Meme del sottosuolo. Distopia, follia, orrori artificiali e la ricerca dell'autenticità [1 ed.] 9788858443668


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Italian Pages 54 [48] Year 2023

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Meme del sottosuolo. Distopia, follia, orrori artificiali e la ricerca dell'autenticità [1 ed.]
 9788858443668

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Daniele Zinni

Meme del sottosuolo Distopia, follia, orrori artificiali e la ricerca dell’autenticità

Quanti Einaudi

Meme del sottosuolo

A volte mi sono chiesto se i meme non fossero una moda, una moda come le altre destinata a stancare e morire. Per ora resistono – anzi, proliferano – e non era scontato. Negli ultimi anni, i meme si sono diffusi e rinnovati anche su una piattaforma nuova e profondamente diversa dalle precedenti: TikTok. Significa, credo, che moltissime persone – uomini e donne, in maggioranza giovani – continuano a trovare utile ed efficace il modo memetico di esprimersi e comunicare, tanto da portarlo con sé anche quando popolano nuovi spazi. Per questo è ancora interessante seguire il moltiplicarsi e ramificarsi dei meme, analizzare i materiali che inglobano, le forme che assumono e le vibrazioni che emettono. Fare meme – memare, se non vi urtano i neologismi – vuol dire appunto individuare, modificare, ricombinare e riproporre, a mezzo social, elementi tratti dal discorso pubblico, dalla cultura pop e dagli immaginari di nicchie specifiche, secondo schemi che tendono a ripetersi, solitamente con intento comico. Già nella seconda metà degli anni Zero, i meme circolavano tramite mailing list, forum e altri spazi di discussione online, ma è stato nella seconda metà degli anni Dieci, all’interno delle piattaforme social attuali, che sono esplosi. Hanno avuto successo perché hanno messo a disposizione di chiunque un repertorio di strutture comiche preconfezionate, modificabili grazie a mezzi hardware e software sempre piú intuitivi e diffusi. La comicità ha un ruolo chiave perché permette di ricevere gratificazione, sotto forma di reaction e condivisioni, con un vantaggio che altri generi social, anche quelli di sicuro impatto, non offrono: a differenza della polemica indignata,

dell’aneddoto edificante o dell’autobiografismo strappalacrime, la gag non costringe a esporsi, argomentare o dimostrare. Tra le forme comiche, poi, il meme cattura con particolare rapidità l’attenzione di chi sta scorrendo il feed: usa elementi ricorrenti e grammatiche visive riconoscibili a colpo d’occhio, quindi invoglia a soffermarsi perché promette una risata. Non tutti i meme però vogliono far ridere; l’obiettivo piú generale che si può attribuire loro è forse quello di stupire, e alcuni stupiscono proprio deludendo l’attesa di una punchline. A volte, l’utente pronto a ridere si ritrova a leggere una storia tragica; altre, un aforisma dal tono sapienziale; altre ancora, deliri di natura indecidibile; e cosí via. Sarà questo il caso per diversi dei meme che citerò piú avanti. Le forme memetiche di maggior successo e piú lunga tradizione sono diventate ormai luoghi comuni testuali o visivi di pronta disponibilità per quasi chiunque abbia un account social, e soprattutto per chi cura la comunicazione delle aziende. Non è paradossale dire che il sintomo piú vistoso della diffusione dei meme è nella loro invisibilità: sono talmente entrati a far parte del linguaggio visivo comune che la gran parte del pubblico ormai sa come leggerli e non li rileva piú come oggetti con una grammatica specifica, diversa da quella di altre grafiche. D’altra parte, intorno a interessi e punti di vista condivisi si formano spesso vere e proprie comunità di persone che comunicano attraverso i meme; unite da un patrimonio di storie, immaginari e consuetudini – in una parola, da una cultura – queste comunità producono opere che possono risultare esoteriche per chi non sa come riannodarne tutti i fili. Per esempio, l’inserimento reiterato di un personaggio in un certo tipo di contesto può caricarlo di significati particolari; l’uso di colori o segni specifici può richiamare altre immagini, la cui conoscenza è data per scontata, e suggerire interpretazioni diverse da quella immediatamente disponibile. Su questi aspetti cercherò di dare tutte le informazioni necessarie. Analizzerò meme riconducibili a tre aree: Distopia, Follia e Tecnoinquietudine; in altre parole, antagonisti dell’essere umano saranno di volta in volta la società, la realtà delle proprie percezioni, e la materia di cui è fatto il nostro tempo. Nel finale, prenderò in esame uno tra i temi comuni a questi tre grandi filoni memetici – la sensazione di vivere in un mondo

falso – ed esplorerò i modi in cui questa sensazione è correlata alla natura dei social media, ambiente a cui i meme sono legati a doppio filo. Sarà l’occasione per proporre un concetto nuovo attraverso cui riflettere su ciò che ci accade quando postiamo sui social e quando osserviamo contenuti postati da altri 1. In un certo senso, Distopia, Follia e Tecnoinquietudine sono sottocategorie dell’horror. Il nostro è un tempo ricco di cambiamenti, i cui effetti possiamo solo pronosticare, e i meme che vedremo tendono a intercettare i pronostici piú catastrofisti; anziché razionalizzarli o relativizzarli, li traducono in scenari ancora piú estremi. Sono linee tracciate da sismografi assai sensibili, e in alcuni casi potrebbero permetterci di notare movimenti ancora sotterranei. Per inciso, la stessa caratteristica li rende specialmente adatti a esprimere idee reazionarie. Diversi dei filoni memetici di cui parlerò contano innumerevoli declinazioni razziste, misogine, transfobiche ecc. Nessun meme, tuttavia, è patrimonio esclusivo di una parte politica; tra i meme che vedremo nei prossimi capitoli, infatti, non si renderà necessario citare alcuna di quelle varianti improntate alla discriminazione e all’aggressione. Merita ancora qualche parola l’idea che anche nella memetica si possano individuare opere «di genere»: meme romantici, erotici, storici, satirici, e cosí via. Per far emergere i connotati specifici che l’idea del genere assume nei meme, può tornare utile un confronto con la letteratura. Fino alla seconda metà del Novecento, il valore dei romanzi di genere è stato ritenuto inferiore rispetto ai romanzi «letterari». Tra i motivi di questo giudizio, oltre a un certo disprezzo della critica per l’intrattenimento di consumo e per i gusti popolari, c’era la caratteristica base delle opere prodotte in serie: la ripetitività. Le strutture narrative erano trite, i personaggi mostravano caratteri codificati, e il piacere della lettura che queste storie volevano stimolare era legato all’appagamento di aspettative apparentemente immutabili piú che alla crescita intellettuale. Da questo punto di vista, i meme non rischiano critiche: una certa ripetitività è implicita nella loro natura. Gli elementi ricorrenti dei meme però si manifestano in modo diverso dai cliché dei romanzi di genere:

mentre un detective à la Philip Marlowe difficilmente troverebbe posto in Cinquanta sfumature di grigio, la stessa foto di Cristiano Ronaldo può fare da base per un meme sul riscaldamento globale e per un altro sulla storia del buddismo. I meme migliori spesso nascono proprio dall’incontro tra gli immaginari piú distanti. Per l’appunto, nonostante sia l’horror il genere che offre i maggiori spunti in relazione al tema, avremo poco a che fare con mostri, oscure presenze o antiche tombe profanate. Ciò che accomuna i meme nei prossimi capitoli è la capacità di attivare le nostre paure, contingenti o esistenziali; di insistere sulle nostre paranoie, anche quando ci divertono; di interrompere per un attimo il chiacchiericcio social con un brivido e cosí di farci dubitare che parliamo tanto, sulle piattaforme, proprio per mascherare un angosciante silenzio di fondo. Ho fatto le dovute ricerche, citerò delle fonti e proverò ad argomentare le mie interpretazioni con precisione e onestà intellettuale; questo però non aspira a essere uno studio accademico. Metterò a disposizione quel che ho imparato da memer – cioè autore di meme, prima per conto mio e poi anche per account aziendali – insieme ai frutti del mio interesse per il funzionamento delle piattaforme social e alle esperienze come collaboratore di agenzie di comunicazione. Le letture che darò di alcuni meme non prenderanno in considerazione le loro manifestazioni maggioritarie ma quelle che ritengo piú significative in relazione al fenomeno che voglio illustrare. Sconfinare nella speculazione personale sarà un rischio, ma è consustanziale ai discorsi memetici fin dal principio: parliamo in fondo di sconosciuti a distanze abissali che s’imbattono in messaggi ambigui, li rielaborano secondo la propria sensibilità e li rilanciano, a volte nel vuoto e a volte nel mucchio. Gli oggetti social sono straordinariamente volatili e difficili da ritrovare: i post vengono eliminati, gli account bannati, le comunità smembrate. Inoltre, non esiste un vero e proprio mainstream dei meme; ogni gruppo di utenti con gusti e interessi simili segue account simili (e scopre le novità nella «bolla» dai propri pari) spesso senza avere idea di cosa seguano le persone negli altri gruppi.

A chi vuole approfondire le origini dei meme e conoscere molte tra le imprevedibili traiettorie che hanno percorso negli ultimi vent’anni, consiglio tre libri: La guerra dei meme (effequ, 2017) di Alessandro Lolli, Memestetica (NERO Editions, 2020) di Valentina Tanni e The Detective Wall Guide (Aksioma, 2021) del collettivo artistico Clusterduck.

1. «Contenuto», dall’inglese content, è il nome generico con cui si usa chiamare negli ultimi anni tutto ciò che viene pubblicato sui social media. Per risparmiare qualche ripetizione a chi legge, userò il termine in modo intercambiabile con «post», salvo dove vorrò indicare contenuti pubblicati su una piattaforma specifica.

«Tutti i miei idoli sono bannati», dice un meme, «e tutti i miei nemici hanno l’account verificato». I miei nemici, dice. E all’opposto dei nemici non ci sono gli amici né gli alleati: ci sono gli idoli. Quanta solitudine: da una parte, persone e organizzazioni contro cui l’io memante è destinato alla guerra; dall’altra, icone alle quali può tributare adorazione ma con le quali certo non può avere uno scambio. È quanto di piú vicino si possa immaginare alla definizione di «crociata solitaria». A qualcuno, i termini del meme potrebbero non apparire del tutto chiari. Essere «bannati» significa essere banditi da una piattaforma social, impossibilitati ad accedervi o a pubblicarvi. Gli account «verificati» invece sono quelli che accanto al nome sfoggiano una spunta blu (su Twitter, da qualche tempo, dorata). Si tratta di istituzioni, organizzazioni non governative, testate giornalistiche, aziende e celebrità, che sui social media hanno bisogno di un profilo ufficiale per evitare che altri si spaccino per loro. Grazie alle impostazioni degli algoritmi, i contenuti pubblicati dalle spunte blu godono di maggiore visibilità. Poche le informazioni disponibili per ricostruire l’origine del meme. Nel 2012 diventò virale su Tumblr un’immagine costruita come il fotogramma di un film, in cui una donna regge una sigaretta e un sottotitolo recita «I miei idoli sono morti e i miei nemici sono al potere» 1. L’utente Luciana segnalava nei commenti che già la canzone Ideologia (1988) del cantautore brasiliano Cazuza conteneva i versi «I miei eroi sono morti di overdose, i miei nemici sono al potere».

Piú di recente si sono diffuse le varianti con il riferimento al ban, come quella riportata all’inizio del capitolo. In una di queste, una persona in tuta mimetica e passamontagna guarda verso l’obiettivo, sullo sfondo di un fogliame fitto che suggerisce un bosco; a colpo d’occhio si direbbe un fotogramma tratto da un documentario su un gruppo di guerriglieri in America Latina 2. Al posto di «bannati», un altro filone riporta «shadowbannati» 3. Lo shadowban è una misura di moderazione soft: anziché eliminare i post, ne riduce la capacità di circolazione all’interno di una piattaforma social. Se prima dello shadowban i post di un utente arrivavano in media a cento persone, da quel momento potrebbero arrivare a trenta o quaranta. È uno dei modi in cui le piattaforme depotenziano gli account che hanno violato i termini di servizio (per esempio, pubblicando materiali ritenuti violenti, discriminatori, pornografici o disinformativi) o chi, di quegli account, ha condiviso contenuti, ma anche chi ha semplicemente usato parole relative a temi «sensibili» cui la piattaforma preferisce togliere visibilità (per esempio, il suicidio). Lo shadowban è una punizione particolarmente frustrante e subdola perché spesso viene inflitta senza nemmeno essere comunicata, a differenza della censura che comporta l’eliminazione del contenuto incriminato. In questo modo, chi denuncia di esserne vittima non ha modo di dimostrarlo e sembra soffrire di manie di persecuzione. A volte è davvero cosí, e capita senz’altro che si lamentino di shadowban anche persone che pubblicano contenuti imbarazzanti, ignorati per pura pietà da chi li incontra, ma questo non toglie che lo shadowban esista. I meme giocano spesso con immaginari estremi, e cosí procurano provvedimenti disciplinari ai propri autori o autrici. Poco importa l’effettiva intenzione di un post, anche se palesemente ironica: una foto di Adolf Hitler, l’esortazione a ghigliottinare i super-ricchi o un’espressione di odio nei confronti di una qualunque categoria di esseri umani, a prescindere dal contesto, sono destinate a essere censurate da moderatori umani e automatici. Obiettivo delle piattaforme, per inciso, non è tanto prevenire la diffusione di idee discriminatorie o sovversive, quanto evitare di essere associate alla libera circolazione di contenuti che gli inserzionisti, gli investitori o gli opinionisti potrebbero ritenere sconvenienti.

Per chi fa meme, insomma, le piattaforme sono gli unici spazi dove proporre le proprie creazioni ma sono anche una polizia intrusiva e arbitraria. Eluderne il controllo richiede particolari tattiche di dissimulazione 4 o una strategia mirata a «restare piccoli», a mantenere un seguito ridotto e fidato per limitare il rischio di delazione 5. Diventa piú chiaro, credo, il senso in cui un memer può identificarsi – non senza ironia, è chiaro – con un immaginario da cellula guerrigliera come quello descritto poco sopra. Un meme della pagina Facebook Autofellatio evoca in modo diretto le narrazioni distopiche della fantascienza 6. Mostra un viandante con lo zaino in uno scenario desertico, che guarda verso un lontano agglomerato di grattacieli attraverso una foschia grigiomarrone; dall’uomo parte un fascio di luce che dà forma all’ologramma di un Wojak, personaggio ricorrente di moltissimi meme. Il testo recita: «È l’anno 2041. Tutte le immagini appartengono a Google Prime. La distribuzione di meme è illegale e punibile con la morte. Vago nella desolazione proiettando dei Wojak nel cielo per far sapere alle persone che la libertà vive ancora. Io sono l’ultimo memer e questa è la mia storia…» Ancora su Facebook, un meme di Burds ARE Real riporta nella metà superiore la schermata del pop-up con cui la piattaforma avvisa l’utente che ha appena iniziato a seguire una pagina colpevole di ripetute violazioni dei termini del servizio: «Questa pagina potrebbe condividere materiale che viola gli Standard della Community». Nella metà inferiore del meme risponde Kabosu, il cane di razza Shiba Inu piú nota come doge, a sua volta protagonista di infiniti meme: «Ecco, il bollino dei buoni contenuti» 7. Essere i paria di Meta è una medaglia al valore. Secondo questa logica, degli account con la spunta blu bisogna diffidare tanto quanto delle piattaforme che gliel’hanno conferita. Per giunta, questa specie di élite virtuale non abita le piazze social per ragioni di piacere ma d’interesse, economico o politico; il loro tono amichevole suona dunque falso e subdolo. Le aziende mentono per vendere i propri beni e servizi, le istituzioni mentono per conservare il potere e imporre il consumo di quegli stessi beni e servizi, le celebrità mentono per conquistare la nostra fiducia e prestare i loro volti «autentici» ad aziende e istituzioni, e persino i giornali,

gli unici che avrebbero la missione di raccontare la verità, hanno abdicato al proprio compito in nome dei clic. Come definire, se non distopiche, le visioni da questo mondo cosí simile al nostro ma privo di ogni pace e speranza? Quando la nicchia di appassionati di meme era ancora piuttosto ristretta e localizzata su 4chan 8, le aziende e le celebrità a cui gli utenti reagivano con piú irritazione erano proprio quelle che usavano i meme. «FAI SILENZIO, BRAND » 9 è stata a lungo la risposta di rito a questi tentativi di accattivarsi le simpatie del pubblico per vendere prodotti, servizi o visioni del mondo. Oggi, il conflitto con l’uso aziendale e istituzionale dei meme è molto limitato, probabilmente perché la battaglia è stata persa: dalle multinazionali alle trattorie, chiunque usa i meme. Quasi sempre, si tratta di meme banali, malfatti o autoriferiti, ma raccolgono reazioni ampiamente positive; commentarli negativamente non farebbe che aggiungere un granello di sale in un lago d’acqua dolce. Anzi, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato: gli algoritmi dei social non distinguono piú di tanto l’apprezzamento dal disprezzo, e garantiscono maggiore visibilità ai contenuti con piú interazioni (reaction, commenti, condivisioni, clic, e cosí via) a prescindere dal loro intento. Un post viene favorito se incentiva gli utenti a passare piú tempo sulla piattaforma; che quel tempo lo passino divertendosi o litigando, fa lo stesso 10. E cosí, chi tiene ai meme pensa ormai a farne di belli, piuttosto che rimproverare le aziende quando ne fanno di brutti. Dell’abbassamento del livello dello scontro è però possibile anche un’altra interpretazione. Quando criticavano le aziende, gli utenti di 4chan potevano vantare una coerenza oggi inattingibile per chi pubblica meme sui social. Su quella imageboard vige un anonimato cosí totale da rendere impossibile individuare due messaggi scritti dalla stessa persona 11, e soprattutto non ci sono metriche per decidere quali messaggi stiano avendo piú «successo». Sui social media, invece, l’utente esiste in quanto possiede un profilo stabile. Poco importa che usi il suo nome anagrafico o uno pseudonimo: i contenuti che diffonde saranno riconducibili a lui o lei e grazie a quelli

potrà avere visibilità, un seguito, una reputazione. Se si tratta di meme, l’utente sarà incentivato a pretendere che non vengano screenshottati e ripubblicati, per non perdere la valuta sociale che deriva dal legame tra le interazioni e il suo account; sarà incentivato a notare i temi, i formati, i giorni e gli orari che di solito garantiscono maggiori like e condivisioni; sarà incentivato a fare un’equivalenza tra le metriche che può misurare e la sua soddisfazione personale. Tutto questo avvicina il comportamento del singolo utente a quello dell’azienda. Sono le aziende, che preparano (cioè fanno preparare ad appositi specialisti) piani editoriali social per ottenere risultati quantificabili e crescenti, una reputazione positiva e una produzione di contenuti sempre in linea con gli argomenti del giorno. Da che pulpito, memer che si preoccupano di queste cose potrebbero criticare le aziende che usano i meme? Le opere che circolavano anonime in Rete, inabissandosi e di tanto in tanto riapparendo perché qualcuno le aveva recuperate da una cartella di screenshot, erano una cosa; il resto, dal momento in cui entra in circolo, diventa content in un sistema pensato per vendere spazi pubblicitari. Per inciso, esistono tantissimi account che pubblicano meme contro ogni incentivo e regola, contro ogni autorialità, attirandosi spesso censure se non addirittura l’esclusione definitiva dalle piattaforme. Il loro atteggiamento però spicca proprio perché controcorrente, quasi fosse un esercizio ascetico; in un contesto che ci suggerisce di far crescere continuamente il numero dei nostri follower, anche solo cercare riconoscimento da parte di una piccola cerchia individuata, e non del mondo intero, emerge come comportamento straordinario. Probabilmente, pochissimi memer avvertono a livello personale la contraddizione rispetto ai tempi di 4chan; ricostruire questa piccola contrapposizione storica però ci consente di mettere a fuoco i termini dello scacco in cui le piattaforme tengono chi vorrebbe creare contenuti per il piacere di farlo e invece si ritrova a doversi gestire come un brand. Tanto è già stato scritto in anni recenti sulla perdita di credibilità delle istituzioni e delle figure-guida. Il patto sociale si rompe, se i cittadini non sentono di poter fare qualcosa per modificare la direzione imposta alla

collettività. Questa perdita di senso e di fiducia si riproduce anche nella microsocietà social, nei confronti delle spunte blu; tanto piú considerato che le piattaforme sono private e in nessun modo democratiche. Un filone di meme è diventato emblematico del conflitto tra l’essere umano che vuole conservare il proprio arbitrio e l’ordine costituito che pretende di piegarlo. Nella sua versione originaria, rappresenta con pochi sgorbi una scena ricca di dinamismo: due caschi blu dell’Onu irrompono in un edificio intimando a un terzo personaggio di bere sciroppo di mais; quest’ultimo è barricato in una stanza con un fucile, ha la faccia che nei meme hanno i troll, e mentre sgrana gli occhi iniettati di sangue urla «Odio l’Anticristo! Odio l’Anticristo!» 12. Per comprendere il senso di ogni dettaglio bisognerebbe indagare la teoria – che il meme sottintende – secondo cui l’Onu spianerà la strada alla venuta dell’Anticristo e poi la correlazione tra l’utilizzo dello sciroppo di mais come dolcificante industriale e l’aumento dell’obesità negli Stati Uniti. Non è da queste però che deriva l’importanza del meme. Credo sia stato l’intreccio di piú fattori a renderlo un template, cioè una cornice all’interno della quale gli elementi sono stati modificati in migliaia di modi, da persone diverse, per creare meme sempre nuovi. La potenza della scena – un classico dei film d’azione, per tornare ai generi narrativi – si è sposata con il fascino dei riferimenti esoterici, memetici ed extra-memetici: da un lato la variante angosciata della trollface 13, dall’altra l’Onu-Anticristo e lo sciroppo di mais. Questi ultimi due giocano anche sul gusto di mettere in difficoltà la persona che incontrerà il meme, costringendola ad arrovellarsi intorno a una tensione irrisolvibile tra serietà e ironia: «L’autore crede davvero che Onu e settore alimentare complottino per propinarci un dolcificante e avverare le piú fosche profezie del cristianesimo, o sta prendendo in giro chi ci crede? Forse non crede a questi specifici complotti ma li usa come metafore per altri, a cui crede e a cui io non credo? Se esprimo apprezzamento per il meme o lo condivido, sto contribuendo alla diffusione di queste idee?» Nelle molte varianti, lo sciroppo di mais e l’Anticristo vengono quasi sempre sostituiti da altro; quello che resta è un’epica universale: l’ordine costituito è pronto a entrarti fin dentro casa, pur di importi il suo modo di vivere e di pensare; tu sei solo, ma non te ne andrai senza aver lottato. Su questo schema concettuale e visivo sono stati

costruiti innumerevoli racconti memetici di resistenza a imposizioni dall’alto materiali o culturali, grandi o piccole, dal bambino che non vuole mangiare la verdura fino all’austriaco che nel 1938 non vuole essere annesso alla Germania, passando per l’utente social che non sopporta il dibattito sulle vicende delle celebrità. Quest’ultimo caso ci permette di riconoscere una componente distopica persino nei meme che rappresentano personaggi famosi e li commentano con «Tutto ciò che so di loro, lo so contro la mia volontà» 14. Evitare di comprare le riviste di gossip non è piú sufficiente a ignorare amori, litigi e passi falsi di uomini e donne in vista: subiamo queste informazioni dai post suggeriti di pagine che non seguiamo, dai meme che tutti condividono, dagli editoriali quotidiani dei nostri contatti social. È come la Cura Ludovico di Arancia meccanica; peggio ancora, è come sentire le voci.

1. My idols are dead and my enemies are in power. Does this image speak to you? di Paul Gallagher, in «Dangerous Minds», 15 marzo 2012. Link: bit.ly/DeadQ 2. Qui: bit.ly/BannedQ 3. Esempio: bit.ly/ShadowbannedQ 4. Algo-lingua, algospeak di Beatrice Cristalli in «Lingua Italiana – Treccani», 3 marzo 2023. Link: bit.ly/AlgospeakQ 5. How to Plant a Meme di Joshua Citarella in «Do Not Research», 11 aprile 2022. Link: bit.ly/SmallQ 6. Qui: bit.ly/GooglePrimeQ 7. Qui: bit.ly/GoodContentQ 8. Per conoscere la lunga storia di 4chan suggerisco di partire da Know Your Meme, enciclopedia dei meme. Link: bit.ly/4ChanQ 9. Qui: bit.ly/SilenceBrandQ 10. Un libro utile a comprendere come funzionano gli algoritmi di raccomandazione è Scelti per te (Castelvecchi, 2020) di Francesco Marino. Inoltre, il suo canale Instagram @pillolefuturopresente è una fonte di continui aggiornamenti e riflessioni sul mondo delle piattaforme. 11. Per una discussione delle forme di anonimato disponibili online, indico un altro testo di Alessandro Lolli, «Forme di insubordinazione per sopravvivere al palcoscenico dei social

network», in The Game Unplugged, a cura di Valentina Rivetti e Sebastiano Iannizzotto, Einaudi, Torino 2019. 12. Prima di arrivare a questa formulazione, la piú conosciuta, il meme ha conosciuto una serie di rielaborazioni. Link: bit.ly/AntichristQ 13. Il meme «Odio l’Anticristo» rientra nella «Nuova ondata di meme con la Trollface» a cui fa riferimento la voce dedicata di Know Your Meme. Link: bit.ly/TrollfaceQ 14. Esempio: bit.ly/KnowQ

La vita sui social media, in effetti, ha diversi tratti in comune con le allucinazioni, o comunque col rapportarsi a presenze fantasmatiche. Per esempio, su una stessa piattaforma non esistono due persone che vedano lo stesso feed: gli algoritmi ordinano e suggeriscono contenuti all’utente in base ai suoi comportamenti e questo contribuisce a produrre, in persone diverse, visioni diverse di cosa sia «l’ambiente social», sempre impossibili da riscontrare fino in fondo per l’interlocutore. A chi non frequenta le cerchie appassionate di meme, questo stesso testo sembra forse provenire da un’altra dimensione. Inoltre, quando postiamo o commentiamo non ci rivolgiamo a interlocutori individuati: parliamo a una rappresentazione mentale vaga e mutevole del nostro pubblico, che difficilmente corrisponderà al pubblico concreto. Prima dell’Internet 2.0 e del suo culmine social, questa esperienza era riservata alle poche figure che intrattenevano ampie platee – politici, sacerdoti, giornalisti, artisti – e a una parte delle persone che parlavano da sole. Il rischio di apparire come chi farfuglia cose incomprensibili dirette a un pubblico immaginario è specialmente presente per chi pubblica meme. Miei amici di lunga data, che mi conoscono benissimo ma bazzicano poco i social media, ogni tanto mi confidano di non capire quasi nulla di ciò che posto. Vedono altre persone reagire o commentare, e cosí intuiscono che quei meme un senso devono averlo, ma quale sia non gli è chiaro. La mia è un’esperienza comune a chiunque pubblichi sui propri account personali – tipici crocevia di amici, ex amici, colleghi e parenti – meme che in effetti sarebbero destinati solo a una piccola porzione di quei contatti. Da sempre, l’appartenenza a un gruppo si costruisce anche intorno alla produzione di

battute impenetrabili per chi del gruppo non fa parte; oggi, gli equivalenti memetici di quelle battute «per iniziati» circolano nei luoghi virtuali piú affollati del mondo, anziché dover attendere il giusto contesto di ricezione, e aggregano da sé una comunità di persone affini respingendo o confondendo le altre. La rielaborazione artistica di riflessioni simili, mescolata con episodi autobiografici e immaginari stereotipati, ha forse contribuito alla popolarità di cui negli ultimi anni hanno goduto i meme sulle esperienze allucinatorie. Alcuni consistono in frasi ambigue, capaci di evocare una varietà di possibili sviluppi narrativi: per esempio, «Vivono nelle pareti», «Sta uscendo di nuovo sangue dallo scarico del lavandino» 1 o l’ossessiva «La nebbia sta arrivando. La nebbia sta arrivando. La nebbia sta arrivando» 2. Impossibile determinarne il tono: chi parla cerca sollievo dal proprio terrore o vuole indurlo in chi legge? I dubbi non trovano soluzione quando incontriamo queste frasi da sole, nel vuoto senza appigli di un post di solo testo, o accompagnate a immagini «neutre» per caricarle d’inquietudine; qualche indizio in piú lo abbiamo quando invece vengono attribuite a un personaggio, che parla da solo o con altri. Secondo me è l’atteggiamento degli altri, che di solito in questi meme non hanno percezione di presenze paranormali, a suggerire di interpretarle come allucinazioni. Certo, il loro mondo finzionale potrebbe essere popolato di mostri visibili solo agli occhi di alcuni – il filone memetico gioca anche sull’indecidibilità di questo dilemma – ma do per buona l’ipotesi che richiede meno ginnastica mentale: nei meme in esame, nessuna nebbia maligna si sta davvero avvicinando; nessuna entità misteriosa alberga nei muri di casa; e dal sifone del lavandino non è mai traboccato un fiotto di sangue. Al contrario, in un meme come «Odio l’Anticristo» l’irruzione dei caschi blu non è realistica, per quello che sappiamo della realtà, ma tutti i personaggi coinvolti la vivono come una situazione concreta. Il problema non si pone invece per il filone allucinatorio in cui compare Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho interpretato da Christian Bale: la sua è palese, tragicomica follia. I fotogrammi del film e le pose del personaggio hanno fornito materiale a una quantità straordinaria di template, talvolta di grande influenza 3; fatto tanto piú notevole se

consideriamo che il film è uscito nel 2000, ben prima che i meme avessero una qualche rilevanza. Il formato a cui ora mi riferisco usa come base un primissimo piano del volto di Bateman che, imperlato di sudore, trasmette un misto di tensione, aggressività, timore e ottusità 4; nel testo sovrapposto, un «io» descrive la situazione angosciante in cui crede di trovarsi e la situazione quotidiana reale in cui si trova, che però interpreta come una messinscena ordita da mostri mutaforma, spesso gli skinwalker 5. Un paio di esempi renderà il discorso piú chiaro: «Uno skinwalker suona al campanello di casa mia; mi preparo ad accoglierlo a colpi di machete (per prendermi di sorpresa, si è travestito da prete e dice di voler benedire l’appartamento)» oppure «Io, pronto a lanciare il mio pitbull contro le “bambine” (skinwalker) che vogliono “vendermi dei biscotti” (scuoiarmi)». È una commedia degli equivoci splatter: a far ridere sono l’espressione contratta di Bateman e la sproporzione tra i pericoli che immagina, le reazioni violente che prepara e l’innocuità delle persone contro cui sta per scagliarsi. Non scopriamo mai come vadano a finire questi abbozzi di storie: per quanto ne sappiamo, l’io memante potrebbe portare a compimento il suo progetto o essere messo rapidamente in condizioni di non nuocere, o potrebbe aver sognato tutto dal chiuso della sua stanza. In American Psycho, il protagonista è in effetti un sadico violento e a tratti disperato, progressivamente piú confuso sul confine tra realtà e allucinazione; sarebbe però sbagliato pensare che i meme siano brevissime fan fiction che raccontano ulteriori episodi dalla sua vita. In generale, nel gioco memetico le fonti delle basi possono acquistare e perdere di valore in modi imprevedibili, impossibili da definire una volta per tutte. In questo caso, conoscere il film aggiunge ai meme uno strato di possibili significati ma averlo visto non è necessario, cosí come per apprezzare il film stesso non è necessario leggere il romanzo da cui è tratto. Piuttosto, a chi fa meme è utile conoscere le varianti che circolano all’interno di un dato filone, per dare una piega inaspettata a strutture comiche ormai stantie. Un esempio: il primissimo piano di Bateman con il testo «Io, pronto a divorare il cliente appena entrato nella stazione di servizio (non sono uno skinwalker, ho solo fame)» 6 può essere divertente solo in quanto sovverte le aspettative create dalle molte occorrenze precedenti. L’utente che ha ormai imparato ad attribuire le violenze di

Bateman all’incapacità di intendere – scontandone per questo la gravità – si trova qui impotente davanti a un lucido progetto cannibale. Anche la variante «Io in ospedale, mentre lo skinwalker travestito da dottore mi dice che sono schizofrenico» 7 merita di essere citata, per due motivi. Innanzitutto, in un ulteriore tragicomico colpo di scena, ricomprende la diagnosi psichiatrica nel delirio persecutorio di Bateman: in questo modo, allontana la possibilità di un suo ritorno tra i sani e – nonostante i meme non costituiscano un universo narrativo coerente – proietta l’ombra dell’irrecuperabilità sulle altre sue apparizioni. In secondo luogo, permette di inserire una breve nota sullo schizoposting. Il termine «schizoposting» si inserisce nella gamma crescente di neologismi in -posting (inglese per «postare») nati sui social per indicare i diversi approcci alla produzione di contenuti, soprattutto memetici 8. Il prefisso schizo- deriva dal greco antico, significa «divisione, scissione» ed è di solito usato in parole scientifiche composte. Per esempio, «schizofrenia» vale letteralmente «scissione della mente» e la «schizoblefaria» è una «fenditura della palpebra». Lo schizoposting però non è una «scissione dei post»: il prefisso qui non rimanda all’idea generale della divisione ma direttamente alla schizofrenia, e cosí il termine viene usato sia in senso stretto, per indicare le rappresentazioni memetiche dei sintomi che alla schizofrenia sono comunemente associati (allucinazioni e deliri), sia in senso metaforico e iperbolico, per indicare le persone che postano come se da quei sintomi fossero affette (pubblicando invettive paranoidi, meme criptici e misticheggianti, etc) 9. Quest’ultimo non va preso come un uso esclusivamente dispregiativo, anzi; per quanto stereotipizzi un’esperienza complessa e dolorosa come può essere la schizofrenia, apre la porta alla romanticizzazione e all’ammirazione. Si dà dello «schizo» a chi si comporta in modo «strano», ma se la normalità è percepita come paludoso conformismo, la stranezza è eroica: è una forma di indipendenza, di coraggio, di spontaneo maledettismo. Gli account che vogliono presentare le proprie posizioni come minoritarie e controcorrente si rivendicano con orgoglio l’etichetta di «schizo». I meme di questo capitolo potrebbero essere indicati come schizoposting solo in senso stretto. Esplorano la paura (e anzi la viva sensazione) di stare

perdendo presa sulla distinzione tra vero e falso. I loro protagonisti, a differenza di quelli nei filoni distopici, non sospettano di lontane corporation, di organizzazioni internazionali o di un generico «sistema» impersonale: diffidano dei propri cari, si sentono spossessati della propria casa; subiscono uno scollamento profondo dalla realtà materiale e affettiva in cui sono inseriti. Nelle distopie, la falsità del mondo era una questione sociale; qui è un fatto intimo. Anche a questo si potrebbe trovare un parallelo nell’esperienza online. Sui social, chi subisce il peggior tradimento della propria fiducia da parte delle figure piú vicine? Per quanto sembri un accostamento ardito, in Patrick Bateman potrebbero forse riconoscersi i bambini che subiscono lo sharenting, cioè quelli le cui vite vengono sistematicamente trasformate in contenuti social da genitori privi di riserve o avidi di guadagni. La famiglia e le piattaforme, che sembravano tanto accoglienti, si rivelano pronte a strappar loro uno strato di pelle alla volta a colpi di content. Alcuni genitori esagerano nel condividere foto e video dei figli perché animati da un genuino desiderio di esprimere affetto nei loro confronti e dalla convinzione che i like sui post che li riguardano equivalgano a ulteriore affetto da parte di terzi. Altri hanno scientemente approfittato di un vuoto normativo per reinventare il lavoro minorile nel XXI secolo e hanno messo a profitto l’immagine dei propri bambini, facendone uno strumento pubblicitario o una specie di scudo umano da postare quando hanno bisogno di smorzare un’ondata di commenti negativi e di chetare il malanimo dei follower 10. Un ultimo filone memetico, in cui non compare piú Bateman ma anonimi personaggi maschili, ci dice che dalle allucinazioni c’è uscita; tuttavia, a svanire quando il protagonista prende «le medicine» non sono delle entità mostruose ma un’amorevole fidanzata o moglie 11. In diversi casi, è lei stessa che lo invita a prendere le medicine e poi si dissolve 12. Altri meme criticano la dinamica per cui un sistema disumano induce disagio psichico e poi, piuttosto che modificarsi, lo tiene sedato artificialmente; qui invece le allucinazioni sembrano desiderabili. Insieme alle fantasie (alla vita virtuale?) scompare l’unico motivo per cui valeva la pena di vivere: il protagonista ripiomba nella realtà materiale e si scopre solo e disperato.

1. Esempio: bit.ly/BloodQ 2. Alla storia del meme è dedicata una voce su Know Your Meme. Link: bit.ly/FogComingQ 3. Know Your Meme offre una utile panoramica sulle molte ramificazioni memetiche ispirate al film. Link: bit.ly/BatemanQ 4. Esempio: bit.ly/PropGunQ 5. Wikipedia ha una voce su queste creature soprannaturali del folklore navajo. Link: bit.ly/SkinwalkerQ 6. Qui: bit.ly/HungryQ 7. Qui: bit.ly/SchizophreniaQ 8. Il piú famoso, forse l’originale, è lo shitposting (che si potrebbe tradurre alla lettera con «postare cagate», per mantenere tanto il riferimento scatologico quanto l’idea di «postare cose di poca importanza»). La lista però è aperta e in crescita: sadposting, hornyposting, hateposting, etc. Per tradizione della comunità memetica italiana, la particella -posting è di solito tradotta con «postaggio»: per esempio, «shitposting» diventa «merdapostaggio» o «caccapostaggio». 9. Per approfondire rimando alla voce dedicata allo schizoposting da Know Your Meme. Link: bit.ly/SchizopostingQ 10. Queste considerazioni le devo alla lettura delle inchieste e delle analisi di Serena Mazzini, che oltre a scrivere articoli propone dal suo account Instagram @serenadoe___ una sorta di osservatorio permanente su alcuni usi aberranti dei social e sulle loro implicazioni politiche complessive. 11. Know Your Meme dedica una voce a uno dei filoni di questo tipo; non è l’unico. Link: bit.ly/PillTimeQ 12. Esempio: bit.ly/SchizoMedsQ

Farsi ascoltare sui social media è difficile. Una tattica comune, per superare il brusio collettivo e attirare l’attenzione, è far detonare una bomba: esprimere opinioni estreme, usare toni forti. Era destino, forse, che in un ambiente simile nascesse un piccolo culto per un personaggio che i pacchi esplosivi li mandava sul serio. Tra il 1978 e il 1995, dalla casupola di legno che si era costruito nei boschi del Montana, Ted Kaczynski confezionò artigianalmente 16 ordigni e li spedí per posta in giro per gli Stati Uniti. Causò la morte di 3 persone e il ferimento o la mutilazione di altre 23. I giornali lo soprannominarono Unabomber, da University and Airlines Bomber, perché gli obiettivi principali del terrorista sembravano essere atenei e compagnie aeree. In realtà, il bersaglio ideale degli attentati era la società moderna, colpevole, secondo Kaczynski, di asservire alla tecnologia l’essere umano e le risorse naturali, ma individuare e colpire i singoli o le istituzioni con le maggiori responsabilità, anche solo simboliche, non era facile. Minacciando ulteriori attentati, nel 1995 Kaczynski obbligò il «Washington Post» e il «New York Times» a pubblicare integralmente il testo rimasto celebre come «il manifesto di Unabomber», La società industriale e il suo futuro (Ortica Editrice, 2021), di cui molti oggi conoscono la prima frase proprio grazie all’uso ricorrente che se ne fa nei meme: «La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana».

Insieme a @scopertine, su Instagram, abbiamo incollato la seconda parte di quell’incipit memorabile a una decina di titoli di libri classici e contemporanei 1: abbiamo ottenuto, tra gli altri, «Il capitale e le sue conseguenze sono stati un disastro per la razza umana» (Karl Marx), «Il secondo sesso e le sue conseguenze sono stati un disastro per la razza umana» (Simone de Beauvoir), «Il desiderio di essere come tutti e le sue conseguenze sono stati un disastro per la razza umana» (Francesco Piccolo), «Il primo uomo e le sue conseguenze sono stati un disastro per la razza umana» (Albert Camus). Individuato nel 1996, arrestato e infine condannato a passare il resto dei suoi giorni in carcere, Kaczynski ha intrattenuto centinaia di corrispondenze dal penitenziario, ha scritto alcuni libri e infine è morto nella sua cella a 81 anni, nel 2023. Alla dipartita, gli sono stati dedicati molti meme commossi che lo chiamavano affettuosamente «zio Ted», lo celebravano come un eroe o immaginavano di poter tornare indietro nel tempo per aiutarlo a sottrarsi all’arresto. È stata la conferma piú recente e compatta di una simpatia diffusa da tempo. Com’è possibile che Unabomber, terrore d’America, sia diventato una figura familiare e rassicurante? I fattori intervenuti sono diversi. Innanzitutto, almeno nelle intenzioni, la sua era una guerriglia ecologista, ed era anticapitalista tanto quanto antisocialista e anti-liberal, nel senso che il termine liberal assume negli Stati Uniti. Per chi non pretende di sostenere coi propri meme una parte politica troppo precisa, la sua causa è oggi persino troppo facile da sposare, a un livello superficiale (ed è generalmente molto superficiale l’approccio memetico alle sue idee). Non ha ottenuto risultati significativi? Ma quale azione ecologista ne ha mai ottenuti, se il pianeta è messo com’è messo? Se non altro – cosí funziona la logica implicita nell’ammirazione per la sua figura – Kaczynski si è dimostrato «basato», come si dice in gergo memetico: è andato dritto per la propria strada senza chiedere il permesso a nessuno ed è rimasto fedele alle proprie idee fino all’ultimo. Un aneddoto descrive abbastanza bene la sua reputazione online: nel 2021, il blog di gossip sulle celebrità Crazy Days And Nights ha rilanciato

una voce (a oggi, né verificata né smentita) secondo cui Greta Thunberg aveva iniziato una corrispondenza con l’ex terrorista; per tutta risposta, qualcuno ha commentato: «Forse è tempo di rivalutare Greta». Nella biografia di Kaczynski si può leggere anche una forte componente di rivalsa nei confronti dell’establishment. Da giovanissimo e brillante studente alla Harvard University, fu sottoposto per tre anni a traumatici esperimenti psicologici, forse parte del famigerato programma MK-ULTRA della Cia. Ben piú tardi, datosi al terrorismo, riuscí a eludere la caccia all’uomo piú lunga nella storia degli Stati Uniti: l’Fbi lo catturò solo quando David Kaczynski denunciò strane somiglianze contenutistiche e stilistiche tra La società industriale e il suo futuro e le lettere private di suo fratello Ted. La miniserie televisiva Manhunt: Unabomber con Paul Bettany, uscita nel 2017, ha contribuito a dipingere Unabomber come un genio tragico e romantico, schiacciato a piú riprese da sistemi (universitario, poliziesco, giudiziario) perversi e preoccupati solo di difendere sé stessi. Infine, bisogna tenere a mente l’effetto culturale dei meme stessi: i primi a rappresentare Kaczynski come personaggio positivo potevano anche essere iperbolici o ironici, ma nel corso del tempo si è diffusa l’abitudine a vederlo associato a messaggi condivisibili, e cosí la sua carica provocatoria si è trasformata; se all’inizio l’utente lo percepiva come un pericolo per sé, ora vede in lui l’emblema di una minaccia rivolta a qualcosa che odia. Entriamo nel dettaglio: chi è il Kaczynski che emerge dai meme? Per un verso, è l’asceta che si sottrae a un mondo inautentico e foriero di sofferenze. Penso ai meme che lo accostano a messaggi pacifici e remissivi, del tutto incongrui rispetto alla sua figura mediatica e al tono dei suoi scritti: per esempio, la frase spesso memata «Non voglio un “lavoro” o una “carriera”, voglio un “pisolino” e un “bacetto sulla fronte”» 2 o la definizione di JOMO (Joy Of Missing Out), che è la gioia di mancare agli appuntamenti sociali obbligati e di disconnettersi. In molti casi, forse la maggioranza, trasmette l’energia dell’uomo mite vicino a perdere la pazienza con esiti catastrofici. A volte è come se l’avesse già persa; per esempio, nel video-meme che contrappone due

progetti di vita alternativi: «piano A» – vediamo un orto rigoglioso, sullo sfondo una casa di campagna – e «piano B» – vediamo le immagini dell’arresto di Kaczynski, stravolto e arruffato 3. Il suo ritratto piú memato è una foto identificativa scattata in carcere. Di solito, viene aggiunta in semitrasparenza sui titoli di giornale che annunciano invenzioni dai risvolti inquietanti. In quella foto, Kaczynski indossa la tuta arancione tipica dei detenuti statunitensi; tiene il mento alto e guarda nell’obiettivo con un’espressione indecifrabile, forse assente, che però contiene anche un naturale elemento di disprezzo e sfida. La notizia nel titolo è implicitamente una delle ultime gocce per la sopportazione di quest’uomo, se non proprio quella che farà traboccare il vaso 4. Per dare un’idea piú precisa di questo tipo di meme, ecco alcuni tra i tanti titoli a cui è capitato di essere accostati allo sguardo inquietante di Kaczynski: «Sony possiede il brevetto di un sistema che può obbligarti a gridare verso il televisore il nome di un brand per interromperne la pubblicità» 5; «Un uomo si è suicidato dopo aver chattato con un’intelligenza artificiale che lo ha incoraggiato a sacrificarsi per fermare il cambiamento climatico» 6; «I film digitali che acquisti online non sono davvero tuoi» 7. In un altro filone memetico, notizie simili vengono accompagnate da una suggestiva frase attribuita a Nikola Tesla: «Nel corso della tua vita potresti arrivare a vedere orrori artificiali al di là della tua comprensione». La prima occorrenza di questa citazione risale a un profilo dell’inventore pubblicato dalla rivista statunitense Esquire nel 1947, quattro anni dopo la sua morte 8. Nel 1898, racconta l’articolo, Tesla aveva presentato al Madison Square Garden di New York un modellino di nave radiocomandata. Quando un militare dal pubblico aveva suggerito di caricarla di dinamite e usarla per affondare le flotte nemiche, Tesla aveva risposto: «Con questa logica, nel corso della sua vita potrebbe arrivare a vedere orrori artificiali al di là della sua comprensione» 9. Per poterla riproporre senza contesto sui social, la citazione originale è stata dunque privata delle prime parole e in quella forma è entrata in circolo come meme; in italiano, poi, è sempre stata tradotta usando il «tu» perché non era chiaro che in quella circostanza la nostra lingua avrebbe richiesto il «lei».

Spesso alcune delle parole di Tesla vengono usate in una reaction image pubblicata a commento di un post. Nella versione piú diffusa, è un pacioso Peter Griffin seduto in poltrona ad allungare il telecomando, presumibilmente verso un televisore, e dire «Ah bello – orrori artificiali al di là della mia comprensione» 10. A questo siamo ridotti, a spettatori impotenti che vivono qualunque mostruosità come intrattenimento? Prendiamo una notizia in particolare. Nel 2020, in Turchia, un allevatore ha fatto indossare a una mucca un visore per la realtà virtuale 11. Secondo quanto raccontato dall’allevatore, lo stratagemma ha funzionato: proiettata in un immaginario pascolo verdeggiante, sollevata dallo stress della vita nella stalla, la mucca ha prodotto piú latte. In Interregno (NERO Editions, 2022), Mattia Salvia ha riflettuto sull’effetto che provoca in noi una notizia del genere e credo abbia individuato con precisione il tipo di disagio preverbale a cui molti meme rispondono con il volto di Kaczynski. Sarebbe sbagliato pensare che una mucca provvista di headset VR ci mette a disagio perché stiamo obbligando dei poveri animali a vivere in una realtà illusoria di cui non sono consapevoli, o perché abbiamo paura che un giorno anche noi – che questa consapevolezza ce l’abbiamo – potremmo finire per trovarci a vivere in una realtà illusoria contro la nostra volontà. Non è quello: sia perché la mercificazione del regno animale esiste anche senza bisogno di visori VR, sia perché le realtà si stanno già fondendo. A inquietarci è semmai proprio il fatto che viviamo in un mondo in cui questo genere di cose è non solo possibile, ma addirittura spiegabile in termini perfettamente razionali.

In una coppia di vignette che circola da una decina d’anni su Internet, tratte da una tavola di KC Green e spesso memate, un cane col cappello siede serenamente in un soggiorno divorato dalle fiamme e fissa il vuoto ripetendo «This is fine»; ossia, «Va bene cosí» 12. Mentre queste vignette, come il già citato Peter Griffin, ci mostrano l’assurdità di accettare passivamente le regole di un gioco che ci consuma, l’immagine di Ted Kaczynski minaccia di interrompere la passività con un’azione violenta e radicale. In modo forse confuso e inevitabilmente contraddittorio, chiede un cambio di paradigma. Propone di considerare irrazionale quel che oggi è

costitutivo del modello di produzione dominante, cioè il sistematico sfruttamento delle risorse naturali, comprese quelle fisiche e psicologiche degli esseri umani. Se «con questa logica», come diceva Tesla nella citazione completa, siamo destinati a incontrare orrori al di là della nostra comprensione, Kaczynski dice di cambiare logica. Ho accennato a una contraddizione inevitabile perché qualunque discorso ecologista oggi viaggia su piattaforme che consumano quantità impressionanti di energie da fonti non rinnovabili e che sono accessibili per mezzo di computer e smartphone prodotti grazie allo sfruttamento insostenibile di ecosistemi e vite umane in paesi lontani. Ricordarlo ci fa sentire delusi da noi stessi, disgustati dalle nostre azioni e dominati da forze beffarde, come chi si accorge di avere ceduto una volta di piú al comportamento o alla sostanza da cui è dipendente. E chi davvero sa di essere, a un qualche livello, dipendente dai social o dallo smartphone, conosce la sensazione liberatoria di scagliare il telefono dall’altro lato della stanza, e conosce la mortificazione di doversi alzare dopo cinque minuti per controllare se la notifica appena arrivata era una mail importante o per ricopiare un codice di verifica dell’identità ricevuto via SMS . Uno dei meme che si prendono gioco di questa contraddizione mostra un frammento di Blade Runner 2049 in cui Ryan Gosling esplode in un accesso di rabbia, introducendolo come emblema di «Quelli che “la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro”, quando devono disconnettersi da Internet» 13. In realtà, il cortocircuito in cui sono costretti a esistere i meme proKaczynski evidenzia ancora una volta i problemi posti dalle tecnologie piú pervasive dei nostri tempi. Le piattaforme sono al tempo stesso responsabili o corresponsabili di dinamiche economico-politiche piene di rischi, che andrebbero messe in discussione, ma il dibattito collettivo ormai avviene sulle piattaforme stesse: usarle non significa solo prendere atto del loro monopolio sugli spazi di discussione, ma permettere loro di acquisire tanto piú potere e denaro quanto piú partecipata sarà la critica.

I meme su Kaczynski rendono visibili le sbarre della gabbia, per cosí dire, e sono un caso particolarmente interessante perché non si limitano a descrivere alcune linee di frattura che attraversano la vita sui social media: ne sono innervati a loro volta. Le azioni sconfessano le convinzioni, le minacce e le richieste e le prese di posizione restano senza seguito, tutto questo è strutturale e ineludibile, e saperlo non dà il sollievo della giustificazione; piuttosto, un altro motivo di frustrazione. Gli utenti sono scissi, contrapposti a sé stessi. Diventa piú comprensibile lo sguardo da veterano di una guerra antica di Kaczynski, appesantito da quella che un altro meme definisce «una stanchezza che non passa dormendo» 14.

1. Qui: bit.ly/ScopertineQ 2. Qui: bit.ly/CareerJobQ 3. Qui: bit.ly/PlanABQ 4. Esempio: bit.ly/MugshotQ 5. Keith Bradford, Sony owns a patent that would force viewers to say the brand name to end the commercial, in «YUP», 14 gennaio 2023. La notizia, per quanto surreale, è verificata. Link alla verifica: bit.ly/SonyPatentQ 6. Imane El Atillah, Man ends his life after an AI chatbot “encouraged” him to sacrifice himself to stop climate change, in «Euronews», 31 marzo 2023. Link: bit.ly/BelgianManQ 7. Geoffrey Morrison, You Don’t Really Own the Digital Movies You Buy, in «The New York Times», 4 agosto 2021. Link: nyti.ms/3KWTqrr 8. You May Live To See Man-Made Horrors Beyond Your Comprehension, in «Quote Investigator», 22 agosto 2016. Link: bit.ly/HorrorsQ 9. Lo specifico orrore suggerito dal militare oggi esiste e si chiama «drone marino». 10. Qui: bit.ly/ManMadeHorrorsQ 11. Lennie Lee Hood, Farmer Puts VR Headsets on Cows to Simulate Green Pastures, in «Futurism», 8 gennaio 2022. Link: bit.ly/MootrixQ 12. Il meme che ha descritto l’ultimo decennio in «Il Post», 31 gennaio 2023. Link: bit.ly/FineQ 13. Qui: bit.ly/LogOffQ 14. Esempio: bit.ly/TiredQ

È possibile che i meme raccolti finora non ci dicano nulla di nuovo, e che anzi vadano a rivangare disagi prepolitici che avevamo felicemente soffocato dentro di noi sotto la certezza di un’opinione. Del resto, qui sta un livello ulteriore dell’horror: oltre alla casa infestata, ci tocca digerire la mancanza di buonsenso dei personaggi che al primo segnale di pericolo decidono di dividersi; fanno la scelta meno razionale e si condannano da soli a morire di una morte atroce, mentre noi possiamo solo stare a guardare. Se sentiamo l’urgenza di rimproverarli, forse non è perché l’assurdità del loro comportamento rompa la finzione narrativa, ma perché ci terrorizza l’idea del tutto realistica che un gruppo di persone in una situazione delicata possa comportarsi in modo stupido. Rischiamo di perderci qualcosa di interessante se, davanti ai meme che danno inquadrature sbilenche della realtà o usano le parole con una certa leggerezza, ci limitiamo a considerarli poca cosa e passiamo oltre. I meme coinvolgono una nicchia specifica e tuttavia numerosa, diffusa, composita e in qualche misura influente all’interno delle piattaforme. Giocano sul non detto e sull’esagerazione; spaziano dal genio alla maniera; richiedono di imparare un nuovo linguaggio e di seguirne le evoluzioni. Nel confrontarsi con le linee di frattura del nostro tempo, offrono punti di vista che in loro assenza forse non circolerebbero cosí tanto; positivo o negativo, è un fatto con cui possiamo solo fare i conti. Esplorare le narrazioni intorno a Distopia, Follia e Tecnoinquietudine ha permesso di ricostruire gli immaginari creati o adattati dai vari filoni

memetici e di notarne affinità e differenze. Con ogni probabilità se ne potrebbero trovare anche altre, disegnando in modo diverso le categorie di partenza, scegliendo altri esempi o usando piú perspicacia della mia. E poi, i temi di fondo restano rilevanti per la vita collettiva; improbabile che si fermi la produzione di meme che li riguarda. Un leitmotiv in particolare, tra quelli incontrati negli scorsi capitoli, merita approfondimento. Dalla delusione e dalla frustrazione che innervano molti meme, è emersa a piú riprese una sensazione di scollamento dall’attualità, dai propri simili e da sé stessi; il distacco di chi, essendo escluso o escludendosi da un contesto, inizia a percepirlo come falso. Il mondo contemporaneo appare nel complesso come un luogo dove i soggetti che già hanno il potere si favoriscono a vicenda, violano senza rimorsi quanto ancora esiste di buono e di incontaminato e schiacciano chiunque osi interferire coi loro piani o anche solo cercare di sottrarsi a un modello di vita in cui non si riconosce. Nel fare tutto questo, chiamano il vero «falso» e il falso «vero»: la legge è ingiustizia fatta sistema, l’informazione serve a confermare ciò che dice la pubblicità, e tutto questo le persone vengono a saperlo da giornalisti o politici che a propria volta, un giorno o l’altro, finiscono per rivelare la propria affiliazione a una qualche cricca di potere. Per giunta, vivere nel sistema costringe a ragionare in accordo col sistema, a comportarsi come «spunte blu», e cosí a provare disgusto per sé stessi. Nei meme, credo sia il Ryan Gosling notturno di Drive (2011) a incarnare piú spesso uno stato d’animo di quieta rassegnazione al teatrino della vita: con un’espressività e una gestualità sospese, da sonnambulo, Gosling sembra presente a ciò che gli accade senza però esserne coinvolto; sembra che si annoi mortalmente e che tuttavia non veda alcun senso nel manifestarlo o nel sottrarsi a questa condizione. Non so se questa lettura della sua figura sia condivisa, ma davanti ai meme con Gosling la reazione piú comune tra gli utenti è commentare «letteralmente me», e lo era già prima che interpretasse un Ken un po’ ottuso in Barbie nel 2023. Oggi gli spazi dove l’atmosfera di falsità pare piú pesante sono probabilmente gli stessi social. La visione comune li vuole freneticamente animati da nient’altro che personaggi inautentici, bidimensionali: utenti che hanno scoperto quale lato mostrare, per ottenere piú reaction e notorietà, e

insistono nel mostrarlo. Può essere qualunque cosa: il piglio polemico, il fisico, un animale domestico, la propria condizione di oppressione sistemica, l’arguzia, il pollice verde, e cosí via. L’esito è spesso sgraziato, ridicolo o noioso, ma l’intenzione resta. Nello spettro dei profili possibili secondo quest’ottica, troviamo a un estremo chi usa il proprio account come un progetto editoriale e, per coerenza o per riservatezza, condivide solo contenuti inerenti al lato di sé che intende mostrare; all’altro estremo, chi ha ricondotto tutta la propria vita, online e offline, a ciò che funziona sui social, non parla d’altro e si comporta come se le logiche dell’algoritmo valessero anche per strada o coi propri cari. In mezzo, ovviamente, c’è la varietà di approcci meno radicali delle persone che usano i propri account social al tempo stesso come strumenti di comunicazione, come tele su cui autoritrarsi e come specchi in cui valutare la propria conformità a standard ideali. Se mai fosse possibile fare una valutazione quantitativa del fenomeno, troveremmo probabilmente che la ricerca della bidimensionalità sui social – consapevole o meno, efficace o meno – è davvero il caso piú frequente. D’altra parte, sono tante le persone che per un motivo o per un altro desiderano apparire tridimensionali, cioè autentiche, e fanno di tutto per ottenere questo risultato. Il problema è che i social media sono progettati per impedirlo. Gli utenti delle piattaforme, in effetti, apprezzano l’autenticità come una boccata d’aria fresca. Non solo l’autenticità di influencer che un giorno decidono di aprirsi col proprio pubblico per ammettere una debolezza, un dubbio o un momento di sconforto, ma anche (soprattutto?) quella di persone «normali» che riescono a sottrarsi alle pose codificate da social senza nemmeno bisogno di sottolinearlo; magari persino senza accorgersene. A propria volta, molte persone che producono contenuti con frequenza e investimento emotivo – magari anche gratis, come quelle che postano meme – cercano di farlo in modo autentico, per dare un senso e un valore al proprio impegno.

Possiamo dare per scontato che nell’autenticità ci sarà sempre qualcosa di inattingibile. Dovrebbe trattarsi della spontanea fedeltà di una persona a sé stessa, a una propria «natura»: una qualità che per essere valutata richiederebbe come minimo una conoscenza approfondita della persona in questione. Eppure giudichiamo abitualmente l’autenticità di persone del cui privato conosciamo poco o nulla, come quelle che vediamo in televisione o appunto sui social. È dunque un artificio, un effetto di realtà e non la realtà, l’autenticità che gli utenti cercano negli altri e cercano di raggiungere per sé: la superficie esibita deve dare mostra di aprirsi e permettere uno sguardo sotto la superficie stessa, o forse deve rivelare le cuciture che la tengono insieme; in ogni caso, richiede uno studio e una tecnica che sono il contrario della spontaneità. Sulle piattaforme, anche l’artificio resta fuori portata. Per riprendere la metafora delle tre dimensioni, un oggetto sembra avere una profondità solo se ne abbiamo un colpo d’occhio abbastanza ampio, che ne comprende alcuni contorni, luci e ombre. Al contrario, il design delle piattaforme prevede che un singolo contenuto sia di volta in volta tutto ciò che appare di ogni utente nei feed degli altri. Non era scontato: Facebook ha introdotto questa soluzione nel 2006, due anni dopo la sua fondazione. Prima, come accadeva su MySpace, l’utente doveva andare a visitare i profili a cui era interessato, per sapere se avevano pubblicato qualcosa di nuovo. Per giunta, i contenuti capaci di generare piú interazioni sono di norma quelli piú divisivi, che esprimono i giudizi piú tranchant; difficilmente saranno questi a permettere di apprezzare delle complessità di carattere o di pensiero. Esiste la possibilità di non badare alle reaction e alle visualizzazioni, ma è a dir poco controculturale. Se negli ultimi anni si parla sempre meno di «social network» e sempre piú di «social media», è appunto perché le piattaforme si sono strutturate per spingere gli utenti produttori di contenuti a cercare il successo davanti a un pubblico, non la conversazione in una bolla di contatti ristretta e stabile. Di conseguenza, se l’autorappresentazione bidimensionale può ambire a essere compatta, levigata e stabile, perché ciascun tassello del mosaico contiene tutto l’autoritratto, quella tridimensionale è invece un puzzle destinato a crescere senza potersi chiudere, infinitamente sfaccettato, irregolare, contraddittorio e in perenne aggiornamento. E piú l’utente

troverà il proprio autoritratto parziale e insoddisfacente, piú si sentirà in dovere di fare meglio, di esporsi ulteriormente, di dare in pasto alla piattaforma un nuovo boccone della propria personalità. In dovere nei propri stessi confronti, per non sentirsi bidimensionale, e anche del proprio pubblico, a cui vorrebbe regalare qualcosa di vero su piattaforme altrimenti tanto posticce. È un circolo vizioso, perché qualunque momento di sincerità sembrerà calcolato e spesso inevitabilmente lo sarà, per compiacere le richieste implicite del pubblico stesso e dell’algoritmo che a quel pubblico deve far arrivare il contenuto. Ci saranno momenti di equilibrio, post che bucheranno lo schermo per un giorno o due, ma un realismo convincente sul lungo periodo resterà fuori portata. Sulle piattaforme che conosciamo e su ciò che puntano a diventare, non credo si dissiperà mai la sensazione di avere a che fare con una falsità strutturale e contagiosa. Un livello di complessità lo aggiungono i rischi derivanti dal collasso dei contesti. In sociologia, questa espressione indica il fenomeno per cui un messaggio destinato a un preciso contesto di ricezione non raggiunge solo quello, ma anche altri potenzialmente molto diversi se non ostili; contesti diversi collassano in un contesto solo. Le conseguenze possono andare dall’imbarazzante (scopriamo di essere in viva voce mentre credevamo di stare avendo una conversazione privata) al pericoloso per la nostra serenità o incolumità (una persona con grande seguito sui social condivide un nostro post per esporci al pubblico ludibrio o, peggio, per additarci come nemico). Al collasso dei contesti concorre, sulle piattaforme, un intreccio di ragioni tecniche e scelte degli utenti. Nel 2009, Twitter ha introdotto il tasto «Retweet», imitata l’anno dopo da Facebook con il tasto «Condividi». Negli anni successivi si è diffusa a ogni livello l’abitudine allo screenshot, e oggi su TikTok è facilissimo persino ripostare il video di un’altra persona innestandovi un video proprio, di commento o di critica. Nel corso del tempo, inoltre, gli algoritmi hanno iniziato a «suggerire» nei nostri feed sempre piú contenuti da account che non seguiamo, sulla base dei nostri interessi e comportamenti online, al punto che su TikTok il feed Per Te, curato interamente dall’algoritmo, è molto piú usato rispetto a quello che mostra solo video degli account seguiti dall’utente 1.

Accanto al desiderio di autenticità riconosciamo anche qui l’inclinazione a consumare contenuti che non potranno mai offrirla. Una contraddizione che non si risolve: al contrario, l’aspettativa di autenticità permane e il singolo contenuto incontrato nel proprio feed non viene trattato come frammento ma caricato di un valore identitario, come se rappresentasse in modo efficace la persona che lo ha postato. Riflettere su questo aspetto è rilevante per capire come abiteremo i social, soprattutto alla luce di ciò che stanno diventando, e propongo di farlo ampliando la portata del concetto di «identità di connessione». Lo ha introdotto Renato Curcio in Identità cibernetiche (Sensibili alle foglie, 2020), saggio che si colloca in una serie di opere dell’autore dedicate alla rivoluzione di Internet e alle sue conseguenze: Per poter frequentare questo ambiente artificiale occorre […] inaugurare e specializzare uno o piú momenti identitari e allocarli operativamente in esso, fuori dal nostro corpo e dal suo pieno dominio. In breve, occorre dissociarsi in una o piú «identità di connessione».

Nella pratica, le identità di connessione sembrano coincidere con gli account che l’utente crea per usufruire dei servizi di piattaforme private; tuttavia, è efficace rinominarli, come fa Curcio, in modo da spostare l’attenzione sull’aspetto identitario anziché su quello burocraticoinformatico, per descrivere i processi dissociativi «necessari, strutturali e permanenti» richiesti dalla vita online. È su quelli che si concentra il saggio, tracciandone i contorni e analizzando le forme di assoggettamento che comportano. Secondo me, l’idea di Curcio può essere portata un passo piú avanti: oltre a dissociare un’identità ogni volta che assumiamo un nome su un sito Internet, dissociamo un’identità ogni volta che pubblichiamo un contenuto. Non solo sui social: per esempio, rientrano in questa definizione di «contenuto» anche le recensioni che pubblichiamo a vantaggio degli altri utenti sui siti di ecommerce o sulle app di audiolibri. È però sui social che la rappresentazione di sé si rivela piú complessa e laboriosa, e piú spesso attira l’attenzione e la compartecipazione degli altri utenti. Tornando alle autorappresentazioni a due o tre dimensioni, queste che potremmo chiamare

«identità di contenuto» sono i singoli tasselli che vanno a comporre i mosaici bidimensionali o le singole facce dei poliedri tridimensionali. In quest’ottica, potremmo recuperare il valore etimologico di «schizo» come «scissione» e concludere che tutto il postare è schizopostare, e che noi non possiamo non dirci schizo. Nella seconda metà degli anni Zero, Facebook ha introdotto per la prima volta su Internet l’abitudine a usare i propri nome e cognome, arrivando a farne persino un obbligo. La confusione tra l’identità anagrafica di una persona e la sua identità di connessione (o di contenuto) era già elevata. Ora, su TikTok e Instagram, gli utenti non sempre usano il proprio nome ma tendono a mostrarsi con il proprio volto, favorendo ancora di piú l’identificazione – dal punto di vista del pubblico e anche dal proprio – tra ciò che dicono o fanno in un video e le persone che sono. Ai social sono bastati meno di vent’anni per imporsi come i luoghi di dibattito piú partecipati al mondo; hanno riscritto le regole della comunicazione, dell’informazione e dell’espressione. È importante comprendere le dinamiche tecnologiche e umane di questi spazi, per cercare prospettive nuove che permettano di osservarli al di là degli stereotipi. Dalle loro profondità, delle cartoline straordinarie sono giunte in aiuto di questo testo: i meme analizzati nei capitoli scorsi non sono solo testimonianze oggettive della dissociazione identitaria, come qualunque contenuto, ma anche tentativi di fare i conti col disagio che ne deriva e, forse, di farne provare un assaggio a chi li guarda. Tanto piú preziosi se consideriamo che di sofferenze psichiche ed esistenziali si parla in continuazione, sui social; quasi sempre, però, sbattendole in faccia a chi legge, descrivendone i sintomi o spiegandone le cause – magari in tono ironico – anziché avvicinarle per vie oblique. Negli immaginari che scelgono, nei personaggi che rievocano e nelle strategie retoriche che adottano, i meme piú interessanti in questa rassegna sembrano occultare le proprie verità. Sostenere di averle trovate una volta per tutte sarebbe un azzardo; piú probabilmente conviene trattarli come opere aperte in cui continuare a cercare, perché i meme, come le altre forme d’arte, possono essere strumenti di conoscenza di sé e del mondo.

1. Il 25 agosto 2023 è entrato in vigore nell’Unione Europea il Digital Services Act (DSA ): le piattaforme con oltre 45 milioni di utenti in UE devono offrire l’opzione per vedere i contenuti in ordine cronologico anziché algoritmico. Questo non risolverà il collasso dei contesti: feed cronologici erano già disponibili su Facebook, Instagram e Twitter, anche se non per tutti i formati di contenuto; TikTok invece ha annunciato che coglierà l’occasione per introdurre un terzo feed, oltre a Per Te e Seguiti, che mostrerà i contenuti di maggior successo in una data area geografica o in tutto il mondo prescindendo dagli interessi del singolo utente.

Gli altri Quanti Pop

«Le cose che si comprano al supermercato scadono. L’amore uguale. Sui surgelati c’è scritta la data di scadenza. Nell’amore la scadenza arriva all’improvviso». Era il 2000 – il finto incubo del millennium bug ce l’eravamo scampato – quando approdava in libreria per Einaudi Stile Libero il romanzo di Aldo Nove intitolato Amore mio infinito. E con un’intuizione lirica che teneva insieme i sentimenti e i surgelati, lo scrittore di Viggiú bucava lo schermo del pop a cui aveva attinto fino a quel momento per raccontare in maniera inedita che cosa avesse significato, per una generazione, crescere insieme alle merci. Tutto è merce per la cultura popolare, o meglio: tutto è mercificabile, perché proprio come accade nei supermercati – dove ci aggiriamo tra i corridoi riempiendo un carrello – anche in ambito culturale siamo stati allenati a essere degli instancabili consumatori. Se i prodotti fino a un certo punto della nostra storia recente avevano una consistenza fisica, soprattutto quelli che riproducevano un’opera dell’ingegno umano su supporti destinati a diventare obsoleti (musicassette, cd, vhs, dvd, floppy disk), ora la maggior parte di essi sono immateriali. La musica, la letteratura, i programmi televisivi, i videogiochi, le serie tv sono il nutrimento dell’immaginario (la cosa piú squisitamente immateriale che esista), sono ciò che permette all’esistenza di allargarsi a dismisura. Ecco perché il nuovo numero dei Quanti è dedicato al pop, perché la curiosità resta sempre la nostra compagna di viaggio preferita. Perché l’impulso a sconfinare in territori che non conosciamo è diventato un tutt’uno con la necessità di decifrare il mondo che ci circonda. A una cosa non sappiamo rinunciare: riempire il nostro carrello, divenuto nel frattempo virtuale – un’icona in un angolo del nostro store online di fiducia –, con quello che piú desideriamo. Andiamo allora direttamente Al centro dei desideri, come titola Priscilla De Pace. Che non a caso parte proprio dal vissuto personale (il pop piú di ogni altra manifestazione culturale ha a che fare con il corpo e con la vita): attraverso una divertita e malinconica flânerie nei centri commerciali del suo quartiere che, ognuno legato a un’epoca e un’estetica precisa, sono stati l’orizzonte della sua adolescenza, De Pace riflette su come è cambiato il consumo da quando si è spostato sul web e la merce principale è diventata l’identità stessa: «online, non siamo piú semplici cittadini o potenziali

acquirenti, ma diventiamo follower, brand ambassador, sostenitori. Nel migliore dei casi, possiamo ambire a trasformarci in creator o influencer, sperando di accedere a un rapporto privilegiato con il prodotto. Nel digitale, quindi, non esistiamo piú come tradizionali consumatori, ma come identità frammentate che si ricompongono in relazione al proprio coinvolgimento con i brand». Da qui anche tante estetiche e sottoculture – avanguardie del pop di questo nostro contemporaneo molecolare – che proiettano sui vecchi centri commerciali quasi un’aura nostalgica, di quando l’identità era meno frammentata e fluida. Il nodo pop-identità è strettissimo. Prendiamo ad esempio gli oggetti culturali che piú di tutti e tutto oggi incarnano il pop: i meme (sono ovunque eppure quasi invisibili, sono globali, interlinguistici, dalla circolazione rapidissima, senza autore, prodotti dal basso). Daniele Zinni con i suoi Meme del sottosuolo ci accompagna a fare una scoperta allucinante (o allucinata? «La vita sui social media, in effetti, ha diversi tratti in comune con le allucinazioni»): ciò di cui parlano e a cui parlano molti meme è proprio la frattura del vivere online, la condizione in cui diverse, forse troppe, spesso inconciliabili identità ci attraversano nel momento in cui diventiamo soggetti in rete. Il Quanto di Giulia Paganelli, invece, prende le mosse da Britney Spears, l’eterna «reginetta del pop». Dall’audizione per il Mickey Mouse Club quando non ha ancora compiuto dieci anni fino all’episodio-shock all’apice del successo, il giorno in cui la cantante decide di tagliarsi la simbolica chioma. Paganelli, senza risparmiare neppure se stessa, racconta la vita tormentata di Spears facendola cortocircuitare con quella tragica delle donne accusate di stregoneria. Perché è proprio quando si osservano i corpi delle streghe (quelle dell’inquisizione, cosí come quelle contemporanee filtrate dai media) che l’occhio dell’opinione pubblica si colma di un pregiudizio inestirpabile, un pregiudizio che si sostituisce al dato di realtà. Tutt’altro tipo di scenario musicale è al centro del personal essay di Wissal Houbabi, dove la musica rap accompagna il racconto per istantanee di una formazione complessa, sospesa in bilico tra i fili della razza, del genere e della classe. Il rap come partner di una grande e travagliata storia d’amore, che prima ti capisce come nessun altro, e poi, quando si mercifica, quando perde la sua strada, sembra tradirti, eppure non smette mai di farti battere il cuore; perché è sempre stato e sempre resterà la voce barbara e incendiaria di chi non ha voce. Olga Campofreda, infine, compie una ricognizione intorno alle stanze piú intime e personali delle nostre case: le camere da letto. Piú che personali, però, forse sarebbe meglio dire personalizzabili, perché i proprietari di queste specifiche stanze sono gli adolescenti. A partire dall’invenzione dell’espressione «teenager», Campofreda riflette sulle camerette dei giovani statunitensi. I poster, gli addobbi, le foto e le suppellettili sono tutti indizi dell’identità (tumultuosamente in divenire) di chi occupa quella cameretta, qualunque sia l’epoca in cui si ritrova a vivere. Fino ad arrivare alle camere virtuali stipabili fino all’inverosimile, ovvero le bacheche dei social.

«Pop» è una parola palindroma che ne mima una onomatopeica: ricorda qualcosa che viene stappato, un dito contro l’interno della guancia che con un movimento verso l’esterno genera un suono rotondo. Un suono che riflette tutto quello che il pop, nelle sue infinite declinazioni e nelle sue evoluzioni, racchiude da sempre: l’annosa contrapposizione tra alto e basso, il modo in cui il mainstream può mescolarsi alla nicchia (e viceversa), la messa in circolo di idee nuove di zecca o già sentite – il tempo nel pop non esiste. Idee che, con la scusa di fare intrattenimento, riscrivono il linguaggio. Ci piace pensare che questo viaggio nei Quanti possa spostare un po’ la vostra percezione di tutte queste categorie, come è accaduto a noi. E farvi apprezzare una nuova accezione del termine «consumatore». L’invito che vi rivolgiamo è quello di consumare – nel senso di rosicchiarlo un po’ alla volta – il presente. La redazione dei Quanti

«Quando le sfumature dell’identità individuale dipendono dalle scelte di consumo, ogni aspetto che ha a che fare con lo sviluppo di una personalità – dal gusto estetico alla cultura – non supera mai la dimensione simbolica della merce. Quale dose di autodeterminazione è custodita nello scarto tra una t-shirt di Zara e una di H&M? O nell’acquisto di una collezione fast fashion che riattualizza le sottoculture passate senza veicolarne i contenuti?» Priscilla De Pace, Al centro dei desideri

«“Studiando la giovinezza diventerai vecchia”, mi disse una volta un collega all’università, e tutto sommato non mi sono mai sentita di dargli torto. Per anni ho cercato di afferrare il segreto delle narrazioni incentrate su giovani eroi ed eroine a ridosso della vita adulta, ho studiato i classici del romanzo di formazione alla ricerca del punto esatto in cui tutto finisce e qualcosa di nuovo comincia». Giulia Paganelli, Maleficae

«La mia libertà è stata compromessa da troppi fattori, ma l’essere femmina è stato il motivo ultimo per cui tutto ciò che riponevo nel rap non mi era concesso. Dicono che il rap nasca dal basso: se vuoi puoi farcela, è l’arte della strada, è la Cnn dei poveri. Ho analizzato tutti i motivi che alimentavano la mia passione, ho trovato nell’hip hop un rifugio, una lente che mi dava chiarezza, ma non è bastato camuffarmi per un po’ sotto le spoglie di un maschiaccio. Il gioco è bello finché dura». Wissal Houbabi, Attitudine

«Avevo provato quella sensazione altre volte, tutte quelle in cui il mio corpo in qualche modo era stato vittima di rimprovero, di richiamo, di bullismo, di violenza. Quando la conformità arriva con la sua violenza, non c’è spazio per le parole». Olga Campofreda, Camerette

Il libro

O

VUNQUE E IN NESSUN LUOGO, INDEFINIBILI EPPURE PERVASIVI, I MEME SONO IL

fenomeno culturale e politico piú interessante e influente degli ultimi anni. E anche se tutti ne abbiamo visto, condiviso, forse addirittura creato uno,

difficilmente possiamo dire di avere piena consapevolezza della dimensione del fenomeno o delle infinite pieghe (layer!) in cui si articola la loro ironia, tra desiderio di rivolta e «cattivo infinito» consolante e ineffettuale. Anche perché, come risulta chiaro leggendo Daniele Zinni, uno dei piú celebrati e elusivi memer italiani, è dell’identità e delle sue fratture che i meme ci parlano.

L’autore

DANIELE ZINNI

fa meme per passione, come @inchiestagram, e per lavoro, su

canali aziendali. Di meme e social media scrive per «Il Tascabile» e parla in occasioni pubbliche. Nel 2023, ha curato la mostra Nel gioco dei meme per il festival Educa Immagine di Rovereto (TN) e partecipa a Il Teatropostaggio da un milione di dollari di Malte e Collettivo ØNAR, progetto tra i vincitori del bando Residenze Digitali.

Quanti Einaudi, nuova serie, 31 © 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Progetto grafico: dieci04 Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it www.biancamano2.it/quanti [email protected] Ebook ISBN 9788858443668

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