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Italian Pages 247 [225] Year 2018
David Benatar (1966) è direttore del Dipartimento di Filosofia presso l’Università di Città del Capo. Ha svolto attività di ricerca presso la UW-Madison (1993-1995) e il College of Charleston, South Carolina (1995-1997). I suoi corsi accademici e i suoi interessi di ricerca riguardano prevalentemente la filosofia morale e le aree correlate. Nel 1999 è stato insignito del Distinguished Teacher Award dall’Università di Città del Capo, dove dirige anche il Bioethics Centre. Tra i più celebri esponenti del nichilismo contemporaneo, è autore di numerosi saggi tradotti in sette lingue. È noto principalmente per le sue controverse tesi legate all’antinatalismo.
In questo saggio provocatorio ed estremamente attuale per le forti implicazioni nell’ambito della bioetica, David Benatar oppone all’ottimismo ormai radicato delle teorie evoluzionistiche la cinica consapevolezza che la vita è assai più tragica di quanto vorremmo ammettere. “Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima…” Allora, si chiede Benatar, perché ostinarsi a generare altre vittime innocenti? Attingendo alla letteratura psicologica pertinente, l’autore mostra che ci sono un certo numero di caratteristiche ben documentate della psicologia umana che spiegano perché le persone sovrastimano sistematicamente la qualità della loro vita e perché sono così resistenti all’idea di venire seriamente danneggiate dall’essere state messe al mondo. L’antinatalismo implica anche che sarebbe meglio se l’umanità si estinguesse. Sebbene controintuitiva per molti, questa
implicazione viene difesa, non ultimo, mostrando che risolve molti enigmi della teoria morale sulla popolazione.
ZOLLE 5
David Benatar
MEGLIO NON ESSERE MAI NATI Il dolore di venire al mondo Traduzione di Alberto Cristofori
Titolo originale Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence Copyright © David Benatar 2006 Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence was originally published in English in 2006. This translation is published by arrangement with Oxford University Press. Carbonio Editore is solely responsible for this translation from the original work and Oxford University Press shall have no liability for any errors, omissions or inaccuracies or ambiguities in such translation or for any losses caused by reliance thereon. © 2018 Carbonio Editore srl, Milano
Tutti i diritti riservati Traduzione dall’inglese di Alberto Cristofori ISBN: 9788899970758 www.carbonioeditore.it Progetto grafico e impaginazione: Marco Pennisi & C. srl
Indice PREFAZIONE 1. INTRODUZIONE C
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2. PERCHÉ VENIRE AL MONDO È SEMPRE UN MALE V ? Vite degne e vite indegne di essere vissute Vite degne di cominciare e vite degne di continuare P L’asimmetria di piacere e dolore Confronto fra l’esistere e il non esistere Altre asimmetrie Contro chi non rimpiange di essere venuto al mondo
3. QUANTO È DOLOROSO VENIRE AL MONDO? P P T Teorie edonistiche Teorie del soddisfacimento dei desideri Teorie dell’elenco obiettivo Osservazioni conclusive sui tre punti di vista U
4. FARE FIGLI: LA TESI ANTI-NATALISTA P Procreare non è un dovere C’è un dovere di non procreare? L Comprendere il presunto diritto Diritto basato sull’autonomia Diritto basato sulla futilità Diritto basato sul disaccordo Diritto basato sul disaccordo ragionevole D Distinzione fra l’obiezione della non-identità e quella dei diritti dei disabili L’argomento della “costruzione sociale della disabilità”
L’argomento “espressivista” Risposte agli argomenti dei diritti dei disabili Vita sbagliata R Etica riproduttiva ed etica sessuale La tragedia della nascita e la morale della ginecologia T
5. L’ABORTO: LA POSIZIONE “PRO-MORTE” Q Q
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6. POPOLAZIONE ED ESTINZIONE S R I problemi demografici del professor Parfit Perché l’anti-natalismo è compatibile con la Teoria X Contrattualismo E Quando la diminuzione della popolazione peggiora la qualità della vita Ridurre la popolazione a zero E Due modalità di estinzione Tre preoccupazioni riguardo all’estinzione
7. CONCLUSIONE C
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BIBLIOGRAFIA NOTE
Ai miei genitori, anche se mi hanno messo al mondo;
e ai miei fratelli, la cui esistenza, benché per ciascuno di loro sia un male, è un grande bene per noi altri.
Prefazione Ognuno di noi ha subìto un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima – e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone. Benché ovviamente sia troppo tardi per prevenire la nostra esistenza, non è troppo tardi per prevenire l’esistenza di potenziali persone future. Crearne di nuove è quindi moralmente problematico. In questo libro io sostengo queste tesi e mostro perché le reazioni che suscitano di solito – incredulità, o addirittura indignazione – sono inadeguate. Data la profonda resistenza alle idee che sosterrò, non mi aspetto che questo libro o le sue tesi abbiano un impatto sulla natalità. La procreazione continuerà indisturbata, provocando una grande quantità di dolore. Ho scritto questo libro, quindi, non nell’illusione che esso faccia una (grande) differenza nel numero di persone che ci saranno in futuro, ma nella convinzione che quanto ho da dire debba essere detto, a prescindere che sia accettato o meno. Molti lettori saranno inclini a ignorare i miei argomenti e lo faranno frettolosamente. Quando si rifiuta un punto di vista impopolare, è straordinariamente facile essere troppo sicuri della forza delle proprie risposte. Questo avviene in parte perché quando si difende un’ortodossia si sente un minor bisogno di giustificare le proprie idee. E in parte anche perché le contro-obiezioni dei critici di questa ortodossia, data la loro scarsità, sono più difficili da prevedere. La tesi che sostengo in questo libro si è perfezionata in seguito alle numerose reazioni critiche a versioni precedenti. Anonimi recensori dell’American Philosophical Quarterly hanno avanzato obiezioni interessanti, costringendomi a migliorare le versioni precedenti. I due saggi che ho pubblicato su quella rivista hanno fornito le basi per il capitolo 2 di questo libro e sono grato per aver potuto usare questi materiali. Quei saggi sono stati notevolmente riscritti e sviluppati, in parte per i commenti ricevuti negli anni intercorsi da allora e soprattutto durante la stesura di questo libro. Sono grato
all’Università di Città del Capo per il semestre sabbatico nel 2004, durante il quale sono stati scritti quattro capitoli del libro. Ho presentato materiale tratto da vari capitoli in numerosi forum, tra cui al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Città del Capo, alla Rhodes University di Grahamstown, Sud Africa, al Settimo congresso mondiale di bioetica a Sydney, Australia, e negli Stati Uniti al Jean Beer Blumenfeld Center for Ethics della Università statale della Georgia, al Centro per la bioetica dell’Università del Minnesota e al Dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Alabama a Birmingham. Sono grato per le vivaci discussioni nate in quelle occasioni. Per i loro utili commenti e suggerimenti, devo ringraziare fra gli altri Andy Altman, Dan Brock, Bengt Brülde, Nick Fotion, Stephen Nathanson, Marty Perlmutter, Robert Segall, David Weberman, Bernhard Weiss e Kit Wellman. Sono molto grato ai due redattori della Oxford University Press, David Wasserman e David Boonin, che hanno fatto molte osservazioni e mi hanno aiutato ad anticipare le possibili obiezioni da parte dei critici una volta pubblicata l’opera. Ho cercato di sollevarle e di rispondervi durante la revisione del testo. Sono sicuro che il libro sia molto migliorato, grazie a queste obiezioni, anche se le mie risposte non li hanno persuasi. Sono perfettamente consapevole, tuttavia, che c’è sempre spazio per migliorare: magari sapessi ora, e non più avanti (o mai), quali migliorie si possano apportare. Infine, voglio ringraziare i miei genitori e i miei fratelli per tutto quello che fanno e che sono. Questo libro è dedicato a loro. Città del Capo 8 dicembre 2005
1. Introduzione La vita è così terribile che sarebbe meglio non essere nati. Chi è così fortunato? Neanche uno su centomila! Detto ebraico
L’idea centrale di questo libro è che venire al mondo sia sempre un grave male. Questa idea verrà ampiamente argomentata, ma l’intuizione di fondo è assai semplice: anche se le cose buone nella vita di una persona la rendono migliore di quanto sarebbe stata altrimenti, quella persona non avrebbe sentito la loro mancanza se non fosse venuta al mondo. Chi non viene al mondo non può sentire mancanze. Tuttavia, venendo al mondo, una persona soffre gravissimi mali che non l’avrebbero colpita se non fosse mai venuta al mondo. Dire che l’intuizione di fondo è assai semplice non equivale a dire che essa o le conseguenze che possiamo ricavarne siano facilmente accettate. A suo tempo prenderò in considerazione tutte le obiezioni che mi verranno mosse e provvederò a confutarle. La conseguenza di tutto questo è che venire al mondo non costituisce affatto un bene, ma sempre e comunque un male. La maggior parte delle persone, influenzate da potenti meccanismi biologici a favore dell’ottimismo, trovano intollerabile questa conclusione. Sono ancor più indignati dall’ulteriore conseguenza – che non dovremmo creare nuove vite. Creare nuove vite, facendo figli, è una parte talmente importante dell’esistenza umana che raramente si pensa di doverla giustificare. Anzi, la maggior parte delle persone non pensa neanche se dovrebbe o non dovrebbe fare un figlio. Lo fa e basta. In altri termini, la procreazione di solito è la conseguenza del sesso più che il risultato della decisione di mettere al mondo qualcuno. Coloro che decidono effettivamente di avere un figlio possono farlo per molte ragioni, ma fra queste non può esserci l’interesse del potenziale bambino. Non si può mai fare un figlio per amore del figlio. Questo dovrebbe essere evidente a tutti, anche a coloro che rifiutano la tesi più radicale che io sostengo in questo libro – che non solo non si fa il bene delle persone mettendole al mondo, ma si fa sempre loro del
male. La mia tesi non riguarda solo gli esseri umani, ma tutte le creature senzienti. Queste creature non si limitano a esistere. Esse esistono in maniera che c’è qualcosa che sente di esistere. In altri termini, non sono solo oggetti, ma anche soggetti. Benché l’essere senzienti sia uno sviluppo evolutivo più tardo e una condizione più complessa del non essere senzienti, è tutt’altro che chiaro che si tratti di una condizione migliore. Questo perché l’esistenza senziente ha un costo. Essendo in grado di sentire, gli esseri senzienti sono in grado anche di sentire la spiacevolezza, e lo fanno. Benché io sia convinto che venire al mondo sia un male per tutti gli esseri senzienti e quindi parli in qualche caso di tutti questi esseri, mi concentrerò sugli esseri umani. Vi sono alcune ragioni per questa scelta, oltre alla semplice convenienza. La prima è che le persone trovano la conclusione più difficile da accettare quando riguarda loro stesse. Concentrarsi sugli esseri umani, invece che su tutta la vita senziente, rafforza l’applicazione agli esseri umani. Una seconda ragione è che, con una sola eccezione, questa tesi ha un grande valore pratico se applicata agli esseri umani, perché noi possiamo metterla in pratica smettendo di fare figli. L’eccezione è il caso dell’allevamento di animali da parte degli esseri umani1 – anche questo potremmo smettere di fare. Una terza ragione per concentrarsi sugli esseri umani è che coloro che non smettono di fare figli provocano sofferenze in coloro che tendenzialmente amano di più – i loro stessi figli. Questo potrebbe rendere ai loro occhi il discorso più incisivo di quanto sarebbe altrimenti. C ? Una variante della tesi che sostengo in questo libro è oggetto di una certa ironia: La vita è così terribile che sarebbe meglio non essere nati. Chi è così fortunato? Neanche uno su centomila!2 Sigmund Freud etichetta questa battuta come “nonsense”,3 il che solleva il problema se la mia tesi sia altrettanto insensata. È una
pura sciocchezza affermare che venire al mondo è un male e quindi sarebbe meglio non essere mai nati? Molte persone lo pensano. Gran parte del capitolo 2 mostrerà che si sbagliano. Ma prima bisogna sgombrare il campo da qualche malinteso. Il dottor Freud dice che chiunque “non sia nato non è un essere mortale e quindi per lui non c’è né bene né meglio”.4 Qui Freud anticipa un aspetto del cosiddetto problema della “non-identità”, che approfondirò nel capitolo 2. Alcuni filosofi contemporanei sollevano un’obiezione simile quando negano che una persona sarebbe avvantaggiata dal non essere nata. Ciò che non esiste non può essere avvantaggiato e non può stare meglio. Io non sostengo che chi non viene al mondo stia letteralmente meglio. Sostengo invece che venire al mondo è sempre un male per coloro che vengono al mondo. In altri termini, anche se non possiamo dire di chi non è al mondo che non essere al mondo è per lui un bene, possiamo dire di chi è al mondo che l’essere al mondo è per lui un male. Non c’è niente di assurdo in questo, sostengo io. Una volta riconosciuto che venire al mondo può essere un male, possiamo dire genericamente che non venire al mondo è “meglio”. Questo non vuol dire che sia meglio per i non esistenti, né che i non esistenti ne abbiano un vantaggio. Ammetto che c’è qualcosa di strano addirittura nel parlare dei “non esistenti”, perché si tratta senza dubbio di un termine senza referente. È chiaro che non esistono persone non esistenti. È però un termine utile, a cui possiamo attribuire un certo significato. Con esso intendiamo le persone potenziali che non sono mai diventate reali. Ripensiamo alla battuta tenendo a mente tutto questo. Si può considerare che essa contenga due affermazioni: (1) che è meglio non nascere, e (2) che nessuno è tanto fortunato da non essere nato. Ora capiamo che si può dire (genericamente) che è meglio non essere nati. È un modo indiretto per dire che venire al mondo è sempre un male. E non c’è niente di insensato nell’affermare che nessuno è tanto fortunato da non essere mai nato, anche se sarebbe (una battuta) senza senso affermare che ci siano persone tanto fortunate da non essere venute al mondo.
In ogni caso, il fatto che si possa inventare una battuta sull’idea che venire al mondo sia sempre un male non dimostra che questa idea sia un’assurdità ridicola. Possiamo ridere della stupidità, ma possiamo ridere anche di cose molto serie. È in quest’ultima categoria che io colloco le battute sul male di venire al mondo.5 A meno che non si pensi che le tesi che propongo siano solo giochi o scherzi filosofici, voglio sottolineare la perfetta serietà delle mie tesi e il fatto che credo nelle mie conclusioni. Prendo sul serio questi argomenti perché in gioco c’è la presenza o l’assenza di una grande quantità di dolore. Nel capitolo 3 mostro che ogni vita contiene una grande parte di male – molto più di quanto ritengano di solito le persone. L’unico modo per garantire che una potenziale persona futura non soffra questo male è assicurarsi che non diventi mai una persona reale. Non solo questo male è facilmente evitabile, ma è anche totalmente insensato (perlomeno se consideriamo solo l’interesse della persona potenziale e non l’interesse che altri potrebbero avere nel farla venire al mondo). Come mostro nel capitolo 2, gli aspetti positivi della vita, per quanto buoni per coloro che sono al mondo, non possono giustificare gli aspetti negativi che all’esistenza si accompagnano. La loro assenza non sarebbe una privazione per chi non fosse mai venuto al mondo. È curioso: le brave persone fanno di tutto per risparmiare sofferenze ai propri figli, ma pochi di loro sembrano rendersi conto che l’unico modo sicuro per evitare ogni sofferenza ai loro bambini è non metterli al mondo.6 Ci sono molte ragioni per cui le persone non si rendono conto di questo, o per cui, rendendosene conto, non si comportano di conseguenza, ma l’interesse dei potenziali bambini non può essere fra queste, come dimostrerò. Né il dolore provocato dalla creazione di un bambino si limita di solito a quel bambino. Il bambino ben presto si sente spinto a procreare, producendo bambini che, a loro volta, sviluppano lo stesso desiderio. Ogni coppia di procreatori può quindi considerarsi il vertice di un iceberg generazionale di sofferenze.7 Essi sperimentano il male nella propria vita. Nel normale svolgersi degli eventi sperimentano solo una parte del male della vita dei loro figli
ed eventualmente nipoti (perché questi discendenti di solito sopravvivono ai loro progenitori), ma sotto alla superficie delle generazioni attuali si annidano i numeri sempre più grandi dei discendenti e delle loro disgrazie. Ipotizzando che ogni coppia abbia tre figli, i discendenti totali di una coppia originaria nel giro di dieci generazioni ammontano a 88.572 persone. Questo equivale a molta sofferenza inutile ed evitabile. Naturalmente la responsabilità di tutto questo non è della coppia originaria, perché ogni nuova generazione si trova di fronte alla scelta se continuare ad alimentare l’albero genealogico. Ciò nonostante, la coppia originaria ha una certa responsabilità per le generazioni successive. Se non si rinuncia ad avere figli, è difficile aspettarsi che lo facciano i propri discendenti. Anche se, come abbiamo visto, nessuno è così fortunato da non essere nato, tutti sono abbastanza sfortunati da essere nati – ed è una vera e propria sfortuna, come mi accingo a spiegare. Se ammettiamo, cosa molto plausibile, che l’origine genetica di una persona sia la condizione necessaria (ma non sufficiente) per essere venuta al mondo,8 quella persona non avrebbe potuto essere formata se non dai gameti particolari che hanno prodotto lo zigote da cui si è sviluppata. Questo comporta, a sua volta, che una persona non possa aver avuto genitori genetici diversi da quelli che ha. Ne consegue che le possibilità che aveva quella persona di venire al mondo erano estremamente remote. L’esistenza di qualsiasi persona dipende non solo dal fatto che i suoi genitori siano venuti al mondo e si siano incontrati,9 ma anche dal fatto che l’abbiano concepita nel momento in cui l’hanno fatto.10 In effetti bastano pochi istanti perché nel concepimento sia coinvolto uno spermatozoo anziché un altro. Riconoscere quanto era improbabile che una persona venisse al mondo, e riconoscere insieme che venire al mondo è un grande male, porta alla conclusione che il fatto di essere venuti al mondo è davvero una sfortuna. È già dura quando si patisce qualche dolore. È ancora peggio quando le possibilità di patirlo sono molto remote. C’è qualcosa di ingannevole in questa osservazione. Questo accade perché dei miliardi e miliardi di persone che potevano venire
al mondo e valutare le probabilità, tutti coloro che si trovano nella posizione di valutare le probabilità sono sfortunati, mentre non esiste nessuno che le probabilità abbiano favorito. Il cento per cento dei valutatori è sfortunato, e lo zero per cento è fortunato. In altri termini, data la procreazione c’era un’eccellente probabilità che qualcuno soffrisse, e per quanto piccole siano le probabilità che una persona venga al mondo, le probabilità che una persona venuta al mondo soffra sono il cento per cento. L’ Sosterrò che una delle conseguenze della tesi che venire al mondo sia sempre un grande male è che non dovremmo fare figli. Alcune posizioni antinataliste sono basate o sull’antipatia per i bambini11 o sugli interessi degli adulti, che godono di maggiore libertà e risorse se non devono allevare dei figli.12 Molti antinatalisti la pensano in maniera diversa. La loro posizione non si basa sull’antipatia per i bambini, ma anzi sulla preoccupazione di evitare sofferenze ai potenziali bambini e agli adulti che questi diventerebbero, anche se non avere figli è contro gli interessi di coloro che potrebbero averli. Le tesi antinataliste, quale che sia il loro fondamento, devono affrontare un potentissimo pregiudizio in favore del natalismo. Tale pregiudizio affonda le sue radici nelle origini evolutive della psicologia e della biologia degli esseri umani (e degli animali più primitivi). I natalisti hanno maggiori probabilità di trasmettere i loro geni. Fa parte del pregiudizio natalista che la maggior parte delle persone dia per scontato che trasmettere i propri geni sia una cosa buona e nello stesso tempo un segno di superiorità. Da una diversa prospettiva morale, tuttavia, la sopravvivenza, di sé o dei propri geni, potrebbe essere considerata tutt’altro che un segno di eccellenza. Il pregiudizio natalista si manifesta in molti modi. Per esempio, si dà per assodato che una persona debba (sposarsi o semplicemente convivere per) fare figli, e che, a parte i casi di infertilità, non farne sia sintomo di immaturità o di egoismo.13 Il pregiudizio di “immaturità” si basa su un paradigma di sviluppo ontogenetico o individuale – i bambini non hanno figli, ma gli adulti sì. Se quindi una persona non ha (ancora) cominciato a riprodursi, non è del tutto
adulta. Ma è tutt’altro che chiaro se questo sia un paradigma corretto. Innanzitutto, sapere quando non avere un figlio e possedere l’autocontrollo per comportarsi di conseguenza è un segno di maturità, non del suo contrario. Ci sono fin troppi adolescenti che fanno figli e non sono preparati ad allevarli. In secondo luogo, e collegato al precedente, da un punto di vista filogenetico l’impulso alla procreazione è estremamente primitivo. Se “immaturo” è sinonimo di “primitivo”, è procreare a essere segno di immaturità, la non-procreazione razionalmente motivata è uno stadio evolutivo più recente e avanzato. Benché la non-procreazione, come ho detto, sia a volte motivata da preoccupazioni egoistiche, non è necessariamente così. Laddove le persone si rifiutano di procreare per non infliggere il male di venire al mondo, le loro motivazioni sono altruistiche, non egoistiche. Inoltre qualsiasi motivazione consapevolmente altruistica per avere figli è del tutto ingannevole se intende beneficiare i bambini, e (come dimostrerò) sbagliata se intende beneficiare invece altre persone o lo Stato. In alcune comunità c’è una notevole pressione da parte dei pari e della società per fare figli, e a volte per fare quanti più figli sia possibile. Questo può accadere anche quando i genitori sono incapaci di prendersi cura adeguatamente dei molti figli che fanno.14 Né le pressioni sono sempre informali. I governi non di rado intervengono, soprattutto, ma non solo, quando il tasso di natalità scende, per incoraggiare le maternità. Questo si verifica anche laddove la popolazione è già numerosa e la preoccupazione riguarda solo il fatto che il tasso di natalità non garantisca la sostituzione. Ci si preoccupa perché ci saranno meno persone in età lavorativa e quindi meno contribuenti a sostenere una popolazione anziana sempre più numerosa.15 Per esempio, in Giappone temevano che un tasso di natalità di 1,33 figli per coppia avrebbe ridotto la popolazione da 127 milioni a 101 milioni nel 2050 e a 64 milioni nel 2100.16 Il governo giapponese prese provvedimenti. Lanciò il “Piano Più Uno”, con lo scopo di persuadere le coppie sposate a fare un altro figlio, e creò un quartier generale per
“promuovere misure contro la bassa natalità” e coordinare il Piano. Una delle proposte prevedeva un budget da 3,1 miliardi di yen per finanziare “feste pubbliche, crociere e trekking per single, uomini e donne”.17 Il governo stanziò anche fondi per le coppie che si sottoponevano a costose cure per la fertilità. Il “Piano Più Uno” prevedeva anche di stanziare risorse per garantire prestiti ai ragazzi durante gli studi. Singapore sviluppò piani per spingere le persone a fare più figli. Oltre alla propaganda, introdusse incentivi finanziari per il terzo figlio, pagò i permessi per la maternità e istituì asili statali.18 E l’Australia ha annunciato un “pacchetto famiglia” da 13,3 miliardi di dollari da distribuire in cinque anni. Secondo il Ministro del tesoro australiano, “se si possono fare figli, è bene farli”. Oltre ad avere un figlio per il marito e uno per la moglie, ha chiesto agli australiani di farne uno anche per il loro Paese.19 È noto che i regimi totalitari spesso incoraggiano le persone, o addirittura le costringono o le coartano, a fare figli per ragioni militari – dato il desiderio di nuove, abbondanti leve di soldati. Detto senza peli sulla lingua, questo è il natalismo della carne da cannone. Le democrazie, soprattutto quelle non coinvolte in lunghi conflitti, non hanno bisogno di essere così dirette, ma come abbiamo visto ciò non vuol dire che siano aliene dal natalismo. Anche quando le democrazie non fanno passi espliciti per aumentare il tasso di natalità, dobbiamo osservare che la democrazia ha un insito pregiudizio a favore del natalismo. Siccome la maggioranza prevale (per quanto all’interno di certe regole liberali), ciascun settore della popolazione è incentivato a fare figli in abbondanza affinché i suoi interessi e i suoi temi prevalgano o almeno non siano sopraffatti. Si noti, per estensione, che in una democrazia coloro che scelgono di non procreare non possono mai prevalere, alla lunga, contro coloro che si dedicano a fare figli. È inoltre curioso come la democrazia preferisca la procreazione all’immigrazione. I figli hanno uno scontato diritto alla cittadinanza, al contrario dei potenziali immigrati. Immaginiamo uno Stato formato da due gruppi etnici contrapposti. Uno aumenta le proprie dimensioni riproducendosi, l’altro grazie all’immigrazione. A seconda di chi
detiene il potere, al gruppo che aumenta grazie all’immigrazione verrà impedito di crescere o verranno mosse accuse di colonialismo.20 Ma perché la democrazia dovrebbe preferire un gruppo indigeno rispetto a un altro solo perché uno si riproduce e l’altro aumenta grazie all’immigrazione? Perché la riproduzione dovrebbe essere libera e l’immigrazione controllata, quando le conseguenze politiche sono ugualmente sensibili a entrambi i modi per accrescere la popolazione? Qualcuno potrebbe rispondere sostenendo che il diritto di procreare è più importante del diritto di immigrare. Questa sarà forse una descrizione corretta del modo in cui funziona effettivamente la legge, ma possiamo discutere se sia il modo giusto. Il diritto di mettere al mondo una persona dovrebbe davvero essere più inviolabile della libertà di far immigrare un amico o un parente? Un altro dei modi in cui opera il natalismo, anche nel campo morale (e non solo in quello politico), è che chi si riproduce aumenta il proprio valore, mettendo al mondo dei figli. I genitori con figli a carico sono considerati in qualche modo più importanti. Se c’è scarsità di qualche risorsa – per esempio di donatori di reni – e dei due potenziali riceventi uno ha dei bambini piccoli e l’altro no, il genitore, a parità di condizioni, sarà probabilmente favorito. Lasciar morire un genitore significa contrastare non solo il desiderio di quella persona di essere salvata, ma anche il desiderio dei suoi figli che il genitore sia salvato. È vero, naturalmente, che la morte di un genitore danneggia più persone, ma c’è comunque qualche argomento contro i favoritismi che avvantaggiano i genitori. Accrescere il proprio valore facendo figli è un po’ come accrescere il proprio valore prendendo degli ostaggi. Potremmo trovarlo ingiusto e decidere di non ricompensarlo. La vita dei figli forse peggiorerebbe, ma il costo per evitare questo risultato deve ricadere sulle spalle di coloro che non hanno figli? Nulla di quanto detto intende negare che vi siano società in cui sono state adottate politiche anti-nataliste. L’esempio più evidente è la Cina, dove il governo ha adottato la politica del figlio unico. Qualche osservazione merita di essere fatta, tuttavia. Innanzitutto,
tali politiche costituiscono l’eccezione. In secondo luogo, sono una reazione a una sovrappopolazione massiccia (e non semplicemente moderata). In terzo luogo, sono rese necessarie proprio come correttivo a potenti pregiudizi natalisti, e quindi non rappresentano un rifiuto di tali pregiudizi. Né io nego che vi siano alcuni critici non statali del natalismo. C’è chi, per esempio, sostiene che la vita è migliore, o almeno non peggiore,21 senza figli, e c’è chi denuncia le discriminazioni contro le persone non fertili22 o che scelgono di non avere figli.23 Per quanto importante sia questa opposizione al natalismo, essa è perlopiù ispirata dalla preoccupazione per le persone viventi. Molto di rado sentiamo critiche al natalismo basate su ciò che la nascita comporta per coloro che vengono messi al mondo. C’è un’unica eccezione: coloro che considerano il mondo un posto troppo orribile per portarvi dei bambini. Queste persone credono che nel mondo vi sia troppo male perché la procreazione sia accettabile. Questa convinzione dev’essere giusta. Solo per una cosa non sono d’accordo con quelli che la sostengono. Al contrario di (molti di) loro, io credo che la procreazione sarebbe inaccettabile anche se nel mondo ci fosse molta meno sofferenza. La mia tesi è che non ci sia alcun vantaggio nel venire al mondo, per cui nascere non vale mai la pena. So che è una tesi difficile da accettare. La sosterrò analiticamente nel capitolo 2. Per quanto sia convinto della bontà dei miei argomenti, non posso fare a meno di sperare di sbagliarmi. P Nel prosieguo di questa introduzione tratteggerò una sintesi del libro e fornirò ai lettori qualche indicazione. I capitoli 2 e 3 costituiscono il cuore del libro. Nel capitolo 2 sosterrò che venire al mondo è sempre un male. A questo scopo, mostrerò prima che venire al mondo è a volte un male – affermazione che le persone normali accettano facilmente, ma dev’essere sostenuta contro una famosa obiezione filosofica. La tesi che venire al mondo sia sempre un male può essere sintetizzata come segue: sia il bene che il male capitano solo a chi esiste. Tuttavia c’è un’asimmetria decisiva fra il bene e il male. L’assenza di
male, per esempio di dolore, è un bene anche se a godere di quel bene non c’è nessuno, mentre l’assenza di bene, per esempio di piacere, è un male solo se c’è qualcuno che viene privato di quel bene. La conseguenza di ciò è che evitare il male non venendo al mondo è un vero vantaggio rispetto al venire al mondo, mentre la perdita di certi beni provocata dal non essere al mondo non è un vero danno per chi non è mai venuto al mondo. Nel capitolo 3 sostengo che anche le vite migliori non solo sono molto peggiori di quanto si pensa, ma sono pessime. A questo scopo, sosterrò prima che la qualità della vita non è data dalla differenza tra i suoi beni e i suoi mali. Stabilire la qualità della vita è una faccenda assai più complicata. Prenderò in esame tre punti di vista sulla qualità della vita – le prospettive edonistiche, quelle basate sul soddisfacimento dei desideri e sull’elenco obiettivo – e mostrerò perché la vita è male a prescindere dal punto di vista che adottiamo. Infine, in questo capitolo, descriverò il mondo di sofferenza che abitiamo e sosterrò che questa sofferenza è una delle conseguenze della creazione di nuove vite. Gli argomenti del capitolo 3 forniranno nuove basi indipendenti perché coloro che non sono rimasti persuasi dagli argomenti del capitolo 2 accettino l’affermazione che venire al mondo è sempre un (grave) male. Nel capitolo 4 sosterrò che non solo non c’è alcun dovere di procreare, ma c’è un dovere (morale) di non procreare. Questo sembra in conflitto con il diritto, ampiamente riconosciuto, alla libertà procreativa. Prenderò in esame questo diritto e i suoi possibili fondamenti, sostenendo che lo si comprende meglio come diritto legale e non morale. Non c’è quindi alcun conflitto necessario con il dovere morale di non creare bambini. Poi passerò ad affrontare la questione della disabilità e della vita sbagliata. Prenderò in considerazione vari argomenti sui diritti dei disabili e mostrerò che il mio punto di vista, curiosamente, offre un sostegno a questi argomenti contro quelli che solitamente vi si oppongono, ma alla fine mina le prospettive sia dei sostenitori dei diritti dei disabili, sia di chi a loro si contrappone. Poi passerò alle conseguenze delle mie idee sulla riproduzione assistita e artificiale, prima di concludere prendendo in esame il problema se mettere al mondo figli significhi
trattarli come semplici mezzi. Nel capitolo 5 mostrerò come combinare le tipiche idee degli abortisti sullo status morale del feto con le mie conclusioni sul male di venire al mondo produca una visione “pro-death” dell’aborto. Più precisamente, sosterrò che se i feti ai primi stadi della gestazione non sono ancora venuti al mondo in senso moralmente rilevante, sarebbe meglio abortirli in quei primi stadi. Nel corso del capitolo distinguerò quattro tipi di interesse e mi domanderò quale sia moralmente significativo, discuterò il problema di quando inizia la coscienza e poi sosterrò il mio punto di vista abortista contro le sfide più interessanti – quelle di Richard Hare e Don Marquis. Il capitolo 6 prenderà in esame due serie di domande fra loro collegate: quelle sulla popolazione e quelle sull’estinzione. Le domande sulla popolazione riguardano quante persone dovrebbero esserci. Le domande sull’estinzione pongono il problema se ci si debba rammaricare della futura estinzione dell’umanità e se sarebbe peggio se l’estinzione dell’umanità avvenisse prima che dopo. La mia risposta alla domanda sulla popolazione è che, idealmente, non dovrebbero (più) esserci persone. Tuttavia, prenderò in considerazione gli argomenti che permetterebbero un’estinzione programmata. Rispondendo alla domanda sull’estinzione, sosterrò che, per quanto l’estinzione possa essere un male per coloro che la precedono, e in particolare per coloro che la precedono immediatamente, l’estinzione degli esseri umani in sé non è un male. Anzi, sosterrò che, a parità di condizioni, sarebbe meglio se l’estinzione si verificasse prima che poi. In aggiunta a questi argomenti di interesse generale, mostrerò anche come le mie idee risolvano molti e ben noti problemi etici sulla quantità di popolazione. Qui l’accento sarà sulla parte quarta del libro di Derek Parfit, Reasons and Persons: mostrerò che le mie idee risolvono il “problema della non-identità”, evitano la “conclusione assurda” e il “problema della pura addizione” e spiegano la “asimmetria”. Nel capitolo conclusivo, discuterò una quantità di questioni. Prenderò in considerazione la domanda se l’implausibilità delle mie conclusioni abbia un peso contro i miei argomenti e ribatterò all’insistenza degli ottimisti secondo cui io sono in errore. Dimostrerò
che i miei argomenti non sono incompatibili con il pensiero religioso, come molti potrebbero credere. Esaminerò le questioni della morte e del suicidio. Più precisamente, sosterrò che si può pensare che venire al mondo sia sempre un male senza pensare che continuare a esistere sia sempre peggio che morire. La morte quindi può essere un male per noi, a dispetto del fatto che anche venire al mondo è un male. Ne consegue che il suicidio non è una conseguenza inevitabile delle mie idee, anche se può essere una risposta possibile, almeno in alcuni casi. Infine, la conclusione mostrerà che per quanto il punto di vista anti-natalista si basi su considerazioni filantropiche, ci sono stringenti argomenti misantropici che portano alla medesima conclusione. G Non tutti i lettori potrebbero aver tempo e voglia di leggere tutto il libro. Suggerisco quindi qualche priorità. I capitoli più importanti sono il capitolo 2 (e più precisamente la sezione intitolata “Perché venire al mondo è sempre un male”) e il capitolo 3. Anche la prima sezione del capitolo conclusivo, il 7, è importante per chi pensa che le mie conclusioni debbano essere rifiutate in quanto profondamente contro-intuitive. I capitoli 4, 5 e 6 presuppongono le conclusioni dei capitoli 2 e 3, e quindi non si possono leggere con profitto senza avere presenti i capitoli precedenti. Mentre il capitolo 5 non si basa sul capitolo 4, il capitolo 6 presuppone le conclusioni del capitolo 4 (ma non del capitolo 5). L’ordine logico dei capitoli si avvicina a un altro ordine. Il capitolo 2 contiene la “cattiva notizia”, il capitolo 3 contiene una “notizia peggiore” e uno o più dei capitoli 4, 5 e 6 (a seconda dei punti di vista) contiene “notizie pessime”. La maggior parte di questo libro sarà facilmente comprensibile per un lettore attento senza una specifica preparazione filosofica. Alcune sezioni, inevitabilmente, sono un po’ più tecniche. Cogliere tutti i particolari di queste sezioni potrebbe essere più difficile, ma il nucleo dell’argomentazione dovrebbe comunque risultare chiaro. In ogni caso, vi sono alcune sezioni che un lettore meno interessato ai dettagli tecnici potrebbe saltare. Questo vale per qualche paragrafo
qua e là, ma anche per alcune sezioni più sostanziose. Nel capitolo 5, i primi sei paragrafi di “Quattro tipi di interesse” sono fondamentali per quel capitolo. I lettori non interessati a come quella tassonomia si contrappone ad altre tassonomie presenti nella letteratura della filosofia morale possono saltare il resto della sezione. Le parti più tecniche del libro si trovano nel capitolo 6, nella sezione intitolata “Risolvere i problemi etici sulla popolazione”. In questa sezione mostro come la mia prospettiva permetta di risolvere problemi che sono stati al centro di un’ampia letteratura filosofica sugli esseri umani futuri e sulle dimensioni ideali della popolazione. Chi non conosce o non è interessato a questa letteratura può saltare la sezione. Questo gli renderà un po’ difficile capire gran parte della discussione, sempre nel capitolo 6, sull’estinzione programmata. Anche una parte di questa discussione è piuttosto tecnica e può quindi essere evitata. Il lettore che lo faccia deve solo sapere che le mie idee ammettono, in determinate condizioni, un’estinzione programmata per cui sempre meno bambini vengono al mondo nel giro di poche generazioni, piuttosto che un’immediata cessazione di ogni attività riproduttiva.
2. PERCHÉ VENIRE AL MONDO È SEMPRE UN MALE Non essere mai nati è la cosa migliore ma se dobbiamo vedere la luce, la cosa migliore è tornare rapidamente da dove siamo venuti. Quando se ne va la giovinezza, con tutte le sue follie, chi non barcolla sotto i mali? Chi vi sfugge? Sofocle24 Il sonno è buono, la morte è meglio; ma naturalmente la cosa migliore sarebbe non essere mai nati del tutto. Heinrich Heine25
V ? Prima di sostenere che venire al mondo è sempre un male, bisogna mostrare che venire al mondo può essere un male. Qualcuno potrebbe chiedersi perché, dato che il buon senso suggerisce che una vita può essere talmente brutta che venire al mondo per vivere una vita del genere è senza alcun dubbio un male. Questo punto di vista, tuttavia, si trova di fronte a un’obiezione molto seria – che è stata spesso definita “problema della non-identità”26 o “paradosso degli individui futuri”.27 Comincerò quindi a esporre questo problema e a mostrare come sia possibile risolverlo. Il problema sorge nei casi in cui l’unica alternativa al mettere al mondo una persona con una vita di scarsa qualità è non metterla al mondo del tutto. In tali circostanze è impossibile mettere al mondo quella persona senza la condizione che si ritiene dolorosa. È il caso, per esempio, in cui i potenziali genitori sono portatori di un grave difetto genetico, che per una ragione o per l’altra trasmetterebbero al loro discendente. La scelta è fra mettere al mondo un figlio difettoso o non metterlo al mondo affatto.28 In altri casi la condizione difettosa non può essere attribuita alla costituzione, genetica o meno, della persona, ma piuttosto al suo ambiente. È il caso della quattordicenne che ha un figlio, ma a causa della tenera età non è in grado di garantirgli opportunità adeguate.29 Se concepisce un figlio quando è più grande e più capace di prendersene cura, non sarà lo
stesso figlio (perché sarà stato formato da differenti gameti). Quindi la sua alternativa al mettere al mondo un bambino socialmente compromesso a quattordici anni è non metterlo al mondo e basta, a prescindere dal fatto se in seguito avrà un altro figlio o meno. Mentre l’affermazione che venire al mondo è sempre un male appare contro-intuitiva a molte persone (ma non a tutte), l’affermazione che venire al mondo nei suddetti casi è un male va perfettamente d’accordo con l’intuizione popolare. Molti giuristi e filosofi tuttavia hanno pensato, per ragioni che spiegherò, che vi sia un ostacolo logico all’affermazione che le persone con menomazioni irrimediabili siano danneggiate dal fatto di essere messe al mondo disabili. Vite degne e vite indegne di essere vissute C’è una distinzione ben nota, nella letteratura su questo problema, fra menomazioni che rendono la vita indegna di essere vissuta e menomazioni che, per quanto gravi, non sono tali da rendere la vita indegna di essere vissuta. Alcuni hanno sostenuto la tesi ardita che, anche se le menomazioni rendono una vita indegna di essere vissuta, noi non possiamo affermare che le persone la cui esistenza è inseparabile da quelle menomazioni siano danneggiate dal fatto di essere messe al mondo. A sostegno di questa tesi, sono state proposte le seguenti tipologie di argomenti: 1. Perché qualcosa danneggi qualcuno, è necessario che lo faccia stare peggio.30 2. “Peggio” implica una relazione fra due condizioni. 3. Quindi, perché qualcuno stia peggio in una condizione (come l’essere al mondo), la condizione alternativa con cui si stabilisce il confronto dev’essere migliore (o meno peggiore). 4. Ma il non essere al mondo non è una condizione possibile per una persona, per cui non la si può confrontare con l’essere al mondo. 5. Venire al mondo quindi non può essere peggio che non venire al mondo. 6. Venire al mondo perciò non può essere un male.
Una risposta a questo argomento è negare la premessa, cioè che perché qualcosa danneggi qualcuno è necessario (sempre) che lo faccia stare peggio. Perché qualcosa danneggi qualcuno è sufficiente che sia male per quella persona31 a condizione che l’alternativa non sarebbe stata un male.32 Secondo questa prospettiva, venire al mondo può essere un male. Se la vita è male per la persona che viene messa al mondo, come è necessario che sia se la vita è indegna di essere vissuta, allora il fatto che quella persona venga al mondo è un male (dato che l’alternativa non sarebbe stata un male). Joel Feinberg dà una risposta diversa all’argomento secondo cui venire al mondo non può mai essere un male. Anziché negare che danneggiare qualcuno significa farlo stare peggio, contesta l’assunto che stare peggio in una condizione particolare implica necessariamente che quella persona sarebbe stata al mondo in una condizione alternativa con cui fare il confronto.33 Ciò che intendiamo quando diciamo che una persona sarebbe stata meglio se non fosse venuta al mondo è che non esistere sarebbe stato preferibile. Il professor Feinberg propone l’analogia coi giudizi sulla fine dell’esistenza. Quando una persona afferma che la sua vita è talmente dolorosa che preferirebbe essere morta, non intende dire alla lettera che se morisse esisterebbe in una condizione migliore (anche se alcuni lo credono). Probabilmente intende dire invece che preferisce non essere piuttosto che continuare a vivere nella sua condizione. Ha stabilito che la sua vita non è degna di essere vissuta – che non vale la pena di continuare a esistere. Come la vita può essere talmente dolorosa che smettere di esistere diventa preferibile, così può essere talmente dolorosa che è preferibile non essere mai venuti al mondo. Confrontare l’esistenza di una persona con la sua non esistenza non significa confrontare due possibili condizioni di quella persona. Significa piuttosto confrontare la sua esistenza con uno stato di cose alternativo, in cui quella persona non esiste. Generalmente si è pensato che i casi in cui la menomazione, per quanto grave, non è tale da rendere la vita indegna di essere vissuta
siano più difficili dei casi in cui la menomazione è talmente grave da rendere la vita indegna. Si è detto che, siccome i primi, per definizione, sono casi di vite degne di essere vissute, non si può giudicare la non esistenza come preferibile a un’esistenza con quella vita. La forza di questo argomento, tuttavia, si basa su un’ambiguità decisiva nell’espressione “una vita degna di essere vissuta” – un’ambiguità che ora proverò a chiarire. Vite degne di cominciare e vite degne di continuare L’espressione “una vita degna di essere vissuta” comprende i significati “una vita degna di continuare” – chiamiamolo il senso della vita presente – e “una vita degna di cominciare” – chiamiamolo il senso della vita futura.34 “Una vita degna di continuare”, come “una vita indegna di continuare”, sono giudizi che si possono esprimere su una persona già esistente. “Una vita degna di cominciare”, come “una vita indegna di cominciare”, sono giudizi che si possono esprimere su un essere potenziale, ma non esistente. Ora il problema è che molte persone hanno usato il senso della vita presente applicandolo a casi di vita futura,35 che sono molto diversi. Quando distinguono fra menomazioni che rendono la vita indegna di essere vissuta e menomazioni che, per quanto gravi, non lo sono tanto da rendere la vita indegna di essere vissuta, esprimono giudizi su casi della vita presente. Le vite indegne di essere vissute sono quelle che sarebbero indegne di continuare. Allo stesso modo, le vite degne di essere vissute sono quelle degne di continuare. Ma il problema è che questi concetti vengono poi applicati a casi di vita futura.36 In questo modo, siamo spinti a esprimere giudizi su casi di vita futura in base ai criteri che valgono per la vita presente. Ma ai due casi si applicano criteri molto diversi fra loro. Il giudizio secondo cui una menomazione è talmente dolorosa da rendere la vita indegna di continuare ha solitamente una soglia molto più alta del giudizio secondo cui una menomazione è abbastanza dolorosa da rendere la vita indegna di cominciare. Vale a dire che se una vita non è degna di continuare, a fortiori non è degna di cominciare. Non ne consegue tuttavia che se una vita è degna di continuare sia degna di cominciare o che, se non è degna di cominciare, non sia
degna di continuare. Per esempio, molte persone ritengono che la mancanza di un arto non renda la vita tanto dolorosa da doverla finire, ma molte delle (stesse) persone pensano che sia meglio non mettere al mondo una persona priva di un arto. Abbiamo bisogno di una giustificazione più forte per porre fine a una vita che per non darle inizio.37 Siamo ora in grado di capire perché sarebbe preferibile non cominciare una vita degna di essere vissuta. L’apparente paradosso di questa affermazione si basa sul fatto che intendiamo “una vita degna di essere vissuta” nel senso della vita futura. Chiaramente sarebbe strano affermare che è preferibile non cominciare una vita degna di cominciare. Tuttavia il senso della vita futura non è quello rilevante in questo contesto, perché stiamo considerando il contrario di una vita degna di continuare – cioè una vita indegna di continuare. Non c’è niente di paradossale nell’affermare che è preferibile non cominciare una vita che sarebbe degna di continuare. La mia tesi finora si basa sull’idea che vi sia una distinzione moralmente importante tra i casi della vita futura e quelli della vita presente. Ci sono alcune argomentazioni che minacciano di diminuire l’importanza di questa distinzione e quindi di indebolire la mia tesi. Voglio affrontarle. In primo luogo, prendo in considerazione un argomento di Derek Parfit, il quale sostiene che, se ho la fortuna di venire salvato subito dopo che la mia vita è cominciata (per quanto al prezzo di una menomazione grave, ma non catastrofica), non è implausibile affermare che cominciare la vita (con una simile menomazione) è per me un bene.38 Questo argomento cerca di minimizzare l’importanza della distinzione fra i casi della vita presente e quelli della vita futura. In base a questa prospettiva, non è irragionevole pensare che le menomazioni inflitte per salvare una vita siano moralmente paragonabili a menomazioni simili, inseparabili dal dare inizio a una vita. Un’obiezione a questo argomento è che si basa su una premessa traballante – cioè che sia un bene per una persona essere salvata subito dopo che la sua vita è cominciata, anche se ciò comporta la
presenza di un difetto grave (benché non catastrofico) per il resto della sua vita. Benché a prima vista questa premessa possa apparire solida e largamente accettata, una piccola verifica svela la sua debolezza. Il problema è che si assume implicitamente che vi sia un punto, per quanto approssimativo, in cui un essere viene al mondo in senso moralmente rilevante – cioè nel senso che ha un interesse meritevole di considerazione morale. Ma come suggerisce la vasta letteratura sull’aborto, venire al mondo in senso moralmente rilevante è piuttosto un lungo processo che un evento. Io un tempo ero un uovo fertilizzato. È possibile sostenere che il mio concepimento39 è stato il momento in cui sono venuto al mondo in senso strettamente ontologico. Ma è molto meno chiaro che questo sia stato anche il momento in cui sono venuto al mondo in senso moralmente rilevante. Anche se molte persone concorderebbero che, adesso, salvarmi la vita al costo di una gamba sarebbe per me un vantaggio, molto meno numerose sarebbero le persone disposte a pensare che salvare la vita di un concepito condannandolo a vivere senza una gamba sarebbe per lui un vantaggio. Questo è il motivo per cui molte più persone sostengono l’aborto “terapeutico”, anche a fronte di difetti non catastrofici, di quante condannino le amputazioni per salvare la vita di un adulto. Alcune persone sostengono addirittura l’infanticidio o l’eutanasia passiva per i neonati con disabilità gravi ma non catastrofiche, anche se non considererebbero tali comportamenti nell’interesse dei bambini più grandi e degli adulti con gli stessi difetti. Coloro che esistono (in senso moralmente rilevante) hanno interesse a esistere. Questo interesse, una volta pienamente sviluppato, è solitamente molto forte e quindi, laddove c’è un conflitto, supera l’interesse a non essere menomato. Tuttavia, dove un interesse a esistere non c’è (o è molto debole), provocare menomazioni (mettendo al mondo persone con difetti) non può fare appello alla difesa di quell’interesse. Lo scopo della classe di esseri il cui interesse a esistere non c’è (o è molto debole) è oggetto di discussione. (Tale classe comprende embrioni, zigoti, bambini?) Nel capitolo 5 io sostengo che almeno zigoti, embrioni e feti fino a una fase avanzata della gestazione non hanno
cominciato a esistere in senso moralmente rilevante e che venire al mondo in senso moralmente rilevante è un processo graduale. Queste riflessioni minano alla base l’idea che vi sia uno stadio come “subito dopo essere venuto al mondo” (nel senso moralmente rilevante di “venire al mondo”). Se consideriamo venire al mondo (nel senso moralmente rilevante) come il lungo processo che è, siamo propensi ad accettare sacrifici più grandi per salvare la vita di un essere man mano che il suo interesse a esistere si sviluppa. La netta contrapposizione fra iniziare una vita e salvare una vita subito dopo il suo inizio sparisce. E allo stesso modo diventa molto meno plausibile passare dal caso di una vita salvata dopo il suo inizio al caso di una vita che comincia, perché sono situazioni molto diverse fra loro. Ora, qualcuno potrebbe pensare che la prospettiva gradualista sul venire al mondo indebolisca la mia distinzione tra casi della vita futura e casi della vita presente. Ma non è così. Il fatto che la distinzione sia graduale non la rende vana. Nulla di ciò che ho detto esclude la possibilità di un terreno intermedio che colleghi i due tipi di casi. Né il significato morale della distinzione è compromesso, a meno che non si rifiuti (e io non la rifiuto) una sensibilità morale rispetto al continuum che collega i casi della vita futura ai casi della vita presente. Un’altra possibile minaccia alla distinzione fra casi della vita presente e casi della vita futura viene da una linea di ragionamento avanzata da Joel Feinberg. Egli suggerisce, come ho detto prima, che noi intendiamo l’affermazione secondo cui per una persona sarebbe un bene non essere mai venuta al mondo come l’affermazione che per quella persona sarebbe preferibile non esistere. Questa affermazione, dice correttamente, non presenta alcuna difficoltà logica. Tuttavia Feinberg continua e indica quando è preferibile non venire al mondo40 in un modo che, in quasi tutti i casi, rende impossibile dire che non esistere sia preferibile. Egli distingue fra giudizi di adulti o ragazzi capaci di intendere e di volere secondo i quali sarebbe preferibile che non fossero venuti al mondo, e giudizi simili fatti dai parenti in nome di coloro che sono talmente menomati
da non poter esprimere giudizi di persona. Nel caso delle menomazioni gravi, pensa, è insufficiente che il giudizio di preferibilità della non esistenza sia coerente con la ragione. Dev’essere imposto (o richiesto) dalla ragione. Feinberg ritiene che questa condizione sia soddisfatta da pochissime condizioni di menomazione – quelle in cui è preferibile la morte.41 Nel caso delle persone capaci di giudizio, ammette che l’affermazione secondo cui sarebbe stato preferibile per loro non esistere è solo coerente con la ragione, cioè non irrazionale. Benché sia molto più facile per un’affermazione soddisfare il requisito di essere coerente con la ragione, è proprio della psicologia umana che molto di rado le persone – anche quelle sottoposte a considerevoli difficoltà – preferiscano non essere venute al mondo. Il risultato è che dal punto di vista del professor Feinberg molte persone che vengono al mondo con disabilità gravi ma non tali da spingerle a terminare la loro vita, non si può dire che siano state danneggiate. Una persona può essere danneggiata solo se sarebbe stato preferibile che non fosse venuta al mondo, e in base ai suoi criteri questo si può dire solo in rarissimi casi. Il motivo per cui questo ragionamento è in conflitto con la mia distinzione fra casi della vita presente e casi della vita futura è che esso esige implicitamente che esprimiamo giudizi sui casi della vita futura attraverso le lenti dei casi della vita presente. O la vita è talmente dolorosa da essere indegna di continuare – il criterio di Feinberg per le decisioni dei parenti – oppure sono le persone già esistenti con quella disabilità a preferire di non essere mai venute al mondo – il suo criterio per le persone la cui disabilità non diminuisce la loro capacità di decidere (retrospettivamente!) per se stesse. Ma è proprio perché ci chiede di assumere la prospettiva delle persone già esistenti che il punto di vista di Feinberg è inadeguato. Chiedendoci se una vita è degna di cominciare, non dovremmo considerare se sarebbe degna di continuare. Né dovremmo fare appello alle preferenze delle persone già esistenti sulla propria vita per esprimere giudizi sulla vita futura. Come mostrerò nella seconda sezione del capitolo 3, i giudizi delle persone sulla qualità della
propria vita sono inattendibili. Benché rifiuti le riflessioni di Feinberg su quando sia preferibile non essere venuti al mondo, concordo che possiamo capire il concetto di danno arrecato a una persona facendola venire al mondo in base al fatto che sia preferibile che esista o che non sia mai esistita. Vale a dire: si danneggia una persona facendola venire al mondo se la sua esistenza è tale che non essere mai venuta al mondo sarebbe preferibile. Allo stesso modo, una persona non è danneggiata nel venire al mondo se la sua esistenza è tale da essere preferibile alla non esistenza. La domanda a cui dobbiamo ora rispondere è: “Quando è preferibile non essere venuti al mondo?”. Detto altrimenti: “Quando venire al mondo è un male?”. In alternativa, possiamo chiederci: “Quando venire al mondo è male mentre non venire al mondo non è male?”. La risposta, come sosterrò adesso, è: “Sempre”. P C’è un assunto che viene dato per scontato nella letteratura sulle potenziali persone future, secondo cui, a parità di condizioni, non è un errore mettere al mondo persone le cui vite a conti fatti saranno buone. Questo assunto si basa su un altro, e cioè che essere messi al mondo (con decenti prospettive di vita) è un bene (anche se non essere messi al mondo non è un male). Io sosterrò che questo assunto di base è sbagliato. Essere messi al mondo non è un bene, ma è sempre un male. Quando dico che venire al mondo è sempre un male non dico che sia necessariamente un male. Come risulterà chiaro, la mia tesi non si applica ai casi ipotetici in cui la vita contenga solo bene e niente male. Di una simile esistenza io dico che non è né un bene né un male e che tra una vita simile e il non esistere dovremmo restare indifferenti. Ma nessuna vita è così. Tutte le vite contengono un po’ di dolore. Venire al mondo con una simile vita è sempre un male. Molte persone troveranno controintuitiva un’affermazione così sconvolgente e cercheranno di sminuirla. Per questo, io mi propongo non solo di sostenere l’affermazione, ma anche di suggerire perché le persone potrebbero opporvi resistenza. Di fatto, le cose brutte capitano a tutti. Nessuna vita è priva di
difficoltà. È facile pensare ai milioni di esseri umani che vivono una vita di miseria o a coloro che trascorrono la maggior parte della propria vita con qualche disabilità. Alcuni di noi sono abbastanza fortunati da sfuggire a questi destini, ma la maggior parte di costoro soffre comunque di cattiva salute in certi momenti della vita. Spesso le sofferenze sono terribili, anche se limitate agli ultimi giorni. Alcuni sono condannati dalla natura ad anni di fragilità. Tutti affrontiamo la morte.42 Raramente prendiamo in considerazione i mali che aspettano il bambino neonato – dolore, delusione, ansia, dispiacere e morte. Per un bambino qualsiasi non possiamo prevedere che forma assumeranno questi mali o quanto saranno gravi, ma possiamo stare sicuri che almeno alcuni di loro si verificheranno.43 Nessuno di essi riguarda chi non esiste. Solo chi esiste ne soffre. Gli ottimisti noteranno subito che non ho raccontato tutta la storia. Non solo le cose brutte, ma anche le cose belle capitano soltanto a chi esiste. Piacere, gioia e soddisfazione si possono provare solo se esistiamo. Gli allegroni diranno quindi che dobbiamo soppesare i piaceri della vita contro i suoi mali. Finché i primi sono più dei secondi, la vita merita di essere vissuta. Venire al mondo con una simile vita è, da questo punto di vista, un bene. L’asimmetria di piacere e dolore Questa conclusione tuttavia non è conseguente. Vi è infatti una differenza fondamentale fra i mali (per esempio i dolori) e i beni (per esempio i piaceri), che comporta che l’esistenza non abbia alcun vantaggio sulla non esistenza, ma abbia invece degli svantaggi in rapporto ad essa.44 Consideriamo i dolori e i piaceri come esempi di male e di bene. È indiscutibile che 1) la presenza di dolore è un male e che 2) la presenza di piacere è un bene. Ma questa valutazione simmetrica non sembra adatta all’assenza di dolore e piacere, perché a me pare vero che
3) l’assenza di dolore è un bene, anche se quel bene non è goduto da nessuno, mentre 4) l’assenza di piacere non è un male, a meno che vi sia qualcuno per cui tale assenza è una privazione. Ora si potrebbe chiedere com’è possibile che l’assenza di dolore sia un bene se tale bene non è goduto da nessuno. Il dolore assente, si potrebbe dire, non può essere un bene per nessuno, se non esiste nessuno per cui possa essere un bene. Questo però significa trascurare troppo rapidamente il punto (3). L’affermazione (3) è fatta in riferimento al (potenziale) interesse di una persona che esiste o non esiste. A questo si potrebbe obiettare che siccome (3) è parte di uno scenario in cui questa persona non esiste mai, (3) non può dirci nulla su una persona esistente. Questa obiezione sarebbe sbagliata, perché (3) può dirci qualcosa sul caso controfattuale in cui una persona effettivamente esistente non sia mai esistita. Del dolore di una persona esistente, (3) dice che l’assenza di questo dolore sarebbe stata un bene anche se questo si fosse potuto raggiungere solo con l’assenza della persona che ora ne soffre. In altri termini, valutata in base all’interesse di una persona esistente, l’assenza di dolore sarebbe stata un bene anche se questa persona non fosse esistita. Consideriamo poi quanto (3) ci dice del dolore assente di una persona mai esistita – di un dolore la cui assenza è assicurata dal fatto di non rendere attuale una persona potenziale. La frase (3) dice che questa assenza è un bene se valutata in base all’interesse della persona che sarebbe altrimenti esistita. Noi possiamo ignorare chi sarebbe stata quella persona, ma possiamo comunque dire che, chiunque fosse stata, evitare il suo dolore è un bene se valutato in base al suo interesse potenziale. Se c’è un senso (ovviamente vago) in cui l’assenza di dolore è un bene per la persona che avrebbe potuto esistere ma non esiste, è questo. Chiaramente (3) non comporta l’assurda affermazione letterale che vi sia una persona in carne e ossa per cui l’assenza di dolore è un bene.45 A sostegno della asimmetria fra (3) e (4), si può mostrare la sua
notevole forza esplicativa. Essa spiega almeno altre quattro asimmetrie che sono assai plausibili. Gli scettici, quando vedono dove andiamo a parare, potrebbero mettere in dubbio la plausibilità di queste altre asimmetrie e voler sapere che supporto (oltre alla asimmetria suddetta) si può fornire loro. Se riuscissi a fornire quel supporto, gli scettici chiederebbero una difesa di queste ulteriori considerazioni a supporto. Ogni argomento deve essere giustificato solo fino a un certo punto. Non posso sperare di convincere coloro che considerano assiomatico il rifiuto delle mie conclusioni. Posso solo mostrare che coloro che accettano dei punti di vista molto plausibili sono portati alle mie stesse conclusioni. Questi punti di vista plausibili comprendono altre quattro asimmetrie, che ora affronterò. Innanzitutto, la asimmetria fra (3) e (4) è la migliore spiegazione dell’idea secondo cui, mentre è doveroso evitare di mettere al mondo persone sofferenti, non c’è alcun dovere di dare vita a persone felici. In altri termini, la ragione per cui pensiamo che sia doveroso non mettere al mondo persone sofferenti è che la presenza di questa sofferenza sarebbe un male (per i sofferenti) e l’assenza di sofferenza un bene (anche se non c’è nessuno a goderne). Viceversa, noi pensiamo che non vi sia alcun dovere di mettere al mondo persone felici perché, mentre il loro piacere sarebbe un bene per loro, la sua assenza non sarebbe per loro un male (dato che nessuno ne sarebbe privato). Si potrebbe obiettare che c’è una spiegazione alternativa riguardo ai nostri doveri procreativi – senza fare riferimento alla asimmetria fra (3) e (4). Si potrebbe suggerire che la ragione per cui è nostro dovere evitare di mettere al mondo persone sofferenti, ma non è nostro dovere mettere al mondo persone felici, è che noi abbiamo doveri negativi di non procurare il male, ma non abbiamo corrispondenti doveri positivi di diffondere la felicità. I giudizi sui nostri doveri procreativi sono quindi analoghi ai giudizi su tutti gli altri nostri doveri. Ora io concordo che, per chi nega che abbiamo doveri positivi, questa sarebbe in effetti una spiegazione alternativa a quella da me fornita. Tuttavia, anche fra chi non pensa che abbiamo doveri positivi, solo pochi pensano che fra questi doveri vi sia quello di
mettere al mondo persone felici. Si potrebbe ora suggerire che c’è anche una spiegazione alternativa del perché chi accetta i doveri positivi di solito non pensa che essi includano il dovere di mettere al mondo persone felici. Di solito si pensa che i nostri doveri positivi non possano comprendere il dovere di creare una gran quantità di piacere, se ciò comporta un significativo sacrificio da parte nostra. Dato che avere dei figli comporta un significativo sacrificio (almeno per la donna incinta), questa, e non la asimmetria, è la migliore spiegazione del perché non sia un dovere mettere al mondo persone felici. Il problema di questa spiegazione alternativa, però, è il sottinteso che, in assenza di questo sacrificio,46 noi avremmo il dovere di mettere al mondo persone felici. In altri termini, sarebbe sbagliato non creare tali persone se potessimo farlo senza grandi costi per noi. Ma questo presuppone che il dovere di cui parliamo sia un dovere “tutto considerato”. Ma gli interessi di persone potenziali non possono costituire il fondamento di un dovere neanche condizionato di metterle al mondo. Detto diversamente, la asimmetria dei doveri procreativi (tutto considerato) si basa su un’altra asimmetria – una asimmetria di ragioni morali procreative. Secondo questa asimmetria, anche se abbiamo una forte ragione morale, fondata sugli interessi di persone potenziali,47 per evitare di dar vita a persone infelici, non abbiamo una forte ragione morale (fondata sugli interessi di persone potenziali) per creare persone felici.48 Ne consegue che, per quanto la gravità del sacrificio possa essere significativa riguardo ad altri doveri positivi, questo è puramente teorico nel caso di un presunto dovere a far nascere persone felici. C’è un secondo sostegno alla mia affermazione riguardante la asimmetria fra (3) e (4). Mentre è strano (se non incoerente) avanzare come ragione per fare un bambino il fatto che il bambino ne avrà un beneficio,49 non è strano citare gli interessi di un potenziale bambino come base per evitare di farlo nascere. Se si facessero i figli allo scopo di far avere loro un beneficio, ci sarebbe una maggiore ragione morale perché molte persone avessero più figli. Viceversa, la nostra preoccupazione per il benessere dei
bambini potenziali è una solida base per decidere di non fare un figlio. Se l’assenza di piaceri fosse un male a prescindere dal fatto che sia un male per qualcuno, fare dei bambini per il loro bene non sarebbe strano. E se non fosse che l’assenza di dolore è un bene anche se nessuno godesse di tale bene, allora non potremmo dire che sarebbe bene evitare di mettere al mondo bambini sofferenti. In terzo luogo, sostegno alla asimmetria fra (3) e (4) può essere tratto da una asimmetria collegata, stavolta nei nostri giudizi retrospettivi. Il mettere al mondo delle persone, così come il non mettere al mondo delle persone, può essere oggetto di rammarico per amore della persona la cui esistenza dipendeva dalla nostra decisione. Questo non perché coloro che non vengono messi al mondo siano indeterminati. Anzi, è perché non sono mai esistiti. Noi possiamo rammaricarci, per amore di una persona indeterminata, ma esistente, che un bene le sia stato sottratto, ma non possiamo rammaricarci, per amore di chi non è mai esistito e quindi non può esserne deprivato, per un bene che questa persona mai esistita non sperimenterà mai. Si può soffrire per non aver avuto bambini, ma non perché i bambini che si sarebbero potuti avere siano stati privati dell’esistenza. Il rimorso di non avere bambini è rimorso per noi stessi – dolore per aver mancato le esperienze della gravidanza e del loro allevamento. Tuttavia, ci rammarichiamo per aver messo al mondo un bambino con una vita infelice, e ce ne rammarichiamo per amore del bambino, e anche per noi stessi. La ragione per cui non ci rammarichiamo di non aver messo al mondo qualcuno è che i piaceri assenti non sono un male. Infine, sostegno alla asimmetria fra (3) e (4) si può trovare nei giudizi asimmetrici fra (a) sofferenza (lontana) e (b) parti disabitate della terra o dell’universo. Mentre, almeno quando ci pensiamo, noi siamo giustamente tristi per gli abitanti di un paese straniero la cui vita è caratterizzata dalla sofferenza, quando sentiamo che un’isola è spopolata, non ci rattristiamo nello stesso modo per le persone felici che, se fossero esistite, avrebbero popolato quell’isola. Così nessuno si sente in lutto per quelli che non esistono su Marte, rattristandosi perché questi esseri potenziali non possono godere
della vita.50 Invece se sapessimo che su Marte c’è vita senziente e che i marziani stanno soffrendo, ce ne rammaricheremmo per loro. Non necessariamente (anche se potremmo) arriveremmo a rammaricarci della loro esistenza. Il fatto che ci rammaricheremmo delle sofferenze che patiscono nella loro vita è sufficiente a sostenere la asimmetria che io sostengo. Il punto è che noi ci rammarichiamo delle sofferenze, ma non dei piaceri assenti di coloro che avrebbero potuto esistere. Ora si potrebbe obiettare che, come non ci rammarichiamo per i piaceri assenti di coloro che avrebbero potuto esistere, non gioiamo per il dolore assente di coloro che avrebbero potuto esistere. Se lo facessimo, infatti, è l’obiezione, dovremmo essere felicissimi della quantità di dolore evitato dato il piccolo numero di persone potenziali che diventano reali e quindi la quantità di dolore evitato. Ma la gioia non è il contrario del rammarico. Ci rammarichiamo per le sofferenze di persone lontane, almeno quando ci pensiamo, ma di solito non siamo oppressi dalla malinconia per questo.51 La domanda importante quindi non è se proviamo gioia – il contrario della malinconia – per il dolore assente, ma se l’assenza di dolore è il contrario di qualcosa di cui rammaricarsi – qualcosa che potremmo definire “apprezzabile” o semplicemente “buono”. La risposta, come suggerivo, è affermativa. Se ci chiedessero: l’assenza di sofferenza è un aspetto positivo del non essere mai venuti al mondo? Dovremmo rispondere di sì. Ho mostrato che la asimmetria fra (3) e (4) spiega altre quattro asimmetrie. Dato che queste asimmetrie sono ampiamente riconosciute, abbiamo buoni fondamenti per pensare che la asimmetria fra (3) e (4) sia anch’essa largamente accettata. Che sia così non è prova della sua verità, perché la maggioranza può essere in errore, e spesso lo è. Tuttavia mostra che il punto da cui parto dovrebbe avere ampio sostegno. I giudizi conseguenti alla asimmetria fra (3) e (4) non sono universalmente condivisi. Per esempio, gli utilitaristi positivi – che sono interessati non solo a minimizzare il dolore, ma anche a massimizzare il piacere – tendono a lamentare l’assenza di possibile
piacere in più anche se non ci fosse nessuno privato di quel piacere. Secondo loro, c’è il dovere di mettere al mondo delle persone se questo fa aumentare la felicità. Questo non vuol dire che tutti gli utilitaristi positivi debbano rifiutare l’idea della asimmetria fra (3) e (4). Gli utilitaristi positivi che accettano la asimmetria potrebbero tracciare una distinzione fra (i) promuovere la felicità delle persone (che esistono o esisteranno indipendentemente dalle nostre scelte) e (ii) aumentare la felicità mettendo al mondo delle persone. È l’ormai famosa distinzione tra (i) fare felice la gente e (ii) fare gente felice. Gli utilitaristi positivi che tracciano questa distinzione potrebbero allora, coerentemente con l’utilitarismo positivo, considerare solo (i) un’esigenza morale. Questa è la versione preferibile dell’utilitarismo positivo. Considerare anche (ii) un’esigenza morale dà erroneamente per scontato che il valore della felicità è primario e il valore delle persone è una conseguenza di ciò. Ma non è che le persone abbiano valore perché aggiungono felicità. Al contrario, la felicità in più ha valore in quanto è un bene per le persone – perché migliora la loro vita. Pensare altrimenti vuol dire ritenere le persone semplici mezzi per la produzione di felicità. O, per usare un’altra immagine famosa, trattare le persone come semplici vascelli di felicità. Ma al contrario dei vascelli, che sono indifferenti alla quantità di una certa sostanza che contengono, le persone tengono alla quantità di felicità che hanno. Se i miei argomenti fino a questo punto sono validi, allora il punto di vista sulla asimmetria fra male e bene è persuasivo e insieme condiviso. Continuerò mostrando come, data la asimmetria fra male e bene, ne consegue che venire al mondo è sempre un male. Nel capitolo 7, quello conclusivo, prenderò in considerazione l’obiezione di coloro che, quando capiscono dove conduce questa asimmetria, preferirebbero rinunciarvi anziché accettare la conclusione che venire al mondo sia sempre un male. L’obiezione è che le conclusioni del mio ragionamento sono più controintuitive di quanto sarebbe rinunciare alla asimmetria, sicché se una delle due deve essere sacrificata, deve essere la asimmetria. Rimando all’ultimo capitolo la discussione di questa obiezione perché riguarda non solo la controintuitività della conclusione a cui sono giunto per ora, ma
anche altre conclusioni controintuitive che sosterrò nei prossimi capitoli. (Chi è impaziente di vedere come rispondo a questa obiezione può andare alla prima sezione del capitolo 7 – “Contro l’obiezione di contro-intuitività”.) Per mostrare perché, data la asimmetria da me sostenuta, venire al mondo è sempre un male, è necessario confrontare due scenari, uno (A) in cui X esiste e uno (B) in cui X non è mai esistito. Questo, con i punti di vista già detti, è rappresentato nel diagramma della figura 2.1.
Se ho ragione, allora è indiscutibile che (1) è male e (2) è bene. Ma secondo le considerazioni fatte sopra, (3) è bene anche se non c’è nessuno a godere di quel bene, ma (4) non è male perché non c’è nessuno che sia privato dei beni mancanti. In base alla mia precedente difesa della asimmetria, dobbiamo notare che modi alternativi di valutare (3) e (4), per cui viene conservata una simmetria fra dolore e piacere, devono essere sbagliati, almeno se vogliamo conservare alcuni importanti giudizi comuni. La prima opzione è mostrata nella figura 2.2.
Qui, per conservare la simmetria, l’assenza di piacere (4) è stata definita un male. Questo giudizio è troppo forte perché, se l’assenza di piacere nello scenario B è “male” anziché “non male”, dovremmo
rammaricarci, per amore di X, che X non sia venuto al mondo. Ma ciò non è deprecabile. Il secondo modo per valutare simmetricamente piacere e dolore è mostrato nella figura 2.3.
Per conservare la simmetria, in questo caso, l’assenza di dolore (3) è stata definita “non male” anziché “bene”, e l’assenza di piacere (4) è stata definita “non bene” anziché “non male”. Secondo una interpretazione, “non male” equivale a “bene” e “non bene” equivale a “male”. Ma questa non è l’interpretazione all’opera in questo schema, perché se così fosse esso non sarebbe diverso dal precedente, e avrebbe gli stessi difetti. “Non male”, nella figura 2.3, deve dunque voler dire “non male, ma neanche bene”. Questa interpretazione tuttavia è troppo debole. Evitare i mali dell’esistenza è qualcosa di più di “non male”. È bene. Anche giudicare l’assenza di piacere “non male” è troppo debole, non dice abbastanza. Naturalmente l’assenza di piacere non è ciò che chiameremmo un bene. Ma la domanda importante, quando l’assenza di piacere non comporta deprivazione per nessuno, è se sia anche “non male” o se sia “male”. La risposta, secondo me, è che sia “non bene, ma neanche non male”, piuttosto che “non bene, ma male”. Siccome “non male” è una valutazione che dice qualcosa di più di “non bene”, è quella che preferisco. Ma anche chi desidera restare fedele a “non male” non riuscirà per questo a ripristinare la simmetria. Se il dolore è male e il piacere è bene, ma l’assenza di dolore è bene e l’assenza di piacere è non bene, non c’è simmetria fra piacere e dolore. Confronto fra l’esistere e il non esistere Respinte le valutazioni alternative, torno al mio diagramma originale.
Per stabilire i relativi vantaggi e svantaggi di venire al mondo e non venire al mondo dobbiamo confrontare (1) con (3) e (2) con (4). Nel primo confronto vediamo che non esistere è preferibile a esistere. La non esistenza ha un vantaggio rispetto all’esistenza. Nel secondo confronto, tuttavia, i piaceri di chi esiste, per quanto siano un bene, non costituiscono un vantaggio rispetto al non esistere, perché l’assenza di piaceri non è un male. Perché il bene costituisca un vantaggio rispetto al non esistere bisognerebbe che la sua assenza fosse un male. A questo si potrebbe obiettare che “bene” è un vantaggio rispetto a “non male” perché una sensazione piacevole è meglio di uno stato neutro. L’errore sotteso a questa obiezione, però, è che tratta l’assenza di piacere dello scenario B come se fosse simile all’assenza di piacere dello scenario A – possibilità non rispondente al mio modello, ma implicita in (4) della mia descrizione originale della asimmetria. Come dicevo in quell’occasione, l’assenza di piacere non è un male a meno che non vi sia qualcuno per cui tale assenza costituisce una privazione. L’implicazione è che laddove un’assenza di piacere sia una deprivazione è un male. Ora, evidentemente, quando dico che è un male, non intendo dire che sia un male nello stesso modo in cui è un male la presenza di dolore.52 Ciò che intendo è che l’assenza di piacere è relativamente (piuttosto che intrinsecamente) un male. In altri termini, è peggio della presenza di piacere. Ma questo perché X esiste, nello scenario A. Sarebbe stato meglio se X avesse avuto il piacere di cui è privato. Invece che in una condizione mentale piacevole, X si trova in una condizione neutra. L’assenza di piaceri nello scenario B, invece, non costituisce la condizione neutra di una persona. Non è affatto la condizione di una persona. Benché i piaceri in A siano meglio dell’assenza di piaceri in A, i piaceri in A non sono meglio dell’assenza di piaceri in B. Questo può essere dimostrato in un altro modo. Come non sto parlando di un male intrinseco quando dico che l’assenza di piaceri che depriva è un male, così non sto parlando di un “non male” intrinseco – neutralità – quando parlo di un’assenza di piaceri che
non depriva. Come l’assenza di piaceri che depriva è “male” nel senso di “peggio”, così l’assenza di piaceri che non depriva è “non male” nel senso di “non peggio”. Non è peggio della presenza di piaceri. Ne consegue che la presenza di piaceri non è meglio, e quindi che la presenza di piaceri non costituisce un vantaggio rispetto all’assenza di piaceri che non depriva. Certe persone hanno difficoltà a comprendere che (2) non è un vantaggio rispetto a (4). Dovrebbero prendere in considerazione un’analogia che, comportando il confronto tra due persone esistenti, in questo è diversa dal confronto tra esistenza e non esistenza, ma può essere ugualmente istruttiva. A (Ammalato) è vittima di regolari accessi della sua malattia. Per sua fortuna, la sua costituzione gli permette di guarire rapidamente. S (Sano) non ha la capacità di guarire rapidamente, ma non si ammala mai. È un male per A che si ammali ed è un bene per lui che si rimetta rapidamente. È un bene che S non si ammali mai, ma non è un male che sia privo della capacità di guarire rapidamente. La capacità di guarire rapidamente, per quanto sia un bene per A, non è un vero vantaggio rispetto a S. Questo perché la mancanza di tale capacità non è un male per S. Questo, a sua volta, perché la mancanza di tale capacità non è una privazione per S. S non sta peggio che se avesse la capacità di guarire di A. A non sta meglio di S da nessun punto di vista, anche se A personalmente sta meglio di quanto starebbe se non avesse la capacità di guarire rapidamente. Si potrebbe obiettare che l’analogia è tendenziosa. È ovvio che è meglio essere S che essere A. L’obiezione è che se prendo queste come analogie rispettivamente di non esistere e di esistere, indirizzo la discussione verso la conclusione che desidero. Ma il problema di questa obiezione, se presa isolatamente, è che vale per tutte le analogie. Lo scopo di un’analogia è trovare un esempio (come A e S) dove la situazione è chiara e può far luce su un caso discusso (come scenario A e scenario B nella figura 2.1). La tendenziosità non è quindi un problema fondamentale. La vera questione è piuttosto se l’analogia è buona o meno. Un motivo per cui si potrebbe considerare non buona è che mentre il piacere (nella figura 2.1) è un bene intrinseco, la capacità di
rimettersi rapidamente è solo un bene strumentale. Si potrebbe sostenere anche che sarebbe impossibile trovare un’analogia che coinvolga due persone esistenti (come A e S) per mostrare come una delle due non sarebbe svantaggiata dalla mancanza di un bene intrinseco che l’altra possiede. Siccome gli unici casi non ambigui di una persona reale priva di un bene e non perciò svantaggiata sono casi che riguardano beni strumentali, la differenza fra beni intrinseci e strumentali si potrebbe considerare rilevante. Questo tuttavia non è convincente, perché c’è una spiegazione più profonda del perché l’assenza di beni intrinseci può essere sempre considerata un male nelle analogie che coinvolgono due persone esistenti. Poiché queste persone esistono, la mancanza di un bene intrinseco può sempre essere considerata una privazione per loro. Nelle analogie che mettono a confronto due persone esistenti l’unico modo per simulare l’assenza di privazione è considerare dei beni strumentali.53 Siccome (3) e (4) rendono evidente che la presenza o l’assenza di privazione è cruciale, sembra perfettamente corretto che l’analogia verifichi questo aspetto e ignori le differenze tra beni intrinseci e strumentali. Si noti, in ogni caso, che l’analogia non va necessariamente interpretata come prova che il riquadro (2) sia bene e il riquadro (4) sia non male. Questa asimmetria è stata stabilita nella sezione precedente. L’analogia si può invece interpretare come la dimostrazione che, data la asimmetria, (2) non costituisce un vantaggio rispetto a (4), mentre (1) è uno svantaggio rispetto a (3). E quindi lo scenario B è preferibile allo scenario A. Possiamo verificare i vantaggi e gli svantaggi relativi dell’esistenza e della non esistenza in un altro modo, sempre secondo il mio modello originario, ma confrontando (2) con (3) e (4) con (1). Ci sono vantaggi sia nell’esistere che nel non esistere. È un bene che chi esiste goda dei suoi piaceri. È un bene anche che i dolori siano evitati grazie alla non esistenza. Tuttavia, questa è solo una parte del quadro. Siccome non c’è niente di male nel non venire al mondo, ma c’è qualcosa di male nel venirci, sembra che tutto sommato la non esistenza sia preferibile.
Una delle conclusioni che emergono dalle riflessioni condotte finora è che l’analisi costi-benefici degli ottimisti – per cui si bilanciano (1) i piaceri della vita contro (2) i suoi mali – non convince come confronto tra la desiderabilità dell’esistere e del non esistere. L’analisi degli ottimisti è sbagliata per numerose ragioni. Primo, fa un confronto sbagliato. Se vogliamo stabilire se la non esistenza sia preferibile all’esistenza o viceversa, dobbiamo confrontare la parte destra e quella sinistra dello schema, che rappresentano gli scenari alternativi in cui X esiste e in cui X non esiste. Confrontare i riquadri superiore e inferiore di sinistra non ci dice se lo scenario A è migliore dello scenario B o viceversa. A meno di non rendere irrilevanti i riquadri (3) e (4). Un modo per farlo sarebbe renderli entrambi uguali a zero. In questo caso, si può considerare che A sia meglio di B se (2) è maggiore di (1) o, per dirla altrimenti, se (2) meno (1) è maggiore di zero. Ma ciò solleva un secondo problema. Assegnare ai quadranti (3) e (4) il valore zero significa non attribuire alcun valore positivo a (3) e questo è incompatibile con la asimmetria che ho sostenuto. (Significherebbe assumere la simmetria della figura 2.3.) Un altro problema che nasce dal calcolare se A o B sia meglio considerando solo (1) e (2) e sottraendo il primo dal secondo, è che ciò sembra ignorare la differenza, menzionata prima, fra “una vita degna di cominciare” e “una vita degna di continuare”. Gli ottimisti ci dicono che l’esistenza è meglio della non esistenza se (2) è maggiore di (1). Ma cosa si intende con “non esistenza” in questo caso? Si intende “non essere mai venuti al mondo” o “smettere di esistere”? Chi si limita a considerare (1) e (2) sembra che non distingua fra non essere mai nato e cessare di esistere. Per loro la vita merita di essere vissuta (cioè sia di iniziare che di continuare) se (2) è maggiore di (1), altrimenti non merita di essere vissuta (cioè né di cominciare né di continuare). Il problema, come ho già sostenuto, è che ci sono valide ragioni per distinguere. Perché una vita non sia degna di continuare dev’essere peggiore di quanto è necessario che sia per non essere degna di cominciare.54 Chi prende in considerazione non solo lo scenario A, ma anche lo scenario B,
chiaramente sta prendendo in considerazione quali vite siano degne di cominciare. Per stabilire quali vite siano degne di continuare, lo scenario A dovrebbe essere confrontato con un terzo scenario, in cui X smette di esistere.55 Infine, la qualità di una vita non è determinata semplicemente dalla differenza tra il bene e il male. Come mostrerò nella prima sezione del prossimo capitolo, stabilire la qualità di una vita è molto più complicato. Ora alcune persone potrebbero accettare la asimmetria rappresentata nella figura 2.1 e concordare sulla necessità di confrontare lo scenario A con lo scenario B, ma negare che ciò conduca alla conclusione che B sia sempre preferibile ad A – cioè negare che venire al mondo sia sempre un male. L’argomento è che dobbiamo assegnare valori positivi o negativi (o neutri) a ciascuno dei riquadri, e se li assegniamo nel modo che i sostenitori di questa tesi considerano il più ragionevole troviamo che venire al mondo a volte è preferibile (vedi figura 2.4).56
Il riquadro (1) dev’essere negativo perché è male, e i riquadri (2) e (3) devono essere positivi perché sono bene. [Do per scontato che (3) debba essere bene tanto quanto (1) è male. Cioè, se (1) = -n, allora (3) = +n]. Dato che (4) è non male (e non bene), non dovrebbe essere né positivo né negativo, ma neutro. Utilizzando i valori stabiliti nella figura 2.4, sommiamo (1) e (2) allo scopo di determinare il valore di A, poi lo confrontiamo con la somma di (3) e (4), che è il valore di B. Così facendo, troviamo che A è preferibile a B laddove (2) è più del doppio del valore di (1).57 Questo pone numerosi problemi. Per esempio, come mostrerò nella prima sezione del prossimo capitolo, non è solo il rapporto fra
piacere e dolore a determinare la qualità della vita, ma anche la pura e semplice quantità di dolore. Una volta superata una certa soglia di dolore, nessun piacere può compensarlo. Ma il modo migliore per mostrare che la figura 2.4 è sbagliata è applicare il ragionamento sottostante alla figura 2.4 all’analogia con A (Ammalato) e S (Sano) di cui si diceva sopra:
Secondo la figura 2.5, sarebbe meglio essere A che S se il valore di (2) fosse più del doppio di (1). [Questo presumibilmente si darebbe nel caso in cui la quantità di dolore che (2) risparmia ad A fosse più del doppio di quella che A patisce in effetti.] Ma questo non può essere giusto, perché di sicuro è sempre meglio essere S (una persona che non si ammala mai e quindi non ha alcuno svantaggio dal fatto di essere priva della capacità di guarire rapidamente). Il problema si riduce al fatto che (2) è bene per A ma non costituisce un vantaggio rispetto a S. Assegnando un punteggio positivo a (2) e zero a (4) la figura 2.5 suggerisce che (2) sia un vantaggio rispetto a (4), ma è chiaro che non è così. L’assegnazione dei valori nella figura 2.5, e quindi anche nella figura 2.4, dev’essere sbagliata.58 Ora si potrebbe chiedere quali siano i valori corretti, ma voglio evitare questa domanda perché è una domanda sbagliata. La figura 2.1 intende mostrare perché è sempre preferibile non venire al mondo. Mostra che venire al mondo presenta degli svantaggi rispetto al non venire al mondo, mentre gli aspetti positivi dell’esistere non sono dei vantaggi rispetto al non esistere. Lo scenario B è sempre migliore dello scenario A per lo stesso motivo per cui è preferibile essere S che A. La figura 2.1 non è fatta per aiutare a stabilire quanto sia male venire al mondo. C’è una differenza, come ho detto, fra (a) dire che venire al mondo è sempre un male e (b) dire quanto sia grande questo male. Finora
ho sostenuto solo la prima affermazione. La misura del male di vivere varia da persona a persona e nel prossimo capitolo sosterrò che è grande per tutti. Ma bisogna ribadire che si può sostenere la tesi che venire al mondo sia sempre un male e nello stesso tempo negare che questo male sia grande. Allo stesso modo, se uno pensa che il male di vivere non sia grande, non se ne può inferire che l’esistere sia preferibile al non esistere. Riconoscere questo è importante per rispondere a un’altra possibile obiezione al mio ragionamento. Una delle conseguenze del mio ragionamento è che una vita piena di bene e contenente solo una minima quantità di male – una vita di completa felicità segnata solo dal dolore di un’unica puntura di spillo – è peggio che non vivere affatto. L’obiezione è che questo sia implausibile. Comprendere la distinzione fra (a) il fatto che venire al mondo è un male e (b) quanto sia grande questo male, ci permette di vedere perché questa conseguenza non è tanto implausibile. È vero che, per la persona che si gode una vita meravigliosa segnata solo da un breve dolore, per quanto piacevole sia la sua vita, essa non presenta vantaggi rispetto al non esistere. Ma venire al mondo ha lo svantaggio di quell’unico dolore. Possiamo riconoscere che il male di venire al mondo è minuscolo, senza negare che sia un male. Lasciando da parte la questione se venire al mondo sia un male, chi negherebbe che un breve dolore sia un male, benché di scarsa importanza? E se si ammette che è un male – che si sarebbe evitato se quella vita non fosse cominciata – perché negare che una vita cominciata a quel costo sia un male, per quanto piccolo? Pensiamo ancora all’analogia fra A e S. Se A si ammala una sola volta, e ha un mal di testa che scompare subito, è comunque meglio (anche se non molto) essere S. Se tutte le vite fossero prive di sofferenza come quella della persona immaginaria che soffre solo una puntura di spillo, il male di venire al mondo sarebbe facilmente superato dai benefici arrecati agli altri (compresi i potenziali genitori) dalla persona che viene al mondo. Ma nella realtà non ci sono vite nemmeno lontanamente così felici.59 Altre asimmetrie
Ho sostenuto che piacere e dolore sono asimmetrici in un modo che rende il venire al mondo sempre un male. Dopo aver sostenuto nel prossimo capitolo che questo male è grande, discuterò nel capitolo 4 le conseguenze di tutto ciò sulla procreazione. Dovrebbe essere già chiaro, tuttavia, che l’idea che venire al mondo sia sempre un grande male solleva il problema della procreazione. Si possono sollevare molte altre obiezioni alla procreazione, ma gli argomenti di Christoph Fehige60 e Seana Shiffrin61 presentano parallelismi interessanti con il mio. Consideriamo prima l’argomento di Seana Shiffrin. L’idea di bene e male implicita nel mio ragionamento è simile a quella che lei rende esplicita nel suo. Seana Shiffrin considera male e bene in modo non comparativo. Vale a dire, li considera non due valori estremi di una graduatoria o gradini di una scala. Al contrario, li intende come condizioni assolute, rispettivamente di tipo positivo e negativo. Inoltre il suo ragionamento, come il mio, si richiama a una asimmetria fra bene e male, benché sia una asimmetria diversa. Seana Shiffrin dice che, in mancanza di prove che una persona desideri altrimenti, è accettabile, forse obbligatorio, infliggere a quella persona un piccolo male per evitargliene uno più grande. Al contrario, sarebbe sbagliato infliggere un male che comportasse un bene (puro) più grande.62 Consideriamo quindi accettabile rompere il braccio di una persona addormentata (non consenziente) per evitarle un male più grande, come la morte. (È il “caso del salvataggio”.) Ma condanneremmo chi rompesse un braccio a quella persona per procurarle un bene più grande, come una “memoria sovrumana, un’utile riserva di informazioni enciclopediche, venti punti in più nei test di intelligenza o la possibilità di consumare smodate quantità di alcol o di grassi senza effetti collaterali”.63 (Chiamiamo questo il “caso del bene puro”.) Siccome tutti coloro che esistono patiscono dei mali, la procreazione provoca sempre un male. La professoressa Shiffrin è pronta ad ammettere (per amore della discussione?) che “venire al mondo può essere un bene per una persona”.64 Ma, in base alla asimmetria suddetta, non possiamo provocare del male per
assicurare un bene. Benché le persone esistenti a volte possano autorizzarci a infliggere un male per assicurar loro un bene, non possiamo in nessun caso ottenere l’assenso di coloro che mettiamo al mondo prima di crearli. Né possiamo presumere un consenso ipotetico, dice l’autrice. Ci sono quattro ragioni per questo.65 Primo, la persona non soffre alcun male se noi non la mettiamo al mondo. Secondo, i mali della vita possono essere molto gravi. Terzo, ai mali della vita non si può sfuggire se non a un prezzo considerevole. Infine, l’ipotetico consenso non si basa sui valori dell’individuo o sul suo atteggiamento verso il rischio. Ci sono alcune differenze interessanti fra il ragionamento della professoressa Shiffrin e il mio. Il suo ragionamento, almeno a livello superficiale, non impedisce di trattare i beni della vita come vantaggi rispetto alla non esistenza (anche se, come dimostrerò, non è necessario trattarli come tali). Dal suo punto di vista, anche se i piaceri e gli altri beni goduti da chi esiste sono vantaggi rispetto alla non esistenza, non sono vantaggi che possiamo assicurare a prezzo dell’esistenza.66 Né il suo ragionamento di fondo presuppone la asimmetria che ho sostenuto io. Possiamo capirlo confrontando due scenari che coinvolgono persone esistenti e non sono caratterizzati dalla asimmetria presente nella figura 2.1. Nel primo di questi scenari un bene puro viene garantito al prezzo di un male e nell’altro questo male viene evitato al prezzo del bene puro. Seguendo lo schema dei modelli precedenti, potremmo rappresentare la situazione come nella figura 2.6.
La mia asimmetria non vale in questo caso, ma in base alla asimmetria della professoressa Shiffrin non avremmo la garanzia di
infliggere (1) per assicurare (2). Detto altrimenti, potremmo non privilegiare lo scenario A rispetto allo scenario B (assenza del consenso della persona). Anche quando applicata ai casi di procreazione, dove (come ho sostenuto) vale la mia asimmetria, la priorità concessa dalla professoressa Shiffrin a B rispetto ad A non si basa sulla mia asimmetria, ma sulla sua. Questo non significa che la mia asimmetria non abbia alcun rapporto col suo ragionamento, e tanto meno vuol dire che la mia asimmetria sia incompatibile con esso. Noi troviamo innanzitutto che almeno un aspetto della mia asimmetria rende la sua tesi contro la procreazione ancora più forte di quella contro altri beni puri ottenuti provocando del male. La professoressa Shiffrin osserva che la procreazione è un caso diverso da quelli in cui si infligge un male per salvare qualcuno, perché “se il bene legato alla nascita non è conferito, la persona non esistente non proverà la sua mancanza”. Avrebbe potuto aggiungere che, da questo punto di vista, la procreazione è diversa sia dal caso del salvataggio, sia dai casi non procreativi in cui si procura un bene puro a prezzo di un male. Si riconosce implicitamente qui che l’assenza di un bene quando la persona non viene messa al mondo non è un male (riquadro 4 della figura 2.1). È meno chiaro in che modo la professoressa Shiffrin consideri l’affermazione del riquadro (3) della figura 2.1 – che l’assenza di male quando una persona non viene messa al mondo è un bene. Tuttavia, io suggerisco che anche questa affermazione rafforzerebbe la sua tesi contro la procreazione (anche se riconosco che rafforzare questa tesi non sia il suo scopo). La procreazione sarebbe più minacciata se l’assenza di mali fosse un bene e non solo né un bene né un male. Al ragionamento della professoressa Shiffrin è stato obiettato che la sua asimmetria non è necessaria per spiegare il caso del bene puro – il caso in cui si realizza un bene a prezzo di un male. È stato suggerito67 che nel caso del bene puro descritto da Seana Shiffrin si siano violati i diritti di qualcuno (rompendogli il braccio senza permesso), e questo spiega perché il bene non può realizzarsi. Si può realizzare solo violando il diritto a non essere danneggiato.
L’assunto implicito qui è che nel caso della procreazione non siano violati i diritti di nessuno, almeno nella misura in cui la vita risultante sia “degna di essere vissuta”. Una base comune per negare che la procreazione violi i diritti della persona creata è che, prima di essere procreata, quella persona non esiste e quindi non può essere portatrice del diritto a non essere creata. Ma questa potrebbe essere una visione ingiustamente ristretta dei diritti – che ignora gli aspetti particolari della procreazione. Se, come ho sostenuto nella sezione iniziale di questo capitolo, una persona può essere danneggiata dal fatto di essere messa al mondo, si può sostenere che il diritto che protegge da questo tipo di male è un diritto speciale – un diritto che ha un detentore solo nel momento di passaggio. Detto altrimenti, potremmo affermare che si viola un diritto compiendo un’azione se, come risultato di quell’azione, esiste una persona che viene fatta soffrire ingiustamente. Riconosco che si tratta di un diritto molto particolare, ma venire al mondo è un caso insolito. Se si riuscisse a dare un senso a questo diritto, non sarebbe un’obiezione al ragionamento secondo cui viene ingiustamente danneggiata una persona, il fatto che non c’era alcun diritto a non esistere.68 Chi ammette che non c’è alcun ostacolo logico al diritto di non essere messi al mondo potrebbe ancora sostenere che il caso del puro bene non supporta la (generica) asimmetria che Seana Shiffrin intendere difendere. Questo perché in realtà ci sono due tipologie di casi di puro bene (che lei non distingue). Primo, i casi che coinvolgono esseri autonomi. I quali hanno diritto a non essere danneggiati senza il loro consenso, anche per il loro bene. Secondo, i casi che coinvolgono esseri non autonomi. Anche se, a rigor di logica, questi potrebbero avere lo stesso diritto, si può sostenere in maniera plausibile che non hanno lo stesso diritto dal punto di vista morale. Vi sono limiti al male che i genitori possono infliggere a un figlio per il bene del figlio stesso, ma senza dubbio vi sono dei casi in cui il miglior interesse del bambino (considerando benefici e sofferenze) richiede l’imposizione di un male. I difensori della procreazione potrebbero sostenere che, benché non possiamo
infliggere un male a un essere autonomo senza il suo consenso, anche se questo gli assicurerebbe un bene maggiore, a volte possiamo comportarci altrimenti nel caso dei bambini e, a fortiori, dei potenziali bambini. È in risposta a questa critica che giunge in aiuto di Seana Shiffrin la mia asimmetria o almeno, come lei implicitamente ammette, una parte di essa. Negando che il miglior interesse di qualcuno possa consistere nel metterlo al mondo, l’autrice può distinguere fra bambini e potenziali bambini e così scalzare l’obiezione paternalistica che i genitori possano infliggere i mali dell’esistenza a un potenziale bambino per amore del bambino stesso. Io ho sostenuto che rendere attuali le persone potenziali non è nel loro interesse. Il ragionamento di Christoph Fehige è forse ancor più simile al mio di quello di Seana Shiffrin. Egli sostiene e poi enuncia le conseguenze di una visione che chiama “antifrustrazionismo” (ma che a volte è indicata col termine apparentemente opposto di “frustrazionismo”). Secondo tale visione, una aspirazione soddisfatta e nessuna aspirazione sono ugualmente buone. Solo una aspirazione insoddisfatta è male. In altri termini, Fehige sostiene che, benché sia bene soddisfare tutti i desideri che si hanno, non si sta meglio dopo aver soddisfatto un desiderio che senza desideri affatto. A mo’ di esempio, consideriamo il caso in cui “dipingiamo di rosso l’albero più vicino all’Opera House di Sydney e diamo a Kate una pastiglia che le fa desiderare che l’albero più vicino all’Opera House di Sydney sia rosso”.69 Il professor Fehige nega persuasivamente che in questo modo facciamo a Kate un favore. Non sta meglio che se non avessimo fatto nulla. La cosa importante non è che le persone abbiano desideri soddisfatti, ma che non ne abbiano di insoddisfatti. È evitare la frustrazione che è importante. C’è una asimmetria nascosta qui, come mostra la figura 2.7.
L’antifrustrazionismo implica che sarebbe meglio non creare persone. Le loro aspirazioni soddisfatte non saranno meglio dell’assenza di aspirazioni se non fossero venute al mondo. Ma le loro aspirazioni insoddisfatte – che saranno molte – sono peggio dell’assenza di aspirazioni se non fossero venute al mondo. (1) è peggio di B, ma (2) non è meglio di B. Possiamo adattare la figura 2.7 per mostrare più chiaramente il rapporto con la asimmetria da me sostenuta (vedi figura 2.8).
In questo adattamento, mi sono preso la libertà di differenziare (3) da (4) anche se il professor Fehige non lo fa. Ma non sembra che questa differenza sia incompatibile col suo ragionamento. Ho anche etichettato (2), (3) e (4) come “bene”. Questo perché il professor Fehige afferma che le aspirazioni soddisfatte e l’assenza di aspirazioni sono “ugualmente buone”.70 Se questa lettura è corretta, allora la sua asimmetria è un po’ diversa dalla mia, ma porta allo stesso risultato – che lo scenario A è peggio dello scenario B. Tuttavia si potrebbe fornire una lettura alternativa. Quando Fehige dice che (2) e lo scenario B sono “ugualmente buoni”, forse non intende descrivere (3) e (4) come “bene”. Forse intende semplicemente affermare che (2) non è meglio dello scenario B. Il che è esattamente ciò che intendevo quando ho descritto (4) nella figura 2.1 come “non male”. Intendevo che non è peggio di (2). Il
problema nel definire (4) nella figura 2.8 come “non male” è che, siccome il professor Fehige sembra trattare (3) e (4) come equivalenti, anche (3) sarebbe stato etichettato come “non male”. Se “non male” in quel caso avesse significato lo stesso che in (4) – cioè “non peggio” – allora (3) sarebbe stato meglio di (1). Ma questo sembra troppo debole, come ho detto sopra. (3) è meglio di (1). L’alternativa quindi consiste nel postulare che, se il professor Fehige avesse distinto (3) e (4), li avrebbe intesi in modo diverso. “Non male” forse avrebbe voluto dire qualcosa di diverso nei riquadri (3) e (4) della figura 2.8. Nel (3) avrebbe voluto dire “meglio” che (1), mentre in (4) vuol dire “non peggio” che (2). In base a questa lettura, possiamo etichettare (3) come “bene”, perché “bene” è (abbastanza) meglio che “male”. In questo modo la asimmetria di Christoph Fehige potrebbe essere considerata uguale alla mia. Quale che sia la lettura adottata fra queste due, (3) è meglio di (1) e (4) non è peggio di (2). Lo stesso vale nella figura 2.1. In entrambi i casi, venire al mondo (scenario A) è peggio che non venire al mondo (scenario B). Contro chi non rimpiange di essere venuto al mondo Coloro che pensano (con Alfred Tennyson) che è meglio aver amato e perduto che non aver amato affatto71 potrebbero pensare di applicare un simile modo di ragionare al fatto di essere venuti al mondo. Potrebbero voler dichiarare che è meglio aver vissuto e perduto (sia soffrendo in vita che cessando di esistere) che non aver mai vissuto affatto. Non giudicherò se sia effettivamente meglio aver amato e perduto che non aver mai amato affatto. Basti dire che, anche se questa affermazione fosse vera, ciò non implica nulla sul venire al mondo. Questo perché c’è una differenza fondamentale fra l’amare e il venire al mondo. La persona che non ama esiste senza amare ed è quindi deprivata. Questo, secondo me, è “male”. (Se sia peggio che amare e perdere è un’altra questione.) Al contrario, uno che non viene al mondo non è deprivato di nulla. Questo, ho sostenuto, è “non male”. Che venire al mondo sia un male è una conclusione dura da accettare per la maggior parte delle persone. Molti sono felici di
essere nati perché si godono la vita. Ma queste valutazioni sono errate precisamente per le ragioni che ho evidenziato. Il fatto che uno si goda la vita non rende la sua esistenza migliore della non esistenza, perché se quella persona non fosse venuta al mondo non ci sarebbe stato nessuno a sentire la mancanza della gioia di condurre quella vita e quindi la mancanza di gioia non sarebbe stata un male. Si noti, al contrario, che ha senso rammaricarsi di essere venuti al mondo se non ci si gode la vita. In questo caso, se la persona non fosse venuta al mondo, nessuno avrebbe sofferto per quella vita. Questo è bene, anche se non ci sarebbe stato nessuno che avrebbe goduto di quel bene. Ora si potrebbe obiettare che non è possibile sbagliarsi nel giudicare se la propria esistenza sia preferibile alla non esistenza. Si potrebbe dire che, come non è possibile sbagliarsi riguardo al fatto se si prova dolore, non ci si può sbagliare riguardo al fatto se si è felici di essere nati. Così se “sono felice di essere nato”, proposizione che molte persone sottoscriverebbero, equivale a “è meglio che io sia venuto al mondo”, non è possibile sbagliarsi sul fatto che l’esistenza sia meglio della non esistenza. Il problema di questo ragionamento è che queste due proposizioni non sono equivalenti. Anche se non ci si può sbagliare sul fatto che al momento uno sia felice di essere nato, non ne consegue che non ci si possa sbagliare sul fatto che sia meglio essere venuti al mondo. Possiamo immaginare che una persona, in una certa fase della vita, sia felice di essere nata, e poi (o prima), magari nel pieno di un dolore estremo, si rammarichi di essere venuta al mondo. Ora non è possibile che (tutto considerato) sia meglio essere venuti al mondo e nello stesso tempo non essere mai venuti al mondo. Ma questo è esattamente ciò che dovremmo dire in un caso del genere, se fosse vero che sentirsi felici o infelici per essere venuti al mondo equivale al fatto che venire al mondo è effettivamente meglio o peggio. Questo è vero anche nei casi in cui le persone non cambiano idea sul fatto di sentirsi felici di essere venute al mondo. Il motivo per cui così poche persone cambiano idea si spiega, almeno in parte, con la visione ingiustificatamente rosea che la maggior parte delle persone ha della qualità della propria vita. Nel prossimo capitolo mostrerò
che (con l’eccezione dei veri pessimisti, che potrebbero avere una visione corretta di quanto la loro vita sia pessima), la vita delle persone è molto peggiore di quello che credono.
3. QUANTO È DOLOROSO VENIRE AL MONDO? Potete considerare la vita come un episodio inconcludente, che turba la beata calma della non esistenza. Arthur Schopenhauer72 Il fatto di essere nati è un pessimo augurio per l’immortalità. George Santayana73
Ho sostenuto che, se una vita contiene anche una minima quantità di dolore, venire al mondo è un male. Che si accetti o meno questa conclusione, si può comunque riconoscere che una vita contenente una significativa quantità di dolore sia un male. Ora mi accingo a mostrare che tutte le vite umane contengono molto più dolore di quanto si ammetta normalmente. Se le persone si rendessero conto di quanto sono dolorose le loro vite, ammetterebbero che essere venute al mondo è stato un male anche se negassero che venire al mondo sarebbe stato un male nel caso in cui le loro vite avessero contenuto una minima quantità di dolore. Questo capitolo quindi può essere considerato una base, a prescindere dalla asimmetria e dalle sue conseguenze, per deprecare la propria esistenza e per considerare tutti i casi concreti di persone venute al mondo come male. Il ragionamento di questo capitolo può essere tuttavia considerato una continuazione del ragionamento del capitolo 2. La conclusione che venire al mondo sia sempre un male non ci dice niente sulla magnitudine di quel male. In questo capitolo considero il problema di quanto sia male venire al mondo. La risposta alla domanda dipende da quanto è dolorosa la vita che ne risulta. Benché tutti siano danneggiati dall’essere messi al mondo, non tutte le vite sono ugualmente dolorose. Venire al mondo quindi sarà un male più grande per alcuni che per altri. Peggiore è una vita, maggiore il male di essere stati messi al mondo. Sosterrò comunque che anche le vite migliori sono male, per cui essere messi al mondo può sempre essere considerato un male. Per chiarire, non sosterrò che tutte le vite sono talmente dolorose da non meritare di continuare. Questa è una tesi molto più forte di quella che è necessario sostenere.
Sosterrò invece che le vite delle persone sono molto peggiori di quello che loro pensano e che tutte le vite contengono una grande quantità di male. P Molti saranno tentati di valutare la qualità della vita semplicemente sottraendo il disvalore degli aspetti negativi della vita dal valore dei suoi aspetti positivi. Vale a dire, assegneranno dei valori ai riquadri (1) e (2) della mia tabella e poi sottrarranno il secondo dal primo.74 Tuttavia, questo modo di determinare la qualità della vita è di gran lunga troppo semplicistico. Il fatto che una vita sia buona o cattiva dipende non solo da quanto bene o male contiene, ma anche da altre considerazioni – in particolare su come il bene e il male sono distribuiti. Una prima considerazione riguarda l’ordine del bene e del male. Per esempio, una vita in cui tutto il bene si è verificato nella prima metà, e un male ininterrotto ha caratterizzato la seconda metà, sarebbe molto peggiore di una vita in cui bene e male fossero stati più equamente distribuiti. Questo vale anche se le quantità totali di bene e di male fossero le stesse in ciascuna vita. Allo stesso modo, una vita di crescenti successi e soddisfazioni è preferibile a una vita che comincia luminosa nei primissimi anni e peggiora progressivamente.75 La quantità di bene e di male in queste vite alternative può essere la stessa, ma la traiettoria può rendere una vita migliore dell’altra. Un’altra considerazione relativa alla distribuzione è l’intensità del bene e del male. Una vita in cui i piaceri sono stati straordinariamente intensi, ma ugualmente pochi, rari e brevi, può essere peggiore di una vita con la stessa quantità totale di piacere, ma in cui i singoli piaceri sono stati meno intensi e più distribuiti nel corso della vita stessa. Tuttavia i piaceri e gli altri beni possono essere anche troppo distribuiti nel corso di una vita, il che li rende così deboli da essere a malapena distinguibili dagli stati neutri. Una vita così caratterizzata potrebbe essere peggiore di quella in cui ci sia stato qualche “picco” degno di nota in più.
Un terzo modo in cui la distribuzione del bene e del male nel corso di una vita può influire sulla sua qualità dipende dalla lunghezza della vita. Certo, la lunghezza della vita interagirà dinamicamente con le quantità di bene e di male. Una vita lunga con pochissimo bene sarà necessariamente caratterizzata da significative quantità di male, se non altro perché l’assenza di un bene sufficiente per periodi di tempo così lunghi provocherà tedio – cioè un male. Ciò nonostante, possiamo immaginare vite di lunghezza differente che contengano le stesse quantità di bene e di male. Una vita potrà avere più momenti neutri, distribuiti in maniera abbastanza equa da non influire sulla quantità di bene o di male. In questi casi, si potrebbe plausibilmente giudicare la vita più lunga migliore (se è di qualità sufficiente a renderla degna di continuare) o peggiore (se non lo è). C’è un’ulteriore considerazione (non relativa alla distribuzione) che può influire sul giudizio sulla qualità di una vita. Si può sostenere che, quando la vita raggiunge una certa soglia di dolore (considerando sia la quantità che la distribuzione del dolore), nessuna quantità di bene può compensarlo, perché nessuna quantità di bene potrebbe valere quel dolore.76 È questa l’affermazione che Donald (“Dax”) Cowart fece a proposito della sua vita – o almeno della parte successiva all’esplosione di gas che gli bruciò due terzi del corpo. Egli rifiutò cure molto dolorose che avrebbero potuto salvargli la vita, ma i medici ignorarono i suoi desideri e lo curarono comunque. Gli salvarono la vita, Cowart ottenne un notevole successo e riebbe una qualità della vita soddisfacente. Ma continuò a sostenere che quei beni successivi alle bruciature non valevano la pena di sopportare le cure a cui era stato sottoposto.77 Non importa quanto bene sia seguito alla sua guarigione, esso non ha potuto compensare, almeno secondo le sue parole, il male delle bruciature e delle cure di cui aveva fatto esperienza. Questo concetto si può esprimere in termini più generali. Confrontiamo due vite – quelle di X e di Y – e consideriamo, per semplicità, solo le quantità di bene e di male (e non anche la loro
distribuzione). La vita di X ha quantità (relativamente) modeste di bene e di male – forse quindici kilo-unità di valore positivo e cinque kilo-unità di valore negativo. La vita di Y, al contrario, ha insopportabili quantità di male (diciamo cinquanta kilo-unità di valore negativo). La vita di Y ha anche molto più bene (settanta kilo-unità di valore positivo) di quella di X. Ciò nonostante, la vita di X si potrebbe ragionevolmente giudicare meno cattiva, anche se quella di Y ha un bilancio netto più positivo, in termini strettamente quantitativi – dieci kilo-unità contro venti kilo-unità di valore positivo. Questo mostra ulteriormente perché assegnare valori alla figura 2.4 dev’essere sbagliato, come ho sostenuto nel capitolo precedente. Da queste riflessioni dovrebbe emergere chiaramente che una valutazione di quanto male ci sia in una vita non può ridursi a sottrarre il bene dal male. Non serve quindi tentare di calcolare quanto male ci sia in una vita semplicemente sottraendo il valore del riquadro (2) dal valore del riquadro (1). P La maggior parte delle persone nega che la sua vita, tutto considerato, sia cattiva (e senza dubbio nega che la sua vita sia talmente cattiva da rendere preferibile il non essere mai venuti al mondo). Anzi, la maggior parte delle persone pensa che la sua vita vada abbastanza bene. Una così diffusa dichiarazione di benessere è spesso ritenuta la prova che la vita non è male. Com’è possibile che la vita sia male, si dice, se la maggior parte di coloro che vivono negano che lo sia? Come può essere un male venire al mondo se la maggior parte di coloro che sono venuti al mondo sono contenti di esserci? Ma c’è in realtà un’ottima ragione per dubitare che queste affermazioni siano un indicatore affidabile della qualità della vita. Ci sono numerosi aspetti della psicologia umana che possono spiegare le affermazioni favorevoli che le persone solitamente fanno riguardo alla qualità della propria vita. Sono questi fenomeni psicologici, più che la vera qualità della vita, a spiegare (la misura del) la valutazione positiva.
Il primo, più generale e più influente di questi fenomeni psicologici è quello che alcuni hanno chiamato Principio Pollyanna,78 la tendenza all’ottimismo.79 Questo si manifesta in molti modi. Primo, c’è un’inclinazione a rievocare le esperienze positive piuttosto che le negative. Per esempio, quando viene loro chiesto di evocare eventi della loro vita, i soggetti di numerosi studi hanno elencato un numero molto maggiore di esperienze positive che negative.80 Questa memoria selettiva distorce il nostro giudizio su com’è andata la nostra vita finora. Non solo le affermazioni sul nostro passato sono distorte, ma anche le nostre proiezioni e attese per il futuro. Tendiamo ad avere un’idea esagerata di come andranno bene le cose.81 Il pollyannismo tipico della memoria e della proiezione è caratteristico anche dei giudizi soggettivi riguardo al benessere attuale e complessivo. Molti studi hanno dimostrato che le affermazioni relative al proprio benessere sono decisamente orientate verso la parte positiva dello spettro.82 Per esempio, pochissime persone si descrivono come “non troppo felice”. La stragrande maggioranza invece dichiara di essere “abbastanza felice” o “molto felice”.83 In effetti molte persone credono di stare meglio della maggior parte delle altre persone o della media.84 Molti dei fattori che verosimilmente migliorano la qualità della vita di una persona non influenzano in maniera corrispondente le dichiarazioni sulla stessa qualità (se pure le influenzano affatto). Per esempio, benché vi sia una correlazione fra il modo in cui le persone valutano la propria salute e il giudizio soggettivo sul proprio benessere, le valutazioni oggettive della salute, basate su sintomi fisici, non sono utili a predire il modo in cui le persone giudicano soggettivamente il proprio benessere.85 Anche fra coloro la cui insoddisfazione per le proprie condizioni di salute porta a un giudizio di minore benessere, la maggior parte esprime livelli di soddisfazione vicini all’estremità positiva dello spettro.86 In qualsiasi paese,87 i poveri sono quasi (ma non esattamente) felici quanto i ricchi. Né l’istruzione o l’occupazione fanno molta differenza (anche se un po’ ne fanno).88 Anche se c’è qualche disaccordo su quanto i fattori suddetti, e altri, influiscano sul giudizio riguardo al proprio
benessere, è chiaro che anche gli eventi che si penserebbe rendano le persone “molto infelici” hanno un effetto del genere solo su una piccolissima percentuale di persone.89 Un altro ben noto fenomeno psicologico, che rende le dichiarazioni sul proprio benessere inattendibili e spiega in parte (non del tutto) il suddetto pollyannismo è quello che si potrebbe chiamare adattamento, accomodamento o assuefazione. Quando l’oggettivo benessere di una persona peggiora, c’è inizialmente una significativa insoddisfazione a livello soggettivo. Ma poi subentra una tendenza ad adattarsi alla nuova situazione e a modificare le proprie attese di conseguenza.90 Anche se si discute su quanto adattamento si verifichi e in che modo esso vari nei diversi ambiti della vita, c’è accordo sul fatto che l’adattamento si verifichi.91 Il risultato è che, anche se l’impressione soggettiva di benessere non torna ai livelli originali, vi si avvicina più di quanto si potrebbe supporre, e più in alcuni ambiti che in altri. Il senso di benessere soggettivo infatti registra il cambiamento nel livello di benessere meglio di quanto registri il livello di benessere reale di quella persona, ed è un indicatore inattendibile di quest’ultimo. Un terzo fattore psicologico che influisce sul giudizio del proprio benessere è un confronto implicito col benessere degli altri.92 Non è tanto come va la propria vita, quanto come va in confronto a quella degli altri che determina il proprio giudizio su come va la propria vita. Sicché le affermazioni sul proprio benessere sono giudizi più comparativi che fattuali. Una conseguenza di ciò è che gli aspetti negativi della vita che sono condivisi da tutti restano inerti nel giudizio delle persone sul proprio benessere. Siccome questi aspetti sono molto rilevanti, trascurarli conduce a giudizi inattendibili. Di questi tre fenomeni psicologici, è solo il pollyannismo che spinge inequivocabilmente le persone a esprimere giudizi più positivi sulla propria vita. Noi ci adattiamo non solo alle condizioni negative, ma anche a quelle positive, e ci confrontiamo non solo con quelli che stanno peggio, ma anche con quelli che stanno meglio di noi. Tuttavia, data la forza del pollyannismo, sia l’adattamento che il confronto operano a partire da una base ottimistica e sotto
l’influenza di pregiudizi ottimistici. Per esempio, le persone sono più disposte a confrontarsi con chi sta peggio che con chi sta meglio.93 Nei casi migliori, quindi, adattamento e confronto rinforzano il pollyannismo. Nei casi peggiori, lo mitigano senza negarlo del tutto. Quando ci adattiamo al bene o ci confrontiamo con chi sta meglio di noi, le nostre valutazioni sono meno positive di come sarebbero altrimenti, ma di solito non diventano negative. I fenomeni psicologici suddetti non sorprendono dal punto di vista evolutivo.94 Agiscono contro il suicidio e in favore della riproduzione. Se le nostre vite sono davvero pessime come sostengo che siano, e se le persone fossero pronte a vederne la reale qualità per quella che è, sarebbero molto più inclini a uccidersi, o almeno a non produrre molte altre vite. Il pessimismo, quindi, è tendenzialmente sfavorito dalla selezione naturale.95 T Una influente classificazione96 distingue tre tipi di teorie sulla qualità della vita. Secondo le teorie edonistiche, una vita va bene o male a seconda della misura in cui è caratterizzata da stati mentali positivi o negativi – piacere e dolore (largamente intesi). Secondo le teorie del soddisfacimento dei desideri, la qualità della vita di una persona viene valutata in base alla misura in cui sono soddisfatti i desideri di quella persona. Ciò che viene desiderato può comprendere degli stati mentali, ma può comprendere anche stati del mondo (esterno). Secondo le teorie dell’elenco obiettivo, la qualità di una vita è determinata dalla misura in cui essa è caratterizzata da certi beni e mali obiettivi. Secondo le teorie dell’elenco obiettivo, certe cose sono bene per noi a prescindere dal fatto che arrechino piacere in una determinata situazione o dal fatto che le desideriamo. Altre cose sono male per noi che ci arrechino dolore o meno, che le desideriamo o meno. Ovviamente le teorie dell’elenco obiettivo possono differire l’una dall’altra a seconda dei beni e dei mali che elencano. Un autore97 propone di includere fra i beni i successi, le “componenti della natura umana” (tra cui possibilità di agire, capacità
di base e libertà), comprensione, godimento e relazioni personali profonde. Un altro elenca tra i beni possibili candidati “bontà morale, attività razionale e sviluppo delle proprie abilità, avere dei figli ed essere un buon genitore, conoscenza e consapevolezza della vera bellezza”.98 Questo autore propone che fra i mali ci siano “essere traditi, manipolati, diffamati, truffati, privati della libertà o della dignità e godere di piaceri sadici o di piacere estetico di fronte a ciò che è in realtà brutto”.99 Le teorie dell’elenco obiettivo sono le più costose fra i tre tipi di teoria, perché possono comprendere alcuni piaceri e il soddisfacimento di alcuni desideri, nei limiti stabiliti da altri elementi dell’elenco. Per mostrare quanto la vita sia male e quanto perciò sia male venire al mondo, non è necessario scegliere fra teorie edonistiche, teorie del soddisfacimento dei desideri e teorie dell’elenco obiettivo. Anzi, è possibile mostrare quanto la vita sia male a prescindere dal tipo di teoria che adottiamo. Teorie edonistiche Consideriamo prima le teorie edonistiche. Questo punto di vista ci imporrà di distinguere fra tre tipi di stati mentali – quelli negativi, quelli positivi e quelli neutri. Gli stati mentali negativi includono disagio, dolore, sofferenza, angoscia, senso di colpa, vergogna, irritazione, noia, ansia, frustrazione, stress, timore, dispiacere, tristezza e solitudine. Gli stati mentali positivi – i piaceri, in senso lato – possono essere di due tipi. Innanzitutto ci sono quelli che sono un sollievo da stati mentali negativi, la scomparsa di un dolore (come un mal di testa), l’attenuazione di un prurito, l’abbattimento della noia, l’alleviamento dello stress, la dissipazione dell’ansia o del timore e il placarsi del senso di colpa. In secondo luogo ci sono gli stati intrinsecamente positivi che comprendono le esperienze sensoriali piacevoli – sapori, odori, immagini, suoni e sensazioni tattili – nonché alcuni stati di coscienza non sensoriali (come la gioia, l’amore e l’eccitazione). Alcuni piaceri hanno sia componenti di sollievo che componenti intrinseche. Per esempio, mangiare un pasto saporito quando si ha fame unisce il sollievo alla fame e il piacere intrinseco del buon cibo. (Al contrario, mangiare cibo insipido
quando si ha fame può alleviare la fame, ma senza il piacere intrinseco.100) Gli stati mentali neutri sono quelli né negativi, né positivi nel senso del sollievo o del piacere intrinseco. Gli stati neutri comprendono l’assenza di dolore, timore o vergogna (cosa diversa dall’ottenere sollievo da questi stati negativi). Per le ragioni psicologiche dette prima, noi tendiamo a ignorare quanta parte della nostra vita è caratterizzata da stati mentali negativi, anche se spesso si tratta di stati mentali solo relativamente negativi. Consideriamo per esempio le condizioni che provocano stati mentali negativi ogni giorno o molto spesso. Fra questi vi sono la fame, la sete, la tensione delle viscere e della vescica (quando questi organi sono pieni), la stanchezza, lo stress, il disagio termico (provare troppo caldo o troppo freddo) e il prurito. Per miliardi di persone almeno alcune di queste condizioni spiacevoli sono croniche. E non possono alleviare la fame, sfuggire al freddo o evitare lo stress. Ma anche coloro che riescono a trovare un certo sollievo non lo fanno immediatamente o perfettamente e quindi sperimentano questi disagi in una certa misura tutti i giorni. In effetti, se ci pensiamo, periodi significativi di ogni giorno sono segnati dall’una o l’altra di queste condizioni. Per esempio, a meno che una persona non mangi e non beva in modo così regolare da prevenire la fame e la sete o da placarle appena insorgono, per alcune ore al giorno una persona sente fame o sete. A meno che non si resti sdraiati tutto il giorno, probabilmente si è stanchi per una porzione sostanziosa della propria vita di veglia. Quanto spesso non si ha né troppo caldo né troppo freddo, ma si sta perfettamente bene?101 Naturalmente, noi tendiamo a non pensare a quanta parte della nostra vita è segnata da questi stati. I tre fenomeni psicologici tratteggiati nella sezione precedente spiegano perché ciò avvenga. A causa del pollyannismo trascuriamo il male (e soprattutto il male relativamente leggero). Anche l’adattamento gioca un ruolo. Le persone sono talmente abituate ai disagi della vita quotidiana che li trascurano completamente, anche se sono così pervasivi. Infine, siccome questi disagi sono sperimentati da tutti, non servono a differenziare la qualità della propria vita da quella della vita altrui. Il
risultato è che i normali disagi non vengono percepiti dal radar da cui dipende la valutazione soggettiva del benessere. Il fatto che non pensiamo a quanta parte della nostra vita quotidiana è pervasa dai disagi suddetti non significa che non lo sia. Il fatto che vi sia tanto disagio è sicuramente rilevante dal punto di vista edonistico. Gli stati mentali negativi citati finora, tuttavia, sono semplicemente la base che caratterizza una vita quotidiana sana. Le malattie croniche e l’avanzare dell’età peggiorano le cose. Dolori, malesseri, letargia, e a volte frustrazione e disabilità, diventano lo sfondo su cui si colloca tutto il resto. Aggiungiamo i disagi, i dolori e le sofferenze che si sperimentano meno spesso o solo da parte di alcune persone (per quanto numerosissime). Fra questi, allergie, mal di testa, frustrazione, irritazione, raffreddori, dolori mestruali, arrossamenti, nausea, ipoglicemia, crisi epilettiche, senso di colpa, vergogna, noia, tristezza, depressione, solitudine, l’insoddisfazione per l’immagine del proprio corpo, le devastazioni dell’AIDS, del cancro e di altre malattie mortali, il dolore e il lutto. L’ambito degli stati mentali negativi nelle vite normali è assai ampio. Con questo non si vuole negare che nella vita ci siano anche piaceri intrinseci. Questi piaceri a volte si verificano in assenza di stati mentali negativi, ed è il caso migliore. I piaceri intrinseci possono anche coesistere con gli stati mentali negativi (purché questi ultimi non siano abbastanza intensi da annientare completamente il piacere). Gli stati neutri e i piaceri da sollievo ovviamente possono influire anch’essi sulla qualità di una vita. È meglio uno stato neutro che uno negativo, e per chi ha uno stato negativo, il sollievo (il più rapido possibile) è meglio di nessun sollievo. Ciò nonostante, sarebbe assurdo vivere per gli stati neutri e i piaceri da sollievo, o cominciare una vita allo scopo di creare più stati di coscienza neutri o di produrre più piaceri da sollievo. Gli stati neutri e i piaceri da sollievo sono apprezzabili solo nella misura in cui scacciano gli stati negativi. L’argomento che è meglio non venire al mondo spiega perché è assurdo anche cominciare una vita per i piaceri intrinseci che quella vita avrà in sé. La ragione di questo è che anche i piaceri intrinseci dell’esistenza non costituiscono un
vantaggio netto rispetto alla non esistenza. Una volta vivi, è bello provarli, ma sono pagati a prezzo della disgrazia della vita – un costo assai considerevole. Teorie del soddisfacimento dei desideri Quanto detto è rilevante per valutare la qualità di una vita non solo da un punto di vista edonistico, ma anche da quello del soddisfacimento dei desideri. Questo perché molti dei nostri desideri riguardano stati mentali positivi e l’assenza di stati mentali negativi. Dato che abbiamo tanti stati mentali negativi, i molti desideri concernenti la loro assenza sono destinati a essere delusi. Noi desideriamo anche i piaceri, e alcuni di questi desideri vengono soddisfatti. Tuttavia, come mostrerò, molti restano insoddisfatti e pochi vengono soddisfatti, al contrario di quel che pensano le persone. Nonostante la sovrapposizione fra le teorie edonistiche e quelle del soddisfacimento dei desideri, c’è fra loro una chiara differenza. Questo perché possono esservi stati mentali positivi in assenza di soddisfacimento dei desideri, e può esservi soddisfacimento dei desideri in assenza di stati mentali positivi. La prima situazione si verifica quando a) si crede erroneamente che un desiderio sia stato soddisfatto; o b) si scopre che non era necessario soddisfare il desiderio per raggiungere uno stato mentale positivo. La seconda si verifica quando a) si crede erroneamente che un desiderio non sia stato soddisfatto; o b) non si desiderava uno stato mentale positivo e la soddisfazione del desiderio non porta con sé questo stato; o c) si scopre che il desiderio soddisfatto non ha prodotto lo stato mentale positivo che si pensava. In tutti questi casi le teorie del soddisfacimento dei desideri ci impongono di giudicare la qualità della vita di una persona in base al
fatto che i desideri siano stati soddisfatti o meno, e non sulla base del fatto che quella persona abbia stati mentali positivi. Benché sia possibile sbagliarsi su quanta parte della propria vita sia stata o sarà caratterizzata da stati mentali positivi, non ci si può sbagliare sul fatto di sperimentare o meno, adesso, uno stato mentale positivo. Con i desideri, invece, il margine di errore è evidentemente maggiore, perché è possibile sbagliarsi, adesso, sul fatto che un desiderio sia stato realizzato (a meno che non si tratti di desiderio di piaceri). Abbiamo dunque un accesso meno privilegiato al soddisfacimento dei nostri desideri. Questo introduce un ulteriore margine di errore nei giudizi sul proprio benessere. Dato il pollyannismo, è evidente che questo errore tenderà a sovrastimare la bontà della vita dal punto di vista del soddisfacimento dei desideri. Una parte piuttosto piccola della nostra vita è caratterizzata dai desideri soddisfatti, e una piuttosto grande dai desideri insoddisfatti. Consideriamo innanzitutto quanto i nostri desideri siano vulnerabili alle vicissitudini della vita. Nessun desiderio di ciò che ci manca viene soddisfatto immediatamente. Un simile desiderio dev’essere presente prima che possa essere soddisfatto, per cui sopportiamo un periodo di frustrazione prima del suo soddisfacimento. È logicamente possibile che i desideri vengano soddisfatti poco dopo il loro sorgere, ma per come è fatto il mondo, questo solitamente non accade. Al contrario, di solito restiamo in uno stato di desiderio per qualche tempo. Questo tempo può variare da pochi minuti a decenni. Come ho detto prima, di solito una persona aspetta un paio d’ore per saziare la fame (a meno che non segua una dieta per prevenire l’appetito o per bloccare l’appetito sul nascere). Si aspetta ancora di più per poter riposare quando si è stanchi. I bambini aspettano anni per ottenere l’indipendenza. Gli adolescenti e gli adulti possono aspettare anni per realizzare i desideri di soddisfazione personale o di successo professionale. Laddove i desideri vengono soddisfatti, questo soddisfacimento è spesso effimero. Uno desidera un incarico pubblico e viene eletto, ma non rieletto. Il desiderio di sposarsi viene soddisfatto, ma poi si divorzia. Uno vuole una vacanza, ma questa finisce (troppo presto). Spesso i desideri non vengono mai realizzati. Uno aspira a essere libero, ma
muore incarcerato o oppresso. Uno cerca la saggezza, e non la raggiunge mai. Uno agogna alla bellezza, ma è di una bruttezza congenita e irrimediabile. Uno aspira a grande ricchezza e influenza, ma resta povero e impotente per tutta la vita. Uno ha il desiderio di non credere alle falsità, ma senza saperlo resta aggrappato per tutta la vita a credenze per l’appunto false. Pochissime persone raggiungono il controllo che vorrebbero sulla propria vita e le sue circostanze. Non sempre i desideri riguardano qualcosa di cui si è privi. A volte desideriamo non perdere ciò che abbiamo già. Questi desideri, per definizione, hanno soddisfacimento immediato, ma la triste verità è che quel soddisfacimento non dura. Uno desidera non perdere la salute e la giovinezza, ma ciò accade troppo rapidamente. Le rughe compaiono, i capelli ingrigiscono o cadono, la schiena duole, l’artrosi tormenta le giunture, la vista si indebolisce, si diventa grassi e informi. Uno desidera evitare il lutto, ma a meno che il suo desiderio di non morire non sia deluso, prima o poi deve affrontare la morte dei nonni, dei genitori e di altre persone care. E come se non bastasse, consideriamo ora quella che possiamo chiamare “la ruota dei desideri”. Il soddisfacimento di alcuni desideri è momentaneo perché il soddisfacimento stesso svanisce, ma molto più spesso il soddisfacimento di un desiderio è momentaneo perché, anche se il desiderio rimane soddisfatto, un altro desiderio sorge al suo posto. Così il soddisfacimento iniziale lascia ben presto spazio a nuovi desideri. Fra gli psicologi che hanno riconosciuto questo meccanismo c’è Abraham Maslow, noto per aver stabilito una gerarchia di bisogni. (Anche se c’è differenza fra bisogni e desideri, entrambi hanno i medesimi tratti che sto discutendo qui.) Il professor Maslow nota che la gratificazione dei bisogni porta solo a una momentanea felicità, che a sua volta tende a essere seguita da un altro e (si spera) più elevato motivo di scontento. Sembra che l’aspirazione umana alla felicità eterna non possa mai essere soddisfatta. Certo la felicità arriva e si può raggiungere ed è reale. Ma sembra che dobbiamo accettare la sua intrinseca transitorietà, soprattutto se ci
concentriamo sulle sue forme più intense.102 Ronald Inglehart nota che, se ottenere ciò che vogliamo ci rendesse durevolmente felici, non ci impegneremmo più per raggiungere uno scopo.103 Il benessere soggettivo, dice, “riflette un equilibrio fra le aspirazioni del singolo e la sua situazione – e con la prosperità, alla lunga, le aspirazioni tendono ad aumentare, adeguandosi alla situazione”.104 Abraham Maslow scrive con disapprovazione del nostro perpetuo scontento.105 Al contrario, il grande filosofo pessimista Arthur Schopenhauer, che molto prima di lui aveva osservato questo fatto della vita, lo considerava inevitabile.106 La vita, dal punto di vista di Schopenhauer, è una condizione di costante lotta o volontà – uno stato di insoddisfazione. Raggiungere ciò per cui si lotta porta una soddisfazione passeggera, che ben presto cede a qualche nuovo desiderio. Se la lotta finisse, il risultato sarebbe la noia, un’altra forma di insoddisfazione.107 Lottare è quindi una parte inevitabile della vita. Noi smettiamo di lottare solo quando cessiamo di vivere. Arthur Schopenhauer avrebbe respinto anche l’affermazione del professor Maslow secondo cui la felicità è reale. Dal punto di vista di Schopenhauer, la sofferenza è l’unica cosa che esiste indipendentemente.108 La felicità, per lui, è solo una temporanea mancanza di sofferenza. La soddisfazione è l’effimero soddisfacimento del desiderio. In termini edonistici, non ci sono piaceri intrinseci. Tutti i piaceri sono semplicemente un sollievo passeggero agli stati mentali negativi. Non è necessario respingere l’esistenza indipendente della felicità, come fa Arthur Schopenhauer, per accettare il suo punto di vista che la sofferenza sia endemica e pervasiva nella vita. I desideri soddisfatti, come i piaceri (anche quelli intrinseci), sono condizioni da raggiungere più che stati predefiniti. Per esempio, si deve lavorare per saziarsi, mentre la fame viene naturalmente. Dopo che si è mangiato o assunto dei liquidi, ne segue molto naturalmente un disagio delle viscere o della vescica e dobbiamo cercare sollievo. Bisogna cercare le sensazioni piacevoli, in assenza delle quali sorge
spontaneamente il tedio. Corollario di ciò è che dobbiamo continuamente lavorare per tenere a bada la sofferenza (compreso il tedio) e possiamo farlo solo imperfettamente. L’insoddisfazione quindi pervade la vita, ed è inevitabile che sia così. Ci sono momenti, magari addirittura periodi, di soddisfazione, ma si verificano su uno sfondo di lotta insoddisfatta. Il pollyannismo può far sì che molte persone cancellino questo sfondo, ma la realtà resta. Ora si potrebbe obiettare che quanto detto fa apparire le cose peggiori di quanto siano in realtà. Benché i nostri desideri non siano immediatamente soddisfatti e benché un desiderio soddisfatto apra la strada a un nuovo desiderio, il periodo durante il quale il desiderio è insoddisfatto e durante il quale possiamo lottare per il suo soddisfacimento è prezioso. C’è qualcosa di positivo o nella lotta, o nel periodo di deprivazione, o in entrambe le cose. Ci sono due modi per affrontare questa obiezione dal punto di vista della teoria del soddisfacimento dei desideri. Il primo dice che, oltre a desiderare quello che desideriamo, noi desideriamo lottare per soddisfare quel desiderio. Quindi la lotta soddisfa un desiderio mentre siamo impegnati a soddisfare un altro desiderio. Il risultato è che i nostri desideri non sono insoddisfatti come ho ipotizzato che siano. Il secondo modo per rispondere all’obiezione dice che noi possiamo anche non desiderare il periodo di deprivazione o la lotta per soddisfare i nostri (altri) desideri, ma questa attesa prima del soddisfacimento del desiderio rende il soddisfacimento finale tanto più dolce. In entrambi i casi, l’obiezione ha dei limiti. Io ammetto che alcune persone si godano il processo di soddisfacimento di alcuni desideri. Ci sono sicuramente degli scrittori, per esempio, che amano il processo di scrittura di una poesia o di un libro, e alcuni orticultori potrebbero amare il processo di coltivazione degli ortaggi desiderati. Ma probabilmente sono il pollyannismo e gli altri meccanismi psicologici a spingere un maggior numero di persone a pensare o che desiderano il processo o che non importa se il loro desiderio resta insoddisfatto durante il processo stesso. Nonostante questi meccanismi psicologici, non tutti desiderano il processo per soddisfare un desiderio. Alcuni scrittori disprezzano il processo
creativo e godono solo di aver prodotto una poesia o un libro. Alcuni orticultori potrebbero odiare l’orticoltura e praticarla solo per poter mangiare. Inoltre ci sono alcune lotte che nessuno potrebbe (ragionevolmente) desiderare. Consideriamo per esempio la lotta contro un cancro. Uno vuole guarire dal cancro, ma chi vuole combattere la battaglia, sopportare le cure e gli effetti collaterali, senza sapere, nel corso del processo, se avrà successo o meno? Spesso è più plausibile dire che il valore di non avere i desideri immediatamente soddisfatti è che il periodo di deprivazione e il lavoro per il soddisfacimento aumenta la soddisfazione quando il desiderio è finalmente soddisfatto. Ci godiamo di più il cibo quando mangiamo in preda alla fame di quando mangiamo già sazi. Vincere una gara è una soddisfazione maggiore quando uno si è allenato duramente. Ci si sente più soddisfatti quando si riesce a suonare un difficile pezzo musicale se si sono passate lunghe ore a studiare per padroneggiarlo. Bisogna notare ancora una volta che questo non vale per tutti i desideri. Ma anche fra quelli per cui è vero, almeno in qualche caso sarebbe meglio, tutto sommato, se non fosse necessario lottare. La libertà può essere più apprezzata se è stata a lungo desiderata o se è il risultato di una lunga lotta, ma sarebbe comunque meglio non essere stati privati della libertà per tanto tempo. Una lunga incarcerazione seguita dalla liberazione semplicemente non è meglio di una vita intera in libertà. In altri termini, non dobbiamo commettere l’errore di pensare che i tratti consolatori della deprivazione e della lotta siano reali vantaggi rispetto a un più rapido soddisfacimento del desiderio. Si potrebbe pensare che questo valga per un numero relativamente ristretto di desideri, ma come che sia nel mondo reale, noi possiamo immaginare un mondo in cui se fossimo fatti diversamente non sarebbe necessario un periodo di deprivazione e di lotta. Alcune persone dicono di non riuscire a immaginare un mondo del genere, ma questa è semplice mancanza di immaginazione. Per esempio, per come siamo fatti attualmente, sentire fame per qualche ora migliora un pasto. Possiamo immaginare esseri che debbano restare affamati giorni interi per
ottenere lo stesso effetto. Sicuramente stanno peggio di noi perché i loro desideri devono restare insoddisfatti più a lungo prima che loro possano provare la stessa soddisfazione. Ma noi stiamo ugualmente peggio di come staremmo se non dovessimo sentire fame come facciamo per ricavare da un pasto lo stesso livello di soddisfazione. In altri termini, mostrare che abbiamo bisogno di un periodo di deprivazione e di lotta per ottenere il massimo da un soddisfacimento finale del desiderio non equivale a mostrare che le nostre vite sono migliori grazie a quella deprivazione e a quella lotta. Anzi è ammettere un fatto sfortunato delle nostre vite. Semplicemente sarebbe meglio se il soddisfacimento del desiderio richiedesse meno insoddisfazione durante il percorso. Finora ho discusso di quanto la mancanza di memoria caratterizzi la vita. Ora passo a mostrare che le persone sovrastimano il valore del soddisfacimento che provano. In altri termini, se comprendiamo perché i nostri desideri sono soddisfatti nella misura in cui lo sono, il quadro ci appare ancora più triste. Dal punto di vista del soddisfacimento dei desideri, le nostre vite sono buone nella misura in cui i nostri desideri sono soddisfatti. Tuttavia la condizione di soddisfacimento può essere raggiunta in due modi: a) avendo soddisfatto tutti i desideri che si hanno; o b) avendo solo quei desideri che saranno soddisfatti.109 Un punto di vista rozzo non distinguerà questi due modi di soddisfare i desideri. Il problema di questo punto di vista rozzo è che una vita terribile potrebbe essere trasformata in una vita splendida eliminando i desideri o cambiando ciò che si desidera. Se per esempio si arrivasse a desiderare i vari aspetti della propria penosa esistenza, la vita si trasformerebbe da miserabile a magnifica. Questo è difficile da accettare. Potrebbe sembrare (o si potrebbe avere l’impressione) che la propria vita sia molto migliorata, ma in realtà non la si sarebbe affatto trasformata gran che (anche se sarebbe effettivamente migliorata nel senso più limitato che ci si sentirebbe meglio).
La questione è se si possa elaborare una versione più plausibile del punto di vista del soddisfacimento dei desideri – una versione che giudichi una vita migliore quando il soddisfacimento del desiderio è ottenuto tramite (a) anziché tramite (b). Essendo questo un problema interno alla teoria del soddisfacimento dei desideri, non approfondirò la questione. Basti dire che se una simile versione del punto di vista del soddisfacimento dei desideri non può essere formulata, allora tanto peggio per la teoria. Ma se si riuscisse a elaborare una simile versione? Dovremmo allora notare che, a causa dei fenomeni psicologici che ho evidenziato, (b) sarebbe responsabile di gran parte della nostra soddisfazione. I nostri desideri sono formulati e formati in risposta ai limiti della nostra situazione. Quindi le nostre vite sono molto peggiori di quanto sarebbero se il soddisfacimento dei desideri fosse esclusivamente (o anche principalmente) attribuibile ad (a). Ci sono coloro, come i buddisti e gli stoici, che credono che eliminare o modificare i nostri desideri sia esattamente ciò che dovremmo fare.110 Credere questo, tuttavia, è diverso dal credere che (b) sia preferibile ad (a). In effetti, raccomandare (b) è più ragionevole come risposta alla impossibilità di (a).111 In altri termini, (a) sarebbe meglio e noi dobbiamo accontentarci di (b) solo perché non possiamo avere (a). Riconoscere questo non mina alla base l’idea che le nostre vite siano molto peggiori sotto (b) di quanto sarebbero sotto (a). Teorie dell’elenco obiettivo Le discussioni sulla teoria edonistica e su quella del soddisfacimento dei desideri riguardano anche le teorie dell’elenco obiettivo. Gli stati mentali piacevoli e l’assenza di quelli dolorosi devono trovarsi nell’elenco dei beni obiettivi. Allo stesso modo, l’elenco dei beni obiettivi deve comprendere il soddisfacimento di alcuni desideri. Inoltre, come i nostri desideri si adattano alle circostanze e vengono formulati confrontandoci con gli altri, così gli elenchi dei beni obiettivi vengono costruiti in un modo che rende possibile almeno per alcune persone essere considerate prospere. Vale a dire che gli “elenchi obiettivi” dei beni non sono formulati sub specie aeternitatis – da una
prospettiva realmente obiettiva. Al contrario, sono formulati sub specie humanitatis – da un punto di vista umano. A differenza dei desideri, che possono variare da individuo a individuo, gli elenchi obiettivi si applicano tendenzialmente a tutti, o almeno a intere categorie e classi di persone. Sono considerati obiettivi solo nel senso che non cambiano da una persona all’altra. Non sono obiettivi nel senso che dicono cos’è una vita buona sub specie aeternitatis. Formulare elenchi sub specie humanitatis sarebbe ragionevole se si volesse stabilire quanto è buona una vita particolare in confronto ad altre vite (umane). Ma sapere quanto è buona una vita particolare in confronto ad altre vite ci dice molto poco sul problema fondamentale – quanto è buona la vita umana. Se lo scopo è stabilire quanto è buona la vita umana, il punto di vista umano, dati i fenomeni psicologici di cui si è parlato, è evidentemente un punto di vista inattendibile per decidere quale dovrebbe essere l’elenco dei beni. Dal punto di vista umano, ciò che consideriamo prezioso dipende in larga misura dai limiti di ciò che possiamo aspettarci. Per esempio, siccome nessuno vive fino a 240 anni, le persone tendono a non ritenere che il mancato raggiungimento di quell’età renda una vita meno buona. La maggior parte delle persone considera invece una tragedia la morte a quarant’anni (perlomeno se la qualità della vita della persona che muore era relativamente buona). Ma perché morire a novant’anni non dovrebbe essere tragico, se lo è morire a quaranta? L’unica risposta può essere che il nostro giudizio è prigioniero delle circostanze. Non consideriamo ciò che è al di là della nostra portata come qualcosa che sarebbe un bene fondamentale. Ma perché una buona vita dovrebbe essere alla nostra portata? Forse la buona vita è qualcosa di irraggiungibile. Sicuramente si ha l’impressione che una vita priva di ogni disagio, dolore, sofferenza, angoscia, stress, ansia, frustrazione e noia, che duri molto più di novant’anni e sia molto più ricca di ciò che è buono sarebbe meglio della vita che hanno i più fortunati fra gli esseri umani. Perché dunque non giudicare la nostra vita in base a questo standard (impossibile)? Consideriamo in alternativa il senso della vita. Un candidato molto plausibile all’elenco dei beni obiettivi è che la vita abbia un senso.
Una vita insensata sarebbe priva di un bene importante, anche se avesse altri beni. Molte persone credono, benché occasionalmente, che tutte le vite siano prive di senso. Guardano la vita sub specie aeternitatis e non ne vedono lo scopo. La vita cosciente, benché sia solo un bip sul radar del tempo cosmico, è carica di sofferenza – sofferenza che non ha altro fine che la propria perpetuazione. La maggior parte delle persone, tuttavia, trova l’idea dell’insensatezza della vita insopportabile e suggerisce che le nostre vite abbiano un senso. Molte di queste persone (ma non tutte) ricorrono a un punto di vista diverso – quello dell’umanità o quello di un singolo individuo – da cui almeno alcune vite possono apparire dotate di senso. Una vita dedicata al servizio dell’umanità, per esempio, può essere significativa, sub specie humanitatis, anche se non lo è dal punto di vista dell’universo. Altre vite, però, come quella dell’uomo che dedica la propria a contare i fili d’erba di diversi prati,112 sarebbero prive di senso sub specie humanitatis. La vita del contatore di fili d’erba, tuttavia, potrebbe avere un senso dal suo punto di vista soggettivo, se dal suo insolito progetto lui ricavasse soddisfazione. Il fatto che la sua vita possa avere un senso solo dal suo punto di vista soggettivo spinge molte persone a pensare che tale punto di vista sia insoddisfacente. Ma perché dovremmo pensare che il punto di vista dell’umanità sia più valido di quello dell’individuo? Dal punto di vista dell’universo, le vite del filantropo e del contatore di fili d’erba sono entrambe insignificanti (il che non vuol dire che la filantropia non sia meglio del contare fili d’erba). Alcuni sostengono che non importa se le nostre vite sono prive di senso dal punto di vista dell’universo. Anche se questo fosse vero, sarebbe comunque molto meglio se le nostre vite avessero un senso indipendentemente dal nostro punto di vista umano – se fossero importanti dal punto di vista dell’universo. Così, almeno, ci accorgeremmo che le nostre vite sono molto peggiori per il fatto che non hanno alcuna importanza da quel punto di vista. Si aggiunga la consapevolezza del pollyannismo e degli altri fenomeni psicologici di distorsione, e abbiamo buone ragioni per pensare che forse stiamo sopravvalutando quanto siano buone le nostre vite per il fatto che
hanno un senso dal punto di vista dell’umanità. È possibilissimo che attribuire alle nostre vite un qualunque senso importante sia impossibile e che esse siano quindi prive di un bene importante. Al mio ragionamento secondo cui le vite umane sono seriamente carenti sub specie aeternitatis si possono sollevare due obiezioni. La prima viene da coloro che dichiarano semplicemente di non riuscire a immaginare un simile punto di vista e quindi non possono giudicare la vita umana da esso. Per esempio, non riescono a immaginare come sarebbe una vita molto più lunga priva di dolore e frustrazione e caratterizzata da saggezza, conoscenza e comprensione molto maggiori. A questa obiezione si può rispondere come ho risposto all’obiezione simile alle mie osservazioni sulla qualità della vita dal punto di vista del soddisfacimento dei desideri. Cioè che la respingo come una mancanza di immaginazione. Forse non siamo in grado di immaginare esattamente, per esempio, come sarebbe essere molto più sofisticati sul piano cognitivo di quanto siano gli esseri umani. Ciò nonostante, possiamo basarci sulla nostra comprensione delle differenze tra bambini e adulti, e tra animali e uomini, per capire il tipo di differenza che provocherebbe l’aumento delle facoltà cognitive. In questo caso particolare c’è spazio per discutere se ciò renderebbe le nostre vite migliori. Ciò dipenderebbe in parte dal fatto di credere o meno che le nostre capacità cognitive rendano le nostre vite migliori di quelle degli animali meno sofisticati. Gli esseri umani hanno la tendenza ad affermarlo, ma questo non è affatto evidente. La capacità di comprensione ha un costo elevato. Se si pensa che le nostre superiori capacità cognitive rendano ciò nonostante le nostre vite migliori di quelle dei primati non umani, si deve ammettere che sarebbero ancora migliori se le nostre capacità fossero ancora migliori. A meno che non si possa mostrare che possediamo il grado ideale di capacità cognitive, il che suona sospettosamente egocentrico. Se al contrario pensiamo di stare peggio dei primati non umani a causa delle nostre superiori abilità cognitive, questo è un ulteriore aspetto per cui le nostre vite sono peggiori di quel che potrebbero essere. C’è una seconda obiezione, più stringente, al mio ragionamento. È
l’obiezione che i giudizi sulla qualità della vita devono essere contesto-specifici. Una buona analogia è quella del maestro che dà il voto a un compito in classe o a un esame.113 Che criterio stabilisce il maestro? Se gli allievi hanno dodici anni, il maestro deve valutare a un livello adatto a dei dodicenni (e forse, più precisamente, a quei dodicenni). Il compito in classe di un dodicenne non può essere valutato in base ai criteri adatti per degli studenti universitari. Allo stesso modo, dice l’obiezione, noi dobbiamo giudicare la qualità della vita umana in base a standard umani e non sub specie aeternitatis. Chiaramente non nego che il lavoro di un dodicenne debba essere giudicato in base a criteri adeguati alla sua età. Questo perché nel giudicare il lavoro di un dodicenne vogliamo sapere com’è in confronto agli altri della stessa classe. Ci sono scopi analoghi nell’adottare a volte uno standard umano per giudicare la qualità della vita umana. Potremmo voler sapere com’è una vita umana in rapporto alle vite di altri esseri umani. Tali confronti hanno il loro valore, ma non sono l’unico modo per giungere a delle valutazioni. A questo si potrebbe rispondere che, come non passiamo a uno standard superiore quando valutiamo il lavoro di uno studente dodicenne, così non dovremmo mai assumere una prospettiva sovrumana per giudicare la qualità di una vita umana. Ma questa replica pone numerosi problemi. Per esempio, noi non rischiamo mai di pensare che, semplicemente perché un dodicenne prende il massimo dei voti in base a criteri adatti ai dodicenni, a quello studente debba essere offerta una cattedra di fisica in una prestigiosa università. Vale a dire, abbiamo chiaro che lo standard che stiamo usando è adatto a dei dodicenni, ma che ci sono chiari limiti al livello di comprensione di quello studente. Invece le persone pensano normalmente che, siccome la vita di alcune persone è buona in base agli standard umani, allora è la migliore possibile. A questo punto il mio interlocutore potrebbe contro-obiettare che, come non giudichiamo i professori di fisica in base a standard di intelligenza sovrumani, così non dovremmo giudicare le migliori vite umane in base a standard di qualità sovrumani. Il problema però è
che in effetti noi giudichiamo le persone più intelligenti in base a standard sovrumani, ed è giusto così. Questo appare evidente se consideriamo il problema filosofico della modestia (sulle proprie doti o sui propri successi). Questo problema consiste nel fatto che è difficile spiegare cos’è la modestia senza minare le basi che la rendono una virtù. Se per esempio la persona modesta è intesa come quella che non capisce di possedere delle qualità straordinarie, allora la modestia è un difetto ed è difficile considerarla una virtù. Se la persona modesta è quella che sa di essere bravissima, ma si comporta come se non lo sapesse, allora la modestia è una forma di ipocrisia, il che la rende una candidata implausibile come virtù. La soluzione migliore del problema della modestia è dire che, benché la persona modesta abbia una visione esatta dei propri punti di forza, riconosce anche che c’è uno standard più alto, rispetto al quale è inferiore.114 La sua capacità di vedersi sub specie aeternitatis mette le sue doti e i suoi successi in una prospettiva che la rende modesta. È questo che consideriamo una virtù. Sto suggerendo una visione più “modesta” della qualità delle vite umane migliori. Ammetto che a volte – quando si parla di giustizia distributiva, per esempio – sia corretto confrontare la qualità di alcune vite umane con quella di altre. In altre occasioni, tuttavia, è più corretto valutare le vite umane sub specie aeternitatis. È il caso in cui si voglia stabilire quanto sia buona la vita umana in generale. La qualità della vita umana si scopre allora carente. Osservazioni conclusive sui tre punti di vista Le tre teorie che ho esaminato – la teoria edonistica, quella del soddisfacimento dei desideri e quella dell’elenco obiettivo – ammettono tutte una distinzione fra a) quanto è effettivamente buona la vita di una persona, e b) quanto è ritenuta buona. Alcune persone faticano a comprendere come tale distinzione sia possibile in base alla teoria edonistica. Pensano che, siccome una
teoria edonistica riguarda stati mentali soggettivi, la valutazione di una persona sulla qualità della propria vita debba essere attendibile. Tuttavia, la teoria edonistica afferma che una vita è migliore o peggiore nella misura in cui è effettivamente caratterizzata da stati mentali positivi o negativi. Siccome le persone possono sbagliarsi, la teoria edonistica prevede la distinzione fra (a) e (b). Questo non significa negare che (a) e (b) interagiscano. Se la vita di una persona è pessima, in base a una qualsiasi delle tre teorie, e quella persona pensa che non lo sia, allora in questo senso essa è migliore di quanto sarebbe se quella persona si accorgesse di quanto è effettivamente pessima. Ma dire che è migliore in questo senso non significa dire che è migliore in tutti i sensi, né che sia talmente migliore da risultare buona quanto quella persona ritiene che sia. Ho sostenuto che la qualità della vita delle persone è molto peggiore di quanto loro credano, e ho mostrato come la comprensione della psicologia umana possa spiegare perché le persone credono che le loro vite siano migliori di come sono in realtà. Avendo un quadro più accurato della qualità di una normale vita umana, siamo in una posizione migliore per stabilire se dare inizio a una simile vita sia indecente, dato che dare inizio a una nuova vita non può essere mai un vantaggio per la persona la cui vita comincia. Ai problemi di decenza e indecenza è notoriamente difficile dare una risposta. Tuttavia, se ricorriamo a una prova assai ragionevole, scopriamo che dev’essere in effetti indecente dare inizio a vite piene di male come le normali vite umane. La prova è questa: chiediamoci se la quantità di male presente in una vita potrebbe venire decentemente inflitta a un essere già esistente, ma né per portare avanti gli interessi complessivi di quell’essere, né per scopi utilitari. La prima condizione – escludere gli interessi di quella persona – è evidentemente decisiva, dato l’argomento che venire al mondo non può mai essere un vantaggio per la persona che viene al mondo. La seconda condizione si potrebbe considerare più discutibile. Ma non dovrebbe esserlo. Ho già sostenuto che le versioni più plausibili dell’utilitarismo non favoriscono la creazione di
nuove persone.115 Creare nuove persone porta benefici a persone diverse da quella creata, ma si tratta di benefici modesti per altri individui (se ne tratterà nel capitolo 4) e non del massimo beneficio dell’utilitarismo. Non ho sostenuto, e non ne avevo bisogno, che tutte le vite sono così pessime da non meritare di continuare. Ho sostenuto invece che tutte le vite contengono notevoli quantità di ciò che è comunque ritenuto male. Come ho affermato in precedenza in questo stesso capitolo, stabilire la qualità della vita di una persona non significa semplicemente stabilire quanto bene e male vi sia in una vita. Ciò nonostante, se una vita contiene più male di quel che si crede, il giudizio sulla qualità di quella vita non può diventare più positivo. I miei ragionamenti del capitolo 2 mostravano che anche quantità inferiori di male non potevano essere bilanciate da qualsiasi bene limitato la vita possa contenere. U La forza del pollyannismo è tale che la suddetta forma di pessimismo è spesso ignorata come la lamentosa autocommiserazione dei deboli. Gli ottimisti fanno valorosi tentativi per dipingere un quadro roseo, per mettere una patina giustificativa sulle sofferenze umane, o almeno per mostrare una faccia coraggiosa. I pessimisti trovano tutto ciò fuori luogo – come l’allegria o le barzellette a un funerale. Arthur Schopenhauer, per esempio, dice che l’ottimismo, “laddove non è semplicemente la chiacchiera irriflessa di coloro che non hanno altro che parole sotto la bassa fronte, sembra un modo di pensare non solo assurdo, ma anche profondamente malvagio, un’amara presa in giro delle indicibili sofferenze dell’umanità”.116 Che si accetti o meno la visione pessimistica della normale vita sana che ho presentato, l’ottimista si trova su un terreno molto insicuro quando si consideri la quantità di indiscutibili sofferenze che vi sono nel mondo.117 (Mi soffermo qui solo sulle sofferenze umane, ma il quadro diventa ancora più osceno se consideriamo la sofferenza di milioni e milioni di animali che condividono il nostro pianeta – compresi i miliardi che vengono messi al mondo ogni anno
solo per essere maltrattati e uccisi per il consumo umano o per altri usi.) Consideriamo innanzitutto i disastri naturali. Più di quindici milioni di persone si calcola che siano morte per questo tipo di disastri nell’ultimo millennio.118 Negli ultimi anni, per esempio, si calcola che le inondazioni abbiano ucciso 20.000 persone all’anno e portato sofferenze a “decine di milioni”.119 Il numero è più grande in alcuni anni. A fine dicembre 2004, alcune centinaia di migliaia di persone persero la vita in uno tsunami. Circa 20.000 persone muoiono ogni giorno di fame.120 Si stima che 840 milioni di persone soffrano la fame e la malnutrizione senza morirne.121 È una percentuale notevole dei circa 6,3 miliardi di persone attualmente viventi. Le malattie tormentano e uccidono ogni anno milioni di persone. Consideriamo la peste, per esempio. Fra il 541 d.C. e il 1912, si stima che siano morte di peste più di 102 milioni di persone.122 Si rammenti che la popolazione umana durante questo periodo era appena una frazione di quella attuale. L’epidemia di influenza del 1918 uccise 50 milioni di persone. Data la popolazione umana attuale e l’aumento della velocità e dei viaggi in tutto il mondo, una nuova epidemia potrebbe provocare milioni di altri morti. L’HIV oggi uccide quasi 3 milioni di persone all’anno.123 Se aggiungiamo tutte le altre malattie infettive, arriviamo a un totale di circa 11 milioni di morti all’anno,124 precedute da notevoli sofferenze. Le neoplasie maligne rapiscono più di altri 7 milioni di vite all’anno,125 di solito dopo considerevoli e spesso prolungate sofferenze. Si aggiungano i circa 3,5 milioni di morti accidentali (fra cui un milione di morti per incidenti stradali).126 Se si sommano tutte le altre morti, nel 2001 si arriva alla cifra enorme di quasi 56,5 milioni di morti.127 Più di 107 persone al minuto. Man mano che la popolazione mondiale aumenta, il numero di morti aumenta. In alcune zone del mondo, dove la mortalità infantile è alta, molte di queste morti seguono di pochi anni la nascita. Ma anche quando l’aspettativa di vita è maggiore, sappiamo che più nascite portano a più morti. Ora moltiplichiamo il numero di morti per il numero di amici e parenti che restano a piangere e a
rimpiangere i dipartiti. Per ogni morte ci sono molti sopravvissuti che si dolgono per il morto. Benché molte malattie siano attribuibili al comportamento umano, consideriamo le sofferenze più intenzionali che alcuni membri della nostra specie infliggono ad altri. Una fonte autorevole stima che prima del ventesimo secolo più di 133 milioni di persone siano state uccise in stragi di massa.128 Secondo lo stesso autore, i primi 88 anni del ventesimo secolo hanno visto 170 milioni di persone (e forse addirittura 360 milioni) “uccise, picchiate, torturate, accoltellate, bruciate, affamate, congelate, schiacciate o fatte morire di fatica; seppellite vive, annegate... (impiccate), bombardate o uccise in uno qualsiasi dei mille modi in cui i governi hanno inflitto la morte su cittadini e stranieri disarmati e indifesi”.129 Milioni di persone, ovviamente, vengono uccise durante le guerre. Secondo il World Report on Violence and Health, ci sono stati 1,6 milioni di morti dovuti a conflitti nel sedicesimo secolo, 6,1 milioni nel diciassettesimo, 7 milioni nel diciottesimo, 19,4 milioni nel diciannovesimo e 109,7 nel ventesimo, il più sanguinario di tutti i secoli.130 L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che le ferite di guerra abbiano provocato 310.000 morti nel 2000,131 un anno che nella nostra memoria non si distingue per essere stato particolarmente sanguinoso. Né le sofferenze si esauriscono qui. Consideriamo le numerose persone che vengono stuprate, aggredite, mutilate o uccise (da privati cittadini, anziché da governi). Circa 40 milioni di bambini sono maltrattati ogni anno.132 Più di 40 milioni di donne e ragazze attualmente viventi sono state sottoposte a mutilazioni genitali.133 Poi ci sono schiavitù, ingiusta incarcerazione, esclusione, tradimento, umiliazione e intimidazione, per non dire dell’oppressione nelle sue mille forme. Per centinaia di migliaia di persone, la sofferenza è talmente grande – o la consapevolezza talmente chiara – che si tolgono la vita. Per esempio, nel 2000 si calcola che si siano suicidate 815.000 persone.134 Il pollyannismo spinge la maggior parte delle persone a pensare
che loro e i loro (potenziali) figli sfuggiranno a tutto questo. E in effetti vi sono alcuni (pochissimi) abbastanza fortunati da evitare le sofferenze non-inevitabili. Ma tutti devono sperimentare almeno alcuni dei mali di questo catalogo di miserie. Anche se vi sono alcune vite a cui è risparmiata la maggior parte di queste sofferenze, e tali vite sono migliori di quanto ho detto che siano, queste vite (relativamente) di alta qualità sono molto rare. Una vita felice è talmente rara che per ciascuna di esse ci sono milioni di vite disgraziate. Alcuni sanno che il loro figlio sarà tra gli sfortunati. Nessuno sa tuttavia se il loro figlio sarà uno dei presunti pochi fortunati. Grandi sofferenze potrebbero attendere qualsiasi persona venga messa al mondo. Anche i più privilegiati potrebbero mettere al mondo un bambino destinato a soffrire indicibilmente, a essere stuprato, aggredito o brutalmente assassinato. Senza dubbio gli ottimisti portano il fardello di questa roulette russa procreativa. Dato che non ci sono veri vantaggi rispetto a non esistere per coloro che vengono messi al mondo, è difficile vedere come il rischio significativo di un grave male possa essere giustificato. Se consideriamo non solo i mali insolitamente gravi che chiunque potrebbe dover sopportare, ma anche quelli della routine quotidiana, scopriamo che le cose vanno ancora peggio per gli allegri procreatori. Emerge che giocano alla roulette russa con la pistola completamente carica – puntata, ovviamente, non alla propria testa, ma a quella dei loro futuri discendenti.
4. FARE FIGLI: LA TESI ANTI-NATALISTA I filosofi... dovrebbero dedicarsi piuttosto a rendere felici alcuni individui, anziché incitare la specie sofferente a moltiplicarsi. Martino nel Candido di Voltaire135 L’idea di portare qualcuno in questo mondo mi riempie di orrore... Che la mia carne perisca completamente! Che io non trasmetta mai a nessuno la noia e l’ignominia dell’esistenza! Gustave Flaubert136
P Ho sostenuto finora che venire al mondo è sempre un male e un male grave. Si può giungere a questa conclusione in vari modi. Coloro che rifiutano le argomentazioni del capitolo 2, per cui venire al mondo è sempre un male, possono comunque essere convinti dalle argomentazioni del capitolo 3 che le nostre vite sono effettivamente pessime. Anche coloro che negano che tutte le vite siano pessime dovrebbero convenire con il capitolo 3, che almeno la stragrande maggioranza di esse sono pessime. Queste conclusioni devono necessariamente avere delle conseguenze sul fare figli (col che intendo generare figli piuttosto che allevarli). Procreare non è un dovere Alcune persone pensano che procreare sia un dovere. Vi sono vari modi di intendere (1) lo scopo e (2) la giustificazione di questo presunto dovere: 1) lo scopo: il dovere di procreare può essere inteso come (a) il dovere di fare alcuni figli, ovvero come (b) il dovere di fare il maggior numero possibile di figli; 2) la giustificazione: il presunto dovere di procreare potrebbe basarsi (a) sull’interesse di coloro che vengono messi al mondo, o (b) su altre considerazioni, come l’interesse di altri, l’utilità, i comandamenti divini e così via.137 Le mie argomentazioni si oppongono con forza a questo dovere quand’esso sia basato sull’interesse di coloro che vengono messi al mondo. Se venire al mondo è sempre un grave male, allora non può
esservi alcun dovere, basato sull’interesse di persone potenziali, a metterne al mondo a fortiori il maggior numero possibile. Perché un dovere di procreare così giustificato abbia una qualche plausibilità, dev’essere limitato per escludere i casi in cui gli unici figli (in più) che uno potrebbe fare condurrebbero vite talmente dolorose da non essere degne di cominciare. Vale a dire, nessuno potrebbe plausibilmente suggerire che vi sia un dovere, basato sull’interesse di persone potenziali, a metterne al mondo alcune (a fortiori il maggior numero possibile) se le loro vite non fossero degne di cominciare. Siccome i miei ragionamenti mostrano che nessuna vita è degna di cominciare, la limitazione esclude tutte le vite dall’ambito del dovere di procreare. I miei ragionamenti mostrano, poi, o che non c’è alcun dovere di procreare o che, se un tale dovere esiste, è puramente teorico e non si applica mai nel mondo reale. Anche chi pensa che vi siano alcune vite degne di cominciare dovrebbe abbandonare l’idea che vi sia un dovere di procreare, perché (a) non si può anticipare se la vita a cui si dà inizio si rivelerà degna di cominciare; e (b) i costi dell’errore sarebbero altissimi, data la dolorosità di tutte le altre vite. I miei ragionamenti sollevano anche un’obiezione più indiretta, ma nondimeno sostanziale, a un dovere di procreare basato su considerazioni diverse dagli interessi di coloro che vengono messi al mondo. I miei ragionamenti non precludono logicamente un tale dovere (e la sua applicazione nel mondo reale). Si potrebbe infatti riconoscere che venire al mondo è un male, e un male grave, e nello stesso tempo affermare che le considerazioni su cui si basa il dovere – come l’interesse altrui o i comandamenti divini – sono superiori a quel male. Si potrebbe, ma è altamente implausibile se il male di venire al mondo è grave come ho indicato. Ed è tanto più implausibile quanto più male si infligge. Ecco perché (1b) basato su (2b) è ancora più implausibile di (1a) basato su (2b): il dovere di fare il maggior numero possibile di figli, basato su considerazioni diverse dall’interesse di coloro che vengono messi al mondo, è ancora più implausibile del dovere di fare qualche figlio, basato su considerazioni diverse dall’interesse di coloro che vengono messi al mondo.
C’è un dovere di non procreare? I miei ragionamenti mostrano anche che è effettivamente sbagliato fare figli? Vale a dire, esiste un dovere di non procreare, oppure la procreazione non è né obbligatoria né proibita? Molte persone concorderanno che a volte c’è un dovere di non procreare – per esempio nei casi in cui il bambino che si mette al mondo avrebbe una vita eccezionalmente dolorosa. La mia domanda, però, è se il dovere di non mettere al mondo delle persone si applichi a tutte le persone possibili. Una risposta affermativa sarebbe fortemente contraria ad alcuni dei più potenti e radicati istinti umani – quelli riproduttivi. Nel valutare se sia sbagliato fare figli, dobbiamo esserne pienamente consapevoli e sospettare della forza di questi istinti nell’inclinarci a loro favore. Nello stesso tempo, abbracciare l’idea che la procreazione sia sbagliata senza considerare doverosamente gli interessi della procreazione stessa sarebbe frettoloso. Innanzitutto dobbiamo distinguere gli interessi procreativi da quelli coitali e genitoriali. Gli interessi procreativi consistono nel mettere al mondo nuove persone, la propria discendenza genetica.138 La non procreazione comporta la frustrazione degli interessi procreativi. Non tutte le persone hanno questi interessi, ma molte sì. Gli interessi coitali sono interessi per un certo tipo di unione sessuale – il coito. Il soddisfacimento degli interessi coitali è alla base di molte procreazioni. In effetti molte persone vengono al mondo non perché i loro genitori intendessero soddisfare i loro interessi procreativi, ma perché stavano soddisfacendo i loro interessi coitali. In altri termini, per molte persone venire al mondo non è tanto il risultato di una decisione dei genitori di procreare, quanto una mera conseguenza del coito dei loro genitori. Tuttavia, poiché il coito è possibile senza mettere al mondo nessuno (come accade per esempio quando si usa con successo la contraccezione), la non procreazione non comporta la frustrazione degli interessi coitali (e tanto meno degli interessi sessuali non coitali). L’unica cosa che si richiede è una certa attenzione (contraccettiva) da parte di uno o di entrambi i partner, e ciò solo prima della menopausa
femminile. Lo sforzo in più richiesto da questa attenzione non può essere messo nemmeno lontanamente sullo stesso piano del male di venire al mondo, sicché non possiamo perdonare le nascite che sono la mera conseguenza del coito (e non il suo obiettivo). Gli interessi genitoriali sono gli interessi legati all’allevamento di un figlio e alla relazione che si stabilisce con i figli (adulti) che si sono allevati. Benché di solito questi interessi vengano soddisfatti allevando un figlio che è la propria discendenza genetica, è possibile allevare figli che non si sono prodotti. Il soddisfacimento dei bisogni genitoriali quindi non va necessariamente di pari passo con la soddisfazione dei bisogni procreativi. Almeno finché vi saranno bambini indesiderati, le persone potranno soddisfare il loro interesse ad allevare figli senza produrne loro stessi. Tuttavia, fare figli propri è di gran lunga il modo più semplice per procurarsi un bambino da allevare. L’adozione è un processo difficile, con costi considerevoli di natura emotiva e finanziaria. La maggior parte di coloro che attualmente si sottopongono a questo processo sono persone che non possono avere figli genetici, anche se vi sono persone che scelgono di adottare pur essendo fertili. Per i genitori adottivi, fertili o meno, l’allevamento senza procreazione comporta i costi del processo di adozione. Se la non procreazione diventasse la norma (cosa che non accadrà volontariamente) e non ci fossero più bambini indesiderati, allora la non procreazione comporterebbe la frustrazione non solo degli interessi procreativi, ma anche di quelli genitoriali. I bambini non possono essere messi al mondo per il loro bene. Non c’è bisogno delle argomentazioni del capitolo 2 per capirne il motivo, anche se tali argomentazioni mostrano senza dubbio che una persona messa al mondo non può beneficiare di questa procreazione. Questo non vuol dire che alcuni procreatori non pensino di fare figli per il bene di quei figli. Vuol dire soltanto che, qualunque cosa pensino queste persone, il loro fare figli non può essere per il bene di quei figli. Se le loro ragioni per fare figli sono di fare il bene di quei figli, queste persone sono in errore. Le persone possono fare figli per altre ragioni. La maggior parte, prendono tale decisione, sospetto, per rispondere ai propri interessi
procreativi e a quelli collegati. Per alcune persone la decisione può anche rispondere in parte a interessi di altri. Tra costoro, i genitori (che desiderano diventare nonni), la tribù o la nazione (che ha bisogno di nuove persone per sopravvivere) o lo Stato (che dev’essere adeguatamente popolato per poter funzionare bene). Ma anche in questi casi rispondere a questi interessi altrui equivale di solito a rispondere agli interessi dei procreatori stessi. Dare ai propri genitori dei nipoti tacita le recriminazioni per l’assenza di nipoti. Fare figli per la tribù, la nazione o lo Stato garantisce una certa condizione. Ma sono gli interessi procreativi e quelli connessi, sospetto, quelli a cui si deve la maggior parte delle nascite nel mondo. I genitori soddisfano i desideri biologici di fare figli e trovano soddisfazione nell’accudirli e nell’allevarli. Una volta adulti, quei figli possono diventare amici. Possono fornire nipoti. E spesso costituiscono un’assicurazione per la vecchiaia, fornendo cure nell’età senile. La progenie fornisce ai genitori una sorta di immortalità – attraverso il materiale genetico, i valori e le idee che i genitori trasmettono ai figli e che sopravvivono nei figli e nei nipoti dopo la morte dei genitori stessi. Alcune di queste sono buone ragioni perché la gente desideri dei figli, ma nessuna spiega perché fare figli non sia sbagliato. Nella misura in cui questi beni si possono ottenere senza fare figli, non li si può usare per sostenere la procreazione. Ma almeno alcuni di tali beni – in particolare gli interessi procreativi – non si possono ottenere senza fare figli. Ora, il fatto che la procreazione risponda ai propri interessi non basta a mostrare che sia sbagliata. Rispondere ai propri interessi non è sempre un male. Tuttavia, quando il farlo infligge un dolore significativo ad altri, di solito non è giustificato. Un modo quindi per difendere la procreazione, anche se si accetta la mia idea che venire al mondo è sempre un male, sarebbe negare che tale male sia grave – cioè negare la conclusione del capitolo 3. Si potrebbe allora sostenere che il male è controbilanciato dai vantaggi dei genitori e di altri. Ma se si ammette che venire al mondo è un grave male, cosa si potrebbe dire allora in difesa della procreazione? In difesa della liceità della procreazione si potrebbe suggerire
come moralmente significativo il fatto che la maggior parte delle persone che hanno una vita relativamente buona non considerano un male l’essere venuti al mondo. I miei ragionamenti indicano che questa visione potrebbe non essere del tutto razionale, ma ciò, si potrebbe sostenere, non la priva di tutto il suo valore morale. Siccome la maggior parte delle persone che hanno una vita (relativamente) confortevole sono felici di essere venute al mondo, i potenziali genitori sono giustificati nel ritenere che, se avessero dei figli, anche questi la penserebbero allo stesso modo. Dato che non è possibile avere il consenso delle persone a essere messe al mondo prima che ciò accada, questa convinzione potrebbe giocare un ruolo chiave nel giustificare la procreazione. Laddove possiamo presumere che coloro che mettiamo al mondo non saranno dispiaciuti che l’abbiamo fatto, siamo autorizzati, si argomenta, a dare espressione ai nostri interessi procreativi e di altro tipo. Laddove questi interessi possono essere soddisfatti facendo un figlio con una vita relativamente buona o un figlio con una vita relativamente cattiva, sarebbe sbagliato che i genitori mettessero al mondo quest’ultimo, anche se quel figlio non si rammaricherebbe della sua esistenza. Questo perché, se i potenziali genitori devono soddisfare i loro interessi procreativi, devono anche farlo al minor prezzo possibile. Meno è cattiva la vita che mettono al mondo, minore è il costo. Alcuni costi (come nei casi in cui i figli condurrebbero una vita al di sotto della decenza minima) sono talmente elevati da superare in ogni caso gli interessi dei genitori. I casi in cui i figli finiscono per rammaricarsi della loro esistenza sono estremamente tragici, ma quando i genitori non possono ragionevolmente prevederli, procede il ragionamento, non possiamo dire che sbaglino a seguire i loro importanti interessi procreativi. Le cose sarebbero ben diverse, secondo questo modo di ragionare, se la maggioranza o anche una consistente minoranza di persone si rammaricasse di essere venuta al mondo. In questo caso, la suddetta giustificazione per fare figli sarebbe senza dubbio infondata. Ma, visto che la maggior parte delle persone non si rammarica di essere venuta al mondo, il ragionamento fila? In realtà, il ragionamento è problematico (e non solo per i motivi sollevati da
Seana Shiffrin e ricordati nel capitolo 2). La sua forma è stata ampiamente criticata in altri contesti, a causa della sua incapacità di escludere le dannose interferenze nella vita delle persone (come l’indottrinamento) che comportano il successivo sostegno all’interferenza. Sostenere le idee che si è indottrinati a sostenere è una forma di preferenza adattiva – dove un’interferenza arriva a essere sostenuta. Ma vi sono altre forme di preferenza adattiva di cui siamo sospettosi. I beni desiderati che si rivelano inarrivabili possono cessare di essere desiderati (“uva acerba”). È vero anche il contrario. Non è raro che le persone si trovino in circostanze infelici (costrette a nutrirsi di limoni) e adattino le loro preferenze per adeguarle alla situazione139 (“limoni dolci”). Se venire al mondo è un male grave come ho sostenuto, e se questo è un pesante fardello psicologico da sopportare, è ben possibile che siamo impegnati ad ingannarci in massa su quanto le cose ci vadano meravigliosamente. Se è così, potrebbe non avere importanza, al contrario di quanto afferma il ragionamento appena delineato, che la maggior parte delle persone non si rammarichi di essere venuta al mondo. Armati di forti argomenti per sostenere la dolorosità della schiavitù, non prenderemmo le dichiarazioni degli schiavi a favore della loro condizione di schiavitù come una giustificazione, soprattutto se potessimo indicare qualche fenomeno psicologico razionalmente discutibile che spiegasse la soddisfazione degli schiavi.140 Se è così, e se venire al mondo è un male grave come ho sostenuto che sia, allora non dovremmo considerare la soddisfazione diffusa per essere venuti al mondo come una giustificazione per fare figli. A questo si potrebbe obiettare che il dovere di non procreare è una richiesta troppo impegnativa. Non nego che rinunciare alla procreazione sia un fardello – è chiedere molto alle persone, data la loro natura. Ma è chiedere troppo? Ho detto prima che molte persone sarebbero d’accordo che a volte è doveroso non procreare – per esempio nei casi in cui i figli soffrirebbero terribilmente. In questi casi molti sono pronti ad ammettere che fare un figlio sarebbe sbagliato. Ma si noti che il fardello, per coloro che devono rinunciare ad avere una progenie in questi casi, non è più leggero di quello che
affronta qualsiasi potenziale riproduttore umano rinunciando ad avere figli. Se il fardello non è troppo pesante per i primi, non dovrebbe esserlo per gli altri. La differenza si pensa che stia nella qualità della vita dei figli. In altri termini, si pensa che la non procreazione sia richiesta per coloro i cui figli avrebbero una qualità della vita inaccettabilmente bassa, ma che non si possa chiedere una cosa simile a coloro i cui figli sarebbero “normali”. Si noti tuttavia che questo non è un ragionamento sul peso del fardello della non procreazione, ma piuttosto su quando tale fardello possa essere imposto. Io accetterei che si esiga la non procreazione quando la vita dei figli avrebbe una qualità molto povera. Ho infatti sostenuto che tutte le vite rientrano in questa categoria. Quelli che pensano che alcune vite non rientrino in questa categoria non sono equipaggiati (molto) meglio per sostenere l’obiezione che la non procreazione sia una richiesta eccessiva. Costoro infatti devono essere colpiti dal fatto che, quando valutiamo se mettere al mondo qualcuno, non possiamo dire se quella vita sarà una delle poche destinate a non avere una qualità molto bassa. Sembra quindi che chi ammette che venire al mondo è un grave male, e che è doveroso non procreare nei casi in cui i figli soffrirebbero un grave male venendo al mondo, debba accettare che il dovere di non procreare non è una richiesta eccessiva. Se tuttavia mi sbagliassi e fare figli non fosse immorale, i ragionamenti svolti nei capitoli 2 e 3 mostrano almeno che è preferibile non fare figli. Anche se i nostri potenziali discendenti potrebbero non rammaricarsi di essere venuti al mondo, sicuramente non si rammaricherebbero di non essere venuti al mondo. Dato che non è affatto nel loro interesse venire al mondo, il comportamento moralmente auspicabile consiste nell’assicurarsi che ciò non avvenga. L Se è semplicemente preferibile non procreare, potrebbe esserci comunque un diritto a procreare. Vale a dire che si potrebbe essere autorizzati – avere il diritto – a fare ciò che è subottimale.141 Tuttavia, se esiste un dovere di non procreare, sembra che non
possa esservi il diritto a procreare. Non si può essere autorizzati a fare ciò che si è tenuti a non fare. La tesi che vi sia un dovere di non fare figli sembra quindi minacciare il diritto comunemente ammesso alla libertà procreativa.142 È davvero così? Comprendere il presunto diritto Io intendo per diritto alla libertà procreativa il diritto di scegliere se fare figli o meno. Un aspetto di questo diritto – per esempio il diritto di non fare figli – chiaramente non è in contrasto col dovere di non procreare. Se il diritto alla libertà procreativa comprendesse solo questo aspetto, il diritto nel suo complesso non sarebbe in conflitto con il dovere di non fare figli. Il conflitto sorge solo quando il diritto è sia diritto di fare, sia diritto di non fare bambini. Inoltre, io intendo il diritto alla libertà procreativa come diritto negativo – cioè il diritto che non sia vietata la riproduzione (con un partner consenziente) o la non riproduzione. In altri termini, io non lo intendo come diritto positivo di essere aiutati ad avere figli o ad evitare di avere figli. Il problema della riproduzione assistita sarà affrontato nel prosieguo di questo capitolo. Il conflitto fra il dovere di non procreare e il presunto diritto di procreare è nettissimo e inevitabile, laddove il diritto in questione sia un diritto morale (assumendo, come faccio io, che il dovere di non procreare sia un dovere morale). Se fare figli è moralmente sbagliato e c’è quindi il dovere morale di non fare figli, non può esserci il diritto morale di fare figli. Tuttavia questo lascia aperta la questione se ci debba essere il diritto legale di fare figli. Fare figli può essere moralmente sbagliato, ma è comunque possibile che ci debba essere il diritto legale di commettere questo errore. Uno dei tratti distintivi del diritto legale è che concede a qualcuno la libertà di fare ciò che potrebbe essere, o essere considerato, sbagliato. Il diritto legale alla libertà di parola, per esempio, esiste non per proteggere discorsi che tutti considerano buoni e saggi, ma piuttosto per proteggere discorsi che almeno qualcuno considera cattivi e stupidi. Una persona può pensare che si abbia il diritto legale di dire e di fare cose che personalmente lui considera sbagliate. Questo fatto, tuttavia, è insufficiente di per sé a dimostrare che debba esserci il
diritto legale alla libertà procreativa. Questo perché ci sono molti errori che non deve essere legale commettere. Per esempio, non deve esserci il diritto legale di uccidere, rubare o aggredire. La questione, quindi, è se mettere al mondo delle persone sia un errore da vietare legalmente o meno. È questo il problema che mi accingo ad affrontare adesso. Diritto basato sull’autonomia Chiaramente il diritto di fare figli non può essere conseguenza del diritto di non fare figli. Si può avere il diritto di non fare figli senza avere il diritto di farne. Un presunto diritto di procreare potrebbe tuttavia fondarsi in parte su considerazioni che fondano anche il diritto di non procreare. Per esempio, si potrebbe sostenere che l’interesse alla propria autonomia fa aggio sull’interferenza nelle scelte procreative. Questo ragionamento può essere rafforzato notando l’importanza che hanno le decisioni procreative per tante persone. La libertà procreativa tende a essere molto apprezzata, in sé e come mezzo per diventare genitori. Il fatto che una persona si riproduca o meno può avere un impatto profondo sul carattere e sulla qualità della vita (anche se, gravidanza a parte, non è necessario che sia così, se si danno in adozione i figli che si fanno o se si adottano figli che non si sono fatti). Può influire sul senso del sé. (Per esempio, alcune persone si sentono inadeguate se non riescono a produrre figli geneticamente loro.) Fare figli può dare un senso alla vita di alcune persone o avere per loro un valore religioso. È opinione largamente condivisa che tali considerazioni siano sufficienti per giustificare il diritto legale di fare figli. Tuttavia, chi pensa che debba esserci il diritto legale di fare figli, ma accetta anche la conclusione che venire al mondo sia sempre un male, si trova di fronte alla seguente difficoltà. Il diritto legale di avere figli non è un diritto assoluto, ma una netta presunzione in favore dell’avere figli. È nella natura di una presunzione la possibilità di opporvisi. Così un difensore del diritto alla libertà procreativa nota che “chi vorrebbe limitare la scelta procreativa ha il dovere di mostrare che le azioni riproduttive provocherebbero un male così sostanziale da poterle giustificatamente limitare”.143 Questo non è
davvero in discussione. Ma se uno pensa che venire al mondo sia sempre un grave male, allora la presunzione a favore del diritto di procreare è sempre perdente. Ma un diritto che è sempre perdente non è un vero diritto. Anche se si potrebbe sostenere che è un diritto in linea di principio – una presunzione che bisogna controbattere, perfino se viene sempre smentita – tali diritti non sono adeguatamente garantiti dalla legge. Per sostenere che le persone dovrebbero avere il diritto legale di fare figli, bisogna dimostrare senza possibilità di dubbio che dovrebbe esserci una presunzione pratica, e non solo di principio, a scegliere se fare figli. Il problema allora è che un diritto legale smentibile di fare figli non è un candidato credibile a essere un diritto legale se le condizioni della smentita si verificano sempre. Diritto basato sulla futilità Un modo per difendere il diritto legale alla libertà riproduttiva senza negare che venire al mondo sia sempre un male sarebbe il seguente ragionamento. Se il diritto alla libertà riproduttiva fosse sospeso per prevenire il dolore di coloro che verrebbero messi al mondo, lo Stato potrebbe o permettere che le persone esercitino le scelte riproduttive senza averne il diritto, o proibire attivamente la riproduzione. La prima opzione sarebbe inutile. Se sospendere il diritto di fare figli ha lo scopo di prevenire il male che deriva dal mettere al mondo delle persone, perché sospendere il diritto di fare figli e poi permettere alle persone di procreare? Sospendere il diritto dovrebbe quindi comportare la proibizione di fare figli.144 Ma a sostegno del diritto legale alla libertà riproduttiva si potrebbe sostenere che il divieto di procreare semplicemente non funziona. Le persone troverebbero un modo per infrangere la legge. Per farla rispettare, anche solo parzialmente e irregolarmente, lo Stato dovrebbe impegnarsi in un’azione poliziesca molto intrusiva e invadere la privacy dei suoi cittadini. Dato che plausibilmente il coito stesso non dovrebbe e non potrebbe essere proibito in maniera efficace, lo Stato dovrebbe distinguere fra coloro che hanno concepito per volontà e negligenza, e coloro che hanno concepito per caso. In entrambi i casi, lo Stato dovrebbe esigere l’aborto. Bisognerebbe costringere fisicamente chi
non lo volesse ed eseguire aborti forzati. Questa minaccia provocherebbe molto probabilmente gravidanze nascoste, donne che resterebbero incinte e partorirebbero in segreto. Questo, a sua volta, aumenterebbe verosimilmente le malattie e la mortalità legate alla gravidanza e al parto. Questi costi morali sono immensi ed è facile sostenere che non sarebbero controbilanciati dai benefici. In particolare perché i benefici non sarebbero ottenuti se non in parte, la procreazione non sarebbe evitata da una proibizione a fare figli. Questo sarebbe vero per i non massimalisti non consequenzialisti – le cui idee sono le più favorevoli ai diritti – ma anche per i massimalisti consequenzialisti, a seconda dei benefici e dei danni prodotti da un simile scenario. Diritto basato sul disaccordo Nel nostro mondo questo ragionamento sembra sufficiente a giustificare il diritto legale alla libertà riproduttiva e il conseguente diritto legale di fare figli. Tuttavia c’è un’ulteriore obiezione che bisogna considerare e a cui bisogna rispondere. Possiamo senza dubbio immaginare una società in cui la non procreazione sia largamente (se non universalmente) assicurata senza invadere la privacy e senza le intrusioni fisiche or ora descritte. La si avrebbe se si potesse distribuire una sostanza contraccettiva sicura e altamente efficace all’insaputa della popolazione o senza il consenso degli individui – per esempio nell’acqua potabile o mediante diffusione aerea. Uno Stato in cui accadesse ciò eviterebbe l’orrenda immagine di una sorveglianza orwelliana o le sterilizzazioni e gli aborti forzati eccetera. Naturalmente sarebbe comunque una violazione dell’autonomia personale, ma questo come abbiamo visto non è sufficiente a stabilire il diritto legale di fare figli. Cosa si può dire in difesa del diritto alla libertà riproduttiva in una società in cui la procreazione potesse evitarsi in modi così dolci e discreti? L’argomentazione più forte che mi viene in mente, per quanto non priva di serie difficoltà, è la seguente. L’idea che venire al mondo sia sempre un male è fortemente contestata. Anche se questa idea resta corretta, il fatto che goda di un sostegno così scarso è il segno che le persone comuni non concordano con essa.
E dato questo disaccordo sul fatto che una certa azione sia (ingiustificabilmente) dannosa, lo Stato deve garantire alle persone il diritto di scegliere se impegnarsi o meno in tale azione. L’argomentazione rimanda al famoso principio di dannosità. Secondo tale principio, nella sua forma generica, gli Stati possono proibire un’azione solo quando essa danneggi parti non consenzienti. Il principio afferma che i casi in cui le persone comuni non concordano sul fatto che una certa azione sia dannosa o meno non rientrano nell’ambito del principio stesso. Vi sono alcuni casi che sembrano dare sostegno a questa idea. Alcuni potrebbero pensare che l’aborto sia uno di essi. Gli antiabortisti, si potrebbe dire, credono che l’aborto danneggi ingiustificatamente il feto e quindi dovrebbe essere proibito in base al principio di dannosità. Diversi abortisti, ma non tutti, potrebbero osservare che è molto contestato che i feti siano moralmente rilevanti. Perciò, sostengono, dev’esserci il diritto legale ad abortire, anche se l’aborto è moralmente sbagliato. Vi sono tuttavia altri casi che mettono seriamente in discussione il rimando al principio di dannosità. Consideriamo il caso della schiavitù in una società schiavista – o almeno in quel tipo di società schiavista che sostiene la schiavitù in base all’idea che gli schiavi siano destinati per natura a essere schiavi. In una simile società troviamo molte persone convinte che la schiavitù non sia dannosa per gli schiavi. Queste persone potrebbero addirittura credere che la schiavitù sia un bene per gli schiavi. Potrebbero ascoltare gli argomenti di un abolizionista secondo cui la schiavitù danneggia gli schiavi e replicare che le sue affermazioni sono molto contestate e quindi non rientrano nell’ambito del principio di dannosità. Questa conclusione sarebbe prontamente accettata dai difensori della schiavitù, ma è chiaro che né gli abolizionisti di quella società, né noi che abbiamo il vantaggio di una certa distanza temporale o geografica dalla schiavitù resteremmo convinti dal ragionamento. Senza dubbio non dev’esserci il diritto legale di possedere schiavi anche laddove la dannosità della schiavitù è contestata. Questo dimostra che il semplice fatto che la dannosità di un’azione sia contestata non vuol dire che il principio di dannosità non sia
applicabile o che le persone debbano avere il diritto legale di compiere quell’azione. Diritto basato sul disaccordo ragionevole Se l’argomentazione basata sull’applicazione del principio di dannosità vuole riuscire efficace, deve tracciare una distinzione fra le attività la cui dannosità è ragionevolmente contestata e quelle la cui dannosità è contestata simpliciter. Il pretesto del disaccordo, anche fra persone comuni, non è sufficiente a porre limiti al principio di dannosità. È necessario dimostrare che il disaccordo è ragionevole. Ma cos’è che caratterizza un disaccordo ragionevole? Non ci si può accontentare del numero di persone che sostengono idee differenti, perché abbiamo già visto che la maggioranza può sbagliare nello stabilire se un’azione è abbastanza dannosa per vietare il diritto di compierla. Un disaccordo ragionevole non è quindi un disaccordo fra persone comuni – i famosi “uomini della strada”. Perché un disaccordo sia ragionevole, le ragioni a favore di una posizione su un certo argomento non devono essere abbastanza forti rispetto alle ragioni opposte da rendere effettivamente irragionevole (e non solo percepita come tale) una delle due posizioni. Ora questo criterio pone il problema di distinguere fra disaccordi effettivamente irragionevoli e disaccordi che sono solo percepiti come tali. Per capire le ragioni di ciò, consideriamo quanto segue. Io credo che non ci possa essere un disaccordo ragionevole sul fatto che ridurre le persone in schiavitù è male, ma molte persone nelle società dove la schiavitù è ed era praticata non sono d’accordo. Mi piacerebbe pensare che la loro prossimità alla schiavitù obnubila o obnubilava il loro giudizio sulla sua crudeltà e che la mia percezione sia quindi meno distorta. Naturalmente la prossimità a una norma sociale non sempre acceca le persone. Ci sono e c’erano abolizionisti nelle società schiaviste. E molti di noi (ma non abbastanza), nati e cresciuti nel Sud Africa dell’apartheid senza esserne direttamente vittime, non pensavano che ci potesse essere un disaccordo ragionevole sul fatto che il razzismo dell’apartheid era sbagliato. Consideravamo i nostri avversari, i difensori dell’apartheid, manifestamente irragionevoli, accecati com’erano. Consideriamo poi
un caso attualmente più controverso. Io non credo che ci possa essere un disaccordo ragionevole sul fatto che il trattamento crudele inflitto a miliardi di animali allevati e uccisi per il consumo umano sia sbagliato. Ho attentamente considerato gli argomenti filosofici contrari e hanno tutti gli attributi delle vecchie, disperate difese del razzismo. Chiaramente, però, i filosofi e gli altri che difendono l’alimentazione carnivora non sono d’accordo con me. Abbiamo percezioni diverse sul fatto che il disaccordo sia ragionevole o meno. Come determinare se è effettivamente ragionevole? Quanto precede non vuol dire che io consideri irragionevoli tutti coloro che non sono d’accordo con me su un argomento qualsiasi. Per restare sul tema, non posso dire, a dispetto di tutte le mie argomentazioni, che chi nega che venire al mondo sia sempre un grave male sia irragionevole. Penso che sbagli. Ma, finché la mia posizione non viene adeguatamente messa alla prova contro le migliori obiezioni, non si può stabilire se la mia tesi sia di quelle a proposito delle quali le persone ragionevoli possono essere in disaccordo o di quelle con cui è irragionevole non concordare (o, perché no? anche concordare!). Ho mostrato che il diritto legale alla libertà riproduttiva è ben giustificato nel nostro mondo, dove l’alternativa comporta spaventose invasioni della privacy e intrusioni fisiche da parte dello Stato. Il mio istinto liberale è turbato dal caso di una società dove ogni procreazione (o quasi) potrebbe essere evitata senza tali costi grazie a una contraccezione involontaria e impercettibile.145 In questo caso, la miglior difesa del diritto alla libertà riproduttiva è l’affermazione che potrebbe esserci un disaccordo ragionevole sul fatto che venire al mondo sia un grave male. Se si chiarisce che non è possibile un disaccordo ragionevole rispetto all’idea che venire al mondo sia sempre un grave male, bisognerebbe interrogarsi ulteriormente sul diritto legale alla libertà riproduttiva. Chi sospetta dell’interferenza dello Stato nella libertà personale resterà turbato. L’unico sollievo in questo caso è che appare assai improbabile che i governi liberali si precipitino a bandire ogni procreazione senza prove più che schiaccianti in favore di un simile bando. I governi
saranno pesantemente disincentivati a proibire ogni procreazione,146 al contrario di molte altre restrizioni alla libertà individuale, tanto che risulta assai improbabile che una proibizione generalizzata verrà mai messa in atto. È ancora meno probabile che i governi adottino prematuramente una simile proibizione. È molto più probabile che conservino a lungo il diritto di procreare anche dopo che la ragionevolezza di una simile posizione fosse svanita (se effettivamente svanirà). Questo ritardo nell’abbandono del diritto legale alla procreazione può essere fonte di rammarico, ma forse meno dell’alternativa, cioè dell’abbandono prematuro di un tale diritto. C’è quindi, per ora, una forte spinta a riconoscere il diritto legale alla libertà riproduttiva. Posso immaginare circostanze in cui questa spinta verrebbe meno, ma a causa dei forti pregiudizi contro l’idea che venire al mondo sia un male, ci vorrebbe una vera catastrofe perché uno Stato rispettoso dei diritti sospendesse quello di riprodursi. Se le cose fossero così chiare, la perdita di un tale diritto non dovrebbe suscitare rammarico. In realtà, tale perdita nelle società liberali smetterà di provocare rammarico ben prima che il diritto venga perduto – se mai verrà perduto in una società che resti liberale. Nel frattempo, possiamo difendere il diritto legale di fare figli anche se pensiamo che vi sia il dovere morale di non mettere al mondo nuove persone. Che il diritto legale alla libertà riproduttiva si possa difendere, almeno per il momento, non comporta che debba conservare gli attuali parametri e l’attuale importanza. È curioso quanto sia ampio e forte questo diritto in molte legislazioni. Provocare o rischiare di fare del male nel contesto riproduttivo è spesso consentito in una misura che non sarebbe tollerata in altri contesti. Consideriamo per esempio una persona che sia portatrice o che soffra di una grave malattia genetica (come quella di Tay-Sachs o quella di Huntington) o di una malattia infettiva (come l’AIDS). Perlomeno in alcune circostanze (o, nel caso della malattia di Huntington, in tutte le circostanze), i figli di questa persona hanno un’altissima probabilità di essere ammalati – venti o venticinque per cento nel caso dei problemi genetici e
qualcosa di simile nelle malattie infettive come l’AIDS. Laddove molte società normalmente non tollererebbero un comportamento che metta altre persone a rischio di un male così serio, c’è spesso una notevole tolleranza della condotta riproduttiva che provoca questo tipo di rischi e di danni. A volte, come ho detto sopra, c’è una buona ragione per questo. Per esempio quando non possiamo stabilire la responsabilità di una persona, perlomeno senza problematiche invasioni della privacy. Sapeva di essere portatrice di una imperfezione genetica? Sapeva di essere sieropositiva? Hanno usato ragionevoli misure contraccettive? Queste incertezze spesso rendono difficile criticare, tanto meno sanzionare penalmente, una condotta riproduttiva irresponsabile. A meno che non si voglia applicare una rigorosa responsabilità, vi sono problemi simili con l’azione civile. Tuttavia la tolleranza e anche la difesa di comportamenti riproduttivi a rischio e dannosi va oltre. Si ritiene sbagliato proibire, prevenire, ostacolare e a volte addirittura scoraggiare una riproduzione dannosa chiaramente colpevole anche quando lo si potrebbe fare senza invadere la privacy. Dato che non ci sono ragioni intrinseche per trattare il male provocato dalla riproduzione in maniera diversa da un male simile provocato con altri mezzi, dovremmo essere disposti a riconsiderare i limiti della libertà riproduttiva. Dati i pregiudizi in favore della libertà riproduttiva, potrebbe essere utile, nel considerare se una pratica riproduttiva a rischio debba essere protetta dal diritto alla libertà riproduttiva, chiederci se penseremmo che correre quel rischio di provocare danni dovrebbe essere permesso in contesti non riproduttivi. Se non pensiamo che dovrebbe essere permesso, allora non dovremmo giudicarlo ammissibile neanche nel contesto della riproduzione. Un campione della libertà del calibro di John Stuart Mill sosteneva che dovrebbero esserci alcune restrizioni al diritto di riprodursi. Egli scrive delle persone che fanno figli senza poterli mantenere, ma i suoi argomenti hanno una validità più generale. Condanna il gran numero di “scrittori e conferenzieri, fra cui molti che si riempiono la bocca di nobili sentimenti, la cui visione della vita è talmente brutale
che considerano difficile impedire ai miserabili di generare altri miserabili nell’ospizio stesso”.147 Sostiene che lo Stato può avere il dovere di dar da mangiare ai poveri, ma “non può assumersi impunemente il compito di nutrirli, e lasciarli liberi di moltiplicarsi”.148 Dice quindi più avanti che è “evidentemente giustificata la trasformazione in obbligo legale dell’obbligo morale di non mettere al mondo bambini che sono un fardello per la comunità”.149 Queste sono parole dure, che mal si sposano con i liberali disposti all’indulgenza nei confronti delle persone che assumono comportamenti riproduttivi troppo irresponsabili. Questa preoccupazione non è del tutto infondata. C’è il pericolo che il divieto selettivo sia applicato agli esclusi, mentre i potenti non rispettano i medesimi criteri.150 Ma non proibire la riproduzione più dannosa ha un costo. Questo, ovviamente, è il male inflitto a coloro che nascono di conseguenza. Sicché il modo più appropriato per affrontare la condotta riproduttiva più a rischio e più dannosa è di proibirla, laddove sia ragionevole farlo, verificando i possibili pregiudizi che intervengono nel processo deliberativo che porta a tale proibizione. D Benché molte persone siano riluttanti a limitare il diritto alla libertà riproduttiva, c’è un accordo condiviso che a volte sia moralmente sbagliato fare figli. Si considera comunemente (anche se non universalmente) sbagliato mettere al mondo consapevolmente o negligentemente persone che avranno menomazioni gravi come la cecità, la sordità o la paraplegia. Le vite dei disabili gravi sono ritenute indegne di cominciare. Qualcuno si è spinto a suggerire che chi viene messo al mondo colpevolmente con tali patologie dovrebbe poter fare causa per “vita sbagliata”.151 Distinzione fra l’obiezione della non-identità e quella dei diritti dei disabili All’inizio del capitolo 2 ho preso in considerazione un’obiezione alla tesi che le persone la cui vita è inseparabile dalle loro gravi menomazioni siano danneggiate dal venire al mondo. La sostanza di questa obiezione è il problema della non-identità. Questa obiezione,
che ho sostenuto si possa superare, va distinta da un’altra obiezione che affronto ora. L’obiezione della non-identità non nega che la vita con gravi menomazioni sia un male. Anzi dà per scontato che lo sia. Il problema sorge perché, anche se una tale vita è male, si presume che sia impossibile affermare che sia peggiore dell’alternativa, cioè del non venire al mondo, e quindi che sia impossibile affermare che è dannoso dare inizio a una simile vita. L’obiezione che prenderò in esame ora – l’obiezione dei diritti dei disabili – è diversa. Essa mette in discussione l’assunto stesso del problema della non-identità. Tale obiezione può assumere varie forme. Nella sua forma più audace, essa nega che le menomazioni (o almeno alcune di esse) siano un male. Nella sua forma più moderata nega che le menomazioni siano un male sufficiente a rendere le vite con tali menomazioni indegne di cominciare. Ne consegue che i vari tentativi di impedire che le persone menomate vengano al mondo, compreso lo screening genetico prima del concepimento, per non dire l’aborto, sono sbagliati. Più precisamente, si sostiene che tali tentativi esprimono un giudizio negativo sulle persone con disabilità e sul valore della loro vita. Ora spiegherò questa obiezione dei diritti dei disabili e mostrerò come i miei argomenti offrano un sorprendente e inusitato sostegno all’obiezione, mentre la smontano. Nel discutere l’obiezione dei diritti dei disabili, mi concentrerò su menomazioni serie, ma non sulle più gravi. L’obiezione dei diritti dei disabili sarebbe molto implausibile in casi come la malattia di TaySachs o quella di Lesch-Nyhan, talmente gravi che cessare di esistere è chiaramente nell’interesse di chi ne soffre. Dire di tali vite che sono degne di cominciare o, peggio ancora, che non sono affatto un male, sarebbe un estendere la credulità oltre ogni ragionevole limite. Né prenderò in considerazione le menomazioni minori, come il daltonismo, che molte persone concordano nel non ritenere gravi. Mi concentrerò invece su menomazioni come l’impossibilità di vedere, di sentire o di camminare. Queste sono menomazioni spesso viste con orrore (a volte muto) da parte di coloro che non ne soffrono. Naturalmente anche coloro che invece ne soffrono preferirebbero non averle.152 Tuttavia, posti di fronte alla
scelta fra non venire al mondo e venirci con la menomazione, la maggior parte di loro sceglierebbe di venire al mondo con la menomazione. E ancor più numerosi sono coloro che hanno una di queste menomazioni e preferirebbero continuare a vivere con la menomazione che smettere di vivere. Questa preferenza si contrappone nettamente a quella di coloro che, senza menomazioni, dicono che preferirebbero morire piuttosto che essere menomati in quel modo. Quest’ultima preferenza è curiosa, dato che raramente sopravvive all’acquisizione della menomazione. La maggior parte di coloro che dicono che preferirebbero morire che avere una menomazione come la paraplegia e poi diventano menomati cambia idea sulla preferibilità della morte. Dovrebbe essere chiaro, allora, perché le menomazioni serie ma non gravissime sono il luogo di maggior dibattito e sono quindi l’ambito su cui concentrarsi. L’argomento della “costruzione sociale della disabilità” Un’argomentazione molto fraintesa avanzata dai difensori dei diritti dei disabili afferma che la disabilità è una “costruzione sociale” – cioè è l’organizzazione della società che rende le persone disabili. Coloro che sentono questa affermazione la scartano troppo rapidamente. Danno per scontato che sia evidentemente falsa. Il fatto che uno non possa vedere, sentire o camminare, dicono, non è una costruzione sociale, è un fatto del tutto indipendente dalla società. Questa risposta fraintende l’argomentazione, che non dice che l’organizzazione sociale rende le persone cieche, sorde o incapaci di camminare. Il ragionamento invece sostiene che si deve tracciare una linea fra inabilità e disabilità.153 Un cieco è inabile a vedere, un sordo è inabile a sentire e un paraplegico è inabile a camminare. Queste inabilità diventano disabilità solo in certi contesti sociali. Così, per esempio, laddove gli edifici non hanno accessi per sedie a rotelle gli inabili a camminare sono disabili rispetto all’accesso agli edifici. Tuttavia, dove gli edifici sono accessibili alle sedie a rotelle i paraplegici non hanno tale disabilità. I sostenitori dei diritti dei disabili potrebbero osservare che tutti hanno delle inabilità. Nessun essere umano ha l’abilità di volare (senza l’aiuto di macchine), ma questo fatto non rende disabili coloro che sono privi
di ali, perché gli edifici sono resi accessibili a chi non vola grazie ad accessi al piano terra e scale, rampe o ascensori. Non ci pensiamo perché essere senza ali è la norma, per gli esseri umani. Se la maggior parte delle persone avesse le ali, e pochi ne fossero privi, quei pochi sarebbero disabili a meno che non venissero presi provvedimenti apposta per loro. La ragione quindi per cui chi ha delle menomazioni è disabile, e in effetti è disabile, non è il fatto che ha qualche inabilità, ma piuttosto che la società è strutturata in un modo che esclude le persone con quella inabilità. In conclusione, non è il fatto che i ciechi non possano vedere o i sordi non possano sentire a renderli disabili e quindi a rendere peggiori le loro vite. È invece il fatto che la società non si adegua alle loro particolari inabilità. In altri termini, ciò che rende la vita dei ciechi o dei sordi peggiore è il contesto sociale discriminatorio in cui si trovano. L’argomento “espressivista” Questo argomento della “costruzione sociale della disabilità” offre sostegno a un altro argomento a favore dei diritti dei disabili, quello detto “espressivista”.154 Secondo l’argomento espressivista, i tentativi di impedire che le persone con menomazioni vengano al mondo sono discutibili perché esprimono un messaggio inappropriato e offensivo. È il messaggio che le vite inseparabili dalle menomazioni non siano degne di cominciare e che non debbano più esserci persone la cui esistenza è inseparabile da tali menomazioni. Questo messaggio, si dice, perpetua pregiudizi sul valore delle vite di coloro che sono privi della vista, dell’udito o dell’uso delle gambe, per esempio. Per capire meglio perché l’argomento della costruzione sociale della disabilità offre un sostegno all’argomento espressivista, consideriamo la discriminazione razziale. Benché la razza non costituisca un’analogia perfetta,155 c’è qualche somiglianza fra discriminazione razziale e discriminazione basata sulle inabilità. Per esempio, i neri sono spesso penalizzati dal colore della loro pelle, ma non per qualche proprietà intrinseca del colore della loro pelle, bensì come risultato di ostacoli che determinate società pongono ai neri. È ampiamente riconosciuto che la risposta corretta a questa
disabilità è la rimozione degli ostacoli, e non la proposta che non nascano più bambini neri. Nella misura in cui le disabilità dei menomati sono costruzioni sociali, la risposta corretta a queste disabilità è la rimozione degli ostacoli e non la proposta di evitare che ci siano persone con quelle menomazioni. Risposte agli argomenti dei diritti dei disabili Questi argomenti costituiscono una obiezione formidabile alle normali valutazioni della qualità della vita e ai giudizi su quali vite siano indegne di cominciare. Non prenderò in considerazione le varie risposte che sono state date, perché tutte queste risposte danno per scontato che la vita senza menomazioni sia degna di cominciare. (Tali vite sono state definite addirittura “perfette”156 e io ho sostenuto che nessuna vita reale si avvicina a questa descrizione.) Mostrerò invece come la mia tesi che venire al mondo sia sempre un grave male supporta la posizione a favore dei diritti dei disabili contro i suoi avversari mostrando che sia questa posizione sia la posizione contraria sono sbagliate. Un punto di forza dell’argomento della “costruzione sociale della disabilità” è che sottolinea il fatto che gli esseri umani hanno normalmente delle inabilità che non vengono notate nella maggior parte delle affermazioni sulla qualità della vita. In parte questo si spiega con l’ovvio fatto che ciò che è insolito in generale si nota più di ciò che è solito. In questo caso particolare, ciò accade in parte perché la società, prevedibilmente, tende a strutturarsi in un modo adeguato alle normali abilità e inabilità. Solo se viene riservata un’attenzione particolare a inabilità insolite, queste vengono risolte. Ma ciò non esaurisce la spiegazione. Come abbiamo visto nel capitolo 3, molti tratti della nostra psicologia – tra cui il pollyannismo, l’adattamento alle disgrazie e il confronto fra la propria vita e quella degli altri – cospirano a farci credere che la nostra vita sia molto migliore di quanto è in realtà. Siamo quindi ciechi agli aspetti negativi della nostra vita. Ora possiamo vedere che questo problema è più grave, per certi versi, per chi ha inabilità insolite. Non solo la struttura sociale non tiene conto di queste inabilità, ma non vi sono neanche altre persone senza queste inabilità con cui possano
confrontarsi o che vogliano confrontarsi con loro.157 I sostenitori dei diritti dei disabili hanno ragione a notare che le inabilità normali sono ignorate nella valutazione della qualità della vita. Si sbagliano tuttavia nel prendere quella risposta alle inabilità normali come lo standard e nel voler ignorare anche le inabilità insolite. La discussione svolta nel capitolo 3 mostra invece che dovremmo considerare tutte le inabilità nel valutare la qualità delle vite. È vero che il contesto sociale minimizza l’impatto delle inabilità comuni sulla qualità della vita, ma molte di loro hanno comunque un impatto. I paraplegici potranno aver bisogno di accessi speciali ai mezzi pubblici, ma l’inabilità di tutti di volare o di percorrere lunghe distanze a grande velocità significa che anche chi può usare le gambe ha bisogno dei mezzi di trasporto. La nostra vita senza dubbio è meno felice a causa di questa dipendenza. La nostra vita è meno felice anche perché siamo soggetti a fame e sete (cioè incapaci di andare avanti senza cibo e acqua), caldo e freddo e così via. In altri termini, anche se la disabilità è una costruzione sociale, le inabilità e gli altri tratti infelici che caratterizzano normalmente la vita umana sono sufficienti a rendere la nostra vita molto infelice – molto più di quanto riconosciamo di solito. La disabilità socialmente costruita rende alcune vite ancora più infelici e senza dubbio dobbiamo unirci ai sostenitori dei diritti dei disabili per cercare soluzioni ragionevoli che minimizzino o eliminino tali disabilità. Ma questo non sarà sufficiente a rendere nessuna vita degna di cominciare. I sostenitori dei diritti dei disabili osservano anche, giustamente, che i giudizi sulla qualità della vita differiscono piuttosto notevolmente fra coloro che hanno delle menomazioni e coloro che non ne hanno. Molti di coloro che sono privi di menomazioni tendono a pensare che una vita con menomazioni non sia degna di cominciare (e forse neanche di continuare), laddove molti che hanno menomazioni tendono a pensare che una vita con quelle menomazioni sia degna di cominciare (e sicuramente sia degna di continuare). Certo sembra che vi sia qualcosa di interessato nel punto di vista dominante. Esso pone convenientemente la soglia
perché una vita sia degna di cominciare al di sopra di quella dei menomati, ma al di sotto della normale vita umana. Ma è forse più disinteressato il fatto che i menomati pongano la soglia appena al di sotto della qualità delle loro vite? I sostenitori dei diritti dei disabili affermano che la soglia che secondo il giudizio dei più garantisce una qualità della vita minimamente decente è troppo alta. Ma il fenomeno dei giudizi discrepanti è compatibile con l’affermazione che la soglia sia normalmente posta troppo in basso (sì che almeno qualcuno possa superarla). L’idea che sia posta troppo in basso è la valutazione che possiamo immaginare farebbe un extraterrestre con una vita favolosa, priva di sofferenze e di difficoltà. Egli guarderebbe con pietà la nostra specie e vedrebbe le delusioni, l’angoscia, il dolore, la sofferenza che segnano tutte le vite umane, e giudicherebbe la nostra esistenza come noi (umani senza menomazioni insolite) giudichiamo l’esistenza dei tetraplegici costretti in un letto peggiore dell’alternativa di non essere mai venuti al mondo. Il nostro giudizio su ciò che costituisce un limite accettabile alla sofferenza è profondamente influenzato dai fenomeni psicologici che ho descritto nel capitolo 3. È quindi un giudizio inaffidabile. Tuttavia non è solo il giudizio più diffuso a essere inaffidabile. Anche i giudizi dei menomati sono inaffidabili. I ragionamenti che ho sviluppato nel capitolo 3 mostrano che tutte le vite sono molto peggiori di quanto crediamo e che nessuna delle nostre vite è degna di cominciare. La conclusione ha un’interessante conseguenza per l’argomento espressivista. Si ricorderà che secondo l’argomento espressivista i tentativi di evitare di mettere al mondo persone con menomazioni esprimerebbero l’idea offensiva che non debbano esserci persone del genere e che vite del genere non siano degne di cominciare. In un certo senso, la mia conclusione semplicemente amplia il messaggio “offensivo”, applicandolo a tutti. Io mi unisco quindi ai critici dell’argomento espressivista, concordo con loro che le vite con menomazioni sono indegne di cominciare, ma lo faccio in un modo che piacerà a tali critici. Perché io nego che qualsiasi vita sia degna di cominciare. Curiosamente, tuttavia, questo potrebbe rendere la mia idea meno offensiva per gli attivisti dei diritti dei disabili. Che
abbia o meno questo effetto dipenderà dal fatto se il carattere offensivo di questo messaggio si fonda sul giudizio interessato, esclusivo o moralistico “noi siamo OK e voi no”. Se questa è la base dell’offesa, allora la mia idea, per quanto dica che più vite sono indegne di cominciare, sarà meno offensiva per i menomati. Io infatti parlo non solo della loro vita, ma della vita di tutti, compresa la mia. Il messaggio che non dovrebbero più esserci vite come la propria non è una minaccia personale come ritengono alcune persone. Per capirne il motivo, consideriamo di nuovo la distinzione che ho tracciato nel capitolo 2 fra casi della vita futura e casi della vita presente. I giudizi che noi diamo sui casi della vita futura – giudizi sul fatto che le vite siano degne di cominciare o meno – sono (e dovrebbero essere) su un piano diverso rispetto ai giudizi sui casi della vita presente – giudizi sul fatto che le vite siano degne di continuare o meno. Dire che un’altra vita quantitativamente simile alla propria è indegna di cominciare non equivale (necessariamente) a dire che la propria vita è indegna di continuare. Né riduce il valore che la propria vita ha per una persona. Naturalmente equivale a dire che sarebbe meglio se la propria vita non fosse cominciata, ma questa è una minaccia solo se si considera la propria non-esistenza dal punto di vista della propria esistenza. Detto altrimenti, equivale a considerare una decisione di vita futura sulla propria vita da una prospettiva di vita presente. E questo è un errore. Significa non considerare davvero il caso controfattuale in cui non si esiste (ancora) e quindi non si ha alcun interesse a venire al mondo. Vita sbagliata Considerando solo i ragionamenti svolti nei capitoli 2 e 3, potrebbe sembrare che chiunque, non solo chi è vittima di una grave menomazione, dovrebbe poter fare causa per vita sbagliata. Ma ho già sostenuto in questo capitolo che (almeno per ora) dovrebbe sussistere il diritto (legale) alla libertà procreativa. Anche se questo diritto dovrebbe essere smantellabile, non può essere abbattuto come se niente fosse senza annientare i fondamenti della sua esistenza. Se è così, allora dovrebbe sussistere il diritto legale a fare figli che ci si può ragionevolmente aspettare abbiano vite
relativamente buone. Se l’argomento a favore di tale diritto è forte, la possibilità che chiunque faccia causa per vita sbagliata si indebolisce. Ma non è del tutto esclusa. Si potrebbe ancora sostenere che, sebbene le persone debbano avere il diritto di fare figli, non dovrebbe essere possibile citarle in giudizio se quei figli fossero infelici di essere stati messi al mondo. Ma questo sarebbe difficile da sostenere. Perché una causa per vita sbagliata stia in piedi dovrebbero esserci prove che l’imputato ha agito irresponsabilmente, ma sarebbe arduo trovarle finché il sostegno al diritto legale di fare figli non sarà crollato. Ricordiamo che la correttezza di un tale diritto si fonda in ultima istanza sulla possibilità di un disaccordo ragionevole. Questo per quanto riguarda le cause per vita sbagliata da parte di persone con vite relativamente buone. E se coloro che hanno menomazioni potessero fare causa per vita sbagliata a coloro che li hanno colpevolmente messi al mondo in quelle condizioni? Il fondamento di queste cause poggia sull’idea plausibile che se una persona fa dei figli, dovrebbe fare figli con vite felici piuttosto che figli con vite infelici. Gli argomenti a favore dei diritti dei disabili mostrano che chi non ha menomazioni tende a sovrastimare l’infelicità della vita dei menomati. Ora, evidentemente, chi fa causa per vita sbagliata non ritiene che la qualità della propria vita sia sovrastimata. Tuttavia le cause per vita sbagliata sono spesso intentate in nome di coloro che non sono in grado di intentare un processo. C’è il pericolo reale, in questi casi, che giudici e giurati non menomati158 giudichino secondo i loro inaffidabili criteri. Anche laddove una persona fa causa per la propria vita sbagliata, è probabile che giudici e giurie simpatizzino, in forza dei loro pregiudizi, con il suo punto di vista, anche dove diverge da altri con disabilità simili. Qualcuno potrà non considerare tutto ciò un problema, prendendo la valutazione di una persona sulla qualità della propria vita come decisiva. In questo caso, il punto di vista di altre persone menomate può essere considerato irrilevante. Tuttavia, siccome in una causa per vita sbagliata bisogna dimostrare che la parte colpevole è stata irragionevole, il punto di vista di altre persone con le stesse
caratteristiche è rilevante. Se le cause per vita sbagliata devono essere ammesse solo nei casi di sofferenza eccezionale, la valutazione di ciò che costituisce una qualità della vita insolitamente bassa non può essere idiosincratica. Gli argomenti a favore dei diritti dei disabili pongono un altro problema alle cause per vita sbagliata. Se le vite con menomazioni sono solo leggermente peggiori delle altre, potrebbero non essere abbastanza infelici da distinguersi rispetto alle vite normali ai fini del processo. In effetti potrebbero esserci vite senza impedimenti fisici o psicologici che sono peggiori di vite con menomazioni. Una vita di estrema povertà, per esempio, può essere peggiore della vita di un cieco che abbia accesso a risorse ragionevoli. La vita di un paraplegico soddisfatto e felice può avere una qualità superiore alla vita di un atleta insoddisfatto e infelice. Nonostante le preoccupazioni suddette, le cause per vita sbagliata potrebbero avere un senso. Per esprimere un giudizio, dovremmo fare attenzione agli errori appena menzionati. Possiamo immaginare tuttavia vite di tale immensa sofferenza – sofferenza che avrebbe dovuto essere prevista ed evitata se non fossero intervenute malizia o negligenza – che le cause per vita sbagliata siano perfettamente logiche. R Passo ora dalle questioni sulla disabilità e la vita sbagliata alle questioni sulla riproduzione assistita e artificiale, rispetto alle quali i ragionamenti svolti nei capitoli 2 e 3 rivestono qualche importanza. Le espressioni “riproduzione assistita” e “riproduzione artificiale” sono spesso usate come intercambiabili, ma non lo sono. Riproduzione artificiale indica una riproduzione con metodi diversi dal coito.159 L’idea qui è che il coito è il metodo naturale per unire ovulo e sperma. Se lo sperma e l’ovulo si uniscono con altri metodi, la riproduzione è artificiale e non naturale. L’inseminazione artificiale quindi è artificiale perché l’inseminazione avviene mediante un artefatto e non una parte del corpo (naturale). Anche la fecondazione in vitro, seguita dall’impianto dell’embrione, in base a questo criterio è artificiale. Così la clonazione, che non comporta
alcuna unione di ovulo e sperma ed è ottenuta con un intervento tecnologico. La riproduzione assistita, come indica l’espressione, riguarda i casi in cui chi si riproduce è assistito nella sua attività riproduttiva. Benché molti casi di riproduzione artificiale siano anche casi di riproduzione assistita, che lo siano tutti dipende da cosa si intende per assistita. Una coppia che si riproduce mediante inseminazione artificiale non ha bisogno di alcuna assistenza, a meno che non si consideri il seme impiantato una forma di assistenza significativa. Ci sono anche casi possibili di riproduzione assistita che non sono casi di riproduzione artificiale. Il trattamento della disfunzione erettile, per esempio, potrebbe essere considerato un’assistenza alla riproduzione (pur avendo altri fini), ma non rientra nell’ambito della riproduzione artificiale comunemente intesa. Etica riproduttiva ed etica sessuale Alcune persone giudicano immorale la riproduzione artificiale perché pensano che l’unico modo accettabile di concepire un figlio è tramite l’espressione sessuale dell’amore reciproco nell’ambito di un matrimonio. Non è sufficiente, secondo questa idea, che i riproduttori siano sposati fra loro, si amino e tentino di riprodursi per esprimere il loro amore. Il reciproco amore della coppia, espresso sessualmente, dev’essere la causa diretta del concepimento del bambino. Non capisco come si possa sostenere adeguatamente quest’ultimo punto. Cosa c’è di tanto importante nell’espressione sessuale dell’amore che sia la condizione necessaria per rendere eticamente accettabile il concepimento di un bambino? Idem per l’idea che la riproduzione debba essere sessuale – quella che potremmo chiamare “idea sessuale dell’etica riproduttiva”. Molti di coloro che accettano questa idea, accettano la condizione opposta: che i rapporti sessuali debbano essere procreativi. Possiamo chiamarla “idea riproduttiva dell’etica sessuale”. In base a questa idea, il sesso è moralmente accettabile solo se è finalizzato alla riproduzione. Questo non vuol dire che tutti gli atti sessuali che producono un bambino siano accettabili. Stupro e adulterio, per esempio, possono produrre una prole, ma chiaramente non
sarebbero moralmente accettabili. La possibilità riproduttiva è una condizione necessaria ma non sufficiente perché il sesso sia accettabile. L’idea riproduttiva dell’etica sessuale non dice che tutti i coiti che non hanno come risultato un figlio siano sbagliati. Molti tentativi di riproduzione sessuale semplicemente falliscono. Invece l’idea riproduttiva dell’etica sessuale afferma che un atto sessuale debba essere di tipo riproduttivo. Questa esigenza esclude il sesso non coitale, compresi quello orale e quello anale. Curiosamente, e inspiegabilmente, si ritiene che non escluda il coito all’interno di un matrimonio in cui uno dei partner sia sterile. Ricordo queste posizioni perché hanno molti sostenitori e perché il mio ragionamento vi contrappone un’obiezione insolita, capovolgendo l’idea riproduttiva dell’etica sessuale. La maggior parte di coloro che rifiutano l’idea riproduttiva lo fanno perché pensano che il sesso non debba necessariamente comportare una possibilità riproduttiva per essere moralmente accettabile. Il mio ragionamento giunge a una conclusione molto più forte – perché il sesso sia moralmente accettabile non deve essere riproduttivo. In altri termini, il sesso può essere moralmente accettabile solo se non è riproduttivo. Potremmo chiamare ciò l’“idea anti-riproduttiva dell’etica sessuale”. Per chiarezza: questa idea non afferma che ogni forma di sesso non riproduttivo sia moralmente accettabile. La non riproduzione è una condizione necessaria ma non sufficiente. Né sostiene che il coito sia sbagliato, ma solo che sono sbagliati i coiti in cui non si previene la procreazione. Ma cosa vuol dire che “non si previene” la procreazione? Si può fare riferimento ai casi in cui non viene usata alcuna contraccezione, o ne viene usata una inadeguata, col risultato che viene messa al mondo una nuova persona. Si fa riferimento anche ai casi in cui è stato usato un metodo contraccettivo affidabile, ma che in qualche caso non ha funzionato? Sembra difficile ritenere le persone responsabili degli esiti possibili, ma molto rari, delle loro azioni. Guidare una macchina è sbagliato perché i miei freni potrebbero rompersi e un pedone potrebbe morire, o sono responsabile solo se non faccio la revisione della macchina e perciò perdo il controllo e uccido un pedone? Il problema dei rari casi in cui la contraccezione non funziona
sarebbe più pressante se il male di venire al mondo venisse inflitto nel momento del concepimento. Invece, come sosterrò nel prossimo capitolo (sull’aborto), questo è un modo sbagliato di individuare il male di venire al mondo. Il fallimento della contraccezione lascia comunque aperta la possibilità dell’aborto. Vi sono regioni del mondo, naturalmente, dove le possibilità di aborto sono limitate. In questi casi il dovere di prevenire il concepimento sarebbe più grande, ma se esso avviene a dispetto delle cautele, sarebbero gli anti-abortisti ad avere la responsabilità morale di aver portato al mondo una nuova persona. Per sintetizzare i paragrafi precedenti, io rifiuto sia l’idea sessuale dell’etica riproduttiva, sia l’idea riproduttiva dell’etica sessuale. Lo faccio in modo insolito – mediante un’idea anti-riproduttiva sia dell’etica riproduttiva che dell’etica sessuale – anziché con le solite obiezioni, che potremmo chiamare “idea naturale”. (Vedi tabella 4.1 e 4.2.)
Se è sbagliato mettere al mondo nuove persone, non fa alcuna differenza se le si mette al mondo sessualmente o in altro modo. E se mettere al mondo nuove persone è sbagliato, il sesso che produce figli è sbagliato. La tragedia della nascita e la morale della ginecologia160 L’idea anti-riproduttiva dell’etica riproduttiva non riguarda solo coloro che si stanno riproducendo, ma chiunque potrebbe assisterli. In altri termini, il mio ragionamento pone una sfida alla medicina
dell’infertilità e a coloro che la praticano. Più precisamente, il mio ragionamento indica che è sbagliato aiutare qualcuno a infliggere a una persona il male di far venire al mondo. Non ne segue che fornire cure contro l’infertilità debba essere illegale. Se dev’esserci un diritto negativo alla libertà riproduttiva, l’interferenza dello Stato o di altri con i tentativi di una persona di cercare assistenza per la fertilità, o con la volontà di un’altra persona di fornirli, dev’essere vietata. Questo non vuol dire che gli specialisti in fertilità non sbaglino ad aiutare a mettere al mondo nuove persone. Vuol dire solo che dovrebbero avere la libertà legale di farlo. Questa libertà deriva dai diritti negativi alla libertà riproduttiva dei loro pazienti. Tuttavia, un diritto legale negativo a non essere ostacolati nel cercare assistenza per riprodursi non è il fondamento di un diritto legale o morale positivo a tale assistenza. Né sembra che si possa giustificare tale diritto altrimenti, se il mio ragionamento è solido. Le persone quindi non dovrebbero poter chiedere, come loro diritto, che un medico con l’esperienza adeguata fornisca assistenza per mettere al mondo nuove persone. Né possono chiedere allo Stato di fornire risorse per tale servizio o per la ricerca sottostante. Lo Stato non dovrebbe affatto fornire tali risorse. Anche laddove le risorse non sono limitate, lo Stato non deve contribuire al male. Dove le risorse sono limitate, devono essere destinate a prevenire e ad alleviare il dolore anziché a provocarne. T Vi sono stati alcuni casi in cui delle persone hanno fatto un figlio per salvare un figlio già esistente. Prendiamo il caso di una coppia con un figlio che sviluppa la leucemia. La coppia decide di fare un secondo figlio che potrebbe servire da donatore. A volte il piano è un terno al lotto. I genitori concepiscono e mettono al mondo un figlio semplicemente sperando che sia compatibile. In ogni caso lo ameranno e lo alleveranno. A volte, però, c’è una pianificazione maggiore. Vengono testati degli embrioni per stabilire se il bambino sarebbe compatibile e vengono impiantati solo in questo caso. Ovvero si testano i feti e si abortiscono qualora non producano un
bambino adatto a fare da donatore. Ciascuna di queste opzioni è più controversa della precedente. Vi sono persone turbate anche dalla prima – fare un figlio che si spera, ma non si è sicuri, che sia compatibile. L’obiezione è che i genitori trattano il futuro bambino come un puro mezzo rispetto ai fini del figlio esistente e questo è in violazione dell’esigenza kantiana di non trattare le persone come mezzi. La stessa obiezione è stata sollevata contro la clonazione. Si è detto che il clone non viene messo al mondo per sé, ma per altri, tra cui molto spesso l’essere che viene clonato. Il clone è trattato come un puro mezzo rispetto ai fini dell’essere clonato. Questo, si dice, è inaccettabile. Ciò che regolarmente ignora chi solleva l’obiezione kantiana è che, nella misura in cui si applica ai cloni e ai bambini fatti per salvare un figlio, essa si applica almeno altrettanto alla normale attività riproduttiva. Questo è vero a prescindere che si accetti il fatto che venire al mondo è sempre un grave male. I cloni e i bambini fatti per salvare la vita di un fratello non sono messi al mondo per sé. Questo tuttavia vale per tutti i bambini. I bambini vengono messi al mondo non per atti di grande altruismo, destinati a recare il bene della vita a un misero non-essere sospeso nel vuoto metafisico e quindi privato delle gioie della vita.161 Nella misura in cui i bambini vengono messi al mondo per qualcun altro, non lo sono per sé. La clonazione è quindi, sotto questo aspetto, non più problematica della normale riproduzione. Ora si potrebbe suggerire che a volte la clonazione è peggio perché, quando sia fatta per la persona clonata, è anche un atto di narcisismo. L’essere clonato vuole una replica fisica di se stesso. Così il clone è trattato come un mezzo per i fini narcisistici della persona clonata. Potrebbero effettivamente esserci delle persone che desiderano farsi clonare per motivi narcisistici, ma altre potrebbero volerlo fare per altri motivi (magari perché è la loro unica o migliore possibilità di riprodursi). Inoltre l’argomento del narcisismo dà per scontato che la riproduzione normale non sia narcisistica. Ma perché dovremmo pensare che sia sempre così? Potrebbe benissimo esserci un tratto di auto-adulazione nel fare figli.
Chi adotta dei bambini o non ne ha affatto potrebbe sollevare l’obiezione del narcisismo alla riproduzione senza clonazione con la stessa forza (o debolezza) con cui chi si riproduce senza clonazione critica la clonazione stessa. Potrebbe sostenere che è una forma di narcisismo per una coppia voler creare un figlio combinando le loro due immagini e mescolando i loro geni. Il fatto è che sia la clonazione che i normali metodi riproduttivi possono essere narcisistici, ma nessuno dei due tipi di riproduzione deve necessariamente esserlo. La clonazione quindi non è più problematica della normale riproduzione, sotto questo aspetto. Non è neanche meno problematica. Al contrario, il caso in cui si fa un figlio per salvare un altro figlio è meno problematico dei casi di riproduzione normale. Nella riproduzione normale le persone fanno figli (a) per soddisfare i loro interessi riproduttivi o genitoriali; (b) per dare fratelli ai figli già esistenti; (c) per propagare la specie, la nazione, la tribù o la famiglia; o (d) senza alcun motivo. Queste chiaramente sono tutte ragioni per fare un figlio più deboli rispetto all’obiettivo di salvare la vita di una persona esistente. Senza dubbio sembra strano pensare che sia accettabile fare un figlio senza alcun motivo, ma sbagliato fare un figlio per salvare una vita. Se quest’ultimo è un caso di ingiustificabile trattamento di una persona come mezzo per fini altrui, tanto più questo deve applicarsi a tutti gli altri casi in cui si fanno figli.
5. L’ABORTO: LA POSIZIONE “PRO-MORTE” Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto. Maledetto l’uomo (che) non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre. Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore? Geremia 20,14-18 E Giobbe parlò e disse: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse ‘È stato concepito un uomo!’ Quel giorno sia tenebra... Quella notte se la prenda l’oscurità... perché non mi ha chiuso il varco del grembo materno... Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?... Ora giacerei tranquillo... Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, come i bimbi che non hanno visto la luce.” Giobbe 3,2-4.6.10.11.13.16
Ho sostenuto che è meglio non venire al mondo, ma finora non ho detto nulla su quando – cioè in quale fase dello sviluppo umano – si viene al mondo. È a questa domanda (e ai problemi connessi) che mi rivolgo adesso. Molto dipende dalla risposta a questa domanda. Combinando alcune risposte comuni e molto plausibili con l’idea che sia meglio non venire al mondo si ricavano implicazioni piuttosto radicali per la questione dell’aborto. Per come stanno le cose, la maggior parte delle persone tende a pensare che sia necessario fornire qualche ragione per subire o per eseguire un aborto. Gli abortisti sostengono che come ragione adeguata, almeno nei primi stadi della gestazione, possa bastare il desiderio della madre che subisce l’aborto. Ciò nonostante, è vero che qui il desiderio vince la presunzione in favore della continuazione della gravidanza. Alcuni di coloro che procurano o eseguono l’aborto lo considerano deprecabile anche quando è giustificato. Le presunzioni morali devono essere capovolte se (1) venire al mondo è un male e (2) una persona non è ancora venuta al mondo nella particolare fase della gestazione quando si deve eseguire l’aborto. Se entrambe queste condizioni sono rispettate, l’onere della prova tocca a coloro che non abortirebbero (in quello stadio della gestazione). La rinuncia all’aborto è la posizione da giustificare. Più è grande il dolore di vivere, più difficile sarà giustificare questa rinuncia. Se viene soddisfatta una terza condizione – (3) venire al mondo (in condizioni normali) è un male grave come ho sostenuto
che sia – allora la rinuncia ad abortire (in un preciso stadio della gestazione) potrebbe non essere mai, o quasi mai, giustificata. Ho già preso in considerazione le condizioni (1) e (3) nei capitoli precedenti. Perciò mi soffermo qui solo sulla condizione (2). Chi adotta la posizione conservatrice secondo cui si viene al mondo nel momento del concepimento sosterrà che non esiste stadio della gestazione in cui una persona non sia ancora venuta al mondo. Sostenendo che si comincia a venire al mondo solo piuttosto tardi nel processo della gestazione, io rifiuterò la posizione conservatrice insieme ad altre posizioni. Prima di argomentare l’affermazione che si comincia a venire al mondo a uno stadio relativamente tardo del processo di gestazione, devo chiarire cosa intendo con “venire al mondo”. Questa espressione ha vari significati – compresi quelli che potremmo chiamare il significato biologico e quello moralmente rilevante. Con significato biologico si intende l’origine di un nuovo organismo, e con significato moralmente rilevante si intende l’origine degli interessi moralmente rilevanti di un ente. È quest’ultimo significato quello che adotto. Nel farlo non do per scontato che debbano esserci momenti diversi in cui un ente, per esempio un essere umano, viene al mondo in questi diversi sensi. I due significati sono semplicemente due cose che si possono intendere con questa espressione. Che si riferiscano allo stesso momento o a momenti diversi è un’altra faccenda – e la affronterò fra poco. Ci sono delle ragioni nella posizione secondo cui veniamo al mondo in senso biologico al momento del concepimento. Prima del concepimento ci sono solo lo sperma e l’ovulo. Poiché essi sono entrambi necessari per mettere al mondo una persona, ma prima del concepimento sono due enti distinti, non possono coincidere con l’essere che verrà messo al mondo. Due non può essere uguale a uno. Quindi non possiamo parlare di un nuovo organismo prima del concepimento. Detto altrimenti, tutti noi un tempo eravamo uno zigote, ma nessuno di noi è mai stato uno spermatozoo o un ovulo non fecondato.162 Anche se non è possibile venire al mondo (in senso biologico) prima del concepimento, c’è un margine di dubbio
sul fatto che questo sia il momento esatto in cui nasce un nuovo organismo. Esiste infatti la possibilità del gemellaggio omozigote, che dura circa quattordici giorni dopo il concepimento. Se si volesse prendere in considerazione il fenomeno dei gemelli siamesi bisognerebbe fissare il momento di inizio dell’irreversibile individualità biologica ancora più tardi.163 Tuttavia, il problema di quando si viene al mondo in senso biologico non ci è di ostacolo. Questo problema può essere superato se si è interessati, come me, al significato moralmente rilevante e se, come sosterrò, si viene al mondo in senso moralmente rilevante dopo l’ultimo termine ragionevole in cui si viene al mondo in senso biologico. Per stabilire quando si acquisiscono interessi moralmente rilevanti, cosa necessaria per stabilire quando si viene al mondo in senso moralmente rilevante, dobbiamo esaminare diversi significati di “interesse”. Q I filosofi hanno proposto varie interpretazioni di ciò che sono gli interessi e del tipo di enti che possono averne. Io distinguerò quattro tipi di interesse, in ordine crescente, prima di mostrare come le tassonomie altrui si rapportano alla mia. Poi considererò quali tipi di interessi sono moralmente rilevanti. 1. Interessi funzionali: il primo tipo di interessi è quello che a volte si dice abbia un artefatto come un’automobile o un computer. Poiché gli artefatti hanno delle funzioni, alcune cose possono favorire e altre ostacolare tali funzioni. Le cose che facilitano il funzionamento di un artefatto sono considerate buone per l’artefatto, ovvero nel suo interesse, e le cose che ne compromettono il funzionamento sono considerate cattive, ovvero contrarie ai suoi interessi. Così, per un’automobile la ruggine è cattiva e il fatto di avere le ruote è buono. 2. Interessi biologici: le piante hanno un interesse di tipo diverso. Come gli artefatti, esse funzionano, e il loro funzionamento può essere favorito o ostacolato. Tuttavia, al contrario degli artefatti, le piante sono vive. Le loro funzioni e gli interessi connessi sono
biologici. 3. Interessi coscienti: anche gli animali dotati di coscienza funzionano, e come per le piante le loro funzioni sono biologiche. Ma c’è qualcosa che li fa sentire di essere coscienti. Gli interessi connessi li chiamerò interessi coscienti. Questo termine ha bisogno tuttavia di un chiarimento: con interessi coscienti non intendo un interesse che si ha consapevolmente – che si sa esplicitamente di avere – ma piuttosto un interesse che si può avere solo se si è coscienti. Si può per esempio avere interesse a evitare il dolore, senza sapere di avere tale interesse. 4. Interessi riflessivi: alcuni animali – come la maggior parte degli esseri umani – sono non solo coscienti, ma caratterizzati anche da varie capacità cognitive superiori, fra cui la coscienza di sé, il linguaggio, la simbolizzazione e il ragionamento astratto. Questi animali non sono soltanto coscienti, ma anche “riflessivi”. Hanno interessi nel senso riflessivo che possono essere esplicitamente interessati ai propri interessi. Ho affermato prima che questi quattro tipi di interesse sono in ordine crescente. Ora posso spiegare cosa intendo. Gli interessi di ordine superiore comprendono quelli inferiori. Gli artefatti hanno “meri” interessi (funzionali). Gli esseri viventi hanno interessi biologici. Gli esseri coscienti hanno interessi biologici coscienti, e gli esseri “riflessivi” hanno interessi biologici autocoscienti.164 La tassonomia degli interessi usata da alcuni filosofi lascia cadere alcune di queste distinzioni. Per esempio, Raymond Frey, prendendo posizione contro il fatto che gli animali (non umani) abbiano standard morali, ha fatto una distinzione tra (a) interesse come benessere, e (b) interesse come desiderio.165 La parola è usata nel primo significato quando si dice “X è nell’interesse di Y”, e nel secondo quando si dice “Y ha un interesse in X”. Secondo il professor Frey, l’interesse nel primo senso può essere attribuito ad artefatti, piante166 e animali, dato che le cose possono essere buone o cattive per ciascuno di questi enti. Tuttavia egli afferma che (gli interessi come) desideri si possono ascrivere solo agli umani capaci di parola
(adulti o bambini non infanti).167 Il suo ragionamento è il seguente: 1) Per volere o desiderare X, si deve credere di non possedere X al momento. 2) Credere di non possedere X significa credere che “io possiedo X” sia falso. 3) Non è possibile credere una cosa del genere senza sapere come il linguaggio si rapporta col mondo. 4) Non si può sapere come il linguaggio si rapporta col mondo se non si possiede un linguaggio. 5) Quindi gli esseri che non possiedono un linguaggio non possono avere desideri. L’interesse come benessere secondo il professor Frey comprende i primi tre sensi che io ho distinto. Del suo interesse come desiderio e di quelli che io ho chiamato interessi riflessivi sarebbero portatori gli stessi tipi di esseri, anche se questi due significati di interesse non coincidono. Cioè, “interesse come desiderio” e “interesse riflessivo” non hanno il medesimo significato, ma ne sarebbero portatori i medesimi esseri (secondo lui). Anche il filosofo ambientalista Paul Taylor distingue fra (a) X è nell’interesse di Y, e (b) Y ha un interesse in X,168 ma prende le distanze da Raymond Frey per i tipi di enti a cui attribuisce interessi in questi due diversi significati.169 Così facendo, egli fa cadere la mia tassonomia in modo diverso dal professor Frey. Il professor Taylor afferma che non solo gli esseri umani, ma anche gli animali coscienti hanno interessi nel senso (b). Ma, come gli esseri umani e gli animali coscienti, gli animali non coscienti e le piante possono avere un interesse loro. Le cose possono essere buone o cattive per loro. Possono avere interessi nel senso (a). La stessa cosa non vale, secondo lui, per gli oggetti e gli artefatti. Quando parliamo di ciò che è bene per un’automobile facciamo riferimento non agli scopi della macchina, ma agli scopi investiti in essa da coloro che la producono o la usano. Secondo questa teoria, gli oggetti e gli artefatti non hanno alcun interesse.
Laddove Paul Taylor nega gli interessi (in qualsiasi senso) solo alle cose e agli artefatti, Joel Feinberg nega gli interessi anche agli enti biologici non coscienti, come le piante.170 Egli nega, in altri termini, che possano esistere interessi nel senso funzionale e in quello biologico. Questo perché nega che artefatti o piante abbiano davvero un benessere (anche se a volte parliamo come se l’avessero). Il professor Feinberg non usa, e quindi implicitamente fa cadere, la distinzione fra interessi nel senso (a) e interessi nel senso (b). È proprio su questo terreno che Tom Regan171 prende le distanze da lui. Il professor Regan, che difende la distinzione tra interessi nel senso (a) e interessi nel senso (b), li chiama rispettivamente interessi1 e interessi2. Egli sostiene che noi non possiamo inferire dal fatto che artefatti e piante non possono avere un certo tipo di benessere – un benessere consapevole, o “felicità” – che non abbiano affatto alcun tipo di benessere. Come Raymond Frey, Tom Regan pensa che artefatti, piante, animali ed esseri umani abbiano tutti degli interessi di un tipo o dell’altro (anche se questi due filosofi non concordano su quali tipi di interessi siano moralmente rilevanti). Il rapporto fra le tassonomie suddette può essere rappresentato più chiaramente in forma di tabella, come nella figura 5.1.
È un errore tentare di risolvere il problema se un certo ente sia moralmente considerabile solo stabilendo se ha degli interessi. Avere degli interessi può essere necessario per avere uno status morale, ma non è sufficiente. Se un ente non ha interessi, non può
essere danneggiato o beneficato e quindi non può avere uno status morale. Tuttavia è logicamente possibile che un ente abbia degli interessi, ma solo di tipo moralmente irrilevante. La domanda cruciale, allora, è quale tipo di interessi sia moralmente rilevante. Come abbiamo visto, su questo c’è un notevole disaccordo. Raymond Frey pensa che solo gli interessi2 siano moralmente rilevanti, laddove Paul Taylor pensa che sia gli interessi1, sia gli interessi2 siano moralmente rilevanti. Joel Feinberg pensa che tutti gli interessi siano moralmente rilevanti, ma ciò accade perché opta per una definizione molto ristretta di “interessi”. Altre tassonomie degli interessi – quelle che riconoscono solo uno o due tipi di interessi – o mettono insieme tipi di interessi che bisognerebbe distinguere o escludono arbitrariamente alcuni tipi di interesse. È per questa ragione che ho elaborato una classificazione quadrupla, che sviluppa tutti i diversi modi in cui il concetto di “interessi” è comunemente invocato. Possiamo dunque chiederci quali fra questi tipi di interessi siano moralmente rilevanti. È possibile, naturalmente, avere una classificazione ancora più ricca della mia – riconoscendo gradi di coscienza o di autocoscienza, per esempio. Ma una simile classificazione diventerebbe poco maneggevole e quindi meno utile. Inoltre porrebbe differenze di grado e non di tipologia. Come apparirà chiaro più avanti, le differenze di grado possono essere prese in esame fruttuosamente dopo aver esaminato quali tipi di interesse siano moralmente significativi. Q ? Come si fa a decidere quali dei quattro tipi di interessi sono moralmente rilevanti? Non è una cosa semplice. È come se gli argomenti a favore di questo o quel tipo di interessi non siano tanto argomenti per accettare quell’interesse, quanto spiegazioni dell’intuizione per cui quel tipo di interessi è rilevante. Detto altrimenti, è difficile capire come argomentare contro chi ha un’intuizione diversa dalla nostra. Lo illustrerò provando a mostrare perché io credo che gli interessi coscienti siano il tipo minimo di
interesse moralmente rilevante. Ecco una versione formalizzata di questo ragionamento – un ragionamento che è stato proposto in varie forme da parecchi autori:172 1) Dire che un interesse è moralmente rilevante equivale a dire che è (moralmente) significativo. 2) Se un interesse è moralmente significativo, deve essere significativo per l’ente interessato. 3) Perché l’interesse di un ente sia importante per lui, dev’esserci qualcosa che è (cioè che sente di essere) quell’ente. 4) Può esserci qualcosa che sente di essere quell’ente solo se quell’ente è cosciente. 5) Quindi solo gli esseri coscienti hanno interessi moralmente rilevanti. Per evitare malintesi, voglio chiarire cosa si intende dicendo che gli interessi di un ente sono significativi per lui. Non vuol dire che uno vuole ciò che è nel suo interesse.173 Vuol dire invece che c’è qualcosa i cui interessi possono essere soddisfatti o ostacolati. Riconoscere questo ci permette di vedere la potenziale ambiguità della frase “Y ha un interesse in X”. Questa frase può voler dire “X è importante per Y” oppure “Y desidera X”. Di conseguenza, anche se si concorda con Raymond Frey che gli animali non hanno desideri – cosa che io negherei – possono comunque avere interessi moralmente rilevanti. In altri termini, si potrebbe dire che c’è un tipo di interesse intermedio fra (a) interesse come benessere e (b) interesse come desiderio. È un tipo di interesse che coinvolge non solo il possesso di un bene per sé (come si può sostenere che abbiano le piante), ma non comporta necessariamente un desiderio autocosciente. Ora il problema con qualsiasi ragionamento simile a quello che ho appena proposto tra (1) e (5) è che la premessa decisiva – la premessa (3), in questo caso – verrà contestata da chi non condivide l’intuizione presente nella conclusione. La premessa (3) a me pare del tutto ragionevole. Mi chiedo come sia possibile che un ente si curi del proprio benessere o di qualche aspetto di esso se
non c’è nulla che sente di essere tale ente. Ma il problema è che chi non condivide la mia intuizione può semplicemente negare la premessa. Potrebbe affermare che vi sono modi non coscienti in cui il benessere di un ente è importante per l’ente stesso. (Per esempio, la mancanza di acqua può essere importante per una pianta, che appassisce e muore in conseguenza di ciò.) O potrebbe affermare che c’è qualcosa che è una pianta (per esempio), basta non equiparare “c’è qualcosa che è una pianta” a “c’è qualcosa che sente di essere una pianta”. Lo si può dire altrimenti. Per molti di noi, sembra scontato che non si possa essere crudeli o gentili nei confronti delle piante (perché non sono coscienti). Ma altri potrebbero chiedersi perché dobbiamo pensare che solo la crudeltà o la gentilezza siano rilevanti.174 Se possiamo danneggiare o beneficare le piante in altri modi, perché questi modi non dovrebbero essere rilevanti? Non vedo argomenti decisivi che potrebbero minare l’idea di chi pensa che gli interessi biologici non coscienti siano moralmente rilevanti. Il che non vale, credo, quando si arriva all’idea che gli interessi funzionali siano moralmente rilevanti. Questa idea può essere decisamente respinta sulla base del fatto che gli interessi funzionali in realtà sono interessi dell’artefatto solo in senso metaforico.175 Non entrerò nel dettaglio di questo ragionamento, tuttavia, prima di tutto perché il problema degli interessi funzionali può essere messo da parte in una discussione sull’aborto, dato che zigoti, embrioni e feti non sono mai artefatti e quindi non hanno mai interessi meramente funzionali. Siccome non posso fornire un argomento decisivo contro la rilevanza morale degli interessi biologici non coscienti, la mia strategia argomentativa consisterà nell’indicare le conseguenze del considerare gli interessi biologici come moralmente rilevanti e nel mostrare che la maggior parte se non tutti gli anti-abortisti li rifiutano. Come mostrerò in seguito, i feti diventano coscienti solo piuttosto tardi nel corso della gestazione. Se dunque gli interessi coscienti sono i più fondamentali tra gli interessi moralmente rilevanti, i feti acquisiscono interessi moralmente rilevanti solo piuttosto tardi. Un
modo per fondare un’argomentazione anti-abortista sarebbe sostenere che anche gli interessi biologici sono moralmente rilevanti. Ma se gli interessi biologici contano sul piano morale, un principio di equità vorrebbe che interessi biologici uguali contassero ugualmente. Sicché non possono essere solo gli interessi biologici umani quelli rilevanti. Gli interessi delle piante, dei batteri, dei virus e così via devono contare quanto gli interessi biologici degli embrioni umani e dei feti pre-coscienti. Queste però sono conseguenze che pochi anti-abortisti abbraccerebbero (o nessuno). La coerenza esige quindi che non fondino la loro idea sull’affermazione della rilevanza morale degli interessi biologici. (Naturalmente questo non vuol dire che non vi siano altri modi per sostenere una posizione antiabortista, e prenderò in considerazione alcuni di questi modi più avanti.) Coloro che considerano moralmente rilevanti gli interessi biologici non negano che siano rilevanti anche gli interessi coscienti. Obiettano solo al fatto di porre la soglia della rilevanza al di sopra degli interessi biologici. C’è un’altra obiezione a chi considera gli interessi coscienti come gli interessi minimi moralmente rilevanti. L’obiezione proviene da coloro che metterebbero la soglia al di sopra degli interessi coscienti – al livello degli interessi riflessivi. Anche le conseguenze di questa idea sono implausibili. Se solo gli interessi riflessivi contano sul piano morale, allora non c’è niente di (direttamente) sbagliato nel torturare esseri coscienti ma non autocoscienti – la maggior parte degli animali e tutti i neonati umani. Possiamo respingere l’idea che contino solo gli interessi riflessivi. Q ?176 Nessuno di noi può ricordare quando è diventato cosciente. Perciò, anche se tutti siamo stati una volta feti e infanti, non possiamo risolvere il problema di quando, nel processo di sviluppo umano, comincia la coscienza facendo riferimento al ricordo della nostra esperienza. Per stabilire quando comincia la coscienza dobbiamo trattare la mente del feto e dell’infante come “menti altre”. Non avendo accesso in prima persona ad esse, dobbiamo inferire come sono fatte mediante le informazioni accessibili di persone terze.
Consideriamo prima di tutto la prova funzionale indiretta della coscienza fornita dall’elettroencefalografia (EEG). L’EEG, che registra l’attività elettrica del cervello, può fornire dati sulla capacità funzionale – l’attività vigile – richiesta per la coscienza. L’attività vigile, bisogna sottolinearlo, non va confusa con la coscienza stessa, almeno in termini neurologici. Al contrario, è uno stato di eccitazione che si contrappone al sonno (nei suoi vari stadi). L’eccitazione è uno stato del sistema eccitatore ascendente del tronco encefalico e del talamo. Non è uno stato della corteccia cerebrale. Laddove il sistema eccitatore ascendente è connesso a una corteccia funzionale intatta, le sue attività provocano cambiamenti nella corteccia che sono osservabili clinicamente e mediante elettroencefalogramma. La coscienza si basa sulla funzione della corteccia, ma è possibile solo nello stato di veglia. In questo senso il tronco encefalico e il talamo si limitano a supportare indirettamente la coscienza. Siccome gli stati di eccitazione – veglia e sonno – sono stati del tronco encefalico e del talamo (anche se di solito hanno conseguenze sulla corteccia) e la coscienza è una funzione della corteccia, veglia e coscienza sono separabili. Una persona può essere sveglia ma non cosciente. Questo si verifica quando il sistema eccitatore ascendente è in modalità veglia, ma la corteccia è danneggiata in particolari modi. Per esempio, alcuni pazienti in stato vegetativo persistente mostrano schemi di veglia nell’EEG, ma non sono coscienti.177 Mentre lo stato di veglia non è sufficiente perché sia presente la coscienza, sembra ragionevole presumere che la coscienza non sia possibile in assenza di uno stato di veglia. Benché le persone addormentate a volte siano reattive rispetto all’ambiente – cioè possano reagire a degli stimoli – non sono coscienti o consapevoli. Se questo assunto è corretto, allora un essere privo della capacità di vegliare sarà anche privo della capacità di essere cosciente. Quindi l’EEG fornisce la prova di una condizione – lo stato di veglia – senza la quale la coscienza non è possibile, anche se non fornisce la prova della coscienza stessa. Benché vi siano negli elettroencefalogrammi dei feti intermittenti
esplosioni di attività (ritmo del sonno) già intorno alla ventesima settimana di gestazione, solo intorno alla trentesima settimana l’EEG rileva cicli di sonno-veglia. In altri termini, solo intorno alla trentesima settimana sono visibili i primi stati di veglia. In questa prima fase, bisogna sottolinearlo, gli schemi dell’EEG per la veglia e il sonno sono molto diversi da quelli degli adulti. Nei primi mesi dopo la nascita, gli schemi fetali lasciano gradualmente il posto a modelli più simili a quelli adulti, anche se la maturazione dell’EEG continua per tutto il primo anno di vita e, in misura minore, fino all’adolescenza. Ci sono almeno due spiegazioni per la differenza relativamente grande fra EEG fetali e adulti. Una è che il tipo di veglia necessario per la coscienza non sia ancora stato sviluppato. L’altro è che le differenze nell’EEG siano il risultato della generale immaturità (e quindi della diversità) del sistema nervoso fetale, ma non suggerisce nulla sull’assenza della funzione neurologica necessaria alla coscienza. Da questo punto di vista, la veglia fetale può dar luogo a un diverso EEG, ma favorire comunque la coscienza. Come scegliere fra queste due possibili spiegazioni? Un modo consiste nel passare dalla prova funzionale della veglia alla prova comportamentale della coscienza e degli stati coscienti come il dolore. Consideriamo per esempio lo studio di Kenneth Craig et al.,178 in cui il Neonatal Facial Coding System (NFCS, Sistema di codifica delle espressioni facciali dei neonati) è stato usato per valutare la risposta dei neonati prematuri a stimoli negativi e non negativi. I neonati di varie età sono stati registrati prima, durante e dopo una disinfezione e iniezione sul tallone. La disinfezione mediante tampone procura uno stimolo non negativo, mentre l’iniezione è uno stimolo negativo che sarebbe doloroso in esseri coscienti con un sistema nervoso maturo. In reazione all’iniezione, ma non alla disinfezione, i neonati con più di ventotto settimane di gestazione si è scoperto che esibivano una serie di movimenti facciali caratteristici dei neonati nati nel termine giusto e degli adulti sottoposti a stimoli dolorosi. Questi movimenti facciali comprendono la contrazione delle sopracciglia, la chiusura degli occhi, l’approfondimento del solco nasolabiale, l’apertura di labbra e bocca,
e la tensione e l’inarcamento della lingua.179 Gli autori di questo studio hanno anche osservato che questi movimenti facciali variavano a seconda del fatto che il neonato prematuro fosse sveglio o addormentato al momento dell’iniezione. Dato che la veglia favorisce la coscienza e quindi il dolore, questa osservazione è importante. Rispetto a queste notevoli osservazioni sugli esseri umani di ventotto settimane di gestazione, i neonati di venticinqueventisette settimane di gestazione non esibivano una reazione sufficientemente diversa dall’atteggiamento normale.180 È possibile, e chi è scettico sul fatto che i feti provino dolore si affretterà a dichiararlo, che i movimenti facciali osservati nei neonati prematuri più grandi siano semplici riflessi e non rispecchino alcuno (spiacevole) stato mentale. Non c’è modo per placare tali dubbi. Ciò nonostante, la natura complessa e coordinata di questo comportamento rende più difficile considerarlo un semplice riflesso. Un riflesso è un comportamento che non deriva da una mente cosciente. Così ritrarsi da uno stimolo negativo è un riflesso se non è il risultato di una sensazione dolorosa. Non è un riflesso se è il risultato di una simile sensazione. Da ciò non bisognerebbe concludere che la presenza di un riflesso e la presenza di dolore si escludano a vicenda. I riflessi spinali, per esempio, possono provocare il ritrarsi di un membro dalla fonte di uno stimolo negativo prima che l’impulso che provoca il dolore abbia raggiunto la corteccia. Il movimento è in sé un riflesso. Non ne consegue che non ci sia una contemporanea sensazione di dolore, anche se questa sensazione non è la causa del riflesso, ma si verifica alcuni millisecondi dopo. Distinguere i comportamenti che sono frutto di riflessi e non accompagnati da esperienze dolorose, e comportamenti, che siano riflessi o meno, accompagnati da dolore, si può tentare solo per inferenza. Il buon senso, derivato in parte dall’osservazione dei neonati, suggerisce che gli esseri umani nelle ultime fasi della gestazione e nei primi tempi dopo la nascita siano coscienti. L’opinione scientifica dominante rinforza il buon senso. In conclusione, quindi, ci sono prove non trascurabili per ritenere che fra la ventottesima e la trentesima settimana di gestazione i feti
siano coscienti, almeno in senso minimale. Date queste prove e la natura graduale del processo di sviluppo, è altamente improbabile che le manifestazioni di coscienza precedenti siano pienamente formate. È molto più probabile che il livello di coscienza evolva. In effetti, negli esseri umani, anche la coscienza si sviluppa gradualmente in autocoscienza. Così gli interessi coscienti non sorgono all’improvviso. Essi emergono invece in maniera graduale, anche se non con ritmo costante. I ’ Se si viene al mondo in senso moralmente rilevante solo intorno alla ventottesima-trentesima settimana di gestazione, prima di allora la nascita di una persona può essere prevenuta per mezzo dell’aborto. Quindi, se è meglio non venire al mondo, è meglio, prima di questo momento, essere abortiti che giungere al termine dello sviluppo. Da ciò non deriva che l’aborto dopo la ventottesima-trentesima settimana di gestazione sia (anche prima facie) sbagliato. Questo perché qualcuno potrebbe ammettere che un ente minimamente cosciente possa avere degli interessi moralmente significativi, ma negare che abbia un interesse moralmente significativo a continuare a vivere. Quindi, si può sostenere, sarebbe prima facie sbagliato infliggere dolore a un ente cosciente (ma non autocosciente), ma potrebbe non essere sbagliato ucciderlo in maniera indolore. Michael Tooley è un esponente di questa idea.181 Il suo ragionamento (che in parte assomiglia al ragionamento di Raymond Frey che ho riassunto prima)182 può essere presentato come segue: 1) L’affermazione “A ha il diritto di continuare a esistere come soggetto di esperienze e altri stati mentali” è grossomodo equivalente all’affermazione “A è soggetto di esperienze e altri stati mentali, A è in grado di desiderare di continuare a esistere come soggetto di esperienze e altri stati mentali, e se A desidera continuare a esistere come tale ente, gli altri sono prima facie obbligati a non impedirgli di farlo”.183 2) Avere un desiderio significa volere che una certa proposizione sia vera.
3) Per volere che una proposizione sia vera bisogna capire quella proposizione. 4) Non si può capire una proposizione data se non si possiedono i concetti che essa comporta. 5) Quindi, i desideri che si possono avere sono limitati dai concetti che si possiedono. 6) Né un feto (in qualsiasi stadio del suo sviluppo) né un neonato possono avere concetti di sé come soggetti di esperienze o di altri stati mentali. 7) Quindi né un feto né un neonato possono avere diritto a continuare a esistere. Il professor Tooley parla di quando un ente può avere diritto a continuare a vivere – e a volte parla di un serio diritto di questo tipo. Siccome qui mi occupo non tanto di diritti quanto del (connesso) concetto di interessi, affronterò questo ragionamento come un ragionamento sul perché feti e neonati non possono avere interesse a continuare a esistere. Ci sono numerose premesse estremamente controverse nel suo ragionamento. Primo, è tutt’altro che chiaro che un interesse (o un diritto) di continuare a esistere, se analizzato, debba fare riferimento a un desiderio di continuare a esistere. Per essere soddisfatto sarebbe sufficiente che si desideri qualcos’altro che richieda di continuare a esistere. Così se un essere appena cosciente desidera prolungare l’esperienza piacevole appena sperimentata, e se questo desiderio e l’interesse a cui dà luogo è moralmente significativo, questo essere deve avere un interesse, per quanto debole, a continuare a esistere. A ciò si potrebbe rispondere che nessun feto e nessun neonato può avere un desiderio qualsiasi. Ma non è meno discutibile che un interesse a continuare a esistere, se analizzato, debba riferirsi a un desiderio qualsiasi. È perfettamente possibile che i propri interessi siano soddisfatti dal continuare a esistere anche se non lo si desidera. Il professor Tooley accenna a questo problema quando precisa la sua analisi e dice che “il diritto di un individuo a X può essere violato non solo quando egli desidera X, ma anche quando lo
desidererebbe se non fosse per uno dei casi seguenti: (i) è in una condizione di squilibrio emotivo; (ii) è momentaneamente inconscio; (iii) è stato condizionato a desiderare l’assenza di X”.184 Queste correzioni evitano alcuni imbarazzanti contro-esempi. Ma perché, possiamo chiederci, non si dovrebbe aggiungere una condizione in più?: (iv) è privo dei concetti necessari. Ciò che motiva le prime tre condizioni è la sensazione che la continuazione della vita sia nell’interesse di coloro che rispondono a queste condizioni. Ma molti di noi hanno la stessa sensazione che la continuazione della vita possa essere nell’interesse di un ente cosciente che sia privo del concetto di sé come soggetto di esperienze. Se si inseriscono a forza alcuni casi nel discorso sul desiderio, se ne può aggiungere tranquillamente un altro. Ma un approccio migliore consiste nel dire che a contare sono gli interessi (di esseri coscienti), e non i loro desideri. Anche se fosse necessaria la capacità di avere desideri, potremmo comunque discutere la seconda premessa – che avere un desiderio significhi volere che una certa proposizione sia vera. Possiamo senza dubbio parlare del desiderio di un bambino di vedere saziata la sua fame anche se lui non è in grado di formulare proposizioni sulla fame e il cibo e i rapporti fra essi. Se cade la seconda premessa, cade il resto del ragionamento. Penso che il ragionamento del professor Tooley debba essere respinto, però la sua idea ha un granello di verità che può essere condiviso. Dire, come ho detto, che un ente minimamente cosciente abbia un interesse a continuare a vivere non equivale a dire che quell’interesse sia forte come quello di un ente autocosciente. Laddove l’interesse a continuare a vivere derivi da interessi assai rudimentali a continuare esperienze piacevoli, esso è molto più debole di quel che diventa laddove emergano autocoscienza e progetti e scopi. Allora l’essere è molto più investito nella propria vita e perderebbe molto di più se morisse o venisse ucciso. Che i primi interessi siano deboli, tuttavia, non significa che non siano interessi affatto. Un vantaggio del mio punto di vista è che il valore morale non è
qualcosa che si possiede o non si possiede. Vi possono essere varie gradazioni. Dato che il valore morale è conseguente ad altre proprietà, come la coscienza e l’autocoscienza, e queste altre proprietà si sviluppano gradualmente anziché sorgere all’improvviso, è sensato che il valore morale sia una questione di gradazione. Sarebbe molto strano se non fosse per nulla sbagliato uccidere degli esseri fino a un certo stadio del processo di sviluppo e poi all’improvviso diventasse molto sbagliato ucciderli. Ammesso ciò, possiamo capire che quando si cominciano ad acquisire interessi moralmente rilevanti non è l’unica domanda significativa nel considerare se l’aborto sia moralmente preferibile. È importante anche quanto è forte l’interesse che si ha nel continuare a esistere. Interessi deboli e limitati saranno sconfitti più facilmente da altre considerazioni. Queste considerazioni comprendono gli interessi di altri, ma comprendono anche fattori come la futura qualità della vita della persona che si svilupperà dal feto o dal neonato. Nella misura in cui un ente è solo minimamente investito della propria vita, questo interesse sarà più facilmente contrastato dalla prospettiva del male futuro. Man mano che l’interesse a esistere si rafforza, i mali richiesti per contrastare l’interesse diventano più gravi. Così certi aborti tardivi – dopo lo sviluppo della coscienza – e anche qualche caso di infanticidio potrebbero essere moralmente desiderabili, se prevengono la continuazione di esistenze particolarmente spiacevoli. Ci sono due famose linee di ragionamento che minacciano l’idea che gli interessi moralmente rilevanti, compresi gli interessi a vivere, emergano gradualmente. La prima è l’argomento della “Regola Aurea” di R.M. Hare e la seconda è l’argomento del “futuro come il nostro” di Don Marquis. Entrambi questi ragionamenti mirano a dimostrare che l’aborto, anche nei primi stadi della gravidanza, è prima facie sbagliato. Prenderò in considerazione e respingerò questi due argomenti uno dopo l’altro. L R A Richard Hare ha notoriamente utilizzato la “Regola Aurea” per
sostenere prima facie le posizioni anti-abortiste.185 La Regola Aurea (nella sua forma positiva) dice che “dobbiamo fare agli altri ciò che vorremmo che venisse fatto a noi”.186 L’estensione logica di questo principio comporta che “dobbiamo fare agli altri ciò che siamo felici che sia stato fatto a noi”.187 Quindi, dato che “siamo felici che nessuno abbia interrotto la gravidanza conclusasi con la nostra nascita, (...) siamo tenuti, ceteris paribus, a non interrompere alcuna gravidanza che si concluderebbe con la nascita di una persona come noi”.188 Benché molto si possa dire e sia stato detto sulla debolezza di questo ragionamento, discuterò i suoi difetti messi in luce dai miei ragionamenti sul dolore di venire al mondo. Non è vero, ovviamente, che tutti siano felici di non essere stati abortiti. Il professor Hare prende in considerazione l’obiezione che queste persone pongono al suo ragionamento. Ma sostiene che costoro devono necessariamente desiderare che, se fossero stati felici di essere nati, nessuno avrebbe dovuto abortirli. Il problema di questa risposta è che assume come pietra di paragone che si preferisca essere nati. Se avesse assunto che si preferisca non essere nati come lo standard, si potrebbe dire che coloro che sono felici di essere nati dovrebbero necessariamente desiderare che, se non fossero stati felici, qualcuno avrebbe potuto abortirli. È evidente che, se una persona avesse una preferenza contraria a quella che ha, il ragionamento basato sulla Regola Aurea porterebbe alla conclusione opposta a quella a cui conduce dato che la sua preferenza è quella che è. Quindi la risposta del professor Hare all’obiezione di chi non è felice di essere nato non funziona. Come facciamo a decidere quale preferenza – essere nati o non essere nati – debba prevalere? Un argomento che si può avanzare a favore della preferenza per essere nati è che la maggior parte dei feti si sviluppa in persone che hanno questa preferenza. Lavorare quindi in base al presupposto che emergerà tale preferenza è statisticamente più affidabile. Ma vi sono due ragioni per cui, a dispetto dell’affidabilità statistica, questa preferenza non dovrebbe essere dominante.
La prima è un principio di cautela. Chi segue questo principio riconosce che nessuno soffre se si presuppone erroneamente una preferenza per non essere nati, mentre le persone soffrono se si presuppone erroneamente una preferenza per essere nati. Immaginiamo che si presupponga che un feto si svilupperà in qualcuno felice di essere nato. Il feto quindi non viene abortito. Se il presupposto era sbagliato e il feto si sviluppa in una persona non felice di essere nata, c’è una persona che soffre (per tutta la vita) perché qualcuno ha adottato un presupposto sbagliato. Immaginiamo ora che si presupponga il contrario – che il feto si svilupperà in qualcuno non felice di essere nato. Il feto viene quindi abortito. Se il presupposto era sbagliato e il feto si sarebbe sviluppato in una persona che sarebbe stata felice di essere nata, non ci sarà nessuno a soffrire per questo presupposto sbagliato. Si potrebbe obiettare che c’è qualcuno che soffre per quest’ultimo presupposto – e cioè il feto che viene abortito. Si può rispondere in due modi. Primo, questa linea di ragionamento non è percorribile dal professor Hare. Egli crede che laddove si eseguirà un aborto “il feto non ha ora, al momento presente, proprietà tali che siano motivi per non ucciderlo, dato che morirà in ogni caso prima di acquisire le proprietà che hanno solitamente gli esseri umani adulti e anche i bambini, e che sono ragioni per non uccidere loro”.189 Il ragionamento del professor Hare parla esplicitamente delle potenzialità del feto e non delle sue caratteristiche di feto. Secondo, affermare (al contrario del professor Hare) che un feto possieda ora delle caratteristiche che lo rendono vittima dell’aborto significa minare l’argomento della potenzialità, come quello della Regola Aurea, contro l’aborto. La base di un ragionamento basato sulla potenzialità è che il feto, in quanto feto, non abbia proprietà che costituiscono ragioni per non ucciderlo. Una seconda ragione per essere a favore della preferenza per non essere nati è che venire al mondo, come ho sostenuto nei capitoli 2 e 3, è sempre un grave male. Se quei ragionamenti sono validi, le persone che credono di essere state avvantaggiate dal fatto di venire al mondo si sbagliano e il fatto che preferiscano essere nate
si basa su una convinzione erronea. Sarebbe assai strano ricorrere a una Regola Aurea (o argomento kantiano) basata su premesse erronee. Se una preferenza è non informata, perché dovrebbe imporre come trattiamo gli altri? Immaginiamo, per esempio, una preferenza diffusa per aver cominciato a fumare, basata sull’ignoranza dei rischi connessi al fumo. Secondo la regola del professor Hare, le persone che hanno tale desiderio potrebbero ragionare così: “Sono felice di aver cominciato a fumare e quindi dovrei spingere gli altri a cominciare”. Un simile modo di ragionare è abbastanza inquietante quando la preferenza per aver cominciato a fumare viene espressa con la piena consapevolezza dei rischi legati al fumo. Ma laddove la preferenza sia non informata non si può nemmeno considerare un giudizio (accurato) ed è quindi ancora più inquietante. Allo stesso modo, il fatto che molte persone siano felici di essere venute al mondo non è una buona ragione per mettere al mondo altre persone, soprattutto perché la preferenza per essere nati si basa sulla convinzione sbagliata che essere venuti al mondo sia stato un bene. Che la preferenza per essere nati sia sbagliata porta ulteriore sostegno a un’altra forte critica (indipendente) al ragionamento del professor Hare. È stato osservato che la prima premessa del suo ragionamento – l’estensione logica della Regola Aurea – è falsa. C’è una differenza fra essere felici che qualcuno abbia fatto qualcosa per un altro e credere che quella persona fosse obbligata a comportarsi in quel modo. Non tutto ciò che possiamo desiderare che sia fatto (o che siamo felici che sia stato fatto) è qualcosa che crediamo che debba essere fatto (o che debba essere stato fatto). Possiamo desiderare di essere trattati in certi modi, pur riconoscendo che gli altri non sono obbligati a trattarci così (né noi loro).190 Questo è vero anche laddove le preferenze non siano erronee. Tanto più quando le nostre preferenze sono non informate ed erronee. Se, come ho suggerito, venire al mondo è un male, e nei primi stadi della gravidanza non si è ancora venuti al mondo in senso moralmente rilevante, allora le persone razionali desidereranno di essere state abortite. Applicare la Regola Aurea esige quindi che
facciano lo stesso agli altri. U “ ” Il ragionamento di Don Marquis contro l’aborto191 muove dall’assunto che è sbagliato uccidere esseri come noi – esseri umani adulti (o almeno gli esseri umani adulti con vite degne di continuare e che non abbiano commesso azioni che rendano possibile ucciderli). La spiegazione migliore del perché questo sia sbagliato, dice, è che la perdita di una vita priva una persona del valore del suo futuro. Quando una persona viene uccisa, viene privata di tutti i piaceri futuri e della capacità di perseguire fini e progetti presenti e futuri. Ma la maggior parte dei feti ha un futuro prezioso come il nostro. Quindi, conclude il professor Marquis, dev’essere sbagliato anche uccidere i feti. Il professor Marquis osserva che questo ragionamento ha parecchie virtù. Primo, evita il problema dello specismo. Vale a dire, non afferma che la vita di un feto umano sia preziosa solo in quanto umana. Se vi sono animali non umani con un futuro prezioso, sarebbe sbagliato uccidere anche loro. E non sarebbe necessariamente sbagliato uccidere gli esseri umani, compresi i feti, la cui qualità della vita futura promette di essere tanto povera da non avere un futuro prezioso. In secondo luogo, il ragionamento del “futuro come il nostro” evita i problemi che sorgono dall’idea che sia sbagliato solo uccidere “persone” – esseri razionali e autocoscienti. In base al criterio del futuro come il nostro, ma non in base a quello della persona, uccidere i bambini e i neonati è evidentemente sbagliato, per gli stessi motivi per cui è sbagliato uccidere gli adulti. In terzo luogo, il ragionamento del futuro come il nostro non dice che l’aborto è sbagliato perché comporta l’uccisione di persone potenziali. Tali ragionamenti non sono in grado di spiegare perché le persone potenziali avrebbero diritto allo stesso trattamento delle persone reali. Il ragionamento del futuro come il nostro si basa su una proprietà reale del feto – quella di avere un futuro come il nostro – e non su qualche proprietà potenziale. Il professor Marquis prende in considerazione e respinge due alternative al suo discorso. Secondo il “punto di vista del desiderio”,
uccidere esseri come noi è sbagliato perché in conflitto con il forte desiderio delle persone di continuare a vivere. Ma questo punto di vista, dice il professor Marquis, non spiega perché sia sbagliato uccidere i depressi, che hanno perso la voglia di vivere, o coloro che sono in stato vegetativo o in coma, e quindi non si può dire che nel momento in cui vengono uccisi abbiano il desiderio di continuare a vivere. Altri hanno difeso una versione modificata dell’argomento del futuro come il nostro che ammette l’aborto,192 ma io propongo invece di difendere quello che Marquis chiama “punto di vista della discontinuità”. Secondo questa teoria, uccidere esseri umani è sbagliato perché comporta la discontinuità delle preziose esperienze, attività e progetti della vita. Fino agli ultimi stadi della gravidanza, come abbiamo visto, i feti non hanno esperienze, e a fortiori non hanno progetti o attività (rilevanti).193 L’aborto quindi, prima dello sviluppo della coscienza, non sarebbe sbagliato dal punto di vista della discontinuità. Don Marquis dice che il male non può essere la semplice interruzione delle esperienze. Se le esperienze future saranno di incurabile sofferenza, la loro interruzione potrebbe in effetti essere preferibile. Il punto di vista della discontinuità non può quindi funzionare a meno che non faccia riferimento al valore delle esperienze che potrebbero essere interrotte. Inoltre, dice, la natura delle esperienze appena precedenti di una persona non è rilevante. Non fa differenza, dice, se una persona è stata preda di un dolore intollerabile, è stata in coma o ha goduto di una vita piena di valore. Solo il valore del futuro di una persona conta, conclude. Se è così, dice, il punto di vista della discontinuità deve ricadere in quello del futuro come il nostro. Ma questa inferenza è affrettata. La discontinuità può voler dire che, benché il valore del futuro sia necessario per spiegare perché è sbagliato uccidere (coloro che hanno un futuro di valore), non è sufficiente. Tale punto di vista può sostenere che solo un essere con interessi moralmente rilevanti può avere un interesse moralmente rilevante nel proprio futuro di valore. È quindi l’interruzione della vita di un essere che ha già interessi moralmente rilevanti a essere
sbagliata. In altri termini, perché uccidere sia sbagliato, il futuro dev’essere di valore, ma dev’essere anche il futuro di un essere che già conta sul piano morale. Ora, Don Marquis potrebbe ribattere che tutti gli enti con un futuro come il nostro hanno, in virtù di tale futuro, un interesse morale degno di considerazione – l’interesse a godere di quel futuro. Ma perché pensa che un feto umano (relativamente non sviluppato) abbia ora un tale interesse? La sua risposta apparentemente è che noi a quel punto possiamo identificare come unico l’ente che godrà di quel futuro. Questo è evidente nella sua discussione del motivo per cui la contraccezione non viene esclusa dal ragionamento del futuro come il nostro. La contraccezione impedisce futuri come il nostro, ma Marquis afferma che nel caso della contraccezione non possiamo (non arbitrariamente) individuare il soggetto deprivato del futuro. Egli considera quattro possibili soggetti di dolore: (1) uno spermatozoo qualsiasi; (2) un ovulo qualsiasi; (3) uno spermatozoo e un ovulo separatamente; e (4) uno spermatozoo e un ovulo insieme. Sostiene che scegliere (1) è arbitrario perché si potrebbe allo stesso modo scegliere (2). E (2) è arbitrario perché si potrebbe allo stesso modo scegliere (1). Il soggetto (3) non può essere giusto perché ci sarebbero troppi futuri – quello dello spermatozoo e quello dell’ovulo – anziché l’unico futuro della persona che ne risulterebbe se non venisse praticata la contraccezione. Infine, dice che (4) non può essere corretto. Non c’è reale combinazione di spermatozoo e ovulo. Se si tratta di una combinazione possibile, noi non possiamo dire, fra tutte le combinazioni possibili, quale sia. Io non credo che la moralità dell’aborto, o della contraccezione, al contrario del problema di quando si viene al mondo in senso biologico, si basi sull’identità di un ente. Don Marquis evidentemente non è d’accordo, ma per effetto di ciò la sua idea ha una conseguenza strana. Per capirlo, immaginiamo che la biologia riproduttiva umana sia leggermente diversa da come è. Immaginiamo che, invece di fornire ciascuno metà del materiale genetico del nuovo organismo, lo spermatozoo o l’ovulo fornisse tutto il DNA e l’altro fornisse solo il nutrimento o l’impulso alla divisione cellulare. Se per esempio uno spermatozoo contenesse
tutto il materiale genetico e ci fosse bisogno dell’ovulo solo per il nutrimento,194 il rapporto fra spermatozoo e ovulo sarebbe rilevante come è in realtà il rapporto fra zigote e utero. In quel caso, (1) si potrebbe definire la vittima della contraccezione e quindi la contraccezione sarebbe sbagliata in base al ragionamento del futuro come il nostro. Quindi la questione morale, secondo l’idea del professor Marquis, si fonda sul fatto se lo spermatozoo sia aploide o diploide. È tuttavia difficile capire come ciò possa comportare una differenza riguardo al fatto se la contraccezione sia moralmente simile all’omicidio. Come, in altri termini, la semplice individuazione genetica possa fare tutta la differenza tra giusto e sbagliato nel prevenire un futuro come il nostro. Se è davvero un futuro come il nostro che conta, perché dovrebbe essere il futuro di organismi geneticamente completi? La mia proposta alternativa, che evita questa strana conseguenza, è che a contare sia il futuro di valore degli enti con interessi moralmente rilevanti. Interrompere la vita preziosa di un essere con interessi moralmente rilevanti in quella vita è (prima facie) sbagliato. Il mio punto di vista ha un altro vantaggio rispetto a quello del futuro come il nostro. Se il valore di un futuro fosse l’unica cosa che conta, allora sarebbe peggio uccidere un feto che uccidere un trentenne. Perché un feto, a parità di condizioni, avrebbe un futuro più lungo e sarebbe quindi maggiormente deprivato. La maggiore deprivazione ha senso se confrontiamo la morte di un trentenne con quella di un novantenne – la maggior parte delle persone considererà peggiore la prima. Invece è molto meno sensato confrontare la morte di un feto e quella di un trentenne – molti di noi considerano la seconda molto peggiore. La migliore spiegazione di questo fatto è che un feto non ha ancora acquisito l’interesse per la propria esistenza di un trentenne. Il caso del trentenne e del novantenne si può spiegare in due modi. È possibile che entrambi abbiano il medesimo interesse a continuare a vivere, ma al nonagenario resta meno da vivere. In alternativa, e solo in certi casi, è possibile che l’interesse a vivere del nonagenario abbia già
cominciato a declinare, forse perché la vita peggiora con l’età e la decrepitezza. Ci sono modi connessi per spiegare ciò che si intuisce sulla diversa gravità di uccidere feti, giovani o vecchi. Fra questa, il concetto di interessi relativi al tempo di Jeff McMahan, distinti dagli interessi vitali. Questi ultimi “riguardano ciò che sarebbe meglio o peggio per una persona in quanto essere temporalmente esteso; essi riflettono ciò che sarebbe meglio o peggio per la propria vita nel suo complesso”.195 Gli interessi relativi al tempo, al contrario, sono gli interessi di una persona in un momento particolare – ciò di cui “una persona ha egoisticamente ragione di occuparsi”196 in un momento particolare. Questi due tipi di interessi sono coestensivi nella misura in cui l’identità è la base delle preoccupazioni egoistiche. Tuttavia, siccome il professor McMahan (seguendo il professor Parfit)197 pensa che la continuità psicologica sia più importante dell’identità, gli interessi della vita e quelli relativi al tempo divergono. Da ciascuno di questi interessi sorgono visioni diverse del male di morire. In base al “confronto fra le vite” la morte è tanto peggiore quanto minore è il valore totale della vita a cui pone fine rispetto a quello che sarebbe stato.198 Da questo punto di vista la morte di un feto è molto peggiore della morte di un trentenne, perché il valore totale della vita di un feto è minore del valore della vita di una persona che muore a trent’anni. Tuttavia, in base all’“interesse relativo al tempo”, la gravità di una morte è stabilita in base agli interessi relativi al tempo della vittima.199 Il professor McMahan preferisce questa posizione, in parte perché spiega come mai la morte di un trentenne sia peggiore della morte di un feto.200 Il feto non è prudenzialmente legato al suo io futuro – al suo futuro come il nostro – mentre il trentenne lo è. C La mia idea che i feti siano privi di status morale nelle prime fasi della gravidanza è comune fra coloro che sostengono la libertà di scelta, ma potrebbe essere meno condivisa l’idea che i feti siano privi di status morale così a lungo come io suggerisco. Unendo l’idea
che i feti siano privi di status morale nelle prime fasi della gravidanza con l’idea che sia sempre un male venire al mondo si capovolgono gli atteggiamenti attuali sull’aborto. Anziché un atteggiamento a favore della continuazione della gravidanza, dovremmo adottare un atteggiamento, almeno nelle prime fasi della gravidanza, contrario al portare a termine il feto. È l’idea “pro-death” dell’aborto. Non è l’aborto (nelle prime fasi della gravidanza) a dover essere giustificato, ma tutte le rinunce ad abortire. Perché ogni rinuncia permette che qualcuno patisca il grave male di venire al mondo. Potrebbero esserci disaccordi sul momento esatto in cui un feto comincia ad avere uno status morale. In base all’idea che la coscienza sia il criterio adeguato, ho mostrato le prove che si arriverebbe a una fase della gestazione molto avanzata. Chi pensa che i primi interessi a continuare a vivere siano forti, potrebbe cautelativamente trattare i feti come se avessero un accenno di status morale ancora prima. Ciò impedirebbe di mancare di rispetto a questo interesse per errore. Chi pensa che i primi interessi a continuare a vivere siano deboli e che la sofferenza di una vita normale sia molto grave potrebbe non vedere alcun bisogno di considerare i giovani feti come dotati di status morale. Non risolverò questi problemi. Mi pare che le persone ragionevoli possano discordare sulle finezze valutative necessarie per esprimere un giudizio. Dato che la stragrande maggioranza degli aborti si verifica e può verificarsi prima del sorgere della coscienza, mi basta concludere che ci sarebbe qualcosa di problematico nel rimandare volontariamente o negligentemente un aborto finché la gestazione abbia raggiunto la zona moralmente grigia. Non ho sostenuto semplicemente che le donne incinte hanno il diritto di abortire (nelle prime fasi). Ho sostenuto l’affermazione più forte che l’aborto (nelle prime fasi) sarebbe preferibile al portare a termine la gravidanza. Questo non equivale a dire che bisognerebbe costringere le persone ad abortire. Come ho mostrato nel capitolo 4, almeno per ora dovremmo riconoscere il diritto legale alla libertà riproduttiva. Questi ragionamenti si applicano con almeno altrettanta forza (se non di più) alla libertà di non abortire che alla libertà di concepire. Quindi le mie conclusioni devono essere considerate
consigli su come una donna incinta dovrebbe fare uso della sua libertà di abortire o meno. Io suggerisco che abortisca e che debba avere eccellenti ragioni per non farlo. Dovrebbe essere chiaro che non credo che tali ragioni esistano. La posizione abortista dovrebbe risultare interessante anche per coloro che non l’accettano. Uno dei suoi aspetti importanti è che offre un’obiezione unica agli anti-abortisti che rifiutano il diritto legale all’aborto.201 Laddove una posizione legale a favore della scelta non impone agli anti-abortisti di abortire – consente una scelta – una posizione legale anti-abortista impedisce a chi vuole scegliere di fare un aborto. Chi pensa che la legge debba assumere la posizione antiabortista, potrebbe chiedersi cosa direbbe di fronte a una lobby che, contro quanto sostengo nel capitolo 4, ma in accordo con l’impegno degli abortisti a restringere la libertà procreativa, suggerisse che la legge diventasse abortista. Una politica legale abortista costringerebbe anche gli anti-abortisti ad abortire. Di fronte a questa idea, gli abortisti potrebbero scoprire di essere interessati al valore della scelta.
6. POPOLAZIONE ED ESTINZIONE
Se i bambini fossero messi al mondo in conseguenza di un atto puramente ragionevole, la razza umana continuerebbe a esistere? Arthur Schopenhauer202
Migliaia di miliardi di esseri coscienti abitano il nostro pianeta. Un numero esponenzialmente maggiore ha già vissuto. Quante altre vite ci saranno resta una domanda aperta. Alla fine, comunque, la vita nel suo complesso finirà. Che questo accada prima o dopo è un fatto che incide sul numero di vite che ci saranno. Fino ad allora, numerosi fattori influiranno sul numero di esseri che popolano la terra. Nel caso degli umani, giocheranno un ruolo le decisioni riproduttive dei singoli individui (o la loro assenza) e le politiche demografiche degli Stati e degli organismi internazionali (o la loro assenza).203 In questo capitolo prenderò in esame due serie di problemi fra loro connessi. La prima riguarda la popolazione, la seconda l’estinzione. Il problema demografico fondamentale, che ha ricevuto notevole attenzione da parte dei filosofi, è “Quante persone dovrebbero esserci al mondo?”. Ormai non dovrebbe sorprendere che la mia risposta sia “zero”. Anche se qualcuno considera questa risposta corretta (compresi alcuni che la considerano ovvia), sono molto più numerosi coloro che la ritengono evidentemente sbagliata. Il mio scopo quindi è in parte dimostrare che la risposta “zero” merita di essere presa sul serio più di quanto accada di solito. Per questo mostrerò come essa risolva i dilemmi della teoria filosofica sulla popolazione. Il problema centrale riguardo all’estinzione, applicato agli esseri umani, è “La prospettiva dell’estinzione umana è qualcosa di cui rammaricarsi?”. Risponderò che, per quanto il processo dell’estinzione possa essere qualcosa di cui rammaricarsi, e benché la prospettiva dell’estinzione umana possa essere per certi versi un male per noi, tutto considerato sarebbe meglio se non ci fossero più
persone (e neanche vita cosciente). Un problema secondario riguardo all’estinzione è se, data l’inevitabilità dell’estinzione in futuro, sia meglio che avvenga presto o tardi. Qui sosterrò che, sebbene un’estinzione molto imminente sarebbe per noi un male, ciò nonostante sarebbe meglio che si verificasse presto piuttosto che tardi. Questo perché estinguendoci presto si risparmierebbe il significativo dolore delle vite future che in caso contrario comincerebbero. Mostrerò tuttavia che, da certi punti di vista, la creazione di un limitato numero di nuove persone potrebbe essere giustificata. Se così fosse, per quanto non sia necessario che l’estinzione si verifichi il prima possibile, dovrebbe comunque verificarsi presto piuttosto che tardi. Di conseguenza, anche questa più modesta conclusione è profondamente contraria all’idea sentimentale e più diffusa che sarebbe meglio, a parità di condizioni, se gli umani continuassero a esistere il più a lungo possibile. Benché popolazione ed estinzione siano collegate fra loro, si tratta di problemi distinti. Una delle ragioni è che la grandezza della popolazione e il tempo per giungere all’estinzione non sono necessariamente correlati. Ovviamente più a lungo esisteranno esseri umani e più esseri umani potrebbero esserci, ma non ne consegue che più a lungo esisteranno esseri umani e più esseri umani ci saranno. Il tempo per giungere all’estinzione è una variabile che può influire sulla grandezza della popolazione, ma lo è anche il tasso di riproduzione. Così, se immaginiamo che l’estinzione avverrà tra dodici anni, come conseguenza magari dell’impatto di un asteroide che renda il pianeta improvvisamente inabitabile, all’attuale tasso di riproduzione nascerebbe circa un altro miliardo di esseri umani prima della fine dell’Homo Sapiens. Se il tasso di riproduzione si dimezzasse, il tempo per giungere all’estinzione potrebbe raddoppiare – l’asteroide colpirebbe fra due dozzine di anni – senza che il numero totale di persone future aumentasse. Il rapporto fra numero di persone e tempo per giungere all’estinzione non è necessariamente casuale. Potrebbe esistere un’interazione. Possiamo quindi immaginare circostanze in cui produrre meno esseri umani assicuri l’esistenza degli esseri umani stessi per un periodo più lungo. Forse l’eccesso di persone provocherà una guerra
che a sua volta provocherà la fine della specie. S Nel momento in cui scrivo, vivono circa 6,3 miliardi di persone.204 Moltissimi pensano che siamo in troppi – che abbiamo già un problema di sovrappopolazione. Altri pensano che, se non facciamo qualcosa per controllare l’aumento della popolazione (o se non succede qualcosa al riguardo), ben presto ci saranno troppe persone. Anche chi non pensa che la popolazione prevista nei prossimi cento o duecento anni sarebbe troppa, sicuramente pensa che ci sia un limite oltre il quale sarebbe troppa. Nessuno può negare ragionevolmente che potrebbe esserci un numero di esseri umani troppo grande o, in altri termini, che potrebbe esserci la sovrappopolazione. Il concetto di sovrappopolazione è normativo, non descrittivo o predittivo. Non ci saranno mai più persone di quante potrebbero esserci,205 ma potrebbero essercene più di quante dovrebbero. Quanto dev’essere grande la popolazione per diventare sovrappopolazione? Questa domanda si può porre relativamente a: a) la popolazione complessiva, b) una popolazione in un dato momento. Quest’ultima domanda – quante persone possono esserci in un dato momento? – è quella che ci si pone di solito. Questo perché il numero di persone che vive in ogni momento dato può avere conseguenze sul benessere delle persone (future)206 o (direbbero alcuni ambientalisti) sul pianeta. Dal punto di vista umano, potrebbe non esserci cibo sufficiente, oppure il mondo potrebbe diventare semplicemente troppo affollato. Dal punto di vista ambientale, l’impronta ecologica di una popolazione umana molto numerosa potrebbe essere troppo grande.207 La preoccupazione più diffusa è quindi evitare che ci siano troppe persone nello stesso tempo o in un determinato periodo. È una preoccupazione ragionevole. Tuttavia, come ho accennato, possiamo porci anche la domanda cumulativa relativa alla popolazione – quante persone possono esserci nel tempo?208 La maggior parte delle persone intende questa domanda come una funzione della popolazione
corrente, della (possibile) durata dell’umanità e delle circostanze di ciascun periodo della storia umana. In altri termini, la loro risposta alla domanda “Quante persone possono esserci in tutto?” è calcolata sommando,209 per ciascun periodo della possibile durata dell’umanità, le risposte alla domanda “Quante persone possono esserci in questo periodo?”. Ma, come dimostrerò, alla domanda sulla popolazione complessiva si può rispondere ed è stato risposto in altri modi. La mia tesi che venire al mondo sia sempre un grave male implica una risposta radicale alla domanda sulla popolazione (in entrambe le sue formulazioni). Suggerisce che una popolazione complessiva di uno sarebbe stata sovrappopolazione. Questo non perché ci sarebbero state troppe persone sulla terra, o troppe persone perché la terra potesse sostentarle. Ma perché venire al mondo è un grave male – e un male così grave sarebbe stato di troppo. Di fatto, comunque, in base ai miei criteri, ci sono già stati miliardi di umani di troppo. Stabilire quanti miliardi è difficile. Quando, per esempio, cominciamo a contare? Per sapere quanti esseri umani sono vissuti dobbiamo sapere da quando esistono gli uomini, ed è evidente che gli scienziati sono in disaccordo, in una certa misura, su questo.210 Dovremmo anche sapere, e non lo sappiamo, quanti esseri umani c’erano nella maggior parte della storia umana. Secondo una valutazione influente, comunque, dovrebbero essere stati ben più di 106 miliardi.211 Circa il 6 per cento di queste persone sono vive oggi.212 All’inizio la popolazione umana era piccola. Un autore suggerisce che una “combinazione di ragionamento ecologico e osservazione antropologica indica che le savane dell’Africa orientale e meridionale (dove ebbero origine gli esseri umani) abbiano sostentato inizialmente più o meno 50.000 esseri umani”.213 Ma circa 10.000 anni fa, all’avvento dell’agricoltura, la popolazione umana era cresciuta fino a una stima di 5 milioni.214 Aveva raggiunto i 500 milioni all’alba della rivoluzione industriale.215 L’aumento della popolazione mondiale ha avuto da allora una considerevole accelerazione. Ci è voluto più di un secolo (1804-1927) per passare da 1 miliardo a 2 miliardi, ma i miliardi successivi hanno richiesto
sempre meno tempo – 33 anni per il terzo miliardo nel 1960, 14 anni per il quarto nel 1974, 13 anni per il quinto nel 1987 e 12 anni per il sesto nel 1999.216 Anche se sarebbe stato meglio se nessuno degli oltre 106 miliardi di persone fosse venuto al mondo, queste persone (fra cui ci siamo voi ed io) non si possono più prevenire. Per questa ragione, molti preferirebbero concentrarsi sul problema di quante altre persone possano esserci – nel senso cumulativo, piuttosto che in un dato momento futuro. La risposta ideale qui è sempre “zero”, anche se questo ideale viene violato praticamente ogni secondo che passa.217 R La mia tesi che venire al mondo è sempre un grave male, se accettata, fornisce un’interessante soluzione a una serie di problemi morali a proposito della popolazione. Alcuni autori hanno considerato l’idea secondo cui non dovrebbero esistere altre persone non come una soluzione a questi problemi, ma come un altro problema. Questo tuttavia avviene perché hanno preso in considerazione solo la conclusione (che non dovrebbero esistere altre persone) anziché il ragionamento per giungere a questa conclusione. In altri termini, come mostrerò, si è visto che alcune teorie morali implicano il fatto che non dovrebbero esistere altre persone e si sono rifiutate le teorie sulla base di tale (presunta inaccettabile) implicazione. Ma ora che ho fornito un argomento indipendente al fatto che non dovrebbero esistere altre persone, si dovrebbe capire che una simile implicazione non è un elemento di debolezza, ma di forza, per una teoria morale. I problemi demografici del professor Parfit Il locus classicus della teoria morale a proposito della popolazione è la parte quarta di Reasons and Persons del professor Derek Parfit. La sua argomentazione è lunga e complessa e quindi non tutti i passaggi si potranno discutere qui. Ma fornirò una breve sintesi degli argomenti centrali prima di mostrare il rapporto fra il mio ragionamento e i suoi. Il professor Parfit affronta il problema della non-identità. Questo
problema, si ricorderà dalla mia trattazione nel capitolo 2, sorge quando l’unica alternativa a una cattiva qualità della vita consista nel non mettere al mondo quella vita stessa. Il problema della nonidentità è il problema di spiegare l’opinione comune secondo cui dare inizio a una vita del genere è sbagliato. Il professor Parfit sostiene che quelli da lui definiti punti di vista morali “personaffecting” non possono spiegare perché dare inizio a una vita simile sia sbagliato. Un punto di vista person-affecting è un punto di vista che valuta moralmente un’azione in base alle conseguenze che ha sulle persone. Nella sua prima definizione, il professor Parfit lo descrive come l’idea che “sia male ciò che ha conseguenze negative per le persone”.218 Questa idea, dice, non può risolvere il problema della non-identità perché nei casi di non-identità chi viene messo al mondo non può stare peggio di quanto sarebbe stato altrimenti, dato che altrimenti non sarebbe esistito. È la presunta incapacità del punto di vista person-affecting a risolvere il problema della non-identità che spinge il professor Parfit a caccia dell’elusiva Teoria X, una teoria che dovrebbe risolvere il problema della non-identità e nello stesso tempo evitare altri problemi sorti durante il percorso. Siccome pensa che il punto di vista person-affecting non possa risolvere il problema della nonidentità, egli considera l’alternativa – il punto di vista impersonale. Laddove il punto di vista person-affecting sostiene che una cosa è cattiva solo se peggiora la condizione di qualcuno, il punto di vista impersonale non si preoccupa degli effetti su persone particolari. Esamina invece i risultati in maniera più impersonale. Se la vita delle persone è migliore in uno scenario rispetto a un altro, il risultato migliore è da preferire anche se nessuno sta meglio. Questo punto di vista può spiegare perché sia sbagliato mettere al mondo una persona che avrà una cattiva qualità della vita. È sbagliato perché quello scenario è peggiore dell’alternativa in cui quella persona non venga creata. Non importa, dal punto di vista impersonale, che la persona messa al mondo non stia peggio di quanto sarebbe stata altrimenti. Basta che lo scenario in cui viene al mondo sia peggiore (impersonalmente) di quello in cui non viene al
mondo. In altri termini, un punto di vista impersonale può risolvere il problema della non-identità. Il punto di vista impersonale, tuttavia, non può essere la Teoria X: risolve il problema della non-identità, ma presenta gravi problemi. Per capire perché, dobbiamo distinguere due tipi di impersonalità: Punto di vista impersonale complessivo: “A parità di altri elementi, lo scenario migliore è quello in cui ci sarebbe la maggiore quantità di ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.219 Punto di vista impersonale medio: “A parità di altri elementi, lo scenario migliore è quello in cui la vita delle persone è mediamente migliore”.220 Consideriamo prima il problema legato al punto di vita impersonale complessivo. In questo caso, una popolazione più piccola con una migliore qualità della vita è peggio di una popolazione più grande con una peggiore qualità della vita nella misura in cui nella popolazione più grande vi sono persone in più che compensano l’inferiore qualità della vita. Derek Parfit rappresenta questi due mondi come nella figura 6.1.221
In questo schema, l’ampiezza del campo corrisponde al numero di persone, l’altezza alla qualità della vita. La popolazione A è molto piccola, ma ha un’alta qualità della vita. La popolazione Z è molto numerosa, ma ha una bassa qualità della vita. Di fatto, la vita a Z merita a malapena di essere vissuta. Tuttavia la quantità complessiva di bene in Z è superiore alla quantità complessiva di
bene in A. Quindi Z è meglio, secondo il punto di vista impersonale complessivo. Questo vale anche se le persone nel mondo più popoloso conducono vite di scarsa qualità. La conclusione che Z sia meglio di A, dice giustamente Derek Parfit, è ripugnante. Egli la definisce appunto “Conclusione Ripugnante”.222 Il punto di vista impersonale medio evita la Conclusione Ripugnante perché esige che il bene totale presente nel mondo venga diviso per il numero di persone presenti nel mondo, in modo da determinare il benessere medio. Nel mondo più popoloso, la qualità della vita media è molto più bassa. Esso è quindi peggiore del mondo meno popoloso. Il punto di vista impersonale medio risolve anche il problema della non-identità, ma neanch’esso può essere la Teoria X, perché solleva altri problemi. Per mostrare perché, Derek Parfit ci chiede di immaginare altri due mondi. Nel primo tutti hanno un’elevata qualità della vita. Nel secondo, oltre a tutte le persone con un’alta qualità della vita, ci sono altre persone che, pur non stando così bene, hanno comunque vite degne di essere vissute. Derek Parfit chiama questi casi “Pura Aggiunta”. Più precisamente, la pura aggiunta si verifica “quando, in uno dei due scenari, esistono persone in più (1) che hanno vite degne di essere vissute, (2) che non provocano cambiamenti negli altri e (3) la cui esistenza non comporta ingiustizia sociale”.223 Ora il punto di vista impersonale medio dice che il secondo mondo è peggiore, perché la qualità media della vita è peggiore. È resa peggiore dalla pura aggiunta di altre persone che, per quanto felici, non sono altrettanto felici delle prime. Derek Parfit lo considera implausibile. Ne conseguirebbe, dice, che ci sarebbe un peggioramento se in aggiunta ad Adamo ed Eva che vivono felici ci fosse un miliardo di altre persone che conducono vite leggermente meno felici. Il punto di vista impersonale medio comporta anche che il fatto di avere un figlio sia giusto o sbagliato a seconda della qualità di tutte le vite precedenti. Così, se “gli antichi Egizi avevano un’altissima qualità della vita, è più probabile che fare un figlio oggi sia sbagliato”.224 Ma, afferma il professor Parfit, “le ricerche degli
egittologi non possono essere definitive nella nostra decisione di avere un figlio”.225 Quindi il punto di vista impersonale medio è secondo lui implausibile. Perché l’anti-natalismo è compatibile con la Teoria X Se le mie argomentazioni vengono prese sul serio, si possono superare numerosi problemi del professor Parfit. Primo, nel capitolo 2 ho sostenuto che il problema della non-identità può essere risolto. Uno dei modi in cui ho detto che lo si può fare è impiegando il ragionamento di Joel Feinberg secondo cui venire al mondo può essere peggio che non esistere affatto. In alternativa, dicevo, possiamo affermare che anche se venire al mondo non è peggio, può comunque essere male per la persona che viene al mondo. Siccome l’alternativa è non male, possiamo dire che quella persona è quindi danneggiata. Questo ragionamento alternativo può sembrare inadeguato se si intende il punto di vista person-affecting, secondo quanto ho suggerito, come il punto di vista per cui qualcosa “è male se le persone sono ridotte in condizioni peggiori”.226 Ma la prima formulazione di Derek Parfit è più restrittiva del necessario. Quando passa a distinguere due tipi di principi person-affecting – ristretto e allargato – ne descrive uno come segue: Punto di vista person-affecting ristretto: “Uno scenario è peggiore (nel senso ristretto) se il verificarsi di X al posto di Y sarebbe peggio, o male, per le persone X”.227 La ragione per cui il professor Parfit pensa che l’aggiunta di “o male” non possa risolvere il problema della non-identità è che crede che venire al mondo non sia male purché le persone abbiamo una vita degna di essere vissuta. Ma io ho evidenziato un’ambiguità nell’espressione “una vita degna di essere vissuta”, osservando che potrebbe significare o “una vita degna di cominciare” o “una vita degna di continuare”. Tenendo presente questa distinzione, e considerando la tesi che venire al mondo sia sempre un male, ne consegue che nessuna vita è degna di cominciare (anche se alcune vite sono degne di continuare). Venire al mondo perciò è sempre
male per una persona, anche se si pensa che non sia peggio per quella stessa persona. Dato che il punto di vista person-affecting è in grado di risolvere il problema della non-identità, non c’è bisogno di appellarsi al punto di vista impersonale per risolverlo. Qualcuno poterebbe considerare il mio ragionamento come contrario al punto di vista impersonale. La conclusione ripugnante è ancora più ripugnante dal mio punto di vista che da quello di chi afferma che, a parità di condizioni, sia bene avere nuove vite. Per me, aggiungere nuove vite è peggio (perché aumenta il numero di persone danneggiate), e soprattutto quando queste nuove vite sono a malapena degne di continuare. Un mondo più popoloso con una minore qualità della vita è, in ogni senso, peggiore di un mondo meno popoloso con una migliore qualità della vita. Altri potrebbero suggerire che, se il punto di vista impersonale complessivo prende in considerazione il mio ragionamento, può evitare la conclusione ripugnante. Il mio ragionamento all’apparenza spiega che la conclusione ripugnante nasce a causa dell’assunto sbagliato che sia bene avere nuove vite degne di continuare. Il punto di vista impersonale complessivo può essere corretto per evitare sia questo errore sia la conclusione che ne risulta. Un modo per farlo consiste nel restringere l’obiettivo del punto di vista impersonale complessivo sì che si applichi solo alle persone che esistono ed esisteranno comunque e non alla domanda su quante persone dovrebbero esistere. In altri termini, lo si può considerare un principio per massimizzare la felicità delle persone esistenti, ma non per influire sul loro numero. Questa revisione, tuttavia, ha un costo evidente. Il punto di vista corretto cessa di fornire una guida riguardo al numero di persone che dovrebbero esistere. I miei ragionamenti gettano luce anche sul punto di vista impersonale medio. Questo punto di vista, come si ricorderà, affronta il (presunto) problema della pura aggiunta.228 Vale a dire che, secondo il punto di vista impersonale medio, non dovremmo aggiungere altre vite se abbassano il benessere medio di tutti gli esseri umani che hanno vissuto. La conseguenza che non si
debbano aggiungere nuove vite “degne di essere vissute” – leggi “degne di continuare” – è considerata implausibile. Il mio ragionamento tuttavia mostra che non lo è. Se nessuna vita è degna di cominciare, non è difettosa una teoria che precluda l’aggiunta di nuove vite indegne di cominciare, anche se tali vite sarebbero degne di continuare. In effetti sarebbe stato meglio se non fosse stato aggiunto nessuno alle vite edeniche di Adamo ed Eva. Questo tuttavia non va a sostegno del punto di vista impersonale medio, perché in base a questo punto di vista noi saremmo obbligati a iniziare nuove vite se ciò aumentasse la qualità media della vita di tutte le persone che sono vissute. Questo va contro la mia conclusione e implicherebbe comunque che l’egittologia sia rilevante rispetto alle nostre decisioni procreative. Come il punto di vista impersonale complessivo, il punto di vista impersonale medio si preoccupa di quanto bene c’è al mondo e non di come stanno le persone. Entrambi i punti di vista impersonali commettono l’errore di considerare le persone solo nella misura in cui esse aumentano la felicità (complessiva o media). Assumono erroneamente che il valore della felicità sia primario e il valore delle persone subordinato a questo. Ma, come ho osservato nel capitolo 2, non è che le persone siano importanti perché aggiungono più felicità. Anzi, la felicità in più è importante perché è un bene per le persone – perché rende migliore la loro vita. Il punto di vista impersonale complessivo e quello medio si possono correggere in modo che questo errore non faccia danni. È un altro modo per evitare i rispettivi problemi – la conclusione ripugnante e il problema della pura aggiunta. Con questa correzione, il punto di vista impersonale non cerca la maggior quantità di felicità complessiva o media, ma piuttosto la minor infelicità complessiva o media. In altri termini, il punto di vista impersonale corretto tenta di minimizzare l’infelicità complessiva o media. Questa correzione ha due vantaggi. Primo, conserva la capacità del punto di vista impersonale di indicare quante persone dovrebbero esistere. Secondo, porta alla conclusione da me sostenuta – e cioè che la popolazione ideale ha dimensione “zero”. Il modo per minimizzare l’infelicità è che non ci siano persone (o altri esseri coscienti). La
minor infelicità complessiva e la minor infelicità media sono entrambe infelicità zero, e l’infelicità zero, almeno nel mondo reale, si raggiunge avendo zero persone. Chi a questo punto desidera far risorgere la conclusione ripugnante e il problema della pura aggiunta immaginando un mondo in cui nessuna vita contiene nessun male, ma differisce dalle altre solo per la misura del bene che contiene, si trova di fronte a numerosi problemi. Primo, non è chiaro se riusciremo mai a dare un senso a un mondo del genere, data l’interazione fra bene e male in una vita. Come ho mostrato nel capitolo 3, una vita che contenesse pochissimo bene dovrebbe contenere qualche male – per esempio la noia di lunghi periodi senza alcun bene. L’unico modo per evitarlo sarebbe abbreviare la durata della vita, ma abbreviare la vita è un altro male. Se ammettiamo che questo problema si possa superare, ne nasce un secondo. Consideriamo prima la conclusione ripugnante. Ciò che ripugna nella conclusione ripugnante è l’idea (conseguenza del punto di vista impersonale complessivo) che un mondo pieno di vite a malapena degne di essere vissute sia meglio di un mondo contenente meno vite, ma di maggior qualità. Ma com’è possibile che le vite siano a malapena degne di essere vissute (leggi “degne di continuare”) se non contengono alcun male – e l’assenza di altri beni non è un male? In altri termini, com’è possibile che una vita che contiene solo bene e nessun male sia a malapena degna di continuare? Se le vite di Z sono effettivamente ben degne di continuare, allora preferire Z rispetto ad A non è più ripugnante (anche se uno pensa che continui a essere sbagliato). Consideriamo poi la pura aggiunta. È vero che se si sapesse che le potenziali vite future non contengono alcun male, anche la versione del punto di vista impersonale medio che minimizza l’infelicità non potrebbe escludere la pura aggiunta. Ma la domanda è se ciò costituirebbe un problema. Il fatto che la pura aggiunta sia considerata un problema si deve in gran parte al fatto che il rifiuto della pura aggiunta da parte del punto di vista impersonale medio va contro un assunto implicito – che sia un bene avere nuove vite degne di essere vissute. Il punto di vista impersonale medio afferma
che può essere un male avere nuove vite degne di essere vissute (se queste nuove vite abbassano il benessere medio). Laddove le vite contengono qualche male, ho mostrato che in base al mio ragionamento il punto di vista impersonale medio fa bene a rifiutare la pura aggiunta. Benché il mio ragionamento non mostri che il punto di vista impersonale medio faccia bene a rifiutare la pura aggiunta nei casi in cui le nuove vite non contengano alcun male, contribuisce nondimeno a superare il problema. Ricordiamo che, secondo il ragionamento che ho svolto nel capitolo 2, una (ipotetica) vita contenente qualche bene ma nessun male non è peggiore del non essere mai esistiti – né migliore. Secondo quel ragionamento, non c’è modo di scegliere fra (a) non venire al mondo e (b) venire al mondo con una vita che non contenga alcun male. Ciò rende il giudizio del punto di vista impersonale medio sulla pura aggiunta meno implausibile. Se è meglio avere nuove vite degne di essere vissute e il punto di vista impersonale medio suggerisce che sia peggio, abbiamo un grave problema. Tuttavia, se in base a un criterio non c’è modo di scegliere a favore o contro la pura aggiunta, e il punto di vista impersonale medio suggerisce di scegliere contro, non c’è necessariamente una contraddizione. Si può considerare che il punto di vista impersonale medio aggiunga un’altra condizione (impersonale) al giudizio che la pura aggiunta non è né meglio né peggio per coloro che vengono aggiunti. Oltre a risolvere il problema della non-identità e a evitare sia la conclusione ripugnante, sia il problema della pura aggiunta, il mio ragionamento che venire al mondo è sempre un male spiega anche la “Asimmetria”: Laddove sarebbe sbagliato fare un figlio che avrebbe una vita indegna di continuare, non c’è motivo morale per fare un figlio che avrebbe una vita ben degna di continuare.229 Dato che venire al mondo è sempre un male (anche se quella vita fosse degna di continuare), non può mai esserci una ragione morale per fare un figlio – o almeno nessuna ragione morale tutto considerato. (Potrebbe esserci una ragione pro tanto230 – come
l’interesse dei potenziali genitori.) La mia tesi che venire al mondo sia sempre un male svolge quindi buona parte di ciò che secondo Derek Parfit dovrebbe svolgere la Teoria X. Essa 1. risolve il problema della non-identità; 2. evita la conclusione ripugnante; 3. evita il problema della pura aggiunta; e 4. spiega la asimmetria. Questo non vuole suggerire che la mia tesi sia la Teoria X. Il mio è un ragionamento che riguarda solo il problema se debbano esserci nuove persone, laddove la Teoria X è una teoria etica generale che può affrontare in maniera soddisfacente anche le questioni demografiche. Ma il fatto che il mio ragionamento, al contrario di molti altri, sembri compatibile con la Teoria X in tutti questi modi fornisce nuove ragioni per prenderlo seriamente, benché a molte persone le sue conclusioni paiano contro-intuitive. Contrattualismo Se il contrattualismo231 possa fornire una guida riguardo al numero di persone che dovrebbero esserci è oggetto di discussione. Derek Parfit ritiene che esso non possa svolgere questa funzione. Dal punto di vista del contrattualismo ideale, i principi della giustizia sono scelti in quella che John Rawls chiama “posizione originale” – una posizione ipotetica in cui l’imparzialità è assicurata negando alle parti in quella posizione la conoscenza di fatti particolari riguardo a se stesse. Il problema tuttavia, afferma Derek Parfit, è che le parti nella posizione originale devono sapere che esistono. Ma dare per assodato, quando scegliamo principi che influiscono sulle persone future, che sicuramente esisteremo, scrive, “è come dare per assodato, quando scegliamo un principio che svantaggerà le donne, che saremo uomini”.232 Questo è un problema perché per il contrattualismo ideale è essenziale “che noi non sappiamo se porteremo il peso di un principio scelto”.233 Ora il problema di questa obiezione al contrattualismo è che
l’analogia non regge, e non regge perché solo chi esiste può “portare il peso” di un principio. Un principio che ha come risultato che alcune persone potenziali non diventino mai attuali non impone alcun costo a queste persone. Nessuno è penalizzato dal non venire al mondo. Rivka Weinberg dice la stessa cosa in modo diverso. Dice che “l’esistenza non è un vantaggio distribuibile” e quindi “né la gente in generale né gli individui in particolare saranno penalizzati dall’assunzione di una prospettiva esistente”.234 Chi non è soddisfatto di questa risposta potrebbe considerare se la posizione originale sia modificabile in modo tale che le parti non sappiano se esisteranno. Derek Parfit ritiene che un simile cambiamento sia impossibile. Infatti, dice, mentre noi “possiamo immaginare una possibile storia diversa, in cui non siamo mai esistiti... non possiamo accettare che, nella vera storia del mondo, possa essere vero che non siamo mai esistiti”.235 Ma a me non è chiaro perché questo spieghi il motivo per cui delle persone potenziali non possano essere parti nella posizione originale. Perché le parti nella posizione originale devono essere persone “nella vera storia del mondo”? Perché non possiamo immaginare invece che siano persone potenziali? Si potrebbe obiettare che è metafisicamente troppo fantasioso pensare a persone potenziali che occupano la posizione originale. Ma tutto il problema della posizione originale è che si tratta di una posizione ipotetica, non reale. Perché non potremmo immaginare persone ipotetiche che occupano una posizione ipotetica? La teoria del professor Rawls vuole essere “politica, non metafisica”,236 e la posizione originale, sottolinea, è solo una trovata espositiva per stabilire giudizi equi di giustizia. Questi sono principi che sarebbe razionale adottare se fossimo davvero imparziali. Che dimensioni avrebbe la popolazione prodotta dalle parti nella posizione originale? Questo com’è ovvio dipende da vari elementi della posizione originale. Se ammettiamo nella posizione originale persone potenziali, ma teniamo fissi tutti gli altri aspetti di quella posizione come la descrive il professor Rawls, scopriamo che i principi scelti porterebbero alla mia popolazione ideale – zero. Il
professor Rawls dice che le parti nella posizione originale massimizzerebbero la situazione peggiore – cioè massimizzerebbero il minimo – il cosiddetto “maximin”. Molti autori concordano: se applicato alla questione demografica, questo implicherebbe che non dovrebbero esserci persone.237 Infatti, finché continua la procreazione, alcune delle persone che vengono messe al mondo condurranno vite indegne di essere vissute (leggi “indegne di continuare”). L’unico modo per migliorare la loro posizione è non mettere al mondo queste persone, e l’unico modo per garantire che queste persone non siano messe al mondo è non mettere al mondo nessuno. Michael Bayles ritiene che il maximin produca questa conclusione solo se a essere distribuiti sono dei servizi. Se si tratta di beni di prima necessità – beni necessari per garantire altri beni – dice che si arriverebbe alla conclusione opposta. Dice che “la situazione peggiore non esiste, perché non riceve alcun bene di prima necessità. La classe che sta un pochino meglio è formata da coloro che potrebbero esistere o non esistere, e se esistono riceveranno alcuni beni primari. Di conseguenza, si dovrebbero mettere al mondo quante più persone possibile”.238 Sottesa a questo modo di ragionare c’è la premessa sbagliata che chi non esiste possa soffrire per la mancanza di un bene. Ma nel capitolo 2 abbiamo visto (figura 2.1, quadrante 4) che la mancanza di beni non è un male se non c’è nessuno che viene deprivato a causa della loro assenza. Quindi chi non esiste non rappresenta la situazione peggiore. Anzi, il mio ragionamento mostra che chi esiste sta sempre peggio per il fatto che esiste e quindi il maximin in effetti suggerisce che la dimensione ottimale della popolazione è zero. Chi ha colto questa conseguenza del maximin rispetto ai problemi demografici l’ha considerata una base per rifiutare il maximin. Cioè considera questa conseguenza una reductio ad absurdum del maximin. Il mio ragionamento suggerisce che questo rifiuto sia sbagliato.239 Chi rifiuta le implicazioni del maximin spesso crede che abbia importanza la probabilità di un esito negativo e quindi le parti nella posizione originale debbano poter ragionare in termini
probabilistici. Il professor Rawls pone alla posizione originale una condizione che lo impedisce. I miei ragionamenti mostrano che, nelle questioni demografiche, non fa differenza se le parti nella posizione originale possono ragionare in termini probabilistici o meno. Infatti venire al mondo è sempre un grave male. Quindi la probabilità di un esito negativo è del cento per cento. Quanto negativo – molto, molto, molto negativo, o solo molto negativo – è una questione di probabilità. Ma questo non ha importanza nel contesto attuale, dato che si sa già che qualsiasi esito in cui uno esista non presenta vantaggi rispetto all’esito in cui uno non esista. Quindi anche chi pensa che (a) le probabilità debbano essere tenute in conto, (b) gli interessi dei genitori e dei bambini debbano essere equilibrati, e (c) la procreazione debba essere consentita “solo quando non sia irrazionale”,240 è condotto alla stessa conclusione di chi sceglie di applicare il maximin. Se il mio ragionamento è giusto, è sempre irrazionale scegliere di venire al mondo. Delle parti razionali e imparziali sceglierebbero di non esistere, e questo condurrebbe a una popolazione pari a zero. E Ho mostrato come i miei ragionamenti contribuiscano a risolvere una serie di noti problemi etici riguardo alla popolazione. In effetti molti di questi problemi sorgono proprio perché non si riconosce che venire al mondo è sempre un grave male. Tuttavia, benché la mia teoria contribuisca a risolvere questi problemi demografici solitamente oggetto di discussione, essa deve affrontare altri problemi. Passo ora a considerare questi ultimi e a mostrare come si potrebbero risolvere. La mia risposta alla domanda “Quante persone dovrebbero esserci al mondo?” è “zero”. Vale a dire che secondo me non avrebbero mai dovuto esistere delle persone. Dato che sono esistite, io non credo che ne dovrebbero esistere altre. Ma questa risposta “zero”, come ho già detto, è una risposta ideale. C’è qualche aspetto del mondo reale, non ideale, che permette una risposta meno austera? Quando la diminuzione della popolazione peggiora la qualità della
vita I problemi demografici che abbiamo considerato finora hanno comportato la creazione di nuove persone. Il problema della nonidentità era quello di spiegare perché creare una persona era sbagliato. La conclusione ripugnante sorge nei casi in cui aggiungere nuove vite abbassa la qualità della vita. Il problema della pura aggiunta sorge dalla “pura aggiunta” di nuove persone che hanno “vite degne di essere vissute”. I miei ragionamenti risolvono questi problemi mostrando che nessuna di queste nuove persone dovrebbe essere messa al mondo. I problemi generati dalla mia tesi non sorgono dalla creazione di nuove persone, ma piuttosto dal fatto di non crearle. Per molte persone l’estinzione che deriverebbe dall’accettazione universale della mia tesi è il più grande di tali problemi. Più avanti in questo capitolo confuterò questa idea, mostrando come non vi sia niente di cui rammaricarsi in una situazione futura senza più persone. A mio avviso, invece, il problema demografico che pone i problemi maggiori è il percorso verso l’estinzione, e non l’estinzione in sé. Nel nostro mondo tanto popolato, siamo abituati a pensare che l’aumento della popolazione sia collegato a una diminuzione della qualità della vita. Ma è possibile, in altre circostanze, che una diminuzione della popolazione sia collegata a una diminuzione della qualità della vita. Questo può verificarsi in uno dei due modi seguenti. Se una popolazione si riduce troppo rapidamente e lo fa in conseguenza di un abbassamento del tasso di natalità (e non di un aumento del tasso di mortalità, soprattutto degli anziani), la qualità della vita può diminuire perché una parte maggiore della popolazione è non produttiva a causa dell’età avanzata. In questi casi, i giovani adulti non riescono a produrre quanto necessario per mantenere la qualità della vita precedente per tutta la popolazione. Pertanto, non è la dimensione assoluta della popolazione ridotta a causare il peggioramento della qualità della vita, ma il rapporto fra giovani e vecchi risultato del calo della popolazione prodotto dall’abbassamento del tasso di natalità. Il secondo modo, legato al primo, in cui la diminuzione della popolazione può peggiorare la qualità della vita si ha non quando
una generazione è relativamente meno numerosa di quella precedente, ma quando la dimensione di una generazione scende al di sotto di una tra varie soglie. In questi casi, la dimensione assoluta della popolazione (e non semplicemente quella relativa) è talmente piccola che la qualità della vita diminuisce. Consideriamo un caso estremo, intorno alla soglia più bassa. Adamo ed Eva sono le uniche persone viventi (Caino, Abele e Seth non sono mai nati). Adamo muore e la vedova Eva resta senza alcuna compagnia umana.241 La qualità della vita di Eva si riduce non perché la popolazione umana è il 50% di prima, ma perché è scesa al di sotto di una certa soglia – in questo caso la soglia necessaria per la compagnia. Se avesse dei figli, avrebbe almeno un po’ di compagnia umana dopo la morte di Adamo. Mettere al mondo delle persone infligge sempre un grave dolore a quelle persone. Ma in certe situazioni non mettere al mondo delle persone può rendere la vita di quelle già esistenti molto peggiore di quanto sarebbe stata altrimenti. Questo è motivo di preoccupazione. Tuttavia, dobbiamo evitare un lento regresso in cui si continua a fare del male aggiungendo nuove generazioni per evitare un dolore in più alle persone già esistenti. La creazione di nuove generazioni sarebbe quindi accettabile, a mio avviso, solo se fosse finalizzata all’estinzione graduale. A meno che l’umanità non finisca all’improvviso, le persone ultime, che prima o poi esistano, probabilmente soffriranno molto.242 È sensato assicurarsi che un numero minore di persone soffra questo destino. Questo si può ottenere riducendo costantemente il numero di persone esistenti. Non mi faccio illusioni. Per quanto gli esseri umani possano tentare di ridurre volontariamente il loro numero, nelle circostanze attuali non lo faranno mai con l’intenzione di tendere all’estinzione. Considerando il problema dell’estinzione graduale a partire da una popolazione molto numerosa, quindi, non sto parlando di ciò che succederà, ma solo di ciò che dovrebbe succedere o che sarebbe meglio che fosse successo. Detto altrimenti, sto parlando delle conseguenze e delle applicazioni teoriche delle mie idee.
Immaginiamo due popolazioni rappresentate nella figura 6.2.
nel
prossimo
futuro,
come
Come nella figura 6.1, la larghezza (cioè l’asse orizzontale) di 1 e 2 rappresenta le dimensioni della popolazione: le forme più grandi rappresentano un numero maggiore di persone. A è una popolazione che esisterebbe se la procreazione continuasse, ma con un tasso di sostituzione di circa il 75%. B è la popolazione che esisterebbe se smettessimo di procreare con effetto immediato. In entrambi i futuri, tutte le vite sono al di sotto della qualità zero – col che intendo il livello appena al di sopra del quale una vita diventa degna di cominciare (e non il livello appena al di sopra del quale una vita diventa degna di continuare). Qui mi distacco dalla rappresentazione di Derek Parfit nella figura 6.1. Benché Parfit non pensi che tutte le vite sulla scala positiva siano degne di essere vissute (e quindi la base dei suoi riquadri non sia il livello a cui la vita diventa degna di essere vissuta),243 il suo punto di partenza è che alcune vite siano degne di essere vissute e che tutte queste vite abbiano un valore netto positivo. Data la mia tesi, le vite non sono più o meno cattive, né più o meno buone. Per questo uso la scala negativa al di sotto della qualità zero. Peggiore è la qualità della vita, più in basso si estende sull’asse verticale. Le persone 1 sono le stesse in A e in B. In A, le persone 1 sono quelle che esistono prima che le persone 2 siano messe al mondo. Mettere al mondo le persone 2 rende la vita delle persone già esistenti meno cattiva di quanto sarebbe altrimenti. L’assenza delle persone 2 in B rende la vita delle persone già esistenti molto peggiore. Ma questo non vale per tutte le persone 1 in B. Questo perché alcune di loro moriranno prima di poter sentire l’impatto
dell’assenza delle persone 2. La misura del male per le persone 2 dipende da quanto sono cattive le loro vite. Il dolore di venire al mondo non è distinto dal dolore di una vita già cominciata. In altri termini, una vita è cattiva esattamente quanto è male venire al mondo con quella vita. Nella figura 6.2 ipotizzo, per semplicità, che le nuove vite abbiano la stessa qualità delle precedenti – cioè che saranno altrettanto cattive (ma non peggiori) della vite delle persone 1 in A. Questo significa che le persone 2 non sono le ultime. Se fossero le ultime, molte di loro condurrebbero vite molto peggiori delle persone 1 in A, che invece assomiglierebbero alle vite delle persone 1 in B. Ogni valutazione complessiva della moralità dell’estinzione graduale dovrebbe prendere in considerazione il male patito da tutte le generazioni fino a quel momento, compresa la generazione finale. Qui io semplifico il problema concentrandomi solo su una nuova generazione. In base alla tesi che le persone 2 siano danneggiate dal fatto di venire al mondo, possono essere comunque messe al mondo nella misura in cui la loro esistenza rende migliore la vita di alcune delle persone 1? Più in generale, la mia tesi anti-natalista deve affrontare le domande seguenti: 1. Possiamo creare nuove vite per migliorare la qualità delle vite esistenti? 2. E in questo caso, a quali condizioni possiamo farlo? Ridurre la popolazione a zero A queste domande non si può rispondere assumendo il punto di vista person-affecting ristretto. Il quale, come si ricorderà, sostiene che: “Uno scenario è peggiore per le persone (in senso ristretto) se il verificarsi di X anziché di Y è peggio, o male, per le persone X”.244 Ho mostrato come questa prospettiva possa risolvere il problema della non-identità. Il punto di vista person-affecting ristretto può mostrare anche perché il mondo B nella figura 6.2 è peggiore per le
persone 1 e perché il mondo A è peggiore per le persone 2. Ma il punto di vista person-affecting ristretto non può dare risposta alle due domande che abbiamo di fronte ora. Non ci dice se possiamo infliggere dolore mettendo al mondo nuove persone a patto che ciò riduca il dolore di coloro che già sono al mondo, né a quali condizioni, nel caso, possiamo farlo. Il punto di vista person-affecting ristretto non ci dice se possiamo mettere al mondo le persone 2 a patto che ciò riduca il dolore (di molte) delle persone 1. Il punto di vista person-affecting allargato, al contrario, può rispondere alle nostre due domande e può dirci se A è peggiore di B. Tuttavia, come mostrerò, non può rispondere a queste domande in modo da prendere sul serio l’idea che venire al mondo sia sempre un grave male. Il punto di vista person-affecting allargato: “Uno scenario è peggiore per le persone (in senso allargato) se il verificarsi di X fosse meno buono per le persone X rispetto al verificarsi di Y per le persone Y”.245 Il punto di vista person-affecting allargato dice che possiamo creare nuove vite per migliorare la qualità delle vite già esistenti se il dolore delle persone già esistenti in assenza di nuove persone sarebbe maggiore del male fatto alle nuove persone. Ma in quali condizioni si può dire che il nuovo male sia maggiore dell’altro? Come si fa un simile confronto? Derek Parfit suggerisce due versioni del punto di vista person-affecting allargato, ciascuna delle quali porta a diversi modi per sviluppare il confronto: Punto di vista person-affecting complessivo: Uno scenario è peggiore per le persone “se il beneficio totale netto che viene alle persone X dal verificarsi di X fosse minore del beneficio totale netto che viene alle persone Y dal verificarsi di Y”.246 Punto di vista person-affecting medio: Uno scenario è peggiore per le persone “se il beneficio totale netto per persona che viene alle persone X dal verificarsi di X fosse minore del beneficio totale netto per persona che viene alle persone
Y dal verificarsi di Y”.247 Dato che tutti, secondo la mia tesi, sono danneggiati, sarebbe meglio esprimere questi principi in termini di “danneggiamento” anziché di “beneficio” – cioè in chiave negativa e non positiva: Punto di vista person-affecting complessivo negativo: Uno scenario è peggiore per le persone “se il danno totale netto che viene alle persone X dal verificarsi di X fosse maggiore del danno totale netto che viene alle persone Y dal verificarsi di Y”. Punto di vista person-affecting medio negativo: Uno scenario è peggiore per le persone “se il danno totale netto per persona che viene alle persone X dal verificarsi di X fosse maggiore del danno totale netto per persona che viene alle persone Y dal verificarsi di Y”. In entrambi i casi, B è peggiore di A. Vale a dire, in entrambi i casi il danno alle persone 2 sarebbe giustificato dall’effetto di riduzione del danno che la presenza di queste persone ha sulle (o su molte delle) persone 1. Dei due punti di vista, quello medio è il meno plausibile. Aggiungere nuove vite non aumenta il danno medio per persona se la qualità della vita delle nuove persone è uguale o migliore di quella delle persone precedenti. Dodici miliardi di vite di scarsa qualità, quindi, non sono peggio, dal punto di vista medio, di sei miliardi di vite della stessa qualità. Ma senza dubbio dev’essere peggio infliggere lo stesso male a un numero doppio di persone. Il punto di vista complessivo evita questo problema. Il male complessivo nel mondo con dodici miliardi di vite di scarsa qualità è maggiore di quello in un mondo con sei miliardi di vite della stessa qualità. Il punto di vista person-affecting complessivo negativo fornisce quindi una risposta a quando possiamo creare nuove vite per ridurre il dolore delle persone già esistenti. Possiamo farlo quando così facendo riduciamo il dolore complessivo patito dalle persone. Alcuni possono trovare questa risposta insoddisfacente perché si preoccupa solo di quanto dolore c’è e non di come è distribuito e di
come è causato. Per esempio, alcuni pensano che sia diverso se un maggior numero di persone soffre ciascuna un male minore o se un minor numero di persone soffre ciascuna un male maggiore. Da questo punto di vista, sarebbe peggio creare meno persone che soffrono di più anziché più persone che soffrono di meno, anche se la quantità complessiva di male fosse equivalente. Altri possono pensare che sia in qualche modo peggio provocare dolore mettendo al mondo delle persone anziché lasciare che il dolore sia la conseguenza del non aver messo al mondo nuove persone. Probabilmente essi pensano che provocare attivamente il male sia peggio che farlo passivamente. Più plausibilmente, pensano che creare nuove persone, e quindi farle soffrire, per rendere meno dolorose le nostre vite, significa trattare quelle persone come mezzi per i nostri fini. Da questo punto di vista potrebbe esserci un presupposto contrario alla creazione di nuove persone per rendere la nostra vita meno buona. Anche se tale presupposto può essere superato laddove la riduzione del dolore sia sufficientemente grande, la creazione di dolore per le nuove persone non si può giustificare con un’equivalente riduzione del dolore per le persone già esistenti. Alcuni potrebbero restare sorpresi dal fatto che un punto di vista person-affecting possa essere oggetto di critiche – la distribuzione del dolore, per esempio – solitamente rivolte al punto di vista utilitaristico (impersonale). Tuttavia, sia il punto di vista personaffecting complessivo che quello medio possono non essere affatto person-affecting. Derek Parfit lo riconosce quando afferma che entrambi i punti di vista person-affecting allargati “riaffermano il principio impersonale in forma person-affecting”248 o “in termini person-affecting”.249 È tutt’altro che chiaro se i principi siano personaffecting, se sono principi impersonali mascherati. Un punto di vista impersonale non diventa person-affecting semplicemente perché viene riformulato in un modo che sembra person-affecting. I principi impersonali non si curano delle conseguenze che un’azione ha sulle persone singole, ma di quelle che ha sulle persone in generale. Non sorprende quindi che tali punti di vista non possano render conto in maniera adeguata del male subito da singole persone per il fatto di
venire al mondo. Questo non vuol dire che tutti i principi person-affecting allargati debbano soccombere a questo problema. Forse c’è una versione di questo principio che è davvero person-affecting. In altri termini, forse c’è un modo per escludere “meno bene per le persone X che... per le persone Y” tenendo conto dell’impatto sulle persone singole. Quello medio e quello complessivo non sono gli unici modi. Che sia possibile o meno, ci sono alcuni punti di vista che tengono conto di come il dolore è distribuito e provocato. Per esempio, il punto di vista dei diritti o deontologico potrebbe affermare che alcuni mali sono talmente grandi che non si possono infliggere, anche se non infliggendoli si provocano mali maggiori ad altri. In base a questa riflessione, per esempio, è sbagliato togliere a una persona un rene sano contro la sua volontà, anche se per un potenziale ricevente il danno del mancato trapianto fosse maggiore del danno fatto al donatore involontario. Infatti il donatore ha il diritto a non farsi rimuovere involontariamente un rene, oppure gli altri hanno il dovere di non rimuoverlo involontariamente. Se esiste il diritto a non venire al mondo – un diritto che trova il suo portatore solo quando viene infranto – allora si potrebbe sostenere che sarebbe sbagliato creare nuove persone anche se ciò riducesse il male delle persone attualmente in vita. Chi si preoccupa di attribuire a esseri non esistenti un diritto a non esistere, potrebbe pensare alla questione in termini del dovere di non mettere al mondo nessuno. Questo sarebbe il dovere di non infliggere il dolore che viene inflitto quando si mette al mondo qualcuno. Da questo punto di vista deontologico, c’è il dovere di non mettere al mondo nuove persone – un dovere che non può essere violato anche se così facendo il dolore fosse minore di quello patito da chi già esiste in assenza di nuove persone. L’idea qui è che sarebbe sbagliato creare persone, anche se meno numerose, destinate a patire il destino degli ultimi esseri umani, per risparmiare a noi stessi (anche se più numerosi) quello stesso destino. Laddove i diritti o i doveri sono assoluti, non importa quanto più grande sia il male per chi già esiste. Laddove i diritti sono non assoluti, i mali da cui ci proteggono non si possono infliggere solo
per un’equivalente riduzione del male per altri, ma si possono infliggere per una riduzione significativamente maggiore. Più forte è il diritto non assoluto, più grande dev’essere la riduzione del male per gli altri. Se mettiamo insieme i miei argomenti anti-natalisti e il punto di vista dei diritti per rispondere alle domande su quando, eventualmente, possiamo mettere al mondo nuove persone per ridurre il dolore di quelle esistenti, le nostre risposte non dipenderanno solo dal punto di vista che assumiamo rispetto alla forza dei diritti. Esse dipenderanno anche dal punto di vista che assumiamo rispetto alla gravità del male di venire al mondo. Più è grave il male, più è probabile che ne siamo protetti da un diritto più forte. Ho esaminato una serie di punti di vista e le loro implicazioni per le seguenti domande: 1. Possiamo creare nuove vite per migliorare la qualità delle vite esistenti? 2. E in questo caso, a quali condizioni possiamo farlo? Questi punti di vista e le loro implicazioni sono riassunti nella figura 6.3:
* Lo scrivo fra parentesi perché ho ormai chiarito come il “Punto di vista person-affecting ristretto” sia l’unico “Punto di vista person-affecting”, anche se ho segnalato come sia ancora possibile formularne uno “allargato” che sia realmente “person-affecting”. ** Lo chiamo “Punto di vista medio negativo” anziché “Punto di vista person-affecting medio negativo allargato” perché, come abbiamo visto, l’etichetta “person-affecting” è fuorviante, e se ciò è vero anche l’aggettivo “allargato” è inutile. *** Lo chiamo “Punto di vista complessivo negativo allargato” anziché “Punto di vista complessivo negativo allargato” perché, ripeto, l’etichetta “person-affecting” è fuorviante, e se ciò è vero anche l’aggettivo “allargato” è inutile.
Solo il punto di vista complessivo negativo e il punto di vista dei diritti e doveri sono candidati plausibili per rispondere alle domande antinataliste su quando si possa permettere la procreazione per prevenire ulteriore dolore alle persone già esistenti. Benché sia il punto di vista complessivo negativo e il meno stringente punto di vista dei diritti e doveri ammettono la creazione di alcune persone, entrambi sono compatibili con l’anti-natalismo. Questo perché essi ammettono la creazione di nuove persone solo come misura ad interim nel percorso di estinzione dell’umanità al minimo costo morale. Il più stringente punto di vista dei diritti e doveri è chiaramente compatibile con l’anti-natalismo. Non è chiaro se le condizioni del punto di vista complessivo
negativo o quelle del meno stringente diritti e doveri siano rispettate nel nostro mondo. In altri termini, non è ovvio se creare nuove persone ridurrebbe il dolore totale (esigenza del punto di vista complessivo) o se lo ridurrebbe abbastanza (condizione del meno stringente punto di vista dei diritti e doveri). Anche se l’estinzione graduale molto probabilmente ridurrebbe il numero di persone che patirebbero il destino degli ultimi esseri umani, potrebbe aumentare il dolore complessivo (perché più persone soffrirebbero) o non ridurlo abbastanza da giustificare il dolore di coloro che verrebbero al mondo. In aggiunta alle ovvie questioni normative, ve ne sono di importanti empiriche. Che siano rispettate o meno le condizioni del punto di vista complessivo o del meno stringente diritti e doveri, i procreatori comuni o potenziali non possono attualmente appellarsi ad esse per giustificare il loro riprodursi. Questo perché i problemi di qualità della vita legati alla demografia che abbiamo di fronte oggi sono legati all’aumento e non alla diminuzione della popolazione. E anche se l’aumento della popolazione cominciasse a ridursi o a trasformarsi in una graduale riduzione, ciò non sarebbe ancora sufficiente. È solo in situazioni di rapidissimo declino della popolazione o di ritorno a livelli che gli esseri umani hanno superato millenni fa che potrebbe porsi il problema di creare delle persone per ridurre il dolore. Siamo molto lontani da questa situazione. E I miei ragionamenti in questo capitolo e in quello precedente implicano che sarebbe meglio se gli esseri umani (e altre specie) si estinguessero. A parità di condizioni, i miei ragionamenti suggeriscono anche che sarebbe meglio se ciò avvenisse prima che poi. Queste conclusioni turbano molte persone. Ora esaminerò questa reazione diffusa per stabilire se la prospettiva dell’estinzione umana sia davvero degna di rammarico e se davvero sarebbe meglio che si verificasse prima che poi. La specie umana, come tutte le altre specie, prima o poi si estinguerà.250 Molte persone sono turbate da questa prospettiva e trovano conforto solo nella speranza che vi sia ancora moltissimo
tempo prima che l’evento si verifichi.251 Altri non sono tanto sicuri che la nostra specie abbia un lungo futuro. In ogni generazione ci sono pochi che credono che “la fine è vicina”. Spesso queste credenze sono frutto di un’escatologia male informata, sovente di ispirazione religiosa, se non di disordine mentale. A volte, però, non è così.252 C’è chi crede che non solo le minacce esterne, come l’impatto con un asteroide, ma anche gli attuali comportamenti umani, fra cui i consumi non sostenibili, i danni all’ambiente, le nuove malattie e quelle recrudescenti, e le armi nucleari e biologiche, costituiscano una seria minaccia per il futuro a lungo termine dell’umanità. Per altri, l’imminente estinzione non sarà dovuta a ragioni empiriche, ma filosofiche. Ragionando in termini probabilistici, essi sostengono che siamo destinati a “una rapida rovina”.253 Non avanzerò argomenti e prove delle varie teorie su quando si verificherà l’estinzione. Sappiamo che si verificherà, e questo fatto ha un effetto curioso sul mio ragionamento. Stranamente, lo rende un ragionamento ottimistico. Nonostante le cose al momento non sono come dovrebbero – ci sono delle persone laddove non dovrebbero essercene – un giorno le cose saranno come devono – non ci sarà più nessuno. In altri termini, anche se le cose adesso vanno male, miglioreranno, anche se in un primo tempo peggioreranno con la creazione di nuove persone. Qualcuno vorrà che gli si risparmi questo tipo di ottimismo, ma qualche ottimista potrebbe ricavare un certo conforto da questa osservazione. Due modalità di estinzione Sarebbe utile distinguere fra due modi in cui una specie può estinguersi. Il primo consiste nell’essere sterminata. Il secondo è morire. Possiamo chiamare il primo “estinzione-sterminio” e il secondo “estinzione-morte” o “estinzione-non riproduttiva”. Quando una specie viene sterminata, l’estinzione è attuata uccidendo gli individui della specie finché non ne resta nessuno. Queste uccisioni possono essere opera degli uomini o avvenire per mano della natura (o degli uomini che forzano la mano della natura). Al contrario, quando una specie muore, l’estinzione è provocata dall’incapacità di
sostituire gli individui della specie la cui vita giunge all’inevitabile fine naturale. Dovrebbe essere chiaro che i due modi di estinguersi possono sovrapporsi. Ciò che spesso accade è che gli individui uccisi sono talmente numerosi che quelli rimasti non riescono a sostituire se stessi e quelli uccisi, sicché alla loro morte la specie si estingue. In alternativa, quando una specie non riesce a riprodursi in maniera adeguata, la specie è spinta verso l’estinzione dall’uccisione dei pochi individui rimanenti della specie stessa. Nonostante la sovrapposizione, la distinzione fra i due tipi di estinzione (o, se preferite, tra i due aspetti dell’estinzione) è utile. Ci sono chiare differenze. La più evidente è che l’estinzione-sterminio abbrevia delle vite, mentre l’estinzione-morte non lo fa. Per quanto morire possa essere un male per chiunque di noi, morire prima del necessario è ancora peggio. In secondo luogo, c’è una differenza morale fra i casi di estinzione-sterminio e i casi di estinzione-morte. Se gli anti-natalisti diventassero pro-mortalisti e si impegnassero in un programma “speciecida” per uccidere gli esseri umani, le loro azioni si troverebbero di fronte dei problemi morali che non esisterebbero nel caso dell’estinzione-morte. Esseri umani che uccidono i loro simili fino all’estinzione sarebbero problematici come qualunque omicidio è problematico. È (di solito) un male per chi viene ucciso e, al contrario della morte (per cause naturali), è un male che si potrebbe evitare (finché non sopraggiunge la morte). Possiamo dispiacerci per una morte per cause naturali alla fine di una vita lunga e piena, ma non possiamo dire che sia stato fatto qualcosa di male, mentre possiamo dire che un soggetto morale che uccide qualcuno senza un’adeguata giustificazione sbaglia. Sottolineando queste due differenze, do per scontato che la morte sia un male per chi muore. L’idea che la morte sia un male per chi muore non è irragionevole. Anzi, è ciò che dice il buon senso e sottintende molti giudizi importanti. Ciò nonostante è stata messa in discussione. Affronterò questa obiezione filosofica nell’ultimo capitolo, non per difenderla o rifiutarla, ma per mostrare la sua importanza.
Tre preoccupazioni riguardo all’estinzione Ci sono tre modi in cui l’estinzione potrebbe essere considerata un male: 1. Laddove l’estinzione è provocata dallo sterminio, si può pensare che sia un male perché abbrevia delle vite. 2. Comunque avvenga l’estinzione, la si potrebbe ritenere un male per coloro che la precedono. 3. Lo stato di estinzione potrebbe essere considerato un male in sé. Da questo punto di vista, un mondo in cui non vi siano persone (o altri esseri coscienti) è deprecabile di per sé, a prescindere dal significato di questo stato di cose per i predecessori.254 Possiamo capire che i primi due modi inducano al rammarico. A meno che la vita delle persone non sia indegna di continuare, abbreviare la loro vita la rende peggiore – si aggiunge una morte prematura a tutti gli altri mali dell’essere al mondo. Ma l’estinzione non deve avvenire necessariamente così. Anzi, smettere di creare altre persone è il modo migliore per assicurarsi che la vita delle persone future non venga abbreviata. Semplicemente, non ci sarebbero persone la cui vita potrebbe essere abbreviata. Ma questa opzione non evita la seconda preoccupazione riguardo all’estinzione. L’ultima generazione a morire dovrebbe sopportare pesanti fardelli. Primo, le sue speranze e i suoi desideri di un futuro al di là di se stessi sarebbero interrotti. Anche i desideri e le speranze della penultima generazione e delle precedenti sarebbero interrotti, ma il dolore dell’ultima generazione sarebbe più grave perché speranze e desideri di un futuro che vada oltre se stessi sarebbero bloccati radicalmente. Non ci sarebbe alcun futuro, mentre ci sarebbe almeno un po’ di futuro per la penultima generazione e un po’ di più man mano che si risale all’indietro. Il secondo e più evidente fardello per l’ultima generazione è che vivrebbe in un mondo in cui le strutture sociali crollerebbero a poco a poco. Non ci sarebbero generazioni di lavoratori giovani a coltivare, a mantenere l’ordine, a gestire ospedali e ricoveri per anziani, a seppellire i morti.
La situazione sarebbe davvero cupa e possiamo dire senza dubbio che l’incombente estinzione sarebbe quindi un male per gli ultimi esseri umani. È difficile sapere se le loro sofferenze sarebbero maggiori di quelle di molte persone all’interno di ciascuna generazione. Non ne sono affatto sicuro, ma immaginiamo per un momento il contrario. Per stabilire se questo tratto deprecabile dell’imminente estinzione sia tutto considerato un male, dobbiamo tener conto non solo degli interessi degli ultimi esseri umani, ma anche del male evitato non producendo nuove generazioni. Quando l’umanità giunga alla fine, ci saranno alti costi per gli ultimi esseri umani. O saranno uccisi o languiranno per le conseguenze della riduzione della popolazione e il crollo delle infrastrutture sociali. A parità di condizioni, non c’è alcun vantaggio se questo avviene più tardi. Le sofferenze sono identiche. Ma c’è un costo che non si deve pagare se l’estinzione si verifica prima – il costo delle nuove generazioni che vivono tra la generazione presente e quella finale. Il vantaggio di un’estinzione rapida è quindi notevole. Nel migliore dei casi, la produzione di un numero limitato di persone future, come ha mostrato la discussione in “Estinzione graduale”, si potrebbe giustificare nell’ambito di un programma di estinzione graduale, grazie al quale il numero di persone che patirà il destino dell’ultima generazione è radicalmente ridotto rispetto ai miliardi attuali. Tuttavia, se il numero di persone si possa ridurre abbastanza rapidamente, senza i costi legati al rapido declino della popolazione, fino a un livello in cui il numero di persone finali sia abbastanza piccolo da compensare il male delle generazioni di mezzo, è difficile a dirsi. Quale che sia la risposta, possiamo affermare che l’estinzione nel giro di poche generazioni è da preferirsi all’estinzione dopo innumerevoli nuove generazioni. Una rapida estinzione può essere peggio per qualcuno, ma non ne consegue che sia peggio nel complesso. Che l’estinzione si verifichi presto o tardi, la terza preoccupazione è rilevante. È la preoccupazione per cui un mondo senza esseri umani è male in sé – è incompleto o deficitario. Per quanto sia una preoccupazione diffusa, è molto difficile darle un senso se si accetta, come la maggior parte delle persone, la asimmetria fra piacere e
dolore. Un mondo senza esseri umani (o altri esseri coscienti) non può essere cattivo per coloro che sarebbero esistiti se non si fosse verificata l’estinzione. Anzi, come ho sostenuto, lo scenario alternativo in cui sarebbero venuti al mondo sarebbe stato male per loro. Un mondo privo di tali esseri è, a suo modo, un mondo migliore. Non c’è male in un mondo simile. Ora si potrebbe obiettare che per quanto un mondo senza esseri umani sia migliore per gli esseri umani che altrimenti sarebbero esistiti, un mondo senza esseri umani sarebbe peggiore per altri aspetti. Per esempio, sarebbe privo di agenti morali e di deliberatori razionali e sarebbe in qualche modo meno vario. Ci sono numerosi problemi con simili argomentazioni. Primo, cos’ha di tanto speciale un mondo che contiene agenti morali e deliberatori razionali? Il fatto che gli esseri umani apprezzino un mondo che contiene esseri come loro dice più sul loro inappropriato sentimento di importanza che sul mondo. (Un mondo è di per sé migliore per il fatto di avere animali a sei zampe? E se sì, perché? Sarebbe ancora meglio se ci fossero anche animali a sette zampe?) Anche se gli uomini possono apprezzare la facoltà morale e la deliberazione razionale, è tutt’altro che chiaro se questi aspetti del nostro mondo abbiano un valore sub specie aeternitatis. Così se non ci fossero più esseri umani non ci sarebbe nessuno a lamentarsi dello stato delle cose. Né è chiaro perché un mondo meno diversificato sarebbe peggiore, non essendoci nessuno deprivato di tale diversità.255 Infine, anche se pensiamo che elementi come le facoltà morali, la razionalità e la diversità migliorino il mondo, è altamente implausibile che il loro peso superi la grande quantità di sofferenza connessa alla vita umana. Mi colpisce quindi la preoccupazione per il fatto che gli esseri umani in futuro non ci saranno più o come sintomo dell’arroganza umana per cui la nostra presenza rende il mondo un posto migliore o come un sentimentalismo fuori luogo. Molte persone si rammaricano per la prospettiva dell’estinzione umana. Se questa prospettiva fosse imminente e lo sapessimo, l’angoscia per la fine dell’umanità diventerebbe molto più acuta. Quell’angoscia e quella tristezza, tuttavia, sarebbero solo un altro
aspetto della sofferenza che adombra la fine dell’esistenza umana.
7. CONCLUSIONE Allora ho considerato felici i morti ormai trapassati più dei viventi che sono ancora in vita; ma ancor più felice degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvagie che si compiono sotto il sole. Ecclesiaste 4,2-3 C’era un giovane di Capo Rizzuto che avrebbe voluto non essere nato; e non sarebbe né nato né morto se il padre si fosse accorto che il suo preservativo era bucato. Anonimo256
C ’ L’idea che venire al mondo sia sempre un male è contraria all’intuizione dei più. Essi pensano che questa idea semplicemente non possa essere giusta. Le sue implicazioni, discusse nei capitoli dal 4 al 6, non se la cavano meglio nel tribunale del senso comune. Le idee che le persone non dovrebbero fare bambini, che si debba essere a favore dell’aborto (almeno nei primi stadi della gestazione) e che sarebbe meglio se non ci fosse più vita cosciente sul pianeta è probabile che siano respinte come ridicole. Anzi, è probabile che alcune persone troveranno queste idee profondamente offensive. Numerosi filosofi hanno rifiutato altre idee perché esse implicano che sarebbe meglio non mettere al mondo nuove persone. Abbiamo già visto nel capitolo precedente che numerosi filosofi rifiutano il principio del maximin perché esso implica che non dovrebbero più esserci altre persone. Ci sono altri esempi, tuttavia. Peter Singer rifiuta l’idea del “registro morale” dell’utilitarismo, secondo cui la creazione di un desiderio insoddisfatto è una sorta di “debito” che viene cancellato solo quando quel desiderio viene soddisfatto. Egli sostiene che questa idea dev’essere respinta perché comporta che sarebbe sbagliato “mettere al mondo un bambino destinato a essere nel complesso molto felice e a soddisfare quasi tutti i suoi desideri, ma che avrebbe comunque dei desideri insoddisfatti”.257 Nils Holtug rifiuta il frustrazionismo258 – l’idea che, mentre i desideri frustrati hanno valore negativo, il soddisfacimento dei desideri semplicemente evita il valore negativo e non dà alcun contributo
positivo. Il frustrazionismo implica che noi danneggiamo le persone mettendole al mondo se esse avranno dei desideri frustrati (cosa che tutti hanno). Perciò egli rigetta il frustrazionismo come “implausibile, anzi profondamente contro-intuitivo”.259 In base all’implicazione che sia “sbagliato fare un figlio la cui vita sarà molto migliore di tutte quelle che conosciamo”, dice: “Senza dubbio questo non può essere giusto”.260 Ora passo al problema se sia importante che le mie conclusioni siano così contro-intuitive. I miei ragionamenti sono esempi di una ragione impazzita? Le mie conclusioni dovrebbero essere respinte per il fatto che sono così eccentriche? Benché io capisca ciò che giustifica queste domande, la mia risposta a tutte loro è un deciso “no”. Innanzitutto, va notato che il carattere contro-intuitivo di un’idea non può costituire di per sé un elemento decisivo contro l’idea stessa. Infatti le intuizioni sono spesso assai inaffidabili – semplice frutto di pregiudizi. Idee considerate profondamente contro-intuitive in un certo luogo e tempo sono spesso ritenute evidentemente vere in un altro. L’idea che la schiavitù sia sbagliata, o che non ci sia niente di male nei matrimoni misti, un tempo erano considerate altamente implausibili e contro-intuitive. Oggi in molte parti del mondo sono considerate auto-evidenti. Non basta quindi giudicare un’idea o le sue implicazioni contro-intuitive, e neppure offensive. Bisogna esaminare le argomentazioni che portano alla conclusione spiacevole. La maggior parte di coloro che hanno rifiutato l’idea che sia sbagliato creare nuove persone l’hanno fatto senza valutare il ragionamento che porta a questa conclusione. Hanno semplicemente dato per scontato che questa idea debba essere falsa. Una ragione per non assumere questo atteggiamento è che la conclusione deriva da idee che sono non solo accettate dalla maggior parte delle persone, ma anche assai ragionevoli. Come ho spiegato nel capitolo 2, la asimmetria tra piacere e dolore costituisce la migliore spiegazione di numerosi giudizi morali riguardanti la creazione di nuove persone. Il mio ragionamento non fa che scoprire
questa asimmetria e mostrare dove conduca. Si potrebbe suggerire tuttavia che il mio ragionamento dovrebbe essere considerato una reductio ad absurdum della asimmetria. In altri termini, si potrebbe dire che accettare la mia conclusione sia più contro-intuitivo che rifiutare la asimmetria. Se si ha quindi di fronte la scelta tra accettare la mia conclusione e rifiutare la asimmetria, quest’ultima è preferibile. Vi sono molti problemi con questo modo di ragionare. Primo, dobbiamo ricordare su cosa ci basiamo se rifiutiamo la asimmetria. Naturalmente vi sono vari modi di rifiutare la asimmetria, ma quello meno implausibile sarebbe di negare che l’assenza di piacere sia “non male” e affermare invece che sia “male”. Questo ci costringerebbe a dire che abbiamo una (forte) ragione morale e quindi un presunto dovere, basato sugli interessi di potenziali persone future felici, a creare tali persone. Ci costringerebbe anche a dire che possiamo creare un bambino per il suo bene e che dovremmo quindi rammaricarci, per amore delle persone felici che avremmo potuto creare e non abbiamo creato, di non averle create. Infine, ci costringerebbe a rimpiangere non solo che parti della Terra e tutto il resto dell’universo siano disabitati, ma anche coloro che in caso contrario avrebbero potuto venire al mondo in questi luoghi. Le cose vanno ancora peggio se tentiamo di abbandonare la asimmetria in un altro modo – affermando che l’assenza di dolore nello scenario B è semplicemente “non male”. Questo ci costringerebbe a dire che non abbiamo un motivo morale, fondato sugli interessi di una potenziale persona futura sofferente, per evitare di creare tale persona. Non potremmo più rammaricarci, in base agli interessi di un bambino sofferente, di aver creato quel bambino. Né potremmo rammaricarci, per amore delle persone che soffrono da qualche parte nel mondo, che tali persone siano state create. Chi tratta il mio ragionamento come una reductio della asimmetria può trovare più semplice dire di essere pronto ad abbandonare la asimmetria che abbracciare le implicazioni che ne derivano. Senza dubbio non basta dire che è meglio rinunciare alla asimmetria e poi procedere, nella teoria etica e nella pratica, come se la asimmetria
reggesse ancora. Come minimo, allora, il mio ragionamento dovrebbe costringere ad affrontare tutte le implicazioni del rifiuto della asimmetria, che vanno ben al di là di quelle che ho sintetizzato. Dubito davvero che molti di coloro che dicono di voler rinunciare alla asimmetria la abbandonerebbero. Un secondo problema che deriva dal trattare il mio ragionamento come una reductio della asimmetria è che, per quanto le mie conclusioni possano essere contro-intuitive, le intuizioni dominanti su questo argomento sembrano del tutto inaffidabili. Questo per due ragioni. Primo, perché dovremmo pensare che sia accettabile provocare un grande dolore a qualcuno – i ragionamenti del capitolo 3 mostrano che lo facciamo ogni volta che creiamo un bambino – quando potremmo evitarlo senza privare quella persona di nulla? In altri termini, quanto può essere affidabile un’intuizione se, anche in assenza di interessi altrui, consente di infliggere un grave male che si poteva evitare senza alcun costo per la persona che ne soffre? Una simile intuizione non sarebbe meritevole di rispetto in nessun altro contesto. Perché si dovrebbe pensare che abbia tanta forza solo nel contesto della procreazione? Secondo, abbiamo ottime ragioni per pensare che le intuizioni a favore della natalità siano il prodotto di forze psicologiche (come minimo non razionali, ma potenzialmente irrazionali). Come ho mostrato nel capitolo 3, ci sono tratti pervasivi e potenti della psicologia umana che spingono le persone a pensare che la loro vita sia migliore di quanto è in realtà. I loro ragionamenti sono quindi inaffidabili. Inoltre c’è una buona spiegazione evolutiva per la radicata convinzione secondo cui le persone non danneggiano gravemente i loro figli mettendoli al mondo. Chi non condivide questa convinzione è più probabile che non si riproduca. Chi ha convinzioni che favoriscono la riproduzione è più probabile che si riproduca e trasmetta le caratteristiche che spingono ad assumere tali convinzioni. L’importante, in entrambe queste ragioni, è che la mia tesi è contro-intuitiva non solo nella sua formulazione più estrema, che venire al mondo è un male anche quando una vita contenga un solo
iota di sofferenza, ma anche nella versione più moderata – che in tutte le vite reali c’è male quanto basta per rendere il venire al mondo un male –, anche se le vite con solo uno iota di male non sarebbero male. Se solo la formulazione più estrema andasse contro il senso comune, queste intuizioni sarebbero (in qualche modo) meno sospette. Tuttavia, allora bisognerebbe dire che la mia affermazione più estrema sarebbe più accettabile se tutte le vite reali fossero largamente prive di male. Questo perché l’affermazione avrebbe un interesse innanzitutto teorico e poca applicazione rispetto alla procreazione, dato che gli interessi delle persone esistenti potrebbero essere plausibilmente ritenuti più importanti del male fatto alle nuove persone. Ma non è solo la mia affermazione più estrema a essere contraria all’intuizione dei più. La maggior parte delle persone ritiene implausibile che sia dannoso e sbagliato dare inizio a vite piene di male quanto tutte le vite attuali. Peggio ancora, chi trattasse il mio ragionamento come una reductio della asimmetria dovrebbe notare che anche il suo ragionamento potrebbe essere usato da una specie destinata a una vita molto peggiore della nostra. Per quanto noi possiamo considerare la loro vita un grande male, se loro fossero soggetti alle forze psicologiche ottimistiche che caratterizzano gli esseri umani, anche loro sosterrebbero che è contro-intuitivo affermare che siano stati danneggiati dal fatto di venire al mondo. Ciò che non sarebbe contro-intuitivo dal nostro punto di vista lo sarebbe dal loro. Eppure noi capiamo, col vantaggio di una certa distanza dalla loro vita, che le loro intuizioni sull’argomento non possono essere prese seriamente in considerazione. Qualcosa di simile si può dire del senso comune degli esseri umani, per cui creare (la maggior parte degli) esseri umani non è un male.261 Ci sono buone ragioni, quindi, per non trattare la mia conclusione come una reductio della asimmetria. In breve, quando si ha un argomento forte, basato su premesse altamente plausibili, che conduce a una conclusione che, se attuata, ridurrebbe la sofferenza senza privare di nulla la persona che soffre, ma che viene respinto solo per meccanismi psicologici istintivi che compromettono il nostro
giudizio, il carattere contro-intuitivo della conclusione non dovrebbe essere un elemento a sfavore. Senza dubbio ci sarà chi non resta convinto. Se la ragione è che prende la (presunta) assurdità della mia conclusione come un assioma, non c’è niente che io possa dire e che possa convincerlo. Qualsiasi argomento io chiami a sostegno della mia conclusione, sarebbe rifiutato per la conclusione a cui porta. Ciò tuttavia non dimostrerebbe che il mio ragionamento è difettoso. Dimostrerebbe solo che la negazione della mia conclusione è diventata una sorta di dogma. Non c’è niente che si possa dire per convincere il dogmatico. Vi sono alcune persone, e io sono fra loro, che ritengono non vi sia nulla di implausibile né nell’idea che venire al mondo sia sempre un male, né nell’idea che non dovremmo fare figli.262 È molto improbabile che una gran parte dell’umanità finirà per condividere questa idea. Il che è molto triste – a causa dell’enorme quantità di dolore che ciò provocherà prima che l’umanità finisca per sempre. R ’ Per molti versi, le idee che ho sostenuto in questo libro sono piuttosto pessimistiche. Il pessimismo, come l’ottimismo, può naturalmente assumere forme diverse.263 Un tipo di pessimismo o di ottimismo riguarda i fatti. Qui pessimisti e ottimisti sono in disaccordo sulla situazione presente o futura. Per esempio non concordano sul fatto se vi sia più piacere o più dolore nel mondo in un dato momento o se una certa persona guarirà o meno dal cancro. Un secondo tipo di pessimismo e di ottimismo non riguarda i fatti, ma la valutazione dei fatti. Qui pessimisti e ottimisti sono in disaccordo non sulla situazione presente o futura, ma sul fatto se la situazione presente o futura sia buona o cattiva. Un ottimista di questo tipo potrebbe concordare con il pessimista, per esempio, sul fatto che c’è più dolore che piacere, ma pensare che il piacere giustifichi il dolore. Al contrario, il pessimista potrebbe concordare con l’ottimista sul fatto che c’è più piacere che dolore, ma negare che il piacere, anche in quella quantità, giustifichi il dolore. L’espressione “presente o futura” in entrambi i casi allude a una terza distinzione, che evidentemente è trasversale alle prime due. Molto spesso si pensa
che pessimismo e ottimismo siano rivolti al futuro – riguardino giudizi su come saranno le cose. Tuttavia a volte entrambi i termini sono usati o in senso non rivolto al futuro o in senso atemporale. L’idea che venire al mondo sia sempre un grave male è pessimistica sia in senso fattuale che valutativo. Ho suggerito, sul piano fattuale, che la vita umana contiene molto più dolore (e altre cose negative) di quanto le persone si rendano conto. Sul piano valutativo, ho sostenuto la asimmetria fra piacere e dolore e ho suggerito che, laddove i piaceri della vita non rendono la vita degna di cominciare, i dolori della vita la rendono indegna di cominciare. In termini rivolti al futuro, la mia posizione è per lo più pessimistica, ma in un certo senso si potrebbe considerare ottimistica. Data la quantità di sofferenza che si verifica a ogni istante, c’è un’ottima ragione per pensare che ci sarà ancora molta sofferenza prima che la vita senziente giunga al termine, per quanto io non possa prevedere con certezza quanta sofferenza ci sarà. A parità di condizioni, più a lungo continua la vita senziente, più sofferenza ci sarà. Tuttavia c’è una conseguenza ottimistica della mia posizione, come ho osservato nel capitolo 6. Gli esseri umani e le altre forme di vita senziente prima o poi finiranno. Per chi considera la fine dell’umanità un male, la predizione che ciò è quanto avverrà è pessimistica. Viceversa, mettendo insieme la mia valutazione secondo cui sarebbe meglio se non ci fossero più persone con la predizione secondo cui arriverà un momento in cui non ce ne saranno più, si arriva a un giudizio ottimistico. Le cose vanno male, ora, ma non andranno male sempre. D’altro canto, ancora una volta, se si pensa che il miglioramento giungerà fra moltissimo tempo, si potrebbe caratterizzare l’idea che sia ben lontano dall’essere pessimistica. Il pessimismo tende a non essere ben accolto. A causa della predisposizione psicologica a pensare che le cose siano meglio di come sono, che ho analizzato nel capitolo 3, la gente vuole sentire messaggi positivi. Vuole sentirsi dire che le cose vanno meglio di come pensa, non peggio. Anzi, laddove non si renda il pessimismo patologico catalogandolo come “depressione”, c’è spesso un’insofferenza o una condanna nei suoi confronti. Alcuni hanno
reazioni di questo tipo all’idea che venire al mondo sia sempre un male. Questi ottimisti rifiuteranno questa idea come debole e autoindulgente. Ci diranno che non possiamo “piangere sul latte versato”. Siamo già venuti al mondo e non serve a niente lamentarsi e piangere lugubremente su se stessi. Dobbiamo “apprezzare i beni che abbiamo”, “ricavare dalla vita tutto quello che possiamo”, “godercela” e “guardare il lato positivo”. Ci sono buone ragioni per non farsi intimidire dai rimproveri degli ottimisti. Primo, gli ottimisti non possono avere ragione solo perché la loro posizione è più allegra, così come i pessimisti non possono avere ragione solo perché sono più cupi. La posizione che adottiamo deve basarsi su prove. Io ho sostenuto in questo libro che una visione cupa della vita è quella giusta. Secondo, ci si può rammaricare dell’esistenza senza piangersi addosso. Questo non vuol dire che un po’ di autocommiserazione sia sbagliata. Se si commiserano gli altri, perché non dovremmo commiserare noi stessi, purché con moderazione? In ogni caso, la posizione che ho sostenuto riguarda non solo noi stessi, ma anche gli altri. Fornisce una base per recriminare la propria esistenza, ma anche per non fare figli. In altri termini, è rilevante per del latte non ancora versato e che non dovrebbe esserlo mai. Terzo, non c’è niente nella mia posizione che suggerisce di non “apprezzare i beni che abbiamo”, se con questo si intende che dovremmo compiacerci che la nostra vita non sia peggiore di come è. Alcuni di noi sono molto fortunati rispetto a gran parte della nostra specie. Non c’è niente di male – e potrebbero esserci dei vantaggi – nel riconoscerlo. Ma l’ingiunzione a “apprezzare i beni che abbiamo” è molto meno persuasiva quando comporta l’inganno di pensare di essere stati fortunati a venire al mondo. È come sentirsi grati di essere in una cabina di prima classe sul Titanic in attesa di affondare nella propria tomba d’acqua. Sarà anche meglio morire in prima classe che sul ponte, ma non abbastanza da considerarsi fortunati. Né la mia posizione impedisce di godersi la vita prendendoci i piaceri che possiamo (nei limiti della moralità). Ho sostenuto che le nostre vite sono pessime. Non c’è ragione per cui non dovremmo tentare di migliorarle, a condizione di non diffondere
sofferenza (compresa quella di venire al mondo). Infine, l’insofferenza o la condanna del pessimismo da parte degli ottimisti ha un tono di arroganza machista (anche se gli uomini non ne hanno il monopolio). C’è un certo disprezzo per la presunta debolezza del pessimista, che dovrebbe piuttosto “sorridere e sopportare”. Questa posizione ha lo stesso difetto di quella machista. È una forma di indifferenza o di inappropriata negazione della sofferenza, propria o altrui. L’ingiunzione a “guardare il lato positivo” dovrebbe essere accolta con un’ampia dose di scetticismo e di cinismo. Insistere che il lato positivo è sempre il lato giusto significa anteporre l’ideologia all’evidenza. Tutte le nuvole, per cambiare metafora, hanno bordi argentati, ma molto spesso è sulla nuvola e non sul bordo che bisognerebbe concentrare l’attenzione per evitare di bagnarsi nell’autoinganno. Gli allegri ottimisti hanno una visione di sé molto meno realistica dei depressi.264 Gli ottimisti potrebbero ribattere che anche se avessi ragione e venire al mondo fosse sempre un male, è meglio non soffermarsi su questo fatto, perché soffermarcisi non fa che aumentare il male rendendoci infelici. C’è un elemento di verità, in questo. Ma dobbiamo mettere le cose in prospettiva. Un acuto sentimento di rammarico per la propria esistenza è probabilmente il modo migliore per evitare di infliggere lo stesso male ad altri. Se le persone riuscissero a riconoscere il male di essere nati e a rimanere comunque allegri senza cadere nella pratica di creare nuove persone, la loro allegria non sarebbe riprovevole. Ma se la loro allegria nasce a costo dell’auto-inganno e ha come risultato la procreazione, allora le si può accusare di aver perso lucidità. Saranno più felici di altri, ma non per questo sono nel giusto. M Molte persone pensano che conseguenza dell’idea che venire al mondo è sempre un male sia che sarebbe preferibile morire anziché continuare a vivere. Alcuni si spingono a dire che l’idea che venire al mondo sia un male implica la desiderabilità non solo della morte, ma del suicidio. Non c’è niente di incoerente nell’idea che venire al mondo sia un
male e che se uno viene al mondo smettere di vivere sia meglio che continuare a vivere. È l’idea espressa nei seguenti versi di Sofocle: Non essere mai nati è la cosa migliore ma se dobbiamo vedere la luce, la cosa migliore è tornare rapidamente da dove siamo venuti. Quando se ne va la giovinezza, con tutte le sue follie, chi non barcolla sotto i mali? Chi vi sfugge?265 Ed è implicita nell’affermazione di Montesquieu, o almeno compatibile con essa, secondo cui “bisogna compiangere gli uomini alla nascita, e non alla morte”.266 Ciò nonostante, l’idea che venire al mondo sia sempre un male non implica che morire sia meglio che continuare a esistere, e a fortiori che il suicidio sia (sempre) desiderabile.267 La vita può essere brutta quanto basta perché sia meglio non venire al mondo, ma non tanto brutta che sia meglio smettere di esistere. Si ricorderà, dal capitolo 2, che è possibile avere valutazioni diverse nei casi della vita futura e nei casi della vita presente. In quel capitolo ho spiegato che ci sono buone ragioni per collocare la soglia della qualità di una vita degna di cominciare più in alto della soglia della qualità di una vita degna di continuare. Chi esiste infatti può avere interesse a continuare a esistere, sicché i mali che rendono la vita indegna di essere continuata devono essere sufficientemente gravi da superare tali interessi. Al contrario, chi non esiste non ha alcun interesse a venire al mondo, e quindi evitare anche mali minori – o, dal mio punto di vista, qualsiasi male – sarà decisivo. È quindi perché noi (di solito) siamo interessati a continuare a esistere che la morte può essere considerata come un male, per quanto anche venire al mondo sia un male. Anzi, il male della morte può spiegare in parte perché venire al mondo sia un male. Venire al mondo è un male perché inevitabilmente conduce al male di smettere di esistere. Questo potrebbe essere all’origine dell’affermazione di George Santayana, che “il fatto di essere nati è un pessimo augurio per l’immortalità”.268 Il fatto che nasciamo destinati a morire è, da questo punto di vista, un grave male.
L’idea che si abbia un interesse a continuare a vivere (purché la qualità della vita non scenda al di sotto della soglia che rende la vita indegna di essere continuata) è condivisa. Tuttavia è stata oggetto di obiezioni antiche e persistenti. Epicuro ha notoriamente sostenuto che la morte non è un male per colui che muore perché finché esistiamo non siamo morti, e quando siamo morti non esistiamo più. Il mio essere morto quindi (al contrario del mio morire) non è qualcosa di cui io possa fare esperienza. E non è una condizione in cui io possa essere. Anzi, è una condizione in cui io non sono. Quindi la mia morte non è qualcosa che possa essere un male per me. Lucrezio, seguace di Epicuro e quindi epicureo, fece un altro ragionamento per dimostrare che la morte non è un male. Sostenne che, come non rimpiangiamo il periodo di non esistenza prima della nostra nascita, così non dovremmo rimpiangere la non esistenza che seguirà la nostra vita. Gli argomenti epicurei danno per scontato che la morte sia l’irreversibile cessazione dell’esistenza. Chi pensa che vi sia una vita oltre la morte rifiuta questo assunto. Che la morte sia un male o meno in questo caso dipende da com’è la vita nell’aldilà. Benché su questo argomento vi siano molte speculazioni, non si può dire granché di verificabile. Considerando se il mio discorso implica che morire sia preferibile a continuare a vivere, mi unirò agli epicurei nel ritenere la morte come l’irreversibile cessazione dell’esistenza. L’idea che la morte non sia male per chi è morto cozza contro una serie di idee profondamente radicate. Fra queste, l’idea che l’omicidio danneggi la vittima. È incompatibile anche con l’idea che una vita lunga sia, a parità di condizioni, meglio di una vita breve. Ed è in contrasto con l’idea che dovremmo rispettare i desideri di coloro che sono ormai morti (a prescindere dalle conseguenze che non farlo avrebbe sui vivi). Questo perché, se la morte non è un male, niente di ciò che avviene dopo la morte può essere un male. Il carattere contro-intuitivo, di per sé, non è sufficiente a provare che un’idea sia sbagliata, come ho già detto. Ma vi sono alcune importanti differenze tra la contro-intuitività degli argomenti epicurei e la contro-intuitività del mio ragionamento anti-natalista. Primo, la conclusione epicurea è più radicalmente contro-intuitiva della mia. Io
sospetto che le persone che credono, e sentono con forza, che l’omicidio danneggia la vittima, siano più numerose di quelle che credono che venire al mondo non sia un male. Anzi, vi sono moltissime persone che credono che venire al mondo sia spesso un male e ci sono ancora più persone che credono che non sia mai un bene anche se non credono che sia un male. Ma ci sono pochissime persone che credono davvero che l’omicidio non danneggi la vittima. Anche se la vita della vittima era di bassa qualità, in genere si pensa che uccidere quella persona senza il suo consenso (laddove sia possibile ottenere il suo consenso) sia farle un torto. Secondo, un principio di precauzione si applica in maniera asimmetrica alle due posizioni. Se la posizione epicurea è sbagliata, le persone che agiscono in base al ragionamento epicureo (uccidendo gli altri o se stessi) farebbero un grave danno agli uccisi. Al contrario, se la mia posizione è sbagliata, le persone che agiscono di conseguenza (evitando di procreare) non danneggerebbero chi non viene messo al mondo. Queste differenze fra la posizione epicurea e quella antinatalista non bastano tuttavia a escludere il ragionamento epicureo. Mi accingo quindi a considerare, per quanto brevemente, le risposte a entrambi i ragionamenti epicurei. Comincio con quello di Lucrezio. Il modo migliore per ribattere a questo ragionamento è negare che vi sia una simmetria fra la non esistenza pre-vita e quella post-mortem.269 Mentre chiunque di noi potrebbe vivere più a lungo, nessuno di noi potrebbe essere venuto al mondo molto tempo prima. Questo argomento diventa molto forte quando riconosciamo il tipo di esistenza che apprezziamo. Non si tratta di una qualche “essenza metafisica”, ma di una concezione più profonda, più ricca del sé270 che incarna le memorie dell’individuo, le credenze, gli impegni, i desideri, le aspirazioni e così via. L’identità, in questo senso più profondo, è conseguenza della storia particolare dell’individuo. Ma anche se l’essenza metafisica di ciascuno fosse venuta al mondo prima, la storia di quell’essere sarebbe stata talmente diversa che non si tratterebbe della stessa persona. Le cose stanno molto diversamente all’estremo opposto della vita. Le storie personali – le biografie – possono essere allungate finché non
si muore. Una volta che si esiste si continua a farlo a lungo. Ma venire al mondo prima significa essere un’altra persona – una persona con cui avremmo poco in comune. La risposta più semplice all’argomento di Epicuro è dire che la morte è un male per la persona che muore in quanto priva quella persona della vita futura e dei suoi aspetti positivi. La deprivazione spiega il carattere negativo della morte, ma non significa che la morte sia sempre un male per chi muore. Anzi, laddove la vita ulteriore di cui uno viene privato fosse di qualità abbastanza povera, la morte non è un male per quella persona. Anzi è un bene. L’argomento di Epicuro, tuttavia, è che la morte non è mai un male per la persona che muore. L’argomento della deprivazione risponde a questo e afferma che la morte può essere a volte un male per la persona che muore. In base a questo ragionamento, anche se una persona dopo la morte non esiste più, resta vero che la morte depriva la persona “ante-mortem”271 della vita ulteriore di cui avrebbe potuto godere. I difensori di Epicuro hanno preso in esame l’argomento della deprivazione. Un’obiezione è che i sostenitori di questa tesi non possono dire quando si verifica la morte – cioè non possono fissare il momento del danno. Tale momento non può essere quello in cui si verifica la morte, perché in quel momento la persona che gli antiepicurei dicono sia danneggiata dalla morte non esiste più. E se è la persona “ante-mortem” a essere danneggiata, non si può dire che il momento in cui viene danneggiata sia quello della morte, perché ciò implicherebbe un’inversione della catena delle cause – un evento successivo causerebbe un danno precedente. Una risposta a questa obiezione è che il momento in cui la morte danneggia una persona è “sempre” o “in eterno”.272 George Pitcher fornisce un’utile analogia. Dice che “se il mondo fosse ridotto in frantumi durante la prossima presidenza... ciò renderebbe vero (sarebbe responsabile del fatto) che già ora, durante l’amministrazione attuale, il presidente sarebbe il penultimo degli Stati Uniti”.273 Allo stesso modo, la futura morte di una persona rende vero che già adesso questa persona è destinata a non vivere più a lungo di quanto farà. Come non c’è una causa
retroattiva nel caso del penultimo presidente, non c’è una inversione della catena delle cause nel fatto che la morte sia un male costante. C’è un’obiezione più di fondo (ma non chiaramente più forte) alla tesi della deprivazione. I sostenitori di Epicuro semplicemente negano che chi ha cessato di esistere possa essere privato di qualcosa. David Suits, per esempio, sostiene che se anche la persona ante-mortem può stare effettivamente peggio di come sarebbe stata se avesse vissuto di più, stare peggio in questo senso “puramente relazionale” non è ritenuto sufficiente per dimostrare che subisca un danno.274 E continua sostenendo che, se anche fosse, non può esserci vera deprivazione se non c’è più nessuno che sia deprivato. Si può essere deprivati solo se si esiste. Ma qui sembra che ci troviamo in una impasse. I sostenitori della deprivazione sembrano convinti che la morte sia diversa e che rappresenti l’unico caso in cui qualcuno può essere deprivato senza esistere. Gli epicurei, al contrario, insistono che la morte non può essere diversa e che dobbiamo trattare la deprivazione come in tutti gli altri casi. In nessun’altra evenienza una persona può essere deprivata senza esistere, quindi una persona non può essere deprivata dalla morte, dato che la morte pone fine alla sua esistenza. Forse c’è un modo per superare l’impasse, ma non lo cercherò ora. Ho mostrato che l’idea che venire al mondo sia un male non implica che smettere di esistere sia meglio che continuare a esistere. Si può ritenere che entrambe le cose siano male. Gli epicurei negano che smettere di esistere possa essere un male. Potrebbero anche essere inclini a dire che la morte non può mai essere un bene per chi muore, per quanto pessima fosse diventata la sua vita. Secondo il ragionamento epicureo, la morte non può mai essere un bene per una persona che, finché esiste, non c’è la morte, e quando la morte arriva non c’è più la persona. La morte non può risparmiare nulla a nessuno più di quanto possa privare qualcuno di qualcosa. Chi rifiuta la prospettiva epicurea può sostenere varie posizioni: a) La morte è sempre un male. b) La morte è sempre un bene. c) La morte è a volte un male e a volte un bene.
La prima opzione è implausibile. La vita può essere talmente pessima che è meglio morire. Chi nega che venire al mondo sia sempre un male ovviamente rifiuta la seconda opzione. Secondo questa idea, venire al mondo non è un male e può addirittura essere un bene, e continuare a vivere è un bene nella misura in cui la qualità della vita è abbastanza alta. Quindi la morte non può essere sempre un bene. Ho già detto che chi adotta il punto di vista secondo cui venire al mondo è sempre un male può rifiutare la seconda opzione. Può sostenere che, mentre non abbiamo interesse a venire al mondo, una volta che esistiamo abbiamo un interesse a continuare a esistere. Ammettendo che questo interesse non sia sempre superato dalla cattiva qualità della vita, la morte non è sempre un bene. Ma questo assunto è ragionevole, dato che venire al mondo è un male grave come ho detto? Io credo di sì, ma dire che è un assunto ragionevole non è fare un’affermazione molto forte. È dire semplicemente che la qualità della vita non è sempre così scarsa da rendere la cessazione dell’esistenza un bene. Il che lascia aperta la domanda su quanto spesso non sia così bassa. Questa non è una domanda a cui io debba rispondere. In base a un principio di autonomia, noi cediamo l’autorità di prendere decisioni sulla qualità della vita individuale a coloro della cui vita si tratta. Al contrario delle decisioni autonome di procreare, le decisioni autonome se continuare a vivere o morire vengono prese da coloro della cui vita si tratta. È vero che se la vita delle persone è peggiore di quanto credono (come ho sostenuto nel capitolo 3) i loro giudizi sul fatto che la loro vita sia degna di continuare possono essere sbagliati. Ciò nonostante, questo è il tipo di errore che dovremmo permettere alle persone di fare. È un errore le cui conseguenze devono sopportare – al contrario dell’errore di pensare che la vita dei propri discendenti sarà migliore di quello che si ritiene. Allo stesso modo, il desiderio di continuare a vivere può essere o non essere irrazionale, ma se anche lo è, è una forma di irrazionalità, al contrario del desiderio di venire al mondo, che dovrebbe essere decisiva (almeno in pratica, se non in teoria). Le cose sono un po’ diverse quando la decisione di mettere fine a una vita non è presa da un essere autonomo per se stesso, ma da
altri in nome di un essere privo della capacità di giudizio (e che non ha lasciato né indicazioni né deleghe). Questi sono i casi più difficili. Al contrario di quando si decide di creare una nuova vita, dove si può sbagliare per eccesso di cautela evitando di creare una nuova vita, non si capisce chiaramente dove stia la cautela quando si tratta di mettere fine a una vita. Io condivido quindi una versione della terza fra le opzioni elencate prima – che la morte è a volte un male e a volte un bene. Questa terza opzione è la posizione del buon senso, ma la mia versione si distacca dall’interpretazione solita. Vale a dire, è probabile che la mia versione ammetta che la morte è un bene più spesso di quanto si fa comunemente. Per esempio, la mia posizione sarebbe più tollerante verso il suicidio razionale rispetto alla posizione comune. Anzi, io dichiarerei razionali più suicidi di quanto si faccia comunemente. In molte culture (comprese molte culture occidentali), c’è un enorme pregiudizio nei confronti del suicidio. È spesso considerato segno di vigliaccheria275, dove non è respinto come conseguenza della malattia mentale. La mia posizione ammette la possibilità che il suicidio sia spesso razionale e possa addirittura essere più razionale che continuare a esistere. Questo perché può essere un irrazionale amore per la vita a tenere in vita molte persone quando la loro vita è ormai talmente pessima che smettere di esistere sarebbe meglio. Questa è la posizione espressa dalla vecchia nel Candido di Voltaire: Sono stata cento volte sul punto di finirla, ma sempre mi vinse l’amor della vita: debolezza risibile, e forse tra le più funeste. Che vi può esser mai di più sciocco del nostro eterno faticare sotto un fardello che desideriamo di scaricare ad ogni istante? dell’aver in odio il nostro essere e farne un così gran conto? del vezzeggiare la serpe che ci rode, finché non ci abbia mangiato il cuore?276 Ciò non significa consigliare in generale il suicidio. Il suicidio, come la morte per altre cause, rende la vita di chi resta in lutto molto peggiore. Piombare nel proprio suicidio può avere un profondo impatto negativo sulla vita dei propri cari. Per quanto un epicureo
possa essere deciso a non curarsi di ciò che accade dopo la sua morte, chi resta in lutto soffre comunque, anche se il defunto no. Che il suicidio faccia soffrire chi resta è parte della tragedia del venire al mondo. Ci troviamo in una specie di trappola. Siamo già nati. Porre fine alla nostra esistenza provoca un immenso dolore a coloro che amiamo e di cui ci curiamo. I potenziali creatori farebbero bene a considerare questa trappola che fanno scattare nel momento in cui producono dei discendenti. Non è possibile creare nuove persone sottintendendo che, se non saranno contente di essere venute al mondo, potranno sempre uccidersi. Una volta che una persona è venuta al mondo e si sono creati dei legami affettivi, il suicidio può provocare un dolore al cui confronto la mancanza di figli è un dolore leggero. Chi contempla il suicidio lo sa (o dovrebbe saperlo). Questo pone un grave ostacolo sulla via del suicidio. La propria vita può essere pessima, ma dobbiamo considerare l’effetto che porvi fine avrebbe su familiari e amici. Ci saranno momenti in cui la vita sarà talmente pessima da rendere irragionevole che l’interesse delle persone care a tenere in vita una persona superi l’interesse di quella persona a cessare di esistere. Il quando dipende dai tratti particolari della persona per cui continuare a vivere è un fardello. Persone diverse sono capaci di sopportare fardelli di grandezza diversa. Potrebbe addirittura essere indecente per i familiari attendersi che quella persona continui a vivere. In altri casi la vita può essere brutta, ma non tanto da esigere che ci si uccida e si rendano quindi le vite di familiari e amici peggiori di quel che già sono. P Vi sono persone che respingeranno su base religiosa l’idea che venire al mondo sia sempre un male e che non bisognerebbe fare figli. Per alcune di queste persone l’ingiunzione biblica “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”277 impone il rifiuto delle mie posizioni. Questa risposta presuppone, ovviamente, l’esistenza di Dio. Non è questo il luogo per discutere dell’esistenza di Dio. Che i (mono)teisti abbiano ragione o meno, Dio non è mai venuto al mondo. Se hanno ragione, Dio è sempre esistito, se hanno torto non
è mai esistito. Inoltre, ciò che ho detto sulla qualità della vita umana (e animale) non ha alcuna conseguenza sulla qualità della vita divina. Quindi lascio da parte la questione dell’esistenza di Dio. La risposta religiosa presuppone anche che gli imperativi biblici siano l’espressione di ciò che Dio esige da noi. Questo può apparire indiscutibile per chi accetta che la Bibbia sia la parola di Dio. Tuttavia, moltissimi comandamenti biblici non sono considerati vincolanti, anche dai religiosi. Per esempio, nessuna religione di cui io abbia notizia attualmente ordina concretamente di mettere a morte il figlio ribelle, nonostante la Bibbia ordini di farlo.278 Anche il comandamento di essere fecondi e moltiplicarsi non è considerato assoluto. Per esempio il cattolicesimo esonera i preti e le suore dalla procreazione, dato che vieta a chi occupa tali posizioni di impegnarsi in rapporti che conducono alla riproduzione, ma è tollerante in materia verso i laici (purché nell’ambito del matrimonio). Non così accade per i quaccheri, che sostengono il celibato universale anche nelle coppie sposate. Una terza e più interessante risposta all’argomento religioso è che questo assume una visione troppo monolitica della religione. Benché si pensi e si dica spesso che tutte le religioni parlano con una sola voce su un determinato problema, ci sono in verità una serie di posizioni divergenti anche all’interno di una singola religione e di una singola denominazione religiosa. Le epigrafi all’inizio del capitolo 5 mostrano sia Geremia sia Giobbe che maledicono la propria nascita. Giobbe si rammarica di essere stato concepito e di non essere morto nell’utero o al momento del parto. Geremia va oltre e maledice l’uomo che non l’ha abortito. Colpisce la differenza fra queste idee e quelle degli allegri fondamentalisti con una visione rozza e monolitica della retta via. Laddove Geremia e Giobbe parlano liberamente – sfidando addirittura Dio stesso – troppo pochi fedeli delle religioni li seguono. Per loro la fede preclude questi pensieri e queste parole critiche. Ora si potrebbe suggerire che sia Geremia sia Giobbe si rammaricavano della loro esistenza per ragioni legate alla loro vita individuale – perché, per un motivo o per l’altro, la qualità della loro
vita era pessima. In base a questa posizione, ci sono alcune vite che davvero sarebbe meglio se non fossero cominciate, ma ciò non vale per tutte le vite. Questa posizione sembra in contrasto con l’epigrafe dell’Ecclesiaste posta all’inizio di questo capitolo. Questi versetti mostrano un autore biblico che invidia tutti coloro che non sono nati. Né la Bibbia è l’unico testo religioso in cui troviamo posizioni religiose alternative riguardo al disvalore del venire al mondo. Il Talmud,279 per esempio, ricorda brevemente l’argomento di un affascinante dibattito fra due famose scuole rabbiniche antiche – la Casa di Hillel e la Casa di Shammai. Ci viene detto che discutevano se fosse meglio per gli esseri umani essere stati creati o no. La Casa di Hillel, nota per le sue posizioni generalmente più morbide e umane, sosteneva che era effettivamente meglio che gli esseri umani fossero stati creati. La Casa di Shammai sosteneva al contrario che sarebbe stato meglio se gli esseri umani non fossero stati creati. Il Talmud riporta che queste due scuole discussero per due anni e mezzo e la questione si risolse alla fine a favore della Casa di Shammai. Questo è particolarmente notevole, perché in caso di disaccordo fra queste due scuole, la legge quasi sempre segue la Casa di Hillel. Eppure qui abbiamo una decisione in favore di Shammai, che abbraccia l’idea che sarebbe stato meglio se gli esseri umani non fossero stati creati. Questa sorta di ripensamento di Dio non attraverserebbe la mente dei fanatici. Ma resta il fatto che le tradizioni religiose possono incarnare idee che il pensiero religioso superficiale considera antitetiche alla religiosità. Riconoscerlo può evitare un frettoloso rifiuto delle mie idee su base religiosa. M Le conclusioni a cui sono arrivato colpiranno molte persone come profondamente misantropiche. Ho sostenuto che la vita è piena di dispiaceri e di sofferenza, che dovremmo evitare di fare figli e che sarebbe meglio se l’umanità si estinguesse al più presto. Tutto questo può apparire misantropico. Tuttavia l’impulso predominante nei miei ragionamenti, in quanto riguardano gli esseri umani, è filantropico, non misantropico. Poiché i miei ragionamenti si applicano non solo agli esseri umani, ma anche agli altri animali
senzienti, essi sono anche zoofili (nel senso non sessuale del termine). Mettere al mondo una vita senziente è male per l’essere a cui appartiene quella vita. I miei ragionamenti suggeriscono che sia sbagliato infliggere quel male. Gli argomenti contro ciò che procura male nascono dalla preoccupazione, non dall’odio per coloro che sarebbero destinati a soffrire. Potrà sembrare una strana forma di filantropia – dato che, se seguita, porterebbe alla fine completa di anthropos. È però il modo più efficace per prevenire la sofferenza. Non creare una persona è garanzia assoluta che quella potenziale persona non soffrirà – perché non esisterà. Benché i ragionamenti che ho svolto non siano misantropici, c’è un superbo argomento misantropico contro la procreazione e a favore dell’estinzione umana. Tale argomento si basa sull’indiscutibile premessa che gli esseri umani provocano enormi quantità di sofferenza – sia agli uomini, sia agli animali non umani. Nel capitolo 3 ho fornito un rapido riassunto delle sofferenze che gli esseri umani si infliggono a vicenda. Oltre a ciò, essi sono la causa di indicibili sofferenze per altre specie. Ogni anno, gli esseri umani infliggono sofferenze a miliardi di animali che vengono allevati e uccisi per fornire cibo e altri prodotti utili o per la ricerca scientifica. Poi ci sono le sofferenze inflitte agli animali il cui habitat viene distrutto dagli uomini usurpatori, quelle provocate dall’inquinamento e da altri danni all’ambiente, e quelle gratuite, dovute alla pura cattiveria. Benché vi siano molte specie non umane – soprattutto carnivore – che provocano molte sofferenze, gli esseri umani hanno la disgraziata peculiarità di essere la specie più distruttiva e dannosa sulla terra. La quantità di sofferenza nel mondo potrebbe ridursi radicalmente se non ci fossero più esseri umani. Anche se l’argomento misantropico non viene condotto a questi estremi, può essere usato per sostenere almeno una radicale riduzione della popolazione umana. La fine dell’umanità ridurrebbe enormemente la quantità di male, ma non vi porrebbe fine. I rimanenti esseri senzienti continuerebbero a soffrire e il loro venire al mondo sarebbe comunque un male. Questa è una delle ragioni per cui l’argomento misantropico non arriva dove arrivano quelli che ho sostenuto in questo libro –
argomenti che nascono non dall’antipatia verso la specie umana, ma piuttosto dalla preoccupazione per il dolore di tutti gli esseri senzienti. Inoltre, per quanto le persone oppongano resistenza all’argomento filantropico, ne opporrebbero una ancora maggiore a quello misantropico. Ma l’argomento misantropico non è affatto incompatibile con quello filantropico. È improbabile che molte persone prendano a cuore la conclusione che venire al mondo è sempre un male. È ancora più improbabile che molte persone smetteranno di fare figli. Al contrario, è molto probabile che le mie posizioni saranno ignorate o rifiutate. Siccome questa reazione provocherà una grande quantità di sofferenza fra il momento attuale e la fine dell’umanità, non è plausibile considerarla filantropica. Questo non vuol dire che sia motivata da cattiveria nei confronti degli esseri umani, ma è la conseguenza dell’ingannevole indifferenza verso il male di venire al mondo.
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Note 1 Questa è per me un’eccezione perché gli esseri umani allevano solo una piccola percentuale di tutte le specie di animali senzienti. Benché si tratti di un caso eccezionale, ha grande significato, data la quantità di dolore inflitta agli animali che gli uomini allevano per nutrirsene e per ricavarne altre cose, ed è quindi il caso di discuterne brevemente ora. Un argomento particolarmente debole a favore del continuare a mangiare carne è che se gli uomini non mangiassero carne, quegli animali non sarebbero mai venuti al mondo. Gli esseri umani non li avrebbero fatti diventare numerosi come sono. Il sottinteso è che, anche se questi animali vengono uccisi, questo costo è controbilanciato per loro dal vantaggio di essere nati. Questo argomento è stupefacente per molte ragioni (alcune delle quali messe in luce da Robert Nozick. Vedi il suo Anarchy, State and Utopia, Oxford, Blackwell, 1974, pp. 38-9). Primo, la vita di questi animali è talmente dolorosa che anche chi rifiuta la mia tesi dovrebbe pensare che per loro venire al mondo è stato un male. Secondo, coloro che sostengono questo argomento non si accorgono che potrebbe applicarsi tranquillamente a bambini umani prodotti per essere mangiati. Qui si vede chiaramente che venire al mondo solo per essere uccisi e trasformati in cibo non è un bene. È solo perché uccidere gli animali è considerato accettabile che questo argomento sembra avere una qualche forza. In realtà esso non aggiunge nulla al punto di vista (errato) per cui uccidere gli animali per nutrirci è accettabile. Infine, l’argomento che per gli animali sia un bene venire al mondo solo per essere uccisi ignora la tesi che svilupperò nei capitoli 2 e 3 – che venire al mondo è di per sé, a prescindere da quanto soffra poi l’animale, sempre un grave male. 2 Nella letteratura filosofica questa battuta ebraica è stata citata da Robert Nozich (Anarchy, State and Utopia, 337 n. 8) e Bernard Williams (“The Makropulos Case: Reflections on the Tedium of Immortality”, in Problems of the Self, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, p. 87). 3 Freud, Sigmund, The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, VII, trad. James Strachey, Londra, The Hogarth Press, 1960, p. 57. 4 Ibid. Benché questa sia la preoccupazione fondamentale del dottor Freud rispetto alla battuta, ve ne sono altre, che nascono tuttavia dalla sua versione della frase, che suona particolarmente insensata. Egli scrive: “Non essere mai nati sarebbe la cosa migliore per i mortali”. “Ma”, è il commento filosofico sul Fliegende Blätter, “questo capita sì e no a una persona su centomila”. (Ibid.) L’attenuazione per cui “non essere mai nato capita sì e no a uno su centomila” accentua l’incongruità della frase. Non essere mai nato non capita a uno su centomila e neanche sì e no a uno su centomila. (James Strachey descrive il Fliegende Blätter come un “noto settimanale umoristico”. Lascio ad altri la secondaria, ma interessante, questione storica, se il Fliegende Blätter si basasse sull’umorismo ebraico o se sia stato la fonte di questo particolare esempio di umorismo ebraico o se entrambi avessero un’altra fonte.) 5 Ci sono altre battute simili. Per esempio, si è detto che la vita è una malattia terminale sessualmente trasmessa. (Nei casi di riproduzione artificiale, la vita non è sessualmente trasmessa, ma resta una malattia terminale.) Altri hanno scherzato sul fatto che nasciamo freddi, nudi, affamati e bagnati – e che da lì in avanti è tutto un peggiorare. (Anche se i neonati non piangono perché si rendono conto di questo, il loro pianto a mio avviso è
ironicamente appropriato.) 6 Rivka Weinberg dice qualcosa di simile quando afferma che “molti genitori disposti a compiere immensi sacrifici per amore dei loro figli malati senza speranza spesso non prendono in considerazione il fatto che il sacrificio più importante che dovrebbero fare è evitare di creare questi bambini malati senza speranza” (“Procreative Justice: A Contractualist Account”, in Public Affairs Quarterly, n. 16/4, 2002, p. 406). La sua tesi è più ristretta della mia, perché riguarda solo i bambini malati senza speranza, mentre io parlo di tutti i bambini. 7 Devo l’immagine dell’iceberg al genetista dell’Università di Città del Capo Raj Ramesar. Lui la usa per rappresentare il rapporto fra i portatori di un difetto genetico e la loro discendenza (potenziale o reale). Io ho ampliato il significato dell’immagine per applicarla non solo a chi ha un difetto genetico, ma a tutti i portatori di geni appartenenti a una specie senziente. 8 Derek Parfit chiama questo il “punto di vista dell’origine”, Reasons and Persons, Oxford, Clarendon Press, 1984, p. 352. 9 Derek Parfit si chiede “quanti di noi potrebbero davvero affermare ‘Se le ferrovie e le automobili non fossero state inventate, io sarei nato comunque’?”, Reasons and Persons, p. 361. 10 Pensiamo a quante persone nascono per un’interruzione della corrente elettrica, un rumore notturno che sveglia i loro genitori o un caso del genere che si unisce al desiderio. 11 W.C. Fields diceva che i bambini non gli piacevano... a meno che non fossero ben cotti. (O forse che gli piacevano solo fritti?) Vedi anche le poesie di Ogden Nash, “Qualcuno ha detto ‘Bambini’?” e “A un bimbetto che sta sulle mie scarpe mentre le ho ai piedi” in Family Reunion, Londra, J.M. Dent & Sons Ltd, 1951, pp. 5-7. 12 Andrew Hacker riporta alcuni di questi argomenti. Vedi la sua rassegna, “The Case Against Kids”, in The New York Review of Books, n. 47/19, 2000, pp. 12-18. 13 A volte il presupposto è tradito dal termine “ancora” in frasi come “Non avete ancora bambini?”. Questo presupposto non riguarda gli omosessuali (maschi e femmine) senza figli, anche se gli omosessuali, con o senza figli, sono spesso vittime di un ostracismo più insidioso. Sono spesso considerati pervertiti o disgustosi, anziché immaturi o egoisti. 14 Beyer, Lisa, “Be Fruitful and Multiply: Criticism of the ultra-Orthodox fashion for large families is coming from inside the community”, in Time, 25 ottobre 1999, p. 34. 15 Ne riparlerò nel capitolo 7, sui costi di un tasso di natalità negativo per la popolazione esistente. Nel caso specifico del Giappone, a cui faccio riferimento qui, non tutti concordano sul fatto che la diminuzione della popolazione avrà un impatto negativo sulla società giapponese. Vedi per esempio “The incredible shrinking country”, in The Economist, 13 novembre 2004, pp. 45-6. 16 Watts, Jonathan, “Japan opens dating agency to improve birth rate”, in The Lancet, n. 360, 2002, p. 1755. 17 Ibid. 18 Bowring, Philip, “For Love of Country”, in Time, 11 settembre 2000, p. 58. 19 Reuters, “Brace yerself Sheila, it’s your patriotic duty to breed”, Cape Times, giovedì, 13 maggio 2004, p. 1. 20 La demografia di arabi ed ebrei all’interno di Israele è un esempio del genere. 21 Missner, Marshall, “Why Have Children?”, in The International Journal of Applied Philosophy, n. 3/4, 1987, pp. 1-13. 22 May, Elaine Tyler, “Nonmothers as Bad Mothers: Infertility and the Maternal Instinct”, in
Ladd-Taylor, Molly, Umansky, Lauri, “Bad” Mothers: The Politics of Blame in TwentiethCentury America, New York, NYU Press, 1998, pp. 198-219. 23 Burkett, Elinor, The Baby Boon: How Family-Friendly America Cheats the Childless, New York, The Free Press, 2000. 24 Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-31. 25 Heine, Heinrich, Morfina, vv. 15-16. 26 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 359. 27 Kavka, Gregory S., “The Paradox of Future Individuals”, in Philosophy and Public Affairs, n. 11/2, 1982, pp. 93-112. 28 Il progresso dell’ingegneria genetica potrà ridurre il numero di casi in cui una persona si trova a dover affrontare una scelta del genere, rendendo possibile mettere al mondo un figlio e correggere il difetto. Tuttavia pare che alcuni difetti siano tali che la loro eliminazione corrisponderebbe a un’alterazione dell’identità del soggetto sottoposto a ingegneria genetica. In questi casi la scelta sarebbe fra mettere al mondo un figlio difettoso e mettere al mondo un figlio sano, ma diverso. 29 L’esempio si trova in Derek Parfit, Reasons and Persons, p. 358. 30 In questa formulazione, tralascio il problema del secondo termine di paragone: peggio di cosa? Non fa alcuna differenza, infatti, nel contesto di questa discussione, che diciamo “peggio di come stava prima” o “peggio di come sarebbe stato altrimenti”. Per approfondimenti su tutti questi punti di vista, vedi Feinberg, Joel, “Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”, in Freedom and Fulfilment, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 3-36. 31 Derek Parfit fa qualcosa di simile (accogliendo il suggerimento di Jeff McMahan), ma in rapporto a “meglio” anziché a “peggio”, quando sostiene che mettere al mondo qualcuno potrebbe essere un bene per quella persona. Il professor Parfit dice che “possiamo ammettere... che mettere al mondo qualcuno non sia meglio per lui. Ma potrebbe essere un bene” (Reasons and Persons, p. 489). 32 Questa definizione evita le complicazioni (per una concezione comparativa del male) poste da casi come il seguente: sei intrappolato in un’auto in fiamme e l’unico modo per salvarti è tagliarti una mano e liberarti. Restare senza una mano è sicuramente un male per te, ma a parità di condizioni ti ho comunque procurato un bene. E se ti ho procurato un bene non ti ho fatto del male (tutto sommato). 33 Feinberg, Joel, “Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”. 34 Una simile ambiguità caratterizza l’uso dell’espressione “una vita minimamente decente” nelle discussioni sulla vita sbagliata. L’espressione può voler dire “una vita abbastanza decente da meritare di continuare” (il senso della vita presente) o “una vita abbastanza decente da meritare di essere fatta cominciare” (il senso della vita futura). 35 Per es. Parfit, Derek, Reasons and Persons, pp. 358-9; Feinberg, Joel, “Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”, p. 26. Bernard Williams commette lo stesso errore quando afferma: “Non vedo come sia possibile negare che chi aborrisce la propria esistenza preferirebbe non essere mai venuto al mondo; e non vedo come interpretare questa preferenza se non come espressione del pensiero che la vita di quella persona non sia degna di essere vissuta” (“Resenting one’s own existence”, in Making Sense of Humanity, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 228). 36 Joel Feinberg, per esempio, afferma quanto segue nel contesto delle conseguenze di una vita sbagliata: “La non esistenza è razionalmente preferibile a un’esistenza gravemente oppressa? Sicuramente, in molti casi di sofferenza e di menomazione, noi
pensiamo che la morte sia ancora peggio” (“Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”, p. 17). In questo contesto “non esistenza” indica il non essere mai venuti al mondo (e non la fine della vita). Ma Feinberg risponde alla domanda contrapponendo la vita menomata e la morte. 37 Qualcosa di simile vale in casi più banali. Consideriamo per esempio una serata al cinema. Un film potrebbe essere abbastanza brutto che sarebbe stato meglio non essere andati a vederlo, ma non così brutto da doversene andare prima della fine. 38 Questo argomento, senza le parentesi, si può trovare in “Whether Causing Somebody To Exist Can Benefit This Person”, in Reasons and Persons, appendice G, p. 489. La versione con le parentesi è stata avanzata da Derek Parfit in alcuni commenti a un antenato di questo capitolo. Lo ringrazio per questi commenti. 39 O circa due settimane dopo, una volta superata la possibilità di un gemello monozigote. Bisognerebbe spostare ulteriormente in avanti l’inizio della irreversibile individualità di un essere se si volesse prendere in considerazione il fenomeno dei gemelli siamesi. (Per approfondire ulteriormente, vedi Singer, Peter, Kuhse, Helga, Buckle, Stephen, Dawson, Karen, Kasimba, Pascal, a cura di, Embryo Experimentation, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, pp. 57-9, 66-8.) 40 Feinberg, Joel, “Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”, pp. 20-3. 41 Feinberg, Joel, “Wrongful Life and the Counterfactual Element in Harming”, p. 22. 42 Qui assumo il punto di vista comune secondo cui la morte è un male. C’è una ricca letteratura filosofica sull’antica obiezione a questa visione, che prenderò in considerazione (troppo brevemente) nel capitolo 7. Coloro che pensano che la morte non danneggi la persona che muore possono limitarsi a togliere la morte dall’elenco dei mali. 43 Solo chi muore molto presto dopo essere stato messo al mondo si risparmia molti di questi mali, ma ovviamente non la morte. 44 L’espressione “non esistenza” è sommamente ambigua. Può essere applicata a coloro che non esistono mai e a coloro che non esistono in questo momento. Fra questi ultimi si possono distinguere ulteriormente coloro che non esistono ancora e coloro che non esistono più. In questo contesto uso “non esistenza” per indicare coloro che non esistono mai. Joel Feinberg ha sostenuto che i non ancora esistenti e i non più esistenti possono soffrire. Concordo con questa prospettiva. Ciò che dico qui si applica solo ai mai esistenti. 45 Si potrebbe (logicamente) fare un’affermazione simmetrica sull’assenza di piacere – valutata in base agli interessi (potenziali) di una persona che esiste o non esiste, questa assenza di piacere è un male. Tuttavia (4) suggerisce che questa simmetria, benché possibile sul piano della logica, in verità è falsa. Sosterrò (4) in seguito. Per ora il mio scopo era solo di mostrare che (3) non è incoerente. 46 O anche in sua presenza, se non lo si considera abbastanza grave da superare il dovere. Quanto debba essere grave un sacrificio per superare un dovere positivo è una questione complessa e vivacemente discussa che non prenderò in considerazione in questa sede. Non sono poche le persone che ritengono assai considerevoli i sacrifici che ci sono richiesti. Vedi per esempio Singer, Peter, Practical Ethics, seconda edizione, Cambridge, Cambridge University Press, 1993. Si noti, fra l’altro, che benché le conclusioni di Peter Singer sull’estensione dei nostri doveri positivi siano radicalmente controintuitive, questa controintuitività di solito non è considerata un argomento sufficiente contro la sua posizione. Stranamente, tuttavia, c’è molta meno esitazione nel trattare le mie conclusioni come una reductio della mia argomentazione. Ne parlerò più ampiamente nel capitolo 7.
47 La condizione che la ragione morale (o il dovere) sia fondata sugli interessi della persona potenziale è importante. Coloro che trovano plausibile l’affermazione secondo cui abbiamo una ragione per mettere al mondo persone felici tendono a essere motivati da considerazioni impersonali – per esempio che ci sarebbe più felicità nel mondo. Ma queste non sono considerazioni che riguardano gli interessi della persona potenziale. 48 Jeff McMahan afferma che “l’idea che non vi sia una forte ragione morale per far esistere una persona solo perché la sua vita conterrebbe molto bene... è profondamente intuitiva e probabilmente impossibile da sradicare”, in The Ethics of Killing: Problems at the Margins of Life, New York, Oxford University Press, 2002, p. 300. 49 In altri termini, è strano suggerire che si possa fare un figlio per il bene del figlio stesso. 50 Il fatto che la maggior parte delle persone non pensi neppure alle vite assenti su Marte è rivelatore. Quando vengono costretti a riflettere sul tema, alcuni dicono di rammaricarsi per l’assenza di piaceri su Marte. Che lo facciano o meno, non capisco come sia possibile rammaricarsi per amore degli inesistenti marziani che potrebbero godere di quei piaceri. È curioso tuttavia che alcuni cominciano a dire di sentirsi dispiaciuti per i marziani assenti quando si rendono conto che non facendolo sostengono la asimmetria e quindi la conclusione che venire al mondo è sempre un male. Ma dire una cosa del genere è ben diverso dal dire una cosa sensata. 51 Il fatto che non abbiamo una reazione più marcata è probabilmente il risultato di un meccanismo psicologico di difesa. 52 L’unico caso in cui sarebbe male in questo senso è quando l’assenza di piacere è effettivamente dolorosa. 53 Qualsiasi analogia istruttiva per gli scenari A e B deve prevedere un confronto fra due persone esistenti. Un’analogia che coinvolgesse una persona esistente e una non esistente non servirebbe a illuminare il nostro caso. Quindi non ci si può chiedere di considerare analogie che confrontino l’esistenza di una persona con la sua non esistenza. 54 Chi considera solo lo scenario A potrebbe giudicare diversamente quando la vita è “degna di cominciare” e quando è “degna di continuare”. Potrebbe farlo stabilendo soglie diverse. Potrebbe dire per esempio che perché una vita sia degna di continuare basta che (2) sia maggiore di (1), ma perché sia degna di cominciare (2) dev’essere significativamente maggiore di (1). Anche se chi considera solo lo scenario A potrebbe farlo, non ci sono prove che lo faccia. Sembra che costoro trattino i giudizi allo stesso modo. In ogni caso, anche se potrebbero correggersi, la loro posizione crollerebbe comunque sotto le altre obiezioni che sollevo. 55 In questo scenario, che possiamo chiamare scenario C, l’assenza di dolore sarebbe un “bene” e l’assenza di piacere sarebbe un “male”. 56 Sono grato a Robert Segall per aver sollevato questa obiezione. 57 Laddove (2) è solo il doppio del valore di (1), A e B hanno valore uguale e quindi non è preferibile né venire al mondo né non venire al mondo. 58 Prendere le conseguenze dei valori assegnati alla figura 2.5 per la figura 2.4 come prova che l’analogia fra i due casi dev’essere errata è un altro esempio in cui evitare la mia conclusione viene assunto come un assioma. 59 Discuto le implicazioni di questo nel capitolo 4 (“Fare figli”). 60 Fehige, Christoph, “A Pareto Principle for Possible People”, in Fehige, Christoph, Wessels, Ulla, a cura di, Preferences, Berlino, Walter de Gruyter, 1998, pp. 504-43. 61 Shiffrin, Seana Valentine, “Wrongful Life, Procreative Responsibility, and the Significance of Harm”, in Legal Theory, n. 5, 1999, pp.117-48.
62 Con “bene puro” l’autrice intende “beni che sono solo beni e non anche allontanamento dal male o prevenzioni del male” (ibid. p. 124). I piaceri intrinseci a cui faccio riferimento nel capitolo 3 sarebbero esempi di “bene puro” mentre i sollievi a cui faccio riferimento sono esempi di “allontanamento dal male”. 63 Ibid. p. 127. 64 Ibid. p. 119. 65 Ibid. pp. 131-3. 66 A meno che non siamo disposti a compensare i mali. Seana Shiffrin è un po’ incerta nell’escludere completamente la procreazione, anche se il suo ragionamento sembra comportare tale conclusione e si sospetta che la abbraccerebbe. L’autrice difende esplicitamente solo la tesi più debole che la procreazione non sia un “atto limpido e moralmente innocente” (ibid. p. 118). 67 Wasserman, David, “Is Every Birth Wrongful? Is Any Birth Morally Required?”, DeCamp Bioethics Lecture, Princeton, 2004, manoscritto inedito, p. 8. 68 Ovviamente c’è molto altro da dire a questo proposito. Ho delineato solo lo schema di una risposta. Il mio scopo non è dimostrare che c’è un diritto a non venire al mondo, ma piuttosto che venire al mondo è sempre un male. Più avanti sosterrò che è nostro dovere non provocare questo male. 69 Fehige, Christoph, “A Pareto Principle for Possible People”, pp. 513-14. 70 Ibid. p. 508. 71 Tennyson, Alfred Lord, In Memoriam, sezione 27, stanza 4 (vv. 15-16). 72 Schopenhauer, Arthur, “On the Sufferings of the World”, in Complete Essays of Schopenhauer, trad. T. Bailey Saunders, 5, New York, Willey Book Company, 1942, p. 4. 73 Santayana, George, Reason in Religion (vol. III di The Life of Reason), New York, Charles Scribner’s Sons, 1922, p. 240. 74 Il fatto che il risultato possa essere positivo non indica, come ho mostrato nel capitolo 2, che l’esistenza sia meglio della non esistenza. 75 Mi viene in mente il racconto (apocrifo?) di un bambino che, avendo mietuto grandi successi alle scuole elementari, fu ricevuto dal preside della nuova scuola media con le seguenti parole: “Vedo che hai un grande futuro dietro di te”. 76 Invece di soglia, Derek Parfit parla di sofferenze compensate e non compensate (Reasons and Persons, p. 408). La sofferenza è di vari tipi, a seconda se si trovi in una vita che merita di essere vissuta o meno. 77 Vedi, per esempio, Pence, Gregory E., Classic Cases in Medical Ethics, seconda edizione, New York, McGraw-Hill, 1995, pp. 54, 61. 78 Matlin, Margaret W., Stang, David J., The Pollyanna Principle: Selectivity in Language, Memory and Thought, Cambridge MA, Schenkman Publishing Company, 1978. Il principio naturalmente prende il nome da Pollyanna, la protagonista dell’omonimo libro per ragazzi di Eleanor Porter (Porter, Eleanor H., Pollyanna, Londra, George G. Harrap & Co. 1927). 79 Questo viene discusso ampiamente in Taylor, Shelley E., Positive Illusions: Creative Self-Deception and the Healthy Mind, New York, Basic Books, 1989. Vi sono parecchie prove che le persone felici con una maggiore autostima tendano ad avere una visione di sé meno realistica. Quelle che hanno una visione più realistica tendono o a essere depresse o ad avere una bassa autostima o a entrambe le cose. Per una discussione sul tema, vedi Taylor, Shelley E., Brown, Jonathon D., “Illusion and Well-Being: A Social Psychological Perspective on Mental Health”, in Psychological Bulletin, n. 103/2, 1998, pp. 193-210.
80 La letteratura su questo argomento è recensita da Matlin, M., Stang, D., The Pollyanna Principle, pp. 141-4. Vedi anche Greenwald, Anthony G., “The Totalitarian Ego: Fabrication and Revision of Personal History”, in American Psychologist, n. 35/7, 1980, pp. 603-18. 81 Per una rassegna di alcune ricerche, vedi Taylor, S., Brown, J., “Illusion and Well-Being: A Social Psychological Perspective on Mental Health”, pp. 196-7. Vedi anche Matlin, M., Stang, D., The Pollyanna Principle, pp. 160-6. Come esempi di letteratura primaria, vedi Weinstein, Neil D., “Unrealistic Optimism about Future Life Events”, in Journal of Personality and Social Psychology, n. 39/5, 1980, pp. 806-20; Weinstein, Neil D., “Why it Won’t Happen to Me: Perceptions of Risk Factors and Susceptibility”, in Health Psychology, n. 3/5, 1984, pp. 431-57. Quest’ultimo studio suggerisce che l’ottimismo riguarda solo gli aspetti della propria salute che vengono percepiti come controllabili. 82 Inglehart, Ronald, Culture Shift in Advanced Industrial Society, Princeton NJ, Princeton University Press, 1990, p. 218 e segg.; Andrews, Frank M., Withey, Stephen B., Social Indicators of Well-Being: Americans’ Perspectives of Life Quality, New York, Plenum Press, 1976, p. 207 e segg., 376. Per una rassegna di vari studi, vedi anche Diener, Ed, Diener, Carol, “Most People are Happy”, in Psychological Science, n. 7/3, 1996, pp. 1815; e Myers, David G., Diener, Ed, “The Pursuit of Happiness”, in Scientific American, n. 274/5, 1996, pp. 70-2. 83 Campbell, Angus, Converse, Philip E., Rodgers, Willard L., The Quality of American Life, New York, Russell Sage Foundation, 1976, pp. 24-5. 84 Matlin, M., Stang, D. (The Pollyanna Principle, pp. 146-7) citano numerosi studi che sono giunti a questa conclusione. Vedi anche Andrews, F.M. Withey, S. B., Social Indicators of Well-Being, p. 334. 85 Diener, Ed, Suh, Eunkook M., Lucas, Richard E., Smith, Heidi L., “Subjective Well-Being: Three Decades of Progress”, in Psychological Bulletin, n. 125/2, 1999, p. 287. Vedi anche Breetvelt, I.S., e van Dam, F.S.A.M., “Underreporting by Cancer Patients: the Case of Response Shift”, in Social Science and Medicine, n. 32/9, 1991, pp. 981-7. Secondo alcuni studi, gli handicappati e i ritardati hanno una vita soddisfacente quanto le persone normali (Cameron, Paul, Titus, Donna G., Kostin, John., Kostin, Marilyn, “The Life Satisfaction of Nonnormal Persons”, in Journal of Consulting and Clinical Psychology, n. 41, 1973, pp. 207-14. Yerxa, Elizabeth J., Baum, Susan, “Engagement in Daily Occupations and Life-Satisfaction Among People with Spinal Cord Injuries”, in The Occupational Therapy Journal of Research, n. 6/5, 1986, pp. 271-83). 86 Mehnert, Thomas, Krauss, Herbert H., Nadler, Rosemary, Boyd, Mary, “Correlates of Life Satisfaction in Those with Disabling Conditions”, in Rehabilitative Psychology, n. 35/1, 1990, pp. 3-17, e soprattutto p. 9. 87 Cosa interessante, i giudizi sulla propria felicità e soddisfazione variano in maniera più considerevole da un paese all’altro. Ma dappertutto c’è una tendenza verso l’ottimismo. Inglehart, R., Culture Shift in Advanced Industrial Society, p. 243. 88 Andrews, F., Withey, S., Social Indicators of Well-Being, pp. 138-9; Inglehart, R., Culture Shift in Advanced Industrial Society, pp. 227-32. Laddove l’istruzione superiore fa la differenza, può rendere le persone meno felici. Vedi per esempio Campbell, A., et al., The Quality of American Life, p. 487. 89 Per una rassegna dell’impatto di vari fattori esterni sulle dichiarazioni relative al proprio benessere, vedi Diener, Ed, et al., “Subjective Well-Being: Three Decades of Progress”, pp. 286-94.
90 Campbell, A., et al., The Quality of American Life, pp. 163-4, 485. Brickman, Philip, Coates, Dan, e Janoff-Bulman, Ronnie, “Lottery Winners and Accident Victims: Is Happiness Relative?”, in Journal of Personality and Social Psychology, n. 36/8, 1978, pp. 917-27. Headey, Bruce, Wearing, Alexander, “Personality, Life Events, and Subjective Well-Being: Toward a Dynamic Equilibrium Model”, in Journal of Personality and Social Psychology, n. 57/4, 1989, pp. 731-9. Suh, Eunkook, Diener, Ed, Fujita, Frank, “Events and Subjective Well-Being: Only Recent Events Matter”, in Journal of Personality and Social Psychology, n. 70/5, 1996, pp. 1091-102. Per una recente rassegna della letteratura, vedi Diener, Ed, et al., “Subjective Well-Being: Three Decades of Progress”, pp. 285-6. 91 Per esempio, pur senza negare il fenomeno dell’adattamento, Richard A. Easterlin pensa che la misura dell’adattamento sia un po’ esagerata. Vedi i suoi “Explaining Happiness”, in Proceedings of the National Academy of Sciences, n. 100/19, 2003, pp. 11176-83, e “The Economics of Happiness”, in Daedalus, primavera 2004, pp. 26-33. Tra parentesi, è interessante che il professor Easterlin commetta l’errore di pensare che se l’adattamento fosse completo il benessere non potrebbe essere migliorato e “le politiche pubbliche intese a far stare meglio le persone migliorando le loro condizioni sociali ed economiche sarebbero inutili” (“The Economics of Happiness”, p. 27). Ma ciò presuppone che non vi sia differenza fra il livello di benessere percepito (soggettivo) e quello reale (oggettivo). 92 Vedi per esempio Wood, Joanne V., “What is Social Comparison and How Should We Study it?”, in Personality and Social Psychology Bulletin, n. 22/5, 1996, pp. 520-37. 93 Questo viene discusso da Brown, Jonathon D., Dutton, Keith A., “Truth and Consequences: the Costs and Benefits of Accurate Self-Knowledge”, in Personality and Social Psychology Bulletin, n. 21/12, 1995, p. 1292. 94 Per approfondire questo tema, vedi Tiger, Lionel, Optimism: The Biology of Hope, New York, Simon and Schuster, 1979. 95 Questo non vuol dire che non vi siano limiti alla misura in cui l’ottimismo è un vantaggio evolutivo. Troppo ottimismo può essere negativo per l’adattamento e una certa dose di pessimismo ha i suoi vantaggi. Vedi per esempio Waller, Bruce N., “The Sad Truth: Optimism, Pessimism and Pragmatism”, in Ratio nuova serie, n. 16, 2003, pp. 189-97. 96 Per approfondire, vedi Tiger, Lionel, Optimism: The Biology of Hope, New York, Simon and Schuster, . 97 Griffin, James, Well-Being, Oxford, Clarendon Press, 1986, p. 67. 98 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 499. 99 Ibid. 100 Questo non vuol dire che il cibo non abbia un sapore migliore se si ha fame. 101 La condizione di Ricciolidoro! 102 Maslow, Abraham, Motivation and Personality, seconda edizione, New York, Harper & Row Publishers, 1970, p. xv. 103 Inglehart, R., Culture Shift in Advanced Industrial Society, p. 212. 104 Ibid. 105 Maslow chiama l’osservazione di questo nostro tratto caratteristico “Grumble Theory”, teoria del mugugno (Motivation and Personality, p. ). Definisce la “incapacità di apprezzare le proprie fortune... non realistica” e dice che “può quindi essere considerata una forma di patologia” che può “in molti casi essere curata con facilità, semplicemente sperimentando la giusta deprivazione o mancanza” (p. 61).
106 Vedi per esempio Schopenhauer, Arthur, The World as Will and Representation, trad. E.F.J. Payne, New York, Dover Publications, 1966, pp. 318, 362. 107 Ibid. p. 312. 108 Schopenhauer, Arthur, “On the Sufferings of the World”, in Complete Essays of Schopenhauer, trad. T. Bailey Saunders, 5, New York, Willey Book Company, 1942, 1. 109 In alternativa, la distinzione potrebbe essere espressa negativamente notando che ci sono due modi per non avere desideri frustrati: a) non lasciare frustrati i desideri che si hanno; o b) non avere desideri (che resterebbero frustrati). 110 La condizione suprema dell’essere, secondo il buddismo, è il nirvana, uno stato in cui tutti i desideri e (quindi) tutte le sofferenze terrene sono stati eliminati. Mentre i buddisti credono che questo stato sia raggiungibile nella vita, Arthur Schopenhauer lo nega, e io concordo con lui. Tuttavia i buddisti credono che raggiungere lo stato del nirvana permetta di sfuggire al ciclo delle reincarnazioni. In questo senso, il buddismo si avvicina al punto di vista di Schopenhauer – la fine del desiderio è collegata alla fine della vita (corporea). 111 Questo non equivale a negare che sia preferibile eliminare alcuni desideri – magari su base etica o estetica. In questi casi però la ragione per espungere il desiderio non è che non lo si possa soddisfare, ma che soddisfarlo sarebbe inappropriato. 112 L’esempio è di John Rawl. 113 Sono grato ad Andy Altman per questa obiezione e per l’analogia. 114 Questo punto di vista è sostenuto da Richards, Norvin, “Is Humility a Virtue?”, in American Philosophical Quarterly, n. 25/3, 1988, pp. 253-9. Il professor Richards non suggerisce, come faccio io ora, che lo standard superiore sia il punto di vista dell’universo. Tuttavia questo standard rende più plausibile la spiegazione della modestia – altrimenti la modestia sarebbe impossibile per coloro che sono letteralmente i migliori al mondo nel loro campo. 115 Nel capitolo 6 prenderò in considerazione il problema se qualche approccio teorico permetta una riproduzione temporanea e molto limitata come passaggio verso una estinzione programmata. 116 Schopenhauer, Arthur, The World as Will and Representation, p. 326. 117 Arthur Schopenhauer dice: “Se dovessimo accompagnare l’ottimista più incallito e convinto in ospedali, infermerie, sale chirurgiche, prigioni, camere della tortura e tuguri da schiavi, su campi di battaglia e su luoghi di esecuzione; se dovessimo dischiudergli tutti gli abissi della miseria, da cui rifugge lo sguardo della fredda curiosità, e finalmente gli concedessimo di dare un’occhiata nella cella di Ugolino, dove i prigionieri morivano di fame, anch’egli certo vedrebbe una buona volta che razza di mondo è questo meilleur des mondes possibile”, ibid. p. 325. 118 McGuire, Bill, A Guide to the End of the World, New York, Oxford University Press, 2002, p. 31. 119 Ibid. p. 5. 120 The Hunger Project: http://www.thp.org (ultimo accesso novembre 2003). 121 “Undernourishment Around the World”, http://www.fao.org/docrep/005/Y7352E/y7352e03.htm (ultimo accesso 14 novembre 2003). 122 Rummel, R.J., Death by Government, New Brunswick, Transaction Publishers, 1994, p. 70. 123 Organizzazione Mondiale della Sanità, The World Health Report 2002, Ginevra, WHO,
2002, p. 186. Il numero per il 2001 era 2.866.000 persone. 124 Ibid. p. 186 125 Ibid. p. 188. 126 Questi sono dati del 2001. The World Health Report 2002, p. 190. 127 Ibid. p. 186. 128 Rummel, R.J., Death by Government, p. 69. La sua stima inferiore è 89 milioni, ma il numero potrebbe raggiungere i 260 milioni. 129 Ibid. p. 9. 130 Krug, Etienne G., Dahlbeg, Linda L., Mercy, James A., Zwi, Anthony B., Lozano, Rafael, a cura di, World Report on Violence and Health, Ginevra, WHO, 2002, p. 218. 131 Ibid. 217. 132 The World Health Report 2002, p. 80. 133 Toubia, Nahid, “Female Circumcision as a Public Health Issue”, in New England Journal of Medicine, n. 331/11, 1994, p. 712. 134 Krug, Etienne, et al., World Report on Violence and Health, p. 185. 135 Voltaire, Candido, trad. M. Moneti, Milano, Garzanti, 1973. 136 Flaubert, Gustave, Lettera a Louise Colet, 11 dicembre 1852, in The Letters of Gustave Flaubert 1830-1857, trad. Francis Steegmuller, Londra, Faber & Faber, 1979, p. 174. 137 Per altri fondamenti, vedi Smilansky, Saul, “Is There a Moral Obligation to Have Children?”, in Journal of Applied Philosophy, n. 12/1, 1995, pp. 41-53. 138 L’espressione “discendenza genetica” è necessaria perché, per esempio, gli interessi procreativi di un medico specialista della fertilità non sono soddisfatti quando aiuta altri a riprodursi. (L’espressione “discendenza genetica” non indica solo gli esseri formati dai propri gameti e può comprendere il proprio clone.) 139 Spesso, benché non sempre, si comincia per salvare la faccia, ma anche in questo caso alla fine si introietta. 140 Esiste un fenomeno del genere nel caso delle vittime di rapimento, che spesso finiscono per identificarsi con i loro rapitori. 141 I massimalisti, che trascurano la distinzione fra “permesso”, “richiesto” e “supererogatorio”, negherebbero che esista un diritto di fare ciò che è subottimale. Voglio dire che lo si potrebbe fare rifiutando il punto di vista dei massimalisti. 142 L’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU (1948) dice che “uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia”. Il diritto a “fondare una famiglia” è iscritto anche nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (articolo 23) e nella Convenzione europea sui diritti umani (articolo 12). Preso alla lettera, il diritto di “fondare una famiglia” è solo ambiguamente un diritto di procreare, poiché è possibile fondare una famiglia anche attraverso l’adozione, ma chiaramente è sottinteso che questo diritto include la fondazione di una famiglia mediante la procreazione. 143 Robertson, John, Children of Choice, Princeton, Princeton University Press, 1994, p. 24. 144 Non mi sfugge che nessuno Stato prenderà mai seriamente in considerazione questa possibilità, perlomeno nei riguardi di tutte le persone che vivono entro i suoi confini. (Naturalmente è accaduto che gli Stati abbiano tentato di limitare, prevenire o proibire la riproduzione di settori indesiderati della popolazione – i neri, gli ebrei, gli “imbecilli” e le classi più umili, per esempio.) Il fatto che nessuno Stato si chieda se debba proibire la
riproduzione a tutti non significa tuttavia che la domanda non meriti di essere posta. Vi possono essere innumerevoli spiegazioni psicologiche, sociologiche e politiche al perché la procreazione non sarà mai universalmente proibita in uno Stato. Non ne segue che questa posizione sia filosoficamente solida. 145 Istintivamente sento anche che permettere alle persone di provocare sofferenza è male. Questi due istinti vanno in direzioni opposte. 146 Come ho detto nella nota 10, questa proibizione generalizzata a procreare va distinta dalla proibizione rivolta a gruppi specifici. Ma quest’ultimo tipo di proibizione può essere criticato in base ad altri criteri, come l’uguaglianza. 147 Mill, John Stuart, Principles of Political Economy, Londra, Longmans, Green & Co., 1904, p. 220. 148 Ibid. 149 Ibid. p. 229. 150 Qualcuno potrebbe pensare che John Stuart Mill sia colpevole di una simile discriminazione di classe nel tentativo di limitare la prolificità dei poveri. Ma Mill sosteneva la contraccezione anche per i “nobili”. In gioventù venne arrestato per aver distribuito volantini che fornivano consigli contraccettivi (a ricchi e poveri), un’attività incredibilmente in anticipo sui tempi all’inizio dell’Ottocento. Vedi Schwartz, Pedro, The New Political Economy of J.S. Mill, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1972, pp. 28, 245-54. 151 A seconda delle circostanze, gli imputati sarebbero o i genitori o i medici che non hanno avvertito i genitori della patologia del feto. 152 Non tutti coloro che hanno tali menomazioni condividono questa idea. In particolare, alcuni nella comunità dei sordi preferiscono essere sordi, come una persona di lingua francese preferisce essere francofona che anglofona. 153 In realtà, la distinzione di solito è fra menomazioni e disabilità. (Vedi per esempio Buchanan, Allen, Brock, Dan, Daniels, Norman Wikler, Daniel, From Chance to Choice, New York, Cambridge University Press, 2000, p. 285. Qui si basano su Boorse, Christopher, “On the Distinction between Disease and Illness”, in Philosophy and Public Affairs, n. 5/1, 1975, pp. 49-68.) Le menomazioni sono differenze negative rispetto al normale funzionamento della specie. Anche se a volte parlerò di “menomazioni”, userò spesso il termine “inabilità”, in quanto potrebbe essere un modo più forte per presentare il punto di vista dei diritti dei disabili. Poiché tutti, come dimostrerò, abbiamo qualche inabilità, mentre non tutti hanno menomazioni nel senso appena detto, il contrasto fra inabilità e disabilità è un contrasto fra una caratteristica che abbiamo tutti e una caratteristica che hanno solo i disabili. 154 Da Buchanan, Allen, et al., From Chance to Choice. Questi autori non accettano l’argomento. 155 La razza in sé non è in generale una menomazione. (Vi sono alcuni casi in cui lo è: la pelle chiara, per esempio, rende più suscettibili ai tumori della pelle.) 156 Buchanan, Allen, et al., From Chance to Choice, p. 272. 157 Che le persone con menomazioni abbiano comunque una visione favorevole della loro vita si potrebbe spiegare in due modi. O il pollyannismo e l’adattamento hanno più peso del confronto sfavorevole con chi è privo della menomazione, o le persone con menomazioni si concentrano sul confronto con chi sta peggio di loro (che è un altro caso di pollyannismo). 158 Cioè privi di quelle che sono solitamente considerate menomazioni. 159 L’unico caso problematico in questo contesto è quello della partenogenesi, in cui un
ovulo si divide spontaneamente. Possiamo tuttavia ignorare questo caso perché queste gravidanze non giungono a termine. 160 Questo titolo, parodia del nicciano La nascita della tragedia e la genealogia della morale, mi è stato suggerito da Allen Buchanan. 161 Benatar, David, “Cloning and Ethics”, in QJMed, n. 91, 1998, pp. 165-6. 162 Questo è parzialmente responsabile dell’assurda battuta per cui, scherzando, qualcuno dice di essere andato a un picnic con suo padre e di essere tornato indietro con sua madre. 163 Per un approfondimento su questo tema, vedi Singer, Peter, Kuhse, Helga, Buckle, Stephen, Dawson, Karen, Kasimba, Pascal, a cura di, Embryo Experimentation, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, pp. 57-9, 66-6. 164 Come contro-esempio, qualcuno potrebbe indicare la prospettiva di artefatti coscienti o addirittura autocoscienti – l’Intelligenza Artificiale. Questo caso ovviamente richiederebbe una notevole discussione, ma qui io suggerisco che un artefatto davvero cosciente si qualificherebbe in virtù di questo come essere vivente, anche se fosse prodotto da qualcuno, e non generato. Ho riguardo alla creazione di macchine coscienti la stessa preoccupazione che ho riguardo al mettere al mondo esseri umani o animali coscienti. 165 Frey, R.G., “Rights, Interests, Desires and Beliefs”, in American Philosophical Quarterly, n. 16/3, 1979, pp. 233-9. 166 Frey non parla esplicitamente di piante, ma dato il suo ragionamento possiamo tranquillamente includerle in questa categoria. 167 Data la natura crescente degli interessi, gli esseri dotati di linguaggio ovviamente hanno sia l’interesse come benessere (il senso a) sia l’interesse come desiderio (il senso b). 168 Taylor, Paul W., Respect for Nature, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 63. 169 Ibid. pp. 60-71. 170 Feinberg, Joel, “The Rights of Animals and Unborn Generations”, Rights, Justice and the Bounds of Liberty, Princeton, Princeton University Press, 1980, pp. 159-84. (Questo saggio è apparso la prima volta in William T. Blackstone, a cura di, Philosophy and Environmental Crisis, Athens, University of Georgia Press, 1974, pp. 43-68.) Seguendo il professor Feinberg, Bonnie Steinbock assume la stessa prospettiva. Vedi il suo Life Before Birth, New York, Oxford University Press, 1992, pp. 14-24. 171 Regan, Tom, “Feinberg on What Sorts of Beings Can Have Rights?”, in Southern Journal of Philosophy, n. 14, 1976, pp. 485-98. Robert Elliot propone una difesa di Joel Feinberg nel suo “Regan on the Sorts of Beings that Can Have Rights”, in Southern Journal of Philosophy, n. 16, 1978, pp. 701-5. 172 Vedi per esempio Feinberg, Joel, Rights, Justice and the Bounds of Liberty, p. 168; Thompson, Janna, “A Refutation of Environmental Ethics”, in Environmental Ethics, n. 12/2, 1990, pp. 147-60 (vedi in particolare p. 159); Steinbock, Bonnie, Life Before Birth, p. 14; Boonin, David, A Defense of Abortion, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 81. 173 Questa è precisamente l’interpretazione che Don Marquis assume nella sua critica a Bonnie Steinbock. Vedi il suo “Justifying the Rights of Pregnancy: The Interest View”, in Criminal Justice Ethics, n. 13/1, 1994, pp. 73-4. 174 Regan, Tom, “Feinberg on What Sorts of Beings Can Have Rights?”, p. 490. 175 Tom Regan (“Feinberg on What Sorts of Beings Can Have Rights?”) lo nega, ma Robert Elliot (“Regan on the Sorts of Beings that Can Have Rights”) fornisce una risposta
convincente. 176 I materiali di questa sezione si basano su un saggio scritto a quattro mani da me e da Michael Benatar: “A Pain in the Fetus: Ending Confusion about Fetal Pain”, in Bioethics, n. 15/1, 2001, pp. 57-76. © Blackwell Publishers Ltd. 177 Multi-Society Task Force on PVS, “Medical Aspects of the Persistent Vegetative State”, in New England Journal of Medicine, n. 330/21, 1994, pp. 1499-508. 178 Craig, K.D., Whitfield, M.F., Grunau, R.V., Linton, J., Hadjistavropoulos, H.D., “Pain in the Preterm Neonate: Behavioural and Physiological Indices”, in Pain, n. 52/3, 1993, pp. 287-99. 179 Ibid. 180 Gli autori di questo studio avvertono che la mancanza di questi cambiamenti nel comportamento del gruppo più giovane potrebbe essere conseguenza del piccolo numero di neonati studiati. 181 Tooley, Michael, “Abortion and Infanticide”, in Philosophy and Public Affairs, n. 2/1, 1972, pp. 37-65. 182 Anche se li ho presentati in ordine inverso, il saggio del professor Tooley è stato pubblicato prima di quello del professor Frey. 183 Tooley, Michael, “Abortion and Infanticide”, p. 46. 184 Tooley, Michael, “Abortion and Infanticide”, p. 48. 185 Hare, R.M., “Abortion and the Golden Rule”, in Philosophy and Public Affairs, n. 4/3, 1975, pp. 201-22. 186 Ibid. 208. Nella sua forma negativa dice che non dobbiamo fare agli altri ciò che non vorremmo che venisse fatto a noi. 187 Ibid. p. 208. 188 Ibid. 189 Hare, R.M., “A Kantian Approach to Abortion”, Essays on Bioethics, Oxford, Clarendon Press, 1993, p. 172. 190 Boonin, David, “Against the Golden Rule Argument Against Abortion”, in Journal of Applied Philosophy, n. 14/2, 1997, pp. 187-97. 191 Marquis, Don, “Why Abortion is Immoral”, in The Journal of Philosophy, n. 86/4, 1989, pp. 183-202. 192 Boonin, David, A Defense of Abortion, pp. 62-85. 193 Aggiungo questa precisazione nel caso qualcuno voglia elencare “crescere”, “scalciare nell’utero” ecc. fra le attività. 194 Così la pensavano alcuni antichi, come Aristotele, il quale riteneva che lo spermatozoo fosse un omuncolo e il contributo della donna consistesse solo nella gestazione. 195 McMahan, Jeff, The Ethics of Killing: Problems at the Margins of Life, New York, Oxford University Press, 2002, p. 80. 196 Ibid. 197 Derek Parfit, Reasons and Persons, parte terza. 198 McMahan, Jeff, The Ethics of Killing, p. 105. 199 Ibid. 200 Ibid. pp. 105, 165 segg. 201 Affinché non si pensi che tutti gli anti-abortisti, per definizione, si oppongano al diritto legale all’aborto, devo osservare che si può abbracciare la posizione anti-abortista come la posizione morale corretta, ma pensare che le persone debbano avere comunque il
diritto legale di scegliere. La distinzione è fra la posizione etica personale e ciò che si pensa debba dire la legge. 202 Schopenhauer, Arthur, “On the Sufferings of the World”, in Complete Essays of Schopenhauer, trad. T. Bailey Saunders, 5, New York, Wiley Book Company, 1942, p. 4. 203 Gli umani giocano un ruolo anche nel decidere quanti animali ci saranno, in particolare nelle situazioni in cui allevano animali e in quelle in cui (possono) sterilizzarli. 204 Un miliardo è uguale a 1.000.000.000. 205 Ma potrebbero esserci più persone di quante possano esserci per lungo tempo. 206 Vedi per esempio Kates, Carol A., “Reproductive Liberty and Overpopulation”, in Environmental Values, n. 13, 2004, pp. 51-79. 207 L’impronta ecologica evidentemente non è solo una funzione della quantità di popolazione, ma anche dell’impatto pro-capite. È possibile che una piccola popolazione umana abbia sull’ambiente un grande impatto. 208 Chi pone questa domanda spesso la formula come segue: “Quante persone dovrebbero esserci in tutto?” (per es. Derek Parfit, Reasons and Persons, p. 381). 209 Tenendo conto delle sovrapposizioni. 210 Trascuro qui l’idea ovviamente falsa dei creazionisti fanatici, secondo cui gli esseri umani esistono solo da circa 6000 anni. 211 Haub, Carl, “How Many People Have Ever Lived on Earth?”, originariamente pubblicato in Population Today, febbraio 1995. I miei dati provengono da una versione aggiornata online: http://www.prb.org/Content/ContentGroups/PTarticle/OctDec02/How_Many_People_Have_Ever_Lived_on_Earth_.htm (ultimo accesso 5 ottobre 2004). 212 Ibid. 213 McMichael, Anthony, Human Frontiers, Environments and Disease, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 188. 214 Ibid. 215 Ibid. 216 http://www.peopleandplanet.net (ultimo accesso 5 ottobre 2004). 217 Al momento la popolazione umana aumenta di 200.000 persone al giorno (tenendo conto dei morti). 218 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 370. 219 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 387. 220 Ibid. p. 386. 221 Ibid. p. 388. Egli rappresenta anche una serie di mondi intermedi. Le parti dello schema qui presenti sono riprodotte col permesso della Oxford University Press. 222 Ibid. 388. Non tutti considerano questa conclusione ripugnante. Torbjörn Tännsjö, per esempio, pensa che la maggior parte delle persone conduca una vita appena degna di essere vissuta. Quando ci eleviamo al di sopra di tale livello, è solo per un breve momento. Se le persone capissero che la qualità della vita di Z è la stessa della loro vita, non ammetterebbero che la Conclusione Ripugnante sia davvero ripugnante. (Vedi il suo Hedonistic Utilitarianism, Edinburgo, Edinburgh University Press, 1998, pp. 161-2. Vedi anche il suo “Doom Soon?”, in Inquiry, n. 40/2, 1997, pp. 250-1.) Benché io non affronti analiticamente l’opinione del professor Tännsjö, alcuni argomenti che ho già utilizzato e altri che fornirò mostrano gli errori del suo ragionamento. 223 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 420.
224 Ibid. 225 Ibid. 226 Ibid. p. 370 (corsivo mio). 227 Ibid. p. 395 (corsivo mio). 228 Derek Parfit si impegna a descrivere non solo il problema della Pura Aggiunta, ma anche il paradosso della Pura Aggiunta. Per semplicità, non mi avventurerò a discutere il paradosso. Le mie osservazioni sul problema della Pura Aggiunta possono essere estese al paradosso. Per chi conosce il paradosso, la mia soluzione consiste nel negare che A+ non sia peggio di A. Per me A+ è decisamente peggio di A, perché comporta più vite (e quindi più male). 229 Questa formulazione della asimmetria è un adattamento della formulazione di Derek Parfit (p. 391), che richiederebbe la conoscenza dei suoi esempi del “Bambino Infelice” e del “Bambino Felice”. La mia formulazione evita anche problemi con l’ambiguità della frase “una vita degna di essere vissuta”. 230 È l’espressione usata da Shelly Kagan. Egli intende una ragione che “ha un peso reale, ma ciò nonostante può essere superata da altre considerazioni”. E la distingue dalla più comune “ragione prima facie”, che ritiene “coinvolgere una qualifica epistemologica” che “sembra una ragione, ma può non esserlo affatto, o può non avere peso in tutti i casi in cui sembra averne”. (The Limits of Morality, Oxford, Clarendon Press, 198, p. 17). 231 Qui prendo in considerazione solo il contrattualismo ideale – l’idea che la morale consista nei principi che sarebbero scelti in una situazione ideale – giacché questa è la versione dominante e più plausibile del contrattualismo. 232 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 392. 233 Ibid. 234 Weinberg, Rivka M., “Procreative Justice: A Contractualist Account”, in Public Affairs Quarterly, n. 16/4, 2002, p. 408. 235 Parfit, Derek, Reasons and Persons, p. 392. 236 Rawls, John, “Justice as Fairness: Political not Metaphysical”, in Philosophy and Public Affairs, n. 14/3, 1985. 237 Rivka Weinberg, per esempio, dice che “il Maxi-Min porterebbe alla messa al bando della procreazione, dato che nessuna procreazione è meglio che nascere con una malattia incurabile che rende la vita indegna di essere vissuta.” (“Procreative Justice: A Contractualist Account”, p. 415). 238 Bayles, Michael, Morality and Population Policy, University of Alabama Press, 1980, p. 117. 239 Tuttavia si può dire qualcos’altro in proposito. L’argomento della reductio è avanzato non solo contro il maximin, ma anche contro la mia conclusione che venire al mondo sia sempre un male. Approfondirò l’argomento nella sezione di apertura del capitolo 7. 240 Weinberg, Rivka M., “Procreative Justice: A Contractualist Account”, p. 420. 241 In ogni caso, ha litigato col serpente. 242 Dato che i procreatori non sono distolti dal procreare dalle sofferenze che patiranno i loro figli, non dovrebbe sorprendere che non siano turbati dalle sofferenze degli ultimi esseri umani in un futuro più lontano. Ma se emergesse che le sofferenze degli ultimi esseri umani saranno abbastanza grandi, queste persone potrebbero desiderare che i loro genitori e i precedenti antenati avessero creato più nuove persone. 243 Vedi il suo riferimento al “Livello Cattivo” in Reasons and Persons, pp. 432-3.
244 Parfit, Reasons and Persons, p. 395. 245 Ibid. p. 396. 246 Parfit, Reasons and Persons (corsivo mio). 247 Ibid. (corsivo mio). 248 Parfit, Reasons and Persons, p. 400. 249 Ibid. p. 401. 250 Come dice James Lenman, “la seconda legge della termodinamica alla fine avrà ragione di noi, anche nel caso fantasticamente improbabile che nient’altro lo faccia prima”. Vedi il suo “On Becoming Extinct”, in Pacific Philosophical Quarterly, n. 83, 2002, p. 254. 251 C’è la barzelletta della vecchia signora che va a una conferenza sul futuro dell’universo. Alla fine fa una domanda all’oratore: “Mi scusi, professore, ma quando ha detto che finirà l’universo?” “Fra circa quattro miliardi di anni”, risponde l’oratore. “Meno male”, dice la vecchia, “credevo avesse detto milioni”. 252 Rees, Martin, Our Final Hour: A Scientist’s Warning, New York, Basic Books, 2003. 253 Leslie, John, The End of the World: The Science and Ethics of Human Extinction, Londra, Routledge, 1996. 254 È degno di nota che la preoccupazione umana per l’estinzione umana assume un aspetto diverso rispetto alla preoccupazione umana (dove esiste) per l’estinzione di specie non umane. La maggior parte degli esseri umani che si preoccupano per l’estinzione delle specie non umane non sono preoccupati dai singoli animali le cui vite sono abbreviate nel passaggio verso l’estinzione, anche se questa è una delle principali ragioni per preoccuparsi dell’estinzione (almeno nella sua forma sterminio). La preoccupazione diffusa per l’estinzione animale è di solito una preoccupazione per gli esseri umani – per il fatto che dovremmo vivere in un mondo impoverito dalla perdita di un tratto di biodiversità, che non potremmo più osservare o usare quella specie animale. In altri termini, nessuna delle tipiche preoccupazioni per l’estinzione umana si applica all’estinzione delle specie non umane. 255 Anche se le persone precedenti potrebbero rimpiangere la prospettiva di questo stato di cose finale, ora stiamo prendendo in esame la terza (e non la seconda) delle tre preoccupazioni riguardo all’estinzione, secondo cui lo stato di estinzione è male indipendentemente dagli interessi di coloro che lo precedono. 256 Sono grato a Tony Holiday per aver attirato la mia attenzione su questo limerick. Arthur Deex, esperto di limerick, me ne ha raccontato gentilmente la storia. La versione che ho riportato è chiaramente uno scherzo goliardico di autore ignoto sull’originale di Edward Lear: C’era un vecchio di Capo Rizzuto che avrebbe voluto non essere nato; perciò stette seduto finché non fu deceduto quel malinconico vecchio di Capo Rizzuto. (Jackson, Holbrook, a cura di, The Complete Nonsense of Edward Lear, Londra, Faber & Faber, 1948, p. 51. Per altre varianti vedi Legman, G., The Limerick: 1700 Examples with Notes, Variants and Index, New York, Bell Publishing Company, 1969, pp. 188, 425.) 257 Singer, Peter, Practical Ethics, seconda edizione, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 129.
258 Questa teoria, nota anche come anti-frustrazionismo, è stata discussa nella penultima sezione (“Altre asimmetrie”) del capitolo 2. 259 Holtug, Nils, “On the value of coming into existence”, in The Journal of Ethics, n. 5, 2001, p. 383. 260 Ibid. 261 Di fatto, non tutti gli esseri umani condividono l’idea che la procreazione sia moralmente accettabile. C’è un numero non trascurabile di persone ragionevoli che accettano la posizione anti-natalista. Sentiamo spesso persone che dicono che il nostro non è un mondo in cui si dovrebbero far nascere dei bambini. L’idea sottintesa è che viviamo in un mondo di sofferenza – affermazione da me sostenuta nell’ultima sezione del capitolo 3 – e sarebbe meglio evitare di creare nuove vittime di tale sofferenza. Sono pronto ad ammettere che vi sono relativamente poche persone che la pensano così, e meno ancora che hanno la forza per agire di conseguenza. Ma non si tratta di una minoranza di mattoidi. Altri, inoltre, possono capire e dare un senso alle loro idee e alle loro motivazioni, anche se non concordano e non aderiscono. Io concordo che la sofferenza che le persone potenziali sono probabilmente destinate a subire è sufficiente a rendere preferibile che non vengano al mondo. Il mio ragionamento nel capitolo 2 amplia questa intuizione largamente condivisibile e mostra che anche una piccola sofferenza – anzi, qualsiasi sofferenza – sarebbe sufficiente a rendere un male il fatto di venire al mondo. Sottolineo ancora una volta che, anche se il mio ragionamento suggerisce che basta ci sia qualcosa di male in una vita perché sia meglio non farla iniziare, qualora la quantità di male in una vita fosse davvero minuscola, fare figli non sarebbe necessariamente sbagliato. Questo perché il male potrebbe essere più plausibilmente compensato dai vantaggi per gli altri. Ma, come ho sostenuto nel capitolo 3, il male in qualsiasi vita è tutt’altro che piccolo. La vita delle persone, anche la più felice, è molto peggiore di quanto si pensi di solito. Inoltre ci sono poche ragioni per pensare che un bambino potenziale sarà fra i più felici. Ci sono semplicemente troppe cose che possono andare male. 262 Tra i filosofi, si trovano non solo Chrisoph Fehige e Seana Shiffrin, entrambi analizzati nella penultima sezione del capitolo 2, ma anche Hermann Vetter, “Utilitarianism and New Generations”, in Mind, n. 80/318, 1971, pp. 301-2. 263 Gran parte del seguito di questo paragrafo è tratto dalla mia Introduzione a David Benatar, a cura di, Life, Death and Meaning, Lanham MD, Rowman & Littlefield, 2004, p. 15. 264 Per una discussione su questo problema, vedi Taylor, Shelley E., Brown, Jonathon D., “Illusion and Well-Being: A Social Psychological Perspective on Mental Health”, in Psychological Bulletin, n. 103/2, 1998, pp. 193-210. 265 Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-31. 266 Montesquieu, “Lettera XL”, Lettere persiane, trad. G. Alfieri Todaro-Faranda, Milano, Rizzoli, 1952, pp. 66-7. 267 Commentando l’apparente stranezza di chi si lamenta della vita eppure vi si aggrappa, Woody Allen parla di due ebrei che mangiano in un ristorante sulle Catskills. Uno dice all’altro: “Questo cibo è tremendo”. L’altro replica: “Sì, e le porzioni sono così piccole...”. In un certo senso, non c’è niente di strano nel non apprezzare un cibo e lamentarsi che non ce ne sia di più. Non avere abbastanza cibo – avere fame – è un male anche se l’alternativa è saziarsi con un cibo dal sapore cattivo. La ragione per cui la scenetta di Woody Allen è strana e divertente è che diamo per scontato che i due non abbiano
bisogno di mangiare molto – o perché mangiano per piacere o perché le porzioni sono abbastanza grandi. Lo stesso dialogo fra due ebrei ad Auschwitz non sarebbe affatto divertente, perché non sarebbe affatto strano lamentarsi della qualità e insieme della quantità del cibo. 268 Santayana, George, Reason in Religion (vol. III di The Life of Reason), New York, Charles Scribner’s Sons, 1922, p. 240. 269 L’espressione “esistenza pre-vita” è di Frederik Kaufman. Vedi il suo “Pre-Vital and Post-Mortem Non-Existence”, in American Philosophical Quarterly, n. 36/1, 1999, pp. 119. 270 Il ragionamento che tratteggio qui è di Frederik Kaufman. Vedi il suo “Pre-Vital and Post-Mortem Non-Existence”. 271 L’espressione “ante-mortem” è di George Pitcher. Vedi il suo “The Misfortunes of the Dead”, in American Philosophical Quarterly, n. 21/2, 1984, pp. 183-8. 272 L’espressione “in eterno” è di Fred Feldman. Vedi il suo “Some Puzzles About the Evil of Death”, in Philosophical Review, n. 100/2, 1991, pp. 205-27. 273 Pitcher, George, “The Misfortunes of the Dead”, p. 188. 274 Suits, David B., “Why death is not bad for the one who died”, in American Philosophical Quarterly, n. 38/1, 2001, pp. 69-84. 275 In altre culture, cosa interessante, è viceversa l’incapacità di commettere il suicidio in determinate circostanze a essere considerata segno di vigliaccheria. 276 Voltaire, Candido, trad. M. Moneti, Milano, Garzanti 1973, p. 30. 277 Genesi 1,28. 278 Deuteronomio 21,18-21. 279 Trattato Eruvin 13b.