ad accrescere le probabilità di successo. 203
Acquisisci abilità specifiche per stimolare una nuova visione del futuro Quando avrai stabilito un buon rapporto e avrai accumulato una sufficiente quantità di informazioni, l’ultimo passo da compiere consiste nell’acquisire le capacità e affinare le strategie al fine di minare o aggirare il controllo mentale usato dal gruppo. Fin troppe volte le persone cercano di saltare subito a questa fase senza aver prima portato a termine le altre due. Questo è un grave errore. Soltanto quando avrai accuratamente preparato il terreno di lavoro, il tuo intervento potrà essere veramente efficace. Ricorda che non è la nuova identità indotta dal culto quella con cui vuoi metterti in contatto; ciò che ti interessa è arrivare al vero Io del soggetto e rafforzarlo. Il modo migliore è riportargli alla mente le esperienze positive del passato. Facciamo un esempio pratico: un amico va a trovare un adepto e gli dice: “Ciao! Da quanto tempo non ci vediamo! Sai, oggi sono passato a vedere la nostra vecchia scuola e mi sono ricordato di quando andavamo là di primo mattino a giocare a pallamano sul muro. Ti ricordi di quella volta che l’insegnante di ginnastica ci rincorse per tutto il campo per sequestrarci la palla, dopo che avevamo rotto il vetro della finestra?”. Un padre potrebbe invece tentare un approccio di questo tipo: “Sai figliolo, l’altro giorno stavo armeggiando col telecomando e sono capitato su un programma dedicato alla pesca. E così mi sono reso conto che sono anni che non andiamo a pescare. Mi piacerebbe molto andare al lago con te, qualche volta, la prossima estate. Sarebbe così bello passare un pò’ di tempo da soli: io, te e i pesci”. Evocare sentimenti e ricordi può essere un mezzo potente per minare la programmazione del culto. Ma stai attento a non usare questa tecnica troppo spesso, perché potresti suscitare i suoi sospetti. L’essere in stretto contatto con l’affiliato e scavare nelle informazioni raccolte da familiari e amici può permetterti di trasmettere messaggi strategici. Ad esempio: se racconta a uno dei suoi vecchi amici che ha nostalgia dello sci, e quell’amico lo racconta alla famiglia, allora si potrà pianificare una gita in montagna, cui parteciperà anche l’amico. L’adepto penserà a una coincidenza o a un segno del cielo, e anche se non dovessero permettergli di raggiungervi, il tutto servirà comunque a fargli provare un forte desiderio di essere lì con voi. Ogni volta che gli parli, concentrati soltanto su uno o due argomenti. E’ molto meglio approfondire un solo tema di conversazione piuttosto che bombardarlo su più fronti. Ritornare su alcuni argomenti è poi altrettanto importante. Se ad esempio gli scrivi che hai visto uno dei suoi capi sostenere in TV che gli affiliati sono liberi di far visita ai familiari, puoi far cadere lì che parlando con lui qualche mese prima, ti aveva detto che per andare a casa doveva “chiedere il permesso”. Se gli hai fatto quest’osservazione per lettera o per telefono e non hai ricevuto risposta, allora riproponila. Chiedigli gentilmente, ma con fermezza, di spiegarti quella che in apparenza sembra essere una contraddizione: “Il leader stava mentendo? O eri tu che mentivi? Aiutami a capire, sono confuso”. Troppe volte le persone affrontano un argomento decisivo per poi lasciarlo cadere. Forse perché risulta loro difficile tornare a indagare su un argomento senza apparire minacciosi. Comunque sia, il ritornare sui problemi irrisolti può indurre il cultista a riflettere sulla contraddizione che abbiamo rilevato. Non inviare articoli critici se non ti sono stati richiesti, come fece invece il signor Marlowe. 204
Fornire informazioni non richieste porterà a un risultato più negativo che positivo. Se ritieni di essere in ottimi rapporti con l’adepto, allora cerca di discutere personalmente la questione. Se credi che passerà molto tempo prima che tu lo possa vedere, contattalo telefonicamente e parlagli dell’articolo. Illustrane il contenuto e poi, nel caso esprimesse il desiderio di leggerlo, digli che glielo farai avere a condizione che prometta di esaminarlo con te punto per punto. Molte persone commettono l’errore di non chiedere innanzitutto il permesso all’interessato. Oppure, quando invece lo fanno, finiscono poi col non dare più seguito alla cosa. Ricorda di comportarti sempre con naturalezza, senza alterare il tuo carattere abituale: l’adepto diventerà sospettoso se ti comporti diversamente dal solito. E non angosciarti nel terrore di commettere errori: se ti metti a pesare ogni parola e azione, finirai col bloccarti completamente. Impara dai tuoi errori: servirà a renderti più incisivo in futuro. Poiché ogni situazione è a se stante, nessun libro potrà soddisfare tutte le esigenze e i casi esistenti. In circostanze ideali, coloro che si avvedono per tempo che un amico o un proprio caro sta per finire in un culto distruttivo dovrebbero rivolgersi immediatamente a un esperto del settore. Ciò che più importa è non perdere tempo prezioso. Se conosci qualcuno che è in un culto da molti anni, inizia ad agire subito. Cosa faresti se questa sera ti telefonasse per dirti che domani vorrebbe tornare a casa per un po’? Anche se può sorprenderti, avvenimenti del genere (forse richieste d’aiuto) così improvvisi sono molto frequenti. Di solito, a quel punto è troppo tardi per preparare adeguatamente il terreno e approntare un intervento che abbia successo. Ecco perché la cosa migliore che si possa fare è prepararsi in anticipo per affrontare in maniera opportuna tale eventualità. Parla con altre famiglie che hanno vissuto questo tipo di esperienza. Incontrati con ex affiliati e parla con loro del problema; contatta exit counselor e altri professionisti. Se ti sarai preparato abbastanza e sufficientemente calato nel ruolo, ti ritroverai a condurre con successo una delle più ardue e appaganti sfide della tua vita.
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Capitolo 9 COME SBLOCCARE IL CONTROLLO MENTALE Al supermercato, negli ostelli della gioventù, in aereo: mi capita di incontrare gli affiliati di un qualche culto distruttivo pressoché ovunque, e ogni volta provo un tuffo al cuore, visto che io stesso un tempo sono stato vittima della medesima trappola. Quando mi trovo in presenza di un adepto, cerco sempre di tenere bene a mente di avere davanti uno schiavo, che è anche fratello o figlio di qualcuno. Ogni volta provo dentro di me un gran senso di gratitudine per il fatto di essere libero, di essere tra quei fortunati che ne è uscito grazie all’intervento di esperti. Ed è proprio perché sono stato aiutato, che cerco a mia volta di aiutare gli altri. In questi fugaci incontri, pur sapendo di avere a disposizione pochi minuti, tento comunque di dire o fare qualcosa che possa essere d’aiuto. So perfettamente che è quanto mai improbabile che io incontri di nuovo quella persona, ed è ciò che accade nella maggior parte dei casi. Solo di rado mi capita di avere resoconti dai quali apprendo che quell’incontro ha in qualche modo segnato il futuro di quell’individuo, magari a distanza di tempo. Nel 1980 decisi di mettermi attivamente alla ricerca di queste persone, per tentare di condurre dei mini interventi estemporanei. A quell’epoca avevo una gran voglia di applicare l’approccio non coercitivo dell’exit counseling: ogni adepto di un culto che incrociavo sulla mia strada costituiva un’opportunità per mettere a punto le mie tecniche. Questi mini interventi mi hanno insegnato maniere più efficaci di comunicare con gli affiliati, metodi che si sono poi rivelati le “chiavi” giuste per sbloccare il controllo mentale. In questo capitolo fornirò queste “chiavi”, corredando la descrizione con esempi concreti di come vengano applicate in corso d’opera. Per iniziare, le tre più importanti: • chiave n. 1: costruire un rapporto di fiducia; • chiave n. 2: comunicare perseguendo finalità ben precise; • chiave n. 3: sviluppare modelli di identità. Dopo aver presentato due esempi di interventi campione (e un mini intervento condotto su di me nel periodo in cui ero a mia volta membro di un culto), tratterà in maniera più estesa le chiavi che rendono possibile portare avanti un intervento fino alla sua conclusione positiva: chiave n. 4: entrare in contatto con l’Io pre-cultista; • chiave n. 5: fornire prospettive diverse da cui guardare la realtà; • chiave n. 6: aggirare il processo del blocco del pensiero fornendo informazioni in maniera indiretta; • chiave n. 7: visualizzare un futuro felice per superare la fobia indotta dall’ indottrinamento; • chiave n. 8: fornire definizioni precise del controllo mentale e delle caratteristiche di un culto distruttivo. 206
Chiave n. 1: costruire un rapporto di fiducia Ho già sottolineato l’importanza di tale fattore. Per costruire un rapporto possono essere d’aiuto svariate tecniche. La prima è semplicemente fare da specchio al linguaggio non verbale della persona con cui sto parlando, rimandandoglielo. Le domande che pongo e il tono da me usato non sono minacciosi. Mi astengo inoltre dall’emettere giudizi. La costruzione di un rapporto è una cosa che ognuno può imparare e sviluppare, proprio come andare in bicicletta o imparare una lingua straniera,
Chiave n. 2: comunicare perseguendo finalità ben precise Usata soprattutto nel mondo degli affari, la comunicazione finalizzata al raggiungimento di uno scopo rappresenta il modo migliore per influenzare deliberatamente una persona. Si tratta di una cosa radicalmente diversa dal tipo di comunicazione quotidianamente usata in famiglia o con gli amici. Quando ci troviamo con persone che conosciamo bene, normalmente non abbiamo remore a esprimere pensieri e sentimenti, dal momento che siamo “noi stessi” e non ci siamo prefissi alcun piano per influenzare il nostro interlocutore. Nel mondo degli affari, invece, le persone canalizzano i propri pensieri e li orientano verso scopi ben precisi, cercando il modo migliore di raggiungerli. I dirigenti sanno bene che se vogliono che i loro sogni diventino realtà devono portare avanti, passo dopo passo, un piano preciso. Poniamo a questo punto che io abbia individuato lo scopo (aiutare qualcuno a lasciare un culto) e studiato un particolareggiato piano d’azione. La seconda fase consisterà nello scoprire il tipo di persona che sto cercando di influenzare. Capire la persona “dal suo interno”, e non piuttosto da quanto appare all’esterno, è di fondamentale importanza. Ogni volta che un attore si prepara per il ruolo che deve interpretare, per prima cosa cerca di capire fino in fondo il carattere del personaggio e consulta tutte le fonti disponibili per scoprire come si comporterebbe. Successivamente si crea un modello mentale della persona che dovrà rappresentare e quindi “le entra dentro”, lasciando fuori la propria personalità, le proprie convinzioni e i propri valori. A questo punto l’attore prova a esprimersi e verifica se ottiene l’effetto desiderato. La regola è fare ciò che funziona. Se ciò che stai facendo non funziona, prova un approccio diverso, ma non dimenticare mai lo scopo che ti sei prefissato. 207
Chiave n. 3: sviluppare modelli di identità I familiari e gli amici possono fare ricerche accurate sull’affiliato che sperano di aiutare, raccogliendo su di lui quante più informazioni possibili. Per raggiungere il massimo dell’efficacia bisogna costruire tre modelli (o schemi mentali) che ci dicano chi è quella persona. Il primo è quello che mostra chi era la persona prima di entrare nel culto: cosa pensava di sé, del mondo, dei suoi rapporti, quali erano le sue forze e le sue debolezze. Questo schema rappresenta il modo particolare attraverso il quale l’interessato percepiva la realtà esterna. Il mezzo migliore per raccogliere queste informazioni è rappresentato da ciò che ha scritto o detto a parenti e amici. Il secondo modello è quello dell’adepto tipico di quel particolare culto. Qualsiasi ex membro può fornire un modello generale su come un moonista o l’adepto di un qualsiasi altro culto veda la “realtà”. In teoria si potrebbe recitare il ruolo dell’ adepto calandosi nei suoi panni, proprio come un attore recita la parte: ciò che qui importa è la caratterizzazione, anche se la parte è improvvisata. Ex adepti possono servire da istruttori, insegnandoti a pensare come se fossi un seguace. I familiari possono a turno interagire con il “membro del culto” come pure recitare di “essere” essi stessi l’adepto. Più faranno pratica e impareranno a calarsi nel ruolo, meglio potranno capire il suo modo di pensare. Il terzo modello è quello della persona attualmente nel culto. Ogni nuovo livello raggiunto nel culto comporta un leggero aggiustamento di tale modello. Mettendolo a confronto col modello del cultista in senso generale e con quello della persona reale, puoi distinguere con sufficiente precisione quando agisce come cultista e quando con il suo vero Io. Ricorda: ogni persona è un individuo a sé stante, e ogni adepto vive una lotta interiore tra la propria personalità e quella impostagli dal culto. In qualsiasi momento potrai notare il passaggio dall’una all’altra. Molte persone cercano disperatamente di combattere la personalità del culto ogni qual volta si renda possibile. Ci sono, ad esempio, gruppi che impongono ai propri adepti di essere vegetariani e di non usare né droghe né alcol. Eppure mi è capitato di ascoltare dai diretti interessati di come spesso cercavano di uscire dalla comunità senza essere visti, e guidavano poi per chilometri per raggiungere un posto dove poter mangiare un hamburger e bere una birra. Un parente o un amico che abbia un buon rapporto con l’adepto potrebbe scoprire questi cedimenti e far buon uso di tale informazione. Il passaggio dal vero Io all’Io cultista può avvenire in ogni momento. Questi sono i tre modelli che normalmente utilizzo nel counseling. Prima di incontrare il soggetto, cerco di completare il più accuratamente possibile questi tre quadri di riferimento. Quando poi sono con lui, ho l’opportunità di definirli ulteriormente, ponendo domande specifiche. Tempo tre giorni e sono in grado di sviluppare schemi di riferimento altamente dettagliati di quella persona. Proprio come un attore, riesco a entrare nel ruolo e a sentirmi come se fossi la persona che sto cercando di recuperare: riesco a calarmi nella sua “realtà”. Nel corso dell’intero procedimento terapeutico, passo di continuo da un ruolo all’altro. Fingo di essere la persona quale essa è in quel momento (vale a dire quella affiliata al culto) e provo il mio modello intessendo con lei una conversazione immaginaria e anticipando le sue possibili risposte. Poi rivolgo la medesima domanda alla persona reale e annoto quanto sono stato in grado, nella finzione, di avvicinarmi alla realtà. Via via che il recupero procede, sono sempre più in grado di perfezionare il modello. Più il rapporto che stabilisco è profondo, più facilmente otterrò l’informazione che desidero. Più velocemente sono in grado di costruire un accurato modello dell’adepto, e prima potrò “calarmi” in lui. Una volta “diventato” quella persona, potrò sapere cosa è necessario dirgli o fare perché riacquisti il controllo della propria vita. In effetti, è la personalità “originale” che mi mostra come aprire quella porta. Essa mi dice quali sono le chiavi che devo usare, dove le devo inserire e in quale ordine. Un esempio pratico di questo processo di riscoperta può essere ricavato dal seguente dialogo, svoltosi tra me e il giovane affiliato di un culto imperniato sulle tecniche meditative, diretto da Maharaj Ji. 208
Un intervento tipo: Gary e la Divine Light Mission “Sono curioso: da quanto tempo sei nella Divine Light Mission?” chiesi al giovane che avevo davanti, gettando un’occhiata agli opuscoli che si portava dietro. Entrambi stavamo aspettando l’autobus. “Da circa sette anni” rispose. I suoi occhi si mossero lentamente fino a incontrare i miei. “È un bel po’ di tempo” rimarcai, “quanti anni avevi quando vi sei entrato?”. Mi sforzavo di dare alla mia voce un tono innocente, da vecchio amico. “Vent’anni”, rispose il ragazzo. “Io sono Steve” gli dissi, porgendogli la mano. “Scusami se disturbo... Come ti chiami?”. “Mi chiamo Gary” disse un po’ sconcertato. Mi guardava come se non riuscisse a inquadrarmi. “Gary, è solo una curiosità personale: mi puoi dire che cosa facevi all’epoca?”. “Perché lo vuoi sapere?” chiese perplesso. “Mi piace parlare con persone che hanno operato scelte poco consuete. Cerco di capire perché le persone fanno le cose che fanno” azzardai a mo’ di spiegazione, stringendomi un po’ nelle spalle. “All’epoca lavoravo in un cantiere edile, fabbricavo palazzi” disse, sciogliendosi un po’. “E oltre a questo?”. “Oh! Beh... Mi piaceva bighellonare con gli amici e amavo molto gli animali. Avevo due cani, un gatto, qualche pesce tropicale e un coniglio”. Un caldo sorriso gli illuminò il viso mentre ricordava i suoi amici e i suoi animali. “Oh! Vedo che ti piacevano proprio. E chi era il tuo favorito?”. “Beh, il mio cane Inferno, che aveva un posto speciale nel mio cuore. Lui e io eravamo amici per la pelle”. “Che cosa lo rendeva tanto speciale?” mi informai. “Era uno spirito indipendente. Amava l’avventura. Gli piaceva venire con me nei boschi” rispose il ragazzo. Era evidente che aveva molta nostalgia del suo cane. “Dunque ti piacciono gli spiriti indipendenti. Ammiri chi fa le cose in cui crede nonostante ciò che può dire la gente”. Stavo cercando di dare un pò’ di carica a Gary, spingendolo a ricordare le qualità che ammirava maggiormente. “Esatto. Inferno faceva ciò che voleva. E io lo amavo anche per questo” affermò Gary, un po’ sulla difensiva. “E dunque: cos’è che ti ha fatto decidere che la Divine Light Mission era il gruppo in cui volevi passare il resto della tua vita?”. “Non ho mai considerato la cosa in questi termini” rispose, mentre la sua faccia si rabbuiava. “Ma allora, che cosa ti ha attirato?” domandai ancora. 210
“All’epoca la mia ragazza Carol iniziò a partecipare alle satsang, le riunioni di gruppo, e io ci andai con lei. Ascoltammo le persone parlare e tutti dicevano come fosse meravigliosa quell’esperienza della conoscenza, e di come li facesse sentire”. “Fosti tu ad essere iniziato per primo o Carol?”. “Lei fu la prima. Sulle prime pensai che fosse tutto un po’ strano. Ma dopo che ebbe iniziato a meditare, divenni curioso e decisi di provare anch’io” disse, facendomi capire che in fondo era un poco scettico. “Che anno era?” mi informai. “Il 1973”. “E all’epoca che cosa pensavi di Maharaj Ji?” volli sapere. “Pensavo che fosse un tizio arrivato dall’India per condurci in un’era di pace mondiale” disse, con un tocco di sarcasmo. “C’eri anche tu alla grande riunione dell’Astrodomo di Houston?”. “Sì”. “E che ne è stato di Carol?”. “Non so. Abbiamo rotto dopo pochi mesi che eravamo entrati nel gruppo” rispose Gary, nuovamente scuro in volto. “Quando è stata l’ultima volta che le hai parlato?”. “Circa quattro anni fa mi scrisse una lettera in cui diceva che aveva deciso di tornare a studiare e che non avrebbe più seguito il gruppo”. “Perché aveva deciso di andarsene?” chiesi con aria interrogativa. “Non me lo ricordo” rispose Gary, guardando per terra. “Così, la persona che ti ha portato nel gruppo l’ha lasciato quattro anni fa”, ribattei. “Già”. “E tu non hai mai cercato di incontrarla per capire come mai, dopo tre anni, aveva lasciato il gruppo?” chiesi ancora con enfasi. “Perché mi guardi così?” domandò Gary alzando lo sguardo e guardandomi in viso. Sorrisi, poi abbassai gli occhi. Quando rialzai lo sguardo, lo fissai dritto negli occhi: “Beh... onestamente, proprio non capisco, Gary. Se la mia ragazza avesse lasciato il gruppo in cui proprio lei mi aveva introdotto, avrei certamente cercato di discutere con lei e tentato di capirne la ragione. Dopo tre anni, deve certo aver avuto un buon motivo per lasciarlo. E doveva chiaramente tenere a te, se ti ha scritto per comunicarti la sua decisione”. 211
Feci una pausa di un paio di minuti, mentre Gary stava lì in silenzio. Poi continuai: “Immagino che tu non sappia più come metterti in contato con lei”. “In effetti credo che i suoi genitori abitino sempre allo stesso indirizzo. Potrei guardare sull’elenco telefonico”. “Potrebbe essere una buona idea. Bene, buona fortuna Gary. E stato bello parlare con te. Grazie”, gli dissi, mentre arrivava il mio autobus. Mi salutò con la mano mentre il mio bus si allontanava. Questa conversazione dimostra quanto si possa fare, solo in pochi minuti, per aiutare qualcuno che si trova in un culto che esercita il controllo mentale. Durante quel breve lasso di tempo fui in grado di stabilire un rapporto, raccogliere importanti informazioni su Gary e usare quanto avevo saputo per aiutarlo a fare un passo molto importante, forse in direzione della sua fuoriuscita dal gruppo. Come ho già detto, costruire un rapporto è essenziale per poter esercitare una qualche influenza. Se avessi assunto un atteggiamento troppo minaccioso o troppo accondiscendente, non sarei arrivato a nulla. Dal momento che il mio atteggiamento aveva invece denotato curiosità e interesse, Gary fu contento di passare un po’ di tempo a chiacchierare con un estraneo dai modi amichevoli. Una volta saputo da quanto tempo Gary stava nel gruppo, riuscii ad accertarmi in fretta che non vi era poi così attaccato, come avrebbero potuto far supporre i suoi sette anni di adesione. Fu dunque facile riportargli alla memoria episodi della sua vita pre-cultista. Ricordando il passato, Gary poté entrare in contatto con la sua vera personalità e con il suo vero modo di pensare, sentire e agire, quelli che erano suoi prima che venisse indottrinato. Non solo ricordò il suo cane preferito, ma parlò anche di come ne apprezzasse lo spirito indipendente e avventuroso: un’informazione preziosa, nel tentativo di sciogliere il suo settennale impegno con il culto. Gary riuscì anche a ricordare che cosa pensasse del gruppo prima di esserne coinvolto. Aveva fatto un passo indietro nel tempo e aveva guardato al gruppo da un’ottica pre-cultista, ricordando che lo aveva giudicato un po’ bizzarro. All’epoca non pensava certo di impegnarsi per tutta la vita. Un’efficace strategia per un test di realtà è quella di andare indietro nel tempo mantenendo il punto di vista attuale, e chiedere: “Se avessi saputo allora ciò che sai oggi, avresti fatto la medesima scelta?”. Nel caso di Gary, forse la risposta sarebbe stata no . Poi, mentre cercavo di raccogliere ulteriori informazioni, Gary mi lasciò di stucco raccontandomi che la sua ex ragazza Carol, responsabile del suo reclutamento, aveva lasciato il gruppo. Poiché chiunque sotto controllo mentale viene condizionato alle paure legate alla fuoriuscita dal gruppo, non mi sorprese sapere che Gary non conosceva i motivi per i quali lei se ne fosse andata. Quattro anni prima non era stato in grado di prendere in considerazione l’eventualità di poterle parlare, pur essendo stata Carol la sua più intima amica. Comunque, mi fu chiaro che Gary era ancora curioso di sapere perché la ragazza avesse lasciato il gruppo e che si trovava in un punto del percorso in cui poteva finalmente considerare la possibilità di parlarle: da parte mia, l’avevo soltanto aiutato a prender ne coscienza. 212
Una delle mie prime esperienze di mini intervento Quando lasciai i moonisti, presi a setacciare i miei ricordi nel tentativo di ricordare tutte le volte che avevo avuto dubbi o perplessità; mi resi conto allora, per la prima volta, che in svariate occasioni mi ero ritrovato a pensare “fuori” dallo schema mentale del gruppo. Anche se queste esperienze non erano state abbastanza forti da indurmi a uscirne, si dimostrarono però significative una volta che fui de-programmato. Una di esse riguardava una persona che avevo casualmente incontrato un giorno, e che aveva dimostrato interesse e preoccupazione nei miei confronti. Era una giornata afosa e mi trovavo a Manhattan per cercare di fare un po’ di soldi per il gruppo, di cui ero entrato a far parte ormai da un anno. Avevo avvicinato un uomo che doveva avere all’incirca sessant’anni e gli avevo chiesto se voleva comprare dei fiori. “Ragazzo, perché vendi fiori?”, mi chiese con un rassicurante sorriso. “Per finanziare programmi per giovani cristiani” risposi, sperando di vendergli una dozzina di garofani. “Cielo, hai un aspetto veramente accaldato” rimarcò. “Sì signore, ma questa causa è molto importate e quindi non mi importa”. “Perché non vieni con me al bar e prendi qualcosa di fresco?”. Pensai tra me e me che si trattava di una persona gentile, ma che avrebbe dovuto comprare dei garofani, altrimenti non ci sarebbe stato alcun rapporto col “Padre”. Poi però mi venne in mente che Gesù aveva detto che chiunque faccia bere un assetato fa il volere di Dio. “Solo cinque minuti. Ti sentirai rinfrescato e potrai vendere molti più fiori”: il suo era diventato adesso un sorriso di complicità. “Va bene. Grazie molte” risposi, mentre entravamo in un bar con l’aria condizionata. Era così piacevole sfuggire alla morsa del sole. Quando ci fummo seduti a un tavolo, il mio interlocutore esordì: “Allora, raccontami qualcosa di te”. “Dunque... sono cresciuto in una famiglia di ebrei nel Queens” iniziai. “Oh! Così sei ebreo. Lo sono anch’io” mi disse con un caldo sorriso. Mi ritrovai a pensare che quella persona forse era stata inviata da Dio. Per raccogliere fondi ci era stato ordinato di non dedicare più di due minuti a persona, ma dal momento che la mia attività principale consisteva nel fare proseliti, e che solo casualmente quel sabato mi ritrovavo a dare un aiuto alla raccolta, pensai che non ci sarebbero stati problemi se avessi passato qualche minuto in più con lui. 213
Rimanemmo a parlare per almeno mezz’ora. Il mio interlocutore aveva fatto in modo che fossi io a parlare per quasi tutto il tempo e in quella mezz’ora mi venne una grande nostalgia, non solo dei miei familiari e amici, ma anche del basket, delle mie poesie, dei miei libri. Prima di lasciarci, insistette perché telefonassi a casa e mise lui stesso i soldi nel telefono. Ricordo che pensai che quell’uomo mi ricordava mio nonno, che amavo molto, e non ebbi il coraggio di rifiutare. E poi, se io avessi rifiutato di parlare con i miei genitori, avrei creato una brutta immagine del gruppo cui appartenevo. Così parlai con mia madre per un paio di minuti. Dopo di che sentii che dovevo allontanarmi di corsa da quell’uomo. La personalità indotta dal culto si stava manifestando violentemente. Mi sentii in colpa perché non ero fuori a far soldi e a dire alle persone di “pagare un obolo” per avere un filo diretto con Cristo. Ma quell’episodio mi aveva spiazzato e non mi riuscì di vendere fiori per tutto il resto della giornata. Un dirigente dei moonisti mi disse poi che avendo accettato di andare al bar a bere una bibita, non ero riuscito a oppormi alla tentazione in cui Satana mi aveva trascinato. Come discepolo avevo fallito e così avevo crocifisso Gesù ancora una volta. Quella sera pregai e mi pentii e cercai di scacciare ogni ricordo di quanto era avvenuto. Non pensai più a quell’esperienza fino a quando non venni deprogrammato. 214
Un altro intervento: Phil e gli Hare Krishna Quella che segue è la descrizione di una parte dell’intervento da me effettuato su Phil, da tre anni discepolo degli Hare Krishna. Phil era rimasto coinvolto nel gruppo sei mesi dopo che suo fratello gemello aveva perso la vita in un incidente stradale. Il lutto aveva colpito duramente la famiglia e fatto piombare Phil in una grave depressione, durante la quale aveva avuto pensieri di suicidio. Niente sembrava più poterlo aiutare, né i farmaci né la terapia. Poi un giorno, mentre camminava verso il centro della città, fu avvicinato da un adepto degli Hare Krishna. Incontrai Phil durante una delle sue rare visite a casa e venni presentato come l’analista di famiglia che stava lavorando, già da parecchi mesi, con i genitori e i fratelli. Gli dissi che avevo bisogno di parlare con lui da solo, prima di andare avanti con la terapia familiare. Gli dissi inoltre che pensavo fosse un componente di fondamentale importanza per la famiglia e che la sua partecipazione sarebbe stata molto apprezzata, visto che in casa si sentiva la sua mancanza. Dopo essermi presentato, gli suggerii di uscire a fare una passeggiata, in modo da poterci conoscere. Phil indossava il tipico abbigliamento arancione dei Krishna e aveva sandali ai piedi. Passai i primi cinque minuti a parlargli del mio curriculum e della mia specializzazione in tecniche di comunicazione e dinamiche familiari, e di come cercavo di aiutare le persone a stabilire migliori rapporti interpersonali. All’epoca lui usava il nome di Gorivinda. “Allora Gorivinda, Phil, ti dispiacerebbe dirmi cosa provi ora nei confronti della tua famiglia?” chiesi, mani infilate in tasca e sguardo rivolto a terra. “Non so” rispose lui, facendo spallucce “Beh... sei contento del rapporto che hai con tua madre? E con tuo padre? Con i tuoi fratelli?”. “Le cose vanno molto meglio da quando hanno smesso di criticare il mio impegno religioso”. “Come ti senti quando vieni a trovarli?” gli chiesi cercando di essere il più gentile possibile. “A essere onesti, mi sembra un po’ strano” osservò. Fui lieto di quella risposta: “Che vuoi dire?”, rilanciai per saperne di più . “Beh, è come essere in un altro mondo. E’ così diverso dalla vita di devozione al tempio”. “Provi mai sentimenti positivi quando vieni a casa?” continuai. “Sì”, disse con fervore. “Amo moltissimo i miei genitori, le mie sorelle e mio fratello”, Poi riprese il controllo di sé e aggiunse: “Ma vivono in un mondo materiale”. “Capisco” dissi un po’ scoraggiato dal fatto che avesse ripreso a parlare come un cultista. “Ti andrebbe di parlare di tuo fratello gemello e di cosa ha significato per te la sua morte?” gli chiesi, nella speranza di riportarlo indietro alla sua personalità pre-cultista. “Perché?” chiese sospettoso. “Perché credo che la tua famiglia stia ancora soffrendo per quella tragedia” dissi, sperando che abboccasse. 215
Non appena ebbi pronunciato tali parole, Phil scoppiò in un pianto dirotto, scosso da tremiti e singhiozzi. Fui sorpreso dalla violenza delle sue emozioni. Poi congiunse le mani e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. Pensai tra me e me che stava cantilenando per bloccare i suoi pensieri. Dopo un po’ riuscì a riacquistare la calma. “Tom e io eravamo molto uniti” esordì, iniziando a perdere di nuovo il controllo di sé. “Parlami di lui, di quando era vivo” chiesi. “Com’era? Che cosa gli piaceva fare?”. Il viso di Phil si illuminò ricordando suo fratello. “Tom era intelligente, energico, dotato di un gran senso dell’umorismo. Tra noi due era lui il più vitale. Era sempre lui che mi stimolava a fare le cose”. “Cosa pensi che farebbe, oggi, se non avesse avuto quell’incidente?”. Speravo di portare Phil a pensare al tipo di vita che Tom avrebbe avuto. “Questa è una domanda difficile”. “Pensi che anche lui si sarebbe unito agli Hare Krishna?” chiesi con un sorriso. “No, mai”, affermò PhiI senza alcuna esitazione. “Tom non è mai stato religioso, anche se era molto spirituale”. “Allora cosa credi avrebbe fatto?”, lo incalzai. “Diceva sempre che voleva entrare nel campo dei mezzi di comunicazione. Forse lavorare alla televisione” spiegò Phil, “voleva fare l’anchor man nel notiziario delle sei”. “Così gli piaceva il mondo dell’informazione. Amava anche il giornalismo d’inchiesta?” domandai. Contavo sul fatto che se avesse risposto di sì, in un secondo momento avrei potuto continuare in quella chiave. “Era quello che amava di più!”. Avevo colpito nel segno. Prima però decisi di esplorare un altro punto. “E a te, cosa ti sarebbe piaciuto fare all’epoca?”. “In quel periodo? Volevo diventare un musicista” disse con entusiasmo. “E’ vero: tua sorella mi ha detto che suonavi la chitarra elettrica e che componevi canzoni”. Sentivo che Phil era sul punto di fare una di quelle importanti associazioni in cui tanto speravo. “Volevi formare una band e incidere dischi, tutto allo stesso tempo?” chiesi, tentando di fargli ricordare il più possibile. “Sicuro. Mi piaceva moltissimo la musica. Ricordo che cantavo le mie canzoni assieme a Tom. Talvolta mi aiutava anche a scrivere le parole” disse con orgoglio. “Sognavi dunque di diventare un giorno un musicista, che avresti avuto una vita felice e spiritualmente appagante?” gli chiesi, incoraggiandolo con un cenno di approvazione. Volevo che riuscisse a ricordare di se stesso il più chiaramente possibile e che si ancorasse a quell’immagine di sé. “Ci puoi scommettere!” Phil, gli occhi sognanti, stava evidentemente appagandosi della sua visione. 216
“Certo dev’essere emozionante essere lì sul palcoscenico, cantare le tue canzoni e sentire il pubblico che risponde entusiasta perché è stato raggiunto dalla tua creatività...”. Volevo che Phil sentisse quanto fosse bello essere musicisti. “Sì, è una sensazione meravigliosa”. “Immagino. Deve essere bello godersi la propria musica, magari con i tuoi amici seduti lì ad ascoltarti, e sapere che ti ammirano e hanno rispetto del tuo talento. E magari sei anche sposato e hai dei bambini”, continuai. Sapevo che mi stavo spingendo un po’ oltre, ma l’aggiunta della moglie e dei bambini alla visione d’insieme sembrava piacergli. Aspettai qualche minuto in silenzio che Phil ritornasse dal suo piacevole viaggio. “Ora ho un’altra domanda”. Feci una pausa e respirai profondamente. “Che cosa pensi direbbe Tom se ti vedesse oggi negli Hare Krishna?”. Phil rimase un po’ sconcertato. Poi disse: “Si farebbe una bella risata e mi direbbe di tornare al mondo reale. Non potrebbe mai capire!”. Era esattamente la risposta che aspettavo. Decisi di insistere. “Se adesso Tom fosse seduto proprio qui, come gli spiegheresti il fatto di essere entrato negli Hare Krishna?”. Confesso che non mi aspettavo che Phil scoppiasse a piangere. Continuò a singhiozzare convulsamente per cinque minuti buoni, mentre eravamo seduti uno accanto all’altro, in quel parco tranquillo. Phil si strinse le braccia intorno al petto, abbracciandosi, e prese a dondolarsi avanti e indietro. Il forte pianto sembrava affondare le radici nel profondo del suo animo ed io ero combattuto sull’opportunità di mettergli un braccio attorno alle spalle e confortano. Decisi di non interrompere il suo sfogo. E finalmente, il pianto cessò e Phil si riprese. Lo guardai con affetto e decisi di porre di nuovo la domanda. “Davvero, che cosa avresti detto a Tom?”. Phil si asciugò gli occhi e fu categorico: “Senti, non ne voglio parlare più, va bene?”. Feci un cenno d’assenso con la testa e rimasi in silenzio ancora un pò: volevo farlo riflettere su quella domanda nella speranza che trovasse la risposta nel suo cuore. Suggerii di fare altri due passi, perché volevo cambiare argomento. “Ci sono un altro paio di cose che vorrei discutere con te, prima di tornare a casa”. E aggiunsi: “Se potessi metterti nei panni dei tuoi genitori, come pensi ti sentiresti se avessi perduto un figlio?”. “Cosa?” chiese guardandomi. “Immagina di essere al posto di tua madre. Ha portato te e Tom nel suo ventre, vi ha messi al mondo, vi ha nutrito, cambiato i pannolini, lavati. Vi ha curati quando eravate malati. Ha giocato con voi, vi ha guardato crescere e diventare adulti. Riesci a immaginare come dev’essersi sentita quando ha perso Tom?”. “Sì. E stato terribile”. Lo disse come se fosse stato davvero al posto della madre. “E tuo padre? Fermati un attimo a pensare come deve essere stato per lui” aggiunsi. 217
“Mio padre era il più vicino a Tom. È stato davvero un duro colpo per lui”. “Sì”, concordai. “Ora puoi immaginare come si siano sentiti quando hanno visto l’altro figlio deprimersi al punto di volersi suicidare e poi, alcuni mesi dopo, cambiare nome, rasarsi la testa e aderire a un gruppo così controverso”. “Dev’essere stato orribile. Al loro posto, mi sarei arrabbiato. Mi sarei sentito come se di figli ne avessi perduti due”. “E’ esattamente quello che mi hanno detto” affermai. “Te ne rendi conto adesso? Ecco perché erano così critici verso il gruppo, quando sei entrato a fame parte”. Feci una pausa per permettergli di soppesare quanto gli avevo appena detto. “Mi piacerebbe sapere cosa è avvenuto dentro di te quando hai avuto il primo incontro con un adepto del gruppo. Che cosa ha attirato la tua attenzione? Che cosa ti ha spinto a volerne sapere di più?”. Phil rivolse lo sguardo al cielo per un attimo, poi riportò lo sguardo a terra e fece un profondo sospiro. “Beh, quando mi chiese perché avessi quell’aria depressa gli raccontai della morte di Tom. Gli dissi che non riuscivo a capire perché fosse accaduto a una persona tanto meravigliosa: non mi sembrava proprio giusto. A quel punto lui iniziò a spiegarmi le leggi del karma e come questo mondo materiale sia, comunque, solo un’illusione. Mi disse che dovevo essere felice perché Tom aveva lasciato questo livello di coscienza, cosa che gli avrebbe permesso di reincarnarsi in un essere spiritualmente più evoluto, nella sua vita successiva”. “Capisco. Così quel seguace ti ha dato una spiegazione che ha acquietato la tua paura e la tua confusione”. “E il mio senso di colpa” aggiunse Phil. “Colpa?”. “Sì. Vedi, quel giorno avevo chiesto a Tom di andare a comprarmi un’altra corda per la chitarra. È là che stava andando quando ha avuto l’incidente”. “Così hai dato a te stesso la colpa per la sua morte, ritenendo che se non gli avessi chiesto di andare in quel negozio non avrebbe mai avuto l’incidente?”. “È così”, confermò Phil con tristezza. Pensai che dovevo fare in modo che Phil guardasse la cosa da un’altra angolatura. “Se Tom fosse morto nel lago mentre nuotava, ti saresti rimproverato perché non gli eri vicino in quel momento?”. Ci pensò su, poi disse: “Forse”. “Riesci a immaginare Tom morire in un modo che non ti faccia senti re in colpa?”. Fece di nuovo una pausa prima di rispondere. “Penso di no.. Ma rimane il fatto che stava andando al negozio per me”. 219
“Non è possibile che dovesse comprare qualcos’altro o avesse una commissione da fare? Non è possibile che abbia deciso di fare una strada diversa da quella abituale e che l’incidente sia avvenuto là?” chiesi. Phil sembrava perplesso. “Come si sentirebbe Tom, ora, se fossi stato tu ad andare al negozio e a morire?” domandai. “Sarebbe caduto in depressione, avrebbe pensato al suicidio e si sarebbe unito agli Hare Krishna?”. Phil si mise a ridere. Sapevo di aver fatto centro. Fu lui che di lì a poco cominciò a farmi domande. “Che cosa ne pensi degli Hare Krishna, Steve?”. Pensai che stesse cercando davvero di compiere una verifica della sua “realtà” e non di trovare in me delle pecche per potermi scaricare. “Questa sì che è una bella domanda” dissi, grattandomi la testa. “Lo voglio sapere”. “Il mio ruolo come professionista è quello di consulente e non quello di emettere giudizi di valore su cosa le persone fanno della loro vita. Anche se ho le mie idee”. “Vorrei sapere cosa ne pensi da un punto di vista strettamente personale” disse Phil con calma. “Beh, a voler essere onesti, ti dirò che mi preoccupano alquanto. Vedi, quattordici anni fa io stesso ho aderito a un gruppo religioso che la mia famiglia disapprovava. Anch’io ero depresso prima di incontrarne i seguaci e non ero sicuro di quello che volevo fare della mia vita. All’epoca pensavo che i miei stessero interferendo con il mio diritto di adulto di scegliere ciò che volevo fare”. “Quale gruppo?” chiese Phil. Decisi di rispondere fornendo dapprima il nome completo del gruppo: “L’Associazione dello Spirito Santo per l’unificazione del cristianesimo mondiale” dissi, “E’ conosciuta anche come Chiesa dell’Unificazione. Comunque sia, fui un membro devoto per più di due anni. Dormivo tre ore per notte e facevo digiuni perfino di una settimana alla volta, bevendo solo acqua”. “E’ un lungo digiuno” osservò Phil ammirato. Sentivo che stava attento a non perdere neppure una parola di quanto gli andavo dicendo. “Già. In una settimana persi circa sette chili. In ogni caso, il mio gruppo considerava il capo alla stregua di uno dei più grandi maestri apparsi sulla faccia della Terra. Di fatto credevamo che si fosse incontrato con Gesù, Buddha, Maometto, Krishna e tutti gli altri grandi profeti”. “E tu ci credevi?”. Era stupito. “Sì. Noi credevamo in un mondo dello spirito. Credevamo che ogni qual volta qualcuno morisse, così come è successo a Tom, ciò avvenisse perché doveva pagare una colpa commessa dai suoi antenati. Così, un altro familiare poteva aderire al gruppo, servire l’uomo che veneravamo come il Messia vivente e poi, in seguito, intervenire per chiedere la salvezza della persona trapassata. In tal modo Dio avrebbe potuto non solo riportare il mondo intero al suo stato originario di bontà, ma anche riportare nel mondo dello spirito gli esseri spirituali, incapaci di progredire se non nutriti da ‘elementi vitali’ forniti da coloro che erano sulla Terra”. 220
Phil ascoltava a bocca aperta. Chiese: “Davvero credevi in tutto questo?”. “All’epoca, senz’altro” affermai. “Vedi, nella chiesa i proseliti non avevano il permesso di porre domande critiche su quello che il capo diceva o faceva. Ci era stato insegnato a credere che qualsiasi critica al capo o alla dottrina del gruppo era ‘negativa’ e suggerita da spiriti maligni. Ci veniva insegnato a chiudere le nostre menti, bloccando il pensiero con la tecnica delle cantilene. Ogni qual volta avessimo un dubbio, o sentissimo nostalgia di casa, dovevamo bloccare la mente”. “Come hai detto che si chiamava il gruppo?”. “La Chiesa dell’Unificazione” risposi. “Probabilmente li conosci come moonisti”. “Tu stavi con i moonisti? No, non ci posso credere!” esclamò Phil. “E la verità. Ero un fedele seguace di Sun Myung Moon. Avrei affrontato sorridendo la morte, se me lo avesse chiesto” replicai. “E’ incredibile!” commentò Phil. “Non solo, ma eravamo letteralmente condizionati a credere che semmai avessimo lasciato il gruppo, le nostre vite sarebbero state distrutte” continuai. “Ci veniva detto che sarebbe stato un tradimento nei confronti di Dio, del Messia, di dieci generazioni di nostri antenati, del mondo intero, se ce ne fossimo andati. Tutti i nostri parenti nell’aldilà ci avrebbero condannati in eterno, se avessimo tradito Dio. Era veramente pesante. Ci venne anche imposto di evitare tutti gli ex affiliati, perché posseduti dal male. Ci avevano indotto a credere che se un amico lasciava il gruppo, andava considerato posseduto dagli spiriti demoniaci. Puoi metterti nei miei panni e immaginare come mi sentissi?”. “E’ incredibile! Come ne sei uscito?”. Gli raccontai brevemente dell’incidente che mi era capitato e della de- programmazione cui ero stato poi sottoposto. “Hai opposto resistenza?” chiese Phil. “Certo. Nel gruppo si parlava di de-programmazione. Mi era stato detto che torturavano le persone e cercavano di piegare la loro fede in Dio. Ovvio che cercassi di sottrarmi, ma con una gamba rotta e senza stampelle non potevo certo andare molto lontano”. “E allora che cosa ti ha spinto a lasciare il gruppo?” chiese Phil, ed era evidente che aspettava con ansia di conoscere la risposta. Spiegai a Phil tutte le cose che avevo imparato durante l’intervento condotto su di me. Gli dissi che mi ero reso conto che gli ex affiliati non avevano perso la loro fede e che erano veramente brave persone. Li descrissi come individui che avevano deciso di lasciare i gruppo perché non volevano più seguire un demagogo interessato a creare un mondo in cui ognuno doveva essere il clone dell’altro in tutto per tutto: pensieri, sentimenti, azioni. Gli ex adepti credevano che Dio avesse donato all’umanità il libero arbitrio per consentire alle persone di fare la cosa giusta, e non per essere costrette con il controllo mentale a fare ciò che un altro pensava fosse giusto per loro. Gli dissi che qualsiasi gruppo dicesse ai suoi proseliti che non dovevano pensare ma solo ubbidire ciecamente, era un gruppo pericoloso. Gli feci osservare che qualsiasi gruppo che non permettesse ai suoi affiliati di parlare con ex adepti o leggere materiale critico, stava di fatto controllando le fonti di informazione, mettendo in atto una componente essenziale del controllo mentale. 221
Aggiunsi che durante il mio recupero, mi erano tornate alla memoria le domande specifiche che avevo posto a me stesso e le precise contraddizioni che avevo notato; elementi che non avevo mai avuto il tempo di ponderare attentamente, dal momento che vivevo perennemente circondato da altri seguaci e anche perché, in veste di discepolo devoto, ero costretto a mettere in atto il blocco del pensiero. Una volta spronato a rientrare in contatto con il mio vero Io e a riconsiderare obiettivamente tutta l’esperienza vissuta, mi resi conto che ero stato veramente infelice nel gruppo: avevo rinunciato alla mia individualità, alla mia creatività, alla mia autonomia. “Anch’io avevo a mia volta fatto proseliti e li avevo indotti a entrare nel gruppo e a comportarsi nel medesimo modo. Caro Phil, ho vissuto profondi sensi di colpa per le cose che ho fatto mentre ero nel gruppo”. Prima di tornare a casa parlammo a lungo. Dissi alla famiglia che forse era meglio aspettare un paio d’ore, prima di iniziare la terapia familiare: era logico che Phil volesse stare un po’ da solo a riflettere. La seduta di terapia familiare che seguì si sviluppò attorno al lavoro che avevo fatto con Phil. Quella sera, quando concludemmo l’incontro, la famiglia aveva comunicato a Phil che avrebbe fatto piacere a tutti se si fosse messo in condizione di ascoltare “tutta la storia”. Phil accettò di passare alcuni giorni ad ascoltare e a parlare con ex affiliati e a riconsiderare il suo coinvolgimento con gli Hare Krishna. Trovammo diverse persone disposte a sostenerlo in questo processo e io fui in grado di aiutare i suoi familiari a risolvere alcune delle loro sofferenze e dei loro conflitti. Alla fine, Phil decise di lasciare il gruppo. Oggi ha intrapreso la carriera di musicista.
Ogni serratura ha la sua chiave Nel mio intervento con Phil non solo avevo costruito un rapporto di fiducia, ma avevo anche impiegato tecniche comunicative finalizzate al raggiungimento di uno scopo e sviluppato un modello della sua personalità. Ho poi deliberatamente cercato di far sì che Phil guardasse la sua situazione da una prospettiva diversa. Successivamente ho usato chiavi capaci di annullare l’influenza dei blocchi provocati dal controllo mentale, e lui ha risposto positivamente. Queste chiavi sono in grado di raggiungere i livelli più profondi di una persona e le reazioni che ne conseguono possono essere molto intense, proprio come si era verificato nel caso di Phil, quando era scoppiato in un pianto liberatorio. 222
Chiave n. 4: entrare in contatto con l’Io pre-cultista Quando una persona inizia a ricordare esperienze precedenti all’adesione, debbo essere in grado di agganciare questi concreti punti di riferimento a un’epoca in cui non aveva ancora una personalità cultista e di conseguenza non era sotto controllo mentale. Faccio sì che la persona ne esamini i pensieri e i sentimenti che hanno accompagnato ogni singola fase del suo reclutamento. Quasi sempre, infatti, questo processo è costellato di domande e dubbi significativi, che vengono però rapidamente rimossi, Come ho già avuto modo di dire, è molto frequente che sotto la pressione esercitata dal l’indottrinamento le persone mettano a tacere la voce interiore che tenta di metterli in guardia. E dall’analisi della personalità e dello stile di vita precedenti all’adesione, che riesco a capire esattamente cosa l’affiliato ha bisogno di vedere, ascoltare e sentire per poter uscire dal gruppo. In alcuni casi il criterio vincente è quello di mostrare come il capo del gruppo interpreti male la Bibbia. In altri è quello di rendere noti i trascorsi e gli eventuali precedenti del fondatore. Per altri ancora c’è bisogno che vengano evidenziate ben precise contraddizioni dottrinali. “Come farai a sapere quando sarà il momento di lasciare il gruppo?”: questa è una domanda che può servire a capire i criteri rivelatori del carattere di quell’individuo. Se Dio dovesse ordinargli di andarsene, lo farebbe? Se venisse a scoprire che gli hanno mentito, abbandonerebbe il gruppo? Non appena un adepto è in grado di dirmi in maniera esplicita di che cosa necessita per lasciare il gruppo, allora posso fare del mio meglio per fornirgli la prova di cui ha bisogno. Prima della sua adesione, Phil era una persona depressa e lacerata dai sensi di colpa: si sentiva assolutamente responsabile della morte del fratello. Se io non fossi stato in grado di aiutarlo ad affrontare i suoi sentimenti e a riconsiderare l’incidente da un altro punto di vista, forse non sarebbe mai stato capace di lasciare il gruppo. Se, come sospettavo, a un qualche livello dell’inconscio stava espiando il suo “delitto” facendosi assorbire dal gruppo cultista, fino a che non fosse riuscito a riconsiderare le circostanze della tragedia e a verbalizzare ciò che aveva provato, non sarebbe stato in grado di decidere se andarsene. In questo e in altri casi simili, se nel momento in cui ha conosciuto il gruppo la persona non era felice o in buona salute, è fondamentale trovare un punto di riferimento positivo al quale ancorarla. Se non si trovano esperienze positive da poter usare a questo scopo, allora bisogna saperle costruire, usando l’immaginazione. Si possono, ad esempio, porre domande del tipo: “Come pensi ti sentiresti avendo una famiglia che ti ama e si preoccupa per te?”. Oppure: “Se durante l’infanzia tuo padre fosse stato esattamente come volevi che fosse, quale sarebbero state le sue qualità e quali cose avreste fatto assieme?”. Perché arrivasse almeno a prendere in considerazione il fatto di lasciare i Krishna, Phil aveva bisogno di riandare con la memoria a quando suonava la chitarra e a quanto l’amasse, e a quanto fosse bello scrivere canzoni e divertirsi con gli amici e con la sua famiglia. Il dolore irrisolto e l’irrazionale senso di colpa che gravava su di lui andavano portati alla luce e rielaborati. Ed era esattamente il tipo di lavoro che avevo portato avanti. C’era bisogno di ricordare Tom come una persona piena di vita, non solo come la vittima di un incidente, e Phil fu in grado di far rivivere il fratello così com’era stato in realtà, con il suo desiderio di essere un anchorman, la sua antipatia per le organizzazioni religiose, il suo modo grintoso di affrontare la vita. Poiché i gemelli sono quasi sempre molto uniti tra loro, era imperativo ristabilire un contatto emozionale positivo con il ricordo di Tom. 223
Chiave n. 5: fornire al membro di un culto prospettive diverse da cui guardare la realtà Durante l’intervento avevo chiesto a Phil di guardare se stesso da diverse prospettive. Quando gli avevo chiesto di mettersi nei panni di Tom e pensare come lui avrebbe pensato, ogni cosa sembrò drammaticamente cambiare anche in Phil. Gli avevo chiesto: “Che cosa avrebbe fatto Tom se fossi stato tu a morire? Sarebbe mai entrato a far parte dei Krishna?”; Phil si era reso conto allora di essersi chiuso nel suo dolore al punto di non essere stato più in grado di pensare da un altro punto di vista. E quando poi gli avevo chiesto “Che cosa direbbe Tom se sapesse che sei nei Krishna?”, aveva prontamente risposto: “Si sarebbe fatto una gran risata e mi avrebbe detto di ritornare nel mondo reale”. Un’altra importante prospettiva che volevo fornire a Phil, era quella dei genitori: doveva stabilire un contatto reale con il loro lutto e il loro dolore. Phil si era talmente chiuso nel suo dolore da non accorgersi che l’incidente aveva lasciato un segno profondo nel cuore di tutti. Di fatto, i genitori avevano sentito che non potevano lasciarsi andare perché dovevano aiutare i figli. Non si erano potuti permettere di elaborare completamente il loro lutto. Aiutare Phil a ricordare e a riflettere sulla sua esperienza di adesione al culto aveva dischiuso un’altra importante prospettiva. Quando gli avevo chiesto di verbalizzare i pensieri e i sentimenti provati all’epoca del primo incontro con il suo reclutatore, il senso di colpa per aver chiesto al fratello di comprargli la corda della chitarra quel giorno fatale, venne a galla per la prima volta dopo anni e anni di rimozione. Non solo: ripensando al suo reclutamento, Phil fu in grado di ricorda re alcuni dei dubbi e delle domande che aveva avuto allora. Si era anche reso conto del ruolo decisivo giocato dalla spiegazione sul karma fornitagli dall’adepto. Lo aveva aiuto a inquadrare la morte del fratello in una cornice ideologica e a convincerlo che Tom si fosse incamminato lungo la via dell’illuminazione. Phil ricordò che non appena aveva iniziato a recitare il mantra, il dolore era scomparso. E ricordò di aver detto a se stesso: “Molto meglio questo che avere pensieri suicidi”. In altri interventi è importante fare in modo che il soggetto abbia più prospettive da cui osservare la situazione. Ogni volta che il membro di un culto vede la cosa sotto un’altra angolatura, la morsa in cui il gruppo lo stringe si allenta un po’. Oltre a chiedere a un individuo della sua vita precedente al gruppo, può essere utile domandargli come immagina il suo futuro. Come sarà fra uno, due, cinque o dieci anni? Come si vede nel prossimo futuro: a vendere fiori agli angoli delle strade? Se non è così, come si sentirebbe allora se da qui a dieci anni si rendesse conto di non aver imparato a far altro che vendere fiori? Un’altra importante prospettiva in cui porsi è quella del leader. Una volta chiesi a una donna: “Se tu fossi il Messia, vivresti come il reverendo Moon? In un palazzo, con due yacht da 25Omila dollari l’uno, girando in limousine?”. Mi rispose: “Certo che no. Darei tutti i miei soldi ai poveri. Vivrei in grande semplicità”. Fui così in grado, a questo punto, di chiederle: “Perché allora, secondo te, lui vive così?”. Mi rispose: “Non so, è una domanda che mi sono sempre posta anch’io”. Quando raccontai a Phil cosa provassi mentre ero con i moonisti, cercai soprattutto di trasmettergli che cosa sentivo quando stavo vicino a Moon: l’eccitamento, l’onore, lo stupore. Avrei potuto chiedergli di immaginare cosa potesse significare essere un moonista che crede che Moon è dieci volte più grande di Gesù Cristo; immaginare l’incredibile onore di vivere in Terra e poter vedere il Messia in persona. Nel preciso istante in cui Phil entrò nei panni di un moonista, la sua esperienza come devoto di Krishna cambiò definitivamente. Ogni volta che l’interessato è in grado di mettersi nei panni di un altro, sia esso l’adepto di un altro gruppo, i suoi genitori o il suo leader, la sua rigidità psicologica si indebolisce. Di fatto, incoraggiare l’affiliato di un culto ad assumere un’altra prospettiva, gli permette di verificare il suo senso della realtà. Così facendo, l’informazione con cui era stato programmato assume un aspetto totalmente diverso. Il modo migliore per minare una fede cieca è introdurre nuovi punti di vista. 225
Chiave n. 6: aggirare il processo del blocco del pensiero fornendo informazioni in maniera indiretta Il seguace di un culto viene programmato a bloccare tutti i pensieri “negativi” sul leader, la dottrina e l’organizzazione e viene inoltre condizionato a credere che il suo gruppo sia superiore e diverso da tutti gli altri. Questo processo di blocco del pensiero interviene nel caso in cui l’affiliato sia sottoposto a un attacco frontale; in altre parole, ogni qual volta la persona percepisca che qualcuno sta attaccando la legittimità del gruppo. In questo senso, il blocco del pensiero funziona come uno scudo da alzare contro chiunque sia ritenuto un nemico. Ovviamente, quando l’adepto non percepisce il “pericolo” il blocco del pensiero non viene messo in atto. Poiché un devoto non immagina neppure di far parte di una setta, ma sa dell’esistenza di altri gruppi che invece lo sono, è abbastanza facile intrattenere con lui lunghe e dettagliate conversazioni senza che si avveda minimamente che, di fatto, si sta attaccando il suo leader o il suo gruppo. Pertanto, con l’adepto di un culto si comunica utilizzando un approccio indiretto. Se sei con un seguace di The Way International, egli non si sentirà assolutamente minacciato se gli parli dei moonisti. Viceversa, se stai parlando con un moonista, non si sentirà aggredito se parli di The Way. Egli è convinto che il suo gruppo sia totalmente diverso e di livello ben superiore rispetto a tutti gli altri. In questo modo, si è in grado di evidenziare processi e tecniche specifiche del controllo mentale usate dall’altro gruppo in maniera innocua, ma sottile. Potrai così alimentare l’inconscio di quella persona (la sua personalità “John-John”) con schemi di riferimento essenziali perché possa iniziare ad analizzare quanto è successo a lui. Avrete notato che nel caso di Phil sono stato attento a non attaccare i Krishna. Se lo avessi fatto, egli probabilmente si sarebbe messo sulle difensive e avrebbe iniziato le sue cantilene. E se poi avessi insistito, se ne sarebbe andato. Tutte le mie informazioni erano relative ai moonisti e ad altri gruppi. Questo metodo indiretto di fornire informazioni aggira il meccanismo del blocco del pensiero. 226
Chiave n. 7: visualizzare un futuro felice per superare la fobia indotta dall’indottrinamento La fobia indotta dall’indottrinamento, cioè la paura di lasciare il gruppo, agisce a livello inconscio. Nella sua personalità cultista, l’adepto non penserà mai di lasciare il gruppo. Al contrario è sempre felice, entusiasta e incredibilmente obbediente al suo superiore. E’ “John-John” che è stato reso schiavo. Ho aiutato Phil a cominciare a neutralizzare la fobia indotta dall’indottrinamento chiedendogli di visualizzare un ‘immagine di sé, proiettata nel futuro, che gli piacesse veramente: essere un musicista, avere amici, una moglie, dei figli, essere vicino alla famiglia. Poi gli ho chiesto di “entrare” nella visione e godersi l’esperienza immaginaria. Così facendo, aiutavo Phil ad aprire la porta in grado di condurlo fuori dai Krishna. Questa tecnica di visualizzazione cominciò a corrodere la fobia indotta dall’indottrinamento e divenne il ponte per una possibile esistenza diversa. In altri casi, spesso chiedo al soggetto: “Se non avessi incontrato questo gruppo e avessi potuto fare esattamente ciò che volevi, che cosa avresti fatto?”. In genere seguono attimi di confusione e di resistenza, e normalmente devo ripetere più volte la domanda. “Prova a immaginare, per un momento, cosa staresti facendo nella vita se non avessi mai saputo dell’esistenza di questo gruppo e se avessi potuto fare esattamente quanto ritenevi necessario per sentirti felice e spiritualmente realizzato”. La risposta varia da caso a caso: “Sarei un medico e lavorerei in una clinica al servizio dei poveri”. “Sarei un tennista professionista”. “Sarei in barca, in giro per il mondo”. Una volta che la persona è riuscita a verbalizzare la sua fantasia, gli chiedo di entrare nella sua visione e la incoraggio a farsi coinvolgere emotivamente. Tale procedura mi consente di neutralizzare un pò alla volta quei sentimenti appositamente programmati che lo inducono a considerare negativamente un futuro al di fuori del culto. Una volta stabilito un riferimento personale positivo, l’immagine costruita ad arte dall’indottrinamento di una vita cupa e disastrosa fuori dal gruppo, comincia a sgretolarsi. Quando questa viene sostituita da un’immagine positiva, si aprono nuove possibilità. Ci si rende conto che le persone sono gentili e affettuose e che il mondo esterno offre un mucchio di altre cose interessanti di cui si può godere: ci si può realizzare anche fuori dal gruppo, sia umanamente che spiritualmente. Una volta che il mondo esterno si è colorato di esperienze positive, il gruppo perde il suo controllo sul senso di realtà dell’adepto. Il soggetto viene quindi a trovarsi in una prospettiva migliore, che gli consente di decidere se rimanere o oltrepassare il ponte, per poter fare qualcosa di più interessante e che lo soddisfi di più. 227
Chiave in. 8: fornire all’adepto definizioni precise del controllo mentale e delle caratteristiche di un culto distruttivo Il mio intervento con Phil dimostra quanto sia importante informare correttamente l’adepto sulla natura dei culti. L’aver stabilito un buon rapporto mi consentì di ottenere da Phil le necessarie informazioni che mi permisero, in un secondo momento, di aiutarlo. Mentre si stabiliva questo rapporto, Phil si incuriosì e volle conoscere il mio parere personale. La sua richiesta mi dette l’opportunità di fornir gli informazioni specifiche sui culti e sul controllo mentale in modo in diretto, raccontando della mia esperienza con i moonisti. Potei spiegargli che cosa era avvenuto durante la mia de-programmazione e come questa mi aveva permesso di capire che ero stato sottoposto a controllo mentale e che mi trovavo all’interno di un culto distruttivo. Nel mio caso, non fui in grado di capire in cosa consistesse in realtà il “lavaggio del cervello” fino al momento in cui i miei terapeuti mi spiegarono le tecniche usate dai cinesi negli anni Cinquanta. Io ero più che convinto che i moonisti fossero ben diversi dagli altri, convinzione che andò in frantumi quando permisi ai miei de-programmatori di dimostrarmi che altri culti distruttivi, fra cui proprio i Krishna, avevano una struttura autoritaria almeno quanto quella della Chiesa dell’Unificazione. Fui in grado di spiegare a Phil alcuni capisaldi della fede moonista e gli dimostrai come alcune di queste credenze, per quanto strane potessero sembrare, avevano senso se si credeva nell’intera dottrina. Mi assicurai di non tralasciare quella parte della filosofia moonista che spiega perché avvengano “morti accidentali”, in modo che lui si rendesse conto dell’esistenza di dottrine alternative che offrivano altre interpretazioni. Per lui fu anche importante sapere di altri gruppi i cui capi si dicono spiritualmente superiori. Lo informai dei circa tremila gruppi cultisti e lo invitai a riflettere che se anche fosse stato vero che solo uno su tremila fosse guidato dall’unico, autentico e grande leader (cosa di cui dubitavo fortemente, gli precisai) allora le probabilità di incappare in quello giusto sarebbero state infinitesimali. Gli raccontai anche di quanto devoto fossi al gruppo durante la mia permanenza, spiegandogli che se avevo scelto di lasciarlo lo avevo fatto per ragioni “valide”. Volevo sfidare il suo indottrinamento quando diceva che quanti lasciano il gruppo lo fanno per ragioni errate, perché sono persone deboli o indisciplinate o perché preferiscono il materialismo. Volevo che lui sapesse che avevo lasciato il gruppo da persona integra e senza esservi stato costretto dall’esterno. Ne ero fuoriuscito perché ero stato capace di osservare in modo obiettivo quello che in realtà stavo facendo. Avevo consacrato me stesso a una “fantasia”, creata ad arte e impartita nei seminari dei moonisti. Avevo creduto di essere al seguito del Messia, colui che avrebbe posto fine a guerre, povertà, malattie e corruzione, colui che avrebbe stabilito in Terra il Regno dei Cieli. Non mi pesava sacrificare me stesso a tali nobili cause. Pensavo che in qualità di discepolo stessi insegnando alle persone le ragioni divine dell’amore, della verità e del condurre una vita esemplare. Avevo invece scoperto con orrore di aver imparato a scendere a compromessi con la mia integrità in nome di Dio. Avevo realizzato che più salivo nella scala gerarchica e mi avvicinavo a Moon, più diventavo ossessivo. Il potere era diventato una sorta di droga e iniziai a fare scelte basate su ciò che più avrebbe protetto e rafforzato il mio potere e non su ciò che era moralmente giusto. 228
Lasciai il gruppo quando capii che l’inganno e il controllo mentale non rientrano nei precetti di un vero e legittimo movimento spirituale: utilizzandoli, il gruppo aveva creato in realtà un vero “Inferno in Terra”, un regno di schiavi. Una volta che fui in grado di capire che sebbene volessi credere che fosse tutto vero (cioè che Moon fosse il Messia, e il suo Principio Divino la Verità), il fatto di credervi non rendeva tali convinzioni più concrete e che se anche fossi rimasto nel gruppo per altri cinquant’anni, quella fantasia per la quale mi stavo sacrificando non sarebbe mai diventata realtà. Quando infine mi venne fornita la spiegazione concreta circa il controllo mentale, mi fu finalmente chiaro che ero diventato una vittima e che a mia volta avevo imparato a fare delle vittime. Pur avendo ormai un ruolo dirigenziale e pur sentendomi legato a tanti discepoli, quando compresi appieno quello che avevo fatto non potei fare a meno di andarmene. Non avrei mai potuto tornare indietro ed essere di nuovo un “vero credente”. 228
Capitolo 10 STRATEGIE DI RECUPERO Esistono tre modi di lasciare un culto: andarsene di propria volontà, essere buttati fuori (spesso in condizioni pietose, sia fisicamente che psicologicamente) oppure essere recuperati attraverso un aiuto terapeutico. Lasciare un culto è generalmente un fatto positivo, ma il processo di reinserimento nel “mondo reale” può essere estremamente difficoltoso. Se una volta lasciato il culto gli ex adepti non si sottopongono a una buona terapia e non ricevono tutte le informazioni necessarie a un buon recupero, le fobie indotte dal culto che si portano dentro sono in grado di renderli delle vere e proprie “bombe a orologeria”. Si tratta di persone che hanno vissuto, a volte per tempi anche assai lunghi, senza svolgere una normale attività lavorativa e senza alcun tipo di rapporto sociale, e tale elemento può trasformare il processo di reinserimento e di crescita in un’impresa alquanto ardua. Alcune persone lasciano i culti per poi farvi volontariamente ritorno più tardi. Stando alla mia esperienza, posso dire che in realtà tali casi costituiscono l’eccezione alla regola, ma danno comunque l’idea di quanto si possa essere vulnerabili nel momento in cui ci si separa da un ambiente in cui viene esercitato il controllo mentale. Fuoriusciti volontari Indubbiamente, il maggior numero di ex seguaci appartiene alla prima categoria, quella di coloro che se ne vanno da soli. Generalmente si tratta di persone che sono riuscite a staccarsi fisicamente dal culto ma che non hanno ricevuto una terapia di recupero. Di quando in quando ho occasione di incontrarne qualcuna e ho scoperto che non di rado, anche a distanza di anni dal loro coinvolgimento nel culto, subiscono ancora gli effetti negativi dell’indottrinamento ricevuto. Tempo addietro ho avuto modo di incontrare una “fuoriuscita” dai moonisti. Durante la nostra conversazione mi confidò che sebbene fosse felicemente sposata da oltre sei anni, era terrorizzata all’idea di avere bambini. Mi disse che non riusciva a capirne il motivo, visto che sin da piccola aveva sognato di averne. Ora aveva da poco compiuto trent’ anni e pur rendendosi conto che si trattava ormai di una corsa contro il tempo, tuttavia non riusciva ancora a superare la paura. Mentre parlavamo venni a sapere che era entrata nei moonisti nel 1969 — all’epoca si trattava di ben dodici anni prima — e che vi era rimasta per un periodo di soli tre mesi. “Quando iniziarono a volere troppo da me” mi rivelò, “decisi di andarmene”. Era chiaro che aveva considerato il suo coinvolgimento come un semplice incidente di percorso. “Ti è mai venuto in mente che la tua paura di avere bambini potrebbe essere legata alla tua esperienza nei moonisti?” le domandai. Mi guardò meravigliata: “Che cosa intendi dire?”. “Ti ricordi se mentre eri nei moonisti ti fu detto qualcosa relativo al fatto di avere bambini?”. Piegò leggermente la testa all’indietro, gli occhi rivolti al soffitto. Qualche minuto dopo la vidi avvampare e subito dopo cacciò un urlo. 230
“Sì! Ora ricordo!”: con mia grande sorpresa, mi aveva afferrato per le spalle, scuotendomi. “Mi dissero che se qualcuno tradiva il Messia e lasciava il gruppo, i suoi bambini sarebbero nati morti!”. L’intensità emotiva nell’incontrare la fonte della sua paura fu tremenda, e io non potei far altro che esserle vicino mentre la viveva. Le catene mentali che avevano imprigionato la sua mente per così tanto tempo stavano finalmente cadendo e sembrò quasi di poterne udire il tonfo. A quel punto capii che era il momento spiegarle il funzionamento dell’induzione di fobie. Le dissi che anche se era stata coinvolta nei moonisti solo per pochi mesi, gli istruttori erano riusciti con successo a impiantare nella sua mente la fobia di partorire bambini morti. “Pur non credendo più in Moon?” mi chiese. “La mente è in grado di imparare nuove informazioni e ritenerle per sempre” dissi. “Ciò vale sia per le cose negative che per quelle positive. Quando hai oltrepassato la soglia della loro porta, ti sarai illusa di aver chiuso per sempre con i moonisti, ma ti ci sono voluti dodici anni per localizzare ed eliminare la bomba a orologeria che avevano inserito nella tua mente”. Certo succede di rado che casualmente, in un’occasione mondana, la conversazione con un ex affiliato riesca di colpo ad aprire una breccia nella fobia. Eppure, proprio come nel caso di questa donna, sono molte le persone che cercano in qualche modo di convivere con gli effetti dannosi che si portano dietro a causa del loro coinvolgimento in un culto. Tali problemi rischiano inoltre di aggravarsi, perché molti terapeuti della salute mentale non conoscono abbastanza questo campo e non sanno come aiutare in maniera efficace chi soffre a causa degli effetti residui del controllo mentale. Molta gente è in grado di andarsene, soprattutto nelle prime fasi dell’indottrinamento. Questa donna si ribellò e se ne andò nel 1969, quando i moonisti non avevano ancora affinato le loro tecniche di indottrinamento. Se la pressione dell’indottrinamento è troppo intensa, e non viene assorbita lentamente, succede che molte persone non la sopportino e quindi se ne allontanino. Una donna che stavo reclutando, ad esempio, nelle prime settimane del suo indottrinamento scoprì che Moon le aveva assegnato a sua insaputa un marito: si infuriò a tal punto che se ne andò sbattendo la porta. Un uomo scoprì che noi credevamo che Moon fosse il Messia, prima che avessimo il tempo di prepararlo adeguatamente a tale conclusione. Altre persone se ne vanno quando diventano vittime di politiche interne o di conflitti personali. Ad esempio, non riuscendo a instaurare un rapporto con i propri superiori o a seguirli, può accadere che molti neofiti decidano di andarsene, stanchi della situazione che si è venuta a creare. I membri anziani possono invece lasciare il culto quando si rendono conto che la politica del gruppo è diventata di parte e usata in una lotta per il potere. Negli anni ho incontrato dozzine di persone uscite dal gruppo perché non ne potevano più, ma tutte erano rimaste legate al loro leader. Ci sono migliaia di ex moonisti che ancora credono che Moon sia il Messia, ma che non sopportano il modo in cui i moonisti gestiscono il culto. Sono tutte persone che contano di farvi ritorno non appena il gruppo avrà rivisto la sua politica interna. Non riescono a capire che se il gruppo è strutturato e gestito in quel modo è perché è lo stesso Moon a volerlo. 232
Cacciati via Ho incontrato diverse persone che sano state allontanate dal gruppo perché manifestavano evidente ribellione all’autorità e facevano troppe domande. Altri erano stati talmente sfruttati da essere ormai completamente bruciati e, quindi, non più “produttivi”. Altri ancora avevano sviluppato seri problemi psichici o fisici, e dal momento che avrebbero avuto bisogno di cure troppo costose, erano di fatto diventati un peso per il gruppo. Di tutti gli ex seguaci, quelli buttati fuori da un culto distruttivo sono coloro che si trovano nelle condizioni peggiori. Si sentono rifiutati non solo dai membri del gruppo ma anche, quando si tratta di culti religiosi, da Dio stesso. Gran parte di loro ha dedicato tutta la vita al gruppo, donando anche tutto ciò che possedevano in beni e ricchezze. Quando vi avevano aderito, avevano creduto in quello che era stato loro detto, vale a dire che da quel momento il gruppo sarebbe stato la loro famiglia e si sarebbe preso cura di loro per il resto della loro vita. Poi, anni dopo, si sono sentiti dire all’improvviso che non erano più all’altezza, che non erano più degni di rimanere nel gruppo e che dunque dovevano andarsene. Queste persone, rese fobiche rispetto alla realtà esterna, sono state scaraventate in ciò che erano stati indotti a considerare un mondo di tenebre. Per molti di loro il suicidio deve essere sembrato l’unico modo possibile per porre fine alle sofferenze. Non ci sono statistiche che possano dirci quante persone si siano tolte la vita a causa del loro coinvolgimento in un qualche culto. Io personalmente ne ho conosciute tre. Capita poi che coloro che sono stati portati in salvo da un tentativo di suicidio vengano ricoverati in un centro di salute mentale, dove gli viene diagnosticata la schizofrenia. E’ difficile dare la colpa a medici che non sono informati in materia. D’altra parte, quale altra valutazione potrebbero mai dare, quando si trovano davanti una persona che urla e recalcitra affermando di essere posseduta da Satana? Che ne sanno del fatto che quella persona era solita cantilenare per ore e ore ogni giorno, alienata al punto da diventare catatonica? Un uomo che ho avuto in cura fu cacciato dal culto cui aveva aderito, dopo che suo padre aveva minacciato il leader di azioni legali e altre forme di pressione. Questo giovane era stato condizionato per sei anni a credere che lasciare il culto avrebbe significato impazzire. Subito dopo l’allontanamento (sorpresa!) impazzì. I genitori lo portarono in un ospedale psichiatrico e i dottori confermarono che, a loro avviso, era pazzo, più precisamente “schizofrenico”. Dal canto suo, il giovane interpretò la diagnosi come la prova che il leader aveva ragione: chiunque lasciasse il culto era destinato a impazzire. Quando poi venne rinchiuso in un manicomio, iniziò a sbattere la testa contro il muro. Gli fu messa la camicia di forza e venne tenuto sotto continua sorveglianza, ma a nessuno venne in mente di chiedergli perché si comportasse in quel modo. In seguito seppi che all’epoca della sua permanenza nel culto si era recato in India e che in quell’occasione gli era stata mostrata la roccia sulla quale il guru aveva sbattuto ripetutamente la testa fino a che, testuale, “non aveva raggiunto l’illuminazione”. Nello sforzo di imitare il cammino spirituale del guru, ci mancò poco che si uccidesse. Come se non bastasse, aveva fornito ai medici la riprova di essere veramente schizofrenico. 233
Soltanto quando iniziai con lui la terapia di recupero, cominciò a rendersi conto di come era stato programmato dal culto e di come, senza rendersene conto, lui stesso rinforzasse quella programmazione quando, da quel membro devoto che era, ricordava il gergo usato dal culto e l’indottrinamento che gli era stato impartito. Ripetendo dentro di sé gli insegnamenti del leader, aveva confermato e mantenuto integro il suo indottrinamento e per anni aveva impedito ogni tentativo di recupero. Si trovava anche a dover combattere contro anni di “aiuto” sbagliato, ricevuto dagli psichiatri mentre si trovava in “cura”. Mi disse che alcuni medici gli avevano detto che la sua adesione al culto era stata una delle cose più salutari che avesse mai fatto nella sua vita. Uno di loro gli aveva addirittura consigliato di leggere libri del culto. Non ultimo, la sua degenza in ospedale gli ricordava costantemente di essere uno schizofrenico. Un’altra affiliata da me seguita, che aveva lasciato un gruppo dedito all’occultismo, era assolutamente convinta che il suo corpo spirituale si stesse disintegrando e che lei sarebbe morta entro breve tempo. Soffriva di terribili attacchi d’ansia, soprattutto di notte, e accusava acuti dolori al petto. Si sottopose a tutti i possibili esami medici e la conclusione fu che il problema fosse unicamente “nella sua testa”. Il culto l’aveva convinta che se un giorno avesse lasciato il gruppo, sarebbe stata condannata all’autodistruzione e, una volta fuori, era esattamente questo che aveva iniziato a fare, fino a che non si sottopose alla terapia. Se le persone che se ne vanno o vengono espulse da un gruppo non ricevono una terapia adeguata, sono destinate a vedere la loro sofferenza prolungarsi nel tempo. Tuttavia, vi sono casi in cui persone che ricevono l’aiuto di amici e familiari riescono a rimettere assieme i loro pezzi e a ricostruirsi una vita. Se però queste persone non riusciranno a capire in cosa consiste il controllo mentale e come sia stato impiegato per reclutarli e indottrinarli, non potranno tornare ad avere una vita piena. Anche se sono riuscite a rimuovere per un po’ la loro esperienza e a dimenticarla, può sempre accadere che arrivi il momento in cui questa torni a farsi sentire. Rick apparteneva a questa categoria di persone. Con la moglie e i tre figli, era uscito dai Bambini di Dio dopo sei anni di adesione. Cinque anni più tardi trovò nella cassetta della posta una comunicazione spedita dal culto. Quell’unica lettera, scritta dal suo capo, fece riaffiorare tutto l’indottrinamento ricevuto e Rick perse ogni controllo mentale. A un certo punto iniziò a sentire nella testa una voce che gli diceva che doveva salire nella camera dei figli e strangolarli. Fortunatamente non ascoltò la voce ed entrò invece in terapia. Oggi è un consulente di informatica di grande successo. 235
Recuperati Coloro che grazie a una terapia riescono ad uscire da un gruppo possono essere considerati dei fortunati, per aver trovato l’aiuto e le informazioni necessarie. Ma vi sono anche molti individui, in particolare quanti furono deprogrammati negli anni Settanta e Ottanta, che ancora oggi si trascinano dietro un pesante fardello di condizionamento psicologico indotto da! culto. L’aver lasciato il gruppo da anni non significa che il soggetto abbia automaticamente risolto tutti i suoi problemi. Tutt’altro. Oggi si sa molto di più sul controllo mentale e sull’exit counseling di quanto non fosse in passato e c’è un numero maggiore di terapeuti specializzati in questo settore. Incontrare ex membri, di un dato culto in particolare così come di altri, è di fondamentale importanza.
I problemi psicologici degli ex affiliati Dopo aver lasciato il culto, le persone vanno generalmente incontro a una serie di difficoltà psicologiche. Quella forse più comune è la depressione, vissuta nei mesi immediatamente successivi alla fuoriuscita. E’ difficile descrivere la sofferenza che si prova quando si prende coscienza del fatto che il culto ti ha mentito e che, controllando la tua mente, ti ha reso uno schiavo: a un tratto scopri che il tuo “sogno” in realtà era un incubo. Molte delle persone che ho incontrato hanno paragonato tale esperienza a quella di una persona profondamente innamorata, che ha donato tutto il suo amore, la sua fiducia e il suo impegno a qualcuno, per poi scoprire che in realtà l’amore di quella persona era falso, e che il suo unico scopo era quello di usarti. La sofferenza e il senso di tradimento è enorme. Altri descrivono questa presa di coscienza in termini ancora più drastici: si sentono come se fossero stati violentati, spiritualmente e psicologicamente. Il senso di violazione personale è indescrivibile. Io stesso sono arrivato a capire come tutto l’amore e la devozione che sentivo nei confronti di Sun Myung Moon e Hak Ja Han, che vivevo come “Veri Genitori”, fosse totalmente unilaterale. Fu solo dopo che ebbi lasciato il gruppo che realizzai il fatto che a loro non importava proprio nulla di me. Se gliene fosse importato, mi avrebbero contattato per cercare almeno di conoscere i motivi del mio allontanamento. Invece, fui subito etichettato come “satanico” e traditore. Quando le persone sono depresse tendono a vedere solo il lato negativo delle cose; la loro sofferenza è così grande da non riuscire neanche a concepire un futuro positivo. E’ essenziale che gli ex affiliati prendano coscienza della loro sofferenza e la elaborino, affrontando quello che può definirsi un periodo di lutto. Può anche tornare estremamente utile aiutare le persone a riconoscere e apprezzare gli aspetti positivi del loro coinvolgimento e far loro capire come proprio quell’esperienza possa contribuire a renderli molto più forti. Occorre inoltre incoraggiarle a considerare la situazione come pienamente gestibile. Si possono fornire esempi di persone la cui esperienza è stata peggiore e che sono state in grado non solo di sopravvivere, ma anche di avere una vita di successo dopo essere uscite da un culto. 236
Un altro dei problemi più comuni è l’instaurarsi di una forte tendenza a dipendere continuamente dagli altri. In quei gruppi in cui gli adepti vivono in comunità, la maggior parte delle decisioni importanti viene presa dal leader: in quella situazione loro dovevano solo ubbidire, non decidere. Questa forma di dipendenza impoverisce la fiducia in se stessi e indebolisce il desiderio e la capacità di progredire individualmente. Una specifica forma di questa dipendenza è la difficoltà ad assumere decisioni. Ho avuto in terapia persone che al ristorante non sapevano cosa mangiare, che non riuscivano a scegliere cosa indossare, il libro da leggere, quale film vedere o che cosa dovevano fare riguardo ai loro studi o al lavoro. Quando persone come queste, abituate a chiedere ai superiori il permesso di fare anche le cose più scontate, si ritrovano nuovamente in un mondo in cui è necessario assumersi la responsabilità delle proprie azioni, il rischio maggiore è che ne rimangano schiacciate. Dopo che ebbi lasciato i moonisti, tale problema non sembrò interessarmi direttamente. I de programmatori avevano detto ai miei genitori che avrei avuto difficoltà a prendere decisioni. I miei, quindi, rimasero sorpresi quando, al ristorante, notarono che avevo le idee chiare su cosa volessi mangiare. Più tardi mi dissero di aver pensato, seguendo un ragionamento contorto, che ciò significasse che non ero stato deprogrammato a dovere. Essi non avevano considerato il fatto che non ero stato un semplice discepolo ma un dirigente, quotidianamente abituato ad assumere decisioni, sia per me che per gli altri. Decidere invece su questioni più importanti, tipo riprendere o no gli studi, fu per me molto difficile. Come per tutte le attività, anche il prendere decisioni diventa più facile con la pratica. Col tempo, le persone imparano ad assumere il controllo della loro vita, processo che può essere accelerato da una gentile ma ferma insistenza di familiari e amici nel far decidere agli ex affiliati cosa vogliono mangiare o fare. Se l’autostima e la fiducia in se stessi vengono quotidianamente incoraggiate, gli ex adepti riescono, di solito, a superare il problema della dipendenza. 237
Floating: come venire a patti con l’identità cultista dopo aver lasciato il gruppo Uno dei problemi maggiori che gli ex membri devono affrontare è quel fenomeno conosciuto col nome di floating: “riemersione”. Può essere descritto come l’esperienza in cui l’ex adepto si trova improvvisamente a rivivere i giorni del suo coinvolgimento nel culto e sente nuovamente emergere dentro di sé la vecchia mentalità cultista. Facciamo un esempio. Margot Sutherland, una studentessa universitaria diciannovenne, era impegnata in un lavoro estivo quando venne reclutata da Lifespring. Sebbene avesse completato il corso di base e le mancasse una settimana per ultimare il suo tirocinio come dirigente, non le piaceva la pressione cui veniva sottoposta affinché reclutasse altri proseliti. Fortunatamente viveva nel Maine e non era nelle immediate vicinanze del gruppo centrale del New England, con base a Boston. Ciò le dava un pò di respiro, sebbene venisse chiamata tutti i giorni per controllare cosa facesse. La madre di Margot, pastore metodista, si rese conto dei cambiamenti che erano avvenuti nella figlia e la cosa la preoccupò al punto da farsi prestare del denaro per tentare un intervento che la facesse uscire dal culto. Nell’ambito di un’inchiesta su Lifespring, la rete televisiva ABC aveva intervistato John Clark, uno psichiatra esperto in culti, della Harvard Medical School. Durante l’intervista Clark affermò che, sebbene Lifespring sostenesse il contrario, secondo lui il gruppo esercitava il controllo mentale e il lavaggio del cervello. Uno dei principali problemi che Margot dovette affrontare dopo il suo exit counseling fu rappresentato dall’ascoltare musica alla radio, tipo Steve Winwood e il suo “Higher Love”, che le provocava flashback del suo tirocinio. Gruppi tipo Lifespring usano la musica come strumento del loro indottrinamento proprio per questo motivo. Essa crea ne!l’individuo un forte riflesso condizionato che, senza una terapia adeguata, può durare mesi, talvolta anche anni prima che possa essere superato. La musica è usata da molti culti perché è in grado di trasformarsi in un potente ancoraggio mnemonico. I! meccanismo di stimolo-risposta alla radice di tali flashback può costituire un serio problema per gli ex affiliati. Il fenomeno scatta allor quando il soggetto vede, sente o ascolta uno stimolo esterno o interno che ha fatto parte de! processo di condizionamento. Ciò può riportarlo indietro nel tempo e farlo rientrare nella logica cultista. Nel corso di tutto il primo anno, dopo aver lasciato i moonisti, ogni volta che sentivo pronunciare la parola “moon”, pensavo subito “Padre” e mi tornava in mente di quando sedevo ai piedi di Moon. Un altro episodio di questo tipo accadde circa un mese dopo aver lasciato il gruppo. Stavo recandomi in macchina a casa di un amico e pensai: “Questo sarebbe un ottimo punto di vendita per la raccolta di fondi!”. Dovetti fare uno sforzo per ricordare a me stesso che non stavo più nei moonisti. Il pensiero era affiorato perché per quindici-venti ore al giorno negli ultimi cinque mesi della mia adesione, avevo portato in giro alcuni neofiti, alla ricerca dei posti migliori in cui lasciarli a vendere piccoli oggetti per finanziare il gruppo. 238
Riguardo a persone che sono state a lungo coinvolte in gruppi che fanno uso massiccio di pratiche di meditazione, recitazione, parlare in lingua, decreeing,* *Il decreeing consiste in una recitazione molto veloce delle “preghiere” del gruppo. Il ritmo è così veloce da risultare incomprensibile a chiunque lo ascolti. A mio avviso,questa è una tecnica molto efficace per l’induzione di trance e blocco del pensiero. ci si deve aspettare che episodi del genere si ripetano perlomeno fino a un anno di distanza dalla loro fuoriuscita. Molti dei miei pazienti si sono lamentati del fatto che improvvisamente, nel bel mezzo di una frase e mentre conversavano normalmente con qualcuno, si ritrovavano a mettere in atto la tecnica del blocco mentale che avevano praticato per anni. Mi raccontò l’ex seguace di un culto che si basava sulla Bibbia: “E’ veramente frustrante rendersi conto che la tua mente continua a sfuggire al tuo controllo. Soprattutto quando mi trovo in una situazione difficile, scopro d’un tratto di stare sillabando o ripetendo parole senza senso, e che mi sono allontanato col pensiero da quanto stavo facendo in quel momento”. Se non viene compreso e trattato in maniera adeguata, il fenomeno della riemersione può far sì che un ex affiliato che si trovi in una situazione di depressione, solitudine o confusione, ritorni al culto cui aveva un tempo aderito. Per coloro che sono abbastanza fortunati da ricevere una buona terapia di recupero e di riabilitazione, la riemersione non costituisce un grande problema. Ma per tutti coloro che non sono a conoscenza di come agisca il controllo mentale, può trattarsi di un’esperienza terrificante: improvvisamente si può essere catapultati nella mentalità cultista ed essere colpiti da un tremendo senso di paura e di colpa per aver lasciato il gruppo e il suo capo. Si può perdere il controllo razionale e iniziare a pensare in maniera magica. Con ciò intendo dire che il soggetto inizia a interpretare eventi sociali e personali recenti, guardandoli da un’ottica prettamente cultista. Tanto per fare un esempio: se non hai trovato lavoro “è perché Dio vuole che tu ritorni al tuo gruppo”. Oppure: il volo delle Linee Aeree Coreane è stato abbattuto “perché hai lasciato i moonisti”. Se un ex adepto entra in questo circuito mentale, allora dovrai ricordargli con affetto, ma anche con fermezza, che quell’esperienza è scattata a causa di un qualche stimolo, che è transitoria e che deve cercare qualcuno che conosca le tecniche del controllo mentale con cui poter discutere razionalmente quanto accaduto. Ricorda: la riemersione è una delle conseguenze del tuo essere stato sottoposto al controllo mentale; essa tenderà a scomparire col tempo, ma esistono anche delle tecniche che puoi usare e che ti possono aiutare a controllarla. La tecnica più efficace e risolutiva consiste nell’identificare ciò che fa scattare il meccanismo. Potrebbe essere, ad esempio, sentire un determinato brano musicale, vedere qualcuno che assomiglia a un adepto del gruppo o comportarsi in un modo associato all’essere un affiliato. Una volta che hai scoperto ciò che ha fatto scattare la molla, puoi richiamare deliberatamente quello stimolo e questa volta associarlo a qualche altra cosa, scelta da te. Ripeti questa sequenza più volte, fino a che lo stimolo non provocherà la nuova risposta. 239
Nel mio caso, ad esempio, quando sentivo la parola “moon” mi imponevo di immaginare una bellissima luna piena. Dicevo a me stesso: “La Terra ha soltanto un satellite naturale, la ‘luna” [ moon in inglese], e me lo ripetevo in continuazione. Mi riferivo poi al capo del mio ex gruppo chiamandolo il “signor” Moon, visto che non volevo neanche chiamarlo “reverendo”, un titolo che si era comunque dato da solo. Una ragazza, ex seguace del gruppo di nome est, mi disse che sebbene amasse tanto la spiaggia, evitava di andarci perché il suono dell’oceano le riportava in mente la dottrina del gruppo. Sebbene lo avesse lasciato da ben cinque anni, quell’associazione era ancora in grado di inibire la sua capacità di godere di qualcosa che aveva sempre amato. Le dissi di cambiare l’associazione mentale! Lei poteva ascoltare il suono delle onde e deliberatamente associarlo a qualcosa di nuovo e più piacevole. Le dissi di ripetere la nuova associazione fintanto che questa fosse scattata automaticamente, al posto di quel la programmata dal culto. Nel giro di pochi giorni la ragazza fu in grado di ritornare alla spiaggia e godersela. 240
Superare il gergo del culto Sostituire il linguaggio comune a quello utilizzato dal culto può accelerare il recupero di una persona. Quando ebbi decondizionato la mia mente a pensare secondo il gergo del culto, potei di nuovo guardare al mondo senza le distorsioni che esso mi procurava. Il gergo cultista aveva infatti scavato nel mio cervello i canali attraverso i quali, da adepto, filtravo tutta la realtà. Più rapidamente un ex adepto riesce a riappropriarsi delle parole comuni e del loro vero significato, più veloce sarà il suo recupero. Quando ero nei moonisti, tutti i rapporti interpersonali ricadevano in due grandi categorie: “CainoAbele” o “capitolo 2”. L’espressione “Caino-Abele”, come ho già avuto modo di spiegare, era usata per etichettare sia un superiore che un subordinato. I problemi “capitolo 2” descrivevano invece tutto ciò che aveva a che fare col sesso e qualsiasi tipo di attrazione un seguace provasse nei confronti di un altro. Tutte le relazioni personali ricadevano in una di queste due categorie. Uno degli errori più comuni commessi da ex adepti è quello di dire a se stessi che non devono pensare secondo il gergo cultista. Ma la mente non sa come non pensare a qualcosa. Il linguaggio è strutturato in modo da pensare per associazioni. Quindi, se sei un ex adepto, crea nuove associazioni mentali, mettendo in pratica quanto ho descritto nel paragrafo dedicato al floating: se sei un ex moonista e hai un problema di tipo relazionale, pensa ad esso come a un conflitto di personalità o un problema di comunicazione.
Diminuzione delle abilità mentali Un problema piuttosto comune è la perdita di concentrazione e di memoria. Prima di rimanere coinvolto nei moonisti, potevo leggere un libro in un pomeriggio e la media delle mie letture era di tre volumi a settimana. Ma nei due anni e mezzo passati nel gruppo, tutto ciò che mi fu consentito di leggere fu il materiale propagandistico. Quando lasciai il gruppo, ricordo come, all’inizio, mi sentissi frustrato ogni qual volta cercassi di leggere un libro. Di fatto, mi era quasi impossibile leggere un solo paragrafo tutto di seguito. La mia mente se ne andava altrove; altre volte ero costretto a cercare le parole in un dizionario, perché non ne ricordavo più il significato. Dovevo leggere e rileggere ogni periodo prima di riuscire a costringere gli ingranaggi della mia mente a mettersi in funzione. Se poi guardavo vecchie fotografie, avevo bisogno di qualcuno che mi ricordasse chi erano quelle persone, che peraltro conoscevo, o mi descrivesse gli episodi da me vissuti prima che entrassi nel gruppo. Fortunatamente la mente funziona come un muscolo: se non là si utilizza pienamente, tende ad atrofizzarsi, ma si può comunque farla tornare a funzionare come prima, anche se ciò richiede uno sforzo. Ci misi quasi un anno per tornare ai miei standard abituali. 241
Incubi, sensi di colpa e altri problemi emozionali Gli incubi ricorrenti sono una spia che segnala che per superare l’esperienza cultista, l’individuo necessita di ulteriore terapia d’appoggio. Questi sogni sgradevoli emergono dalla mente inconscia, che sta ancora lottando con i problemi provocati dal suo coinvolgimento nel culto. Tra gli incubi più comuni vi sono il rimanere intrappolati, l’angoscia di essere inseguiti, trovarsi in mezzo a una tormenta o nel pieno di una guerra. Ex affiliati raccontano spesso di sogni in cui tentano di convincere amici rimasti nel gruppo a uscirne fuori, mentre gli stessi amici esercitano su di loro ogni sorta di pressione per farli ritornare nel culto. Un altro serio problema riscontrato in alcuni ex adepti è rappresentato dai profondi sensi di colpa per quanto hanno fatto mentre erano nel gruppo. Alcuni sono rimasti coinvolti in azioni illegali quali frode, incendi dolosi, prostituzione e uso e smercio di droga. Ho incontrato persone che hanno disertato il servizio militare perché reclutati in un culto distruttivo e che più tardi hanno avuto problemi concreti per risolvere la loro situazione. Fortunatamente la maggior parte delle persone da me incontrate non erano incorse in questi reati. Buona parte di loro si ritrovano invece a dover prendere coscienza di come avevano trattato parenti e amici all’epoca del loro coinvolgimento. Ad esempio, alcuni discepoli cui era stato detto che il padre o la madre stavano male ed erano stati ricoverati in ospedale, si erano rifiutati di andarli a trovare per non contravvenire agli ordini del responsabile, che non aveva concesso loro il permesso. In alcuni casi è avvenuto che i genitori siano deceduti senza che all’affiliato sia stato consentito di assistere al funerale, anche se celebrato a pochi chilometri di distanza. Per una persona può essere estremamente penoso andarsene dal culto e affrontare le difficoltà e i danni emotivi che la sua adesione ha provocato. Non appena ebbi lasciato i moonisti, provai un incredibile senso di colpa nei confronti del ruolo che avevo avuto come dirigente. Mi sentivo colpevole per aver mentito e manipolato centinaia di persone. Sentivo che avevo permesso che mi usassero come “americano di facciata”, come una pedina per coreani e giapponesi, coloro che di fatto tenevano le redini del potere nel gruppo. Un ulteriore problema riguarda i sentimenti verso gli amici che sono rimasti nel gruppo. Quando me ne andai, volevo disperatamente recuperare le persone da me reclutate, ma la dirigenza moonista si era premurata di allontanare i miei amici più intimi dall’area di New York, dicendo loro che ero via per una “missione segreta”. I miei proseliti, i miei “figli spirituali”, seppero che avevo lasciato il gruppo solo tre mesi più tardi, quando era ormai divenuto impossibile negare l’evidenza dei fatti, visto che avevo iniziato ad apparire in televisione per parlare a sfavore del gruppo. Circa sei mesi dopo la mia fuoriuscita, ritornai al Queens College, dove avevo messo in piedi una filiale del CARP, e tenni per il dipartimento di psicologia una conferenza sui culti e sul controllo mentale. Tra il pubblico c’erano i miei discepoli Brian, Willie e Luis. Per circa un’ora e mezzo stettero lì seduti ad ascoltare il mio discorso sul controllo mentale. Nella mia esposizione feci esempi concreti su come avessi mentito e avessi imbrogliato coloro che reclutavo. Quando la conferenza giunse al termine, andai da loro e chiesi con molta ansia che cosa ne pensassero. Willie sorrise e mi disse: “Steve, tu non dovresti dimenticare il cuore del Principio Divino o il cuore del Padre”. Mi sentii annichilire. Sembrava che non avessero ascoltato neppure una parola di quanto avevo appena finito di dire. Mi ricordai di come, quando ero un adepto, ero stato istruito da Kamiyama ad educare i miei figli spirituali perché rimanessero sempre fedeli, anche se io avessi lasciato il gruppo. 242
All’epoca non avevo compreso perché mi avesse detto tutto ciò: l’idea di lasciare il culto non mi sfiorava neppure. Ora capivo. A quanto ne so, Brian ha poi lasciato il gruppo, mentre non ho informazioni su Willie e Luis. Persone coinvolte in culti che professano la guarigione per fede, si sono ritrovate di fronte alla morte di un bambino o di qualcuno che amavano, cui era stato impedito di ricorrere ai medici. Il rimorso che proveranno quando lasceranno il culto non dovrà ritorcersi contro di loro sotto forma di sensi di colpa. Queste persone dovranno rendersi conto che anche loro erano vittime e che si sono comportate nel modo in cui allora credevano fosse giusto comportarsi. Altri dovranno affrontare la rabbia e il rancore dei loro figli, che in alcuni casi sono stati percossi, abbandonati o hanno subito violenze, bambini cui è stata negata un’educazione e un’infanzia normale. L’orrore vissuto da alcuni di questi bambini è inimmaginabile. Alcuni gruppi, come i Krishna, separano sistematicamente i bambini dai loro genitori, permettendo a questi ultimi di visitarli solo di rado. Il gruppo 3H0 dello Yogi Bhajan, a volte trasferisce i figli dei suoi proseliti nella sua scuola in India, separando così i figli dai genitori, in modo che siano legati esclusivamente al gruppo. Quando ci si ritrovi in gruppi meno distruttivi, questa severità nei confronti dei bambini può in qualche caso produrre risultati positivi. Cosa che ho potuto appurare con Barbara, quando mi contattò per chiedere aiuto. Ella mi spiegò che per buona parte della sua vita aveva creduto di essere pazza, fino al giorno in cui, parlando con un’amica, aveva appreso che il gruppo frequentato dai suoi genitori negli ultimi dieci anni era un culto distruttivo. Barbara, che all’epoca in cui mi contattò aveva ventidue anni, aveva passato gran parte dell’infanzia all’interno della comunità. A lei e a suo fratello era stato insegnato sin da piccoli che tutte le emozioni negative erano pericolose. Tristezza, rabbia, gelosia, imbarazzo, colpa e paura dovevano essere evitate e non “coltivate”. Barbara e suo fratello Cari, furono infinitamente sollevati quando scoprirono che i problemi che avevano avuto fino ad allora non erano dovuti a una malattia mentale e che c’era qualcuno che li poteva aiutare. Da quando avevano rispettivamente dieci e dodici anni, Barbara e Cari avevano cercato di fare ciò che gli veniva ordinato, vale a dire frequentare i programmi di indottrinamento del culto, ma non si erano mai sentiti a proprio agio. D’altra parte amavano i loro genitori e cercavano di compiacerli in ogni modo possibile. Ora erano adulti e avevano iniziato a frequentare l’università, e non appena scoprirono che il gruppo in cui si trovavano era un culto distruttivo, organizzarono un incontro con me e con un ex affiliato perché li aiutassimo, insieme alla loro famiglia. I genitori erano sulla cinquantina, entrambi persone intelligenti e professionisti di successo. Lui era avvocato e lei insegnante elementare. Il padre era stato reclutato nel gruppo da un vecchio amico d’università. Come avvocato, all’inizio aveva dimostrato molto scetticismo, ma finì col farsi coinvolgere sempre di più. Alla fine, lui e sua moglie organizzavano gli incontri del gruppo nella loro città. L’intervento ebbe pieno successo e la famiglia si sente adesso ancora più unita di prima. Entrambi i genitori aiutano oggi altre persone del gruppo a rivedere il loro impegno. Parecchi se ne sono già andati. 243
Vessazioni e minacce Un problema che riguarda da vicino gli ex adepti è quello relativo a vessazioni, minacce, querele, ricatti e perfino omicidi, tutti rischi cui si va incontro, soprattutto quando ci si espone pubblicamente. Poiché i culti sono convinti che chiunque lasci il gruppo è un nemico, c’è sempre il rischio che qualcosa di terribile possa accadere a chi se ne va. Io stesso sono stato minacciato da affiliati dei culti in più di un’occasione, in genere per posta o per telefono, ma a volte anche di persona, soprattutto quando faccio volantinaggio, dimostrazioni o comunque denuncio in pubblico le attività di uno specifico gruppo. Solo una volta fui aggredito fisicamente, quando un moonista mi dette un pugno in pieno viso e cercò di trascinarmi in una rissa. Io lo guardai negli occhi e gli chiesi: “E’ questo che ci riserva il Regno dei Cieli? Mettere a tacere chi non è d’accordo?”. Lo querelai, ma lui non volle proseguire nel giudizio. Il giudice lo condannò a ripagarmi gli occhiali e gli fece una ramanzina, dicendogli di tenersi lontano da me. Anni dopo, lasciò il gruppo e mi contattò. Mi chiese scusa per l’incidente e mi rivelò che all’epoca aveva fatto ciò che gli era stato ordinato di fare: “Occupati di Steven Hassan”. Se l’uso della violenza nei confronti di ex membri è relativamente raro, il fattore paura trattiene di fatto molte persone dal presentarsi in pubblico a raccontare la loro storia. Ciò che non prendono in considerazione è il fatto che una volta che la loro storia è stata raccontata, assieme a molte altre, sarebbe oltremodo stupido da parte di un gruppo vendicarsi su loro, perché ciò non farebbe altro che provare le accuse. Quando nel 1979 fondai la Ex Moon Inc., lo feci soprattutto perché avevo capito che unendoci saremmo stati più forti e più sicuri. E questa strategia ha avuto successo. Alcuni dei gruppi più grandi e più aggressivi, come la Chiesa di Scientology, ritengono sistematicamente più proficuo attaccare che difendersi. Hanno avviato centinaia di processi contro ex adepti e persone critiche nei loro confronti, inclusa Colette Cooper, autrice di The scandal of Scientology e Gabe Cazares, ex maggiore di Clearwater, Florida. Mi risulta che la maggior parte di questi processi furono fatti con l’unico scopo di contrastare e tentare di ridurre sul lastrico gli oppositori. In un certo senso, questa strategia ha avuto successo: la maggioranza degli ex seguaci di Scientology si guarda bene dall’avviare una qualsivoglia pubblica azione nei confronti dell’organizzazione.
Problemi nelle relazioni intime Nel corso del loro reinserimento nel “mondo reale”, gli ex adepti devono confrontarsi con la frustrazione cui per anni è stato sottoposto il loro bisogno emotivo di una soddisfacente relazione di carattere intimo. In aggiunta, l’esperienza vissuta all’interno di un gruppo in cui si è stati sfruttati complica ulteriormente la situazione, rendendo oltremodo difficile affrontare il rischio emozionale legato alla costruzione di tale rapporto. Alcuni hanno dovuto negare per così tanto tempo la propria sessualità da trovare poi arduo, una volta usciti dal gruppo, riuscire a superare le proprie inibizioni. Anche per coloro che avevano il permesso di non risiedere nella comunità, lasciare il gruppo può voler dire scoprire nuove forme di rapporti interpersonali. Forse qualcuno di loro ha avuto una relazione sessuale con un “istruttore” o con un dirigente, che sfruttavano questo rapporto con ben poca attenzione per i sentimenti altrui. Lasciarsi dietro tali rapporti può essere difficile, ma il dolore della separazione e la disillusione possono essere superati. 244
Modalità di guarigione Il supporto più efficace, sia a livello emozionale che informativo, è quello fornito dagli ex membri. Nel 1986 lavorai per un anno come coordinatore nazionale di Focus, quello che all’epoca era un gruppo di ex affiliati provenienti da culti diversi che condividevano l’intento di aiutarsi tra loro e aiutare gli altri. Ho sperimentato direttamente quanto possa essere una vera e propria impresa coordinare un gruppo di persone che sono rimaste scottate da un’esperienza di gruppo. Dopo la mia esperienza con i moonisti, mi ci volle più di un anno prima che mi lasciassi coinvolgere nuovamente in una qualche forma di gruppo. Nel 1977, quando ripresi a studiare all’università, potei unirmi a questa organizzazione, formata da persone che come me avevano avuto l’esperienza dei culti e che adesso desideravano porsi al servizio degli altri. Deborah, che frequentava il Focus di Boston, si mise in contatto con me dopo che mi ebbe ascoltato parlare a una radio locale: era rimasta coinvolta in un’organizzazione di orientamento politico. Da quanto potei capire, era un gruppo dedito ad attività sociali, ma gestito come un culto autoritario. Lei vi era stata coinvolta per circa dieci anni. Un giorno, Deborah venne meno a una delle regole del gruppo: pranzò da sola con un non affiliato, e piuttosto che affrontare la punizione che il leader le avrebbe di certo riservato, facendole passare l’inferno di fronte a tutti gli altri membri, chiamò i suoi genitori e chiese loro un biglietto aereo. Si rese poi conto, però, che l’idea di far ritorno a casa la impauriva e finì col vivere per parecchi mesi nelle strade di Boulder, fintanto che non fu in grado di reintegrarsi un po’ alla volta nella società. Quando l’incontrai, era diventata una professionista di successo. Sebbene fosse fuori dal gruppo già da otto anni, non aveva mai parlato della sua esperienza fino al momento in cui aveva iniziato a frequentare le riunioni di Focus. “Mi sento come se tutta la faccenda fosse una grande scatola nera che ho paura di aprire”, spiegò alle quindici persone che erano presenti un mercoledì sera. “Però so che tutto ciò mi impedisce di fidarmi del mio compagno e di impegnarmi con lui. Penso che sia tutto collegato a quanto ho passato”. Eravamo tutti meravigliati di come fosse riuscita a mettere da parte l’esperienza del controllo mentale per così tanti anni. Quando iniziò a narrare la sua storia, ci accorgemmo che lunghi periodi di tempo erano avvolti dalle tenebre; così, più lei andava avanti nel suo racconto e più noi le facevamo domande, stimolando la sua memoria. In questo modo, col passare dei mesi Deborah fu via via sempre più in grado di ricordare ciò che le era accaduto. Era chiaro che il controllo emozionale e personale da lei subito mentre era nel gruppo era stato molto forte. “Sono veramente contenta di aver incontrato e parlato con altri fuoriusciti” mi confidò una sera. “È confortante sapere che persone intelligenti e dotate hanno passato quello che ho passato io. Non avrei mai potuto parlare del gruppo a un estraneo, senza che questi pensasse che fossi pazza o malata!”. Far parte di un gruppo di supporto serve a capire come il controllo mentale operi nell’ambito di organizzazioni anche molto diverse. Inoltre, per coloro che stanno ancora lottando contro gli effetti derivati da questa esperienza, può essere di stimolo pensare che anch’essi potranno essere capaci di superarli, realizzandosi in una vita piena e felice, socialmente produttiva. Per molte delle persone che hanno lasciato un culto distruttivo, il primo passo da compiere dovrebbe consistere nel capire il motivo per cui vi sono entrati. E se successivamente dovessero scoprire l’esistenza di problemi irrisolti precedenti alla loro adesione, dovrebbero affrontarli e risolverli. 246
Quando cercate un gruppo di supporto, può essere una buona idea rivolgervi a un centro di terapie di gruppo della vostra zona. Mi raccomando di rivolgere a questo gruppo le stesse domande che ho suggerito di sottoporre a qualsiasi gruppo, così come ho illustrato nel sesto capitolo. Cerca di essere un buon consumatore, soprattutto quando devi valutare il leader del gruppo. Generalmente, nel corso dell’anno immediatamente successivo alla loro fuoriuscita, agli ex affiliati appare evidente che quale che fosse il problema che li aveva spinti, esso di certo non è stato risolto dal culto cui avevano aderito. Ciò può essere assai deprimente, perché la speranza di conoscere meglio se stessi e diventare più forti, è tra i principali motivi di rinforzo a rimanere nel culto, talvolta anche per anni. Questa presa di coscienza può essere ancora più penosa per i membri di lunga data. Immaginate di entrare in un culto quando avete diciotto anni e uscirne all’età di trenta: siete stati privati di una buona parte della vostra vita. Vi siete visti scippare i vostri vent’anni, l’età in cui solitamente ci si interroga, ci si dedica all’università, al lavoro e alle relazioni sociali: anni preziosi che non torneranno più. Alcuni ex discepoli paragonano tale esperienza a quella dei prigionieri di guerra tornati dal Vietnam e in effetti, la sindrome da stress postraumatico sembra potersi perfettamente applicare al loro caso. Quando tornano a casa, queste persone sentono di doversi rifare di tutto. Un ex affiliato con cui ho lavorato non aveva mai sentito parlare dello scandalo Watergate, non sapeva chi fosse James Taylor e non era a conoscenza del fatto che eravamo atterrati sulla Luna e ne avevamo calpestato il suolo. Da un punto di vista cronologico la persona ha trent’anni. Psicologicamente si sente, con molta probabilità, un diciottenne. I suoi amici del liceo hanno raggiunto buone posizioni: molti si sono sposati e alcuni hanno dei bambini; altri ancora possiedono una casa e un paio di macchine. A trent’anni, lui non ha alcuna esperienza con le ragazze ed è rimasto tagliato fuori dagli eventi sociali e dagli avvenimenti del mondo per oltre dieci anni. Se si reca a un party, non ha argomenti di conversazione, a meno che non voglia parlare della sua esperienza nel culto, cosa che lo farebbe sentire ancora di più un pesce fuor d’acqua. Spesso questa persona prova un forte desiderio di rifarsi del tempo perduto. Tale situazione è fortemente ansiogena e può anche diventare molto stancante. E’ vero che la persona è rimasta tagliata fuori dalla società per anni, ma prima di tutto deve impa rare a concedersi il tempo necessario per curarsi, crescere e sviluppare. E’ importante che prenda coscienza del fatto di avere un proprio percorso da compiere, un cammino scandito da ritmi personali e concentrato sui propri bisogni, senza che debba essere continuamente sottoposta al confronto con gli altri. Parlando a proposito della figlia che aveva da poco lasciato un gruppo, un genitore sensibile ha espresso molto bene questo concetto: “Se qualcuno viene travolto da un camion, tutti sanno che ha bisogno di tempo per rimettersi in sesto. Nessuno si aspetta che si alzi dal letto ed esca a cercarsi un lavoro la settimana successiva all’incidente, no?”. Ciascun individuo che sia stato seguace di un culto è una realtà a sé stante e ha bisogni diversi da quelli degli altri. Alcuni ex adepti sono in grado di effettuare recuperi molto rapidi. Altri, che hanno subìto un trauma maggiore, necessitano di più tempo. Nel caso di quel genitore, la figlia tornò a vivere in casa per un anno e mezzo e durante tutto questo periodo il padre non le fece alcun tipo di pressione perché si trovasse un lavoro e se ne andasse. Si era reso conto che la ragazza stava facendo del suo meglio. 247
Gli ex membri hanno bisogno di imparare ad avere nuovamente fiducia in se stessi. Devono diventare i migliori amici come pure i migliori terapeuti di se stessi. E’ necessario che prendano coscienza di non aver scelto razionalmente di sottoporsi a menzogne e sfruttamento: la colpa non è loro. Col tempo imparano a fidarsi di loro stessi, della loro intelligenza e del loro istinto, e insieme scoprono che possono tornare a fidarsi anche del prossimo. Devono imparare anche a non generalizzare e rendersi conto che non tutti i gruppi sono negativi. Di fatto, il lato positivo di far parte di un gruppo sano, sia esso religioso, sociale o politico, consiste nella possibilità di esercitare una forma di controllo sul tuo coinvolgimento. Non sei costretto a rimanerci un minuto di più, se vuoi uscirne. E neppure devi star seduto in silenzio a colpevolizzare te stesso quando non capisci quanto viene detto o fatto. Puoi fare tutte le domande che vuoi fintanto che non sei soddisfatto. Non solo è giusto: è un tuo sacrosanto diritto! Un altro passo significativo consiste nell’imparare a mettersi in contatto con le proprie emozioni e canalizzarle nella giusta direzione in modo efficace. All’inizio, quando un seguace esce da un culto, molte delle sue emozioni rimangono in uno stato di torpore, essendo state per lungo tempo rimosse. Ma poi, via via che riacquista equilibrio e si inserisce nuovamente nel contesto sociale, inizia a provare prima vergogna e imbarazzo e poi, spesso, rabbia e indignazione. La persona passa dal chiedersi “Che cosa non va in me?” al domandarsi “Come hanno potuto farmi questo?”. A un certo punto la persona potrà anche mettersi alla spasmodica ricerca di qualsiasi elemento utile ad approfondire la sua conoscenza del gruppo, in modo da poter rispondere a ogni suo interrogativo al riguardo. Questo è un passo terapeutico molto positivo. Spesso, per un seguace che lascia il gruppo l’obiettivo prioritario è salvare gli amici che sono rimasti dentro. Per un ex cultista il dispiacere maggiore è rappresentato dalla perdita di ogni contatto con coloro che ha conosciuto e di cui si è preso cura. Può essere particolarmente doloroso realizzare che le amicizie che si pensava fossero così salde e profonde, erano in realtà condizionate alla permanenza nel gruppo. Egli può rapidamente rendersi conto della forza del controllo mentale, scoprendo che il suo amico più intimo, rimasto nel culto, rifiuta di incontrarsi con lui. Può accadere che una volta che sia riuscito a dare una risposta a tutte le sue domande, l’ex adepto raggiunga un punto di saturazione. Egli arriva a una conclusione del tipo “Basta! Non riusciranno a portarmi via anche il resto della mia vita!”, e inizia a fare piani per il futuro. Talvolta rimangono problemi irrisolti che necessitano di ulteriore terapia individuale. Sarah, per dieci anni devota della Church Universal and Triumphant, sebbene fosse stata forzosamente deprogrammata più di cinque anni prima, presentava ancora dei problemi legati alla sua appartenenza al culto. Ci accordammo fissando una decina di sedute. Il primo “compito a casa” che le affidai fu di scrivere tutta l’esperienza trascorsa nel culto. Questo è qualcosa che raccomando di fare a ogni ex adepto, un esercizio che aiuta a sviluppare una visione oggettiva e completa dell‘esperienza vissuta. Era certamente qualcosa di cui Sarah aveva assoluta mente bisogno, se voleva uscirne del tutto. 248
Dal momento che era rimasta coinvolta nel culto così a lungo, le suggerii di iniziare a mettere giù ogni cosa a grandi linee. Le dissi di prendere dieci cartelle e di numerare ciascuna di esse partendo dal 1973 al 1983, di inserire poi dodici fogli in ogni cartella e di mettere su ogni foglio un’etichetta, per ciascuno dei dodici mesi. Dopo essersi così organizzata, le dissi di scrivere qualsiasi cosa ritenesse significativa che le veniva in mente, sia in senso positivo che negativo. Le dissi, inoltre, di non preoccuparsi se avesse riscontrato dei vuoti, perché un po’ per volta li avremmo riempiti. Per aiutarla, le consigliai di ricordare i posti in cui aveva vissuto o che aveva visitato. Quali regioni, ad esempio, aveva visitato col gruppo; per quanto tempo e in quali occasioni era andata a far visita ai suoi familiari, e così via. Le dissi anche di pensare a persone o amicizie significative, come pure alle esperienze che avevano lasciato un segno importante nella sua vita di cultista. Un po’ alla volta fu in grado di riempire tutte le cartelle, descrivendo la sua intera esperienza, documentando come era stata reclutata e identificando le cose che le erano piaciute e quelle negative. Fu in grado di tracciare un profilo dei suoi momenti felici e di quelli in cui era stata depressa, rendendosi conto di come in varie occasioni si fosse sentita triste e delusa, senza però riuscire a trovare una via d’uscita. A un certo punto, era andata a trovare i genitori e aveva raccontato loro della sua infelicità; essi l’avevano portata allora da uno psicologo, il quale però, sfortunatamente, non si era reso conto che i suoi problemi erano dovuti all’appartenenza al culto. Dopo due mesi passati a casa, Sarah aveva fatto ritorno al gruppo. Trasferendo sulla carta l’intera esperienza, Sarah ne acquisì una visione più completa e fu in grado di darne un giudizio obiettivo. Non aveva più bisogno di trattenere nella mente tutti quei sentimenti contraddittori, intorno ai quali per così tanto tempo si era lambiccata il cervello senza riuscire a venirne fuori: ora era tutto lì, nero su bianco. Come parte del processo terapeutico, le dissi che la persona la cui storia riempiva quelle dieci cartelle non esisteva più. Le suggerii di pensare a quella persona come alla giovane Sarah, una persona che comunque aveva cercato di fare qualcosa di buono della sua vita. Quando era stata reclutata, non sapeva nulla di culti o di controllo mentale. La indussi a visualizzare se stessa come una viaggiatrice nel tempo e le ordinai di andare indietro e insegnare alla giovane Sarah ogni cosa sul controllo mentale, in modo che potesse evitare i reclutatori. Le chiesi di immaginare come sarebbe stata diversa la sua vita se non fosse mai entrata nel culto. Ciò la mise in grado di rendersi conto che con più informazioni avrebbe avuto maggiori possibilità di scelta e avrebbe potuto capire in tempo di essere in pericolo. Successivamente, questo lavoro avrebbe giocato un ruolo determinante nella buona riuscita della terapia. Le chiesi di rivivere una alla volta le esperienze traumatiche vissute. Adesso però era in grado di correggere le sue risposte. Ora poteva rispondere ai dirigenti e dire loro di fronte a tutti ciò che pensava e andarsene. Pur sapendo che si trattava di un esercizio, ciò le diede l’opportunità di canalizzare le sue emozioni in maniera costruttiva e di riconquistare dignità e fiducia in se stessa. Se all’epoca avesse potuto alzarsi in piedi e urlare in faccia al suo leader “Smettila di raccontare fandonie!”, andandosene via, avrebbe potuto evitare il trauma della de-programmazione forzata. 250
Sarah sapeva che i suoi genitori avevano dovuto agire così pur di salvarla. Attraverso questo processo ella poté acquisire il controllo della sua esperienza. Ciò significò anche la fine della terapia: Sarah era ormai in grado di camminare da sola. Come chiunque altro che si fosse trovato nella sua situazione, Sarah aveva bisogno di mettere assieme tutte le cose che aveva imparato e il ricordo delle persone che aveva incontrato e di cui era diventata amica, e integrarle in un nuovo senso di identità. Integrare il passato nel presente rende gli ex adepti molto più forti. Non bisogna dimenticare che sono dei sopravvissuti, persone cui sono stati inflitti trattamenti rudi e spesso abusate. Ma sono anche persone che grazie alle informazioni ricevute e al lavoro personale, sono oggi in grado di superare le avversità. Come tutti gli ex affiliati che ho avuto in terapia, anche Sarah soffriva di mancanza di fiducia, in se stessa come negli altri, e aveva paura di impegnarsi in un lavoro o in una relazione. Aiutandola a elaborare la sua esperienza fui in grado di mostrarle come ora possedesse risorse sconosciute alla Sarah giovane e che quella persona che era stata ingannata e indottrinata ormai non esisteva più. Era cresciuta e si era fatta più furba e più saggia. Sapeva di essere finalmente in grado di identificare ed evitare qualsiasi situazione in cui potesse essere manipolata e usata: la lezione era stata profondamente interiorizzata, Aveva maggiore fiducia in se stessa, e se avesse avuto bisogno di aiuto sapeva come cercarlo e dove. Allo stesso modo sapeva che non doveva temere di impegnarsi. Aveva imparato a fare domande e a riproporle, a non fidarsi di un lavoro o una relazione che le avesse richiesto qualcosa che andava contro i suoi principi morali e il suo senso etico. Come tutti coloro che abbiano subito violenze o che siano stati ingannati, gli ex adepti hanno bisogno di imparare a ricostruire la fiducia in se stessi e negli altri un po’ per volta. Quando sarà il momento, saranno capaci di affrontare piccoli rischi e di fare le opportune verifiche. Non devono mai sentirsi costretti a fare un passo più lungo della gamba. 251
Servizi per ex affiliati di culti distruttivi Negli Stati Uniti esistono tre strutture in grado di dare aiuto o appoggio terapeutico, sia per brevi come per lunghi periodi. Il ricorso a queste strutture è completamente volontario e in genere il periodo di permanenza va dalle due alle quattro settimane. La più grande e antica di queste istituzioni si chiama Unbound e si trova ad Iowa City, nell’Iowa. E’ gestita da Kevin Crawley e Diana Paulina, coadiuvati nella loro attività da personale stipendiato, formato da ex adepti che lavorano a tempo pieno. La casa è fornita di un’eccellente biblioteca, videoteca e audioteca. Wellspring Retreat, gestita da Paul e Barbara Martin, è una fattoria privata situata nell’Ohio, trasformata in centro di recupero. Oltre ad essere psicologo, Paul è un ex affiliato della Great Commission International, un culto che si ispira alla Bibbia,’ di cui ha fatto parte per otto anni. La fattoria è fornita di una notevole biblioteca. La Cook Home Inc. si trova a Enid, Oklahoma, è gestita da Betty e Jack Cook e anch’essa è dotata di una gran bella biblioteca. Parecchi anni fa i Cook riuscirono a recuperare la loro figlia Sheryl da The Way International e da allora sono molto impegnati nell’aiutare gli altri. Betty ha un master in exit counseling. Si tratta di centri a gestione privata. Il costo del soggiorno è nell’ordine delle migliaia di dollari, ma varia a seconda dei casi. Quando si considerano queste cifre, è importante tenere presente che per alcune persone, l’opportunità di avere un posto dove andare per qualche settimana e ricevere appoggio e aiuto terapeutico, non ha prezzo. Certamente sarebbe importante disporre di aiuti finanziari che permettessero ad altri ex adepti di usufruire di questi servizi, così come sarebbe auspicabile l’apertura di altri centri riabilitativi e di appoggio. Quando si lavora con ex affiliati è di vitale importanza assumere un approccio costruttivo. I fuoriusciti dai culti hanno bisogno di non buttare via le esperienze positive fatte all’epoca del loro coinvolgimento nel culto: l’aver viaggiato, l’esperienza di vendita al pubblico, l’aver imparato una lingua straniera, l’autodisciplina, l’abilità di parlare in pubblico e altre capacità possono essere integrate e trovar posto nella vita futura. Utilizzando le abilità acquisite, queste persone possono diventare ancora più forti di chi non abbia vissuto la loro stessa esperienza, e una volta conquistata una sana prospettiva di vita, saranno in grado di apprezzare maggiormente quella libertà di cui si sono dovuti riappropriare lottando. Gli ex seguaci dei culti distruttivi sono dei sopravvissuti e dovrebbero rendersi conto del potere e della forza che hanno dalla loro. Se ce l’hanno fatta a uscire da un’esperienza cultista, sono potenzialmente in grado di farcela in qualsiasi altra situazione.
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Capitolo 11 IL PASSO SUCCESSIVO Ritengo che l’uso illecito del controllo mentale abbia raggiunto dimensioni tali da potersi considerare tra i problemi sociali più rilevanti, non solo negli Stati Uniti ma anche in molti altri Paesi. Come nel caso della Chiesa dell’Unificazione, abbiamo appreso dell’esistenza di culti che mirano ad acquisire rilevanza politica,’ mentre altre organizzazioni preferiscono esercitare la loro influenza “istruendo” manager che andranno ad occupare posizioni chiave nelle aziende. Negli Stati Uniti, l’ondata immigratoria di asiatici e ispanidi ha fatto si che i culti si interessassero anche di queste comunità, usando per il reclutamento quelle stesse tecniche precedentemente impiegate nei confronti della classe media bianca. Alcuni gruppi cultisti sono stati tanto abili nel settore delle pubbliche relazioni da guadagnarsi un ottimo livello di accettazione sociale. Personaggi di spicco che accettano di partecipare a conferenze e convegni organizzati da un culto (cui partecipano scienziati, avvocati, politici, uomini di chiesa, accademici), contribuiscono a conferire al culto un’immagine di affidabilità. Anche se ignorano o non danno la sufficiente importanza al ruolo che il culto riveste in queste riunioni, il fatto di prendervi parte si risolve in un’approvazione indiretta delle attività svolte dal culto stesso. Personalmente nutro una preoccupazione ben precisa. Se non opportunamente monitorate, le attività dei gruppi continueranno a provocare danni psicologici e perfino fisici a migliaia (se non milioni) di persone che non hanno la più pallida idea di cosa sia l’impiego scorretto del controllo mentale. Fintanto che non ci sarà una legge che renda responsabili i culti distruttivi per la sistematica violazione dei diritti dei loro associati, tali gruppi continueranno indisturbati a ingannare la gente, spacciandosi per organizzazioni del tutto regolari e innocue. Da un punto di vista pratico, siamo tutti comprensibilmente riluttanti a inserire nel novero delle tante problematiche sociali un’ennesima fonte di preoccupazione. La televisione, la radio e i giornali ci bombardano ogni giorno con notizie che riguardano il rischio nucleare, la massiccia distruzione delle risorse naturali, la fame in Africa, il dilagare della corruzione politica, 1’Aids. Perché mai aggiungere un altro problema a una lista già tanto lunga? Sebbene le storie sui culti diffuse attraverso i media negli ultimi anni siano centinaia, sono pochi i casi in cui sia stata affrontata in maniera diretta la questione del controllo mentale. Articoli e servizi televisivi tendono a presentare le vicende legate ai culti alla stregua di storie di natura “religiosa”, piuttosto che sotto l’ottica di esperienze in cui si è stati sistematicamente condizionati. Inoltre, una volta che si è abbassata la soglia di attenzione del mondo dell’informazione, superato l’orrore per il massacro di Jonestown, la gente ha maturato l’impressione che i culti attivi siano complessivamente pochi e che siano andati diminuendo, se non altro perché i media ne parlano meno. Io stesso sono il primo a riconoscere la mancanza di sondaggi su scala nazionale, in grado di fornire un quadro esauriente del modo in cui la gente considera i culti. Molte persone con le quali affronto questo argomento si mostrano sorprese quando apprendono che l’operato di questi gruppi rappresenta uno dei principali problemi sociali esistenti negli Stati Uniti. Sono convinto che molti ritengano si tratti di un fenomeno che risale agli anni Sessanta e Settanta, un problema relativo a pochi giovani hippy e presto scomparso, riassorbito dalla società. La convinzione che i culti siano un “fenomeno di transizione” non è casuale: anche in anni più recenti, molti gruppi hanno esercitato la loro influenza in momenti cruciali e in luoghi significativi, facendo in modo di prevenire eventuali indagini pubbliche nei loro confronti. Eccone alcuni esempi. 254
I culti e il governo degli Stati Uniti A quello che divenne poi tristemente noto come il “massacro di Jonestown”, il pubblico reagì con incredulità, sgomento e una crescente preoccupazione per l’influenza esercitata dai culti distruttivi. In particolare, l’omicidio di un parlamentare degli Stati Uniti per mano di alcuni adepti, dimostrò la determinazione di persone che non si fermano di fronte a nulla pur di evitare qualsivoglia interferenza, soprattutto se a infastidirli è un personaggio che riveste una carica politica autorevole. L’omicidio di Leo Ryan mi rattristò profondamente. Sapevo che era interessato al problema dei culti distruttivi, dal momento che era stato un membro di rilievo nella Sottocommissione di indagine parlamentare sulle relazioni tra Corea e Stati Uniti, guidata dal parlamentare Donald Fraser. Nel documento che divenne noto col nome di Rapporto Fraser — presentato poche settimane prima del suicidio di massa di Jonestown — si chiedeva l’istituzione di una task force governativa al fine di perseguire legalmente ogni attività illecita dell’organizzazione diretta da Moon. Una raccomandazione che cadde nel vuoto. Sicuramente, qualcuno avrà pensato che tra le sue varie attività il governo stesse effettivamente facendo qualcosa anche sul fronte dei culti. Venne aperta un’inchiesta su Jonestown e nel 1979 fu elaborato un rapporto sul massacro del Tempio del Popolo, in cui venivano descritte in dettaglio le tecniche di lavaggio del cervello messe in atto da Jim Jones. Il rapporto esprimeva parere favorevole affinché l’Istituto nazionale di salute mentale ricevesse i fondi necessari per portare avanti ulteriori ricerche sul controllo mentale e i culti distruttivi. Anche questa raccomandazione cadde nel vuoto. Malgrado ciò, il senatore Bob Dole promosse un’audizione sui culti e io venni invitato a parlare. Il giorno dell’udienza, però, mi fu improvvisamente comunicato che gli ex affiliati non avrebbero avuto la parola, per evitare, ci venne detto, che i membri dei culti reclamassero analogo diritto a intervenire. Comunque sia, nella sala in cui si teneva l’audizione c’era gente che sventolava cartelli con su scritto “Vogliamo Bob Dole Presidente. Abroghiamo il Primo Emendamento”. Nonostante la partecipazione fosse stata revocata agli ex adepti, il Comitato concesse la parola a Neil Salonen, il portavoce dei moonisti, affinché potesse rilasciare una dichiarazione. Cominciai a rendermi conto della protezione politica di cui godevano i culti. C’era qualcosa di molto strano. Nulla veniva fatto di quanto richiesto dal Rapporto Fraser, nulla si faceva sul fronte dell’inchiesta relativa al Tempio del Popolo. Comunque, importanti sviluppi in altre aree iniziarono a gettare nuova luce sui problemi relativi all’uso indebito del controllo mentale. Nel 1979, la pubblicazione del volume di John Marks intitolato The Search for the Manchurian Candidate venne accompagnata da un’intensa campagna pubblicitaria. L’autore vi raccontava con dovizia di particolare le ricerche sul controllo mentale condotte dalla CIA tra gli anni Cinquanta e inizi Sessanta. Tali ricerche, nome in codice di MK-ULTRA, includevano esperimenti con LSD, terapie ipnotiche ed elettroshock. Alcuni mesi dopo, la rete televisiva ABC trasmise un’inchiesta che prendeva spunto dal libro. Fra i tanti intervistati c’era anche un famoso psicologo della CIA, John Gittinger, il quale ammise l’esistenza di una ricerca del genere incentrata sul controllo mentale, ma asserì che l’ipnosi, oggetto centrale dello studio, non aveva mostrato alcuna utilità operativa. Sidney Gottlieb, un ufficiale della CIA anch’esso impegnato nelle indagini scientifiche sul controllo mentale, disse che tutte le ricerche erano state abbandonate nel 1963. Egli si era ritirato dall’attività nel 1973 e aveva distrutto tutti i suoi archivi. 255
Sapevo che le tecniche di controllo mentale erano una realtà. Io stesso avevo vissuto in un ambiente dove venivano esercitate e a mia volta le avevo applicate ad altri. Avevo effettuato ricerche sul controllo mentale con i più noti esperti del settore, tra cui Robert Jay Lifton, e sapevo che nessuno psicologo degno di rispetto avrebbe negato “l’utilità” di studiare il controllo mentale. Le affermazioni di Gittinger e Gottlieb mi spinsero a cercare risposta alle numerose domande che mi affollavano la mente. Perché mai il nostro governo non informava i cittadini dei pericoli del controllo mentale? Perché la questione veniva sempre fatta passare come qualcosa inerente alla libertà religiosa e, quindi, al primo emendamento? Doveva esserci un motivo. Secondo John Marks, nelle ricerche governative sul controllo mentale erano stati perpetrati abusi sui soggetti degli esperimenti: chiaro che l’ammissione di una tale responsabilità da parte del governo sarebbe stata non solo imbarazzante, ma anche rischiosa. Inoltre, è ragionevole ritenere che anche motivazioni di carattere politico potrebbero spingere il governo a non ammettere pubblicamente di conoscere le tecniche di controllo mentale. Ma in ogni caso, resta il fatto che i contribuenti hanno investito milioni di dollari in ricerche inerenti tale argomento, durate decine di anni. Personalmente, non ho nulla in contrario alla realizzazione di tali ricerche, non è questo il punto. Quale professionista della salute mentale, mi stanno a cuore le analisi condotte nel pieno rispetto dei principi etici, finalizzate ad accrescere la conoscenza di noi stessi e della nostra mente. E neppure sono contrario alla riservatezza circa le informazioni attinenti alla sicurezza nazionale. Allo stesso tempo, però, ritengo che nel caso il governo abbia effettivamente condotto ricerche attinenti al controllo mentale, abbia il dovere di informare il pubblico che la possibilità di esercitare tale controllo esiste concretamente. Non esistono leggi che riconoscendo la fattispecie del controllo mentale, ne proibiscano l’utilizzo per finalità non etiche, così come avviene nel caso di taluni culti, ivi inclusa la Chiesa dell’Unificazione. Abbiamo dunque a che fare con la mancanza di un riconoscimento esplicito dell’esistenza del controllo mentale e del fatto che il suo utilizzo per finalità non corrette sia illegale: a mio avviso, con tale silenzio il governo indirettamente condona la pratica non etica del controllo mentale. Basta guardarsi attorno per vedere gli effetti di questo silenzio e di questa passività governativa: i gruppi che esercitano il controllo mentale vanno diffondendosi come mai prima. I principi della democrazia e della libertà esigono che la realtà del controllo mentale venga portata a conoscenza dell’opinione pubblica, affinché possa essere valutata criticamente. 256
I culti distruttivi e la salute mentale Se è vero che l’azione politica nei confronti dei culti distruttivi è penosamente lenta, non altrettanto può dirsi sul fronte della terapia, che registra passi da gigante, al punto che la letteratura diagnostica usata dagli psicologi, il DSM-HI, include oggi una categoria che menziona espressamente le vittime dei culti. Tale categoria viene classificata come “Disordine dissociativo atipico 300.15”. Nella definizione degli effetti patologici del controllo mentale si legge, fra l’altro: “Esempi tipici comprendono stati simili alla trance, estraniamento dalla realtà accompagnato da depersonalizzazione e stati di dissociazione prolungata che possono insorgere in individui che siano stati sottoposti a periodi di prolungata e intensa persuasione coercitiva (lavaggio del cervello, riforma del pensiero e indottrinamento, mentre erano prigionieri di gruppi terroristici o cultistici)”. Permane la necessità che aumenti il numero degli exit counselor in grado di identificare e aiutare le vittime del controllo mentale. Purtroppo, vi sono stati anche svariati casi di “ricercatori”, che sembra siano lautamente finanziati, impegnati in una guerra strisciante volta a tacitare qualsiasi preoccupazione sia sul controllo mentale che sui culti. Bisogna mettere in dubbio la validità di ricerche che per la raccolta e l’analisi dei dati si basano sulla sola e unica collaborazione dei leader dei culti. Quando ero nei moonisti, facevamo in modo che gli accademici da noi contattati sapessero solo ciò che noi volevamo sapessero, e vedessero solo quello che noi consentivamo loro di vedere. Ma oltre a tali discutibili ricerche, sulle problematiche associate alle tecniche del controllo mentale sono state svolte anche indagini rigorose. Flavil Yeakley, stimato psicologo della Abilene Christian University, ha condotto numerosi studi sui profili psicologici degli adepti dei culti. Yeakley ha sottoposto centinaia di seguaci di svariati gruppi religiosi, sia regolarmente istituiti che cultisti, al Meyers-Briggs Type Indicator (MB- TI), un test di personalità. I soggetti dovevano compilare per tre volte il relativo questionario: la prima volta dovevano rispondere secondo lo schema di pensiero che avevano al momento, mentre la seconda dovevano rispondere calandosi nel sistema di pensiero che avevano prima di aderire al gruppo. Infine, Yeakley chiedeva ai soggetti di immaginare e scrivere le risposte che avrebbero dato da lì a cinque anni. Lo studioso ha sottoposto il test a proseliti di vari gruppi: Boston Church of Christ, Chiesa di Scientology, Hare Krishna, Maranatha, Bambini di Dio, Moonisti e The Way International. I risultati hanno mostrato un alto livello di cambiamento verso alcune tipologie di personalità standard, come definite dal test. In altre parole, gli adepti di alcuni culti tendevano tutti ad assumere la medesima tipologia di personalità, a prescindere dalle loro caratteristiche peculiari precedenti all’adesione. A me sembra che i risultati di questo test provino la validità della tesi da me formulata, secondo cui i culti forniscono nuove personalità ai seguaci (fenomeno che Yeakley definisce “donazione”), rimuovendo le loro identità originarie. Come lo stesso Yeakley mi ha chiaramente illustrato in una sua lettera: “Sia nella Boston Church che in tre degli altri culti, il cambiamento era orientato verso la personalità di tipo ESFJ (Extrovert, Sensing, Fee Judging). 257
Due dei culti andavano verso il tipo ESTJ (Extrovert, Sensing, Thinking, Judging) e uno verso il tipo ENTJ (Extrovert, Intuitive, Thinking, Judging). Non c’è nulla che non vada in queste tre tipologie. Il problema consiste nel fatto che venga esercitata una pressione affinché l’individuo vi si conformi. E’ il cambiamento da una personalità all’altra a essere negativo, non la tipologia di personalità verso cui esso si orienta”. Comparativamente, il medesimo test è stato condotto su membri di chiese diverse: battista, cattolica, luterana, metodista, presbiteriana e delle Churches of Christ istituite. I risultati non hanno mostrato nel tempo cambiamenti significativi dei profili e delle tipologie psicologiche. In altre parole, non vi era indicazione di una pressione esercitata sulle persone affinché si conformassero a un particolare tipo di personalità. Di fatto, le personalità originarie rimanevano inalterate. 258
Studio e applicazione delle ricerche sul controllo mentale In questo settore c’è bisogno di molte altre ricerche e ci auguriamo che ciò avvenga il prima possibile. Nel frattempo, famosi professionisti nel campo della salute mentale ed esperti del controllo mentale esercitato dai culti come Margaret Singer (uc, Berkeley), Louis Jolyon West (UCLA, Neuro Psychiatric Institute), John Clark (Harvard Medical School) e Michael Langone (American Family Foundation), si stanno unendo ad altri studiosi intorno al progetto di una società di ricerca volta allo studio dell’impatto che la persuasione coercitiva ha sulla società. La tecnica del controllo mentale non è in se stessa negativa. Così come qualsiasi altra tecnica, può essere usata per costruire o per distruggere: può essere applicata per dare più sicurezza e libertà all’individuo o per renderlo uno schiavo. La depressione nella sua forma più grave affligge milioni di individui e li priva dell’entusiasmo e della forza di essere vivi. Non c’è nulla di “orwelliano” nel voler prendere in considerazione la tecnica del controllo mentale, se la persona sceglie liberamente di usarla e se l‘applica su di sé al fine di poter immaginare e creare, in piena autonomia, un futuro migliore per se stessa. Ciò è ben diverso dal deviare l’energia di un individuo dai suoi obiettivi personali per rivolgerla altrove. In un certo senso, i culti distruttivi stanno conducendo esperimenti psicologici non autorizzati. Queste loro pratiche non possono essere accettate, perché gli standard etici usati nella ricerca non permetterebbero mai questo tipo di comportamento. Comunque sia, dalle esperienze personali di coloro che sono stati sottoposti al controllo mentale si può imparare molto, e sono assolutamente convinto che gli studi in questo campo possano essere di grande utilità. Inoltre, coloro che sanno come opera il controllo mentale hanno un maggiore vantaggio su coloro che lo ignorano. Se una persona è di sani principi, quale che sia l’uso che farà del controllo mentale sarà comunque per uno scopo lecito. Si tratta di individui che possono usare la loro conoscenza per proteggersi dall’uso illecito del controllo che altri possono voler esercitare su loro. In ogni caso, moralità e saggezza richiedono un approccio equilibrato per l’uso di qualsiasi mezzo in grado di influenzare la mente umana. Spero vivamente che le tematiche relative all’argomento del controllo mentale possano essere discusse in modo esauriente e che vengano messi in atto meccanismi di protezione tali da scongiurare ogni abuso di questa tecnica. Queste considerazioni rappresentano solo l’inizio di quanto deve essere fatto in campo sociale, ed è ancora lunga la strada che attende i professionisti della salute mentale, affinché siano in grado di aiutare più efficacemente coloro che soffrono per le conseguenze dell’uso improprio del controllo mentale. 259
I culti e la legge Un altro settore che necessita di aggiornamento è quello legislativo. Le leggi attuali non riconoscono l’esistenza del controllo mentale a meno che non siano presenti l’uso della forza o la minaccia fisica. Non ci sono leggi contro l’induzione ipnotica mascherata o l’uso delle tecniche di controllo mentale per fini illeciti. Capita così che la legge finisca col proteggere i culti distruttivi più di quanto non faccia nei confronti delle loro inconsapevoli vittime. Nessun gruppo dovrebbe violare i diritti civili dei suoi membri, eppure il reclutamento nei culti distruttivi priva le persone del loro desiderio di una vita libera e felice. Molti affiliati non possono leggere quello che vogliono, parlare liberamente, scegliersi un lavoro e, in alcuni casi, neppure scegliere chi sposare. La solidità economica dei gruppi cultisti ha permesso loro di ingaggiare i migliori avvocati sulla piazza e dar corso a un gran numero di atti giudiziari (con grandi disagi per le persone trascinate in giudizio) contro chi manifesta posizioni critiche ed ex membri. Perfino alcuni dirigenti della American Civil Liberties Union (AcLu) hanno talvolta preso le difese dei culti distruttivi e invocato il primo emendamento, senza prendere opportunamente in considerazione l’evidenza delle ricerche condotte sul controllo mentale. A quanto ne so, qualsiasi tentativo volto a ottenere una legislazione contro il reclutamento esercitato con l’inganno, o contro le tattiche fraudolenti condotte per la raccolta di fondi, è stato ignorato. Le difficoltà incontrate dal legislatore per sanzionare la palese violazione dei diritti dell’individuo, dipendono in parte dal fatto che i culti abbiano usato a mo’ di paravento il diritto costituzionale inerente alla libertà religiosa. Negli Stati Uniti il diritto delle persone a credere in ciò che vogliono è fondamentale e assoluto, ed è giusto che sia così. Ma ciò che non è affatto assoluto è il diritto di un qualsivoglia gruppo a fare tutto ciò che vuole. Facciamo un esempio: un culto può credere che sia cosa sacra maneggiare serpenti velenosi, ma la legge proibisce i rituali che ne prevedano l’impiego, perché ciò ha già provocato la morte di numerose persone. Gli avvocati dei culti fanno di tutto per ignorare questa differenza e cercano di trasformare i problemi legali in problemi di fede anziché di comportamento. L’esperienza di reclutamento e “conversione” è quella più difficile da analizzare. Un gruppo ha realmente il diritto di ingannare un potenziale discepolo con il pretesto che se questi sapesse la verità non accetterebbe di aderire al culto? Ha il diritto di manipolare i pensieri e i sentimenti di un individuo e controllare l’ambiente in cui vive per fargli sperimentare l’esperienza della “conversione”? Se così dovesse essere, dove andrebbe a collocarsi il confine tra la manipolazione legale e quella illegale? Per anni è stato scientificamente impossibile determinare se una persona era sotto controllo mentale. Qualsiasi valutazione non poteva che essere soggettiva. Ma ogni anno la scienza fa un passo avanti nella possibilità di fornire prove concrete sull’esistenza di una disfunzione. Per ora la ricerca scientifica può solo confermare la diagnosi di disordini multipli della personalità derivati dall’aver subito un controllo mentale. Le persone che ricevono questo tipo di diagnosi mostrano sequenze di onde cerebrali diverse quando passano dalla personalità cultista a quella originaria e viceversa. Sono convinto che è solo questione di tempo: un giorno la scienza sarà in grado di sostenere e dimostrare in un’aula di tribunale che la capacità di agire di un individuo è stata minata dal controllo mentale. 260
Nel frattempo ci sono stati sviluppi positivi in campo legale. Ex seguaci di culti distruttivi hanno iniziato a sporgere querele per frode, negligenza, asservimento involontario e persecuzione. Presentano anche querele per non essere stati retribuiti mentre lavoravano per il culto, per il denaro e le proprietà devolute, e per i danni psicologici subiti. Attualmente, cinquecentocinquanta ex seguaci di Scientology hanno fatto causa al gruppo per un miliardo di dollari, mentre vi sono diversi ex adepti di Meditazione Trascendentale, oggi facenti parte del gruppo di supporto e informazione degli ex MT, che hanno fatto causa alla loro ex organizzazione d’appartenenza. Altre querele sono state presentate contro Werner Erhard e Forum e contro John Hanley e Lifespring, come pure nei confronti di molti altri gruppi con programmi di auto-miglioramento. Il Daily Mail di Londra è stato querelato per diffamazione dai moonisti, per due articoli pubblicati nel 1983. In quello che può essere a tutt’oggi considerato come il più lungo dei processi per diffamazione della storia giudiziaria inglese, la Corte ha affermato che i moonisti hanno praticato il “lavaggio del cervello sui loro membri, cercando di allontanarli dalle loro famiglie”. Il gruppo perse la causa e fu costretto a pagare due milioni di dollari in spese legali.’ In Inghilterra, la legislatura in materia di diffamazione prevede che chiunque perda una causa debba poi rispondere delle spese di entrambe le parti. In questo caso, quindi, le spese legali del Daily Mail vennero pagate dai moonisti. Penso che questo sistema dovrebbe essere adottato anche negli USA. Ciò diminuirebbe il danno prodotto dalle querele presentate dai culti e contribuirebbe a creare un’atmosfera di maggiore libertà e giustizia anche per i mezzi d’informazione. Facendo opera di divulgazione, ho potuto appurare di persona la pressione esercitata dai culti nei confronti dei media. All’inizio del 1988, l’editore di una rivista molto diffusa mi vide in televisione e mi chiese di scrivere una recensione critica al libro L. Ron Hubbard: Messiah or Madman? scritto da Bent Corydon, un fuoriuscito da Scientology dopo ventidue anni di militanza. Per caso avevo appena finito di leggere il libro e fui ben felice di accettare. Ma la mia recensione non venne mai pubblicata. Anche se tutto ciò che dicevo era la pura verità, l’editore mi disse che aveva paura di essere querelato dalla Chiesa di Scientology e aggiunse che, sebbene fosse spiacente, la sua casa editrice non poteva permettersi un così cattivo affare. Una cosa è certa: se anche l’economia americana dovesse indebolirsi, le compagnie gestite dai culti continuerebbero a crescere e a far partecipare un numero sempre maggiore di dipendenti ai seminari e ai workshop organizzati dalla compagnia (già oggi i dirigenti di varie imprese arrivano in massa per seguire programmi che insegnano loro come meglio influenzare e controllare il prossimo, e in alcuni casi i culti hanno assunto la gestione delle compagnie proprio in questo modo). Molte compagnie di proprietà dei culti sono state in grado di battere la concorrenza perché i loro impiegati lavorano gratis. Possono anche evitare di pagare le tasse, poiché sui loro libri contabili risultano regolari pagamenti di salari che vengono però passati all’organizzazione, che è esentasse. In apparenza, dunque, la compagnia sembra avere profitti marginali, ma in realtà si tratta di guadagni molto cospicui. 261
Il pericolo del cultismo nel movimento della New Age La New Age ha avuto un enorme successo. Il channeling, nuovo termine che sta per “medianità” (una presunta facoltà paranormale per comunicare con morti o spiriti disincarnati), ha sviluppato un giro d’affari di parecchi milioni di dollari. Nonostante gli spiriti non abbiano mai fornito prove concrete sulla loro partecipazione a tali conversazioni, le persone interessate a questo fenomeno sono molte, ed esiste sul mercato una gran quantità di libri e di corsi che insegnano come raggiungere la trance per mettersi in contatto con l’aldilà. Ciò che in realtà accade alle persone che hanno pagato centinaia di dollari per partecipare a questi seminari, è di assistere a un semplice spettacolo abbinato a un’esperienza d’ipnosi collettiva. Quando una persona ‘viene ipnotizzata, fa esperienza di un piacevole stato di rilassamento, di disorientamento nel tempo (non sa più se sono le due o le cinque, se è martedì o domenica) e, cosa ancora più importante, di un momentaneo abbattimento delle facoltà critiche: in sostanza perde la capacità di valutare coscientemente la propria esperienza. L’ipnosi, importante componente della tecnica del controllo mentale, è un fantastico strumento di esplorazione e sviluppo della persona, ma il controllo dovrebbe rimanere sempre nella mani del soggetto e non passare a un’autorità esterna. Quando si arriva a credere che qualcun altro sa meglio di noi cosa sia meglio fare, allora si è in pericolo. Mi preoccupa molto che si chieda alla gente di chiudere fuori la propria mente razionale e lasciarsi andare, “abbandonarsi”. A cosa dovrebbero mai abbandonarsi? In questo approccio, poi, non sembra esservi posto per la casualità. Se ti è successo qualcosa, ciò è avvenuto perché dovevi imparare qualcosa. Tale convinzione si può estensivamente applicare a qualsiasi tipo di situazione, inclusa quella del controllo mentale illecito. Dobbiamo forse credere che sia giusto che le persone subiscano il controllo mentale solo perché vi si sono imbattuti? Siamo persone dotate di libero arbitrio e non dovremmo mai abbandonare la nostra facoltà di operare scelte appropriate. Sono convinto che non ci possa essere vera crescita spirituale se si abdica alla propria integrità e responsabilità personale. Sono troppi i ciarlatani e i venditori di fumo assetati di potere e di soldi che in questi ultimi anni sono spuntati fuori dal nulla: la spiritualità è un bene troppo prezioso perché venga ridotto a un insieme di formule e ovvietà o rivestito di valore commerciale. Un altro recente fenomeno è quello che ha visto un interesse crescente nei confronti degli UFO, fenomeno che è andato associandosi al channeling. L’enorme popolarità che si è guadagnata l’opera di Whitley Strieber, Communion, è un buon indicatore di quanto “scottante” sia diventato quest’argomento. Sebbene alcuni dei suoi lettori non se lo aspettassero, Strieber ha espresso diverse critiche sul movimento del channeling e sulle tendenze sociali verso il cultismo a sfondo ufologico. Oltre a Festinger, numerosi ricercatori (in particolar modo Jacques Vallee, autore di Messengers of Deception, uno studio del 1979 sul cultismo degli UFO) hanno messo in guardia il pubblico sui pericoli delle attività cultiste centrate sul fenomeno degli UFO, e non mancano di certo gli esempi pratici. 262
Se è vero che vi può essere qualche valido elemento di interesse riguardo al fenomeno degli UFO (non tutti gli avvistamenti possono essere spiegati secondo i metodi convenzionali) non siamo ancora riusciti a stabilire in maniera definitiva in cosa consista esattamente. Ma proprio per quèsto motivo, molta gente si sente autorizzata a spiegarci cos’è. Negli anni Ottanta abbiamo visto nascere un nuovo tipo di medium, quello ufologico, che sostiene di essere in contatto con i “fratelli dello spazio” di altri sistemi solari. Credo che questi medium siano sospetti almeno quanto quelli più tradizionali e che abbiano il potenziale adatto per fondare nuovi culti sugli UFO. Bisogna dunque fare molta attenzione. Gli ideali ispirati alla creazione di una Nuova Era sono certamente degni di rispetto, e di certo così è per buona parte di loro. Sono convinto che si debba cercare di consolidare un nuovo sistema di valori, dove non siano più prioritari l’avidità, il potere assoluto e il materialismo sfrenato. Creatività, compassione e saggezza dovrebbero essere le qualità cui ciascuno aspira. Non vi è dubbio che le genti di tutto il pianeta dovrebbero assumere una nuova visione del mondo. Una rivoluzione della coscienza potrebbe aprirci le porte che conducono a una nuova era di pace, di bontà e di responsabilità. Rimango scettico, però, di fronte a chiunque dichiari di possedere risposte assolute o si professi detentore dell’unico e infallibile metodo per raggiungere l’illuminazione. Come ha scritto William Blake, poeta dell’immaginario: “Sta a me creare un sistema, altrimenti diventerò schiavo di quello di qualcun altro”. 263
I culti e la libertà religiosa A mio avviso è di estrema importanza che la libertà religiosa non sia minacciata in alcun modo. Il principio costituzionale secondo cui le persone debbono essere libere di scegliere il loro credo e seguire le proprie convinzioni religiose dev’essere sempre salvaguardato. Niente potrebbe ferirmi di più che sapere che questo libro ha spinto qualcuno sulla via dell’intolleranza religiosa. La discriminazione verso chiunque abbia un credo diverso è cosa ben triste, oltre che illegale. Ricordo come mi sono sentito quando mi hanno sputato in faccia, mi hanno preso a calci e pugni, o quando sono stato insultato perché ero un moonista. Tale trattamento, mai provocato, è servito solo a rafforzare i miei sentimenti di lealtà verso il mio gruppo e a farmi sentire perseguitato per la mia fede in Dio. In genere sono sempre stato contro chiunque volesse bandire i culti dalle università, a meno che non violino quelle regole di condotta cui ogni organizzazione studentesca deve ottemperare. Credo che questi gruppi abbiano il diritto di esistere e non sarei d’accordo se venisse approvata una legge che li ostacolasse. Al contempo, vorrei però che le università prevedessero seminari e programmi di informazione e prevenzione sul controllo mentale e le tecniche di reclutamento usate dai culti distruttivi. 264
Il futuro Perché i culti distruttivi hanno una tale diffusione? Perché le persone sono così pronte ad aderire alle attività proposte dalle organizzazioni cultiste? Credo che i problemi da affrontare in futuro siano esattamente questi. Mentre lo sviluppo di tecniche sempre più raffinate di controllo mentale hanno fatto sì che aumentasse il numero di affiliati, il proliferare dei culti distruttivi può essere attribuito anche al diminuito senso di comunità che caratterizza la vita attuale. Noi non viviamo più all’interno dei confini di uno stesso, piccolo territorio ed è cosa normale che un individuo si sposti e cambi casa anche più volte, percorrendo svariati chilometri nell’arco della sua vita. Questa mancanza di stanzialità mina quel senso di comunità che ritengo sia indispensabile affinché un essere umano possa sentirsi completo. Mi capita sempre più spesso di sentir raccontare che all’inizio si viene attratti da un culto per quella piacevole sensazione di stare assieme e di agire come se si fosse un’unica grande famiglia; di fatto, ciò che più manca a un ex affiliato è quel sentirsi parte di una comunità compatta e unita. Essere teledipendenti in fatto di divertimento e informazione costituisce anch’esso un fattore che predispone una persona ad associarsi a un culto. E’ opinione comune che gran parte di ciò che mostra la televisione non stimoli affatto il nostro intelletto, la nostra immaginazione o le nostre aspirazioni più alte. Al contrario, la televisione incoraggerebbe il conformismo e creerebbe una percezione distorta della realtà. In quale altro posto, se non dentro la scatola catodica, i problemi si risolvono nell’ arco di un episodio della durata di un’ora? Inoltre, pur essendo importante sapere cosa accade nel mondo, il fatto di essere bombardati da un fuoco di fila di notizie sulla droga, sugli scandali sessuali, sulla corruzione e la violenza finisce col gravare sulla nostra psiche. Si può fare molto per fermare il diffondersi dei culti nella nostra società. Guidate da leader responsabili, le organizzazioni sociali e spirituali possono fare molto per andare incontro ai bisogni della comunità e utilizzarne le risorse. Questi sforzi, se ben indirizzati, potranno dar luogo alla creazione di un gruppo unito che lavora per il perseguimento di un fine costruttivo, capace di soddisfare quel forte bisogno che così tante persone hanno di sentirsi parte di una vera, grande comunità. L’altra possibile risposta al diffondersi dei culti nella nostra società va trovata in una massiccia opera di informazione ed educazione. Il governo dovrebbe stanziare dei fondi volti alla ricerca e al recupero delle vittime dei culti distruttivi. La riforma nell’ambito dell’educazione pubblica dovrebbe essere mirata a incoraggiare le persone a pensare con la propria testa, a riflettere, esaminare le informazioni e fare delle scelte responsabili di fronte a ciò che offre il mercato. Mi piacerebbe vedere un giorno tutte le scuole superiori e le università insegnare agli studenti che cosa sono i culti distruttivi e il controllo mentale. Non vi sarebbe bisogno alcuno di riferirsi a specifici gruppi: il corso dovrebbe solo affrontare i principi psicologici del controllo mentale e insegnare agli studenti a diffidare di qualsiasi ambiente in cui venga scoraggiato ogni rilievo critico. Per rendere la democrazia più efficace, la gente dovrebbe rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro per operare dei cambiamenti. Sarà necessario riconsiderare i principi di ognuno e le singole priorità, e garantire un’informazione realmente libera. 266
Considerazioni finali Scrivere questo libro è stato il coronamento di un sogno a lungo coltivato: contribuire, con una guida pratica e informativa, ad aiutare coloro che si imbattono nei culti distruttivi a risolvere i loro problemi. E’ stato un cammino lungo e difficile. Dopo tutte le paure, le persecuzioni e le minacce cui sono andato incontro, posso ora guardare indietro e dire che se questo libro sarà d’aiuto a quanti vorranno capire come opera il controllo mentale nei culti distruttivi, allora ne è valsa la pena. E’ stato importante, io credo, raccontare tutta la storia, inclusi i miei metodi di exit counseling, pur temendo che ciò possa indurre i culti a inventare tecniche di controllo ancora più raffinate. Spero che la demistificazione dell’exit counseling possa aiutare coloro che non hanno voluto rivolgersi alla deprogrammazione forzata, affinché inizino a fare qualcosa per i propri cari. Spero inoltre che questo libro possa contribuire a formare una nuova coscienza pubblica sul controllo mentale e i culti distruttivi e che il governo prenda anch’esso coscienza del problema e faccia qualcosa al riguardo. Vorrei altresì incoraggiare le persone che hanno vissuto un’esperienza di controllo mentale a rendere pubblica la loro esperienza e a impegnarsi ad aiutare altri come loro. Abbiamo bisogno del vostro aiuto! Man mano che si capiranno meglio i culti e il controllo mentale, il marchio impresso a fuoco sugli ex affiliati tenderà a scomparire. Coloro che hanno creduto e aderito a un culto arriveranno a capire che non hanno colpa di quanto è loro successo e che hanno ancora molto da dare alla società, se solo verrà loro offerta l’opportunità di farlo. Molti dei miei ex pazienti e amici hanno fatto grandi progressi e sono tornati ad essere cittadini liberi e produttivi. Ma c’è bisogno di partecipazione: se hai bisogno di aiuto o vuoi dare tu un sostegno o entrambe le cose, fai un passo costruttivo in questa direzione. Puoi essere di grande aiuto. Come dice Edmund Burke: “Ciò che rende possibile al malvagio di trionfare è che i buoni non fanno nulla”. 267
APPENDICE
Gli otto criteri di Robert J. Lifton sul controllo mentale
Quello che segue è un estratto del libro The Future of Immortality and other Essays for a Nuclear Age (New York, Basic Books, 1987), in cui Robert J. Lifton riassume gli otto parametri da lui messi a punto per definire il controllo mentale. Sebbene nel testo siano evidenziati tra virgolette, li elenco qui di seguito per una loro più facile identificazione. 1. Controllo dell’ambiente. 2. Manipolazione mistica (o spontaneità programmata). 3. Esigenza di purezza. 4. Confessione. 5. Scienza sacra. 6. Gergo interno. 7. La dottrina prima della persona. 8. Concessione dell’esistenza. Il capitolo da cui è tratta questa selezione porta il titolo “Culti: totalitarismo religioso e libertà civili”. In esso Lifton commenta ciò che egli definisce “totalitarismo ideologico”, ovvero l’ambiente in cui veniva praticata la riforma del pensiero, così come lui la apprese durante e subito dopo la guerra di Corea. 268
Totalitarismo ideologico A tutt’oggi, a proposito di totalitarismo ideologico mi sembra ancora valida la fenomenologia usata nel mio precedente lavoro, sebbene il libro sia stato scritto nel 1960. La prima caratteristica è data dal “controllo dell’ambiente”, che in pratica altro non è che il controllo della comunicazione in un dato ambiente sociale. Nel caso in cui sia molto intenso, il controllo mira a diventare interiorizzato, nel tentativo di gestire la comunicazione interiore dell’individuo. Pur non realizzandosi mai in maniera completa, questo controllo può arrivare in profondità. Si manifesta come il convincimento che il possesso della verità sia un’esclusiva del gruppo e in tale senso può ovviamente entrare in conflitto con l’autonomia dell’individuo, vissuta come una minaccia. All’interno dei culti il controllo del contesto sociale è mantenuto grazie all’intervento di diversi fattori: processi di gruppo, isolamento da altre persone, pressione psicologica, distanza geografica o mancanza di mezzi di trasporto e, qualche volta, pressione fisica. Spesso vengono utilizzati particolari eventi, tipo seminari, conferenze e incontri di gruppo, che diventano con il tempo sempre più intensi e tenuti in luoghi sempre più isolati, in modo da rendere molto difficile, sia fisicamente che psicologicamente, la possibilità di andarsene. Questi culti differiscono dal tipo di totalitarismo esistente in altre società. In Cina, ad esempio, i centri in cui veniva praticata la riforma del pensiero si adattavano più o meno all’etica sociale del momento e quindi, quando l’individuo li lasciava, l’ambiente esterno agiva ancora da rinforzo. I culti, invece, tendono a diventare isole di totalitarismo nell’ambito di una società più estesa che, considerata nel suo insieme, è loro antagonista. Questa situazione può creare una particolare dinamica interna: per mantenere il controllo occorre aumentare la pressione e i leader devono spesso usare tecniche più metodiche e rigide, allo scopo di mantenere integra quell’isola di totalitarismo circondata da un mondo esterno antagonista. L’imposizione di un forte controllo dell’ambiente è strettamente connessa al processo di cambiamento dell’individuo (cosa che in parte spiega l’eventuale e improvvisa scomparsa dell’identità cultista, quando un giovane che sia rimasto nel culto per un dato periodo di tempo si trova improvvisamente esposto all’influenza del mondo esterno). Si può materialmente osservare questo processo in quei giovani che subiscono una drammatica alterazione della propria personalità, nel momento in cui abbracciano l’intero sistema di credenze del culto. Considero questo fenomeno una forma di sdoppiamento: si forma un secondo Io che convive fianco a fianco con il precedente, ma dal quale è in qualche modo autonomo. Ovviamente, ci deve essere qualche elemento di connessione che integri l’Io originario all’altro, altrimenti la persona non sarebbe in grado di agire, ma l’autonomia di ciascuno dei due è impressionante. Se tale controllo viene meno e l’adepto si trova improvvisamente fuori dall’ambiente totalitario, qualcosa del suo Io originario torna ad affermarsi. Un allontanamento che può avvenire volontariamente o con la forza (o può avverarsi semplicemente, come accaduto in un caso approdato in tribunale, quando il discepolo di un culto si è spostato fisicamente al lato opposto del tavolo, allontanandosi dagli altri affiliati). Le due personalità possono coesistere simultaneamente e confusamente per un tempo considerevole e spesso i periodi di transizione da una personalità all’altra sono psicologicamente i più intensi e dolorosi, come pure possono potenzialmente essere i più pericolosi. 270
Una seconda caratteristica degli ambienti totalitari è ciò che io chiamo “manipolazione mistica” o “spontaneità programmata”. E’ un processo sistematico che viene pianificato e gestito dall’alto (dalla dirigenza), ma che sembra sorgere spontaneamente dall’interno. Il fatto che la manipolazione non venga percepita come tale, solleva importanti problemi etici. Alcuni elementi rituali come il digiuno, il cantilenare, la limitazione del sonno, hanno una lunga tradizione e sono praticati dai gruppi religiosi da centinaia di anni. Oggi, però, esiste uno schema cultista in cui una persona in particolare sembra essere “scelta” come salvatore o fonte di salvezza. In questi culti la manipolazione mistica può assumere una valenza particolare, perché i leader diventano i mediatori tra i discepoli e Dio. I principi dottrinali vengono esposti con forza e rivendicati come esclusivi, in modo che il culto e i suoi dogmi diventino l’unica vera via di salvezza. Ciò conferisce forza alla manipolazione mistica, giustifica chi dall’alto si impegna a promuoverla e infine, come spesso avviene, giustifica anche chi, in basso, ne diventa il destinatario. Quando al centro della manipolazione mistica vi è un individuo preciso (la persona in nome della quale viene esercitata) avviene un doppio processo. Più reale di un dio astratto, quella persona può attirare i proseliti con il suo carisma oppure diventare fonte di delusione. Nei fatti non si tratta mai di un semplice processo di causa-effetto; ciò che voglio dire è che in termini di fedeltà al culto, questo stile di dirigenza presenta sia vantaggi che svantaggi. Mentre la manipolazione mistica conduce (nei membri del culto) a ciò che ho definito la psicologia della pedina, essa può anche includere (verso coloro che sono fuori) una legittimazione dell’inganno: il cosiddetto “inganno celeste” della Chiesa dell’Unificazione e analoghe strategie in altri ambienti cultisti. Se una persona non ha ancora visto la luce e non è entrata nel regno del culto, si troverà allora nel regno del male e quindi il fatto di ingannarla sarà giustificato dall’alto fine che si sta perseguendo. In alcuni casi, ad esempio, proseliti impegnati a raccogliere fondi negano la propria affiliazione a un culto, bugia ritenuta legittima nel caso vengano loro rivolte specifiche domande al riguardo. Molti giovani si sono trovati a frequentare un gruppo senza che venisse loro detto che si trattava di un centro gestito da un particolare culto. L’ideologia totalitaria può giustificare, e spesso giustifica, tale inganno. Altre due caratteristiche del totalitarismo, “esigenza di purezza” e “confessione”, sono ben note. Il primo di questi due elementi può creare nei culti, come pure in altri gruppi religiosi e politici, una sorta di manicheismo. L’esigenza di purezza è un processo continuo che prevede una radicale separazione tra puro e impuro, buono e cattivo, sia rispetto alla società che nei confronti di se sessi. Spesso viene istituzionalizzata e, come fonte di stimolo per sensi di colpa e vergogna, si lega al processo della confessione. I movimenti ideologici, quale che sia il loro livello di coinvolgimento, si appropriano dei sentimenti di colpa e di vergogna dell’individuo, allo scopo di esercitare una forte influenza sui cambiamenti cui il discepolo va incontro. Ciò si raggiunge attraverso una ben strutturata procedura. Le sedute destinate alla confessione avvengono generalmente all’interno di piccoli gruppi e sono accompagnate da verbalizzazioni di critica e autocritica. La forte pressione che così si realizza sull’individuo diviene un elemento attivo verso il cambiamento personale. 271
Sull’ambiguità e la complessità di questo processo si potrebbe aggiungere molto, e Camus ha giustamente osservato che “gli autori di confessioni scrivono soprattutto per evitare le confessioni, per non dire nulla di ciò che sanno”. Camus forse esagerava, ma non sbagliava nell’affermare che le confessioni sono una commistione di rivelazioni e occultamenti. Un giovane che confessi i peccati della sua vita pre-cultista o preistituzionale può sia credere di aver commesso tali colpe, che agire per coprire idee e sentimenti di cui non è cosciente o non vuole parlare. In alcuni casi avviene che questi peccati includano una continua identificazione con la personalità pre-cultista, quando tale identificazione non sia stata completamente sradicata dal processo della confessione. Il ripetersi della confessione, allora, diventa un’espressione di estrema arroganza celata sotto un’apparente umiltà. Ancora Camus: “Pratico la professione di penitente per diventare un giudice”, e “più accuso me stesso, più acquisto il diritto di giudicarli”. Questo è il tema centrale in ogni continuativo pro cesso di confessione, soprattutto quando avviene in un gruppo chiuso. I tre ulteriori criteri da me enunciati in relazione al totalitarismo ideologico sono “la scienza sacra”, “il gergo interno” e il principio della “dottrina prima della persona”. Questi elementi si spiegano quasi da soli. Io sottolineerei soprattutto quello che riguarda la scienza sacra, perché ai giorni nostri per avere una presa sulle persone occorrono riferimenti che abbiano qualcosa di scientifico, non soltanto spirituali. La scienza sacra può offrire ai giovani una grossa sicurezza perché semplifica molto la vita. La Chiesa dell’Unificazione è un buon esempio, ma non certamente il solo, del bisogno di combinare uno schema di principi dogmatici con la pretesa di possedere una scienza che incarni la verità sul comportamento e la psicologia dell’uomo. Nel caso della Chiesa dell’Unificazione, questa pretesa di una scienza umana che tutto racchiuda viene promossa invitando studiosi anche famosi a simposi che esaltano l’unità della conoscenza: i partecipanti esprimono liberamente i loro punti di vista, ma non mancano di contribuire all’immagine di serietà intellettuale cui il gruppo aspira. Il termine “gergo interno” si riferisce a una struttura linguistica in cui parole e immagini diventano principi dottrinali. Un linguaggio assai semplificato potrebbe sembrare ridotto a degli slogan, ma può avere un forte richiamo e potere psicologico proprio per la sua semplificazione. Nel caso dei culti ci troviamo spesso di fronte all’adesione da parte di giovani con vite molto complicate, e poiché tutti i problemi della vita possono essere ricondotti a semplici enunciati dotati di una propria coerenza interna, allora diventa possibile rivendicare l’esperienza della verità e sperimentarla. Esistono, cioè, risposte precise. Lionel Trilling l’ha definito il “linguaggio del non-pensiero” perché si riducono a cliché e slogan tematiche altrimenti difficili e complesse. Il criterio della “dottrina prima della persona”, si ha quando esiste un conflitto tra il significato che l’individuo attribuisce a una data esperienza e ciò che la dottrina o il dogma ritengono debba essere il significato dell’esperienza in questione. All’interno di strutture totalitarie la persona sente come assoluta la verità del dogma, e ad essa assoggetta la propria esperienza. Spesso, la contraddizione tra ciò che si sente e ciò che si dovrebbe sentire, o l’ammissione di una propria e diversa esperienza, possono generare immediati sensi di colpa; altrimenti, sarà il gruppo a condannare l’adepto a vivere il senso di colpa per non essere stato in grado di conformarsi al dogma della dottrina. 272
Si farà in modo di far sentire i dubbi come il riflesso dell’impurità del discepolo. Eppure i dubbi possono insorgere; e se il conflitto diventa intenso, la persona può anche decidere di andarsene. Questa è la difficoltà principale cui molti culti vanno incontro: mantenere l’adesione può rappresentare un problema ben più grande dello stesso finanziamento economico. Infine, l’ottavo e forse il più significativo criterio: ciò che io chiamo “concessione dell’esistenza”. Si tratta di un principio la cui valenza è metaforica. Agli occhi di un individuo che ha una visione assolutistica o totalitaria della verità, coloro che non hanno visto la luce e non hanno abbracciato quella stessa verità sono in un certo qual modo nel mondo delle tenebre, sono caduti nel male, sono corrotti e non hanno diritto di esistere. Vi è una evidente dicotomia tra “esistenza contro nonesistenza”. Gli ostacoli alla legittimazione dell’esistenza devono essere allontanati o distrutti. Colui che viene posto nella seconda categoria, quella di chi non ha diritto di esistere, può provare una tremenda paura di annichilimento interiore o di collasso. Di contro, quando si viene accettati si prova la grande soddisfazione nel sentirsi di appartenere a un’élite. Nei casi estremi la concessione dell’esistenza, o per contro l’assenza del diritto di esistere, può essere interpretato alla lettera: le persone possono essere condannate a morte a causa delle loro presunte carenze dottrinali, come è già successo in molti posti, inclusa l’Unione Sovietica e la Germania nazista. Nel massacro del Tempio del Popolo, in Guyana, un singolo leader fu letteralmente in grado di presiedere alla concessione dell’esistenza, o più precisamente della non-esistenza, attraverso una mistica suicida che lui stesso aveva incluso nell’ideologia del gruppo. L’impulso totalitaristico a tracciare una netta linea di demarcazione tra coloro che hanno il diritto di esistere e coloro che ne sono privi può trasformarsi in un approccio mortale alla soluzione dei problemi umani fondamentali. E in un’epoca nucleare le dottrine totalitarie e fondamentaliste sono doppiamente pericolose. Nonostante i problemi, nessuno di questi processi è del tutto inattaccabile. Uno degli scopi che mi prefiggo nel parlarne è quello di contrastare la tendenza della cultura a negare l’esistenza di tali realtà; un altro è la loro demistificazione: poterli mostrare in termini che siano comprensibili in base alla nostra conoscenza del comportamento umano.
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