Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo 8807170337, 9788807170331

Anche se racconta la vita di Gillo Pontecorvo il libro non è solo un libro di cinema né, tantomeno, una biografia "

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Italian Pages 209 [226] Year 1999

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Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo
 8807170337, 9788807170331

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Memorie estorte “a uno smemorato Vita di Gillo Pontecorvo

ISBN 88-07-17033-7

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re Mogrsta Gillo Pontecorvo e la Biennale di Venezia per l'uso

Di mestiere faccio il critico cinematografico, ma questo non è un libro di cinema né, tantomeno, di critica. È il racconto— fatto in una terza persona sotto cui si nascondono una prima persona che racconta, dimentica, ricostruisce i ricordi di settantanove anni di vita, e una prima persona che ascolta, provoca, chiede — di una storia molto speciale, che si dà il caso sia quella di un signore, Gillo Pontecorvo, che è stato “anche” un grande regista di cinema. L'idea di dedicargli un libro che non fosse solo o soprattutto un libro di cinema, ma molto di più un libro su un personaggio singolare e sulla sua vita piena di incontri, di passioni e di avventure, mi è venuta quando ormai da qualche anno ero diventata amica di Gillo, avevo lavorato per un po’ con lui alla Mostra del cinema di Venezia durante la sua direzione, avevo mangiato l'ottima pasta e fagioli di Picci, gli avevo prestato delle cassette di film che altrimenti lui non si sarebbe mai sognato di andare a vedere, avevo viaggiato con lui alla ricerca di film per il suo festival, avevo passato interi pomeriggi di primavera sul prato della sua casa di Nazzano, a mezz'ora da Roma, a guardarlo spostare una macchia di narcisi gialli da un punto all’altro, secondo un suo misterioso e imperscrutabile disegno estetico capace di tenerlo sveglio la notte a immaginare nuove soluzioni quasi fosse un mago dei giardini come Capability Brown e di spedirlo da Roma alla campagna in un blitz di due ore. Gillo ha riluttato a lungo. Devo immaginare che non si trattasse di diffidenza nei miei confronti, vista l'amicizia e la fiducia

che mi ha generalmente dimostrato. Forse non si trattava neanche, come si potrebbe pensare, di modestia. Si trattava invece, io credo, di una profonda autoironia, che è infatti emersa come il

tono e il leitmotiv di tutti i ricordi che insieme abbiamo ricostruito. Dico ricostruito perché tirarli fuori da Gillo non è stato

facile — ed ecco quindi il perché del titolo, da lui fortemente vo-

luto. Non è stato facile un po’ perché gli anni della sua vita sono tanti e, per una serie di casi e di coincidenze, affollati di persone

e di eventi. Un po’ perché la malattia che lo ha colpito nel ’91 ha contribuito ad accentuare una sua tendenza naturale alla rimozione. Un po’ perché, come Pinocchio nel paese dei balocchi, Gillo nel paese delle storie si distrae, si diverte a raccontare l’ultimo episodio ameno che lo riguarda — ma in definitiva ha poca voglia di parlare sul serio di se stesso. È stata una grande fatica. Sull’arco di due anni, quando i suoi impegni di lavoro e i miei ci concedevano un raro pomeriggio libero, inforcavo il mio motorino, affrontavo il traffico dei Lungotevere, salivo (contromano) via Paolo Frisi, una tranquilla stra-

dina dei Parioli. E una volta arrivata a destinazione e acceso il registratore, avrei voluto semplicemente buttarmi su un comodo divano: se non fosse che nell’accogliente casa Pontecorvo in questi anni il salotto ha funzionato come sede distaccata prima della Biennale cinema, poi dell'Ente cinema di cui Gillo è attual-

mente il presidente. E i divani - quello ricoperto di un vecchio kilim, quello rivestito di un velluto rosso che Gillo considera di

un colore unico al mondo, e quindi preziosissimo, e quindi intoccabile — sono sempre stati ricoperti da fax importantissimi, da cartelline che era impensabile spostare, da appunti a matita nell'inconfondibile e incomprensibile grafia pontecorviana. E una volta, sotto il cuscino a cui ho tentato goffamente di appoggiarmi, c'era persino una Grolla d’oro, bella ma scomoda... Comfort, dunque, poco, divertimento molto. Seduta in pizzo al divano di kilim, mentre

Gillo se ne stava abbandonato

sulla

sua poltrona di velluto rosa sotto gli scaffali dei libri e le foto polverose — di lui con Picasso, di lui con Sartre, di lui con Brando,

di lui con un pesce più alto di lui, di sua moglie Picci e dei bambini -, quando non ci siamo persi in chiacchiere amicali, in risse sugli argomenti del giorno (sì, litighiamo), in confidenze tanto esilaranti quanto destinate a essere dimenticate (che però hanno deliziato le amiche generose che, sotto il vincolo della discrezione, hanno trascritto alcuni dei nastri), abbiamo così, disordinatamente e coloritamente, rievocato settantanove anni di vita

(compiuti il 19 novembre 1998). Quando un ricordo era incompleto, quando mancava un tassello alla ricostruzione, ci si offriva una gamma di soluzioni. 1. Ci penseremo la prossima volta. 2. Chiedilo a Montaldo che se lo ricorda. 3. Chiedilo a Franco (Giraldi) che come sopra. 4. (Per

cose più pubbliche) Chiedilo a Tullio (Kezich). 5. (La più praticata) Chiediamolo a Picci.

Nella pace borghese di via Paolo Frisi si levava allora l'urlo

guerresco di Gillo, “Picci!”. E Picci - che purtroppo qualche volta non c'era — compariva dolcissima e gentile dalla sua stanza, pronta a rimettere in sesto un ricordo, una data, il nome di una strada, ma anche a ridimensionare un’incazzatura, un’esagerazione, un'eccessiva modestia. Quando non cera, il lavoro era in-

dubbiamente più duro. Racconto tutto questo per spiegare che in realtà Memorie estor-

te a uno smemorato non è una biografia, né tantomeno un’autobiografia affidata alla penna (al computer) di un altro. Questo piccolo libro è, o vorrebbe essere, un ritratto in cui il soggetto ha posato davanti al suo ritrattista, una testimonianza, un moderno ro-

manzo picaresco, persino — ambizione ovviamente non da poco —

un piccolo racconto morale: la storia di una bella vita, cominciata negli agi e nel privilegio della grande casa della famiglia Pontecorvo, proseguita in mezzo agli stravolgimenti della guerra, alle scoperte politiche, all'impegno, alla rivelazione del cinema, agli amori, alle delusioni “ideali”, ai bambini,

alla musica, alla ma-

niacale attrazione perle donne, alle amicizie sparse in tutto il mondo, e approdata agli incarichi ufficiali di questi ultimi tempi — la direzione per cinque anni di Venezia, l'Ente cinema —, ma vissuta sempre con la leggerezza, l'ironia, l'entusiasmo, l'onestà, la fanciullesca capacità di reinventarsi, la francescana semplicità di un

uomo che ha saputo vivere da ricco e da povero, che si è guadagnato il pane giocando a tennis e facendo film, che ha combattuto nella guerra partigiana e girato Caroselli, indifferente al denaro, sempre coerente con un’ideologia più morale che politica. Sembra un santino? Non lo è. Con Gillo, in dieci anni di amicizia che rispetto alla sua lunga vita non sono granché, me ne rendo conto, ho avuto occasione di litigare e qualche volta di dirgli che i suoi comportamenti mi avevano delusa. Ma resta l'allegria che emana dalla sua persona — a testimonianza del fatto che una bella vita porta felicità a chi la vive e a chi la segue da osservatore. Il racconto di questi settantanove anni di Gillo potrà dunque essere parziale

o incompleto, ma lo è apposta. Sotto la terza per-

sona volevo che si sentisse la sua voce — con qualche “a parte” tutto mio. Sotto la biografia volevo che ci fosse la favola vera di una vita. Sotto i ricordi volevo che uscisse quello che io penso sia un insegnamento

non da poco: che non importano tanto il successo,

i soldi, la fama (tutte cose che Gillo ha avuto e qualche volta perduto), ma la passione, l'entusiasmo, la capacità di vivere con in-

tensità le cose grandi e piccole della vita — dalla lotta di Liberazione ai narcisi un po’ scamuffi del suo collinoso terreno di Nazzano. Roma, gennaio 1999

i.B.

Capitolo primo In cui si racconta come Gillo (Pontecorvo) sia nato nel 1919 a Pisa, in una grande casa, in una grande famiglia, quinto di otto fratelli tutti abbastanza speciali. Come abbia studiato poco, letto molto, imparato a giocare a tennis, scoperto il gusto dell’indipendenza e l'odio per la chimica. E come alla fine se ne sia partito per la “ville lumière” perché nel frattempo le cose in Italia, grazie al fascismo e alle leggi razziali, non andavano tanto bene, soprattutto per gli ebrei — anche se Gillo e la sua famiglia da un pezzo quasi non si ricordavano di esserlo. La casa, ovviamente, non c’è più, inghiottita dalla speculazione edilizia che ha investito anche la bellissima Pisa. L'aveva fatta costruire la madre di Gillo, con la precisa volontà di farla

assomigliare in tutto e per tutto a una casa “antica” o per lo meno ottocentesca. Era fuori Porta Nuova, a un tiro di schioppo da piazza dei Miracoli, in via Bonanno Pisano al numero 4, dove c'è

adesso un brutto albergo senza charme costruito negli anni sessanta. Gillo ricorda che ci fossero due piani (ma dice anche che ricorda tutto molto male). Sua sorella Laura, che vive

a Roma a

Borgo Pio, che gli assomiglia moltissimo e coltiva in maniera più credibile e precisa le memorie familiari, dice che i piani erano tre, con un seminterrato e un immenso giardino. Tutti e due la ricordano come un posto magico: il regno di una ben organizza-

ta libertà. E organizzata doveva essere per forza, casa Pontecorvo, vista la ventina di persone che vi circolava a vario titolo, minacciando a ogni minuto di trasformarla altrimenti in un caos. La popolazione di via Bonanno Pisano 4 era composta dai genitori, gli otto ragazzi, due cameriere, la cuoca, la signorina francese, il giar-

diniere che si occupava del grande giardino con le palme, il boschetto dei gelsomini e un albicocco (le versioni contrastano, for-

se si trattava di un nespolo, comunque doveva essere un albero di frutti dorati se tutti lo ricordano così) “che ci faceva impazzire,

a noi bambini”. Ricorda Gillo che negli anni duri in cui face-

va il funzionario di partito, viveva in alloggi risicati ed era povero in canna, il pensiero dell’appartamentino in fondo al parco in cui abitava il giardiniere con la moglie, quell’orto-giardino ben curato, quella pace, scatenavano in lui crisi di nostalgia e di invidia. Era stata Maria Maroni a volere quella casa, in ogni dettaglio, 11

compresa la finta antichità delle mura e della struttura e i veri e bellissimi mobili antichi che la arredavano. Aveva voluto l'enorme scalone, il grande portone, il gigantesco camino, il suo salottino personale con uno Schiedmayer nero verticale (che però lei non suonava troppo bene), le stanze per i ragazzi, i quartierini per la servitù, la dispensa e la “stanzaccia”, come si chiamava nel lessico familiare Pontecorvo il grande ambiente dove, in mezzo a mille altri impicci, c'era un secondo pianoforte, un Pleyel, quello “peggiore”, su cui si esercitavano i ragazzi, e un grande tavolo da pingpong su cui cenavano quando si facevano le cose alla buona. Mamma Maria, ricorda Gillo, viveva e pensava sempre alla grande, “al contrario di mio padre che era un uomo più semplice, molto modesto”. Era graziosa ed esile, la mamma. Molto intelligente, probabilmente più del papà, dice Gillo. E aggiunge con un po' di senso di colpa che a loro ragazzi sembrava anche meno simpatica, forse per via di un velo di snobismo. O, in parole più diplomatiche, perché era “sensibile a certe cose esteriori”. Forse perché il nonno materno di Gillo, Arrigo Maroni, era il primario di un grande ospedale milanese, il Fatebenefratelli: un signore che conosceva e frequentava tutti, da Boito a Verdi, alla

crème dell’aristocrazia milanese. E la giovane e bella Maria era cresciuta come una jeune fille en fleur, con un piede nell’aristocrazia del Cappuccio e un altro nell’intellighenzia lombarda. Massimo Pontecorvo è invece lapidariamente descritto dal figlio Gillo come un uomo di una simpatia rarissima, con una faccia cordiale e accattivante: un uomo semplice, affettuoso, giusto, austero e modesto, a cui Gillo non ricorda di aver mai sentito pro-

nunciare (come d'altronde a suo fratello Bruno) la parola “io”. Ma Massimo Pontecorvo, nonostante questo profilo caratteriale da angelo, non doveva essere uno sprovveduto, visto che con la sua capacità imprenditoriale aveva fatto una fortuna, e che alla nascita di Gilberto (così si chiama ufficialmente Gillo), il 19 no-

vembre 1919, aveva da un pezzo trasformato la piccola impresa tessile acquistata dalla famiglia Nissim in una prospera industria di tre fabbriche che producevano tessuti di lana e cotone e davano lavoro a millecinquecento operai. Semplice com'era, babbo Pontecorvo aveva un unico snobismo: quello di considerare un assoluto “schifo” la produzione della vicina Prato, che non voleva neanche sentir chiamare stoffe. Le sue erano un’altra cosa, e di un’altra classe, come quelle di Biella o quelle inglesi. Il benessere della famiglia era ragguardevole. I rapporti con i suoi operai quasi sempre idilliaci. Fino a che, nei colpi di coda della grande crisi, la Pontecorvo and Co. fu assorbita dalla Marzotto, e per la grande tribù Pontecorvo si profilarono giorni più agitati. Ma andiamo, come si dice, per ordine... 12

Erano ebrei, i Pontecorvo. Ma noi ragazzi, dice Gillo, non sapevamo forse neanche di esserlo. Da tre generazioni nessuno in

famiglia era stato circonciso. Non si celebravano le feste del calendario ebraico. Il clima di casa era laico e tollerante. E se c’era qualche affinità religiosa, era semmai dalla parte Maroni, che aveva dei legami con la colonia valdese; mentre, a garantire il laicismo e la passione politica che contageranno in misura diversa tutti i fratelli, c'era la parentela con la famiglia Colorni attraverso Clara, sorella di Massimo Pontecorvo e mamma di Eugenio Colorni: una grande figura di antifascista e un protagonista della Resistenza, che nel ’38 fu mandato al confino, da cui fuggì nel

°43 per entrare dopo il 25 luglio nel comitato direttivo del Partito socialista ed essere assassinato il 25 agosto del ’44 da un sicario della banda Koch. Un altro cugino da parte paterna era Emilio Sereni, detto Mimmo, che con i Pontecorvo e i Colorni, nei beati anni venti, divideva gli ozi di Forte dei Marmi, ospite della zia Clara, e che frequentò a lungo la casa di Pisa. Anche Emilio, che era un esponente del Pci, aveva un’illustre storia antifascista: nel 1930 era

stato condannato a quindici anni dal Tribunale speciale, poi avrebbe preso parte alla lotta antifascista clandestina e alla Resistenza e, dopo la guerra, diventerà deputato e ministro — oltre a essere uno storico marxista di grande importanza. Questi legami bastano a spiegare l'allora inespresso ma profondo antifascismo dei Pontecorvo e la ragione per cui, nonostante in famiglia il tema politica non venisse mai trattato, babbo Pontecorvo non pensò mai di prendere la tessera del Partito fascista —- così come non accettò il diktat di un gerarca fascista, Guido Buffarini Guidi, che

dopo uno sciopero nella sua fabbrica voleva costringerlo a licenziarne gli organizzatori, e in particolare un tal Danilo, l’anarchico che era il punto di riferimento degli operai dell'azienda. Lo scontro si concluse con una sfida a duello tra Pontecorvo e Buffarini che non si fece mai. Il buon padrone aveva vinto. Per il momento.

I tutte oggi fosse

ragazzi Pontecorvo erano otto. E sarebbero stati dieci, se le gravidanze di Maria fossero andate a buon fine. Ancora Gillo si chiede con qualche perplessità come mai la famiglia diventata così grande. Non che la cosa gli sia mai dispia-

ciuta, tutt'altro, ma se lo chiede lo stesso. D'altra parte, anche i Pontecorvo della generazione di Massimo, i figli del nonno Pel-

legrino, erano quattordici fratelli. La risposta più semplice che si dà Gillo è che allora, tre quarti di secolo fa, “chi poteva li faceva” - “li” essendo, ovviamente,

i figli.

E al babbo Pontecorvo la fa-

miglia piaceva moltissimo: anzi, era il suo “piacere”, assieme al13

la montagna, dove durante l’estate trascinava l’intera tribù, com-

pleta di signorina e tate. In agosto il gruppo si installava in tre scompartimenti di prima classe - i Pontecorvo erano più che agiati ma, come capitava spesso allora, non avevano automobile — e si trasferiva in massa in una grande casa in affitto a San Martino di Castrozza. Un posto di montagna che però non piaceva a mamma Maria: le torri

dolomitiche non le sembravano eleganti, o almeno non “di classe” come i ghiacciai. Ma San Martino era una delle poche cose su cui l'aveva vinta il babbo Pontecorvo. Che lì, sulle sue montagne, camminava fino all'esaurimento, o passeggiava per i prati con i ragazzi più grandi in assoluta libertà. In luglio invece il clan si stabiliva a Forte dei Marmi, ospite di zia Clara Colorni. Casa Colorni era un'enorme villa sotto i pini, diretta a bacchetta dalla zia che Gillo ricorda come “una dittatrice”. Erano giorni incantati. Così incantati che quando, molti molti anni dopo, Gillo accettò di fare sotto il controllo medico di Emilio Servadio e di Eugenio Gaddini un esperimento con l’Lsd, fu un ricordo di quelle estati la prima immagine che l’acido riportò in superficie, come testimonia il nastro su cui tutto l’esperimento venne registrato: l’immagine del piccolo Gillo che, a sei anni, supplicava la tata di lasciarlo sulla spiaggia fino alle sei, l'ora in cui il mare di Versilia diventava liscio come l'olio e sull’acqua si disegnava una striscia dorata di sole. La villa dei Colorni era dotata di un campo da tennis dove gli aspiranti campioni del clan si allenavano. Gillo, all’epoca, non era ancora stato iniziato alle meraviglie dello sport, e si li-

mitava ad aggirarsi sul campo in tutina e sandaletti attorno ai grandi o più grandi che giocavano. La cosa preoccupava molto la zia perché il campo era alla buona, un po’ abborracciato, e le strisce erano tracciate a calce. Gillo ricorda che, proprio per evitare che i suoi piedini le distruggessero, gli avevano raccontato che quelle strisce scottavano — e di conseguenza lui se ne teneva alla larga. Altri eventi non si registravano, in quelle beate estati versiliane. Le lunghe giornate sulla spiaggia avevano il loro culmine nell’attesissimo momento in cui transitava il venditore di cornetti — cornetti lunghi, a gobbe, buonissimi — che la zia dittatrice, re-

sponsabile di tutta l'immensa tribù, permetteva di lo dopo il bagno. E dovevano essere davvero buoni ra se ne ricordano con tanta struggente nostalgia a settant'anni di distanza. Ma un anno accadde invece che, mentre tutta

addentare sose Gillo e Laugastronomica la famiglia si

trovava al Forte, babbo Pontecorvo, a Pisa, dovette essere opera-

to d'urgenza per una grave forma di setticemia a una gamba —

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un'infezione così grave che, tra altri malesseri, gli impediva persino di urinare, con grande preoccupazione dei medici. Le noti-

zie di Massimo arrivavano via telefono come altrettanti bollettini che la mamma,

molto in ansia per la salute del marito, riferi-

Anche la casa di Pisa aveva le sue regole precise. Regola numero uno: non si doveva parlare di soldi, era volgare. Regola numero due: bisognava imparare bene il francese, e a garantirne l'apprendimento e la correttezza era stata assunta una signorina della Haute Savoie, Mademoiselle Gaveron, accuratamente vestita, molto gentile, molto religiosa — era terziaria francescana -,

che divenne per Gillo quasi una seconda mamma. Regola numero tre: erano vietate le parolacce. Parolacce di cui faceva parte tutto ciò che aveva a che fare con il sesso: ricorda Laura che a Pisa l'aveva colpita uno strano personaggio di nome Ughino, un travestito,

e che imprudentemente una sera, a tavola, aveva osato

chiedere chi fosse mai. Mamma Maria scandalizzata rabbrividì e la mise a tacere: non voglio neanche che lo si nomini, senten-

ziò altera. Regola numero quattro: c'era un precisissimo codice di comportamento sul rito della tavola. Gillo, che aveva scoper-

to precocemente i piaceri della lettura e tendeva ad attardarsi in giardino con il libro del momento, e che, ancora peggio, aveva preso l'abitudine di avviarsi leggendo verso l'appuntamento con il desco familiare, ricorda il suono che gli arrivava dalla sala da pranzo, dove suo padre batteva impaziente su un bicchiere invitandolo ad accelerare il passo. Regola numero cinque: bisognava amare la musica. In casa c'erano due pianoforti — ma sul bellissimo Schiedmayer del salotto della mamma non era permesso suonare salvo rari casi. Si rimediava diversamente. Babbo Pontecorvo affidava a ogni figlio le parti del brano musicale, spesso anche abbastanza impegnativo, che in quel momento gli piaceva di più. Poi, continuando a fumare un sigaro “infernale”, ra-

dunava la sua orchestrina vocale attorno al tavolo su cui si era appena finito di cenare e, ambiziosamente, cercava di dirigerla. La sua preferenza andava ai Quartetti di Beethoven,

ma molto

spesso chiedeva ai ragazzi di eseguire La vergine degli angeli — e Gillo, che non ha mai amato particolarmente il melodramma, si

stupisce ancora che uno con il gusto musicale di suo padre proponesse “una cosa del genere”. Gli era presa anche la mania di comporre, e Gillo ricorda (fischiettando a richiesta) un quartet15



va solennemente alla piccola comunità. Fino al giorno in cui, contravvenendo al formale codice pontecorviano, l’inappuntabile Maria arrivò festante in sala da pranzo, e davanti al gruppo riunito annunciò ai bambini, giubilanti nello scoprire che anche i grandi hanno certe debolezze: “Ha fatto la pipì, ha fatto la pipì...”.

to che suo padre aveva scritto — o meglio fischiato, perché non conosceva la musica. C'era anche chi suonava sul serio. Bruno, che per anni aveva studiato il violino, Giuliana, Laura. A insegnare pianoforte a Laura veniva la maestra Picotti, che cercò invano di convincere Gil-

lo a imparare formalmente la musica: testone come sempre, il Nostro preferiva trastullarsi con il piano improvvisando, senza metodo e senza regole. Non aveva forse imparato a farsi il nodo delle scarpe a modo suo, secondo una tecnica assolutamente assurda e unica al mondo? Regola numero sei: bisognava coltivare i valori dell’intelligenza e della cultura. Regola numero sette: nonostante l’agiatezza della famiglia, non si dovevano buttare i quattrini. I ragazzi andavano a scuola in tram. I più grandi passavano i vestiti ai più piccoli. I regali arrivavano solo per i com-

pleanni e si festeggiava giusto giusto la Befana. Era la regola fondamentale: per Massimo Pontecorvo l’abitudine a vivere rigorosamente, a essere frugali, rappresentava un'assicurazione contro le sorprese della vita e, soprattutto, formava il carattere — cosa

che gli consentì di attraversare baldanzosamente la crisi del ’29, che aveva duramente colpito l'azienda Pontecorvo. Ma il disprezzo di Massimo per ogni forma di snobismo non impediva che Gillo venisse guardato con tollerante riprovazione perché sospetto per certe sue amicizie eccessivamente popolari. Come il suo miglior

amico, Piero di Gangi, che era figlio di un ciabattino (morirà in un incidente durante la prova di volo acrobatico che chiudeva i suoi studi all'Accademia aeronautica). Né era visto di buon occhio che il piccolo Pontecorvo giocasse a pallone o pattinasse la sera sotto la luna sui marmi di piazza dei Miracoli con dei ragazzi di strada. i Il maggiore dei ragazzi Pontecorvo era Guido, che nacque nel 1907 nella casa di Pisa. Quando era studente di agraria (Gillo era ancora bambino) si era impadronito di un grande pezzo del famoso giardino incantato, e ci aveva organizzato un orto dove ibridava vari tipi di fiori e piante, iniziando così gli studi e gli esperimenti che lo avrebbero portato a studiare genetica e a diventare a tempo debito uno dei più grandi genetisti del mondo, insomma, uno scienziato che “non ha beccato il Nobel,” dice Gillo, “solo per-

ché Bruno gli ha fatto quello scherzo da prete”. “Scherzo” raccontato così bene da Miriam Mafai in // lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l’Urss e di cui parlere-

mo più avanti. Tra l'inquietudine generale, i suoi esperimenti, o forse soltanto un tipo speciale di nutrizione, produssero un pollo gigante, detto il Gallazzone, che per un po’ becchettò e fece il suo mestiere di pollo. Poi un giorno, Gillo non ricorda se per qualche 16

sua colpa, per la paura che faceva o per semplice opportunità gastronomica, finì in pentola a fare la parte del tacchino. Il secondogenito, classe 1909, era Paolo detto Polì, “buonissimo”. Così buono

che, nonostante una vocazione tipicamente

pontecorviana per la ricerca, rinunciò alla carriera scientifica per far fronte alla crisi economica abbattutasi sulla grande tribù negli anni tra il ’29 e la guerra. Era ingegnere, aveva studiato al Politecnico di Torino, era avviato a una brillante carriera di ricercatore. Scelse di guadagnare, non per se stesso ma per far studiare i fratelli più piccoli - anche se, con qualche delusione, la cosa gli riuscì ben poco con Gillo, che già da allora dimostrava di saper essere, se voleva, sfuggente come un’anguilla: e soprattutto di sapersela cavare da solo. Anche Polì, come Guido, nel ’37 si trasferì in Gran Bretagna, a Edimburgo, poi in America, dove divenne il capo della ricerca della Raytheon, una grande impresa di telecomunicazioni. Anche lui ebbe non pochi problemi per via di Bruno quando il fratello passò in Urss. La scelta di Bruno costò a Polì un'indagine lunghissima da parte della Cia. Che grazie al cielo non ci mise molto ad accorgersi di come l'ingegner

Paolo Pontecorvo fosse fondamentalmente un moderato, tutt'al

più vagamente socialdemocratico. Non altrettanto moderata era invece la terzogenita, Giuliana, di due anni più giovane, scomparsa nel 1994. Simpatica, disordinatissima e, poco pontecorvianamente, incapace di fare una moltiplicazione, Giuliana aveva studiato lettere, e fu la prima del

clan, insieme a Bruno, a rivelare una passione per la politica. Ricorda Gillo che “mentre negli anni del dopoguerra il povero Polì si svenava per mandare avanti tutta la famiglia”, Giuliana - che era finita in America per le leggi razziali e che durante tutta la guerra aveva lavorato clandestinamente per i sindacati e il Partito, assieme a Berti, che del Partito all’estero era il segretario — “gli chiedeva continuamente soldi in prestito: e poi ne dava tre quarti come sottoscrizione al Partito comunista clandestino”. Inutile dire che quando il pur buonissimo Polì scoprì la faccenda, le tolse il saluto e i finanziamenti: e la riconciliazione tra il moderato e la pasionaria è solo cosa recente. Erano scherzi da fare? Quella di Giuliana fu, comunque, una passione politica coerente. Nel Partito, questa volta in Italia, continuò a lavorare, e nel Partito lavorava suo marito Duccio Tabet, che era membro

del

Comitato centrale del Pci come specialista in questioni agricole. Bruno nacque nel 1913, ed è l’unico fratello “di tutta questa

caterva” con cui Gillo ammetta di aver avuto un vero e forte legame. Anche se Bruno apparteneva decisamente al gruppo dei grandi, e Gillo, che è nato nel 1919, era il più grande della squadra dei piccoli. E anche se il loro legame si consolidò per ragio17

ni bizzarre: è stato Bruno a insegnare a Gillo una delle cose più importanti della sua vita, il tennis.

Andò così. Il Nostro aveva dodici o tredici anni e giocava nei Pulcini del Pisa. I Pulcini, per chi non lo sapesse, sono i “piccoli”, il vivaio delle squadre di calcio (alla tappa successiva diventano “boys”). Gillo, piccolo e piccino (in famiglia lo chiamavano “il nano più alto d’Italia”, oltre che l’“oca numero due”, la nume-

ro uno essendo Bruno), aveva la sua brava maglietta neroazzurra del Pisa, simile a quella dell’Ambrosiana

(l'odierna Inter), e

giocava come ala destra. Un bel giorno, durante un allenamento con il Pontedera, l'allenatore del Pisa, un certo King, destinato a diventare l’allenatore della nazionale, fischiò e lanciò attraverso il campo un ruggito in direzione di Gillo: “Pontecorvo, sei proprio negato”. Gillo, timido (allora) e beneducato, disse “grazie”.

Dopo cinque minuti, stessa storia: fischio, ruggito, Pontecorvo sei negato... Ma questa volta il piccolo Gillo non gradì: “Presi, lasciai il campo, mi levai la maglietta... e non ho mai più giocato a calcio in vita mia”. Adesso ammette che aveva ragione King: non gli riusciva di giocare “con” la squadra. Quando aveva il pallone andava avan-

ti per conto suo, ed era anche molto veloce, solo che non faceva

quello che era utile fare. Tre giorni dopo l'incidente che mise fine alla sua carriera di calciatore, Gillo raccontò la storia a Bruno, che lo consolò sentenziando: “Non hai capito che il calcio è un gioco stronzo?”. Gli disse che, invece, doveva darsi al tennis

- “oltretutto, lo puoi giocare anche da vecchio” —, e cominciò a insegnarglielo. Fu così che Gillo scoprì uno sport che, si renderà conto più tardi, ha vissuto anche come una rivincita rispetto al

complesso di inferiorità creato da tutti quei fratelli grandi e brillanti, che lo prendevano affettuosamente in giro, che lo tormen-

tavano perché, sostenevano, aveva un orecchio più alto e uno più basso, che, sempre scherzando, gli facevano pesare di essere più

cresciuti, in tutti i sensi - senza rendersi conto del danno che potevano fare a un bambino di nove anni. Schiacciato dal confronto, Gillo usava un suo esorcismo personale per non arrendersi alla sua incapacità — o alla sua mancanza di entusiasmo - nell’assolvere certi doveri della vita quotidiana, come farsi il nodo del-

le scarpe, cosa che esegue ancora secondo una sua stravagante tecnica, divertente ma irrazionale, che gli porta via almeno il doppio del tempo. Gli dicevano “sforzati”, lo pregavano “dài, fallo per me” (fare il nodo, studiare il francese, esercitarsi felicemente nel solfeggio). “Non ci riesco.” “Ma lo fanno tutti.” “Sì, gli altri.” La

stessa risposta di quando lo costringevano a studiare metodicamente e seriamente il pianoforte. “Non riuscirò mai a fare una mano diversa dall'altra come dice lo spartito,” protestava. “E 18

quando stai delle ore a comporre, come dici tu?” “Lì mi arrangio. Quando ho difficoltà a fare una mano troppo diversa dall’altra, cambio lì per lì o una o l’altra.” E forse la risposta è meno insensata di quanto appaia a prima vista. Ancora oggi Gillo sostiene che quel senso di inferiorità nei confronti dei fratelli ha determinato in lui “comportamenti anomali e patologici”. Per esempio la sua cronica ribellione alle regole, che per lui erano le regole “degli altri”. La sua convinzione che si possano sempre fare le cose in modo diverso dal procedimento codificato dalla consuetudine. O certe specifiche insicurezze. Se Gillo, che padroneggia oggi il francese come se fosse la sua lingua madre, attacca male una conversazione francofona con qualcuno, continua così suo malgrado

ogni volta che rincontra questa persona.

E a

questa insicurezza di essere il più piccino di casa, a quei sei an-

ni che lo dividevano da Bruno e che gli sembravano un insuperabile voragine del tempo, alle punizioni scherzose ma umilianti che gli imponeva l’adorato e buonissimo fratello per le sue malefatte a danno dei bambini più piccoli - davanti ai quali Bruno si sedeva su Gillo come fosse uno sgabellino a mangiare marmellata —, agli sfottò della tavolata familiare nel periodo del suo amore e dei suoi rossori per la bambina Mimma Piccioli, di cui si era innamorato verso i nove anni, a tutte queste piccole crepe

nella sua imperfetta felicità infantile Gillo fa risalire il suo “Guinness dei rifiuti”: gli incalcolabili film a cui, diventato adulto e regista, ha detto di no perché pensava che non fossero nelle sue corde, perché pensava di non saperlo fare, e su cui più tardi cambiava regolarmente idea; o il rifiuto opposto nel 1976 a Giorgio Amendola quando il vecchio amico gli propose a nome del Partito un collegio supersicuro al Senato. È vero che in quest’ultimo caso la questione era diversa. Gillo, dopo una lunga inattività, sperava ardentemente che gli venisse l’idea per un film e non gli andava di diventare un “senatore del parco dei buoi”: “perché solo questo avrei potuto essere”. Dal canto suo Amendola, che lo conosceva bene, era pronto a scommettere che quel terribile “cagadubi” di Gillo (un eterno dubbioso, per chi ignorasse l’etimologia dell'espressione dialettale) ci avrebbe messo un sacco di tempo a decidere di fare un nuovo film. In effetti ci vollero altri tre anni prima che Gillo tornasse dietro la macchina da presa. Ma non anticipiamo i tempi...

Bruno era già stato un campione - il campione delle schiappe come diceva lui, perché aveva vinto il campionato italiano di terza categoria — ed era un buon didatta. Da quando, su sollecitazione del fratello, mollò il calcio, Gillo ha sempre giocato a ten-

nis finché, a diciassette anni e mezzo, ebbe i primi segnali di una 19

discopatia. Non fosse stato per quel maledetto disturbo, che più tardi si trasformò in un’ernia del disco, Gillo, che tende a dimenticare di avere superato da un bel po’ i settant'anni, giura che farebbe un altro mestiere: il tennista (ma, in altri momenti, dice

anche che se i suoi avessero insistito, come avrebbero dovuto, a fargli studiare seriamente musica, invece di lasciarlo “pianottare” per ore senza nessun metodo, gli avrebbero cambiato la vita, e forse adesso sarebbe un compositore...). La leggenda tennistica di Gillo narra che, nei suoi anni verdi, nel 1938, batté il numero uno d'Italia, Gianni Cucelli — che allora si chiamava ancora Cuccel e fu poi costretto dalle assurde regole fasciste a italianizzare il suo nome slavo. Gillo declina i punti del match-8 a 6,6a 3,6a1-come

se l'incontro fosse av-

venuto ieri. Non se ne scorderà mai, tanto la casuale vittoria lo aveva reso pazzo di felicità. Aveva appena diciotto anni. Era andata che Gillo, da poco approdato alla seconda categoria, era miracolosamente arrivato alla semifinale, dove aveva battuto Mitié, numero due iugoslavo di Coppa Davis, mandando così all'aria la prevista finale Mitiè-Cucelli — e la relativa vendita dei biglietti. Di fronte alla sorpresa della vittoria di Gillo, gli organizzatori del torneo avevano pensato bene di spostare l’incontro con lo sconosciuto giovinotto al campo numero due, riservando il campo più grande, il solo circondato di tribune, alla finale femminile. “Poi, come succede nei tornei di tennis, si sparse la voce che nel campo numero due stava succedendo qualcosa di strano, che Cucelli aveva perso il primo set 8 a 6, ma no, non è possibile, e insomma, dopo un quarto d'ora, durante il secondo set, c'era già la gente aggrappolata che faceva il tifo per il più giovane come a una partita di calcio, frastornando il povero Cucelli già stupefatto di suo che una pippa appena arrivata in seconda categoria stes-

se battendo un ‘prima’, e per di più campione d'Italia. Alla fine si giocava sul velluto. Non avevo nulla da perdere, era la mia giornata, ero scatenato. Insomma, l’ho fatto a pezzi. Gasatissimo, un mese e mezzo dopo, mi ritrovo in Francia, al torneo internazionale di Montecarlo, che è uno dei grandi tornei del mondo. E, do-

po due turni, mi incontro con il numero sei della Francia di allora, Abdesselam. Ho il matchball. Ma, preso dalla vanità infan-

tile, sparo una inutile grande caracca, che va a finire tre millimetri fuori. Alla fine ho perso la partita. E naturalmente, vista l'età, poi, negli spogliatoi, ho pianto per cinque minuti buoni.” Dopo Montecarlo, è stata la volta dell'Inghilterra, della Svizzera, di un giro continuo di tornei. Fino alla famosa discopatia

che fermò per un po’ la nascente carriera del diciottenne Gillo. E poi? “Poi c'è stata la guerra. Di agonismo non si parlava proprio 20

più, anche se come si vedrà poi il tennis torna sempre utile... Ho fatto la guerra partigiana. E quando ho ricominciato, erano passati circa otto anni, il momento magico era finito, ero ormai ri-

diventato una pippa. D'altra parte, per oltre un anno sono rimasto inchiodato per il mal di schiena. Ci ho riprovato, per ridere, più tardi, quando

l’ernia ha smesso di farmi male, verso i ses-

santacinque anni, al torneo Tognazzi. Giocando in maniera schifosa, ma tale che, se mi si guardava da lontano, si poteva ancora dire ‘ammazzalo, chi è ’sto drago?’, mentre da vicino si vedeva che non beccavo una palla, che l’unica cosa rimasta era un certo stile.” Ma torniamo a Bruno. Bruno era molto intelligente, anche rispetto ai già rimarchevoli standard del clan. Era anche, insiste Gillo, un grande tecnico del tennis, e sarebbe stato perfetto come allenatore della nazionale. Invece... Invece la passione scientifica ne fece un grande fisico, uno dei “ragazzi di via Panisperna” che lavorarono con Enrico Fermi. Aveva preso la maturità che non aveva ancora diciassette anni. Si era iscritto a Pisa, dove frequentava il biennio di ingegneria. Ma poi, su consiglio di Guido che conosceva bene Fermi, era andato a Roma, con l’idea di passare a quella università. Si piazzò per qualche giorno all’Ymca, il pensionato internazionale per i giovani. Si presentò in via Panisperna al celebre istituto del giovane Fermi, che fu favorevolmente impressionato dal giovanissimo

Pontecorvo

e gli suggerì di restare — una scelta estrema-

mente lunsinghiera, anche se Bruno, con il suo abituale understatement, diceva sempre che Fermi l'aveva preso a benvolere non tanto per la sua disposizione alla ricerca, quanto perché, lui stesso un maniaco del tennis, gli si inchinava davanti conscio della

sua indiscutibile superiorità. Dopo il trasferimento a Roma, nella casa di via Bonanno Pisano Bruno tornava solo per le vacanze, per le feste. Ma in quei soggiorni cercava di fare qualcosa per la disastrosa preparazione scolastica del turbolento Gillo, ormai da tutti soprannomina-

to “il selvaggio” o, come si è detto, “loca numero due”: cacciato dal ginnasio, pessimo studente del liceo scientifico, Gillo stava scoprendo di essere molto più attratto dalle discipline umanistiche — considerate in casa Pontecorvo cosa a dir poco “da femmine” — che da quelle scientifiche della tradizione di famiglia. Bruno, irritato e insieme divertito dal fratello più giovane, cercava di aiutarlo a capire un po’ di matematica. E con molta, molta pazienza, sforzandosi di essere chiaro, cominciava,

bonario e su-

periore, a spiegare: il fattore delta, i discriminanti... Poi, di fron21

te all’apatica indifferenza dell’allievo restava allibito e si informava: “Ma davvero non capisci?”. No, Gillo non capiva. “Neanche se vado più piano?” “Credo di no.” “Ma questa è una forma di rigetto,” protestava Bruno, “di spaventosa pigrizia mentale.” E Gillo, serafico: “Può pure darsi...”. A tirare Gillo fuori dai suoi guai scolastici fu invece suo cugino Eugenio Colorni, grande e fascinoso. “Non ti vergogni di essere la pecora nera della famiglia?” lo provocava Eugenio, che conosceva bene il senso di competizione che a Gillo veniva dallo sport, l’unica cosa che faceva volentieri. “Fai un colpaccio,” gli

suggeriva, “sbalordiscili, finisci tre anni in uno senza dirlo a nessuno. Anzi, falli urlare dicendo che hai deciso di ritirarti da scuola perché non vuoi più studiare. Le ripetizioni te le trovo io. Poi,

quando passerai, e ti assicuro che puoi farcela, vedrai come le pagheranno tutti felici.” Tanto fece che, toccato nel suo orgoglio sportivo, Gillo non solo recuperò gli anni perduti, ma finì per entrare all'università che non aveva ancora diciotto anni. Con scarso entusiasmo. Per

un maschio, a casa Pontecorvo, sembrava obbligatorio e inevitabile scegliere una facoltà scientifica. Gillo si immaginava con terrore quello che sarebbe successo se fosse arrivato a casa e alla famiglia riunita in seduta plenaria intorno al grande tavolo della cena avesse annunciato che quella mattina si era iscritto a lettere, come gli sarebbe piaciuto fare. “Sarei stato trattato come se avessi detto che ero diventato omosessuale.” Così, esclusione dopo esclusione — “Matematica, mio Dio!, fisica, per carità, è piena di matematica, medicina forse sì, ma qualche amico mi aveva già

orripilato raccontandomi del terrificante esame del primo biennio, anatomia, in cui si aveva a che fare con cadaveri o pezzi di

cadaveri” -, Gillo si iscrisse a chimica. “Che orrore! Ancora adesso, dopo più di cinquant'anni, quando mangio troppo e ho gli incubi sogno ancora di dover dare il terrificante esame del secondo anno, calcoli stechiometrici. Per il quale dopo sforzi eroici sono riuscito a strappare un ventotto: l’unico della mia carriera universitaria.” Travolto dal gaio vortice dei suoi tornei di tennis e per questi sempre in viaggio, Gillo non aveva occhi per accorgersi di quello che stava succedendo. Nel 1938 erano state emanate le leggi razziali. Dopo Monaco soffiavano ormai venti di guerra. E se lui girava indenne per il mondo come uno spirito folletto, le leggi razziali colpirono in pieno Laura, la sorellina appena più piccola, che non aveva ancora finito gli studi. Bruno lavorava già in

Francia come assistente di Joliot-Curie. Gillo, in una pausa tra 22

un torneo e l’altro, lo avrebbe raggiunto di lì a poco. Guido era a Edimburgo e insieme a Bruno faceva pressione sui genitori, che non si rendevano conto dei possibili pericolosi sviluppi della situazione, perché mandassero

i ragazzi in un paese sicuro. Era

iniziata la diaspora Pontecorvo. Giuliana andò in Svizzera, e poi in America, come Polì. Laura dovette rinunciare a studiare e fu mandata da una famiglia di conoscenti quaccheri, anche lei a Edimburgo. Ma il viaggio lontano dalla famiglia e l'incertezza del futuro, nonostante un po’ di disagio iniziale, sembrarono quasi un'avventura alla ragazzina, che per un po’ lavorò per i suoi ospiti, poi, per tutta la durata della guerra come infermiera al Lambeth Hospital. Di due anni più giovane era Anna, una specie di missionaria. Come il marito, scomparso qualche anno fa, che ha percorso l’Africa in lungo e in largo insegnando ai ragazzi indigeni tutto quello che poteva, dal latino alle regole fondamentali dell'igiene, anche Anna ha girato il mondo con pochissimi soldi, sempre avventurosamente, sempre in sacco a pelo. Adesso insegna letteratura spagnola in un liceo, ma le sue passioni sono quelle di sempre — l'ambientalismo, il Terzo mondo, la foresta amazzonica, la

tolleranza — e la sua bestia nera continua a essere l’eurocentrismo, che vede come il dato più vergognoso della nostra cultura. L'ultimo Pontecorvo si chiama Giovanni, e ha scelto di chiamarsi con il nome della mamma, Maroni, perché altrimenti il cognome sarebbe scomparso. Anche Giovanni, dopo l'adolescenza dorata di Pisa, si è rifugiato in Inghilterra, sotto l’ala protettiva di Guido, che si occupava di sistemare i suoi fratellini. Giovanni, che aveva solo tredici anni, fu affidato alla famiglia di un pastore anglicano — e dall'Inghilterra, dove più tardi lavorerà come direttore delle relazioni esterne della Olivetti, non si è staccato

più, fino a quando è scomparso, nel luglio del ’97. Massimo e Maria Pontecorvo, dopo la diaspora dei loro ragazzi tutti ormai lontani — tranne Gillo, che tornava spesso in Italia —, avevano lasciato la casa di Pisa e si erano trasferiti a Milano, con grande gioia di Maria, che adorava la sua città e alla fin

fine considerava invivibile tutto il resto d’Italia. Si sistemarono provvisoriamente in una pensione di via San Paolo, ancora incerti sul da farsi. Anche Gillo, che nei primi tempi del suo lavoro clandestino a Milano visse accanto a loro nella stessa pensione, non sapeva bene che cosa suggerirgli. “Ammetto che non avevo capito cosa stava succedendo, nonostante Polì insistesse che eravamo pazzi, che bisognava lasciare questo paese il più presto 23

possibile. A quell'epoca avevo già contatti con il movimento clandestino antifascista e facevo alcune piccole cose per loro, ma avevo un passaporto italiano in regola e continuavo a far finta di essere un playboy — certo, con l’impercettibile difetto di essere ebreo... un po’ da cretino, mi sarei reso conto solo qualche mese dopo di che cosa questo significasse... Mi sono accorto tardi del pericolo, solo dopo l’8 settembre, quando i tedeschi erano di-

ventati i padroni dell’Italia. Ma neppure allora mente di suggerire ai miei di cercare rifugio in pensarci sembra pazzesco. Ma avevo l’attenuante tedeschi aveva creato difficoltà drammatiche per avevano un'attività clandestina...”

mi è venuto in Svizzera. A riche l’arrivo dei tutti quelli che

Per fortuna ci pensarono dei vecchi amici a spingere i genitori Pontecorvo ad andarsene da Milano. I ragazzi erano spar-

pagliati per il mondo, la frontiera inglese era ormai chiusa per i profughi ebrei italiani, di cosa combinasse Gillo si capiva poco, ma avevano tutti la sensazione che fosse sempre lì lì per finire in qualche pasticcio. Fu così che Massimo e Maria Pontecorvo, pochi giorni dopo l’8 settembre, si decisero finalmente ad andarsene. Infilarono le cose essenziali in due valigie e si misero in strada per la Svizzera. Fecero tappa in un hotel di Meina, sul Lago Maggiore, con l'intenzione di passare appena possibile la frontiera. Erano da poco ripartiti da Meina che arrivarono le SS. E da quel tranquillo hotel, dalla vicina Arona, da Intra, portarono

via tutti gli ebrei che vi si erano rifugiati, gettandoli nel lago, legati mani e piedi, con una pietra al collo, vivi: venti persone.

24

Capitolo secondo Nel quale si racconta come Gillo si sia molto divertito a Parigi, nei mesi precedenti l'invasione tedesca. Come, sot-

to l'influsso degli amici più grandi e di suo fratello Bruno, sia diventato marxista “in quindici giorni”. Come si sia innamorato di una bella francese alta, sottile e ribelle. Come all'arrivo dei tedeschi sia fuggito con lei verso sud e si sia trovato, alla fine, a vivere di pesca a Saint-Tropez. Come gli amici del Pci siano andati a trovarlo e lo abbiano convinto a lavorare per la Resistenza. Come si sia messo a fare la spola fra l’Italia e la Francia, e si sia trovato a fare il “rivoluzionario professionale” a Milano... Parigi, 1939, vigilia di guerra. Gillo ha vent'anni e si diverte: lui non permette che si dica che non è una bellissima età della vita. Anche senza una lira (o un franco). Anche senza avere notizie regolari della sua grande famiglia, esempio macroscopico della diaspora imposta dalle leggi razziali. Anche senza sapere che cosa succederà domani, e — soprattutto — cosa si potrà mangiare. L'angoscia o l'ansia non fanno parte del suo bagaglio psicologico. La città brulica di persone che lo affascinano. Tutto gli sembra fantastico: così fantastico che non riuscirà a vedere fino a molto più tardi come si trattasse in realtà di una situazione assai drammatica e difficile. E sarà allora, a trent'anni di distanza, che per qualche tempo verrà tentato dall’idea di realizzare un film proprio sulla storia di una grande famiglia separata dalla diaspora, che avrebbe dovuto intitolarsi “Gli ultimi anni della grande tenerezza”. Ma torniamo ai mesi immediatamente precedenti la guerra. Gillo era arrivato a Parigi alla fine di un periodo di tornei, prima sulla Costa Azzurra e poi in Inghilterra, dove era rimasto arenato per un po’, senza un posto preciso a cui far capo in Italia, con l'angoscia di non sapere come se la sarebbe cavata per mangiare la settimana dopo. Bruno, che a ventisei anni soltanto era già professore associato alla Sorbona e, beato lui, aveva uno stipendio,

aveva insistito perché il fratello più giovane lo raggiungesse a Parigi, e gli aveva mandato anche i soldi per il biglietto. E così, finalmente ricongiunti, Gillo e Bruno si godettero per un po’ un’allegra bohème nel Quartiere latino. La loro casa parigina era un albergo della Rive Gauche che, non tanto per merito dei due Pon-

tecorvo quanto piuttosto per via dei grandi sepolti sotto l’imponente cupola neoclassica del vicino Pantheon, si chiamava Hétel 25

des Grands Hommes. Ma sulla domanda che tutti gli emigrati dovevano fare per ottenere dalla polizia il “récépissé”, il bramatissimo permesso di soggiorno che per molti era una sorta di assicurazione contro il terrore di essere rispediti nei loro paesi, gli stranieri di Francia, nell’illusione di fare migliore impressione e di dare un senso di ricchezza — cosa decisiva per la polizia e per le autorità di qualsiasi parte del mondo —, preferivano spesso aggiungere un “Grand” al nome dell’albergo. Anche Gillo avrebbe voluto farlo. Sennonché in questo caso sarebbe diventato un ridicolo ed enfatico “Grand Hétel des Grands Hommes”. Bruno era il veterano, e i suoi documenti erano più che in regola perché abitava a Parigi dal 1936, quando era arrivato in Francia, inviato da Fermi, per lavorare al Laboratoire de synthèse atomique diretto da Frédéric Joliot-Curie, uno dei centri più prestigiosi e importanti del mondo per la fisica nucleare. Da allora il clima politico francese era molto cambiato. Nel 1936 Bruno aveva vissuto imomenti entusiasmanti del Fronte popolare. La Francia del 1938, quando ci arrivò Gillo, ai tempi del governo Daladier, era un’altra cosa, ma agli occhi del giovane Pontecorvo era

pur sempre un paese in cui sembrava chiaro che cosa fosse la democrazia. Dopo pochi mesi che Gillo era a Parigi, Bruno si era sposato

con una giovane e bella svedese, Marianne Nordblom, e a luglio era nato il loro primo figlio, Gil. Ma l’Hétel des Grands Hommes era rimasto la loro casa. La mensa del gruppo - il luogo in cui ci si ritrovava a mangiare per pochi franchi — era un ristorantino in rue Mouffetard, frequentato soprattutto da arabi; ma quando in giro c'erano pochi soldi andavano benissimo le generose e ospitali mense universitarie. Parigi era in quegli anni la centrale dell’antifascismo italiano all’estero, come racconta nelle affascinanti pagine di Lettere a Milano Giorgio Amendola, che nella capitale francese visse due ci-

cli di “emigrazione”: il primo nel 1937-38, durante il Fronte popolare francese, il secondo, alla vigilia della guerra, al suo ritorno dall’esilio tunisino. Tra le due emigrazioni la storia aveva subito un'improvvisa e drammatica accelerazione: la crisi del Fronte popolare, la sconfitta della Spagna repubblicana, il patto di Monaco, la messa fuori legge del Pcf. Parigi, sotto il nuovo governo Daladier, era cambiata, ed era cambiata la situazione degli emigrati, che si era fatta molto più dura e rischiosa per l’ondata disperata dei moltissimi che cercavano di ottenere il visto per gli Stati Uniti, un pezzo di carta diventato ormai un’ossessione collettiva. Gillo dice adesso che se dovesse fare un film su quel periodo lo chiamerebbe “Le Visa”, il visto. 26

In quel clima eccezionale, Gillo si ritrovava per la prima volta con persone completamente diverse dalla gente — i compagni di scuola, o gli sportivi, o i ricchi borghesi dei tennis club - che aveva frequentato fino ad allora. Il giro antifascista degli amici di Bruno con cui l’indisciplinato, anarchico e apolitico ventenne si ritrovò a dividere la vita parigina degli esiliati poveri era composto da personaggi notevolissimi, alcuni cresciuti nella politica, altri che avevano abbandonato per passione antifascista le promettenti carriere scientifiche a cui erano avviati. C'era prima di tutti Emilio Sereni, il cugino di Gillo, che da Parigi dirigeva “Stato operaio” e abitava in una grande casa di boulevard Voltaire sempre piena di compagni. C'era Aldo Natoli, un giovane ricercatore che da Roma, dove, tra l’altro, aveva frequentato i campi da tennis con

Bruno, si era trasferito a Parigi per continuare le sue ricerche sulla leucemia all’Institut du Cancer, ed era stato travolto dalla politica. C'era Salvatore Luria, che nel 1969 avrebbe avuto il premio

Nobel per la biologia e che allora lavorava all’Institut Pasteur. C'era Sergio De Benedetti, un fisico di Padova pazzo per la musica che lavorava all'Istituto del Radio di Irène Joliot-Curie (lo ritroveremo consigliere scientifico di Carter), e Francesco Scotti, un

personaggio che, dice Gillo adesso, sembrava uscito da Terra e libertà di Ken Loach, uno dei suoi film preferiti. Natoli era arrivato a Parigi con una borsa di studio presso l’Institut du Cancer (ma nel luglio del 1939 sarebbe rientrato in Italia, e a dicembre sarebbe stato arrestato per attività antifasciste). Luria se n’era andato dall'Italia perché ebreo. Scotti per passione politica. Era studente al sesto anno di medicina a Milano, ma quando le truppe di Franco marciarono contro la Repubblica spagnola aveva deciso lì per lì di partire per la Francia, era riuscito ad arrivare in Spagna, e si era arruolato nelle Brigate internazionali. Siccome aveva una straordinaria intelligenza e doti da von Clausewitz, era diventato capitano, poi colonnello, poi generale, a capo di una divisione incredibilmente organizzata. Ma le ultime offensive dell'esercito franchista e la mancanza di rifornimenti avevano costretto la sua divisione a riparare in Francia, attraverso Perpignan, dove li aspettava il campo di concentramento.

Grazie alle trattative avviate da Scotti, ci entrarono

però con l’onore delle armi, anche se gloriosamente stracciati, divorati dalla scabbia, malconci. A Parigi Scotti era una leggenda. Poi, dopo l’8 settembre, rientrò in Italia per diventare responsabile militare del Piemonte durante la Resistenza e rincontrare Gillo... Ma non anticipiamo i tempi. Si può capire come, piombato da Pisa e dai tornei di tennis nell'ambiente degli emigrati parigini, Gillo all’inizio si sia ritro27

vato affascinato ma un po' sotto choc. Veniva da un'Italia in cui, nei caffè, era scritto sui muri “qui non si parla di politica né di alta strategia”, dove il fascismo era riuscito a imporre attraverso

la disinformazione e il silenzio un'assoluta ignoranza e indifferenza nei confronti del mondo della politica. Gillo, che aveva ri-

cevuto a scuola la sua buona parte di indottrinamento, che ai tempi delle medie aveva scelto di essere, secondo le regole, un “balilla marinaretto” (cosa che nel suo nuovo ambiente gli valse non poche prese per i fondelli), che era vissuto nella cerchia dorata del giardino di Pisa e sulla terra rossa dei campi di tennis, non sospettava neanche da lontano cosa volesse dire vivere in una democrazia, occuparsi di politica, leggere il giornale trepidando, partecipare alla vita collettiva. Le manifestazioni, i cortei, le proteste che facevano parte della quotidianità parigina, le ragazze che arrivavano in bicicletta ai comizi con il fazzoletto rosso al

collo, da principio lo entusiasmarono persino esageratamente ma, secondo Bruno e i suoi amici, per ragioni molto superficiali - anzi, dicevano, quasi solo a livello “estetico”.

Destando la perplessità di Natoli, che era un marxista serio, Bruno decise di regalare a Gillo un libro che si intitolava Précis du Marxisme, di René Vallon, perché gli sembrava indispensabile un corso di indottrinamento accelerato del giovane e disimpegnato fratello. Bruno Corbi, un altro emigrato a Parigi, un uomo spiritoso e molto simpatico che era stato arrestato e poi rilasciato dalla polizia fascista e fu poi uno dei dirigenti dell’antifascismo (e uno dei grandi giornalisti di “Repubblica”), sfotteva Gillo per la sua lettura del libretto di Vallon che chiamavano “Tutti marxisti in quindici giorni”. Per la verità, lo stesso Corbi non era esente dall’ironia degli amici. A dispetto del fatto che aveva dovuto lasciare l’Italia dopo qualche mese di prigione perché era entrato nel mirino dell’Ovra, la polizia segreta fascista, i più impuniti del gruppo, tra cui Gillo, lo avevano soprannominato “le flic” per quei suoi baffi neri e quella sua aria da poliziotto meridionale. Ma Corbi non amava per nulla questo scherzo, e andava esageratamente sulle furie. Si seppe poi perché. Il Pci, come accadeva spesso a quei tempi (e come Maselli ha raccontato in un film, // sospetto, dove non si fa ri-

ferimento a nessun caso particolare ma, appunto, al clima di sospetto in cui viveva la sinistra sia in Italia sia nell’esilio francese),

aveva promosso un'inchiesta sulle modalità della sua liberazione — dubbi, inutile dirlo, ampiamente superati.

Dopo il corso accelerato fu il cugino “Mimmo” Sereni che cercò di aiutarlo a districarsi nei sottili distinguo di una situazione politica certamente complessa per tutti, più complicata per i giovani della sinistra, particolarmente confusa per il cucciolo Pontecorvo, che del resto era più interessato ad altro. 28

Nel ricordo di Gillo, quello parigino fu un periodo bellissimo. Tutti più o meno senza soldi, anche i giovani e brillanti professori d'università come Bruno. Tutti appassionati di musica. Tutti frenati nella loro melomania dal fatto che anche per andare a sentir musica nel modo più modesto, in un negozio di musica su

boulevard Saint-Michel che si chiamava Le balajo dove, nel retro, si potevano ascoltare i dischi con le cuffie, ci volevano comunque dei soldi per acquistare il gettone. Fu il più povero, Gillo, a trovare la soluzione: grazie all'amicizia che aveva instaurato con i commessi del Balajo, il clan degli antifascisti melomani ebbe il permesso di dividere gli écouteurs, un orecchio per ciascuno — cosa in generale proibitissima.

Anche qui Gillo veniva trattato come il “pulcino” del gruppo: gli amici grandi erano molto rigorosi in materia di scelte e lo sfottevano implacabilmente perché gli piaceva “anche” La danse macabre di Saint-Saéns, che ai loro gusti sofisticati non andava trop-

po: “Ma avevo ragione io,” ribadisce adesso Gillo, che in seguito si è interessato forse più di musica, di cui era veramente innamorato, che di cinema. “Ti posso dimostrare che il loro era il rigorismo limitato tipico di chi è competente solo a metà.” Per farla breve, tra una visita al Balajo e una presa per i fondelli, Gillo si scoprì anche lui antifascista, un po’ “di scancio” —

che sarebbe una maniera gergale pisana e pontecorviana per dire di sbieco. E dice di sbieco perché ammette che non aveva fatto una scelta ideologica e razionale ma era stato “sedotto” dagli antifascisti che aveva incontrato. “Questi ragazzi più grandi di me avevano un tale prestigio, un tale fascino. Forse sarei diventato un giocatore di rugby, se loro fossero stati giocatori di rugby...” Quei ragazzi più grandi avevano cose importanti da fare e da discutere. Il 23 agosto 1939 venne firmato a Mosca il patto di non aggressione russo-tedesco. Fu un durissimo colpo per l'opinione pubblica democratica in generale ma soprattutto per i simpatizzanti comunisti, che si erano sempre sentiti parte di un movimento antifascista e che improvvisamente si ritrovavano con questo imbarazzante alleato. Nella notte tra l’1 e il 2 settembre la Germania attacca la Polonia — e il 27 settembre cade Varsavia. Il primo settembre Mussolini dichiara la non belligeranza. Due giorni dopo, scaduti i termini dell’ultimatum per il ritiro delle truppe tedesche dalla Polonia, Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Nei nove mesi di quella che sarà chiamata la dréle de guerre — e cioè la febbrile preparazione alla guerra tra la Francia e la Germania che finì con l'occupazione di Parigi il 14 giugno del 1940-,igiovani comunisti dell'emigrazione avevano qualche pro29

blema in più degli altri, divisi com'erano su un documento di Georgi Dimitrov (“La guerra e la classe operaia dei paesi capitalisti”) che denunciava il carattere imperialista della guerra “da tutte e due le parti”. La cosa toccava da vicino gli emigrati italiani e li gettava in una crisi profonda nei confronti del paese che li aveva generosamente ospitati e che insieme all'Inghilterra emergeva ormai come uno dei nemici potenziali del “paese guida”. Ci furono scontri e manifestazioni. Ci furono numerosi arresti. Il 14 maggio il fronte fu sfondato a Sedan. L'offensiva tedesca aveva sconvolto i piani elaborati dallo stato maggiore francese. I tedeschi si stavano avvicinando a Parigi. Il giocoso indottrinamento di Gillo ebbe termine. Il gruppo degli amici e dei sodali, come era logico per gente che non aveva le carte in regola, si sciolse, e tutti si mossero verso sud, ver-

so le zone che a partire dal 22 giugno, giorno della firma dell’armistizio tra Francia e Germania,

sarebbero diventate la cosid-

detta Francia di Vichy. Gillo, con la sua beata incoscienza di sempre, rimase qualche giorno in più degli altri, finché anche lui capì che era il caso di andarsene. Lui e la sua futura moglie Henriette: in tandem. Henriette era tre anni più grande di Gillo, aveva capelli castano chiaro, era elegante e anticonformista. Era (o si dovrebbe dire è, visto che è tuttora viva e vegeta in Borgogna, dove fa la pittrice) la figlia di un grande industriale e, come se non bastasse, la bisnipotina di Joseph Nicéphore Niepce, l'inventore della fotografia. Ma aveva deciso di vivere a modo suo e in assoluta libertà. Gillo l'aveva conosciuta, per così dire, su un marciapiede. La bella Henriette camminava lungo boulevard Saint-Michel, Gillo, con la faccia tosta dei suoi vent'anni, l'aveva abbordata, avevano

chiacchierato per un po’, si erano trovati simpatici, si erano scambiati i numeri di telefono. Lei gli aveva dato appuntamento per il giorno dopo alla mensa universitaria, dove lui la ritrovò dietro il banco a servire la lunga fila degli studenti. L'animo ormai populista di Gillo ne fu toccato: aveva trovato una ragazza lavoratrice, anzi, ancora meglio, una studentessa lavoratrice, e la cosa

sarebbe stata certamente gradita ai suoi nuovi amici-educatori. Ma al terzo o al quarto appuntamento, Henriette si materializzò davanti all’Hétel des Grands Hommes su una strepitosa macchina decappottabile — di suo padre - rivelando così il suo reale status sociale: alla mensa universitaria lavorava solo per sostituire un'amica malata, che altrimenti avrebbe perso il posto. 30

Henriette era anarchica, libera e ribelle. Vivacchiava con mezzi suoi perché voleva essere indipendente dal padre, di cui detestava le opinioni politiche e, più in generale, la concezione di vita. Odiava anche il perbenismo e l'ipocrisia dell'ambiente da cui proveniva. E il suo gusto per la libertà e la ribellione si espresse anche nel suo innamoramento per il ragazzino italiano senza arte né parte con cui trascorse alcuni mesi d'amore nella stanzetta dell’Hòtel de Grands Hommes, mentre suo padre, Monsieur Niepce, che aveva avuto sentore della cosa, schiumava di rabbia.

L'arrivo dei tedeschi li colpì come un fulmine Gillo ricorda ancora il grido che si trasmetteva di da: i tedeschi sono a Pontoise — e cioè all’immediata di Parigi. E mentre le strade che portavano verso savano di qualche milione di parigini che avevano

a ciel sereno. strada in straperiferia nord il Sud si intariempito del-

le loro famiglie e delle loro cose automobili, carrette, tutti i mez-

zi di trasporto possibili, in una ressa inestricabile che sembrava quella dell’uscita dallo stadio, Gillo e Henriette sfilavano accanto a queste carovane di gente disperata e umiliata con la bella sfacciataggine e l'allegria dell’età, su un tandem d’occasione comprato in fretta e furia per il viaggio, un sacco sulla spalla, le racchette da tennis appese alla bici. “Guardate quelli,” si sentivano

gridare dietro, “se ne fregano, vanno in villeggiatura.” Ma persino gli insulti che gli piovevano addosso da parte di quella povera gente per la loro aria vacanziera non li toccavano. In fondo, per loro stava cominciando una nuova avventura. Il progetto, molto vago, era di lasciarsi i tedeschi alle spalle. Quel primo giorno percorsero un po’ meno di cento chilometri e si fermarono per la notte in una tranquilla pensioncina di paese. Al mattino, Gillo aprì felice le finestre per installarsi sul balcone a suonare il pifferetto di canna che non lo abbandonava mai - e non si accorse che i tedeschi avevano occupato il paese, ed erano lì, accampati nella piazza, finché la più vigile Henriette non interruppe la sua bucolica esibizione sibilandogli “cretin, tu ne vois pas ce qu'il y a là-bas?!”. Per un attimo discussero se fosse o non fosse il caso di ritornare a Parigi, dove comunque avevano un tetto. Ma Henriette da

tempo voleva far conoscere a Gillo il Sud della Francia, che a sentir lei era più bello “della tanto decantata Italia”. Ebbe la meglio e fu così che, sempre con la loro aria da tennis club, Gillo

e Hen-

riette presero verso sudovest e, dopo qualche giorno di tandem, di stradine di campagna e di letti in pensioncine fiorite dove la guerra non era ancora arrivata, i due si ritrovarono, un po’ per

caso un po’ perché sapevano che anche gli amici si erano indirizzati da quelle parti, a Foix, nell’Ariège. Dove Gillo venne fermato e cacciato provvisoriamente in cella. 31

Si dava il caso che il governo francese di Vichy richiedesse agli emigrati una dichiarazione di lealtà verso la democrazia e lo stato francese, e si dava il caso che Gillo, per quanto tenue fosse ancora il suo marxismo, avesse deciso di non firmare - influenzato in questo dai suoi nuovi amici che per il momento avevano deciso di considerare questa guerra una guerra “imperialista” da ambedue le parti —, e che quindi si trovasse privo del fondamentale documento. Ma, come molte cose latine, anche la carcerazione di Gillo non fu una cosa seria. Fatto sta che dopo due giorni di carcere nella patria del bel Gaston, i due si rimisero sul tandem e volsero la prua a est. Si fermarono per qualche giorno da Giuliana, la sorella di Gillo, che assieme al marito Duccio Tabet aspettava a Tolosa il visto per poter partire per l'America e intanto ospitava in una grande casa i fratelli e gli amici in fuga. Poi salutarono tutti, Giuliana e Duccio, Bruno e Marianne, che di lì

a poco si sarebbero mossi alla volta del Portogallo per imbarcarsi anche loro verso l'America, e si diressero in Costa Azzurra, destinazione Saint-Tropez, che Henriette conosceva bene e che allora era un posto tranquillo, semplice, popolato di pescatori e di pittori. Lungo la strada fecero tappa vicino a Carcassonne, a Cabirol, in una fattoria dove Emilio Sereni, Francesco Scotti e Giuseppe Dozza (che sarebbe diventato dopo la guerra il primo sindaco comunista di Bologna) si preparavano a continuare la lotta antifascista nelle nuove e più difficili condizioni, facendo finta di fare gli agricoltori — e coltivando in realtà dei buonissimi ortaggi. La fattoria di Cabirol fu in effetti il primo centro del famoso “Comitato di Tolosa” che tanto peso ebbe nel ricollegare i brandelli dei partiti democratici, prima in esilio, poi in Italia. La Costa Azzurra Gillo la conosceva già, dai tempi della sua

vita di tennista. A Montecarlo e a Cannes era stato più volte a disputare tornei e, anzi, gli era capitato di giocare con personaggi illustri come il re Gustavo di Svezia: che non era un grande tennista, ma era in compenso un uomo molto simpatico, lungo lun-

go, e tanto competitivo da permettersi anche qualche piccolo imbroglio quando giocava in partita. A Cannes Gillo, appena uscito dal guscio dorato di Pisa, aveva imparato davvero che cosa vuol dire doversi preoccupare per l'indomani: non aveva soldi, i suoi genitori non potevano dargliene più. Per un po’, contravvenendo da una parte a tutte le leggi del “dilettantismo” allora imperante e dall’altra alla ferrea regola che impediva agli stranieri di lavorare in Francia, aveva dunque dato di nascosto lezioni di tennis:

attività che, se scoperta, gli avrebbe precluso in seguito ogni possibilità di giocare nei tornei. Erano stati per Gillo, quei posti sulla Costa Azzurra, un mon32

do di grande divertimento e di grande eccitazione, ed era da lì, dopo un torneo, che era partito su invito di Bruno per andare a raggiungerlo a Parigi. A due anni di distanza, però, l'atmosfera era molto cambiata, e la tranquillità che vi si respirava era una sorta di pace stregata sotto cui si agitavano trame e tensioni dram-

matiche. La Francia era divisa in due, i tedeschi a nord della Loira, il governo di Vichy a sud. Il regime di Pétain conservava un’apparenza di autonomia. E a Tolosa, a Marsiglia, a Lione, a Tolone, e in molti altri centri del Midi — tra cui appunto Cabirol, dove Mimmo Sereni, il futuro ministro dell'Agricoltura, coltivava i suoi ortaggi e si preparava alla lotta —, la Resistenza degli emigrati si stava organizzando. Da Marsiglia, nei mesi seguiti all’invasione tedesca della Francia, passò tutto il tumultuoso e varie-

gato mondo dell'opposizione al fascismo: socialisti, giellini, comunisti

come

Giuliano

Pajetta e Giorgio Amendola,

che nella

Francia di Vichy, di fronte a una polizia politica ancora non ben organizzata, godevano di una sia pur minima libertà di azione. Ma la risposta dei tedeschi allo sbarco degli angloamericani nel Nordafrica, dopo la sconfitta dell’“Asse” a El Alamein nel novembre del 1942, fu un allargamento del loro controllo a tutta la Francia, salvo una piccola fascia alla frontiera delle Alpi e una parte della città di Mentone occupate dagli italiani, che avrebbero condotto le cose alla tipica maniera di casa nostra, tra ineffi-

cienza e bonomia — come si può leggere in un bel libro di Maspero, Il tempo degli italiani. La storia di quel periodo confuso e appassionato l’ha raccontata Giorgio Amendola in Lettera a Milano. Ma Gillo e Henriette, a Saint-Tropez, almeno all’inizio vivevano fuori dalla Storia, in un loro strano mondo. Seguivano ovviamente con ansia le vicende della guerra, ma riuscivano comunque a conservare una relativa allegria. Non c’era verso di ricevere aiuto dalle famiglie. Le comunicazioni con il Nord si erano interrotte, sia quelle politiche, sia quelle personali. E di conseguenza i due dovevano ingegnarsi. Si sistemarono in una casetta di pescatori dietro place des Lyces, alle spalle del porto, arredata come la stanza di van Gogh a Arles: un tavolo, due sedie, un lettone. E per un anno vissero del

pesce che Gillo pescava e barattava sul fronte del porto di SaintTropez — una cernia contro quattro bistecche se lo scambio avveniva con il macellaio, ma anche un dentice contro la riparazione delle scarpe o l’aiuto dell’idraulico — e con le lezioni di tennis che impartiva ai rifugiati ricchi: perché non c'è guerra che interrompa le buone abitudini della borghesia... La sera tiravano avanti con un caffè e un pastis da Sénéquier, dove si raccoglieva un gruppo composito di intellettuali in esilio e di pittori, di ricchi rifu33

giati, di ebrei in fuga verso la Spagna e il Portogallo, da dove si sperava di riuscire a partire per gli Stati Uniti. Ovviamente non si parlava d'altro che dell'andamento della guerra o del visto, il mitico visto che non arrivava ancora. Nel gruppo che si incontrava da Sénéquier c'erano anche molti personaggi celebri: per esempio René Leibowitz, un grande musicista che fece a Gillo un corso accelerato di pianoforte, armonia e contrappunto; per esempio Tristan Tzara, uno dei padri del dadaismo. Gillo lo ricorda molto

spigoloso, divertente, spiritoso, capace di proporre sempre i problemi da un’angolazione nuova, pieno di sé. Si divertiva un mondo conla strana coppia, anche se era più cordiale con Gillo e Henriette quando vedeva Gillo tornare dalla pesca con una delle sue prede, che si trasformavano in un’ottima cena. Poi per un po’ non se li filava, forse, ipotizza Gillo, perché li considerava troppo igno-

ranti per lui. Ma con i due ragazzi giocava volentieri a bidou, un poker fatto coi dadi. E Tzara, che “giocava di brutto”, era capace

di fare terribili scenatacce se gli sorgeva il dubbio che qualcuno avesse fatto qualcosa di men che corretto. Henriette e Gillo si amavano, ma litigavano sempre. Henriette, dice Gillo, aveva il carattere di un uomo, “un temperamento alla John Wayne”, tutto uno spigolo. Gli spigoli derivavano anche dal fatto che Gillo si credeva in dovere di confessarle quella che chiama adesso e forse chiamava anche allora “una perniciosa dicotomia tra voglie erotiche e pulsioni sentimentali”, indottagli — dice lui — dalla madre: quella ragazza è fine e distinta, aveva commentato

per anni Maria Maroni a proposito di certe si-

gnorine secche e chic che a Gillo non dicevano assolutamente niente, e oh, com'è volgare, di certe bellezze morbide e formose che erano molto più attraenti per lui. A lui piacevano, dice, le donne formose. Questa dicotomia originata dalla visione materna metteva da una parte della linea divisoria le donne eleganti e sottili che vanno bene come mogli e dall'altra — be’, l’altra metà della popolazione femminile Maria Maroni non la considerava neanche... Henriette era del genere chic e secco che piaceva alla signora Pontecorvo, ed era anche una donna di grande intelligenza, temperamento e fascino. Ma sessualmente Gillo ne era attirato più per l’ardore dei suoi verdi anni che per una affinità profonda, per un’attrazione elettiva. Credendo che il rapporto dovesse essere limpido e totalmente onesto, Gillo in effetti era crudele: diceva a Henriette che si sentiva attratto anche dalle altre, che magari non ci avrebbe vissuto, non ci avrebbe fatto un viaggio insieme, non ci avrebbe attraversato la Francia in tandem, ma a letto, una volta o due, sì, eccome. Insomma... 34

Henriette, con cui Gillo faceva l’amore senza soverchio slancio, mandava giù, innamoratissima. I rapporti erano angolosi, perché non erano smussati da un rapporto sensuale giusto. Scoppiavano liti terribili. Ma era un legame profondo, e i due finirono ugualmente per celebrare un vero matrimonio. Andò che Gillo, un giorno di particolare buon umore, prendendo un cappuccino, guardò negli occhi la sua bella e severa compagna e le disse: “E se ci si sposasse?”. Era, dice lui, una proposta scherzosa, fatta tanto per dire. Ma la felicità assolutamente inattesa e sorprendente che vide sul viso di Henriette - l’anarchica, l’estremista, la ribelle

Henriette, che aveva sempre teorizzato contro l’istituto del matrimonio —, la gioia che esplose fu tale che Gillo non osò più tor-

nare sulla sua parola. Si disse, “in fondo, perché no?”. Oltretutto,

precisare “l'avevo detto per scherzo” gli sarebbe valsa una valanga di insulti e forse una bottigliata in testa. Ma poi, d’un tratto, l’idea gli parve normale e giusta. Si sposarono alla mairie di SaintTropez, testimoni un pescatore e un amico pittore. Arrivati al dun-

que, lui aveva ovviamente dimenticato di comprare gli anelli. I genitori Pontecorvo, informati tardivamente dell’evento, mandarono in dono una macchina fotografica (per gratificare una delle manie di Gillo) e una serie completa di armoniche

a bocca. La

macchina fotografica non c'è più. Le armoniche ci sono ancora, e di quando in quando Gillo suona le meno arrugginite.

Ma non si diventa antifascisti impunemente. E così un bel giorno ecco arrivare a Saint-Tropez “dove — si legge in Lettera a Milano - aveva trovato rifugio uno strano mondo di intellettuali francesi e stranieri che sembravano vivere fuori dal tempo e dallo spazio, come se la guerra fosse una cosa remota”, ecco arrivare una coppia visibilmente seria e visibilmente fuori posto in quel sole, in quella indolenza, in quel clima da gioco e da caffè: erano Giorgio Amendola e Celeste Negarville, altro padre storico del Pci. Amendola viveva allora con Germaine, sua moglie, francese, e i bambini, a Marsiglia. Celeste Negarville, nome di battaglia Gino, ci era arrivato da poco, dall’Urss, dove si era rifugiato quando il regime fascista lo aveva rilasciato dopo dodici anni di carcere. “Era necessario,” scrive Amendola,

“stabilire

in Italia [...] un contatto qualificato con gli esponenti antifascisti, per fare giungere loro i testi dei documenti approvati dal Comitato di Tolosa [il raggruppamento di tutti i partiti democratici dell'emigrazione che, con storica decisione, invocava una comune azione di tutte le forze antifasciste perché ‘il tempo è ormai maturo’, n.d.r.]. Era inoltre necessario raccogliere notizie

sullo stato in cui si trovavano i partiti antifascisti e sulle linee di attività che si andavano svolgendo. E pensammo di affidare que35

sto incarico a Gillo Pontecorvo, cugino di Emilio Sereni, che si

trovava a Saint-Tropez e che allora era per noi soprattutto un giovane simpatico sportivo, e il fratello del fisico Bruno Pontecorvo.” Insomma, “avevano bisogno di un corriere sia pur improbabile,” dice Gillo, “ma insospettabile, sconosciuto alla polizia fascista, come io ero allora”. I corrieri o i funzionari di partito mandati in patria dalla direzione comunista italiana ormai rifugiata in Francia, gli raccontarono Amendola e Negarville, per via dell’efficientissimo la-

voro dell’Ovra, la polizia segreta fascista, non “duravano” più di tre o quattro settimane, e lo stesso quelli spediti per i collegamenti. Ormai non avevano quasi più nessuno. Per fare quel lavoro, dunque, secondo Gillo, poteva servire persino un mezzo

playboy come lui, che aveva il vantaggio di avere ventidue anni e di dimostrarne forse diciotto, ma era antifascista e di provata lealtà. Per il momento si trattava solo di portare documenti in una valigetta con il doppio fondo che andavano consegnati a varie persone a Milano, Firenze e Torino. Gillo per un momento esitò. Ma Negarville, da quel fine politico che era, gli aveva messo una pulce nell’orecchio: lui piaceva a Henriette perché le cose finora erano state divertenti e avventurose. Ma a furia di fare più o meno la dolce vita di Saint-Tropez, lei, così brillante, intel-

ligente, eccentrica, si sarebbe annoiata. L'avventura della lotta clandestina avrebbe aggiunto alla loro storia un tocco di emozione in più. “Era un mezzuccio, ma io ero già deciso a tre quar-

ti, e questo è stato l'argomento decisivo.” Era la fine dell’estate del 1942. Gillo, che aveva come armi il suo passaporto e la faccia tosta del suo ottimismo, partì per Milano, compì disinvoltamente la sua prima missione, come se in

tutta la vita non avesse fatto altro che varcare confini con documenti compromettenti - quella volta doveva consegnare dei materiali a Edoardo Volterra e a gruppi di liberalsocialisti in Toscana e Umbria, e cercare di raccogliere più notizie possibili sulla situazione dei gruppi antifascisti sparsi per l'Italia —, e rientrò a Saint-Tropez a fare il pescatore, comunicando ai suoi capi mar-

sigliesi che, a quanto gli risultava, “lo stato di organizzazione dei partiti fascisti in Italia è ancora assolutamente arretrato”. L’appetito - è il caso di dire — vien mangiando. Dopo alcuni viaggi, visto il successo della prima volta e vista l'utilità delle notizie raccolte sulla situazione italiana, preziose per elaborare una linea di condotta, Amendola e Negarville decisero di chiedere a Gillo altre missioni, più complesse. Ma per far questo, consideravano anche opportuno approfondire il superficiale indottrina36

mento politico a cui Gillo era stato sottoposto a Parigi, giusto per non fargli correre il rischio di commettere gaffe troppo serie: le divisioni tra le varie componenti dell’antifascismo, che avevano

vent'anni prima facilitato l'avvento del fascismo, non erano infatti ancora completamente superate. Vennero dunque da Marsiglia a turno — il percorso sulla Michelin, cugina francese dell’italiana Littorina, si faceva agevolmente in due ore —, restavano quattro o cinque giorni ciascuno,

e la casetta di place des Lyces divenne una scuola di politica e di ideologia. E siccome i due a Marsiglia facevano più o meno la fame, erano felici dell'accoglienza dei giovani Pontecorvo, che gli ammannivano

tutti i giorni il loro pesce fresco — un'aragosta o

una spigola pescate da Gillo e preparate da Henriette. Tanto che Gillo, un po’ per scherzo un po’ sul serio, diceva di avere il sospetto che i due amici prolungassero il periodo dell’indottrinamento non tanto perché lui fosse particolarmente duro di comprendonio, ma per la gioia di quella casa quasi normale e di quel buon cibo. Amendola, che a Saint-Tropez si fece raggiungere una volta anche dalla sua Germaine, nelle pagine che dedica a Gillo

nel suo libro mette le mani avanti e nega: “Non fu per questi motivi turistico-gastronomici che la preparazione di Gillo andò per le lunghe”. No. Gli dovettero spiegare tutto: chi erano i liberalsocialisti, cos'era Giustizia e libertà, qual era la storia politica di Capitini, Calogero, Ramat e tanti altri, chi non andava d’accor-

do con chi, cosa rappresentava La Malfa, che cosa pensavano di Nenni. “Te la senti di fare questo lavoro?” gli chiedevano a turno, per essere sicuri che Gillo non si buttasse alla cieca in un’avventura per cui non era ancora preparato. Ma lui era o sembrava deciso. Arrivando in Italia dalla Francia, ricorda Gillo, “mi sembra-

va di entrare nel paese di Bengodi. Era bello rivedere i negozi pieni, i mercati con frutta bellissima. In Francia invece c’era proprio la fame, era veramente un paese occupato, pensa, che rabbia, pro-

prio dai cugini poveri. Noi vivevamo di scambi. In Italia invece c'era di tutto, e fior di roba. Non solo. In Italia si trovava qualcosa che dalla Francia era totalmente scomparso, le macchine fotografiche, e io me ne comprai una”. Una Leica che avrà una parte non piccola nel suo futuro. I primi viaggi - velocissimi — compiuti nell'autunno del 1942 erano solo delle consegne. Gillo aveva degli indirizzi, aveva una

parola d'ordine, consegnava i suoi documenti ad anonimi che non sembravano essere personaggi particolarmente importanti e ripartiva: senza mai un problema. Poi lo spinsero a cercare di rac37

cogliere informazioni. E al quarto viaggio gli chiesero un rapporto sulla situazione italiana. Gillo ne scrisse uno di settanta pagine. Raccogliere informazioni, tastare il polso degli ambienti borghesi o intellettuali, era per Gillo un compito relativamente facile. Col mondo operaio invece non aveva alcun contatto. Ci provò lo stesso. “Fu una follia. Andavo in giro per le grandi fabbriche di Sesto San Giovanni parlando con gli operai per saggiare il loro umore, dicevo che cercavo lavoro, mi inventavo delle sto-

rie per giustificare la mia verbosa curiosità. Erano tutti molto gentili. Una volta un operaio della Breda mi portò a casa sua a mangiare. Ma sua moglie mi sembrava un po’ diffidente. Forse aveva più fiuto e non la convincevo del tutto. Io, che mi ero presentato come apprendista tornitore, avevo paura che mi venisse-

ro fatte delle domande a cui non avrei saputo cosa rispondere...” Ovviamente la gente aveva voglia di parlare e la relazione di Gillo si rivelò tanto interessante che gli vennero affidati compiti più delicati, tra cui quello di prendere contatto con i gruppi liberalsocialisti a Perugia e a Pisa. Fu in quell'occasione che Gillo conobbe Alessandro Natta, e riferì dell'incontro in un rapporto che si trova adesso all'Istituto Gramsci e che sintetizza così: “A Pisa mi hanno consigliato di vedere un giovanissimo professore associato, un normalista,

certo Natta, liberalsocialista, ma che

mi sembrò molto più vicino a noi di tutti gli altri elementi sia del Partito d'azione che dei liberalsocialisti incontrati prima” [‘dico noi, precisa oggi Gillo, ‘perché ormai, tra una spigola e un sarago, ero diventato davvero comunista’]: il giovane professore era, dicevo, uno molto vivo, da tener presente”. In effetti Natta era disponibile all’azione immediata ed era decisamente contro l’attendismo, poiché era ormai evidente che c’era la possibilità di fare qualcosa. E ogni volta che i due si rivedono ridono ancora insieme di questo incontro e di questo rapporto — visto che in seguito il “liberalsocialista” Natta divenne segretario generale del Partito comunista italiano. In uno dei primi viaggi importanti dopo il suo apprendistato

“da portalettere”, Gillo fu incaricato di un incontro piuttosto impegnativo: doveva vedere Ugo La Malfa, leader del Partito d’azione clandestino, ma ufficialmente dirigente della Banca commerciale italiana. L'incontro, di cui parla anche Spriano nella sua Storia del Pci, era stato organizzato nel solenne e sontuoso pa-

lazzo neoclassico della Banca commerciale in piazza della Scala, e Gillo doveva farsi riconoscere con una parola d’ordine cu-

riosa: “Vengo da parte dell’uomo che mangia le mele per strada” — a quanto pare un amico di La Malfa che aveva questa abitudine. Ma fu un momento 38

angoscioso. Gillo era giovane sì, ma sem-

brava ancora più giovane. Per di più era nero nero dal sole di Saint-Tropez. Insomma, dice lui, un aspetto poco serio e attendibile. La Malfa, ricorda, lo fissò a lungo e

in silenzio da dietro

quella sua faccia da gufo, dietro gli occhiali spessi, dall'alto della sua poltrona intagliata, e non rispose subito alla parola d’ordine. Anche l'ottimismo pontecorviano ebbe un attimo di cedimento. Per un momento Gillo ebbe paura di aver detto la parola d'ordine alla persona sbagliata. “Sono sicuro,” dice oggi, “che La Malfa si stesse chiedendo, ma guarda questi disgraziati chi cazzo mi hanno mandato. E io intanto pensavo, dio mio, e se non è

lui? Finalmente, dopo parecchi secondi, rispose con la controparola d’ordine. Ma si sentiva che non gli andavo bene. Anche se in seguito i rapporti sono diventati molto buoni e amichevoli...” I compiti di Gillo si facevano ora un po’ più complessi. Ma i suoi ospiti di Saint-Tropez lo avevano preparato bene. “Bisognava accelerare i tempi per formare una specie di fronte unito. Si era prima dei grandi scioperi del ‘43 a Torino. La Malfa, al contrario di quelli che chiamavamo gli attendisti, era abbastanza vicino alle posizioni del Comitato di Tolosa. La linea del Partito era di creare un fronte nazionale unitario che cominciasse subito a muoversi.” Dopo gli scioperi del marzo 1943, però, il Partito d’azione, che si era costituito per la confluenza di gruppi di Giustizia e libertà con i liberalsocialisti e altre forze democratiche, era stato colpito da una serie di arresti, e La Malfa dovette riparare in Svizzera. Gli arresti avevano creato dei vuoti anche tra le fila del Partito. La parte “divertente” dell'avventura di Gillo doveva considerarsi conclusa. Amendola e Negarville cominciarono a sollecitarlo a prendere una decisione: “Dovresti rientrare in Italia e restarci fisso,” insistevano. Lui aveva ancora voglia di libertà, resisteva, non voleva legarsi. “Viaggi quanti ne volete, ma fisso giù no.” Insisti insisti, alla fine cedette. Mollò — provvisoriamente, sperava lui — Saint-Tropez, la casetta di place des Lyces, i caffè da Sénéquier, la pesca delle aragoste, le partite a bidou con Tristan Tzara, la bella Henriette, e si ritrovò, come si diceva allora,

“rivoluzionario professionale” a Milano.

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Capitolo terzo Nel quale si racconta come Gillo abbia affrontato con il consueto entusiasmo la strana vita del clandestino. Come sia vissuto in stretta intimità con Pietro Ingrao, facendo insieme a lui “l'Unità”. Come sia stato, insieme a Eugenio

Curiel, il fondatore del Fronte della gioventù, pur restando fondamentalmente anarchico e disobbediente. Come sia sfuggito ai bombardamenti, abbia litigato con una scimmia

e, per non farsi riconoscere,

si sia travestito da

ebreo. Come abbia visto la Liberazione a Torino. Come Henriette si sia arrabbiata per il modo in cui la trattavano in Italia e se ne sia andata a tentare di fare il maquis in Francia.

Cosa voleva dire “rivoluzionario professionale”? Voleva dire che Gillo era in forza nel Partito comunista italiano clandestino,

che dal Partito gli venivano date due lire per vivere e che si dedicava totalmente, incondizionatamente all’attività clandestina. Era l'inverno del 1942. Di lì a qualche mese il fascismo sarebbe caduto, nella drammatica seduta del Gran consiglio del 25 luglio. L'atmosfera a Milano era cupa, tesissima ed eccitante. A Milano, come abbiamo già accennato, Gillo viveva allora in una pensioncina di via San Paolo dove da qualche tempo, vista la loro situazione economica non semplicissima, avevano una stanzetta anche i suoi genitori. Massimo e Maria Pontecorvo se ne sarebbero andati dopo l’8 settembre quando Gillo finalmente capì che era un follia, almeno per loro, restare in Italia. Erano vecchi,

avevano venduto la casa di Pisa perché non ce la facevano più a mantenerla. Iragazzi erano sparsi peril mondo e improvvisamente, per qualche mese, si ritrovavano accanto il più scapestrato, il più balzano di tutti. Ma Gillo non poteva spiegare loro le ragioni per cui era a Milano, e perché aveva scelto di vivere, almeno per un po’, sotto il loro stesso tetto. Naturalmente, inventò a loro beneficio alcune balle che gli sembravano particolarmente credibili. Ma loro non capivano ugualmente perché Gillo non se ne tornasse all'estero. Tuttavia, abituati com’erano alla “grande famiglia”, erano solo contenti di avere accanto almeno uno dei loro figli. Quella di via San Paolo era una modesta e tranquilla pensione borghese, che a Gillo sembrò immediatamente, con tutto il suo decoro e il suo

perbenismo, i centrini di pizzo sui mobili e l'odore di cucina familiare che aleggiava in tutta la casa, una “base” perfetta. 40

Tra gli altri ospiti c'era anche una piacente signora tedesca, che, dice Gillo, “era molto probabilmente una delle tante spie della Gestapo” di cui l’Italia pullulava. Anche lei era lì “per caso”, perché diceva di avere pochi soldi. Ma Gillo, con la sua beata incoscienza e la sua onnivora carica sensuale, non poté im-

pedirsi di finirci a letto “due o tre volte”, rendendosi conto subito dopo di averle detto, complice l'atmosfera erotico-sentimentale, cose che, sia pur insignificanti e lontanissime dalla politica, forse sarebbe stato meglio non dire — e decidendo una volta tanto che la castità, almeno

nella vita clandestina,

era una

scelta più prudente. Allora Gillo — siamo ancora prima dell’8 settembre - lavorava all’“Unità” insieme a Pietro Ingrao. “Cioè, io facevo più o meno lo schiavetto,” precisa, sempre felice di minimizzare. Si erano conosciuti in un'occasione che non si poteva certo dimenticare e che Ingrao rievoca con precisione assoluta, minuto per minuto: il 25 luglio. Anzi, il 26, il giorno dopo l'annuncio della caduta di Mussolini. C'era anche Gillo al comizio di Ingrao, il primo che fece, quello stesso giorno, a Porta Venezia. Nei ricordi di Ingrao la scena ha la potenza di un film di Ejzenstejn — e forse nel suo modo di descrivere così vividamente e visivamente quella giornata c'entra la vecchia passione per il cinema di un ex studente del Centro sperimentale di cinematografia. Pietro Ingrao era stato spedito da Roma a Milano per sicurezza, perché il gruppo clandestino in cui militava nel dicembre del ’42 era stato falcidiato dagli arresti — erano stati presi tra gli altri i fratelli Puccini, Mario Alicata, Marco Cesarini Sforza — e

si pensava che anche lui fosse a rischio. Dopo qualche mese a Milano il Partito lo aveva mandato in Calabria, in un rifugio sicuro. E da lì era tornato qualche settimana prima del 25 luglio a Milano, dove viveva nascosto presso un compagno, Salvatore Di Benedetto, che aveva affittato un appartamentino in corso di Porta Nuova, in un grande casamento popolare con tante scale e un ampio cortile. La notte del 25 luglio Ingrao la ricorda come una delle più emozionanti della sua vita. Milano era percorsa da una folla inneggiante, la gente sembrava impazzita. Non si capiva esattamente la portata degli eventi. Stava tramontando un'era, su questo non c'erano dubbi, ma l’interrogativo che tutti si ponevano era che cosa avrebbero fatto i tedeschi, che erano in casa, e si in-

tuiva che le cose non sarebbero state certo facili. Anche per Gillo la notte del 25 luglio era stata memorabile. Alla pensione di via San Paolo, dove stava dormendo del tutto 41

ignaro di quello che era successo, lo aveva svegliato Amendola,

con la voce resa irriconoscibile dall'emozione. Poi gli aveva telefonato Celeste Negarville, anche lui emozionatissimo. Secondo la ricostruzione che fa di quel giorno Pietro Ingrao, la mattina del 26 lui, Elio Vittorini e Giansiro Ferrata si riunirono nella sede della casa editrice Bompiani in via della Spiga e, esultanti per quello che sembrava uno spiraglio di libertà, organizzarono per il pomeriggio una manifestazione. Vittorini fece qualche telefonata e riuscì miracolosamente a noleggiare un camioncino con un altoparlante. Si recarono prima davanti al carcere di San Vittore, dove erano rinchiusi ancora molti antifascisti. Poi si spostarono a Porta Venezia, dove la manifesta-

zione esplose in tutta la sua forza. Ingrao si arrampicò sul tetto del camioncino e arringò la folla parlando soprattutto di quello che allora era il problema centrale: la possibilità di arrivare alla pace. Presero la parola tutti, anarchici, socialisti, comunisti, strappandosi il microfono l’un l’altro — tranne Gillo, che per “patologica timidezza” non si è mai sentito portato per l’oratoria — in un entusiasmo commovente, in un'alternanza di speranza e di pathos. Poi, di lontano, preceduti da un rombo, si videro arrivare i carri

armati dell’esercito che venivano a disperdere quella prima manifestazione libera, quello schieramento della folla commossa ed

eccitata. Poteva succedere di tutto. Ma era una giornata speciale. Tra la folla e i soldati si intrecciò un dialogo, un dibattito, una sfida: una donna riuscì a rompere il cordone dei soldati e a salire su un carro armato. Le truppe si ritirarono. Fu dopo questo glorioso ed emozionante bagno di folla che Ingrao e i suoi compagni si chiusero in casa di Elio Vittorini, in

corso Venezia, per preparare il primo numero dell’“Unità” dopo la caduta del fascismo. Erano forse le cinque del pomeriggio, si annunciava un bel tramonto chiaro di luglio. In casa Vittorini c'era ovviamente lo scrittore, c'era Gillo, c'era Salvatore

Di Benedetto. E c’era Celeste Negarville, che Ingrao non conosceva, ma di cui sapeva solo che si chiamava

Gino (era il suo

nome di battaglia), che era un dirigente del Partito comunista clandestino, che aveva fatto tredici anni di carcere fascista ed era un membro

della mitica Direzione,

l'incarnazione del Pci

combattente. Ma Gino-Negarville quella sera non aveva voglia di lavorare. Era arrivato lì dopo il tumulto di quella giornata straordinaria, voleva prendere le cose con calma. Chiacchierarono piacevolmente, cenarono, e solo dopo cena si misero a lavorare. Ciascuno stava scrivendo “il suo pezzullo”, ciascuno era lì che “pesava le parole” per questa uscita straordinaria dell’“Unità” e gli evenn”

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ti straordinari di quei due giorni, quando improvvisamente il campanello suonò, la porta fu aperta con qualche esitazione, e arrivarono due signori in borghese. Erano carabinieri, venuti a perquisire casa Vittorini. La poli-

zia badogliana si era attivata immediatamente, e dal camioncino usato per la manifestazione erano risaliti a chi lo aveva noleggiato. Gli ospiti di casa Vittorini erano tutti immobili, irrigiditi, nell'atrio. Ingrao dice che non sapeva se dire un nome falso (“ne avevo un bel numero”) o quello vero. Con il 25 luglio era cominciata una nuova legalità o dovevano considerarsi ancora clandestini ed ex lege? Potevano uscire allo scoperto o dovevano continuare a nascondersi? Era tornato Mussolini? Lo colpì il fatto che Negarville dichiarasse apertamente di chiamarsi Celeste Negarville. Gli sembrò un nome così singolare che pensò fosse falso. Lui a ogni buon conto diede il suo nome vero. Anche Gillo fece altrettanto. Vittorini e Ferrata furono fermati. Gli altri solo identificati. I carabinieri se ne andarono con i prigionieri che, tratto tipico del confuso periodo badogliano, sarebbero stati rilasciati qualche giorno dopo, senza comunque sapere di che cosa erano accusati o cosa gli si rimproverasse. Era meglio in ogni caso che i superstiti del gruppetto non restassero lì. Non si capiva che cosa stesse succedendo. Si trasferirono a casa di Ernesto Treccani, pittore, compagno, cospiratore,

per finire la preparazione del numero. Ma anche lì verso le undici della mattina arrivò una telefonata annunciando che la polizia li stava cercando. Nella immensa confusione di quella giornata, riuscirono a spostarsi in viale Padova, alla tipografia di Moneta, un buon tipografo da sempre antifascista, pronto ad aiutarli. Il 27 luglio il primo numero dell’“Unità” dopo la caduta del fascismo vedeva finalmente la luce. “L'Unità”, allora un foglietto di dimensioni più che modeste, era stampato e diffuso clandestinamente, anche se duran-

te il periodo del governo Badoglio i “congiurati” si sentivano decisamente meno

in pericolo di quanto non si sentiranno dopo

l’8 settembre, sotto l'occupazione tedesca. In un primo tempo, la supervisione politica fu affidata a Celeste Negarville, poi a Girolamo Li Causi. Ingrao scriveva i pezzi — e raccoglieva quelli degli altri compagni. Con Gillo Ingrao parlava anche di cinema, e pensava che forse, in futuro, avrebbe fatto il regista. Gil-

lo invece — che nel ricordo di Ingrao sognava ancora di diventare un compositore — gli parlava di musica, gli rivelava l’esistenza di Sostakoviè e gli spiegava (cantandoglielo) quanto fosse bello l'inno sovietico. Ma forse, dice Ingrao con affettuosa 43

ironia, sul suo giudizio estetico di allora influivano fortemente altri fattori. La lunga estate del ’43 fu terribile. Milano venne selvaggiamente bombardata dagli inglesi. E da un bombardamento, quello del 15 agosto, fu centrata in pieno la pensioncina di Gillo. Giorgio Amendola, che era giunto a Milano per partecipare alla direzione nord del Partito e per riferire sulla nomina dei commissari sindacali avvenuta a Roma dopo il 25 luglio, aveva appuntamento con Gillo a San Babila e se lo vide arrivare tutto nero di fuliggine. Gillo, maniaco di musica com'era, per cercare di recuperare il suo primitivo registratore, un oggetto per lui preziosis-

simo, era entrato nell’appartamento in fiamme. La casa era stata colpita, gli raccontò, ma l'incendio era stato finalmente domato. Milano invece era un mare di fuoco. E poche ore dopo,

quando i due amici si rividero, Gillo disse ad Amendola che l’incendio era ricominciato, e aveva divorato tutto. Doveva trovare un altro posto sicuro. Fu allora che si trasferì nella casa dove abitava Pietro Ingrao, in corso di Porta Nuova. Una vita a due intensissima. Dormivano nella stessa stanza, lavoravano insieme al giornale. Insieme scelsero anche la grafica per la testata. Si rivolsero a Veronesi e ad Albe Steiner, che già allora erano noti per il loro talento grafico. Fu Steiner a scegliere i caratteri, semplicissimi e stilizzati,

e a costruire una testata asciutta ed elegante di cui Ingrao e Gillo andavano molto fieri. Forse si aspettavano qualche lode. Gli arrivò invece una reprimenda da Roma - dove il giornale era stato preso in mano da Celeste Negarville - perché non si erano allineati alla testata brutta e carica di tradizione dell’“Unità” di Gramsci, che troneggiava sull’'edizione romana. Ma per un bel periodo la testata milanese restò quella proposta dai due amici. “L'Unità”, che nei primi giorni del confuso periodo tra il 25 luglio e l'8 settembre era stata stampata di nascosto ma con una certa benevola tolleranza nella tipografia del “Corriere della Sera”, in via Solferino, grazie all'aiuto decisivo degli operai sollecitati da Corrado De Vita, dopo l’'8 settembre, ovviamente, dovette traslocare di corsa. Il giornale veniva composto fuori città, da tipografi che tenevano nascosta in casa una vecchia Linotype. Poi i piombi venivano trasportati con “la portapacchi” (una biciclettona rozza ma molto robusta con un cesto enorme sulla ruota po-' steriore) alle tipografie che accettavano il rischioso compito di stamparli. Qualche tipografo lo faceva per simpatia politica. Qualcuno per denaro. Ma questo solo all’inizio: poi, a mano a mano che il Partito si andava organizzando, i “mercenari” furono ab44

bandonati. Troppo pericoloso. Anche se il rischio c'era sempre. Gillo, per esempio, era arrivato da Moneta un pomeriggio con in mano, avvolto in un giornale, il cliché di un manifestino che chiedeva aiuto peruna sottoscrizione destinata alneonato movimento

partigiano. Di Moneta non c’era traccia. C'erano invece due facce sconosciute. Ma ormai lui si era inoltrato troppo nella tipografia, che era lunga e stretta, per tentare disinvoltamente di girare sui tacchi e andarsene. “Cercai di giocare di anticipo,” racconta, “esibii il pacchetto

con dentro il cliché allungando la mano fino a portarla quasi sotto gli occhi di quei tipi, e dissi subito ‘avrei un lavoretto urgente’. ‘La tipografia oggi non lavora, grugnì uno dei due poliziotti - perché quello erano, poliziotti in borghese. Insistetti, per avere l’aria naturale, ‘ma guardi che è una cosetta rapida’. ‘Non rompere, coglione,’ mi strillò uno dei due, ‘levati dai piedi.’ ‘Va bene, va bene, mica le ho sputato in faccia, risposi andandomene. Evidentemente ancora una volta mi aveva salvato la faccia tosta — o la faccia da ragazzino. Non sapevo però che nel pomeriggio sarebbe dovuto andare alla tipografia anche Ernesto Treccani, per un’altra faccenda. Evidentemente c’era stato un errore nell’applicazione delle regole cospirative. Per fortuna lui arrivò senza nulla di compromettente in mano. Lo fermarono ugualmente, forse perché sembrava meno ragazzino di me, e chiunque si fosse avvicinato a quella tipografia era immediatamente considerato sospetto. Ma dopo pochi giorni, probabilmente per l’intervento della potente famiglia, fu rilasciato e se ne andò in Svizzera.” Il periodo badogliano era stato per tutti una fase non troppo impegnativa di semiclandestinità. Si poteva finire in carcere come era successo a Vittorini, ti potevano fermare come era suc-

cesso a Ernesto Treccani, ma non si aveva mai la sensazione di rischiare la vita. Il pericolo veniva forse più dai bombardamenti che dalla polizia 0 dai tedeschi. E la sera capitava spesso che tutto il gruppo partisse in bicicletta verso il tramonto alla volta di Monza, dove c’era una casa-rifugio più sicura. Poi, con l’8 settembre, tutto sarebbe passato nella totale clan-

destinità, e la vita dei militanti sarebbe diventata veramente dura. Era finita la speranza che tutto stesse per sciogliersi. Era finita la speranza che arrivassero gli eserciti alleati. E l'annuncio dell'armistizio, nel ricordo di Ingrao, si mescola al ricordo di un

settembre piovoso, triste, in cui Milano si riempì di pattuglie tedesche e delle divise scure delle brigate nere di Salò. Anche nella memoria di Gillo quel periodo autunnale è legato a un colore: il grigio. Ma Gillo amava molto la nebbia di Milano, e ricorda con nostalgia il suono tutto particolare delle cam45

pane milanesi nell'atmosfera invernale, che arrivava ammorbidito e ovattato dalla bruma.

Lo strano duo Ingrao-Pontecorvo viveva insieme da un mese e mezzo (con tutti gli ospiti improvvisi e i traslochi che imponeva la vita clandestina). Henriette era rimasta nelle tranquille retrovie francesi, perché gli amici di Gillo non pensavano che fosse sicuro per una ragazza, per di più francese, stare a Milano in quelle condizioni. Ma rimanere a Saint-Tropez a non fare nulla, e senza Gillo, non era cosa da lei. Era passato un opportuno pe-

riodo di attesa, era passato il 25 luglio, era passato l’8 settembre. Henriette non aveva modo di avvisare Gillo del fatto che intendeva entrare in Italia, pronta a lavorare con lui, perché non sapeva più dove si rifugiasse suo marito. Ma la sua decisione era irrevocabile. Accadde così che un giorno — doveva essere il principio dell'ottobre 1943 —- Gillo tornava stanco morto in bicicletta dalla tipografia clandestina di viale Padova in cui si stampava “l’Unità”. Il comando generale partigiano aveva fatto proibizione assoluta di passare vicino alla stazione, che era considerata un posto molto pericoloso per le continue retate e i pattugliamenti. Ma il giro per arrivare nella casa-rifugio di corso di Porta Nuova senza passare dalla zona vietata sarebbe stato lunghissimo. Così, non certo per la prima volta, Gillo decise di disobbedire alle “regole cospirative”. E fu così che la vide: bella, magra, austera, tremante di fred-

do per via del vestitino estivo che si portava dietro dal mite clima di Saint-Tropez e che mal la proteggeva da quell’ottobre così invernalmente rigido. Era appena sbarcata a Milano senza l’indirizzo di Gillo, semplicemente con la folle speranza di trovarlo in qualche modo. E miracolosamente si erano trovati, per di più quasi all'uscita dalla stazione, manco si fossero mandati un telegramma. Gillo, pur non essendo molto propenso a vedere il lato romantico delle cose, confessa che in quel momento provò per lei una tenerezza e un affetto che non aveva mai sentito così forte: anche perché quel viaggio, secondo Gillo, la diceva lunga sugli elementi di follia che c'erano in sua moglie. Basti dire che Henriette, che non era certamente superstiziosa, gli raccontò di aver

fatto tutto il percorso in treno tenendo i pollici chiusi tra le altre dita, secondo un rituale di scongiuro francese. Ma nonostante questo momentaneo cedimento all’irrazionale avrebbe continuato a combattere contro la proverbiale superstizione di Gillo. Quella sera andarono a dormire da Ernesto Treccani, perché Gillo, almeno per la prima notte, non voleva portare Henriette nello stanzone che divideva con Ingrao e gli altri. Poi dovette ar46

rendersi all’inevitabile: Henriette era lì, non poteva far altro che portarla a vivere nella comunità dei clandestini. Le fu subito affidato un lavoro: staffetta. Una mattina Ingrao le chiese se se la sentiva di portare con la famosa biciclettona i pacchi dell’“Unità” ai depositi. Henriette disse subito di sì. Ma faceva già freddo, molto freddo, e lei aveva ancora i vestiti estivi con cui era arrivata dalla Francia. Freddolosa com'era, disse che, se doveva andare in bicicletta, Pietro avrebbe dovuto prestarle il suo “orribi-

le” ma caldo pigiama di felpa marrone. L'avrebbe indossato sotto i vestiti. Tutti aspettavano con trepidazione il suo ritorno dalla prima uscita. Appena rientrata, Pietro le chiese con una certa ansia come era andata: “Benissimo, però mi guardavano tutti”. “Ti guardavano tutti?” le fece eco lui, subito preoccupato che qualche imprudenza di Henriette avesse infranto le famose “regole cospirative”, “e perché?” “Per il mio dessous troublant, la mia biancheria conturbante,” lo prese in giro lei, che conservava intatto il suo senso dell’umorismo anche nella situazione difficile di quei mesi, indicando l’orribile pigiama di Pietro che si intravedeva sotto la gonna. Anche Gillo aveva ancora voglia di scherzare. Nei pochi momenti liberi dal lavoro, che era massacrante per la tensione, an-

dava con Henriette ai giardini pubblici di via Palestro, dove c'era il piccolo zoo di Milano — che ora praticamente non esiste più. Un giorno, mentre Henriette lo guardava con commiserazione, cominciò a provocare una scimmia, prima offrendole e poi, all'ultimo istante, rifiutandole una banana. Alla terza ripetizione dello scherzo, il babbuino si era, a ragione, decisamente offeso e, girato verso Gillo, con un gesto tipico della sua specie, aveva fatto quello che fanno le scimmie arrabbiate: gli aveva mostrato il culo, indicandolo con un dito in un gesto beceramente umano. Da quella volta Gillo, appena poteva, andava “a far incazzare la scimmia”, che reagiva sempre con lo stesso gesto, e poi, esasperata, si na-

scondeva in un angolo della gabbia fino a quando Gillo se ne andava - o faceva finta di andarsene per farla incazzare ancora di più. Tanto che Longo e Pajetta lo prendevano in giro e gli dicevano che il pericolo per lui non era tanto essere preso e fucilato dai tedeschi, ma quello che gli avrebbe fatto la scimmia se per caso una bomba cascata sullo zoo l’avesse liberata dalla gabbia. Quella dell’“Unità” clandestina di Gillo e di Ingrao fu una fase destinata a terminare presto. Ai primi di dicembre del ’43 Ingrao fu richiamato dal Partito a Roma. E Gillo cominciò a lavorare sotto la direzione di Eugenio Curiel, una delle personalità più straordinarie della Resistenza italiana, il comandante

“Bar-

bieri”, colto, audace, coraggioso. 47

Uno dei primi compiti che Curiel affidò a Gillo fu di cercare di dar vita a una organizzazione clandestina unitaria che comprendesse i giovani di tutti i partiti antifascisti, dal Pci fino alla Dc e ai liberali. Fu questo il lavoro nel quale Gillo si buttò anima e corpo nel periodo che va fino al febbraio del ’44. Questa organizzazione, che divenne ben presto un elemento molto importante della lotta di liberazione, si chiamò il Fronte della gioventù.

Un nome che qualche anno dopo la guerra —- quando per l’uscita dei cattolici e dei democristiani il Fronte si dissolse contemporaneamente alla formazione della Federazione giovanile comunista - sarebbe poi stato “rubato” da una formazione di opposto colore politico. Fu il gruppo di sacerdoti della chiesa di San Carlo al corso, di cui facevano parte David Maria Turoldo e Camillo De Piaz, ad aiutare Eugenio Curiel e Gillo nell'impresa di creare il Fronte. Da Piaz, in particolare, piaceva molto a Gillo, persino più di Turoldo. Forse perché gli ricordava Bruno, ed era sempre così calmo e pacato. Per settimane li ospitarono, alle volte li nutrirono (quando un buon pasto era un regalo straordinario), li accolsero (quando dovevano incontrarsi con i rappresentanti dei vari gruppi), li aiutarono a rendere il loro progetto una realtà. Ma le cose si muovevano a grande velocità per Gillo, che era ormai a tutti gli effetti il vice di Curiel. Per il Fronte della gioventù diventava urgente, anzi era un passaggio quasi automatico, aggiungere al lavoro politico un lavoro di tipo “militare”, come si diceva allora. Così,

ai primi di febbraio del 1944, fu decisa la formazione dei gruppi armati. Una nascita che avvenne tra molte discussioni e fu molto contrastata. Perché il Fronte era nato da una costola del Pci per collegare in un movimento unitario tutte le correnti giovani-

li antifasciste e svolgere un lavoro di organizzazione e formazione politica. La situazione della guerra partigiana spingeva dunque il Fronte in una direzione “eterodossa” e rischiosa. Fu creata una prima Brigata che avrebbe avuto il compito di compiere contro fascisti e tedeschi una serie di azioni che oggi si chiamerebbero “terroristiche”. E fu Gillo, che era già responsabile del lavoro politico, ad assumerne la direzione. All’inizio non c'erano nemmeno le armi: “Dovevamo arrangiarci,” dice Gillo, “e infatti le azioni venivano studiate soprat-

tutto in funzione del possibile reperimento di armi”. Tutti aguzzavano l'ingegno in questa direzione. “Ricordo ancora l’idea geniale, anche se decisamente rischiosa, di un giovane operaio della Breda che mi pare proprio avesse come nome di battaglia Treno. Treno aveva avuto l’idea: ‘Impariamo a dire Mani in alto in tedesco. Così, quando vediamo dei soldati tedeschi isolati, gli pun48

tiamo da dietro un pezzo di legno, poi, con il miglior accento possibile, ordiniamo Héende hoch e li disarmiamo’. La cosa ha funzionato bene alcune volte, ma il metodo fu abbandonato quasi subito perché follemente pericoloso.” Poi, finalmente, le armi cominciarono ad arrivare dalla montagna, attraverso i lanci alleati. Ma Gillo, salvo qualche breve

viaggio di ispezione in formazioni partigiane di montagna dove c'erano forti nuclei del Fronte della gioventù, continuava a lavorare a Milano. E alle volte, racconta, non ce la faceva proprio a rispettare le regole cospirative, che in città erano giustamente severissime. Una volta Henriette, che quella sera non voleva dormire in una certa casa di via Vigevano, una di quelle a loro as-

segnate, perché era troppo fredda, lo pregò di andare con lei a un altro dei loro indirizzi clandestini, una casa che, per un in-

sieme di ragioni, veniva considerata un po’ meno sicura. Gillo, per rispetto delle famose regole, all’inizio disse di no. Henriette si impuntò: “Con questo freddo,” disse, “io in quella ghiacciaia di via Vigevano non ci dormo”. Gillo la lasciò andar via. Poi volse lo sguardo verso di lei, e la vide, quasi ingobbita per il gelo milanese, che aspettava il tram. Ebbe pietà e cedette. Il mattino aveva un appuntamento con Francesco Scotti, l’amico Scotti di Parigi. Ma prima doveva passare a prendere dei documenti

in

via Vigevano. Ci andò Henriette. Era una casona popolare di ringhiera con sei rampe di scale, considerata molto sicura perché aveva anche una uscita sul retro. Quando Henriette superò il portone la portinaia, che era una simpatizzante, le fece degli occhi stranissimi. Henriette sgamò, prese un’altra scala, arrivò sino in cima, aspettò un quarto d'ora per non dare nell'occhio e se ne tornò giù. Una volta uscita, fu raggiunta alla fermata del tram dalla portinaia da cui seppe che la notte erano venuti a cercare Gillo. Sapevano anche della doppia uscita, perché pare che uno dei due brigatisti neri fosse di via Vigevano. Aver dormito altrove era stato un colpo di fortuna pazzesco. Henriette si precipitò all'appuntamento tra Gillo e Scotti per portare i documenti. Ma Scotti la travolse con un terribile cazziatone coinvolgendo nella sua rabbia anche Gillo, non in quanto marito ma in quanto “responsabile” di Henriette: dopo un fatto così, strepitò, non sai mai se sei “filato” o no, si saltano per un po’ i contatti, dovresti saperlo. Insomma, non si va tutti sereni e tranquilli a un appuntamento, a rischio di veder saltare una bella fetta di organizzazione...

Henriette “lavorava con le donne”, e cioè con l’organizzazione clandestina femminile, e viveva con Gillo, come si poteva, nel49

le varie case messe a disposizione dai compagni. Ma quando su Gillo, oltre all'incarico del Fronte della gioventù, ricadde momentaneamente

anche un settore militare, del quale era “cadu-

to” un dirigente, il Partito impose a Henriette, per ragioni di sicurezza, di non continuare il lavoro con le donne, perché c’era il

rischio di portare altre “filature” alla base di Gillo che in quel momento doveva essere invece più sicura del solito. Lei protestò: “Evidentemente il lavoro tra le donne per voi non vale un fico, se

dite senza batter ciglio che è meglio lasciarlo perdere”. Non ci fu niente da fare. Ribelle come sempre, e furibonda, lasciò Milano insultando Gillo e i comunisti italiani, “più reazionari, quando si tratta di donne, di mio padre”. Attraversò le linee vicino al Colle di Tenda per raggiungere Claude Jaeger — ex aiuto regista di Marcel L'Herbier e di Allégret, futuro produttore “rosso”, suo amore giovanile e ora marito di sua sorella Ninette — che era, sotto il nome di Colonel Michelin, uno dei capi

del Maquis francese. Fu beccata dai tedeschi e chiusa in una soffitta. Lei, come si vede nei film, fece una corda con una tenda,

alla maniera classica, e scappò, andando a finire la guerra con i compagni francesi. Quella di Claude Jaeger è un’altra delle storie pontecorviane che sono troppo avventurose per sembrare vere — quelle che invece, essendo vere, gli meriteranno più tardi il soprannome di “falso bugiardo”. Jaeger divenne capo di stato maggiore di De Lattre de Tassigny ed era alla testa del primo battaglione dell’esercito francese che entrò in Germania. Diceva che era passato da Henriette, quando la ragazza lo aveva piantato, a sua sorella

Ninette perché non poteva rinunciare al Borgogna bianco della famiglia — quello stupendo della piccola tenuta del vecchio Niepce, dove ora Henriette vive facendo i suoi quadri e le sue sculture. Rocciatore dilettante, Jaeger, una volta tornata la pace, tra-

smise la sua passione di alpinista anche al figlio Nicolas, che divenne uno dei più grandi scalatori del mondo. Jaeger lo chiamava in aiuto quando (spesso, a quanto sembra) chiudeva la porta di casa dimenticandosi dentro le chiavi. Gillo giura di aver visto con i suoi occhi Nicolas (che purtroppo morirà anni dopo durante una scalata dell'Himalaya) sbuffare —- “papà, sei proprio rincoglionito, è l’ultima volta che lo faccio” — ma poi arrampicarsi come un ragno sulla facciata dell’elegante palazzo di boulevard Saint-Michel dove, al quarto piano, abitava suo padre, rompere il vetro della finestra, entrare nell’appartamento e ritornare con le chiavi. Quando Gillo e Henriette si ritrovarono, a guerra conclusa, a

Torino, lei gli disse che dopo aver raggiunto così avventurosamente il gruppo di Claude Jaeger ed essere rimasta con la Resi50

stenza francese tre o quattro mesi, se n’era tornata indietro: “Anche Claude non faceva fare nulla di serio alle donne che lavora-

vano con lui. Dopo quello che mi era successo con i comunisti italiani sono arrivata alla conclusione che nella valutazione delle donne siete peggio dei peggiori borghesi”. La fine del ’44 fu per Gillo un periodo di svolte. La polizia fascista aveva scoperto un deposito dove, insieme a un ciclostile, a

manifestini e varie armi, c'era una falsa carta d’identità in bianco con la foto di Gillo che avrebbe dovuto essergli consegnata l'indomani. La prudenza e le regole avrebbero voluto che sparisse dalla circolazione per un po’. Il Comando partigiano decise che avrebbe dovuto andarsene a Torino o in una formazione di montagna. Ma intanto, in attesa di organizzarsi, sapendo quanto indisciplinato poteva essere Gillo, lo nascosero in casa di due funzionarie ligie e serissime, le sorelle Musci.

L'ordine era di non

uscire di casa neanche per andare al rifugio in caso di un bombardamento. Ma non ci volle molto tempo a Gillo per scocciarsi della vita del recluso. Si era fatto crescere i baffi. Aveva con sé gli occhiali finti che metteva qualche volta. Uscì, si prese un caffè, andò a comprarsi una lobbia. La voleva grigia, ma ce n'era solo una nera. Se ne stava tornando a casa Musci fischiettando con la sua brava lobbia nera in testa, i baffi ancora più neri e gli occhiali

finti, quando sul marciapiede opposto vide Giancarlo Pajetta, che lo fulminò con lo sguardo facendo un gesto con la mano come a dire, ti ho beccato. Pajetta tirò dritto ma dopo pochi passi si voltò, gli fece cenno di avvicinarsi e, spiritoso come sempre, gli sibilò: “Poi mi spiegherai perché ti sei travestito proprio da ebreo”. Dopo questo episodio le cose presero un andamento velocissimo. Fu deciso che Gillo non sarebbe andato in montagna, e che sarebbe stato più utile in Piemonte, e in particolare a Torino. Gillo fece il percorso Milano-Torino in autostop. Era felice. La trasferta gli sembrava quasi una vacanza perché per un po’ non aveva nulla da fare: il primo contatto non doveva essere che di lì a tre giorni. Arrivare in una città nuova, poi, lo liberava dalla pesante sensazione di poter essere “filato” che tormentava tutti quelli che “lavoravano” in città. Come ogni bravo turista, per prima cosa se ne andò al parco del Valentino (amava già le piante del suo amore dissennato). Lo

trovò bellissimo. Era fosse primavera. Nei le sorelle Musci non brava di rinascere, si di un'avventura. Non

ancora inverno, ma per Gillo era come se quindici giorni in cui era stato recluso dalaveva mai fatto l’amore. A Torino gli semsentiva libero. E si buttò subito alla ricerca gli ci volle molto per convincere la grazio51

sa cassiera di un bar a dargli un appuntamento. Tra un rossore e l’altro la ragazza balbettò che doveva dirgli una cosa importante. Gillo, che pensava solo a un’altra cosa, le disse che c'era tempo, più tardi. Si ritrovarono su una panchina del Valentino. Gillo aveva appena cominciato ad accarezzarla quando la ragazza con un fil di voce ma quasi piangendo gli ripeté che aveva una cosa terribile da dirgli: era la prima volta che avvicinava un uomo da quando aveva subito un'operazione, aveva un seno finto, di legno. Gillo, che dopo tanti giorni di castità si sarebbe scopato — dice — una donna tutta di legno, si mise a ridere: la cosa non gli sembrava certo un problema. La poverina scambiò la risata per un gesto di scherno, scoppiò a piangere e fuggì via. E Gillo ancora non riesce a perdonarsi il male che involontariamente le ha fatto. Visto che con le ragazze perbene gli era andata male, Gillo, per approfittare di quei tre giorni di libertà, pensò di tentare la strada dell'amore mercenario. Non gli piacevano le puttane, ci era andato forse due o tre volte in vita sua. Ma ne incontrò una giovane e carina, cominciò a farle il filo, le chiese quanto voleva. La ragazza voleva troppo per un giovane “rivoluzionario”. Gillo fece le sue obiezioni, chiacchierarono per un po’, le comunicò

che si chiamava Lorenzo (nome che lui stesso aveva scritto nella sua nuova carta d'identità finta). Andarono nella stanzetta di lei. Diedero il via ai rituali amorosi. Tutto sembrava procedere per il meglio. Ma la ragazza, nel tumulto amoroso, cominciò a gridare “Lorenzo, Lorenzo!” con un accento torinese che a Gillo,

per di più non abituato al suo nuovo nome, fece un effetto così comico da farlo scoppiare ancora una volta in una risata irrefrenabile, con effetto ovviamente deleterio sull’eros. La vita a Tori-

no sarebbe stata sotto il segno dell’astinenza e delle risate? Dell’astinenza forse sì, delle risate no. Il lavoro in Piemonte era molto duro e molto serio. Prima Gillo, che Torino non la co-

nosceva per nulla, venne istruito. Qui c'è Mirafiori, qui il Lingotto, ci si arriva con il tram, qui sono le case sicure. Il responsabile

politico e militare per il Piemonte era Giorgio Amendola, e Gillo lavorava sotto la sua direzione. In Lettere a Milano, Amendola dedica righe affettuosissime al giovane amico della cui formazione politica era stato il principale responsabile. “Gillo [...] aveva il dono della facilità. Tutto gli riusciva, con la stessa eleganza con cui a Saint-Tropez si gettava in mare per la pesca subacquea, ora si muoveva a suo agio tra le drammatiche difficoltà della situazione torinese, riuscendo a infondere ai suoi collaboratori del Fron-

te un grande slancio, una immensa fiducia nelle possibilità di azione contro i tedeschi. Egli allargò l'orientamento politico e il ca52

rattere unitario del Fronte della gioventù torinese e, pur non trascurando la lotta armata, seppe indirizzare il lavoro dei giovani verso obiettivi politici di avvicinamento e conquista ideale delle più larghe masse giovanili. Tra i suoi compagni di lavoro c'era il giovane operaio Damico, che diventerà un valido dirigente di fabbrica alla Fiat e poi alla federazione. In breve tempo il Fronte della gioventù, sotto la direzione di Gillo, divenne una forza essen-

ziale della lotta del popolo torinese. Davanti a certe resistenze attesistiche, annidate anche in alcuni gruppi dirigenti comunisti di fabbrica, fu uno strumento di lotta politica per l'attuazione di una linea di mobilitazione preinsurrezionale. Eravamo all’inizio del 1945: tre anni erano passati dall'inverno 1941-1942 quando andavo con Gino a prepararlo politicamente a Saint-Tropez. Come era cambiato in così poco tempo e maturato come uomo e come: militante. Quando, dopo tanti anni, vedrò il suo film La battaglia di Algeri ritroverò motivazioni e sentimenti di quel tragico inverno torinese, quando la prossima liberazione era ancora tutta intrisa di sacrificio e di morte.” La parte più importante del lavoro di Gillo a Torino in un primo momento fu l’organizzazione politica. Torino era una città operaista, a Torino era nato “Ordine nuovo”, a Torino aveva operato Gramsci, e il contrasto tra la vecchia linea e quella nuova portata avanti dal Partito — prima di tutto l'accordo con i badogliani, ma anche il fatto che a capo della piazza piemontese ci fosse un generale monarchico - trovava resistenze fortissime tra i vecchi militanti così come tra i giovani, che erano molto setta-

ri. Basti dire che Amendola, portatore di questa nuova linea politica, era visto con un po’ di sospetto dai più vecchi elementi operai della federazione torinese. Amendola era figlio di un ministro “liberale”, quindi per alcuni era un “borghese”. Che avesse fatto anni di confino per alcuni non era sufficiente. In quel primo periodo, dunque, uno dei compiti di Gillo, che operava a Torino in stretto collegamento con Amendola, era quello di avvicinare i vecchi compagni alle nuove posizioni del Partito. E Gillo indirizzò tutte le sue energie in questa direzione. Fino a quando, all’inizio del ’45, assunse compiti di responsabile anche nel “lavoro militare” del Fronte della gioventù, prendendo direttamente il comando di una brigata, la Brigata d'assalto Eugenio Curiel. Eugenio Curiel era morto. Una squadra di repubblichini lo aveva ucciso per strada, a Milano, in piazzale Baracca, il 24 feb-

braio, due mesi prima della fine della guerra. Fin dal primo incontro, Curiel aveva detto a Gillo, stai attento, e di’ a tutti i tuoi di stare attenti: se vi beccano, fate un tentativo di fuga, anche se 53

può parere assurdo, anche se sei in mezzo a una pattuglia di otto tedeschi con il mitra. Perché c’è sempre il cretino che se ti vede scappare ti spara addosso e ti evita tre o quattro giorni di torture, dopo le quali ti ammazzerebbero lo stesso. Per di più, aggiungeva, non corri il rischio di dare informazioni. Sembrava una provocazione, ma era anche una seria misura cospirativa.

Era uno dei suoi leitmotiv, che ripeteva ogni giorno: l’altro era che bisognava leggere, e voleva sempre sapere che letture ognuno aveva in corso, anche durante la clandestinità. “Mi raccomando,

fallo entrare in testa a quelli che lavorano con te.” Fe-

dele alle istruzioni che dava ai suoi ragazzi, Eugenio Curiel fece quello che aveva predicato. Lo presero davanti al Biffi di piazzale Baracca, una pattuglia di cinque repubblichini. Lui accennò a uno scatto, lo falciarono. Aveva ventinove anni. Per Gillo fu un vero dolore. Era come perdere un fratello e un maestro al tem-

po stesso. La Brigata d'assalto Eugenio Curiel nacque da tanti piccoli nuclei che un po’ alla volta si irrobustirono e rinforzarono fino a formare una brigata molto grossa, in cui c'erano numerosi operai ma anche molti studenti — tra cui Sergio Garavini, un ragazzo socialista responsabile appunto degli studenti. A Milano la situazione era cupa, pesante. Si sentiva una cappa di piombo. Le “cadute”, come si chiamavano le morti o gli arresti per mano dei tedeschi e dei fascisti, erano continue. A Torino la situazione era diversa: era più facile procurarsi le armi perché la città era più vicina alle zone partigiane di montagna, dove arrivava materiale paracadutato dagli inglesi. E la presenza delle forze della Resistenza era più forte, più avvertibile. Anche gli incerti erano più disposti a collaborare. Ci furono molte perdite, ma si sentiva che la situazione stava migliorando. L'insurrezione —- dice Gillo - sembrava vicina. Un paio di volte lasciò Torino per andare in ispezione in montagna, una volta dietro il Lago Maggiore, nella zona di Fondotoce dove, nelle formazioni partigiane, c'erano forti nuclei di giovani del Fronte della gioventù, un’altra volta verso Macugnaga. Gli piacevano quelle gite, se così si potevano chiamare, anche quando capitava di tro-

varsi in uno scontro a fuoco: era diverso dalla tensione della lotta

armata in città, dove il pericolo più angoscioso era l’eventualità di essere preso e torturato, con la consapevolezza che la cattura di qualsiasi compagno — di nessuno si può giurare che non parlerà sotto tortura — avrebbe fatto cadere vasti settori dell’organizzazione clandestina. Per questo la cosa più importante da insegnare a un nuovo adepto erano le regole cospirative: la leggerezza, la mancanza di attenzione e di precisione di alcuni impreparati alla lotta clandestina, erano un problema grave quanto la mancanza di ar54

mi. Gillo ricorda che quando si trattava di spostare un “quadro” da un compito a un altro la prima domanda era: “E dal punto di vista cospirativo com'è?”. Il compito che Gillo visse con più entusiasmo fu la partecipazione alla preparazione dello sciopero preinsurrezionale in cui, oltre ai lavoratori, bisognava coinvolgere quanta più gente si poteva. Un appassionato lavoro di gruppo che veniva fatto — dice Gillo — alla continua ricerca di trovate e invenzioni, come

quando si scrive una sceneggiatura. Si trattava di inventare i mezzi per comunicare con la gente, senza che ci fosse in materia una tradizione o un’esperienza. Fu così che Gillo si inventò le cosiddette “microcircolari urgenti”, e cioè delle direttive spedite velocissimamente con le staffette da un punto all’altro della città con indicazioni e persino soltanto con slogan insurrezionali. Lo scopo era spesso psicologico più che pratico, e i giovani, anzi, i giovanissimi del Fronte erano molto sensibili a cer-

te sollecitazioni che contribuivano a creare un clima di tensione e di entusiasmo. Un'altra delle invenzioni della sceneggiatura preinsurrezionale, comele chiama adesso Gillo, consisteva nel fermare un tram, bloccarlo con una formazione armata, ovviamente con le armi nascoste, farne scendere tutti i passeggeri, poi riempirlo di cartelli con gli slogan insurrezionali, metterlo in moto al minimo e

saltar giù — sperando che il tram “propagandista” facesse un percorso abbastanza lungo prima di bloccarsi o di venir bloccato. Un'altra volta Gillo fece “sequestrare” il camioncino di un venditore ambulante, che era attrezzato con un altoparlante e un rudimentale grammofono, fece registrare in quei dischi che allora fungevano da magnetofono un po' di musica, e poi, a seguire, un appello che invitava la popolazione a insorgere. Portarono il camioncino in piazza Castello, vicinissimo al comando tedesco, e

lo lasciarono lì. La musichetta dava il tempo di allontanarsi velocemente prima che arrivassero gli slogan. Poi iniziava un vero

e proprio comizio, fatto in pieno centro, sotto il naso dei tedeschi ma senza correre alcun rischio. Erano tutti episodi che davano alla popolazione torinese il senso che il grande momento era vicino. E molti segni indicavano che la gente rispondeva. L'insurrezione armata che la Resistenza stava preparando e che cercava disperatamente di anticipare era fondamentale per molte ragioni. Perché si sapeva che nei piani dei fascisti c’era l'intenzione di far saltare le fabbriche al momento della disfatta e si temeva anzi che molte fossero già minate. Ma soprattutto perché doveva far sentire la presenza dell’Italia antifascista ai paesi ex nemici. 55

Amendola descrive bene nel suo libro l'atmosfera di quell’aprile 1945, quando venne lanciato a Torino l’appello per lo sciopero preinsurrezionale e furono mobilitate tutte le forze del Cln. Il 18 aprile scattò lo sciopero generale. I fascisti e i tedeschi presidiavano le fabbriche in cui si erano asserragliati gli operai. I compagni aspettavano l’arrivo dei partigiani, che entrarono a Torino la mattina del 26 aprile. Ma curiosamente, come capita con gli eventi troppo grandi o troppo attesi, per i quali si è troppo combattuto, di cui si coglie solo un angolo, una rifrazione, il giorno della Liberazione Gillo non lo ricorda bene. Ricorda il silenzio assolutamente incomprensibile di quell’ultima sera a Torino. Ricorda lo strano tipo che nella notte del 25 aprile, a tarda sera, in via Roma, avanzava

fischiando la Marsigliese. Ricorda che lui, Gillo, filò dritto senza neanche guardarlo —- poteva essere una provocazione -, ma con

la sensazione che qualcosa di importantissimo stava per accadere. Arrivò infatti al suo appuntamento e gli dissero: “Ci siamo, è stato deciso per domani”. Dopo la Liberazione, Gillo rimase a Torino ancora per un mese. E rievoca un episodio che come al solito racconta con molta ironia. Era il primo comizio legale di Giorgio Amendola, il primo discorso pubblico di un grande combattente della Resistenza che aveva passato tutta la vita tra il confino e l’emigrazione. La folla di quel giorno era straordinaria e commovente. In prima fila c'erano le donne vestite di nero, perché alla Ferriere, pochi giorni prima, i tedeschi in fuga avevano fatto un massacro. Poi era stata la volta dei poveracci fucilati dai fascisti al Martinetto. La folla celebrava la libertà ma insieme piangeva gli operai morti e le vittime cadute nell’insurrezione. Il clima era incandescente. In quei giorni così tesi il grande sforzo del Pci, e quindi di Amendola che era a capo del Partito per il Piemonte, consisteva nel cercare di convincere i partigiani di montagna e di città, che avevano fatto due anni di lotte vittoriose contro il nazifascismo, a consegnare le armi agli Alleati. La consegna delle armi era un imperativo assoluto, vista la situazione internazionale. Basti, per capire quanto giusta fosse questa preoccupazione, l'esempio di

quanto accadde subito dopo in Grecia. Anche il Comitato di liberazione nazionale chiedeva ai suoi uomini il disarmo. Ma era un lavoro di persuasione improbo, ricorda Gillo, “con gente accanto a cui avevi combattuto che ti guardava come fossi un traditore, quando sostenevi questa necessità”.

In un clima tesissimo, di fronte a una folla composta soprattutto di operai ancora armati, Amendola salì su un autocarro in 56

mezzo alla piazza, seguito da Gillo e da altri compagni. La sua intenzione in principio, dice Gillo, era forse quella di fare un discorso pacificatorio, tranquillizzante. Era la prima volta in tutta la sua vita che Amendola poteva parlare in pubblico. Cominciò pacatamente, poi prese ad accalorarsi, a mescolare pathos ed emozione, ricordando la lotta armata combattuta insieme e il sacrificio dei caduti. Di emozione in emozione, di ricordo in ricor-

do, do gli di,

commuovendosi lui stesso sempre più, Amendola finì citanuna frase famosa di Lenin: la libertà è il fucile nella mano deoperai. Ci fu un’ovazione così straordinaria che anche più taranni dopo, non poteva ricordare quel momento senza turbarsi. Calmatosi l'applauso, finito di parlare, Amendola chiese all’amico Gillo com'era andata. E Gillo, con la consueta franchezza, gli rispose “di merda, Giorgio, di merda” (Amendola, nel suo

libro, addolcisce la frase in “malissimo”). Aggiunse: “Ci vai tu, adesso, nelle sezioni di partito o nelle brigate partigiane, a convincere la gente a consegnare le armi agli Alleati”. E continuò: “A parte il fatto che da un certo momento anziché parlare urlavi, ti ricordi che stamane alla riunione di partito hai ribadito l’assoluta necessità dell’opera di persuasione politica per preparare gli animi a compiere questo gesto? Con il discorso di oggi non mi pare proprio che tu abbia contribuito un granché”. Dice Amendola nel suo libro di aver capito in quell’occasione “la differenza che c'è tra l’elaborazione di una linea e la capacità di applicarla”. Più tardi Gillo, rievocando l’episodio, disse a Germaine Amendola che la mattina Giorgio aveva parlato come un capo che sapeva quello che si doveva fare, e il pomeriggio, a partire da un certo momento, travolto dall'emozione a lungo repressa e perdendo quasi totalmente il controllo sulle sue parole, aveva parlato senza sapere quello che diceva. L'emotività e la passione lo avevano tradito. “Mi vide subito ridimensionato,” annota Amendola. “In realtà la legalità ci ridimensionò prontamente. Il passaggio alla legalità fu una dura prova.” Gillo concorda. Dopo un mese a Torino fu chiamato a Milano, dove lo nominarono presidente del Fronte della gioventù. La fine della guerra si rivelò per certi versi più difficile della lotta clandestina.

Nessuno,

dice Gillo, aveva le idee chiare su come

trattare certi problemi mai affrontati prima. Per esempio: c'era lo spazio per poter prendere in mano la “Gazzetta dello Sport”. Sull’altro piatto c'era la gestione delle ex case della Gil, la Gioventù italiana del Littorio — che alla fine vennero preferite. E Gillo, che fu uno dei responsabili di questa scelta sbagliata — “come di una serie di errori più o meno grandi” —, scoprì che, decisamente, la gestione della pace era un altro mestiere: e la tentazioSE

ne di mollare tutto e subito si fece per lui incalzante. Anche perché, caduto il fascismo e terminata la Resistenza, Gillo non ave-

va alcuna voglia di continuare l’attività politica per la quale non si sentiva per niente portato. Ma Pajetta e gli altri amici gli dicevano invece che no, doveva aspettare almeno la Costituente. Poi cominciarono a dire “almeno fino alle elezioni”. Gillo attese. Anche perché nella sua vita, dalla porta della politica, era entrato un nuovo amico che fin dal primo momento lo aveva conquistato: si chiamava Enrico Berlinguer.

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Capitolo quarto Dove si racconta di un amico di nome Enrico Berlinguer. Di un freddo inverno a Milano. Di via delle Botteghe Oscure. E di come Gillo Pontecorvo cominciò a pensare e a sognare altre cose che non fossero solo la politica. Come la passione per la fotografia, il lavoro da fotogiornalista e l'incontro con Roberto Rossellini (nel senso di Paisà) lo abbiano a poco a poco portato verso nuovi amori. Come, con una piccola Paillard comprata a credito, abbia girato senza un vero perché i primi documentari, come i

documentari siano stati premiati, come la tentazione del cinema si sia fatta sempre più forte. Anche perché nel frattempo Gillo aveva conosciuto un seduttore di nome Franco Solinas... Il nuovo amico di Gillo si chiama Enrico Berlinguer ed è arrivato a Milano da Roma qualche settimana dopo la Liberazione, mandato dal Partito (c'era ancora una direzione Nord e una direzione Sud, divisione giustificata dai residui della famosa Linea gotica) per rinforzare il gruppo dirigente del movimento giovanile. Rispetto a Roma, “ormai abbastanza assestata nella vita legale e già presa dall’interesse per il gioco politico”, Milano (scrive Chiara Valentini nella sua biografia di Berlinguer) è un altro mondo. “Per le strade ancora ingombre di macerie più che militari alleati in vena di far festa si incontrano squadre di partigiani col fazzoletto rosso e il mitra a tracolla. La città è tutta un carosello di macchine strombettanti e stracariche degli uomini di Cino Moscatelli, di Ciro, degli altri comandanti della Valsesia, della Valdossola, del Biellese, scesi dalle montagne a far sentire

che è finita un'epoca.” Mussolini è stato giustiziato il 28 aprile. Due giorni dopo Hitler si suicida nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il 9 maggio la guerra è finita in tutta Europa. Ma nelle strade di Milano si spara ancora. Per molti è difficile arrendersi all'idea che l’ora X tanto attesa, quella dell’insurrezione, sia destinata a scolorire nella legalità invece che portare alla rivoluzione, al socialismo, alla nascita di un nuovo mondo. La sede del Partito comunista italiano, che in quel momento era diretto per l'Alta Italia da Luigi Longo, era in via Filodrammatici al numero 5, dietro la Scala. Nella direzione del movimento giovanile ci sono, tra gli altri, Aldo Tortorella, che era stato protagonista di una rocambolesca 59

fuga dai tedeschi, travestito da crocerossina. C'è Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, un po’ meno giovane degli altri, sopravvissuto alla guerra di Spagna e alla deportazione nel lager di Mauthausen. E c'è Enrico Berlinguer. Gillo dice che fin dal primo momento in cui vide quel ragazzo di ventitré anni così serio e austero, capì che aveva una personalità fortissima, che sareb-

be prima o poi diventato un leader e che comunque, per il momento, “era la persona che ci voleva per prendere la guida del nostro gruppo dirigente, per aiutarci

a muoverci nel nuovo conte-

sto in cui ci sentivamo un po’ impacciati”. Più difficile era immaginare che Berlinguer sarebbe diventato il miglior amico di Gillo. “Era molto bello, piaceva alle donne, ma per i miei gusti su queste questioni era un po' troppo serio.” Per parecchi mesi Enrico e Gillo furono sistemati in un'enorme, gelida stanza-deposito della direzione del Partito dove erano state piazzate per loro due brandine. Alla porta nei primi tempi c'erano ancora ex partigiani con il mitra in mano. Bei tempi, dice spesso Gillo. La sicurezza allora era l’unico lusso. Gillo e Enrico non avevano coperte sufficienti. Non avevano riscaldamento. All’arrivo dell'autunno soffrirono terribilmente il freddo, soprattutto Berlinguer, che spesso decideva di buttarsi a dormire tutto vestito, con gli stessi vestiti che doveva poi indossare il giorno dopo, addirittura, ricorda Gillo, con la sciarpa al collo. Usando la stessa tecnica di autoconservazione e autodisciplina che si era imposto quando era stato in prigione, si teneva in forma facendo ginnastica con il metodo Miiller, che prevede degli esercizi da fare con l’aiuto degli asciugamani, e conciliava dunque, diceva lui, pulizia ed esercizio. E cercava di convincere Gillo a fare altrettanto. Ma Gillo ha sempre considerato la ginnastica una cosa noiosissima e non la praticava neanche quando per i tornei di tennis gli sarebbe stata molto utile. La ginnastica che amava Gillo era di tutt'altro tipo - con una certa riprovazione di Berlinguer, che conservava un animo mo-

ralista e gli diceva che “esagerando” perdeva solo tempo. Ma questo non impedì che Berlinguer almeno una volta si scoprisse improvvisamente solidale e complice di Gillo. Facciamo, come si usa dire, un passo indietro. Il Nostro era riuscito, non si sa come, a intrecciare una storia amorosa con una signora sposata a un signore molto geloso in Svizzera, nel

Canton Ticino. Anzi, per riuscire a vederla - com'è ovvio di nascosto —, una volta aveva combinato un bel pasticcio. Per vederla bisognava andare in Svizzera. Per andare in Svizzera bisognava avere il passaporto, che Gillo non aveva. Per averlo bisognava mettere in moto una macchina burocratica che, nella Milano ancora disastrata dell’immediato dopoguerra, era impensabile riu60

scire a ottenere in tempi ragionevoli. Così Gillo, che durante la guerra aveva imparato a non prendere troppo sul serio i confini,

e che comunque quello con la Svizzera lo conosceva a menadito dato che di quei passi si serviva il movimento partigiano per i contatti con l'estero, era entrato in Svizzera a piedi attraversando i monti tra Como e Lugano. All’andata tutto era filato liscio. Ma al ritorno dalla felice avventura, dice Gillo, “forse per il son-

no”, aveva sbagliato strada, ed era finito tra le braccia di una pattuglia della guardia di frontiera elvetica. Nulla di male all’inizio. Gillo aveva raccontato ai gendarmi complici e divertiti la vera ragione della sua andata a Lugano, le guardie avevano preso bene la cosa, anzi ridevano come matti, e

il capopattuglia aveva annunciato che lo avrebbero personalmente scortato fino alla frontiera. Stavano camminando allegri e cianciosi da dieci minuti, gli avevano anche dato un pezzetto del loro famoso cioccolato, quando una delle guardie all'improvviso ebbe l’idea di chiedere a Gillo da dove era passato all'andata. “Circa un chilometro oltre Maslianico,” rispose Gillo — che assistette sbalordito a un improvviso cambiamento di scena. La pattuglia si fermò, il capo si mise a parlottare tutto agitato con i suoi, infine si rivolse a Gillo annunciandogli durissimo che si tornava a Lugano; e si incamminò con il prigioniero, che ricordava Pinocchio tra i gendarmi, verso la città. Da quel momento nessuno gli rivolse più la parola fino a che arrivarono in quel di Lugano, alla Stampa, il penitenziario del Canton Ticino. Sempre senza dirgli una parola, lo fotografarono di faccia e di profilo, gli presero le impronte digitali e lo schiaffarono in una cella, dove per tre giorni non riuscì a parlare con nessuno. Solo dopo tre giorni e una paziente opera di seduzione, il nostro eroe riuscì a farsi dare da un secondino un pezzo di carta e una busta, e scrisse una lettera indirizzata a Ferruccio Par-

ri, che era allora presidente del Consiglio e che Gillo conosceva benissimo perché era stato il comandante in capo dei partigiani. “Caro Ferruccio,” scriveva, “mi vergogno come un ladro ma ho

bisogno del tuo intervento”, e gli raccontava l'accaduto pregandolo di far presto, perché di lì a pochi giorni doveva essere a Budapest per un incontro dell’Unione mondiale della gioventù. Dopo neanche cinque minuti che la lettera era stata affidata al secondino, Gillo venne convocato dal direttore del carcere, che evidentemente si era reso conto di aver preso un granchio. Per spiegargli le ragioni dell'arresto, gli disse che circa nella stessa ora e nello stesso posto da cui Gillo aveva detto di essere passato per entrare in Svizzera, c'era stato quel giorno un conflitto a fuoco tra contrabbandieri e guardie di frontiera, e un finanziere svizzero era stato ferito. Per questo, un po’ avventatamente, ave61

vano dedotto che potesse esserci un legame tra Gillo e i contrabbandieri. Non poteva purtroppo farlo riaccompagnare in Italia subito, ma era questione di poco: nell'attesa lo cambiò di cella,

gli fece portare un tè e gli offrì per sua edificazione e passatempo un libro sulla vita di Martin Lutero - “quanto di più noioso io abbia mai avuto tra le mani”, dice Gillo. Che finalmente, tornato a Milano e alla coabitazione con Berlinguer, cercò di riannodare i fili con la sua bella signora. Ma la storia andava avanti da

troppo tempo, Gillo l'aveva cercata troppe volte per telefono, e pensò dunque che per non insospettire il marito ci voleva una voce sconosciuta, nel caso fosse lui a rispondere.

Fu così che Gillo chiese la complicità dell'amico Enrico, chiedendogli di telefonare alla bella al posto suo. Naturalmente Berlinguer all’inizio rifiutò. Quel tipo di cose era lontanissimo da lui. Ma poi capì che Gillo, almeno in quel momento, ci teneva davvero molto, e prevalse la sua naturale gentilezza. Lasciarono insieme la mensa del Partito, in via Filodrammatici, per andare a telefonare da una stanzetta accanto. Quando tornarono, i compagni, che dall'aria strana dei due

amici dovevano aver subodorato qualcosa di poco chiaro, chiesero che cosa stessero complottando. E Berlinguer, facendo sorridere tutti per il suo strettissimo accento sardo al quale non si erano ancora abituati e, insieme, per l'assurdità della scusa, an-

nunciò serissimo: “Abbiamo telefonato a un filosofo svizzero”. La storia divenne leggendaria. Non c'erano solo i filosofi svizzeri, nella vita di Gillo. Dopo qualche mese di lavoro faticosissimo, il Nostro era visibilmente così stanco e provato che Longo gli impose di prendersi dieci giorni di distacco — una vacanza. Gillo era riluttante. Poi decise che sarebbe andato a Saint-Tropez, dove c’era in quel momento Henriette, con cui forse pensava di ricominciare un rapporto più regolare. Ma, sotto il sole della Costa Azzurra, molto bella e molto

sexy, c'era anche una certa Evelyne, che gli piacque subito immensamente. Bref, dimentico di Henriette e del Partito, Gillo sparì dalla circolazione con la sua nuova fiamma. Passarono i dieci giorni previsti per le ferie: Gillo non riusciva a partire per Milano. Evelyne gli piaceva un po’ troppo. Passarono altri dodici giorni prima che trovasse l'animo di rientrare. Il grave era che, sapendo quanto lavoro ci fosse in ballo in quel momento cruciale, Gillo non aveva neanche osato telefonare per avvertire che tardava. Questo episodio, dice, ha contato molto, e in senso positi-

vo, nella sua vita. Perché poco dopo, venne da Roma la proposta per una sua candidatura alle elezioni per la Costituente. Ma Antonio Roasio, allora responsabile dell'Ufficio quadri del Partito, 62

si oppose recisamente, sostenendo che negli ultimi tempi il giovane Pontecorvo era improvvisamente diventato inaffidabile. Grazie al cielo, dice Gillo adesso, questo ha segnato la mia vita. “Non che io abbia niente contro la politica, anzi, non sopporto quelli che ne parlano male. Sono io a essere negato, per mille ragioni, a partire dalla timidezza. La prima volta che mi è capitato di fare campagna elettorale dovevo prendere mezzo calmante prima di parlare. Lungo tutti i quindici anni in cui sono andato alle riunioni dell’Anac, l'Associazione degli autori di cinema, pur trovandomi in mezzo ad amici e colleghi, non ho mai preso la parola, e quando mi sembrava che fosse proprio utile dire qualcosa, mandavo alla Presidenza una paginetta scritta. Solo quando sono diventato direttore della Mostra del cinema di Venezia, dài e dài, ho cominciato goffamente a parlare e ho vinto la mia timidezza.” Con risultati discutibili, come ricorderanno quelli che erano presenti alle sue esternazioni, lodevoli per la buona volontà, meno per l’abilità oratoria. Limiti di insicurezza e “tare psichiche”, che Gillo fa risalire a quando da ragazzino si sentiva una pulce di fronte ai fratelli più grandi... Fu probabilmente il legame con Berlinguer, ma forse anche quello con Giancarlo Pajetta, che fecero restare ancora per qualche tempo Gillo, sempre molto sensibile agli affetti e alle amicizie, nel lavoro politico. Perché non si sentiva al suo posto, dopo la Liberazione. Gillo aveva ormai ventisei anni, ma era ancora un

ragazzo che amava le avventure. Era più a suo agio con l’azione che con la riflessione. Per di più, sembrava che adesso fosse in-

dispensabile saper parlare e Gillo, come si è anticipato, ne aveva sempre avuto il terrore quando c’erano più di tre persone. Longo, che aveva lo stesso problema, e che agli inizi era altrettanto impacciato quanto a eloquenza, gli aveva confessato il suo trucco: si faceva battere a macchina dalla segretaria su dei foglietti il testo del discorso impaginandolo con frequentissimi a capo in modo da poter sbirciare gli appunti senza averne l’aria, cogliendo velocemente il senso delle frasi da dire. Ma per Gillo questa tecnica non era sufficiente a sconfiggere il trac. “Se c'è da sostenere una tesi o qualche cosa che credo sia importante comunicare, mi metto d'accordo con i miei e lo faccio dire a loro.” Ma Longo non approvava. “Fa parte del tuo lavoro anche farsi conoscere,” disse. “E utile. Così nelle prossime settimane devi parlare in almeno due grandi città.” Gillo non gli diede retta. Poco tempo dopo si trovava con Longo in una grande riunione di par-

tito a Biella, città partigiana per eccellenza, quando questi annunciò a tradimento:

“Do ora la parola a Gillo Pontecorvo,

re-

sponsabile del Fronte della gioventù”. 63

Per fortuna allora i microfoni non stavano sul tavolo, come si usa oggi, ma erano piantati su una stecca davanti alla platea. Nel breve tratto dalla sua sedia al microfono Gillo aveva già trovato la soluzione: “In questo momento così particolare,” disse, “in questa città partigiana, mi sembra giusto che non sia io a portare la parola dei giovani, bensì...” e nominò un famoso partigiano di Biella, un giovane bravo e coraggioso che per tutta la vita gli fu grato di quell’improvviso momento di gloria, quasi quanto Gillo fu grato a lui di avergli evitato una sicura figuraccia. In un certo senso, la presenza di Berlinguer rappresentava per Gillo una sorta di reincarnazione del suo amico Eugenio Curiel, il partigiano Barbieri. Per Curiel Berlinguer provava una vera cu-

riosità. E si faceva raccontare tutto quello che poteva, studiava i suoi rapporti e i suoi documenti. In effetti, dice Gillo, Curiel e Berlinguer avevano molte caratteristiche in comune: si assomigliavano, perché erano “tutti e due molto colti, condividevano una serietà assoluta, una grande riservatezza, una fiducia totale nella for-

za delle idee”. La venuta di Enrico Berlinguer a Milano, ricorda Gillo, fu importantissima: era finalmente arrivato uno che sapeva manovrare tra le difficoltà della nascente democrazia. Gli ex combattenti vicini a Gillo, e lui per primo, nella vita quotidiana della politica postbellica erano impacciatissimi. Berlinguer no, sembrava uscito da una scuola scientifica della politica. Eppure, la politica, lui la faceva per passione assoluta. Era presente la volta in cui alcuni giornalisti vennero a intervistare Gillo e altri comandanti partigiani. Stava un po' in disparte. Gli chiesero: “E lei?, da quando è in politica?”. Berlinguer rispose: “Io non sono in politica, io sono comunista”. Se non ci fosse stato l'ideale comunista, infatti, quel

ragazzo “austero e appassionato” non si sarebbe mai occupato di politica. Anche lui, con tutto il suo fraterno affetto, era pronto tuttavia a dire a Gillo che in pace funzionava maluccio. Forse bisognava fargli cambiare lavoro. Fu così che Gillo si ritrovò dopo pochi mesi a Roma, a Botteghe Oscure. Anche Berlinguer era rientrato alla base ed era ormai ufficialmente responsabile del movimento giovanile - oltre che membro della direzione del Partito. Giorgio Napolitano era responsabile per gli studenti. Ugo Pecchioli dell’organizzazione. A Gillo, che aveva un ufficio al sesto piano accanto a quello di Berlinguer, era stata affidata la responsabilità della propaganda del movimento giovanile. Il suo incarico prevedeva anche la direzione di “Pattuglia” — “forse il più brutto settimanale che sia mai stato fatto al mondo,” dice, “e che tuttavia tirava duecento-

mila copie e più”. 64

“Pattuglia” era fatto congiuntamente dalla gioventù comunista e dalla gioventù socialista, con qualche problema - di cui i socialisti si lamentavano “con buona ragione”. Gillo era il direttore. Il condirettore era Dario Valori, sociali-

sta, che poi divenne vicepresidente del Senato. E Gillo era riuscito a fare accettare dai giovani socialisti, obtorto collo, la regola che, in omaggio alla funzionalità, Dario poteva stare al giornale quanto gli pareva, ma non il giorno di chiusura nel quale si dovevano effettuare eventuali cambiamenti e prendere decisioni in corsa. Effettivamente, riconosce Gillo, era un po’ troppo. Togliatti sovrintendeva il tutto, e rimandava le copie di “Pattuglia” vergate di segni rossi e blu, come ai tempi della scuola. Una sola volta il giornale ritornò senza segni. Ma Gillo non fece in tempo a compiacersene con i redattori che si accorse di come accanto alla testata ci fosse un’annotazione di pugno di Togliatti. “Caro Gillo, sopprimerei. Che ne pensi?” In realtà non fu quella la fine di “Pattuglia”. Che era e restava bruttarello, troppo politico, “una palla di piombo”, dice Gillo, “anche e soprattutto perché non c’era nessuno tra noi che avesse una vera esperienza giornalistica”. Ma i collaboratori erano importanti, i fondi erano firmati dai grandi della politica - una volta Nenni, un’altra Togliatti —, lo sport era commentato da Fulvio Bernardini, il commissario tecnico della nazionale di calcio. Soprattutto, in redazione il clima era divertente. Uno dei redattori era Salvo Continenza, amico intimo di Furio Scarpelli, sce-

neggiatore e collaboratore di riviste umoristiche come il “Marcaurelio”. E Continenza, a cui nel clima di chiacchiere e allegria

giovanile che contraddistingueva la redazione era capitato di sentire Gillo parlare dei suoi ricordi e della sua storia, aveva deciso che il Nostro era un colossale ballista: le sue avventure, il tennis

e il tandem, la lotta partigiana e il matrimonio con la mitica Henriette (‘oggi ha inventato persino che ha una moglie francese, strano però che questa moglie non si veda mai, insomma, troppe cose gli sarebbero capitate per essere vere,” esplose una volta). Lui le riraccontava sghignazzando a Scarpelli. Il quale, dopo un anno, quando tra gli amici a poco a poco si venne a sapere che

le storie di Gillo erano tutte vere, coniò per Gillo un’etichetta che ebbe molto successo, quella di “falso bugiardo”.

Ma i tempi eroici sembravano finiti. Tutto era uguale, giorno dopo giorno. Gillo era un funzionario di partito, ogni mattina andava a Botteghe Oscure, aveva il suo piccolo stipendio, mangiava alla mensa che prima era in via Nazionale e poi era stata trasferita in via della Consulta, qualche volta divideva una pizza a metà con Henriette dal Re degli amici, il ristorante dove si ritro65

vavano

tutti. Ci veniva anche

Togliatti, che non

finiva di sor-

prendere Gillo per la sua acutezza e la sua intelligenza, per la sua lucidità ma anche per la sua freddezza. E che ogni tanto rivelava lati imprevedibili. Per esempio, un giorno Gillo scoprì che il mitico Ercoli era superstizioso.

A modo suo, beninteso.

Lo scoprì durante un viaggio in macchina che fecero verso Napoli, dove dovevano partecipare a una riunione con i quadri del Mezzogiorno. A metà del percorso fra Roma e Napoli un gatto nero attraversò loro la strada. Togliatti, mezzo per scherzo e

mezzo sul serio, imprecò “maledizione, questo non ci voleva”. Gillo lo guardò sbalordito. “Non mi dirai che sei superstizioso?” “No,” rispose gelido Togliatti, e cominciò a esporgli un singolare ragionamento. “Penso,” disse all’esterrefatto compagno di viaggio, “che dovresti buttare alle ortiche le tue sicurezze positiviste e farti qualche domanda. Se per esempio la mamma ragno dicesse al ragno bambino che incontrare una donna la mattina porta sciagura, avrebbe torto o ragione?” Gillo continuava a guardarlo interdetto. “Non capisco dove vuoi arrivare.” “Be’, mamma ragno avrebbe ragione. Perché le donne la mattina fanno le pulizie, e quindi schiacciano i ragni con la scopa, e in più c'è una frangia non indifferente di persone che pensano che un ragno le matin porte chagrin, e quindi lo vanno a stanare anche se lui si è messo in un buco per scongiurare l'eventualità di una botta di scarogna. Il pomeriggio invece non si fanno le pulizie e c'è un'altra frangia di donne superstiziose che pensano araignée l’aprèsmidi bon mari... Come vedi,” concluse, “ci sono delle corrispondenze, dei rapporti di causa ed effetto sedimentati nella memoria delle specie, in questo caso della specie dei ragni. I quali ragni ancora oggi non sanno giustificare razionalmente i loro timori, ma chissà, evolvendo...” “Mi stai prendendo in giro, per caso?” chiese Gillo sempre più interdetto. E Togliatti, con quell’aria di grande distacco che aveva spesso: “Vedi tu...”. Per vincere la noia della vita di partito e di “Pattuglia”, Gillo si lasciava andare ogni tanto a qualche provocazione secondo il suo stile erotico-scanzonato. Accadde così che un bel giorno Togliatti, mentre stava scorrendo il nuovo numero del setti-

manale, fece un balzo sulla sedia. La vignetta al centro del giornale mostrava un bel sedere che prorompeva da un costume sbrindellato, e un giovanotto che chiedeva: “Signorina, lei lo sa che ha un buco in mezzo al sedere?”. Togliatti non gradì. Gillo ebbe la reprimenda che il suo spirito goliardico si meritava. Ma a parte le critiche e le censure, quel lavoro a Gillo non piaceva 66

più tanto. Lo affascinava maggiormente l’altra parte del suo compito, la propaganda: e nel giornalismo lo interessava molto di più fare l'inviato. “Almeno viaggi, vedi il mondo.” Chiese di essere sostituito.

A metà del 1949 Gillo venne dunque destinato a Parigi, dove aveva sede la direzione della Federazione mondiale per la gioventù, come rappresentante dell’Italia. Ci rimase sette o otto mesi. Ma il clima era molto diverso da quello che aveva conosciuto prima della guerra. I francesi, anche i compagni francesi, continuavano a vedere nell'Italia il paese che aveva pugnalato la Francia alle spalle. Gillo se ne rese conto fisicamente al primo convegno della Gioventù progressista francese, a cui partecipò come rappresentante italiano. Tutti gli stranieri invitati erano accolti con applausi scroscianti e qualche volta addirittura con un coro spontaneo che cantava gli inni dei vari paesi. Quando fu il suo turno di salire sul podio, invece, Gillo si sentì accogliere da un gelido, fiacco applauso di pura cortesia. Una scena umiliante, che la diceva lunga su come l’Italia era vista nella Francia del dopoguerra. Alla fine della riunione, Gillo se ne uscì prima di tutti,

con la coda fra le gambe, scese nel métro, e si ritrovò quasi solo

sul marciapiede dei treni in direzione del centro. Dall’altra parte, in attesa dei treni che portavano verso i quartieri popolari della banlieue, cominciavano intanto ad ammassarsi i ragazzi che uscivano dal convegno. Qualcuno lo vide. Forse notarono l’aria cupaeavvilita del compagno italiano. Forse ripensarono alla freddezza con cui era stato accolto, e se ne dispiacquero. Fatto sta che improvvisamente, sotto la volta a botte tappezzata di piastrelle della vecchia stazione, si alzò — e Gillo dice che gli vengono ancora i brividi al ricordo - prima sommesso, poi più forte, un coro che cantava Bandiera rossa e che era un tardivo omaggio e un chiedere scusa al compagno italiano. Di positivo, in quegli strani mesi parigini, intervennero però alcune amicizie importanti. Uno dei suoi nuovi amici era Jean-

Paul Sartre, che Gillo conobbe grazie all'attività politica. Gli piaceva, Sartre, al di là dell’ammirazione per il suo lavoro. Sartre aveva quell'interesse per tutto e tutti, quella voglia di approfondire e di conoscere, quella singolare capacità di ascoltare — e in effetti ascoltava più di quanto non parlasse - che non poteva non affascinarlo. All’inizio si vedevano spesso per l’aperitivo al Flore o ai Deux Magots. Poi, a mano a mano che la vita parigina ritrovava il suo andamento normale, quando riprese l'ondata del turismo e i due famosi caffè divennero meta regolare dei curiosi

che volevano mescolarsi ai frequentatori storici, Sartre traslocò

67

con i suoi amici al Royale, un locale più tranquillo all’inizio del boulevard Saint-Germain,

che divenne la sede di una specie di

club. Sartre si collocava allora politicamente a sinistra del Partito comunista francese - e quindi molto a sinistra di quello italiano. Ma nonostante le sue posizioni scomode, Gillo, ben poco ortodosso e affascinato dal suo pensiero, prese di testa sua l'iniziativa di invitarlo a Roma a tenere una conferenza per il Fronte della gioventù. Non altrettanto contento fu Mario Alicata, il potente e rigido responsabile culturale del Partito comunista, quando seppe dell'impegno che Gillo aveva sottoscritto. Considerava Sartre pericolosamente “gauchiste” e, non approvando l'iniziativa di

Pontecorvo, gli fece una memorabile sfuriata. La conferenza di

Sartre invece conquistò i giovani del Partito anche se le critiche per questo invito balzano continuarono per un bel po’. Il giorno della conferenza, in ogni caso, Gillo era a letto con l'influenza,

nell’alberghetto di via Sistina che il Partito gli destinava come casa romana, e Sartre, con la sua abituale gentilezza, passò a salutarlo prima di recarsi all'incontro. Va precisato che quella di Gillo non era una malattia diplomatica?

C'era anche Queneau tra gli astri attorno a cui si muoveva il giovane Gillo. E c'era Picasso, “di cui mi travolgevano sempre l'entusiasmo, la curiosità per le cose e le persone nuove”. Gillo andava a trovarlo regolarmente nel suo studio di rue Saint-Augustin, si sistemava nella stanza usata per ricevere, e aspettava

che Picasso scendesse dalla ripida scala che la collegava allo studio del piano di sopra, portando tra le cose appena finite quelle di cui era più soddisfatto per farle vedere all'amico. Picasso era generoso, ma anche dispettoso, con una voglia di scherzare che non si appannava nonostante, a più di settant'anni, dovesse aver raggiunto da un pezzo la saggezza della maturità. Almeno a giudicare dall’episodio che raccontò un giorno a Gillo. “L'altro giorno ero a pranzo ai Deux Magots con due grandi galleristi, di cui conosco bene l’avidità e la rivalità. A un certo punto mi è venuto in mente uno scherzo e ho cominciato ad abbozzare uno schizzo su uno di quei tovagliolini di carta ben consistenti che usano lì. Chiacchieravo e disegnavo, disegnavo e chiacchieravo. Poi, proprio per completare lo scherzo, ho anche aggiunto allo schizzo la mia firma e, salutandoli, ho abbandonato sul tavolo il tovagliolino

e me ne sono andato. Una volta uscito, mi sono nasco-

sto dietro l’edicola dei giornali da cui si vede la terrazza dei Deux Magots. Come prevedevo, hanno cominciato a discutere animatamente. Forse stavano dicendo - mi immagino i dialoghi come fossi uno sceneggiatore — l’ho visto prima io, sono più amico suo, 68

lo conosco da quarant'anni... Ho lasciato che si scaldassero al

punto giusto, poi sono rientrato e, con tono innocente e un po’

svagato, ho chiesto: ‘Per caso non ho mica lasciato qui un disegnino..? ah, eccolo’, l’ho preso e mi sono avviato all'uscita, ringraziando e lasciandoli di stucco.” Per Gillo il distacco dal lavoro di partito si stava facendo più

forte. Non si trattava solo di stanchezza, ma di un inizio di dis-

senso ideologico: non riusciva per esempio a condividere l’idea del centralismo democratico, e lo stesso Berlinguer su questo tema litigava amichevolmente con lui. Cominciava a mal sopportare quella forte gerarchizzazione e quella severa disciplina di cui aveva tanto apprezzato l'utilità nel periodo clandestino. Ma soprattutto non aveva assolutamente più lo slancio per fare il “rivoluzionario professionale”. Forse si sentiva stretto anche per i difetti caratteriali che si riconosce, per la sua incapacità a stare “entro percorsi più o meno preventivamente precisati”. E, soprattutto, cominciava a piacergli il cinema. Curiosamente ma non poi troppo, il suo primo contatto con

il cinema l’aveva già avuto, in veste di attore, con // sole sorge ancora di Aldo Vergano. Il film venne prodotto nel 1946, in tempi brevissimi

e con pochissimi

soldi, dall’Associazione

nazionale

partigiani. Era un film militante. Gillo ci lavorò, come aiuto volontario, con Carlo Lizzani e Peppe De Santis. Per mancanza di fondi gli chiesero, insieme a Lizzani, di fare anche l’attore, naturalmente senza compenso. Lo si può vedere per esempio nella bella sequenza in cui i due, condannati alla fucilazione, passano davanti a una grande cascina della bassa milanese, di quelle con

l’aia centrale, in un'atmosfera invernale che Aldo Tonti dipinse

benissimo con la sua fotografia violenta e contrastata, da reportage. Lizzani, che interpreta la parte di un sacerdote, va verso la morte recitando l’Ave Maria, mentre attorno le folle contadine rispondono alle sue preghiere. A Gillo piaceva l'atmosfera del film: contadini, mantelli neri, nebbie padane. Sul set tirava fuori la sua

macchina fotografica e fotografava, felice. Già, fotografava. È il

momento di fare un passo indietro...

Durante i suoi primi avventurosi viaggi clandestini dalla Francia, era accaduto che Gillo, per puro caso, avendo acquistato una macchina fotografica, si accorse che la cosa poteva trasformarsi in un proficuo commercio. Comprava le macchine in Italia, dove a dispetto della guerra era ancora possibile acquistarle, e le ri-

vendeva in Francia, dove erano introvabili. Non si trattava di con-

trabbando, tiene a precisare con un improvviso sussulto di sen69

so della legalità, era tutto perfettamente in regola. E rappresentava una notevole risorsa che aiutava lui e Henriette a sopravvivere. Le macchine fotografiche erano una passione di Gillo da sempre. Come si è detto, i genitori Pontecorvo gli avevano regalato per il matrimonio con Henriette e su sua esplicita richiesta una Primarflex, una macchina

svedese molto simile alla Rolleiflex,

che faceva fotografie di grande formato e gli piaceva moltissimo. Oltre al fatto che fotografare gli era sempre riuscito bene. Bisogna aggiungere che nel periodo di Parigi e di Saint-Tropez la fotografia era stata una delle sue scuse preferite di giovane marito irrequieto. “Dicevo a Henriette che andavo a scattare fotografie approfittando della strana luce della luna, che per farle bisognava predisporre delle pose molto lunghe, che ci si metteva un'ora,

un'ora e mezzo”, quanto bastava a Gillo per le sue piccole infrazioni alla fedeltà coniugale. In effetti poi le fotografie a luce lunare le faceva sul serio, e lui ha l'impressione che fossero belle. “Ricordo che in inverno i tronconi bassi di vite tipici del Midi francese risultavano impressionanti con certi tagli di luce della luna.” Gillo aveva già fatto negli anni precedenti un’enorme quantità di fotografie, ma fu proprio in quel momento, con il dirizzone delle foto notturne, che il suo amore per la fotografia si trasformò in una vera passione. Per cui, qualche anno dopo, quando ormai faceva il regista, diventò leggendario il fatto che mentre ai provini degli attori furono dedicati pochissimi giorni, per scegliere il tipo di fotografia per Kapò e per La battaglia di Algeri impiegò settimane di tentativi e di prove. Negli anni del dopoguerra Gillo per un po' di tempo continuò il suo andirivieni tra l’Italia e la Francia. A Roma abitava in una minuscola cameretta a casa di sua sorella Giuliana, dove stava anche Henriette quando ritornava al tetto coniugale. A Parigi continuava ad alloggiare all’Hétel des Grands Hommes con Henriette e faceva il giornalista, più o meno l’inviato speciale, per quella che è oggi l’Agence France Press, e che allora si chiamava Havas. Viaggiava, osservava, scriveva e fotografava. Fotografava troppo. Tanto che un giorno il direttore dell’Havas lo convocò e protestò: “Quando hai cominciato a lavorare per noi scrivevi articoli e dicevi che ti sarebbe piaciuto corredarli di tanto in tanto con qualche fotografia... ora sei arrivato al punto che i tuoi, ormai, assomigliano di più a servizi fotografici con lunghe didascalie. Decidiamoci. Cosa vuoi fare?”. Il tono era scherzoso, ma la sostanza autentica, anche se riduttiva. In quello stesso periodo Gillo stava scoprendo, al di là della fotografia, il cinema. 70

Il colpo di fulmine era esploso alla Salle Pleyel, dove aveva visto per la prima volta Paisà, si era innamorato di Rossellini e del

neorealismo e aveva solennemente annunciato, più a se stesso che agli amici: “Basta, voglio cambiare mestiere, voglio fare il ci-

nema”. Il giorno dopo aver visto Paisà Gillo si mise in giro per negozi di attrezzatura cinematografica finché non trovò, a poco prezzo, una cinepresa semiprofessionale, una Paillard 16 mm d'occasione. Un acquisto che resta nella sua memoria come una pietra miliare. Di Rossellini, di cui diventerà poi buon amico, lo aveva colpito “il dono magico di trasformare in oro tutto ciò che toccava”, cioè di “far apparire vera e reale qualsiasi cosa mettesse davanti alla macchina da presa”. Tanto che prese a chiamarlo Re Mida. In particolare l'aveva toccato immensamente il sesto episodio di Paisà, la storia partigiana che si svolge nelle valli di Comacchio. E quei luoghi gli restarono in mente al punto che nel 1951, quando ci fu la tragica alluvione del Polesine, Gillo non si

dette pace finché non riuscì a trovare i mezzi per fare un documentario su Comacchio e le sue valli inondate — Missione Timiriazev — che gli permettesse di ritrarre quel paesaggio straordinario, “soprattutto quando c'è il tempo grigio e un po’ di nebbia”.

Il cinema che Gillo aveva ammirato sino a quel momento era quello di Ejzenstejn, quello di Pudovkin, il loro uso dei volti, degli sguardi, della gente vera, in ogni caso un cinema legato alle passioni e alle ideologie del suo credo politico — anche se ora di uno dei suoi film preferiti di quegli anni, Verso la vita di Nickolaj Ekk, è disposto, se l'interlocutore gioca in contropiede, ad ammettere che era un film abbastanza retorico (ma è anche pronto a sostenere che allora era giusto amare quella retorica). E non c'è dubbio che, alla lunga, è stato questo cinema e la sua visione epica, corale, politica, in cui i rapporti tra i personaggi sono determinati più dalle condizioni sociali che dalle sfumature psicologiche, più dalla storia che dai sentimenti, a influenzare il cinema di Pontecorvo. Ma - siamo nel 1948 - per ora è la centralità delle facce, delle espressioni, dell'umanità più autentica delle persone che scopre attraverso Paisà a folgorarlo e a convincerlo da un momento all’altro (non sono così le conversioni?) che è indispensabile mollare il mestiere di giornalista — “oltretutto,” spiega adesso, “ho sempre scritto maluccio” — e provare a fare qualcosa nella direzione indicata da Rossellini. è “Con la mia Paillard cominciai a fare esperimenti, a girare tutto quello che mi capitava. La cosa mi appassionava talmente che mi facevo sempre trovare da Catalucci, lo stabilimento di sviluppo e stampa, dieci, quindici minuti prima dell'apertura, tanta era l'ansia di vedere le immagini girate a casaccio il giorno pri71

ma.” L'unico freno era che la pellicola costava molto. I giovani d'oggi sono fortunati, dice, con la telecamera si gira su nastro, che non costa praticamente nulla, e in più possono rivedere su-

bito, beati loro, sul televisore di casa, quello che hanno fatto, gli

errori da correggere, le cose che invece funzionano. In sostanza, si può imparare molto più rapidamente che ai suoi tempi.

Di lì al cinema vero, insomma, la strada era lunga e in salita.

Per un po’, a Parigi, l'aspirante cineasta fece l’aiuto volontario di Totò Marcanton, una montatrice che stava girando un importante documentario con l’aiuto di una piccolissima troupe. Poi riuscì a introdursi anche in sala di montaggio. E la sala di montaggio gli parve subito una scuola decisiva. Nel 1950 cominciò a lavorare come aiuto regista di Yves Allégret sul set di / miracoli non si ripetono, un film che metteva insieme Jean Marais, Alida

Valli, Francoise Prévost. E sul set del film di Allégret Gillo divenne imprevedibilmente un oggetto di curiosità quasi quanto gli attori: suo fratello Bruno era sparito improvvisamente, non se ne ave-

vano notizie, si pensava che fosse finito in Urss. Quando i giornalisti venivano a intervistarlo, Gillo, come ha coerentemente continuato a fare, giurava che non ne sapeva niente. Ancora 0g-

gi sostiene di essere rimasto sbalordito dalla notizia.

Bruno era stato poco tempo prima a Roma. Nella seconda metà di agosto era giunto senza preavviso dall'Inghilterra, dove

abitava (a Abigton, vicino a Oxford) e lavorava (a Harwell, il nuo-

vo centro atomico inglese). Da due anni aveva la cittadinanza bri-

tannica. Era arrivato in macchina, una bella Vanguard, con la moglie svedese, Marianne, e i tre bambini. Aveva trascorso in-

sieme a Gillo un week-end al Circeo, durante il quale era stato iniziato alle gioie della pesca subacquea - anzi, “mancava poco che annegasse”. Nessuno si sarebbe potuto sognare che stesse preparando una fuga. C'era anche Henriette, in quei giorni, e visto che Bruno ritornava in Inghilterra in macchina (o almeno co-

sì diceva a tutti), gli aveva chiesto un passaggio per rientrare a

Parigi. Bruno aveva risposto con l’aria più naturale del mondo: “Si parte domattina alle otto, puntuale però, perché il viaggio è lungo”. Poi, verso sera, si era scusato con Henriette: “Non posso portarti più. Sai com'è nevrotica Marianne [e lo era davvero!]: dice che con tutti i bagagli se vieni anche tu staremmo troppo stretti”. Poi aveva telefonato ai genitori Pontecorvo, in vacanza a Chamonix, promettendo di passare a salutarli lungo la strada. Il 29 agosto aveva portato la macchina a revisionare, e quando il garagista di piazza Verdi gli aveva sostituito l'olio, glielo aveva fatto cambiare un’altra volta, precisandogli puntigliosamente, come volesse imprimerglielo indelebilmente nella memoria, che vo72

leva una marca particolare proprio per affrontare il percorso di montagna verso il Monte Bianco: pensava certo che così, nell’eventualità di un'indagine di polizia, ciascuno, con la credibilità di chi racconta il vero, avrebbe contribuito involontariamente a costruire il finto racconto preordinato da lui. Poi era sparito, lasciando dietro di sé la sua bella Vanguard inutilmente revisionata come un segnale inquietante e misterioso, Henriette che sa-. cramentava contro il caratteraccio di Marianne e i genitori, de-

lusi della mancata visita: “L'unica carognata che gli ho fatto nella mia vita,” ebbe a dire in seguito Bruno che, ricordiamo, era detto in famiglia “il buono”. Partirono, come raccontò poi Bruno, il 31 agosto, con un vo-

lo diretto per Stoccolma, dove non si fermarono neanche per salutare i genitori di Marianne. Il giorno dopo si imbarcarono per Helsinki. Lì andarono direttamente all’Ambasciata sovietica dove, poche ore dopo, furono caricati su due macchine - nella prima Marianne e i bambini, nella seconda Bruno, nascosto nel por-

tabagagli — e così attraversarono la frontiera con l'Unione Sovietica, o almeno così raccontarono poi i giornali. Ma la fuga restò a lungo avvolta nel mistero. Prima di andarsene, Bruno aveva spedito una lettera al centro di Harwell spiegando che aveva avuto un guasto alla macchina e che avrebbe tardato. Dopo un mese scattò l'allarme. Era stato rapito? Aveva abbandonato l’Inghilterra per l’Urss, come sospettò subito qualcuno, conoscendo le

simpatie e la passione politica di Pontecorvo? Per anni non ci furono notizie o conferme di sorta, perché la “cortina di ferro” si

era chiusa in silenzio dietro di loro. In compenso il clamore e lo scandalo, in quegli anni di caccia alle streghe, di guerra fredda, di contrapposizioni frontali, furono grandi. Dopo aver fatto tutte le ricerche del caso, la famiglia Pontecorvo, che ben conosceva “la mania quasi religiosa di Bruno per il comunismo”,

si convinse che era passato in Urss. Ma non eb-

be da lui un cenno o una notizia. Per cinque anni, fino a un giorno del febbraio 1955, quando improvvisamente comparve sulla stampa sovietica, immediatamente rilanciata in tutto il mondo,

una sua dichiarazione con cui prendeva pubblicamente posizione a favore della distruzione delle armi atomiche e chiedeva ai suoi colleghi scienziati di tutto il mondo di appoggiare il suo appello. Se l'appello esprimeva certamente il suo sentimento, il fatto che gli fosse stata data pubblicità era una decisione che veniva dall'alto. “Non so esattamente perché sia stata presa,” dirà Bruno a Miriam

Mafai, che gli ha dedicato il libro // lungo freddo.

“Posso, tuttavia, immaginarlo. L'Urss era impegnata in quel momento in un'iniziativa di pace a largo raggio. Il mio nome e la mia dichiarazione potevano essere utili...” 3

A parte lo scandalo politico suscitato dalla scomparsa e poi dalla riapparizione di Bruno in Urss, di inconvenienti certo la sua clamorosa fuga ne ha procurati non pochi alla famiglia. Gillo dovette accettare di fare il suo primo film con uno pseudonimo. Guido, di cui si era parlato molto come di un probabile premio Nobel per la genetica, non è certo stato aiutato da questo eclatante exploit. E in epoca di guerra fredda, chi più chi meno, tutta la “tribù” ebbe a bestemmiare contro la “fuga”. Molti anni più tardi, ricorda Gillo, quando Bruno ricominciò a venire qualche volta in Italia, il Ministero gli metteva alle costole squadre di poliziotti, e gli incontri tra lui e la vasta famiglia Pontecorvo

erano contrappuntati

da risvolti assurdi e qualche

volta comici. All’inizio tra i due fratelli non ci furono spiegazioni, come se la scelta di Bruno non fosse che uno dei tanti spostamenti della sua vita errabonda: e tutta la famiglia, per delica-

tezza e perché convinta della sua assoluta buona fede, non ha mai insistito troppo per conoscere i dettagli della vicenda. Ma quarant’anni più tardi, ormai molto malato, profondamente disillu-

so e infelice, Bruno sentì il bisogno di aprirsi con Gillo: era assurdo, diceva, “che facendo il mestiere che faccio, un mestiere

che dovrebbe essere tutto basato sulla razionalità, io in realtà sia stato mosso e condizionato per quarant'anni da pulsioni che non posso definire altro che di tipo religioso. Pensa che sono arrivato a giustificare, fino a esserne totalmente convinto, anche le stragi dei kulaki...”. Ma torniamo al 1950. Gillo, che non aveva mai cessato di “sperimentare a casaccio” con la Paillard, cominciò

a girare veri e

propri piccoli documentari e a mostrarli agli amici più fidati. Finché un bel giorno Fabrizio Onofri, Lù Leone e Antonello Trom-

badori, compagni di trattoria e vittime sacrificali degli esperimenti cinematografici di Gillo, gli dissero che sì, quel filmetto strano e traballante che stava mostrando loro era davvero bello. Di quel documentario Gillo non ricorda nulla, se non che co-

minciava in via dei Coronari, allora una via povera della vecchia Roma e non il salotto tirato a lucido di oggi, dove si vendono i mobili antichi più restaurati d’Italia. “C'era una panoramica iniziale che oggi non farei assolutamente più, ma che allora mi sembrava bellissima. La macchina da presa panoramicava tra la targa ‘Via dei Coronari’ e il centro della strada, dove c'era un topo morto grande quasi come un gatto. Poi si vedevano i soliti panni, le solite cose un po’ ovvie dell’estetica neorealista. Ma allora

mi sembrava di aver fatto chissà che.” Gillo non ricorda chi sia stato il diretto responsabile. Ma uno dei due amici ebbe anche la bella trovata di suggerirgli di gonfiare il suo filmino dai 16 mm 74

in cui era stato girato a 35 mm, come prevedeva “una legge benedetta”, che non distribuiva molti fondi ma permetteva ai giovani aspiranti cineasti di fare il documentario successivo con i soldi guadagnati come “premio governativo” per quello precedente. La legge prevedeva anche la cosiddetta “programmazione obbligatoria” che qualcuno ricorderà come uno degli incubi di quegli anni: quella per cui nei cinema si proiettava prima il documentario — le Alpi, i musei, il golfo di Napoli, le castella e le vigne del bel suolo italico — e poi il film. Un meccanismo economico semplicissimo: il regista ci guadagnava il suo cachet, il produttore quel tanto che lo incoraggiava a continuare. Se andava male tutto era perduto, anche l’onore. Il massimo era quando il

documentario

veniva effettivamente

programmato.

Spesso,

ri-

corda Gillo, la legge veniva aggirata, con sollievo degli spettatori: perché, diciamo la verità, di documentari validi ce n'erano pochi. La storia del cinema registra però che quella catena di sant'Antonio della speranza cinematografica fu una palestra per alcuni

dei grandi nomi del cinema italiano, da Antonioni (N. U.) a Van-

cini, da Zurlini a Maselli a Gillo stesso — e un business su cui hanno campato molti piccoli produttori e almeno una grande casa di produzione, la Documento film. Detto fatto: il neoautore girò e gonfiò a 35 mm tre documentari, che conquistarono tutti il premio governativo. Gillo era diventato un documentarista. Solo un documentarista? “Allora fare il cinema, quello grande, sembrava una speranza esagerata. Il cinema era molto più difficile, irraggiungibile e prestigioso di adesso,” chiosa Gillo, ribaltando l’idea del neorealismo come mezzo e forma di espressione di tutti. Il Nostro, a ogni buon conto, non ricorda nemmeno l’ordine in cui questi documentari sono stati girati. Massimo Ghirelli, che gli ha dedicato un’affettuosa e documentata monografia nella collezione dei “Castori”, li elenca così: primo Missione Timiriazev — il documentario sul Po — del

1953; poi Porta Portese e Cani dietro le sbarre (1954), quindi Festa a Castelluccio (1955) e, dello stesso anno, Uomini del marmo,

che documenta le durissime condizioni di lavoro delle “lizze” nella Alpi Apuane, infine, nel 1956, Pane e zolfo, sulla vita dei minatori nelle solfatare marchigiane. Ma Gillo non è convinto di quest'ordine - “per quello che conta” —-, anche se non se la sente di proporne un altro. Contano invece l'atmosfera e il ricordo di quegli anni e di quell’apprendistato. Prendiamo il caso di Cani dietro le sbarre, un’operina a metà

tra documentario e fiction, tra patetico e ironia, tra divertimento e crudeltà. Per questo filmetto (dodici minuti, recentemente recuperato e restaurato) fu la cornice a mettere in moto l’idea. 19

“Se ben ricordo, ma credo di essere nel vero, tutti i registi della mia generazione hanno provato una vera e propria passione per le periferie urbane. Eravamo come affascinati dai casoni dei suburbi, che erano diventati quasi un imprescindibile stilema. Raccontare sullo schermo o in fotografia quelle brutture architettoniche, quel disastro urbanistico, conciliava, per così dire, forma

e contenuto, l’amore per il mondo proletario e la gente delle borgate e insieme la possibilità di esercitare un certo tipo di ricerca formale e di fotografia che si traduceva per lo più in grandi panoramiche su questi squallidissimi caseggiati”, girati quasi sempre con la malinconica luce diffusa del cielo coperto. Fu dunque lo sfondo delle periferie romane l’ordito di Cani dietro le sbarre. La “trama” fu suggerita dalla passione di Gillo per i cani e qualche incontro casuale con i loro nemici di classe, gli accalappiacani, che Gillo aveva visto in azione e che trovava molto comici — per la semplice ragione che acchiappare un cane è difficile, che il cane è nel ruolo dell’innocente maltrattato e tutti

tifano per lui. La troupe che Gillo mise insieme per l'occasione era ovviamente all’osso. Un operatore che portava la macchina a mano (il cavalletto e il resto del materiale lo trasportavano Pontecorvo e una specie di assistente). Tempo di lavorazione tre o quattro giorni (l'operatore era pagato a giornata, guai a sprecare il suo lavoa ro). Con il gran lusso però, quella volta, di girare in 35 mme colori. Gillo non ricorda adesso esattamente quale fosse la zona che andò a battere con la sua piccola troupe. Dal film si direbbe che sia dietro il gassometro di Roma,

una affascinante struttura si-

roniana di metallo che si alza alle spalle della via Ostiense — an-

zi, bisognerebbe dire che si alza e si abbassa, a seconda del vo-

lume del gas nei suoi serbatoi. Abituato alla clandestinità, Gillo era bravo a raccontare balle, e al canile, per non farsi cacciare, si era spacciato per un giornalista che doveva fare un'inchiesta sui cani pericolosi e randagi, invece di dichiararsi per quello che era: un regista che stava decisamente dalla parte dei cani. E lì gli avevano detto che gli accalappiacani venivano spediti dove c'erano richieste, e che altrimenti pattugliavano le aree periferiche, i terrains vagues al margine della città. Per la troupe non è stato difficile cogliere situazioni comiche o “malincomiche” della caccia ai poveri randagi. E Gillo dice che una delle ragioni per cui ama fare documentari come anche un certo tipo di pubblicità è che in tali contesti può finalmente dar sfogo alla sua voglia di comico, mentre nei film non se l’è mai

sentita. Qualche volta, in Cani dietro le sbarre, le situazioni sono 76

state provocate: come nel caso della bella sequenza in cui si vede una ragazzina camminare accanto al furgoncino del canile protestando perché le hanno portato via il cane. Le lacrime — vere — che le spuntano erano opera di Gillo, che l'aveva aizzata contro i tutori dell'ordine canino - anzi, anticanino.

La necessità aguzza l'ingegno. “Quando siamo andati al montaggio non si trovava più la registrazione della voce di uno dei cani che si vedono dietro le sbarre del canile municipale, quello più piccolo. Non c'era altro da fare: e io che sono stato sempre un grande imitatore di cani, ho imitato i suoi guaiti.” Così bene che

quando gli capitò di mostrare Cani dietro le sbarre a Gianni Hecht, che Gillo sperava avrebbe finanziato un suo nuovo progetto per cui servivano dei veri soldi, all’apparire sullo schermo del cagnetto doppiato dal Nostro, la bellissima Tania Weber, che era allora la moglie del produttore, se ne uscì a dire, tutta com-

mossa: “Senti questo, ha addirittura una voce umana”. Anche la molto lodata scelta di commentare gli eventi del filmetto con una voce “off” non nasce da una scelta “brechtiana” di straniamento, come si potrebbe pensare visto il clima culturale del momento, ma dalla povertà: non c'erano i soldi per un fonico, e tutto il commento, curato dall’aiuto regista Fausta Leoni, è

stato fatto con la stessa tecnica, mettendo di quando in quando le battute “sopra” i personaggi, con un effetto di distacco e di ironia molto divertente. Il premio governativo a Cani dietro le sbarre e all'arte di arrangiarsi arrivò puntualmente. E per il meccanismo di autofinanziamento che i premi mettevano in moto Gillo si buttò subito a progettare un altro documentario,

che sarà Porta Portese. È

quello che preferisce —- anche se pensa che non esista più, che sia andato perduto. Nel documentario, che racconta il celebre mer-

catino delle pulci romano, Pontecorvo inserì questa volta una “ministoriella” ispiratagli da un viso di donna intravisto dietro una montagna di oggetti. “Aveva la classica bellezza delle donne quando sono incinte. Doveva essere almeno al settimo mese. Era molto povera, con un

marito dall'aria ancora più povera, ambedue molto giovani, e guardavano con desiderio tutte quelle cose che non potevano permettersi. Mi sono avvicinato, le ho messo dei soldi in mano, e le ho

chiesto di guardare insieme a suo marito una carrozzina tutta sgangherata che stava lì, in mezzo alla montagna di oggetti, assumendo determinate espressioni che potevo suggerirle ad alta voce di volta in volta, tanto il sonoro non c'era. E nel finale li si vede con una faccia veramente felice mentre vanno via in mezzo alla folla domenicale con la loro carrozzina”, che Pontecorvo gli aveva regalato. Gillo nonlo diceva neanche a se stesso, ma si stava avviando 77

verso la narrazione. Altro che documentario: qualche piccola astuzia del montaggio aveva trasformato la registrazione di una domenica a Porta Portese in una storia. Anche questa volta arrivò il premio governativo. E ci saranno

dunque, a seguire, Festa a Castelluccio, nel 1955, ambientato in un paesino sull'altopiano di Norcia che ogni anno celebra con una festa la fine del lungo inverno e, sempre lo stesso anno, Uomini del marmo,

sulle cave delle Apuane,

“formalmente molto bello,

perché chiunque punti la macchina da presa, lassù, ottiene un bel risultato”. L'anno dopo Pane e zolfo, girato a Ca' Bernardi nelle Marche, un documentario che Gillo a tutta prima definisce “orri-

bile”. Perché orribile? “Orribile proprio no. Ma quando l’ho rivisto, qualche anno fa, in un cineclub delle Marche dove mi hanno invitato dei ragazzi tutti contenti perché lo avevano ritrovato, non

mi piaceva più.” E dire che per quel documentario Pontecorvo aveva rischiato la prigione. Lo sfondo della storia era l’occupazione da parte dei minatori della miniera di Ca’ Bernardi. Gillo convinse il suo operatore Giulio Petroni a scavalcare il muretto

dietro al quale stava tutta la gente che aspettava e a cui era permesso entrare solo mostrando un documento che attestasse un qualche grado di parentela con gli occupanti. A un certo punto — continua il racconto — vide un uomo con una faccia odiosa che sbraitava arrabbiatissimo. Pensò che sarebbe stato perfetto per il film. Gli puntò la Arriflex contro. “E questo chi è?” ruggì l’uomo dalla faccia odiosa. “Stampa,” mentì Gillo. “Stampa chi?” ritorse l'uomo, che si rivelò essere il questore, ed era in preda a un terri-

bile furore. “Come siete entrati?” “Dal muretto. È il nostro mestiere avvicinarci ai fatti...” Il risultato furono sette ore di guardina sia per Gillo che per il povero Petroni. L'ultimo documentario girato da Pontecorvo si chiamava // lago dei lucci — ma Gillo lo fece firmare a Giuliano Montaldo, che nel frattempo aveva cominciato anche lui la trafila di aspirante regista e gli avrebbe fatto da aiuto in tutti i suoi film e che aveva bisogno in quel momento di firmare un documentario. Tra un documentario (con relativo premio governativo) e l’altro, Gillo stesso nel frattempo aveva lavorato come aiuto regista. Prima per Giancarlo Menotti in un film tratto da una sua opera lirica, The Medium. Poi per Mario Monicelli. Continuava a vivere ospite da sua sorella Giuliana, non solo per mancanza di soldi ma anche perché girava per casa ogni tanto una camerierina carinissima.

Henriette, sempre indipendente, sempre ribelle, andava a veniva. Spesso restavano divisi per lunghi periodi. Ma quando si vedevano riuscivano a essere molto felici, anche così senza soldi. 78

Uscivano nella Roma incantata di quegli anni, cenavano al Re degli amici, il celebre locale di via della Croce che dava da mangiare per poco agli squattrinati di belle speranze, agli intellettuali, ai politici dei partiti poveri. “Mi vedevano di buon occhio e mi perdonavano il fatto che con due coperti pagavamo una sola pizza, e occupavamo il tavolo per ore...” Fu allora che Gillo conobbe Henryk Chroscicki — e perse la sua prima occasione di diventare ricco. Chroscicki era di origine polacca ma veniva dall'Australia. Faceva l'operatore cinematografico. Era di sinistra. Gli piacevano i viaggi e lo sci. Divennero amici. Fecero molti documentari insieme. E insieme si divertirono come matti. Giravano un documentario, poi, con quello che avevano guadagnato, andavano a sciare insieme in qualche posto anche molto chic, finché non finivano i soldi. Poi, qualche an-

no e molta bohème più tardi, Chroscicki disse a Gillo che aveva avuto una grande idea. Dovevano comprarsi per pochi soldi una lente anamorfica, che serviva per girare il Cinemascope, la follia del momento. Avrebbero fatto a metà. Metà la pagavano subito,

metà più tardi. Poi l'avrebbero data in affitto e con il ricavato ne avrebbero comprate altre due. Insomma, come la ragazzina del-

la celebre storiella della ricotta, di sogno in sogno, di lente in lente sarebbero diventati ricchissimi, avrebbero fondato una società che, come la lente medesima, si sarebbe chiamata Totalscope...

C'era un piccolo dettaglio: bisognava tirar fuori una somma che Gillo ricorda sì modestissima, ma che comunque non aveva.

Chroscicki, a malincuore, procedette da solo, pur continuando a fare fedelmente l’operatore per Gillo. Dissolvenza... Qualche anno dopo Gillo era ospite dell'amico a Cannes su un bellissimo yacht che poteva ospitare cinquanta persone. Lo yacht si chiamava Totalscope, che ora è anche il nome di una delle più grosse società europee di noleggio e affitto di macchinari per il cinema, di proprietà di Henryk — o Enrico, come Gillo italianizza il nome di Chroscicki. Gillo, dunque, era sempre in attesa di entrare nel vero giro del cinema. Aveva da poco conosciuto Franco Solinas. Solinas era amico di Monicelli. E Gillo si raccomandò ai suoi buoni uffici e a quelli di Ugo Pirro perché lo presentassero a Mario, che era un regista già affermato anche se aveva solo cinque anni più di lui. L'operazione si svolse con successo, e Pontecorvo venne assunto come aiuto per Le infedeli, un film drammatico insolito nella carriera di Monicelli, che lo firmò per ragioni contrattuali in

coppia con Vanzina, e per Totò e Carolina: il film fu girato nel 1953 ma distribuito solo due anni dopo perché aveva suscitato le 79

critiche della Democrazia cristiana, che accusò il film di mettere in ridicolo le forze dell’ordine (Totò nel film è un celerino buo-

no, che si innamora e finisce per “adottare” un povera ragazza incinta, Anna

Maria

Ferrero)

e perché

non veniva sufficiente-

mente stigmatizzato il tentato suicidio di Carolina. “Monicelli è una delle persone più simpatiche che io abbia mai conosciuto, e da lui ho imparato molte cose che adesso mi

sembrano elementari ma che sono invece fondamentali: per esempio un modo di far procedere le scene in profondità. Sul set era rilassato, divertito, spiritoso. Si era accorto che io allora ero veramente molto timido. E decise di divertirsi alle mie spalle. Il ciak di solito lo batte il macchinista. Qualche rara volta l’aiuto regista. Lui invece me lo faceva battere sempre, perché si divertiva a vedere come tutte le volte mi impaperavo per la vergogna e

l’e-

mozione. Colpo di ciak, scena 3, quarta. Io sbagliavo ogni volta e lui implacabile continuava. Mi uccideva, con questa storia. Devo anche dire che ero un pessimo aiuto. Si era accorto che mi occupavo molto delle comparse di sesso femminile, e perdevo tempo con loro. Lui rideva sotto i baffi e quando arrivava il produttore mi dava di gomito e diceva ‘fa’ finta di fare qualcosa’. Insomma, non mi lasciava vivere.” In realtà Mario era buono come il pane, anche se, ironico e caustico con tutti, come se recitasse una parte, voleva nascondere questa sua bontà quasi si trattasse di una pecca imperdonabile. Gillo, che lo sapeva, molti anni dopo decise di vendicarsi de-

gli sfottò patiti quando era suo aiuto con una pubblica prova del fatto che Mario era un cuor d’oro. Monicelli voleva molto bene ed era paternamente protettivo con una ragazzina, Picci Ziino, che vedeva tutte le estati a casa dei D'Amico, a Castiglioncello — e che da trent'anni è la signora Pontecorvo.

Ma la buona Picci,

allora all’inizio della sua storia d'amore con Gillo, venne da lui usata come strumento - in verità riluttante, tanto che fu neces-

sario ricattarla: “ma allora tu non mi vuoi bene, ma allora tu non capisci” — di una piccola vendetta. Lei doveva telefonare a Monicelli e dirgli che Gillo se n’era andato con un’altra. “Vedrai come si fa in quattro Mario per confortarti.” Picci, odiando Gillo per quello che la costringeva a fare, alla fine prese il coraggio a due mani, chiamò Mario nello stabilimento cinematografico dove stava lavorando, gli disse che era stata abbandonata. E Mario le disse subito: “Guarda, Picci, sto finendo un rullo di missaggio, non posso venire immediatamente, mi ci vorranno venti, venticinque minuti, troviamoci vicino a dove sto lavorando”. Al che Gillo, implacabile, prese il telefono: “Lo vedi che sei buono?”. Monicelli

se ne ebbe a male di esser stato smascherato: per sei mesi persino la povera Picci non lo sentì più. 80

Il primo passo di Gillo sulla strada del cinema di finzione sarà Giovanna, un film a episodi nato nel 1956 da un’idea della Federazione internazionale democratica delle donne, una associazio-

ne di quella che allora si chiamava Germania Est, che voleva un film sulla condizione femminile la cui produzione fu affidata alla Defa, l'ente cinematografico della Ddr. Il film sarebbe stato coordinato dal grande regista-documentarista olandese Joris Ivens insieme ad Alberto Cavalcanti, e gli episodi dovevano es-

sere diretti da una squadra di registi provenienti da tutto il mondo. Fu Giuliani De Negri — un ex partigiano che sarà poi per molti anni e molti film il produttore dei fratelli Taviani — a contattare Gillo. Era la grande occasione, il momento di un vero film —anche se si trattava solo di un episodio. Ed era l'occasione per lavorare insieme a un nuovo grande amico, una persona che era

entrata da poco nella sua vita e con cui Pontecorvo dividerà tutte le sue esperienze cinematografiche e una grande fetta della sua biografia privata e pubblica...

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Capitolo quinto Nel quale si racconta come Gillo e Franco Solinas si siano incontrati al Nirvanetta e siano diventati grandi amici. Come abbiano cominciato ad andare insieme a pesca,

a parlare, a litigare e a pensare di fare — insieme — il cinema. Come Gillo abbia realizzato il suo primo film a soggetto, Giovanna, corto ma bello. Come sia arrivata finalmente l'occasione per un film vero e proprio che sarà La grande strada azzurra. Come intanto Gillo si sia separato da Henriette e sia andato a vivere nella allegra e scostumata comune di via Massaciuccoli, con una banda di

simpatici ragazzacci destinati tutti a fare il cinema. E come tale comune si sia sciolta per amore... Il Nirvanetta, nonostante il bel nome e le sue promesse, era un locale piuttosto malfamato, “un posto dove si andava a vede-

re se c'era qualche figa”. Insomma, dove si dragava o “si rimediava”. Nel senso che ci si trovavano molte ragazze facili e scatenate, più che “professioniste” vere e proprie. Il Nirvanetta stava in quella salita che porta in via Sistina da via del Tritone, a cento metri dalla redazione del “Messaggero”. Era molto buio, con tutti i tocchi tipici dei night-club: gli specchi, le luci intermittenti, i tavolini nei separé, qualche coppia che ballava normalmente, qualche coppia che ballava troppo stretta. Soprattutto, c'era anche qualche entraîneuse in azione. Un posto “politicamente scorretto”, almeno in quegli anni e per gente come Gillo. Ma qualche volta gli capitava di farci un salto. E fu una sera, tardi, di un anno che non ricorda con precisione ma che doveva “essere nell’epoca di Scelba” — forse il 1953 —, che facendo il suo solito giro di bar e locali prima di rientrare a casa, Gillo piombò al Nirvanetta e incontrò, anziché la ragazza da abbordare per la notte, l’uomo che, se non si stesse parlando di due impenitenti eterosessuali,

sarebbe stata la sua anima gemella — e che fu la metà della sua anima cinematografica per quattro film (e mezzo) e venticinque anni di storia in comune, e un amico per la vita. Era lì per le stesse frivole e carnali ragioni di Gillo. Questo non impedì che lo guardasse strano, perché Gillo sfoggiava disinvoltamente sul risvolto della giacca qualcosa che in quegli anni, scelbiani appunto, parecchi avevano perso l'abitudine di portare, il distintivo del Cvl, il Corpo volontari della libertà: cosa che colpì molto quel signore, forse perché quelle faccende lui le pren82

deva molto sul serio, e quel distintivo se lo sarebbe tolto piuttosto che portarlo lì dentro. Il signore incontrato al Nirvanetta si chiamava Franco Solinas, era un giovane sardo appassionato e infiammabile. Era nato nel 1927. Aveva fatto la Resistenza giovanissimo in Sardegna e nel Lazio ed era entrato nel Pci subito dopo la guerra. Da qualche anno

aveva cominciato

a scrivere — articoli, sceneggiature —

ed era adesso il vice della rubrica di critica cinematografica dell’“Unità”. E, come a Gillo, gli piacevano moltissimo le donne — la ragione per cui stava anche lui appostato nel buio del Nirvanetta. Qualcosa — simpatia, aggressività reciproca, riconoscimento —- è immediatamente scattato tra i due. Hanno scambiato

qualche battuta. Si sono rincontrati qualche giorno dopo in via delle Botteghe Oscure, nella sede del Pci. Si sono scoperti amici. “Era un personaggio assolutamente insolito, straordinario, limpido, un cristallo di quarzo,” lo descrive Gillo, per dire che Solinas era un'anima incorrotta e spigolosa, impossibile da piegare ai compromessi, alle bugie, alle diplomazie, indispensabili per sopravvivere in quegli anni difficili. E per spiegarsi meglio racconta un aneddoto. Erano tempi bui, i tempi di Scelba. Chiunque fosse vicino al Partito comunista, ricorda Gillo, quasi non aveva speranze di lavorare alla radio — né, qualche anno dopo, alla neonata televisione. Anche con il cinema era difficile. Il contrario di quello che affermano adesso “certi” personaggi come Pasquale Squitieri o Franco Zeffirelli, e cioè che la sinistra ha sempre avuto tutto il potere culturale. “E fuor di dubbio che la sinistra ha avuto una forte influenza tra gli intellettuali grazie alla forza delle idee, ma è sempre stata totalmente esclusa fino a pochissimo tempo fa dalle zone del potere, cioè dalle stanze in cui venivano prese le decisioni concrete che dominavano la scena culturale.” E ricorda che il suo primo contratto di regia — per il film che sarebbe stato La grande strada azzurra - riportava una clausola, singolare ma non tanto, secondo la quale Gillo avrebbe

dovuto accettare senza discutere “qualora noi per ragioni di opportunità le chiedessimo di firmare con uno pseudonimo, anche sul ciak durante la lavorazione, o di nominare una persona che

apparirebbe come regista — fermo restando che il regista a tutti gli effetti sarebbe lei”. Per un po' in effetti il film risultò firmato da tal Stefano Gillo, e con quel nome il Nostro finì anche fotografato sui giornali. Poi, grazie al cielo, ci fu un ripensamento, e le cose andarono più lisce di quanto non si potesse prevedere.

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Proprio nei primi mesi della sua nuova amicizia con Franco Solinas, Gillo ricorda che venne convocata una riunione tra l’Anica, l'Associazione degli industriali cinematografici, e il sindacato, presenti tutti gli schiavetti dell'allora ministro. E Franco Solinas, facendo impallidire anche i suoi stessi compagni di schieramento che temevano potesse ricadere su di loro l’ira funesta suscitata dalle sue parole, cominciò ad aggredire verbalmente il ministro (“Ma questo è vergognoso, è una cosa da galera!”) tra il gelo di tutti. Cose che nell'Italia democristiana e scelbiana non si usavano proprio. Ma Franco Solinas “era sempre così, non c'era differenza tra quello che pensava e quello che diceva. Tutte quelle oleature che rendono più facile il rapporto con il mondo esterno, lui le disprezzava e le ignorava. E tuttavia aveva sufficiente intelligenza per non sembrare mai sopra le righe. Era la naturalezza in persona”. L'amicizia cominciata al Nirvanetta continuò a trenta chilometri da Roma, a Fregene, dove sia Gillo sia Franco avevano una casetta al cosiddetto Villaggio dei pescatori, la “Rive Gauche” della costa laziale. Quella di Gillo, delle dimensioni di una cabina

telefonica, aveva davanti un piccolo giardino: e al di là del giardino Gillo aveva costruito a forza di pala e di olio di gomito una specie di duna, una montagnola di sabbia, aveva trapiantato ogni sorta di fiori e piante marine che andava raccogliendo nelle zone meno frequentate della spiaggia e aveva piazzato qua e là grossi blocchi di pietra, disposti in modo che si potesse vedere solo il mare. Quando se ne stava seduto al suo tavolo, la finta duna gli risparmiava così la vista della spiaggia straripante della folla estiva di Fregene e gli garantiva un'impressione di privacy — anche se purtroppo bastava alzarsi in piedi per ritrovarsi nel pieno bailamme marino. La casa di Franco era semplicemente “assurda”: sembrava una baita in attesa della neve, costruita com'era con il tetto spiovente in stile alpino - mentre dentro era il deposito di tutte le sue fantasie esotiche e dei regali che gli portavano i suoi amici dal mondo: coltelli indonesiani, kriss, machete.

I due nuovi amici avevano molto in comune, anche se Gillo andava per i quarant'anni e Franco non ne aveva ancora trenta: entrambi avventurosi, seducenti, un sospetto di machismo nei rap-

porti con il gentil sesso, le stesse idee politiche. C'era una sola cosa a dividerli, sostiene adesso Gillo, che sulla questione è un po’

maniacale. Franco non capiva nulla di musica — fino a che Gillo non decise di passare alle maniere forti, e lo costrinse ad ascoltare dieci volte la Prima sinfonia di Brahms e dieci volte un quartetto di Beethoven. Poteva finire con una reazione violenta come in

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Arancia meccanica. Invece, più bonario, alla fine Franco si scoprì innamorato della musica e grato al suo tormentatore. Ma c'erano anche, a rendere tempestoso l’affettuosissimo rapporto tra i due, grandi differenze caratteriali. Franco Solinas, dice Gillo, era molto più serio e rigoroso, “io ero molto più sbandato, e quindi mi sentivo sempre giudicato negativamente. Risultato: lo mandavo a fare in culo. Ma mi dava noia questo squilibrio, il fatto che fosse tanto più serio di me pur essendo l’uomo vitale e passionale che era”. L'amicizia si rinsaldava grazie alla comune passione per la pesca subacquea. E fu proprio grazie a un episodio legato alla pesca che si rivelò a Gillo un altro lato dello straordinario carattere di Franco.

“Prima di convertirsi, Franco era un pescatore di

reti e di lenza. Ma la prima volta che l'ho portato a Ponza - nel senso che lui non conosceva l'isola e io gli facevo da guida — mi sono limitato a mettergli in mano un fucile, e io me ne sono partito con il mio in una caletta, abbandonandolo al suo destino di

apprendista. E invece, ecco che dopo dieci minuti Franco arriva con un grongo di nove chili. Devo confessare che da una parte ero contento del fatto che un mio ‘allievo’ si battesse così bene alla prima prova. Dall'altra, lo ammetto, ero un po’ infastidito. Ma come, cos'era questa fortuna sfacciata? Be’, siamo appena usciti dall’acqua che Franco mi fa, tutto tranquillo: Gillo, guarda che il grongo era lì che galleggiava a mezz'acqua per i fatti suoi, era già mezzo morto. Deve essere passato qualcuno prima di noi con le bombe... Chiunque altro non lo avrebbe mai detto, anche solo per

non darmi soddisfazione. Franco sì: un cristallo di quarzo, appunto”, che faceva sentire anche il suo carissimo amico Gillo, ma non solo, un po’ manchevole. Di Franco Solinas, di questa sua purezza tagliente da cristallo, avevano un po’ tutti paura: e molto rispetto. Quando comincia la sua collaborazione con Gillo, Franco So-

linas ha già partecipato ad almeno una sceneggiatura per una grossa produzione — anche se non la migliore della sua carriera: La donna più bella del mondo

di Robert Z. Leonard (1955), che

vedeva Gina Lollobrigida nel ruolo di Lina Cavalieri. Insomma, lui nel cinema c'era già, e sul serio. Tra una partita di pesca e una cena da Otello in via della Croce, dove si dibatteva dell'universo,

oppure da Menghi in via Flaminia, dove si dibatteva e “si segnava” (nel senso che non si pagava il conto se non quando c’era qualche improvviso miracolo), i due parlavano di cinema: cinema visto, cinema da fare. Il primo lavoro della coppia Pontecorvo-Solinas fu appunto 85

Giovanna. Il progetto della Defa, l'Ente di stato della cinematografia della Germania Est, oggi, in epoca postfemminista, fa sorridere. Come si è accennato, si trattava di storie “al femminile”,

che vennero affidate a un gruppo di registi (prevalentemente maschi, va da sé) provenienti da tutto il mondo. In realtà gli episodi del film collettivo, che si intitola Die Windrose (La rosa dei venti), sono cinque, diretti da Pontecorvo per l’Italia, Alex Viany per il Brasile, Sergej Gerassimov per l'Unione Sovietica, Wu Kuo-yin per la Cina, e dall’unica donna, Yannick Bellon, per la Francia. Il

tema comune era il ruolo femminile nella lotta sociale. E i coordinatori del progetto erano Joris Ivens e Alberto Cavalcanti. Va detto subito che il destino del film fu molto sfortunato. Per “ragioni ideologiche” l'episodio di Gerassimov non piacque all’Unione Sovietica, che aveva finanziato il film attraverso la Defa. La Federazione internazionale democratica delle donne sollevò

dei problemi. Per molto tempo il film non fu neanche stampato, e quando finalmente fu stampato non arrivò mai in Italia. Salvo i quaranta minuti di Pontecorvo, che vennero presentati con grande successo alla Mostra del cinema di Venezia del 1956. Quello di Gillo era, potremmo dire oggi, “un film femminista ante litteram”, ambientato in una fabbrica occupata, che era in

effetti un vecchio stupendo opificio nei pressi di Prato, una costruzione ottocentesca con un canale su cui davano le finestre della facciata, dalle quali nel film si vedevano le operaie affac-

ciarsi. Gli attori, secondo la lezione neorealista, vennero presi “dalla strada”. E la storia era stata costruita da Gillo insieme a Solinas. Eccola, come la riassume il regista: “Il marito è un metalmeccanico comunista, Giovanna è anche lei un’operaia, hanno un bambino. Ma quando lei gli racconta che hanno licenziato dodici sue compagne di lavoro, e che per difendere i loro diritti le altre hanno deciso di occupare la fabbrica, lui non ha dubbi e le dice ‘tu hai un bambino, non sono cose da donne, torna a

casa’. Giovanna abbozza. Quando però arriva in fabbrica, anche lei, per ragioni emotive, finisce per lasciarsi trascinare e si schiera con le occupanti. Poi piano piano prende coscienza, diventa

una delle dirigenti dello sciopero a rovescio, come si diceva allora. Si vedono gli uomini che vengono a trovare le loro donne portando i bambini. Tutti meno il marito di Giovanna che non viene per punirla, perché lei ha disobbedito”. Oggi per vedere Giovanna bisogna rivolgersi all'archivio del Movimento operaio. Ma ne vale la pena, anche perché, come scrive Massimo Ghirelli nel suo “Castoro” dedicato a Gillo Pontecorvo, non sembra proprio un “primo film”, non si sentono “costrizioni, compromessi, problemi di attori, censure preventive o 86

autocensure”. Un risultato tanto più notevole per la cornice in cui si inserisce. Il neorealismo ha compiuto dieci anni ma sembra un fenomeno ormai finito, un po’ per il mutato clima politico (non dimentichiamo le polemiche sui “panni sporchi” di andreottiana memoria), un po’ perché sta emergendo la moda della commedia all'italiana o comunque dei film comici a basso costo. È arrivata la televisione e sta per esplodere la stagione di Lascia o raddoppia?. Ma Gillo continua a restare fedele all'idea di un cinema “impegnato” — anche se avrebbe molte resistenze e molti pudori a usare questa parola. A fare da aiuto a Gillo in Giovanna c'era Giuliano Montaldo. Montaldo era un giovanotto di buona famiglia genovese arrivato a Roma con l’idea di fare il cinema. Aveva trovato qualche piccola parte (tra l’altro in Achtung! Banditi! di Lizzani), poi aveva lavorato come aiuto di Elio Petri, poi di Gillo, con cui aveva col-

laborato fin dai tempi dei documentari, percorrendo con lui le periferie romane nella scassata giardinetta in cui Gillo buttava scarpe da tennis, macchine fotografiche, calzoncini da bagno, pizze (cinematografiche), persino gli sci - un'arca di Noè personalizzata. A sua volta Montaldo aveva come assistente (e qualche volta come “script girl”, vale a dire come segretaria di edizione) Franco Giraldi, triestino quasi istriano, anche lui aspirante regista, che campava facendo il vicecritico cinematografico all’“Unità”. Di Giovanna Montaldo fu anche il “produttore”, nel senso che

teneva lui la cassa: e conserva una foto di cui va molto fiero in cui lo si vede mentre dà la paga a Pontecorvo. Montaldo ricorda che la ricerca della fabbrica — quella che troveranno poi a Prato — era stata molto difficile: nessuno, in quella prudente Italia democristiana, voleva ospitare un film su un'occupazione. E Gillo e Giuliano ce la fecero solo approfittando della credulità di un vecchio signore gentile a cui mentirono sulle loro reali intenzioni. Ma su quel set, ricorda Montaldo, “mentre Gillo selezionava

le sue operaie, ho visto per la prima volta che cosa vuol dire essere un regista di qualità. Gillo le ha scelte tutte personalmente, mettendo insieme un cast esemplare di facce prese dalla vita che si sono inserite nella cornice del film con assoluta perfezione”. Aggiunge Montaldo che le ragazze erano tutte innamorate di lui. “Pendevano dalle sue labbra e dai suoi occhi azzurri. E dire che Gillo non è tutto rose e fiori quando gira. Anzi: scatti, nervosi-

smi, incertezze, tutti i guai del perfezionismo. Finché le cose non vanno come lui le ha immaginate non molla. È lo stesso perfezionismo patologico che gli rende così difficile decidersi a fare un film.” E a proposito dello charme che Gillo esercitava sulle donne 87

Giuliano Montaldo ricorda un episodio, durante i sopralluoghi di Giovanna, che gli procura ancora un sussulto di invidia. I due erano alloggiati in un modestissimo albergo vicino alla stazione di Firenze, la pensione Marini. Per consolarsi di tanta modestia si concedevano ogni tanto una sosta al vecchio storico Caffè delle Giubbe Rosse, che aveva un accogliente primo piano, una specie di soppalco dove ci si poteva installare per ore a lavorare. Accade così che un giorno, mentre sono.lì a lavorare, si siedono vi-

cino a loro una bella ragazza molto chic e visibilmente “di buona famiglia” e il suo cavaliere, un ufficiale dei granatieri. “Lui, incauto, ci dà le spalle. Gillo comincia a fare le sue faccette seducenti alla ragazza, che sorride, un po’ lusingata un po’ imbarazzata. E quando il suo accompagnatore si alza per andare a fa-

re una telefonata, proprio mentre lo vedo attraverso la scala che al piano di sotto sta infilando il gettone nella fessura del telefo-

no, Gillo serafico stacca dal giornale una strisciolina di carta, quelle che sono la sua agenda, che tiene in ogni tasca, su cui annota tutto — lettere d'amore, sceneggiature,

appunti, numeri

di

telefono, diari —, e scrive velocissimo: ‘Mi chiamo Gillo Pontecorvo, sto alla pensione Marini’, poi si alza, lo dà alla ragazza, torna a sedersi, giusto in tempo per vedere il granatiere, che ha trovato il telefono occupato, risalire la scala, e la ragazza, che ha il pezzetto di carta ancora in mano ed è un po' sbalordita, farlo sparire a grande velocità. Io sudavo freddo dalla paura.” E allora? “Gillo e la ragazza il giorno dopo si incontravano alla pensione Marini.” Il 1956 è un anno chiave, un anno difficile, un anno drammatico. Ed è anche l’anno in cui Gillo, dopo tre lustri di militanza nel Partito comunista italiano, se ne va senza far rumore e sen-

za sbattere la porta, con un trauma e un dolore profondo. Per ragioni che oggi illustra con la sua consueta semplicità. “È difficile spiegare come io mi sia sentito profondamente a mio agio nel Partito, durante la Resistenza e ancora prima, nel periodo del mio apprendistato parigino. Ci si sentiva come su due rotaie, pro-

tetti contro se stessi e contro i propri errori. Era sufficiente dire ‘lo vuole il Partito’ per vedere immediatamente adeguarsi alla direttiva o alla decisione chi lavorava con te, e chi era sopra di te, come se da questa formula discendesse una specie di infallibilità. Dentro questa infallibilità, devo confessare, io mi trovavo bene. Quello della guerra, della Resistenza e della Liberazione era stato anche un periodo straordinario, in cui candidamente si so-

gnava quella che chiamavamo la creazione dell’uomo nuovo. Eravamo davvero convinti che fino a quando la società fosse stata divisa in classi saremmo rimasti nella preistoria, e che dopo, so88

lo dopo, sarebbe cominciata la storia. Per qualcuno come me, che

non aveva una grande profondità politica né una grande preparazione, l’idea più entusiasmante di quegli anni era proprio che la gente potesse cambiare (chi è contento di come sono gli esseri umani?), e l’idea che il futuro dipendesse da questo cambiamento, che eliminando lo sfruttamento dell’uomo sull'uomo potesse nascere un essere del tutto differente. Questa idea era stata elaborata e digerita con una forte dose di ingenuità e un meraviglioso ottimismo, ma rendeva tutto facile e accettabile.” Poi, arrivata la Liberazione, parecchie cose hanno cominciato a en-

trare in crisi — una crisi che da lieve è diventata sempre più seria. “Per esempio, la struttura stessa del Partito, che un tempo mi aveva dato una sensazione molto forte di appoggio, quel modo di sentirmi in un certo senso deresponsabilizzato, quella diffusa sensazione di cessazione dei dubbi, di tranquillità, ogni volta che ci si trovava di fronte alla fatidica frase ‘è una direttiva del Partito”, adesso incominciava a darmi noia, e cominciava a disturbarmi la struttura gerarchica del Pci. Non mi convinceva più il centralismo democratico.” Gillo sarebbe diventato comunista in un momento in cui il comunismo non avesse significato anche la forza che con maggior vigore si opponeva al nazifascismo? La coincidenza dei due elementi, ammette Gillo, “è stata molto importante per l’adesione di tanti di noi al comunismo”. Questo insieme di cose - le speranze di un futuro migliore, la promessa di un'umanità diversa, e l’illusione probabilmente ingenua e semplicistica di combattere per una soluzione definitiva e radicale di quello che non funziona nell’esistente —- contribuì e determinò la sua adesione. Ma “un’altra fondamentale ragione di questo coinvolgimento era vedere che a combattere e a vincere la guerra contro quella belva irrefrenabile e invincibile che sembrava il nazismo era il paese del comunismo. Che stava vincendo grazie alla partecipazione incondizionata di una popolazione totalmente d'accordo con i suoi leader, senza la quale si sarebbe sfasciato durante quella terribile guerra”. Arrivata la Liberazione,

per Gillo la situazione

aveva

co-

minciato lentamente a deteriorarsi. Fino appunto a quell’ottobre del 1956 che segnò il culmine della sua crisi e l'uscita dal Partito. “Io già da molto tempo ero critico proprio rispetto a quello che un tempo mi era piaciuto: quei binari che mi avevano dato un grande senso di sicurezza, la mitizzazione della classe operaia — che diventava anche l'arbitro di qualsiasi diatriba intellettuale e artistica —, la mitizzazione dell’Unione Sovietica

e la miopia rispetto a certi fatti... Tutta questa storia di piccole delusioni ci avvicinava alla verità e ci allontanava dalla religio89

ne. Quando c'è stata la repressione in Ungheria, allora veramente questi fatti hanno agito con forza, e ho deciso di andarmene da un partito in cui avevo creduto ciecamente, ma che mi aveva deluso in tante cose.” Gillo restava profondamente legato a molti dei compagni con cui aveva vissuto la Resistenza — a Pajetta, ad Amendola,

a Ne-

garville, ma anche a Berlinguer, malgrado l'amicizia con lui fosse un po' più recente. Uscì dal Partito comunicando la sua decisione solo a loro. Molti avevano lasciato il Pci facendo grandi dichiarazioni. “A me sembrava che queste dichiarazioni pubbliche, più che spingere la sinistra sulla via della trasformazione, avrebbero giovato alla destra. E quindi me ne sono uscito in silenzio.” Tanto che, vent'anni dopo, successe una cosa molto buffa. Era rimasto amico di tutti, a Botteghe Oscure, andava spesso a trovarli.

E nel 1976, a seguito della forte pressione di alcuni amici del Partito, accettò di candidarsi da indipendente nelle liste del Pci per la Camera, con tanto di manifesto che lo presentava come “partigiano combattente, indipendente di sinistra”. “Un giorno mi capitò di andare a cercare un libro alla libreria Rinascita, dopo di che feci un salto a Botteghe Oscure per salutare i miei amici personali. E i portieri, che mi avevano conosciuto come un funzionario di partito, che mi avevano sempre visto andare e venire per tutti questi anni e non avevano saputo che ero andato via, mi apo-

strofarono un po’ divertiti e un po’ irritati dicendo ‘indipendente di sinistra? ma che cazzo di storia è questa?”.” C'è da aggiungere che questa candidatura ha una storia. In un primo tempo Amendola aveva proposto a Gillo un seggio “sicuro” al Senato, perché era utile qualcuno che potesse lavorare alla Commissione cultura. Ma Amendola aveva aggiunto: “Ovviamente devi impegnarti a fare tutti e quattro gli anni della legislatura, anche se ti capitasse un film che ti piace”. Gillo rispose che non se la sentiva, visto che era così difficile per lui trovare un'idea di film di cui riuscire a innamorarsi. E se gli capitava proprio durante quei quattro anni? Alle sue obiezioni Amendola, più realista di lui, una volta tanto perse il suo signorile aplomb. “Sei proprio uno stronzo,” gli disse, “mi taglio i coglioni se fai un film da qui alla fine della legislatura.” Gillo, che non voleva dare l'impressione di fregarsene completamente, contropropose: “Se pensate davvero che io possa portare un po’ di voti, candidatemi sì, ma senza indicazioni preferenziali

del Partito”, con la sicurezza cioè di non essere eletto, nella ben nota posizione del “portatore d’acqua”. Quanto al film, come si sa, ebbe ragione Amendola...

90

Franco Solinas aveva scritto un libro che la critica aveva accolto con favore, Squarciò, ambientato in Sardegna in un villaggio di pescatori. Sempre pensando a un soggetto che consentis-

se a Gillo di debuttare nel vero cinema, glielo fece leggere. E si misero a scrivere insieme una sceneggiatura. Solinas abitava allora in viale Marconi. Gillo stava nella comune di via Massaciuccoli, certamente più incasinata della pur modesta casa di Franco. Così decisero di lavorare da lui. Solinas scriveva a macchina e, pignolo com'era (così almeno lo vede Gillo), come fan-

no spesso le persone che si sono formate nei giornali, se sbagliava un attacco o una parola buttava il foglio e ricominciava, con grande scandalo del suo amico che ancora oggi usa e riusa per gli appunti tutti i pezzi di carta che gli capitano a tiro, anche i più miserelli e malandati, piuttosto che alzarsi a cercare un blocnotes.

Il lavoro procedeva in maniera singolare. Il mattino Gillo e Franco stavano insieme e discutevano tutto, persino le mezze parole che dovevano essere appena suggerite. Franco la sera scriveva. E quando la mattina gli riportava le pagine completate, c’era sempre un'aggiunta importante in più, “c'era sempre qualcosa di nuovo che ti suggestionava o spesso ti riempiva di ammirazione per la sua fantasia”, rispetto alle scene concordate che Gillo conosceva a memoria e dalle quali non avrebbe dovuto aspettarsi alcuna sorpresa. Si trattava ora di fare il film. Batterono per mesi uffici e produzioni. Nessuno se la sentiva di rischiare. Finché Gillo ebbe un'ispirazione. Si ricordò che esisteva un produttore, Maleno Malenotti, un nome che aveva gridato in gioventù tutte le domeniche perché era stato l'ala destra del Pisa, un concittadino. Ci andarono insieme, Franco e Gillo, con la loro sceneggiatura. Male-

notti disse sì. Era disposto a rischiare sul debutto di Gillo. Il film si sarebbe chiamato La grande strada azzurra. Certo, Malenotti aveva visto i suoi documentari e gli erano molto piaciuti, ma Gillo è sicuro che il fattore determinante della scelta del produttore sia stato che tutti e due erano di Pisa e che lui aveva passato anni gridando allo stadio “Maleno, sei tutti noi!” Gillo Pontecorvo e Franco Solinas, in questa nuova fase, la-

voravano spesso nella leggendaria casa di via Massaciuccoli 76. Dico leggendaria perché chiunque abbia avuto contatto con il mondo del cinema romano prima o poi ha sentito parlare di questa comune (prima del tempo delle comuni) in cui un gruppo di ragazzi innamorati del cinema, destinati tutti a diventare registi o critici cinematografici, divisero settanta metri quadrati, molte

avventure e pochi soldi. 91

Via Massaciuccoli è una brutta vietta di quel quartiere di Roma ribattezzato ufficiosamente “quartiere africano” perché molte delle sue strade portano nomi come Somalia o Libia. Il titolare del contratto d'affitto dell’appartamento - un piccolo attico di proprietà di un ente assicurativo — era Gillo Pontecorvo, che si era da poco nuovamente separato da Henriette, anche se questa volta in modo tale che la separazione sembrava essere definitiva. In quanto titolare e anziano del gruppo occupava la stanza più grande, quella che sarebbe stata altrimenti il soggiorno. Non c’erano quasi mobili: qualche tavolaccio di legno con i cavalletti, coperto da un drappo che lo rendeva meno ignobile, qualche brandina. L'affitto veniva diviso proporzionalmente. Erano tutti poveri — anche perché, ricordiamoci, siamo negli anni cinquanta. Ma la casa serviva da ricovero amoroso anche per gli amici ancora più poveri, per quelli senza una casa propria.

Per qualche tempo Gillo aveva condiviso l'appartamento con un fotografo siciliano, poi con Franco Solinas, che era troppo aristocratico,

sostiene

Montaldo,

per vivere in quel permanente

squallore e se n'era ben presto andato. Ci abitò per un po’ Callisto Cosulich, che divenne poi un critico famoso, e che per via del-

la pressione bassa e della lentezza a carburare entrò nella storia comunarda perché un mattino andò nudo ad aprire la porta al postino, dicendogli “pronto, chi parla?” (lui nega, e dà un’altra versione dei fatti, ma la leggenda circola lo stesso). Uno degli ospiti in transito fu Tullio Kezich, allora giovane critico e giornalista, a cui venne prestata un giorno la casa perché ci potesse portare

una ragazza, e se ne uscì a dire che gli sembrava un “obitorio sessuale”: obitorio, chiosa Gillo, perché quel gran passaggio di corpi forse gli sembrava un po’ lugubre. Ma furono Gillo, Giuliano Montaldo e Franco Giraldi i tre soci “storici” di una convivenza destinata a durare sei anni. Il più ordinato, in una casa che tutti descrivono come schifosamente disordinata, era Giuliano (o così dice lui). Franco, che

aveva preso il posto di un altro comunardo, Marc Maurette, già assistente di Jean Renoir in La carrozza d'oro, era a Roma da tre anni, lavorava all’“Unità” ed era pieno di hobby, con tutto il di-

sordine di chi ha tanti oggetti da tenere a bada. Gillo viveva nel solito casino, ma sul suo tavolo troneggiava il telefono, segno del suo status di titolare, di unico regista del gruppo, se pur debuttante, e del suo effettivo potere (era da lui che dipendevano gli amici se volevano essere chiamati quando c'erano delle telefonate per loro). Anche lui di telefonate ne faceva tante, e intermi-

nabili, a Parigi, con Henriette, sempre più riluttante a stare a Roma nel perenne bailamme e nella mancanza di intimità di via Massaciuccoli e sempre più intenzionata a chiudere con un di92

vorzio il suo tormentoso matrimonio - cosa che avverrà in Francia nel 1966. Nella comune non c’era neanche la macchinetta per il caffè (ma c'era in compenso un affettuoso bar tabaccheria con annessa bella tabaccaia a un portone di distanza). E l’unica cosa carina di questo “scannatoio” era un terrazzo o meglio un terrazzino — anche se Gillo, che ha il pollice verde e dai tempi del giardino di Pisa ama molto le piante, nel ricordo ne enfatizza la bel-

lezza. Su questo “giardinetto pensile” si affacciava, con una porta finestra, la stanza di Gillo. Montaldo aveva solo una finestra. Giraldi guardava sull’interno: era il più giovane, e l'assistente dell’aiuto. Non poteva lamentarsi. Il titolare e giardiniere aveva steso sul terrazzino una grande incerata, poi era andato in campagna a rubare pezzo per pezzo fette di prato, asportando, sempre con la vanga, uno spessore di terra sufficiente per non disturbare le radici delle margheritine in fiore. Risultato: sembrava di stare in piena campagna.

Per ottenere l’effetto giungla a cui Gillo tiene tanto bisogna infrangere la ferrea regola sulla quale giurano tutti i giardinieri - “una sola pianta per ogni singolo vaso o cassetta” —, e ospitarci due o tre piante di qualità diversa così che rami, rametti, fogliame si intreccino tra di loro dando una gradevolissima sensazione non di terrazzo o di giardino ma di natura assolutamente spontanea. Ovviamente, dice Gillo, con questo sistema bisogna supplire alla mancanza di terra e di spazio con una paziente e continua concimazione. Per questo tiene sul terrazzo della casa in cui abita ora in via Frisi, nonostante la strenua opposizione di sua moglie, tre o quattro bidoni di sterco di pecora diluiti nell’acqua. E Gillo, a differenza di Picci che evidentemente ha un altro tipo di olfatto, sostiene che quando il vento spira nella direzione giusta si ha anche la “piacevole” sensazione di essere nei pressi di una malga alpina. L'effetto che aveva ottenuto in via Massaciuccoli lo si può vedere in una fotografia fatta quando da qualche anno ‘“lobitorio sessuale” era diventato la casa della famigliola Pontecorvo, e si

vede il piccolo Ludovico, il primogenito di Gillo e Picci, sbucare tra la folta vegetazione del balcone come se si aggirasse in un sottobosco amazzonico. Dopo poco tempo, infatti, il terrazzino era diventato impraticabile, quasi fosse una foresta tropicale, tanto che bisognava dare acqua alle piante dall'interno. E quell'acqua era fonte di disperazione per la signora Candela, la vicina del piano di sotto, molto bella, molto tollerante, forse perché le facevano tenerezza questi ragazzacci simpatici che molto la sognarono ma mai la abbordarono. A completare il quadro si registra la pre93

senza di due cani: prima Petruska, quindi Mifune, come Toshiro

— un omaggio al grande giapponese? Mifune era un cocker che era stato regalato a Gillo da Lorella De Luca e che il Nostro, forse ispirato dai suoi fratelli scienziati, aveva addestrato pavlovianamente a mangiare solo quando lui imitava la tromba con la bocca, “suonando” la carica. Con risultati disastrosi: il povero cocker attendeva nei pressi della sua ciotola, lanciando occhiate disperate, obbediente e ogni giorno più nevrotico, nell'attesa che Gillo suonasse la carica: solo allora si buttava freneticamente sul cibo. Giura Montaldo che quel regime portò Mifune praticamente alla follia. Dopo un po’ non si poteva più lasciarlo solo — cosa che, del resto, non accadeva di frequente, visti i ritmi frenetici della casa. Anche in via Massaciuccoli, come in via Bonanno a Pisa, vigevanoregole strettissime— seppure non nella direzione che avrebbe pensato e approvato Maria Maroni Pontecorvo. La regola fondamentale era che quando uno dei soci rientrava a casa accompagnato da una fanciulla, si suonava il campanello secondo un certo codice, in modo che nessuno comparisse nel corridoio imbarazzando la ragazza. I passaggi di ospiti da una stanza all’altra erano autorizzati e qualche volta incoraggiati. Mentre la privacy di certi incontri che si annunciavano più importanti era ri-

gorosamente rispettata. Ma le interferenze — chiamiamole così — si verificavano lo stesso. Una notte, mentre Gillo era in dolce colloquio con una signora, cominciò a nevicare: un evento rarissimo a Roma, persino affascinante, ma certo pericoloso per la flora locale. E c'è so-

lo una cosa che sta veramente a cuore a Gillo più di un incontro amoroso: le sue piante. Detto fatto, il Nostro molla la bella di tur-

no e si precipita sul terrazzino per cercare di sottrarre alla neve le piante più fragili mettendole in salvo all’interno. “Quando dopo mezz'ora — stanco morto —- ho finito, ho ritro-

vato la mia dama nella stanza di Franco Giraldi, non troppo vestita, e tutti

e due a giurare che non avevano fatto e non stavano

facendo nulla. Sono volati dei ‘figlio di puttana’, degli insulti. Lei si è rivestita e se n'è andata in lacrime, guardandomi con odio. Giraldi mi ha dato la parola d'onore, e forse non mentiva, che la

signora era andata da lui solo perché io avevo lasetato le finestre aperte e stava morendo di freddo. Ci fu una mezza lite. Ma devo direla verità, ho quasi subito creduto alla sua versione dei fatti.” E utile precisare che secondo Giraldi non si trattava, in quel caso, di neve ma di pioggia, che si era d’estate, che lui dalla sua stanza sentiva la musica registrata sul magnetofono di Gillo (il terzo tempo del Concerto per pianoforte n. 20 di Mozart, l’Ouverture tragica di Brahms, il Concerto italiano di Bach suonato dal94

la Landowska...), che improvvisamente aveva visto l’acqua filtra-

re sotto la porta e si era reso conto che la casa si stava allagando, forse per uno scarico otturato in terrazzo, che la signora era balzata seminuda fuori dalla stanza di Gillo per collaborare all’opera di prosciugamento mentre Gillo, serafico, dava ai due la-

voratori seminudi e fradici dei “boyscout”, che la dama si era poi ritirata con Gillo nella sua stanza dicendogli tutta seccata che Franco si era permesso di darle del tu. “Signori della corte, le cose sono andate esattamente così,”

giura Giraldi, mentre Gillo difende la sua versione. Nelle burrascose sedute di sceneggiatura di via Massaciuccoli, rischiava di infrangersi ogni volta su un aggettivo o un congiuntivo l'amicizia Pontecorvo-Solinas. “Non si può immaginare,” ricorda Montaldo, “quante volte ho dovuto raccattare copioni buttati per terra, calpestati, maltrattati in una crisi di rabbia.

Io, servile, facevo il possibile perché tutto si sistemasse. Ne andava del mio ‘settimanale’ [come si chiama nel cinema la paga che corre ogni settimana].” Era per Gillo e Franco il modo di cer-

care la perfezione. È nato qui (con trasferte a Fregene) anche il primo film importante di Gillo, Kapò. È stato questo il centro di un tumultuoso lustro pieno di libertà e di avventure. In quegli anni Giuliano ha fatto anche lui il suo primo film da regista, Tiro al piccione, nel 1961, il ritratto molto anticonvenzionale di un gio-

vane fascista di Salò. Giraldi si preparava a travestirsi sotto il nome di Frank Garfield e a sfornare dei brillanti western all’italiana. Poi Gillo riuscì a far sgombrare la casa per amore di una giovanissima ragazza di nome Picci, che sposerà non una ma due volte (come vi sarà raccontato nel nono capitolo). Giuliano si innamorò di Vera, la bellissima Vera Pescarolo, figlia dell’altret-

tanto bellissima Vera Vergani e di un bel comandante di marina, sorella di Leo, produttore e gran cuoco. Franco se ne andò per via di una fascinosa veneziana di nome Alessandra. Come se un’epidemia amorosa avesse improvvisamente svuotato la casa.

95

Capitolo sesto Nel quale si racconta come Gillo Pontecorvo sia riuscito finalmente a girare il suo primo film, si sia innamorato (lentamente) della moglie del suo amico Roman Polanski, si sia disamorato (velocemente) — anche perché finalmente ha incontrato quella che sarà la donna della sua vita. Come abbia cominciato a pensare e a scrivere Kapò, sempre con Franco Solinas - sempre litigando con lui su ogni virgola. Come abbia iniziato in Iugoslavia una lavorazione difficile e avventurosa, anche per la diversa formazione e il diverso temperamento dei protagonisti della vicenda: Susan Strasberg, Laurent Terzief, Emmanuelle Riva. E come infine il film sia stato molto lodato, premiato — e istericamente attaccato da un Pierino d'Oltralpe, progenitore di alcuni Pierini nostri contemporanei. La grande strada azzurra di cui parla il primo film di Gillo è il mare. E Squarciò — come si intitolava il romanzo di Franco Solinas che era all'origine del film —- è il nome del protagonista, un pescatore della Maddalena, individualista e avventuroso, che pratica la pesca di frodo con le bombe perché la pesca con la rete non darebbe da mangiare a sua moglie e ai suoi figli. Da anni è in conflitto con la guardia di finanza, con la legge e con gli altri pescatori del villaggio che stanno tentando di organizzarsi in una cooperativa per contrastare lo sfruttamento dei grossisti del pesce. Peggio ancora, Squarciò si mette tutti contro quando compra all’asta la barca sequestrata dalla Capitaneria a un pescatore del villaggio, condannando con quel gesto se stesso e i suoi due figli a un penoso isolamento. Da qui si arriva a un drammatico finale, in cui Squarciò, morente in mare dopo un incidente, ordina ai suoi figli di lavorare nella cooperativa e di rientrare così nella comunità.

La gioia di essere ormai vicino a fare il primo vero film era grande. Ma le condizioni per farlo erano dure. Il novello cineasta, che continuava ad avere nel cuore il modello neorealista, pensava a un film austero, in bianco e nero, con attori presi dalla

strada. Dovette arrendersi e accettare il colore. Dovette arrendersi anche a quello che il buon Malenotti, il produttore, vedeva come un dono, e cioè la partecipazione di Yves Montand nel ruolo del protagonista. Lo stesso si dica di Alida Valli, scelta per interpretare Rosetta, la moglie incinta di Squarciò: Gillo la considerava molto brava sì, ma troppo poco popolare. 96

In alto: Massimo e Maria Pontecorvo nel giardino della casa di Pisa. Sotto: Picci Pontecorvo con i figli Ludovico e Marco.

Gillo Pontecorvo in montagna durante la guerra partigiana. Nella pagina accanto, in alto: mentre sfila a Torino, alla Liberazione, alla testa della brigata Eugenio Curiel; 7 basso: durante uno dei primi comizi dopo la guerra.

Sopra: con Enrico Berlinguer a Milano nel 1945. Sotto: con Pablo Picasso nel suo studio di Parigi.

In alto: Gillo subacqueo con una cernia di ventitré chili. Sotto: a diciannove anni, prima categoria di tennis in Svizzera.

In alto: Franco Solinas alla Maddalena. In basso: Gillo con Yves Montand e Alida Valli sul set di La grande strada azzurra.

Sopra: con l’amico Jean-Paul Sartre sul set di Kapò, in Iugoslavia. Sotto: a Cinecittà, con Susan Strasberg vestita da quattordicenne nel ruolo di Edith, in Kapò.

In alto: Gillo guidato da un partigiano dell’FIn durante i sopralluoghi in Algeria per il film “Parà” — che si trasformerà poi in La battaglia di Algeri. Pagina accanto, in alto: con un altro partigiano algerino; sullo sfondo un campo militare francese. In basso: il campo ripreso nello stesso momento con un teleobiettivo, mentre i soldati francesi, ignari, continuano tranquilli a giocare a pallavolo.

saga

Sul set di La battaglia di Algeri.

In alto: mentre si prepara una scena di La battaglia di Algeri. In basso: il Leone d’oro per La battaglia di Algeri, Venezia 1966.

Sopra: Gillo scherza con Brando sul set di Querrzada. In basso: mentre dà a Brando e Evaristo Marquez indicazioni per una scena.

PONTECORVO FIRST... “BATTLE OF ALGIERS”

i È MARLON BRANDO "BURN!" AFilmby

GILLO PONTECORVO

ARSALBERTO GRIMALDI Proguetton ISTOMARQUEZI RENATO SALVATORI IS

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dior. PIERO GHERARDI -Miiste ENNIO MORRICONE

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Sopra: Gillo con Brando a Roma. Sotto: il manifesto americano di Queimzada, reintitolato Bur!, dove, contro ogni regola dello star system, viene dato più spazio al nome del regista che a quello di Brando.

Sopra: con Pasolini alle Grolle d’oro 1968. In basso: Pontecorvo risposa sua moglie. Sullo sfondo uno dei testimoni, Franco Rosi.

In alto: Gillo emerge dal modellino costruito per la scena dell'attentato in Ogro. Sotto: con Dustin Hoffman, che ha appena ricevuto il Leone d’oro alla carriera.

In alto: Picci, Gillo, Ludovico e Marco nel “terrazzo-giungla” di via Massaciuccoli. In basso: Gillo con Simone (in braccio), Ludovico e Marco sul set di Ogro.

Il Nostro mugugnò, protestò, minacciò di rinunciare al film:

ma gli amici, soprattutto Franco Solinas, più saggi di lui, gli suggerirono di accettare: “L'importante è debuttare,” dicevano giustamente.

La grande strada azzurra era una coproduzione, la prima con la Iugoslavia. E venne dunque girato in Dalmazia, lungo la costa tra Parenzo e Fiume, che faceva la parte della Sardegna di Solinas e allora sembrava lontanissima ed esotica. Dei due mesi e mezzo passati sulla costa dalmata, Giuliano Montaldo, che fungeva da aiuto di Gillo — e che continuerà a lavorare con lui come aiuto anche in Kapò e in La battaglia di Algeri, pur essendo diventato nel frattempo lui stesso un regista —, ricorda soprattutto le meravigliose grigliate che venivano ammannite al posto degli orribili “cestini” (come si chiama il pasto servito sul set e contenuto in realtà in una scatola di cartoncino). Gillo tra un ciak e

l’altro pescava col fucile. Testimoni oculari dicono di averlo spesso visto uscire dall’acqua con due pesci sulla stessa fiocina. Cosa non impossibile, spiega Gillo, in settembre, quando i cefali vanno in amore. In quel periodo i maschi girano lenti e incuranti di tutto il resto intorno alla femmina. “Basta avere un po’ di pazienza e molto fiato per attendere il momento in cui due pesci sono uno dietro l’altro per trovarseli sulla stessa fiocina.” Qualche volta Gillo pescava non per il pranzo ma per le necessità del set. Capitava quando tra i pesci acquistati al mercato per le scene di pesca con le barche non se ne trovavano di abbastanza grossi. Allora ci provava lui col fucile. Aveva trovato anche un sistema per far venire a galla i pesci lentamente e non tutti insieme, il che era fondamentale, dopo la finta esplosione di una bomba. Si immergeva e li sistemava lui stesso sul fondo, dopo avergli infilato dei piccoli palloncini gonfiati nello stomaco. “Niente di più facile,” dice lui, che alla fine li recuperava per la zuppa della troupe. Altre erano le cose difficili. Per esempio il problema Montand. Non che il grande attore fosse difficile come persona. Anzi. Una delizia: collaborativo, fascinoso e gran raccontatore di aneddoti. No. Semplicemente, il primo giorno, quando era previsto che si immergesse in acqua e facesse la sua parte - Squarciò doveva nuotare sott'acqua, recuperare una barca, fuggire a nuoto prima che arrivasse la finanza -, Montand un po’ arrossendo disse che non poteva. C'era un tout petit detail che aveva trascurato, ma naturalmente non era una cosa grave, un modo per rimediare lo si sarebbe trovato: insomma, Yves Montand, Squarciò, non sapeva nuotare.

Lo sgomento e la rabbia che si impadronirono di Gillo durarono poco di fronte alla necessità di trovare, appunto, una solu97

zione. La più ovvia fu scovare delle controfigure. Ma non bastava: ogni tanto questo benedetto Squarciò bisognava vederlo da vicino. Così gli ingegnosi tecnici iugoslavi segarono delle grandi botti, le disposero a filo dell’acqua in maniera che fossero invisibili, e Montand più o meno elegantemente - ma col cuore in gola - faceva le due o tre bracciate necessarie per arrivare da una botte all’altra, fingendo di nuotare.

E che dire di Alida Valli? Bella, bellissima. Ma, con tutta quella classe affinata film dopo film, era più che mai Maria Altenburger, l'elegante ragazza mitteleuropea che si nascondeva sotto il suo nome d’arte, insomma un po’ improbabile come moglie di un pescatore sardo, almeno quanto non era perfettamente in parte in // grido di Antonioni, che aveva girato pochi mesi prima. Funzionava meglio nel suo ruolo un bello sconosciuto dagli occhi azzurri che si chiamava Mario Girotti — e che dieci anni dopo, ribattezzato Terence Hill, in coppia con Bud Spencer-Carlo Pedersoli, sarà uno dei protagonisti della seconda stagione degli ‘spaghetti western”, quella più giocosa e grottesca. Funzionava benissimo un pestifero bambino che interpretava il ruolo del figlio più piccolo di Squarciò, Ronaldino Bonacchi, sette anni. Ed

era perfetto Francisco Rabal nel ruolo di Salvatore, il capo dei pescatori organizzati — e che all’edicola dei giornali chiedeva regolarmente “un quotidiano, possibilmente di sinistra”. All'uscita del film, nel dicembre del 1957, le reazioni furono

quasi unanimi: era andata, e bene. Ci fu chi (Giulio Cesare Castello) salutò “la nascita di un regista”. Molti, ma non troppi, avanzarono delle riserve sullo schematismo eccessivamente didattico del film. Qualcuno (Massimo Mida) predisse al piccolo Ronaldi-

no un glorioso futuro d’attore che non ci fu. E qualcuno, per sottolineare i problemi del film, non dovette far altro che citare Gil-

lo: “Quando il regista stesso, ta autocritica, ha definito il se Umberto Barbaro, “ne ha lo non era contento — e non zurra era stato promosso, a grande cinema.

non senza un senso di sottile e schietsuo film un po’ fumettistico,” scrisindicato il più autentico limite”. Gillo è ancora. Ma La grande strada azpieni voti, e gli apriva la strada del

Da qualche anno Gillo Pontecorvo era tornato a essere uno scapolo. Henriette, la fascinosa Henriette, la difficile Henriette, aveva gettato la spugna, decidendo che la vita a due non le si confaceva — soprattutto con un partner così poco affidabile —, che ne aveva abbastanza dell’Italia e delle infedeltà di Gillo, e se n’era tornata a vivere in Francia. Anche nel corso delle sue brevi permanenze in via Massaciuccoli, negli ultimi tentativi di ricucire quella che era stata una grande storia d'amore, le cose non ave98

vano funzionato. In quel periodo, Gillo, per la verità, si era rivelato particolarmente ansioso e quasi intimorito dalle visite di lei, da questa ennesima ordalia della loro storia, straordinariam en-

te attento a quello che le poteva far piacere, sempre premuroso - 0 almeno tale lo descrivono i due amici-coinquilini, che non lo avevano mai visto così con una donna perché Gillo, che si autodefinisce una puttana monogama, era veramente legato sul pia-

no sentimentale e affettivo alla moglie, e temeva molto la rottu-

ra che sentiva approssimarsi. I due soci della comune, che vedevano allora la famosa Henriette per la prima volta, erano rimasti molto impressionati dallo charme della prima signora Pontecorvo che, sostiene Montaldo, si meritava il più grande dei complimenti — quello di essere all'altezza del mito costruito da Gillo -, e forse un po’ tifarono perché la cosa continuasse. Ma l’addio questa volta era stato definitivo - una resa malinconica al fatto che

Gillo e Henriette erano cresciuti in modo diverso e, di necessit à,

diverse dovevano essere le loro strade.

Qualche tempo dopo, mentre cercava la protagonista per il film che aveva appena scritto con Franco Solinas e che si sarebbe intitolato Kapò, Gillo aveva fatto una nuova amicizia: un giovanotto polacco, che aveva studiato alla scuola di cinema di L6dz,

pieno di talento e di ambizione, piccolino, grintoso, con una tragica storia familiare (i suoi genitori, ebrei, erano morti ad Auschwitz, lui era cresciuto tra case adottive e orfanotrofi), un grande futuro di cineasta davanti — e, negli anni a venire, una altret-

tanto tragica storia personale. Roman Polanski non aveva fatto fino allora che qualche cor-

to, uno dei quali, Tre uomini e un armadio,

fatto notare

come

una

vera

promessa

nel 1958, lo aveva

e gli aveva

permesso

di

lasciare con dei visti temporanei la Polonia e di annusare l’aria di Parigi. Aveva anche una moglie polacca, come lui molto bella e molto giovane, Barbara Kiatovska, attrice di qualche film dimenticato, per la quale, una volta arrivati a Parigi, aveva inventato il nome d’arte di Barbara Lass: una ragazzina limpidissima,

la descrive

Gillo, incantevole,

semplice.

Li incontrò,

Roman e Barbara, che si erano sposati da poco, molto giovani, a Parigi. Si ritrovarono a Roma qualche tempo dopo e divennero grandi amici. La centrale degli incontri era come sempre la trattoria Otel-

lo alla Concordia, in via della Croce. Gillo, con un po’ di invidia,

si ricorda come Roman, al contrario di lui che continuava a gi-

rare con la sua scassata giardinetta-deposito, dovesse già avere

dei soldi, perché era il fiero proprietario di una bella Alfa Romeo rossa decappottabile — anche se Polanski nella sua autobiografia

99

parla della “falsa opulenza” di quegli anni, costruita sui guadagni di Barbara che aveva già girato qualche film, sui prestiti degli amici e su qualche generosa elargizione.

Romane signora erano molto carini, molto innamorati, e molto innamorati della dolce vita romana modello Otello e, altro mi-

tico posto, Cesaretto. Roman stava preparando /! coltello nell'acqua. Barbara era reduce da un notevole successo personale per aver girato accanto ad Alain Delon Che gioia vivere! di René Clémént, e sperava di trovare a Roma una parte interessante. Era giovanissima, era fisicamente fragile, era molto brava.

Quando Gillo l'aveva conosciuta a Parigi, su insistenza di Lola Moloudiji, che di Barbara era l'agente, le aveva fatto un provino per il ruolo della protagonista di Kapò. Ma non l'aveva scelta,

dice, per colpa della sua bellezza. Anche Franco Cristaldi, il pro-

duttore del film, si diceva d'accordo su questo no paradossale: “Con il tono che vuoi dare al film,” diceva a Gillo, “dobbiamo trovare una ragazza con degli occhi straordinari, ma che non sia troppo bella...”. Il discorso del “non troppo bella” non si applicava ovviamente alla sua candidata, Claudia Cardinale, sua futura moglie, che non solo era anche lei bellissima ma, florida, carnale ed esplosiva com'era allora, non sembrava certo adatta al ruolo di una deportata. Comunque Gillo, per accontentare Cristaldi, le fece vari provini, tra cui uno in cui Claudia portava una

parrucca rapata a zero. Cristaldi insistette ancora un po’, nella sua veste di produttore e futuro marito. Ma Gillo fu irremovibile e Claudia stessa, che pure teneva moltissimo a recitare nel film, si convinse ancora prima di Cristaldi di non essere adatta per la parte.

L'amicizia tra Gillo e i Polanski era continuata durante e dopo la lavorazione di Kapò, tra Roma e Parigi. Ma alla vigilia dell’estate del ’61 i tre amici dovettero separarsi: Roman ritornò in Polonia per iniziare la lavorazione di // coltello nell'acqua, e si installò su una grande house boat in uno dei laghi Masuri che fu la sua casa non troppo comoda nei mesi della lavorazione. Barbara restava a Roma in attesa di fare un altro film che invece non arrivava. Da poco era stata scritturata per dieci film dal vecchio Angelo Rizzoli che, nel suo ruolo di produttore, le aveva affittato una casa sontuosa in via Tagliamento — e forse si era un pochino innamorato della giovane e incantevole polacca. Ma il lusso di quell’appartamento non faceva grande effetto sulla semplicissima Barbara. Dopo un po’ di tempo disse al direttore di produzione della Rizzoli che aveva deciso di cambiare casa, di cercarne una più piccola per conto suo. Perché? le fu chiesto, che 100

cosa non funziona nella casa di via Tagliamento? Troppe rose, rispose Barbara, che aveva sempre battute spiritose. Alludeva al fatto che ogni mattina Rizzoli, troppo gentilmente, le faceva recapitare a casa grandi mazzi di fiori. E in effetti dopo un po’ Barbara riuscì a traslocare in una casa più modesta. Le accadde anche di innamorarsi perdutamente di Gillo, l’amico di Roman rimasto a farle da protettore. Deve essere stata una cotta molto forte altrimenti, sostiene Gillo, essendo Barbara quella limpida ragazzina piena di grandi sentimenti che era, non avrebbe mai tradito Roman. Invece accadde. La storia andò avanti per sei o sette mesi, il tempo che Polanski se ne stette sulla sua house boat in Polonia. Erano anni duri. I polacchi non potevano certo andare e venire da un paese all’altro con disinvoltura. Se si trovava lavoro all’estero lo si teneva stretto, e questo valeva anche per Barbara, che così era però costretta a restare lontana da Roman e vicina a Gillo, sen-

za possibilità di dare un taglio a una relazione che la tormentava. Gillo sosteneva che bisognava dire a Roman la verità. Barbara lo accusava di essere egoista, di volersi mettere in pace la coscienza a spese della tranquillità d'animo di Roman, che sta-

va facendo il suo primo film e, protestava disperata, “lo conosco, potrebbe rovinare tutto, glielo diciamo quando finisce la lavorazione...”. Gillo dice che per i primi otto o nove mesi di questa storia era Barbara a portarla avanti. Lui era molto meno innamorato. E allora perché l’ha fatto, perché, visto che era amico di Polanski? “Perché quando una ragazza così bella ti casca fra le braccia è difficile che non succeda niente. Ma aspetta, c'è un finale a sorpresa. I primi tempi Barbara innamoratissima andava a piangere dagli amici più intimi del gruppo, da Otello, dicendo che io me ne fregavo. Non si trattava di questo, ma del fatto che non ero assolutamente alla sua altezza.” Tanto che quando Barbara andò in Polonia per salutare Roman e i suoi genitori, rimanendoci per

oltre un mese, e Gillo nello stesso periodo fu invitato al festival di Mosca, non gli venne in mente nemmeno per un secondo la possibilità di fermarsi a Varsavia sulla via del ritorno. Anzi, aveva programmato di fare tappa a Praga, il secondo dei due scali possibili sull’itinerario Mosca-Roma, perché gli era stato detto che vi si potevano trovare bellissime pitture sotto vetro — quelle di cui aveva da poco cominciato una collezione che ora fa bella mostra di sé, trionfale e un po’ incongrua (si tratta dopotutto di cinquanta santi

e madonne nella casa di un laico), nel suo salot-

to di via Paolo Frisi a Roma. La tappa a Praga alla fine non ci fu. Per questione di orari, 101

Gillo avrebbe dovuto fermarcisi un giorno più del previsto, ma non aveva soldi. Così si disse che in fondo poteva passare da Varsavia, cosa che certamente avrebbe fatto molto piacere a Barbara. E qui bisogna affidarsi alla sua viva voce: “Le avevo mandato un telegramma. Roman

era a lavorare lontano da Varsavia, a

Katowice. Arrivo all'aeroporto che saranno state le sei o le sette di mattina, scendo dalla scaletta, c'è una gran tramontana, vedo Barbara con tutti i capelli scompigliati dal vento, mi sembra bellissima e intensa, e all'improvviso scopro che sono davvero innamorato di lei. Nel rivederla ho sentito una inattesa, strana grande felicità. E l’ho resa pazza di gioia dicendoglielo. Abbiamo passato due bellissimi giorni insieme a Varsavia, siamo rientrati a Roma, e in un’escalation di felicità abbiamo deciso di fare un bambino - anche se lei continuava a dire che non bisognava far sapere niente a Roman fino a che lui non finiva di girare...”. Non molto tempo dopo il ritorno in Italia, Barbara seppe di essere incinta. Quasi contemporaneamente ricevette anche la pro-

posta di fare un film in Giappone con Jacques Deray - un lungo film che l'avrebbe tenuta lontana per sei mesi. Gillo, a questo punto decisamente innamorato, era contrario. Barbara oppose a Gillo il fatto che lui non lavorava, che se non permetteva di lavorare nemmeno a lei, be’, chi avrebbe provveduto al bambino? Per Barbara si trattava di un film importante, lei era la protagonista, quindi era ben pagata, voleva dire un lancio sicuro, mettiamo da parte i soldi, servono a tutti e tre...

Fu così che Barbara partì. E che perse il bambino, forse, pensa Gillo, per via di un tifone che il suo aereo per Tokyo aveva attraversato lungo il viaggio. Disperata, Barbara dal Giappone si attaccava al telefono ogni giorno per ore e ore. Gillo una volta le disse: “Guarda che ci possiamo sempre riprovare, a fare un figlio, la macchinetta non si è rotta”. Poi, per metterla di buon umore, cominciò a sfotticchiarla: “Attenta però, che se continui a telefo-

narmi da Tokyo per tre ore al giorno la ragione per cui sei andata lontano contro il mio parere va a quel paese, e tornerai a casa senza una lira, anzi, senza uno yen, per il nuovo bambino”. Coi mesi però le telefonate cominciarono a diradarsi. Diventarono lettere. Poi cartoline. Infine Barbara ritornò in Europa. Si videro a Parigi. “E nel corso della stessa giornata annunciò a me e a Roman

(che aveva finalmente finito il suo film): ‘Mi sono in-

namorata di un altro e lo sposo’.” Roman, che per quanto duramente colpito restava sempre uno che per una battuta avrebbe ucciso padre e madre, diceva: “Abbiamo saputo lo stesso giorno di essere stati abbandonati dalla stessa donna. In un certo senso 102

siamo parenti. Forse si potrebbe dire cognati?”. Da allora Polanski si rivolge a Gillo chiamandolo “caro cognato”. E tre anni fa, quando la Mostra del cinema di Venezia gli attribuì il Leone d’oro alla carriera, Polanski, matto come sempre, dopo la premia-

zione proclamò di fronte alle telecamere di tutto il mondo e senza che nessuno capisse cosa voleva dire: “Ringrazio soprattutto mio cognato, che si è voluto levare così il senso di colpa”. L'uomo di cui Barbara si era innamorata era Karl-Heinz Bòhm, figlio del direttore d'orchestra e protagonista con lei del film di Deray. Con Bòhm Barbara ha avuto una figlia, Caterina. Di Picci, che nel frattempo era diventata la compagna e poi la moglie di Gillo, Barbara col tempo divenne grande amica (“era inevitabile,” dice il Nostro, “erano troppo simili, troppo pulite e dirette per non volersi bene”). E Picci e Gillo hanno tentato senza successo di produrre un incontro sentimentale tra Caterina e il loro figlio più grande Ludovico, che sulle orme di zio Bruno fa il fisico a Ginevra. Pare che i due siano molto amici, ma che tra loro non possa scattare la magica scintilla dell'amore che legò i loro genitori. (Bisogna aggiungere che Polanski riferisce la storia più sbrigativamente. Racconta che non riusciva mai a trovare Barbara al telefono di Roma, che qualcuno gli mandò una rivista italiana in cui si vedevano Barbara e Gillo insieme in un locale notturno, che apprese la fine del proprio matrimonio attraverso una lettera definita dalla stessa Barbara “non carina”, e che

ancora una volta “si trovò alla deriva”. Anche perché, poco dopo, all'uscita in Polonia, I! coltello nell'acqua era stato fatto a pezzi. Si rividero per discutere il loro divorzio, secondo Polanski, a Pa-

rigi, seduti nella Mercedes di Roman - perché di una Mercedes rossa si trattava e non di un'Alfa, come favoleggia Gillo. Ci furono lacrime. Ma Polanski non riuscì neanche ad arrabbiarsi con Gillo. La storia era ormai finita. Barbara stava per sposarsi con un altro. E l'amicizia tra Roman e Gillo continuò anche quando da un pezzo la bella e fragile Barbara era prematuramente scomparsa.) Lasciamo Polanski al suo destino e torniamo a Gillo. Siamo nel 1961, Kapò è uscito ormai da un anno, sta finendo un'epoca, quella della comune di via Massaciuccoli, e se ne sta aprendo un'altra, quella della nuova famiglia Pontecorvo. Picci e Gillo si erano conosciuti nell'autunno del 59, in casa di Emy De Sica, la figlia maggiore di Vittorio e di Giuditta Rissone, in via Oriani. Picci Ziino — che all'anagrafe si chiama Maria Adele - aveva venticinque anni, ma sembrava più giovane ancora, viveva in via Denza con i genitori e aveva un fidanzato, Clau103

dio, a cui era legata da molti anni. Ma la presenza di un fidanzato non era certo cosa da frenare Gillo, a cui Picci, bionda, gra-

ziosissima, sorridente, piacque subito molto. Anche lei aveva provato subito un certo interesse per lui, ma era alquanto sospettosa perché Gillo era partito in quarta a farle la corte. Picci racconta che vide “questa specie di ragazzino” — e dire che Gillo aveva quasi quarant'anni. Che il ragazzino, mentre la faceva ballare, le raccontò come si apprestasse a fare un film - un film serio, non una qualsiasi commedia. Che lei pensò, ma non glielo disse, che raccontava balle. Quando lui cominciò a parlarle di Kapò, Picci pensò che il calore che metteva nel racconto fosse attribuibile soprattutto allo sforzo di apparire interessante. “Solo più tardi,” dice adesso Picci, “dopo anni vissuti insieme, mi sono resa conto che quelle rare volte che Gillo ha l’idea di un film che gli piace sul serio si scatena in un entusiasmo persino eccessivo, e

non pensa e non parla d’altro. E siccome evidentemente gli piacevo e gli ero simpatica, si sfogava a parlare, parlare, parlare.” Quando quella sera ormai lontana finirono di ballare, Claudio, il fidanzato di Picci, le chiese: “Ma che vuole quello? Che ti stava a raccontare?”. Picci gli disse che era simpatico, molto, ma che aveva l’aria di essere un gran ballista: “Parla di un film diverso, duro, in bianco e nero, su un campo di concentramento. Ma mi sembra più un impenitente conquistatore che qualcuno che abbia voglia davvero di parlare della tragedia dei campi”. E riferì a Claudio quella che alla giovane ma non ingenua ragazza era sembrata una battuta da tattica supersfruttata: “Ma lo sa che lei ha gli occhi che ridono prima della bocca?”. Quella prima volta, comunque, il fascino pontecorviano non fece breccia. Si rincontrarono qualche mese dopo, ancora una volta a casa De Sica, per Capodanno. Questa volta Gillo si presentò a fianco della bellissima e altissima Tina Louise, sua ultima conquista, attrice ed ex Miss America — capelli rossi, vestito nero di velluto superscollato, guanti lunghi bianchi, “un po' ridicoli”, decise Picci —, con cui all’inizio ballò appassionatamente. Ma poi, con una certa sorpresa da parte della bellissima signora, la mollò elegantemente alle danze con i suoi altri ammiratori. Lui aveva il suo da fare a parlare con Picci, anche se la ragazza continuava a guardarlo con un certo incantato sospetto. Mesi dopo - nel settembre del 1960 - usciva Kapò, preceduto dal battage del successo veneziano. A Picci lo disse Claudio, che quel suo bizzarro ammiratore il film lo aveva fatto davvero “e pare anche che sia bello”. Picci, stupefatta e curiosa, si precipitò con il fidanzato a vedere cosa avesse combinato quel suo corteggiatore da Capodanno. La prima proiezione era alle tre del pomeriggio, al Barberini. Picci ne uscì profondamente toccata. “Ero, 104

come molti in quegli anni, assuefatta al cinema americano, e il film di Gillo mi turbò profondamente, sia per le cose terribili che raccontava sia per come era fatto, e mi venne in mente tutto quello che mi aveva detto allora.” Passò ancora parecchio tempo e nuovamente, a una serata di Capodanno, questa volta in casa della mitica signora Adriana Panni, namma di Marcello (il direttore d'orchestra), zia di Giovannella (la giovane signora Solinas), e animatrice della Filarmoni-

ca romana, dove Picci lavorava. Era Picci che, nell’allegra confusione della festa di fine anno, aveva il compito di aprire la porta agli amici. Così si ritrovò di fronte all'improvviso Gillo, che arrivava, non annunciato, come invitato di Franco. È da quella sera dell’ultimo giorno del 1961 che data la storia di Gillo e Picci. Lei, non più convinta di un fidanzamento “che si trascinava da nove anni”, aveva deciso di vivere quel Capodanno liberamente - e Gillo arrivava in scena al momento giusto. Lui, che era stato

appena lasciato da Barbara, cercava di liberarsi completamente dal ricordo di lei. Nonostante anche Picci stesse attraversando una crisi sentimentale, però, il Nostro dovette telefonare decine

di volte prima di convincerla a uscire con lui. Dopo un po' di tempo il “chiodo schiaccia chiodo” cominciò però a funzionare per entrambi. Con malumore e preoccupazione dei genitori di lei (siamo, conviene ricordarlo, all’inizio degli anni sessanta, molto lon-

tani da qualsiasi forma di esplicita rivoluzione sessuale, e Gillo, anche se divorziato in Francia, in Italia risultava ancora sposato con Henriette), Picci, che intanto si stava laureando in storia del-

la musica, cominciò a frequentare sempre più assiduamente la casa di via Massaciuccoli. Finché, impossibilitati a sposarsi in Italia, almeno per il momento, i due si decisero al grande passo: si sarebbero sposati all’estero, per tranquillizzare almeno in parte i genitori di Picci e per consentirle di trasferirsi “dignitosamente” a vivere con Gillo — anche se ovviamente il matrimonio sarebbe stato valido per il resto del mondo ma non per l’Italia. Così, il 23 gennaio del ’64 fecero una gita a Losanna e celebraro-

no un matrimonio svizzero in una salle de mariage. Dopo la gita elvetica, che ricordava stranamente la filosofia siciliana della “fuitina”, decisero subito di avere un bambino, e continuarono per qualche tempo a vivere in via Massaciuccoli con i ragazzacci della comune. Ludovico nascerà il 27 agosto del ’64. Giuliano Montaldo venne sfrattato da via Massaciuccoli un mese prima del lieto evento, ma non se ne disperò: anche lui aveva trovato l’amore della sua vita. La storia di Kapò, che Gillo mise in cantiere nel 1959, quasi in contemporanea con l’inizio dell'amore con Picci, è la tipica sto105

ria agitata e ondivaga dei suoi film. All’inizio di tutto ci fu un produttore francese che contattò Gillo proponendogli di fare un film “duro” sui campi di concentramento nazisti, che lui stesso avrebbe dovuto inventare. Ma intanto fra le mani di Gillo era capitato un soggetto firmato da un giornalista francese che era stato deportato a Mauthausen, Dédé Lecaze, intitolato // tunnel, dove si

raccontava la storia vera di un deportato, boxeur dilettante ma molto bravo, che riusciva a sopravvivere perché divertiva i suoi aguzzini: i suoi match contro gli altri deportati e contro i militari della Wehrmacht erano uno degli svaghi degli ufficiali delle SS. Infine, grande fuga attraverso un tunnel.

Per un po' Gillo e Franco meditarono sull’idea. Ma la cosa, anche a prenderla da tutti i versi possibili e per quanto ispirata a un episodio autentico, finiva per apparire troppo irreale, troppo poco rispettosa, in fondo, della sacralità di “un tema così spaventosamente orribile”. Gillo, come abbiamo raccontato, fino a un certo punto della sua vita non si era mai “sentito” ebreo. L'“assimilazione” dei Pontecorvo era naturale e assoluta. Non si ricordavano di essere ebrei i suoi nonni, non ci pensava suo padre. Il fatto di essere laici contribuiva. Neanche la diaspora che, di necessità, aveva disperso ai quattro venti la famiglia Pontecorvo, compresi i più piccoli, neanche la drammatica avventura della fuga in Svizzera dei suoi genitori erano riusciti a rinsaldare di molto il legame tra Gillo e il mondo ebraico. Conosceva pochissimi ebrei. Aveva rapporti solo con i suoi cugini, che facevano come lui pratica di laicismo. Anche se, al solito “politicamente scorretto”, confessa di avere sempre sentito una forte attrazione per le donne ebree “perché hanno degli occhi meravigliosi”, e di provare ammirazione per l'intelligenza degli uomini ebrei. Così come ammette che lo irritavano certi tratti caratteriali intravisti nei pochi ebrei che aveva incontrato: “Per esempio la presunzione (che magari era una caratteristica specifica di quei dodici che ho conosciuto, ma che stupidamente tendevo a generalizzare)”. Adesso Gillo fa risalire l’inizio di quello che chiama il suo confuso ma affettuoso interesse per il mondo ebraico solo a più tardi, dopo che Kapò era già stato realizzato, all’epoca in cui ha cominciato a leggere quasi per caso i libri di due grandi autori ebrei. Per primo gli capitò tra le mani La famiglia Moskat di Singer, che lo spinse a leggere tutti i libri dello scrittore. Poi passò a Joseph Roth. Quindi fu la volta del grande libro di un autore ebreo francese, André Schwartz-Bart, L'ultimo dei giusti. Lo affascinavano l'atmosfera e l'umanità di quei paesi, di quei villaggi, di quella calda vita familiare. Nel frattempo aveva anche conosciuto Chagall, un pittore che adora, e per un attimo aveva avuto la tentazione, messa presto da parte, di fare un film sul mondo ebraico 106

della Polonia e della Russia prima della Rivoluzione, chiedendo-

gli, visto che quello era il suo mondo, di fare la supervisione delle scenografie. Questo per dire che ai tempi in cui cominciava a prendere forma l’idea di Kapò, il tema dell'Olocausto, che più tardi si sarebbe colorato per lui di un diverso sentimento, ben più caldo e forte, si inquadrava in una cornice più ampia, nell’odio per la guerra e per quella forma estrema di violenza che è l'universo concentrazionario.

Insomma,

Kapò

non voleva essere soltanto o

soprattutto il film di un regista ebreo sull’orrore dei campi di concentramento. Era il film di un regista impegnato sull’immane tragedia della guerra, sul più grande genocidio della storia dell’uomo, su una costante della storia — le conquiste coloniali insegnino — portata qui all'estrema esasperazione, per cui il carnefice deve distruggere la valenza umana delle vittime prima ancora di distruggerne il fisico. Per preparare il film Franco e Gillo si misero insieme a studiare metodicamente la storia della deportazione. E si imbatterono in un libro che li colpì moltissimo, Se questo è un uomo, che Primo Levi aveva pubblicato nel 1947, documentando con un rac-

conto in prima persona dall'interno di un lager nazista l’orrore dell'Olocausto. Nel libro di Primo Levi Franco e Gillo trovarono l'idea che cercavano — e che permetteva loro di focalizzarsi non sul dato storico tragicamente concreto dell'assassinio metodico e scientifico di sei milioni di ebrei, ma su un aspetto terribile e

comune a tutto l'universo concentrazionario: la distruzione sistematica della dignità umana delle vittime da parte delle SS. In particolare li colpiva il paradosso della figura dei kapò, quei deportati che, parlando il tedesco e la lingua degli altri deportati, venivano inquadrati nella gerarchia delle SS con l’incarico di mantenere l’ordine nel campo tra i loro stessi compagni — un ordine così rigoroso che spesso trasformava i kapò in veri e propri aguzzini, fossero prigionieri politici o deportati per ragioni razziali. Partendo da questa idea, Gillo e Franco cominciarono a costruire la storia di una ragazzina borghese di quattordici o quindici anni che a Parigi viene arrestata durante un raid contro gli ebrei, deportata in un campo e divisa dai genitori, che vengono subito mandati a morire nelle camere a gas. Un prigioniero del lager, medico, impietosito dalla fragilità della ragazzina, la riveste con la divisa di una detenuta comune morta nella sua infermeria, le dà una finta identità mille volte meno rischiosa di quella ebraica e le insegna le regole per sopravvivere nel campo. Ed Edith - questo sarà il suo nuovo nome - in effetti impara a sopravvivere, e piano

piano, di degrado in degrado, diventerà una kapò. 107

La storia c'era. Ora bisognava studiare la cornice. E Franco e Gillo cominciarono a documentarsi, girando per otto mesi su e giù per l'Europa, intervistando i sopravvissuti dei campi, leggendo tutti i documenti possibili. “L'interesse per la realtà,” spiega oggi Gillo, “soprattutto certe zone della realtà, quelle dove è più dura la condizione umana, dove è più disperato l’arrancare degli esseri umani per migliorare la propria situazione, è una cosa che mi ha sempre affascinato, e mi pare evidente che non si può affrontare questi temi se non con un approccio assolutamente rispettoso — o che per prima cosa si proponga di essere rispettoso della realtà stessa. Non sono certo contro un cinema dove prevalga l’elemento di fiction. Anzi, c'è un cinema di ‘fantasia’ che mi piace molto —

penso per esempio a 8 e //2 di Fellini. Sto parlando però di quello che personalmente mi scalda di più, e che mi spinge a fare un film. Ed è questo approccio realistico. Per cui sono necessarie di solito grandi ricerche, mesi e mesi di raccolta di informazioni. Ma è ne-

cessaria anche molta fantasia, per ricreare la realtà nel dettaglio, nell’approfondimento dei caratteri. Per cogliere, magari reinventandola, quella che si crede sia l'essenza della realtà. Sì, sembra as-

surdo, ma ci vuole proprio molta fantasia per essere realistici.” La fase successiva fu quella della scrittura, che procedette spedita, salvo gli “scazzi” ormai celebri della strana coppia. Per lavorare più concentrati di quanto non permettesse la buriana continua di via Massaciuccoli, Gillo e Franco si ritirarono a la-

vorare a Villetta Barrea, in Abruzzo: il posto era isolato, fresco, nel lago c'erano delle belle trote che non guastavano, il lavoro procedeva bene. Finché un giorno Franco Solinas non se ne uscì a dire che la storia, così come la stavano scrivendo, era troppo dura per il pubblico di allora, troppo rigorosa, che ci si poteva permettere una piccola concessione: per esempio, facciamo che verso la fine lei cambia, si riscatta, facciamo nascere un amore,

magari una storia solo di sguardi con uno dei prigionieri russi che sono rinchiusi accanto al campo femminile... Gillo non era assolutamente d’accordo: si meravigliava di Franco, disse, si stupiva di lui, che aveva sempre considerato una persona di buon gusto, trovava che la sua idea contenesse l’errore più grave che si potesse fare in qualsiasi forma di espressione artistica, la rottura dell’unità di stile, insomma, francamente...

Da quel “francamente” i due, come zolfanelli, passarono agli insulti, perché tu in La grande strada azzurra, sì, bravo tu, sì, bella tua moglie, cominciarono a volare critiche e rinfacci sugli al-

tri film fatti insieme... Fu così che Gillo e Franco fecero le valigie come due amanti dopo un litigio e partirono da Villetta Barrea senza neanche salutarsi. 108

Non si parlarono per venti giorni. Finché Cristaldi li minacciò: se non riprendete a lavorare non si fa più in tempo a rispettare il ruolino di marcia del film, e salta tutto. E li convocò di lì

a due giorni a una riunione nel suo ufficio, pronubo Pietro Notarianni. L'incontro finì in un nulla di fatto: Franco e Gillo non si guardavano, non si parlavano, ciascuno rivolgendosi solo a Cristaldi, che cominciava ad averne piene le scatole. Dopo qualche giorno convocò un’altra riunione. Nel frattempo Gillo aveva ruminato la questione: forse ha ragione Franco, il film così non lo va a vedere nessuno, è troppo duro, mettiamoci 'sta storia d’amore, magari giusto verso la fine, magari fatta solo di sguardi, e cerchiamo di andare avanti. Gli bruciava cedere, anche perché si

riteneva giustamente rigoroso, ma era pronto al sacrificio. Solo che, dopo un iniziale imbarazzo e qualche risata fraterna sulla li-

te che sembrava appena conclusa, davanti a Cristaldi e a Notarianni, prima compiaciuti poi esterrefatti, Franco Solinas annunciò che si arrendeva: aveva ragione Gillo, si trattava di una

rottura dello stile del film. Gillo, dalla sua, non era pronto a fare marcia indietro ora che aveva fatto uno sforzo in direzione dell'idea di Franco. Il litigio riprese virulento, stroncato due giorni dopo da un diktat di Cristaldi: o adesso o mai più. E alla fine, seppur attenuata, venne usata l’idea di Franco. “Io,” commenta adesso Pontecorvo, “ave-

vo immaginato un finale diverso che mi sembrava molto toccante: arrivano gli Alleati, liberano il campo, le altre deportate festeggiano, e ci troviamo di fronte alla drammatica solitudine e alla

disperazione di Edith, la ragazzina perbene a cui hanno ucciso il padre e la madre ma che è poi diventata kapò, è passata dall’altra parte. Non volevo effetti violenti, non volevo che l’attaccassero, al massimo qualcuno le tira un sasso, o una patata. Lei è terribilmente sola. E il film finisce.” Con il senno di poi, si può dire che Franco ebbe insieme ragione e torto. Il film, anche grazie a questo episodio sentimentale, ebbe un grande successo anche commerciale. Ma questo episodio sentimentale si beccò parecchie critiche severe e addirittura l'accusa di avere qualcosa di “fumettistico”. “E invece, una volta scelta la versione Solinas, de-

vo dire che a me piace molto il finale che fu improvvisato lì per lì, a caldo, quasi dettato dall'atmosfera stessa della scena. Edith, falciata da una raffica di mitra, è sostenuta da Karl, un giovane

soldato tedesco disperato e solo come lei, con il quale era nata una certa tenerezza. Vuole pregare, ma prima chiede a Karl di strappare dalla sua divisa di kapò il simbolo delle SS. Solo a questo punto riesce a pronunciare ‘Shema Israel, Adonai Elohenu”, la preghiera che ogni ebreo pronuncia al momento della morte.”

109

Fu poi la volta della ricerca della protagonista. Gillo, nonostante la sua breve filmografia, aveva deciso che per lui la somiglianza somatica tra il personaggio immaginato scrivendo il copione e l'attore che doveva interpretarlo era fondamentale. E anche dopo Kapò, ogni volta che ha potuto, ha scelto la faccia giusta piuttosto che un grande nome. Ma soprattutto in un film come Kapò, pensava, dove era importante dare l'essenza della realtà, una star con un viso noto avrebbe rischiato di diventare un filtro, una separazione dal pubblico, che subliminalmente avrebbe

creduto di meno nella verità di quello che veniva raccontato. Cominciò dunque la ricerca di Edith. Fu scartata, come abbiamo raccontato, Barbara Lass, troppo bella. Fu scartata, come si è detto, la Cardinale, che allora era agli inizi della sua storia d'amore con Cristaldi e che “era molto brava, ma troppo in salu-

te per essere credibile e si era visto che nemmeno con una parrucca coi capelli di tre centimetri aveva un'aria da deportata”. Gillo, adamantino, spiegò al suo produttore un po’ irritato che a quella bellissima e simpaticissima creatura mancavano la fragilità e la disperazione, che era troppo vitale e prorompente. Poi vennero esaminate tutte le facce che gli proponevano i casting director: e la sua attenzione fu attirata dalla foto di una ragazza tutt'occhi, con un faccino piccolo piccolo e l’aria da adolescente. Si chiamava Susan Strasberg, era la figlia del fondatore e guru dell’Actors’ Studio, aveva recitato in soli tre film, ma non in ruoli tali da fare di lei un volto noto. E benché da poco avesse compiuto i ventun anni, aveva ancora tracce infantili nel volto. Gillo si consultò con Pietro Gherardi, il grande art director, che avrebbe lavorato con lui sul film e in tutti gli altri che seguirono: si poteva farla sembrare una quattordicenne? Gherardi ne era convinto. E Susan fu presa. Accanto a lei, per la parte di Sasa, il soldatino dell’Armata rossa, venne scelto Laurent Terzieff, che conciliava il fatto di avere

il volto giusto —- quella sua splendida faccia ossuta da slavo - e di essere un ottimo attore. Durante tutto il periodo della lavorazione Terzieff si rivelò una persona eccezionale. “Ero al secondo film,

ero pieno di esitazioni e di paure. E Laurent mi ha aiutato in maniera incredibile. Non solo come attore, ma facendomi spesso da aiuto regista, e un aiuto di alta qualità (infatti adesso fa il regista di teatro), che si faceva in quattro, con cui discutevo persino il testo, sempre pronto a sostenermi nei momenti di crisi che un regista ancora inesperto può attraversare. Una persona d’oro.” Kapò, prodotto da Franco Cristaldi e da Morris Ergas per l'Italia, era una coproduzione italo-iugoslava. E le riprese vennero effettuate in Iugoslavia, dove tutto costava meno, dalle scene al110

le comparse, in un lager ricostruito appena fuori Belgrado. Ricostruito così realisticamente che alcune donne di un gruppo di ex deportate, accompagnate sul set da qualche dirigente iugoslavo di non grandissima sensibilità, quando si ritrovarono sotto un cielo di piombo sulla Appellplatz ricostruita, davanti alle deportate del film, tutte in fila, investite dagli ordini in tedesco del comandante SS, si sentirono male. Ma anche qualcun altro stava male. La povera Susan Strasberg era in crisi nera. Il suo vero problema era il metodo - anzi, “ il Metodo” per eccellenza, appreso alla dura scuola di papà Strasberg — che mal si accordava con i ritmi di ripresa e con la recitazione più elementare di tanti “non attori” presi dalla strada. Per andare in carburazione, dice un testimone oculare, Su-

san ci metteva molto più tempo di tutti gli altri. Era evidentemente disturbata dalla chiassosità e dalla confusione del set all'italiana, che la defraudava del clima di concentrazione così ne-

cessario per chi, come lei, seguiva un “method” di cui suo padre era il grande guru. La sua recitazione era tutta gesti lenti, tempi alle volte infinitamente lunghi. La parte non era tale da tirarla su di morale. E per quanto avesse un'aria giovane, le ci volevano quattro ore di trucco per trasformarsi nella quattordicenne Edith. Gillo, che per amore della sua faccia e dei suoi occhi aveva sottovalutato il problema, soffriva e si impegnava duramente per cercare di scioglierla. Emmanuelle Riva e Laurent Terzieff erano gentilissimi e collaborativi. Ma lei, almeno i primi tempi, non riusciva a legare, e una volta Montaldo, sgomento, la trovò sola, nel-

la sua baracca, mentre piangeva disperata. Gillo, dalla sua, ricorda come un incubo il fatto che spesso non riusciva a ottenere da lei, in tempi accettabili, certe espressioni di disperazione richieste dal copione. Tutta la troupe si rammenta di quella volta in cui Gillo aveva bisogno che nella scena Susan piangesse, ma non voleva usare a nessun costo le lacrime finte. D'altra parte non c'era verso di ottenere lacrime vere dalla giovane attrice che, ipersensibile, era disturbata di certo da qualcosa che la paralizzava. Il tempo passava e alla fine Gillo si rivolse al povero Montaldo dandogli un ordine impensabile: trova una scusa qualsiasi, prendila tra le braccia, dalle, se serve, una sberla. Montaldo, mol-

to infelice, così fece. Invano. Gillo ebbe allora la giusta intuizione psicologica: rivolto a Montaldo gridò “ma che modi sono questi?”, poi si avvicinò a Susan, si scusò, cominciò a consolarla. Immediatamente Susan si sciolse in un pianto liberatorio. Un pianto straordinario, che metteva in risalto quegli occhi dolenti, enormi. Molto poco commosso, Gillo ordinò che si girassero quelle attesissime lacrime. La scena risultò perfetta. Ma per giorni e 111

giorni Gillo dovette scusarsi e trovare delle attenuanti al finto colpevole Montaldo. Alla fine la ragazzina accettò la situazione, convinta soprattutto da un discorso: “Vedi,” le fu detto, “tutto il male non viene per nuocere. Si era formato un nodo che bloccava tutto. Ora si è sciolto, e d’ora in poi tutto andrà per il meglio”. Ed è uno dei tanti miracoli del cinema il fatto che nessuno potrebbe pensare alla ragazzina di Kapò con una faccia diversa da quella di Susan Strasberg. A parte le difficoltà della povera Susan, il clima sul set era meraviglioso. La troupe era la stessa che poi avrebbe lavorato con Pontecorvo in La battaglia di Algeri, e che per buona parte aveva fatto La grande strada azzurra. Erano tutti giovani — il più vecchio essendo Gillo, che aveva quarant’anni. C'era, come si è visto, Giu-

liano Montaldo nel ruolo di aiuto tuttofare. La script-girl era Anna Maria Montanari, che ingannava le lunghe attese tra una ripresa e l’altra, mentre Gillo percorreva ansioso i quattro lati del campo cercando la sua inquadratura perfetta, a tricottare golf per gli amici della troupe. E il direttore della fotografia era Aleksandr “Azza” Sekuloviè, che era stato scritturato in Iugoslavia per le norme della coproduzione. Bravo sì, ma con una formazione che non gli permetteva di capire né approvare quello che voleva Gillo. Ad Azza piaceva la fotografia classica, tradizionale, perfetta. E in un certo senso le richieste del suo regista gli sembravano una bestemmia o un errore di grammatica fotografica, perché Gillo, dopo essere stato costretto ad accettare il colore per La grande strada azzurra, pensava a una fotografia diversa da quella tipica, levigata e apprettata, dei film di fiction dell’epoca — la voleva più ruvida, più granulosa, più vera, tale da dare allo spettatore la sensazione di assistere a un documentario, qualcosa di simile a quello che avrebbe poi portato avanti in maniera ancora più radicale in La battaglia di Algeri. Gillo capiva perfettamente che ad Azza fare quello che gli stava chiedendo sembrava un suicidio professionale. E per questo accanto a lui aveva preso come direttori della fotografia della seconda unità Marcello Gatti, che era stato fino allora operatore alla macchina, e Carlo Di Palma.

Carlo e Marcello diedero a Gillo rapporto con Sekuloviè. I due italiani sotto pressione tentando di spingerlo Nostro, di cui condividevano le idee in

un aiuto prezioso nel suo lo tenevano tutto il giorno nella direzione voluta dal materia di fotografia. Tan-

to che, pur cercando di restare nei limiti di una certa uniformità

formale, le applicavano per le scene girate dalla seconda unità. Anzi, con la complicità di una parte della troupe, talora riuscirono persino a modificare surrettiziamente l'impostazione della luce nel senso voluto da Gillo, senza riaprire con Azza quelle eter112

ne discussioni che facevano perdere tempo e innervosivano tutti. Riuscirono così, in certi casi, ad attenuare la forza di alcune fonti di luci, in particolare, una volta, quella di un controluce che

era responsabile, secondo loro e secondo Gillo, della fotografia “troppo bella”. E furono così bravi che nessuno, della squadra iugoslava, si accorse di nulla.

La fotografia però continuava a non soddisfare completamente il terzetto dei congiurati. Tuttavia, Gillo aveva una speranza segreta. Annunciò a Cristaldi che al ritorno a Roma avrebbe tentato un esperimento — qualcosa che aveva già tentato su carta fotografica all’epoca delle sue celebri foto artistiche: voleva “controtipare”. Invece di utilizzare il negativo originale, cioè, avrebbero stampato da esso un positivo, lo avrebbero rifotografato ottenendo un nuovo negativo con caratteristiche diverse — quelle caratteristiche che generalmente sono considerate dei difetti —, e dal negativo così ottenuto avrebbero stampato le copie del film. Questo procedimento avrebbe garantito la granulosità e il contrasto che sono tipici appunto di un “controtipo”, accettabili cioè per i cinegiornali, impensabili per un film che doveva avere una vita commerciale. Ma Gillo cercava proprio il tono fotografico del cinema di attualità. Avrebbe chiesto, aggiunse a Cristaldi, il parere di Verzini, un famoso stampatore di Cinecittà, perché c’era indubbiamente il rischio che l'eccessivo contrasto derivante dal controtipaggio — lo scotto da pagare in cambio della granulosità — potesse rendere le zone d'ombra di un volto troppo poco leggibili e la gamma dei grigi tutta nera. In effetti Verzini diede a Gillo, una volta tornato a Roma, una

serie di preziosi consigli. Prima di tutto, che si levasse dalla testa di poter seguire questo procedimento per tutto il film. Aveva ragione: se alcune scene, trattate così, erano entusiasmanti, altre erano impossibili. Quelle buone le mostrarono a Gatti. E Gatti,

malgrado le prevenzioni che qualsiasi direttore della fotografia avrebbe avuto di fronte a quei procedimenti “blasfemi”, capì immediatamente che il risultato così ottenuto era fondamentale per il senso di verità di cui il film aveva tanto bisogno. Fortuna volle che il buon Sekuloviè non si accorse delle manovre tecnico-diplomatiche organizzate alle sue spalle. Oggi sarebbe scoppiato un caso internazionale e sarebbero finiti tutti in tribunale. Allora il mondo era più grande, Sekuloviè più distratto, e il cinema più avventuroso.

Malgrado la drammaticità del tema, malgrado la tensione che si avvertiva nel corso delle riprese, la vita durante i due mesi e

mezzo della fredda e nevosa primavera passati in Iugoslavia sul set di Kapò era molto divertente. La troupe era alloggiata nelle 113

baracche del campo - salvo Gillo, che insieme agli attori stava in albergo a Belgrado e arrivava ogni mattina sul set accompagnato da una ragazza diversa, con grande riprovazione dei moralisti e degli organizzatori. E le comparse erano così carine che, dice Gillo, si trovava costretto, per le scene di massa, a cercare con il lanternino quelle più magre ed emaciate da mettere in primo piano, mentre dietro, dove la macchina da presa non arrivava a leggere i particolari dei volti, c'erano tutte le graziose studentesse, le vezzose impiegatine, le belle ragazze di Belgrado che, secondo Gillo - e secondo Montaldo -, erano di un livello estetico superiore a qualsiasi altro paese. Di quei mesi Gillo ha un ricordo dolcissimo. Gli piaceva il gruppo di lavoro. Gli piacevano gli spuntini improvvisati a base di Slivoviz e formaggio bianco della Serbia. Gli piacevano le canzoni macedoni che si sentivano dappertutto. Gli piaceva il senso di amicizia che legava la troupe, il povero Sekuloviè incluso. “Il vantaggio,” dice, “di fare così pochi film è che ogni lavorazione produce una serie di ricordi struggenti che ti restano per sempre. E quelli di Kapò sono tra i più caldi. Se fai un film all’anno, invece, è come andare in ufficio. Dei colleghi di ufficio spesso non ti ricordi nemmeno la faccia.” Ricorda invece il nervosismo e la stanchezza di un primo maggio, attesissimo giorno di festa poco prima della fine del film, quando, crollata la tensione del lavoro, tutta la fatica del set gli piombò addosso, impedendogli persino di riposare. Ricorda il povero negoziante di macchine fotografiche da cui andava ogni giorno, alla fine del lavoro, per corteggiare una Leica, e l'indomani una Hasselblad, e l’indomani ancora una Exacta, accampandosi sul suo banco, smontando le sue macchine, mosso da una passione quasi fisica che risaliva alla sua prima giovinezza. E quando si decideva, dopo molti tentennamenti, a comprare un teleobiettivo o un grandangolo, inevitabilmente la settimana dopo tornava per cambiarlo accampando minuscoli difetti che soltanto un maniaco come lui poteva notare. Tanto che, secondo Montaldo (ma probabilmente è solo una sua malignità), un giorno l’infelice negoziante, vedendo arrivare la macchina della produzione, tirò giù repentinamente e senza esitazioni la serranda. Altri hanno ricordi meno idilliaci. Sul set, o meglio mentre si preparava a girare, dicono i testimoni, Gillo era di una pignoleria quasi ossessiva, tale “da spingere i suoi collaboratori al suicidio” — o semplicemente da farli sprofondare nella depressione. Era Mister Hyde — nel senso che rivelava un’insospettabile durezza —, pur rimanendo perennemente dubbioso e autocritico —

come è rimasto tutta la vita. 114

Kapò fu per Gillo la prima vera palestra cinematografica della sua passione per la musica: se in precedenza aveva lavorato solo alla musica dei suoi documentari, ora firmò la colonna sonora come “collaboratore” di Carlo Rustichelli. E in Kapò, come più

tardi in La battaglia di Algeri, la musica divenne il ritmo su cui è montato il film. E offrì anche all'amico Montaldo l'occasione di uno scherzo. Succede nel film che, a un certo punto, si sente un bellissimo coro cantato dai soldati dell’Armata rossa. Si stava facendo il doppiaggio. Gillo era a Venezia bloccato da una manifestazione indetta dall’Associazione degli autori, in cui era allo-

ra molto attivo. E Giuliano cercava una voce per doppiare un prigioniero russo che, in primo piano, iniziava a cantare trascinan-

do nel coro tutti i suoi compagni. Ma lì per lì, a Roma, non trovava nessun russo in grado di cantare bene. Così, un po’ per italica arte di arrangiarsi un po’ per divertirsi, decise di prestare al prigioniero iugoslavo la propria bella vociona da basso - con l’intenzione di rivelare a Gillo la cosa alla prima occasione. Il che non accadde. L'entusiasmo di Gillo fu enorme: ringraziò Montaldo, disse che la voce da lui scelta era fantastica, che era per-

fetta per il personaggio, che lo commuoveva. Montaldo, il quale si aspettava di essere immediatamente riconosciuto, travolto da

quell’accoglienza non osò dirgli come stavano le cose. Il film uscì in Italia, poi in America, poi in Russia. Quel coro e quella voce di basso emozionarono tutti. Solo allora Montaldo ebbe il coraggio di confessare la sua “faciloneria”, come avrebbe subito detto Gillo. Sempre secondo Montaldo, Gillo, offeso nella sua sen-

sibilità musicale, per un po’ prese seriamente in considerazione l'ipotesi di ridoppiare quel pezzo di Kapò (ma il Nostro commenta: “Le solite balle di Giuliano”). Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia,

dove quell’anno, il 1960, la squadra italiana in competizione era composta da La lunga notte del '43 di Florestano Vancini, / delfini di Francesco Maselli, Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Kapò ebbe uno strepitoso successo: nove minuti di applausi e un coro di critiche entusiastiche. Arrivò anche, assolutamente inaspettata, una can-

didatura all'Oscar per il miglior film straniero - e di colpo, al suo secondo film, Gillo divenne un regista affermato. Che però non poté partecipare alla cerimonia degli Oscar perché il visto per gli Stati Uniti, che in quanto ex comunista doveva chiedere con particolari procedure, arrivò troppo tardi. Seguirono ventidue proposte di film. Seguì anche un’imprevedibile coda polemica, che si direbbe destinata a non esaurirsi mai. Accadde dunque che Jacques Rivette, il regista francese formatosi con la Nouvelle Vague, 115

autore di Paris nous appartiens (1960), di La religiosa (1966), di Céline et Julie vont en bateau (1974) e recentemente di una impervia Giovanna d'Arco (1995), allora critico dei “Cahiers du Ciné-

ma”, abbia visto con qualche ritardo Kapò e si sia sentito “offeso” da un carrello (l’espressione tecnica per il movimento della macchina da presa verso il suo soggetto): quello che nel film ci fa avvicinare a una deportata (Emmanuelle Riva) che si è appe-

na lanciata contro il filo spinato ad alta tensione per morire fulminata. Rivette, con enfasi da crociato del rigore, in un articolo in-

titolato niente po’ po’ di meno che “Dell’abiezione”, pubblicato nel numero del giugno 1961 dei “Cahiers”, accusava Pontecorvo di aver fatto questo carrello “per inquadrare il cadavere dal basso verso l’altro, avendo cura di portare la mano alzata [della povera Riva, n.d.r.] esattamente in un angolo dell’inquadratura”, e aveva deciso che per questo meritava “solo il più profondo disprezzo”. Dello stile rivettiano meglio non parlare. Per capire invece quanto valide e serie siano le argomentazioni “tecniche” di Rivette basterà dire che questa inquadratura dal basso verso l’alto non esiste, e che il carrello è perfettamente orizzontale. Il resto si commenta da solo. Eppure, trentun anni dopo, il giudizio di Rivette è riapparso, come in quel fenomeno che si chiama “il vomito dei ghiacciai”, in un saggio pubblicato in Lo sguardo ostinato di Serge Daney, il critico dei “Cahiers” prematuramente scomparso, che si vanta, chissà perché, di non aver mai visto né “loscuro” Kapò, né altri tre grandi film - Ottobre di Ejzenstejn, Alba tragica di Carné e Bambi —, ma di essere convinto di quanto diceva Rivette: “Appena terminai di leggere queste parole seppi che il loro autore aveva assolutamente ragione” . Ed è inutile dire che immediatamente dopo due esponenti della critica italiana (del gruppo, dice Gillo, dei “diversi da tutti”, o anche degli “intelligenti a tutti i costi”) sono saltati festanti sulla polemica. Gillo non si è adombrato dell'attacco di Rivette allora, né si è adombrato più che tanto del recente attacco italiano, al quale non ha neppure risposto, limitandosi a far vedere in moviola a un gruppo di amici — tra cui chi scrive —- il pezzetto di film incriminato. Da cui si scopre quanto sia pretestuosa l'accusa che gli è stata mossa, di aver cioè fatto un carrello avanti, mostrando,

per “abietto” gusto formalistico, la suicida aggrappata alla rete “con la mano ben piazzata in alto a destra del fotogramma ”. Non fosse altro perché, guarda caso, quella parte del fotogramma è perfettamente vuota. Cosa dice al proposito Gillo? Che il brevissimo, famigerato carrello da una parte gli è servito per avvicinarsi al volto della sui116

cida e poter così comunicare più fortemente l'emozione che lui e tutta la troupe avevano sentito fin dalla prima prova della scena, per merito dell’interpretazione estremamente intensa della Riva. Dall'altra parte, essendo leggermente in diagonale, il carrello serviva a modificare l'angolo dell’inquadratura, così il corpo della morta si trova un po’ scentrato verso la sinistra del fotogramma, lasciandone libero il lato destro (quello dove secondo i nostri due critici si troverebbe invece la mano “decorativamente ben piazzata della Riva”) e permettendo così di vedere un

gruppo di deportate spinte da una kapò, che passano e gettano uno sguardo su quella ennesima drammatica morte - uno sguardo che esprime sì dolore, ma

come

attutito da una tragica as-

suefazione. Questa terribile trasformazione della sensibilità tipica dell’universo concentrazionario — mutuata dall'esperienza di Primo Levi, al cui libro gli autori di Kapò si sono molto ispirati — era per Gillo uno dei punti più importanti della scena. “Come si vede, siamo ben lontani dalla estetizzazione del dramma di cui straparlano gli epigoni italiani di Daney.” Anche se può darsi, dice Gillo, che fosse l’illusione di un regista al secondo film quella di credere possibile esprimere in pochi secondi l’assuefazione al dolore e alla morte. Ma certo è assurdo parlare di questa scena come di una cosa “abietta”. Anche perché, per capire le intenzioni dell’autore, sarebbe stato sufficiente che quei critici di biblica severità avessero guardato la scena che viene pochi minuti dopo quella del suicidio di Emmanuelle Riva. Una scena che, proprio per ribadire la terribile realtà di questa assuefazione, mostra la reazione quasi im-

percettibile di alcuni deportati di fronte al rimbombo di una scarica di mitra che non vediamo, che solo sentiamo, e che annun-

cia come a pochi metri sia stato ucciso un altro loro compagno.

117

Capitolo settimo Nel sia per me,

quale si racconta come Gillo, dopo molte difficoltà, si buttato in un'avventura eccitante e complicata che finì diventare uno dei grandi film epici di tutti i tempi. Coper fare quello che sarà La battaglia di Algeri, abbia

investito dei soldi che non aveva, abbia lavorato con una

troupe ridottissima, abbia vissuto faticosamente nell'’atmosfera eccitante dell'Algeria liberata. Come sia ritornato in patria dopo quattro mesi di grandi fatiche e sia stato premiato, contro tutte le sue aspettative, da un Leone d'oro a Venezia — mentre stava diventando padre per la seconda volta.

“Siamo nel 1960,” racconta Gillo. “Un giovane francese della borghesia bene, bello, intelligente, raffinato, a suo agio a Chamonix sugli sci come nei night di Saint-Tropez, giornalista a ‘Paris-Match', fotografo per hobby, ex paracadutista in Indocina, si prepara ad andare in Algeria a fare un servizio per il suo giornale. Ma non vuole fare il solito pezzo sui tanti cadaveri che in quel periodo durissimo così spesso si trovavano per le strade. Vuole cogliere la situazione nel momento più caldo, vuole vedere lo scontro mentre sta accadendo. ‘Se c'è un attentato voglio fotografare la vittima che sta crollando e il giustiziere con la pistola ancora in pugno.’ Così il giovane francese, che ha un contatto con un membro dell’Oas [l’Organisation de l’armée secrète], cerca di

convincerlo a portarlo con sé quando la sua organizzazione prepara una delle sue azioni. Ma per quanto sia un folle estremista di destra, l’uomo, che ha una sua perversa moralità, si rifiuta. E

il giornalista-playboy in cerca di scoop si butta a intrigare nei giri più loschi della destra di Algeri per trovare qualcun altro che lo prenda con sé durante un'azione e gli permetta lo scoop di riprendere la morte al lavoro...” La geografia del mondo all’inizio degli anni sessanta è agitata e sconvolta dalla lotta anticolonialista — a Cuba e in Algeria, in

Congo e in Vietnam. Il 1° luglio 1962, dopo otto anni di guerra e di guerriglia, l'Algeria costringerà la Francia alla “resa” e si proclama indipendente. È la vittoria di un popolo contro una potenza coloniale, il trionfo di una nazione che nasce dalla rivolu-

zione vittoriosa contro il dominio europeo. E Gillo Pontecorvo e Franco Solinas, affascinati dagli eventi e dalle loro implicazioni

ideologiche, convinti che la lotta anticolonialista sia un tema ur118

gente e importante, quasi uno stimolo e un modello per la lotta politica contro “un capitalismo imbattibile in patria” (è Solinas a parlare così in una storica intervista), buttano giù, sulla base di un racconto di Franco, la sceneggiatura di un film che dovrebbe chiamarsi “Parà” - dalla biografia del protagonista, che, come abbiamo raccontato con l’aiuto dei ricordi di Gillo, è un ex pa-

racadutista. Il protagonista doveva essere Paul Newman. Il produttore era ancora Franco Cristaldi, che ci teneva molto a lavorare con la coppia Pontecorvo-Solinas. E il film, seguendo questo filo narrativo, avrebbe raccontato la lotta degli algerini per l'indipendenza. Franco e Gillo fecero un avventuroso viaggio nell’Algeria ancora in guerra, con tanto di assicurazione sulla vita e false tessere da giornalisti. I due amici arrivarono nella bellissima e tormentata Algeri ancora francese. Scesero all’Hétel Aletti, un grande edificio fin-de-siècle che in quegli anni era stato la base di tutti i giornalisti che seguivano la situazione algerina, tra cui Bernardo Valli e Sergio Zavoli, con cui Gillo e Franco entrarono subito in confidenza. Erano gli ultimi mesi del conflitto che opponeva il Fronte di liberazione nazionale all’esercito francese, e si stavano perfezionando gli accordi che avrebbero portato prima al cessate il fuoco, nel marzo del ’62, e poi al trattato di Evian, il 18 mag-

gio. Anche per questa relativa tranquillità, i contatti che Gillo e Franco avevano con l’FIn permisero loro, con le precauzioni del caso, di avvicinare la gente e di esplorare anche le zone in cui infuriava la guerriglia. A documentare questo primo viaggio avventuroso e difficile c'è una storica fotografia, che mostra Gillo Pontecorvo sullo sperone di roccia di una collina insieme a due partigiani dell’Fln mentre sotto, a poche centinaia di metri nella pianura, si vede un campo militare francese con i soldati

che, in uno spiazzo circondato di autoblindo, giocano a pallavolo davanti alle tende, inconsapevoli del fatto che avrebbero

potuto essere falciati dai mitra dei due algerini che accompagnavano i cineasti italiani. Il film però non si fece mai —- o almeno non si fece “Parà”. In Francia era il periodo più duro del terrorismo dell’Oas, che con

le sue azioni terroristiche stava facendo di tutto per impedire o quanto meno rallentare il processo di liberazione algerino. Franco Cristaldi, commenta ora Gillo, non ci teneva particolarmente a diventare il bersaglio privilegiato di quei pazzi che mettevano bombe ovunque gli sembrasse opportuno nel tentativo di conservare un dominio ormai condannato dalla storia. Dopo un po’, vennero educatamente messe in campo da Cristaldi una serie di 119

scuse e di difficoltà. Ma la vera ragione, inequivocabilmente, era quella. Tutto fu rinviato a un momento più conveniente. Poi, un bel giorno del 1964, due anni dopo il referendum che

aveva decretato l’indipendenza algerina e gli accordi di Evian che l'avevano sancita, arrivò in Italia dall’Algeria Salah Baazi. “Uno che fabbricava bombe,” sintetizza Gillo, “e che regalava culle”: la culla che fu di Ludovico, il figlio maggiore di casa Pontecorvo, che fu poi usata da Marco, il secondogenito di Gillo, e che è ora

il lettino di Livia, la bambina di Marco. Baazi veniva a nome di Jacef Saadi, che era stato il capo militare del Fronte di liberazione nazionale nella Zona autonoma di Algeri ed era giunto in Italia — un paese considerato amico, anche per l'appoggio dato all’Algeria da Enrico Mattei, allora a capo dell'industria petrolifera italiana — in cerca di un regista disposto a girare un film sul-

la lotta per l'indipendenza algerina. Aveva in testa tre nomi, tutti, com'è ovvio, di registi “di sinistra”: Rosi, Visconti e Pontecorvo. Ma Rosi stava girando // momento della verità, e sarebbe stato impegnato a lungo. Con Visconti non gli riuscì di mettersi d'accordo. Gillo cercò di proporre a Baazi il copione di “Parà”, anche perché il soggetto scritto dagli stessi ex combattenti portato dall’algerino era, dice, “da un punto di vista cinematografico, una cosa piuttosto brutta, anzi, diciamo la verità, spaventevole, tanto smaccato era l’intento propagandistico”. A Baazi sembrava in compenso che “Parà” trattasse il colonialismo da una prospettiva europea e che, in definitiva, non raccontasse con sufficiente profondità la rivoluzione algerina. Gillo rifiutò, senza la minima esitazione, ma si lasciarono con un'intesa: niente fretta, ci date carta bianca, noi riscri-

viamo tutto, ci mettiamo il tempo che ci mettiamo, anche sei mesi, anche un anno, ma vi proponiamo sullo stesso tema un altro soggetto e un’altra sceneggiatura. Correvano volentieri il rischio di lavorare per nulla — nel caso il copione non fosse piaciuto agli algerini. In compenso l’FIn doveva aiutare Pontecorvo e Solinas a trovare i contatti con i protagonisti storici

e doveva consentire

loro di organizzare un nuovo viaggio esplorativo in Algeria. Durante tale viaggio Gillo e Franco registrarono i resoconti di molti testimoni e protagonisti della guerra. Poi andarono a Parigi, intervistarono numerosi paracadutisti tra cui anche alcuni alti ufficiali, raccolsero chili di materiale, studiarono, lavoraro-

no. I mesi passavano. Ma i due amici uscirono da questa complicata gestazione con un approccio assolutamente originale. La storia eroica e agiografica che gli algerini avevano proposto fu ribaltata e imprevedibilmente divenne la storia di una sconfitta. Il 120

momento più affascinante, importante e decisivo della guerra d’Algeria, quello che commuoveva ed eccitava la fantasia di Gillo e di Franco, era la nascita, la crescita e il crollo dell’organiz-

zazione dell’FIn ad Algeri tra il 1954 e il 1957 - un momento che era già diventato storia e leggenda con il nome di “Battaglia di Algeri”. Perché quel crollo, e la vittoria che invece alla fine arrivò, erano per Solinas e Pontecorvo la prova paradossale dell’ineluttabilità del processo di liberazione nel mondo intero: dopo due anni di silenzio, infatti, il fiume sotterraneo della rivoluzione algerina aveva ripreso a scorrere, a combattere, fino al successo fi-

nale. In particolare, Gillo era affascinato dalla possibilità di raccontare il momento dello sciopero generale indetto dall’Fln nel 1957, che gli permetteva di ricreare cinematograficamente qualcosa che faceva parte dell’esperienza da lui vissuta durante la Resistenza e che continuava a toccarlo profondamente: la coralità della lotta, i sentimenti e le emozioni provati all'unisono da una

massa di uomini, l'entusiasmo della battaglia collettiva. Era come filmare la nascita di una nazione, racconta Gillo nella sua lunga intervista a Piernico Solinas (niente a che fare con Franco) che accompagna il testo della sceneggiatura pubblicata in America. Per questa ragione per un attimo il film rischiò di chiamarsi “Tu partorirai con dolore” - dove “tu” era la neonata nazione algerina che partoriva la propria libertà. Alla fine si chiamò così come era noto in Europa l'episodio storico: La battaglia di Algeri. Ma il film stentava a partire, e non solo per i lunghi tempi di studio e di scrittura della sceneggiatura. I soldi messi a disposizione dagli algerini attraverso la Casbah Film di Saadi - metà privata, metà dello stato - coprivano meno del cinquanta per cento del costo preventivato. E il progetto come si era sviluppato non

interessava ai produttori italiani: non tanto per ragioni politiche, come sarebbe più facile pensare, ma perché “nessuno si interessa agli arabi”, perché nessuno si interessa “ai neri” (e Gillo a spiegare che gli arabi non erano neri...), perché il film non era abbastanza “di fiction”, perché Gillo si ostinava a non voler usare

attori professionisti - un insieme di scelte che significava incassì zero.

Angelo Rizzoli, a cui si rivolse, gli contropropose di scegliere tra i copioni che aveva sul tavolo o tra i romanzi di cui aveva i diritti quello che più gli interessava, avrebbe fatto qualsiasi film con lui, tranne La battaglia di Algeri, per carità. Per La battaglia e “proprio perché sei tu” gli offriva come minimo garantito un contributo-contentino di quarantacinque milioni di allora. Gillo decise di fare da solo. Aveva da parte un po’ di soldi guadagnati con Kapò e decise di rischiarli. Firmò un bel po’ di cambiali (adesso 121

calcola con sgomento e con stupore che doveva trattarsi di qualcosa come due o tre miliardi). Trovò, fuori dai consueti circuiti

dei soliti produttori, un altro ardimentoso nella persona di Antonio Musu, un tipo entusiasta che fino ad allora aveva fatto il direttore di produzione, e con lui si preparò a coprire, rischiando in proprio, il 55 % del costo del film. Quello che Gillo e Franco volevano raccontare non era semplicemente un momento della lotta di liberazione algerina. Né volevano fare un manuale cinematografico delle tecniche della guerriglia urbana - come pure La battaglia di Algeri è stato visto da taluni, al punto da essere studiato proprio per il suo verso didattico dalle Black Panthers. Una volta Gillo definì polemicamente A/geri “un film di fiction” — cosa che il film, scritto e girato sotto quella che Gillo definirà “la dittatura della verità”, certamente non era, almeno non in senso tradizionale. Era, appun-

to, un'etichetta polemica per reagire “a quei pochi cretini” che etichettavano riduttivamente il film come un documentario. Pontecorvo e Solinas, che avevano letto con passione gli scritti di Franz Fanon, volevano raccontare, attraverso il suo episodio cru-

ciale, una guerra di indipendenza che allora si proponeva per tanti paesi del Terzo mondo come il modello di un processo di libe-

razione dal colonialismo. Ma la scrittura del film, come abbiamo già accennato, fu lun-

ga e faticosa. Jacef Saadi, che aveva raccontato la sua esperienza di leader della guerra di liberazione nel libro Souvenir de la bataille d'Alger e che aveva deposto il mitra a favore della penna, ben volentieri accettò la proposta di Gillo di interpretare il ruolo del comandante della Zona autonoma di Algeri - e cioè di se stesso. Un’'identificazione che poteva essere rischiosa, almeno dal punto di vista dei rapporti con il regista. Infatti Gillo esitò molto prima di fare questa scelta, e alla fine si decise soltanto perché in effetti Jacef Saadi aveva una faccia molto interessante, era “una specie di Paul Muni da giovane”, e nei provini che gli aveva fatto se la cavava discretamente. La stesura della sceneggiatura si concluse nell'estate del 1965. E la lavorazione del film— che sarebbe durata quattro mesi e tre giorni - cominciò subito dopo nei luoghi dove si erano veramente svolti gli eventi. Il governo di Boumedienne, al potere da un mese dopo un colpo di stato che aveva messo da parte Ben Bella, non solo accordò tutti i permessi necessari per girare ad Algeri, ma mise a disposizione anche i suoi soldati - benché non totalmente gratis — per le scene di massa. La città si offrì a Gillo e alla sua troupe come un immenso set popolato di facce interessanti tra le quali venivano scelte le comparse e i piccoli ruoli. Gillo era da poco padre. E voleva con sé la famiglia. Ragion 122

per cui, dopo poche settimane che era in Algeria, alla fine di luglio del 1965, ecco sbarcare dall’A/gérie, una nave che copriva la tratta Marsiglia-Algeri, una Fiat Milletré grigia prestata dal papà di Picci, la stessa Picci, stravolta dal viaggio con un poppante, il suddetto poppante, Ludovico, che su quella nave aveva fatto i suoi primi passi doppiamente traballanti, la tata italiana, che aveva accettato di fare una trasferta di due settimane per collaborare al trasloco dei Pontecorvo, e un gommone di cui sembrava che Gillo, maniaco del mare, non potesse fare a meno neanche mentre si occupava della rivoluzione algerina: uno Zodiac regalo dell'amico Chroscicki, ormai divenuto produttore, che così ringraziava dei soldi prestatigli da Gillo inun momento particolarmente duro della lavorazione di L'ape regina. Al porto, ad accogliere Picci ormai vicina al collasso, c'era Gillo, con il copione di La battaglia di Algeri sotto il braccio. Un copione che, visto il tema, la produzione voleva tenere top secret — l'’Oas non scherzava, e non esitava a far fuori, in Francia come in

Italia, chiunque avesse un comportamento apertamente ostile nei suoi confronti. Accadde però che nella confusione dello sbarco, mentre Gillo aiutava sua moglie a portare bambino, tata e bagagli nell’appartamento che aveva trovato a due passi dal porto, la segretissima sceneggiatura venne momentaneamente appoggiata su una macchina parcheggiata sotto casa. Quando Gillo se ne ricordò, mezz'ora dopo, era troppo tardi. La macchina era sparita con il copione — di cui (con un piccolo ma non tragico strascico di polemiche) due settimane dopo vennero pubblicati ampi stralci da un giornale di destra francese, a cui era stato fatto pervenire da qualcuno meno distratto di Gillo. Danni più grossi, a parte un bel po’ di preoccupazione, non ce ne furono. La famigliola si installò dunque nel grande e un po’ cupo appartamento di boulevard Carnot, nella città “europea”, lasciato libero per due mesi da un funzionario francese che stava rientrando in patria dall’Algeria. E con la casa Gillo e Picci ereditarono anche Zora, una vecchia algerina dai veli bianchi e dal volto tatuato, che con il suo folklorico mistero suscitò all’inizio la

loro diffidenza (di cui adesso un po' si vergognano), per rivelarsi poi una persona ricca di calore e di umanità. Ma per l’ardimentoso Ludovico, che trotterellava di qua e di là per gli anfratti e gli angoli misteriosi della vecchia casa, la povera Zora non aveva energie sufficienti. E così, mentre Picci cercava il suo ruolo nella lavorazione del film, cominciò a sfi-

lare per boulevard Carnot una teoria di baby-sitter. Per prima la belga Axelle, così dolce, così carina, così europea, molto po123

liticizzata. Picci e Axelle portavano il piccolo Ludovico alla El Ke Tani, una piscina sul mare scovata da Gillo, perfetta per mitigare la calura dell’estate algerina. Il bambino, grassoccio e buonissimo, se ne stava seduto a bagnomaria nella vasca per i

piccoli, morendo di noia. Così visibilmente annoiato che il bagnino algerino continuava a insistere con Picci che era venuto ormai il momento di buttare Ludovico nella piscina dei grandi. Picci resisteva, spaventata all'idea. Fino a che una domenica il bagnino ci riprovò con Gillo. E Gillo, incuriosito dall’esperimento e incurante del terrore di Picci, decise che non era una

cattiva idea. Ludovico fu gettato: e riemerse nuoticchiando felice come un cagnolino. Da quel momento, una serie di segnali fecero capire che il piccolo Pontecorvo era un animale marino, o per lo meno anfibio. Quel tuffo fu un vero imprinting: qualche anno dopo, in una piscina olimpionica di Fregene, Franco

Solinas, convinto che il piccolo non l'avrebbe mai fatto, sfidò per scherzo Ludovico, che allora aveva quattro anni, a buttarsi dal trampolino alto otto metri. Il piccolo ci pensò su meno di un secondo. Si arrampicò. E si tuffò di testa — senza danni. Quella volta, per fortuna, Picci non c'era. Ma nel 1965, ad Algeri, Ludovico si ritrovò protagonista di un'avventura più inquietante. Un pomeriggio Gillo, che aveva lasciato il set prima del tempo, vide improvvisamente dall'altra parte della strada Axelle con il bambino in braccio. Tutto bene,

se non fosse che, in quei giorni agitati dopo il golpe di Boumedienne, i due si trovavano in una zona della città vicino alla Casbah in cui non avrebbero dovuto essere, almeno secondo i prudenti programmi di Picci. E lo sbalordimento di Gillo fu assoluto quando vide Axelle infilarsi, sempre con Ludovico in braccio, in un locale che, seppe quella sera da amici algerini, era il centro clandestino di incontro dei sostenitori dell’appena deposto Ben Bella. Exit (ovviamente) dalla scena di casa Pontecorvo la pasiona-

ria Axelle. Ed entra in scena Berta, una bellissima ragazza algerina che era stata appena ripudiata dal marito, malinconica ma

gentilissima, con cui Ludovico era molto felice. Tanto felice che Picci cominciò a lavorare anche lei sul set del film, con il vago

ma indispensabile ruolo di tappabuchi che hanno in questi casi le mogli. Quando arrivò il momento di lasciare boulevard Carnot e di traslocare nella nuova casa di Areohabitat — in alto, sopra il sottopassaggio che si vede anche in La battaglia di Algeri — Picci annunciò a Berta che la notte precedente il trasloco aveva pensato fosse meglio per tutti se loro tre Pontecorvo fossero andati a dormire in albergo. E così fece, regalandosi una notte all’ele124

gantissimo Saint-Georges, il grande albergo di Algeri, in vista della sfacchinata dell’indomani. Ma il giorno dopo Picci si svegliò nel suo elegante letto del Saint-Georges con la febbre altissima — e senza Berta che, non si

capisce per quale ragione, non si fece vedere mai più. Fu, quella, l'occasione del debutto di Ludovico sul set. Stavano girando nel carcere di Barberousse — la terribile prigione in cui avevano trovato la morte tanti resistenti algerini — la scena in cui un patriota dell’Fln viene mandato alla ghigliottina. Nel suo ruolo provvisorio di baby-sitter, Gillo, che doveva comunque girare quella scena drammaticissima, non trovò di meglio che sistemare Ludovico in una specie di gabbia improvvisata dai tecnici del set con delle assi di legno a pochi metri dalla famigerata ghigliottina, un po’ per impedirgli di gattonare di qua e di là, un po’ per difenderlo dai toponi che infestavano la prigione. E lì Ludovico venne rimesso ogni mattina per tutti i cinque giorni che durò il febbrone di Picci, senza danni psicologici (almeno non visibili). Gillo aveva pazientemente scelto i centotrentotto volti che compaiono nel film. E per una volta riuscì ad avere un cast tutto preso dalla strada. O quasi. Jacef Saadi, come si è detto, ricopriva nel film il ruolo di Djafar, alias Kader, il comandante dell’Fln, e cioè di se stesso: e, come era prevedibile, interpretare se stesso gli causò qualche problema. Succede a chiunque. A maggior ragione capitava a Jacef, un vero mito per gli algerini, che, dice Gillo, era come ingessato dalla comprensibile preoccupazione di danneggiare in qualche modo la propria immagine. Tanto più che Gillo esigeva da lui come dagli altri un tipo di recitazione senza ridondanze né orpelli, impostata semmai sull’understatement. E così, alle volte,

Jacef aveva l'impressione che si stes-

sero diminuendo la gloria, lo smalto e l’autorità della sua figura di capo rivoluzionario. Ma non ebbe dubbi, invece, sul risultato

finale. Delle tre donne che, in uno degli episodi centrali della storia, escono dalla Casbah portando le bombe per altrettante azioni terroristiche nell’Algeri “bianca”, una era stata avvistata da Pontecorvo in un ristorante. Ma c'era voluto un delicato lavoro diplomatico per parlarle, perché nonostante la liberazione e la rivoluzione le donne algerine continuavano a vivere in una società molto rigida, e non potevano essere avvicinate liberamente. Le altre

due erano state trovate da Gillo “per strada”, e non per modo di dire, perché una era effettivamente una prostituta: e a questa, che era molto giovane e aveva un faccino tenero e pulito, fu fatto interpretare il ruolo della sposa bambina di uno dei combattenti dell’Fln. Quanto al piccolo Omar, il guerrigliero di dieci anni che 125

in una scena di sconvolgente emozione prende il microfono per arringare la folla dopo lo sciopero, era il nipotino di Jacef Saadi. Giornalisti e soldati francesi erano interpretati da turisti di varie nazionalità — in particolare, per i parà, erano stati assoldati per la loro statura e prestanza fisica alcuni turisti anglosassoni in circolazione per la città. Brahim Haggiag, che interpreta il ruolo di Ali La Pointe — il mezzo delinquente che diventa l’eroe e la vittima della lotta di liberazione, una delle due anime della battaglia di Algeri —, aveva uno splendido volto drammatico, ma era un povero contadino analfabeta pescato da Gillo in un miserando mercato della città e non aveva la più pallida idea di cosa fosse il cinema (e sarà guidato passo passo nella recitazione, come succederà più tardi durante la lavorazione di Queimada a Evaristo Marquez, con una serie di segnali convenzionali e riducendo al minimo la necessità di memorizzare la parte). Il poveraccio della prima sequenza, che sotto tortura rivela ai francesi il nascondiglio di Ali, era stato anche lui avvistato e scelto da Gillo in un mercato. Ma il giorno prima delle riprese si era fatto beccare dalla polizia mentre tentava di rubare ed era stato arrestato. Per riaverlo Gillo, che teneva particolarmente a quella faccia, dovette andare a parlare col viceministro degli Interni, il quale gli “prestò” il ladruncolo per la durata delle riprese — con l'accordo che alla fine del film il neoattore sarebbe dovuto tornare in prigione a scontare la sua pena. L'unico professionista era Jean Martin, che Gillo scovò in un teatrino di Parigi. Era alto, imponente e molto bravo. E, cosa an-

cora più importante, malgrado facesse il suo mestiere da parecchi anni, la sua faccia non era molto conosciuta fuori dal circuito teatrale. Quella di Martin, infine, era una scelta involontaria-

mente ironica: l'attore era stato uno dei firmatari del manifesto dei 121 che si opponeva alla guerra di Algeria, e per questa sua posizione aveva incontrato non poche difficoltà sul lavoro. A Gillo sembrava perfetto. Ma per un attimo, quando si trattò di girare la scena dei parà che entrano ad Algeri scendendo in geometrica, impressionante formazione lungo rue Michelet, tra due ali di folla, di fronte al suo Mathieu - come si chiamava nel

film il personaggio del colonnello che comandava i parà ad Algeri, ispirato al vero colonnello Massu -, Gillo fu preso dallo sgomento. Fuori dal teatrino di Parigi, in mezzo ai suoi parà, Jean Martin, nonostante tutte le mostrine previste dal suo costume e gli occhiali neri che gli erano stati imposti per togliergli una certa aria bonaria, aveva un aspetto decisamente borghese e non militare. Peggio, mancava di grinta. Bisognava trovare una soluzione e alla svelta, perché quella scena, che stava bloccando l’intera Algeri e per la quale erano sta126

te convocate masse di comparse, non si poteva ripetere. Gillo aveva già cominciato a dire che la figura di Mathieu era troppo importante, che era meglio rinviare la scena, che non gli importava nulla delle comparse e di rue Michelet... Fu allora che il buon Musu gli si avvicinò sussurrandogli una frase che alle orecchie dei presenti doveva suonare alquanto misteriosa: “Mi raccomando, non scinderti troppo”. Misteriosa ma, contro le apparenze, non fantascientifica. Era

successo che un anno prima, quando Gillo aveva offerto a Antonio Musu di produrre con lui La battaglia di Algeri, dividendo costi e rischi, gli aveva anche annunciato che in lui, quando si fosse trovato sul set, produttore e regista spesso si sarebbero scissi, che sarebbe tornato a essere solo il regista del film, e che, in parole povere, in molte occasioni avrebbe dimenticato completamente di esserne allo stesso tempo il coproduttore. “Ti preannuncio anche,” aveva precisato con una garbata minaccia, “che questo accadrà ogni volta che le esigenze della regia entreranno in urto con quelle della produzione.” Ecco perché, quando questo accadeva, Musu puntualmente lo supplicava: “Non scinderti troppo...”. Per non scindersi troppo e non rinviare la scena, dunque, la prima idea che venne a Gillo di fronte al sole che stava calando

e al suo Mathieu non abbastanza

marziale, fu di imbottirgli le

spalle con dei fazzoletti racimolati in tutta fretta sul set: tra cui quello di Musu. “Ma è sporco,” protestò imbarazzato il gentilissimo signore. “E chi se ne frega,” abbaiò sgarbatamente Gillo, che in quel momento stava seguendo la raccomandazione dell’amico, aveva smesso di scindersi e stava ritornando anche produttore. L'idea funzionò. Quelle spalline improvvisate che cambiavano le proporzioni della figura di Martin fecero la differenza: Mathieu era di nuovo un militare.

La troupe italiana era piccola: solo nove persone, tra cui il di-

rettore della fotografia Marcello Gatti, l'immancabile amico-aiu-

to Giuliano Montaldo e lo scenografo Sergio Canevari, che ricostruì la casa di Ali La Pointe esattamente nel luogo dove sorgeva prima che le bombe francesi la facessero saltare per aria insieme allo stesso Ali — e la ricostruì in polistirolo come tutte le altre costruzioni della sua Casbah, facili da distruggere senza rischi per le grandi masse di comparse e di attori che erano sempre in scena. Gli altri tecnici - che tecnici ancora non erano - venivano da Algeri. Gillo, in sintonia con il governo algerino, pensava che in corso d'opera avrebbero imparato a fare il cinema. Qualcuno ci riuscì: per esempio Ali Maroc, che grazie a La battaglia di Algeri e alla scuola di Marcello Gatti divenne un abile direttore della fo127

tografia. In qualche caso fu impossibile: e dopo un mese di confusione assoluta, fu necessario far venire da Roma almeno una segretaria di edizione che sapesse il suo mestiere e che fu l'amica di sempre Anna Maria Montanari. Ma tutto contribuì a contenere il budget del film entro gli ottocentomila dollari: pochi, per un film con grandi masse, anche se a conti fatti il costo finale si aggirerebbe oggi attorno ai quattro o cinque miliardi. La sceneggiatura era stata scritta in cinque mesi di discussioni, ripensamenti, dosaggi difficili, alla maniera tipica della squadra Pontecorvo-Solinas, e con in più il problema di tener conto, per quanto possibile, anche dei desideri, delle esperienze personali e dei “messaggi” più o meno insistenti degli amici algerini. Ma una volta che fu completata, non intervenne più nessun mutamento. E se qualche mutamento c’è stato, lo si deve all'intervento della realtà - 0, qualche volta, a un'improvvisa ispirazione musicale. Su una scena, in particolare, Gillo e Franco non si erano tro-

vati d'accordo e avevano rischiato uno dei loro celebri scontri. Quella, cui accennavamo prima, in cui le tre donne algerine che lavorano per l’Fln devono travestirsi da europee per superare il blocco dei soldati che chiudono la Casbah e andare nel centro della città a piazzare tre bombe. Gillo non era convinto del dialogo, o meglio del clima che quel dialogo creava: le tre, mentre si pettinavano e si vestivano, scherzavano tra di loro, in un'atmosfera molto, troppo femmini-

le. Soprattutto, sembrava a Gillo che quel dialogo, per quanto

brillante e divertente, rovinasse un momento di altissima tensio-

ne. E, sul punto di ma. Dramma che na — e quella non neggiatura - non cosa fare.

girare, scoppiò (le parole sono di Gillo) il dramlui riassume così: quando non sento una scela sentiva già in fase di costruzione della sceso neppure dove mettere la macchina, non so

Il tempo correva (e con esso il denaro),

e montava il nervo-

sismo. Franco era venuto incontro ai dubbi di Gillo sulla scena riscrivendo il dialogo varie volte prima che iniziasse il film, ma lui stesso non era poi così certo del risultato finale. Oltretutto era un dialogo pieno di sfumature, difficile per attrici non professioniste. “Era ormai l’una,” ricorda Gillo. Sul set c'era quell’imbaraz-

zante assoluto silenzio che si crea quando la troupe sente che il

regista non sa che pesci pigliare (e non sa quanto pesi sul pove-

ro regista quel terribile silenzio). “I minuti passavano, ma im-

provvisamente mi ritornò in mente una musica che avevo senti-

to e registrato: un ‘baba saleem’, e cioè la musica tipica dei men128

dicanti arabi, che la eseguono con una musica che assomiglia molto zione ai problemi della scena, alla sua tensione — intuì Gillo — era quel na musica.

un tamburo e delle nacchere, al battito del cuore.” La solusua difficoltà psicologica, alla battito di cuore in quella stra-

Dal set mandò di volata il suo aiuto in albergo, per recuperare la cassetta. Lo riascoltò davanti a tutti. Era deciso: il dialogo sarebbe sparito del tutto. Come sarebbe successo più tardi anche durante la lavorazione di Queimada, questa volta grazie a una cantata di Bach, la musica del “baba saleem” e il suo ritmo risuonarono sul set durante tutte le riprese della scena, riducendo all'osso e drammatizzando al massimo i gesti e gli atteggiamenti delle donne, che mentre si tagliano i capelli, mentre si vesto-

no, mentre si calano nella loro nuova identità di europee, si scambiano solo delle occhiate cariche di tensione. Poi escono, un gio-

vane operaio di guardia rivolge loro un impercettibile cenno di saluto e di augurio — un cenno cui Gillo teneva moltissimo perché, secondo lui, in un attimo, soprattutto se sottolineato dal “bat-

tito del cuore”, comunicava l’idea e il calore della solidarietà nella lotta —, mentre sullo sfondo si intravede la città dove stanno per dirigersi per la loro missione di guerriglia urbana. La scena, ricorda Gillo con soddisfazione, è stata risolta e rivoluzionata da questa scelta. Ma in tutto il film la musica ha un'importanza determinante. E se all’inizio risuonano alcune note della Passione secondo Matteo di Bach, se la scena della tortu-

ra è accompagnata da un corale di ispirazione gregoriana scrit-

to da Ennio Morricone, il brano più noto del film, anche se “mu-

sicalmente molto elementare”, dice ora Gillo, è il leitmotiv di Ali La Pointe:

un tema

evocativo

e suggestivo

che,

al contrario

del

“baba saleem” delle tre donne, venne composto solo poche settimane prima che il film — la cui musica è firmata anche da Gillo — venisse presentato a Venezia. Accadde che, tornati

a Roma, Pontecorvo si mise a lavorare

con Morricone sulle musiche che ancora dovevano essere scritte. Ma a Gillo non piaceva quello che gli proponeva Ennio e a Ennio non piaceva quello che fischiettava Gillo. Ma ormai erano, come si dice nel calcio, in zona Cesarini: per finire il montaggio

serviva un tema

che convincesse

tutti e due.

Una

notte, final-

mente, Gillo ebbe l'ispirazione. Registrò subito su un magnetofono l’idea musicale che finalmente gli piaceva. E al mattino prestissimo telefonò a Morricone preannunciandogli che credeva di aver trovato il tema giusto, che sarebbe stato subito da lui per farglielo sentire. Gillo arrivò in un baleno a casa di Ennio, e salì le scale tutto 129

giulivo continuando a fischiare il suo tema. Ennio lo accolse dicendo che era davvero curioso, ma anche lui credeva di aver finalmente trovato il tema “che fa per noi”. Si mise al piano e cominciò a suonare esattamente la melodia di Gillo, che, sbalordi-

to, non credeva alle sue orecchie, e chiamò in soccorso anche Maria, la moglie di Ennio. “Senti,” disse, “sono assolutamente identici, prendi il registratore e ti faccio sentire.” “Effettivamente,” disse Ennio dopo l'ascolto della bobina, “sono proprio simili.”

Anche Maria era d'accordo, mentre Ennio, olimpico, senza che un solo muscolo della faccia lo tradisse, sostenne che in fondo

era normale, che dopo un mese passato a parlare di cosa dovesse essere e cosa dovesse significare questo tema, evidentemente lui e Gillo erano ormai sulla stessa lunghezza d'onda. “Lunghez-

za d’onda un corno, queste sono le stesse note,” protestava Gillo, che continuava a non capacitarsi. Arrivò persino a pensare alla

trasmissione del pensiero — ma non gli veniva in mente l’unica spiegazione razionale, cioè che aveva salito le scale fischiettando il suo tema, e che questo era più che sufficiente per un mostro musicale come Morricone. Ennio tenne duro. Ma quando il Nostro se ne fu andato scuotendo perplesso la testa di fronte all’insolubile mistero, telefonò a Picci dicendole che avrebbe rive-

lato la verità a Gillo, come regalo, nel caso avessero vinto qualche premio a Venezia. E fu così infatti che durante la conferenza stampa dopo l’assegnazione del Leone d’oro a La battaglia di Algeri, Ennio mantenne la promessa raccontando ai giornalisti, tra il divertimento generale, la storia del fischiettio e del motivo

che era diventato il tema di Ali La Pointe.

Ma torniamo ad Algeri. Gillo in gioventù era stato anche fo-

tografo (ricordate?). E già ai tempi di Kapò, con tutti i suoi mar-

chingegni e le sperimentazioni condotte grazie alla collaborazione di Gatti e di Di Palma alle spalle dell’inconsapevole direttore della fotografia iugoslavo, era riuscito a ottenere qualcosa cui teneva moltissimo: una qualità assolutamente particolare della fotografia, una grana da newsreel, un impasto visivo da reportage che gli serviva per accrescere il senso di verità del suo film. A maggior ragione gli stava a cuore trovare il giusto tono visivo per La battaglia di Algeri, un film che voleva avere tutto il sapore e l'atmosfera di un “documento rubato con un teleobiettivo mentre si svolgono i fatti”. Non a caso la Bbc, riprendendo una definizione pontecorviana, ha intitolato uno special sul lavoro di Pontecorvo “La dittatura della verità”. Alcuni membri della troupe invece dicevano scherzando che forse sarebbe stato più giusto titolare “Dittatura della verità e della fotografia”, e prendeva130

no affettuosamente in giro Gillo perché si era dato un mese abbondante per trovare il tipo di fotografia che cercava, mentre aveva dedicato ai suoi attori, che nella grande maggioranza venivano dalla strada e avrebbero avuto bisogno di molte cure, solo sette giorni di provini. Un mese prima che cominciassero le riprese in Algeria, dunque, Gillo aveva fatto degli esperimenti con la sua 16 mm per chiarirsi le idee — e cioè per trovare il giusto equilibrio tra il tono documentaristico che andava cercando e la necessità di una fotografia che fosse anche formalmente bella. Poi era intervenuto con una serie di test Marcello Gatti. Il problema era che ai tempi di Kapò e degli esperimenti semiclandestini il risultato ottenuto mostrava spesso un contrasto troppo forte, visto che le luci predisposte sul set non erano allora pensate per il trattamento particolare di controtipaggio che successivamente sarebbe stato fatto alla pellicola. Ora, nell'epoca del cinema digitale, le acrobazie e le magie della fotografia sembrano facili e tutto o quasi è possibile. Trent'anni fa ogni volta era la prima volta. E con questo procedimento così faticoso Gillo voleva soprattutto ottenere certe granulosità e un bianco e nero contrastato che si avvicinasse al sapore forte dei cinegiornali di attualità, ed era convinto che controtipare fosse il sistema ideale: perché la gente, sosteneva, è abituata a entrare in contatto con i grandi eventi della cronaca proprio attraverso i cinegiornali — e quindi quella cifra andava riprodotta se si voleva ottenere il tono della verità. Ma se il controtipaggio dà in effetti la granulosità ricercata, spesso crea anche un eccessivo contrasto, così che, alle volte, le zone d'ombra,

per esempio sotto gli occhi, diventano illeggibili, nere: cosa accettabile forse per i cinegiornali ma che un maniaco della fotografia come Gillo non avrebbe mai tollerato. La soluzione la trovò Gatti. Propose a Gillo di prendere in partenza la Dupont 4, che era a quei tempi la più morbida delle

pellicole, addirittura “schifosamente morbida”, diceva Gillo, ma

che avrebbe potuto resistere senza dare un'immagine troppo dura persino a due o tre controtipaggi. Sembrava tutto risolto. Ma neppure la docile Dupont 4 poteva resistere ai contrasti prodotti dal sole spesso abbagliante del Nordafrica. Fu presa così una decisione paradossale e molto scomoda: tutti gli esterni del film furono girati coprendo il sole con grandi teloni, che garantivano una luce morbida e diffusa. Anche se Gillo, mai contento, cercava sempre di avere nei fotogrammi “qualcosa di sfondato”, una lama di luce, qualche punto bianco, “perché questo dà coglioni alla fotografia e aumenta il senso di verità”. Poi su quel negativo 131

ottenuto a prezzo di tanta fatica e tanto sudore si continuava pa-

zientemente a lavorare... Il risultato fu così convincente che quando La battaglia di Algeri, un anno dopo la prima veneziana del 1966, fu presentato a Los Angeles per l'Oscar, alcuni registi americani suggerirono a Gillo la didascalia che apre il film nell'edizione poi circolata negli Usa, con cui si annuncia che non è stato usato un solo metro

di materiale di repertorio. Gli americani stentavano a crederci. I militari francesi invece non ebbero alcun dubbio: sapevano benissimo che i fucili usati nel film erano diversi da quelli in dotazione all’esercito francese in Algeria. Soprattutto sapevano che i carri armati erano quelli cecoslovacchi acquistati dal governo algerino dopo la liberazione — e lo dichiararono pubblicamente,

forse augurandosi di fare del male al film, ma facendo di sicuro un involontario elogio al regista. La vita che la piccola famiglia Pontecorvo conduceva ad Algeri era molto tranquilla, anche perché Gillo era così stanco dalle fatiche della lavorazione che gli capitava di addormentarsi nelle situazioni più impensate — una volta, giura Picci, con il cucchiaio in bocca. Per questo non facevano vita comune con la troupe. Amici algerini ne avevano pochi — ma era ancora più difficile avere rapporti con i francesi, che costituivano una comunità piuttosto chiusa. Al massimo si concedevano ogni tanto una passeg-

giata domenicale nei caffè di rue Michelet, la grande strada lungo la quale marciano i parà francesi quando, nel film, li vediamo entrare in città: un’arteria fondamentale che però gli algerini furono pronti a bloccare per quasi un giorno quando Gillo dovette girare la scena dell'esplosione nel Milk Bar — che ancora oggi è lì, ricostruito, nello stesso punto di prima della rivoluzione. Gillo ricorda che di donne in giro, nell’Algeri moderna, quella che fino a tre anni prima era francese, se ne vedevano poche, e quelle poche velate. Mentre se ne vedevano di più a mano a mano che ci si avvicinava alla place de la Mosquée, la grande piazza che faceva da cerniera con la Casbah, quasi che le algerine non avessero ancora preso l’abitudine al fatto che Algeri fosse ormai tutta araba. Dopo

quattro mesi, una settimana di lavorazione e novan-

tunmila metri di girato, era arrivato il momento di ritornare a casa e di cominciare quella che Gillo ha sempre considerato la parte più affascinante della lavorazione: il montaggio e, dulcis în fundo, il missaggio. Il viaggio dei Pontecorvo fu una piccola avventura. La Milletré era carica di tutte le masserizie di quattro mesi di vita, dal 132

passeggino ai biberon. E su tutto troneggiava il famoso Zodiac di Chroscicki. Era quasi Natale, e la famiglia Pontecorvo aveva deciso di regalarsi un piccolo viaggio di scoperta in Tunisia, di imbarcarsi a Tunisi, di arrivare a Palermo, dove abitavano i genitori di Picci,

per approdare infine a Roma, via Massaciuccoli. Il viaggio in effetti fu bellissimo, ricorda Gillo. In un bazar di Costantine vennero comprati quattro o cinque tappeti che ancora si possono ammirare, nobilmente invecchiati, a casa Pontecorvo, e che al-

lora andarono perigliosamente ad ammonticchiarsi sul resto del carico della povera Milletré. E alla frontiera un milite algerino, per far sfoggio di cordialità con il signore italiano che, come tutti sapevano, aveva girato la storia della loro rivoluzione, mise in testa al piccolo Ludovico pazzo di gioia il proprio berretto. Il passaggio tra la severa, febbrile e un po’ lugubre Algeria postliberazione e la festosa Tunisia era stridente, ricorda Gillo. L’Al-

geria che si lasciavano alle spalle era un paese con pochi mezzi e molte tensioni. La Tunisia si apriva invece con una dolcezza di-

menticata e un benessere, per lo meno all'apparenza, quasi europeo. Persino i suoni e le musiche che si sentivano erano diversi dai drammatici “baba saleem” algerini che pure a Gillo piacevano tanto. Nel primo albergo in cui fecero sosta — un incantevole relais coperto di fiori — la radio stava trasmettendo una cantata di Bach, con grande emozione di Gillo e di Picci che da mesi non ascoltavano più nulla di simile. La medina di Tunisi straripava di profumi e di cose bellissime. Cartagine, attraversata a passo di corsa con Ludovico sulle spalle pur di vedere il più possibile prima di imbarcarsi sulla nave, si rivelò meravigliosa. Era il ritorno a un mondo meno severo e impegnato, ma tanto più vivibile e vicino alla formazione europea dei Nostri. Peccato che a smorzare le gioie di questa breve vacanza, Ludovico abbia cominciato a stare male: di quel malanno che i dottori chiamano dissenteria e le mamme chiamano cacarella. Il malanno continuò, in un cambio vorticoso e imbarazzante di pannolini, anche sul postale per l’Italia. Il viaggio terminò a Napoli, dove i Pontecorvo sbarcarono un po’ preoccupati di avere, con il gommone e quei tappeti che a Gillo sembravano preziosi, un’aria prospera che li avrebbe resi un bersaglio perfetto per i doganieri. Furono invece fatti passare velocemente e con un certo disgusto al grido “Emigranti, per di qua, avanti, svelti!”, intruppati con la massa dei coloni italiani costretti a rientrare in patria dal governo libico. Nella breve fermata del postale a Palermo, avevano trovato ad attenderli sul molo i genitori di Picci. E la nonna

Ziino, sconvolta, aveva scoperto che Ludovico

non solo

aveva mal di pancia, ma era anche pieno di pidocchi - lascito del famoso berretto del doganiere algerino. 1:33

Arrivarono a Roma, in via Massaciuccoli, il 24 dicembre 1965: di fronte ai reduci di Algeri l’Italia si spalancava in tutta la sua dolcezza con le mille luci delle feste. Ma subito dopo Natale Gillo si chiuse in una sala di montaggio e sparì dalla circolazione insieme ai suoi novantunmila metri di pellicola. Il montaggio

durò “secoli” - e cioè da gennaio fino a luglio. Ma la cosa non aveva una grande importanza perché Gillo, Musu e gli algerini non sapevano bene che cosa fare del film. Sognavano di andare a un festival, perché immaginavano che senza la spinta del battage festivaliero un film privo di star, difficile, in bianco e nero, non lo avrebbe voluto vedere nessuno, e pensavano in verità senza neppure molte speranze a quello di Karlovy Vary, che a luglio, di anno in anno, si alternava allora con il festival di Mosca. Il montaggio fu fatto alla Cds di via dei Villini, in una vecchia villotta inizio secolo piena di anfratti e di scale. Il montatore — un grande del mestiere — era Mario Serandrei. Quando Gillo era ancora ad Algeri, Mario gli aveva proposto di montare i primi due rulli. Gillo voleva che anche il montaggio conservasse al film il suo sapore di documento rubato e aveva cercato di spiegargli la sua idea nel corso di lunghe e costosissime telefonate. Quello che Serandrei gli fece trovare fu invece un prodotto perfettamente montato ma molto più tradizionale, quasi hollywoodiano. Gillo annunciò subito che quei due rulli andavano smontati - un'idea che Serandrei, principe dei montatori, digeriva male. Chissà, for-

se avrebbero finito per litigare, come capita spesso nelle grandi famiglie cinematografiche. Accadde invece che Serandrei morì improvvisamente, lasciando tutti sconvolti. Il suo posto fu preso da Mario Morra, un giovane praticamente al suo primo film, che Gillo aveva conosciuto perché, mentre lui lavorava con Serandrei, montava

nella moviola

accanto

alla sua. Avevano

un po’

chiacchierato e gli sembrava di aver trovato un interlocutore che capiva le sue idee. La moglie di Morra, Ida, aspettava un bambino (che in realtà sarà poi una bambina), Picci aspettava Marco,

e Maria, la moglie di Morricone, che intanto stava lavorando alle musiche del film, era anche lei in dolce attesa. Ragion per cui le ripide scale di via dei Villini vedevano un continuo traffico di pance, un'ulteriore conferma dell'atmosfera familiare di tutta la produzione. Certo, sarebbe stato molto utile se qualche festival avesse invitato il film. Gillo non pensava neanche lontanamente a Venezia, che gli sembrava una sede inarrivabile. D'altra parte, il festi-

val di Karlovy Vary aveva visto il film e l'aveva invitato in con134

corso. Franco Solinas, con la testa dura dei sardi, ripeteva ostinato “non fare idiozie, aspetta”. Ma Gillo era pronto a cedere, convinto che a Venezia non si sarebbero mai sognati di prendere il film. Tanto che un giorno, ossessionato da Franco che lo supplicava di rifiutare l'invito di Karlovy Vary, gli disse, dopo una discussione pubblica in piazza del Popolo, che d’accordo, il giorno dopo avrebbe chiamato i cecoslovacchi e avrebbe rifiutato l’invito, ma che se poi La battaglia di Algeri non veniva preso a Venezia, “giuro che ti sputo in un occhio”. Nell'attesa, continuava maniacalmente a limare il film che aveva anche il problema di un finale musicale provvisorio. E Gillo aveva cominciato a coltivare l’idea, che adesso definisce “bal-

zana”, di chiudere La battaglia di Algeri mettendo insieme, in un insolito impasto sonoro, un clavicembalo, i ritmi del “baba sa-

leem,” lo yuyu delle donne algerine e una voce recitante che leggeva la didascalia finale: “Altri due anni dovevano passare e infiniti lutti da entrambe le parti; e poi il 2 luglio 1962 con l’indipendenza nasceva la Nazione Algerina”. Ma Morricone non era convinto di questa “accozzaglia” — e Gillo non recedeva. Venne il giorno della registrazione e il dissidio si fece incandescente. Mor-

ricone, che faceva anche l'annuncio voce - insomma, il ciak sonoro -, scherzando polemico con Gillo cominciò ad annunciare: “Scena 133, finale, da non crederci, prima”. Registravano, poi ridiscutevano. Ennio, con la sua vulcanica capacità di inventare soluzioni, proponeva di cambiare ora uno strumento ora una vo-

ce. Il tempo passava e il nervosismo aumentava da tutte e due le parti. Fino a che si arrivò al sedicesimo tentativo (secondo Gillo non poi tanto dissimile dai primi), e Morricone annunciò: “Scena 133, finale, sedicesima, comincio a crederci...”. E fu quella la musica montata per uno dei più emozionanti finali della storia del cinema. Luigi Chiarini, l'allora direttore della Mostra del cinema di Venezia, vide una prima volta il film da solo, senza la commissione di selezione — di cui facevano parte quell’anno Tullio Kezich, Giulio Cesare Castello, Giovambattista Cavallaro e Leo Pestelli. Il montaggio non era ancora completo e Chiarini si trovò di fronte Gillo che, sempre insofferente di fronte a un fotogramma di troppo nei suoi come nei film altrui, continuava a ripetere che in La battaglia di Algeri c'erano quaranta minuti da tagliare — tanto che toccò a lui confortarlo e dirgli che andava benissimo così, che, anzi, il film “in alcuni punti era semmai troppo sbrigativo”. Intanto alla commissione di selezione diceva che le cose che lo preoccupavano e lo facevano esitare non avevano nulla a che fare con la qualità del film ma appartenevano alla sfera di135

plomatico-politica. Perché certo i francesi non l'avrebbero presa bene, nonostante tutto l'equilibrio cercato da Pontecorvo. Chiarini, un po’ preoccupato, suggerì che forse era meglio lasciar andare il film a Karlovy Vary, si era ancora in tempo. Ma i suoi esperti, che nel frattempo avevano visto La battaglia di Algeri e la trovavano un’opera importantissima, gli dissero che, certo, “era come avere un gatto morto sotto il tavolo” (l’espressione è di Tullio

Kezich), che avrebbe creato dei problemi diplomatici, ma che non si poteva far altro che prenderlo. Arrivarono a minacciare le dimissioni se il film non fosse stato messo in concorso. La decisione ufficiale di Chiarini tardava comunque ad arrivare. Anche perché non c’era nessuno e niente, a parte la sua qualità e il battagliero Antonio Musu, a sostenerlo. D'altra parte, La battaglia di Algeri non era un film che piacesse a tutti gli algerini. Anche tra loro c'era chi avanzava dubbi di tipo politico. Anzi, ricorda Kezich che arrivò da Algeri “un tipetto strano”, probabilmente appartenente a una fazione anti Jacef Saadi, a proporre per la Mostra un film di Lakhdar-Hamina,

Le vent des aurès, diffidando

Chiarini dall’accettare La battaglia perché, diceva, quello in realtà era un film italiano, non algerino. Chiarini, prudente e lento nelle decisioni, andò a Parigi con

la sua commissione, vide Le vent des aurès in una sala minacciosamente affollata di algerini, e ne uscì deciso a prendere La

battaglia — ma non del tutto. Passò ancora parecchio tempo, e Gillo si era quasi messo il cuore in pace. Poi, una sera, mentre rientrava da una domenica a Fregene e stava cenando nella trattoria del castello di Maccarese, con una banda di amici, fece una telefonata (non ricorda a chi) e gli venne data la grande no-

tizia: che nonostante le perplessità e i timori di Chiarini, La battaglia di Algeri era stato selezionato per la Mostra del cinema di Venezia. Peccato che, con tutti quei ripensamenti, il film non fosse completamente pronto e che Gillo insistesse con il suo perfezionismo. Per arrivare puntuali all'appuntamento veneziano fu una corsa contro il tempo. La copia destinata alla Mostra del cinema fu prelevata all'ultimo minuto dallo stabilimento, senza che ci fosse il tempo di vederla, da Verzini, che partì con l'ultimo aereo

della sera assieme a Gillo e a Picci alla volta del Lido. Alla fine della serata, che allora si concludeva a mezzanotte, il terzetto si infilò con aria carbonara nella sala di proiezione del Palazzo del Cinema per vedere finalmente se era stato azzeccato il tanto cercato tono caldo del bianco e nero voluto da Gillo. Ma già al primo fotogramma erano tutti e tre sull'orlo delle lacrime: il film aveva una forte tonalità azzurrina. Come era potuto succedere? 136

Dopo il primo attimo di panico fu chiaro che non era colpa del bravo Verzini, bensì delle lampadine del proiettore, che vennero sostituite, dopo complicate manovre burocratico-diplomatiche, solo alle prime luci dell'alba. Picci era incinta. Sì, di nuovo. Aspettava un bambino per novembre. E si sentiva molto ingombrante, nonostante il bellissimo soprabito che sua cugina Anna Maria Gandini, ora libraia eccellente a Milano, le aveva prestato per l’occasione. Gillo era tutto elegante nel suo smoking d’occasione. Ed erano molto nervosi. Tanto che quella sera del 31 agosto 1966, seduti nelle file d’onore del Palazzo del cinema, con tutta la sala sotto gli occhi, ebbero la sensazione che i primi tre rulli non passassero mai, che il pubblico non rispondesse, che ci fosse un senso di gelo, peggio, che il film fosse effettivamente troppo lento. Si accorsero molto presto che non era così, che la sala reagiva con grande emozione. E l'applauso che salutò La battaglia di Algeri alla fine resta per Gillo uno dei ricordi più emozionanti della sua storia di regista — anche se il Nostro precisa puntiglioso che nella stessa sala veneziana, sei anni prima, era stata più lunga l’ovazione per Kapò, il film che Gillo continua a preferire tra i suoi. Allora, si erano registrati nove minuti di applausi, con tutta la sala in piedi. La cronaca della serata, veramente, gliel’avevano fatta gli ami-

ci perché lui, come quasi tutti i cineasti italiani, si era impegnato a non andare di persona al Palazzo del cinema per protestare contro l'allora direttore, il cattolico Emilio Lonero, che era stato nominato quell’anno con uno dei tanti pasticciacci all'italiana. L'ultima sera del festival — che quell’anno, il 1960, durò quattordici giorni — Gillo si era aggirato per piazza San Marco con Luchino Visconti che, pur avendo in concorso Rocco e i suoi fratelli, si teneva anche lui alla larga dal Lido per solidarietà con gli altri registi. I due avevano preso un caffè da Florian, poi, per ingannare l'attesa, avevano passeggiato su e giù per la piazza. Visconti era comprensibilmente nervoso. Dopo un po' tra loro cadde il silenzio. Fu allora che Gillo cominciò a fischiettare. “Cosa fischi?” chiese Visconti, a cui sembrava di riconoscere il tema. “L’Ode a Napoleone di Schònberg,” disse Gillo. “E tu fischi Schònberg?” Si sentiva una certa ammirazione per la stravaganza dell’'exploit. (Per quanto riguarda Visconti e l'edizione 1960 della Mostra veneziana, ricordiamo che Rocco e i suoi fratelli, accolto dal-

la stampa e dal pubblico ro, indignò e scandalizzò mio speciale della giuria miche, a // passaggio del

come il film che meritava il Leone d’oi benpensanti del Lido, che ebbe il Pree che il Leone andò invece, tra le poleReno di André Cayatte.)

137

Ma torniamo a La battaglia di Algeri. Il giorno successivo alla prima veneziana, i francesi non erano propriamente felici e si preparavano a boicottare il film in patria. Pietro Bianchi titolava: “Una cronaca senza poesia in un film riuscito a metà”. Casiraghi sull’“Unità” scrisse in sostanza che Gillo era stato troppo gentile con i parà francesi (così come più tardi i “gruppettari” di sinistra lo accusarono di aver fatto del colonnello Mathieu una figura positiva). Giovanni Grazzini dalle pagine del “Corriere della Sera” annunciava invece a cinque colonne

“La battaglia di Algeri: l’Italia fiuta il Leone d’oro”. Ma Gillo non ci contava. Era un anno di grandi film e di grandi registi: era-

no in concorso Bresson con Au hasard Balthazar, Alexander Klu-

ge con La ragazza senza storia, Frangois Truffaut con Fahrenheit 451, Secondo Gillo non c'erano speranze. Ma la mattina del 10 settembre, alla vigilia della serata dei Leoni, più che soddisfatto di come

erano andate le cose, Gillo si stava godendo la va-

canza con Picci standosene a mollo nell'acqua allora pulita del Lido, sotto la gettata dell’Excelsior; stava galleggiando pigramente immemore del film, quando improvvisamente dalla spiaggia arrivò uno stuolo di fotografi. La battaglia di Algeri aveva vinto il premio della Fipresci, che viene assegnato dalla critica internazionale e che è il primo a essere annunciato fin dalla mattina dell'ultimo giorno del festival. A Gillo sembrò già un meraviglioso risultato, assolutamente insperato. Qualche ora dopo era a tavola sotto la veranda dell’Excelsior quando fu chiamato al telefono. Era Giorgio Bassani, presidente della giuria. Gli annunciava che La battaglia aveva vinto il Leone —- anche se lui personalmente, gli disse con grande franchezza, insieme al giurato francese, Michel Butor, aveva votato per Bresson. Gillo se ne tornò al tavolo camminando a mezzo metro da terra, si chinò con aria da cospiratore su sua moglie e le disse: “Abbiamo vinto, ma deve restare un segreto”. Quella sera, sarà stata l'emozione o le fatiche dei giorni precedenti, Picci rischiò di mettere al mondo Marco anzitempo. Con l’aiuto dell'amico Sasà Bentivegna, il medico che aveva fatto parte della squadra partigiana di via Rasella, tutto si limitò a un grande spavento. Gillo andò da solo a festeggiare il suo Leone — ma, non resistendo alla tentazione di essergli vicino an-

che se aveva molta paura di nuove rischiose emozioni, Picci si precipitò in Sala grande nella seconda metà della cerimonia, e assisté agli applausi ma anche alle grida di Salaud! lanciate dai francesi. Il giorno dopo il Leone, le recensioni apparse sulla stampa di tutto il mondo - a esclusione, ca va sans dire, dei giornali fran138

cesi — parlavano di capolavoro. La delegazione francese non aveva assistito alla proiezione e aveva abbandonato il festival all’an-

nuncio del premio a Pontecorvo. Non solo, il governo francese dovette assicurare alle associazioni dei pieds noirs d’Algeria rimpatriati in quegli anni che il film non sarebbe circolato. La battaglia di Algeri fu vietato in Francia per un anno. Quando finalmente fu programmato,

l’Oas minacciò di mettere delle bombe

nei cinema dove il film era in cartellone — e si sapeva che faceva sul serio. Per quattro anni nessuno se la sentì più di tentare un'u-

scita. Finché nel 1971 Louis Malle e un gruppo di cineasti francesi decisero che era ora di provarci di nuovo. Il primo tentativo avvenne a Parigi, in un cinema di quella zona calda che era allora il Quartiere latino, picchettato dagli studenti delle associazioni giovanili democratiche contattati personalmente da Malle. L'esperimento funzionò. Dopo di che La battaglia di Algeri uscì senza incidenti in tutta la Francia,

salvo Lione, dove un esagitato gettò un calamaio contro lo schermo del cinema - lasciando ovviamente un segno indelebile. Successe anche che finalmente, dopo l’uscita del film, i giornali si accorsero del fatto che La battaglia di Algeri non era un film offensivo per la Francia, anzi, che guardava alla rivoluzione algerina con tanto equilibrio e rispetto nei confronti dei francesi —- come dimostra il ritratto del personaggio controllato e lucido del colonnello Mathieu - da giustificare, nella critica più estrema di sinistra, alcune stravaganti critiche di am-

biguità morale, Diversa la reazione americana. Negli Stati Uniti il film ricevette tre nomination per gli Oscar — come miglior film straniero

prima e poi, l’anno successivo, dopo l'uscita nei cinema Usa, per la miglior regia e la miglior sceneggiatura -, conquistandosi anche una comprensibile popolarità tra le minoranze di sinistra e di colore, le cui frange estreme, come le Black Panthers, lo stu-

diarono - secondo quanto emerse da un processo istruito a New York contro tredici attivisti accusati di atti di terrorismo - quasi fosse un manuale di guerriglia urbana. Se il celebre critico John Simon, che all’inizio aveva un po’ ingenuamente scambiato La battaglia di Algeri per un montaggio di materiali di attualità, divenne

un grande

sostenitore del film, Robert

Sitton sul “Wa-

shington Post” scriveva entusiasticamente che il film (“uno dei più belli che io abbia mai visto”) “è importante per il nostro tempo quanto lo sono per il loro tempo le opere di Griffith, Leni Riefenstahl, Carl Dreyer e Luchino Visconti”, e Joseph Morgenstern, su “Newsweek”, rese giustizia a quello che qualcuno aveva visto come un trattamento ambiguo ed equivoco dei francesi: “Invece 139

a

j A

| di giocare a essere dio e a giudicare dove stiano il torto e la ragione, Pontecorvo e i suoi hanno scelto il ruolo appena meno difficiledi angeli testimoni. La loro simpatia è chiaramente per i ribelli, la loro lealtà va alla verità”. Ma la recensione più appassionata arrivò qualche tempo dopo, firmata da Pauline Kael, sul “New Yorker”: “La bruciante passione di Pontecorvo agisce direttamente sui vostri sentimenti. È il tipo di marxista più pericoloso: un poeta marxista”, capace di convincere il pubblico bor-

ghese dei cinema che la rivoluzione, in certe condizioni, è una cosa necessaria.

140

Capitolo ottavo In cui si racconta come Gillo si sia trovato a fare un film che doveva essere girato in un'isola e fu invece realizzato a Cartagena de Indias, in Colombia.

Come sia riuscito a

coinvolgere nell'avventura la star delle star e abbia resistito alle imposizioni della produzione, scegliendo come antagonista del grande Marlon uno sconosciuto nero analfabeta di nome Evaristo Marquez. Come la lavorazione si sia rivelata un inferno, anche per colpa delle impuntature del divo, con relativi malumori,

silenzi e contenziosi.

Come Brando racconti la storia in maniera molto diversa — ma alla fine abbia continuato a voler bene a Gillo... Il film che sarebbe diventato Queimada nacque — “se ben mi ricordo” - da una proposta di Alberto Grimaldi, un avvocato napoletano che era stato conquistato dal cinema, era diventato un produttore molto ricco e potente, aveva prodotto la trilogia western di Sergio Leone — e con essa aveva fatto parecchi miliardi di allora. Grimaldi aveva qualche tempo prima commissionato un soggetto a Franco Solinas e al suo giovane amico Giorgio Arlorio, torinese, tesserato Pci e grande raccontatore, che con So-

linas aveva scritto in quegli anni un trattamento per un film ispirato a Bel Ami —- ma pensando alla traiettoria professionale di Gaetano Baldacci, il fondatore e direttore del “Giorno”.

Per Grimaldi i due avevano scritto un soggetto che si intitolava “Il mercenario”: un apologo politico in forma di western ideato su misura per Gillo, “molto brechtiano”, dice Arlorio, molto sec-

co, che si svolgeva all’inizio del secolo in Messico e seguiva i percorsi intrecciati di un mercenario e di un rivoluzionario idealista. Alberto Grimaldi mandò

dunque

a chiamare

Gillo Pontecorvo,

che stava allora vivendo il suo momento di gloria dopo il successo di La battaglia di Algeri, lo ricevette nel suo ufficio in un vecchio maestoso palazzo del quartiere Coppedé, annunciò che voleva fare un film con lui, e gli fece una proposta (economica) di quelle che non si possono rifiutare: Gillo ricorda qualcosa di equivalente a un paio di miliardi di oggi, sceneggiatura compresa. Cosa voleva che facesse? Grimaldi non voleva il bianco e nero, non voleva un film severo, non voleva, insomma, proprio ciò

che in quel momento per Gillo era il cinema. Ma gli disse di fare comunque quello che voleva. “Se ne hai voglia fai un film tuo. Se preferisci fa’ un film come quelli di Sergio Leone, oppure un film d'avventura,

insomma,

quello che ti va. Certo l'ideale sa141

rebbe una cosa che stupisca tutti, un western completamente diverso, un western d'autore, un western sofisticato, con dei contenuti, con quello che volete voi, e se questo non ti garba, un film commerciale, un film commerciale d'autore. Tutto. Pur-

ché non sia in bianco e nero e non sia un film ‘austero’.’ E gli propose “Il mercenario”. La prima reazione di Gillo fu negativa — e tipica della vezzosa ipocrisia di Pontecorvo quando un progetto non gli piace. Obiettò che non poteva certo fare un western visto che non aveva la minima idea neanche di come si estrae una pistola. Ma come? E

allora cosa faceva ai tempi della Resistenza, osservò per-

plesso Grimaldi? “Durante la Resistenza,” spiegò Gillo, “molti la pistola la tenevano qui, dove d'abitudine si tiene il portafogli. Così se ti fermavano per identificarti, potevi estrarla con un gesto insospettabile e sparare subito. Fortuna che a me non è mai capitato. Comunque,” aggiunse, “ho visto pochissimi western e non mi piacciono. Non saprei da che parte si comincia a mettere in scena i famosi giochetti con le pistole che girano sugli indici come trottole.” Un testimone oculare ricorda che Grimaldi gli fece garbatamente notare che forse Gillo non sapeva neanche come si prepara una bomba, eppure aveva fatto La battaglia di Algeri. Presero tempo per riflettere. Forse “Il mercenario”, riconosce adesso Arlorio, era un film

troppo “di confezione” per Gillo. O forse “il messaggio politico era troppo scoperto”, e “Gillo è attento a tutto”. Certo è che ci si provò: coinvolsero nell'avventura Luciano Vincenzoni, che era stato lo sceneggiatore dei film di Leone, un veneto sanguigno, spiritoso e pieno di idee che aveva fatto anche molta commedia all'italiana. La collaborazione non durò più di due riunioni. La frizione tra il gioviale Vincenzoni e il misurato Solinas fu imme-

diata. Gillo si accorse che non gliene importava niente. “Il mercenario” fu abbandonato (sarà adottato subito da Sergio Cor-

bucci, che ne fece un western con Franco Nero e Tony Musante). Gillo ebbe la tentazione di mollare Grimaldi e tutte le sue proposte. Fino a poco tempo prima - racconta Giorgio Arlorio — la vita di Gillo si era basata su un'economia poverissima, che lui considerava la fonte principale della sua libertà — e gli permetteva di rifiutare tutto quello che non gli piaceva fino in fondo. Mentre Solinas era uno “sperperante”, Gillo era un maestro di pauperismo. Adesso, a distanza di due anni, erano arrivati i bambini, Ludovico e Marco. Furono loro (è ancora Arlorio a parlare) la cre142

pa nella ostinata resistenza di Gillo contro il denaro. Gillo scoprì la necessità di avere dei soldi, e quindi di dover prendere in considerazione anche i film di committenza. I pochi soldi del suo compenso per La battaglia di Algeri erano finiti, il film era stato imprudentemente venduto da Musu e da Gillo per due lire. Bisognava lavorare. Anche se gli sembrava, come disse in giro a voce troppo alta, facendo arrabbiare Solinas, “una marchetta”. Erano passati due anni da La battaglia di Algeri. Era il 1968. E per la fortunata coppia Pontecorvo-Solinas la scelta tra divertimento e impegno, tra cinema commerciale e cinema di idee, tra

passato e presente, non era facile e indifferente. La proposta di un western li metteva in crisi. Era vero che il western italiano in quegli anni aveva avuto una grande fioritura e una grande fortu-

na. Nella confezione di western si erano cimentati non solo l’inventore del genere, Sergio Leone - prima sotto pseudonimo (Bob Robertson), poi con il suo nome -, ma anche Franco Giraldi, Giu-

liano Montaldo, Sergio Corbucci. E anche Franco Solinas, che nonostante la sua passione politica non era un granitico ideologo tutto d'un pezzo e sapeva cogliere il lato giocoso della vita, aveva scritto già due anni prima per Damiano Damiani Quien Sabe?, un western politico che “vede in ogni yankee una pedina del Potere” (così dice il Dizionario dei film di Mereghetti, che aggiunge: “Un divertimento un po’ goliardico, ma significativo del tentativo di inseguire un'idea ‘impegnata’ di cinema popolare”). Per restare fedele alla sua visione e tentare tuttavia l’impresa, Gillo decise dunque, con Franco e Giorgio Arlorio, di fare sì un film avventuroso, ma più vicino alle loro corde. Si trattava di

trovare l’idea. E l’idea venne proprio dal più giovane. Arlorio aveva letto poco tempo prima - Gillo crede di ricordare sull’Enciclopedia Britannica — la vicenda di Sir William Walker, un agen-

te segreto spedito da Londra attorno al 1840 a fomentare la ribellione in un'isola spagnola dei Caraibi, cacciare gli spagnoli, liberare la popolazione indigena dal suo stato di schiavitù e inglobare il piccolo stato nel prospero impero economico della Corona britannica. Ma nel giro di dieci anni, Walker, l’uomo che ha

partecipato da protagonista all’espansionismo coloniale britannico, credendo anche nei suoi valori progressisti e democratici, ritorna all'isola per scoprire il sostanziale fallimento della sua “rivoluzione” e il fatto che il connubio tra il liberalismo britannico e il debole governo della borghesia locale non si è rivelato migliore, per la popolazione, dell’oppressivo regime spagnolo. Di Sir William Walker scoprirono anche che a un certo punto era sparito nel nulla, e qualcuno sosteneva che, in un finale quasi conradiano, era diventato re di una piccola isola delle Antille. 143

La storia piacque molto a Gillo, per tutti i suoi possibili risvolti. Metteva insieme quello che desiderava Grimaldi e quello che volevano loro. Era al tempo stesso una grande storia avventurosa e un esemplare apologo politico che offriva a Pontecorvo l'occasione per ampliare il discorso sul colonialismo e il postcolonialismo che aveva appena affrontato in La battaglia di Algeri. La piccola nazione alla cui conquista muoveva il liberalismo inglese ricordava il Vietnam, che in quegli anni era al centro del dibattito politico del mondo occidentale. Di più, sotto la facciata spettacolare, Queimada era un film durissimo sul rischio di involuzione incombente su tutte le rivoluzioni. E se Gillo aveva dei dubbi residui, come sempre, diede il suo assenso, ricorda Arlo-

rio, anche perché proprio in quei giorni ricevette una lettera da una sua amica che faceva l’antropologa nelle giungle amazzoniche e che gli diceva: “So che stai per fare un film che ti piacerà”. Gillo credeva nella magia, per due anni aveva girato il mondo pre-

parando un film (che mai si fece) sul tema. Quale segnale migliore poteva incontrare? Gillo e Franco cominciarono a scrivere a Fregene, dove, come abbiamo già detto, avevano ciascuno una casa, di quelle ca-

sette abusive costruite su terreno demaniale dalle parti della foce del fiume Arrone, che ogni tanto, con una delle sue periodiche alluvioni, se ne porta via qualcuna. Quella di Solinas era, come la ricorda la figlia Francesca, un’assurda casa più adatta all'Alto

Adige che al Mediterraneo, con davanti un piccolo giardino che dava sulla spiaggia. Quella di Gillo era una miniatura di casa, meno di quaranta metri quadrati dove la famiglia Pontecorvo viveva accampata. In un’altra casa, quell’estate era sistemato anche Giorgio Arlorio. Quella del Villaggio dei pescatori era (allora) una comunità molto legata e molto mista, dove pescatori e gente del cinema vivevano fianco a fianco in assoluta libertà. Franco Solinas l'aveva ribattezzata il “Pian della Tortilla”. C'era Rosi con la figlia Carolina, Franco con i figli Francesco e Francesca, Colizzi, il regista

di tanti western, con i suoi ragazzi, Gillo con Ludovico e Marco piccolini (Simone non c’era ancora, sarebbe nato nel 1975), Gian

Maria Volonté e Carla Gravina con la loro bambina, Giovanna. I piccoli vivevano una vita libera e brada - ma molto sicura -—, tornando a casa solo per mangiare. I grandi lavoravano e pescavano. Gillo aveva un piccolo battellino pneumatico con un motore di venti cavalli, e tutte le mattine alle sei usciva con Franco e qualcuno dei bambini, pazzi di gioia, a mettere le reti. Poi si lavora-

va al progetto del film. Sembrava una vita idilliaca. Ma non durò. Dice Gillo che Fran144

co “mal sopportava la mia posizione col paraocchi”, e cioè la posizione un po’ legnosa e un po’ snobistica con cui il Nostro si stava inoltrando nel lavoro. Perché nonostante lo spunto che avevano trovato, Gillo continuava a non sentirsi adatto per un film d'avventura, non gli piaceva l’idea, partecipava alle riunioni con l’aria malmostosa di uno che sta facendo una cosa contro voglia. E Franco aveva cominciato ad arrabbiarsi — silenziosamente, alla sua maniera sarda - quando aveva saputo che Gillo aveva parlato del film con amici definendolo una marchetta, perché per una volta aveva voglia di avere dei soldi. La parola “marchetta” a Franco aveva dato un fastidio terribile, per la buona ragione

che lui, come sempre, prendeva le cose più sul serio. E Gillo ammette adesso

di essere stato completamente

nel torto, che era

scorretto dire anche in pubblico di voler fare il film solo per ragioni alimentari. Ma come che sia, dopo qualche incontro durante i quali aumentavano i motivi di frizione, con crescente irritazione di Solinas, Gillo smise di collaborare alla stesura del copione. E rico-

nosce di aver dato alla sceneggiatura un unico serio apporto, proponendo per l’ultima parte del film — un po’ sull’eco della posizione delle Black Panthers — che l’eroe della ribellione degli schiavi, José Dolores, si rifiutasse di parlare con i suoi oppressori. Arlorio, da parte sua, suggerì il bellissimo finale che rimase poi nel film: mentre sta per lasciare l’isola diretto in Inghilterra, Sir William Walker viene pugnalato a morte da un nero che gli si piega accanto, offrendosi di portargli i bagagli, esattamente come all’inizio del film aveva fatto José Dolores, lo schiavo che lui stes-

so aveva trasformato in un leader rivoluzionario — di una rivoluzione tradita. Oggi Gillo dice che sente di dover fare “una confessione di debolezza, di stronzaggine”. I tempi e il pubblico erano cambiati, la rivoluzione giovanile stringeva d’assedio la cultura della sinistra, in America i ghetti e le università erano in fiamme, le granitiche sicurezze ideologiche del passato erano state scalzate alla base da un altro tipo di contestazione, da lotte politiche più complesse. Eppure - dice Gillo — lui non riusciva a immaginare di fare un altro tipo di cinema che non fosse strettamente legato al modello neorealista. Il gusto di raccontare l'avrebbe “vergognosamente” scoperto — “con un vergognoso ritardo che non depone a favore della mia intelligenza” - solo più tardi. Il gusto di avventurarsi su territori lontani da quelli della sua ideologia ancora più tardi, quando di film non ne faceva più. Per tutte queste ragioni Gillo non firmò la sceneggiatura del film destinato a diventare Queimada, che risulta dunque scritta solo da Franco Solinas e Giorgio Arlorio. 145

I due amici gliel’avevano scritta su misura, togliendo tutte le cose che a Gillo non sarebbero mai interessate, come ad esempio le battaglie a ripetizione, e tenendo ben presenti le proposte fatte da Gillo prima di lasciare la sceneggiatura, compreso il fatto che la storia era incorniciata in un flashback. Mentre stavano ancora scrivendo, Grimaldi cercava intanto di mettere in moto la produzione, in cui entrò con un colossale anticipo per la distribuzione la United Artists. E i big della United Artists si fecero subito sentire. Per il ruolo di Walker volevano una grande star, e pagavano Gillo come lo pagavano perché pensavano che, dopo il successo internazionale di La battaglia di Algeri, sarebbe riuscito ad avere qualunque grande nome avesse voluto scegliere. La United Artists fece il nome di Steve McQueen, che allora era il numero uno del botteghino. Gillo, abituato da sempre a volere l'impossibile — quell’impossibile che i giovani del

"68 stavano chiedendo come una prova di realismo - pensò bene di chiedere Brando. Da parte sua Brando aveva appena rilasciato dichiarazioni molto lusinghiere per Gillo a proposito di La battaglia di Algeri. L'incontro (e lo scontro), evidentemente erano scritti nelle stelle. Come racconta il più recente biografo di Brando, Peter Manso, “con Queimada [Brando] stava inseguendo un sogno a lungo rinviato: fare un film politico importante. Queimada sembrava avere sia il significato politico che [Brando] cercava sia il regista, le cui credenziali di sinistra sembravano garantirgli che il messaggio non sarebbe stato sacrificato al mezzo”. Pontecorvo gli proponeva un film che voleva essere una condanna del colonialismo, dell’affarismo internazionale, della schiavitù, un film

che avrebbe “coniugato l'avventura romantica e il film di idee”. Grimaldi dalla sua gli offriva 750.000 dollari, che all’epoca erano un pozzo di soldi, equivalente forse a dieci miliardi di oggi. Cosa si poteva volere di più? Si incontrarono a Roma,

perché Brando stava facendo un gi-

ro in Europa. E, secondo quanto ricorda Gillo, il primo pensiero che lo colpì nel vederlo fu che Brando era molto meno alto di quello che sembrava nei film. “E dico meno alto non rispetto a me, che notoriamente sono il nano più alto d'Europa, ma rispetto a quello che si diceva.” Il secondo pensiero fu che era un uomo dal fascino straordinario. Brando si rivelò sorprendentemente gentile e disponibile ad ascoltare, a fare domande, a fare proposte. La comunicazione tra loro non era impeccabile. Un po’ Brando parlava il suo mezzo francese — “schifoso” — mentre Gillo sfog146

giava il suo francese affinato da tanti anni di Francia. Un po’ Gillo parlava il suo mezzo inglese smozzicato e Brando il suo splendido americano. Ma si capirono. Finirono a Fregene, dove il divo fu subito conquistato da Solinas e dal brodetto di pesce appena pescato che improvvisò per la serata, nel giardinetto sul mare, e ascoltò attentissimo la lettura ad alta voce della parte di copione che era pronta. Rividero Brando a Roma qualche giorno dopo, comprensibilmente nervosi: ma lui disse che sì, avrebbe fatto il film, anche senza aver letto la sceneggiatura completa. “Ero venuto in Europa con l’idea che se dovevo fare un film da queste parti lo volevo fare con te.” Dice adesso Gillo che, con la sua allegra presunzione “giovanile” (avrebbe compiuto cinquant'anni l’anno dopo!), non si rese conto di quale regalo gli stesse facendo l’attore. “Ero andato in America quando La battaglia di Algeri era stata candidata all’Oscar, ma mi ero fermato troppo poco per capire bene le ferree regole dello star system. Né io né Franco ci rendevamo conto allora di come fosse una cosa assolutamente incredibile che una star quale era Brando accettasse non solo di fare un nostro film, ma di farlo senza neanche leggere tutto il copione — che non avrebbe potuto leggere perché la seconda parte era ancora un arcipelago di idee con qualche punto fisso -, senza consultare il suo agente, il suo publicist, i suoi lettori di sceneggiature, i suoi consiglieri. Gli avevamo detto ‘dài, vieni a Fregene’ e lui era venuto, aveva capito cosa volevamo fare, aveva detto sì. Riconosciamo-

lo: questo Marlon Brando era veramente un angelo. Da vergognarsi poi d'averci tanto litigato...”

Come Dio volle, anche con qualche suggerimento di Brando stesso, la sceneggiatura arrivò a compimento. Avevano i soldi di Grimaldi e della United Artists. Avevano il copione. Avevano Brando. Si trattava adesso di trovare una città che potesse rappresentare lo sfondo di Queimada, una bella città coloniale che conservasse intatta la sua atmosfera ottocentesca — e la cercarono nei Caraibi. Partirono in due, Pontecorvo e Piero Gherardi, il grande art

director scomparso nel 1971. Viaggiavano, come dice Gillo, a naso. C'era un posto che si chiamava Antigua e che dal nome prometteva bene? Andavano a vedere com’era Antigua. Ogni tanto i sopralluoghi Gillo li faceva, oltre che con Gherardi, con un fucile subacqueo. Per esempio a Santo Domingo. Si era fermato a pescare. Ma prima di tuffarsi, aveva pensato bene di chiedere ai contadini neri che lavoravano vicino alla spiaggia se ci fossero dei pescecani. “Estan camarones aqui?” chiese Gillo, scambian147

do nel suo spagnolo di fantasia i camarones (gamberi) con i tiburones (pescecani). E loro gli risposero, “Si, muchos”. Lui, ovviamente inconsapevole dell’equivoco, ma non volendo rinunciare all'avventura, insistette: “Peligrosos?”, e quelli serafici, sempre pensando ai poveri innocenti gamberi, risposero “c Yporqué “af! Gillo si disse che quelli di Santo Domingo dovevano dunque essere pescecani come quelli del Mediterraneo, semplici verdesche che non ti filano per niente, e si buttò in acqua, pazzo di gioia come qualsiasi subacqueo che per la prima volta vede un mare tropicale e non capisce più nulla. Si allontanò, superò la barriera corallina, e alzando la testa per respirare vide che i con-

tadini dalla riva gli facevano grandi gesti come per dirgli di tornare indietro. Ma in mezzo a loro c’era Gherardi, bello, elegan-

te, serafico, di una calma olimpica, che non dava segno di essere agitato. Gillo non si preoccupò più di tanto. Finì il suo giro, tornò a riva, e chiese a Gherardi che cosa avessero i contadini da scalmanarsi tanto. “Volevano dirti di non superare il reef perché lì passano anche i pescecani bianchi, le tintorere, che sono molto pericolose.” “E tu perché non mi facevi segno? Un tuo gesto l'avrei capito e ovviamente ti avrei dato retta.” “Perché ero combattuto,” rispose flemmatico Gherardi (e Gillo giura che non riuscì nemmeno ad arrabbiarsi tanto straordinario era l’amico), “ero combattuto tra il dispiacere se t'avessero ammazzato o tirato via una gamba e l’eccezionale occasione di vedere uno mangiato da un pescecane.” E Gillo, conoscendo la sua vena di follia, non è poi neanche tanto sicuro che scherzasse. Tra un tuffo e un sopralluogo, tra un'escursione nella giungla

e un mercatino indigeno, in cui Gherardi provava e assaggiava

tutto con sprezzo del pericolo, delle mosche e della “zozzeria generale”, tirarono la faccenda un po’ per le lunghe: quasi due mesi. Giravano vorticosamente da un'isola all'altra, alla ricerca della città ideale, tanto che Gillo giura di aver imparato a memoria

tutte le coincidenze della Liat, la famosa linea aerea interna dei Caraibi. Decise che le isole più belle erano Nevis e Saint Kitts, do-

ve arrivarono su un aeroplanino traballante - quattro metri di ali e cinque posti — che Gillo ricorda ancora con terrore, in compagnia di una contadina nera che portava una gabbia con dentro tre galline. Gherardi era un grande viaggiatore, adorava viaggiare e dava felicità a chi stava con lui. Era un genio nel trasformare le cose, gli ambienti, i paesaggi, nel capire che quel certo edificio accanto a cui Gillo era passato distrattamente senza neanche degnarlo di uno sguardo poteva, abbattuto un muro, ridipinta una facciata, diventare il posto che cercavano disperatamente. Ma an148

che lui dovette ammettere

che la loro città non c'era, e la rico-

struzione fedele dell’epoca coloniale che si prefiggevano sarebbe stata impossibile. Tanto che a un certo punto - anche per via delle fissazioni di Gillo — presero in considerazione l'ipotesi di girare un film “alla povera”, pasoliniano, bianco e nero, stilizzato, duro: cioè esattamente il contrario di quel romantico film Ottocento, di quel romanzo d’avventure per cui erano stati ingaggiati. Forse Gillo si sarebbe trovato meglio senza le ricostruzioni, i paraso-

li, le trine, le divise. Ma, tutto compreso, sia Gillo che Gherardi ammisero che ormai non si poteva tornare indietro.

Fu allora che qualcuno fece il nome di Cartagena. Cartagena de Indias, che ancora non era celebre come sarebbe diventata dopo due fortunati eventi quasi contemporanei: la elesse a sua dimora uno scrittore colombiano di nome Gabriel Garcia Marquez, che proprio l’anno prima, il 1967, aveva pubblicato un romanzo fortunatissimo e amatissimo destinato a diventare il libro di cul-

to di una generazione di lettori, Cent'anni di solitudine, e diven-

ne lo sfondo di Queimada. Cartagena non era nei Caraibi ma nel nord della Colombia: una bellissima città spagnola affacciata sul Caribe e su una grande laguna, in un intreccio di acque, di pietre imbiancate e di grandi forti, di portici ombrosi e di case gentilizie candide di calce. Il set era lì, bell'e pronto, per di più brulicante di una colorata popolazione, nera e meticcia: la città sembrava fosse stata costruita per loro. La storia di Cartagena, per ammissione degli stessi locali, si divide in due periodi. Prima di Queimada e dopo Queimada. Adesso nella città - che nel frattempo è cresciuta fino a diventare una Miami più piccola e più povera, ma che è stata nel corso di questi trent'anni restaurata e ricostruita — c'è un night-club che si chiama La Queimada. Hacer quemada è adesso, nel patois locale, sinonimo di giorno di paga. E dopo Queimada Cartagena è diventata uno dei set preferiti per i film di ambiente caraibico — da Cronaca di una morte annunciata fino al recente Nostromo. Se aveva però la città - che doveva recitare la parte della capitale di un'isola dell'impero spagnolo nelle Indie occidentali —, se aveva Brando per il ruolo di Sir William Walker - l’agent provocateur e ambiguo ideologo al soldo degli inglesi che spinge l’isola alla ribellione per poi ritornare a eliminare il capo della ri-

bellione da lui stesso fomentata —, a Gillo mancava ancora proprio lui, José Dolores, l’eroe nero, l'ex schiavo che diventa leader

rivoluzionario e conduce il suo popolo di poveracci alla rivolta e alla vittoria. 149

La scelta dell’interprete di José Dolores fu una battaglia — e divenne una delle grandi leggende del cinema. Anche se aveva avuto qualche dubbio all’inizio, una volta partito il progetto Gillo si era buttato nell’impresa con tutta la sua passione, e puntava a realizzarla con il rigore che aveva imparato dalla scuola neorealista, per la quale la ricerca del volto giusto era importantissima. Il personaggio di José doveva avere una qualità magnetica, una grande forza di comunicazione, una faccia molto intelligen-

I te: ma doveva anche essere un vero selvaggio. Gillo volò a Hollywood per le trattative. La United Artists, che aveva già dovuto rinunciare a Steve McQueen in cambio del difficile e bizzoso Brando, su José Dolores non era disposta a patteggiare: doveva essere Sidney Poitier. Gillo disse di no. Amava Poitier, gli piaceva molto il suo senso della misura, lo considerava un grandissimo attore, ma non gli andava bene per la parte di

José. “Non ha l’aria abbastanza selvaggia, si vede lontano un mi-

glio che è un nero di New York.” Pickert, l'allora presidente della United Artists, e il suo stato maggiore rimasero senza parole. Allibiti, cercarono di convin-

cerlo che un film con Brando, il numero uno degli attori bianchi, e con Poitier, il numero uno degli attori neri, sarebbe stato ven-

duto a scatola chiusa dall’Alaska al Giappone. “Non se ne parla neanche,” ribadì Gillo, che ammette di non credere quasi a quello che successe —- tanto che ancora oggi cita questo esempio per dimostrare come gli spazi di libertà degli autori si siano ridotti in questi trent'anni. “Se capitasse adesso con un regista del mio stesso potere contrattuale di allora, chiamerebbero la Neuro...”

La United Artists non la chiamò e, “obtortissimo” collo, gli disse di fare un po’ come voleva lui. Gillo cominciò a cercare José Dolores nei teatrini offBroadway. E finalmente trovò un attore che aveva nel volto qualche elemento della violenza selvaggia che stava cercando. Peccato che avesse dei denti spaventosi, neri, storti. Allora, nel cine-

ma, le cose venivano fatte alla grande. La produzione fece volare il potenziale José Dolores a Roma per girare una serie di provini, e Gillo e Gherardi lo spedirono da un famoso dentista dei Parioli per fargli rifare completamente i denti. Quando nel giro di una settimana l'intervento fu concluso, Pontecorvo e Gherar-

di tutti contenti convocarono il poveretto in ufficio convinti di

avere fatto la cosa giusta. E rimasero basiti: era completamente

cambiato, aveva un’altra faccia. Faccia che, purtroppo, non andava più bene. Sembra un marchettaro, sibilò Gherardi a Gillo.

Lo rispedirono a New York, infelice sì per non essere stato scrit-

turato, ma con un sorriso da qualche milione. 150

Inutile dire che gli americani ricominciarono a insistere su Poitier. Ma Gillo, che intanto era ritornato a Cartagena per i so-

pralluoghi, continuava a dire di no. Aveva battuto teatri e teatri-

ni on e off-Broadway cercando il suo José ideale senza riuscire a trovarlo. E intanto si avvicinava pericolosamente la data fissata per l’inizio delle riprese, che comportavano fortissime penali per ogni giorno di ritardo di Brando. Poi ci fu l’epifania. Gillo si trovava a tre ore di jeep da Cartagena con Gherardi, il suo aiuto regista Rinaldo Ricci e Salvo Basile, un gigantesco e simpaticissimo italiano che da quella volta vive in Colombia e produce film, e stava cercando una foresta da bruciare per la grande scena dell'incendio dell’isola (come si vede la coscienza ecologica all’epoca non era ancora molto sviluppata). C'erano quaranta gradi all'ombra, erano tutti stanchi morti, José Dolores era ancora nel mondo delle idee e Poitier più che mai una minaccia, quando i quattro videro sbucare un nero —

grande, bello, fiero — che cavalcava senza sella: José Dolores come lo avevano sempre immaginato.

Lo chiamarono. Ma quello, vedendo una jeep con dei bianchi, e pensando che probabilmente il binomio significava guai in vista, diede una botta al cavallo e sparì come un razzo nella foresta. “Peccato,” mugugnò Gillo. “Avrei giurato che era la faccia giusta.” Continuarono a cercare la foresta da sacrificare, la trovarono, erano già da un pezzo sulla strada di Cartagena, quando Gillo, con esemplare esprit d’escalier, ci ripensò: “Mi dispiace, torniamo indietro. Non posso lasciar perdere proprio ora. Una faccia come quella è la mia ultima speranza”. Ci fu una mezza in-

surrezione. “Sei matto, stiamo morendo di sete, ci sono quaran-

ta gradi all'ombra, sarebbe come cercare un ago nel pagliaio.” Ma alla fine del dibattito il quartetto affranto si mise a battere la foresta alla ricerca di un villaggio, di qualcuno a cui chiedere dove potesse essere l'ideale José Dolores. Poi, finalmente, in una radura della foresta, trovarono un miserando villaggio fatto di qualche casa di fango. Si chiamava Palenque, come tutti i villaggi costruiti nella foresta vergine dagli schiavi scappati agli spagnoli. Cercarono di farsi capire dal capo, che parlava un incomprensibile spagnolo. Lo convinsero a far suonare il tamburo. Tutto il villaggio si radunò nello spiazzo cen-

trale. Ed eccolo lì, José Dolores, che da vicino sembrava ancora più perfetto per il suo personaggio.

Fargli capire che cosa avrebbe dovuto fare non fu facile. Evaristo Marquez - così si chiamava - non sapeva leggere né scrivere, parlava un misterioso patois misto di spagnolo e di dialetti lo151

cali, non sapeva cosa fosse non si dica il cinema ma la luce elettrica. Fu difficile persino fargli capire che per quel lavoro così strano sarebbe stato pagato. Gli dissero che due giorni dopo avrebbero mandato una jeep a prenderlo per portarlo a Cartagena. Quella sera, a Cartagena, dall'Hotel Caribe, che sarebbe diventato il quartier generale del film e che allora ergeva la sua elegante massa rosa e le sue palme al capo estremo di una lingua di terra praticamente vuota, a due miglia dalla città, Gillo telefonò

a Brando, che era nella sua isola tropicale, e gli annunciò di aver trovato il suo coprotagonista. Aggiunse però che voleva metterlo in guardia: Evaristo non aveva neanche mai visto la luce elettrica. “Pensa quante volte dovremo rifare le scene per colpa sua. Ti domando:

te la senti?” Brando,

imprudente,

fiducioso e, come

spesso gli capita, molto generoso, ribatté: “Sono io che te lo chiedo: tu credi davvero in questa faccia?”. “Sì, per me è un colpo straordinario.” “E allora prendilo e fregatene di me.” La seconda telefonata era quella veramente difficile: si trattava di comunicare la scelta alla United Artists. Gillo annunciò di aver trovato José Dolores. “E chi è?” “Un piccolo attore locale” mentì spudoratamente il Nostro. “Ma parla inglese?” “Maluccio, ma abbastanza per poter poi fare una postsincronizzazione. Ci arrangeremo.” A Evaristo non fu fatto neanche un provino: Gillo pensava che probabilmente si sarebbe scoraggiato. Valeva la pena di rischiare. Gli vennero fatte invece cento foto, in tutte le pose, per vedere come rendeva fotograficamente. Il risultato era entusiasmante. Evaristo Marquez, il nero analfabeta, ormai promosso coprotagonista del film accanto a una star come Brando, si trasferì all'Hotel Caribe.

La lavorazione cominciò in effetti il 4 novembre 1968. Ma Brando arrivò solo il 6 di dicembre. Pioveva su Cartagena e sulla costa. La Marina colombiana aveva già dovuto correre in soccorso della troupe di Pontecorvo, bloccata su un'isoletta lì davanti. Il caldo era spaventoso. Ma, nonostante le condizioni difficilissime, all'inizio Brando si rivelò un compagno di lavoro di straordinaria generosità. Una generosità in parte dovuta alla stima che aveva per Gillo e al suo interesse per un film che avrebbe dovuto soddisfare le sue passioni politiche, in parte per una scelta ideale: Evaristo era un nero, e lui voleva aiutarlo in ogni

modo. Anche se si può immaginare quale fosse il contrasto tra lo stile Actors’ Studio di Brando e la selvatica naturalezza di Marquez. Gillo ammette che talora, come già era successo in Kapò, 152

il Metodo gli dava ai nervi, perché si trattava magari di approfit-

tare di un momento fortunato di luce per cogliere un brevissimo

sguardo di cui si sarebbe tenuto forse un metro e mezzo, due se-

condi di proiezione — e le meticolosità di Brando rallentavano la lavorazione. “Il Metodo va benissimo per il teatro,” sostiene adesso Gillo, “e anche per il cinema, quando ci siano scene di un cer-

to peso che abbiano bisogno di un approfondimento psicologico. Ma nelle condizioni concrete del set, dominato dalla legge del cronometro, mentre la luce magari se ne sta andando e bisogna finire una scena in cui l’interpretazione non è l’elemento chiave,

fa incavolare sentirsi chiedere dall’attore tirato su col Metodo,

‘spiegami bene qual è il mio stato d’animo in questo momento, cosa pensavo ieri e cosa penserò domani’. Vien voglia di dirgli: ‘Ma perché non mi chiedi anche cosa pensava tuo nonno prima che tu nascessi?”.” Non bastava il problema del Metodo. Brando sul set era estre-

mamente

nervoso. Bastava che, mentre si preparava a lanciare

la sua battuta, incontrasse lo sguardo di un elettricista, di un macchinista o di chiunque altro della troupe, che chiedeva immediatamente a Gillo di dare lo stop. A Gillo chiedeva anche, per favore, che si nascondesse dietro la macchina da presa, “perché ho l'impressione che tu mi guardi ironicamente”. Ed era inutile che Gillo gli spiegasse che non si sognava neanche di guardarlo con qualcosa che non fosse ammirazione... Viveva molto appartato, Brando, e studiava la parte come un matto — ma il suo nervosismo da purosangue ogni tanto gli faceva dimenticare le battute. Spesso doveva aiutarsi leggendole sui cosiddetti “gobbi”, i leggii dove si scrivono a caratteri cubitali le battute. E, almeno in principio, faceva di tutto per aiutare Evaristo Marquez, che certo il Metodo non sapeva neanche cosa fosse. D'accordo con Gillo, ogni volta che in una scena Brando era di schiena e Evaristo a favore della macchina da presa, Brando gli mimava quello che doveva fare. E il gigante nero, copiando, rifaceva benissimo la sua parte. Ma ci furono momenti disperanti. Per esempio la scena in cui era previsto che José Dolores dovesse lanciare a Walker uno sguardo ironico. Come si poteva far capire a uno con cui si comunicava metà in spagnolo metà a

gesti il senso della parola ironico? Per fortuna il cinema non è il teatro e, sostiene Gillo, si può far recitare anche una valigia. Nel copione i due dovevano affrontarsi in piedi. Li mise invece uno seduto — Evaristo — e uno — Marlon-in piedi. Gillo pensava — e ha avuto ragione — che se Evaristo se ne fosse stato seduto con la testa bassa, e in quel momento avesse alzato un po’ la testa dando un’occhiata dal basso

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verso l’alto in direzione del suo interlocutore, con un opportuno taglio di luce - e l’aiuto del dialogo — si poteva trasformare quello sguardo in un'occhiata piena di sottintesi ironici. Gillo spiegò la manovra a Brando, che trovò l’idea geniale. Per Evaristo avrebbe fatto di tutto, e almeno all’inizio lo diverti-

vano - lui, cresciuto a Hollywood - l'atmosfera avventurosa, l'ar-

te di arrangiarsi, il clima artigianale del set italiano. Ma la scena era complessa: il dialogo tra i due personaggi era lungo, e non si poteva pensare che Evaristo ascoltasse tutta la tirata di Marlon con la testa bassa. Bisognava che lo guardasse negli occhi, che solo a un certo punto abbassasse la testa per poter poi, dopo un po’, da quella posizione risollevare lo sguardo verso Brando in quella famosa occhiata voluta da Gillo. Anna Maria Montanari, la segretaria di edizione, era dunque incaricata di ricordare a Eva-

risto, a un certo punto, di abbassare la testa, toccandogli fuori campo la gamba con una canna.

Toccato sulla gamba, però, Evaristo, le prime volte, abbassa-

va la testa di scatto. Marlon, paziente, ricominciava, ciak dopo ciak. Finalmente Gillo riuscì a far capire a Evaristo che doveva

abbassare la testa piano, “come se tu riflettessi e ascoltassi in-

sieme”. Al trentesimo ciak ce la fecero. Brando, sempre paziente, commentò: “Conosco qualcuno che a veder girare questa scena si sta rivoltando nella tomba”. “Chi è?” chiese Gillo. “Stanislavskij,” ghignò Brando. Aggiungendo: “E se poi la scena viene bene, come pare possa succedere, allora quello si alza dalla tomba e se ne va”.

Ma dopo i primi tempi le cose sul set andarono tutt'altro che lisce. Brando —- è Pontecorvo a parlare così - “è ombroso come tutti i cavalli di razza”. Viveva da solitario in una villa nella città

vecchia, vicino al convento di Santa Clara (ma la solitudine non

gli impediva di sedurre ogni essere femminile che si muovesse nel raggio di cento chilometri). Sentiva nostalgia dei suoi figli. Lo infastidivano gli insetti e il caldo. Lo innervosiva il chiasso della troupe italiana — e lui risolse il problema girando con dei tappi di cera nelle orecchie. Si sentiva provocato da Gillo, che una volta, nella sequenza del casino, gli fece ripetere quarantun volte (e non per colpa di Evaristo che in questo caso era di schiena) la stessa scena: un fugace sorriso che ogni volta diventava più tirato e più innaturale. In un'intervista a “Life” disse che se Pontecorvo voleva “un sorriso viola e io gli davo un sorriso lilla, con-

tinuava a battere ciak fino a ottenere esattamente quello che chiedeva, anche se nel frattempo mi si era slogata la mascella”. Prese a trascorrere i week-end a Los Angeles — mettendo in agitazione la produzione che temeva dirottamenti e rapimenti. 154

Cominciò — almeno così sostiene il suo biografo Peter Manso — a

prendere in giro Pontecorvo per la sua superstizione. Perché Gillo era superstizioso davvero: prova ne sia che aveva cominciato

Queimada, nel clima tropicale di Cartagena, con la stessa vecchia giacca di tweed con cui aveva dato il primo ciak di Kapò e poi di

Algeri. Per provocare

la superstizione

pontecorviana,

racconta

Manso, l'attore arrivò un giorno alle spalle di Gillo con uno specchio e con un martello glielo ruppe sotto il naso come per sfida. Da quel giorno, sempre a sentire Manso, Gillo cominciò a girare con una pistola. Gillo dice che la storia dello specchio non è vera. Ma quella della pistola sì, anche se, com'è ovvio, non la portava per tenere a bada Brando, ma per ragioni di sicurezza: la Colombia non era popolata di angioletti, e circolavano voci secondo cui qualcuno voleva rapire i bambini Pontecorvo. Ed era così successo che un giorno il capo della polizia di Cartagena l’aveva convocato, gli aveva

detto di aver ricevuto

soffiaté inquietanti,

e aveva

messo

alle costole della famiglia un poliziotto, dalla cui protezione ov-

viamente non si aspettava granché se aveva anche messo in ma-

no all’esterrefatto Gillo un pistolone, invitandolo a portarlo sempre con sé. Gillo per fortuna ebbe occasione di usarlo una sola volta, il giorno che, mentre passava sul molo davanti all'Hotel Caribe, vide nell'acqua una ricciola di quasi un metro, e poiché non aveva certo il tempo di andare a prendere la sua diletta fiocina, tirò fuori il “cannone” e sparò — facendo cilecca, si giustifica, “per la rifrazione dell’acqua”, ma provocando lo sgomento degli astanti e della troupe, che si riversò sul molo convinta che il momen-

to tanto temuto fosse giunto.

La leggenda dei contrasti tra Pontecorvo e Brando trovava il perfetto terreno di coltura nella troupe. Che non era la troupe piccola e affiatata, la troupe di amici di Kapò o di La battaglia di Algeri. Ma una troupe enorme, all'americana. Settanta persone costrette a vivere insieme per cinque mesi: gente che non aveva nulla da fare, segretari e assistenti personali di Brando, parrucchieri e costumisti, italiani, locali caraibici e colombiani dell’interno. Un vivaio di umori, pettegolezzi e di “balle” che finirono per trasformare i delicati rapporti tra il regista e la star in un epico scontro. Pontecorvo pensa ora che la vera sostanza della frizione creatasi fosse dovuta a una visione diversa del cinema: “Come qualsiasi regista europeo che ama il suo mestiere sono convinto a torto o a ragione che il film, al pari di qualsiasi forma di espressione artistica (perché continuo a credere malgrado tutto che i film possano di tanto in tanto essere arte), debba essere lo 155

specchio dei difetti e delle qualità di una sola persona. Per sto, anche trovandomi di fronte a un attore geniale che avevo to perché lo ammiravo incondizionatamente, quando lui lontanava dall’idea che mi ero fatto del personaggio, e solo

quescelsi alallo-

ra, io maniacalmente gli facevo rifare la scena finché il risultato

non era quello che volevo”. Gillo dice adesso di rendersi conto che era pazzesco, e che Brando non aveva tutti i torti — prova ne sia che in Ogro ha “ridimensionato” il suo “perfezionismo”. La volta dei famosi quarantun ciak (che nella versione Brando sono quarantaquattro) l'attore cominciò a dire che Gillo era un dittatore. “E per poter giustificare a se stesso il suo odio, arrivò a convincersi, anzi a credere, da persona fondamentalmen-

te onesta qual era, che avevo tutti i difetti del mondo.” Anche razzista, sostenne Brando.

Perché? Perché il “cestino” era diverso

per i bianchi e i neri. Poco gli importava che Gillo, non c’entrasse con le decisioni della produzione. portava che il cestino dei neri fosse diverso per la gione che le varie categorie di comparse hanno un

com'è ovvio, Poco gli imsemplice ratrattamento

economico diverso in tutti i set del mondo. Gillo, secondo lui, do-

veva fermare il film, scioperare, minacciare la produzione. Se non lo faceva, era complice di una vergogna... Picci Pontecorvo, che viveva con Gillo e Ludovico e Marco,

piccolini e beati, in un appartamento del Laguito, una zona lontana dal centro della città affacciata da una parte sull'oceano e dall’altra sulla laguna, ha la sua femminilissima e gentile spiegazione dei contrasti che opposero i due e avvelenarono il film: l'invidia per l'atmosfera familiare che a Brando mancava. In particolare ricorda una sera che erano tutti lì, Marlon, Gillo, i bam-

bini, Franco Solinas di passaggio a Cartagena, gli amici, a bere e ascoltare la musica di Bach. Brando nell’andarsene abbracciò Picci e disse nel suo francese che talvolta funzionava a dovere: “Quelques fois la vie peut étre douce”. Ma il mattino dopo, ricorda dalla sua Gillo, abbandonò il set urlando perché diceva che Pontecorvo gli toglieva lo spazio creativo. E dire che il Nostro lo trovava e lo trova il più grande attore che si sia mai visto su uno schermo... Dopo poco più di un mese Brando propose senza mezzi ter-

mini il licenziamento del povero Evaristo Marquez. Dopo due mesi regista e attore non si parlavano più, così che Gillo doveva dargli le indicazioni per la scena attraverso il suo aiuto, Salvo Ba-

sile. “Dovrebbe sorridere un po’ meno,” diceva per esempio Gillo al gigante italiano, che con tutta la circospetta gentilezza del caso trasmetteva le istruzioni al divo, ovviamente sotto gli occhi 156

di Gillo. “In che misura meno, e da che momento?” rimandava a dire Brando, sempre rivolto a Basile. Finché, durante una delle

sue periodiche fughe per andare a trovare i figli in America, Bran-

do telefonò dicendo che la sua vita in Colombia era in pericolo,

che non poteva tornare, che se volevano continuare il film dovevano trasferire la lavorazione in Marocco. Così fu fatto. Grimaldi e la United Artists chinarono la testa, Gherardi trovò altre locations, la troupe, dopo una breve pausa

a Roma, si trasferì per un ultimo mese a Marrakech, che simulò

con successo l'interno dell’isola di Queimada, Evaristo Marquez

ebbe il suo primo passaporto e fece il suo primo volo. Intanto, il suo percorso verso la “civiltà” era totalmente compiuto. Lo si vedeva spesso al bar dell'Hotel Caribe, con al collo un foulard az-

zurro all'ultima moda, ordinare un gin-tonic. Come Dio vuole, il film fu finito. Ma Gillo e Brando, girato l’ultimo ciak, non si sa-

lutarono neppure. A “Life” Brando dichiarò che come artista (“una parola che mi fa rabbrividire,” dice Gillo) stimava moltissimo

Pontecorvo, ma che come uomo, visto che era un dittatore sadi-

co e razzista, non poteva neanche dargli la mano (proposito che come vedremo si rimangerà). Anche durante la lavorazione di Queimada, la musica ha avuto il suo ruolo importante. Anzi, l’ha avuto ben prima, mentre

Gillo stava preparando il film. A poche settimane dall’inizio delle riprese il Nostro era entrato in crisi. Il film non lo convinceva più. Cercava disperatamente una scusa per dire al produttore che non lo voleva più fare — ma intanto continuava la revisione della sceneggiatura. In quel momento stava lavorando sulla scena più importante del film: quella in cui si vede arrivare verso la capitale dell’isola l’esercito degli ex schiavi, che guidati da José Dolores hanno vittoriosamente fatto la rivoluzione. Una scena imponente, per cui erano previste più di ottocento comparse. Malgrado la sua grandiosità, però, gli sembrava che mancasse della necessaria carica di emozione. Forse questa “anima” in più che Gillo sentiva così indispensabile avrebbe potuto essere data dalla colonna sonora. Ci sarebbe voluta una musica primitiva che avesse allo stesso tempo una forte valenza religiosa. Il Nostro cercò di comporre, o meglio, di fischiare, come fa lui, un pezzo che avesse queste carat-

teristiche. Ma non gli veniva fuori nulla di decente. Poi, improvvisamente, si ricordò di aver sentito qualche anno prima una mes-

sa africana, la Missa Luba, con uno straordinario Kyrie. La ricordava confusamente, ma subito ebbe la sensazione di aver tro-

vato la soluzione. Corse a comprare il disco e rilesse la scena

157

ascoltandolo. L'effetto fu sconvolgente e immediato. Quelle note cariche di una fortissima religiosità primitiva sarebbero state perfette, pensò Gillo, per dare un tono biblico all’avanzata di quello strano esercito di straccioni, anzi, di quel popolo in armi che procedeva con i suoi carriaggi, i suoi uomini e le sue donne, i bambini, le capre, i feriti. Tutti i dubbi sparirono, Gillo amava di nuovo il suo film. Tre mesi dopo cominciarono le riprese e venne anche il momento di girare la famosa scena, che si svolgeva su una spianata ai margini di Cartagena. Gillo fece piazzare sei altoparlanti che diffondevano a tutto volume le note del Kyrie. Malgrado il numero sterminato di comparse quel giorno la protagonista era la musica. Agli aiuto registi che erano venuti a chiedere quali istru-

zioni dare alle comparse Gillo, ricordano i presenti, rispose: “Quasi niente, il minimo

necessario, giusto i tempi e le direzioni di

marcia. Al resto ci pensa il Kyrie”. E infatti la fortissima religio-

sità di quelle note primitive che si diffondevano tra il mare e la laguna sortirono l’effetto desiderato: le comparse, malgrado non fosse stato loro spiegato granché, avanzavano con quell'incedere “internamente” inarrestabile e ieratico che Pontecorvo cercava. La troupe e i tecnici erano tutti emozionati. Persino nel decidere il tipo di obiettivi e le inquadrature, ricorda il Nostro, “osa-

vamo delle scelte sopra le righe che forse avremmo esitato a fare”. Tanto che Lietta dall’“Europeo” sul set, scrisse: “È la prima una scena da un regista e da una troupe in

in stato di sobrietà Tornabuoni, inviata volta che vedo girare trance”.

Inutile dire che mai e poi mai, dichiarò Gillo, avrebbe accettato di sostituire la Missa Luba, nella colonna sonora definitiva,

con un’altra musica, per bella che fosse. Ma Ennio Morricone riprese subito una vecchia amichevole polemica che aveva con Gillo e che, a quanto risulta, aveva avuto anche con Pasolini. È sba-

gliato, sosteneva, inserire in un film pezzi di compositori diversi, anche se magari stanno benissimo in questa o quella scena, perché questo si paga a caro prezzo, rompendo cioè l’unità di stile musicale del film. Gillo obiettò che in teoria aveva ragione, ma che di cambiare la Missa Luba non se ne parlava proprio. Non faceva i conti con Morricone che, granitico, compose un pezzo, lo fece eseguire a sue spese da un'orchestra, e lo portò a Gillo bell’e registrato, pregandolo — almeno - di ascoltarlo. Il pezzo era “entusiasmante”, uno dei più belli che Morricone avesse mai scritto. Era un “inno laico in omaggio alla lotta per la libertà”, lo descrive Gillo. “Molto più bello musicalmente della primitiva Missa Luba,” ammise, “ma non posso usarlo perché manca della profonda religiosità popolare di cui ha bisogno la scena.” Morricone insistette: “Ti prego, ascoltalo in moviola in158

sieme alla scena”. Gillo — “per amicizia e rispetto” — accettò, assolutamente convinto che fosse tempo perso. Invece, in moviola avvenne il miracolo. “Le scene che erano

state girate sotto il segno della Missa Luba e del suo Kyrie, riverberarono sul pezzo di Ennio un poco di quella religiosità che gli mancava.” E fu possibile al Nostro adottare il bellissimo inno composto da Morricone. Questo episodio resta molto importante per Gillo, che da sempre è stato molto interessato al rapporto tra immagine sonora e immagine visiva: per lui è un po’ come un matrimonio di interesse, dove ognuna delle due parti si arricchisce grazie all’altra. Se il rapporto è felice, sostiene, due più due non fa quattro, ma

dieci, cento. Nei suoi primi cent'anni, dice, “l cinema ha fatto

passi da gigante per quanto riguarda il linguaggio e lo stile, ma ben poco ha fatto per quanto riguarda le grandi possibilità offerte da una gestione veramente creativa del rapporto tra suono e immagine”. “To non sono crociano, ma la definizione che troviamo nell'estetica crociana secondo cui l’intuizione artistica è una sintesi a priori di forma e contenuto, mi convince completamente, e mi sembra che si attagli molto bene al cinema di più alto profilo. I film, parlo dei film di impegno artistico, nascono spesso come un'intuizione ancora nebulosa, che contiene però già un’idea di storia o di situazione, uno stile, una maniera di raccontarla, alle volte persino di come fotografarla, e insieme sempre un sentore, seppur vago, della cifra musicale. Sono anche convinto che com-

pito decisivo per un regista sia cercare di seguire questa intuizione iniziale senza lasciarsi allontanare, resistendo alle mille sol-

lecitazioni, pressioni, difficoltà che si incontrano in questo tipo di mestiere. Non bisogna lasciarsi sedurre neppure da una bella idea che può venire in fase di sceneggiatura, se questo ti allontana dalla intuizione iniziale. Bisogna saper lottare anche contro i mille ostacoli pratici che possono spingerti a cambiare direzione. Per questo, a differenza di quanto avviene in altre forme di

esperienza artistica, nel nostro mestiere è determinante anche il

carattere.”

Maggio 1969. Dopo cinque mesi e mezzo la travagliata lavorazione del film era finita. Il titolo previsto era “Quemada”, perché secondo il progetto originale il film parlava delle piccole Antille spagnole, e l’isola in cui si svolgeva la storia si dove-

va chiamare, in spagnolo, “Quemada”,

la bruciata, dalla tecni-

ca con cui i suoi conquistatori - gli spagnoli prima, gli inglesi poi — piegavano la resistenza degli indigeni. Poi, a film ultimato, gli spagnoli (siamo ancora in pieno regime franchista) deci-

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sero che la cosa sembrava offensiva, e fecero sapere alla United

Artists che, se si fosse conservato quel titolo e quei riferimenti,

non avrebbero mai fatto circolare il film di Pontecorvo né qualsiasi altro film United Artists in Spagna né nei paesi dell’America Latina. La produzione abbozzò. “Quemada” divenne Queimada, alla portoghese. Le bandiere spagnole vennero corrette in truka.I cattivi dominatori divennero portoghesi. I nativi sfoggiarono un bizzarro patois inesistente — sia nell'originale inglese sia nella versione italiana. I portoghesi non protestarono - e comunque avevano meno potere.

L'uscita di Queimada fu salutata da reazioni diversissime e spesso estreme - come nel caso di Giuseppe Ferrara che su “Mondo nuovo” attaccò il film definendo gli autori servi del capitale (e

la redazione dovette dichiarare il totale dissenso dal suo critico).

Ma in un'epoca di ideologie forti la dialettica e la complessa orchestrazione delle posizioni di Queimada in Italia sconcertarono e irritarono molti, soprattutto nella estrema sinistra. In Francia, dove il film uscì poco dopo la ritardata apparizione di La battaglia di Algeri, il successo fu enorme e si parlò concordemente di capolavoro. Tanto che se Henri Chapier su “Combat” definiva Queimada un film “prodigioso” (e anche “un momento di cinema che strega. E non mi stupirebbe se il respiro lirico di Pontecorvo fosse all'origine di vocazioni politiche che qualsiasi altra fraseologia lascerebbe addormentata”), “l’Aurore”, all'estrema destra dello schieramento politico-giornalistico, ne parla come di un “film eccezionale”, che “non possiamo far altro che ammirare”. In America la United Artists, che aveva costretto Pontecorvo

(per la verità senza grandi resistenze da parte sua) a eliminare il flashback, considerato troppo difficile peril grande pubblico ame-

ricano, e a “raddrizzare”, per così dire, la storia - come

succe-

derà quindici anni dopo anche a un altro grande film italiano, C'era una volta in America —, buttò Queimada sul mercato senza

convinzione, reintitolandolo Burn! (brucia), per assonanza con

“Burn Baby Burn”, il grido di battaglia delle rivolte nere di quegli anni, e poi tagliandolo di venti minuti. L'accoglienza fu contrastata. Il film parlava agli americani nella forma di un cinema spettacolare che capivano e per bocca del loro massimo attore della grande tragedia e del grande dibattito di quegli anni, la guerra del Vietnam. Non è un caso se divenne soprattutto un successo nei campus universitari, se piacque all’intellighenzia critica, da Judith Crist a

Joan Mellen. Qualcuno, più acido e meno ideo-

logico delle grandi signore della critica, si limitò a scrivere che Brando, dopo Gli ammutinati del Bounty, avrebbe dovuto starsene alla larga dalle avventure tropicali e dall’accento inglese. Al 160

festival di Mosca del 1969, dove il film fu presentato con grande

risalto — ma in un momento di grave crisi con la Cina —, la battuta pronunciata dall'ex schiavo José Dolores mentre va al patibolo che gli hanno preparato gli inglesi — “Inglés, è questa la civiltà dei bianchi? e fino a quando?” - suscitò un pandemonio, e costrinse la “Pravda” a garantire dalla prima pagina che il film era politicamente corretto e non sosteneva posizioni filocinesi. Bruno Pontecorvo, che seguiva il festival fianco a fianco al fratello, visse un attimo di imbarazzo.

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Capitolo nono Come e perché Gillo non abbia realizzato un buon numero di film che gli piacevano — e anche qualcuno che non gli piaceva fino in fondo. Come e perché sia arrivato a stento, dopo un intervallo di dieci anni, a girare Ogro, il suo

film numero sei (0 cinque e mezzo). Come l'abbia fatto non del tutto convinto, e non del tutto convinto sia rima-

sto. Come si sia lasciato alle spalle una miriade di progetti, di idee, di suggestioni, due sole delle quali — forse — rimpiange veramente di non aver realizzato. Come abbia finalmente fatto di Picci “una donna onesta” e si sia trasferito con lei e tre bambini in via Paolo Frisi.

Se a Gillo Pontecorvo si chiede adesso — 1999 —- cosa pensa di Ogro, scuote la testa perplesso. Ogro non lo convince. Come non lo convinceva allora. “Se uno ha dei dubbi politici e persino morali sul fatto che sia giusto o meno fare un film che è un film epico, un film ideologico, gira con la coda di paglia. E noi abbiamo girato questo film con la coda di paglia.” Ogro era nato male. Non dall'amore, ma da un'esigenza che ormai Pontecorvo sentiva fortissima — e che ogni giorno contraddiceva: l'esigenza di lavorare. Dopo un'accoglienza all’inizio tiepida, Queimada aveva avuto una grande circolazione nei campus dei college americani, aveva vinto il David di Donatello per la miglior regia dell’anno, era stato riscoperto dalla critica e dalla grande stampa, e aveva ricevuto dalla critica e dal pubblico, al festival di Toronto

del 1978, un trattamento

trionfale. Ma, ap-

punto, dall’avventuroso set di Queimada erano passati dieci anni. Dieci anni di progetti, di rifiuti, di idee cadute, di idee abbandonate, di Caroselli fatti per mandare avanti la baracca — ma senza un film. Ugo Pirro aveva un bel dire all'amico Pontecorvo che bisogna girare, se no si disimpara. Gillo aveva - lo dice lui - una malat-

tia, quella che chiama “la mia gobba”. La gobba era (ed è) il perfezionismo,

il “cagadubismo”,

l’indecisionismo,

la tendenza

al

rinvio, che ai tempi in cui Gillo divenne direttore della Mostra del cinema di Venezia gli guadagnò dalla sua affezionata amica e ora biografa il soprannome di “Cuncti” (da Cunctator, il temporeggiatore). Poco importava se i soldi in casa continuavano a essere pochi (Gillo, con il suo compenso di Queimada, si era comprato l’appartamento di via Paolo Frisi, in cui abita ora, salvo poi conti162

nuare ad abitare per alcuni anni con Picci e i bambini ormai diventati tre nella microscopica casa di via Massaciuccoli, incapace di fare il salto verso il decoro borghese). Poco importava se dopo qualche mese di splendori miliardari i coniugi Pontecorvo avevano ricominciato a contare gli spiccioli. I suoi amici e colleghi giravano, facevano film spesso indifferenti, affrontavano successi e insuccessi, vivevano con il lustro e il lusso che il cinema dà ai suoi protagonisti. Gillo no. Non ce la faceva a cominciare a lavorare su un progetto se non lo sentiva totalmente suo, se non ci

si identificava. Sonego, uno dei più noti sceneggiatori italiani, racconta che un giorno a New York stavano salendo le scale di un grande produttore americano per portargli un copione che avevano appena finito di scrivere quando Gillo si fermò e disse terrorizzato “e se poi gli piace?” — o, in un’altra versione dello stesso episodio, “e se dice di sì?”. Gillo naturalmente protesta che è una balla di Sonego, il quale “di mestiere fa il contaballe”, visto che è uno sceneggiatore. A dire il vero pare che già a metà del lavoro Gillo avesse cominciato a dire “non mi sembra che stia venendo fuori una cosa proprio nelle mie corde, ci sta un po’ sfuggendo di mano”, e via temporeggiando. In realtà, non erano poi tante le storie adatte a lui: se lo si forza, Pontecorvo si definisce, ridendo e arrossendo, “un regista epico corale”. Quanto spazio c'è, e c’era, sullo schermo per questo tipo di cinema? Per un altro tipo di cinema lui non aveva il minimo interesse. “Fare un film è una cosa bellissima, ma solo se a

torto o a ragione ci credi fino in fondo. È un po’ come quando voi donne dite che è bello scopare solo quando si è innamorati...” Lui, in altre parole, non si innamorava più.

Di progetti amati e abbandonati la storia di Gillo regista è piena. Dopo il successo di Kapò si era ritrovato nel giro di pochi mesi sulla scrivania di via Massaciuccoli (disordinatissima) ventidue proposte di film. Finì per rifiutarle tutte. Un soggetto parlava del ghetto di Varsavia — e sembrava un tema adatto a lui, ma non venne preso in considerazione perché, secondo Gillo, c'era troppa fiction, era troppo romanzato. Un'altra idea era la riduzione di Una vita violenta di Pasolini. Gli proposero persino un film che non sembrava davvero nelle sue corde, /o la conoscevo

bene, un soggetto originale di Scola e Maccari che sarebbe poi diventato il capolavoro di Antonio Pietrangeli. Con Solinas cominciò a lavorare alla sceneggiatura di un film da Le soldatesse di Ugo Pirro, e lo cambiarono così radicalmente che il produttore Raoul

Levy lo rifiutò, dicendo loro se erano matti a voler fare un film di guerra da cui avevano eliminato tutta l’azione. “Volete fare Ma163

rienbad coi fucili?” Per un po’ pensò a una storia e la buttò giù insieme al suo dioscuro, “Confino Fiat”, ambientata nel periodo

scelbiano su un reparto della Fiat chiamato “Stella Rossa”, dove venivano appunto confinati gli operai più attivi sindacalmente — ma, non sorprendentemente visto che si era nel periodo più duro del regime democristiano, nessun produttore se la sentì, e l’i-

dea, questa volta non per colpa sua, morì lì. Più sorprendentemente - perché era certamente superstizioso ma sembrava poco interessato all’irrazionale — Gillo si mise a scrivere con Fausta Leoni un programma

televisivo in quattro

puntate sull’aldilà, prontamente bocciato dalla Rai come improponibile e poi pubblicato in appendice a un libro della Leoni, Karma. Ed è forse proprio dalle ricerche fatte intervistando la gente su quello che pensa ci sia dopo la morte che Gillo cominciò a interessarsi ai fenomeni paranormali, e per quasi due anni girò il mondo con quaderni, registratori e molti soldi (messi a disposizione da Sansone e Chroscicki, i due amici produttori affascina-

ti dall'idea) per fare un film sulla magia, alla ricerca di quello che chiama “l'ospite segreto dell’uomo”, e cioè i suoi latenti poteri paranormali, la presenza di altri stati di coscienza. Gillo era affascinato o per lo meno incuriosito da questi fenomeni, anche se Bruno “e la parte razionale della famiglia” l’avevano sempre preso in giro. Ma Gillo obiettava che “la posizione della scienza rispetto al paranormale, come la esponeva Bruno, assomiglia a quella di un contadino che portato di fronte al-

la gabbia del cammello dice no, no, no, un animale con due gobbe non può esistere”. Fu per questa irrazionale curiosità che Gillo entrò in contatto con le streghe di Londra e il mago Rol tanto caro a Fellini, con gli sciamani brasiliani e le tarantate lucane. E si sottopose, come fecero anche Franco Solinas, lo stesso Fellini

e un ben assortito campionario di intellettuali, operai, artisti, impiegati, a un esperimento di assunzione controllata di sostanze stupefacenti, sui cui effetti si stava indagando. A proporre l'esperimento furono due grandi psicoanalisti, Emilio Servadio e Eugenio Gaddini. Fellini scelse di prendere la mescalina (e chissà che non sia derivata da lì una parte della sua fascinazione per Castaneda). Solinas e Gillo optarono per l’Lsd, che allora (siamo alla vigilia di La battaglia di Algeri e la cultura hippy è di là da venire) si chiamava ancora con il suo nome scientifico di dietilamide di acido lisergico. I risultati prodotti dalla “bella dose” che Gillo ne assunse sono registrati in dodici ore di nastri. Gillo ricorda l’esperienza, che si svolse in casa Servadio,

come molto felice — anche se in quella indotta felicità restava tipicamente

se stesso.

Oggi, tentando di analizzare quella esperienza, dice che “vi164

vi uno stato euforico dovuto probabilmente alla caduta delle divisioni tra soggetto e oggetto. Ti senti in una specie di unione, ad-

dirittura di fusione, di totale armonia con il mondo esterno, per cui tutto diventa accettabile”. Trascrivo qui un brano dei nastri che mi sembra illuminante a questo proposito. È passata circa mezz'ora dall’inizio dell'esperimento. Servadio: “Comincia a sentire qualche effetto?”. Pontecorvo: “Sì, ora sì: un senso di grande

benessere, addirittura palpabile, che parte dallo stomaco, dal plesso solare, e va a ricollegarsi, cioè trova una sponda, proprio in quella striscia di metallo dorata alla base del lampadario sopra di noi... che, mi permetta di dirglielo professore, è proprio bruttino”. Pausa. “Ma accettabilissimo.” Se il mondo esterno sotto acido lisergico gli piaceva, tanto da convincerlo a telefonare a Picci per parlarle in termini aulici e classici dei normalissimi tramezzini del bar Il cigno che gli vennero offerti nel corso della prova (“un vero nettare”), la droga non scalfì dunque il suo senso critico in materia di arredamento - e di musica. Imprudentemente Servadio mise sul giradischi (così allora si chiamava) il Clair de Lune di Debussy, solo per vedere la

sua cavia balzare su indignata strillando che gli togliessero di mezzo “quell’orrore” — un pezzo che Gillo non aveva mai amato. Obbediente, Servadio mise su a questo punto il Concerto per violino e orchestra di Beethoven che, dice Gillo, non gli era mai

sembrato così irresistibilmente bello. Ma se la musica scatenò altre visioni felici (“ricordo quando a Forte dei Marmi pregavo la tata di lasciarmi sulla spiaggia sino a tardi, per vedere la riga dorata che il sole al tramonto formava sul mare diventato liscio come l’olio”), Gillo restava maniacalmente preciso: dopo dieci minuti e molti altri discorsi più o meno insensati lo si sente dire: “Professore, io prima ho detto riga, ma lei ha certamente capito che intendevo dire striscia?”. E Servadio e Gaddini, i quali pensavano che in individui normali, nelle condizioni particolari crea-

te dall'uso di certe sostanze, potessero insorgere capacità paranormali, dovettero arrendersi di fronte alla cavia Pontecorvo, che

restava se stesso, salvo una fortissima esaltazione dei suoi dati caratteriali. Diverso l’effetto dell'esperimento su Franco Solinas, che vis-

se tutto con un profondo senso di tristezza, ma soprattutto di distacco, come se stesse accadendo a un altro. Quanto a Fellini, si

può sapere ogni particolare della sua reazione all'esperimento nella bella biografia che gli ha dedicato Tullio Kezich. Più tardi Franco Cristaldi propose a Gillo un grande sceneggiato da La famiglia Moskat di Singer. Giorgio Arlorio insistette per molti anni con lui perché facesse un film sulla saga della fa165

miglia Pontecorvo, con un accento particolare sulla storia di Bruno — anche se sapeva che il pontecorviano senso della privacy gli avrebbe sconsigliato di farlo. Per anni Gillo pensò a un film che, come spesso gli capita, nasceva da una singola suggestione, più spesso da una musica, questa volta da un titolo “molto fitzgeraldiano” che stranamente gli venne in testa, “Gli ultimi anni della

grande tenerezza”, la storia di una grande famiglia attraverso la memoria di due vecchi rimasti soli nella grande casa a ripercorrere i ricordi familiari di cinquant'anni, le vicende degli otto figli (c’era, certo, una componente autobiografica) con le quali si raccontava mezzo secolo del nostro paese, la fine di un modo di vivere.

La voglia di fare questo film era nata dall’idea di un finale “visivo-musicale” che aveva entusiasmato

Gillo. Lo racconta così:

“Un vecchio alla finestra guarda distrattamente il traffico nella piazza sottostante. Da dentro la stanza la vecchia consorte gli

chiede: ‘Ma quando è venuta a trovarci Giuliana con i bambini”. E il vecchio risponde: ‘Non ricordo più, non ricordo: ma certo era uno degli ultimi anni della grande tenerezza... e riprende a guardare nella piazza. Qui,” dice Gillo, “nasce il tema musicale, il finale dell’Apollo musagète di Stravinskij, un pezzo straordinario che suggerisce l’idea della fine e che decresce sino a uno struggente e inquietante spegnimento. Lo sentiamo sul volto del vec-

chio, un uomo di settanta, ottant'anni, un tipico volto di quella no man$ land che si colloca negli ultimi anni prima della morte. Sono trent'anni che l’idea di questa storia mi accompagna, e di tanto in tanto me ne ritorna la voglia. Ma anche per questo film mi è successo quello che mi ha sempre fregato. Comincio a scrivere il trattamento con entusiasmo, poi mi faccio la tragica domanda che su di me fa l’effetto di una secchiata d'acqua gelata su due che fanno l’amore: ma perché si deve fare questo film? Oppure mi dico anche che questo film non sono proprio capace di farlo — ed è quanto è successo per ‘Gli ultimi anni della grande tenerezza’, che pure era una storia che mi entusiasmava. Io sono convinto infatti di saper fare solo un certo tipo di cinema, che chiedermi di fare una commedia o un film intimista sarebbe come chiedere a un pesce di passeggiare sulla spiaggia”. Il film a cui Gillo si è dedicato con più passione, e a cui si è sentito più vicino, è stato certamente “Il tempo della fine”: una storia di Cristo, ma polarizzata sull’epoca in cui è vissuto più che sulla sua figura. I tempi della fine sono, secondo le Scritture, quelli che coincidono con l’arrivo di Dio in terra, preannunciati dalla caduta degli astri, da sciagure terribili, da disastri. Doveva essere un film corale, una storia collettiva non dissimile linguisti166

camente da La battaglia di Algeri. Gillo scrisse il trattamento con Fabrizio Onofri, un intellettuale prestato al cinema, un amico che

come lui era uscito nel ’56 dal Partito. E prima di scrivere una sola riga, Gillo e Fabrizio si concessero un anno “di studi teologici”. Avevano trovato anche un miliardario americano — Feldsberg, il proprietario della Fruit d’Am, una grande catena di succhi di frutta — pronto a mettere i soldi se si fosse trovata una major company per distribuirlo. Per un po’ gli studios stettero al gioco: che star voleva Gillo? che attori? Quando scoprirono che Gillo voleva fare un film come La battaglia di Algeri, che, ancora una volta, voleva fare un film polve-

roso, pietroso, duro, con gente presa dalla strada, sperimentando con la fotografia, cominciarono ad avere paura, anche perché si trattava di una storia che prevedeva la presenza di grandi masse, e quindi molto costosa, e rilanciarono: una star, almeno per

Gesù, o niente. Gillo preferì il niente. Se c'era uno che non doveva avere la faccia nota di una star era proprio il Cristo, di questo Gillo era assolutamente convinto. Passavano gli anni e arrivavano altre proposte. E forse perché, pur non facendo film, continuava a campare, si creò una leggenda secondo cui Gillo per anni sarebbe vissuto di anticipi per film non fatti. Da testimone e vittima, più che da amico, Giorgio Arlorio ci tiene a mettere le cose in chiaro. E racconta un esempio per tut-

ti, di quando Donald Sutherland arrivò a Roma con un simpaticissimo amico produttore per convincere Gillo a fare un film da Il bisturi e la spada, il libro su Norman Bethune, medico, amico di Mao, grande eroe cinese, unico occidentale a cui Mao abbia

dedicato uno dei suoi discorsi. Sutherland e il suo amico scesero pieni di entusiasmo all’Hétel de la Ville, e invitarono a un incontro Gillo e Giorgio Arlorio mentre Franco Solinas, che da anni sosteneva l’idea di fare un film

su Bethune, non poté venire perché in quel periodo era occupato. I due canadesi volevano assolutamente combinare tutto prima di ripartire e, anche se Gillo faceva resistenza per non sentirsi troppo legato, insistettero per lasciare sia a lui che a Giorgio Arlorio un assegno, giusto perché cominciassero a ragionare sull'idea e si considerassero impegnati. Arlorio non sa di quanto fosse l'assegno di Pontecorvo. Il suo era di cinquemila dollari di allora, un bel po’ di soldi. Sutherland e l'amico ripartirono. Gillo, Arlorio e Solinas discussero per un po’ di come fosse possibile affrontare la storia di Bethune, cercando un possibile approccio. L'idea giusta non veniva. E alla fine Gillo disse no. “Si rimandano indietro gli assegni,” annunciò 167

al costernato Arlorio, che da Gillo — racconta — aveva appreso il gusto del pauperismo, ma doveva comunque guadagnare per vivere. Arlorio obiettò che quell’assegno gli era stato dato a fondo perduto, per uno studio di fattibilità che avevano fatto. Gillo fu implacabile: gli assegni ripartirono. Un altro capitolo dei film non fatti - ma questa volta non per colpa del Nostro — nacque dalla riconciliazione con Brando. I due che si erano tanto amati e tanto odiati, alla fine di Queimada si erano lasciati senza neanche una stretta di mano. Poi, nel ricordo, i dissensi erano sembrati ridicoli a Gillo, che aveva cominciato a rivalutare l’amico lontano, fino al punto di mandargli dopo due anni di silenzio, insieme alla moglie e ai figli, una scherzosa cartolina per il Natale 1969: “Caro Marlon, visto che né io né te rischiamo la brutta avventura di rifare un altro film insieme, sentiamo tutti la voglia di augurarti buon Natale e buon anno”. Non c'era stata risposta “e ho pensato, ma che stronzo, almeno per Picci, almeno per i bambini poteva farsi vivo”. Finché — doveva essere il 1975 — da Hollywood arrivò una telefonata dalla Columbia. Le interesserebbe fare un film con Brando sui pellerossa? Gillo rispose garbatamente che doveva esserci un errore. Ma è Brando che ci ha chiesto di contattarla, gli risposero. E

così, pur non credendoci assolutamente, Gillo si disse che in quel momento non aveva nulla da fare, che con i pochi soldi che avevano a disposizione era un po’ che non si muovevano. Perché dunque non si dovevano fare un bel viaggetto in prima classe fino a Hollywood, che Picci non conosceva? Continuava a pensare a un equivoco. Ma arrivato a Los Angeles e installato al Beverly Wiltshire, Gillo si accorse invece che la cosa era seria. Brando aveva finanziato la sceneggiatura del film ed era scatenato perché il problema dei pellerossa gli stava molto a cuore — basti ricordare che negli ultimi anni aveva dato una parte consistente dei suoi averi al Comitato di difesa dei diritti degli indiani d'America. Così, pur meravigliatissimo che Brando avesse proposto proprio lui come regista, nonostante le loro liti e le difficoltà sul set di Queimada, Gillo andò a trovarlo nella sua casa di Mulholland Road. Lo trovò

cordialissimo. Cosa che gli fece dire subito: “Marlon, allora sei

più pazzo di quanto immaginavo. È chiaro che dopo tre giorni insieme sul set litigheremo, perché né io né te possiamo cambiare carattere. Comunque, grazie della proposta”. Brando obiettò che si sbagliava, che lui teneva moltissimo a questo film e pensava che Gillo fosse la persona più adatta per farlo. “Sarò un angelo,” promise, per suggellare l'accordo. Brando era sempre stato un paladino delle cause civili e aveva sempre sostenuto attivamente la causa degli indiani d’Ameri168

ca. Il film che proponeva a Gillo aveva come soggetto gli incidenti che si erano prodotti due anni prima nel South Dakota, quando trecento lakota e due dozzine di veterani dell'American Indian Movement, che volevano l'applicazione del Trattato di Fort Laramie - un accordo vecchio di cento anni, che garantiva in teoria il territorio e l'indipendenza della nazione indiana e libere elezioni nella riserva —, avevano occupato la cittadina di Wounded

Knee, un luogo sacro alla memoria degli indiani perché nel 1890 l'esercito americano vi aveva brutalmente assassinato trecento pellerossa. La resistenza simbolica dei lakota e l'assedio di Wounded Knee da parte dell’esercito erano finiti dopo settantun giorni durante i quali tutto il mondo aveva fatto il tifo per gli indiani. E Brando aveva pensato e promosso un film sull’episodio: lui sarebbe stato il protagonista, la sceneggiatura era stata affidata a un altro liberal del cinema, Abby Mann, lo sceneggiatore premio Oscar di Vincitori e vinti. E la regia... Gillo, che non si lasciava impressionare dai personaggi mitici, volle per prima cosa riservarsi il diritto di rivedere il copione. E chiese, soprattutto, che gli fosse data la possibilità di vivere per almeno un mese in una riserva, per conoscere da vicino gli indiani, per vedere (ancora una volta puntando alla “dittatura della verità”) “come mangiano, dormono, sputano, ridono”. x”

Fu così che, rispedita Picci

a Roma, Gillo si ritrovò in una ri-

serva sioux di Pine Ridge, nel South Dakota, accanto a Wounded Knee. Il centro più vicino era Rapid City, “una delle città più brutte del mondo”, dove la gente, per noia e disperazione, era ubriaca fin dalla mattina. Dalla riserva gli indiani uscivano per andare a lavorare nelle case dei bianchi. Gillo divideva con una famiglia sioux una baracca di lamiera di pochi metri quadrati divisa da una tenda: da una parte lui, dall’altra i padroni di casa e i bam-

bini. Ma l’esperienza si rivelò straordinaria e sconcertante. La sua ospite era una donna di grande intelligenza e di grande preparazione politica, cuoca di professione, che per due anni era stata nella Commissione per i diritti indiani - ma quando si trattava di servire la cena stava in piedi dietro il marito e l'ospite, il quale purtroppo, nonostante tutti gli sforzi compiuti sul proprio istinto gastronomico, non riusciva ad apprezzare il manicaretto locale, la pecora bollita, che i suoi amici gli avevano ammannito

come una autentica gourmandise. Dei sioux Gillo si innamorò: del loro appassionato rispetto per la natura (quando vanno a caccia, racconta, non sparano al primo animale che incontrano, ma al secondo, per far capire alla Natura stessa che lo fanno solo per bisogno), del loro entusia169

smo, della loro generosità. L'unico limite che gli trova è — c'era da giurarci — la mancanza totale di musicalità, i loro canti informi. Il soggiorno a Wounded Knee durò tre settimane. Al momento di partire i suoi ospiti gli misero in mano un pacchetto. Quando

Gillo fece per aprirlo (all'italiana) gli fecero capire che, secondo il bon ton sioux, sarebbe stato più gentile farlo più tardi, a casa. Gillo non resistette. Arrivato sull'aereo strappò la carta che proteggeva l’involto. Conteneva la coperta sotto cui aveva dormito in quelle notti, tutta rammendata e rattoppata: l’unica cosa che avevano da regalare. Per quindici giorni Gillo rimase a Los Angeles a parlare con Brando dei cambiamenti che voleva apportare al copione di Mann. Poi ritornò a Roma dove lo raggiunse la notizia che il film era saltato: gli studios, a quanto pare, quando scoprirono che Brando si era impegnato con i suoi amici indiani dell’Aim a dare loro il controllo ideologico del film, si tirarono indietro, lasciando a

Gillo un grande rimpianto. Brando non dette più sue notizie. Nello stesso 1975 sembrò di nuovo che fosse arrivata la volta buona. I francesi volevano fare un film sulla grande raffle, la storia dei quarantamila ebrei francesi consegnati dalla Francia di Vichy ai nazisti nel luglio del ’42, raccolti nel Vélodrome d'Hiver e spediti a morire nei campi. Il progetto in effetti era nato pensando a Costa-Gavras, allora reduce dal successo di L'amerikano. Ma a poco a poco i produttori, Labrande e Kupferberg, si convinsero che Costa non era la persona giusta e si rivolsero a Pontecorvo. Per la sceneggiatura Gillo, al solito, interpellò Franco Solinas, che propose di far collaborare con loro anche Fernando Morandi, un altro amico sceneggiatore della banda di Fregene. Solinas ebbe subito una grande intuizione che piacque molto a Gillo: lasciare da parte l'approccio diretto, cronachistico-documentario, per cui la storia avrebbe rischiato di diventare una sorta di film dossier, e introdurre l’idea del doppio, del sosia, dell’alter ego. Solinas, Morandi e Gillo avevano lavorato duro per sei mesi. Ne era uscito un copione magistrale: nella Parigi occupata dai nazisti Monsieur Klein, alsaziano non ebreo, comincia a essere perseguitato dall’esistenza di un ebreo vero, suo omonimo,

lo cerca ansiosamente per chiarire la situazione e, finito anche lui per un malinteso nella grande raffle, partirà per un campo di sterminio. Una volta tanto, sembrava che Gillo avesse trovato il

film che faceva per lui. Durante i sei mesi di lavoro per la sceneggiatura, Franco e Gillo come sempre litigarono un po’, ma molto meno del solito. Sembrava fosse proprio la volta buona. Gillo aveva persino già 170

composto una parte della musica. “Il tema principale, quello che chiamerei del destino, mi venne in mente un giorno mentre stavo andando a

Ischia con Picci. Glielo fischiai, anche a lei piace-

va — e per me il suo giudizio è molto importante, anche perché Picci è musicologa di professione. Morivo dalla voglia di sentirlo eseguire da un flauto basso, le dissi. E per un colpo di fortuna, appena sbarcati dal traghetto, ci imbattemmo in due giovani americani che si pagavano le vacanze suonando e chiedendo l’elemosina. Uno dei due era un flautista. Gli fischiai il tema, pregandolo di eseguirlo nell’ottava più bassa del suo flauto. Ci sembrò perfetto. Eravamo entusiasti. Il film sembrava partito.” Come si sa, invece, non fu così: per riuscire a “montare” il film, come si dice in gergo cinematografico, e cioè per chiuderne il pacchetto produttivo, era indispensabile il nome di un grande attore, perché, al solito, Franco e Gillo avevano scelto un film costoso. E di grandi star libere, per il momento, non ce n'erano. I due gio-

vani produttori, al loro primo film, oberati dagli interessi passivi, non avevano fondi per aspettare. Per loro conto, Labrande e Kupferberg tentarono con Delon, di cui erano amici. Delon, entusiasta, si dichiarò persino pronto a mettere dei soldi suoi. Ma Gillo senza fare una piega rifiutò. Niente di personale: semplicemente la faccia della star francese non gli sembrava giusta e non ci fu modo di convincerlo. Pur avendo per contratto il diritto di scegliere gli attori, non volle rovinare i giovani amici produttori e li lasciò liberi di fare il film con Delon e un altro regista —- che fu Joseph Losey, al quale Delon era legato dai tempi di L'assassinio di Trotsky. Il Mr. Klein di Losey è un film di grande e ambiguo fascino. Resta la curiosità di sapere cosa sarebbe diventato nelle mani di Pontecorvo. Più tardi Gillo ammise che se Losey, da lui considerato un grandissimo regista, aveva fatto il film con Delon sen-

za la minima esitazione e senza cambiare una virgola della sceneggiatura, “io devo proprio essere un mentecatto ad abbandonare il progetto dopo averci lavorato quasi un anno”. L'ultima passione di Gillo, il film che giura avrebbe voluto veramente fare e che non fece, si intitolava “Romero”, ed era la sto-

ria dell'arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, protagonista della “teologia della liberazione”, combattente dal pulpito nella lotta contro i fascisti filogovernativi. In quegli anni Gillo aveva seguito con grande interesse l’azione di Romero e della teologia della liberazione, che aveva suscitato molte speranze ed entusiasmi in chi come lui non faceva più parte di una formazione di sinistra e aveva molte riserve sui modi in cui l’idea comunista era andata concretizzandosi nella realtà, ma al tempo stesso continuava a sperare e a vedere con ottimismo le possibilità dei gran171

di mutamenti che si profilavano grazie al riavvicinamento e all’azione comune tra una parte del mondo cristiano e il movimento socialista. Quando Oscar Romero, nel marzo del 1980, fu assassinato nella cattedrale di El Salvador durante una funzione religiosa, Gillo decise di dedicargli un film. Ma ancora una volta, lo scatto “creativo” venne da un'idea musicale. Gillo immaginava di cominciare il film con la Passione secondo S. Giovanni di Bach, il cui primo corale avrebbe dovuto esplodere mentre il sicario — della Cia? dei potentati locali? la storia non ha mai dato una risposta — arrivava all'aeroporto di El Salvador, mentre saliva in macchina, mentre apriva una valigia e cominciava con precisione meccanica a montare un mitra, mentre entrava con il mitra

sotto l'impermeabile nella chiesa dove Romero stava predicando. Il resto del film sarebbe stato raccontato in flashback. Ancora una volta Gillo cercava “la dittatura della verità”, e uno stile duro e scarno, da cronaca. Ma allo stesso tempo avrebbe voluto

questa volta scandire i momenti più importanti della narrazione e il passaggio dei capitoli con un attacco musicale, o meglio con una zona di musica ispirata alle passioni religiose, componendo su questo eroe moderno una sorta di actus tragicus bachiano. Questa coabitazione tra stile e ritmo cronachistici e i momenti musicali imbevuti di pietas religiosa avrebbero dovuto essere la vera cifra del film. Goffredo Lombardo, il produttore, tentennava: per via dell'argomento, anche, sicuramente per via dei costi. Tentennò così a lungo che fece in tempo a essere girato (con i soldi di un gruppo di associazioni religiose) e distribuito (nel 1989) un modesto film di produzione americana firmato da John Duigan e interpretato da Raul Julia. Gillo giura che altrimenti il film sarebbe stato fatto, e che una volta tanto non è stata colpa del suo “cagadubismo”. Poi... poi si è parlato di Gillo per portare a compimento il film sull’assedio di Leningrado rimasto allo stato di progetto dalla morte di Sergio Leone. Questa volta fu una questione di diritti a fermarlo: la signora Leone era in urto con la produzione, e Gillo, amico com'era del regista, non voleva certo mettersi contro gli interessi e i desideri della sua vedova. E le cose alla fine “si sono comunque sbragate, e credo che questo film non lo farà mai nessuno”. Perché Gillo ha fatto solo sei film (o cinque e mezzo, viste le dimensioni di Giovanna) su un arco di oltre vent'anni? Va bene

“la gobba”, la malattia dell'eterna incertezza. Ma c'è dietro qualcosa di più. “Cerco di dirlo nella maniera meno pomposa possi172

bile, ma nella mia vita la lotta politica, sociale, l'affetto per l’uomo che arranca, l’attenzione per imomenti più duri della condi-

zione umana hanno avuto un peso grandissimo. E per questo amo restare nel territorio delle cose che mi interessano. E mi interessano solo quei temi che mi scaldano dentro, se no dopo un po’ comincia il tarlo ‘ma perché si deve fare questo film?’. Altre spinte non ne ho, non ho molta voglia di comparire sui giornali, non sento il bisogno di essere presente sugli schermi, vivo molto modestamente, e quindi mi bastano pochi soldi. Non mi sognerei di fare un western, un giallo, una commedia, a meno che non rischiassi di morire di fame. Cosa che per ora non è mai successa. Quando avevo bisogno di soldi facevo un Carosello (ai tempi in cui si chiamavano

così),

e mi sono anche divertito, inventando

soluzioni e gag all’ultimo minuto, libertà per le quali oggi le agenzie ti ucciderebbero ma che allora accettavano con eleganza. Nel 1984 sono andato in pensione — due milioni e quattrocentomila. Picci insegna al Conservatorio di Santa Cecilia e ha il suo stipendio. Adesso ho anche lo stipendio di presidente dell’Ente cinema. Ma vivrei benissimo senza. E alla faccia di chi dice che sono pigro, giuro che se arrivasse o mi venisse un'idea di film, un film che riconosco immediatamente come mio, lo farei con gran-

de felicità.” Pausa. “La verità è che probabilmente ho poche idee. Perché se ne avessi di più sarebbe capitato che qualcuna di queste idee venisse realizzata.” Pausa. “Il paragone più calzante è con uno più o meno impotente, che riesce a eccitarsi e a provare interesse solo con rare donne molto speciali...” È tra queste esitazioni che nacque nel 1978 Ogro, il film della coda di paglia. L'idea di Ogro cominciò a prendere forma quando arrivò

a Roma una signora molto vicina ai baschi dell’Eta, la

quale propose a Gillo di raccontare in un film la storia dell’attentato in cui perse la vita l’ammiraglio Carrero Blanco, il delfino di Franco, primo ministro di Spagna, che il 20 dicembre del 1973 saltò in aria con la sua Dodge in via Claudio Coello, a Madrid, nel quartiere di Salzuzuco, a due passi dall’ambasciata americana. La macchina di Carrero Blanco venne fatta saltare in aria da una bomba piazzata sotto la sede stradale in un tunnel scavato clandestinamente sotto via Coello da un commando dell’Eta, e scagliata fino al quinto piano di un palazzo vicino, tanto che per un po’ nessuno capì dove fossero finiti il primo ministro e la sua scorta. La storia era raccontata in un libro di Julen Aguirre, uno dei congiurati, che venne pubblicato anche in Italia, Operazione Ogro. Come e perché abbiamo giustiziato Carrero Blanco. Cristaldi aveva accettato di produrre il film, e Gillo con Ugo Pirro si accinse 173

a scrivere la prima stesura del copione. Gillo era contento dell’idea di fare un film contro il franchismo. Ma ha probabilmente ragione Giorgio Arlorio, che Pontecorvo volle avere accanto per una nuova versione della sceneggiatura, quando dice che il film su Carrero Blanco avrebbe dovuto essere fatto nel 1973 come instant movie: nel 1978, con il terrorismo che colpiva anche da noi, il tema costringeva già in partenza a fare un film pieno di distinguo, di dibattiti continui, di spiegazioni didascaliche. Anche Gillo qualche dubbio lo aveva sin dall'inizio: ma erano passati dieci anni da Queimada, aveva voglia di lavorare. La crisi esplose quando ormai era andato più volte in Spagna, ave-

va preso contatto con due dei quattro militanti baschi che avevano partecipato all’attentato, la sceneggiatura era stata scritta,

gli attori erano stati scelti: Gian Maria Volonté, Angela Molina, Saverio Marconi, Eusebio Poncela. La sceneggiatura era già stata rimaneggiata quindici volte in un anno e mezzo, ricorda Arlorio con un brivido retrospettivo. Poi sulle “normali” incertezze di Gillo esplose una delle più gravi crisi della storia dell’Italia democratica. Il 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse rapì in via Fani, a Roma, Aldo Moro, facendo strage degli uomini della sua scorta. Il terrorismo - che era sostanzialmente il tema del film di Pontecorvo - era ora in Italia una questione bruciante. Gillo e Cristaldi vissero una drammatica crisi. Temevano che Ogro, pur parlando di un'azione diretta contro il premier di una dittatura oppressiva e crudele come è stato il franchismo - insomma,

di un atto terroristico non molto diverso da quanto sia

Gillo sia Franco Cristaldi avevano fatto durante la lotta clandestina contro i nazisti —, rischiasse tuttavia, nell’esaltazione dell'attentato a Carrero Blanco, di portare acqua al mulino del terrorismo delle Br. Le cose erano bloccate, e i due erano in piena

nevrosi. Un giorno era Cristaldi a sostenere che il film non si doveva più fare, che sarebbe stato immorale - mentre Gillo era più possibilista. Il giorno dopo le cose erano rovesciate, ed era Gillo a sostenere che fare quel film, in quel momento, sarebbe stato un vero tradimento. Insomma,

furono giorni anche cinematografi-

camente angosciosi. Poi Gillo ebbe l’idea per una soluzione che a suo parere non avrebbe più lasciato ambiguità. Una soluzione strutturale che oggi definisce “ibrida”: e cioè premettere alla cronaca dell’attentato e della sua preparazione alcune scene ambientate nella Spagna postfranchista, quando già era avviato il processo democratico e l’Eta era divisa — una sua parte consistente essendo decisa a incanalarsi nella lotta democratica, mentre una parte più piccola, la componente oltranzista, decideva di continuare la lotta armata. 174

L'inizio del film doveva dunque raccontare il dissenso tra queste due componenti, simboleggiato dalla situazione di una moglie (Angela Molina) che non ha più rapporti con il marito, uno dei quattro attentatori di Carrero Blanco, perché questi, a differenza della grande maggioranza dei suoi compagni, compresa appunto la moglie, continua la lotta armata malgrado la caduta della dittatura franchista. E, per ribadire l'opposizione degli autori al terrorismo, Gillo propose anche di finire il film con un’al-

tra scena aggiuntiva, in cui Poncela, il marito di Angela Molina,

ferito a morte durante un’azione, chiede ai suoi tre compagni nel-

l'attentato a Carrero Blanco, corsi all'ospedale, se almeno ades-

so che sta morendo riescono a dargli un po’ di ragione: e i tre, in lacrime per l'agonia dell’ex amico e compagno di lotta, scuotono la testa in un cenno di assoluto diniego. Ogro non convince Gillo. “Per comunicare con il pubblico, soprattutto in un film epico, uno deve crederci, emozionarsi, lasciarsi andare, altrimenti il risultato è troppo misurato e ragio-

nato, si sentono i pesi e i contrappesi, senza slancio.” Qualche

momento — come sempre legato a un'emozione musicale - gli piace ancora, per esempio la scena in cui il commando comincia a

scavare il tunnel e la colonna sonora fa montare lentamente l’inno dell’Eta. È fiero della scena dell’attentato — che è stata realiz-

zata piùdi vent'anni fa grazie a un modellino di cui nessuno si è

accorto, anche se qualcuno si deve essere chiesto con che mezzi,

nel film, si è riusciti a far finire la macchina di Carrero Blanco

sul tetto di una casa, come era successo nella realtà a suon di dinamite.

La lavorazione di Ogro, forse per via di tanti dubbi, forse per via del tema, non è stata gioiosa come quella degli altri film di Gillo. Erano lontani i tempi di Kapò, di La battaglia di Algeri. La troupe era sparpagliata per la città di Madrid, che per di più Gil-

lo non riusciva a farsi piacere. Le ragazze che incontrava gli sem-

bravano racchie. Picci e i bambini erano a Roma, lui viveva in un piccolo residence, Los Jeronimos, dove finiva per passare quasi tutte le sue serate. Si annoiava. E l’unica avventura che ricorda è la scoperta (“un po’ tardiva si dirà”) degli avocado, che continuano a piacergli immensamente, meglio se maturi al punto di esser quasi sciolti. Ogro venne presentato alla Mostra del cinema di Venezia 1979, nella prima edizione gestita dopo la grande crisi del festival da

Carlo Lizzani — la famosa, unica edizione senza Leoni. Le critiche furono miste. Cosulich scrisse su “Paese sera” che se ci fos175

sero stati premi probabilmente il Leone d’oro sarebbe andato a Ogro.Ma ci fu un’epocale stroncatura di Aggeo Savioli sull’“Unità”, che accusò anche Arlorio e Pirro di essere a favore del terrorismo: cosa su cui Pirro, meridionalmente fatalista, si limitò ad alzare le spalle, mentre Arlorio, torinesemente tenace, aprì una cri-

si durata sei mesi all’interno del Partito comunista di cui aveva la tessera — ottenendo molte scuse da tutti per l’ingiuriosa affermazione, ma mai una riparazione ufficiale.

Al pubblico Ogro piacque abbastanza da non far perdere soldi alla produzione — e fu premiato con il David di Donatello. Andò benissimo in Spagna, dove la gente faceva la coda per vederlo anche se l’Eta militare cominciò, dalla clandestinità, ad attaccare Pontecorvo. Se Gillo aveva ancora dubbi “ideologici” sul film,

quelli che ormai mente come era tinuazione della libertà, quando rola. E in questi

erano i suoi nemici dichiarati lo videro esattanelle intenzioni del regista: un film contro la conlotta armata quando è in corso un processo di la democrazia garantisce a tutti il diritto di paultimi tempi il regista si è un po' riconciliato con

il suo film, anzi, dopo averlo rivisto, ha dovuto concedere che “in

fondo mi sembra che abbia un certo numero di qualità”.

Ogro ebbe, se non altro, il potere di costringere Gillo a un passo decisivo. Anche se innescato da altri - insomma, dalla paziente Picci per una volta diventata impaziente. Un passo per spiegare il quale bisogna fare un altro passo, questa volta indietro di almeno tre lustri, e ripercorrere la logistica della coppia Pontecorvo fin dal tempo in cui i due innamorati avevano deciso di vivere insieme in via Massaciuccoli. Abbiamo raccontato del matrimonio svizzero che doveva tranquillizzare i genitori di Picci. Più fortunata di Henriette, che nei suoi tentativi di convivenza con Gillo, prima di tornare definitivamente in Francia e riprendere la sua carriera di pittrice e scultrice, aveva dovuto coabitare con l’intera banda degli scatenati (“Ces épouvantables garcons”, li chiamava lei), Picci, all’inizio della sua vita di semimoglie, divise la casa con il solo Giuliano Montaldo, sfrattato poi dalla nascita del primo figlio Pontecorvo. Che dico, Pontecorvo? Per via dello status di divorziato di Gillo,

i bambini —- prima Ludovico,

che era nato il 27 agosto del ’64, poi Marco, che nonostante il falso allarme veneziano durante la prima di La battaglia di Algeri era venuto alla luce regolarmente l'’8 novembre del '66 — portavano il cognome di Picci. Quando, nel 1970, arrivò in Italia il divorzio, Gillo e Picci de-

cisero dunque di sposarsi nuovamente - con grande delizia dei giornali che titolarono “Pontecorvo sposa per la seconda volta la sua signora”. 176

Ma il matrimonio di una vecchia coppia a cui assistevano due figli, uno di sette e l’altro di cinque anni, non poteva che suscitare la voglia irrefrenabile di scherzare di Gillo. Tutto fu predisposto in tal senso.

I testimoni,

due

carissimi amici,

Francesco

Rosi e Ennio Morricone, furono avvisati solo tre giorni prima. E

a Morricone fu chiesto di portare sotto la giacca la tromba che lui suonava benissimo — tromba che avrebbe dovuto tirar fuori appena messa la firma di testimone per intonare la marcia nuziale. Ai due bambini Gillo fece un lungo discorso. Li convinse dell'importanza di questo matrimonio (“così tra l’altro potrete usare il cognome del babbo come i vostri compagni”). “Però,” aggiunse perfido, mentre i bambini lo ascoltavano con gli occhi dilatati dalla preoccupazione, “c’è un però... Voi sapete com'è cagadubi papà. Non sono sicurissimo di volermi sposare, e di qui a domani potrei anche cambiare idea...” Così quando, il giorno fatale, il 23 gennaio del ‘72, in Campidoglio, davanti agli amici e ai parenti felici e compunti, davanti ai ragazzini Pontecorvo emozionati e nervosi che si tenevano per mano con la piccola Carolina Rosi, l'assessore Piero Della Seta rivolse a Gillo la domanda di rito — Vuole lei, Gilberto Pontecor-

vo, sposare la qui presente Maria Adele Ziino —, lui contò mentalmente fino a venti — “che è un gran pezzo di silenzio” — prima di dire il suo sì, mentre nel frattempo i bambini si scatenavano e suggerivano nervosissimi “Sì, sì sì, papà di’ di sì”, e l'assessore sbiancava. “Mi spieghi perché l'hai presa così male?” chiese Gillo al povero Della Seta, dopo il fatidico sì che metteva fine al suo crudele scherzo di venti secondi, e dopo che Morricone ebbe estratto dalla giacca una tromba con cui eseguì le note della Marcia nuziale di Mendelssohn. Al povero assessore era capitato che un mese prima una sposa avesse detto di punto in bianco “no”. E nel drammatico silenzio che era seguito si era sentita la voce bassolaziale di un commesso che, al telefono interno, chiedeva lumi burocratici: “Senti un po’, se uno dice de no che s'ha dda fa’?”. “Se mi risuccedeva dopo un mese,” disse Della Seta, “chi me la

levava la fama di iettatore?” Dal 1968 Gillo era proprietario di un bell’appartamento in via Paolo Frisi, comprato con i guadagni di Queimada. Ma l’aveva sempre dato in affitto, costringendo Picci a vivere con i due bambini nei pochi metri quadrati dell’“’orribile” via Massaciuccoli. Non voleva andare in via Paolo Frisi, perché “quel terrazzo fino ad aprile non ha il sole” e il suo pollice verde ne soffriva. Picci, paziente, accettava. Ha accettato per quindici anni. Ma mentre LIA

Gillo nel ‘78 era a Madrid a girare Ogro, qualcosa è scattato. Senza comunicarlo al marito, ma sostenuta dalla complicità e dalla comprensione dell’intero clan familiare, facendo tutto da sola, compreso il trasloco della famosa giungla cresciuta sul terrazzo di via Massaciuccoli, compreso il trasporto delle cinquanta immagini sacre su vetro che Gillo aveva raccolto negli anni, Picci si trasferì armi, bagagli e bambini (il terzo, Simone, era nato il 10 maggio del ’75) in via Paolo Frisi. Gillo, per una volta, non osò protestare. Anzi, da quando si è accorto che a marzo, cioè al mo-

mento giusto per la fioritura, una striscia di sole arriva sul terrazzo, è entusiasta del colpo di mano di Picci.

178

Capitolo decimo Nel quale si racconta come Gillo nel 1992 sia tornato ad Algeri, reduce dalle contestate elezioni e in preda a tumulti integralisti. Come avesse appena recuperato la salute dopo una brutta avventura — e insieme avesse ritrovato la vo-

glia di fare cinema dopo anni di sordità al richiamo del set. Come nel febbraio del 1992 sia stato chiamato a dirigere la Mostra del cinema di Venezia, diventando uno dei direttori più popolari e insieme più contestati della storia dell'istituzione veneziana. Come, alla fine dei suoi cinque anni alla Mostra, abbia accettato di presiedere l'Ente ci-

nema, ma nel frattempo continui a rubare talee di fiori dai giardini degli amici, si muova per il mondo come una trottola, e viva sempre sotto il segno dell'entusiasmo — con una briciola di saggia malinconia.

Nel 1962 i francesi avevano lasciato l'Algeria in festa per la liberazione. Nel 1992, giusto trent'anni dopo, il paese era sull’or-

lo della guerra civile. Pochi mesi prima, nel dicembre del 1991,

le elezioni generali, le prime assolutamente libere della storia dell’Algeria indipendente, avevano portato al primo turno la vittoria dell'estremista Fronte islamico di salvezza. Il governo, spaventato dal rischio di un possibile trionfo integralista, aveva de-

ciso, con un gesto molto controverso e criticato, di annullare il

secondo turno elettorale. Il paese era in tumulto, per le strade si sparava. E Gillo Pontecorvo decise di accogliere l’invito che gli veniva fatto da Gianni Minoli, allora direttore della Seconda rete della Rai, e di ritornare ad Algeri, nella sua Algeri, a trent’anni di distanza, per registrare gli stati d'animo, gli umori e gli eventi di una rivoluzione parzialmente tradita. Che Gillo accettasse era un doppio avvenimento. Non solo perché una persona che aveva conosciuto così a fondo il mondo algerino negli anni della liberazione si impegnava a riferire ai telespettatori italiani sulla situazione dell’Algeria di oggi, ma anche perché la sua partenza per Algeri significava la guarigione da una malattia devastante e terribile che aveva messo a rischio la sua vita. Ma in cui, come sempre, Gillo aveva finito per essere fortunato.

indietro...

Facciamo

dunque,

come

si usa dire, un passo

179

Come si è raccontato, dopo Ogro e per un periodo abbastanzalungo, Gillo aveva sofferto di “abulia cinematografica”. Già per

lui fare cinema non era mai stato un mestiere, non era mai di-

ventato la necessità di sfornare un film ogni uno o due anni, quanto piuttosto il risultato della passione e dell'entusiasmo per un'idea. Il fatto poi di aver realizzato Ogro “con la coda di paglia” e con molte perplessità gli aveva tolto la voglia di fare qualsiasi cosa. Semmai gli sarebbe piaciuto dirigere dei documentari, per arrivare velocemente a quello che è sempre rimasto per lui il momento favorito, il missaggio, quando le immagini, le voci e la musica trovano il loro accordo definitivo. Ma i documentari erano una forma di cinema che quasi non esisteva più. Intanto continuavano a fioccare proposte di cui a Gillo non poteva importare di meno. Per esempio, il suo amico John Feldsberg, un impor-

tante produttore indipendente americano, lo chiamò un mattino

offrendogli su un piatto d’argento di fare un film sul terribile in-

cidente aereo accaduto sulle Ande che aveva spinto alcuni dei sopravvissuti a episodi di cannibalismo. Gillo ringraziò e disse di no (e la storia sarà poi portata sullo schermo, in maniera non particolarmente brillante, da Frank Marshall, con il titolo Alive. I so-

pravvissuti delle Ande). La natura e la qualità delle proposte accrescevano in lui il desiderio di non tornare dietro la macchina da presa. E d'accordo con Picci — perché questo tipo di decisioni Gillo da molti anni le prendeva insieme a lei — stabilirono che, possedendo la casa in cui abitavano, con la pensione di lui, con lo stipendio di insegnante di lei, potevano cavarsela benissimo senza il cinema. Sal-

vo il caso improbabile che gli venisse un’idea o gli fosse proposto un progetto cinematografico tale da entusiasmarlo. Fu qui che arrivò la delusione del film su Romero, messo in cantiere e abbandonato perché, più veloci e sbrigativi, gli ameri-

cani girarono il loro Romero con Raul Julia. Ora Gillo dice che qualche volta, quando ne riparla, gli viene la tentazione di ritornare su quella sceneggiatura abbandonata. Allora aveva dovuto mollare il progetto con una profonda rabbia. Poi arrivò l’idea di “Il peccato”, che gli venne proposto con affettuosa insistenza nel 1991 da Aurelio De Laurentiis. Questa volta Gillo accettò “per ragioni anche economiche” — che si riassumevano nella frase “una volta o l’altra prima di morire dovrò fare un altro film ben pagato, se no non lascio niente ai ragazzi” —, e la proposta di De Laurentiis era molto generosa, più di un miliardo per la regia e la sceneggiatura. Gillo prese in considerazione la cosa, e cominciò a stendere con Furio Scarpelli il copione dal romanzo di Pasquale Festa Campanile, che è una storia d’a180

more sullo sfondo della Grande guerra. Ma ancora una volta il copione non lo entusiasmava. Forse perché non lo entusiasmava la storia del libro, o forse perché sentiva che non erano riusciti a migliorarlo abbastanza. C'è da dire che Gillo fa anche un mea culpa: ignorando, come spesso gli è capitato, qualsiasi dato pratico, stava scrivendo un film spaventosamente costoso, dove lo sfondo epico contava più della storia d'amore, con relativa lievitazione dei costi. De Laurentiis non aveva obiezioni, a patto che lui trovasse una grande star americana così da giustificare economicamente l’operazione. Partirono le trattative con varie attrici, tra cui in particolare una

che a Gillo sembrava incarnare al meglio il suo personaggio: Julia Roberts, appena uscita dai succinti panni di Pretty Woman e da quelli fantastici di Campanellino in Hook. Come sempre le trattative andarono per le lunghe. Il Nostro si ammalò. Il film finì nell'archivio dei progetti dimenticati: anche se Gillo dice di aver avuto la tentazione di ritirarlo fuori e chissà, magari di ritornarci sopra con più forza e ancor più attenzione agli elementi storici quan-

do, in una breve vacanza a Cortina, anni dopo, gli capitò con commozione di percorrere il Museo della Grande guerra, e di riscoprire l'Italietta povera e straziata di quegli anni, i soldatini con gli stivali di pezza, le facce segnate dalla fame, il fango e il dolore delle trincee. Questa secondo Gillo sarebbe dovuta essere la vera cifra del film, che poteva trasformarlo da una storia un po’ melodrammatica in qualcosa di molto più serio e importante. Come occupava le sue giornate Gillo, attendendo —- o non attendendo - i film o le idee che potevano arrivare da lui stesso o dall'esterno? Ha fatto anche un po’ di pubblicità — per esempio quella del caffè Lavazza, con Monica Vitti, Pavarotti e Forattini,

“che è servita ad aiutare uno dei ragazzi a comprare un miniappartamento”. Ma le cose in quel campo, dice, cambiano troppo velocemente: con la trasformazione degli annunci pubblicitari televisivi dalla dimensione di Carosello o degli spot più lunghi, “un minuto un minuto e mezzo in cui il regista poteva veramente rac-

contare qualcosa”, ai trenta secondi di oggi, ci vogliono altre qualità: o almeno questo è ciò che pensano le agenzie pubblicitarie, le quali sembrano convinte anche del fatto che queste qualità sono patrimonio esclusivo delle generazioni più giovani e non “degli ex grandi registi”. Come ha occupato allora le sue giornate? La domanda ha su Gillo un effetto irritante. La trova assurda. Lui guarda con sbalordimento a tutti quelli che hanno il problema di “ammazzare il tempo”, questa cosa così preziosa. E quindi detesta, per esem181

pio (idiosincrasia che condivideva con Fellini), chi fa le parole crociate (“mi sembrano matti”), chi ciondola, chi sta a guardare

i minuti che passano. Forte della sua pensione e di uno stile di vita francescano, Gillo ha potuto dedicarsi per anni alle cose che gli stanno a cuore. Curare le piante. Ascoltare musica. Vedere amici. Giocare a tennis. Viaggiare (Gillo ha una roulotte). Non solo però. In questi anni di relativa inattività, Gillo ha

cominciato anche a interessarsi attivamente delle questioni organizzative del cinema, ai problemi degli autori cinematografici, alla difesa del cinema europeo di fronte a quello americano,

alle iniziative legislative per aiutare il cinema italiano con leggi opportune.

Insomma,

dice scherzando,

ha cominciato

a occu-

parsi piano piano di quello che sembrava fino allora essere “l’appannaggio unico di Citto Maselli”. E per questo ha cominciato a frequentare l’Anac, la tempestosa Associazione nazionale degli autori cinematografici. E racconta che “un tempo, quando sentiva al telefono la voce di Citto Maselli, di cui sono grande amico, bestemmiavo,

sicuro che mi avrebbe spinto, facendomi ver-

gognare e trattandomi da menefreghista, a fare cose in generale noiosissime. Ora invece sto diventando come lui...”. Poi sono cominciati i guai con la salute. E, tanto per dire che il tennis resta un leitmotiv della vita di Gillo, i due grandi malanni che l'hanno afflitto si sono rivelati ambedue su un campo di tennis. È stato lì, al Centro sportivo del ministero degli Esteri, mentre era impegnato in una partita di torneo, che un giorno del dicembre

1989 Gillo avvertì “un doloretto”, anzi, più preci-

samente, “un doloretto intercostale”, come disse ai suoi compagni di partita scusandosi di essere costretto a sedersi “per un attimo” ai margini del campo e a interrompere la partita. AI doloretto seguì un conato di vomito, che il medico sportivo, prontamente arrivato, interpretò, tra le proteste di Gillo - ma no, per carità, adesso ricomincio a giocare, va tutto bene —, nel-

la maniera giusta: era chiaramente un infarto. Il medico si precipitò dunque a chiamare l'ambulanza. Gillo contestò che il dottore stava prendendo un granchio, che lui stava già bene, che voleva fare la doccia. Gli diedero del matto. E all'ospedale più vicino, il San Giacomo, l’elettrocardiogramma decretò che in effetti di infarto si trattava. Erano intanto arrivate le sette. Gillo, che era uscito di casa

annunciando che tornava alle quattro, voleva dare sue notizie a Picci senza farla troppo preoccupare. Le lasciò due parole scherzose nella segreteria telefonica: “Ho avuto un piccolo disturbo. Sono all'ospedale San Giacomo, ma non fatevi illusioni. Per ora 182

non servono corone, semmai coronarie. Portami gli occhiali, un pigiama e un libro”. Poi, a una a una, si spensero le luci e nei corridoi e nelle corsie cominciò ad avvertirsi il pesante silenzio de-

gli ospedali che si preparano alla notte.

Gillo ricorda bene l’effetto deprimente di quell’atmosfera.

“Sembra un luogo comune, ma quando ti dicono ‘aspettiamo, vediamo come va nelle prossime dodici ore’, quando hai la sensazione che puoi veramente lasciarci la pelle, tutto ti torna in men-

te, capisci molte cose, la pensi in maniera diversa.” In quella notte d'ospedale velata di ombre e di incertezze, Gillo dice di essersi “reso conto all'improvviso di quale personaggio straordinario sia Picci”. È stato, dice, il regalo dell’infarto. Non che ne fosse inconsapevole prima: ma non con quella forza, non con quella sicurezza. E il ritorno a casa, dopo due settimane di ospedale, racconta, è stato anche il ritorno, dopo un periodo un po’ grigio e un po' appannato, a un sentimento di grande felicità e di grande amore. L'altro guaio - che risulterà molto più serio e drammatico si rivelò anch'esso, come si è detto, grazie a un campo di tennis,

nel 1991. Giocando Gillo si era prodotto un piccolo strappo alla schiena. Lo strappo si era trasformato in una sciatica. La sciatica lo tormentava. E lui tormentava Picci, agitandosi tutta la not-

te, lamentandosi e tenendo la luce accesa. Ma, un po’ per pigrizia, un po' perché “la sciatica è una fregnaccia”, non si decideva mai ad andare da un ortopedico. Finché, con il secondo atto di forza della sua vita (il primo, come si è detto, era stato il trasloco all'insaputa di Gillo in via Frisi), Picci chiamò un taxi, decisa

a trascinare il consorte in ospedale per una visita. Gillo abbozzò: qualcuno gli aveva detto che di sciatica ci si poteva operare, che anzi era un'operazione da niente, e lui sarebbe stato ben felice di

affrontarla pur di poter ricominciare a giocare a tennis il più presto possibile. Arrivò al Gemelli con le radiografie fatte in occasione di un precedente attacco di sciatica, e annunciò tutto tranquillo al medico di guardia che aveva intenzione di farsi operare. Il medico lo guardò come si guarda un matto. “Ma che dice? Alla sua età? Faccia un po' di fisioterapia,” gli suggerì, “altro che operazione, e fra due o tre mesi rigiocherà.” Gillo, testone, insisteva. Arrivò anche il primario neurologo, Giorgio Tonali. Guardò in controluce le lastre, e sentenziò che era assurdo pensare a un interven-

to. Poi si voltò e guardò fisso il paziente, che aveva una strana espressione: “Ma lei come si sente?” gli chiese. Gillo non sapeva dirlo, ma da alcuni minuti si sentiva “come morire”. “Si spieghi meglio,” insistette Tonali. “Vedo tutto triplo. 183

Tre crocefissi, tre dottori, tre bicchieri, e le gambe mi stanno partendo, non le sento più,” mormorò finalmente con un fil di voce. Non lo sapeva ancora, ma proprio in quell'attimo era stato aggredito da una malattia potenzialmente mortale e quasi sconosciuta che va sotto il nome di Sindrome Guillain-Barré-Strohl] - una malattia che nulla aveva a che fare con la sciatica per cui era venuto all'ospedale. La vita Gillo la deve probabilmente alla prontezza di giudizio e di decisioni di Tonali e del suo collega Di Trapani, che ordinarono di portarlo immediatamente in Neurologia e (usiamo le parole del nostro) “mi fecero schiaffare dentro la macchina di plasmaferesi — una macchina con cui ti levano una bella dose di sangue e te

lo centrifugano, perché il plasma nel quale vivono gli anticorpi impazziti che attaccano le tue cellule è più leggero del sangue, e quin-

di può essere facilmente separato dal resto del sangue. Insomma, buttando via il plasma si buttano via anche gli anticorpi”.

La rarissima malattia che Tonali aveva immediatamente diagnosticato — e che sembra amare particolarmente i registi di cinema, visto che ne è stato colpito quindici anni fa anche Ermanno

Olmi - è una malattia autoimmune, determinata dal comportamento errato degli anticorpi. I quali confondono il virus che colpisce l'organismo - nel caso di Gillo si trattava del più banale dei virus, un raffreddore - con le cellule nervose. “In altre parole, se hai la sfortuna che il virus che ti attacca assomigli in qualche maniera alle tue cellule nervose — cosa che può capitare perché, come si sa, i virus cambiano spesso di morfologia — gli anticorpi, che come tutti i militari di questo mondo non sono dei geni, attaccano come è loro dovere, alla cieca, l'ospite indesiderato, e poi continuano ad attaccare alla cieca, dove capita, quello che più gli somiglia. È una malattia gravissima: se ti becca le cellule della deglutizione muori in un minuto. Lo stesso si dica per il cuore, per il cervello.” Nella sfortuna, però, Gillo è stato relativamente fortunato. La prima fortuna è stata che la Guillain-Barré (come lui la chiama accorciando il nome ufficiale) si sia manifestata proprio quando si trovava all'ospedale. Due ore dopo il ricovero non sapeva ancora cosa aveva, e naturalmente protestava. “Perché diavolo mi tenete qui?” “Stia buono e accenda un cero alla Madonna. Anzi,

ne accenda due alla sciatica che l’ha fatta venire qui. Se restava a Fregene e si faceva vedere dal medico della mutua una di que-' ste mattine sua moglie la trovava stecchito nel letto.” “Come stecchito?” “Glielo spieghiamo dopo,” disse Tonali, spiccio come al solito mentre un altro medico annunciava a Picci che la volevano al telefono. 184

Era una scusa per parlarle fuori dalla portata delle orecchie dell’agitato paziente. Le annunciarono che era meglio fare dei turni al capezzale di Gillo, lei e i ragazzi, perché si trattava di una

cosa molto seria. Le dissero che non si poteva prevedere quale sarebbe stato l’esito della vicenda. E anche se Picci è tendenzialmente portata a sdrammatizzare, ammette che quella volta si è veramente spaventata. “Perché i medici, per salutarmi, mi hanno dato tutti e tre la mano solennemente, con grande rispetto,

come a una vedova...” Il giorno dopo Picci capì il perché di quel comportamento. Nella notte Gillo fu aggredito dalla malattia al punto da essere quasi completamente paralizzato, e muoveva a stento solo le braccia. Tra una plasmaferesi e l’altra, tra una crisi e un miglioramento, tra un crollo e un ritorno delle speranze, Gillo rimase in

ospedale due mesi. Due mesi terribili, dice Picci, durante i quali doveva spostargli le gambe sul letto per evitare che lui, assolutamente incapace di muoversi, restasse sempre nella stessa posizione. Quando fu dimesso, erano gli arti inferiori e la memoria a riportare le tracce più serie della malattia. Tanto che, mentre l’am-

bulanza si avvicinava alla sua casa di via Paolo Frisi, mentre si fermava davanti al cancello bianco che dà su una breve salita e poi sul portone di legno chiaro, Gillo chiedeva a Picci dove fossero (“Dove mi avete portato? Carina questa strada in salita piena di verde, non sembra neanche Roma...”), lodava la via “sco-

nosciuta” e quei begli alberi — i suoi — che sporgevano dalla terrazza. Due mesi dopo camminava.

Malissimo, ma camminava.

Ed

è camminando a quel modo che accettò di andare ad Algeri... Vogliamo rubricare la faccenda sotto la parola “ergoterapia”? Al suo ritorno da Algeri e dal lavoro che fece insieme al figlio Marco — lui buttandosi in mezzo alla gente, nelle piazze, nelle strade, nella Casbah che conosceva così bene, per chiedere, provocare,

interrogare i cittadini di Algeri su cosa stava succedendo dopo le elezioni tradite del dicembre

1991, Marco,

camera a

spalla, in-

seguendo suo padre in situazioni spesso al limite del rischio — gli arrivò, pilotata da Walter Veltroni, la proposta di occuparsi della Mostra del cinema di Venezia come “curatore”: la qualifica che definisce i “direttori” quando ci sono in ballo delle trasformazioni, e non li si può nominare per il normale periodo di quattro anni che rappresentavano la regola della Biennale prima della recente riforma. La proposta gli venne portata a casa da alcuni amici tra cui Ettore Scola, e all'inizio gli sembrò una follia, perché così lonta185

na da quello che credeva di saper fare e dal suo carattere. Soprattutto gli sembrava, dopo la malattia, di non avere a disposizione la qualità che più di tutte è necessaria a un direttore di festival: l'energia. In più, Gillo ammette che la sua attenzione al cinema, in quegli ultimi anni, era stata modesta. Non era aggiornatissimo — anche se nei mesi della convalescenza aveva fatto una cura intensiva di cassette, recuperando una serie di film importanti che non si era preso la briga di vedere in sala. Aveva dunque molto chiara l’idea che se avesse accettato l’incarico sarebbe stato fondamentale per lui poter contare su un gruppo di amici, sia nella commissione esperti sia come collaboratori, che sopperissero con la loro esperienza o con le loro conoscenze “al mio caos”. ”

Posso qui parlare in prima persona, perché in quel “caos” so-

no entrata anch'io, come membro della Commissione esperti prima e poi come consulente per le Notti veneziane, insieme a Gior-

gio Gosetti, che di Gillo Pontecorvo era nel frattempo diventato il braccio destro. La nomina di Gillo, decisa all'unanimità dal Consiglio d’amministrazione della Biennale, fu accolta con calo-

renell’ambiente cinematografico e dai media. Ma, con tipico amore italiano perla polemica—-e tipico autolesionismo —, la “gestione Pontecorvo” venne attaccata da alcuni giornali ancor prima che la sigla con il leone di san Marco comparisse a inaugurare sullo schermo della Sala grande la quarantanovesima edizione del Festival. E negli anni successivi, a fronte di un crescente successo della Mostra, di un Lido sempre più vivace e pieno di gente, di film e ospiti importanti, ogni tanto è scoppiata l’inevitabile polemica sui titoli non invitati — un esempio per tutti, Gli spietati di Clint Eastwood, che a Gillo non piacque particolarmente, su cui meditò troppo a lungo e che invitò troppo tardi - e su quelli invitati, il caso più eclatante essendo Bambola di Bigas Luna, che

Gillo non vide perché lasciava quasi completamente la regia delle Notti ai suoi collaboratori e che fu invitato dalla coppia Bignardi-Gosetti nella convinzione, evidentemente errata, che fos-

se un divertente esempio di mélo-sexy made in Europe, al posto giusto nell'atmosfera popolare delle Notti veneziane, e adatto a ravvivare, pensava anche Gillo, una giornata festivaliera un po' smorta. Che si trasformò (“troppa grazia sant'Antonio,” dice adesso) in poco meno di una corrida.

A parte pochi incidenti di percorso, i cinque anni di Gillo a Venezia — dal 1992 al 1996 — hanno sicuramente lasciato il segno, come alla fine tutti hanno dovuto riconoscergli. Anche se ovviamente i successi che gli vengono riconosciuti dagli altri — l’iniezione di energia al Lido, gli ospiti importanti, i film scelti, i bei 186

convegni — contano, non sono però le cose che Gillo ricorda più volentieri. Di quei cinque anni per Gillo conta soprattutto il senso di amicizia con cui ha lavorato con “la sua gente”: un lavoro collettivo in cui la direzione di Venezia non era esclusivamente sua, ma di un gruppo — anche se alla fine, a dire la verità, le decisioni le prendeva lui, “perché in un festival è come nel cinema, chiedi il parere a tutti per rassicurarti, e poi fai di testa tua”. Anche Brando, ricorda Gillo a questo punto, lo diceva sempre: “È inutile che vieni a rompere i coglioni, a partire da me fino all'ultima delle sarte, quando invece hai la tua idea in testa e nessuno te la

farà cambiare...” E successo invece che a Venezia Gillo ha veramente cambiato vita. “Ho dovuto cambiare nel rapporto con gli altri. E si sono formate delle amicizie che dureranno per sempre. Era molto tempo che non mi facevo dei nuovi amici. Io e Picci abbiamo vissuto a lungo per conto nostro, anzi, devo andare indietro nel tempo, agli anni del Partito e di Berlinguer, per ricordare la nascita di amicizie altrettanto solide. In questo senso, anche se all’inizio mi sembrava una follia assumermi un compito per cui non mi sentivo assolutamente tagliato, sono contento dell'occasione che i è stata data di dirigere Venezia, tanto più che cambiare mestiere da vecchi è sempre gratificante.” Se la nascita di nuove amicizie è stato il regalo che la Mostra del cinema ha fatto a Gillo, “il mio maggior nemicoè stato l’organizzazione burocratica della Biennale e il clima di scarso entusiasmo che si respirava in alcuni uffici. Il contrario del gruppo con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che si ammazzava di fatica per portare avanti il lavoro con me”. Il progetto di Gillo era di fare un festival che avesse come primo obiettivo la cura di quello che lui (forse per le sue recenti esperienze) chiama “il malato” - e cioè il cinema. E il suo tentativo è stato di cambiare, nei limiti che gli permettevano le regole dello statuto della Biennale, il modo di pensare la manifestazione. Non

voleva che la Mostra fosse soltanto, come è nella tradizione di tutti i grandi festival, “da una parte la vetrina delle scelte del di-

rettore, dall'altra un pubblico che segue più o meno volentieri questa vetrina, senza nulla in mezzo - se si escludono i critici, che solo in parte riescono a riempire questa separatezza”. Ma che gli undici giorni del Festival, di tutti i festival, si trasformassero

in un'occasione unica di incontro e di discussione per chi fa cinema,

chi scrive di cinema, chi va al cinema, chi lo ama - nel-

l'interesse, appunto, del grande “malato”. Non è stata solo una formula (anche se Gillo l’ha usata e riu-

sata fino a farla diventare una giaculatoria), ma un programma 187

che ha effettivamente condotto con tenacia attraverso cinque anni. Con le Notti veneziane ha puntato dunque a riportare a Venezia il pubblico che vuol vedere i grandi film spettacolari. “La chiamavamo politica del metadone. Se vuoi riconquistare il pubblico guastato da certe droghe cinematografiche non puoi fargli fare un salto troppo brusco, devi conquistarlo con il meglio del cinema che gli piace per attirarlo poi verso ciò che forse non avrebbe mai incontrato.” Riuscendo a ottenere la collaborazione del Ministero della Pubblica Istruzione, ha coinvolto le scuole medie superiori in un concorso che prevedeva un tema sul cinema, invitando alla Mostra sin dal primo anno gli autori dei duecento migliori temi e ospitandoli prima in un campeggio a Campo San Giorgio, poi nella struttura ricreativa dell'Arca, dove è stato creato per i giovani il Cinema Avvenire. Per loro sono stati organizzati i (criticatissimi dal pubblico chic) concerti rock, che

per quaranta minuti, ogni sera, hanno reso affollatissimo e quasi impraticabile lo spazio tra il Casinò e il mare. Ma alla fine di ogni concerto un autore o un attore era invitato a parlare e a discutere con i giovani ospiti — e se Altman, che venne a Venezia

nel 1993 con America oggi, ricorda questo incontro come una delle esperienze più importanti di tutta la sua lunga vita festivaliera, i ragazzi (lo documentano le loro lettere) ricordano tutti il loro soggiorno come una bellissima avventura, definendola ogni anno esattamente con lo stesso aggettivo con cui l'avevano definita i ragazzi degli anni precedenti, quasi si fossero passata parola: indimenticabile. Per colmare il gap tra il cinema alto e il cinema basso, tra i corti e i lunghi, tra il video e la sperimentazione, Gillo ha anche voluto la nascita di una nuova sezione, subito

diventata molto popolare, che ha battezzato “La finestra sull’immagine” - “un nome un po’ fesso, che ho dovuto decidere troppo in fretta, ma una bella idea” — da cui è nato il successo mondiale, per esempio, di un prodotto anomalo come il film di Girard 32 brevi pezzi su Glenn Gould. L'Unione mondiale degli autori, da Gillo voluta e fondata attraverso due convegni, nel 1992 e nel 1993, ha trasformato Venezia nella capitale mondiale degli autori. Nel 1994 è stata la volta della fondazione dell'Alta corte internazionale per la libertà di espressione. Il convegno “Immagine e musica”, nel ‘93, che si temeva sarebbe andato deserto visti

i ritmi e gli orari forsennati del festival, si è trasformato in un affollatissimo incontro tra i cineasti e i più importanti musicologi del mondo, alla presenza di grandi esecutori o direttori co-' me Riccardo Muti. Da Venezia sono passati negli anni di Pontecorvo personaggi diversissimi, in rappresentanza di modi diversissimi di fare il cinema: da Kieslowski a De Niro, da Louis Mal-

le a Paolo Villaggio (che con grande sorpresa dei puristi del ci188

nema si è conquistato un Leone d’oro alla carriera), da Dustin Hoffman a Steven Spielberg, da Zhang Yimou a, sì, Valeria Marini, che la sera del massacro di Bambola rimase coraggiosamente al suo posto, fasciata in un meraviglioso abito di perline color champagne, ad aspettare l’incombente tempesta... E resterà nella storia della Mostra la sera in cui venne pubblicamente restituito a Gillo il Leone d’oro di La battaglia di Algeri: il Leone che Gillo aveva offerto per un'asta a favore della Moral Rights Foundation, che Steven Spielberg aveva riacquistato per fargliene omaggio e che gli restituì con un abbraccio davanti alle televisioni di tutto il mondo. Dal oggi si pendio (a cui,

dicembre 1996 Gillo è presidente dell’Ente cinema - che chiama Cinecittà Holding. Ha, come i grandi, uno sti(undici milioni al mese, lordi), un telefonino, un ufficio per quanto faccia, non riesce a imprimere le stigmate del

suo abituale casino), una segreteria (dove, fortunatamente, ten-

gono per lui un'agenda), un autista di nome Silvano, una macchina con cui fa la spola tutti i giorni da via Frisi a Cinecittà, attraverso il raccordo anulare. Ha settantanove anni (compiuti il 19 novembre 1998), e con grande stupore degli astanti ogni tanto si sfila le scarpe (salvo poi riannodarne i lacci con l’inconsueta tecnica pontecorviana) e si guarda curioso le dita dei piedi. Perché, dice, vanno di pari passo con il suo cervello: quando le dita si intorpidiscono, per i postumi della Guillain-Barré, gli si intorpidisce anche il cervello, quando le dita riprendono ad agitarsi allegramente, anche la memoria ritorna in funzione. Ma non esita, se necessario, a fare trenta ore di aereo a cavallo di un week-

end, andata e ritorno, se si tratta di compiere una missione diplomatica per il cinema italiano (Buenos Aires, maggio 1998) e riesce sempre a trovare l'energia necessaria per sostenere le sue posizioni all’interno dell'Ente. Non gioca quasi più a tennis ma continua a fare pesca subacquea, disobbedendo al suo cardiologo. L'estate scorsa — 1998 — è stato però punito: si è rotto una costola inseguendo una cernia nella sua tana. Sul fronte familiare, si può registrare che è nonno di una stu-

penda bambina ricciuta di nome Livia — la figlia di Marcolino, nel frattempo divenuto sul campo un direttore della fotografia, e di Dudi, la sua bella moglie. Mentre Ludovico continua la tradizione scientifica degli zii, Simone, il più piccolo dei fratelli Pontecorvo, sta rivelando un interessante talento di pittore. Sul fronte dello schermo si può segnalare invece che dopo quasi vent'anni di “silenzio”, nel 1997 Gillo ha ceduto alle sollecitazioni del produttore Giorgio Leopardi e alla seduzione di una suggestione musicale - Lo schiaccianoci di Cajkovskij — e ha realizzato, nel189

l'ambito di un film collettivo firmato da alcuni grandi nomi e da alcuni “giovani” del cinema italiano, un cortometraggio, presentato a Venezia, intitolato Danza della fata Confetto — Nostalgia di protezione, con Valeria Golino e Fabrizio Bentivoglio, in cui esprime un delicato sentimento nostalgico per le magiche feste dell'infanzia. Recentemente, dopo una grande festa familiare, ha rigirato tutto il salotto di via Paolo Frisi, e adesso gli ospiti hanno il permesso di sedersi anche su un certo prezioso (a sentir lui) di-

vano rosso, perché Gillo si è arreso all'idea che prima o poi dovrà buttarlo per vecchiaia. E chi lavora con lui, anziché sedere

perigliosamente su qualcuna delle sue belle traballanti sedie antiche, può ora appoggiarsi a un vero tavolo. Continua a rubare (lo testimoniano la zappetta e il secchiello che tiene in macchina) fiori e talee. Si considera felice. “L'anagrafe mi impone di pensare di tanto in tanto e per le ra-

gioni più diverse, che sono, diciamo così, in zona Cesarini. E questo pensiero sollecita in me una strana contraddizione. Da una parte ho scoperto che la vita mi piace adesso quanto se non più di prima, forse più di quando avevo venti o trent'anni. Dall'altra l’idea ovvia che prima o poi tutto finirà non mi preoccupa più che tanto. O meglio, per essere onesto, un pochino sì, ma in maniera assolutamente non drammatica. Fra queste due posizioni sem-

bra esserci, e forse un po’ c'è, una contraddizione macroscopica, eppure coesistono. Alle volte cerco di spiegarmi questa coesistenza, ma ci riesco solo in parte. Conta certamente il fatto che quando mi capita di pensare alla fine, alla conclusione, questa fine mi si presenta spesso anche come una sorta di liberazione, come la caduta improvvisa di tutti i problemi e problemini quotidiani, come una cessazione della necessità di lotta di cui ogni vita è impastata. Intendiamoci, lotta è una parola grossa. E quando parlo di lotta mi riferisco soprattutto alla infinita serie di pic-

cole non-libertà, di piccoli e medi compiti, di noie come quella di fissare un treno o un albergo, di essere puntuali, di dover incontrare persone che ti sono insopportabili, di doverti arrovellare per risolvere problemi che non ti affascinano o che non senti come tuoi. Certo, devo essere paradossalmente grato ad alcune facce e situazioni incontrate alla Biennale durante i miei cinque anni di Venezia, o ad alcune difficoltà e problemi in cui sono incappato quest'anno all'Ente cinema, che hanno contribuito a rafforzare in me l’idea della fine anche come liberazione dalle minute rotture di coglioni della vita (e spero che siano contenti quei due o tre biennalini che sanno benissimo di essere i destinatari di questo mio senso di gratitudine). Resta il fatto che la vita mi piace ancora moltissimo. Bisogna tener conto però che io vedo la fine come un addormentarsi. E questo rende molto meno stri190

dente la contraddizione tra il sentimento d'amore che provo per la vita e il fatto che non sono troppo preoccupato della morte. Se sei a una festa che ti piace e ti addormenti, non soffri mica di non

parteciparci più. Insomma, la contraddizione non è poi così macroscopica.” Pausa. “Quello che è invece una fatica bestiale, da

sconsigliare a chiunque, perché oltre a tutto assolutamente inutile, è tentare di immaginare che cosa voglia dire non esserci più. È un'idea contro natura. Di una difficoltà mostruosa. A pensarci mi viene il mal di testa...” Eppure ci sarà qualcosa che ti sorride... “Certo. Vorrei che mi venisse o mi fosse proposta un'idea di film di cui potermi innamorare.

O, in mancanza

di questo, vorrei girare qualcosa — un

documentario, un pezzo per la televisione — per farlo con mio figlio Marco come direttore della fotografia. Perché ricordo con nostalgia come sono stato bene con lui sul set ad Algeri, nel ’92: a parte la bravura, è uno straordinario compagno di lavoro. Ma ho anche un altro progetto che mi attira molto. Appena avrò dato le dimissioni dal mio attuale lavoro, presto, molto presto, perché ne ho piene le scatole degli incarichi di tipo ufficiale, voglio costruire una casetta in mezzo al bosco che possiedo sul lago di Vico. Una casetta piccolissima, una ‘casa attrezzi’, l’unico tipo di

costruzione autorizzata lì, perché siamo in zona parco. Una sola stanza cinque metri per tre, un camino e due panche. Me la voglio costruire da solo con Picci, salvo il tetto, per il quale ci vuole un muratore vero. Sarà divertentissimo. Ma intanto Picci ha già incominciato a fare il sabotaggio. Dice: ‘Sai quanto pesano i tufi? e li porti tu? io no di certo...’.”

191

Filmografia

CORTOMETRAGGI Missione Timiriazev Documentario

Anno di produzione: 1953 Porta Portese Documentario

Anno di produzione: 1954 Cani dietro le sbarre Documentario

Anno di produzione: 1954 Festa a Castelluccio Documentario

Anno di produzione: 1955 Uomini del marmo Documentario

Anno di produzione: 1955 Pane e zolfo Documentario

Anno di produzione: 1956 Danza della fata Confetto - Nostalgia di protezione Anno di produzione: 1997

193

MEDIOMETRAGGI Giovanna (Episodio del film collettivo coordinato da Joris Ivens Die Windrose)

Soggetto: Gillo Pontecorvo, Franco Solinas Sceneggiatura: Franco Solinas Fotografia: Erico Menzer Musica: Mario Zafred

LUNGOMETRAGGI

La grande strada azzurra colore Durata: 95’ Anno di produzione: 1957 Produzione: Italia, Francia, Rft, Iugoslavia

Soggetto: Gillo Pontecorvo, Franco Solinas, Ennio De Concini Sceneggiatura : Gillo Pontecorvo, Franco Solinas, Ennio De Concini Fotografia: Mario Montuori Scenografia: Piero Gherardi, Milko Lipusiè Musica: Carlo Franci Con: Yves Montand, Alida Valli, Francisco Rabal, Federica Ranchi, Umberto Spadaro, Peter Karsten Kapò b/n Durata: 102’ Anno di produzione: 1960 Produzione: Italia, Francia Soggetto: Gillo Pontecorvo, Franco Solinas

Sceneggiatura: Gillo Pontecorvo, Franco Solinas Fotografia: Marcello Gatti, Aleksandr Sekuloviè Scenografia: Piero Gherardi Musica: Carlo Rustichelli, Gillo Pontecorvo Con: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko, Annabella Besi, Graziella Galvani, Paola Pitagora, Dragomir Felba

194

La battaglia di Algeri b/n Durata:

121’

Anno di produzione: 1966 Produzione: Italia, Algeria

Soggetto: Gillo Pontecorvo, Franco Solinas Sceneggiatura: Franco Solinas, Gillo Pontecorvo Fotografia: Marcello Gatti Scenografia: Sergio Canevari Musica: Gillo Pontecorvo, Ennio Morricone Con: Jean Martin, Jacef Saadi, Brahim Haggiag, Mohammed Ben Kassen, Fawzia El Kader, Michele Kerbash, Ugo Paletti

Queimada colore Durata: 112’ Anno di produzione: 1969 Produzione: Italia, Francia

Soggetto: Franco Solinas, Giorgio Arlorio Sceneggiatura: Franco Solinas, Giorgio Arlorio

Fotografia: Marcello Gatti Art director: Piero Gherardi Scenografia: Sergio Canevari Musica: Ennio Morricone Con: Marlon Brando, Evaristo Marquez, Renato Salvatori, Tom

Lyons, Norman Hill, Dana Ghia, Giampiero Albertini Ogro

colore Durata: 121’ Anno di produzione: 1979 Produzione: Italia, Spagna, Francia Soggetto: Gillo Pontecorvo, Ugo Pirro, Giorgio Arlorio

Sceneggiatura: Gillo Pontecorvo, Ugo Pirro, Giorgio Arlorio Fotografia: Marcello Gatti Scenografia: Rafael Palmero Musica: Ennio Morricone Con: Gian Maria Volonté, Saverio Marconi, Angela Molina, José

Sacristan, Eusebio Poncela

195

Ringraziamenti

Sono molte le persone che, a diverso titolo, devo ringraziare per avermi aiutato a portare a termine questo lavoro.

Per le informazioni di prima mano, i dettagli, le precisazioni, il conforto, la pazienza, le riletture, i libri cui ho attinto devo

ringraziare Pietro Ingrao e Giorgio Arlorio, Franco Giraldi e Giuliano Montaldo, Francesca Solinas e lo scomparso amico Roberto Cacciaguerra, Miriam Mafai e Aldo Natoli, Roman Polanski e Gabo Marquez, Tullio Kezich e Laura Pontecorvo, Chiara Valentini e Aldo Tortorella, Massimo Ghirelli e Joan Mellen, Giorgio Go-

setti e Lino Micciché, Olivier Wotling e gli amici nelle cui case ho portato il mio computer durante week-end che dovevano essere di svago, ma soprattutto Gigi Melega, che ha generosamente sopportato i miei nervosismi quando Gillo non rileggeva le mie pagine, il tempo passava, e il libro sembrava non poter mai vedere la luce. Per la gentilezza, l'ospitalità della sua casa e la memoria ringrazio Picci Pontecorvo.

Per la consulenza sull’uso (dal mio punto di vista assai difficile) del computer, ringrazio il mio tecnico di fiducia, Giovanni Cassinelli.

Per aver trascritto senza arrossire le goliardiche e disinibite conversazioni tra me e Gillo, ringrazio le mie pazientissime amiche Margherita Drago, Paola Barbaglia, Elisa Resegotti, oltre a Cristiana Zecchi, sempre pronta a trovare nei momenti difficili un nome o una data. 197

nzione con cui ha riletto il testo, scovato incon-Sa

ee corretto imprecisioni ringrazio mia sorella Margheri-

E più di tutti ringrazio Gillo Pontecorvo, perché oltre a qual-

che decina di ore di conversazioni e di ricordi avvincenti (che non posso affidare integralmente agli archivi della storia del cinema solo perché pieni di dettagli e di “a parte” giocosi, divertentissimi, irriverenti, pettegoli) mi ha messo a disposizione il suo tempo, la sua amicizia e una storia bellissima.

Indice dei nomi

Abdesselam Bob, 20 Aguirre Julen, 173 Albertini Giampiero, 195 Alicata Mario, 41, 68 Allégret Yves, 50, 72 Altenburger Maria, cfr. Valli Alida Altman Robert, 188 Amendola Germaine, 35, 37,57 Amendola Giorgio, 19, 26, 33, 35-37, 39, 42, 44, 52-53, 5657,90 Antonioni Michelangelo, 75, 98 Arlorio Giorgio, 141-145, 165, 167-168,

174,

176,

195

Bella Ben, 122, 124 Bellon Yannick, 86 Ben Kassen Mohammed, 195 Bentivegna Sasà, 138 Bentivoglio Fabrizio, 190 Berlinguer Enrico, 58, 59, 60, 62, 63, 64, 69, 90, 187

Bernardini Fulvio, 65 Berti Giuseppe, 17 Besi Annabella, 194 Bethune Norman, 167 Bianchi Pietro, 138

Bigas Luna Juan José, 186 Bòhm Bòhm

Caterina, 103 Karl-Heinz, 103

Boito Arrigo,

Baazi Salah, 120 Bach Johann Sebastian, 129, 133, 156, 172 Badoglio Pietro, 43 Baldacci Gaetano, 141 Barbaro Umberto, 98

94,

12

Bonacchi Ronaldino, 98 Boumedienne Houari, 122, 124 Brahms Johannes, 84, 94 Brando Marlon, 8, 141, 146-147, 149-157,

168-170,

187,

Brown Capability, 7

Barbieri comandante partigiano, cfr. Curiel Eugenio

Buffarini Guidi Guido, Butor Michel, 138

Basile Salvo, 151, 156-157 Bassani Giorgio, 138 Beethoven Ludwig van, 15, 84,

Cajkovskij Pétr Il’ié, 189

165

195

Bresson Robert, 138 13

Calogero Guido, 37 199

Canevari Sergio, 127, 195 Capitini Aldo, 37 Cardinale Claudia, 100, 110 Carné Marcel, 116

De Lattre de Tassigny rie Gabriel, 50

Carrero Blanco Luis, 173-175 Carter Jimmy, 27

Delon Alain, 100, 171 De Luca Lorella, 94 De Niro Robert, 188-189 De Piaz Camillo, 48

Casiraghi Guido, 138 Castaneda Carlos, 164 Castello Giulio Cesare, 98, 135 Cavalcanti Alberto, 81, 86

Cavallaro Giovambattista, 135 Cayatte André, 137 Cesarini Sforza Marco, 41

Chagall Marc, 106 Chapier Henri, 160 Chiarini Luigi,

135-136

Chroscicki Henryk,

79, 123,

133, 164

Ciro comandante partigiano, 59. Clausewitz Karl von, 27 Clément René, 100

Colizzi Giuseppe, 144 Colorni Clara, 13-14

Colorni Eugenio, 13, 22 Continenza Salvo, 65 Corbi Bruno, 28 Corbucci Sergio, 142-143 Costa-Gavras Constantin, 170 Cosulich Callisto, 92, 175 Crist Judith, 160 Cristaldi Franco, 100, 109-110, 113, 119-120, 165, 173-174 Cucelli Gianni, 20 Curiel Eugenio, 40, 47, 48, 5354, 64

Daladier Édouard, 26 Damiani Damiano, 143 D'Amico famiglia, 80 Damico Vito, 53 Daney Serge, 116-117 De Benedetti Sergio, 27 Debussy Claude, 165 De Concini Ennio, 194 200

Jean-Ma-

De Laurentiis Aurelio, Della Seta Piero, 177

Deray Jacques,

180-181

102, 103

De Santis Peppe, 69 De Sica Emy, 103, 104 De Sica Vittorio, 103

De Vita Corrado, 44 Di Benedetto Salvatore, 41, 42 Di Gangi Piero, 16 Dimitrov Georgi], 30 Di Palma Carlo, 112, 130

Dozza Giuseppe, 32 Dreyer Carl, 139 Duigan John, 172 Eastwood Clint, 186 Ejzenstejn Sergej M.,41,71,116 Ekk Nickolaj, 71 El Kader Fawzia, 195 Ergas Morris,

110

Fanon

122

Franz,

Felba Dragomir, 194 Feldsberg John, 167, 180 Fellini Federico, 108, 164-165, 182 Fermi Enrico, 21, 26

Ferrara Giuseppe, 160 Ferrata Giansiro, 42-43 Ferrero Anna Maria, 80

Festa Campanile Pasquale, 180 Forattini Giorgio, 181 Franci Carlo, 194 Franco Bahamonde Francisco, 27, 1753

Gaddini Eugenio,

14, 164-165

Galvani Graziella, 194 Gandini Anna Maria, 137 Garavini Sergio, 54 Garcia Marquez Gabriel, 149

Jaeger Nicolas, 50 Joliot-Curie Frédéric, 22, 26 Joliot-Curie Irène, 27 Julia Raul, 172, 180

Garfield Frank, 95 Garko Gianni, 194 Gatti Marcello, 112-113, 130-131,

194,

127,

195

Gerassimov Sergej, 86 Gherardi Piero, 110, 147-151, 157, 194, 195 Ghia Dana, 195 Ghirelli Massimo, 75, 86

Gino, nome di battaglia, cfr. Negarville Celeste Giraldi 143

Franco,

8, 87, 92-95, i

Girard Frangois, 188

Kael Pauline, 140 Karsten Peter, 194 Kerbash Michele, 195 Kezich Tullio, 8, 92, 135-136, 165 Kiatovska Barbara, cfr. Lass Barbara Kieslowski Krzystof, 188 King,

18

Kluge Alexander, 138 Kuo-yin Wu, 86

Kupferberg Robert, 170-171

Girotti Mario, cfr. Hill Terence

Giuliani De Negri Gaetano, 81 Golino Valeria, 190 Gosetti Giorgio,

Gramsci Gravina Gravina Grazzini

186

Antonio, 44, 53 Carla, 144 Giovanna, 144 Giovanni, 138

Griffith David Wark,

139

Grimaldi Alberto, 141-142, 144, 146-147,

157

Gustavo, re di Svezia, 32

Labrande Jean Pierre, 170-171 Lakhdar-Hamina Mohamed, 136 La Malfa Ugo, 37, 38-39 Landowska Wanda, 95 Lass Barbara, 929-103, 105, 110 Lecaze Dédé, 106 Leibowitz René, 34 Lenin Vladimir Il’iè, 57 Leonard Robert Z., 85 Leone Lù, 74

Leone Sergio, 141-143, 172 Haggiag Brahim, 126, 195 Hecht Gianni, 77 Hill Norman, 195 Hill Terence, 98 Hitler Adolf, 59 Hoffman Dustin, 189

Leoni Fausta, 77, 164

Leopardi Giorgio, 189 Levi Primo,

106,

117

Levy Raoul, 163 L'Herbier Marcel, 50 Li Causi Girolamo, 43

Lipusié Milko, 194 Ingrao Pietro, 40, 41-47 Ivens Joris, 81, 86, 194

Jaeger Claude, 50-51

Lizzani Carlo, 69, 87, 175 Loach Ken, 27

Lollobrigida Gina, 85 Lombardo Goffredo, 172 Lonero Emilio, 137 Longo Luigi, 47, 59, 62, 63 201

Losey Joseph, 171

Monicelli Mario, 78, 79-80

Louise Tina, 104 Luria Salvatore, 27 Lutero Martin, 62 Lyons Tom, 195

Montaldo Giuliano, 8, 78, 87Montanari

Maccari Ruggero, 163

128, 154 Montand Yves, 96-98, 194 Montuori Mario, 194

88, 92-95, 97, 99, 105, 111112, 114-115, 127, 143,176

146,

155

Mao Zedong, 167 Marais Jean, 72 Marcanton Totò, 72 Marconi Saverio, 174, 195 Marini Valeria, 189 Maroc Ali, 127 Maroni Arrigo, 12 Maroni Giovanni, cfr. Pontecorvo Giovanni Maroni Maria, cfr. Pontecorvo Maria Marquez Evaristo,

126,

141,

151-154, 156-157, 195 Marshall Frank, 180 Martin Jean, 126-127, 195 Maselli Citto, 28, 75, 115, 182 Maspero Francois, 33 Massu Jacques, 126 Mattei Enrico, 120

Maurette Marc, 92 McQueen Steve, 146, 150 Mellen Joan, 160

Mendelssohn-Bartholdy Felix, i eraro Menotti Giancarlo, 78 Menzer Enrico,

194

Mereghetti Paolo, 143 Mida Puccini Massimo, 41, 98 Minoli Gianni, 179 Mitié Sasa, 20 Molina Angela, 174-175, 195 Moloudiji Lola, 100 Moneta (tipografo), 43, 45 202

112,

Moro Aldo, 174 Morra Ida, 134

Mann Abby, 169-170 Peter,

Maria,

Morandi Fernando, 170 Morgenstern Joseph, 139

Mafai Miriam, 16, 73 Malenotti Maleno, 91, 96 Malle Louis, 139, 188 Manso

Anna

Morra Mario, 134 Morricone Ennio,

129-130,

134, 135, 158-159, 177, 195 Morricone Maria, 130, 134

Moscatelli Cino, 59 Mozart Wolfgang Amadeus, 94

Muni Pasquale Paul, 122 Musante Tony, 142 Musci sorelle, 51

Mussolini Benito, 29, 41,43, 59 Musu

Antonio,

136,

122,

127,

134,

143

Muti Riccardo,

188

Napolitano Giorgio, 64 Natoli Aldo, 27-28 Natta Alessandro, 38

Negarville Celeste, 35-37, 39, 4244, 53, 90 Nenni Pietro, 37, 65 Nero Franco, 142 Newman Paul, 119 Niepce Henriette, 30-37, 39, 40, 46-47, 49-50, 62, 65, 70, 7273, 78, 82, 92, 98-99, 105, 176

Niepce Joseph Nicéphore, 3031, 50 Niepce Ninette, 50 Nissim famiglia, 12 Nordblom Marianne, 26, 32 Notarianni

Pietro,

109

Olmi Ermanno, 184 Onofri Fabrizio, 74, 167

Pontecorvo Laura, 11, 14-16, 22-23 Pontecorvo Livia, 120, 189

Pontecorvo Ludovico, 93, 103, Pajetta Giancarlo, 60, 63, 90

47, 51, 58,

Pajetta Giuliano, 33, 60 Paletti Ugo, 195 Palmero Rafael, 195 Panni Adriana, 105 Panni Marcello, 105 Parri Ferruccio,

61

Pasolini Pier Paolo, 163 Pavarotti Luciano, 181

Pecchioli Ugo, 64 Pedersoli Carlo, 98

Perego Didi, 194 Pescarolo Leo, 95 Pescarolo Vera, 95 Pestelli Leo, 135

Pétain Henri-Philippe-Omer, 33 Petri Elio, 87 Petroni Giulio, 78 Picasso Pablo, 8, 68 Piccioli Mimma, 19 Pickert David, 150, 152 Pietrangeli Antonio, 115, 163 Pirro Ugo, 79, 162, 163, 173, 176, 195 Pitagora Paola, 194

105,120, 123-125, 133,142, 144,155, 156, 168, 175, 176178, 189 Pontecorvo Marco, 120, 134, 138, 142, 144, 155, 156, 168, 175, 176-178, 185, 189, 191 Pontecorvo

Maria,

11-15,

23-

24, 34, 40, 70, 72-73, 94 Pontecorvo Marianne, 32, 727a Pontecorvo Massimo, 12-16, 23-24, 40, 70, 72-73 Pontecorvo Paolo, detto Polì, 17,23 Pontecorvo Pellegrino, 13 Pontecorvo Picci (Ziino Maria Adele), 7-9, 80, 93, 95, 103105, 123-125, 130, 132-133, 136-138, 156, 162, 163, 165, 168-169, 171,173, 175-178, 180, 182-185, 187, 191 Pontecorvo Simone, 144, 175, 178, 189 Prévost Francoise, 72 Puccini Dario, 41 Pudovkin Vsevolod I., 71

Poitier Sidney, 150-151 Polanski Roman, 96, 299-103 Poncela Eusebio, 174-175, 195 Pontecorvo Anna, 23 Pontecorvo Bruno, 12, 16-23, 25-29, 32-33, 36, 48, 72-74, 103,

161,

Pontecorvo Pontecorvo Pontecorvo Pontecorvo 32, 70, Pontecorvo 23, 74

164,

166

Dudi, 189 Gil, 26 Giovanni, 23 Giuliana,16-17,23, 78, 166 Guido, 16-17, 21,

Queneau Raymond, 68

Rabal Francisco, 98, 194 Ramat Silvio, 37 Ranchi Federica, 194 Renoir Jean, 92

Ricci Rinaldo, 151 Riefenstahl Leni, 139 Rissone Giuditta, 103 Rissone Vittorio,

Riva

103

Emmanuelle, 116-117, 194

96,

111,

203

Rivette Rizzoli Roasio Roberts

Jacques, 115-116 Angelo, 100-101, 121 Antonio, 62 Julia, 181

Robertson Bob, cfr. Leone Sergio Romero Oscar, 171-172, 180 Rosi Carolina, 144, 177 Rosi Francesco,

120,

144,

177

Rossellini Roberto, 59, 71

Roth Joseph, 106 Rustichelli Carlo, 115, 194

Saadi Jacef, 120-122,

125, 126,

136, 195 Sacristan José, 195 Saint-Saéns Camille, 29 Salvatori Renato, 195 Sansone Alfonso, 164

Sartre Jean-Paul, 8, 67-68 Savioli Aggeo, 176 Scarpelli Furio, 65, 180 Scelba Mario, 82, 83

Scola Ettore, 163, 185 Sekulovic

27, 32, 49

Aleksander

112-114,

geeviò, 154

Steiner Albe, 44 Strasberg Lee, 111 Strasberg Susan, 96, 110-112,

194 Stravinskij Igor, 166 Sutherland Donald, 167 Tabet Duccio, 17, 32 Taviani Paolo e Vittorio, 81 Terzieff Laurent, 96, 110-111, 194

Schònberg Arnold, 137 Schwartz-Bart André, 106 Scotti Francesco,

Solinas Giovanna, 105 Solinas Piernico, 121 Sonego Rodolfo, 163 Sostakoviè Dmitrij, 43 Spadaro Umberto, 194 Spencer Bud, cfr. Pedersoli Carlo Spielberg Steven, 189 Spriano Paolo, 38 Squitieri Pasquale, 83 Stanislavskij Konstantin Ser-

“Azza”,

194

Serandrei Mario, 134 Sereni Emilio, 13, 27-28, 32-33, 36 Servadio Emilio, 14, 164-165 Simon John, 139

Togliatti Palmiro, 65, 66

Tonali Giorgio, 183-184 Tonti Aldo, 69 Tornabuoni Lietta, 158 Tortorella Aldo, 59 Totò, 80

Treccani Ernesto, 43, 45-46

Trombadori Antonello, 74 Truffaut Francois, 138 Turoldo David Maria, 48 Tzara Tristan, 34, 39

Singer Israel Joshua, 106, 165 Sitton Robert, 139 Solinas Francesca, 144 Solinas Francesco, 144 Solinas Franco, 59, 79, 82, 8386, 91-92, 95, 96-97, 99, 105, 106-109, 118-122, 124, 128, 135, 141-145, 147, 156, 163-165,167,170-171, 194,

195 204

Valentini Chiara, 59 Valli Alida, 72, 96, 98, 194 Valli Bernardo, 119 Vallon René, 28 Valori Dario, 65 Vancini Florestano, 75, 115

Van Gogh Vincent, 33 Vanzina Stefano, 79

Veltroni Walter, 185

Verdi Giuseppe, 12

Walker William,

Vergani Vera, 95

143, 145-146,

149

Vergano Aldo, 69

Wayne John, 34 Weber Tania, 77

Veronesi Luigi, 44

Verzini Enrico, 113, 136-137

Viany Alex, 86 Villaggio Paolo, 188 Vincenzoni

Luciano,

142

Visconti Luchino, 115, 120, 137, 139 Vitti Monica, 181 Vittorini Elio, 42-43, 45 Volonté Gian Maria, 144, 174, 195 Volterra Edoardo, 36

Zafred Mario, 194 Zavoli Sergio, 119 Zeffirelli Franco, 83

Zhang Yimou, 189 Ziino Maria Adele, corvo Picci Zurlini Valerio, 75

cfr. Ponte-

205

Nota introduttiva

Capitolo primo

Capitolo secondo

P :

È LOCA

Capitolo terzo

È

Capitolo quarto

pi bi

Capitolo quinto

a =

Capitolo sesto



118

Capitolo settimo

3 a

141

Capitolo ottavo

a

162

Capitolo nono

179

Capitolo decimo

193

Filmografia

197

Ringraziamenti Indice dei nomi

È

Irene Bignardi In copertina: Gillo Pontecorvo con un partigiano algerino.

Memorie estorte a uno smemorato Vita di Gillo Pontecorvo Anche se racconta la vita di Gillo Pontecorvo,

il regista di Kapò, di La battaglia di Algeri,

di Queimada, questo non è, o non è soltanto, un libro di cinema, né tantomeno una

biografia “oggettiva”, ma piuttosto una sorta di autoritratto. Con lui, Gillo Pontecorvo, che racconta i suoi ricordi, e Irene Bignardi che mette da parte il suo ruolo di critico per interrogare e provocare l’amico riproponendo le memorie pontecorviane in una cronaca che segue settantanove anni molto speciali,

intessuti di incontri e amicizie ancora più speciali: da Enrico Berlinguer giovanissimo subito dopo la guerra a Marlon Brando sul set di Queimada; da Giorgio Amendola a Torino nel suo primo comizio “libero” a Pablo Picasso che si diverte alle spalle di due avidi galleristi; da Pietro Ingrao che arringa

la folla il 26 luglio 1943 a Roman Polanski compagno di bohème romana. E attraverso la voce di Pontecorvo, tradotta da Irene Bignardi in terza persona, prende ritmo e forma il romanzo di una vita che, ironica e lieve, incrocia alcuni dei grandi eventi di questo secolo.

Un ritratto, una testimonianza, un moderno romanzo

picaresco, un piccolo racconto morale: la storia di una bella vita vissuta sempre con la fanciullesca capacità di reinventarsi in ogni situazione, in ogni passione, n

ogni

avventura. Irene Bignardi è inviato speciale di cultura e critico cinematografico di “la Repubblica”. Dal 1986 al 1989 ha diretto il MystFest. Ha fatto parte della Commissione esperti

ISBN

88-07-17033-7

8807"17033

Lire 30.000 (...)

della Mostra del Cinema di Venezia ed è stata responsabile, con Giorgio Gosetti, della sezione Notti Veneziane. Da Feltrinelli ha pubblicato, nel 1996, IZ declino dell’impero americano. 50 registi e 101 film.